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Italian Pages 320 Year 1995
BIBLIOTECA DEL GIORNALE DI METAFISICA
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diretta da Nunzio Incardona
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Angelo Crescini
IL RITORNO DELL’ESSERE
TILGHER-GENOVA
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TUTTI I DIRITTI RISERVATI Printed in Italy
ISBN 978-88-7903-182-0 © 1995, Casa Editrice Tilgher-Genova s.a.s. Via Assarotti 31 - Genova (Italy)
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Prefazione
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PREFAZIONE
Voler parlare del “ritorno dell’Essere”, che è l’argomento di questo libro, solleva già in partenza una fondamentale obiezione che è opportuno subito considerare per chiarire così insieme anche il senso e lo scopo di questa trattazione. La proprietà di “essere” non è la più attuale ed evidente proprietà posseduta da ogni cosa, dalla più piccola alla più grande: dal granello di sabbia, dal tavolo su cui scrivo, dalla casa in cui abito, dalla città che mi ospita, dai parenti e amici a cui sono particolarmente legato, dalla Terra, dal Sole, dalle galassie, da tutto l’universo? Se questa proprietà di “essere” è la loro più attuale proprietà, come si può parlare del “ritorno” dell’Essere, come se fosse stato o sia ancora “assente” e lontano da tutte queste cose e persone, e debba quindi “ritornare”, perché queste cose e persone “siano”? Vorrebbe allora dire che “non sono”? Vi è certamente un preciso senso in cui si può dire che ognuna di queste cose e persone, e tutte queste cose e persone insieme, per quanto numerose e importanti esse siano, “non sono”, un senso che è altrettanto evidente quanto quello secondo cui invece “ci sono”. Ed è il fatto universale e drammatico che la loro “attualità” è soltanto provvisoria, ossia che nel passato “non c’erano” e “non ci saranno” neppure in un tempo più o meno prossimo. E la drammaticità di questa situazione si acuisce e diventa tragica nel fatto universale che i più colpiti da questo loro non-essere-sempre-attuali sono soprattutto coloro che hanno coscienza di questa provvisorietà universale, e in particolare della loro propria specifica estrema provvisorietà, con l’abissale orrore che questa coscienza porta con sé, dal momento che nessuna conoscenza per quanto profonda e
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Il ritorno dell’essere
nessun amore per quanto travolgente li può salvare da questo inesorabile destino. Questi due universali aspetti costitutivi dell’ “essere” di ogni cosa, dalla più piccola alla più grande, sono dunque particolarmente presenti, sia pure in misura diversa, in tutti gli esseri umani tanto da giustificare l’asserzione che “l’essere umano” è tale in quanto è la coscienza di questi due universali aspetti e della loro sconcertante contraddittorietà. È proprio soprattutto la risposta, pensata e vissuta, che gli esseri umani danno a questo radicale problema che poi li distingue con altrettanto radicale differenza. Data l’importanza di questo problema si può ben dire, parafrasando una considerazione di Aristotele sul superiore valore della “metafisica” rispetto a quello della “fisica”, che un piccolo passo fatto nella direzione giusta verso la soluzione dei problemi metafisici vale più dei molti kilometri che si possono percorrere nella soluzione dei problemi della concreta vita ordinaria, sia pure con i potenti strumenti che le sono offerti dalla scienza e dalla tecnica. È evidente dunque che non va attribuita nessuna originalità alla presa di coscienza di questo problema che è il problema centrale di ogni essere umano, ma confidiamo che il percorso qui proposto avvicini di qualche tratto alla sua soluzione e induca altri a ripercorrerlo, a continuarlo e a migliorarlo. Le intuizioni-guida che l’hanno orientato e diretto, e che hanno trovato poi nei risultati da esse raggiunti la loro sempre più solida dimostrazione, sgorgano soprattutto da una nuova diversa impostazione dell’identità, e quindi poi anche dell’identificazione, di una cosa, qualunque essa sia, la quale solo apparentemente si trova isolata nel suo essere se stessa, ma in realtà proprio nella concreta sostanza del suo contenuto è costituita dalle sue “diverse differenze” da tutte le altre cose, reali e possibili, nessuna esclusa. È un principio che si tiene a grande distanza dal tradizionale principio d’identità consistente nella semplice riflessione della cosa su se stessa (A = A), e dal principio di non-contraddizione (A non è nonA): principi che non costruiscono per nulla la cosa stessa, e la lasciano quindi nel suo isolamento. Ma è anche un principio che si tiene ad ancora più grande distanza dal principio che afferma l’identità della cosa, qualunque essa sia, con ciò che quella cosa non è (A = non-A, o addirittura “essere = non-essere”), su cui soprattutto ha voluto basare le sue costruzioni e considerazioni la
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Prefazione
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classica filosofia idealistica. In queste tradizionali interpretazioni dell’identità e dell’identificazione ciò che viene originariamente affermato è l’oggetto identificato o da identificare (A), mentre nella accennata “interpretazione differenziale” (così ora la possiamo chiamare), è “la differenza” che tiene il primo, originario posto, e quindi di essa originariamente si parla quando si parla della “diversa differenza”, e poi della “identità e della “identificazione” di una cosa qualunque. Per così dire, l’oggetto generico, che abbiamo indicato con A, è solo una pausa del processo che l’ha prodotto, e che lo sta continuamente producendo. In questo caso soprattutto la relazione viene prima dei relazionati. Ne deriva l’intrinseco, immanente divenire dell’essere, l’universale costitutiva implicazione di tutte le cose, e la composizione in ogni cosa dei suoi due elementi essenziali: la sua “manifestazione” e il suo “nascondimento”. La “coscienza” di ogni cosa viene allora a costituire la profonda sostanza stessa della cosa e non più quella specie di “contenitore” delle cose che la estranea dal mondo in cui vive. Il presunto non-essere di una cosa, qualunque essa sia, che abbiamo riscontrato come l’apparente suo essenziale elemento negativo, non ha niente a che fare con l’autentico “non-essere”, che, come ancora alle origini del pensiero occidentale Parmenide aveva sottolineato, “non-è”: ha solo a che fare con il “nascondimento” della cosa. Diventa allora fondamentale rendersi conto di come questo “nascondimento” si instauri, in cosa precisamente consista, e quale sia il suo rapporto con la “manifestazione” della cosa, e quindi con la manifestazione del mondo delle cose, e in conseguenza anche con la manifestazione della coscienza che delle cose e del mondo si può avere. Alla soluzione di questo compito centrale è sempre impegnata la trattazione. Da essa emerge con crescente evidenza come l’essere di ogni cosa, per quanto piccola e trascurabile possa sembrare, rivela in realtà, in modo sempre diverso, l’Essere nella sua totalità e maestà. Il raggiungimento della coscienza di questa universale presenza dell’Essere è il senso del “ritorno dell’Essere”. L’Essere è certo presente in tutti gli esseri; non ha quindi senso dire che “ritorna negli esseri”, ma è la coscienza della sua presenza che è assente, e questa assenza è alla radice di tutti i mali da cui sono colpiti gli
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Il ritorno dell’essere
esseri in cui l’Essere è presente. È dunque qui, nella coscienza, che è non solo possibile ma necessario il suo ritorno. L’Essere si rivela allora come l’autentico concreto essere di ogni cosa, e soprattutto di ogni coscienza. In questa coscienza è contenuto il segreto dell’abbattimento del non-essere nel suo autentico essere, che è quello di non essere. In base a queste premesse, che andranno chiarendosi a mano a mano che si procederà, la trattazione si svilupperà in tre parti distinte ma strettamente connesse tra di loro. Nella prima si tratterà della “coscienza consapevole”, nella quale la struttura dell’Essere viene direttamente intesa e percepita. Il “nascondimento” dell’Essere, che è inevitabilmente presente in ogni coscienza finita, è solo “indirettamente” presente nelle dimensioni tipiche di questa coscienza “consapevole”: religiosa, morale, estetica, storica. La seconda parte tratta della “coscienza inconsapevole”. In essa il “nascondimento” dell’Essere prevale sulla sua manifestazione. Ma la coscienza consapevole, in quanto tale, sa rendersi conto di questo nascondimento, e attraverso questa consapevolezza diventa trasparente l’essenziale struttura biologica dell’organismo vivente, il rapporto di questo tipo di coscienza con la coscienza consapevole, e quindi anche il senso dell’immortalità dell’anima che abita il corpo di una coscienza consapevole. La terza parte parla delle cose nella loro apparente esteriorità alla coscienza che se ne ha, e quindi delle loro connessioni esteriori nella loro esteriore unità spazio-temporale. Su questo spazio-tempo del mondo fisico rimane quindi particolarmente concentrata la considerazione. Questa esteriorità è appunto soltanto apparente, e quindi nella coscienza consapevole, a questo punto attiva a livello scientifico, rimane sempre la possibilità di ridurla e quindi di portarla verso la sua rivelazione. Tutto avviene dunque all’interno della coscienza consapevole e quindi dell’Essere che in essa si manifesta e che la manifesta, anche se il suo faticoso esaltante procedere è una continua lotta contro il suo stesso nascondimento e contro la grande ombra che questo nascondimento getta su tutte le cose. Quando questo nascondimento viene supposto, o addirittura interpretato e vissuto come un autentico non-essere, allora si sviluppa nella manifestazione dell’essere un tumore fatale che lo porta alla decadenza e alla distruzione. Ci si fissa infatti allora su
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Prefazione
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quell’infima parte dell’essere che si è manifestata, ma il suo fondamento è perduto, non è sentito e vissuto come tale, e le cose, perduta con il loro fondamento la loro unità, perdono la loro identità, divagano nella molteplicità, nella confusione, nell’insoddisfazione, ricercano se stesse nel loro essere parziale e superficiale, ossia nel loro non-essere, rubano alle altre il loro essere, si usano violenza, e si distruggono a vicenda. Il loro fondamento, che è la parte più vera e più solida del loro essere, ignorato e rinnegato, si tramuta in una forza che, perduta ogni sua positiva qualità, diventa violenza brutale contro cui inutilmente tentano di lottare per sopravvivere. Esse stesse si distruggono con la più profonda energia che possiedono senza averne coscienza, e che gli si è rivoltata contro. Questa lacerazione all’interno di se stessi, che porta al suicidio la vita della coscienza degradata a un mucchio di cose e di eventi senza coerenza, la si costata con sempre maggiore evidenza, frequenza e violenza nella società contemporanea a tutti i livelli in cui si è andata frazionando. La stessa capacità, a cui abbiamo poc’anzi accennato parlando della terza parte, di portare allo scoperto un numero sempre maggiore di cose dal loro nascondimento, ha contribuito a far abbassare la stessa coscienza, in cui quella capacità risiede, al livello delle stesse cose destinate al loro uso e consumo, mentre l’universo, che è la sua abitazione, viene dilapidato alle sue sorgenti. Lo si vede già al livello della vita quotidiana dove per un numero sempre crescente di persone i supermercati, sempre più capaci, forniti e frequentati, sono venuti a sostituire in pieno la scuola e la cultura che insegna a vivere e a pensare, e la chiesa in cui s’impara a pregare. Lo si vede nella spaventosa diffusione della criminalità individuale e organizzata, decisa a impadronirsi con tutti i mezzi dei beni di consumo, nell’abuso di droghe e di sesso che distrugge ogni anno milioni di persone. Lo si vede a un livello più ampio nella corruzione dei livelli più alti della vita politica e sociale, la cui funzione primaria dovrebbe invece essere quella di prevenirla e combatterla, nel rigurgito di razzismi e nazionalismi in cui le spaccature della stirpe umana prevalgono sulla sua profonda unità, la quale tuttavia continua ad essere la forza che, mascherata e stravolta, anima segretamente la loro orribile violenza distruttiva. Non si tratta ovviamente in tutti questi casi della morte dell’Essere ma della morte della coscienza finita che se ne deve avere. Se
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Il ritorno dell’essere
questa coscienza viene meno, l’essere per tale mancanza degenera nelle cose, ossia prevale il suo nascondimento, degenerato da fondamento ad avversario invincibile della manifestazione della coscienza, e quindi a suo distruttore. Lo si vede oggi con troppa sinistra evidenza, assieme ai mali che abbiamo succintamente citati, nella enorme diffusione di malattie nervose e psichiche che li accompagnano, nei milioni di morti per suicidio, overdose, immunodeficienza, malattie veneree, nelle stragi di popolazioni, nelle guerre che distruggono intere città e nazioni. Ed è terribile pensare che l’unica via di salvezza possa essere una tale invasione della forza tradita dell’Essere da imporre solo con la sua tragica violenza ai pochi sopravvissuti la sua indistruttibile sovranità. Quando il pensiero filosofico intraprese il cammino che gli è connaturale, di rendersi conto sul piano riflesso della totalità dell’Essere, era fatale che insieme a questo esaltante compito sovrano portasse con sé anche il più grande pericolo da cui è sempre minacciato e da cui è anche regolarmente colpito, ossia la presunzione che una sua tappa raggiunta sia la tappa dell’assoluta definitiva conquista dell’Essere. Non pare vi possano essere dubbi che ogni suo percorso sia stato un percorso di avvicinamento diretto o indiretto alla totalità dell’Essere. Per fare alcuni esempi a tutti noti, all’inizio del suo percorso occidentale ci si rese conto da una parte della totalità del mondo fisico, del cosmo globalmente preso, e proprio per questa sua caratteristica di “totalità” si è tentato di ridurlo completamente all’ “acqua”, o all’ “aria”, o al “fuoco”; o ai suoi aspetti quantitativi di “numero”, di “superfici”, di “volumi”; o ai suoi elementi “materiali atomici” invisibili. D’altra parte ci si rese anche conto delle strutture universali della realtà, irriducibili a quelle particolari del mondo fisico: “sostanza-accidente”, “materia-forma”, “idea-cosa empirica”. Nel Medioevo si approfondì la conoscenza del rapporto tra le verità della ragione e quelle della fede, sottolineando in modo particolare queste ultime rispetto alle prime; ma, d’altra parte, nell’epoca moderna ci si rese conto in profondità, soprattutto dopo e in conseguenza della nuova scienza, dell’enorme valore e dell’autonomia delle prime rispetto alle seconde. Emersero allora con più chiarezza da una parte le strutture empiriche della realtà, e dall’altra quelle razionali altrettanto importanti. Più avanti si scoprirono nella loro straordinaria profondità da una parte le
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Prefazione
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strutture trascendentali del “soggetto”, e dall’altra i fatti e le leggi della “natura” esprimibili o sottoponibili al calcolo matematico e ai rigorosi controlli empirici. In epoca a noi più vicina si chiarì da una parte quell’aspetto dell’Essere che consiste nel suo “esserci”, ossia del fondamentale dato di fatto della “esistenza” della coscienza con i suoi problemi, le sue preoccupazioni, le sue “cure”, il suo fatale destino di “essere-per-la-morte”; e d’altra parte emersero con sempre maggiore evidenza le strutture della conoscenza “oggettiva” della realtà nelle sue dimensioni nascoste alla percezione immediata, e colte dalla riflessa conoscenza e attività scientifica. Comunque se ne possa e se ne debba criticare le esagerazioni, i limiti, l’unilateralità, l’inesattezza delle espressioni, l’incompletezza delle sistemazioni, si è sempre davanti a ricerche e scoperte di realtà e di aspetti della realtà che prima erano rimasti parzialmente nascosti. Gli stessi nascondimenti della realtà fisica, psicologica, ontologica, studiati e messi in evidenza proprio come tali da tutte le forme filosofiche e scientifiche di “irrazionalismo”, sono effettive positive scoperte di un aspetto ineludibile estremamente importante della realtà. E tuttavia è anche vero che sono innumerevoli gli scritti in cui in nome e con armi offerte dal cosmologismo, dal fisicalismo, in genere dallo scientismo, si è tentato di demolire la metafisica in blocco; e altrettanti sono quelli in cui i metafisici hanno creduto di poter dimostrare l’infondatezza e l’invalidità della cosiddetta conoscenza fisica, e in generale scientifica della realtà. Né si possono da una parte contare i libri in cui il “razionalismo” e l’ “illuminismo” hanno criticato le filosofie medioevali, e dall’altra quelli in cui i filosofi rimasti fedeli alla filosofia classica, di derivazione platonica o aristotelica, e alle loro interpretazioni e ulteriori elaborazioni medioevali, si sono sforzati e si sforzano ancora oggi di demolire il pensiero filosofico moderno. L’ “idealismo” della prima metà del secolo scorso si è frontalmente scontrato con il “positivismo” della seconda metà dello stesso secolo, ambedue convinti della radicale falsità del loro avversario. E in questa nostra epoca contemporanea l’esistenzialismo, dopo aver creduto di dimostrare la falsità di tutta la metafisica occidentale, colpevole di aver portato al nichilismo la corrispondente civiltà, ha coinvolto naturalmente nella stessa condanna il pensiero e l’attività scientifica, ma rimanendo anch’esso ripagato della stessa condanna radicale da parte di quel “neoposi-
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Il ritorno dell’essere
tivismo”, che invece in quel pensiero e in quell’attività vedeva l’espressione più alta e più genuina della conoscenza umana. Il severo giudizio di Kant che la metafisica sia solo “un campo di lotta ... destinato a esercitare le forze antagonistiche, in cui nemmeno un campione ha mai potuto impadronirsi della più piccola parte di terreno e fondare nella sua vittoria un durevole possesso”, pare che vada dunque ampliato a tutto il pensiero filosofico, compreso il suo che, come tutti gli altri, è diventato subito dopo la sua diffusione un campo di contrapposizioni, di revisioni, e di condanne senza fine. Aldilà delle molte ragioni che militano per una qualunque di queste concezioni filosofiche, e di quelle con essa apparentemente incompatibili o addirittura opposte, interessa capire il perché di questa situazione generale che sembra paradossale. L unica risposta plausibile non pare possa venir ricercata altro che nel fatto sempre ricorrente che gli aspetti positivi in ognuna di esse evidentemente presenti sono tacitamente ritenuti o addirittura apertamente dichiarati sufficienti a spiegare la totalità dell’Essere. È un fatto universale, facilmente riscontrabile, perfino ovvio, ma se non ci si rende conto della ragione dell’inconsistenza della presunzione che contiene si sarà sempre esposti alla possibilità e anzi alla fatalità di ricaderci. La messa in evidenza di questa ragione sarà uno dei compiti più importanti di questa trattazione. Se una “parte” è ritenuta o proclamata come la “totalità” dell’Essere, in essa non può non agire con la sua strapotente violenza anche quel non-essere che da essa è stato escluso, ma che per definizione ne è invece una componente essenziale. Anche al fanatico sostenitore della “parte” questo non-essere non è presente, esso agisce proprio, soprattutto in base a quell’ignoranza, contro la parte stessa con una potenza che è proporzionale alla violenza con cui è stato escluso, fino apparentemente a distruggerla. La distruzione è apparente; è solo la distruzione dell’esagerazione con cui la parte si è rivelata e della sua presunzione di essere la totalità dell’inesauribile Essere. Quando fosse ritenuta un’autentica distruzione, ogni parte, ogni aspetto, ma poi in generale ogni vicenda della vita, ogni situazione avrebbe il semplice valore del suo esserci nell’esclusivo piccolo tratto del suo apparire, ossia finirebbe per non avere nessun valore. Sarebbe l’autentica vittoria del non-essere, sul piano riflesso la vittoria della filosofia del nichilismo, compresa la sua pseudoestetica versione che va oggi sotto il nome di “pensiero debole”.
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Prefazione
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Ma il non-essere non è. Il suo vero essere è il nascondimento dell’Essere. Un nascondimento che riconosciuto come tale è destinato a ridursi purché le sempre parziali manifestazioni dell’Essere non presumano di esaurirlo, e pertanto proprio solo attraverso la loro differenza diventino sempre più se stesse. La garanzia del loro essere non consiste nella distruzione delle altre diverse manifestazioni ma nel loro riconoscimento; che se la loro differenza non sembra conciliabile, il che spesso accade, è perché ogni manifestazione è parziale, e quindi indeterminata, e quindi bisognosa che meglio si manifestino le manifestazioni da essa differenti. Quando quindi si parla della “assoluta manifestazione dell’Essere”, ossia della “assoluta verità dell’Essere”, e lo si deve fare se non si vuole cadere nell’abisso del non-essere, si deve sempre essere profondamente convinti che il senso di questo discorso non può mai essere assoluto in una coscienza finita: è sempre una verità costretta a rimanere indeterminata, in una indeterminazione sempre in fase di risoluzione mai definitiva. La pretesa dell’assoluta gestione dell’assoluta verità porta all’assoluta sua negazione. Solo quando questa pretesa cade, si apre all’infinito la possibilità di una sempre progressiva conquista dell’assoluta verità. La filosofia, anche in questa sua sovrana funzione di scoprimento dei limiti di ogni passata visione dell’Assoluto, è sempre filosofia di apertura verso il futuro, e perciostesso anche conquista della verità del passato. Molte sono le obiezioni che potranno nascere dalla lettura di questo libro. Anche su quelle ben prevedibili già in partenza non è qui il caso di soffermarsi. Soltanto a una di esse, forse la più facile ed evidente, sarà opportuno accennare. Vi sono capitoli che trattano della coscienza “religiosa”, “morale”, “estetica”; della coscienza “inconsapevole”, ossia della coscienza che anima i corpi organizzati, con i gravi problemi che ne derivano, e quindi infine anche del mondo fisico preso nella sua globalità. Sembra dunque che alla base di questa indagine vi sia l’enorme presunzione di trattare così profondi e svariati argomenti in un volume di relative ben poche pagine, quando per ciascuno di essi si sono scritti centinaia di libri. La risposta è che non si è voluto assolutamente stendere trattati su questi argomenti, ma solo indagare e chiarire quell’unico punto, in cui quelle sovrane dimensioni della coscienza sgorgano dalla loro sorgente. Il ritorno costante del discorso a questa sorgente, che potrà dunque essere interpretato come noiosa ripetizione, deriva
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Il ritorno dell’essere
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dalla necessità di cogliere sempre di quella sorgente l’unica ma anche l’universale presenza.
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Introduzione
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INTRODUZIONE
Questa Introduzione non è necessaria per la comprensione del libro nel suo complesso e in ognuna delle sue parti. La sua lettura può quindi essere semplicemente tralasciata. Può riuscire tuttavia utile quando si volessero chiarire ulteriormente e approfondire certe sue parti o certi suoi passaggi di particolare importanza. In questa Introduzione infatti vengono riassunti alcuni fra gli argomenti trattati in un precedente libro: L’enigma dell’essere (TilgherGenova, Genova 1990) che si ripresentano anche nel presente. In questo quindi si troveranno di tanto in tanto tra parentesi i numeri dell’Introduzione che accennano allo stesso argomento, e questi numeri a loro volta rimandano ai numeri dei capitoli dell’Enigma dell’essere che di quest’argomento trattano diffusamente. Ma ripetiamo: il testo di questo libro è di per se stesso comprensibile e del tutto autonomo.
I 1. Ciò che immediatamente e originariamente si manifesta sono le cose dell’esperienza ordinaria, ossia le cose che si presentano o che si possono presentare ai sensi del nostro organismo. “Sensi” ed “organismo” non sono evidentemente tra queste “cose”. Cose sono dunque ad esempio un albero, una casa, un cagnolino (1). Un bambino incomincerà a riconoscere e a nominare “il papà”, “la mamma”, “il succhiotto”, e poi molto più tardi “il rosso”, “l’amaro”, “il ruvido”. 2. Le cose si manifestano tra di loro distinte e la più importante
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Il ritorno dell’essere
distinzione è tra cose chiamate con un nome comune, come “l’ albero”, “la casa”, “il cane”, e le cose che invece sono presenti nella loro individualità, come “questo albero”, “quella casa”. Mentre nel primo caso ci si riferisce a ciò che vi è di comune nelle cose di un gruppo: e lo chiameremo “contenuto essenziale” di ognuna di queste cose, nel secondo invece ci si riferisce a una cosa singola, la quale oltre al suo contenuto essenziale perché appartiene a un gruppo, ha anche la sua esistenza nello spazio e nel tempo. C’è evidentemente una fondamentale differenza tra le differenze che sussistono tra i “contenuti essenziali”, per esempio tra l’albero e la casa, e le differenze che sussistono tra le singole cose interne a uno stesso contenuto essenziale. Chiamiamo “differenze del secondo ordine” le differenze che sussistono tra i contenuti essenziali indicati con nomi comuni diversi, e invece “differenze del primo ordine” quelle che sussistono tra un individuo e un altro dello stesso gruppo (1). 3. Vogliamo chiarire in che cosa consistano le differenze del secondo ordine, ossia che cosa avviene quando dal riconoscimento di un “albero qualunque” si passa al riconoscimento di una “casa qualunque”. “L’albero” si manifesta nella sua identità, ossia per quello che è, in quanto è diverso da tutte le cose che vengono chiamate con altri nomi. Ma questa diversità è diversa per ognuna di queste altre cose. L’identità quindi di ogni cosa, per cui essa si manifesta e viene riconosciuta, è data dalla sua diversa differenza da tutte le altre cose chiamate con altri nomi. L’identità di una cosa (ossia la sua manifestazione, il suo riconoscimento) è data dal posto che occupa rispetto a tutti gli altri posti in cui sono collocate tutte le altre cose. Chiariamo con un’analogia. L’identità di una cosa è simile al posto che un albero occupa in un bosco. Il suo posto è dato da tutte le diverse distanze in cui sta con tutti gli altri alberi, da cui vengono in conseguenza determinati anche tutti gli altri aspetti che questi alberi vengono ad avere a suo riguardo: come ad esempio sono “visti” dal posto occupato dall’albero in questione. La semplice differenza stacca, distanzia le cose tra di loro, ma la diversa differenza le riunisce di nuovo pur mantenendole diverse. Le distanze tra gli alberi li allontanano, ma la diversità delle distanze li riunisce in un solo bosco. In modo simile le case formano un solo villaggio, le diverse isole un solo arcipelago.
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Introduzione
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Quando allora si passa da una cosa di un gruppo chiamato con un nome comune a un’altra, come da “l’albero” a “la casa”, passo da una struttura di diverse differenze presentate da tutte le altre cose a un’altra struttura di diverse differenze presentate da tutte le altre cose, compresa la prima: come quando da un albero di un bosco passo a un altro, tutte le diverse distanze in cui quello stava, cambiano, e insieme anche i modi come appaiono tutti gli alberi. È l’insieme di queste diverse differenze che costituiscono l’identità di una cosa per cui essa appare, si manifesta, viene riconosciuta (2, 3). 4. Questa struttura di diverse differenze è quindi il soggetto che sorregge e da cui emerge una cosa qualunque. Essa costituisce il contenuto essenziale di tutte le cose che vengono chiamate con lo stesso nome: ad esempio tutti gli alberi appaiono, si manifestano, sono quello che sono per questa loro identica struttura di diverse differenze dalle altre cose chiamate con altri nomi, che sta a loro fondamento costitutivo. Questa struttura costitutiva viene quindi prima delle singole cose, e tutti questi costitutivi essenziali delle cose si costituiscono insieme vicendevolmente (2, 3). 5. Questi “soggetti” o “contenuti essenziali” che stanno alla base delle cose singole chiamate con lo stesso nome li abbiamo chiamati soggetti alla prima potenza per distinguerli dai soggetti alla seconda potenza che ora chiariremo. Come si è visto tutti i soggetti alla prima potenza hanno una struttura comune: ognuno infatti consiste nella totalità delle diverse differenze in cui sta con tutti gli altri. Questa loro comune struttura sta quindi alla base della particolare struttura di ognuno di essi, e quindi questo loro soggetto è un soggetto di soggetti, ossia appunto un soggetto alla seconda potenza. Lo si può evidenziare con un esempio. Come si è detto, ogni albero, ossia l’albero in generale, si manifesta per la struttura delle diverse differenze che possiede dalla casa, dal cane, ..., e così via, da tutte le altre cose. Ognuna di queste altre cose però, ad esempio la casa, è tale in quanto è costituita dalla trama delle sue diverse differenze dall’albero, dal cane, e così via. L’emergenza dell’albero dalla trama delle sue diverse differenze dalle altre cose implica necessariamente che tutte queste altre cose abbiano a loro volta la loro trama di diverse differenze che le fa emergere, altrimenti quella non sarebbe una trama di diverse differenze in grado di identificarla.
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Il ritorno dell’essere
L’identificazione dell’albero si ottiene sulla base della possibilità dell’identificazione di tutte le altre cose. Queste reali possibilità sono tante quante sono le cose, e costituiscono anch’esse la realtà della identificazione, e quindi della manifestazione dell’albero (3). 6. Questa presenza delle indefinite possibilità costitutive della manifestazione di ogni cosa, nel nostro esempio dell’albero, è ciò che rende cosciente la manifestazione di questa particolare cosa, dell’albero, e, quindi l’abbiamo chiamato “soggetto cosciente”, coscienza, ossia “con” il riconoscimento di una cosa qualunque vi è sempre presente “il sapere” della possibilità del riconoscimento di tutte le altre cose, una possibilità che, come si è visto, costituisce la sostanza della manifestazione di ogni cosa attualmente riconosciuta (8). 7. Qualora sia consaputa l’identica natura che sta a fondamento di ogni cosa particolare, anch’essa appare accanto ai contenuti effettivi di queste singole cose, le quali in conseguenza si rivelano come “cose”. L’emergenza di qualunque contenuto come “cosa” coincide con il formarsi del soggetto alla seconda potenza, che è quindi in sostanza la coscienza dei contenuti come “cose” (8). 8. A proposito dei contenuti essenziali sono fondamentali alcune distinzioni. Ciò che appare come primo alla coscienza sono “le cose”, abbiamo detto, “i contenuti essenziali”, ossia le sostanze, come l’albero, il cane, la casa. Quelli che sono stati tradizionalmente chiamati “accidenti”, per indicare “ciò che accade” alla sostanza, e che noi possiamo chiamare per intanto “qualità”, senza distinguere le varie “categorie” in cui queste sono distribuite, come “qualità in senso stretto”, “quantità”, “luogo”, “tempo”, e così via (qui ci atteniamo alla tradizione aristotelico-scolastica), sono il risultato di un’analisi che l’esperienza ordinaria fa spontaneamente fin dai primi anni dello sviluppo di un essere cosciente consapevole. Poiché, ad esempio, si sperimenta che vi è qualcosa, poi chiamato “rosso”, che si manifesta sia quando si manifesta il sangue, che quando si manifesta la rosa, la bandiera, il gambero, questo qualcosa mostra di non appartenere esclusivamente a nessuna di quelle sostanze, quindi viene da esse separato, e pertanto viene chiamato con un nome specifico diverso: “rosso”. Tutto
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Introduzione
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quello però che si è detto delle “sostanze” vale evidentemente in generale anche per le “qualità”: anch’esse emergono per la loro diversa differenza da tutte le altre cose chiamate con nomi diversi, ma poiché in aggiunta rappresentano elementi o aspetti che appartengono o possono appartenere a più sostanze diverse, si dice che vengono da esse “astratte”. L’astrazione si aggiunge dunque ai loro contenuti essenziali. Se si vuole rinunciare a chiamare “cose” queste “qualità”, si dovrà ricorrere a un altro nome comune: quello di “enti”, “entità”, per indicare sia “le cose” che le “qualità” (5). 9. Un’altra distinzione estremamente importante, contenuta già in quanto si è detto, è la distinzione tra ciò che è o può essere presente al senso, ossia le cose nella loro concretezza fisica: come questo albero, questa casa, questo cane, e i loro contenuti essenziali, come “l’albero”, “la casa”, “il cane”. I primi li abbiamo chiamati “contenuti del primo ordine o livello”, i secondi “del secondo ordine o livello” in corrispondenza alle differenze del primo o secondo ordine già considerate. Senza la presenza dei contenuti del secondo ordine, ossia dei contenuti essenziali non si manifestano quelli del primo ordine: devo infatti sapere che cosa è “il cane” perché “questo cane” che mi è attualmente presente ai sensi mi si manifesti come “un cane”. 10. È talmente importante il contenuto essenziale del secondo ordine di una cosa rispetto al suo contenuto fisico del primo ordine, che è possibile da questo separarlo e così ottenere “l’idea della cosa”, con l’enorme conseguente vantaggio di liberare in tal modo il movimento che è intrinseco ai contenuti essenziali dai loro rivestimenti e condizionamenti fisici. Questi contenuti essenziali liberati non dipendono più nei loro movimenti dall’organismo con i suoi sensi ma dal soggetto cosciente, ossia dal soggetto alla seconda potenza della loro manifestazione (7). 11. La caratteristica fondamentale dei contenuti essenziali che scaturisce immediatamente e direttamente dalla loro natura è il loro dinamismo interno: per essere se stesso ogni contenuto essenziale deve uscire da se stesso e lasciare il posto agli altri contenuti essenziali perché è dalla sua diversa differenza da tutti questi altri che diventa se stesso. Naturalmente da questo costitutivo di-
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Il ritorno dell’essere
namismo interno ai contenuti essenziali deriva l’ineludibile necessità che le cose, anche con i loro rivestimenti esterni, con la loro presenza fisica, si avvicendano in continuazione (7, 8). Per indicare l’attuale o anche possibile presenza fisica ai sensi dei contenuti essenziali in genere, ossia di ciò che abbiamo chiamato “enti”, li si potrà chiamare opportunamente “essenti”, sottolineando così, secondo una nota tradizione filosofica classica, la distinzione della “esistenza” dalla “essenza” di una cosa qualunque.
II 12. La radice della differenza tra gli enti e gli essenti, ossia tra i contenuti essenziali e i contenuti esistenziali dell’esperienza di ogni soggetto cosciente si manifesta analizzando il modo come questi contenuti emergono, ossia come arrivano alla loro manifestazione. È questa ovviamente un’indagine riflessa di una coscienza che si spinge aldilà di quanto si manifesta spontaneamente, per rendersene conto: un’indagine quindi di carattere scientifico. Affinché le cose possano arrivare alla loro manifestazione, si è visto, devono prima vicendevolmente differenziarsi tra di loro. Ogni cosa, in altre parole, manifesta un comportamento diverso da tutte le altre. “Comportamento” in senso vasto, comprensivo anche ad esempio delle radiazioni che inviano al soggetto, e che diventeranno poi impressioni di colori, suoni, sapori, ecc., sui sensi dell’organismo del soggetto alla seconda potenza. Questa diversità dei comportamenti implica che questi messaggi siano recepiti, ritenuti e confrontati attraverso una loro “sintesi originaria” che rende possibile il loro riconoscimento, e, alla sua base, la loro coscienza (1, 2).
13. La recezione, e quindi la ritenzione e la confrontazione delle strutture e dei comportamenti di ciò che, attraverso esse, si manifesteranno come “le cose” dell’esperienza del soggetto, è estremamente limitata e parziale. In altre parole, tutti gli organi di recezione, che si riveleranno poi come i sensi di un organismo, hanno una “soglia”: “assoluta” e “differenziale” aldisotto della quale i messaggi delle strutture e dei comportamenti delle cose non
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Introduzione
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vengono recepiti, e saranno quindi esclusi dalla loro sintesi, dal loro confronto e dal loro necessario contributo all’identificazione delle cose (15). La scienza si è assunta il compito innanzitutto di dimostrare l’esistenza di questi messaggi perduti dall’esperienza ordinaria (12), e quindi poi di penetrare ed esplorare quella parte più consistente della realtà che rimane fuori della possibilità di venire direttamente recepita, sintetizzata e riconosciuta. 14. La storia della penetrazione ed esplorazione delle due regioni (microcosmo e ultramacrocosmo) di questa realtà, che, essendo aldilà (met£) di quella macroscopica riconosciuta dall’esperienza ordinaria (il “cosmo”) abbiamo chiamata “metacosmo”, è la storia della scienza, soprattutto moderna, dopo che le è riuscito di individuare con esattezza quella dimensione della realtà alla cui ricerca e scoperta sono destinati gli strumenti tecnici e razionali di cui dispone (12, 13, 14). 15. Ma ovviamente la penetrazione e l’esplorazione, inevitabilmente indiretta, di quelle due regioni del metacosmo che non sono direttamente, ossia spontaneamente, riconosciute, riescono soltanto a delineare e a strutturare un regno di ombre di cose e non di cose vere, ombre che, sebbene fatte a immagine e somiglianza di quelle cose dell’ordinario macrocosmo che si prestano a configurarsi come loro modelli, sono ben lontane dal raggiungere un’autentica effettiva realtà. La totalità dell’Essere attraverso questa integrazione del pensiero e dell’esperienza scientifica, e della sua interpretazione filosofica, non può essere raggiunta, anche se contribuisce sostanzialmente a intravvederla nella sua interezza. Era fatale che la scienza riscontrasse nella sostanza stessa dei suoi metodi rappresentativi e operativi dei limiti intrinseci alla sua struttura essenziale. I casi estremi a cui tali limiti sono approdati sono rappresentati per le “scienze reali” dalle “relazioni di indeterminazione” della fisica quantistica, dalla confutazione dell’esistenza di un assoluto “etere” fisico, dalla sua sostituzione con l’altrettanto misteriosa realtà dei “campi” (18); e per le “scienze formali”, logico-matematiche, dai teoremi di Gödel, Church, Skolem-Löwenheim, Tarski (19). 16. Le cose che con la loro vicendevole trama di relazioni co-
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stitutive formano il mondo visibile sono in realtà immerse e disunite da quella totalità di relazioni invisibili che sono rimaste escluse dalla loro sintesi, ma che continuano a costituire il loro necessario invisibile supporto e ambiente. La scienza ha il compito di ridurre questo vuoto di comportamento e di struttura manifesti in cui vengono a trovarsi situate le cose, pur nella loro profonda unità di fondo, ossia il compito di riempire gradatamente lo spazio e il tempo in cui si trovano insieme raccolte e disperse le cose del mondo (20). 17. E sebbene la scienza non riesca non solo in linea di fatto ma anche in linea di principio a eliminare completamente questo vuoto di realtà e quindi a raggiungere la totalità dell’Essere, questa totalità rimane e si rivela come la condizione fondamentale della possibilità del mondo delle cose, della coscienza che se ne ha, del mondo metacosmico in cui si muove e agisce la scienza, e quindi della scienza stessa (20).
III 18. L’evidente vuoto di realtà costitutivo del mondo delle cose, della coscienza che se ne ha e dell’attività scientifica volta a ridurlo equivale già alla dimostrazione di quella totalità dell’Essere che rappresenta la condizione della loro possibilità e della loro effettiva realtà (20). 19. Anche senza avere la possibilità di essere direttamente e scopertamente la totalità dell’Essere rimane allora non soltanto possibile ma necessario, in forma più o meno consapevole, sentirla e pensarla come fondamento dell’essere del mondo e di ogni coscienza finita. Il pensiero infatti è costituito dal percorso delle idee delle cose e il sentimento dalla risonanza che le cose suscitano in quella dimensione dell’essere vivente che è rimasta fuori della coscienza diretta. Ma le idee e il sentimento di ciò che è rimasto fuori della coscienza diretta sono ben poca cosa rispetto alle cose stesse, le quali oltre ad essere nella coscienza sono anche nella realtà dell’esistenza (7, 17). L’Essere è necessariamente pensato come totalità di essere aldilà degli enti finiti che in parte lo nascondono, e
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Introduzione
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quindi sempre intravisto attraverso il velo degli enti finiti, che in quanto tali possono esserlo solo parzialmente. 20. Ne risulta che questa totalità dell’Essere non soltanto è presente, sia pure in forma non totalmente conscia, in ogni ente, esistente, atto cosciente, pensiero e sentimento, ma è il costitutivo primo e più fondamentale del loro stesso essere, il loro necessario complemento. Egli è quindi ad essi talmente immanente da essere ad essi trascendente. La sua trascendenza in altre parole è un eccesso di immanenza (23). Si riveste quindi agli occhi di una coscienza finita di proprietà che, pur essendo apparentemente in contrasto con quelle degli enti finiti, in realtà costituiscono la condizione della loro realtà. 21. Tali sono in particolare: il suo “immobile movimento”, la sua “istantanea e simultanea eternità”, la sua “sussistente infinità”. 22. “Immobile movimento”: un movimento cioè che non si fraziona negli indefiniti relativi movimenti spazio-temporali che sono propri dei corpi, ma che sta alla loro assoluta inesauribile unica sorgente (24). 23. “Istantanea e simultanea eternità”: il suo passare, a differenza di quello sempre in parte irreversibile di ogni coscienza finita e quindi del tempo che le è proprio, è totalmente reversibile così da garantirgli passando la sua permanenza (25). 24. “Sussistente infinità”: il suo essere non trova fuori di sé alcun altro essere che lo limiti, essendo la totalità dell’essere, ossia l’esclusione di ogni non-essere (26). 25. In conclusione il Non-Essere non è, ossia il Non-Essere è solo apparente, in altre parole è solo l’essere-nascosto, con la conseguenza che il suo apparente non-essere è solo relativo a chi rimane nascosto, ma rimanendo svelato in se stesso (26).
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Parte I
L’ESSERE DELLA COSCIENZA CONSAPEVOLE
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L’essere della coscienza consapevole
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INTRODUZIONE
Siamo talmente immersi nelle cose e nella loro fuga che le porta alla distruzione, ossia al loro apparente non-essere, che per una visione e una esperienza superficiale sembra non esserci alcuna speranza di riconquistarle. E le nostre stesse azioni sembrano destinate a seguirle in questo loro fatale destino. Ognuna, dopo la rapida nascita e il breve soggiorno nel vasto caotico scenario della vita, appare destinata a scomparire, finchè la loro stessa serie indefinita, per quanto la si possa prolungare, pare finire nella morte senza lasciare traccia alcuna della sua effimera esistenza. Ma la fuga delle cose e l’apparente scomparsa nell’abisso della morte è proprio in realtà quella fuga che salva le cose dal loro non-essere, ossia dalla loro distruzione, e quella scomparsa della serie delle azioni nella morte è la garanzia del suo ingresso nell’intramontabile orizzonte del suo essere, ossia della sua vita. È questo rovesciamento delle apparenze nella loro realtà che costituisce la sostanza della consapevolezza, al vertice della coscienza delle cose e della loro esperienza.
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L’essere della coscienza consapevole
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Capitolo primo
L’ESSERE DELLA COSCIENZA RELIGIOSA
1. LA COSCIENZA FINITA DELL’ESSERE
La chiarificazione della dimensione religiosa della coscienza presuppone che sia sufficientemente chiaro prima di quale coscienza s’intende parlare. Potrebbe darsi infatti il caso, come subito vedremo, che vi siano coscienze che non sono né possono essere religiose. Innanzitutto non intendiamo qui parlare della coscienza “morale”, come quando si parla di “coscienza retta”, di “esame di coscienza”, di “scrupolo di coscienza”, tutte espressioni che suppongono già prima il concetto originario, semplice, di “coscienza”. Intendiamo per “coscienza” il “rendersi conto” delle cose, delle circostanze in cui ci si viene a trovare, il “riconoscere” le cose, le circostanze, e così via, per quello che sono. Ci si accorge allora che vi sono due livelli sostanzialmente diversi di coscienza, e soltanto uno di essi possiede una dimensione religiosa. Il primo livello è quello che chiameremo della coscienza “inconsapevole”. Consiste nel saper semplicemente distinguere la cosa o la situazione di cose attualmente presente da tutte le altre con differenze che sono diverse per ciascuna di queste altre cose, situazioni. Questo riconoscimento si rende in generale manifesto con un comportamento che è diverso a seconda della cosa, della situazione di cui si ha coscienza. È questo il primo livello di coscienza (1-4). Anche un semplice animale, e addirittura ogni pianta, possiede questo tipo di “riconoscimento”, perché ogni animale, ogni pianta reagisce, ossia si comporta diversamente in presenza di oggetti diversi. Un’antilope distingue il leone da un’altra antilope, come chiaramente risulta dal suo diverso comportamento nei loro riguardi: nel primo caso fugge, nel secondo si avvicina. Questo
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Il ritorno dell’essere
primo livello di coscienza costituirà l’argomento specifico della seconda parte della nostra trattazione. Il secondo livello di coscienza, ancora più importante del primo, è il livello della coscienza “consapevole”. Consiste nel riconoscimento che anche le cose non attualmente presenti possono rendersi tali, perché ognuna è determinata dalla struttura delle sue diverse differenze da tutte le altre. È dunque il riconoscimento del riconoscimento, un riconoscimento alla seconda potenza, che porta con sé la fondamentale differenza tra cose attualmente presenti e cose possibilmente presenti. Poiché la struttura delle diverse differenze era la base da cui emergeva il riconoscimento alla prima potenza, ossia di ogni cosa attualmente presente, e diventava per ciò stesso il soggetto della cosa presente che ne dava la coscienza inconsapevole, ne viene che la struttura di queste strutture, il riconoscimento del riconoscimento, diventa un soggetto alla seconda potenza, ossia la coscienza della prima coscienza inconsapevole, ossia la coscienza consapevole (5-7). A questo punto si rende manifesta una seconda componente essenziale sia della coscienza inconsapevole che della coscienza consapevole, ossia la loro parzialità, la loro finitezza, che dovremo ora definire con tutta precisione perché da essa derivano conseguenze di fondamentale importanza. La gran parte delle diverse differenze da cui dipende il riconoscimento, ossia l’identificazione delle cose, non viene colta, con la disastrosa conseguenza che le cose non sono mai pienamente riconosciute, mai del tutto identificate, e quindi rimangono in una costitutiva indeterminatezza. Le prove di questa impossibilità di cogliere la maggior parte di differenze, della cui esistenza tuttavia non è possibile dubitare, sono sostanzialmente due: 1°) l’esistenza della “soglia” costitutiva di ogni senso di ogni organismo, ossia di un intervallo aldisotto del quale non è mai possibile cogliere le differenze delle cose (di ogni loro qualità, di ogni loro differenza spaziale e temporale, ecc.). La dimostrazione e l’esposizione di queste “soglie”, ossia dell’assenza di una relazione biunivoca tra le variazioni della realtà fisica e le variazioni corrispondenti delle sensazioni (e quindi poi delle percezioni) che se ne possono avere, costituisce il nucleo essenziale della psicofisica (13). 2°) L’esistenza stessa della scienza moderna, della scienza per intenderci che ha avuto il suo classico inizio con l’epistemologia galileiana. Questa scienza nella sua sostanza consiste
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proprio nella penetrazione ed esplorazione delle strutture che stanno aldisotto delle soglie, soprattutto di quelle spaziali e temporali. Lo vedremo con più precisione nella terza parte. Aldilà del cosmo che si rivela attraverso il coglimento delle diverse differenze delle cose che lo compongono con le loro molteplici relazioni vi è dunque un metacosmo (ossia un “microcosmo” e un “ultramacrocosmo”: le parole stesse ne indicano il senso) che è enormemente più vasto e importante del cosmo stesso in cui si muove ogni coscienza sia inconsapevole che consapevole (14-16). Il metacosmo è dunque la dimensione nascosta della realtà. Ogni cosa è in conseguenza il risultato delle sue differenze manifeste alla coscienza e delle sue differenze rimaste alla coscienza nascoste pur essendo anch’esse un suo costitutivo, una potenzialità alla cui scoperta si muove in sempiterno la scienza. Quando d’ora in poi parleremo di una coscienza “finita” intenderemo parlare dunque di un dato di fatto ben preciso, criticamente ben individuabile, e non soltanto vagamente intuito nella sua astratta genericità, come sempre è accaduto non solo nel pensiero ordinario ma anche in quello filosofico e scientifico. Emerge allora fin da queste prime considerazioni, che hanno ancora un carattere introduttivo, una fondamentale distinzione, la più fondamentale, che andrà sempre più chiarendosi a mano a mano che si procederà. Eccola in una sua prima approssimazione. Da una parte vi e l’insieme delle cose, ognuna delle quali è data dalla sua diversa differenza da tutte le altre: è dunque un insieme di strutture costitutivamente concatenate tra di loro perché ognuna è costitutivamente formata da tutte le altre. Questo loro costitutivo concatenamento è il loro contenuto essenziale e la coscienza che se ne ha. Ma è anche un insieme di strutture indeterminate dal momento che ognuna è costituita da una minima parte di quelle differenze che distinguendola da tutte le altre la costituiscono nella sua identità. Questo insieme di tutte le strutture costitutive di ogni cosa e del loro insieme lo indicheremo d’ora in poi con il nome di “essere”: “essere” delle cose e del mondo delle cose. Risulta allora fondamentale il pensiero di ciò che sarebbe la struttura discontinua indeterminata dell’essere, qualora si manifestasse in essa la struttura delle sue differenze nascoste. Sarebbe “l’essere nella sua totale manifestazione”. Lo indicheremo con l’iniziale maiuscola (“Essere”). È l’altro termine della distinzione
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Il ritorno dell’essere
fondamentale. Già da questa rudimentale esposizione risulta l’inscindibile unità che sussiste tra l’essere e l’Essere. L’essere è una parziale manifestazione dell’Essere, che ne è quindi la totale realtà1. Potrebbe sembrare che ci si perda qui, come spesso è successo nella storia della filosofia e della teologia speculativa, in teoreticismi astratti che allontanano dalla realtà invece che avvicinarla per comprenderla. In particolare può sembrare che si cada nella ricorrente tentazione di gabellare l’ideale per il reale, di camminare con la testa invece che con i piedi, come Marx rinfacciava a Hegel, o che si tenti di scambiare un’isola pensata con un’isola reale, come Gaunilone rimproverava a S. Anselmo, o i 100 talleri pensati con quelli che effettivamente ci sono nel portafoglio, come incalzava Kant contro ogni argomento ontologico. Ma qui le cose sono diverse, come già Hegel osservava rispondendo a simili critiche. Quelle obiezioni tirano in campo esempi di enti finiti in quanto enti finiti, la cui esistenza pensata è sostanzialmente diversa da quella reale, ma qui si tratta di ciò che dà l’autentica realtà a chi l’ha soltanto in apparenza, in quanto è soltanto una partecipazione nel preciso senso che si è detto. Una determinazione parziale, una identità parziale può sussistere solo appunto come partecipazione della sua determinazione e della sua identità totale, ossia assoluta, che ne dà la vera realtà e non soltanto quella apparente. La sua “esistenza” (ex-sistere) consiste appunto nel “venir fuori”, nell’emergere in continuazione dalla totalità della struttura a cui appartiene che in questo caso non può “venir fuori” da nulla. Anche nel caso delle strutture degli enti finiti del resto quella più grossolana emerge, “viene fuori” da quella sottostante più fine. Così un organismo, come è visto dai sensi nudi nella sua struttura macroscopica, emerge, viene spiegato nelle sue svariate funzioni dalle strutture anatomiche e fisiologiche più fini che gli appartengono pur non essendo osservate. Risulta quindi che l’appartenenza della struttura costitutiva di ogni coscienza finita alla struttura portante 1
Ovviamente il termine “totale” riferito nell’Essere non ha nessun senso collettivo, additivo, cumulativo, perché in quest’Essere sono proprio scomparse le cose in quanto multiple, in quanto separate le une dall’altre. Alla totalità “estensiva” dell’essere si contrappone quella “intensiva” dell’Essere. Quando ci riferiremo all’Essere in se stesso, ossia all’Essere senza il suo nacondimento, faremo uso del carattere corsivo.
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dell’Essere è un costitutivo essenziale della coscienza stessa, la quale pertanto ne ha appunto coscienza e la può poi addirittura esprimere quando diventa consapevole. È questa coscienza consapevole infatti, come si è visto, che avverte l’appartenenza di tutte le strutture di ogni altra possibile “cosa” alla struttura della cosa che le è attualmente presente. Questa avvertenza, inizialmente assai vaga e indeterminata quanto lo è la coscienza consapevole stessa, va poi con essa determinandosi, oggettivando così nel sentimento, nella fantasia e nel pensiero l’Essere stesso a cui nascostamente esse appartengono. Prima e anzi alla base sia della religione naturale in tutte le sue svariate forme spontanee che di tutte le religioni “rivelate” in tutte le loro espressioni riflesse dogmatiche istituzionali vi è la coscienza di questa differenza, ossia dello spazio che separa il mondo delle cose prese nella loro totalità dal mondo che pur non manifestandosi direttamente è sentito e vissuto come il fondamento e il completamento di quello. È lo spazio del sacro. Abbiamo detto “spazio che separa”, ma solo nel senso che esprime il misterioso ma realissimo contenuto che completa il primo mondo da parte del secondo. È una situazione che si identifica addirittura con la struttura essenziale della coscienza finita stessa nella sua qualità di “coscienza” e di “finita”, ma soprattutto nel senso che l’esigenza di quel completamento della sua realizzazione in cui si esprime la sua “finitezza” è costitutivo della “coscienza” stessa.
2. LA RELIGIOSITÀ NATURALE
Il pensiero dell’Essere, a cui siamo in tal modo arrivati, è sostanzialmente, ossia costitutivamente, lontano a distanza infinita dall’essere dell’Essere, ossia dall’Essere come è in se stesso. Anche di più sembra lontano il sentimento di quest’Essere dall’Essere stesso, un sentimento che tuttavia accompagna ogni ente cosciente proprio in quanto tale. Nel puro e semplice sentimento quella infinita distanza non ha infatti ancora raggiunto la chiarezza della riflessione su se stesso che lo rende trasparente e che rende quindi trasparente questa distanza stessa. È un sentimento che sta all’origine e alla base della riflessione che se ne può avere e quindi anche del suo oggetto, e che quindi la precede, anche se questa poi inevitabil-
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Il ritorno dell’essere
mente lo segue in forme prima assai primitive in cui è predominante la fantasia, e quindi sempre più critiche e raffinate in cui prevale la ragione. In questo sentimento spontaneo dell’Essere inerente a ogni coscienza finita, nel pensiero e nel comportamento esteriore che lo accompagnano è riposta la dimensione religiosa naturale, propria di ogni coscienza finita. La storia delle religioni ha il compito di esporre fedelmente lo sviluppo delle concrete manifestazioni e delle varie forme assunte da questa originaria coscienza religiosa, e non è certo nostro compito delinearla qui, dal momento che a noi qui interessa soltanto chiarire la sorgente da cui inesauribilmente queste manifestazioni nelle loro svariate forme scaturiscono. Era naturale che in queste prime manifestazioni gli stessi oggetti della natura fossero visti come divini, o per lo meno come abitati da altrettante divinità che esprimevano la loro appartenenza a un mondo diverso, più vero di quello visibile nel quale apparivano. Agiva qui inconsciamente l’intuizione, che vedremo chiarirsi meglio quando parleremo della coscienza estetica e del pensiero logico, che il significato di una cosa qualunque è immensamente più vero e importante dei rivestimenti fisici in cui esteriormente appare. Urano era il vero “cielo” (“ouranós”), Gea la vera “terra” (“ghé”), Cronos il vero “tempo” (“crónos”). Come divini erano pensati i contenuti essenziali delle cose e dei loro componenti e non già le singole cose: Nettuno era il dio del mare, di ogni mare, Demetra (Cerere) la dea delle messi, di ogni messe; le Oreadi erano le ninfe dei monti, di tutti i monti; le Naiadi dei fiumi e delle sorgenti, dovunque si trovassero; e il dio Vaticano (“Uaticanus”) era il dio del vagito di ogni bambino, ossia di ogni “uà uà”; e lo stesso nome del dio “Stercorarius” indica chiaramente di che cosa fosse dio. Con il procedere del pensiero riflesso, ossia con il procedere della purificazione delle rudimentali immagini della fantasia, quando il pensiero filosofico più o meno esplicito, o anche il solo sentimento irriflesso furono spinti per un’intrinseca maturazione a cercare l’unica radice di tutte le cose fisiche (“l’acqua”, “l’aria”, “l’ápeiron”) e poi addirittura l’unico universale “essere” (Parmenide) o l’unico universale “divenire” (Eraclito), era fatale che anche gli dei che ne rappresentavano la nascosta misteriosa verità si ordinassero in gerarchie, e si arrivasse a un sommo Dio (Zeus, Gio-
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ve); e poi con il Cristianesimo, l’Islamismo, ma prima ancora con la religione ebraica, e addirittura con quella egiziana, a un unico Dio, come la verità misteriosa di tutto ciò che esiste o può esistere, e infine anche come fondamento e come sorgente di ciò che si sarebbe creduto come “rivelato”. Questa evoluzione e questo esito erano dunque preordinati e precontenuti nella sostanza stessa della coscienza finita, proprio nella sua qualità di “coscienza” e di “finita”. La più ovvia obiezione a questa interpretazione è l’esistenza, che sembra diventata sempre più diffusa e massiccia con l’andar dei tempi, dell’ateismo. Per chiarirne il senso dobbiamo tenere ben presente la distinzione esistente tra il concetto di Dio e quello di Essere di cui abbiamo parlato. Il tratto di strada che porta la coscienza finita dall’Essere a Dio è molto varia e complicata, ed è su di esso che può crescere e che di fatto è cresciuta la pianta del cosiddetto ateismo. Tra l’Essere che è stato poc’anzi presentato, e di cui abbiamo altrove ampiamente parlato (18-25), e Dio, vi è: 1° l’interpretazione del nascondimento in cui è posta, come si è visto, ogni realtà; 2° l’interpretazione della manifestazione in cui questa stessa realtà è pure posta; 3° l’interpretazione del rapporto esistente tra questi due aspetti della stessa realtà. Si potrà forse dire che tutto questo è già stato chiarito quando si è parlato dell’Essere al quale si arriva, come si è visto, attraverso il concetto di cosmo, ossia della manifestazione della realtà e della coscienza che se ne ha, di metacosmo, ossia del nascondimento costitutivo della realtà, e del loro rapporto. Ma sarebbe un grosso errore proprio per la definizione di “nascondimento costitutivo”, la quale esclude la possibilità di trasformarlo in manifestazione. Poiché però per fortuna si tratta del nascondimento della stessa realtà manifesta, proprio attraverso questa manifestazione è possibile intravedere in qualche modo, e soprattutto sentire e vivere in qualche modo la totalità dell’Essere anche nel suo parziale nascondimento. Tutto questo però equivale anche a dire che la visione dell’Essere e soprattutto il sentimento e la vita dell’Essere nella sua totalità rimangono in gran parte affidati alla fede. Una fede che ovviamente è di ben altro tipo di quello proprio della fede in un oggetto, in una cosa, in una persona; si tratta infatti
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della persuasione dell’esistenza, sia pure misteriosa, e quindi poi della fiducia, di ciò che toglie il non-essere di ogni cosa, ossia il loro limite, il loro pericolo, il loro tormento, il loro destino di decadenza e di distruzione, la loro stessa morte, e che quindi può dare ad esse e soprattutto alla coscienza che se ne ha, la loro radicale salvezza. La fede religiosa è così sostanzialmente soprannaturale. Non si pensi che in tal modo si sia segato il ramo dell’albero su cui sedevamo, e si sia così caduti malamente sulla nuda terra da cui credevamo di esserci allontanati salendo sull’albero. L’ateismo nasce proprio in sostanza dalle interpretazioni errate o insufficienti dello spazio esistente tra la struttura effettivamente dimostrabile della realtà in cui ci si trova, che comprende come parte essenziale il nascondimento, e la realtà effettiva in cui si suppone o, con termine più usato e corretto, si crede che si trovi l’Essere senza nascondimento. Tante volte infatti l’interpretazione è stata tale da portare alla negazione di ciò che nella realtà manifesta si trova effettivamente manifestato; tante altre, interpretando il contenuto nascosto della realtà adoperando i concetti stessi dei limiti che la nascondono o usandolo con scopi ad esso opposti con evidente contraddizione; e molte altre ancora supponendo di conoscere esaurientemente qual è il contenuto dell’Essere con una presunzione che si paga con forme di vita strane, devianti e talvolta disumane. Malattie endemiche del primo tipo sono ad esempio tutte le forme di teocrazia che dettano leggi sul comportamento umano in campo politico, sociale, familiare o personale con imposizioni e divieti sostitutivi o addirittura contrari a quelli della pura ragione umana, negando addirittura la sua natura e quindi il suo diritto alla ricerca della verità con oscurantismi che finiscono poi per far esplodere per reazione altrettante forme spesso altrettanto esagerate di modernismo e di illuminismo. Del secondo tipo le interpretazioni e l’uso di concetti e di realtà di carattere spirituale per scopi di potere o di interesse mondano: la religione insomma come instrumentum regni o come strumento per appropriarsi o garantirsi privilegi e distinzioni sociali ed economiche. Del terzo tipo l’esagerato dogmatismo e autoritarismo in sede teorica e pratica e forme disumane di ascetismo, quando siano imposte dal di fuori invece che ispirate da autentici carismi interiori, e conseguenti forme di superstizione e di fanatismo.
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È proprio allora attraverso un’analisi sempre più attenta e oggettiva della coscienza finita dell’Essere che è possibile sgomberare sempre più e purificare il tratto di strada che separa la coscienza finita dell’Essere dall’Essere stesso. È un tratto di strada, in cui, tra l’altro, si trovano maestose le religioni “positive” o “rivelate”, nelle quali il rapporto tra coscienza finita dell ’Essere ed Essere sembra addirittura rovesciarsi, e fornire quindi in continuazione motivi sempre nuovi di confronti, di aperture, di dibattiti, e anche di conflitti tra di loro oltre che nei confronti della religione naturale.
3. LA RELIGIONE “RIVELATA”
Il contenuto della religiosità naturale è per sua natura estremamente vago e indeterminato: è costituito appunto dalla coscienza del nascondimento dell’Essere e dall’esigenza di scoprirlo. Le religioni “rivelate” hanno come loro intrinseco scopo principale di determinare quel contenuto nascosto sia in sede teorica che pratica. Si pone allora un problema arduo da risolvere. Se la coscienza finita dell’Essere è finita appunto perché il suo contenuto è indeterminato, ossia perché essa è una rivelazione soltanto parziale dell’Essere, come può ottenere l’ulteriore determinazione, l’ulteriore rivelazione del suo contenuto nascosto? L’unica risposta possibile è che tale ulteriore rivelazione derivi da questo suo contenuto nascosto in quanto è nascosto ma esistente. È il contenuto nascosto stesso che così prende l’iniziativa, sia pure in forza della coscienza della sua indeterminatezza insita nella coscienza finita stessa. La coscienza finita ne accoglie allora i messaggi e li ordina dandogli quelle forme istituzionali teoriche e pratiche, dogmatiche e rituali che li caratterizzano. Il delicato e tremendo punto critico si pone proprio a questo punto: la luce e la forza che deriva da quel contenuto che trascende per eccesso d’immanenza (20) la coscienza finita possono per ciò stesso venire accolte dalla fede della stessa coscienza, la quale tuttavia ancora per sua stessa definizione deve darne le interpretazioni che comportano il pericolo e quasi l’ineluttabilità delle distorsioni e delle divisioni. Abbiamo sottolineato, e lo dobbiamo ancora fare, che l’Essere raggiunto dal sentimento e dalla ragione di una coscienza finita
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naturale è il presupposto indispensabile di ogni religione, ma non il suo compimento. Tutti coloro che rifiutano la religione “rivelata”, ossia la fede che l’Essere come è in se stesso abbia parlato all’uomo con parole che appartengono a Lui solo, anche se rivolte a una coscienza umana e da essa espresse, in genere non rifiutano che quelle parole abbiano un senso, interpretabile come l’azione nella parte cosciente dell’uomo anche di quella sua parte che supera la sua comprensione. Non si deve mai perdere di vista che un ente cosciente in quanto cosciente è una parte infinitesima, anche se estremamente importante, del suo essere totale, e che nella coscienza stessa è implicita una coscienza che la supera. L’esclusione dalla coscienza esplicita di questa situazione di fondo deriva da un’incapacità di carattere pratico (l’esclusiva attenzione alle strutture e ai valori degli enti finiti in quanto tali, ma che però portano sempre in sé la prospettiva della loro infinitudine), o dall’impressione, che può arrivare fino a una profonda convinzione di presunta natura scientifica o filosofica, che una “rivelazione” comporti una trascendenza che aliena totalmente l’uomo da se stesso, e in definitiva quindi ne rinnega la natura. Nel primo caso non viene certo negata la “rivelazione”, ma semplicemente non la si coglie, non la si vive per una limitazione delle proprie esigenze profonde che si risolve quasi sempre in una ricerca affannosa del falso infinito dato dall’accumulo mai esaurito degli enti finiti. Il secondo caso è più complicato ed esige un’analisi più approfondita. Si tratta di vedere in che senso ogni “rivelazione” religiosa venga “dal di fuori”. È un senso che va cercato nella stessa struttura essenziale della realtà. Si è visto che la struttura della coscienza finita è data dalla trama delle diverse differenze i cui messaggi originari sono colti dai nostri sensi. Questa struttura è parte della struttura più fine articolata costituita dalla trama delle diverse differenze che invece sfuggono alla presa dei nostri sensi anche muniti dei più sofisticati strumenti tecnici. Quest’ultima è dunque una struttura interna a quella palese costitutiva della coscienza finita ed è quindi “dal di dentro” di questa che essa agisce. Si tenga presente l’esempio già accennato dell’organismo umano: aldilà ma non aldifuori dell’organismo osservabile dei nostri sensi nudi vi è la struttura dei tessuti, cellule, molecole, atomi da cui dipendono non soltanto il suo funzionamento ma anche le sue qualità osservabili: le sue forme, i suoi colori, i suoi movimenti. È un esempio che, come tutti gli
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esempi, sottolinea soltanto un aspetto comune con la realtà che vogliamo chiarire. Nel nostro esempio infatti la struttura sottostante moltiplica gli enti detti e li separa: i leucociti, gli eritrociti, le piastrine, per limitarsi solo alle cellule del sangue; sono le une fuori delle altre, anche se solo nell’unità delle loro mutue relazioni interne costituiscono il sangue che si osserva con gli occhi. Nel nostro caso invece le diverse differenze che non si osservano con gli occhi sono tali da ridurre fino a togliere l’essere-una-fuori-dell’altra delle sostanze che compongono il mondo e quindi l’essere-uno-fuoridell’altro degli atti della coscienza finita che le percepiscono. Pensare quindi la trascendenza, ossia l’ambito dell’essere della coscienza da cui vengono i messaggi religiosi della rivelazione fuori della coscienza vorrebbe dire sdoppiarla, ossia condannarla all’alienazione, alla schizofrenia, come hanno sempre temuto e deprecato una schiera innumerevole di scienziati e pensatori, soprattutto dal tempo dell’illuminismo in poi. In realtà quei messaggi vengono sì dal di fuori della parte della coscienza che si manifesta attraverso le diverse differenze in cui messaggi vengono dai sensi, ma non certo “fuori” di quella sua struttura portante, di quel suo fondamento che è la struttura delle diverse differenze che ne sta alla base. Una forma estrema di interpretazione della rivelazione da parte di questa “trascendenza dal di fuori” è pensare che tale “rivelazione” venga da un Dio “totalmente altro” 2. Significa allora cadere in una palese contraddizione. Se Dio è “totalmente altro” significa che 2 Espressioni classiche recenti di questo modo di vedere possono essere considerate quelle di alcuni concetti che stanno alla base della filosofia esistenziale di Karl Jaspers, come “il naufragio” (Scheitern) della ragione e dell’esistenza umana nel loro tentativo di raggiungere il porto dell’ “Onnicomprendente” (das Umgreifende); e quindi “il vuoto totale” a cui sono condannati il pensiero e la comunicazione (“Per il pensiero come per la comunicazione il punto di arrivo è il silenzio”, Vernunft und Existenz, Groninga 1935, p. 74), e in conseguenza lo stesso pensiero della verità: “pensiero totalmente vuoto che per me può ricevere contenuto solo nella storicità dell’esistenza”. Altro esempio celebre il rifiuto di ogni analogia entis nella filosofia e teologia di Karl Barth, ossia il rifiuto della possibilità per l’uomo di un avvicinamento alla conoscenza di Dio, per cui l’unica possibilità che gli rimane è quella di “lasciarsi conoscere” da Dio. Non si capisce però come l’uomo possa lasciarsi conoscere da Dio se quest’uomo è “totalmente diverso” da Dio, ossia se il suo esserci, come aveva già sottolineato nella prima fase del suo pensiero, è un nicht Inhalt, ossia un puro nulla.
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parla con un linguaggio che è “totalmente altro” da quello parlato da chi dovrebbe ricevere i suoi messaggi, un linguaggio dunque il significato dei cui termini è totalmente incomprensibile. Il senso che allora rimane da attribuire a simili espressioni è che non si potrà mai raggiungere “totalmente” Dio con i nostri pensieri e quindi con il linguaggio che li esprime anche quando si crede che questo linguaggio è stato dettato da Lui. Nell’interpretazione così impostata della rivelazione, e della corrispondente trascendenza da cui deriva, è implicito il gravissimo e delicato problema di come distinguere un autentico messaggio che viene dalla totalità dell’Essere come è in se stesso, ossia da Dio, da un messaggio che invece viene dalla coscienza finita stessa. È fatale che vi sia sempre la tendenza a considerare certe illuminazioni, proprie o altrui, e certi accadimenti, come soprannaturali, ossia come dovuti all’Essere nel suo aspetto trascendente, anche quando invece derivano da conoscenze, educazioni, tradizioni o addirittura pregiudizi e falsificazioni della coscienza finita stessa. La difficoltà è enorme soprattutto per il semplice fatto fondamentale che anche ogni conoscenza, credenza o azione della coscienza finita affondano, come si è visto, la loro radice nella totalità dell’Essere e ne sono quindi una manifestazione diretta o indiretta. Un criterio comunque, fra gli altri possibili, deve rimanere di capitale importanza, anche se è destinato anch’esso a rimanere in buona parte astratto: una rivelazione, sia in sede teorica che pratica deve produrre persuasioni non raggiungibili o causare eventi non ottenibili con la semplice attività di una coscienza finita nel senso sopra esposto. È facile persuadersi che il rifiuto di una particolare religione rivelata con le sue espressioni dogmatiche e rituali ereditate da una tradizione anche plurimillenaria non equivale al rifiuto del sentimento e della conseguente convinzione che aldilà di quell’aspetto della realtà aperto alla coscienza esplicita ve ne sia un altro che la supera racchiudendola e dandole il suo senso profondo. Questo sentimento e questa convinzione anche se talvolta rudimentali o disturbati da ideologie o da vissute esperienze negative, rimangono un costitutivo ineludibile di ogni coscienza finita, anche nel caso estremo in cui questa coscienza finita si consideri infinita, scambiando così la presenza nascosta dell’Essere in ogni coscienza con la sua presenza disvelata. Anche quando la parte esclusa dalla coscienza esplicita non è
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sentita nella sua presenza nascosta come il completamento della propria finitudine con tutte le conseguenze positive che si riveleranno meglio procedendo, e sia sentita invece come il nemico che la insidia, che la contesta, che ne compromette la felicità, e che intende distruggerla, magari inconsciamente, gradualmente o con aggressioni esplosive 3, anche in questi casi la massiccia presenza dell’Essere nella sua totalità è avvertita e opera, anche se viene male interpretata, come il contrario di se stessa. Vi è qui infatti alla base la supposizione che la realtà dell’Essere nella sua totalità sia fuori della propria coscienza invece che al suo fondamento. Il proprio essere finito si sente allora aggredito, radicalmente minacciato, e anche nei casi estremi distrutto da questa estrema violenza che viene dal di fuori. Anziché di assenza dell’Essere si è piuttosto allora di fronte alla sua assoluta potenza contro la quale non resta che la lotta senza quartiere anche se disperata o la più cieca stoica rassegnazione. Il fondamento della coscienza religiosa non soltanto è ancora presente in questi casi estremi ma viene anzi rassodato. Solo che al posto del dio viene allora intronizzato “il fato”, il destino, al quale perfino gli dei rimangono soggetti, e la possibilità del male diventa radicalmente tragica, perché assoluta. Nella mitologia greca e nella sua classica rappresentazione letteraria è presente in tutta la sua funebre espressione questa drammatica situazione della coscienza finita di fronte al fato, e la sua inutile lotta contro la sua tenebrosa potenza. Ma è poi implicita anche in ogni religione politeista nella quale oltre agli dei del bene tramano e agiscono gli dei del male a insidiare e a distruggere per loro naturale costituzione i vari aspetti della felicità a cui tende per sua natura ogni coscienza finita, e ai quali quindi si devono offrire sacrifici e preghiere propiziatorie in cambio di una sospensione o almeno una mitigazione della loro furia distruttiva. Deve trattarsi di una disposizione d’animo assai profonda se ha potuto porsi a fondamento di movimenti religiosi di enorme risonanza e vastità, come il Manicheismo, diffuso tra il sec. III e il sec. XI a ondate nell’Asia minore, in tutto l’impero romano, in Cina, in India, nell’Asia centrale; e la religione dei Catari in Europa nei secoli XII-XIV. E a indurre anche filosofi di altissimo valore, come Schelling e Hei3 “Il caso Nietzsche” è diventato a questo proposito classico. Cfr. per esempio il suo Der Antichrist – Versuch einer Kritik des Christentum (1888).
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degger, a porre all’interno dell’Essere stesso il suo contrario, ossia il non-essere, il nulla, il male, Sono interpretazioni “religiose” basate sulla trasposizione del limite inerente a ogni coscienza finita all’Essere stesso che viene allora come sdoppiato in se stesso e pensato come un assoluto esteriore che minaccia la sostanza stessa del suo essere interiore e della stessa coscienza finita che l’ha proiettato fuori di sé, sentendolo quindi come un radicale nemico. Ma l’Essere in sé è per definizione l’esclusione di ogni limite, ossia di ogni nascondimento e quindi di ogni sdoppiamento in un aldiqua e in un aldilà, e pertanto è solo la falsa interpretazione del nascondimento come assenza di essere che sta alla base di questa divinizzazione del male. L’assenza di ogni limite propria dell’Essere, che coincide con l’unità assoluta tra l’essere e la sua manifestazione, sta invece al fondamento di quell’unione degli esseri coscienti e dei contenuti della loro coscienza e della loro vita che rende possibile la loro continua comunicazione di intelligenza e di amore. Anche se potrà sembrare a prima vista esagerato, perfino certe filosofie che oggi, epoca del “pensiero debole”, vanno per la maggiore, rientrano in questa categoria della “religione del fato”, come può essere chiamata e come ora cercheremo di chiarire. Heidegger, dopo la descrizione delle strutture dell’esistenza, ossia dell’“esserci”, che aveva dichiarato possibile solo alla “luce dell’Essere ” 4, aveva effettivamente tentato di collocarsi in questa luce. La riuscita di questo gigantesco progetto è stata però solo gravemente parziale. La sua denuncia e la sua condanna delle false o parziali interpretazioni che dell’Essere si sono succedute nella storia della metafisica occidentale, che avrebbe così portato all’ “oblio dell’Essere” invece che al suo disvelamento, hanno incontrato gravi fondate critiche. Non è vero che “tutta la metafisica occidentale abbia fatto dell’Essere un “ente”, sia pure dichiarato e descritto come “il sommo” ente, come è successo per quella che chiama “ontoteologia” 5. 4
“Ciò che viene ricercato, nella questione sull’essere da elaborare, è l’Essere, ossia ciò che determina l’essente in quanto essente”, Sein und Zeit, Max Niemeyer, Tübingen 1960, p. 6. Cfr. p. 7, 42, ecc. 5 L’Uno di Plotino, e l’ineffabile” ( t’ •rrhton) di Proclo non sono certo concepiti come “enti”. Sono addirittura aldilà e prima dello stesso Essere, anche se da essi: emanano dei, uomini, intelligenza, vita, per ritornare ad essi. Gli studi sul
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Ma fosse anche vero, la storia delle ricerche continue durate millenni per chiarire che cosa si deve intendere per “sommo ente” è in buona parte la storia dell’allontanamento dal concetto di “cosa”, soprattutto di “cosa fisica”, di “cosa della natura”, e quindi un cammino verso la comprensione dell’Essere nella sua purezza. E per quanto riguarda queste “cose della natura”, quando la scienza moderna è riuscita a capirle molto più di quanto le avessero capite gli antichi e i medioevali, anche questo progresso va considerato come un ulteriore avvicinamento alla comprensione dell’Essere 6. Se le applicazioni pratiche di queste scoperte che hanno trasformato il mondo possono aver fatto dimenticare altre dimensioni più importanti dell’Essere, questo non è certo dovuto alla scienza ma all’uso che se ne è fatto. Heidegger è arrivato a una comprensione troppo riduttiva e astratta dell’Essere anche perché non ha capito la scienza nella sua vera natura. Non è riuscito a farci capire come deve essere questo Essere che non è nessun ente, ma alla luce del quale ogni ente esce dal suo nascondimento ed entra nella sua “verità” (come egli continuamente ci ricorda: verità = ¢-löqeia = non-nascondimento). “Lasciare essere l’essente come esso è”, “concedersi a ciò che è manifesto e alla sua manifestazione, in cui ogni essente consiste e che esso porta insieme con sé” 7 non esprime ancora “come è” questo essente e in che cosa consiste la sua “manifestazione”. Anche dire che “l’essente si scopre nella sua totalità come f⁄sij , come natura, la quale non vuol dire qui una neoplatonismo di Werner Beierwaltes (Platonismus und Idealismus, Frankfurt a.M. 1972, tr. it., Il Mulino, Bologna 1987; Proclo. I fondamenti della sua metafisica, Vita e Pensiero, Milano 1990; Identität und Differenz, Klostermann, Frankfurt a.M. 1980, soprattutto l’ultimo capitolo dell’edizione italiana, Vita e Pensiero, Milano 1988) non lasciano dubbi in tal senso. Anche più tardi Meister Eckart, Cusano, lo stesso S. Tommaso d’Aquino non pensano l’essere come un ente. Di quest’ultimo bastino qui, tra le molte, due citazioni: “Ipsum esse est actus ultimus, qui participabilis est ab omnibus; ipsum autem nihil participat” (De anima, a. 6 ad 2); “Ipsum esse, prout participatur in hac re vel in illa, quae non capiunt totam perfectionem essendi sed habent esse imperfectum...” (Summa Th., I, II, q. 2, a. 5 ad 2). A maggior ragione questo discorso vale per parecchi metafisici moderni, in particolare per F.W.J. Schelling, la cui “Ragione assoluta”, “l’Identità assoluta”, “è pensata come Indifferenza totale del Soggettivo e dell’Oggettivo” (Darstellung meines Systems, 1801, § 1), e per G.W.F. Hegel, il filosofo dello “Spirito assoluto”, che si attua eternamente ben al di là e al di sopra di ogni tipo di “ente”. 6 Per un approfondimento a questo proposito rimando al mio vol. Tramonto del pensiero occidentale? – Saggio su Heidegger, La Nuova Base, Udine 1977. 7 Vom Wesen der Wahrheit, Frankfurt a.M. 1943, p. 14.
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particolare regione dell’essente, come è costretta a pensare la scienza, ma l’essente come tale nella totalità, e precisamente nel senso di una presenza (Anwesen) che si apre” 8 non rivela cos’è questa “totalità” che “fa presente”, che “apre”, e come “faccia presente” e “apra”. Più concretamente negli scritti posteriori ci spiega che “la cosa” (das Ding) è una struttura di rapporti che la lega alla Terra e al Cielo, ai Mortali e ai Divini, ossia alle “quattro” sue dimensioni essenziali (Geviert), e così diventa “evento” (Ereignis). La brocca ad esempio si rivela nel gesto del versare, dell’offrire, del donare all’uomo e anche a Dio. La sua cosalità non consiste allora più nel semplice perseverare della sua presenza (das blosse Beharren eines Vorhandenen), perché la struttura delle sue quattro dimensioni la “fa accadere” (ereignet). Porta i quattro alla luce del loro essere proprio (ihres Eigenen); in base alla cui semplicità essi si affidano l’uno all’altro. Uniti in tale reciprocità, risultano non-nascosti” 9. Il mondo risulta così “appropriante (ereignende) gioco di rispecchiamento della semplicità di Terra, e Cielo, Divini e Mortali” 10. E anche noi “apparteniamo al Geviert [alle quattro dimensioni] come mortali” 11. Sebbene la relazione della cosa all’apertura di tutto l’Essere in grazia dell’esserci, ossia della coscienza dell’uomo, sia qui già più chiara, si perde ancora nelle astrazioni dell’immaginazione estetica senza arrivare a quelle ben più razionali e trasparenti della metafisica, che egli anche in questo caso sottovaluta: L’evento è il dominio in sé oscillante attraverso il quale uomo ed Essere si raggiungono reciprocamente nella loro essenza, ottengono la loro essenzialità in quanto perdono quelle determinazioni che ha loro date in prestito la metafisica12.
Il pericolo insito in questo tentativo di caricare il tradizionale “ente” di contenuti concreti interpretandolo come “evento” è ovviamente la perdita dell’universalità e la caduta nella molteplicità che è in netto contrasto con l’unità dell’Essere. Il pericolo è avvertito da Heidegger: “La parola Ereignis (evento) non significa qui ciò che usualmente chiamiamo un accadimento, un avvenimento. 8
Ivi, p. 16. Das Ding, in Vorträge und Aufsätze, II, Neske, Pfullingen 19673, p. 46. 10 Ivi, p. 52. 11 Unterwegs zur Sprache, Neske, Pfullingen 1971 4, p. 215. 12 Identität und Differenz, Neske, Pfullingen 1957, p. 30. 9
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La parola è ora usata soltanto al singolare” 13. Una possibile soluzione la si potrebbe intravedere nella tesi sottolineata nell’ultima fase del suo pensiero che “il modo più autentico e appropriato dell’evento” è il linguaggio, perché lo mostra, lo manifesta14. Il linguaggio, in quanto Dire originario (Sage) che imprime movimento al mondo è il rapporto di tutti i rapporti. Contiene, sostiene, porge in dono e fa ricche le quattro regioni del mondo nel loro essere-l’una-di-fronte all’altra, le regge e le custodisce, mentre esso stesso – il Dire originario – resta in se stesso15.
E tuttavia il linguaggio non viene da lui identificato con l’Essere: il pensiero deve [...] perdere l’abitudine di credere che quanto viene qui pensato come Ereignis sia ‘l’Essere’. L’Ereignis è essenzialmente altro, perché è più ricco di ogni possibile determinazione metafisica dell’Essere. Vero è invece che l’Essere per ciò che riguarda l’origine del suo essere, si lascia pensare in base all’Ereignis16.
Se l’Ereignis e il linguaggio che lo esprime non sono identificabili con l’Essere dove sta la loro differenza? Dove è collocabile l’Essere? Se, come egli dice, “Noi possiamo parlare solo in quanto rispondiamo (entsprechen) al linguaggio” 17; se il linguaggio che ci parla, il Dire originario (Sage) è diverso da quello che parliamo, da dove ci parla? Chi lo parla? Si può poi in generale dire: chi lo parla? Heidegger ha parlato spesso del nascondimento in cui si trova l’Essere e da cui l’Essere va tolto per arrivare alla verità. Ma non ci ha saputo dire in che consiste questo nascondimento, in che modo l’Essere si nasconde, e come lo si può togliere dal nascondimento. Tanto che ha dovuto semplicemente collocare il “nascondimento” all’interno della “verità” che è per definizione “negazione di nascondimento”, con evidente contraddizione: “il nascondimento (Verborgenheit) appartiene alla ¢-lªqeia ossia al non-nascondimento [...] non come l’ombra alla luce, ma come il cuore della verità” 18. Egli stesso si domanda se tutto questo non sia mistica senza fondamento (grundlose Mystik), mitologia, irrazionalismo19. Certo, 13
Ivi, p. 29. Unterwegs..., cit., p. 262. 15 Ivi, p. 215. 16 Ivi, p. 260, nota. 17 Ivi, p. 215. 18 Zur Sache des Denkens, Niemeyer, Tübingen 1969, p. 78. 19 Ivi, p. 79. 14
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un tale Essere non riesce a dare la loro profonda unità alla moltitudine degli “eventi”, a togliere la loro discontinuità, il loro “accadere”, il loro sopraffarci. In altre parole, Heidegger non è riuscito a dimostrare, come egli si proponeva, che l’evento non è un “accadimento”, non è un “avvenimento”. Come al tempo in cui per salvarsi dalla soggettività della sua “analitica esistenziale”, in particolare del suo “esserci”, puntava sul concetto di Essere, ma lo vedeva come “assolutamente limitato, e rivelato soltanto nella trascendenza di quell’esserci che è trattenuto interiormente nel nulla” 20, così nell’ultimo esito del suo pensiero le cose e i loro eventi, sia pure interpretati ed espressi nel linguaggio dell’uomo, hanno il sopravvento sull’Essere da cui desumono il loro essere. Puntano alla loro sorgente senza arrivarci. L’uomo rimane ancora l’essere “gettato”, la cui vita autentica è ancora “essere-per-la-morte (Für-denTod-sein), come veniva descritto in Sein und Zeit. È allora comprensibile che i nuovi filosofi del “pensiero debole”, che si muovono sul terreno di Heidegger, della sua filosofia del linguaggio e delle sue intepretazioni, siano ritornati a vedere l’evento veramente come esso è, ossia accadimento, avvenimento. Riescono così a coniugare Heidegger e il suo discepolo Gadamer, il filosofo della “interpretazione”, con il filosofo che Heidegger ha combattuto come il risultato ultimo ed estremo della deviazione della metafisica occidentale: Nietzsche, il filosofo del nichilismo. Non solo l’Essere viene qui di nuovo coscientemente e volutamente abbandonato, ma anche la struttura trascendentale del soggetto, perché la realtà è solo quest’insieme vario e discontinuo di fuochi d’artificio che sono gli eventi e le interpretazioni che se ne possono dare, sempre condizionati dalla situazione storica in cui si è “gettati” 21. 20 “[...] das Sein selbst im Wesen endlich ist und sich in der Transzendens des in das Nichts hinausgehaltenen Daseins offenbart”, Was ist Metaphysik, Klostermann, Frankfurt a.M. 1949, p. 36. 21 “Gli enti si danno all’esserci nell’orizzonte di un progetto, che non è la costituzione trascendentale della ragione kantiana, ma la gettatezza storico-finita che si dispiega tra nascita e morte, nei limiti di un’epoca, di un linguaggio, di una società”, G. Vattimo, Al di là del soggetto. Nietzsche, Heidegger e l’ermeneutica, Feltrinelli, Milano 1984, p. 64. E inoltre: Apel e Habermas, Jauss e Ricoeur hanno tentato di sottolineare l’aspetto costruttivo e fondante dell’ermeneutica, ma hanno dimenticato il suo aspetto di sfondamento, ossia la finitezza, l’infondatezza, che Heidegger e Gadamer tengono invece bene presente (ivi, pp. 97-120). Cfr. an-
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È a questo punto che si rivela ancora una volta quella che abbiamo chiamato “la religiosità del fato”. Anche se questi eventi infatti sono “accadimenti” che in quanto tali sembrano mancare di unità, e proprio questa assenza di unità e quindi di fondamento sia stata sottolineata da queste correnti filosofiche, che ne hanno fatto addirittura il loro nucleo costitutivo, tuttavia di unità non possono mancare. Hanno appunto il dato comune di “accadere”, di venire non si sa da dove, e di “cadere” tutti in un’esperienza di essi senza della quale non potrebbero neppure accadere. Proprio come ogni “accidente” (il rosso, l’amaro) è ciò che “accade” a una sostanza senza della quale non può “accadere” 22, così gli accadimenti possono “accadere” solo in un’esperienza che li percepisce come tali. A differenza di Heidegger, il quale ha espressamente e ripetutamente parlato del Geschick, ossia del “destino”, da cui capitano gli eventi che compongono la Geschichte, ossia la storia23, questi suoi interpreti (?) non ne parlano, e forse non se ne accorgono, ma è implicito nel loro discorso questo stesso fondamentale concetto. Nonostante le apparenze e contro le apparenze siamo anche qui davanti alla religione del fato, del destino, come molte religioni antiche, una fede anch’essa dunque con il compito di percorrere a modo suo la strada che porta dalla totalità dell’Essere come è pensato, alla totalità dell’Essere come è in se stesso. Senza volerlo, o pensando di volere il contrario, questi filosofi hanno sottolineato un aspetto fondamentale della religiosità: la trascendenza dell’Essere rispetto al modo come si riesce a pensarlo. Rimane comunque una religione senza riti a meno che non si vogliano comprendere tra i riti le espressioni, miste di esaltazione e di desolazione, con cui questa “comunità” di filosofi parla della pioggia di accadimenti che cade in continuazione non si sa da dove.
4. RELIGIONE E MORALE
Il sentimento religioso sgorga quindi inevitabilmente dalla che Il pensiero debole, a cura di G. Vattimo e P.A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 1983. 22 Anche se da molti insigni filosofi tale sostanza non è stata vista o è stata male interpretata e quindi rinnegata (3, 8, 10). 23 “Seinsgeschichte heisst Geschick von Sein”, Zeit und Sein, nel vol. Zur Sache..., cit., p. 9.
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struttura ontologica costitutiva di ogni coscienza consapevole, e solo se è male interpretato se ne può credere possibile l’assenza. L’esigenza di una coerenza con tale struttura dinamica porta poi necessariamente da una parte a certi obblighi morali che nascono spontaneamente all’interno della coscienza stessa, come in dettaglio si vedrà a suo tempo, e dall’altra a un comportamento esteriore volto a soddisfare questa esigenza. In questa ultima frase vi sono termini che vanno spiegati. La coscienza finita non è l’Essere stesso in cui si trova e che, come si è visto, la trascende per la sua eccessiva immanenza. Proprio nella sua finitezza, ossia nella indeterminatezza in cui si trova di fronte all’Essere che la comprende, e di cui un aspetto importante è la stessa coscienza di quest’Essere che non può mai essere completa, sta la ragione della molteplicità di forme di quella “coerenza” che figura in quella frase, dove si parla di “una coerenza”. È infatti una coerenza che deve corrispondere alla situazione concreta in cui si trova quella particolare coscienza finita di fronte all’Essere fra le tante altre esistenti o possibili. Questa situazione dipende da molti fattori che sono estranei alla coscienza stessa: in particolare dalla tradizione, ossia dalle interpretazioni che dell’Essere e dei suoi rapporti con la coscienza stessa sono state date nel suo passato, e che sono dipese a loro volta dalle situazioni, oltre che culturali, anche semplicemente ambientali, climatiche, economiche, geografiche, storiche verificatesi nei molteplici rapporti con altre tradizioni di altri popoli, con i quali è venuta a contatto, e spesso in conflitto. Questi obblighi di coerenza nascono in ogni caso sempre dal presupposto di quella fondamentale struttura di rapporti in cui sta la coscienza finita dell’Essere, e non viceversa. Com’è noto, la filosofia di Kant ha rovesciato questo rapporto: è la morale che starebbe a fondamento della religione, e la religione non potrebbe mai diventare il fondamento della morale. Ma la giustificazione di questo rovesciamento non persuade, fondamentalmente perché questo tipo di morale, che non si fonda su di un ordinamento oggettivo della realtà, deve allora fondarsi solo su di un “imperativo categorico”, privo dunque per definizione di giustificazione, su di un “fatto” che pretende di essere “di ragione pura”, perché “la coscienza di questo fatto non la si può dedurre con ragionamenti da dati antecedenti della ragione”, e questo fatto “non è fondato sopra nessuna intuizione a priori né pura né empirica”, e quindi in realtà
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è posto senza ragione: è un semplice “sic volo, sic jubeo”, come Kant asserisce24. Ma non equivale questo discorso all’affermazione che questo fatto è fuori della ragione? Non è fondato infatti, ed è un atto della volontà e non della ragione. Si tratta di una legge morale, la quale essendo “semplicemente formale ... astrae da ogni materia e perciò da ogni oggetto di volere” 25. Si potrebbe pensare che quando la legge morale diventa religione le cose cambino. Infatti – continua Kant – la legge morale mediante il concetto del “sommo bene” come oggetto e scopo finale della ragion pura pratica, conduce alla religione, cioè alla conoscenza di tutti i doveri come comandamenti divini [...], ossia dell’essere supremo perché soltanto da una volontà moralmente perfetta (santa e buona), e nello stesso tempo anche onnipotente, possiamo sperare il sommo bene, che la legge morale ci fa un dovere di porre come oggetto dei nostri sforzi26.
Ma questa esigenza logica non poteva avere il sopravvento nel pensiero di Kant. Dio infatti è per lui solo un postulato pratico, il simbolo dell’esigenza che sia possibile il compimento della legge morale, ossia l’unione della virtù, ossia in definitiva l’osservanza della legge morale, con la felicità. E così tutto rimane ancora sul piano formale: non solo la “legge morale”, ma anche “la virtù” che la dovrebbe eseguire, la “felicità” che la dovrebbe accompagnare, e la loro fusione eventuale in una immortalità che per ciò stesso assume allora l’evanescente profilo di un’utopia. Come nella “critica della ragion pura” l’appercezione trascendentale dell’ “Io penso”, ultimo gancio a cui era appesa e da cui dipendeva tutta la complicata struttura trascendentale dell’esperienza, era talmente “pura” da essere priva di qualunque contenuto27, così nella “critica della ragion pratica” rimangono privi di contenuto insieme “la legge morale”, “la virtù”, “la felicità”, e quindi anche “il sommo bene” e “la religione” stessa. Il motivo profondo di questo deciso rifiuto di ogni contenuto dalla legge morale è più volte espresso da Kant: la volontà è morale in quanto è autonoma, ossia in quanto non dipende altro che da se 24 Kritik der praktischen Vernunft, § 7, Anmerkung, ed. dell’Accademia, W. de Gruyter, V, p. 31; tr. it. Laterza, Bari 1955 7, p. 38. 25 Ivi, p. 109; tr. it. cit., p. 136. 26 Ivi, p. 129; tr it. cit., p. 159. 27 Come era già successo all’“Io penso quindi sono” di Cartesio.
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stessa: se prima della legge morale si ammettesse qualche oggetto con il nome di bene quale motivo determinante della volontà, e da esso si derivasse poi il principio pratico supremo, questo allora implicherebbe sempre un’eteronomia, e sottenderebbe al principio morale28.
Lo stesso rapporto con Dio considerato come la realtà del bene sommo sarebbe un rapporto di dipendenza, di paura, e quindi un rapporto immorale: se noi dovessimo presupporre l’onnipotenza, l’onniscienza, ecc. di un Autore delle cose (Welturheber) come concetti dati a noi per altra via, per applicare poi il nostro concetto di dovere al nostro rapporto con esso, questo concetto rassomiglierebbe molto a quello di una coazione, e d’una soggezione forzata29.
Questo motivo del grande rifiuto di Kant valeva però solo in base al presupposto di quella spaccatura tra elementi formali, compresi quelli trascendentali, e i contenuti reali che sta al fondamento della sua filosofia, e, all’interno di questi ultimi l’assoluta mancanza di organici rapporti interiori e addirittura costitutivi dei dati di senso. Ma se invece questo “Autore delle cose” è la stessa sostanza più intima della coscienza, il suo stesso più autentico essere a cui dunque costitutivamente tende per diventare veramente se stessa, allora questa tendenza stessa e tutti i mezzi necessari a soddisfarla sono la legge stessa che la costituisce, il cammino verso la sua realizzazione, e nello stesso tempo il cammino verso la sua libertà dai condizionamenti dovuti al suo non-essere-ancora il suo più vero essere. Non è allora necessario porre al di fuori della volontà e della legge morale dei “postulati” che hanno tutto l’aspetto di un meccanismo artificioso, di un deus ex machina. All’interno della struttura fondamentale della coscienza finita sono presenti tutti gli elementi che Kant invece fa piovere forzatamente dal di fuori. La sua composizione di totalità e di nascondimento comporta nello stesso tempo, in quanto nascosta, la necessità di realizzarsi togliendo il nascondimento, e insieme la possibilità di farlo per la presenza stessa di questa totalità che urge per il 28
Kritik d.p.V., cit., pp. 109-110; tr. it., p. 136. Kritik der Urtheilskraft, ed. Dell’Accademia, fot. W. De Gruyter, V, p. 481; tr. it. Laterza, Bari 1923, p. 363. 29
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suo disvelamento. Nessuna forza esteriore può impedire questo movimento che è intrinseco alla totalità della sua struttura, al di fuori della quale non vi è nulla, ed è pertanto un movimento in se stesso intrinsecamente libero. Poiché il disvelamento totale non è possibile, pur dovendo essere sempre più realizzabile (è questo evidentemente lo scotto che una coscienza finita deve pagare per poter esserci, dal momento che una sola può essere la Totalità disvelata), ogni coscienza porta con sé alla radice della sua natura un vuoto radicale, un abisso incolmabile, un peccato originale contro il quale sarà sempre condannata a lottare. È l’abisso del male sul quale si trova sempre inesorabilmente sospesa, e nel quale è destinata a cadere se lo accetta, e se non lo accetta di essere la tendenza a colmarlo. La garanzia della sua immortalità la porta allora con sé nella presenza di quell’Essere che non può non esserci nel suo essere, altrimenti non sarebbe, come si dovrà dettagliatamente in seguito considerare.
5. LA COMUNITÀ RELIGIOSA
Ma inoltre, abbiamo detto poc’anzi, l’esigenza della coerenza con la propria struttura dinamica porta anche a un comportamento esteriore volto a promuoverla. Non vi può mai essere una coscienza finita che non debba integrarsi con altre coscienze finite. La sua finitudine costitutiva pone il cosmo particolare in cui vive (che per questa sua particolarità possiamo chiamare il suo “ambiente interno”) di fronte e in contrapposizione con un suo metacosmo (il suo “ambiente esterno”) con cui deve fare i conti sia in senso positivo che in senso negativo. Si trova infatti nella necessità di attingere da tutte le generazioni passate, di cui è l’ultima espressione, l’insegnamento prima pratico, ma poi anche teorico (nel caso della coscienza consapevole che a noi qui interessa), sulla trama complicata dei rapporti con l’ambiente esterno che le permetta di sopravvivere. È chiaro infatti che ogni coscienza si sveglia in un corpo che essa non può non ricevere da altri corpi in cui alberga un’analoga coscienza, e, dopo il corpo, deve ricevere dall’esperienza di queste altre coscienze le informazioni su questo rapporto tra il suo individuale particolare ambiente interno e l’ambiente esterno in cui necessariamente viene a trovarsi. Nel caso della coscienza consa-
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pevole è proprio il complicato rapporto del suo ambiente interno con l’ambiente esterno che costituisce il suo essere, sia pure in buona parte nascosto perché il suo ambiente esterno è fatto anche di metacosmo della cui esistenza essa ha la percezione (13, 14). Proprio in quanto consapevole ogni coscienza finita è costituita da questi due universi (dove il termine “due” ha un senso ben diverso da quello usuale): l’Essere e il suo nascondimento, in un rapporto tale che solo in collaborazione con le altre coscienze l’Essere può agire dal suo nascondimento. Questa convergenza di atteggiamenti e comportamenti di diverse coscienze di fronte e in collaborazione con questa totalità del loro Essere, più o meno sentita, più o meno vissuta a seconda della tradizione in cui esse sono inserite, forma la comunità religiosa istituzionalizzata. Poiché per definizione è la totalità del loro essere, fatta anche di corpo, che è impegnata in questo comunitario atteggiamento di coscienze, anche comunitari riti esteriori sono necessariamente inclusi in questo ineliminabile aspetto della vita religiosa, in questo processo volto a ridurre progressivamente la distanza della coscienza finita dalla sua piena realizzazione con la progressiva vittoria sul male. La distinzione molto feconda tra Chiesa invisibile e Chiesa visibile, su cui tanto hanno insistito Kant e la teologia cristiana moderna, soprattutto protestante, non deve far dimenticare che anche la Chiesa invisibile in ogni Chiesa visibile è strutturata, capita e vissuta in modo diverso, a seconda della diversità della comunità visibile e addirittura di ogni membro all’interno di una stessa comunità, perché la finitudine propria di ogni coscienza, che è sempre coscienza in una determinata situazione storica, spazio-temporale, e quindi anche psicologica e culturale, determina inevitabilmente una diversità di atteggiamenti davanti alla totalità dell’Essere pensato in se stesso e alle sue credute manifestazioni e rivelazioni. Anche in una Chiesa, come quella cristiana, in cui è centrale la fede nella divinità del suo Capo, per cui la sua parola sul rapporto con Dio dovrebbe avere un significato definitivo per tutti i suoi credenti, le intepretazioni di questa parola che è stata inevitabilmente dettata nel linguaggio di una ben determinata popolazione, in ben determinate circostanze storiche, culturali e sociali, diverse da quelle di chi la interpreta, non possono non essere diverse, pur dovendo e potendo conservare una certa, eppure sempre variabile,
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concordanza30. Può darsi dunque che il grande ideale dell’ecumenismo, così dibattuto nelle Chiese cristiane, non possa mai trovare una realizzazione definitiva. È un ideale destinato a rimanere tale, anche se potrà suggerire una sempre migliore convivenza e integrazione. Il suo più autentico valore infatti, che s’identifica addirittura con la sua sostanza, è di favorire che le interpretazioni diverse dalla propria approfondiscano la propria diversità e le rendano sempre più aperte alla propria in un dialogo fecondo. Questi tentativi ecumenici, se sono sinceri, portano con sé la funzione di purificare poco alla volta le strutture tipiche delle confessioni religiose dai condizionamenti storici a cui sono e saranno sempre sottoposte, in modo che risulti sempre meglio la funzione essenziale che esse sono destinate a esercitare nell’economia spirituale della salvezza di ogni fedele e della società in cui egli vive. Assolutizzare la propria interpretazione vorrebbe dire sostituirla all’Assoluto e quindi tradirla. Rimane pertanto in ogni caso fondamentale in ogni confessione religiosa il riferimento umile anche se intimamente persuaso a quell’Essere a cui costitutivamente è orientata ogni coscienza finita consapevole, senza mai pretendere di circoscriverlo come se ne avesse capito in forma esaustiva e quindi definitiva la Parola. È in questo senso trascendente che egli è il vero Capo invisibile presente in ognuna di esse31. Anche in questo delicato settore della coscienza religiosa quindi una più profonda razionalità che riesca a rendersi conto della struttura complessiva di ogni coscienza finita, e quindi anche dei limiti essenziali che le sono intrinseci e del nascondimento che questi limiti gelosamente custodiscono riuscirà a convogliare verso 30 Il problema in questo caso particolare dovrebbe essere facilitato dal fatto evidente che la Parola di questo Dio fatto uomo era volta sostanzialmente alla liberazione dai limiti e dai legalismi in cui si dibatte l’uomo, piuttosto che alla moltiplicazione delle leggi e dei dogmi che lo potrebbero coartare. 31 Resta pertanto tra l’altro incomprensibile il senso che Kant può dare alla parola “capo invisibile” nella sua concezione della Chiesa come società formalmente ed esclusivamente morale: “la moltitudine raccolta in una chiesa costituisce una comunità sotto i suoi capi (maestri, pastori d’anime), che amministrano soltanto in nome del suo Capo invisibile e sotto questo rapporto si chiamano servi della chiesa”, Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft, edizioni della Philosophische Bibliothek, p. 115; nella Antologia kantiana di P. Martinetti, Paravia 1931, p. 259.
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uno stesso traguardo di arrivo le varie confessioni religiose e contribuirà con esse a una loro pacifica intesa molto meglio che i litigi e le sottili discussioni con cui le relative teologie positive si confrontano, ciascuna arroccata dentro il proprio steccato interpretativo. La strada è lunga, tortuosa e insidiosa. Le superstizioni del tempo in cui si adorava come dio un albero o un animale o dal volo di un uccello si prevedeva l’andamento di una battaglia sono in buona parte scomparse, ma vi sono ancora oggi milioni di persone che credono all’oroscopo, ai pendagli miracolosi e alle sfere luminose dei maghi, e prosperano sette aberranti e spesso farneticanti. Troppo ingenuamente l’illuminismo moderno fondandosi su di una interpretazione altrettanto ingenua della ragione e della scienza moderna ha creduto di sbarazzarsi troppo facilmente e radicalmente di dimensioni costitutive della coscienza umana. E per quanto riguarda il fanatismo è passato il tempo in cui si tagliavano le teste di chi non credeva alla propria religione o si bruciavano nei roghi le streghe. Ma forme meno evidenti e più raffinate di oscurantismo e di proibizionismo sono e saranno sempre in opera. L’Essere infatti proprio per la sua trascendenza non potrà mai esserlo una coscienza finita, e quindi anche il pensiero che tenta di coglierlo e di vederlo non potrà in parte non contaminarlo. Ma è altrettanto certo che imprescindibile compito di ogni coscienza consapevole, insito nella sua stessa sostanza, è di cercarlo e di permettere che chiunque lo possa cercare in libertà per ridurre sempre più la distanza che la separa da Lui: la sua trascendenza è infatti solo un eccesso di immanenza (20).
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Capitolo secondo
L’ESSERE DELLA COSCIENZA MORALE
1. COSCIENZA CONSAPEVOLE E MORALITÀ
La moralità è un attributo della coscienza. Ma certamente non della coscienza “inconsapevole”, ossia della coscienza che non sa di essere coscienza, che non è autocoscienza come è la coscienza dei semplici animali. Il comportamento di un gatto o di un cane non è né morale né immorale, e neppure “amorale” se con questo termine si vuole indicare il comportamento di chi semplicemente non si cura dell’aspetto morale o immorale delle proprie azioni, o di azioni che in se stesse non hanno nessun riferimento a questi aspetti. Quando un leone insegue, raggiunge e divora l’antilope, o quando un’antilope madre custodisce e protegge l’antilope figlia, non si può parlare di moralità. Morale o immorale sono dunque qualità delle azioni che sono proprie della coscienza “consapevole”. Già da questa premessa emerge implicito nella coscienza morale il riferimento all’essere nella sua totalità. La consapevolezza infatti l’abbiamo identificata con l’autocoscienza ossia con la coscienza che tra i molti oggetti di cui è coscienza, vi è anche quel particolarissimo oggetto che è il soggetto di tutti gli altri oggetti, ossia la coscienza stessa. Ora la coscienza è la presenza nell’oggetto fisicamente presente degli oggetti fisicamente assenti per cui l’oggetto presente viene identificato, ossia viene riconosciuto nella sua distinzione da tutti gli oggetti che sono attualmente assenti, e ottiene così il suo significato. In definitiva la coscienza è la possibilità del riconoscimento di tutti gli oggetti assenti nell’oggetto fisicamente presente. Va sottolineato che si tratta proprio di tutti gli oggetti assenti, ma naturalmente di tutti gli oggetti che hanno la possibilità di essere riconosciuti da quella specie di viventi a cui appartiene il
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vivente in questione. Quando questa possibilità di riconoscimento di tutti gli oggetti appartenenti a questa totalità relativa diventa a sua volta riconosciuta, allora in questa coscienza alla seconda potenza non vi è alcun limite alla totalità di oggetti riconoscibili: in questa vengono contenute tutte quelle totalità relative1. È a questo punto, come si è già ripetutamente accennato, che si tocca l’essere che è comune a tutti gli enti da una parte: da parte degli oggetti; e che si tocca l’Essere che è comune a tutte le coscienze dall’altra: da parte dei soggetti. Poiché ogni livello superiore non elimina ma determina in sé i livelli ad esso inferiori, l’autocoscienza, ossia la coscienza consapevole si trova disposta a tre livelli diversi: 1) coscienza delle varie coscienze in generale, 2) coscienza della propria coscienza in particolare, 3) coscienza delle cose concrete che sono gli oggetti della propria coscienza particolare, ossia delle cose del mondo: degli alberi, dei sassi, delle tavole, degli aeroplani, dei libri. Ma ogni autocoscienza è limitata. Le cose da distinguere perché siano riconosciute non sono completamente distinguibili (13). Rimane in ognuna di esse una dimensione in cui non è possibile entrare: l’analisi che se ne può fare si ferma a una certa “soglia”, e anche le relazioni che intesse con le altre cose per collocarsi nel suo giusto posto sono una minima parte rispetto a quelle che effettivamente possiede. Di qui l’indeterminatezza in cui rimangono, ossia la materia che le costituisce, per quanto l’attività scientifica la penetri e la vada gradatamente riducendo (14, 15). Questo significa che la coscienza che se ne ha è pure limitata, e quindi limitata è la coscienza di questa coscienza, ossia l’autocoscienza. Nessuna autocoscienza è autotrasparente. Si tratta però di un limite particolare, di un limite che è lì per essere eliminato, o per lo meno per venire ridotto. È infatti la sostanza della coscienza stessa di essere la distinzione diversa tra le cose, ossia il loro riconoscimento, e poi anche in conseguenza e in proporzione il riconoscimento di se stessa. Tutte le cose, i loro aspetti, le loro qualità di cui non si ha coscienza agiscono nelle cose, negli aspetti, nelle qualità di cui si ha coscienza come loro costitutiva tendenza a completarsi, a diventare completamente se stessi. La coscienza del loro non-essere-del-tutto1 Si vedrà a suo tempo come questa coscienza consapevole è in concreto il riconoscimento dell’ambiente universale in cui sono contenuti tutti gli ambienti particolari delle specie viventi e quindi anche di tutti i singoli viventi.
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quello-che-sono è un loro costitutivo essenziale e quindi tendono di per se stessi ad essere quello che sono solo in parte. Tendono ad esserlo non per un’imposizione che viene da fuori, ma dal loro stesso essere coscienza e autocoscienza. Per sua definizione la coscienza è la possibilità di distinguere ossia di riconoscere tutte le cose e quindi anche se stessa. Sappiamo che il riconoscimento di una cosa qualunque equivale al possibile riconoscimento di tutte le altre cose. Ossia tutte le cose vengono riconosciute simultaneamente, vicendevolmente: deriva dallo stesso concetto di diversa distinzione e quindi di riconoscimento. Il riconoscimento esaustivo di una cosa qualunque sarebbe dunque insieme il riconoscimento esaustivo di tutte le altre cose, ossia dell’essere stesso delle cose il cui riconoscimento definitivo sarebbe allora l’Essere. Fino che quel riconoscimento non è esaustivo si ha solo un riconoscimento indeterminato dell’Essere. Siamo così arrivati a una conclusione importante. La coscienza consapevole è la coscienza che è se stessa solo se tende ad essere la coscienza di tutte le cose, e quindi di tutte le coscienze, e quindi dell’Essere nella sua definitiva totalità. Il principio sovrano della moralità, ossia del dover essere della coscienza consapevole è dunque la necessità implicita nel suo stesso essere, o addirittura identica al suo stesso essere, di essere se stessa, ossia di tendere alla sua completezza. È un dover essere, lo ripetiamo perché è importante, che s’identifica con l’essere stesso della coscienza consapevole, e quindi non è un’imposizione che viene dal di fuori. Non è precisamente neppure un dover essere : è l’essere della coscienza consapevole. Il che può esprimersi dicendo che la coscienza è morale se è autonoma, ossia se è la norma di se stessa, se la coscienza consapevole è consapevole. La coscienza consapevole è immorale nella misura in cui non è se stessa2. L’immediata obiezione che si presenta a questo punto è se in tale concezione non si ripeta quell’ “intellettualismo etico” che si è 2 Non riesco a vedere, in coloro che (come Kant, Fichte, e altri) hanno posto addirittura nella sostanza stessa dell’uomo la coscienza morale (“l’imperativo categorico”, il dovere incondizionato di superare il finito, il Non-Io, ecc.), la giustificazione rigorosa (razionale) di tale natura, di tale esigenza. Forse perché non hanno analizzato sufficientemente la natura delle cose, della coscienza delle cose, e dell’autocoscienza, nonostante le molte pagine dedicate a questi argomenti. La stessa caratteristica di “autonomia” attribuita con molta enfasi alla legge morale, senza quella giustificazione è soltanto posta, o addirittura imposta.
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spesso rimproverato a Socrate3. Per risolverla è necessario soffermarci ancora un momento su quel “dover essere” che si è detto implicito nell’“essere” della coscienza consapevole. Si è detto che la coscienza è tale solo in misura parziale. Ricordiamoci che il riconoscimento, ossia la presenza delle cose alla coscienza, il loro apparire alla coscienza, è dato dalla loro vicendevole distinzione, una distinzione che è però parziale perché un’enorme quantità di differenze sono più piccole dell’ampiezza della “soglia”, mentre la coscienza riesce a distinguere solo le differenze che la superano, e d’altra parte l’esistenza di queste differenze inavvertite sono assicurate dalla scienza, sono anzi l’oggetto della scienza. L’essere coscienti di una cosa s’identifica, come sappiamo, con la presenza potenziale delle cose da essa diverse nella presenza attuale della cosa stessa. Per esprimerci con termini classici presi dalla tradizione filosofica classica: “l’atto” della presenza di una cosa è dovuto alla “potenza” della presenza delle altre cose non attualmente presenti. Ma questa è evidentemente una potenza positiva, eminentemente attiva perché attualizza l’atto della presenza dell’oggetto. Questa potenzialità tuttavia, per quanto si è detto, è soltanto parziale perché è data dalle poche differenze che sono state riscontrate, o meglio che si è in grado di riscontrare, rispetto alle moltissime che rimangono inavvertite, ossia nascoste, sia pure esistendo. Accanto alla potenzialità attiva che attualmente agisce nel rendere presente ciò che si presenta vi è anche quest’altra potenzialità che all’opposto limita, riduce questa presenza, e la chiameremo quindi potenza passiva 4. 3 Cfr. Platone, Protagora, 331, 351-362. “Poiché c’è parso che la salvezza della nostra vita dipenda dalla retta scelta del piacere e del dolore, del più e del meno, del maggiore e del minore, del più lontano e del più vicino, non vi pare in primo luogo che consista nel misurare, essendo una ricerca di eccedenza e di difetto e d’uguaglianza reciproca? – È necessario. E poiché è misuratrice, è per necessità arte e scienza [...] voi stessi avete confessato che quelli che peccano nella scelta dei piaceri e dei dolori – vale a dire dei beni e dei mali – peccano per difetto di scienza e non solo di scienza, ma anche, come avete ammesso or ora, d’una scienza misuratrice. Ora un’azione in cui si pecca per difetto di scienza, è un’azione – lo sapete anche voi – che si fa per ignoranza” (357). 4 Non è difficile riscontrare che osservata da un altro punto di vista questa potenzialità passiva è la materia di cui è composta ogni cosa (cfr. L’enigma..., cit., cap. 17), e inoltre la potenza attiva e la potenza passiva sono le cause rispettivamente del “nascondimento rivelante” e del “nascondimento occultante”, di cui abbiamo a lungo parlato nello stesso libro (cap. 15).
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Non si deve pensare che la potenza passiva in quanto tale non si riveli nell’esperienza ordinaria, e si riveli soltanto nell’esperienza scientifica che è volta a ridurla, sia pure indirettamente, come si vedrà a suo tempo. Per la relazione che esiste tra le varie cose e tra le varie dimensioni, aspetti, qualità delle cose, relazione che è vicendevolmente costitutiva, in ciò che si rivela direttamente agisce anche ciò che si rivela soltanto indirettamente, rimanendo oggetto diretto e specifico soltanto della ricerca e della conoscenza scientifica. La scienza lo prende in diretta considerazione ma agisce nella vita ordinaria con la stessa forza ed evidenza di ciò che si rivela. Ciò che è rimasto fuori dell’attività sintetica formatrice delle cose e delle coscienze delle cose agisce infatti nelle cose stesse e nelle coscienze: nelle cose è la loro ricchissima materia, nei viventi è il loro ambiente esterno, e quindi anche, nell’estrema vicinanza di questo, il loro organismo materiale, intendendo con questa espressione quella dimensione dell’organismo che è diversa dalla sua organica struttura e attività, e che quindi la limita e la impedisce, e infine nella coscienza vera e propria quella sua dimensione che, con termine improprio è stato chiamato “l’inconscio”, così a lungo e in dettaglio studiata dalla cosiddetta “psicologia del profondo”. La digressione è stata molto ampia perché tocca un argomento importante che troverà molte applicazioni nel seguito del nostro discorso. Per quanto riguarda il tema particolare che ne ha dato l’occasione, ossia l’ “intellettualismo etico”, risulta da quanto si è detto che quanto si presenta come manifesto alla coscienza consapevole, e che possiamo chiamare “l’intelligibile”, è ben poca cosa rispetto a quanto in essa agisce senza che se ne abbia chiara coscienza. È in certo senso proprio questo aspetto che agisce in essa per entrare nella chiarezza di ciò che è manifesto per completarlo. È evidente tuttavia che completare qualcosa non significa ridurlo e tanto meno distruggerlo, ma tenerlo bene presente e conservarlo prima di completarlo.
2. IL FONDAMENTO DELLA MORALITÀ: LA LIBERA VOLONTÀ
La coscienza di una cosa che si è mostrata come il farsi presente, sia pure in misura parziale, della cosa, ossia come il suo parziale
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rivelarsi, è ben diverso dal pensiero di quella cosa. Questo sorge infatti soltanto quando quella presenza si rivela come parziale, e quindi soltanto come un aspetto del suo vero completo essere dal quale quindi si distingue e viene astratto. La presenza totale, del tutto scoperta, della cosa (il suo essere), e quindi anche la perfetta coscienza che se ne può avere, diventano allora insieme l’energia che spinge avanti insieme ambedue a realizzarsi. Questa loro realizzazione è il traguardo, il fine a cui costitutivamente tendono, un fine che è immanente al loro stesso essere. L’energia che così nasce dalla potenzialità attiva costitutiva della coscienza accompagnata dalla consapevolezza della sua interiore incompletezza nei riguardi della totalità del suo essere, che è tuttavia a lei stessa immanente e di lei stessa costitutiva, è quella volontà che dalla filosofia tradizionale è stata interpretata come ‘facoltà dell’anima’. Questa concezione delle “facoltà” dell’anima dipendeva dalla concezione dell’anima come di una sostanza autonoma dotata di qualità analoghe a quelle che scaturiscono dalle sostanze materiali. Quando questa concezione sia liberata dalle sue componenti mitologiche si scoprirà che la volontà è anch’essa una espressione della situazione globale in cui si trova l’essere di ogni coscienza consapevole nel modo che si è detto. Anche l’essere vivente che non è consapevole, come quello dei semplici animali, in cui non è presente la coscienza del suo riferimento alla sua completezza, ossia al suo essere totale, e quindi la distinzione del suo essere dall’immagine o idea che se ne può avere, è presente questo riferimento stesso, solo che allora non è appunto consapevole, ossia è soltanto ciò che nella terminologia tradizionale è chiamato “istinto”. La volontà che consegue dalla struttura stessa della coscienza consapevole è dunque già di per se stessa orientata al “dover essere” in cui la tradizione ha visto l’oggetto della moralità. È un orientamento della coscienza verso la sua realizzazione che è per ciò stesso superamento e insieme inveramento di ogni atto volto verso una cosa, qualunque essa sia, per quanto preziosa e costosa essa sia, perché una cosa è tale, è cosa, per il suo essere disvelata dalla coscienza, per essere soltanto un momento della coscienza che la rivela, sia pure tenuto separato da quelli orientati verso le altre cose. E perfino ogni altra coscienza, compresa quella consapevole, a causa del nascondimento della totalità dell’essere che la
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costituisce, non può mai corrispondere pienamente all’esigenza fondamentale della coscienza, che è invece la totalità del suo essere cosciente. La volontà della coscienza consapevole non è dunque di per sé condizionata né da nessuna cosa né da nessun’altra coscienza nel suo orientamento alla totalità dell’essere e della coscienza dell’essere che è costitutivo del suo essere stesso e del dinamismo da cui è animata. In altre parole, la libertà della volontà di una coscienza consapevole consegue necessariamente dal suo stesso essere una coscienza consapevole. Non si tratta dunque di un “postulato” della ragione pratica, come pensava Kant, ma una conseguenza dell’essere di ogni coscienza consapevole, di cui la ragione è soltanto una componente. È una libertà che ovviamente è in buona parte solo potenzialmente tale, perché il nascondimento della totalità del suo essere che la spinge a disvelarlo rimane inesorabilmente in buona parte tale, ed è per questo motivo che acquista il significato di “dover-essere” condannato a non essere mai completamente trasformato in “essere”. L’imperativo costitutivo della coscienza consapevole stessa: “sii te stessa”, che ne definisce il carattere morale si identifica allora con quest’altro: “cerca sempre la tua libertà”. Riduci il nascondimento costitutivo delle cose della tua esperienza, e quindi quello della tua coscienza e consapevolezza e quindi quella delle altre coscienze puntando così alla tua libertà che è insieme la libertà delle altre coscienze. È una struttura che s’identifica con la sostanza stessa della coscienza finita consapevole, qualunque essa sia e dovunque essa sia, e pertanto si configura come il fondamento ultimo di tutti i suoi diritti. La coscienza consapevole s’identifica con il diritto, oltre che con il dovere, della propria realizzazione5. Questo principio fondamentale, sia pure esprimibile in modi diversi, è molto evidente, e quindi molto semplice e chiaro, ma non lo è la sua applicazione concreta nelle varie complicatissime situazioni in cui la semplice struttura fondamentale della coscienza consapevole viene necessariamente a trovarsi. Da quanto siamo andati dicendo tale struttura si articola in quattro livelli costitutivi. 1) Le cose nella loro presenza immediata alla coscienza, ossia nella loro individualità. 2 ) La semplice coscienza di queste cose, comu5 Cfr. la mia comunicazione Il “dinamico” fondamento dei diritti dell’uomo, negli Atti del 47° Convegno filosofico di Gallarate (1992).
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ne anche agli animali. È la coscienza inconsapevole, ma in grado di rendere presenti le cose nella loro individualità. Anche i semplici animali si è visto, riconoscono le cose, le sanno distinguere. Questo avviene, come si vedrà in dettaglio a suo tempo, attraverso la percezione delle diverse differenze degli stimoli che vengono dalle cose, ossia attraverso le operazioni interne al corpo organizzato del vivente. 3) La coscienza di questa semplice coscienza immediata, la coscienza dunque alla seconda potenza, ossia l’autocoscienza. 4) La coscienza delle altre coscienze e autocoscienze, che è quindi coscienza dell’unità in cui esse, nonostante la loro diversità, comunicano, e quindi anche in conseguenza la coscienza della propria particolare coscienza6. I quattro livelli sono intimamente connessi, si costituiscono vicendevolmente, e sono qui di da considerare come diversi aspetti di una stessa realtà: il manifestarsi delle cose una dopo l’altra nella loro singolarità, delle semplici coscienze di esse, delle autocoscienze in corrispondenza alla propria, è possibile solo nella coscienza dell’unità in cui tutte queste molteplicità vengono a trovarsi. Ma è una unità, e quindi una coscienza dell’unità, inevitabilmente confusa perché ogni livello di quella coscienza è indeterminato, finito, come è risultato dalle analisi precedenti. Proprio l’eliminazione di questa confusione, ossia dell’indeterminatezza in cui ogni livello della coscienza e quindi la coscienza stessa viene a trovarsi s’identifica con la maturazione e addirittura con la realizzazione della coscienza stessa nelle sue varie componenti, comprese le cose, e quindi, in definitiva, con la sua moralità. Il dover essere che deriva da questa struttura essenziale della coscienza finita si articola quindi nei quattro obblighi morali fondamentali corrispondenti ai suoi quattro livelli. Si possono così riassumere. 1) Rendere sempre più abitabile il mondo delle cose. 2) Rendere sempre più sana e funzionante la vita fisica. 3) Rendere sempre più illuminata nella verità e coerente nel comportamento la propria coscienza. 4) Rendere sempre più aperta alla comprensione e comunicazione con tutte le autocoscienze la propria, e quindi renderla sempre più consapevole dell’unità totale della coscienza nei suoi vari livelli e aspetti. 6 Quest’ultima è ciò che nella filosofia moderna postkantiana è chiamata coscienza o soggetto “empirico”, in contrapposizione a quello “trascendentale” dal quale ovviamente riceve la possibilità del proprio riconoscimento.
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Vi è ovviamente un movimento comune in questo processo di realizzazione del dover essere che s’identifica, come si è visto, con la realizzazione dell’essere stesso. È il momento di apertura degli elementi sia all’interno di questi livelli che dei livelli stessi tra di loro. È uscendo da sé infatti, come si è visto, che ogni cosa diventa se stessa, è cioè creandosi il proprio posto con la sua diversa differenza da tutte le altre cose senza confonderle tra di loro e senza confondersi con esse che si realizza (3, 11). È un movimento di apertura che nello stesso tempo toglie ogni cosa dal suo isolamento, la unisce a tutte le altre in una unità fatta di distinzioni, e realizza in tal modo la sua vera identità opposta alla falsa identità consistente nel suo isolamento e nella sua contrapposizione a tutte le altre. Lo stesso movimento realizza nello stesso tempo la coscienza, e quindi anche, anzi soprattutto l’autocoscienza dalla quale dipende la coscienza delle cose e la sostanza delle cose, e quindi la loro stessa realizzazione. Si tratta dunque di un movimento di apertura universale, intrinseco a ogni cosa e a ogni coscienza, opposto a quello che si può chiamare “egoismo ontologico” volto a tenere invece “separate”, ossia fuori di ogni cosciente legame le cose, le coscienze e l’insieme delle coscienze, lacerando così il loro essere più interiore da cui dipende la loro possibilità di essere, e che quindi è da esse ineliminabile. È da questo egoismo ontologico, ossia da questa lacerazione interna che si origina “l’inquietudine della coscienza” ben diversa dalla “coscienza infelice” interpretata da Hegel come contrapposizione della propria coscienza trascendentale, intersoggettiva, universale, falsamente sentita come trascendente eterna immutabile fuor di sé, alla propria coscienza empirica, singolare, mutabile, considerata invece come la sola coscienza autenticamente propria7. Il superamento di tale “inquietudine” non è la utopica coscienza dell’identità della coscienza trascendentale e del suo slancio verso la trascendenza con quella empirica: traguardo che non è mai raggiungibile anche perché contraddittorio, ma la coscienza della possibilità e dell’effettiva uscita da ogni sua situazione di chiusura, 7 Prima di Hegel, Fichte aveva contrapposto nell’Io assoluto un Io empirico a un Non-Io, e Schelling all’interno dell’Assoluto stesso “la frattura”, “la caduta”. Heidegger poi “il niente” all’interno dell’Essere. In forma analoga, su di un piano strettamente psicologico anziché trascendentale, Freud ha contrapposto “l’inconscio” all’“Io” e al “Super-Io”.
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verso una sempre maggiore realizzazione del proprio essere. La parte di essere esclusa dalla sintesi che ha portato alla formazione delle cose e della finita coscienza che se ne ha urge verso il loro completamento quando si rivelano incomplete manifestazioni della totalità del proprio essere assieme alla possibilità di avvicinarla indefinitamente8. Vi sono segni inconfondibili che accompagnano questo processo di apertura e di libertà in cui sostanzialmente consiste la moralità: il sentimento della bellezza della natura, il piacere del funzionamento armonico e coerente del proprio corpo, la comunicazione amorosa della propria anima con le altre coscienze, la gioia di sentirsi nell’Essere, di conquistarlo sempre di più e di poterlo esprimere.
3. LE QUATTRO FONDAMENTALI DISTORSIONI DELLA COSCIENZA MORALE
Qualora le posizioni e le relative funzioni reciproche di queste varie componenti della coscienza consapevole siano sconvolte ne segue lo sconvolgimento della coscienza stessa che per definizione ne è il coordinamento costitutivo. Si verifica allora qualcosa di analogo ai paralogismi logici a cui può andare incontro la ragione, ossia i ragionamenti falsi o alle illusioni che causano automaticamente se abituali il deterioramento o il fallimento della ragione stessa. Nella più profonda sostanza della coscienza consapevole gli spostamenti e le inversioni delle sue essenziali componenti sono veri “paralogismi morali’ che intaccano questa sostanza stessa. Non si tratta dunque della eliminazione di una o più dimensioni o livelli costitutivi della coscienza consapevole, ma dello sconvolgimento dei loro posti e quindi delle loro funzioni: l’una infatti non può stare senza le altre, non le cose senza la loro semplice coscienza, non la semplice coscienza senza le cose, non l’autocoscienza senza la 8
Nel celebre apologo di Lessing la frase: “Padre eterno tieni pure per te la sfera della totale verità e lascia a me quella della sua ricerca” ha questo significato: “hai sempre la possibilità di risolvere le difficoltà che ti opprimono nell’apertura che sta sempre davanti a te”. Una possibilità di soluzione che non si identifica con l’assenza di ogni problema, come aveva invece supposto tra gli altri, Wittgenstein, e dietro di lui il neopositivismo, soprattutto di Carnap.
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semplice coscienza e le cose, non l’autocoscienza particolare, empirica senza l’intersoggettiva comunicazione con le altre autocoscienze. I vari modi come questa struttura, che è nello stesso tempo di essere e di dover essere, ossia di carattere insieme ontologico e deontologico può essere sconvolta, e quindi i vari modi di possibile immoralità sono ovviamente innumerevoli, ma possono essere in una prima generale sistemazione, che a noi qui solo interessa, enucleati in quattro tipi fondamentali in corrispondenza ai modi fondamentali in cui l’attività dell’energia propria della coscienza può disarticolarsi fino a impedire l’armonico globale unitario funzionamento delle sue quattro essenziali componenti. Questo succede sostanzialmente in due direzioni opposte. 1) Quando questi livelli si degradano dalla loro originaria destinazione, e si cade allora nell’immoralità della corruzione 9. 2) Quando all’opposto l’uno prevarica in modo da invadere quelli che non sono di sua competenza, e si cade allora nell’immoralità della violenza10. A sua volta la corruzione si esprime in due ulteriori direzioni principali: l’avidità dei beni del primo livello, fino a sottoporle e a condizionarle ogni altro tipo di interesse; e, sul piano collettivo sociale, fino ad arrivare alla conseguente devastazione dell’ambiente in cui quei beni trovano la loro naturale collocazione. Una specie dunque di materialismo pratico. L’altra direzione: l’esagerata avidità dei piaceri del corpo fino a comprometterne la salute. Una specie dunque di sensualismo in tutte le sue varie forme e malattie non soltanto fisiche, ma anche, e addirittura soprattutto psicologiche, mentali, e, sul piano sociale, la conseguente lacerazione del suo tessuto, soprattutto familiare. Una situazione analoga si verifica per la violenza. Oltre la violenza ordinaria, sia fisica e biologica che psicologica e morale, vi è una violenza estrema, che è il presupposto e spesso la causa diretta di ogni altro tipo di violenza, ed è l’abolizione, direttamente perseguita o tacitamente rimossa, della ricerca, del sentimento e della persuasione dell’unità in cui tutti i livelli della coscienza trovano la 9 “Corruzione” significa una “rottura” all’interno delle componenti (“con”) di un tutto, come quando un vaso si rompe nella sua composizione e diventa un mucchio di cocci. 10 Una forza (“vis”) che “viola”, che distrugge qualcosa che dovrebbe essere conservato.
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loro autentica collocazione e quindi la loro autentica verità. Diventa allora condanna e lotta sul piano riflesso della stessa globale costituzione essenziale della coscienza che abbiamo chiamato “consapevolezza”. Rimozione, condanna, lotta che si può quindi indicare con il nome di nichilismo : un nichilismo che naturalmente ha sempre avuto una sua tacita presenza in molte coscienze individuali, ma che si è clamorosamente manifestato nel nostro tempo moderno in grandi settori della coscienza universale intersoggettiva sul piano politico, e prima ancora alla sua radice, su quello culturale, in particolare filosofico11. Non si tratta com’è ovvio di precise distinzioni e divisioni, perché le loro sfumature sono innumerevoli e trapassano gradualmente le une nelle altre. È come nell’arcobaleno in cui ogni colore passa per gradazioni infinitesime in un altro, e solo a un certo intervallo l’uno viene chiamato con un termine diverso e vengono così distinti i sette colori fondamentali. Ci si dovrà limitare qui a un rapido accenno per ciascuno di questi mali morali fondamentali che rendono malata, disarticolata e lacerata la coscienza consapevole nella sua organica struttura, perché non è compito di questo lavoro comporre un trattato ma accennare a grandi linee ai suoi fondamenti. La produzione su larga misura e la distribuzione alle grandi masse di un cumulo enorme di beni di consumo resi possibili da una industria sempre più poderosa, articolata e raffinata, a sua volta derivata da una scienza moderna che è andata sempre più penetrando ed esplorando le segrete strutture della materia in cui sono nascoste e custodite energie e valori materiali talmente ingenti da ritenerli inesauribili, può facilmente e forse fatalmente indurre a dimenticare e quindi a trascurare le altre dimensioni della coscienza. Soprattutto nelle prime fasi di questo sviluppo (qualche secolo sul piano sociale, qualche decina di anni sul piano individuale), che seguono in generale a condizioni individuali, familiari e sociali di miseria, di stenti, di fatiche, di ignoranza dei segreti e delle risorse della natura, questa corsa al benessere materiale fa perdere in grande misura la coscienza dei limiti di questi valori e quindi la percezione stessa della complessiva struttura essenziale 11 “L’oblio dell’Essere” denunciato da Heidegger e le molte profezie sul “tramonto dell’Occidente” sono tra le testimonianze più note di questa “annientante” violenza.
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della coscienza. Le “cose” ingigantiscono allora il loro valore fino a inghiottire la coscienza; e per il danaro, che è la possibilità di acquistarle, si arriva a saccheggiare all’impazzata la natura dal cui grembo vengono generate, almeno finché non mostra ancora sintomi di esaurimento talmente gravi da impressionare chi è posseduto dalla febbre del suo sfruttamento. La vita, i sentimenti, l’ordine sociale passano allora in secondo ordine fino ad arrivare, per impadronirsi dei beni di consumo, ad ammazzare i propri genitori e i propri figli, a rapire per ricattare, a organizzare il crimine per renderlo più efficace nel produrre ricchezza, e, legandolo al potere politico e addirittura a quello della magistratura, a renderlo invulnerabile e in continuo inarrestabile espansione e progresso12. Ma la natura non è inesauribile in quanto abitazione dell’uomo. La sua parte nascosta alla penetrazione della conoscenza e dell’attività non soltanto è una componente essenziale del suo essere, ma addirittura per molti versi il fondamento della sua parte palese, ossia della sua parte conoscibile e utilizzabile. I beni di consumo si consumano senza potersi riprodurre quando si inquinano o si estinguono le sorgenti da cui derivano, e l’accumulo dei rifiuti va aumentando sempre più della possibilità di riciclarli. La società fondata sul primato assoluto dei beni di consumo e quelli sull’avidità, sull’usurpazione e sulla criminalità è per ciò stesso abbandonata alla vendetta, alla lotta all’interno delle sue componenti: delle famiglie, delle popolazioni, delle classi sociali. La legge istituita unicamente per difendere i diritti dei più deboli perde sempre più di vigore e conserva solo il valore di paravento allo strapotere dell’ingiustizia. Anche nelle forme più gravi di materialismo individuale e sociale non può tuttavia mancare la componente della consapevolezza che lega la coscienza all’essere stesso, anzi ne gioca il ruolo più importante anche se invertito. Distorta dall’avidità dei beni di consumo che, in quanto materiali, portano con sé il marchio della finitezza, conferisce ad essi l’insaziabilità che li porta alla contraddizione con se stessi e quindi con la coscienza stessa. L’infinità qualitativa intrinseca alla coscienza consapevole (il suo aggancio all’essere) si trasforma in una pseudoinfinità quantitativa che non 12 La malattia è talmente diffusa a livello mondiale che sembra quasi diventata la norma dell’organismo umano individuale e sociale, così da rendere superfluo soffermarsi anche sulle sue manifestazioni più gravi.
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può evitare di rivelare sempre più con l’andare del tempo la sua radicale inautenticità. Un destino analogo trascina con sé l’eccesso dell’interesse per le funzioni organiche e l’eccesso della loro attività. La struttura organica è ben diversa da quella di una cosa inorganica perché mentre questa è soltanto un momento dell’attività della semplice coscienza nel suo aspetto palese, e per il resto rimane ad essa estranea per diventare oggetto di ricerca per la riflessione scientifica, l’attività organica è direttamente non soltanto sempre parallela all’attività cosciente, ma anzi ad essa coordinata come sua condizione che la fa per un verso dipendente per un altro verso condizionante. Tutte le attività di una coscienza finita sono attività psicosomatiche anche se il rapporto può variare indefinitamente nella prevalenza dell’uno rispetto all’altro delle due componenti o viceversa. Il corpo vivente è la struttura organizzata della parte dell’essere totale che sfugge alla coscienza ma che la segue come la sua parte nascosta, come si vedrà più diffusamente a suo tempo. Il corpo organizzato porta una struttura e un’attività che è come l’immagine della struttura e dell’attività della coscienza stessa. Una mano mentre nel suo palmo accoglie un sasso mantiene la capacità di penetrare con le sue dita nella chioma dei capelli, e il suo dorso la capacità di sentire la pioggia che cade dall’alto, e mille altre possibilità inerenti al suo essere umano. E la coscienza di una cosa, di una rosa, per esempio, come sappiamo, è la possibilità, proprio mentre la si riconosce distinguendola dalle altre cose: dal ramo, dalla fontana, dal mare..., di riconoscere il ramo, la fontana, il mare distinguendole dalla rosa oltre che dalle altre cose. L’analogia con la mano è evidente: questa è l’immagine visibile di quella. A sua volta tuttavia l’attività organica dipende dalle proprietà cosali delle sostanze materiali di cui è costituito l’organismo. La struttura e l’energia fisico-chimica dell’organismo viene adoperata dall’organismo per il disimpegno vario delle sue funzioni parallele a quelle della coscienza. Da tale coordinamento dei tre livelli di attività nasce il piacere del composto stesso, il quale con l’indebolimento di una di esse, dalla quale continua pur sempre a rimanere costituito, cade nella tensione inappagata della propria identità, ossia del proprio essere stesso. La vicendevole complementare attività di questi suoi aspetti è la conservazione del suo essere stesso, l’eliminazione della possi-
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bilità del suo annientamento. L’energia organica operante in un preciso momento dell’attività, deve conservare la sua intrinseca possibilità di operare nei momenti successivi, perché solo così la coscienza delle cose e l’immanente sua attività si realizza e si sviluppa in continuazione. Se pertanto in quel momento o per un’abitudine acquisita viene eccessivamente stimolata così da sfruttare ed esaurire la sua riserva a disposizione dell’attività futura e del suo incremento, il sistema complessivo degenera, si indebolisce, cade nell’impossibilità del disimpegno ordinario dell’attività stessa, e tanto più di quello delle attività superiori a cui è ordinata. Casi evidenti di tali fallimentari situazioni sono sotto tutti gli occhi: l’alcolismo per esempio e la tossicodipendenza, che sono tuttavia tenuti a freno dallo scandaloso drammatico esito a cui espongono le loro vittime e dalla minaccia della distruzione della vita stessa. Ma da sempre l’attività organica che è più sottoposta al pericolo dell’eccesso e del conseguente indebolimento, e quindi della degenerazione di tutto il complesso sistema è quella direttamente orientata alla riproduzione del sistema stesso nel suo versante organico e quindi indirettamente poi nella sua totalità. Questo sia perché il fatto stesso della riproduzione è intrinsecamente connesso con il piacere del singolo organismo, come a suo tempo si spiegherà, sia perché entra qui in gioco la conservazione della parte più intima costitutiva dell’individuo, ossia la conservazione della specie a cui l’individuo appartiene, per cui il piacere viene elevato alla seconda potenza, dal momento che alla seconda potenza si eleva l’attività volta alla propria continuazione. Se il piacere connesso a tale attività compromette la funzione stessa da cui deriva l’attività stessa, il sistema entra in contraddizione con se stesso e degenera. Il termine stesso di “corruzione” che si riserva a tali degenerazioni, ossia a tali forme di immoralità, indica la vicinanza alla coscienza di tale centro di disordine: la coscienza viene “rotta” alla base, “con” la quale quindi è condannata alla rovina o a una insanabile depressione. Quando una coscienza colpisce un’altra coscienza, o al limite se stessa menomandone i diritti o addirittura tentando di distruggerla si entra nel terzo vastissimo ambito di immoralità: quello della violenza. Un tempo si pensava che le cose stesse prese nella loro fisicità avessero una propria natura e quindi una propria inclinazione
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“naturale”, agendo contro la quale si sarebbero commessi atti di violenza. Si pensava che le cose risiedessero spontaneamente nei loro “luoghi naturali”, verso i quali quindi tendono qualora ne siano allontanate: l’acqua verso il basso, la terra ancora più in basso; l’aria verso l’alto, il fuoco ancora più in alto. Galileo ha spiegato che si tratta solo di diversi gradi di densità di una stessa materia la cui scomposizione nei suddetti quattro “luoghi” tradizionali è solo una convenzione e quindi anche il lancio di un sasso verso l’alto si deve ritenere tanto “naturale” quanto il suo spontaneo movimento verso il basso. Anche se oggi l’ecologia ha insistito nel sottolineare che l’industria moderna e la tecnica su cui si fonda usano violenza contro la natura, in realtà questa è violenza contro l’ambiente degli animali e in particolare dell’uomo. Per le cose è indifferente che siano composte, scomposte e ricomposte, che da esse se ne ricavino altre attraverso reazioni chimiche, o comunque attraverso azioni fisiche qualunque. Rientra anzi nella loro natura che così siano tra di loro relazionate e trasformate. La vera violenza che oggi l’inquinamento progressivo e la conseguente disgregazione dell’ambiente vanno perpetrando è una violenza all’abitazione dell’uomo e degli animali, alla loro vita, alla loro possibilità di conservarsi e procrearsi. È dunque anche questa una violenza contro la coscienza, che abbiamo riconosciuto come la sostanza più intima di ogni essere vivente. La violenza assume naturalmente un aspetto più grave quando, invece che contro l’abitazione esterna, fisica dell’organismo, è inferta direttamente contro l’organismo esterno stesso della coscienza, o addirittura contro la coscienza stessa. I casi della violenza carnale e della tortura contro un vivente consapevole sono i più comuni e i più noti di violenza contro l’organismo esteriore della coscienza, ma sono soltanto i più impressionanti e deleteri perché sono inferti ormai contro la coscienza consapevole. Anche la violenza contro l’organismo della semplice coscienza degli animali rientra però già in questo tipo di disordine essenziale. La stessa vivisezione a scopo di ricerca scientifica pone qui un grave problema morale. La conoscenza delle strutture nascoste dell’organismo e delle sue malformazioni per poterle debellare quando dovessero intaccare l’organismo esteriore di una coscienza consapevole è certo una ragione che milita per la legittimità di questa violenza, ma indubbiamente anche se non si viola
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in tal caso una coscienza consapevole, si distrugge la precisa percezione dell’esistenza, ossia l’istinto della propria conservazione, che è costitutiva di ogni vita, il che è già fondamentalmente grave. Quell’organismo è fatto per una coscienza effettiva, ora questo vale certamente più di una particolare, parziale conoscenza di una coscienza consapevole. Ma questo dubbio dovrebbe immediatamente scomparire quando la violenza viene inferta all’organismo esteriore di una coscienza consapevole per soddisfare un proprio istinto sessuale, ovviamente non ordinato allora alla procreazione responsabile, o peggio ancora per eliminare concorrenti o impedimenti nel campo degli affari, per estorcere segreti riservati, o, nel più orribile dei casi, per distruggere proprio una coscienza consapevole perché le sue convinzioni non coincidono con le proprie o con quelle del gruppo a cui si appartiene. Il sinistro bagliore dei roghi che si sono accesi nei secoli continuerà sempre a balenare attraverso le tenebre della storia umana, anche se l’orrore che ormai desta non riuscirà mai a distruggere completamente i rigurgiti della barbarie che sempre si annida nel cuore dell’uomo. L’unico rimedio possibile consiste nella persuasione che una coscienza consapevole, ossia ancorata all’Essere, vale infinitamente più delle idee che dello stesso Essere possono albergare nella mente dell’uomo, anche se queste derivano da tradizioni che durano da millenni, o sono custodite da personaggi rivestiti della più alta autorità. L’assenza di questa persuasione può forse in parte giustificare la crudeltà di alcuni simili comportamenti, secondo quanto è stato dichiarato dalla più celebre delle vittime di questa violenza: “non sanno quello che fanno”, ma è difficile credere che il fanatismo prodotto da simili idee abbia potuto rimuovere la coscienza di questo radicale crimine inferto alla sostanza dell’essere fino a rendere talvolta perfino arroganti e orgogliosi quei personaggi nell’esercizio della loro crudeltà.
4. LA VIOLENZA DEL NICHILISMO
Vi è infine, abbiamo detto, una violenza che può essere ancora più raffinata e insieme più potente di questa che distrugge i corpi in cui albergano le coscienze consapevoli, ed è la persecuzione
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volta direttamente alla coscienza stessa, pur nel rispetto dei rispettivi corpi. Il fatto di evitare la tortura fisica e l’uccisione per non creare dei martiri non diminuisce questa disgustosa immoralità, ma anzi l’accresce perché alla violenza divenuta più raffinata si aggiunge un’altrettanto raffinata ipocrisia. La perdita dell’interesse per la totalità dell’essere l’abbiamo chiamata “incoscienza”. Più precisamente è la perdita della “coscienza consapevole”. Ora la “coscienza consapevole”, ossia la coscienza nella più pregnante accezione del termine, è caratterizzata, come si è visto a suo tempo (cap. 1), dall’indeterminata presenza costitutiva in essa dell’Essere, del quale pertanto può avere un’altrettanta indeterminata conoscenza e una conseguente capacità di parlarne, come stiamo facendo anche noi in questo momento. È in questo senso preciso che “l’incoscienza”, come l’abbiamo chiamata, indica la perdita dell’Essere13. Questa “incoscienza”, ossia questa perdita dell’Essere può ovviamente avvenire a due livelli molto diversi. Vi è l’incoscienza consistente nell’interesse ossessivo ed esclusivo per il possesso delle cose del primo livello della coscienza: quel “materialismo pratico” di cui si è parlato come primo male radicale. Ha un carattere eminentemente passivo. Ma vi è inoltre una “incoscienza” ben più raffinata e profonda, derivante dall’interesse vissuto e proclamato per le strutture che si instaurano nelle varie attività della coscienza finita in quanto tale: politica, scientifica, filosofico-settoriale, sociale, e così via. È più “raffinata e profonda” ed estremamente attiva, perché porta con sé la pretesa di possedere in proprio la struttura dell’Essere, e quindi la positiva esclusione dell’autentico Essere. Si è infatti indotti a pensare che, poiché queste strutture e relative attività sono proprie della coscienza consapevole in cui è intrinseco il riferimento alla totalità intensiva, non cumulativa dell’Essere (questo appunto è il significato di coscienza “consapevole”), è assurdo che l’interesse esclusivo per le svariate strutture costitutive dell’intersoggettività delle coscienze porti all’incoscienza come è stata definita ossia porti alla perdita dell’interesse per la totalità non cumulativa dell’essere, ossia dell’Essere. Eppure siamo davanti a un 13
Più propriamente quindi si sarebbe potuto chiamarla “inconsapevolezza”, con termine quindi complicato, il cui senso però non va perduto nel termine più semplice di “incoscienza” che non è possibile del resto riferire alla “semplice” coscienza degli animali “inconsapevoli”.
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dato di fatto ormai evidente, anche se si è andato talmente diffondendo con il diffondersi della politica, della scienza, della filosofia settoriale, della sociologia, e così via, da non poter dubitare ormai della sua massiccia e preoccupante presenza. Ma si tratta di un assurdo soltanto apparente perché quest’ “interesse esclusivo”, da cui deriva l’incoscienza, è basato su di un pregiudizio, che tenteremo di spiegare. La scienza moderna iniziata con Galilei e Newton ha scoperto una nuova dimensione della realtà, pressoché totalmente sconosciuta nei secoli precedenti: aldilà dell’esperienza ordinaria è nascosta una possibilità di esperienza inattingibile con i mezzi forniti dall’esperienza ordinaria, ossia in definitiva dai sensi, ma solo con metodi e strumenti ad essa ignoti. Inebriata di questa scoperta che praticamente e teoricamente l’ha fatta nascere e sviluppare, ha finito poco alla volta per considerare questa nuova dimensione per l’autentica vera realtà, senza accorgersi che essa poteva avere senso solo se collocata nell’ambito di tutta la realtà di cui era soltanto una dimensione indiretta, secondaria, derivante dalla prima. Il fatto di essere, con il suo microcosmo e ultramacrocosmo che è riuscita in parte a penetrare e ad esplorare, posta “aldilà” dell’esperienza ordinaria basata sui dati di senso, voleva dire che era soltanto l’appendice di una più complessa realtà che ne costituiva il fondamento e che ne dava il significato. L’esclusione di questo fondamento e di questo significato del particolare settore della realtà scoperto dal pensiero e dall’attività scientifica voleva allora dire l’esclusione della dimensione “metafisica” di questo ristretto settore, e quindi l’esclusione del proprio fondamento e del proprio significato. “L’aldilà fisico” diventava una minaccia di morte per “l’aldilà metafisico”. Questa esclusione ha costituito il programma di buona parte del pensiero filosofico moderno, ossia nato dopo la nascita della scienza moderna. È un fenomenismo e immanentismo che trova la sua giustificazione nel fatto, anch’esso molto evidente, che il fondamento e il significato della realtà fenomenica avevano preteso nel passato di essere il contenuto di questa realtà e quindi di dettarne i principi, le leggi e i metodi. Liberare la realtà fenomenica, apparente, da questa intrusione era diventato quindi il presupposto fondamentale perché questa realtà potesse allargarsi e approfondirsi, ossia diventare sempre più se stessa. La realtà fenomenica ha
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così finito per ingoiare il suo fondamento e il suo significato, ma per ciò stesso ha perso il suo fondamento e il suo significato. Equivale a dire che tutto è diventato solo apparenza senza consistenza e quindi in definitiva “niente”: questo cammino non poteva non sfociare nel nichilismo: un nichilismo basato su di un pregiudizio. È solo in questo senso che la negazione delle vere dimensioni metafisiche della realtà fenomenica è “incoscienza”. Non certo in quanto rifiuta l’ingiustificata intrusione di queste dimensioni nella realtà fenomenica, perché anzi questo rifiuto giustifica in buona parte l’incoscienza e condanna la falsa metafisica. La liberazione dalla falsa metafisica e il pregiudizio su cui tale liberazione si basava sono i due aspetti: positivo e negativo, che hanno caratterizzato la filosofia moderna: il suo inizio con l’empirismo e il razionalismo, la sua diffusione e consolidamento con l’illuminismo, il suo esito nel fenomenismo spirituale dell’idealismo da una parte e nel fenomenismo scientifico del positivismo dall’altra, con i loro strascichi nell’esistenzialismo e nel neopositivismo contemporanei. Ma questa enorme impresa di identificare tutto ciò che appare nel campo spirituale o ciò che appare nel campo naturale con tutta la realtà dell’Essere si confuta già con l’esistenza di questa contrapposizione che si è dimostrata insolubile. Gli sforzi enormi per ridurre a fenomeni di pensiero o di coscienza le strutture della natura, e quelle altrettanto enormi di ridurre il pensiero e la coscienza a fenomeni fisici della natura, sono sfociati addirittura nel ridicolo. È la scienza stessa da cui è partito il grande movimento per l’autonomia della ricerca umana che ha dimostrato negli ultimi suoi sviluppi (Weber-Fechner, K. Popper, T. Kuhn, Feyerabend, K. Gödel, Fisica quantistica) i limiti invalicabili di questa sua ricerca, e quindi ha indicato i limiti che non potevano non derivare anche a ogni altro tipo di ricerca. “L’aldilà” scientifico non spiega se stesso e tanto meno quindi l’esperienza ordinaria. Il nascondimento dell’Essere che era stato estromesso dalla porta dell’edificio delle conquiste umane ritornava dalla finestra dello stesso edificio, anche se non più come padrone che detta leggi alla ricerca e alla spinta verso l’alto, e che ne precostituisce l’architettura, con evidente contraddizione, ma come energia che tiene sempre desta questa spinta e con essa anche la libertà della ricerca. Una volta però che tale energia e tale libertà siano garantite, diventa altrettanto assurdo pretendere e vivere nella persuasione
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che la realtà, e la verità che la rivela, siano solo dovute a ciò che è stato di esse finora rivelato, e che la totalità dell’essere sia solo la coscienza della sua parziale rivelazione. Questa persuasione, che ovviamente è fatta di “debolezza”, è l’essenza dell’ “incoscienza”, la quale, se prevalesse, porterebbe la coscienza stessa, e non certamente l’Essere a cui tende, alla definitiva immobilità, e quindi al nulla della morte. Ma per fortuna la situazione è in realtà molto diversa. Togliere la falsa interpretazione dell’ “aldilà” dell’apparenza, perché basata sul pregiudizio che non vi sia un “aldilà” dell’apparenza, non vuol dire togliere questo “aldilà” in cui rimane parzialmente nascosta la totalità dell’Essere, ma anzi riconquistarlo nella sua verità, e con esso riconquistare la totalità dell’Essere stesso. Quel pregiudizio era come un tumore maligno sviluppatosi per secoli a danno dell’organismo, che pertanto s’è potuto sviluppare tra difficoltà ingigantite. Ma doveva pur venire il momento in cui il tumore avrebbe minacciato la vita stessa dell’organismo, le sue conquiste e la possibilità del suo sviluppo ulteriore. La presa di coscienza di questo pericolo estremo, di questa violenza mortale è la contemporanea presa di coscienza del nichilismo a cui quel pregiudizio poco alla volta ma fatalmente ha portato. È giunto il momento di rendersi conto della malattia che l’ha prodotto, e quindi di decidersi alla conseguente operazione della sua amputazione, perché l’organismo possa essere garantito nel suo stesso essere, da cui deriva la sua vita e il suo sviluppo. Confutata la falsa interpretazione dell’ “aldilà” dell’apparenza, tolto il tumore che ne è derivato, l’organismo riprenderà il suo cammino: sarà infatti allora impedito che le sue membra si separino fino a disarticolarsi e a lacerare la sua interiore unità, dalla quale soltanto scaturisce l’inesauribile energia necessaria al suo armonioso sviluppo14. 14 Nietzsche ha riassunto la sostanza del nichilismo nella frase dell’“uomo folle”: “Dio e morto [...] siamo stati noi a ucciderlo”. È una frase detta da “un uomo folle”. Dio è infatti l’oggetto dell’interpretazione che una coscienza finita dà dell’Essere che le è trascendente, perché è infinito nel modo che si è detto, ossia da rendere possibile il discorso dell’uomo folle. Tutte le frasi dell’uomo folle che seguono vanno quindi rovesciate perché diventino frasi dell’uomo sano di mente. “Come potemmo svuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia?” diventa: “come potemmo chiuderci al mare in cui siamo immersi come pesci, fino a diventare un pezzo di legno secco?”. E l’altra: ”Chi ci dette la spugna per strusciar via l’intero orizzonte?” diventa: “Chi ci dette la spugna condannandoci a
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Alcune correnti della filosofia e della psicologia contemporanee si sono avvicinate con suggestive intuizioni al concetto di “nascondimento” pur senza averlo potuto interpretare nella sua giusta luce e quindi inquadrarlo al suo giusto posto nella struttura universale dell’Essere e quindi anche della coscienza finita. Per Heidegger “il nascondimento (die Verborgenheit) appartiene alla ¢lªqeia [alla verità] ... non come l’ombra alla luce, ma come il cuore della verità”, cosicché “l’apertura alla luce come avviene nella radura del bosco (Lichtung) non è la semplice apertura della presenza (Anwesenheit), ma l’apertura della presenza che si nasconde, l’apertura del custodirsi nascondendosi” 15. “Il compito del pensare (die Aufgabe des Denkens), “la cosa da pensare” (die Sache des Denkens) diventa allora “il nascondimento stesso pensato come apertura alla luce” 16. Il suggerimento ha un valore incalcolabile, ma allora “il nascondimento” va appunto effettivamente “pensato”, criticamente interpretato nei suoi aspetti positivi di rivelazione, di contrario di se stesso, e nei suoi aspetti negativi, nel suo insorgere, nella sua intrinseca possibilità di essere “scoperto” in modo da vederne la relatività e il suo destino di essere indefinitamente ridotto (15). Se invece ci si limita a porlo soltanto, lo si costata esclusivamente nel suo versante negativo sprovvisto del suo immanente destino di essere sconfitto. Ma allora la coscienza e l’esistenza in cui si esprime finiscono per “esserci solo per la morte” (“Fur-den-Todsein”), come enuncia una delle tesi fondamentali della filosofia di Heidegger. Egli ha un buon gioco di rimproverare a Nietzsche, e addirittura a tutta la metafisica occidentale, di finire fatalmente, in base alle sue premesse, nel nichilismo. Ma è destinata a finire inevitabilmente nel nichilismo, ossia nella “incoscienza”, anche la sua filosofia, nonostante la sua continua martellante ripetizione che la morte della metafisica, e quindi della filosofia 17, è dovuta al suo esclusivo interesse per “gli essenti”, e quindi all’ “oblio dell’Essere” strofinare via inutilmente in eterno un orizzonte che è infinito?”, e così via. E allora il folle, ora diventato saggio, continua: “sciogliendo questa Terra dalla catena del suo sole, il nostro diventa un precipitare in eterno [...] un vagare attraverso un infinito nulla” (La gaia scienza, ed. Colli-Montinari, p. 129). 15 Zur Sache des Denkens, Niemeyer, Tübingen 1969, pp. 78-79. 16 “[...] die gut gerundete Unverborgenheit selbst gedacht als die Lichtung”, ivi, p. 80. 17 “Philosophie ist Metaphysik”, ivi, p. 61.
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che ne è il fondamento18. Molti altri filosofi e scienziati hanno parlato dell’ “inconscio”, il che equivale a dire di “ciò di cui non si ha coscienza” perché appartiene al nascondimento dell’essere. Tra di essi occupano un posto privilegiato Schopenhauer e Freud, ai quali quindi accenneremo, perché nell’ “inconscio” hanno visto addirittura la sostanza della realtà e della psiche umana. Non hanno sufficientemente considerato di aver potuto così a lungo parlarne e scriverne perché ne avevano una qualche coscienza, ossia perché in un qualche modo, che andava allora approfondito e chiarito, apparteneva alla coscienza che l’uomo ha di sé e della realtà. Invece, come al solito, sono stati violentemente smembrati anche nei loro trattati i vari aspetti dell’unico essere, e posti gli uni accanto agli altri, o addirittura contrapposti, distruggendo così la loro vicendevolmente costitutiva unità e quindi il loro stesso essere. La “volontà inconscia” è stata contrapposta da Schopenhauer alla “rappresentazione” in cui “si manifesta” il mondo, e da Freud “l’inconscio” è stato contrapposto all’Io e soprattutto al Super-Io, come se “l’inconscio” non si manifestasse e quindi non si rendesse “conscio” tanto da poterne parlare e scoprirne le strutture, e come se, d’altra parte, “la manifestazione”, “l’Io” e il “super-Io” non rimanessero in gran parte nascosti, inconsci e sconosciuti. È in questo gioco di luce e tenebre, in cui la luce non è mai del tutto luminosa e le tenebre mai del tutto tenebrose che si rivela l’Essere come colui che salva e fa crescere la vita. “L’essere-per-la-morte”, “la volontà inconscia”, “l’inconscio” della psicanalisi sarebbero le parole definitive, e quindi un altro modo per indicare “il nulla” come la sostanza del mondo, della vita, della coscienza, se non si riuscisse a riscontrare in essi l’aspetto marginale, ombratile, transitorio della presenza dell’Essere.
18
“Die Metaphysik denkt, insofern sie stets nur das Seiende als das Seiende vorstellt, nicht als das Sein selbst. Die Philosophie versammelt sich nicht auf ihren Grund. Sie verlasst ihn stets, und zwar durch die Metaphysik”, Was ist Metaphysik?, Cohen, Bonn 1929, p. 8.
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Il ritorno dell’essere
Capitolo terzo
L’ESSERE DELLA COSCIENZA ESTETICA
1. CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE
L’ambito in cui vive e opera la coscienza estetica è particolarmente riposto, e si richiede grande attenzione per portarlo allo scoperto. La manifestazione delle cose, il loro apparire è il risultato di una “sintesi originaria” (12) che in un organismo venuto alla luce dopo una lunga gestazione, permette di distingue ogni impulso-messaggio che viene dal di fuori (dal mondo fisico) da tutti quelli avuti in precedenza. L’analisi puntuale degli elementi contenuti in questa sintetica definizione, e in particolare la formazione delle “cose”, è già stata fatta altrove (3, 7); qui basterà una sua breve spiegazione mirata all’argomento che stiamo trattando. Ogni cosa che viene attualmente riconosciuta è costituita dalla trama delle sue diverse differenze da tutte le altre cose, le quali quindi sono in essa contenute non fisicamente (altrimenti sarebbero anch’esse presenti attualmente), ma in queste loro differenze che la rivelano pur rimanendo inespresse nella loro singolarità. Il riconoscimento della cosa non è però mai completo perché queste sue diverse differenze dalle altre sono una parte esigua di quelle che effettivamente vi sono. Ne consegue che, primo, non raggiunge la propria definitiva identità; secondo, che il passaggio da essa alle altre avviene con discontinuità; e quindi, terzo, che essa risulta apparentemente separata dalle altre, una fra le molte altre, e ravvolta in questo nascondimento della sua identità e della sua distinzione dalle altre, che la rende indeterminata, costituita di materialità e di contingenza. Teniamo dunque presente in questa nostra indagine soprattutto quanto segue: che il contenuto positivo di ogni cosa sta nella trama
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delle sue differenze da tutte le altre cose, la cui attualità potenziale, contenuta nella cosa attuale, la manifesta. E inoltre che le differenze che non sono presenti a manifestarla perché molte di queste altre cose non sono mai state fisicamente presenti all’organismo vivente in questione, lo sono però potenzialmente, con una potenzialità sostanzialmente diversa e ben più pregnante di quella così ordinariamente chiamata. Non vi è dunque nessuna cosa in assoluto che sia totalmente fuori della cosa attualmente presente, proprio per il fatto che si costituiscono vicendevolmente. Ogni cosa implica in se stessa tutte le altre, attuali e possibili, perché ognuna è data dalle differenze in essa presenti da tutte le altre. Pertanto anche una cosa che non è mai stata attualmente presente è precostituita e quindi preformata dalla trama delle differenze delle cose che sono state attualmente presenti. Per definizione ognuna ha la sua identità nelle sue diverse differenze da tutte le altre. Se qualcuna non è stata attualmente presente vorrà dire che quella attuale rimarrà per essa indeterminata, ma con una indeterminatezza che è precisamente relativa a quella mancante, la quale quindi è presente nella precisa esigenza della sua attualità. L’indeterminatezza di qualunque oggetto, situazione, pensiero è anch’essa una struttura che accompagna ogni piega della loro struttura determinata, e quindi è tale da determinare, sia pure negativamente, il comportamento di quell’oggetto, situazione, pensiero, e quindi da agire su di essi per il fatto che ad essi appartiene costitutivamente. Questa trama fatta di due tipi di differenze: quelle effettivamente presenti, e quelle potenzialmente presenti, costitutive dell’indeterminatezza, ossia della materialità, dell’apparente sempre relativo isolamento, costituiscono la cosa: la costituiscono in continuazione nei suoi due aspetti di manifestazione e di occultamento, di presenza del suo essere e di nascondimento del suo stesso essere. Ebbene, la presenza nascosta, indistinta delle altre cose nella cosa attuale viene apertamente, ossia distintamente manifestata, portata fuori dal suo nascostamento, nella coscienza estetica. La coscienza estetica esprime il modo come una cosa qualunque si manifesta, ossia si rende presente nella sua originaria verità, attraverso le sue costitutive diverse differenze da tutte le altre cose. Questo modo autentico con cui si realizza la manifestazione della cosa va però ora analizzato opportunamente per poterlo di-
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Il ritorno dell’essere
stinguere dai modi inautentici in cui ordinariamente si manifesta la stessa cosa. È in questa distinzione che si evidenzia in modo concreto, anche se indiretto, la manifestazione estetica delle cose: su di essa dunque dovremo inizialmente soffermarci.
2. LE MANIFESTAZIONI INAUTENTICHE DELLA COSA: USO E STRUTTURAZIONE SCIENTIFICA
Le più universali inautentiche manifestazioni della cosa sono di due tipi: quelle del loro uso nella vita ordinaria di tutti i giorni, e quelle provocate e realizzate dalla ricerca scientifica. Esse corrispondono e anzi costituiscono nella loro sostanza due tipi fondamentali dell’esperienza umana: l’esperienza ordinaria e l’esperienza scientifica, che abbiamo altrove diffusamente trattato (1-17). Nella vita ordinaria le cose vengono “usate”. Si cercano, si scelgono, si raccolgono le erbe e i frutti della terra per il nutrimento degli animali. A loro volta gli animali, catturati con la caccia e la pesca, allevati, variamente accoppiati, e variamente distribuiti secondo i bisogni, servono all’alimentazione di altri animali, compreso l’uomo. I modi come sono usate le cose materiali nelle diverse forme dell’attività e del comportamento degli esseri viventi sono talmente molteplici da diventare impossibile anche soltanto elencarli nelle loro specie più generali. La tecnica e l’industria nate e sviluppate dalla scienza hanno poi ulteriormente moltiplicato nelle forme più disparate e in misura sempre più ampia i modi dell’uso delle cose e degli animali. Ma un aspetto è dovunque presente, ed è quello che qui va messo in chiara evidenza: questi modi dell’uso delle cose, aldilà dell’utilità che presentano, sono modi della consumazione e infine della distruzione delle cose stesse. Si usano consumandole, ossia portandole dal loro essere al loro non-essere. Anche le cose più preziose: i vestiti più lussuosi, i palazzi più sontuosi servono consumandosi, manifestano i loro intrinseci valori proprio donandosi e deperendo: il loro essere è il loro passare al loro non essere. La nostra civiltà contemporanea è stata chiamata “civiltà dei consumi”: una denominazione che è diventata sempre più corrente e accettata perché sempre più rappresentativa della sostanza di tale “civiltà”. Significa civiltà polarizzata sui valori che sono in quanto si consumano, che sono nell’atto
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del loro consumarsi. L’altro tipo inautentico della manifestazione delle cose è quello proprio della ricerca e della scoperta scientifica. Nell’apparente vuoto dei contenuti immediati dell’esperienza ordinaria la scienza intravede e scava nuovi contenuti per riempirlo (13, 14). Dentro i corpi che si toccano e si vedono, ma che non si spiegano, vengono immaginate strutture nascoste che non si riesce a toccare e a vedere, ma che, parzialmente almeno, li spiegano. Dentro ogni grano di polvere vengono immaginate molecole, atomi, protoni, neutroni, quark, che con le loro complicate strutture di “campi” sostengono e spiegano le proprietà dei corpi macroscopici a cui appartengono, e quindi predeterminano e permettono di prevedere il loro comportamento futuro. Dentro ogni elemento, essere vivente, foglia d’albero vengono immaginate cellule, nuclei, mitocondri, codici genetici, geni, basi azotate, che sorreggono, spiegano e lasciano prevedere il comportamento della pianta e il suo sviluppo. Questo nella dimensione del microcosmo. In quella del macrocosmo avviene altrettanto. Aldilà e tra i corpi visibili, terrestri e cosmici: pianeti, stelle, nebulose, ammassi, superammassi vengono immaginati campi gravitazionali ed elettromagnetici, contrazioni, espansioni ed estensioni che stanno aldilà dei corpi stessi, ma che, in certo modo sempre approssimativo, riescono a spiegarne l’origine, lo sviluppo, gli eventuali esiti futuri e finali. Ma dappertutto, in questa ricerca di strutture e di invenzioni i concetti che si usano devono essere necessariamente presi dalle cose dell’esperienza ordinaria, con la gravissima riduzione però che da essi di queste cose vengono eliminate le qualità, le proprietà, i comportamenti che si manifestano direttamente, ossia effettivamente, ai sensi e alle relative percezioni. Risulta che in tal modo si riesce a predeterminare meglio di queste cose i comportamenti e quindi a modificarli e a prevederli. Questo vantaggio innegabile e meraviglioso fa dimenticare che non sono essi, questi concetti, a costituire le cose nel loro essere e nell’essere dei loro comportamenti manifesti. Sono concetti di strutture che servono all’uso delle cose, e quindi in certo senso hanno anch’essi il valore di un uso alla seconda potenza, a servizio dell’uso delle cose alla prima potenza. Con una certa analogia con quanto si è visto a proposito dell’uso delle cose nell’esperienza ordinaria, queste strutture scientifiche ci sono in quanto non sono visibili, in quanto non si manifestano in
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se stesse ma solo nei loro effetti sulle cose che invece si manifestano. E questi effetti stessi si manifestano in quanto sono simili agli effetti che le cose ordinarie, autentiche, esercitano tra di loro, e dai quali quindi in definitiva ricevono il loro senso. Più che essere autentiche manifestazioni delle cose sono dunque manifestazioni indirette che si appoggiano alle autentiche manifestazioni, sono ombre che accompagnano i corpi autentici1. In conclusione, l’uso delle cose, la loro fruizione nell’esperienza ordinaria, ma anche la scoperta delle ombre che esse gettano aldilà di se stesse nell’esperienza scientifica suppongono sempre e si appoggiano sempre sulle cose come sono in se stesse, come si manifestano nella loro presenza immediata, sulla cui priorità di tempo e di valore non si può dunque in alcun modo dubitare.
3. LA MANIFESTAZIONE AUTENTICA: LA COSCIENZA ESTETICA
E tuttavia anche questa manifestazione immediata e privilegiata rimane in se stessa misteriosa e opaca. Le cose si manifestano ma anche sono imprigionate ognuna nella propria solitudine, nel minuscolo spazio che occupano e nel minuscolo tempo della loro durata. Ognuna emerge ma non rivela la sua origine e la sua destinazione. Entra in relazione con le altre cose ma è per lo più relazione di impatto, di urto, di attrito, e anche quando, a un livello più alto, quasi per salvarsi, vengono usate da una coscienza, ossia da organismi viventi, dai più elementari a quelli dell’uomo, vengono usate, come si è visto, a patto di logorarsi, di consumarsi, e infine di scomparire, ossia di risolversi nel contrario del loro essere-manifestazione. La loro autentica manifestazione si trova, si mantiene, e quindi può salvarsi solo a un livello più alto, in un’altra manifestazione, che è la manifestazione del loro manifestarsi, ossia la verità del loro manifestarsi, l’autentica identità del loro essere. Per definizione questo loro manifestarsi non può venir distrutto dal loro uso, dagli aspetti della loro apparente competitività e conflittualità, i quali si rivelano anzi allora come la negazione della loro autentica verità e 1 Cfr. A. Crescini, “Gli pseudocontenuti del pensiero scientifico”, in AA.VV., Ethos e cultura, studi in onore di E. Riondato, Antenore, Padova 1991, pp. 973-990.
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identità. È questa la dimensione estetica della realtà, colta in particolare dall’intuizione artistica. Noi la dovremo ora meglio analizzare perché non rimanga sospesa in astrattezze che in certo modo le sono direttamente opposte. Il contenuto essenziale di una cosa qualunque si forma e nello stesso tempo emerge perché la sua formazione si identifica con la sua manifestazione, quando la cosa esce nelle altre cose, dalle quali distinguendosi in modo diverso, ottiene la sua identità (11). Nella immediata esperienza cosciente tutto questo avviene nel nascondimento, perché in essa prevale l’apparenza, ossia la mancanza dell’espressione delle diverse differenze che, distinguendola in modo diverso la uniscono alle altre cose. È proprio questa la sostanza dell’apparenza: la supposizione che le diverse differenze non ci siano in se stesse dal momento che non sono percepite, con la conseguenza che la cosa per passare alle altre cose sembra che salti sopra abissi e che abbandoni se stessa. Ma in realtà nel profondo sono queste altre cose a cui sembra saltare attraverso abissi di vuoto che ne danno il vero contenuto, e pertanto in essa sono invece potenzialmente contenute come la sua manifestante sostanza. Questa unità al di là e al di sopra dell’apparenza si verifica, si manifesta nell’intuizione estetica, in particolare nell’opera d’arte. L’arte esprime la manifestazione di ciò che la natura ha fatto nel nascondimento, e ne esprime quindi l’autentica verità: è la manifestazione del manifestarsi delle cose. In tal modo l’arte va aldilà della natura, perché in questa prevalgono i vuoti che separano le cose, anche se la scienza crede di colmarli; nell’arte invece si afferma e prevale quella struttura unitaria tra le cose che le fa manifestare, che permette a ognuna di diventare se stessa passando nelle altre, confutando quindi in tal modo i vuoti, gli abissi che sembrano separarle. I vuoti restano, ma sono ormai relegati in superficie, nell’apparenza. In questa superficie continuerà a camminare saltando, zoppicando, cadendo, morendo, l’esperienza ordinaria con la sua elementare coscienza, ma quella estetica vive e opera nel profondo, ossia nella rivelazione del fondamento comune su cui, come isole, si circoscrivono chiudendosi in se stesse le cose, tra le quali si affanna saltando la coscienza ordinaria. L’esperienza estetica si muove quindi nell’universo dei contenuti autentici delle cose e dei movimenti che le riguardano, posti
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tra quelli contingenti di cui si occupano da una parte la storia e la cronaca, e dall’altra sul piano riflesso la scienza reale, e ancor più la scienza formale logico-matematica2. Non si pensi però che il contenuto contingente sia più attualmente concreto del contenuto essenziale in cui si muove l’estetica. Quello è infatti, in quanto tale, mancanza di relazioni manifestanti (pur possedendole potenzialmente) mentre questo è la sua effettiva manifestazione. In questo privilegiato ambito si muove dunque la coscienza estetica. Evidentemente tale coscienza non può mancare completamente nell’esperienza ordinaria, ossia nell’esperienza impegnata soprattutto a muoversi fra le cose che sono utili, e magari materialmente necessarie, come il cibo, il vestito, l’abitazione. Per questo motivo abbiamo detto che “soprattutto”, “direttamente” l’esperienza estetica si realizza nell’opera d’arte. Non vi è nessuna coscienza consapevole, per quanto elementare, in cui non si manifestino le relazioni attraverso cui le cose si costituiscono vicendevolmente, aldilà e aldisopra dell’utilità che esse possono avere, e quindi delle oscure strutture materiali che portano sempre con sé. Il piacere e l’amore delle cose per se stesse, dei gioielli, degli ornamenti e degli abbigliamenti delle abitazioni, degli alberi, dei fiori, delle montagne, dei paesaggi, degli animali in cui la coscienza elementare delle cose si rende visibile, sono già chiare espressioni estetiche del mondo e della vita. Soprattutto lo è l’emergenza della stessa sorgente da cui scaturisce in continuazione il sentimento della bellezza, ossia l’apparire della coscienza stessa nel comportamento, nel sorriso, nelle forme esteriori del corpo di chi risponde a ogni cenno di un’altra coscienza, così da rivelare un significato che ha valore soltanto in se stesso, e in nessun altro aspetto. Ma sono visioni ed esperienze che per quanto talvolta di indescrivibile intensità, rimangono nella maggior parte dei casi vaghe e confuse, mescolate alla conoscenza dell’uso che se ne può fare, e quindi dell’interesse che se ne può avere, ai rischi e alle incomprensioni della gente, da affogare subito dopo il brevissimo tempo del loro apparire. Questa coscienza che abbiamo chiamata “estetica” perché, se2 Già Aristotele nella sua Poetica aveva accennato a questo ambito e a questa differenza “[...] ufficio del poeta non è di descrivere cose realmente accadute, bensì quali possono accadere: cioè cose che siano possibili secondo le leggi della verisimiglianza o della necessità [...] lo storico descrive fatti realmente accaduti, il poeta fatti che possono accadere”, 9, 1451a 36-1451b 5.
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condo terminologie tradizionali è coscienza della bellezza delle cose, della vita, del mondo, e che a un gradino più alto ne è l’espressione artistica, va tenuta ben distinta dalla riflessione volta a chiarirla, a distinguerla da ogni altro aspetto della coscienza, e quindi ad analizzarne le caratteristiche che le sono proprie, e quindi in definitiva il suo essere proprio. Dalla bellezza allora, e dall’arte che la esprime, si distingue quel particolare capitolo della filosofia che si chiama “estetica”, dove il termine da aggettivo diventa sostantivo. Sebbene sia indispensabile tenere in tal modo distinte queste caratteristiche scoperte dalla riflessione filosofica e critica, non si deve mai dimenticare che la loro sede è sempre la coscienza estetica, nella quale soltanto trovano la loro unità e il loro stesso essere. In grazia di queste distinzioni fondamentali è possibile affrontare con più facilità molti problemi e accantonarne molti altri che si presentano in continuazione a proposito di questo ambito della coscienza umana e della riflessione su di esso. La prima e la più fondamentale è la questione sull’universalità assoluta e nello stesso tempo concreta degli oggetti della coscienza estetica. Su di essa dovremo quindi in particolare soffermarci, soprattutto perché ci indica nella maniera più diretta ed evidente il modo come l’Essere è presente nella coscienza estetica e nella sua espressione artistica. Sarà opportuno fissare l’attenzione, più che sull’oggetto estetico, sulla sua espressione, ossia sull’opera d’arte, appunto perché essa è intersoggettiva per sua natura, è cioè comunicazione della coscienza della bellezza, e si pone quindi di per se stessa sul piano della possibilità di un preciso discorso.
4. IL “SIGNIFICATO ESTETICO” DELL’OPERA D’ARTE
Un quadro d’autore, una statua, un tempio greco, una poesia non è un oggetto da consumare, ossia un oggetto destinato per sua natura a scomparire nello spazio e nel tempo nei quali esteriormente viene prodotto. Un paio di zoccoli reali è prodotto per essere usato, ossia per essere consumato; è in questa sua consumazione che raggiunge lo scopo del suo essere. Ma la pittura degli zoccoli di una contadina eseguita ad esempio da Van Gogh, su cui,
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com’è noto, si è soffermata la riflessione filosofica di Heidegger, sottrae quegli zoccoli dal loro destino di consunzione spazio-temporale per fissarli nel loro significato inattaccabile dallo spazio e dal tempo. Tale significato, che chiameremo appunto “estetico”, va tenuto ben distinto dal significato “usuale”, il quale proprio nel suo nome esprime la sua specifica natura di venir “usato” allo scopo pratico di indicare gli oggetti empirici, i quali a loro volta, come si è detto, sono fatti per essere “usati”. Il significato “usuale” è espresso dalla definizione che “rimanda” all’insieme degli oggetti empirici chiamati con quel nome: è quindi a questi ordinato, a questi sottomesso come un servitore è sottomesso al padrone per il quale esercita la sua funzione. Ma il significato “estetico” non è esprimibile con una definizione, rifugge anzi dall’essere “definito”, non rimanda direttamente agli oggetti reali che rappresenta, e tanto meno è ad essi ordinato o addirittura subordinato. Il suo valore lo porta in sé, e, in caso, gli oggetti reali gli sono serviti come scala attraverso la quale ha potuto insediarsi sul trono della sua dignità. Quella scala può anzi essere addirittura rimossa, è anzi indispensabile che venga rimossa dopo che il significato estetico di quegli oggetti si è manifestato nella sua sovrana maestà. Gli zoccoli di van Gogh non indicano gli zoccoli che si usano, e tanto meno sono essi stessi usati come zoccoli, ma il loro valore è enormemente più alto di quello di tutti gli zoccoli reali. Quando si visitano i templi di Paestum, di Agrigento, di Segesta si rimane colpiti da un sentimento di ammirazione e quasi di sbigottimento davanti alla loro solenne maestà. Eppure non sono più usabili, rimangono solo le loro austere colonne e gli architravi che delimitano lo spazio sacro. Nessun dio vi abita, nessun rito vi si celebra, nessun sacrificio agli dei, eppure mantengono un loro misterioso senso, che anziché essere mortificato da quelle assenze vien da esse più evidenziato ed esaltato. Che è dunque successo? Quale mutamento è avvenuto? Un mutamento radicale, perché i due significati si muovono in direzioni opposte. Il significato “usuale” porta agli oggetti empirici posti nel loro isolamento spazio-temporale che non viene eliminato dalla moltitudine per quanto sterminata degli individui della classe indicata dal loro nome comune. Per quanti essi siano ognuno è senza eccezione incatenato nel suo minuscolo spazio e nel suo brevissimo tempo dai quali finirà per essere ben presto inghiottito. Anzi
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quanto più grande sarà la moltitudine del loro numero tanto più si evidenzierà la loro angusta ristrettezza o addirittura la nullità dell’essere di ciascuno di loro. Ma il significato “estetico” li sottrae alla loro solitudine, e a quel loro destino di consunzione, a quel loro non-essere che finisce fatalmente per prevalere sempre sul loro minuscolo spazio d’esistenza. In tal modo si rivela anzi la loro autentica identità, la loro vera essenza. Il loro essere apparente era soltanto appunto apparenza, e questa loro apparenza viene accantonata dal loro significato autentico, che non è quello di indicarli nei luoghi della loro apparenza, ma di far emergere la loro reale manifestazione. Gli zoccoli sono certo usati dalla contadina, hanno certo una loro grandezza e forma, sono formati di tale e tale materia resistente adatta al lavoro dei campi; occupano un loro luogo preciso e hanno un preciso tempo di durata. Ma nel dipinto di Van Gogh essi indicano tutto un altro modo di essere che sfugge alla presa degli occhi, delle mani, dei piedi, un altro mondo così ben descritto da Heidegger3. Anche il tempio è costruito di massi pesanti che la furia del tempo è andata sgretolando poco alla volta attraverso i secoli così da rendere impossibile lo svolgimento effettivo dei riti per i quali è stato costruito. Il significato “usuale” di “tempio” è qui totalmente annullato, ma il contrario avviene con il suo significato “estetico”. Lo stesso deperimento dell’essere del tempio destinato all’uso, al rito effettivo, anziché distruggere il significato estetico, lo esalta. Emerge ancor meglio cosa significa “tempio”: la zona sacra che racchiude e custodisce per toglierla dal groviglio delle cose che si usano, dal frastuono, dal disordine, dalla cattiveria, dalla banalità della vita basata sullo sfruttamento delle cose e delle coscienze. È il luogo dove si incontrano gli dei che rivelano il valore e il destino della vita mostrandone il senso riposto. È lì, dalla presenza di quest’unico significato universale che trovano significato tutti i singoli templi materiali e tutti i singoli riti contingenti dovunque si svolgono e in qualunque tempo si svolgono, a differenza di tutti gli altri eventi con i loro luoghi e tempi. Si tratta di una universalità che è ben diversa da quella che è propria del significato “usuale”, come tra poco vedremo.
3
Holzwege, tr. it., Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 18-21.
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Il ritorno dell’essere
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5. SUGGERIMENTI DALLA STORIA DELL’ESTETICA
La direzione opposta secondo cui si muovono il significato “estetico” e il significato “usuale” non deve tuttavia portare all’errore ancora più grave di pensare il significato “estetico” come staccato dagli oggetti empirici (empirico è anche l’atto immaginativo del poeta o del lettore, del pittore, ecc.) in cui si rende presente. La sua collocazione metempirica potrebbe indurre a pensarlo in tal modo, ed effettivamente da molti indirizzi filosofici è stato così interpretato, soprattutto da quelli di ispirazione platonica, che, sia pure con sfumature diverse, ha predominato nell’antichità e nel medioevo, e, trasformata, rimane presente anche nell’estetica moderna. Sarà opportuno tenerla ora presente per centrare meglio a suo confronto l’autentica dimensione del contenuto estetico. In Platone sono “le idee”, a cui i particolari oggetti richiamano, a possedere le caratteristiche della bellezza, mentre le concrete opere d’arte rappresenterebbero soltanto imitazioni degli oggetti della natura, a loro volta imitazioni mancate delle idee. È noto che questa prima interpretazione dell’arte esposta nella Repubblica (cap. X) venne poi notevolmente arricchita nel Convivio, dove “i buoni poeti”, come del resto tutti coloro che sono posseduti dall’Eros, creano la bellezza invece che semplicemente rispecchiarla nell’opera d’arte, per cui allora soltanto possono dirsi “generatori e inventori” (gennªtorej, eÿretikoÖ, 209 a). L’arte non è così soltanto “imitazione” (mÖmhsij), ma anche “parto” (t“koj) della bellezza. Anche in Aristotele, nonostante la sua critica di fondo alla drastica contrapposizione cose-idee del maestro rimane centrale l’interpretazione dell’arte, compresa la più alta: la “poetica”, come “imitazione”, sia pure con l’importante aggiunta che l’arte non tratta e non è conoscenza di cose che effettivamente accadono, come fa “la storia”, ma, come si è già visto, di “cose possibili ad accadere”. Ma vi è in Aristotele un’integrazione della dottrina platonica che porta avanti l’approfondimento della coscienza estetica. Platone, ancora nella Repubblica (l. X) aveva scorto nell’arte un incentivo a intensificare le passioni più violente e irrazionali, anche se, stranamente, vi vedeva congiunto anche l’opposto “diletto” (c£rij) della partecipazione a queste passioni e sofferenze 4. Ari4
605d-606b.
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stotele rovescia questa posizione del maestro: rivivendo nell’arte le passioni con il sentimento di “terrore” (f“boj) e di “pietà” (úleoj) l’anima “si purifica” da queste passioni5. Era un passo importante dal campo della conoscenza, in cui era prima relegata in sostanza l’arte, a quello ben più profondo della coscienza della realtà, che è della realtà la sostanza stessa, e quindi il suo nucleo più concreto. Il progresso realizzatosi così ancora nell’estetica classica quando si è passati dalla concezione dell’arte-imitazione a quello dell’artegenerazione, era destinato a consolidarsi e approfondirsi nell’estetica medioevale della Patristica e della Scolastica. L’arte come processo creativo dell’immaginazione e del sentimento diventava una immediata conseguenza delle supreme verità del Cristianesimo: la creazione del mondo da parte di Dio Padre considerata come una continuazione della generazione eterna del Figlio; l’innata capacità creativa dell’uomo stesso il quale, essendo “fatto a immagine e somiglianza di Dio”, è in conseguenza dotato della stessa facoltà creatrice 6; il Padre e il Figlio non più oggetto di amore come il Dio classico (si ricordi il Dio ôrwt“menoj di Aristotele che si occupa del mondo solo in quanto “amato”), ma soggetto di un amore che è ad essi consostanziale, e nel quale in conseguenza le cose sono state create, per cui anche le creazioni dell’uomo immagine di Dio provengono dall’amore7; in particolare le creazioni del poeta nel quale il verbum e l’amore interiore generano l’opera d’arte8. Questo sfondo è comune a questa estetica anche se il ritorno ad Aristotele, così decisivo nella Scolastica classica del Duecento, è tornato ad accentuare ancora l’aspetto conoscitivo, razionale, strutturale dell’opera d’arte: Il Verbo eterno, insegna S. Tommaso, ha delle ragioni di affinità non solo con la natura razionale, ma universalmente con ogni 5
Poetica, 6, 1449b. Cfr. S. Agostino: “ars illa summa omnipotentis Dei, per quam ex nihilo facta sunt omnia, quae etiam sapientia eius dicitur, ipsa operatur etiam per artifices, ut pulchra atque congruentia faciant”, De diversis quaestionibus, q. 78: De pulchritudine simulacrorum. 7 S. Agostino: “Cum itaque se mens novit et amat, iungitur ei amore verbum eius. Et quoniam amat notitiam et novit amorem, et verbum in amore est et amor in verbo, et utrumque in amante atque dicente”, De Trinitate, IX, 10. 8 S. Agostino: “Omnium [...] sonantium verba linguarum etiam in silentio cogitantur, et carmina percurruntur animo, tacente ore corporis”, ivi, XV, 11. 6
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creatura, perché contiene le ragioni di tutto ciò che viene creato da Dio, come l’artista nelle creazioni del suo intelletto comprende le ragioni delle opere d’arte9.
In questa breve frase per quattro volte è contenuto il termine “ragione”. L’arte per S. Tommaso è la “recta ratio factibilium”, legata quindi più che altro con l’attività e il valore della speculazione: “ars magis convenit cum habitibus speculativis in ratione virtutis, quam cum prudentia” 10. Le doti di unità, armonia, proporzione, congruenza, integrità che vengono spesso sottolineate in quest’epoca derivano più dalla tradizione classica intellettualistica che dal tipico nuovo spirito del Cristianesimo. Sulla stessa linea si muovono in conseguenza anche quelle correnti rinascimentali che si rifanno ad Aristotele, esagerandolo, e che si fossilizzeranno quindi in una precettistica11 che veramente ben poco ha a che fare con la libera creatività dell’artista. Il razionalismo dei cartesiani fissati nel culto delle “idee chiare e distinte” rafforzerà questo aspetto12. Ma nell’epoca dell’Umanesimo e del Rinascimento, con la rifioritura degli studi su Platone, si fa strada con sempre maggiore insistenza anche l’altro aspetto dell’arte: quello che la rivela come l’autentico “atto generativo” (t“koj) dell’Eros accompagnato da una passione che può raggiungere i vertici del “furore”, della “follia” (“mania”). I trattati sulla bellezza di Leonardo Bruni, Ficino, Giordano Bruno sono di questo tipo. È un allontanamento dalla precettistica di tipo intellettualistico in favore della soggettività e dell’inventività dell’artista, che si consoliderà nell’estetica del Seicento e del Settecento in cui dominanti diventano i concetti di “fantasia”, “immaginazione”, “gusto”, “ingegno”, anche se poi nell’opera d’arte può venir privilegiato l’aspetto della “percezione”, della “perfezione della cognizione sensibile” (Baumgarten), insomma della 9 “Habet etiam verbum non solum ad rationalem naturam, sed etiam universaliter ad omnem creaturam quamdam affinitatis rationem; cum verbum contineat rationes omnium creatorum a Deo sicut artifex homo conceptione sui intellectus rationes artificiatorum comprehendit”, C. Gentiles, IV, 42. 10 Summ. Theol., I-II, q. 57, a. 4. 11 Si ricordino, ad esempio, “le leggi dell’unità di tempo, luogo e azione” a cui deve sottoporsi la tragedia se veramente vuole essere opera d’arte. 12 Ad esempio N. Boileau: “Aimez donc la raison: que toujours vos ecri ts empruntent d’elle seule et leur lustre et leur prix”, L’art poétique (1674), canto I, vv. 37-38.
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“visione”, come successe ai leibniziani, o l’aspetto della “produzione” delle cose da parte di una “fantasia” originaria che permise ai popoli primitivi di uscire dallo stato infantile, e che continua ancora sempre nei “poeti”, in generale negli artisti. Da questo essenziale sguardo sullo sviluppo dell’estetica emerge come esso sia stato caratterizzato da due coppie di contrapposizione sempre in competizione verso una loro risoluzione: la contrapposizione imitazione-creazione, e la contrapposizione conoscenzacontenuto. Ognuno dei due termini ha dovuto confrontarsi con il suo contrapposto così da perdere la sua unilateralità. È dall’analisi corretta di questi termini che si potrà arrivare alla loro composizione. Le cose reali che s’incontrano nella natura sono zone spaziotemporali da cui provengono a un organismo messaggi che acquistano significato dal soggetto cosciente relativo a quell’organismo (5, 6). Onde diverse investono da varie parti un organismo ed ecco che allora ciò da cui arrivano si manifesta come un albero. Evidentemente se non ci fosse questa manifestazione non ci potrebbe essere né bellezza, né arte, ma solo impulsi fisici senza significato che qualunque animale senz’arte potrebbe ricevere. Questo significato emerge dalla percezione delle sue differenze dagli altri significati delle altre cose, le quali evidentemente non sono presenti fisicamente, quando lo è quest’albero che abbiamo preso ad esempio. Che significato può avere allora dire che l’arte è imitazione delle cose reali, se le cose reali sono tali, ossia si manifestano, in base a quella struttura di significati che viene dal soggetto cosciente, in particolare dall’artista? Può avere solo il senso che anche questi altri significati sono stati a loro volta condizionati da altri impulsi fisici non derivati dalla coscienza, e da altri possibili all’infinito (13), dei quali però non si potrà mai dire che sono imitazioni. Il termine “imitazione” è quindi in buona parte improprio, come lo è il termine “creazione” dal momento che gli impulsi fisici non sono creati dal loro significato, altrimenti il significato di “albero” produrrebbe un albero reale, ossia una zona spazio-temporale che manda messaggi a un organismo. Analogamente si deve dire della contrapposizione conoscenzacontenuto. Il significato del termine “albero” può certo essere presente senza la presenza dell’albero fisico, e perciò si può dire
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che così staccato dagli oggetti di cui è il significato, è solo un’idea. Questo fatto indubitabile deve aver suggerito la concezione dell’arte come “conoscenza”. E tuttavia nell’arte questi significati devono andare anche aldilà del loro essere idee staccate dalle cose di cui sono idee, per essere precisamente “significati” di quegli elementi fisici, e quindi la loro sostanza, la loro verità, in altre parole il loro “contenuto” vero. Ci deve sempre essere il quadro con il suo telo, la statua di marmo, l’immagine nella fantasia del poeta. Come si vede da questi brevi cenni, i termini di quelle contrapposizioni che abbiamo riscontrato in continuazione nella storia dell’interpretazione dell’arte non possono mai venire disgiunti; devono sempre venire considerati nella loro dialettica interna, come meglio risulterà proseguendo nel nostro discorso.
6. UNIVERSALITÀ LOGICA E UNIVERSALITÀ ESTETICA
Il significato di qualunque cosa non può mai essere completo (13). La struttura delle differenze che manifesta la casa, il paesaggio, la situazione, è sempre solo parziale. Vi son differenze di sensazione, e quindi in conseguenza di percezione delle cose, e quindi di contenuti essenziali che rimangono fuori della loro sintesi in una coscienza. È per questa ragione che di cose che hanno lo stesso contenuto essenziale ve ne sono sempre una quantità enorme: vi sono moltissimi alberi, moltissimi fiori, moltissime rose, ma anche poi moltissime coscienze, che in quanto “moltissime” si esprimono nei moltissimi organismi diversi pur rimanendo sempre organismi della stessa specie: sempre antilopi, sempre leoni, e perfino moltissime coscienze consapevoli, e quindi moltissimi organismi umani. Ogni contenuto essenziale, ogni significato essenziale ha quindi, oltre che il suo essere costitutivo nel riferimento agli altri contenuti essenziali, anche un orientamento, un versante, un riferimento alle molte cose che in esso trovano tutte le loro manifestazione, il loro significato, il loro contenuto essenziale. Sono tre quindi le dimensioni che costituiscono ogni cosa presa nella sua totale genericità. 1) La cosa nella sua fisicità, ossia nella sua situazione spazio-temporale, la cosa nella sua singolarità: questo albero, questo paesaggio; 2) il contenuto essenziale nella sua relazione alla molteplicità delle cose fisiche che lo possiedono nello stesso
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modo: l’albero, il paesaggio. È l’universale nel senso usuale del termine, relativo alla molteplicità indefinita degli individui che lo contengono o che lo possono contenere. È il contenuto logico, il significato logico, e insieme anche matematico. Infine, 3) il contenuto essenziale della cosa nella sua struttura relazionale agli altri contenuti essenziali che ne costituiscono il vero essere, la sua esteticità. È molto facile distinguere la prima dimensione della cosa dalle altre due, ma più difficile è invece distinguere tra di loro queste due ultime sue dimensioni che si trovano entrambe sul piano della universalità, a differenza della prima che è tipica della singolarità. Ma si tratta di una universalità radicalmente diversa che ora dovremo accuratamente approfondire. L’universalità logica espressa da un nome comune riguarda sempre soltanto gli individui che sono chiamati con lo stesso nome. Il nome “albero” riguarda soltanto gli alberi esistenti o possibili, ma per nulla le pietre, le stelle e così via. Questi gruppi, o “classi”, o “insiemi”, come sono chiamati, di individui o “elementi” formano l’oggetto della logica e della matematica proprio in quanto si prescinde dai contenuti effettivi di questi elementi che li costituiscono, i quali però in ogni caso debbono essere sempre presupposti. Presupposti anche nel caso della loro assenza, quando cioè la classe è vuota. Queste classi possono essere maggiori, minori o uguali tra di loro ma sempre in riferimento al possibile numero degli elementi che contengono, anche se la situazione spazio-temporale di questi elementi non viene direttamente considerata. Abbiamo detto che questo discorso vale non solo per la matematica ma anche per la logica. È ormai noto che queste due scienze formali, un tempo tenute ben distinte, ora si sono fuse a formare l’unica grande scienza formale: la logica-matematica. Questa fusione non può certo dirsi completa, tant’è vero che il logicismo, ossia il tentativo di fondare la matematica esclusivamente su concetti e principi della logica (B. Russell, empirismo logico, ecc.) s’è dovuto scontrare con altri tipi di fondazione: quella formalistica (Hilbert, Ackermann, ...) e quella intuizionistica (L.E.F. Brower, A. Heyting) (19). Rimane ad ogni modo assodato che, oltre naturalmente alla logica relazionale maturatasi nei tempi moderni, anche la logica “attributiva” tradizionale nella sua impostazione sillogistica basata sul rapporto soggetto-predicato, di chiara
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derivazione ontologica: sostanza e accidenti, non riguardava direttamente questi concetti, ma le classi dei loro individui nella loro distinta separazione, e quindi con totale esclusione di considerazioni sui loro contenuti. Vediamolo in un esempio sempre riportato: “Tutti gli uomini sono mortali” (ossia tutta la classe degli uomini è contenuta in quella dei mortali), “ma Socrate è un uomo” (ossia l’individuo Socrate appartiene alla classe degli uomini), “quindi Socrate è mortale” (quindi Socrate appartiene alla classe dei mortali). Così a sua volta la dimostrazione che “tutti gli uomini sono mortali” parte dalle premesse: “tutti gli uomini sono viventi scomponibili” (ossia la classe degli uomini è contenuta in quella dei viventi scomponibili), “ma tutti i viventi scomponibili sono mortali” (ossia le due classi sono equivalenti per definizione) “quindi tutti gli uomini sono mortali”. Come si vede, per tutte le classi in cui si verificano i rapporti di appartenenza espressi dalle due premesse, si verificano di necessità il rapporto di appartenenza espresso dalla “conseguenza”, qualunque siano i contenuti di quelle classi. Questi contenuti pertanto non entrano nel discorso della logica e tanto meno della matematica. E tuttavia il riferimento ai contenuti non è del tutto assente, è sempre anzi presupposto, perché le due “premesse” possono essere concatenate tra di loro in modo da produrre necessariamente la conseguenza solo perché si suppone che ci siano o possano esserci degli elementi contenuti nella classe con tali connessioni di appartenenza da realizzare tra le classi a cui appartengono le relazioni espresse dalle premesse. È la supposta esistenza del contenuto rappresentato dal “termine medio” delle premesse (“uomo” nel primo esempio, “vivente scomponibile” nel secondo) che funge da collegamento tra il soggetto e il predicato della conclusione in cui tale “medio” non appare, a rendere possibile la necessità della stessa conclusione. I contenuti (e l’assenza di contenuti per la classe nulla) sono dunque sempre presupposti dall’esperienza (pensiero e attività) scientifica, come lo sono dall’esperienza ordinaria volta verso l’uso delle cose. Riassumendo, l’universalità propria della scienza, in particolare della logica-matematica che della scienza è il nucleo centrale (si ricordi Kant, secondo il quale in un linguaggio vi è tanto di scienza quanto vi è di matematica), ha queste tre seguenti caratteristiche che la distinguono dall’universalità che è propria dei contenuti
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estetici. Primo, è una universalità negativa, nel senso che deriva dall’impossibilità di esprimere le differenze che sussistono tra gli elementi ultimi (gli individui) appartenenti alla stessa classe. Non è possibile individuare, riconoscere queste differenze, che si trovano, come si è visto, aldisotto della soglia della sensibilità, e quindi della percettività, e quindi della comprensione (13). Ne deriva anche l’impossibilità di esprimere nel linguaggio queste differenze impercettibili. E allora si suppone che neppure esistano, e si pongono in una stessa classe gli individui di cui non si considerano le differenze: vengono in tal modo uniformati, pianificati, e quello che conta è allora soltanto la loro appartenenza (anche se spuria) alla stessa classe. Così si possono contare e quindi calcolare con le relazioni che sono tipiche della scienza, soprattutto formale. È, secondo, una universalità relativa. Ogni nome comune con cui si chiama l’insieme degli individui della stessa classe: “albero”, “pietra”, “stella”, si riferisce sì a tutti ma anche solo agli elementi di una classe e a nessun altro che appartenga alle altre classi. Certo che è anche possibile parlare, come fa appunto specificatamente la logica e la matematica, delle “classi”, degli “insiemi” in generale, e quindi indirettamente di tutti gli individui, di tutte le cose, ma lo fa riferendosi alla loro mancanza di contenuti. Sottolinea che tutti appartengono a classi diverse, in cui convengono solo nella loro specifica mancanza di percettibilità, comprensibilità e quindi esprimibilità. In una parola, vi è espressa l’universalità della loro diversa negatività: ossia tutte queste classi sono universali in senso relativo, nell’esclusivo riferimento ai loro ben determinati elementi, e non agli altri. Terzo, è una universalità astratta. Appunto perché non riguarda i contenuti effettivi degli elementi trattati da cui deriva la concretezza dell’esperienza e del discorso che se ne può fare, ma solo l’uniformità risultante dalla mancanza della loro distinguibilità. È, per così dire, l’universalità dei loro vuoti di contenuto, della mancanza della loro concretezza. Diametralmente opposta è l’universalità estetica: è essenzialmente positiva, assoluta e concreta. È positiva nel senso che ogni contenuto espresso dal significato di un nome comune anziché escludere i contenuti degli altri significati espressi dagli altri nomi comuni, come abbiamo visto
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succedere nell’universalità logica, non soltanto li include ma costituiscono la sua stessa sostanza (3, 4). Sono infatti le diverse differenze dagli altri contenuti che manifestano ogni contenuto attuale. Quando questo contenuto esce da sé per differenziarsi confrontandosi con gli altri, ossia per entrare in relazione con gli altri, non perde se stesso ma proprio allora afferma se stesso. Mentre i significati logici nascono dalla soppressione delle differenze che sussistono tra gli individui di ogni gruppo, ogni significato estetico è invece proprio costituito dalla struttura delle differenze in cui in modo diverso sta con tutti gli altri. Naturalmente bisogna abituarsi a non considerare la differenza tra due cose come un’esclusione dell’una o dell’altra, ma come una relazione che manifesta parzialmente l’identità di ciascuna di esse, dove la parzialità è destinata a ridursi quanto più fitta diventa la rete delle differenze con tutte le altre cose. Questa identità di una cosa qualunque è pertanto tale in quanto non esclude nessuna differenza da qualche altra cosa, perché se e in quanto la escludesse si confonderebbe con essa, e quindi perderebbe parte della propria identità, ossia parte di se stessa. Non soltanto non esclude nessuna differenza dalle altre cose che sono state sperimentate, ma neppure da quelle che non sono state sperimentate, perché anche le differenze da queste vengono a costituire l’indeterminatezza che è pure un costitutivo di ogni cosa, e la spingono ad andare oltre il suo stato attuale per determinarsi meglio e così acquisire una propria più precisa identità. È dunque presente come positiva perfino l’apparente negatività della mancanza delle differenze di tutte le cose o situazioni non sperimentate. Anche l’altra caratteristica dell’universalità estetica si fa in tal modo manifesta: la sua assolutezza. Mentre gli universali logici sono tali sempre relativamente al numero di individui che sono chiamati con lo stesso nome, i quali, per quanto numerosi, sono sempre pochi a confronto di quelli che sono esclusi perché appartengono ad altri gruppi, o classi o insiemi, l’universale estetico scavalca tutte le separazioni tra le varie classi perché è il contenuto che unisce tutti i contenuti di queste classi mediante le loro reciproche differenze costitutive. Nessuna classe risulta così esclusa e quindi neppure nessun loro individuo perché questi sono ora considerati solo nelle differenze che costituiscono il loro contenuto e non nell’assenza delle differenze che li fa esteriormente ossia apparentemente
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uguali, senza differenze. L’universalità estetica libera quindi tutti gli individui dalla loro immersione nell’uniformità spazio-tempo in cui erano senza corpo e senza anima. Il mondo allora si rovescia: ogni cosa riceve la propria identità da quella di tutte le altre perché tutte queste altre, senza nessuna eccezione, si manifestano in essa come sue diverse differenze. I contenuti, non più allora separati dagli altri contenuti, e quindi non più isolati e uniformati, si riempiono e diventano se stessi. Non solo si liberano gli individui dallo spazio ristretto della loro appartenenza a un gruppo, ma anche tutti questi gruppi, per quanto estesi essi siano, rompono la loro angusta relativa universalità per entrare in una universalità che non ha più in conseguenza nessun limite, nessuna barriera, ed è quindi assoluta. Come abbiamo poc’anzi osservato, anche le differenze sepolte nel mare dell’uniforme spazio-tempo agiscono da quella loro specie di tomba su quelle che si sono già manifestate nella loro coscienza per spingere la coscienza stessa all’infaticabile ricerca del loro scoprimento. L’universalità che in tal modo risulta è un’universalità concreta opposta a quella astratta che abbiamo riscontrato nelle strutture logiche. Non si tratta infatti di una collettività di individui di cui si considera solo il fatto che hanno qualcosa in comune di cui non si considera il significato del loro nome per cui sono “molti” senza differenze. L’universalità estetica risulta dall’abbattimento di tale molteplicità e quindi dall’apertura di ognuna a tutte le altre dalla quale riceve la sua rivelazione. Anche se questo abbattimento può essere soltanto parziale perché la coscienza non riesce a rilevare e quindi a sintetizzare le differenze che rimangono sotto la soglia (13), tale residuo di molteplicità rimane fuori di tale universalità, perché questa per sua natura occupa tutti i contenuti delle cose, senza limiti, arrivando alla loro profonda ultima unica realtà. Nonostante queste precisazioni può darsi che rimanga ancora una grave difficoltà. Se ogni cosa senza eccezione implica costitutivamente tutte le altre, non sono allora di nuovo tutte equiparate, uniformate, e quindi non perdono allora di nuovo la loro identità, e con essa la loro concretezza? La risposta è che ogni cosa, qualunque essa sia, dispone tutte le altre in una struttura di diverse differenze che è tuttavia diversa dalla struttura di diverse differenze
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disposta da ogni altra cosa. Le diverse differenze che costituiscono il contenuto essenziale di un albero sono diverse dalle diverse differenze che costituiscono il contenuto essenziale di un sasso. Ognuna ordina tutte le altre senza eccezione, ma le ordina sempre in modo diverso. E allora, invece di perdersi, la concretezza acquista una sua nuova dimensione, una più densa unità che la rende ancor più se stessa. Se si considera solo il modo come una cosa ben determinata determina tutte le altre si rimane ancora nel campo dell’essere semplice, alla prima potenza, che si può dire unico perché tutti gli enti vi sono implicati, ma se poi si considera inoltre che ogni situazione di questo essere totale implica costitutivamente tutte le altre situazioni dello stesso essere totale si ha un essere alla seconda potenza, l’unico in senso assoluto, l’essere singolo che esclude da sé ogni molteplicità e quindi ogni astrattezza logica, l’essere assolutamente concreto, l’essere cosciente. Nel primo caso si ha l’universalità concreta dell’oggetto estetico, nel secondo caso l’universalità più concreta della coscienza in cui è contenuto ogni oggetto estetico.
7. INCOMPLETEZZA DI OGNI ESPRESSIONE ESTETICA
Questa coscienza estetica tuttavia non può mai essere assolutamente pura perché i contenuti effettivi essenziali nei quali vive e si muove non possono mai essere completi. La loro incompletezza si dimostra già nel fatto che a loro volta questi contenuti essenziali non possono liberarsi completamente dal riferimento alle cose prese nella loro contingenza e materialità, ossia all’uso che se ne fa, alle loro strutture nascoste, e quindi a indicazioni dirette o indirette a dimensioni che per lo meno disturbano oscurandola l’esperienza e la visione diretta dei contenuti estetici. Ne deriva tra l’altro che ogni artista, pittore, scultore, architetto, compositore è costretto a trattare la materia lottando contro di essa, contro il suo nascondimento che la costituisce, e usando quindi strumenti mai perfetti nello sforzo di vincere la sua riluttanza e a esprimere quello che l’artista ha concepito nella sua fantasia. Questi strumenti a loro volta, risentono della situazione in cui nel tempo si trovano le conoscenze sempre parziali e sempre in via di miglioramento a cui è
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arrivata la tecnica e, alle sue sorgenti, la scienza. L’uso delle cose avviene ancora a sovrapporsi alla pura creatività da cui emerge la bellezza estetica. Il poeta stesso, che sembra in grado di adoperare uno strumento puro, non condizionato dalla materia, ossia il puro e semplice linguaggio, è costretto ad adoperarlo in quelle forme grammaticali, sintattiche, cadenziali, ritmiche, imposte dalla vita vissuta e praticata nel tempo in cui vive e opera. È a questo punto che trova la sua ragione anche la precettistica che abbiamo visto considerata spesso come la dettatura dei contenuti della bellezza estetica. Ma il fatto stesso che di precettistiche ce ne siano state tante, e tante siano scomparse al passare del loro tempo, come l’unità di azione in cui secondo Aristotele dovrebbe svolgersi l’azione drammatica, in particolare tragica, e l’unità di luogo e di tempo imposta dagli estetisti del Cinquecento, denota che non è riposto in essa il segreto della creazione della bellezza estetica. E tuttavia è altrettanto chiaro che certe regole, quelle scaturienti immediatamente dalla sostanza del contenuto artistico, non possono mai venir meno, anche solo per il fatto che sono volte a tener lontano quei fattori che per natura loro sono in opposizione a questa sostanza dell’arte. Così, ad esempio, la necessità della proporzione (armonia) delle parti di un’opera d’arte: di una sinfonia, di un poema, di un quadro, di una statua, scaturisce dal fatto che la sproporzione per difetto o eccesso di una parte rispetto alle altre parti della stessa opera d’arte deriva da fattori estranei a queste altre parti stesse e quindi non è parte del tutto, ossia è un fattore di disturbo, in contrasto con la sostanza dei contenuti essenziali, i quali, come sappiamo, sono tali in quanto si generano l’uno dall’altro e non da altri fattori esterni ad essi, che sarebbero allora cosali e non essenziali. È chiaro tuttavia che una sproporzione sul piano fattuale, cosale può diventare invece un pregio artistico nell’opera d’arte, se in essa assume un suo significato estetico. L’inevitabile incompletezza dei puri contenuti essenziali e quindi della autogenerazione interna non deve mai nascondere e oscurare la sostanza di tali contenuti, e quindi la percezione di bellezza che sta alla loro origine e dell’eventuale opera d’arte che li esprime. Con maggiore evidenza e senza molte difficoltà è risultato poc’anzi che questa incompletezza fa nascere tutti quei problemi
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che riguardano gli aspetti tecnici di ogni opera d’arte, e quindi la relativa precettistica che l’accompagna. Più difficile è invece rendersi conto che, pur rendendosi pesantemente manifesta anche in relazione al contenuto interno, quell’incompletezza non fa perdere a questo contenuto quell’aspetto di assolutezza che è pur sempre caratteristico di un’autentica opera d’arte, e che, come si è visto, è un’espressione di quel vero assoluto ipostatico che è l’Essere stesso. Sembra qui esservi una contraddizione, e invece è una realtà che riesce a rendere più comprensibile la complessità e disparità dei contenuti stessi del sentimento estetico e dell’opera d’arte in cui si esprime. L’argomento di un’opera d’arte è sempre necessariamente una cosa, un complesso di cose, un paesaggio, un sentimento, un insieme di suoni, un racconto. Sono argomenti che, riguardando cose sembrano escludere gli altri argomenti su altre cose, sentimenti, paesaggi, insiemi di suoni. E questo è vero, ma se passiamo al loro significato, in cui, come si è visto, è riposta la sostanza della coscienza estetica, sappiamo che ognuno è tale in quanto è in riferimento costitutivo agli altri significati dai quali riceve la sua identità. È l’apertura totale ad essi senza eccezione che ognuno di essi esprime. Sebbene ognuno di questi altri sia un significato che appoggia sul mondo delle cose che significano, quando la coscienza arriva alla comprensione anche implicita di questa loro qualità di “cose”, di “esseri”, ossia diventa coscienza consapevole, anche la scomparsa di questi oggetti reali in qualcuno dei quali si realizzano i suoi contenuti estetici non li priva di tali contenuti. Questi contenuti si rendono anzi allora ancor più evidenti perché non sono più presenti nell’angustia delle loro realizzazioni esteriori che li sclerotizzano.
8. LA PRESENZA DEL NASCOSTO. IL SENTIMENTO
Si presenta insieme allora nella sua maestà imponente e talvolta paurosa la mancanza di contenuto in ogni particolare contenuto, e quindi ancora di nuovo la presenza della totalità dell’Essere, ora nascosta, ma in certo senso ancora più presente proprio in quanto nascosta. Abbiamo a lungo discorso sul tipo di trascendenza che è proprio dell’Essere : è trascendenza per eccesso di immanenza (20). Là dove si avverte il limite, dove lo si sente, e soprattutto là dove lo
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si vive e lo si soffre, è presente ciò che rimane nascosto dal limite come da invalicabili mura, più presente ancora che se si manifestasse nella sua scoperta realtà. La nascosta realtà preme dal suo nascondimento fino a investire tutta la realtà manifesta. L’austera maestà delle tragedie scritte in ogni letteratura incominciando da quella dell’antica Grecia, e prima di loro, al loro fondamento, tutte le tragedie vissute e sofferte dai singoli esseri viventi, dalle loro popolazioni, dalle nazioni, dall’intera umanità sono una testimonianza fin troppo evidente di questa misteriosa presenza. Lo si vede già al semplice livello di quella che abbiamo chiamato coscienza implicita, propria dell’animale. Un uccello torna al suo nido con il cibo nel becco per il suo piccolo, ma lo vede in quel momento dibattersi disperato tra le zampe della gazza ladra che lo rapisce. Mi risuona ancora nell’anima il suo grido straziante. Tutte le espressioni di amore che gli uccelli si cantano in libertà non equivalgono in intensità e potenza a quella di questo grido. Quanto in tal modo si manifesta in una coscienza inconsapevole in una specie di presentimento aurorale lo si trova ampliato all’infinito in una coscienza consapevole. In una coscienza cioè in cui ogni significato e sentimento diffonde la sua risonanza in tutto ciò che è, in ogni altro possibile significato e sentimento. La sostanza dell’amato perduto è ancora presente nello strazio della sua sparizione, nella nostalgia del ricordo; e anche quando questo ricordo svanisce, continua trasformato a vivere in ogni esperienza simile o dissimile o addirittura contraria di chi l’ha vissuto. Lì dove è scomparso ha messo in evidenza lo spazio che occupava e che continua ad esserci assieme all’esigenza di venire nuovamente riempito. Questo spazio vale più di tutte le cose, di tutti i particolari contenuti che possono occuparlo e che sono in definitiva sempre provvisori. Possiamo allargare questo discorso radicalizzandolo. Se si esclude la presenza dell’assente nell’oggetto estetico, in particolare nell’opera d’arte, non si arriva a vedervi presente la totalità dell’essere e quindi l’essere stesso dell’oggetto estetico, ossia della coscienza estetica che lo rende tale. Già la natura stessa del significato, ossia del contenuto essenziale, come abbiamo spesso ripetuto perché si tratta di un principio fondamentale, consiste nel fatto che ognuno di essi implica costitutivamente le sue differenze dagli altri contenuti e quindi in definitiva questi altri contenuti
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stessi (4). La falsa apparenza che tuttavia ogni esperienza umana, per quanto vasta e profonda, non sia passata per molti dei contenuti reali e possibili viene confutata dal fatto che per quel principio fondamentale dal momento che ognuno si costituisce dalle sue diverse differenze dagli altri, quelli che sembrano esclusi sono contenuti nella indeterminatezza di quelli manifesti, con una indeterminazione, come si è esposto fin dall’inizio di questo capitolo, che agisce sulla manifestazione dei soggetti come esigenza da essi sentiti di venir completati, e soprattutto come esigenza della coscienza stessa di cui i singoli significati sono i momenti vissuti attuali. La conclusione è chiara. Nello sfondo di ogni contenuto manifesto, qualunque esso sia: gioioso, triste, deludente, esaltante, è annidata la tacita, indescrivibile per definizione azione dei contenuti non espressi, o meglio di quel mare di indeterminatezza feconda su cui navigano irrequieti i contenuti manifesti. Nel fondo di ogni percezione di bellezza, e quindi poi anche di ogni opera d’arte e di ogni sua fruizione vi è il sentimento, inesprimibile a parole, che la colora di mistero. Il sentimento e il mistero accompagnano sempre tacitamente ogni folgorazione che ci viene dalla visione della bellezza e della sua espressione artistica. Nello sforzo di mettere in rilievo l’ambito della coscienza in cui emerge la bellezza estetica abbiamo fin troppo sottolineato la sua lontananza dal piano degli oggetti individuali che ospitano tale bellezza. Tali oggetti in quanto individuali vengono usati perché appartengono al mondo fisico, ossia alle strutture spazio-temporali su cui ci soffermeremo nella terza parte. A questo mondo appartengono ad esempio un libro in cui è scritta la Divina Commedia di Dante, la tela della Gioconda di Leonardo, la statua marmorea del Mosè di Michelangelo. Cosicché si può usare quel libro, bruciandolo, per riscaldarsi, quel quadro per coprire un graffio o un foro della parete, e quella statua per ricavarne pezzi di marmo a sostegno di un pavimento. Al loro significato estetico appartiene invece la descrizione delle pene dei condannati all’inferno, la rappresentazione del misterioso sorriso della Gioconda, la rappresentazione della potente placida forza del grande profeta. Ma è necessario a questo punto distinguere molto bene. È chiaro che i canti di quel libro rappresentano autentiche persone, quel quadro e quella statua rappresentano una donna e un uomo, che emergono quindi
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nel loro specifico riconoscimento a differenza degli infiniti altri riconoscimenti possibili che, come sappiamo, rimangono nello sfondo. Ma oltre a questo significato figurativo, riconoscitivo, che va già aldilà dei fattori sensoriali che vengono usati (tanto più che in queste opere d’arte sono ben più ridotti di quelli reali costitutivi di una vera donna e di un vero uomo), essi suscitano nella coscienza di chi li osserva delle reazioni che appartengono esclusivamente alla coscienza in quanto tale e non agli oggetti riconosciuti dalla coscienza. Queste reazioni, che chiamiamo in genere “sentimenti” sono dunque ben più al centro dell’esperienza estetica, anche nelle stesse arti “figurative” in cui “la figura riconosciuta” occupa anch’essa un posto centrale. Ma la reazione del sentimento sovrasta l’oggetto riconosciuto tanto che questo può essere rappresentato distorto rispetto al suo aspetto normale, perché quel sentimento emerga con maggiore intensità. Un confronto con la famosa concezione dell’arte di Schopenhauer può aiutarci a chiarire questo punto importante. Questo filosofo ha ben messo in evidenza l’allontanamento dal “flusso che domina il corso del mondo”, in cui si situa la contemplazione estetica. Questo flusso è la “corrente instabile e irrequieta delle cause e degli effetti”, inseguito dalla scienza che in tale corsa senza limiti di causa in causa non raggiunge mai “quel punto in cui le nuvole toccano l’orizzonte. In contrapposizione a questo mondo, che è il tipico mondo delle “relazioni”, come egli continuamente lo chiama, l’arte “l’oggetto della sua contemplazione se lo pone davanti isolato”, come “rappresentante del tutto, equivalente a ciò che è infinitamente molteplice nello spazio e nel tempo” 13 . Ma in questa interpretazione non è ancora visibile in che modo ognuno di questi diversi “oggetti” della contemplazione estetica sia “un rappresentante del tutto”. Schopenhauer non ha considerato che oltre al mondo delle “relazioni”, che per lui sono solo spazio-temporali, anche il mondo estetico è un mondo di “relazioni”, di relazioni anzi molto più pure, perché si trovano sul piano dei contenuti essenziali, i cui residui e rifiuti costituiscono proprio quelle relazioni spazio-temporali di cui egli parla, e che acquistano pertanto solo allora la loro spiegazione. Questa prima ovvia limitazione dell’interpretazione dell’arte di 13
Die Welt als Wille und Vorstellung, Lipsia 1819; tr. it., Bari 1916, § 36.
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Schopenhauer è la conseguenza di un’altra ben più radicale, perché riguarda addirittura il nucleo essenziale di tale interpretazione. Ed è la tesi di fondo che l’arte sia l’espressione di ciò che sta alla base di ogni “rappresentazione”, ossia l’espressione della “volontà di vivere”, in cui, come è noto, è riposta per Schopenhauer la sostanza della realtà. Una “volontà di vivere” che, precedendo ogni rappresentazione conscia è dunque nella sua sostanza inconscia, e quindi sostanzialmente inconscia dovrebbe essere ogni sua rappresentazione estetica. Queste radicali, abissali discontinuità tra i vari elementi: sensoriale, rappresentativo, cosciente, inconscio che figurano inevitabilmente in ogni espressione estetica della coscienza sono inconciliabili in questa plumbea visione della bellezza estetica e della sua espressione artistica. Certamente il fattore sensoriale viene superato in tale bellezza e nell’opera d’arte, ma viene “superato” nel senso che insieme viene conservato e custodito (si ricordi l’auf-heben di cui parla Hegel), per mostrare quello che sta aldilà di questo rivestimento sensibile. Consideriamo “la rosa”. Quando le poche radiazioni del sole vengono colte da quella cosa particolare che si rivelerà come una “rosa”, e poi dall’osservatore cosciente, allora diventano effettivamente “la rosa”. Diventano “la rosa” perché in quella coscienza si presentano nella loro differenza da ogni altra radiazione e stimolo con cui l’organismo è stato e può essere colpito: è questo il primo grado di quel “superamento”. Ma poi, ed è il secondo grado ben più importante, quei messaggi fanno emergere la differenza tra ciò che la coscienza ora sente e vive davanti a quell’oggetto e ciò che la coscienza ha sentito e vissuto quando in essa si sono manifestate, attraverso altri messaggi, tutti gli altri oggetti da cui è stato colpito il suo organismo: Tutti questi altri sentimenti, analogamente a quanto avviene per gli oggetti ma a un livello ben più profondo perché collocato nel cuore dell’unica coscienza, non si presentano più nella loro individualità, ma nelle loro sostanziali differenze. È dunque questo il più autentico grado dell’esperienza estetica perché pone non solo l’oggetto sensibile nel suo significato essenziale rispetto a tutti i significati di tutti gli altri oggetti sensibili, ma la risposta della coscienza nella sua differenza da tutte le altre sue risposte, ossia del sentimento attuale rispetto a tutti gli altri. È così che la rosa attuale che sta davanti alla coscienza che la contempla si esprime nella spontaneità del suo fiorire, nella delicatezza della sua
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struttura, nella grazia della sua forma, nella disposizione armoniosa e amorosa delle sue corolle, nel piacere del suo profumo. E nello stesso tempo, addirittura in coincidenza, essa allontana a diversa distanza i sentimenti che accompagnano ogni cosa arida, artificiosa, angolosa, putrida, enorme o troppo minuta. Il suo nome di “rosa” non evoca solo le differenze dei significati degli altri nomi con cui vengono chiamate le altre cose (questa è solo una premessa), ma soprattutto la gioia del sentimento che suscita nell’anima a differenza di ogni altro sentimento. Non vi è rosa senza la sua grazia: se la sua grazia sparisce, sparisce anche la rosa. Non soltanto allora la rosa nella sua rivelazione estetica appartiene alla coscienza ma anzi appartiene all’apice della sua consapevolezza. Diventano allora più profondamente comprensibili le belle considerazioni che Schopenhauer esprime a riguardo di quella particolare arte che è la musica. Per lui essa esprime direttamente, senza mediazione delle rappresentazioni l’inconscia “volontà di vivere” che per lui è la sostanza del mondo14. In realtà essa esprime, certo senza bisogno di rappresentazioni, di figure di oggetti, i sentimenti della coscienza nella loro consapevole purezza. La sensibilità è infatti ridotta a puri rapporti di suono, e quindi ogni altra interferenza sensoriale è esclusa, a vantaggio della pura apparizione e del puro sviluppo del sentimento. Il sentimento ap14
Anche Schopenhauer si sofferma magistralmente nella descrizione della successione dei sentimenti espressi dalla musica: “Ora, come l’essenza dell’uomo sta nel fatto che la sua volontà aspira, viene appagata e torna ad aspirare, e sempre così continua; anzi sua sola felicità, solo suo benessere è che quel passare dal desiderio all’appagamento e da questo a un nuovo desiderio proceda rapido, poi che il ritardo dell’appagamento è dolore, e il ritardo del nuovo desiderio è aspirazione vuota, languor, noia: – così l’essenza della melodia è un perenne discostarsi, peregrinare lontano dal tono fondamentale per mille vie [...] eppur sempre succede da ultimo un ritorno al tono fondamentale. Per tutte codeste vie esprime la melodia il multiforme aspirare della volontà; ma col ritrovare infine un grado armonico, o meglio ancora il tono fondamentale, esprime l’appagamento [...] così sono gioiose le melodie rapide, senza grandi deviazioni: tristi sono invece se lente, deviate in penose dissonanze” (ivi, § 52). Siamo qui evidentemente davanti a una trama di “relazioni” e a “rappresentazioni” di sentimenti che, sebbene più profonde di quelle che esprimono “cose”, “eventi” e “idee”, perché esprimono direttamente la risposta della coscienza alle cose, agli eventi e alle idee, si tratta pur sempre di “relazioni”, di “rappresentazioni”, soprattutto di “coscienza” e non di volontà inconscia. È proprio la profonda coscienza di questi sentimenti che li può rendere artistici e ne garantisce l’unità e l’universalità.
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pare lì nella sua dinamica interna che lo costruisce e lo sviluppa nella sua autentica non più dispersa realtà. Ogni nota è solo il risultato delle note precedenti e l’anticipazione di quelle che seguono. In se stessa, da sola, non è nulla, ma contiene in sé tutto il sentimento che si era impadronito delle note precedenti, e che è prevalentemente (ma è solo uno dei molti sviluppi) di preparazione di tensione, di aspirazione, di domanda, di conflitto, fino talvolta alla suprema dissonanza della disperazione, ma che poi prelude alla soluzione, alla risposta, all’abbandono, al riposo, alla pace delle note che seguiranno ma che già nelle precedenti erano in gestazione. Non è più qui veramente possibile distinguere il passato, il presente e il futuro, e quanto più queste distinzioni dileguano tanto più lo sviluppo si avvicina alla sua perfezione. E tuttavia questa perfezione non sarà mai possibile raggiungerla perché quella coscienza, che lì si esprime nei suoi sentimenti, porta sempre con sé i limiti che sono intrinseci alla sua realtà e quindi anche al suo tentativo di esprimerla, sia pure al di fuori ormai dei condizionamenti sensoriali. Il suo mistero l’arte lo porta sempre con sé anche quando cerca di porselo davanti e di scrutarlo. Questo alone di mistero che accompagna ogni espressione artistica, in particolare ogni melodia, per quanto ricca sia l’armonia che l’accompagna, non la rende certo estranea alla coscienza, perché anzi manifesta in tutte le sue manifestazioni: gioiose, melanconiche, tristi, tragiche, l’inattingibilità del suo compimento, pur rimanendo questo sempre presente nel cuore del suo tormento.
9. QUALCHE ESEMPIO ILLUSTRATIVO
Abbiamo incominciato questo capitolo esprimendo la difficoltà di collocare con una certa esattezza l’ambito in cui si muove la coscienza estetica. Forse portando ora il discorso da un piano teorico astratto a qualche sua applicazione concreta potranno rendersi più trasparenti alcuni momenti che abbiamo riscontrato costitutivi dell’esperienza estetica e della sua espressione artistica. Abbiamo sottolineato il movimento interiore che porta dal significato di un segno: di un quadro, di una statua, di una poesia scritta o parlata, a tutti gli altri “significati” dalla cui differenza ottiene la sua rivelazione, la sua autentica, pura verità, quella appunto
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estetica, ben diversa da quella “usuale” risultante dal rapporto del significato con le “cose” significate e dalle relazioni di queste tra di loro. Questi altri significati lo liberano anzi da questi ultimi rapporti volti a incatenarlo a quelle zone dello spazio e del tempo in cui si trovano isolate e separate le cose da esso significate. Queste differenze diverse degli altri significati, liberate dalla presenza fisica delle cose, riempiono il significato estetico della cosa e dell’opera, anche se si trovano con esso in opposizione o a distanze infinite. È proprio il richiamo della presenza dei contenuti (o significati) diversi nel contenuto (o significato) attuale, e più precisamente della presenza della loro diversità di somiglianza o di opposizione che fa emergere il contenuto (o significato) estetico di questo contenuto attuale. Questa presenza si rende manifesta attraverso i segni di quei significati diversi (parole scritte, suoni) che essendo subordinati al significato attuale sono presentati da segni che sono anch’essi subordinati ai segni del significato attuale. Ma questi segni sono del tutto secondari. Il vero riferimento, tacito, sovraspaziale, sovratemporale, del significato attuale, del tema trattato, della statua, del quadro, è rivolto soltanto agli altri significati ‘puri’ dai quali riceve la sua manifestazione, anche se poi dovrà essere calato in una cosa spazio-temporale o in una immagine, ma senza lasciarsi condizionare dalla loro individuale spazialità e temporalità. Nei casi di poesie o in genere di rappresentazioni su argomenti astratti, non vengono espresse strutture di concetti collegati con quello che figura come tema con lo scopo in qualche modo di definirlo, come avviene nel discorso logico, ma si tratta solo di suscitare le immagini e i conseguenti sentimenti che il concreto contenuto del nome di quel tema significa. “L’inno alla gioia” di Schiller e di Beethoven, che ora viene cantato dalla nuova Europa, è l’espressione della gioia stessa che anima la natura e l’animo di ogni uomo che si sente appartenere alla famiglia umana. Nelle prime quattro strofe il vortice di un tripudio bacchico travolge l’animo di questi amici che si sentono assieme fusi nel sentimento di simpatia che unisce tutti gli esseri dell’universo dal più piccolo verme al cherubino che sta davanti a Dio. Nelle altre quattro strofe è la costatazione del fiume maestoso di virtù, di conoscenza e di fede nella trascendente paternità di Dio che vince ogni assalto del male, compreso quello della prepotenza di ogni tirannide, e che innalza la stirpe umana fino a renderla simile a Dio, a inebriare lo
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spirito fino a invadere lo stesso corpo. L’espressione della gioia s’identifica con la stessa gioia vissuta che nasce da quell’espressione. D’altra parte la poesia, e in genere l’arte che si riferisce invece a un concreto preciso episodio particolare, lo fa rivivere solo nel suo significato, e mai nella sua realtà empirica, la quale pertanto viene superata nella sua catarsi, e in certo senso anzi tanto più sublimata quanto più grave e distruttiva poteva essere, o fu effettivamente, la furia della sua esteriore contingente realtà. Prendiamo una delle più semplici liriche, che abbiamo imparato fin da bambini; il “pianto antico” di Giosué Carducci. L’albero a cui il bambino tendeva “la pargoletta mano” non è certo l’albero fisico con le sue caratteristiche spazio-temporali: quello può non esserci più; c’è ora solo il ricordo di “quell’albero”, in cui però anche il termine “quello” non indica la contingenza di quel preciso albero, le sue caratteristiche fisiche; non viene considerata la sua grandezza, il numero dei suoi fiori e frutti, ma il suo essere quel particolare albero del giardino del poeta verso cui si protendeva “la pargoletta mano” del figlioletto ora defunto, l’albero che è ora “rallegrato” dalla “luce” e dal “calore” dell’estate. Ma sono significati per intanto ancora sospesi, che solo parzialmente manifestano il loro senso estetico. Solo quando si passa a dire che il bambino è ora invece nella “terra fredda” e nella “terra negra”, da questo contrasto tragico con quella “luce” e quel “calore”, la terra in cui si trova sepolto il bambino diventa terribilmente “fredda” e “negra”. Mentre, d’altra parte, retrospettivamente, quell’albero appare ora invaso da una luce più fulgida e da un calore più vivo. Sullo sfondo, a dare risalto e un senso ancora più tragico a quel contrasto sta la disperazione del padre la cui vita è ora come una pianta “percossa”, “inaridita”, perché il bambino morto era “il fiore” che la rallegrava. A sua volta il significato di questa disperata situazione del padre emerge da quel tragico contrasto. Si rende evidente così anche un altro tratto della coscienza estetica e della sua espressione artistica, che anzi ne costituisce la più intima essenza. Liberati dalle loro incrostazioni fisiche che li fissano e insieme li separano nello spazio e nel tempo, i puri contenuti estetici fluiscono gli uni negli altri perdendo la loro qualità di parti per fondersi nella totalità dell’intero a cui appartengono. Quanto più queste pseudo-parti si perdono senza residui nelle altre parti a formare il tutto, tanto più l’oggetto esprime il suo contenuto
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estetico, ossia si pone sul piano delle sue costitutive differenze dagli altri contenuti universali e si allontana dal piano dei contenuti fisici empirici contingenti raggiungendo la sua autentica identità. Questo avviene in ogni tipo di contenuto estetico, ossia in ogni genere d’arte, anche nelle arti figurative in cui sembrerebbe escluso il movimento, ossia lo sviluppo nel tempo, e prevalente invece la distribuzione delle parti nello spazio. Nel discobolo di Mirone il gesto del lancio del disco risulta nella sua purezza estetica, ossia nella sua universalità concreta perché ogni muscolo senza eccezione: del dorso, del piede, della mano, degli occhi della bocca sono esclusivamente orientati a quell’azione di lancio. Non appare nessun elemento che distragga da questo totale orientamento. La stessa concentrazione del volto è protesa esclusivamente ad un esito che deve risolversi nello spazio più prossimo e nel tempo più immediato, ed è quindi sostanzialmente diversa da ogni altro tipo di concentrazione: del pensatore che ricerca la verità, dell’uomo d’affari che calcola i vantaggi che possono derivare da una sua operazione. Il senso di queste diverse concentrazioni rimane nascosto nello sfondo a manifestare quello direttamente espresso da quest’opera d’arte. La reversibilità del tempo nei significati estetici, che è in netto contrasto con l’irreversibilità del tempo degli eventi fisici, e quindi il suo superamento, risalta ancor più nelle composizioni musicali, sia quando sono pure che quando accompagnano e interpretano un testo poetico. Le note di una sinfonia o di un canto acquistano il loro significato ossia il loro valore estetico quando passano nelle note successive, e quindi in essi perde valore il tempo fisico dal quale vengono convogliate. È la melodia, con il commento dell’armonia che l’accompagna, a costruire il significato estetico delle note precedenti esteriormente espresse dai suoni degli strumenti. E anche in queste composizioni, come in quelle poetiche già considerate, questa unità di significato può emergere dalla pluralità degli elementi in infiniti modi, che possono andare da una monotona nenia ripetitiva al contrasto più violento e repentino. Le gravi note dell’inizio della “messa da requiem” di Mozart e il loro profondo suono lamentoso non vengono disturbate dai bagliori degli improvvisi fortissimi accordi che sembrano lampi abbaglianti o improvvise grida di dolore, ma emergono anzi allora nel loro sconvolgente senso profondo. La contrapposizione si ripete in
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quasi tutta la messa, là per esempio dove, nella sequenza del “dies irae” dopo la descrizione del mondo in fiamme, del terrore che l’accompagna, e del suono della tromba dell’angelo nel silenzio dei sepolcri, appare il re con la sua “tremenda maestà”. Ma i poderosi accordi che esplodono dalle sbalordite pause di silenzio del coro a incutere terrore si addolciscono prodigiosamente nelle poche battute della dolcissima preghiera: “salvami o fonte della pietà”. I contrasti per quanto violenti non distruggono mai le parti contrastanti, ma anzi le costruiscono nel loro vero senso. La stessa dialettica interna si instaura dove all’opposto la quasi monotona ripetizione degli sviluppi della melodia può suggerire il sospetto di una caduta del cammino estetico. Ma è una falsa impressione. Pensiamo ancora alla “messa” di Mozart. La cantilenante apparentemente noiosa narrazione di quanto il giudice, quand’era salvatore, ha fatto, faticato, sofferto e perdonato, colloca ogni parola della preghiera e ogni nota nella sua vera identità. Essa ha lo scopo di ottenere, anche a costo di importunare colui da cui dipende la propria sperata salvezza, il perdono non meritato: “Tu che hai assolto Maria Maddalena, tu che hai esaudito il ladrone pentito [...] ricordati che sono la causa del tuo cammino, della tua fatica, del tuo tormento sulla croce”. Analogamente alla fine della stessa sequenza, nella strofa che la compendia in poche parole e in poche note. Il canto “lacrimosa dies illa” è un singhiozzo che, dopo lo strazio vissuto nella descrizione della fine del mondo e del giudizio finale, risolve il terrore in una desolata tristezza. Quel giorno è “lacrimoso” perché in esso deve esser giudicato “l’uomo reo”, e quindi in quel ricordo la melodia si riaccende con un nuovo rigurgito di quel terrore che sembrava sopito. Ma anch’esso alla fine si placa nella preghiera dell’ultimo riposo. E tutto viene confermato e quasi sigillato nel potente, prolungato “amen” finale. Nessuna di queste parti contrastanti demolisce le altre, ma all’opposto le conferma nella loro identità. Un’analoga forma ripetitiva, che è tuttavia solo apparentemente tale perché la ripetizione avviene in modo sempre straordinariamente diverso così da risolversi in un sentimento sempre più vivo e intenso, invece che ridursi come avverrebbe nel caso di una ripetizione banale, si ritrova nell’offertorio. Venti, trenta, quaranta volte vengono ripetute dal coro dei soprani, poi dai tenori, dai bassi, da tutte le voci insieme le parole da cui deve dunque dipendere
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qualcosa di estremamente importante, la salvezza finale, “la luce eterna”: “l’hai promesso, l’hai promesso,... l’hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza”. Ma è proprio da questa ripetizione di parole, di ritmi, di voci, simili e diverse, che si susseguono, si accavallano, si riuniscono per poi separarsi e di nuovo riunirsi, che nasce il sentimento di un’implorazione accorata, che non è più umile supplica come nel dies irae, ma una ferma, febbrile esigenza che quella promessa venga ad ogni costo mantenuta. Quelle infinite ripetizioni non sono ripetitive, sono costruzioni di un sentimento che va accentuandosi a mano a mano che “si ripetono”. Nel “concerto” e ancor più nella “sinfonia” il sentimento può svilupparsi in tutta la sua universalità e complessità: “universalità”, perché il sentimento non è lì legato a nessun testo particolare in cui è sì contenuto ma è anche determinato; “complessità”, perché le particolari linee melodiche e armoniche emergono simultaneamente ognuna dalle altre, addirittura nello stesso tempo, con una composizione che è evidentemente analoga a quella dei sentimenti, in cui ognuno dipende per somiglianza, richiamo, risonanza, contrasto da tutti gli altri. Consideriamo ad esempio la sinfonia “Incompiuta” di Schubert. Il primo tempo inizia con una espressione di gioia serena, piena di dolcezza e delicatezza. Ma come impaurita della sua stessa gioiosa spontaneità, e paurosa di ciò che può succedere, improvvisamente si arresta incompiuta, e viene subito travolta dal sentimento di distruzione che, quasi nutrendosi della propria violenza, imperversa soffocando ogni tentativo di sopravvivenza del primo sentimento. Il risultato è un profondo sentimento di tristezza in cui il rimpianto si tinge di malinconia, e si esprime quasi in un pianto. Nel secondo tempo questi stessi sentimenti dominanti si ripresentano, ma come rivissuti in una specie di sogno in cui perdono la loro indipendente precisa individualità per mitigarsi vicendevolmente, ma in tal modo invece approfondendola nel ricordo della loro passata vicenda e del loro contrasto. Questi suoni non raccontano nessuna precisa vicenda, non commentano nessun particolare testo, ma per ciò stesso raccontano molto della sostanza della vicenda umana, che nelle sue dimensioni manifeste e nascoste, aldilà dei luoghi, dei modi e dei tempi diversi, ne guida la nascita, lo sviluppo, e la scomparsa. Anche da questi pochi esempi appena accennati è possibile intravedere come la totalità dell’Essere sia sempre implicata e come in
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conseguenza sempre si mostri nella coscienza estetica e si esprima nell’arte, sia pure sempre in alcune delle infinite forme in cui può atteggiarsi il suo essere proteiforme. Il significato estetico emerge direttamente dalla trama dei significati nominati o comunque indicati, i quali naturalmente possono figurare esteriormente in numero assai ridotto, come abbiamo visto nella poesia di Schiller e di Carducci, nella statua di Mirone, nelle note di Mozart e di Beethoven, ma bastano quei pochi cenni perché si orientino in conseguenza, pur rimanendo nello sfondo, tutti gli altri significati, diversamente polarizzandosi a seconda del richiamo dei significati espressamente nominati. È soprattutto in questa trama nascosta che è contenuta la gioia dell’intuizione estetica e la bellezza delle sue espressioni artistiche. Molte correnti filosofiche, soprattutto di ispirazione platonica, neoplatonica, romantica e idealistica hanno visto nel sentimento della bellezza e nelle espressioni dell’arte un’intuizione dell’essere e dello spirito assoluto. Quelle loro elucubrazioni spesso estremamente vaghe e astratte dovevano essere calate nella concretezza delle strutture costitutive della coscienza.
10. L’ESTETICA DI R.M. RILKE
La rivelazione dei significati estetici e la loro espressione nei vari linguaggi dell’arte è stata esposta, oltre che ovviamente dai filosofi della bellezza estetica, anche dagli artisti stessi, in particolare dai poeti. Le loro considerazioni diventano allora particolarmente interessanti perché, per così dire, questa rivelazione l’hanno vissuta prima di esporla, e la possono addirittura esporre adoperando le stesse espressioni artistiche di cui sono maestri. Rainer Maria Rilke ha fatto di questa rivelazione un oggetto di una sua particolare predilezione. Lo prenderemo quindi ora brevemente in considerazione perché ci aiuterà a evidenziare meglio gli elementi che siamo andati riscontrando nell’ “evento” estetico. Anche di lui, come di Hölderlin, si può dire che è “in un senso eminente un poeta del poeta” 15, e anzi, cercheremo di riconoscerlo 15 Così di Hölderlin ha scritto M. Heidegger, Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung, Frankfurt a.M. 1981; tr. it., Adelphi, Milano 1988, p. 42. Le lunghe disquisizioni di questo filosofo sulla poesia di Rilke e sulle sue concezioni dell’arte
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come il poeta della rivelazione estetica in generale, e non soltanto della poesia. Il modo “pragmatistico” di considerare le cose, in quanto le svuota della loro autentica realtà, Rilke lo chiama modo “americano”, evidentemente perché è in America che questo modo, in verità derivato da tutta la tradizione scientifico-tecnico-industriale dell’età moderna, ha raggiunto la sua massima espressione ed estensione, così da invadere poi anche le regioni di tutto il mondo16. La macchina è diventata per lui lo scheletro di un essere vivente che è già morto o che sta per morire: “Guarda la macchina, come ruota e si vendica, e ci deturpa e ci fiacca” 17; “Solo nelle caldaie ardono i fuochi di un tempo, e si alzano magli sempre più grandi. Ma a noi la forza viene meno come a chi nuota” 18. Gli dei, nostri potenti amici di un tempo, che accoglievano i nostri morti, non s’incontrano più con le nostre ruote [...] sorpassiamo i loro messaggi divenuti troppo lenti. Sempre più soli ci appoggiamo a vicenda senza conoscerci, e percorriamo rettifili, ma non più i bei meandri dei sentieri19.
Muovendosi in direzione diametralmente opposta, nella direzio(in Holzwege, Klostermann, Frankfurt a.M. 1944, tr. it., Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 252-297), anche se portate avanti con la sua ben nota eccezionale abilità di prestigiatore di termini linguistici, delle loro radici arcaiche e recondite, e delle loro relazioni [schutzen (proteggere) da schiessen (sparare) ossia schieben (sospingere); Waage (bilancia) da Wegen (fare un “cammino”); non convincono nella loro sostanza, perché molte questioni e domande che propongono non trovano una genuina trasparente risposta e soluzione. Il discorso su l’essere come “rischio”, ossia su “l’essere senza protezione”, sul “molteplice rapporto” (Bezug) in cui stanno gli essenti nel loro essere e nel loro essere “percepiti”, su “il rivolgimento nell’invisibile del cuore”, dove “i più arrischiati” approdano al “sicuro dell’Aperto disvelante”, ossia al “Cerchio più vasto” (Rilke), che è “la regione interiore del mondo”, che poi si riduce ad essere nient’altro che “il linguaggio” (Heidegger), sia pure il linguaggio “dei più arrischiati”, “dei più dicenti”, ossia dei “poeti”, non lo riteniamo una valida impostazione del problema in esame né una centrata interpretazione critica delle concezioni estetiche di Rilke. Accolte da Heidegger integralmente, gli forniscono una buona occasione per divagare sulle proprie concezioni filosofiche, di cui sarebbero una conferma, tra le quali non può mancare, tra l’altro, la solita sua confusione tra scienza e tecnica. 16 Lettera a Witold von Hulewicz del 13-11-1925, in Lettere da Muzot (19211926); tr. it., Cederna, Milano 1947, p. 324. 17 Sonetti a Orfeo, I, 18. 18 Ivi, I, 24. 19 Ivi.
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ne dei contenuti estetici e della loro bellezza, la musica di Orfeo, prototipo di ogni arte, “sempre nuova, con le pietre più instabili costruisce in uno spazio inusabile la sua divina dimora” 20. Come l’arte costruisca questa sua dimora ultraterrena, pur adoperando le pietre della terra, ce lo rivela la parte positiva dell’estetica di Rilke. Le cose, perché siano se stesse devono venir “dette”, non usate. Allora soltanto anche chi le dice, esiste, si costruisce nella sua identità, nel suo esistenziale essere “qui”: Noi siamo forse qui, solo per dire: casa, ponte, fontana, porta, anfora, albero da frutta, finestra – e più in su: colonna, torre [...] ma per dirlo, intendi bene, oh per dirlo così come le cose stesse non potevano mai credere di essere in tale intimità21.
Cosa Rilke intenda per “intimità” delle cose lo chiarisce in una pagina dei Quaderni di Malte Laurids Brigge (1910), di cui citeremo alcune frasi (dal § XIV): I versi sono esperienze. Per scriverne anche uno soltanto, occorre aver prima veduto molte città, molti uomini, molte cose. Occorre conoscere a fondo gli animali; sentire il volo degli uccelli; sapere i gesti dei piccoli fiori, quando si schiudono all’alba. Occorre poter ripensare a sentieri dispersi in contrade sconosciute, a incontri inattesi; [...] poter ricordare molte notti d’amore, sofferte e godute: e l’una dall’altra, diversa [...] occorre avere assistito moribondi; aver vegliato lunghe ore accanto ai morti, nelle camere ardenti, con le finestre schiuse e i rumori che vi entravano a flutti. E anche ricordare non basta. Occorre saper dimenticare i ricordi, quando siano numerosi; possedere la grande pazienza di attendere che ritornino. Perché i ricordi, in sé, non sono ancora poesia. Solo quando diventano in noi sangue, sguardo, gesto; quando non hanno più nome e più non si distinguono dall’essere nostro, solo allora può avvenire che in un attimo rarissimo di grazia dal loro folto prorompa e si levi la prima parola di un verso22.
I versi vengono quindi da quella totalità del profondo che è fusa in se stessa e non più dispiegata nella varietà dei ricordi o delle co20 “Und die Musik, immer neu, aus den bebendsten Steinen, / baut im unbrauchbaren Raum ihr vergottlichtes Haus”, ivi, II, 10. 21 “Sind wir vielleicht hier, um zu sagen: Haus, / Brücke, Brunnen, Tor, Krug, Obstbaum, Fenster, – / Höchscens: Säule, Turm... aber zu sagen, verstehs, / oh zu sagen so, wie selber die Dinge niemals / innig meinten zu sein”, Elegie di Duino, 9a, 2. 22 In R.M. Rilke, Liriche e Prose, tr. it. di V. Errante, Sansoni, Firenze 1956, p. 631.
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noscenze. È questo “il sogno della Terra”: “rinascere invisibile dal fondo dei nostri cuori” (unsichtbar in uns erstehen). “Le cose”, “che vivono di morte” (von Hingang lebende Dinge) possono così invece “vivere felici, innocenti e nostre” (glücklich, schuldlos und unser), e perfino il pianto doloroso “si risolve in figura” (zur Gestalt sich entschlisst) e trapassa felice nell’aldilà23. Il miracolo avviene perché le cose si affidano all’uomo che le salva perché sa dirle, conoscerle, celebrarle (sprechen, bekennen, preisen), e le porta davanti all’Angelo. L’Angelo è colui che sta aldilà di quello che l’uomo può sperimentare e dire, è il custode di ciò che si rivela nel mondo come numinoso, e quindi “indicibile” (die unsägliche Welt): “nell’universo che egli sente con più profondi sensi, tu sei un novizio” 24. In una lettera a W. von Hulewicz, già citata che è un commento di Rilke alle proprie “elegie”, egli spiega che “le apparenze e le cose” (diese Erscheinungen und Dinge) devono venir “trasformate” (verwandelt) per un ritorno alle loro origini. Per i padri dei nostri padri “una casa”, una “fontana”, una torre conosciuta, perfino la loro propria veste, il loro mantello, erano infinitamente di più, infinitamente più familiari; quasi ogni cosa era un vaso, in cui essi già trovavano l’umano e accumulavano ancora altro umano. Ora incalzano dall’America vuote cose indifferenti, apparenze di cose, parvenze della vita [...] Una casa, nel senso americano, una mela americana o una vite di là non ha nulla di comune con la casa, il frutto, il grappolo, in cui era penetrata la speranza e la meditazione dei nostri avi [...] Le cose, animate, vissute, consapevoli con noi, declinano e non possono più essere sostituite. Noi siamo forse gli ultimi che abbiamo ancora conosciuto tali cose. Su noi posa la responsabilità di conservare non solo il loro ricordo (sarebbe poco e infido) ma il loro valore umano e larico (“larico” nel senso delle divinità della casa).
Quella trasformazione può avvenire se sapremo assolvere il nostro compito di imprimere questa Terra provvisoria e caduca così profondamente, dolorosamente e appassionatamente in noi da risuscitare invisibilmente dentro di noi la sua sostanza. Noi siamo le api dell’Invisibile. Succhiamo perdutamente il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare d’oro dell’Invisibile (Nous butinons éperdument le miel 23 24
Elegie di Duino, 9a, V. Elegie di Duino, 9a, IV; cfr. anche la 1a elegia.
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Il ritorno dell’essere
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du visible, pour l’accumuler dans la grande ruche d’or de l’Invisible) [...] Allora tutti i mondi dell’universo si precipitano nell’invisibile, come nella loro più immediata e profonda realtà.
È un compito infinito che noi possiamo compiere seguendo le orme dell’angelo. L’angelo delle “Elegie” è quella creatura in cui appare già perfetta quella trasformazione del visibile nell’invisibile che noi andiamo compiendo. Per lui tutti i palazzi e le torri passate esistono perché sono già da lungo tempo invisibili, e le torri e i ponti ancora superstiti della nostra esistenza sono già invisibili, benché siano (per noi) ancora fisicamente durevoli. L’angelo delle “Elegie” è quell’essere che garantisce di riconoscere nell’invisibile un superiore grado della realtà. Perciò è “tremendo” per noi, perché noi, suoi innamorati e trasformatori, siamo ancora attaccati al visibile25.
La traduzione di queste intuizioni poetiche nel linguaggio filosofico che abbiamo adoperato sembra del tutto evidente: l’angelo delle “elegie” è quella struttura unitaria dei significati estetici che emergerebbe qualora la loro incompletezza, dovuta a quei limiti che li chiudono nella cosalità della loro contingente situazione spazio-temporale, venisse meno. Scomparirebbero allora come “significati” di qualcos’altro, perché diventerebbero la vera realtà che annienta la loro inconsistente apparenza esteriore. Come egli stesso afferma, l’angelo di cui parla non ha dunque nulla a che fare con gli angeli della religione cristiana (“in caso con quella dell’Islam”, aggiunge). E alle “superiori significazioni” che noi attribuiamo alle cose, “noi partecipiamo non nel senso cristiano [...] bensì in una coscienza puramente terrestre, profondamente terrestre [...], non in un aldilà la cui ombra ottenebra la Terra, ma in un tutto, nel tutto (in das Ganze)” 26. È naturalmente molto difficile da un punto di vista logico combinare queste affermazioni con le altre già citate in cui l’angelo è la creatura in cui è “perfetta” la trasformazione del visibile nell’invisibile. Può Rilke identificarsi con “l’angelo? Pensa egli di aver raggiunto “il tutto”? Sebbene egli dichiari che “l’affermazione della vita e l’affermazione della morte sono una sola cosa”, tuttavia aggiunge subito dopo che “la morte è il lato della vita rivolto altrove da noi, non illuminato da noi”. E la contraddizione si fa poi ancora 25 26
Lettere da Muzot, cit., pp. 324-325. Lettere da Muzot, cit., p. 323.
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più stretta: “non c’è un aldiqua né un aldilà, ma la grande unità, in cui dimorano gli esseri che ci superano (die übertreffenden Wesen), gli ‘angeli’” 27. Come si combina la radicale separazione del “visibile” dall’ “invisibile” con l’unità in cui scompare la differenza tra “l’aldiqua” e “l’aldilà”?. Perché l’apparente contraddizione si dissolva occorre che quest’intuizione puramente estetica trapassi in un’analisi rigorosamente razionale dei termini “aldiqua” e “aldilà”, “vita” e “morte”, “visibile” e “invisibile”, e della loro possibile razionale composizione in una sintesi strettamente filosofica. Perché, ad esempio, “l’invisibile” dovrebbe far scomparire il “visibile”? Non potrebbe all’opposto perfezionarlo?. Ma tutto questo non appartiene all’ambito delle intuizioni estetiche, sebbene anche queste, come succede in Rilke, ne possano essere una suggestiva illuminante anticipazione. La centrale intuizione estetica di Rilke getta luce anche su altri oscuri aspetti d’importanza capitale. Così il superamento dell’apparente separazione delle tre dimensioni del tempo: passato, presente, futuro, là dove parla del centro di quel regno, la cui profondità e influenza noi dovunque aldilà dei limiti condividiamo con i morti e con i futuri. Noi, di oggi e di qui, non siamo un istante appagati nel mondo temporale né ad esso legati; noi passiamo sempre agli antenati, alla nostra origine e a quelli che apparentemente vengono dopo di noi. In quel massimo mondo aperto tutti sono non si può dire “contemporanei”, perché appunto la caduta del tempo è condizione per cui tutti sono. L’effimero precipita dovunque in un profondo essere28.
Anche l’amore percorre la stessa strada di liberazione dalle sue contrastanti tensioni verso la sua “apertura”, in cui soltanto realizza la sua vera identità. In una sua prima espressione sembra l’opposto di se stesso, il rifiuto di essere amati per non essere posseduti e quindi imprigionati e imprigionare altre persone: “non amare, per mai esporre anima viva all’atroce supplizio d’essere amata” 29. Nella parabola del ‘figliol prodigo’ egli vede “la leggenda di colui che non voleva essere amato”. Perseguitato dall’amore ossessivo dei parenti, ridotto ad essere “la creatura di tutti, cui era forza restar27
Ivi, p. 322. Ivi, p. 323. 29 I Quaderni di M.L. Brigge, II, XXXIII, tr. it. in Liriche..., cit., p. 850. 28
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sene giorno e notte sotto la suggestione del loro amore”, tanto da desiderare ardentemente “quell’intima impassibilità del cuore che lo invadeva allo schiarir del giorno, per i campi, con tale purezza da mettergli in tutto il corpo un anelito di corsa”. Ma questa indifferenza non aveva potuto realizzarla. Non aveva potuto non amare e imparare “l’arte di penetrare l’anima dell’amata con i raggi luminosi del suo cuore senza bruciarla [...] e insieme il desiderio di poter essere penetrato egli stesso dai raggi di una simile luce!”. Ma si trattava ancora di un cammino non ancora compiuto, che, come tale, si trasformava in delusione: “Oh notti inconsolabili, quando i doni dei suoi flutti luminosi gli tornavano dissolti in mille frantumi” 30. La delusione fu tuttavia feconda perché lo spinse “lungo i pascoli del mondo”, preso dal solo amore di “essere”. Gli esseri a cui si rivolge ora perdono la loro individualità, la loro qualità di “oggetti” (ob-jecta, Gegen-stände), ossia di cose o persone che stanno “di contro”, o “di fronte” (ob, gegen) per spingerlo oltre ognuna di esse, a tutte le altre, o meglio al fondamento da cui emergono, e quindi alla loro libertà. È l’ultimo tratto di strada dell’amore, che non è più “transitivo”, ma aperto nell’assoluta libertà, in cui viene riconquistata tutta la creazione con le sue nascite e le sue stesse morti. “Dio è soltanto una direzione dell’amore, e non più un oggetto di amore, [...] e da Lui non c’è da temere nessuna corrispondenza di amore” 31. Nei Quaderni (1910) questo traguardo rimane ancora come presentimento, che fiorirà in piena consapevolezza nelle Elegie (1922) e nei Sonetti a Orfeo (1922). Un anno dopo l’apparizione di questi due grandi capolavori, Rilke scrive a Ilse Jahr: L’afferrabile (das Fassliche) se ne va, si trasforma, invece del possesso (Besitz) s’impara la relazione (Bezug) e nasce un’anonimità, che deve incominciare a sua volta da Dio, per essere perfetta e senza scampo. L’esperienza sentimentale (Gefühlserlebnis) si ritrae dietro un infinito gusto di tutto il sensibile [...], le virtù si tolgono a Dio, al non-più nominabile; ricadono nella creazione, nell’amore e nella morte.
Quanto un tempo si sperimentava saltando da cosa a cosa, da evento a evento torna ora indietro nell’unità, nella quale anche i 30
Ivi, p. 851. “Gott nur eine Richtung der Liebe ist, kein Liebesgegenstand [...] keine Gegenliebe von ihm zu fürchten war”; tr. it., pp. 845-846. 31
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vuoti e gli abissi sono recuperati e riscattati: a colui, per cui l’abisso è stata abitazione, ritornano i cieli mandatigli avanti forieri, e tutto quello che è profondamente e intimamente terrestre, che la chiesa ha tradito nell’aldilà, ritorna indietro; tutti gli angeli si decidono cantando lodi alla terra32.
Di per sé spontaneamente ogni “creatura con tutti i suoi occhi guarda l’aperto” (das Offene); in modo particolare l’animale nel volto del quale lo vediamo riflesso: “Il libero animale ha la sua morte (seinen Untergang), il niente della vita, sempre dietro di sé, e davanti a sé Dio, cosicché quando se ne va, va nell’eternità, come vanno i fiumi” verso il loro mare. Ma noi uomini abbiamo gli occhi “riversi e come del tutto tesi come reti a imprigionare il libero sguardo”. Il nostro egoismo fin dalla fanciullezza ci fissa sulle singole cose per impossessarcene, così che abbiamo dovunque “mondo” (Welt) e mai “lo spazio libero” 33. “Siamo rivolti al tutto e mai all’aldilà! Ci riempie; noi lo ordiniamo e va in pezzi; lo riordiniamo e andiamo in pezzi noi” 34. Il senso di questa intuizione poetica è chiaro e profondo. La nostra ragione umana non è libera e spezza il tutto (das Alle) in un mondo di cose (Welt) che finisce per dissolverla. Diverso è l’animale, il quale invece vive nell’aperto (das Offene). Ma questa intuizione poetica, vera nello spazio estetico, è di nuovo falsa in quello logico. Per il fatto che l’animale non è in un “mondo di cose”, non vuol dire che sia davanti a “un tutto” di cui possa avere coscienza. Senza questa coscienza non è neppure al primo gradino, quello del “mondo”, per avviarsi al “tutto”. Se non ha di fronte “la morte” non è perché l’abbia vinta, ma perché neppure gli è apparsa in modo da affrontarla, sicché essa, proprio “da dietro” riuscirà a eliminarlo definitivamente. “L’apertura”, “il libero spazio” in cui vive è solo impropriamente tale perché è ben lontano dall’essersi liberato dalla “chiusura” in cui effettivamente si trova. E che sia anch’esso tormentato da questa chiusura, che non sia mai “puro” e quindi mai puro “lo spazio a cui è aperto” lo deve ammettere lo stesso Rilke nella stessa elegia: nell’animale fluisce il caldo sempre, è organismo vivente, costretto a vivere con altri animali amici e nemici, 32
Lettere da Muzot, cit., pp. 175-176. “Nur unsere Augen sind wie umgekehrt und ganz um sie gestellt / als Fallen, rings um ihren freien Ausgang”, Elegia, 8a, I. 34 Elegia, 9a, IV. 33
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e quindi è costretto “al peso e all’ansia di una grande angoscia”. Le vicende della sua esperienza l’hanno fatalmente portato lontano dal mondo che aveva sognato nel grembo della madre (die erste Heimat)35. La vera soluzione non è dunque un ritorno a una vita senza coscienza, ma a una vita in cui la coscienza delle cose arriva al loro superamento nel mare da cui affiorano in eterno le cose e la loro coscienza. E si ritorna così anche sul piano filosofico, oltre che su quello estetico, a quei contenuti che, come si è visto, danno significato e unità sia alle vicende vissute, che alle idee alle immagini e alle parole in cui si esprimono. Ritornano “gli angeli” che ne possiedono la pienezza, che perciò sono “tremendi” 36, e “ci superano, perché dimorano nella grande unità” 37. Discendono a noi da vertiginose altezze, dalle altezze del mito, della rivelazione, portando nel loro volto un riflesso della luce inesauribile che risplende passando e se ne va. Sono espressioni della felicità originaria perché sono gli esseri privilegiati della prima creazione (Verwöhnte der Schöpfung), “profili di altezze” (Hohenzüge), “vette mattutine di ogni cosa creata” (morgenrötliche Grate aller Erschaffung), dalla cui luce all’alba si destano manifestandosi tutte le cose. E quindi "articolazioni della luce, itinerari, scale, troni, spazi essenziali”. Tutti contenuti essenziali delle cose, che nella coscienza dell’anima producono “scudi di delizia, tempestosi tumulti di estetico sentimento” 38. Credo che non si possa descrivere con termini e immagini poetiche più appropriate e con riflessioni interpretative più centrate la sostanza della realtà estetica, e, aldilà della pura descrizione, farla insieme rivivere. Il nostro intento è stato soltanto quello di coglierne il nucleo essenziale, perché il suo significato filosofico, oltre alla sua espressione poetica, ci è sembrato, sia pure con qualche riserva, di eccezionale penetrazione.
35
Elegia, 8a, II. “Jeder Engel ist schrecklich”, Elegia 2a, I. 37 Lettere..., cit., p. 322. 38 Elegia 2a, II. 36
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Capitolo quarto
L’ ESSERE DELLA COSCIENZA STORICA
1. I DUE ASPETTI, “IDEALE” E “POSITIVO” DELLA REALTÀ STORICA
Nelle dimensioni finora considerate della coscienza la presenza della totalità dell’Essere agiva più come una esigenza intrinseca alla coscienza finita in quanto tale, ossia in quanto parziale, costitutivamente indeterminata, anche se tale esigenza era basata su profonde realtà nascoste. La stessa coscienza estetica, in cui i contenuti essenziali della realtà si manifestavano precisamente nel loro superamento dei delimitanti dati empirici tale superamento era piuttosto una loro messa tra parentesi, una loro dimenticanza, un loro abbandono per penetrare nel favoloso sogno della loro essenziale bellezza. Ma i dati empirici vi sono, e qualora vengano considerati nella loro inevitabile presenza nella realtà, talmente potente da condizionare ogni contenuto essenziale per quanto elevato esso sia: religioso, morale, estetico, e, come a suo tempo vedremo, anche scientifico, allora si fa presente una nuova dimensione, quella storica, la quale perfino in se stessa si troverà da se stessa condizionata. Centrale pertanto rimarrà sempre in questa dimensione la distinzione tra i contenuti essenziali con i loro intrinseci rapporti e valori e i loro condizionamenti empirici che li rendono sempre in buona parte relativi agli spazi e ai tempi in cui essi si manifestano e si sviluppano. Proprio per questo diretto vicendevole riferimento di tutti i contenuti essenziali da una parte e dei loro condizionamenti empirici dall’altra il mondo della storia è stato talvolta considerato come l’espressione più manifesta e autentica della totalità dell’Essere. Ma non ci si è allora abbastanza resi conto che gli empirici
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condizionamenti spazio-temporali non hanno di per se stessi nessuna dimensione ontologica al di fuori di quella nascosta: essi esprimono soltanto i limiti intrinseci ma pur sempre superabili dei contenuti essenziali. Sono limiti che nascondono reali autentiche possibilità di relazioni non ancora scoperte e soltanto intraviste tra i contenuti essenziali, e quindi vengono confusi con queste possibilità stesse e addirittura con i contenuti essenziali stessi di cui sono invece soltanto i limiti. Una immediata conseguenza di questa anfibia natura della dimensione storica è che l’insieme delle svariatissime interpretazioni degli accadimenti del mondo storico si suddivide in due sottoinsiemi apparentemente inconciliabili: il sottinsieme delle interpretazioni che vedono tale mondo e lo collocano in una dimensione ultraspaziale e ultratemporale, e nel sottoinsieme di quelle che lo vedono e lo collocano invece in una dimensione esclusivamente o prevalentemente spazio-temporale. Chiameremo per brevità le prime “idealistiche” e le seconde “positivistiche”. Tra le interpretazioni del primo gruppo sono diventate giustamente famose il “provvidenzialismo” di S. Agostino, magistralmente da lui esposto nell’opera De civitate Dei, la “Storia eterna” di Giambattista Vico, esposta nella sua Scienza Nuova, quella di Hegel che identifica la Storia con il percorso necessario dello Spirito Assoluto in cammino verso la sua liberazione (per cui “il reale è razionale e il razionale reale”), e quella di Martin Heidegger, per il quale è l’Essere che “destina” (geschickt) la successione delle epoche, le quali in conseguenza vengono a costituire la Storia (Geschichte). Lo scoglio contro cui inevitabilmente vanno a cozzare tutte le interpretazioni del primo tipo è la inevitabile contingenza, ossia la non-necessità con cui si succedono le epoche e in esse gli accadimenti della storia. Se Cesare non avesse incontrato Cleopatra nella sua campagna d’Egitto, ed e stato questo certamente un incontro non necessario, la storia futura di Roma, dell’Impero Romano, del Sacro Romano Impero, dell’Occidente e dell’Oriente, insomma la storia dell’umanità sarebbe stata radicalmente diversa. È un esempio che vale per tutti gli accadimenti della Storia. Non vi è negli accadimenti della Storia un legame necessario di necessità razionale (anche se la razionalità non può mancare), neppure di quella necessità che è propria degli accadimenti della “storia naturale” studiata dalla scienza fisica, la quale tuttavia an-
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ch’essa, basandosi su principi i cui contenuti sono soltanto congetturali, ipotetici, e mai definitivi, non può descriverli, prevederli e spiegarli con assoluta precisione e necessità. La scienza, soprattutto quella formale espressa nella logica-matematica, liberando gli accadimenti dai loro contenuti reali, ha potuto in un primo tempo presumere di poterli collegare con assoluta precisione, univocità ed esclusività. Ma questa supposizione, quando si è dimostrata l’impossibilità di una fondazione e giustificazione razionale dei principi da cui parte, qualunque essi siano, ha dovuto constatare l’utopicità di quella sua tradizionale supposizione e valutazione1. Tale utopicità diventa addirittura assurda quando si pretende di legare con qualunque necessità gli accadimenti della storia, la cui complessità è enorme. Ma altrettanto unilaterale è l’altro sottoinsieme delle interpretazioni della storia che abbiamo chiamato “positivistiche”. Queste la vedono esclusivamente come una successione di eventi complicati che si tratta solo in definitiva di descrivere nella loro successione, cercando di rintracciarne le circostanze di luogo, di tempo, di tradizione, di interesse che possono averli influenzati, se non totalmente determinati. Se questa determinazione totale non è stata ancora raggiunta, la ragione va cercata, secondo questa interpretazione, nel fatto che l’insieme dei documenti che ci portano la testimonianza del passato non è del tutto conosciuto. Così per il positivismo classico di Augusto Comte, la mente umana, e in conseguenza l’ordinamento degli accadimenti storici, si sviluppa nel tempo secondo tre fasi, che vanno da una totale vuota idealità a una sempre più concreta fatticità: la fase “teologica” o “fittizia”, la fase “metafisica” o “astratta”, e la fase “scientifica” o “positiva”. In conseguenza, al posto della ricerca di cause o essenze misteriose soltanto immaginate si è passati alla osservazione precisa dei fenomeni e alla scoperta delle leggi che li legano tra di loro. Naturalmente quanto più complessi sono i fenomeni tanto più riesce difficile trovarne le leggi che li governano, e quindi dalle leggi precise delle scienze della natura inorganica, in cui l’ipotesi famosa di Laplace fa quasi toccare con mano la necessità del nesso che tiene insieme tutti i fenomeni, si passa a quelli della vita in cui il legame è meno visibile, ma nondimeno ancora e sempre di carattere 1
Cfr. A. Crescini, L’enigma dell’essere, cit., capp. 18, 19.
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meccanicistico, e mai quello sognato dalle fantasie del vitalismo2. Ancora più complessi sono quelli della psicologia e le relative leggi, nella ricerca delle quali tuttavia deve venir bandito ogni metodo “introspettivo” per limitarsi alle condizioni organiche da cui dipendono le funzioni psichiche e gli atti in cui esse si esprimono3. Al culmine della complessità, e quindi della difficoltà sta la ricerca delle leggi che legano i fenomeni sociali, anche per i quali tuttavia vale lo stesso principio: devono esser affrontati con lo stesso metodo, in cui l’osservazione dei fatti e la legalità scientifica costituiscono l’esclusiva chiave della loro lettura e della loro interpretazione. L’utopicità di tale punto di vista è già contenuta nella precedente costatazione della intrinseca, non accidentale congetturalità di ogni teoria sia fisica che logico-matematica, e tanto più quindi nelle seguenti teorie, nelle quali la complessità, come si è detto, diventa addirittura “enorme”. Abbiamo pertanto chiamato “unilaterale” anche questo sottoinsieme di interpretazioni, e lo è certamente, ma è anche altrettanto ingenuo, anche per il semplice fatto che è positivamente impossibile rintracciare i dati di fatto, i documenti su cui ci si deve basare, perché la maggior parte di essi sono stati distrutti dal tempo in cui si è svolta la loro storia, qualunque essa sia: quella della natura inanimata, quella dell’evoluzione biologica, quella delle civiltà umane. Ma inoltre e soprattutto, a un livello più profondo, essenziale, perché queste testimonianze sono o segni o effetti, o, a loro volta, interpretazioni degli eventi da chiarire, e quindi sempre aspetti parziali, addirittura inessenziali degli accadimenti reali da spiegare. È dai risultati, mai del tutto raggiungibili, di uno sviluppo che si possono capire le fasi attraverso cui è passato. Risulta così che spesso l’interpretazione data dopo secoli degli avvenimenti passati risulta più attendibile di quella tramandata dalle testimonianze e dalle interpretazioni di storici anche famosi contemporanei agli avvenimenti da interpretare. È in questo senso soprattutto che coglie nel segno l’opinione, così spesso ripetuta, di Croce, che vi è solo storia contemporanea. La storia infatti è storia in quanto interpretata, ora l’interpretazione è reale, vive, è tale, solo negli storici viventi, ossia contemporanei, che, tra l’altro tengono conto di 2 3
Vedi il seguente capitolo ottavo. Cfr. la 45a lezione del Cours de philosophie positive.
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quelle a loro precedenti, le discutono, le criticano, ne rivelano la relatività in base alle nuove conoscenze e testimonianze. Ma anche l’esagerazione di simile opinione è manifesta. Proprio perché si basa anche sulle interpretazioni passate l’interpretazione contemporanea ha la possibilità probabile di essere attendibile. Il contemporaneo senza il passato è vuoto, non ha senso. Ma soprattutto questa esagerazione nasce dal gravissimo errore, tipico dell’idealismo, di ridurre tutta la realtà alla coscienza che se ne ha, mentre la coscienza è sempre coscienza di qualcosa che è anche, e rimane in un senso ben preciso, fuori della coscienza che lo contempla. La parvenza di verità contenuta in questo errore, fin troppo sfruttata dagli idealisti, nasce dal fatto, per la verità anch’esso estremamente importante, che ogni cosa è connessa con tutte le altre cose, e quindi anche ciò che sfugge alla coscienza è presente in ciò che è presente alla coscienza, ma è ovviamente presente in modo indeterminato, indiretto, parziale, sempre da chiarire. In altre parole in tutto vi è l’Essere, ma l’Essere vi è sempre in buona parte nascosto. Questa grande verità è sfruttata dagli idealisti e dai positivisti in maniera acritica, in definitiva ingenua. A questo punto il discorso si allarga, ma è necessario inseguirlo per capire nella sua completezza il cammino della storia, anche nelle sue immancabili essenziali oscurità. Sappiamo bene ormai, e l’assurdità di questa verità diventa sempre più luminosa quanto più la si considera, che ogni contenuto della coscienza finita: ogni sua idea, ogni sua percezione, è tale e diventa sempre più se stesso in quanto uscendo da se stesso diventa ciò che sembrava non essere se stesso: le altre idee, le altre percezioni, le altre impressioni, gli altri sentimenti. È infatti dal confronto con questi “altri” che chiarisce il suo essere, che se ne distingue, che identifica il suo essere, che diventa se stesso. La sua verità infatti non è il suo essere apparentemente isolato, ma è la sua coscienza, e la sua coscienza è il suo posto nell’insieme di tutti gli altri posti occupati dalle altre idee, dalle altre impressioni, sentimenti, percezioni. Nella coscienza finita in quanto tale la polverizzazione dell’Essere nella moltitudine sterminata degli enti è dovuta al fatto che ogni ente si è scavato la propria storia indipendentemente dalla sua reale connessione con tutti gli altri enti. Solo poche tra le connessioni reali sono arrivate alla coscienza, ma dietro questa superficiale parziale struttura di connessioni che arrivano alla coscienza finita, e
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che anzi sono questa coscienza finita, alla sua base sta la reale sua continua struttura che dalla sua finitudine la porta all’Essere. Questa unitaria continua struttura che sta alla base delle molteplici strutture rappresentate dalle varie coscienze finite dell’uomo, e quindi anche degli oggetti che si manifestano al loro interno, è la loro più profonda realtà, senza della quale esse perderebbero il loro senso e il loro stesso essere parziale. Una coscienza finita che pretendesse di essere assolutamente autonoma, ossia che rifiutasse di essere soprattutto l’Essere nascosto che la sostiene e la costituisce, sarebbe paragonabile a un navigatore ingenuo che lanciato in mare e non sapendo nuotare tenta di rassicurare se stesso affermando che il mare non gli può fare niente di male perché è fuori di sé, e quindi non lo può condizionare. Ma solo chi conosce il giusto rapporto con il mare e lo sa vivere e trasformare nella propria azione è al suo posto e può sopravvivere. Possiamo antropomorficamente rappresentare la coscienza dell’Essere come la coscienza che ha davanti a sé non soltanto le poche cose che una coscienza finita ha qui sulla Terra, ma che ha davanti a sé tutto l’Universo, e non già l’universo fatto di cose, di stelle, di nebulose come è condannata a raffigurarselo una coscienza finita, ma l’Universo in tutte quelle interne connessioni da cui effettivamente esce l’essere delle cose, delle stelle, delle nebulose, ognuna delle quali quindi diventa inconcepibile senza tutte le altre, dove però questo “tutte” perde ogni senso collettivo perché diventa l’Essere. Chi può dubitare che non ci sia questo Essere da cui emergono tutte queste stelle, nebulose, e le cose stesse della Terra e in cui quindi si è risvegliata la coscienza finita dell’uomo? Non si può quindi concepire la Storia senza questa duplicità di aspetti secondo cui fluisce e si struttura la realtà nella quale scorre, come suo rivolo parziale, l’esistenza e l’esperienza umana. Le interpretazioni idealistiche e quelle positivistiche che vedono solo un aspetto, una faccia di questa realtà la distruggono, ne distruggono l’essenza. Questo principio è assolutamente universale e riguarda ogni tipo di storia, da quella ancora embrionale di carattere locale, cronacale, civile, politico, a quella che tratta degli sviluppi della scienza, della filosofia, della religione. Anche in quest’ultimo campo estremo della cosiddetta “storia della salvezza” ci si è dovuti persuadere della necessità della considerazione di questi due ine-
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ludibili e inscindibili versanti del cammino della storia4. 4 Qualche citazione da qualcuno dei più eminenti teologi contemporanei sulla necessità di integrare il “metodo storico-critico” di ispirazione “positivistica” con quello di ispirazione “idealistica”, oltre che a confermare quel principio aiuterà a chiarirne meglio il senso. Karl Barth: “per me i rappresentanti del metodo storico-critico dovrebbero essere più critici [...] Di quei blocchi di astrazioni puramente storiche, date, casuali, deve rimanere il meno possibile, e bisogna invece mettere in luce quanto più ampiamente è possibile il rapporto delle parole con la Parola che si esprime nelle parole. Bisogna che io avanzi nella comprensione fino al punto in cui rimane davanti a me quasi soltanto l’enigma della questione di fondo e quasi più nulla dell’enigma del documento in quanto tale [...]”, Der Römerbrief, EVZ-Verlag, Zollikon-Zürich, 1921 2; dalla antologia Gespräch über Gott, a cura di H. Zahrnt, München 1968; tr. it., Queriniana, Brescia 1976, p. 95. “Tutta la mia attenzione si è concentrata nel tentativo di scorgere, attraverso e aldilà della ricostruzione storica, lo spirito della Bibbia, che è lo spirito eterno”, Römerbrief V, nell’antologia cit., p. 97. Eduard Thurneysen: “[...] nel momento in cui, indipendentemente da quanto la Bibbia rappresenta come momento letterario, si afferma in termini apodittici e perentori che la parola di Dio soggiace alle rovine o agli splendori delle parole umane, che essa attraversa tutta la Bibbia e ne fa ciò che veramente è [...], in quel momento tutto di colpo diventa diverso [...]. Tra ciò che abbiamo da dire sul testo indipendentemente da quella affermazione e prima di quella frontiera, e la realtà che si trova aldilà di tale frontiera e cerca di esprimersi in parole, sussiste lo stesso rapporto che vi è tra la terra di nessuno e le mura della fortezza”, “Schrift und Offenbarung”, Zwischen den Zeiten 2 (1924), ant. cit., p. 96. Rudolf Bultmann. “Se dunque nel fare l’esegesi della lettera ai Romani costato che esistono tensioni e contraddizioni, momenti felici e altri meno felici, se mi sforzo di indicare in quali punti Paolo dipende dalla teologia giudaica o dal cristianesimo popolare, dall’illuminismo ellenistico o dalla concezione ellenistica dei sacramenti, non mi limito a esercitare una critica storico-filologica ma intendo precisamente mostrare dove e quando il messaggio trova adeguata espressione, appunto per poter comprendere quel messaggio che supera lo stesso Paolo [...] quanto più profondamente sento che questo messaggio è un dire l’indicibile, tanto più chiaramente giungo anche a comprendere la relatività della parola e a metterla in rilievo in quanto esegeta”, “Karl Barths Romerbrief in zweiter Auflage”, Christliche Welt 36 (1922), ant. cit., p. 99. Paul Tillich: “Tali documenti [“scritti in ebraico, aramaico, greco o in qualsiasi altra lingua”] non sono di per sé ‘parola di Dio’. Possono diventare ‘parola di Dio’ quando hanno la forza di afferrare lo spirito dell’uomo [...] In linea di principio tutte le parole umane hanno davanti a sé la possibilità di diventare ‘parola di Dio’. Questo è vero per tutti i documenti della religione e della cultura, ossia per la letteratura universale, e non solo per quanto essa contiene di alto e nobile, ma anche per le cose mediocri, insignificanti e profane, sempre che tocchino lo spirito umano in modo tale da far sorgere in lui la domanda su ciò che lo riguarda incondizionatamente”, Syst. Theol., tre voll., Evangelisches Verlagswerk, Stuttgart 1955-1966, III, p. 150; nell’ant. cit., p. 104. In quest’ultima importante affermazione viene ribadita l’universalità dei due versanti essenziali
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Il confronto che si deve quindi istituire tra passato e presente perché nasca la Storia non è tra gli accadimenti del passato e la coscienza interpretativa che se ne ha oggi, ma tra il rapporto dell’Essere con la coscienza che si aveva nel passato e il rapporto tra l’Essere e la coscienza che se ne ha oggi, dove l’oggi è ovviamente l’oggi di ogni tempo. Il ritrovamento di nuovi reperti, documenti e testimonianze del passato, e insieme soprattutto lo sviluppo della coscienza interpretativa della realtà in generale, portano insieme a una sempre rinnovata considerazione e valutazione degli accadimenti e delle civiltà del passato. Si devono sempre prendere in considerazione le interpretazioni che dalla realtà fisica, fisiologica, politica, sociale, filosofica, religiosa, sono state date un tempo dai Babilonesi, dagli Egizi, dai Greci, dal Cristianesimo delle origini, dal Medioevo, dal Rinascimento, e così via; e quelle che della stessa realtà sono possibili oggi in base alla considerazione delle testimonianze di cui si sono servite le età precedenti e delle precedenti interpretazioni nel loro succedersi nel tempo: degli Egiziani con le loro interpretazioni dei Babilonesi, dei Greci con le loro interpretazioni degli Egizi, e così via. È un progressivo allargamento di prospettiva che tuttavia non deve indulgere alle troppe speranze. Con il passare del tempo sono andate perdute molte testimonianze passate, soprattutto le più antiche, e inoltre l’approfondimento della conoscenza di un particolare settore o aspetto della realtà storica va talvolta talmente avanti da polarizzare in sé ogni attenzione, fino a fare trascurare, oscurare, o addirittura definitivamente costitutivi della Storia. Eugen Drewermann: “Die Tiefenpsichologie löst auf diese Weise ein Problem, das in der historisch-kritischen Methode der Bibelauslegung niemals zu überwinden ist: sie zeigt auf, dass die (archetypischen) Vorstellungen der Mythen nicht nur kulturgeschichtlich notwendig waren, sondern dass sie menschheitlich notwendig sind, und zugleich erschlisst sie die Bedeutung der entsprechenden Bilder in einer Weise, die ihrer Aktualität und Verbindlichkeit für das gegenwertige Erleben allererst gerecht wird. Eben deshalb ist es für die Theologie wesentlich, sich selber in ihrer dogmatischen Verstandeseinseitigkeit und in der Selbstberuhigtheit ihres historischen Positivismus angesichts der Einsichten der Psychoanalyse zu korrigieren und neu zu definieren”, Dein Name ist wie der Geschmack des Lebens – Tiefenpsychologische Deutung der Kindheitsgeschichte nach dem Lukasevangelium, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1986, p. 29. Questo metodo interpretativo della storia, non solo “della salvezza”, che sta tra quello “positivistico” e quello “idealistico” va allora considerato appunto come mediatore tra i due senza ridursi all’uno o all’altro, ma esigendoli entrambi.
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dimenticare altri aspetti ancora più importanti. Le interpretazioni “idealistiche” si sono alternate con quelle “positivistiche” con tanta regolarità da dimostrare che la storia dei loro ricorrenti miglioramenti è diventata la dimostrazione della loro unilateralità. Si può credere, come si è spesso fatto, di poter eliminare l’Essere dalla storia della vita e del pensiero, ma la cosa, oltre che assurda, sarebbe anche ridicola se non fosse tragica, perché nella stessa proporzione con cui lo si elimina si elimina se stessi. Si tratta infatti dello stesso Essere.
2. L’UNITÀ DEGLI ACCADIMENTI STORICI
I due aspetti della realtà storica sono dunque inscindibili anche se talmente diversi da minacciare di diventare opposti invece che complementari. La situazione si può paragonare a quella di chi sulla neve e sulla sabbia va osservando le numerose tracce, nuove e antiche, lasciate dai percorsi di un essere vivente che in se stesso non si è mai potuto vedere. Se quelle tracce sono, ad esempio, di un capriolo, non sarà mai possibile interpretarle appieno se il capriolo non si è mai presentato in se stesso. Ma certamente senza quelle tracce non si può sapere assolutamente niente di lui, e, d’altra parte, sarebbe assurda la pretesa di fermarsi esclusivamente alla considerazione di quelle tracce. Quelle tracce non sono il capriolo anche se sono state formate da lui assieme a qualcosa che non è lui: la neve, la sabbia, il terreno, gli alberi, il bosco. Quelle tracce possono essere numerate, classificate, collocate nei diversi spazi e tempi in cui si sono formate, ma tutto questo è ben lontano dal chiarire con esattezza il tipo di vita dell’animale che le ha prodotte. Quelle tracce non sono la sua vita, anche se non si possono riconoscere come quelle tracce che sono senza la supposizione dell’essere vivente che le ha prodotte. E che non siano soltanto strutture spazio-temporali lo dimostra il fatto che nessun principio, nessuna legge che possa disporre solo delle coordinate spaziotemporali può spiegare il tragitto che esse si sono soltanto limitate ad accompagnare. Ci siamo in tal modo avvicinati al problema sul tipo di universalità che è proprio del discorso storico. Se la storia pretende di essere una scienza deve possedere questa caratteristica dell’univer-
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salità. Eppure parla di accadimenti che sono tutti singolari. La battaglia di Azio nel 31 d.C. è un episodio singolare; la guerra dei trent’anni è una serie di accadimenti, battaglie, decisioni, alleanze tutte singolari. Ma a ben osservarli tutti questi episodi, accadimenti che hanno luogo nella storia reale, e che vengono raccontati e commentati dalla storia scritta, hanno necessariamente un nesso tra di loro, anche se il nesso non è mai necessario. È la continuità di questo nesso che unisce tutti gli accadimenti di un’epoca, o di un personaggio che riassume in sé la tradizione, la mentalità di una razza, di una nazione, di una popolazione, che forma l’oggetto dell’indagine storica. Questo nesso è uno dei tanti possibili che avrebbero potuto suscitare, orientare, ordinare e modificare la serie degli accadimenti parziali, ma esso, qualunque sia, figura o per lo meno dovrebbe figurare come protagonista. Ognuno dei percorsi del capriolo sulla sabbia avrebbe potuto essere diverso, ma quello che realmente c’è è un percorso che ha una certa unità, un certo nesso, per cui ogni traccia è connessa con ogni altra traccia di quel percorso e non viene mai totalmente separata dalle altre. Anche e soprattutto le tracce che ora (nel presente! ) il capriolo sta formando sono comprensibili solo se le si vede connesse con quelle precedenti come loro esito e risultato. Nella battaglia di Azio avrebbero potuto vincere Antonio e Cleopatra invece che Ottaviano, e la storia avrebbe avuto allora un percorso diverso da quello che effettivamente ha avuto, ma anche quest’altro percorso avrebbe avuto la sua unità sia pure attraverso decisioni ognuna delle quali avrebbe potuto essere diversa, e quindi anche l’insieme delle intenzioni e delle decisioni possibili in questo percorso sarebbe stato in generale sostanzialmente diverso da quello che ha avuto con la vittoria di Ottaviano. La guerra dei trent’anni avrebbe potuto finire con la decisiva vittoria dei protestanti o dei cattolici, e allora la seguente storia d’Europa avrebbe avuto un percorso ben diverso da quello che ha effettivamente avuto. In ogni caso però decisivo per la storia è che esista un percorso unitario pur nelle immancabili discontinuità e frammentazioni parziali che la storiografia ha il compito di rintracciare. La sostanza di ogni storia si esprime in questa unità che rende ogni evento: reale o ideale, una fase di uno stesso percorso. Si tratta dunque di un universale concreto che colora di sé tutta la serie degli accadimenti singolari di un’epoca, o di una nazione o
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di una popolazione o di un personaggio, per quanto piccoli possano essere in se stessi e del tutto insignificanti al di fuori del percorso globale in cui invece sono inestricabilmente inseriti. Il modo come cammina un individuo fra le abitazioni, i vicoli e i villaggi della tribù, o sui viali della metropoli di una moderna nazione industrializzata, i cibi di cui si nutre, quello che impara nelle scuole che frequenta e quello che in conseguenza pensa dipendono tutti direttamente o indirettamente, per accordo o per contrasto, dalla tradizione della gente a cui appartiene, dalla legislazione dello Stato in cui si trova, dalle relazioni o dalla mancanza di relazioni che la sua società, il suo Stato, la sua famiglia sono andate allacciando con altre genti, società, Stati, famiglie. È un universale concreto i cui contenuti sono dunque le vicende passate, le situazioni presenti, e nello stesso tempo le previsioni e le programmazioni di quelle future che operano in modo variamente intrecciato nell’ambito delle vicende dell’individuo, della famiglia, della società, dello Stato a cui appartiene. Contro l’opinione tradizionale che faceva della storia “la scienza del passato”, si deve ritenere che essa è nella stessa misura anche l’indicazione (e quindi anche l’indagine) di un percorso che, risulta in ogni suo momento dalle vicende del passato, vede nelle situazioni e nelle interpretazioni che ha reso possibili in ogni momento successivo, e soprattutto nel presente di chi vive e scrive la storia, i probabili sviluppi del suo futuro. Ogni decisione e azione degli operatori della storia, che vanno dalla più semplice, rozza coscienza singolare a quella dei grandi condottieri, a quella di coloro che Hegel chiama “portatori dello spirito del mondo”, sono decisioni e azioni che hanno il loro senso e il loro valore, proprio perché sono decisioni e azioni di una coscienza consapevole, nell’insieme di tutte le possibili decisioni e azioni di cui sono soltanto una scelta parziale. L’ombra della marcia dell’Essere investe ogni cammino delle popolazioni, degli Stati, delle nazioni, degli individui, e soprattutto il cammino che da tutti questi consegue e che nello stesso tempo determina. È il cammino nel suo orientamento fondamentale, a prescindere dalle singole variazioni nei singoli individui, che l’occhio della Storia tenta di seguire nelle sue analisi e nelle sue sintesi.
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3. LE CONTRASTANTI INTERPRETAZIONI DEL PERCORSO STORICO E DEL SUO ESITO
E tuttavia, nonostante la sua determinante presenza, sarebbe ingenuo credere di poter seguire il corso dell’Essere dispiegato e disvelato aldilà dei suoi nascondimenti, e addirittura assurdo pretendere di prevederne l’esito finale. Quella “ingenuità” nasce dalla confusione della successione delle tracce del percorso dell’Essere con il percorso effettivo dell’Essere, le tracce del capriolo con il percorso del capriolo; e questa “assurdità” nasce dal ritenere che l’Essere sia la frammentazione di tutti gli enti nei quali si rivela nelle varie coscienze finite. “L’Essere non può non essere”: il principio enunciato da Parmenide ai primordi dello sviluppo consapevole della coscienza finita sta alla base anche di tutto questo sviluppo. Ma, inoltre, l’Essere è garantito dal suo passare aldilà del passare delle cose, ossia dal passare del tempo. Ogni passare delle cose è contenuto nel passare dell’Essere che proprio passando permane. La marcia dell’Essere non è condizionata da nessun ente che sia fuori di Lui, e quindi avviene nell’assoluta libertà. In generale i popoli antichi, nelle loro concezioni religiose (dove il termine va preso nel suo senso più ampio possibile) hanno espresso in varie forme la loro credenza che il movimento dell’Essere avvenga in enormi cicli che si ripetono. Presso i Greci questa generale opinione è stata accolta ed espressa dai filosofi stessi che hanno tentato di dare veste razionale a queste vaghe concezioni religiose. Ancor oggi non mancano in Oriente religioni che mantengono questa credenza, e in filosofia Nietzsche è diventato famoso per la sua teoria dell’ “eterno ritorno dell’uguale”. Ma non si riesce a capire come ciò o chi ritorna a percorrere uno stesso cammino possa rimanere uguale a quando quel cammino l’aveva percorso precedentemente, e quindi come possa quel cammino rimanere uguale. È questo il falso risultato di un’astrazione che separa il percorso da chi lo percorre. Chi lo percorre una seconda volta o ha dimenticato e del tutto cancellato da se stesso il primo percorso, e quindi per lui il secondo non è più secondo, o lo conserva per il fatto che lo avverte, ma allora il secondo percorso non è più uguale al primo, e così via. Anche in qualunque macchina della nostra tecnica ogni percorso ciclico incide sulla struttura della macchina, altrimenti la macchina durerebbe in eterno. Tanto più
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quindi in una coscienza, senza la quale non vi è alcun ritorno che sia veramente tale (4). Il problema quindi non è dove vada a finire l’Essere dal momento che non finisce, ma dove vada a finire il rapporto tra l’Essere e la coscienza finita dell’Essere, ossia la marcia dell’Essere in buona parte nascosto, in cui consiste precisamente la storia. Se noi, per chiarire il concetto, torniamo a considerare l’immagine antropomorfica dell’Essere, ossia dell’Essere che riempie i vuoti in cui sono sospese e da cui emergono tutte le cose e tutte le coscienze di quest’arcipelago di cose, ossia l’universo fisico, e la coscienza che se ne ha, possiamo avvicinarci alla previsione dell’esito della marcia di questo rapporto. Diventa infatti allora del tutto probabile pensare che l’abitazione dell’uomo, ossia delle popolazioni umane che abitano in questa porzione dell’Essere che è l’universo di cui intessono la storia, abbiano una fine nel tempo, ossia nell’ambito di questo rapporto. È infatti del tutto ragionevole pensare che il nostro Sole, da cui deriva l’energia che mantiene la vita sulla Terra, a un certo momento esaurisca quest’energia che va continuamente perdendo, e quindi finisca la serie degli accadimenti coscienti sulla Terra e quindi la storia stessa. Ma altri innumerevoli radicali mutamenti nel sistema solare, nella via lattea, e così via fino ai confini del nostro universo, tali da rendere impossibile la vita sulla Terra, possono verificarsi, non esclusi anche ora, in questa nostra epoca di sfruttamento della natura, quelli che l’uomo stesso può procurare alla sua stessa abitazione fino a renderla inabitabile. È vano e inutile aspettarsi la soluzione di questo problema dal momento che non si può sapere quale sia la marcia dell’Essere che sta aldilà di questo universo che Egli assieme alla coscienza finita struttura e porta avanti. Ma se la conoscenza dell’esito definitivo della marcia della Storia non è possibile, è almeno possibile quella del tragitto che essa va seguendo? Sono state svolte da sempre nel passato considerazioni che hanno preteso di dimostrare che il progresso è non soltanto una realtà della storia umana, ma anche una fortunata necessità derivante dalla natura stessa della coscienza umana. È soprattutto da quando con la nascita della scienza moderna si è trovato un preciso strumento razionale di carattere logico-matematico e un preciso metodo sperimentale capace di controllare la validità delle interpretazioni e applicazioni alla realtà fisica, che si è creduto di
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aver trovato finalmente la chiave di un progresso destinato a non finire e a risolvere tutti i problemi individuali e sociali dell’uomo. Già Francesco Bacone, pur senza rendersi conto della potenza e della necessità di quello strumento razionale, pensava che la nuova scienza, superate le “Colonne d’Ercole” dei pregiudizi tradizionali (i vari “idola” della mente e della società) avrebbe navigato verso orizzonti sempre più lontani e aperti5. Cartesio nella regolarità con cui procedono i fenomeni della natura e nella facile possibilità di raggiungere un metodo capace di rivelarne le ferree leggi che la governano vede ormai la possibilità di un progresso senza fine 6. Negli Illuministi del XVIII secolo queste voci prima sparse e disarticolate diventarono un coro polifonico di esaltazione della ragione che sulla base di quei suoi metodi e conoscenze, e della consapevolezza del suo potere, avrebbe potuto liberare gli individui e la società da tutti i pregiudizi della tradizione e garantire a tutti una pressoché totale liberazione. Erano ancora considerazioni che si muovevano su di un terreno astratto, anche se da esse le teoriche sistemazioni scientifiche (si pensi a Leibniz, Newton, Laplace, D’Alembert, ....) si svilupparono con prodigiosa rapidità e universalità, e in campo sociale la rivoluzione francese e la sua esplosiva diffusione scosse dalle fondamenta tutta l’Europa. È con il secolo XIX che la persuasione di un lineare sviluppo progressivo si concretizza sempre più quando quelle strutture teoriche partorirono tecniche sempre più avanzate generalizzate e raffinate in seguito soprattutto a una seconda rivoluzione scientifica che mise allo scoperto le strutture e le energie più riposte del cosmo, soprattutto del microcosmo, e in conseguenza una seconda rivoluzione industriale. Ne derivò un maggiore diffuso benessere, una maggiore sicurezza, una maggiore concreta informazione, e una conseguente nuova strutturazione della società in cui sempre più vigorosa si affermò la componente liberale e democratica. La teoria evoluzionistica di Darwin e Spencer diede una ulteriore potente spinta a questa fiducia nel progresso. 5 Cfr. New Atlantis (1625); Novum Organum (1620); e soprattutto De dignitate et augmentis scientiarum (1623). 6 “Per metodo [...] intendo delle regole certe e facili, osservando le quali esattamente nessuno darà mai per vero ciò che sia falso e senza consumare inutilmente alcuno sforzo della mente, ma gradatamente aumentando sempre il sapere, perverrà alla vera cognizione di tutte quelle cose di cui sarà capace”, Regulae ad directionem ingenii (1628); tr. it. in Opere, Laterza, Bari 1967, p. 2.
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Ma con altrettanta costanza e con sempre crescente insistenza si è andata sviluppando da sempre anche la corrente di pensiero e di interpretazione della realtà, soprattutto sociale, che invece di progresso parla di decadenza, di cammino verso il tramonto della cosiddetta moderna civiltà. Già al tempo del trionfo dell’illuminismo Montesquieu poneva un principio generale, che del resto ripeteva un motivo frequente negli interpreti della storia che risale addirittura a Platone, e che in Vico ha avuto una trattazione assai elaborata: “Quasi tutte le nazioni del mondo seguono questo ciclo: dapprima sono barbare, fanno delle conquiste, e diventano nazioni civili; questa civiltà le fa più grandi, e diventano raffinate; la raffinatezza le rende più deboli; sono conquistate e ridiventano barbare: ne sono la prova i Greci e i Romani” 7. Rousseau avrebbe aggiunto che ne dava prova anche la società a lui contemporanea, perché la nuova cosiddetta “civiltà” era per lui in realtà la causa della corruzione dell’umanità, dalla quale, se non era troppo tardi, ci si sarebbe potuto salvare solo con un decisivo ritorno alla natura nella sua purezza e spontaneità, anche se lo considerava ormai un sogno utopico8. Le rivoluzioni sociali del secolo XIX misero in evidenza che il benessere nato dalla civiltà tecnica e industriale e dalla rivoluzione francese era soltanto un progresso a favore della classe borghese e capitalista, e non faceva quindi altro che aggravare le disuguaglianze sociali, invece che eliminarle, fino a renderle intollerabili. Risultava dunque che il concetto di progresso tanto sottolineato e glorificato da consacrarlo come la rivelazione del senso stesso della storia, era invece in realtà molto relativo e finiva per rivolgersi contro se stesso. Le reazioni di vario tipo, la prima guerra mondiale, la tremenda crisi economica che nel 1929 si abbatté contro gli Stati Uniti d’America: il paese che si riteneva all’avanguardia del progresso moderno, la formazione delle nuove dittature di destra, la rivoluzione russa e comunista con le sue promesse di una società futura senza classi definitivamente felice nella perfetta giustizia, la loro 7 “Cahiers” (1716-1755), Grasset, Paris 1941; tr. it. Einaudi, Torino 1943, p. 112. Aveva espresso la stessa teoria nel suo più famoso libro Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence (1734). 8 Discours sur le retablissement des sciences et des arts (1750); e Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes (1754).
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frantumazione dopo la seconda guerra mondiale, i nuovi problemi sempre più incombenti del Terzo Mondo che si affacciava sulla scena della storia sconvolgendo i tradizionali equilibri, sono stati tutti macroscopici, quasi cosmici fenomeni che hanno scosso fin dalle fondamenta il principio dell’indefinito progresso sia lineare che organico dell’umanità. La letteratura del dubbio e della inesorabilità del contrasto e del declino è diventata a questo punto enorme9. In essa acquistano un punto di vista teorico, un valore particolarmente persuasivo, le varie dimostrazioni dei limiti intrinseci, inerenti a quella stessa attività scientifica, tecnica e industriale, che in diversi sensi figurava come la base e il fondamento del cosiddetto sviluppo della civiltà e del progresso umano nell’epoca moderna e contemporanea. Si è fatta strada secondo due direzioni diverse ma convergenti. La prima nell’ambito del pensiero strettamente filosofico. Già H. Bergson aveva distinto due tipi diversi, quasi opposti, di conoscenza: quello proprio della “intuizione metafisica”, che scopre le profonde dinamiche strutture evolutive della realtà, e quello dell’ “intelletto” che frazione la realtà nelle cose, per combinarle poi secondo leggi esteriori puramente meccaniche, con un valore quindi unicamente strumentale. Più concreta e analitica, ma in gran parte ancora soltanto descrittiva, è la denuncia del vuoto e dei conseguenti pericoli connessi con l’unilaterale interesse, studio ed esaltazione delle strutture scientifiche e delle conseguenti tecniche, sviluppata da E. Husserl soprattutto nella sua Crisi delle scienze europee. 9 Ci limitiamo a ricordare, come esempi celebri, due opere che a riguardo di questo argomento sono diventate classiche: 1) O. Spengler, Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Welgeschichte, Beyer, München 1918-22 (tr. it., Longanesi, Milano 1970 2), in cui la descrizione dell’ineluttabile passaggio delle 7 civiltà passate (egiziana, babilonese, indiana, cinese, messicana, araba, antica) dalla loro fase vitale a quella sclerotica della civilizzazione forma lo sfondo impressionante da cui emerge la descrizione del tramonto dell’ultima civiltà: quella occidentale. 2) A.J. Toynbee, A Study of History, 6 voll., Oxford University Press, London 1934-39 (tr. it. Einaudi, Torino 1950). Delle 26 civiltà considerate, 16 sono già definitivamente tramontate, le altre sono sotto la minaccia dell’annientamento o dell’assimilazione da parte di quella occidentale. Ma anche quest’ultima si avvia verso la morte, preparata, come in tutte le civiltà, dalle due tipiche fasi della decadenza: “declino” (breakdown) e “disgregazione” (disintegration). Anche per Toynbee, come per Spengler, l’ultima parola non è ancor a detta, ma le speranze vanno sempre più illanguidendosi.
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Esse hanno portato alla dimenticanza del più autentico mondo umano, che è “il mondo della vita” (Lebenswelt). Questa critica di fondo si è prolungata e approfondita nel suo discepolo, M. Heidegger per il quale il nuovo tipo scientifico di pensare è in realtà la negazione del pensare perché non ha nulla a che vedere con il vero fondamento della realtà e dell’esistenza umana, che è l’Essere stesso, da non confondersi con nessun “ente” particolare, neppure con il “summum Ens” dell’ordinaria teologia. La dimenticanza dell’Essere operata dalla metafisica occidentale, e in particolare da quella moderna sotto gli impulsi del modo scientifico di pensare è per definizione culto del non-essere, ossia strada del nichilismo verso cui fatalmente, con una coerenza che si identifica con il destino, va avviandosi la cosiddetta civiltà dell’Occidente10. L’altra direzione percorsa dalla critica alla tanto esaltata “onnipotenza della ragione scientifica”, come l’ha chiamata R. Carnap, il corifeo del neopositivismo, sulle tracce del pensiero di L. Wittgenstein11, è venuta dall’interno delle stesse strutture scientifiche, e quindi, anche da un punto di vista filosofico, avrebbe dovuto avere una forza persuasiva ancora più potente, se fosse stata capita dai filosofi stessi12. Si tratta della dimostrazione scientifica dell’impossibilità del raggiungimento dei propri fondamenti da parte del pensiero scientifico, e quindi della natura puramente congetturale dei suoi principi, sempre in revisione e trasformazione, e della indeterminazione endemica della realtà a cui è in grado di avvicinarsi con le sue ricerche. Qui basterà soltanto nominare (anche perché ne abbiamo a lungo parlato altrove) i principali scopritori di questi limiti invalicabili: Niels Bohr e W. Heisenberg per le scienze reali; Gödel, Church, per le scienze formali; K. Popper, T. Kuhn, P. Feyerabend per il pensiero scientifico in generale13. 10 Mi permetto di citare il mio studio Tramonto del pensiero occidentale? – Saggio su Heidegger, La Nuova Base, Udine 1977, con una critica delle esagerazioni e inesattezze di Heidegger. 11 “L’enigma non v’è. Se una domanda può porsi, può pure avere risposta”, L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 6. 5. 12 Ma siamo ancora sempre davanti a un deterioramento di un l imite, e quindi ancora a un antiprogresso, ossia alla poca comprensione delle strutture filosofiche da parte degli scienziati, e di quelle scientifiche da parte dei filosofi. 13 Per chi voglia introdursi all’approfondimento di questa svolta nella valutazione delle strutture scientifiche ci limitiamo a indicare un testo per ciascuno
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A un livello meno tecnico, ma più aderente alla situazione effettiva a cui ha portato questa civiltà della scienze e della tecnica, la critica alla teoria del progresso è venuta da un’altra scienza, l’ecologia, e dai movimenti ecologici a cui ha dato origine. Essi vanno in concreto mostrando con un numero sempre più impressionante di prove come l’inquinamento dell’atmosfera, delle acque, del suolo, ossia del mondo nella sua qualità di abitazione dell’uomo, lo renda al contrario inabitabile, ossia che i prodotti della tecnica e dell’industria presi globalmente in tutti i loro aspetti siano il contrario di quel progresso di cui dovevano essere l’inesauribile sorgente. Essi costituiscono una ulteriore concreta conferma della validità del generale allarme lanciato già da molto tempo dal pensiero filosofico. A sua volta tuttavia questa presa di coscienza, qualora diventasse sufficientemente diffusa e allarmata, potrebbe mettere in moto i rimedi indispensabili a frenare questo tipo di “progresso”, prima che diventi irreversibile e quindi insanabile. Queste generali visioni contrastanti, di cui è impossibile valutare la forza che possiedono e quindi prevedere quale di esse possa prevalere, denunciano l’impossibilità di risolvere in un senso o nell’altro il problema della meta a cui tende la storia. Progressi e regressi possono certo realizzarsi in determinati, limitati settori, aspetti, e tempi della realtà umana, ma non contengono in se stessi la soluzione della storia nella sua totalità. In particolare, per quanto riguarda il cosiddetto miracolo della scienza moderna, il vero problema non sta né nella scienza, né nella tecnica e nell’industria considerate in se stesse, ma nel modo come la coscienza dell’uomo riesce a gestirne le scoperte e i prodotti. Una tecnica sempre più raffinata può aiutare sempre più le polizie del mondo, ma può aiutare ancor più la criminalità organizzata che non conosce limiti nel suo uso. Quello che di certo si può ricavare da questa enorme molteplidegli autori nominati: K. Gödel, “Über formal unentscheidbare Sätze der Principia Mathematica und verwandter Systeme”, Monatshefte für Mathem. und Phys., 1931; A. Church, Introduction to Mathematical Logic, Princeton 1953; K. Popper, The Logic of Scientific Discovery. Postscript, Londra 1964; tr. it., Torino 1970; T. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago 1962; tr. it., Torino 1969; P. Feyerabend, “Against Method”, Minnesota Studies, 1970; tr. it., Milano 1979; W. Heisenberg, Das Naturbild der heutigen Physik, Rowohlt, Hamburg 1965; N. Bohr, Atomphysik und menschliche Erkenntnis, Brunswick 1958; tr. it., Torino 1961.
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cità di situazioni e di interpretazioni, spesso in contrasto l’una con l’altra, e addirittura le une con le altre, è l’ineludibile particolarità nella quale ognuna nasce, si sviluppa e si conclude. Questo è l’autentico universale concreto che effettivamente tutte le riguarda e le comprende. Quella universalità invece che l’una o l’altra crede di potersi attribuire assolutizzandosi e quindi escludendo tutte le altre è una falsa universalità, la quale pertanto in quanto tale sarà sempre condannata a venir confutata dai contenuti positivi di tutte queste altre. Ma altrettanto falso, perché addirittura illogico, sarebbe concludere all’opposto che quindi sono tutte false, o anche ripiegare in un relativismo assoluto. Ciò che invece logicamente consegue da questa molteplicità di situazioni e interpretazioni è la necessità di riconoscere la parziale validità di ognuna di esse e quindi, su di un piano riflesso, la complementarità di tutte, nessuna esclusa. Proprio in base all’accettazione a priori della parziale validità delle altre, ognuna di esse non soltanto non si risolverà in forza distruttiva, condannata a finire poi nell’autodistruzione proprio per il principio della necessaria complementarità, ma acquisterà la capacità di un inarrestabile progresso di autoarricchimento derivante dal processo della propria identificazione, la quale consegue, come sappiamo, da una sempre migliore più precisa affermazione della propria differenza da tutte le altre (3). Le quali pertanto non dovranno mai essere annientate, ma in caso proprio potenziate nella propria differenza, ossia nella propria identificazione e affermazione. È chiaro che qui si tratta di un principio riflesso sovrano, di carattere eminentemente metafisico, che non riesce, non è suo compito, a indicare con precisione i punti esatti in cui le varie impostazioni possono trovare la propria complementarità, eliminando quelli della propria incompatibilità, e i metodi per realizzarla. Ognuna è costretta a giudicare i suoi rapporti con le altre in base alle proprie tradizioni, alle proprie categorie, non soltanto mentali ma anche vitali, fatte quindi anche di pregiudizi, di privilegi o di risentimenti, che nascono anche dal fatto che l’una vive in uno spazio geografico specifico in cui viene esteriormente a trovarsi a differenza delle altre, e in un tempo particolare della storia generale dell’uomo e dell’universo, con tutti gli infiniti condizionamenti che ne derivano. Vi saranno sempre tensioni, incomprensioni,
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guerre anche se le armi che si useranno potranno cambiare in tutti i modi possibili. Ma se si riuscisse a persuadersi di quel principio riflesso sovratemporale assolutamente valido, e a sforzarsi sinceramente di metterlo in pratica, si arriverebbe al rimedio essenziale per risolvere i problemi che nascono da quell’inevitabile molteplicità di tradizioni, di luoghi, di tempi, di interessi, di pregiudizi. L’aspetto negativo che fatalmente inerisce a questa universale costitutiva situazione della storia ci indica che la soluzione definitiva non può mai trovarsi in essa.
4. IL PERCORSO DELL’ESSERE E DELLA SUA COSCIENZA FINITA
E ci si avvia così alla visione del problema nella sua più vera sostanza, che, come si è già indicato, è riposto nel tipo di rapporto che si instaura tra la totalità dell’Essere e quella parte di esso che è l’abitazione dell’uomo considerata in tutti i suoi aspetti, e quindi anche soprattutto la coscienza che egli ne ha. Questo rapporto è ineludibile. Rendere impossibile l’abitazione fisica del mondo significa soltanto rendere impossibile la formazione di ulteriori coscienze finite, e quindi per queste non vi è nessun problema dal momento che esse stesse allora non vi sono. Rimane invece sempre inesorabile il problema per quelle che vi sono state e che vi sono. È in esse che si presenta il problema nella sua vera ineludibile fatalità. L’autentica realtà è nella coscienza individuale, anche se essa è coscienza in quanto è in contatto e in relazione con tutte le altre coscienze, e soprattutto con l’Essere che tutte le contiene e che ne rende possibili le molteplici relazioni. Anche se il mondo fisico dell’uomo, o in generale di ogni coscienza finita, finisce, l’Essere continuerà ad esserci perché l’Essere per definizione non può non essere 14, e allora non può non continuare ad esserci quella coscienza, qualunque essa sia stata, in qualunque spazio e in qualunque tempo si sia dischiusa, che all’Essere si è ancorata per sempre 14 Anche da un punto di vista antropomorfico: forse che le stelle non vi sono se nessuna coscienza finita le sta a guardare o non ne ha alcuna coscienza? Diverso è ovviamente il caso, ad esempio, dei “corsi” e “ricorsi” storici di Vico, che riguardano le civiltà umane nella loro ripetizione a livelli diversi secondo un andamento a spirale.
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L’essere della coscienza consapevole
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perché ne possiede la coscienza15. Il problema deve allora ripiegare nella sua vera direzione, che a prima vista potrà sembrare un’evasione, una fuga dal problema stesso, ma che invece ne rende possibile la più razionale soluzione. È nella coscienza di ogni singolo uomo, qualunque esso sia, proprio per il fatto che in essa soltanto emerge ogni singola cosa, ogni avvenimento, ogni situazione dal loro fondo comune quando li riconosce tutti come punti, tappe, tracce dell’Essere che ne è la realizzazione, sia pure fuori dei limiti in cui essa vive e vede, che la storia finisce senza finire. Le cose sembrano passare, ma sappiamo che nel passare si conservano perché ognuna ha il baricentro del proprio essere in tutte le altre. Ciò che passa senza ritorno, ossia ciò che accade nel tempo, è il loro non-essere-l’Essere, pur ricevendo dall’Essere il loro essere parziale. L’accumulo di questo loro nonessere-manifesto si condensa anch’esso e si struttura nell’essere stesso della coscienza finita anche se di esso non può avere una chiara coscienza. Questa coscienza del suo nascosto non-essere è conservato nell’Essere che per definizione è la manifestazione di ciò che è nascosto, assieme al modo in cui è avvenuta la parziale rivelazione dell’Essere nella coscienza finita. Pertanto là dove sembra fermarsi la storia delle cose e degli accadimenti vissuti nella coscienza finita ricomincerà la storia delle stesse cose e avvenimenti vissuti invece nell’altro loro versante, nel versante rivolto verso l’Essere in cui trovano la loro più completa identità. Sarebbe ovviamente ingenuo pretendere di poter raffigurarsi qui e ora, dove prevale l’isolamento, la discontinuità e la conseguente discordante, spesso tragicamente contrastante molteplicità delle cose, delle vicende e delle coscienze, la situazione della nuova realtà vissuta, oltre che pensata, nel prevalente disvelamento, sia pure ancora sempre fatalmente parziale, dell’Essere. Quest’ignoranza non porta comunque alcun ombra di dubbio alla fondamentale verità, connessa con la sostanza stessa di una coscienza consapevole, ossia ancorata all’Essere, della sua coerente continuità. In un senso ben preciso si è quello che si era e si sarà quello che si è; la stessa gestione della libertà dipende in gran parte dal modo come essa è stata effettivamente gestita. 15 È questa la radice da cui ogni tipo di “personalismo” attinge i suoi criteri interpretativi della storia.
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L’essere si manifesta in modo diverso in ogni momento della storia, sia perché anch’esso si conserva cambiando, ossia vivendo, sia perché la coscienza finita collettiva stessa si modifica in continuazione, anche in conseguenza di quell’assoluto cambiamento in cui si trova inserita. È in questo rapporto cangiante in ambedue i suoi due termini costitutivi che vive nel tempo e nello spazio la singola coscienza finita, ed è come vive questo rapporto nella sua dimensione volta verso le cose che dipenderà in modo esatto preciso, puntuale, il modo in cui vivrà il suo decisivo rapporto nell’altra sua dimensione, quella rivolta verso la totalità dell’Essere.
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Parte II
L’ESSERE DELLA COSCIENZA INCONSAPEVOLE
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L’essere della coscienza inconsapevole
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INTRODUZIONE
Abbiamo finora parlato di quelle dimensioni della coscienza che sono direttamente orientate sull’Essere nella sua totalità, ossia della coscienza che abbiamo chiamato “consapevole”. Questo orientamento diretto è evidente con la sua massima chiarezza nella dimensione religiosa ma anche nelle sue altre dimensioni abbiamo potuto senza esitazione riscontrarlo. La dimensione morale l’abbiamo scorta nell’esigenza intrinseca alla coscienza di raggiungere la propria integrità; quella estetica nella costitutiva apertura di ogni suo atteggiamento alla totalità dei contenuti essenziali figurativi e sentimentali. Anche quella storica, sebbene sembri letteralmente condizionata nella sua stessa sostanza dai limiti del tempo, e quindi anche dello spazio, l’obiettivo della liberazione da questi limiti, e quindi ancora la sua tendenza a superarli, si è mostrato come il costitutivo più intimo di questa sua sostanza. Ma la coscienza anche in queste sue più alte espressioni non può realizzare totalmente queste sue esigenze di totalità anche se esse la costituiscono. Nelle sue forme più elementari poi queste esigenze non ne costituiscono il contenuto e quindi operano al di fuori di se stessa. Equivale a dire che in questi suoi livelli inferiori non vi è quell’orientamento “diretto” che abbiamo detto costitutivo della coscienza consapevole: si tratterà quindi di una coscienza che dovremo chiamare “inconsapevole”. L’analisi di questo orientamento “indiretto” che ora intraprenderemo, oltre che offrirci una buona conoscenza di gran parte della realtà perché comprende tutti i corpi viventi, ci consentirà di capire più a fondo, per contrapposizione, la coscienza “consapevole”, e quindi il rapporto con quella sua dimensione, da essa ineliminabile, che rende parziale la sua consapevolezza, e quindi in conseguenza “finita” la coscienza
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Il ritorno dell’essere
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stessa. Grandi problemi sono infatti connessi con questa complessa intricata struttura, come quello della morte e dell’immortalità.
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L’essere della coscienza inconsapevole
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Capitolo quinto
L’ANIMA E IL SUO CORPO
Il fatto così tragicamente universale della morte di ogni essere vivente su cui nessuno può dubitare ha posto da sempre il problema di come un essere, che è dotato delle caratteristiche particolari ed evidenti della vita, possa morire, ossia perderle e diventare anch’esso uno di quegli oggetti che di quelle caratteristiche non ne hanno nessuna. Poiché quelle caratteristiche sono sempre espressioni di quell’indubitabile unità che è un corpo fisico, il quale però rimarrà tale anche quando le sue caratteristiche vitali spariscono con la morte, si è pensato da sempre che quelle caratteristiche vitali siano espressioni di un unità altrettanto e addirittura più reale del corpo semplicemente fisico. È così nato da sempre il problema dell’anima propria di un corpo vivente. Dobbiamo allora prenderlo anche noi in considerazione cercando di capirne il senso in base all’impostazione da cui siamo partiti, incominciando da un rapido cenno essenziale delle interpretazioni che quest’anima dei corpi viventi ha avuto nel corso dei secoli. Nel primo periodo del pensiero filosofico occidentale, quando il problema centrale era quello “cosmologico”, ossia la spiegazione del “cosmo”, del mondo concepito nella sua esteriore unità spaziotemporale, non si era ancora fatto spazio alla considerazione del “soggetto davanti al quale” stava il cosmo. Finalmente con Socrate si capì che l’uomo non poteva capire il mondo se non capiva se stesso. Il “conosci te stesso” diventava in tal modo il vero primo centrale tema. La struttura del “mondo delle idee” costitutivo della coscienza del cosmo fu allora affrontato da Platone e poi da Aristotele, assieme a quello dell’“anima” concepita come “l’attività
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volta a un fine” (entelechia), ossia l’attività in cui si realizzano le facoltà che sono proprie di un corpo vivente 1. L’anima non è dunque un corpo come quelli del cosmo puramente fisico, ma la sorgente delle proprietà caratteristiche di un corpo vivente. Non si dovrà dunque confondere con la materia di questo corpo vivente e neppure con gli organi in cui è contenuta la sua possibilità di agire, ma s’identifica con questa stessa possibilità di agire. Si tratta di una possibilità organizzata in se stessa come lo è l’insieme degli organi che compongono il suo corpo2. L’anima si presenta quindi come una sostanza che è principio, causa delle operazioni di un vivente. Tra questa operazioni ve ne sono alcune, quelle intellettuali, che sembrano non dipendere da un organo materiale, e quindi nulla impedisce che si possa ravvisare nell’anima una parte che è indipendente, e quindi separabile, dal corpo3. Questo schema essenziale doveva stare per secoli alla base della psicologia, ma portando anche con sé possibilità diverse, e addirittura contraddittorie, di interpretazione. Due sono soprattutto i punti su cui si concentrarono e si accesero le controversie: la sostanzialità dell’anima e la sua indipendenza dal corpo. L’attribuzione della sostanzialità doveva naturalmente entrare in crisi quando la nozione stessa di “sostanza” venne messa in dubbio e contestata dalle correnti empiristiche. Ma prima ancora i nominalisti, incominciando da Guglielmo d’Ockham, pur ammettendola, l’attribuivano al corpo di cui è anima4. L’altro punto, strettamente connesso con il primo, era la misteriosa relazione dell’anima con il corpo, del quale doveva essere la realizzazione delle potenzialità, la “forma” della sua “materia”, ma dal quale ciononostante, poteva anche pensarsi, nel caso dell’anima umana, separata, e quindi dotata di immortalità. Al tempo del Rinascimento, si pensi per esempio a Pietro Pomponazzi, queste discussioni erano diventate quasi un’ossessione. Per garantire l’immortalità dell’anima già Plotino, e poi tutta la corrente neoplatonica, e sulla sua scia i Padri della Chiesa orientale, e in Occi1
Aristotele, De anima, II, 1, 412a10. L’anima cioè è “l’atto primo di un corpo fisico organico” (De anima, II, 1, 412b5), i cui “atti secondi” sono le azioni proprie di quest’essere vivente. 3 De anima, cit., II, 1, 413a4 ss. 4 Cfr. Quodl., 1, q. 10. 2
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dente soprattutto S. Agostino, si erano soprattutto preoccupati di evidenziare la sua indipendenza dal corpo mostrando come ad essa si arrivi proprio allontanandosi dal mondo materiale dei corpi e inoltrandosi nella strada della interiorità, del ripiegamento su se stessi5. Andava in tal modo aprendosi la strada che avrebbe finito per sostituire poco alla volta il concetto di anima, ancorato in quello remoto di sostanzialità, con quello di coscienza relativo invece a un’attività interiore di evidenza immediata. Una tappa decisiva in questa direzione si è avuta con Cartesio, in cui “l’essere” dell’io viene ricavato come conseguenza immediata del “pensare”, un essere dunque che ha come caratteristica costitutiva il pensare, pur non potendosi con esso identificare, mentre l’essere delle cose viene da lui dedotto in seguito, e quasi marginalmente, attraverso un lungo percorso, ancora in base alla coscienza che si ha della passività delle facoltà sensibili, così da risultare dotato di una specie di realtà ben diversa da quella relativa al pensare6. Su questa linea si mantengono anche le successive filosofie razionalistiche. Per Spinoza l’unica sostanza è Dio, e quindi l’anima è solo parte dell’intelletto infinito di Dio, “l’idea di un corpo singolo esistente in atto” 7, ossia la coscienza di un corpo organico. Per Leibniz è sì una sostanza di carattere spirituale, ma concepita come un “centro di forza” di carattere “appercettivo”, ossia costituito dalle percezioni coscienti nelle quali si riflette tutto il mondo. La corrente empiristica si muove nella stessa direzione. Per Locke e per Hume la credenza dell’anima si basa sulla supposizione fittizia di qualcosa di diverso che “sottostà” (sostanza) ai dati dell’espe5
Plotino, Enn., IV, 7; V, 3: “La parte dell’anima che è fuori dell’intelligenza tende verso le cose esteriori”, V, 3, 7; “è l’anima, come si vede, e la parte più divina dell’anima che si deve contemplare se si vuole sapere cos’è l’intelligenza. Ciò non è possibile senza dubbio se non si scarta dall’uomo che siete innanzitutto il corpo e poi l’anima che lo informa ( tæn pl£ttousan toÓto yucªn )”. E di S. Agostino si consideri il tema centrale della sua filosofia: “noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas, et si teipsum mutabilem inveneris transcende et te ipsum” (De vera rel., § 39). 6 Com’è noto, il cogito di Cartesio non ha solo il significato del pensare in senso ordinario, ma di “tutto ciò che è in me e di cui sono immediatamente cosciente. Così tutte le operazioni della volontà, dell’intelletto, dell’immaginazione, dei sensi, sono dei pensieri”, Medit. metaf.; tr. it. Bari 1954, p. 161 (Risposta alle 2 e obiezioni”). 7 Et., II, 11.
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rienza, i quali soltanto però sono fondamentalmente certi, anche se sono altrettanto certe le relazioni di somiglianza e di causalità, che ad essi si sovrappongono, ma che sono tuttavia nessi costruiti esclusivamente dall’uomo. Chi si è proposto di demolire, non più così implicitamente come si è visto, ma frontalmente, direttamente, la nozione di anima è stato Kant, per il quale la nascita di tale nozione è dovuta a un paralogismo che trasforma l’unità della coscienza, espressa dall’“Io penso”, che sta alla base di tutte le categorie, in una categoria: la categoria della sostanza: un semplice equivoco dà origine alla psicologia razionale. L’unità della coscienza, che è a fondamento delle categorie, viene qui presa come intuizione del soggetto, preso come oggetto, e le si applica la categoria della sostanza. Ma essa non è se non l’unità nel pensiero, per il cui solo mezzo non è dato nessun oggetto, e a cui perciò non si applica la categoria di sostanza, come quella che suppone sempre un’intuizione data8.
In altre parole, il carattere evidentemente soggettivo della coscienza che accompagna ogni azione viene interpretato come una cosa, come una sostanza, con un evidente errore di logica, equivoco fondamentale su cui per secoli si era basata la psicologia razionale. Sia l’Idealismo ottocentesco che il Positivismo ad esso opposto si troveranno d’accordo nel radicalizzare questa riduzione dell’anima a coscienza. L’anima per Hegel è il primo destarsi della coscienza, quando essa è ancora raccolta nella forma dell’individualità, nella quale riluce sì un’idealità astratta, ma ancora avviluppata e indeterminata: “sogno dello spirito, nous passivo di Aristotele che, sotto l’aspetto della possibilità, è tutto” 9. E per i positivisti in psicologia si può parlare soltanto di “fenomeni psichici”, di “stati di coscienza”, di “serie di sensazioni”, di “infinite possibilità di sentire”, come si esprime Stuart Mill, risultanti da complessi meccanismi di associazione di elementi più semplici, dovuta a un’attività che chiamiamo “mente” (mind), o “spirito”, o anche talvolta “anima” (soul), ma con il semplice significato di attività razionale. Si tratta in definitiva di una “psicologia senz’anima”, come è stata significativamente chiamata, dopo che l’anima ha finalmente mostrato con chiarezza la 8 Critica d. R. Pura, Dial. trasc., Paralogismi della ragion pura, tr. it. Bari 1949, p. 339. 9 Enc., § 389.
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sua qualità di “spettro nella macchina” 10. Dewey ha espresso in modo molto conciso e centrato in una sola frase il lungo percorso che ha portato a questa radicale trasformazione del concetto di anima: “In conclusione si può affermare che la parola anima, quando è liberata da tutte le tracce del tradizionale animismo materialistico, denota la qualità delle attività psico-fisiche, in quanto sono organizzate in unità” 11. Il traguardo a cui è arrivato il lungo percorso è però ben lontano da poter essere considerato definitivo. Questa unità delle attività psico-fisiche infatti a cui è stata ridotta, dopo secoli di sviluppi critici, “l’anima” della tradizione antica e medioevale del pensiero, e in generale della cultura metafisica etica religiosa occidentale, è una unità che va spiegata e non soltanto affermata o descritta. Si rimarrebbe altrimenti a un puro livello fenomenologico sul quale non è possibile rinvenire la radice da cui quelle attività provengono nella loro apparente ma certo non trasparente unità. E tanto meno è possibile rendersi conto anche delle altrettanto evidenti discontinuità di quelle attività e la loro causa, e in conseguenza anche delle possibilità di una loro unificazione che corrisponderebbe per definizione a un miglioramento delle attività psico-fisiche stesse12. Lo stesso trattino che è posto tra i due aggettivi “psico” e “fisiche” riassume biblioteche intere di volumi che hanno trattato e cercato di capire quel salto – che molti ritengono addirittura un abisso – tra il corpo e l’anima, e quindi in definitiva tra le funzioni o facoltà corporali e quelle spirituali, e quindi in ultima analisi tra le operazioni corporali e quelle spirituali che da quelle funzioni promanano. Abbiamo considerato come il concetto di anima poco alla volta 10
G. Ryle, Concept of Mind, 1949. Experience and Nature, Chicago 1925 (New York 19292); tr. it. Paravia, Torino 1952, p. 111. 12 Aristotele parlando dei filosofi che prima di lui avevano parlato dell’anima scrive: “Queste teorie e la maggior parte di quelle riguardanti l’anima implicano una nota assurdità: esse pongono l’anima congiunta a un corpo, senza specificare affatto quale ne sia la causa e come il corpo si comporti [...] Tali pensatori intraprendono solo a illustrare la natura dell’anima e non aggiungono nessuna determinazione circa il corpo che la riceve, come se fosse possibile – secondo i miti platonici – che l’anima casuale penetri nel corpo casuale; mentre appare che ciascun corpo possiede una propria forma o figura” (De an., I, 407b14-24). È un discorso che vale alla lettera anche per il pensiero scientifico e filosofico moderno. 11
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si sia trasformato o sia stato sostituito da quello di coscienza. Ma analisi sempre più acute e profonde hanno mostrato che nell’uomo, nella sua psiche stessa, agiscono forze, tendenze, inclinazioni, disposizioni che non sono conscie, e sono talmente potenti, numerose e complesse da indurre parecchi filosofi e psicologi a ritenere che la sostanza stessa dell’uomo, il suo nucleo costitutivo più intimo e centrale sia costituito da quello che è invalso chiamare “l’inconscio”. Ci limitiamo qui a nominare per la filosofia Schopenhauer e per la psicologia Freud, ma la schiera di coloro che hanno trattato dell’inconscio è assai numerosa13. La riduzione poi della coscienza alla materia, che dovrebbe essere il compito di ogni materialismo, e la riduzione della materia alla coscienza, che dovrebbe essere il compito di ogni idealismo, per quanti tentativi siano stati fatti attraverso i secoli rimangono imprese disperate e finiscono per non convincere nessuno. La via da percorrere è un’altra, e qui ad essa vogliamo accennare. I contenuti manifesti delle cose si costituiscono attraverso il riconoscimento della loro diversa differenza, la quale pertanto nella sua totalità deve essere presente in ognuno di essi. Questa è in sostanza la “coscienza” che fa emergere e rende quindi presente ognuna di queste cose (3-6). Una cosa qualunque nella sua attualità, chiamiamola A, si presenta per quello che è per la sua costitutiva diversa differenza da tutte le altre, ognuna delle quali è quindi presente nella A come possibilità di rendersi a sua volta attualmente presente attraverso le sue specifiche diverse differenze da tutte le altre, compresa la A, che ora è effettivamente presente. La maggior parte delle diverse differenze non viene però registrata e quindi riconosciuta, e pertanto la costituzione di ogni cosa non può mai essere completa (13). Ogni cosa risulta così radicalmente indeterminata. Le diverse differenze che rimangono fuori della loro registrazione costituiscono la materia di cui risulta composta ogni cosa. Il compito della ricerca scientifica è proprio quello di recuperare queste diverse differenze perdute, ma con metodi che solo marginalmente e indirettamente raggiungono questo scopo (13-15). Che cosa ne deriva allora per la coscienza nella quale ogni cosa si manifesta e nella quale anzi si costituisce? Come in se stessa 13 Per un’idea sia pure sommaria della storia dell’inconscio si può consultare la mia Introduzione (92 pagine) all’antologia da me curata: Freud-Adler-Jung. Psicanalisi e Filosofi, La Scuola, Brescia 1989.
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assomma la manifestazione di ogni cosa, così in se stessa assomma anche l’indeterminatezza, la materialità di tutte le cose che sono in lei. Abbiamo già considerato come l’incompletezza di ogni cosa, e di tutte le cose prese insieme, sia anche per ciò stesso l’incompletezza, la finitezza della coscienza, di ogni coscienza. L’incompletezza radicale della coscienza delle cose anch’esse incomplete, materiali, in quanto si manifesta, in quanto si manifesta con le possibilità che racchiude in se stessa è il corpo che accompagna ogni coscienza finita. Si tenga dunque bene presente che la materialità di ogni cosa, la impossibilità di penetrarla compiutamente è prima di tutto l’impossibilità per la coscienza di penetrarla, l’ìmpossibilità che quelle diverse differenze diventino coscienza. Si potrebbe quindi dire: le cose sono materiali perché la coscienza è materiale. Se i cosiddetti sensi di cui è provveduta ogni coscienza finita fossero più penetranti, ossia meno indeterminati, meno materiali, allora meno materiali, meno indeterminate, ossia più identificate risulterebbero le cose che stanno o che possono stare davanti alla stessa coscienza. In questa questione un’altra radicale distinzione è necessario tenere ben presente per evitare l’assurdo di pensare che la mancanza di conoscenza si traduca e addirittura si identifichi con la formazione di un corpo. È la radicale distinzione tra coscienza delle cose e conoscenza delle cose14. Anche Ockham, e in generale i nominalisti avevano vagamente intuito che l’indeterminatezza della materia, che era sempre stata considerata da Platone e dopo Platone come un mæ ‘n, ossia come “non-essere”, era invece dovuta a una mancanza di conoscenza, di intuizione. In conseguenza di questa mezza conquista la materia era stata rivalutata, soprattutto nel Rinascimento italiano. Ma si trattava appunto soltanto di una “mezza conquista” che, come tale, non poteva imporsi. È la mancanza di quella specie di costituzione radicale dovuta alla “sintesi originale” delle diverse differenze, irriducibile alla conoscenza di cui però sta al fondamento, che sta alla base della formazione di quel corpo vivente che accompagna inevitabilmente ogni coscienza finita (12). Se non si tiene bene presente questa coscienza originaria per cui le cose appaiono e che precede pertanto la conoscenza, la quale scioglie, scompone quel14 Tra l’altro senza questa distinzione si renderebbe possibile l’assurdo che la scienza possa un giorno svelare i segreti dell’universo nella sua totalità estensiva e intensiva compresa dunque la vita, la coscienza e lo spirito dell’uomo.
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lo che prima è stato combinato, sia pure per tentare sue nuove artificiali combinazioni, non ci si può rendere conto di quel costitutivo essenziale della strutturazione della realtà che è il corpo, soprattutto e prima di tutto il corpo vivente. È la “sintesi originaria” che compone le diverse differenze in cui si costituiscono quelle che, in conseguenza, assieme alla percezione della loro incompletezza, si manifesteranno come “cose”. È per questa sintesi originaria che emergono i contenuti essenziali delle cose, e quindi le cose stesse, prima che si possano poi coscientemente confrontare e formarne la conoscenza. La conoscenza cerca invano di riconquistare la coscienza di ciò che delle cose è rimasto fuori e come perduto durante la formazione della loro coscienza, ossia dei loro contenuti essenziali. È su questa distinzione, e sulla base di queste due componenti essenziali, positiva e negativa, che è possibile capire che cosa è un corpo in generale, e soprattutto, abbiamo detto, un corpo vivente, ossia un corpo dotato di una sua coscienza originaria. Questa coscienza originaria comune a tutti i viventi, precedente quindi tutte le differenze che in essa si possono riscontrare, compresa quella fondamentale che distingue gli uomini dagli animali e dalle piante, e precedente ogni tipo di conoscenza, in quanto determina il comportamento di questi esseri viventi, s’identifica con l’anima. Cerchiamo allora di chiarire ulteriormente questa distinzione tra i corpi in cui agisce questa coscienza originaria, ossia i corpi “animati” e quelli in cui è assente, ossia i corpi “inanimati”. Nel prossimo capitolo approfondiremo l’altra distinzione, che abbiamo chiamata “fondamentale” tra i corpi dotati di coscienza “consapevole” e quelli dotati di una semplice coscienza “inconsapevole”. I corpi inanimati: i sassi, i tavoli, i libri, la luna, sono tali in quanto “sono sentiti” o “possono essere sentiti” dagli organi di senso del corpo animato. Anche se i modi di sentirli: di un uccello, di un gatto, di un uomo, e così via, sono molto diversi, sarebbe assurdo pensare che questi corpi, in quanto “sensibili”, ossia in quanto oggetti di “senso”, possano esserci senza un corpo dotato di “senso” che appunto “li sente” o “può” sentirli. E le loro qualità sensibili sono diverse a seconda e in dipendenza dei corpi viventi che le sentono. I corpi inanimati in generale quindi sono tali in quanto sono in relazione, e più precisamente, in dipendenza dei
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corpi animati. Il discorso sui corpi animati diventa pertanto primario e fondamentale per ogni tipo di corpo, in particolare per i corpi inanimati, nonostante che, proprio per il modo come sono chiamati, sembrino escludere totalmente ogni riferimento all’anima. I corpi inanimati sono tali in quanto sono oggetti possibili del riconoscimento dei corpi animati. E questi invece sono tali in quanto sono dotati di tale facoltà di riconoscimento, da cui derivano le altre loro particolari caratteristiche, a cui ora accenneremo nella loro genericità per riconsiderarle poi più in particolare quando parleremo della vita biologica. Ogni coscienza ha come suo atto fondamentale il riconoscimento di cose diverse da sé. Questo riconoscimento consiste nell’avvertire o avere presente la diversa differenza di ciò che sta davanti, da altre possibili presenze, e che in tal modo si manifesta. In ogni corpo animato proprio questa coscienza che lo costituisce lo porta a uscire dalla situazione attuale in cui si trova, in particolare dall’oggetto che gli sta davanti, dal momento che ognuno di essi si manifesta per quello che è, ossia esiste per quel corpo animato, per il suo confronto con tutti gli altri, ai quali quindi si deve passare perché il confronto sia possibile e diventi quindi possibile anche la manifestazione di ciò che sta davanti. Sappiamo però che le diverse differenze che sono raccolte da e in ogni coscienza in generale sono soltanto una parte infima delle diverse differenze in cui stanno le cose realmente in se stesse. Queste diverse differenze che restano fuori costituiscono un ambito della realtà che è dunque enormemente più vasto della parte di realtà che si struttura nella coscienza di ogni essere vivente. E tuttavia questa struttura mancante alla struttura cosciente dell’essere vivente è costitutiva dell’essere vivente stesso, perché le diverse differenze mancanti sono il contenitore e il fondamento di quelle che si risolvono nella coscienza. Facciamo un esempio di questa situazione importante. In questa stanza vedo il pavimento e le pareti con il soffitto. Sono certo di distinguere molto bene queste diverse cose. Ma so anche che il pavimento fatto di piastrelle contiene una struttura interna che dà compattezza, resistenza, sostegno alle cose che vi si appoggiano, e così via; e le pareti altrettanto contengono una struttura di mattoni e calce, a loro volta formati di altri componenti più fini che sebbene non si rivelino in se stessi sono tanto reali quanto il risultato che si vede. Ancora più evidente
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è la situazione se si passa alla composizione dei corpi viventi rivelata dalla scienza. Nascosti negli organi vi sono le cellule, e nascoste nelle cellule le molecole, e in queste sono nascosti gli atomi con le loro vicendevoli relazioni, nelle quali sono nascoste le strutture ancora più fini delle componenti degli atomi. Agli organi visibili con le loro evidenti funzioni si accompagnano dunque sempre le strutture e il funzionamento inosservabile delle cellule, ai quali si accompagnano le strutture e il funzionamento delle molecole, e a questi le strutture e il funzionamento degli atomi, e, più a fondo, quelle ancora meno osservabili dei componenti degli atomi. Riassumendo: se le strutture e i funzionamenti delle cose osservabili lo chiamiamo “macrocosmo” perché costitutivi del “grande cosmo” visibile, e le strutture e relativi funzionamenti delle cose inosservabili “metacosmo”, perché posto “aldilà” (“metà”) di quello cosmico, quanto più queste strutture e funzionamenti metacosmici sono più fini, ossia più in se stesse determinati, tanto più costituiscono la base di quelli cosmici osservabili, e quindi tanto più sono da essi inseparabili, e ad essi più intimi. Gli esempi sono ovviamente presi dall’esperienza umana, ossia dalla coscienza che abbiamo chiamata “consapevole”, ma valgono evidentemente per ogni tipo di coscienza. Qualunque atto di riconoscimento di situazioni e di oggetti che si manifesta nel comportamento di qualunque essere vivente ha il suo riscontro “metacosmico” nei fenomeni puramente fisici e biologici del corpo dell’essere vivente stesso: questi fenomeni di cui per definizione non si ha coscienza sono inseparabili da quelli coscienti. È l’inseparabilità tipica dell’essere vivente preso nella sua globalità di corpo e anima. Teniamo sempre bene presente che questa strutturazione e funzionamento metacosmici camplementari di quelli manifesti non sono nella loro generalità strutturazioni e funzionamenti di cose e di eventi diversi, perché la rottura in cose ed eventi diversi avviene solo quando vengono analizzati sul piano riflesso, come fa ad esempio la scienza, e prima ancora la spontanea coscienza consapevole, ma il nostro discorso vale per ogni tipo di coscienza, anche per quella inconsapevole degli animali e delle piante, ossia per ogni essere vivente composto di anima e di corpo. Data la sua estrema importanza diamo ancora uno sguardo attento a questa strutturazione e funzionamento metacosmico che accompagnano nel modo che si è detto quelli manifesti della co-
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scienza allo stesso modo che ogni versante concavo si accompagna a quello che gli è convesso. Questa funzionante strutturazione è andata accompagnando quella manifesta in modo tale che allo sviluppo di questa è sempre corrisposto uno sviluppo analogo di quella. Insieme nel loro complementare percorso hanno costituito quella lunghissima serie delle specie e degli esseri viventi che sono via via apparsi nella storia dell’evoluzione: storia dunque dei diversi progressivi modi di percepire il mondo che si è andato strutturando in concomitanza, e quella dei diversi modi di agire e reagire in conseguenza nei suoi confronti. Nel termine “progressivi” che abbiamo adoperato non deve essere inteso solo il significato di una successione temporale ma anche quello appunto di “progresso”, di un avanzamento in questi modi di percepire e di comportarsi che si sono succeduti nella storia dell’evoluzione. Nonostante le ricorrenti critiche di coloro che si ritengono esemplarmente positivisti riteniamo che il modo come un animale percepisce il mondo circostante sia più completo e più determinato di quello di una pianta. Certo che la pianta percepisce il suo ambiente con la stessa perfezione di come l’animale percepisce il suo, ma una coscienza riflessa, ossia consapevole, non può se non mutilandosi, non mettere a confronto gli ambienti delle piante e quelli degli animali. All’interno del regno delle piante e all’interno di quello degli animali si è andata poi analogamente disponendo una gerarchia di complessità di ambienti e in conseguenza di atteggiamenti delle diverse specie di piante e di animali nei loro confronti. Ci si può certo fermare alla descrizione pura e semplice delle strutture spaziotemporali degli esseri viventi, delle loro specie e dei loro ambienti, e rinunciare quindi alla considerazione dei loro autentici contenuti – questa limitazione può anche avere dei vantaggi per una pura descrizione –, ma negare che oltre a quella descrizione vi sia la sua spiegazione in base ai contenuti effettivi, è enorme presunzione e miopia15. Nella prospettiva così chiarita è inevitabile, ci sembra, parlare di tanti “cosmi”, ossia di tanti modi di percepire l’ambiente, e di al15 In una discussione pubblica all’Università di Trieste il celebre scienziato Montalenti a una mia obiezione alla sua tesi dell’assoluta mancanza di gerarchia di valori nella scala degli esseri viventi della biologia affermava che i virus sanno fare cose che uno scienziato non sa fare. È vero, ma non sono ben più le cose che sa fare lo scienziato tra cui quella di parlare dei virus?
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trettanti “metacosmi”, ossia complementi di questi cosmi, quanti sono gli esseri viventi. In ognuno di questi viventi allora viene riassunta sempre in forma variamente diversa la successione delle forme in cui è andata sdoppiandosi la totalità dell’Essere. Su queste forme variamente diverse sarà quindi ora opportuno soffermarsi un momento. Ogni essere vivente appartiene a una specie dentro la quale il rapporto cosmo-metacosmo si ripete quasi alla stessa maniera. Ossia ogni organismo di questa specie è certamente diverso da ogni altro della stessa specie, ma è di quest’altro meno diverso, ossia ad esso più simile che a qualunque altro organismo appartenente a un’altra specie. Una rana è molto più simile a un altra rana che a un gatto o a un cane. Questa diversità di differenze risulta evidente sia osservando il loro diverso comportamento, che è la conseguenza e l’espressione di come percepiscono il loro ambiente, ossia l’espressione del loro “cosmo”, che osservando il loro corpo che è l’espressione del complemento di questo loro interiore cosmo, ossia l’espressione del loro “metacosmo”. Anche la diversità di valore a cui abbiamo poc’anzi accennato, si manifesta allora, sebbene, torniamo a ripetere, non sia lecito affermare che avvenga nel senso di un incremento parallelo alla successione temporale delle apparizioni delle specie nel percorso della cosiddetta evoluzione. Le specie evolvendosi le une dalle altre possono anche degenerare, ossia perdere di valore, o, se si teme di introdurre termini troppo vaghi, di livello. Il loro ambiente è certamente più vasto e più forte nella sua componente metacosmica di quanto lo sia in quella sintetizzata nella loro coscienza, ossia nel loro cosmo: la morte, così inevitabile per i singoli viventi, ma anche probabilmente per tutte le specie, ne è la prova più evidente. Ma ciò non toglie che confrontando queste varie tappe del percorso dell’evoluzione non risulti che alcune specie sono più progredite delle altre. A fondamento di tale tesi importante e della sua spiegazione sta il fatto che la coscienza costitutiva del “cosmo” di ogni essere vivente è data dalla capacità di avvertire le diverse differenze presenti nell’ambiente. A questa diversa capacità si accompagna la capacità di comportarsi diversamente nei riguardi delle variazioni dell’ambiente stesso. Questo diverso comportamento si esprime nel modo di agire e di reagire alle variazioni dell’ambiente, e questo modo a sua volta è relativo alla complessità delle strutture somatiche del-
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l’organismo stesso. Da questo comportamento si può quindi desumere il livello di percezione delle variazioni dell’ambiente, e pertanto anche il grado o livello in cui si trova l’essere vivente preso ora nella sua totalità. Ora è chiaro che una pianta, qualunque essa sia, non può percepire le infinite differenze di ambiente che sono invece percepibili da qualunque animale, anche solo per il fatto stesso che questo ha la possibilità di muoversi ossia di variare la presenza degli oggetti dell’ambiente in cui può muoversi. Ma poi in particolare dentro il regno animale stesso le possibilità di variazione di un bacillo, di un’escherichia coli ad esempio, confinato a vivere nell’intestino di un altro animale, è ben più limitato di quelle del mammifero dentro cui vive, o di un aquila che vola nei cieli. È molto importante tenere presente in che relazione stanno i due tipi di metacosmo davanti ai quali siamo venuti a trovarci. In quanto si è detto precedentemente vi è la chiave di questa comprensione. Vi è quel metacosmo che è il corpo del vivente quale si è venuto formando in accompagnamento al mutamento del modo di percepire l’ambiente e di comportarsi a suo riguardo. Esso riassume in se stesso la storia dell’evoluzione e di esso è testimonianza chiara il codice genetico che si è andato formando attraverso la selezione naturale e le mutazioni, su cui avremo modo di parlare in seguito. La sua correlazione con l’evoluzione del modo di percepire l’ambiente è manifesta. Non stiamo dicendo che la funzione genera l’organo, come ha sostenuto Lamarck, ma neppure che l’organo genera la funzione, come invece insegna la teoria di Darwin. Organo e funzione sono insieme due aspetti che nascono e si sviluppano simultaneamente costituendo in tal modo l’organismo vivente. Non si tratta però di un “parallelismo psico-fisico” espressione di una “armonia prestabilita” che ha tutto l’aspetto e il valore, ossia il nessun valore di un deus ex machina, o di un’ipotesi ad hoc. Queste espressioni non sono altro che il nome del problema da risolvere. La realtà è che una struttura di percezioni di diverse differenze sono presenti in ogni organismo ma sono sempre tali da lasciar fuori di questa struttura una struttura di diverse differenze non percepite, ossia non trasformate in coscienza, ma pur sempre esistenti e presenti alla base di quelle percepite costituitesi in coscienza, secondo quel rapporto di determinazione e di indeterminazione che abbiamo spiegato. È sempre l’unità dello stesso Essere che sta dunque alla base dell’unità dell’essere vivente con il suo
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duplice aspetto cosmico e metacosmico, percettivo e materiale. Ma oltre a questo metacosmo che si sviluppa con l’evoluzione ed è costitutivo di ogni essere vivente vi è il metacosmo di ognuno degli oggetti dell’ambiente percepito dall’ambiente. La frantumazione dell’ambiente in una molteplicità di cose, di oggetti è un processo derivante dal modo come si è andata formando la coscienza consapevole tipica dell’uomo. Per ogni pianta e per ogni animale, la cui coscienza non è consapevole, non esistono “le cose”, per ognuna delle quali allora si ripeterebbe il problema del “suo” metacosmo, ossia in definitiva della sua “materia”. Per queste specie vi è solo un metacosmo confuso che agisce non consaputo sul corpo vivente. Questa distinzione tra il metacosmo che accompagna la percezione dell’ambiente di ogni pianta e animale: un metacosmo per ogni pianta e ogni animale, e il metacosmo dell’uomo che abbraccia tutti questi singolari metacosmi inferiori e sembra spaccarsi nella pluralità delle cose e quindi nella pluralità dei metacosmi ossia della materia delle singole cose presenti nell’ambiente dell’uomo sarà importante per chiarire a suo tempo il problema della vita, ma anche ora ci è necessario per chiarire il problema che stiamo trattando. Già si è detto precedentemente che la materia costitutiva di ogni oggetto dell’esperienza è dovuta alla materia, ossia all’indeterminatezza dei sensi dell’organismo; ora però bisogna aggiungere che questa materia diventa materia “dei vari corpi” superficialmente distinti, a causa della coscienza tipica dell’uomo, per il quale soltanto esistono “le cose”, come significati dei dati di senso ricevuti dall’organismo da una parte, e come espressioni della totalità dell’unico Essere dall’altra. Se si attribuisce agli ambienti che sono propri di ogni pianta e di ogni animale “le cose”, nascono gravi confusioni e equivoci che impediscono di risolvere vari problemi di filosofia e di biologia. In queste forme inferiori di vita vi sono soltanto azioni fisiche del mondo a loro esterno sul loro organismo, il quale pertanto risulta dotato di dati di senso, ma senza che queste azioni portino con sé quei significati che sono i contenuti essenziali delle cose (il libro, il sasso, ecc.), e senza che quindi poi emerga la distinzione tra questi contenuti e i caratteri che ad essi accadono (gli “accidenti”) diventando in tal modo “cose”. Poiché gli ambienti delle piante e degli animali sono contenuti in quello universale
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dell’uomo, ossia della coscienza consapevole (ogni oggetto possibile di quegli ambienti è consaputo come una cosa tra le altre) si attribuiscono erroneamente “le cose” dell’ambiente consaputo dell’uomo a quelli delle coscienze inconsapevoli. È bene tener presente fin d’ora questo particolare ambiente dell’uomo e il particolare corpo che ne consegue. Riassumiamo i dati più importanti raggiunti dalla nostra analisi. Ci siamo resi conto del significato di termini così straordinariamente fondamentali come quelli di “anima” e di “corpo”, e del rapporto che intercorre tra di loro. L’anima si è mostrata nella sua sostanza come la coscienza che un vivente ha della realtà in cui vive. Questa coscienza della realtà è parziale e pertanto la realtà per questa coscienza si scompone nella realtà di cui si ha coscienza, e l’abbiamo chiamata il “cosmo” di questa coscienza e la realtà della cui esistenza soltanto si ha coscienza senza avere coscienza dei suoi contenuti. La realtà cosciente, qualunque essa sia, è tale per il suo movimento che la porta da ogni suo stato attuale a tutti gli altri suoi stati possibili che fanno emergere appunto alla coscienza il suo stato attuale. La realtà è sempre in se stessa totale anche se si è sdoppiata nel modo detto per la coscienza finita. Anche la parte rimasta fuori della coscienza nei suoi contenuti, ed è tuttavia esistente, e che per questa sua situazione abbiamo chiamata “metacosmo” dell’essere vivente, non può non seguire dal di fuori le vicende della parte cosciente: si organizza, si evolve, si struttura e diventa allora il corpo singolo dell’essere vivente, ma poi, in successione con gli altri esseri viventi, diventa la specie, e quindi le varie specie della storia dell’evoluzione biologica. Non si tratta dunque, quando si parla di anima e di corpo, di due realtà distinte, ma di una sola realtà con i suoi due aspetti di coscienza e di possibilità di coscienza che accompagna la coscienza stessa: possibilità di coscienza che assume poi una pregnanza particolare quando è possibilità di coscienza e conoscenza del particolare metacosmo che è il corpo organizzato, sia relativo alla coscienza inconsapevole che a quella consapevole, pur con le fondamentali distinzioni che sono emerse. Questa composizione e scomposizione unitaria di ogni essere vivente si è rivelata come l’espressione della realtà totale, che abbiamo chiamato l’Essere, il quale oltre che essere il fondamento di ognuno di essi ne rappresenta la vera identità, ossia la loro realtà posta aldilà di ogni sua indeterminazione.
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Il ritorno dell’essere
Capitolo sesto
COSCIENZA CONSAPEVOLE E COSCIENZA INCONSAPEVOLE
Abbiamo avuto modo finora di parlare incidentalmente della differenza tra coscienza “inconsapevole” e coscienza “consapevole”, e degli aspetti di quest’ultima ha parlato tutta la prima parte. Ora dobbiamo affrontare direttamente questo problema della differenza per l’importanza che riveste sia in se stesso che nelle gravi conseguenze che ne derivano. Dobbiamo cioè renderci un conto più esatto e profondo del significato dei due termini, soprattutto della loro differenza dal momento che proprio attraverso la comprensione della loro differenza si chiarisce il significato dei due termini in questione. Come abbiamo già avvertito questa differenza si presenta nella sua più manifesta espressione alla semplice osservazione nel modo chiaramente diverso di agire degli animali e delle piante da una parte e dell’uomo dall’altra. Il modo di agire dei primi è appunto l’espressione della coscienza “inconsapevole”, il modo di agire dell’uomo l’espressione della coscienza “consapevole”. Dobbiamo ora cercare di capire ciò che effettivamente sta alla base di questi due tipi di comportamento estremamente diversi, ossia appunto in che cosa consista precisamente la coscienza inconsapevole nella sua differenza da quella consapevole. È necessario rendersi subito conto che non si tratta di una differenza in cui un termine esclude categoricamente l’altro. Anche a livello di semplice osservazione si constata senz’ombra di dubbio che nel comportamento dell’uomo, in cui agisce a fondamento la coscienza consapevole, vi sono aspetti e azioni evidentemente inconsapevoli, ossia del tutto comuni con quelli degli animali e delle piante. Così l’azione del respirare, del dormire, del digerire, e così via. D’altra parte sembrano presenti in certi animali superiori comportamenti e atteggiamenti che sembrano possedere qualcosa
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almeno delle caratteristiche che si attribuiscono all’uomo, ossia l’intuizione, la comprensione, l’amore, addirittura l’intelligenza. Adopereremo il termine di coscienza “semplice” quando vorremo indicare questa coscienza elementare, comune a ogni tipo di vivente. Ecco allora una prima fondamentale osservazione: alla base di ogni tipo di coscienza, quale elemento comune che la costituisce come tale in tutte le sue possibili espressioni e aldilà di tutte le sue distinzioni, vi è il riconoscimento della situazione in cui l’essere vivente viene a trovarsi. Al termine “situazione” si deve dare un senso molto vasto. Può trattarsi di un semplice oggetto che si rende presente all’essere vivente, come risulta dal fatto che si comporta in sua presenza in modo diverso da come si comporta in presenza di altri oggetti. Così un antilope si comporta diversamente quando le si presenta un leone da quando invece le si presenta un’altra antilope. Ma “situazione” è anche, e anzi soprattutto, una struttura di rapporti in cui stanno tra di loro due o più oggetti presenti. Lo scimpanzé ad esempio, studiato da Kohler, ha mostrato di avere coscienza oltre che della banana posta fuori della sua gabbia alla quale non poteva arrivare, ma che distingueva come oggetto che poteva estinguere la sua fame, e oltre che del bastone posto invece nella sua gabbia, anche dell’insieme formato da questi due oggetti nel loro intrinseco rapporto di mezzo e di fine. Tant’è vero che dopo gli sforzi inutili per raggiungere da solo la banana si è servito poi del bastone per avvicinarla, raggiungerla e mangiarla1. Alla base, abbiamo detto, di ogni riconoscimento sta una coscienza. Essa consiste nella presenza delle diverse differenze dell’oggetto o della situazione attualmente presente da tutti gli altri oggetti o situazioni non attualmente presenti. Senza la presenza di queste differenze l’oggetto o la situazione attualmente presente non potrebbero presentarsi per quello che sono, ossia essere riconosciute per quello che sono. Rimarrebbero infatti confusi con tutti gli altri oggetti o situazioni e non emergerebbero, non si presenterebbero. Questa differenza diversa da tutti gli altri oggetti o situazioni presenti nella manifestazione dell’oggetto attualmente, 1
Ho personalmente osservato cigni a cui venivano gettati sulla spiaggia del lago pezzi di pane, che, se questo pezzo era molle, lo mangiavano stando anch’essi sulla spiaggia, se invece troppo duro andavano prima a bagnarlo nell’acqua del lago.
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ossia fisicamente, presente, si identifica con la possibilità che questi “altri” oggetti possano diventare attualmente presenti. Ognuno di questi “altri” oggetti è una possibilità diversa da tutte quelle degli altri oggetti compreso quello attualmente presente, il quale pure ovviamente è talmente possibile da essere addirittura fisicamente presente. È questo insieme strutturato di possibilità diverse in cui si manifesta l’oggetto o la situazione attualmente presente che abbiamo chiamato “coscienza”, la quale sta dunque evidentemente alla base del riconoscimento. Non si cada però nell’usuale pregiudizio opposto di staccare, di separare quest’insieme di possibilità dalla effettiva presenza dell’oggetto attualmente presente: quest’insieme è la manifestazione dell’oggetto presente. Il riconoscimento, pur non identificandosi con la coscienza di cui è l’atto, la manifesta. Dovunque c’è un riconoscimento c’è una coscienza che lo genera. Ogni animale, e anche, come vedremo parlando della vita, ogni pianta, in quanto riconosce l’ambiente in cui si trova distinguendo le sostanze che assimila da quelle che evita o combatte, ha una coscienza, per quanto ridotta e incipiente essa possa essere. Il salto sostanziale, radicale avviene quando la coscienza “semplice” diventa “consapevole”, ossia quando ci si rende conto della coscienza che si possiede. Dobbiamo cercare di chiarire questo salto e questo aggettivo. Non vi è nessun riconoscimento, come si è visto, che in quanto tale non implichi una coscienza ossia la possibilità presente nell’oggetto riconosciuto che vengano riconosciuti altri oggetti diversi da quello attuale. Questa possibilità, questa coscienza non è però a sua volta riconosciuta nella sua prima fase, quando è ancora coscienza “semplice”, anche se è alla base del riconoscimento dell’oggetto e quindi attiva. L’animale si muove, la pianta si sviluppa in base alle esigenze presenti in ogni loro situazione attuale. Quelle possibilità di cui si è sopra parlato sono presenti e attive in ogni riconoscimento attuale dal momento che questo consiste proprio nella sua differenza dagli altri riconoscimenti possibili senza dei quali quindi non potrebbe essere se stesso. Ma questa coscienza agisce in loro senza essere riconosciuta, come lo dimostra il fatto che queste possibilità in cui consiste non sono da essi conosciute, ma solo vissute quando si realizzano in forza e in conseguenza delle esigenze contenute nel riconoscimento della situazione attuale. Il passo decisivo avviene quando queste possibi-
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lità si presentano come possibilità, cioè quando sono rappresentate, ossia diventano rappresentazioni, idee (“idea” da Ñdeãn, “vedere”) della realtà di cui sono la costitutiva possibilità, ossia il contenuto costitutivo. Questo significa evidentemente avere coscienza del rapporto che intercorre tra gli oggetti presenti e le possibilità che ne sono la coscienza. Si arriva allora a una coscienza della coscienza, a una autocoscienza. La si potrebbe chiamare anche coscienza alla seconda potenza, mentre quella di cui è coscienza si può chiamare coscienza alla prima potenza, o “prima” coscienza. Questa coscienza non elimina tutte le indeterminazioni che sono inerenti alla prima coscienza. Solo che diviene coscienza anche di queste indeterminazioni della prima coscienza perché vive nella ricerca delle effettive realtà di cui essa è diventata l’insieme delle rappresentazioni. Questa distinzione fondamentale tra mondo delle rappresentazioni o idee e mondo delle loro realtà e del loro intrinseco rapporto contiene implicitamente molte altre classiche distinzioni classiche: anima e corpo di cui abbiamo già in parte parlato, mente e cervello, possibilità e realtà, cosa e fenomeno, sostanza e accidente, solo che la coscienza nebulosa, ossia non ancora pienamente consapevole di questo rapporto, porta a interpretarle in modi fuorvianti e molto spesso addirittura falsi. Spesso i componenti di queste dicotomie sono stati visti e sono tuttora visti vicini tra loro, ma non costitutivi l’uno dell’altro, qualche volta anzi (si pensi alla tradizione platonica, neoplatonica, che attraversa poi tutto il Medioevo) addirittura a un contrasto, a una opposizione tra di loro, che fatalmente ha dovuto poi portare all’eliminazione di uno dei due fattori per salvare quell’unità che stava a loro fondamento ma che veniva tradita da quelle opposizioni. Il caso del contrasto tra anima e corpo che ha portato da una parte all’idealismo e allo spiritualismo esagerato, e dall’altra all’empirismo e al materialismo è forse il più chiaro, ma, con diverse sfumature, riepiloga gli altri contrasti nominati, sui quali all’occasione si dovrà nei luoghi opportuni soffermarsi con più precisione. Questi contrasti irrisolti nascono dall’assenza di una visione nitida della totalità di cui sono gli aspetti, per cui questi aspetti stessi rimangono nel buio. Come ora sappiamo, il corpo riassume in sé quella parte della realtà che non è diventata coscienza, ma di cui la parte cosciente consapevole ha una consapevolezza indiretta, ossia
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sa che le appartiene in una forma indeterminata. Questa forma indeterminata di appartenenza è presente a ogni coscienza, per quanto elementare essa sia, secondo i modi di questa appartenenza, solo nella coscienza consapevole è presente nella sua rappresentazione e quindi nel suo rapporto con la coscienza stessa, la quale pertanto è in grado di affrontarla e di ridurla. In altre parole l’accompagnamento in ogni atto di coscienza dell’insieme di possibilità contenute nell’aspetto indeterminato della coscienza si risolve nell’attività propria del corpo di chi ha coscienza, in modo particolare di quella parte del corpo che in modo particolare è attigua a quell’atto di coscienza, come può essere l’attività cerebrale, ma poi in generale ogni attività visibile di un corpo: muoversi, camminare, vedere, mangiare, accoppiarsi, e così via. Questi atti a loro volta diventano oggetto di rappresentazione della coscienza consapevole, che è tale appunto per questa sua possibilità irriducibile a quegli atti stessi. Ne deriva dunque che la coscienza inconsapevole è tale in quanto, pur esprimendosi nel riconoscimento dei singoli oggetti dell’ambiente dell’essere vivente questi non sono visti come “oggetti”, i quali possono emergere solo in corrispondenza al “soggetto” di cui sono oggetti ossia a un’autocoscienza, e tanto meno come “esistenti”, o come “enti”. “Ente” è qualcosa che ha un contenuto essenziale che lo distingue dagli altri enti, “essente” è qualcosa che oltre a un contenuto essenziale ha anche una “esistenza”, dal momento che vi sono contenuti essenziali che possono essere puramente pensati come la casa, l’albero, quando si prescinde dalla loro esistenza, o addirittura se non esistessero più, o ancora fossero cose come le ninfe e i folletti. Si è detto che “ente” è “qualcosa che...”, “essente” è “qualcosa che...”. “Cosa” sembra dunque essere ciò che comprende sia “l’ente” che “l’esistente”, o anche chi è l’uno e l’altro. Quello che per ora è necessario sottolineare è che una coscienza inconsapevole ha davanti a sé le “singole” cose, o meglio i “segni” delle cose, le radiazioni che emettono e che le fa distinguere da quelle degli altri oggetti, senza tuttavia sapere che sono “cose”, ossia segni di contenuti essenziali, per cui non emergono come “segni”, e quindi neppure come segni dell’esistenza di questi contenuti essenziali, per cui è assente anche la coscienza del loro rapporto. La coscienza è invece “consapevole” in quanto le sono davanti
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“le cose”, ossia in quanto ogni cosa o situazione che sta attualmente vivendo è sentita nel suo collegamento con tutte le altre cose, siano queste presenti fisicamente, o anche assenti, ossia dotate soltanto di una possibile esistenza. La coscienza consapevole sa che ogni cosa anche assente, anche del tutto non nota, è intrinsecamente collegata con tutte le altre che la rendono “cosa”. È proprio questa presenza delle cose fisicamente assenti, anche del tutto non note, o presenti solo con i loro contenuti essenziali che rende possibile il riconoscimento di ogni cosa attualmente presente. Si deve letteralmente dire che la struttura dei contenuti essenziali assenti dà contenuto alla cosa attualmente presente. È ovvio che i contenuti assenti sono presenti nell’attuale nelle loro diverse differenze da quello attuale e quindi in questa loro struttura di diverse differenze: una struttura quindi che è diversa in ogni diverso contenuto attualmente presente. Essenziale è dunque capire che ogni cosa attuale ha il suo contenuto soprattutto fuori di sé dove è costretta ad andare a trovarlo se vuole essere se stessa. Equivale a dire che il contenuto di ogni cosa è tale perché passa negli altri contenuti delle altre cose: passando si conserva, diventa se stessa. Ma questo è vero solo se si hanno davanti le cose “in quanto tali” non soltanto dunque i “segni” delle cose, come succede per una coscienza inconsapevole. Nel caso della coscienza consapevole il fondamento di ogni cosa, di ogni situazione attualmente presente è fuori della loro presenza attuale, nella totalità delle strutture che sono i contenuti essenziali delle cose attualmente non presenti. Quello che di queste cose non è attualmente presente è ciò che rende attuale il contenuto essenziale della cosa o situazione che è presente, e quindi è in senso profondo molto più presente del contenuto attualmente presente in quanto tale. È questa totalità di struttura delle cose assenti che rende attuale il contenuto essenziale della cosa fisicamente o psicologicamente presente. Ma questa totalità è presente con le sue zone di nascondimento dovuta alla esclusione della maggior parte delle diverse differenze che costituiscono l’identità di ogni cosa e quindi di ogni situazione attuale, e allora ne consegue che ogni contenuto si presenta in una specie di isolamento, per cui la sua costitutiva unità con tutti gli altri agisce soltanto nel profondo attraverso quella parte di se stessa che appunto è nascosta alla parte cosciente. In ogni situazione attuale in cui si trova la coscienza
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consapevole sa di dover cercare in buona parte fuori di sé il passaggio a una situazione attuale successiva che non può mancare. Si tratta cioè di un sapere che deve puntare sulla parte inconscia della totalità finita, fatta cioè di cose, perché questa possa continuare a vivere nella coscienza. Esprimendoci con le solite immagini dell’esperienza ordinaria questo significa che è solo attraverso il corpo che deve muoversi la coscienza finita nel suo sconosciuto ambiente metacosmico. Vi è cioè una serie indefinita di fattori esistenziali che devono collaborare con quelli interni alla coscienza stessa perché questa possa muoversi all’interno delle sue costitutive possibilità di realizzarle, di attualizzarle, e così di mantenere la sua identità e di migliorarla. In tutti questi passaggi dunque è sempre l’insieme del cosmo in cui si muove la coscienza e del corrispondente metacosmo, ossia è sempre l’Essere nella sua totalità che è implicato, o meglio è sempre questa totalità che è l’Essere a implicare trascinandola con sé ogni coscienza finita assieme alla sua parte nascosta così da realizzarla, ossia da conservarla e migliorarla, riducendo gradualmente la sua parte nascosta, ossia la sua mancanza di identità. Nonostante questa evidente imprescindibilità che sempre in ogni coscienza, qualunque essa sia, a qualunque livello si trovi, anche il metacosmo e quindi il corpo accompagni il movimento dei contenuti coscienti, nel caso della coscienza consapevole avviene un rovesciamento totale nel rapporto tra i dati di senso e il loro significato, ossia tra i segni fisici esterni e il riconoscimento dell’oggetto. Mentre nella coscienza semplice il significato, il riconoscimento è indissolubilmente unito e legato ai dati di senso, ai segni che lo fanno emergere nella coscienza consapevole, invece il significato, il riconoscimento diventa indipendente dai dati di senso, dai segni. Nel primo caso i dati di senso, i segni fisici portano al loro significato, al loro riconoscimento; nel secondo caso sono i significati, i riconoscimenti che trascinano con sé, come loro conseguenza, delle tracce nei dati di senso, nei segni fisici. Con il linguaggio dell’esperienza ordinaria nel primo caso vi deve essere prima una modificazione nel corpo del vivente prodotta dall’oggetto perché si desti nel vivente stesso il riconoscimento dell’oggetto: un’antilope deve essere prima colpita dal colore, dalla forma del leone per riconoscerlo, nel secondo caso l’oggetto significato, il suo riconoscimento viene prima come idea ossia come presenza di
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un contenuto essenziale, e solo in conseguenza della presenza di questo significato, di questo riconoscimento consegue una traccia nel corpo del vivente, in un suo comportamento, nel movimento delle cellule del suo cervello. Questa rivoluzione, questo capovolgimento avviene perché nel primo caso è la separazione, la disunione degli oggetti dell’esperienza che prevale e li separa, staccandoli nello spazio e nel tempo e lasciando la loro unità nell’inconscio profondo; nel secondo caso è invece la loro unità che emerge, è la loro verità che prevale sulla loro apparenza. Così ogni persona consapevole pensa le cose senza averle presenti; un romanziere scrive tutta una storia complicata di avvenimenti, di eroi, di briganti, di pirati, di amanti, che avvengono sui mari, nelle città, nelle case riposte, nelle stanze segrete senza la presenza fisica di tutti questi oggetti. Solo se si scruta con gli strumenti sofisticati della scienza nel cervello del romanziere e del lettore del romanzo si può scorgere tracce di correnti elettriche nelle sue cellule per ogni movimento del pensiero. Qui è ormai la totalità dell’Essere che sta alla base di ogni oggetto, di ogni cosa, di ogni idea, di ogni pensiero ad avere il sopravvento sulla dispersione in cui era stato condannato ogni loro contenuto in ogni semplice coscienza, e in cui questa coscienza frantumata dell’Essere era destinata a morire. Ma l’Essere non può morire, ossia non può non essere dal momento che è. Ossia non può passare senza che ciò che passa rimanga nella sua totalità a manifestare ciò in cui passa, perché le vicende che per una coscienza finita sono fuori della coscienza e quindi passano per questa coscienza senza ritorno, appartengono invece all’Essere nel quale si conservano. Quello che avviene in relazione alla coscienza finita si distribuisce allora in tre dimensioni diverse con destini diversi proprio in base alla costituzione stessa della coscienza finita strutturata come si è visto in due livelli diversi: inconsapevole e consapevole. Ciò che avviene fuori della coscienza finita inconsapevole, ossia nel metacosmo della coscienza finita inconsapevole avviene esclusivamente nell’Essere e non costituisce alcunché della coscienza finita. Ma all’interno della coscienza finita inconsapevole vi è appunto la sua dimensione cosciente anche se inconsapevole. Questa coscienza inconsapevole consiste, come si è visto, nella possibilità di riconoscere gli oggetti del proprio ambiente. Pensiamo, per fissare le
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idee, a un qualunque animale: il suo diverso comportamento in presenza di oggetti diversi è una prova evidente di tale tipo di “coscienza”. Questa possibilità è nascosta nell’organismo osservabile dell’animale e si identifica con l’organismo stesso in quanto tale, non dunque in quanto è oggetto dei sensi di una coscienza consapevole, ma in quanto può agire diversamente di fronte a situazioni diverse. Ma ognuno di questi oggetti e di queste situazioni scompare totalmente per questa coscienza, perché per essa c’è soltanto la sua apparizione, ossia la sua esistenza attuale, la quale soltanto viene avvertita dall’animale inconsapevole. L’essere di questo oggetto per l’animale è soltanto quello di esser avvertito nella sua attuale apparizione, anche se in realtà la capacità di avvertire, che s’identifica con l’organismo dell’animale, è qualcosa di più fondamentale e importante dell’avvertenza attuale stessa. Ma per la coscienza dell’animale questa capacità è fuori, non esiste, non c’è: l’animale non ne ha appunto coscienza. Abbiamo parlato dell’“animale” intendendo con ciò solo un corpo organizzato, dove per “organizzato” intendiamo appunto “capace di riconoscimento” e di un comportamento corrispondente. Quel discorso valeva quindi non soltanto per l’animale che è soltanto inconsapevole, ma anche per l’animale che pur avendo la consapevolezza, ha anche una dimensione inconsapevole, ossia per l’uomo. Anche l’uomo di ogni oggetto, di ogni situazione deve solo accontentarsi di prendere atto che si realizza per la massima parte all’insaputa della sua coscienza, anche se qualche vaga indeterminata cosciente anticipazione rimane pur sempre possibile. Solo che si esca di casa non si può sapere quali persone incontreremo, quali e quante si riconosceranno, quali discorsi ne risulteranno, in quali saremo noi stesso implicati, quali “incidenti” accadranno, in quanto traffico saremo coinvolti, quali vicende si osserveranno, e così via. Questo aspetto determinante della realtà sempre presente nella nostra esperienza, che continuiamo a dire cosciente e consapevole, viene dal di fuori, sia pure con una riserva che chiariremo, tanto della coscienza che della consapevolezza. Le enormi strutture metacosmiche, da cui questo costitutivo aspetto della nostra esperienza dipende, ci sfuggono per sempre e la loro assenza, che dura da quando è incominciata la vita nell’Universo, si assomma con il passare dei millenni, dei secoli, degli anni, dei minuti di tutta la
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storia del mondo fisico, poi di quello psicologico in generale, e infine anche di quel particolare mondo psicologico che da sempre ha accompagnato la coscienza. Tutto questo cumulo di accadimenti che la nostra coscienza è costretta per la sua finitezza a pensare appunto come distribuiti in un unico sconfinato numero di oggetti e di eventi è raccolto soltanto nel fatale discorso dell’Essere nel quale soltanto questi accadimenti si compongono e rimangono custoditi nella loro autentica identità, in cui perdono la loro caratteristica di “accadimenti”. Per la coscienza finita, sia essa inconsapevole o consapevole, essi dunque non ritornano più nella loro superficiale qualità di accadimenti. Ma la coscienza finita consapevole in quanto consapevole vive la propria vicenda nell’Essere. Equivale a dire che gli oggetti e le situazioni attuali per quanto saltuari e caotici si presentino, si riempiono di contenuti essenziali, ossia sono visti in quella loro struttura profonda nella quale non soltanto quando passano si conservano, ma proprio si conservano in quanto passano, perché ognuno di loro si autentica, si identifica in quanto è nella totalità degli altri, proprio passando nei quali si conserva. È questo il grande segreto dell’Essere. Qui è la totalità dell’Essere che s’impadronisce di ogni oggetto e di ogni situazione liberandoli dal loro isolamento e da quella loro apparenza di tramonto e di scomparsa che sono reali soltanto per quella coscienza in cui l’Essere non si è ancora impadronito degli oggetti e delle situazioni che in essa emergono rendendoli autentici. Rimangono così delineate le tre dimensioni in cui viene scomposta la realtà dalla coscienza finita. Per la coscienza finita inconsapevole gli accadimenti passano senza ritorno proprio perché la loro natura è di essere estranei alla coscienza alla quale appunto “accadono”. Ad essi l’essere vivente riesce solo inconsciamente ad agire e reagire in ogni singolo luogo e in ogni singolo momento sempre isolati da tutti gli altri luoghi e momenti, così da non comporre nessuno spazio e nessun tempo. Per la coscienza finita consapevole gli accadimenti e in essi le cose presentano invece i loro significati, ossia i loro contenuti essenziali, che implicano la totalità assoluta alla base del loro essere. Da questa unità della loro coscienza questi significati possono dunque emergere senza i loro segni attuali esteriori. Ma oltre a questo riferimento diretto ed
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Il ritorno dell’essere
esplicito alla totalità dell’essere (lo dice già il fatto che sono riconosciuti come “cose”), anche l’aspetto di “accadimenti” che fatalmente li accompagna perché è l’aspetto che indica l’esclusione per la coscienza della loro completezza, viene ad acquistare il suo significato, e quindi il suo collegamento alla totalità dell’essere. Non certo attraverso la presenza dei loro contenuti mancanti, ma attraverso la comprensione dell’esistenza di tali contenuti come condizione della comprensione dei contenuti manifesti e come loro intrinseca possibilità di rivelarsi, sia pure solo parzialmente e indirettamente. La struttura di tali “accadimenti” si rivela quindi come dimensione intermedia tra quella esteriore alla coscienza e quella di cui questa coscienza è costituita.
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L’essere della coscienza inconsapevole
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Capitolo settimo
L’IMMORTALITÀ DELLA COSCIENZA CONSAPEVOLE
1. L’IMMORTALE APPARTENENZA ALL’ESSERE
Come si compongono allora nella coscienza finita consapevole queste due dimensioni di perdita e di conservazione, che sembrano direttamente opposte e quindi tali da neutralizzarsi e distruggersi a vicenda? Evidentemente quella perdita è tale per la coscienza in quanto finita, ma non in quanto consapevole. La coscienza finita è consapevole in quanto sa della estraneità alla sua coscienza di questo universale aspetto degli oggetti e delle situazioni della sua esperienza, dei quali però possiede i contenuti essenziali, ossia la loro appartenenza all’Essere. In tal modo si rende conto della relatività di quell’aspetto. Quel loro non mantenersi nell’essere non è dovuto al loro essere ma al loro non-essere, ossia al loro non essere nella coscienza, la quale è finita solo in quanto non conosce di quegli oggetti la vera identità. Quella loro vera identità è andata perduta per la coscienza finita in quanto tale ma non per l’Essere che viene proprio raggiunto riconoscendo la finitezza di quella coscienza. Nell’Essere in cui si trova, e che ne è anzi la vera identità, la coscienza finita consapevole non può dunque venir meno, anche se continua a venir meno quel non-essere di tutti i suoi oggetti che è il loro non realizzarsi negli altri oggetti, in particolare in quelli che ad essi immediatamente seguono in quel mancato scorrere della realtà che è il tempo e in esso lo spazio. Questo loro non realizzarsi è l’aspetto del loro “accadere”. La violenta esteriore apparenza della sparizione della coscienza nella morte quando gli accadimenti spariscono riguarda appunto la sparizione della coscienza degli “accadimenti” in quanto tali, in quanto cioè singoli, disarticolati,
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ma non dei loro contenuti essenziali che, come tali, sono ancorati all’Essere di cui dunque devono condividere la costitutiva impossibilità di non essere. Ma a questo punto si presenta una nuova difficoltà che si è trascinata per secoli nella storia della filosofia e della stessa religione, e che dobbiamo ora chiarire e superare, prima di riprendere l’effettiva positiva strada orientata alla dimostrazione dell’immortalità della coscienza consapevole. Può darsi benissimo da un punto di vista logico che quei contenuti essenziali abbiano un destino radicalmente diverso da quello degli accadimenti e quindi delle cose materiali che spariscono per decomposizione. Tradizionalmente erano infatti considerati come “idee” puramente spirituali in grazia della loro semplicità, in contrasto con la composizione di ogni materia, e ancor più in grazia della loro più radicale proprietà di costituirsi e mantenersi proprio quando per la loro dialettica interna trascorrono le une nelle altre in contrasto ancora più radicale con quanto avviene in ogni cosa materiale. Ma pur non potendosi decomporre in se stesse, quando però sono slegate dal corpo materiale al momento della sua decomposizione, si dovrà solo ritenere che per la loro universalità, e quindi indipendenza dalla individualità propria di ogni essere vivente, compreso quello consapevole, appartengano a un unico intelletto, nel quale quindi le coscienze finite consapevoli vanno più perdute che conservate. I dibattiti su questo punto hanno acceso le discussioni filosofiche per secoli, soprattutto a partire dall’interpretazione che Averroé aveva dato, oltre che dell’ “intelletto attivo” di Aristotele, da costui dichiarato “separato”, “immortale ed eterno” 1, anche dell’ “intelletto passivo”, il quale pure per Averroé è separato, e quindi non appartenente all’anima umana, la quale pertanto non ha nulla di immortale2. Gli averroisti latini, in particolare Sigieri di Brabante, accolsero questa interpretazione, contro la quale Tommaso d’Aquino scrisse un apposito saggio (De unitate intellectus contra Averroistas) per difendere la tesi, che era stata comune al platonismo, al neoplatonismo3, alla Patristica, e in generale alla Scolastica del Medioevo, dell’immortalità dell’anima individuale. Egli sottolineava che chi capisce non è un intelletto astratto, una funzione 1
De An., III, 5, 430a17. De An., III, 1. 3 Cfr. Plotino, Enn., III, 4, 6. 2
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separata, ma è “questo uomo” (“hic homo intelligit” III, n. 62; n. 66), e pertanto non è possibile attribuire solo a un eventuale intelletto universale, ossia comune a tutti quelli che lo possiedono, ciò che invece è proprio di ciascuno di essi 4. Era un approfondimento della tesi che altrove Tommaso aveva espresso 5, quando dalla incorruttibilità dell’oggetto dell’intelletto, ossia delle sue idee, aveva dedotto l’incorruttibilità dello specifico particolare soggetto di quell’oggetto, ossia dell’intelletto. Ora quella tesi si ripeteva per il soggetto di quell’intelletto, ossia dell’uomo stesso. Era una tesi che presa nella sua genericità già S. Agostino aveva chiaramente enunciata: Se ciò che in un soggetto dura sempre, dura sempre di necessità anche il soggetto. Ora ogni scienza (disciplina) esiste nell’anima come nel suo soggetto; ne segue allora necessariamente che l’anima dura sempre, se dura sempre la scienza. Ma la scienza è la verità e la verità dura sempre; dunque dura sempre anche l’anima e non si può dire mai morta6.
Questo argomento si prestava però anche a una interpretazione che ne dimostra il contrario. Se il soggetto di un oggetto viene meno, muore, anche i suoi oggetti sono destinati a sparire, ossia le sue idee, le sue supposte verità, le quali pertanto non possono mai dirsi eterne. In definitiva era questo l’argomento principale che nel Cinquecento Piero Pomponazzi, seguendo la corrente interpretativa alessandrina di Aristotele, aveva opposto alla tesi tradizionale: È essenziale all’intelletto intendere attraverso le immagini, come risulta chiaro dalla definizione dell’anima quale “atto di un corpo fisico organico”. Perciò l’intelletto, in ogni sua funzione, ha bisogno di un organo. Ma ciò che intende così è di necessità inseparabile dal corpo. Dunque l’intelletto umano è mortale7.
Il secolare contrasto anziché risolversi è andato perdendo con il passare del tempo in vivacità e intensità proprio per il suo este4
“Manifestum est enim quod hic homo singularis intelligit; nunquam enim de intellectu quaereremus; nec, cum quaerimus de intellectu, de alio principio quaerimus quam de eo quo nos intelligimus” (III, n. 62). “Impossibile est salvari quod hic homo intelligat, secundum positionem Averrohois” (III, n. 66), per il quale l’intelletto agente e l’intelletto possibile sono ambedue separati dal corpo con le sue funzioni vegetative e sensitive. 5 Contra Gentiles, II, 55. 6 Solil., II, 13. Cfr. II, 33. 7 De immortalitate animae, 9.
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nuante prolungarsi senza che nuovi fattori ed elementi decisivi potessero intervenire per lo meno a dargli qualche orientamento diverso. Perfino il presupposto della “semplicità” degli oggetti dell’intelletto e quindi dell’anima umana stessa è stato messo in discussione. Anche supponendo che l’anima non abbia alcuna quantità estensiva e quindi nessuna possibilità di decomposizione, non è detto, afferma Kant contro Mendelssohn, che non abbia, come la coscienza, una quantità intensiva che può ridursi fino ad annullarsi8. L’anima stessa, del resto, come si è visto, non ha per Kant, una sua propria consistenza autonoma: è solo la sostituzione surrettizia di una sostanza alla semplice appercezione che il soggetto pensante ha di se stesso, in cui il soggetto stesso, l’Io, si dissolve in questa appercezione del suo pensarsi. L’inconsistenza di questa pretesa all’immortalità del soggetto si è sempre più affermata nel tempo. Per Spinoza “la mente umana non può andare distrutta totalmente con il corpo ma di essa resta qualcosa che è eterno” 9, un “qualcosa” di estremamente vago dal momento che per lui la “sostanza” è una soltanto. Per Hegel: Per noi la credenza nell’immortalità ha come nota essenziale questo, che l’anima ha in sé un fine eterno, del tutto diverso dal suo scopo finito e perciò un infinito valore. È questa nota superiore che conferisce interesse alla fede nella sopravvivenza dell’anima10.
L’autentico soggetto immortale è per Hegel lo “Spirito del mondo”, il quale s’incarna nei popoli e negli Stati, e non certo nelle singole persone, e quindi il senso delle parole “anima”, “fine eterno” che egli adopera assume caratteristiche del tutto evanescenti. Non era questa la strada che poteva portare alla soluzione del problema, soprattutto perché era in se stessa una strada campata in aria, ossia non radicata nella struttura fondamentale della realtà stessa. Ad essa dunque dobbiamo ritornare. Il nodo del problema sta nella già rilevata necessità che la struttura tipica dei contenuti essenziali, indipendente dai contenuti accidentali di cui è sempre rivestita, abbia un soggetto capace di darle consistenza, ossia che tali contenuti non rimangano sospesi 8
Critica R. Pura, “Confutazione dell’argomento di Mendelssohn”. Ethica, V, 23. 10 Phil. der Geschichte, ed. Lasson, p. 494; tr. it., pp. 267-268. 9
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nel mondo delle astrazioni. Si tratta in altre parole di fondare quei contenuti su di un supporto analogo a quello che la metafisica classica attribuiva alla sostanza, ma senza incorrere nei gravi inconvenienti che avevano portato a rinnegarla. A questo scopo è necessario individuare con chiarezza la natura di quei rivestimenti accidentali che accompagnano come “accadimenti” ogni contenuto essenziale. Essi derivano dall’esclusione a cui sono state condannate le diverse differenze non sintetizzate dalla coscienza in tal modo rimasta finita, ossia che non sono state convertite in riconoscimento delle cose dell’esperienza, e più radicalmente, aldilà della loro identificazione, nella loro identità. Ma queste diverse differenze rimaste fuori ci sono, rimangono a costituire dal di fuori, prima di tutto la materia di cui sono costituite le cose, e quindi poi l’organizzazione in cui si trova costituita questa loro materia: la sua struttura interna, la sua intrinseca unità e quindi anche insieme l’organizzazione interna del corpo della coscienza che se ne ha. In tal modo ogni cosa, ogni coscienza rimane ancora nella sua sostanza un’espressione della totalità che è in essa costitutivamente implicata. Quest’unica totalità è presente in ognuna di esse e la loro molteplicità è soltanto dovuta all’indeterminatezza costitutiva in cui questa totalità è in esse presente. Dal modo in cui questa esteriore presenza è costitutiva del vivente dipende il destino di questo vivente e della sua coscienza. Per la coscienza semplice, inconsapevole, quest’insieme di differenze non sintetizzate resta totalmente escluso, fuori di essa, anche se rimane un costitutivo ineliminabile del vivente che possiede quella coscienza. Quando questo costitutivo che gli è necessario viene meno e si scompone disgregandosi, anche la coscienza stessa che ne dipende necessariamente è condannata a venir meno, a dissolversi; anche se ovviamente nella totalità tutto si conserva. Ma la situazione della coscienza consapevole è invece radicalmente diversa. Ha anch’essa una struttura costituita dalle diverse differenze che sono rimaste fuori di se stessa a costituire la materia del suo corpo e la sua organizzazione, le quali pertanto rimangono soggette per la coscienza stessa finita alla disgregazione. Il loro essere infatti è l’opposto della coscienza, sono la sua dispersione, il suo non essere coscienza. Ma ora tale coscienza, oltre che essere “semplice” coscienza, è coscienza consapevole, in quanto di ciò che rimane fuori ha la coscienza del loro rimanere fuori come costitu-
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tivo dell’essere vivente di cui è coscienza; lo riconquista quindi indirettamente, pur dovendolo lasciare nell’indeterminatezza. Anche questa coscienza, come si è visto, non è del tutto consapevole; la ricerca dell’aldilà di sé non le dà mai tregua, sia sul piano della sua esperienza ordinaria che su quello della sua esperienza scientifica. Per questa parte irriducibilmente inconsapevole ciò che è fuori rimane inesorabilmente fuori, per questa coscienza va perduto, ma, come si è detto per la coscienza “semplice”, non va certo perduto per l’Essere che è tale in quanto, oltre a ciò che è nella coscienza finita è costituito da ciò che è fuori di essa, più precisamente fuori della finitezza della coscienza. È a questo punto che si realizza per la coscienza consapevole una situazione radicalmente diversa, come si è detto: in quanto è costitutivamente arroccata nella totalità dell’Essere nulla per lei è totalmente perduto. Le proprietà dell’Essere diventano nascoste proprietà della coscienza consapevole finita, tra cui la più radicale, ossia l’impossibilità di non essere, pur non potendosi identificare con l’Essere. Il soggetto autentico dei contenuti essenziali, che manifestano in se stessi la loro appartenenza all’Essere trasformando in “cose”, ossia in “enti”, in “essenti”, i dati puramente sensibili di un corpo organizzato, è dunque l’Essere stesso, sia pure presente in essi nel suo parziale nascondimento. La verità dei dati sensibili è quindi di essere “segni” delle “cose”, in ognuna delle quali si fa presente l’Essere stesso. Questa presenza dell’Essere è dunque duplice: diretta nella coscienza dei contenuti essenziali delle cose e quindi del loro interiore costitutivo riprodursi, e indiretta nella consapevolezza dell’essere di ciò che è fuori dei contenuti essenziali stessi, ossia nella consapevolezza dei loro rivestimenti accidentali, della loro apparente dispersione, molteplicità, contingenza, vicenda di “accadimenti”, e quindi poi anche, alla fine, della loro morte apparente. Si dovrà allora chiarire meglio questa contraddizione di una morte apparente in un soggetto che in se stesso ne è la negazione. L’appartenenza all’Essere che garantisce alla coscienza finita consapevole il fondamento della sua costitutiva sopravvivenza, non si vede a un primo sguardo come possa sussistere con questa morte, che è indubbiamente apparente in un senso positivo e tragico del termine, ossia realmente apparente, manifestamente apparente. Che tipo di realtà è questa che è opposta a quella più radicalmente
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reale dell’Essere totale, anch’esso realmente presente nella coscienza? E come può essere presente questo Essere stesso, dopo quella morte reale, a garantire la sopravvivenza alla coscienza finita consapevole? Per rispondere a questa difficile domanda è necessario riconsiderare la struttura sostanziale della coscienza finita, sia essa inconsapevole che consapevole. Sappiamo che in quanto finita lascia fuori di sé la maggior parte delle diverse differenze che danno l’identità delle cose e quindi poi anche della coscienza stessa. Sappiamo che quanto rimane fuori della coscienza costituisce ciò che abbiamo chiamato “il metacosmo” della coscienza stessa, ossia quella parte che rimane inconscia e che tuttavia si configura come il supporto della coscienza stessa. Si tenga presente, come esempio e caso che chiarisce questa situazione che potrebbe apparire contraddittoria, il fatto che la struttura invisibile delle cellule e degli atomi che costituiscono gli organi visibili di un corpo: i polmoni, il cuore, il sangue, il cervello..., è il supporto, il sostegno di questi organi stessi. Queste strutture invisibili metacosmiche sono il supporto di quelle visibili proprio come il metacosmo inconscio lo è della coscienza. Questo metacosmo ha il suo decorso, le sue vicende, le sue trasformazioni che non coincidono con quelle della coscienza anche se non possono non incidere su quelle della coscienza di cui sono il complemento. Ma incidono appunto divergendo dal percorso delle vicende della coscienza stessa fino a opporsi ad esse e diventare ad esse contrarie in quanto sono esterne alla coscienza stessa la cui identità consiste invece proprio nell’avere le sue vicende al suo interno. Questo contrasto è radicale nel senso che non vi è coscienza finita che non sia costitutivamente in contrasto con la sua dimensione inconscia, con il suo metacosmo, come non vi è inconscio, non vi è metacosmo che non sia costitutivamente in contrasto con la coscienza che se ne ha. Questo movimento metacosmico, che supera enormemente quello interno alla coscienza, finisce in particolare per incidere su quella parte della coscienza che gli è direttamente connessa, ossia sul suo corpo, e incide sempre più negativamente anche se di esso la coscienza in tutti i suoi movimenti e attività ha sempre imprescindibile bisogno, perché ne è il sostegno e complemento. Così i fattori ambientali che non vengono assimilati ma di cui ha bisogno disturbano in continuazione il funzionamento della coscienza e del corpo con cui essa funziona. La situazione va così fatalmente peg-
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giorando, finché la parte metacosmica ossia inconscia della coscienza finita ha il sopravvento definitivo impedendo le stesse funzioni di accordo e di sostegno che le sono essenziali: è il momento della morte. Ma la separazione dal metacosmo che è proprio di una coscienza finita inconsapevole, ossia dal metacosmo fatto di cose separate, di eventi discontinui (e come tali appartenenti solo alla natura), che è il fenomeno della morte, non riguarda la coscienza finita consapevole che è invece legata, in quanto consapevole, alla verità di quegli eventi fisici naturali, ossia alla loro essenziale appartenenza all’Essere totale. Anche per questa coscienza, in quanto è anch’essa in buona parte inconsapevole, ossia mai totalmente consapevole, quella separazione è fatale, ma essa non significa la definitiva separazione dall’Essere, ma piuttosto la liberazione da ciò che impedisce la trasparente appartenenza della coscienza all’Essere stesso. Quell’aspetto della realtà che alla coscienza finita appariva come dovuto a una natura fatta di cose diverse, separate, contingenti, tolto quel loro non-essere si trasforma in una dimensione unica, coerente, appartenente ora con più trasparenza all’Essere stesso; ancora complementare di quella parte dell’Essere che è la coscienza consapevole stessa, ma ora anch’essa parte della sua consapevolezza. Questo costante radicamento della coscienza finita consapevole nell’Essere stesso insito in essa in quanto consapevole le dà quel supporto che impedisce ai suoi contenuti essenziali di essere delle pure evanescenti astrazioni senza radicale consistenza, quali potevano essere le “idee”, le “verità” invocate dalle varie metafisiche classiche per dimostrare l’immortalità di qualche cosa che chiamavano “anima”, ma che in realtà rimaneva altrettanto astratta delle “idee” che pretendevano di esserne l’espressione. L’immortalità è proprietà del solo Essere e di ciò che è strutturalmente, costitutivamente legato all’Essere. Questa impostazione ci permette anche di evitare il grande scoglio contro cui, come si è visto, sono spesso andate a infrangersi le concezioni che si concentravano esclusivamente su quell’aspetto della coscienza consapevole, che chiamavano il suo “intelletto”. Questi intelletti “attivi”, “passivi”, o ambivalenti, finivano fatalmente per evaporare nell’unico intelletto, in cui venivano quindi a dissolversi, come in un nebbioso nirvana le varie persone dopo il tra-
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gico evento della morte. La situazione reale, ossia considerata nella totalità dei suoi elementi è radicalmente diversa. Non vi può essere una sola coscienza finita consapevole come non vi può essere una sola coscienza inconsapevole. Ognuna è il risultato diverso di varie sintesi originarie diverse che sono tali perché avvenute in tempi, spazi, forme di evoluzioni diverse, ossia del tutto particolari. Dentro la comune struttura, anch’essa del tutto particolare in cui si realizza una qualunque specie, i singoli individui che la costituiscono sono tutti diversi. La scienza biologica stessa riesce ormai a vederne i segni inconfondibili nella diversità della successione delle basi azotate che costituisce il codice genetico dell’individuo: tale successione è diversa da individuo a individuo anche se alla base vi è sempre la struttura comune propria della specie a cui appartiene. La cosa si ripete esattamente anche per quella particolare specie che è caratterizzata dalla coscienza consapevole, anche se qui le conseguenze sono radicalmente diverse. Nella coscienza finita consapevole oltre alla diversità della capacità di riconoscimento degli oggetti singoli uno a uno, nella loro separazione e contingenza, attraverso una struttura organizzata, ossia attraverso un corpo che si dissolve come e assieme a quegli oggetti, vi è anche una diversità nel riconoscimento di quegli oggetti come “cose”, come “enti”, e anche pure come “essenti”, ossia una diversità di riferimento di quegli oggetti non più al corpo materiale, ma all’Essere che ora viene a sostituire la natura, nella funzione di fondamentale soggetto. Ogni essere consapevole porta dunque con sé il suo personale, individuale, irripetibile rapporto cosciente con l’Essere fatto di riferimenti di ogni genere: religioso, etico, estetico, sociale, perfino economico, come è risultato in particolare dalle indagini dei capitoli precedenti. Tutti questi riferimenti, sebbene abbiano tutti costitutivamente un unico punto di riferimento nell’unico Essere totale a cui mirano (non vi può essere più di un Essere totale), partono, si sviluppano, si mantengono, si strutturano in modo diverso pur rimanendo sempre fondati sull’unico Essere da cui simultaneamente ricavano la loro consistenza, e ormai la stessa sua costitutiva impossibilità di non essere. Che tipo di individualità è questa che abbiamo riconosciuta diversa da quella degli individui osservabili nel loro corpo materiale, degli individui in altre parole che sono costituiti da una coscienza
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finita inconsapevole? Dobbiamo ritornare al modo come si e formato il corpo materiale e al risultato di questa sua formazione. Deriva dalla struttura metacosmica di ogni coscienza che per la sua finitezza lascia fuori di sé il cumulo enorme delle diverse differenze in cui consiste l’identificazione autentica degli oggetti e quindi anche della coscienza stessa. Alle diverse differenze della coscienza in formazione si accompagna quindi come sua complementare pedissequa struttura la formazione di una organizzazione che appunto non è cosciente anche se segue e quindi dipende nella sua complementarità da ogni movimento della coscienza. Si tratta dunque di una realtà dovuta a un limite della coscienza che non si identifica con questo limite perché oltre questo limite mantiene la sua corposa realtà. Tanto è vero che, come si è già osservato, riesce a penetrare in senso negativo nella realtà della coscienza ottenebrandola, indebolendola, riducendola, e portandola poi definitivamente alla morte. La morte di questa coscienza, che è ancora inconsapevole, è dovuta appunto alla sua inconsapevolezza di ciò che è fuori di lei, perché questo “fuori” non esiste in nessun modo per lei, mentre esiste in realtà, e quindi agisce ininterrottamente contro di lei fino a demolirla. La coscienza consapevole invece sa di ciò che è fuori di lei, anche se di questo suo fuori non è la coscienza, e sa in particolare dell’organizzazione che assume la coscienza nei riguardi di questo fuori di sé, conosce cioè il suo corpo. Lo conosce perché ha coscienza della totalità, ossia non soltanto di un oggetto alla volta del proprio ambiente: un sasso, una stella, un albero, ma del soggetto di tutti quegli oggetti singoli, ossia del corpo come un tutto organizzato volto a presentare tutti quegli oggetti alla coscienza, anche se rimangono costitutivamente indeterminati. Si forma allora una nuova struttura di riferimenti alla totalità ossia all’Essere, che è posta ora dentro la stessa coscienza e si sviluppa a contatto della struttura dei contenuti essenziali, dei significati delle cose che è propria della coscienza. È la stessa coscienza ma con i riferimenti ai suoi oggetti metacosmici, ai segni di quei significati, visti ora nella loro totalità sia pure esteriore spaziotemporale, nella loro indiretta intelligibilità, nella loro cosalità, in dipendenza e alla luce dell’Essere che ne è il costitutivo, sia pure ancora in gran parte nascosto. Questa coscienza di per se stessa non può subire l’aggressione di ciò che è fuori. La struttura della co-
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scienza finita consapevole, in quanto finita, ossia in quanto sempre in parte inconsapevole, rimane sempre aggredita dalla sua dimensione metacosmica, ossia dall’ignoranza della sua dimensione nascosta, e quindi rimane ancora un’organizzazione dovuta al limite della coscienza stessa, ma ciò che sta dietro il limite non è ora vissuto come un nemico della coscienza, ma come possibilità di disvelamento dei riferimenti all’Essere costitutivi della coscienza consapevole non ancora disvelati. Dalla consapevolezza (conoscenza, sapere, idee) dovuta all’astrazione ossia alla separazione dai dati accidentali, esistenziali, che fanno degli enti degli essenti, si passa in tal modo alla consapevolezza (che diventa anzi una coscienza) della verità di quei dati che sembravano perduti, inesistenti, riconoscendoli e vedendoli come manifestazioni della totalità dell’Essere, la quale non poteva certo mancare prima della morte, ma che ora manifesta il mistero del suo nascondimento. La distinzione, in ciò che è fuori della coscienza finita, di ciò che essendo fuori rende la coscienza inconsapevole da ciò che essendo fuori rende la coscienza più consapevole è sottile ma di un’importanza fondamentale. La si vede con evidenza nella distinzione che si manifesta dappertutto tra gli animali che non sono l’uomo e l’uomo. Anche l’uomo è stato da sempre considerato come un animale, e quindi anch’esso dotato di un corpo materiale che si decompone con la morte. Ma nell’uomo vi è la consapevolezza che non si riscontra negli altri animali. Anche questa però è distinta da uomo a uomo. L’evidenza di questa elementare macroscopica distinzione però non lascia subito intravedere la radice dalla quale emerge. Non è facile rendersi chiaro come vi sia qualcosa che è fuori della coscienza e destinato ad esserlo definitivamente, e qualcosa che pur essendo fuori della coscienza è destinato a seguire la coscienza stessa come suo limite, dal momento che ogni coscienza anche consapevole è limitata, ossia ha una consapevolezza limitata, e quindi un metacosmo che la segue dal di fuori. Questa radice unica, ultima non può essere altro che l’appoggio all’Essere che una coscienza finita ottiene quando si accorge che gli oggetti della coscienza sono enti, cose, ossia manifestazioni dell’Essere stesso: e questo avviene soltanto nell’uomo. In questo quindi gli oggetti non deperiscono nella incoscienza totale quando sono aggrediti e demoliti definitivamente dal loro metacosmo come succede per gli altri animali. Si evidenziano invece allora per quello che sono
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quando, mentre la parte di cui non si è potuto avere consapevolezza ritorna all’Essere, la parte di cui invece si è avuto consapevolezza diretta o indiretta rimane ancora sempre nell’Essere ma come possesso definitivo della coscienza consapevole. Lo scarto tra la piena consapevolezza che è propria dell’Essere e quella che è effettivamente realizzata in una coscienza consapevole ha di positivo la conseguenza della salvezza della personalità in cui è radicata ogni coscienza consapevole, la quale quindi non può venire dispersa nell’unica Totalità dell’Essere. L’impossibilità di essere l’Essere consaputo garantisce assieme all’immortalità anche il personale soggetto di quell’immortalità. Era inevitabile mettere prima in evidenza l’impossibilità della morte della coscienza consapevole perché è precisamente a questa che essa è intrinseca. Ma ora con essa, indissolubilmente da essa, rimane garantita l’impossibilità della definitiva morte a quella totalità psico-fisica che è la persona umana consapevole, di cui la coscienza è soltanto la manifesta espressione. Si dovrà soltanto chiarire che tipo di corpo sia destinato ad accompagnare la coscienza consapevole liberata della sua effimera materialità. La conquista dell’immortalità ha indubbiamente in se stessa un valore che supera ogni altro valore immaginabile, ma trascina con sé una responsabilità che è altrettanto enorme. Quando la parte irrevocabilmente inconsapevole abbandona la coscienza consapevole e colui che la possiede, costoro rimangono sì definitivamente aperti all’Essere, ma con i limiti che sono loro intrinseci. I quali sono ovviamente di due tipi. Vi sono i limiti inerenti a ogni coscienza finita in quanto tale, per quanto consapevole essa sia. Sono dunque limiti costitutivi di ogni coscienza finita nella sua ontologica costituzione, indipendentemente dalla concreta situazione personale in cui è venuta a trovarsi. Ma vi sono i limiti dovuti invece alla mancanza della realizzazione della coscienza, imputabili alla concreta coscienza personale che non ha voluto realizzarsi pur dovendosi e potendosi realizzare. Questi limiti sono destinati ad accompagnare la coscienza consapevole dal momento del suo ingresso nel nuovo stato di vita liberata dai suoi rivestimenti materiali. La situazione è analoga a quella di chi nasce con una deformazione o insufficienza genetica (di un arto, di una funzione fisica o psichica) che dovrà portarsi dietro per tutta la vita. Solo che nel nostro caso la distorsione non
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deriva da una natura inconscia, ma proprio dalla coscienza nella sua consapevolezza, e quindi nella sua costitutiva cosciente libertà, con l’ulteriore terribile aggravante che non si vede come nel nuovo stato di vita sia possibile togliere o raddrizzare le strutturali deformazioni divenute connaturali. Più che soffermarsi tuttavia su questi possibili fatali esiti negativi irrimediabili sarà opportuno puntare sulle altrettanto possibili conquiste positive della consapevolezza realizzate nel superamento delle immancabili complicate difficoltà e oscurità della vita immersa nella materialità, destinate a trasformarsi in definitive forme superiori di vita che nessun tenebroso lavorio di forze cieche materiali riuscirà a sgretolare o affaticare.
2. PROVE TRADIZIONALI E MODELLI DELL’IMMORTALITÀ. DIFFERENZA COSMOLOGICA E ONTOLOGICA
Sulla base delle considerazioni svolte cercheremo ora di capire quanta validità abbiano le tradizionali prove dell’immortalità e i modelli che le rappresentano, e come vadano integrati nei loro aspetti mancanti. Potremo qui soltanto accennare ad alcuni tra i più importanti. La dimostrazione di Platone è chiara e lineare. Ciò che si muove perché mosso da altro cessa di muoversi se viene meno quest’altro o la sua azione. Si muove invece sempre “ciò che muove se stesso in quanto non può abbandonare se stesso”. Questo è anzi “scaturigine e principio di moto di tutte le cose che sono mosse”. Ora “nessuno avrà scrupoli ad affermare che proprio questa è l’essenza e la definizione dell’anima”. Infatti “ogni corpo che riceve il movimento dall’interno di se stesso è animato; dato che questa è la natura dell’anima” 11. L’argomento è valido solo se si può dimostrare che l’anima muove se stessa. Quale anima? Quella che svolge nel corpo le funzioni vegetative e di movimento fisico viene evidentemente meno quando il corpo fisico muore. Così succede ad esempio ai semplici animali e alle piante. Rimangono le funzioni intellettive, sulle quali quindi si concentrarono Aristotele e tutta la tradizione filosofica posteriore 12. Ma anche queste, senza il corpo in cui si 11 12
Fedro, 245b-246a. “Riguardo all’intelletto e alla facoltà teoretica nulla è ancora chiaro, ma
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esprimono, particolarmente senza il cervello, come possono sussistere? L’intelletto concepito come l’energia che muove le idee l’una nell’altra non dovrà allora ridursi a un intelletto unico, astratto anch’esso come le idee in cui si manifesta, ma senza le cose da cui le idee vengono appunto astratte? L’intelletto rimane qui ancora senza colui di cui è intelletto. Queste difficoltà contro cui per secoli si è dibattuto il pensiero filosofico, a cui anche noi abbiamo sopra accennato, possono solo venir risolte quando si dimostri che chi ha l’anima è costitutivamente in connessione con ciò che non può non essere proprio perché il movimento che gli è intrinseco è tale da non aver fuori di sé alcun altro movimento contrario, come quello a cui va soggetto invece ogni ente finito, ossia dotato di un corpo che ha altri corpi fuori di sé13. Solo con queste integrazioni il ragionamento di Platone e della tradizione tratta dal movimento dell’anima in generale o dell’intelletto in particolare può acquistare il suo valore probativo. Si può dire riassumendo: una coscienza finita è immortale perché la sua “vera anima” è l’Essere nella sua totalità. Solo “la sua anima” naturalmente, e non il suo essere stesso. Lo stesso discorso vale per l’argomento desunto dalla supposizione che l’anima abbia “la vita di per sé”, o, più radicalmente, abbia un “essere per sé”, per cui non può cessare di vivere. Gli accidenti hanno l’essere nella sostanza, ma la sostanza ha l’essere in sé, e l’anima è sostanza. Ora “ciò che ha l’essere per sé non può essere generato e corrotto dal momento che l’essere per sé è prosembra che sia un genere diverso di anima, e che esso solo possa essere separato, come l’eterno dal corruttibile. Da quanto si è detto è chiaro invece che le rimanenti parti dell’anima non sono separabili, come alcuni affermano” (De Anima, II, 2, 413b, 25-30). E in particolare per quanto riguarda l’intelletto passivo, e soprattutto quello attivo: “E c’è un intelletto analogo alla materia perché diviene tutte le cose, ed un altro che corrisponde alla causa efficiente perché le produce tutte, come una disposizione del tipo della luce, poiché in certo modo anche la luce rende i colori che sono in potenza colori in atto. E questo intelletto è separabile, impassibile e non mescolato, essendo atto per essenza” (De An., III, 5, 430a14-19). 13 L’impossibilità di un movimento proprio dell’anima che Aristotele cerca di dimostrare (De An., I, 3) si riferisce a un movimento puramente fisico di “traslazione, alterazione, decrescimento, accrescimento” e non tocca per nulla quel movimento, nel nostro caso decisivo, per cui ogni contenuto essenziale è tale solo se passa negli altri: quest’ultimo soltanto è il movimento dialettico che Aristotele attribuisce all’intelletto, ma che è in realtà ben più profondamente radicato.
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prio della forma in quanto è atto” 14. Abbiamo già notato quante obiezioni siano state sollevate contro la sostanzialità dell’anima, così che questa ha finito per essere identificata con la coscienza che si ha delle cose, degli eventi e di se stessa. Anche la stessa struttura degli atti intellettuali, ai quali, come abbiamo visto, Aristotele attribuiva la caratteristica di essere “atto per essenza” 15, non sembra essere in se stessa una sostanza. Kant vedeva in questa pretesa un sofisma che trasforma in sostanza un semplice rapporto funzionale (l ’“Io penso”). E questo rapporto funzionale non è evidentemente sempre in atto. Talvolta, quando si dorme, si sviene, si è in coma, non si pensa. Vera sostanza potrà essere l’uomo nella sua interezza di corpo e anima, ma è proprio allora che si vede quanto poco questo insieme abbia l’essere in sé quando è colpito dalla morte. La via da seguire è allora quella di chiarire che cosa sia in se stesso il corpo nella sua immediata evidente relazione all’anima, come aveva già chiaramente avvertito Aristotele 16; ma allora, come abbiamo visto, il discorso non può non aprirsi all’Essere nella sua totalità, nel quale soltanto abita l’autentica sostanzialità. L’argomento desunto dalla “semplicità” dell’anima e quindi dell’impossibilità della sua decomposizione, ossia della sua morte, potrà in caso valere per la parte intellettiva dell’anima 17, della quale però, come abbiamo visto, non sembra possibile dimostrare la sostanzialità. Gli atti di pensiero poi non saranno certo scomponibili nello stesso modo come lo sono i corpi materiali, ma una loro analisi, o scomposizione, e la loro diversa multiforme ricombinazione sono alla base della logica e della psicologia. Come si è già visto anche se non si può attribuire una quantità “estensiva” all’anima, è tuttavia possibile attribuirle una quantità “intensiva”, per cui i suoi atti stessi, ed essa con i suoi atti, possono affievolirsi fino a estinguersi gradatamente, come notava Kant nella sua “confutazione dell’argomento di Mendelssohn”. Questo argomento della semplicità è strettamente connesso con quello dell’incorruttibilità 14 S. Tommaso, Summa, q. 75, a. 6. E riguardo alla vita: “Che cosa deve ingenerarsi in un corpo perché viva? L’anima ... L’anima dunque ... è sempre apportatrice di vita ... L’anima dunque non accoglierà mai il contrario di ciò che porta sempre con sé” (Platone, Fedone, 44, 105). 15 Cfr. la precedente nota 12. 16 Cfr nota 12 del cap. 5. 17 Cfr. S. Tommaso, Contra Gentiles, II, 55.
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degli oggetti dell’anima da cui deriverebbe l’incorruttibilità del loro soggetto, ossia dell’anima, e in particolare dell’intelletto. Ma, abbiamo considerato, se all’anima, anche intellettiva, non si può attribuire una sostanzialità distinta da quella del corpo di cui è anima, l’argomento non regge. In tutte queste impostazioni occorreva, prima di concludere in senso positivo o negativo, analizzare a fondo che cosa si debba intendere per anima, per corpo, per tempo, e se, oltre a un versante del corpo, quello materiale, di cui l’intelletto non ha bisogno per pensare perché appunto è il versante che per sua natura, e quindi per sua definizione, è fuori dei contenuti essenziali e quindi delle idee che li rappresentano, ve ne possa essere un altro, inerente agli stessi limiti dei contenuti essenziali, che non può quindi non sopravvivere con questi contenuti alla separazione di quello puramente materiale: distinzioni che sono possibili e comprensibili solo se si tiene presente la struttura totale dell’Essere in ognuno dei suoi aspetti particolari e nella loro dialettica articolazione che abbiamo delineato nel capitolo precedente. Proprio perché l’Essere nella sua totalità è presente nella costituzione essenziale di ogni coscienza consapevole anche gli argomenti del “consensus gentium” 18 e del “desiderio naturale” 19 dell’immortalità non potevano non trarre da questa presenza, anche se non espressa, la loro fondazione e quindi la loro validità. Su questo piano, tenuto lontano da una precisa esplicita fondazione metafisica, hanno prolificato anche le riflessioni sull’immortalità che si basano invece sull’esigenza morale di una giustizia che non trova la sua realizzazione nella vita mortale. Su questo punto ha insistito, tra gli altri, soprattutto J.J. Rousseau20. Dopo di 18 “Se il consenso universale è voce di natura e tutti dappertutto sono d’accordo nel ritenere che esista qualcosa che interessa coloro che sono defunti, anche noi dobbiamo essere dello stesso parere, e se riterremo che quelli dotati di un animo superiore per ingegno o virtù sono nella migliore condizione per riconoscere la forza della natura perché sono perfetti per natura, è verisimile - dato che tutti i migliori si preoccupano moltissimo della prosperità - che esista qualcosa di cui sono destinati ad avere sensazione dopo la morte”, Cicerone, Tusc. Disp., I, 15, 35. 19 “Ognuno che abbia intelligenza desidera naturalmente di esistere sempre. Ma un desiderio naturale non può essere vano. Dunque ogni sostanza intellettuale è incorruttibile” (S. Tommaso d’Aquino, Summa Th., I, q. 75, a. 6). 20 “Quand’anche non avessi altra prova dell’immortalità dell’anima che il
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lui anche ovviamente Kant, il quale pensava di aver demolito la metafisica classica, per cui rimaneva soltanto possibile ricavare una prova dell’immortalità da un’esigenza della ragione non più speculativa ma “pratica”. La vedeva in altre parole come un “postulato”, com’egli lo chiama, necessario per la realizzazione del “sommo bene”, ossia dell’unione della virtù e della felicità, la quale è possibile solo supponendo un progresso all’infinito oltre il breve tratto di percorso della vita terrena. Tutte queste presunte prove, non soltanto queste ultime di carattere pratico, ma anche le precedenti teoretiche, su cui anche in epoca recente si è tentato di ritornare21, possono valere solo come “indizi” dell’immortalità: soltanto quando sono ricavabili da una struttura metafisica oggettiva come sue conseguenze necessarie possono ottenere la loro solida scientifica validità. I modelli immaginativi che sono stati presentati dalla tradizione filosofica e religiosa, o che si possono in generale inventare con l’aiuto dei mezzi della cultura dei tempi in cui si vive, possono giovare a rendere familiare la visione della possibilità dell’immortalità, e quindi anche delle strutture della Totalità dell’Essere da cui derivano, pur senza possedere una validità rigorosamente probativa. È in questo senso ristretto che vengono qui presentate. Si è ricorso di frequente al modello preso dai lepidotteri, in trionfo del cattivo e l’oppressione del giusto in questo mondo, questo solo mi basterebbe per non dubitarne. Una contraddizione così manifesta, una dissonanza così stridente nell’armonia dell’universo, mi spingerebbe a riflettere che non tutto finisce per noi nella vita, ma tutto con la morte rientra nell’ordine” (“Professione di fede del Vicario savoiardo”, Emilio, IV). 21 J. Maritain, dopo aver riconosciuto che la conoscenza della propria immortalità è “naturale”, “istintiva”, perché “radicata non nei principi del ragionamento, ma nella nostra stessa sostanza”, ne dà una “conoscenza filosofica” ripercorrendo le prove tradizionali esposte soprattutto da Tommaso d’Aquino, tratte dall’universalità dell’oggetto dell’intelligenza, dell’immaterialità di tale oggetto e quindi anche dell’atto dell’intelligenza, e quindi anche della potenza intellettuale che lo produce, e quindi anche della radice sostanziale da cui tale potenza emana, ossia dell’anima umana: uno spirito dunque che, oltre ad animare un corpo, è “sorgente di operazioni immateriali, intrinsecamente indipendente da ogni organo corporeo e da ogni struttura fisica” (De Bergson à Thomas d’Aquin: essais de métaphysique et de morale, New York 1944; tr. it. Vita e Pensiero, Milano 1980, pp.129-131; 138-144). Tutto questo suppone evidentemente che prima si sia dimostrato come possano sussistere queste due caratteristiche dell’anima a prima vista incompatibili: essere costitutivamente “forma di un corpo” ed essere “indipendente dal corpo”.
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particolare dal baco da seta, che si chiude dentro il bozzolo formato dalle sue stesse escrezioni, e lì si trasforma in crisalide, e questa poi in farfalla, la quale infine abbandona l’involucro che l’aveva ospitata volando in libertà. Il modello è suggestivo, anche se la corrispondenza viene meno nel fatto che il bozzolo abbandonato non è il corpo stesso del baco, ma piuttosto una sua esteriore protezione che si è provvisoriamente formata. Più convincente può essere oggi il modello del satellite artificiale che, prima di essere lanciato, come qualunque altro oggetto, è sottoposto alla legge della gravità terrestre che lo mantiene fermo rispetto alla terra, qualunque sia il tempo e il luogo in cui viene collocato. Solo quando viene trasportato da un missile a una opportuna altezza e lanciato nella sua orbita, si libera dalla dipendenza dalla Terra, così da poterle girare intorno dominandola dall’alto, e addirittura volare nello spazio in assoluta libertà. L’analogia è chiara. Il lavoro di miliardi di anni di evoluzione è andato costruendo poco alla volta corpi viventi sempre più complessi dotati della loro costitutiva proprietà di riconoscere sempre più uno a uno gli oggetti del loro ambiente. “Uno a uno”, senza la possibilità di riconoscerne il collocamento e quindi di dominarli. L’essere vivente era dunque sempre condizionato dal singolo oggetto che gli si presentava, o più precisamente dal tipo di messaggio puramente spazio-temporale che quell’oggetto gli inviava. Ma a un certo punto la “semplice” coscienza così condizionata è diventata coscienza del loro collegamento costitutivo, e quindi anche coscienza di sé. Quei messaggi diventavano così “cose”, ossia aspetti di una totalità che fino a quel momento aveva agito nel pieno nascondimento combinando gli eventi in modo tale da rendere possibile solo nel profondo la continuità dell’essere vivente che essi in realtà erano. Da quel momento essi possedevano una struttura che non dipendeva più costitutivamente dagli oggetti separati nello spazio e nel tempo, e neppure da quel loro collegamento esteriore dovuto a un’evoluzione puramente biologica, ma da quell’unico Essere che prima glieli aveva presentati uno a uno. Un analogo modello può essere quello di una casa in costruzione, che esige sempre la previa costruzione dell’impalcatura. Fuori dell’analogia la costruzione dell’impalcatura è tutta la storia dell’evoluzione. Solo quando l’impalcatura è costruita e con il suo aiuto è costruita la casa, dalle finestre quello che si poteva già pri-
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ma in qualche modo vedere, si può ora vedere nella libertà e nella totalità, soprattutto quando l’impalcatura viene tolta di mezzo. Si tratta ancora di una parziale libertà e totalità: le pareti continuano ancora a limitare il panorama, così come il limite della coscienza finita, sia pure consapevole, rimane anche dopo che le limitazioni del corpo materiale, come quelle dell’impalcatura, sono definitivamente cadute. Un altro modello, reso ora possibile dalla conoscenza dell’evoluzione cosmica dell’universo fisico, può essere fornito dall’esplosione della luce nelle prime fasi di quello sviluppo. Dopo la formazione dei nuclei degli atomi e degli elettroni vaganti nell’enorme originario oceano di radiazione ad altissima temperatura, quando questa si abbassò quegli elettroni negativi furono catturati dai nuclei positivi. Solo allora la luce invase lo spazio, illuminò gli atomi prima immersi nell’oscurità, e continuò poi a illuminare le formazioni sempre più complesse della materia: le nebulose, le stelle, i pianeti. Il mondo divenne allora un cosmo. Analogamente dopo miliardi di solitudine, di abissale separazione e quindi di profonda oscurità le cose poco alla volta emersero all’avanzarsi sempre più intenso della loro coscienza. Se la loro separazione, dispersione e oscurità in cui ancora si trovano in quella loro esteriore unità che è lo spazio e il tempo si dissolvessero per lasciare il posto a una loro unità più completa, tutto questo non significherebbe la loro scomparsa definitiva, ma all’opposto l’instaurazione della loro più autentica realtà. La permanenza dei limiti della coscienza consapevole anche dopo la distruzione dei limiti inerenti alla “semplice” coscienza percettiva legata ai sensi del corpo, indicata anche in tutti i modelli, dove la libertà raggiunta dopo la caduta dei primi limiti è sempre parziale (il volo della farfalla è sempre limitato anche fuori del bozzolo, così come quello del satellite svincolato dalla Terra, ma ancora legato al sistema solare, alla nebulosa galattica, e così via, e la visione dalla casa, dopo la caduta dell’impalcatura, e dell’illuminazione cosmica dopo le composizioni dei corpi celesti, è visione e illuminazione parziale) impone una importante distinzione: la distinzione tra differenza cosmologica e differenza ontologica. La prima sussiste tra ogni coscienza “semplice”, sia essa consapevole o inconsapevole, e il metacosmo in cui viene necessariamente a trovarsi, a cui si contrappone, e che si costituisce come suo ambiente.
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Quando accanto a questa semplice coscienza emerge la coscienza consapevole questa si costituisce come differenza dall’Essere nella sua totalità, il quale allora non è sentito e vissuto in contrapposizione, ma come apertura, come realizzazione del proprio essere: è la differenza ontologica. In altre parole la contrapposizione al proprio metacosmo in cui vive la coscienza semplice si risolve nella coscienza consapevole nella consapevolezza che dietro questa apparente opposizione al proprio cosmo si nasconde quello stesso Essere di fronte al quale e nel quale essa ora viene a trovarsi e a realizzarsi. È un passaggio inevitabile perché s’identifica addirittura con la sostanza e il significato di coscienza consapevole, e tuttavia molto spesso viene male interpretato fino ad assumere l’apparenza del suo contraddittorio: anche molti scienziati e filosofi infatti, oltre che la gran parte della normale popolazione la differenza ontologica rimane nascosta, inavvertita, inghiottita da quella puramente cosmologica, per il fatto che questa s’impone immediatamente con più violenta pressione e trasparente evidenza. La differenza ontologica, ineliminabile da ogni coscienza consapevole, porta con sé tre conseguenze di incalcolabile valore. Innanzitutto la garanzia della persistenza della personalità anche dopo la morte, ossia dopo la scomparsa della differenza cosmologica. Quando questa viene meno con la scomparsa del corpo materiale, rimane ancora la personale struttura di tutto ciò che nella coscienza consapevole è andato formandosi in diretto riferimento all’Essere che sta sempre alla base di ogni coscienza pur senza identificarvisi, ossia senza disperdere se stessa. Il grande impegno di Tommaso d’Aquino per mostrare contro Averroé e gli averroisti latini la persistenza della personalità in cui si radicano le funzioni intellettive, perché in esse non opera un intelletto astratto, universale, attivo o passivo, ma l’uomo nella sua individualità (hic homo intelligit), trova in questa differenza ontologica la sua spiegazione. La seconda conseguenza è la costitutiva interconnessione di ogni coscienza consapevole con ogni altra coscienza consapevole con cui è venuta a contatto durante il periodo in cui era ancora offuscata dal proprio settore di coscienza ancora inconsapevole. La realtà di ognuna di queste coscienze, liberata dagli impedimenti della disunione e della discontinuità dovuti al corpo materiale, diventa ora nella sua completezza disvelata quella particolare realtà che ognuna era nel nascondimento di fronte alla totalità dell’Essere. Ogni co-
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scienza consapevole trovava già prima della morte materiale la propria realtà nel riferimento all’Essere che allargava in un infinito misterioso ogni suo desiderio, ogni suo sentimento. Ma questi venivano inesorabilmente sempre contrastati dall’opposizione delle forze metacosmiche dell’ambiente materiale in cui veniva a trovarsi, e ancor più in quelle più vicine e operanti del proprio corpo stesso. Era fatale cercare in altre coscienze e in altri corpi il superamento dei limiti da cui ogni coscienza si trovava angustiata. Ma se alcuni propri limiti potevano venire in tal modo effettivamente superati, altri ne sopravvenivano: quelli delle persone che si erano amate, ma che anch’esse portavano in sé e fuori di sé i limiti e le contraddizioni inerenti a ogni coscienza finita. Erano limiti e contraddizioni che si condensavano, come nella loro origine e radice, nel corpo materiale che ne era l’espressione visibile. Alla caduta di questa rete di contraddizioni, i legami di complementarità sono destinati a rinsaldarsi in una intimità e in una libertà che non ha più confini nel tempo e nello spazio. La terza conseguenza, già precedentemente toccata, è che l’individualità del proprio essere si concretizza nel corpo che, per distinguerlo da quello materiale, possiamo chiamare “spirituale”, nel corpo cioè costituito da ciò che in ogni coscienza in quanto consapevole, rimane fuori della consapevolezza, per quanto possa pensarsi armonicamente articolato o terribilmente disarticolato. E i contenuti effettivi della propria realtà si concretizzano nei contenuti di coscienza consapevole ora aperti al contenuto totale dell’Essere. Adoperando i termini del linguaggio religioso ognuno porta con sé il proprio paradiso o il proprio inferno a seconda del modo come il suo comportamento si è trovato inserito, sia pure nascostamente, nell’Essere, durante la prima fase transitoria, finita con la morte del corpo materiale, della propria esistenza fisica.
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Il ritorno dell’essere
Capitolo ottavo
LA “SEMPLICE” COSCIENZA INCONSAPEVOLE: LA VITA BIOLOGICA Il suo costitutivo essenziale: il riconoscimento
Come costitutiva di ogni coscienza consapevole finita, appunto in quanto finita, abbiamo riscontrato la sua incapacità di rendersi un conto esatto di una moltitudine di diverse differenze costitutive delle cose, e quindi poi in particolare di se stessa. Essa viene in conseguenza a trovarsi in un ambiente che le è estraneo e in un corpo che le permette di essere in continua essenziale relazione con quest’ambiente. Anche di questo ambiente esterno e di questa sua relazione con esso però riesce in certo qual modo a rendersi conto, ossia a rendersene consapevole, e quindi della totalità del suo essere e dell’Essere universale in cui si trova. Su questa base abbiamo quindi potuto dimostrare la sopravvivenza della coscienza consapevole alla perdita di quell’aspetto di se stessa che le rimane radicalmente estraneo, ossia la sopravvivenza alla morte del suo corpo materiale. La relazione consapevole con il suo corpo, e in particolare con il suo corpo materiale era dunque un oggetto che doveva essere chiarito per capire la natura della coscienza consapevole e il suo destino definitivo. Esistono tuttavia degli esseri finiti in cui manca totalmente la coscienza della totalità del proprio essere, nei quali cioè la coscienza è totalmente inconsapevole. La loro vita è allora soltanto biologica, e gli esseri viventi che la possiedono sono gli animali e le piante. Di questa coscienza inconsapevole, di questa semplice vita puramente biologica dovremo quindi a questo punto trattare. Non perderemo di vista tuttavia in queste considerazioni la coscienza consapevole, ossia in parole ordinarie, la vita umana, perché la
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coscienza consapevole di cui trattiamo, la vita umana, non è mai completamente consapevole: la sua parte inconsapevole è anche in lei dunque puramente biologica, anche se, ovviamente, rientra poi anch’essa indirettamente nella coscienza consapevole, tant’è vero che di essa appunto riusciamo a parlare. È in questo senso ben preciso che anche quando si parla della “semplice” coscienza inconsapevole, della vita biologica, non è possibile uscire dalla considerazione della totalità dell’Essere, se non si vuole rimanere alla superficie del grande fenomeno della vita, dove sono costretti a rimanere, per necessità metodologica ossia professionale, gli scienziati che si occupano della vita, ossia i biologi. Sarà dunque questa la traccia che seguiremo nei prossimi due capitoli. Nel presente vedremo come la natura della vita biologica può essere colta soltanto andando aldilà delle manifestazioni spazio-temporali dei comportamenti degli esseri viventi. Nel seguente poi in particolare, dopo aver preso visione delle spiegazioni che della vita biologica vengono fornite dalla scienza, esamineremo come esse debbano venir integrate da quelle di carattere strettamente filosofico. Il fenomeno che più di ogni altro manifesta immediatamente la vita e sempre l’accompagna, cosicché quando viene meno viene meno la vita stessa è il fatto che ogni vivente si trova in un ambiente “esterno” rivelando così di possederne uno “interno” a quello contrapposto e a quello in una relazione costitutiva, che dovremo quindi innanzitutto esaminare. Se vi è un ambiente vi deve essere un ambientato a quello irriducibile e in una relazione sia positiva che negativa. La nascita di un essere vivente, la sua crescita, la sua nutrizione, il suo metabolismo, la sua stessa riproduzione sono episodi che presuppongono questa duplicità di ambiente, o, più esattamente, questa duplicità di versanti di uno stessa ambiente. Quando di un oggetto inanimato: di un sasso, di un tavolo, si dice “che si trova in un ambiente” il senso è evidentemente traslato o addirittura equivoco, perché il sasso, il tavolo non ha un ambiente interno contrapposto a quello esterno, ma in caso si potrà dire correttamente che appartengono all’ambiente esterno di qualche essere vivente, in particolare dell’uomo. A sua volta però questa duplicità di ambiente presuppone e si fonda su di una relazione che ne costituisce quindi il costitutivo essenziale, e che chiameremo
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“riconoscimento”. Per fissare le idee, consideriamo in un caso particolare questa relazione di riconoscimento in cui si puntualizza la sostanza dell’essere vivente in quanto tale. Un’antilope incontra nella sua savana un leone e immediatamente si mette in fuga precipitosa così da allontanarsi e possibilmente togliersi da quella presenza. Quando invece incontra un’altra antilope, soprattutto se è di altro sesso e di un’età opportuna, le si avvicina e le si accosta. L’evidente diversità nel comportamento dell’antilope denota che l’antilope ha “riconosciuto” la diversità di questi due oggetti del suo ambiente, con un riconoscimento che è ben diverso dalla diversità delle radiazioni fisiche di luce, di colore, di contorno che ha ricevuto da quei due oggetti. Non è, in altre parole, pensabile che il colore del corpo del leone abbia un effetto fisico tale da scagliare l’antilope lontana dal leone, mentre il colore del corpo di un’altra antilope abbia invece una forza d’attrazione tale da avvicinarla. Aldilà di questi eventi fisici esteriori vi è dunque un “riconoscimento” ad essi irriducibile per cui questi eventi fisici, come la radiazione della luce colorata che investe l’antilope, diventano soltanto segni di qualche cosa d’altro, ossia segni di un significato, per cui la risposta dell’antilope non è più soltanto un evento fisico determinato da una causa fisica ma un evento dovuto a qualcosa che va aldilà della fisica: questo qualcosa è la vita. Al riconoscimento così esemplificato dobbiamo dare un significato molto vasto, che non è limitato al riconoscimento tipico di una coscienza consapevole, com’è quella razionale dell’uomo, ma che tuttavia nella sua sostanza si mantiene sempre identico per ogni tipo di vita. Una particolare difficoltà potrà presentarsi quando lo si voglia estendere al regno vegetale, ma anche in questo caso la difficoltà è facilmente superabile. Ogni pianta è infatti in grado di scegliere tra tutti gli elementi dell’ambiente in cui si trova: il terreno, l’aria, l’acqua, gli elementi che le servono per il suo nutrimento, per la sua crescita e conservazione, ed è in grado di escludere e addirittura di lottare e di difendersi da ogni altro elemento che le sia indifferente o nocivo, con apparati che talvolta sono di una sorprendente complessità ed efficienza. Questa “scelta” presuppone una discriminazione degli elementi che verranno scelti da quelli che invece vengono trascurati. Così le radici discriminano e quindi scelgono dal suolo sali vari, acqua, anidride carbonica; e la clorofilla di cui sono dotate le sue foglie discrimina, sceglie e as-
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sorbe dal sole l’energia in modo che dalla loro combinazione si possano formare le complicate molecole di glucosio. Queste poi si scompongono all’interno della pianta in una catena di reazioni favorite da particolari molecole dette “enzimi” (fermenti), così che la pianta può disporre per ogni operazione che le è caratteristica dell’energia sufficiente ad effettuarla. Questa “respirazione” del tutto elementare si complica notevolmente, ma senza variare nella sua sostanza negli animali in cui organi appositi: bronchi e polmoni, costituiscono una sede apposita all’interno dell’organismo in cui l’ossigeno dell’aria viene assorbito e sintetizzato nell’emoglobina del sangue, e distribuito secondo tempi, modi, quantità diverse ai vari organi e tessuti dell’organismo le cui funzioni sono diventate enormemente più complesse in corrispondenza all’enormemente più complessa possibilità di interferire con l’ambiente. Questo ambiente è infatti ora sempre diverso e variante, anche soprattutto a causa del movimento di cui ormai il vivente, dotato di complicati organi opportuni, può disporre a differenza delle piante. L’enorme sviluppò che queste scelte degli elementi necessari o utili permettono rende così ormai nell’animale più sviluppato, nel mammifero ad esempio, il riconoscimento degli elementi del loro ambiente esterno da discriminare molto evidente, ma nella sua sostanza lo stesso riconoscimento è presente anche nel rapporto elementare in cui si concentra la vita di una semplice pianta. Abbiamo già avvertito che a questo livello ai termini “riconoscimento”, “scelta”, non vanno attribuiti quei significati che sono tipici di quell’essere vivente che riconosce anche il senso dei termini “riconoscimento”, “scelta”. Si tratta qui infatti, a questi primi livelli, di un “riconoscimento” e di una “scelta” che sono immediati, fattuali, non riflessi. Ma anche in questi casi gli elementi dell’ambiente esterno, in conseguenza del riconoscimento, vengono assimilati e trasformati con quel processo tipico di ogni vivente che è chiamato metabolismo, in grazia del quale sono rese possibili quelle particolari funzioni di una ben determinata porzione della realtà fisica che la rendono “organismo”. Sono funzioni che si organizzano in una ben precisa sequenza che termina là dove aveva avuto il suo inizio, ossia ancora nell’individuazione degli elementi da scegliere, assimilare e trasformare. Queste funzioni, che tradizionalmente sono state individuate ed elencate come nutrizione, crescita,
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Il ritorno dell’essere
riproduzione e, nel loro complesso, come conservazione dell’organismo stesso (autoconservazione) e della specie a cui appartiene, sono veramente tali, ossia conservano la loro identità e il loro valore solo se sono viste tutte nei loro rapporti con l’ambiente esterno, all’origine e al fondamento dei quali sta il riconoscimento degli elementi dell’ambiente stesso, e in particolare dei suoi oggetti nel senso che si è detto. Anche il riconoscimento cosciente, riflesso, presuppone questo elementare immediato riconoscimento comune a tutti i viventi, che consiste nel distinguere ciò che è presente da ciò che lo può essere. In base a questo essenziale riferimento all’unico ambiente esterno preso nella sua completezza, che ha il suo inizio nel riconoscimento e nella scelta di alcuni dei suoi elementi e la sua conclusione nella conservazione dell’organismo, tutte queste varie funzioni si fondono insieme in un unitario “circolo vitale” in cui ognuna presuppone e si risolve nelle altre, acquistando così il suo senso e il suo valore. È in questa inscindibile unità circolare di queste funzioni che l’organismo diventa l’autentico “soggetto” di ognuna di esse e delle loro attività nel loro vicendevole coordinamento. La Ganzheit (totalità) in cui parecchi scienziati e filosofi hanno visto la caratteristica più tipica degli esseri viventi, se è vista nel suo contenuto concreto, s’identifica con questo “circolo vitale” e con la formazione di un unico soggetto di queste diverse funzioni. Una sostanza inanimata, qualora venga a contatto in particolari condizioni con altre sostanze entra con esse in reazione chimica che la trasforma radicalmente senza permetterle di ritornare nella sua situazione di partenza. In essa non vi è nessun soggetto che si mantiene nella circolare variazione delle sue funzioni. Ma una unità circolare ancora più intima è necessario ora bene individuare nel cuore stesso di questo “circolo vitale”, e precisamente nel suo momento più centrale e importante: nel riconoscimento. Non sarà difficile riscontrare che lo stesso “circolo vitale” non è in definitiva altro che l’esplicitazione di questo interno rapporto costitutivo del riconoscimento. Il riconoscimento contiene in se, come suo elemento costitutivo, la possibilità del riconoscimento. Il riconoscimento infatti consiste nella distinzione dell’oggetto attualmente presente dagli altri oggetti che possono presentarsi1. Que1
Qui per semplicità e chiarezza parliamo di “oggetti”, ma le stesse considera-
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ste possibilità di altri oggetti sono dunque presenti nell’oggetto attualmente, ossia fisicamente, presente; sono esse che permettono all’organismo di individuare, di discriminare l’oggetto attualmente presente. Non sono certo presenti queste possibilità con presenza fisica nello spazio e nel tempo, ma lo sono certamente nel significato del segno in cui si fa presente l’oggetto attuale; sono lì anzi come costitutive del significato dell’oggetto presente. Sono presenti nella loro distinzione dall’oggetto presente. Quando l’antilope riconosce il leone, lo distingue dall’antilope e da ogni altro oggetto di cui ha avuto esperienza e da ogni altro oggetto nuovo che potesse presentarsi. Se nessuno di questi altri oggetti vi fossero stati nella sua esperienza, il leone non avrebbe nessun significato per lei, non sarebbe “il leone” da cui bisogna fuggire. Sebbene questo riconoscimento non sia così chiaro nella piante, esso è nella sua forma più elementare presente anche in essa: il fatto che questa presenza sia più tenue nella pianta che nell’animale ha come conseguenza che la vita della pianta è più tenue che nell’animale; le due cose infatti in buona parte coincidono. La pianta porta nella sua costituzione stessa le svariate possibilità di atteggiarsi diversamente in ambienti diversi, in situazioni climatiche diverse, ossia queste possibilità la costituiscono e rimangono presenti in ogni atteggiamento attuale che assume in ogni situazione attuale. È da questo insieme di possibilità che dipende il suo atteggiamento attuale. Queste possibilità costituiscono il suo essere pianta in ogni situazione attuale. È come assimila e trasforma gli elementi che ha riconosciuti e scelti dall’ambiente esterno che le dà il modo di riconoscere e scegliere ancora e sempre finché vive gli elementi da cui era partita. Se si vuole si potrà distinguere allora un “riconoscimento puramente operativo” nella pianta, un “riconoscimento percettivo” negli animali, come nell’antilope del nostro esempio, un riconoscimento cioè in cui è ben chiara la distinzione tra i segni che colpiscono il corpo dell’organismo e il significato che contengono in sé, e finalmente un “riconoscimento consapevole” in quei viventi in cui oltre al significato dei segni da cui è colpito il corpo dell’organismo, si coglie anche il significato di “significato”, ossia si coglie cosa significhi dare un significato ai segni da cui è colpito il corpo delzioni valgono ovviamente per le “situazioni” in cui si presentano o possono presentarsi parecchi oggetti insieme.
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l’organismo. Ma alla base di tutti e tre questi tipi di riconoscimento vi è la stessa struttura: la presenza di ciò che non è presente fisicamente nell’oggetto o nella situazione presente attualmente ossia fisicamente presente. In questa presenza dell’attualmente assente consiste sostanzialmente la vita. È questa presenza che si articola nel vivente come disponibilità a riconoscere gli oggetti assenti quando si renderanno fisicamente presenti. Si ricordi la definizione della vita che è stata espressa da Aristotele e che poi è stata ripetuta nei numerosi trattati di De anima dell’Antichità e del Medioevo: actus primus corporis physici organici. Si può liberamente tradurre così: la disponibilità (actus primus) ad agire (actus secundus) intrinseca a un corpo organizzato, ossia ad un organismo. Quanto siamo andati dicendo della vita esprime il contenuto sostanziale di questa definizione, sviluppandola per il fatto che nella definizione tradizionale è espresso solo vagamente in che consista questo atto primo da cui germoglia l’atto secondo, e la relazione in cui precisamente stanno questi due tipi di atti tra di loro e con l’organismo a cui vengono attribuiti. L’anima lungo i secoli della tradizione ha finito per venire troppo distinta e addirittura contrapposta al corpo mentre nella definizione di Aristotele era ancora talmente legata ad esso da esserne la vita. Parlando in un capitolo precedente dell’anima, che appunto è la parte animatrice di un corpo vivente, ossia la sua parte vitale, ci siamo dilungati a mostrare come tutto l’insieme di ciò che non viene riconosciuto ossia distinto da un essere vivente è tuttavia in se stesso distinto e quindi si contrappone al sistema delle distinzioni palesi, ossia dei riconoscimenti in cui s’incentra la vita dell’organismo. Si contrappone seguendolo passo per passo, momento per momento, come una superficie concava accompagna in ogni punto la superficie convessa. È questo il corpo materiale dell’organismo che segue inseparabilmente il sistema dei riconoscimenti che costituiscono propriamente la vita o l’anima dell’organismo stesso. A ogni variazione del processo d’individuazione o di riconoscimento corrisponde una variazione del corpo dell’organismo stesso. Vi corrisponde in modo talmente puntuale e inscindibile da indurre scienziati e filosofi di chiara fama a confondere i due aspetti, e quindi a semplificare il tutto, riducendolo o alla struttura che limita il sistema percettivo o al sistema percettivo stesso. Di queste deviazioni materialistiche o spiritualistiche è piena la storia della scienza
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e della filosofia, ma sono soltanto la prova dell’inseparabilità, o meglio dell’intima unione in cui si sviluppano vicendevolmente i due aspetti, le due dimensioni in cui vive e opera ogni organismo. Nel numero seguente vedremo un caso di particolare rilievo di questo conflitto nel contrasto insanabile tra meccanicismo e vitalismo. Se si guarda questo rapporto nella direzione che va dal sistema dei riconoscimenti a quello che resta estraneo e contrapposto a tali riconoscimenti si arriva a quel concetto di ambiente interno con cui sono incominciate queste nostre considerazioni; se lo si guarda nella direzione opposta, ossia dal sistema rimasto fuori del riconoscimento al sistema dei riconoscimenti si arriva al concetto di ambiente esterno. In verità sono soltanto due aspetti della stessa realtà: la realtà dell’essere vivente. Li abbiamo chiamati “sistema dei riconoscimenti” e “sistema estraneo ai riconoscimenti” per indicare che da una parte i riconoscimenti sono ben collegati tra di loro, e ben collegate sono al loro fondamento le facoltà da cui germogliano; così come dall’altra parte intimamente collegato rimane tutto ciò che sta fuori della portata di simili riconoscimenti. Si potrebbe parlare allora di un “mondo” che è proprio di ogni vivente per quanto elementare esso sia, e di un “metamondo” o “metacosmo” ad esso relativo. Quando si parla in questo contesto di “mondo” e “metamondo”, di “cosmo” e “metacosmo”, di “ambiente interno” e “ambiente esterno” e in essi del loro costitutivo principale, ossia del “riconoscimento”, si deve naturalmente prendere questo termine “riconoscimento’’ nel suo significato pregnante fondamentale. L’abbiamo del resto già detto, il “riconoscimento” non è prima di tutto e soprattutto qualcosa che riguarda la conoscenza astratta che è tipica del vivente consapevole. Nella sua sostanza è graduale riempimento di significato di quei segni fisici da cui è colpito il corpo del vivente, un significato che va dalla semplice immediata scelta di parte degli elementi costitutivi dell’ambiente esterno e loro assimilazione, trasformazione e organizzazione in elementi dell’ambiente interno perché sia possibile il ritorno all’assimilazione e così via in un “circolo vitale” che dalla sua minima espressione arriva alla rappresentazione del significato addirittura in assenza dei segni normalmente destinati a suscitarlo. Si entra in quest’ultimo caso estremo in quel “circolo totale” in cui sono compresi, sia pure in-
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direttamente, confusamente, come elementi dell’ambiente interno anche tutti gli ambienti esterni dei viventi non ancora dotati della consapevolezza, ossia del significato del significato. Tra gli oggetti riconosciuti dal vivente “consapevole” vi sono infatti anche gli esseri viventi il cui riconoscimento è soltanto “operativo” o “percettivo”, riconosciuti non soltanto come corpi fisici, ma anche proprio come viventi, ossia come organismi capaci di riconoscere, di scegliere e di trasformare in modo da conservarsi e sopravvivere. Accenni in questa direzione si possono trovare nei fisici dell’ultima generazione, ossi nei fisici quantistici, e la ragione di questa sorprendente apertura implicita nella sostanza della loro dottrina risulterà nel prossimo capitolo. Sono infatti arrivati alla dimostrazione dell’impossibilità di un’assoluta “oggettività” nella conoscenza scientifica della realtà fisica presa proprio nella sua totalità, ossia negli elementi ultimi da cui è costituita, e quindi all’ineliminabile presenza, sia pure nascosta, dell’elemento soggettivo nel mondo fisico come tale, anche se si manifesta scopertamente solo nelle strutture viventi, e qui in una certa connessione con il vivente consapevole. Ma torniamo a quel nucleo centrale in cui abbiamo riconosciuto la sostanza dell’essere vivente: il riconoscimento con la sua immanente possibilità di riconoscimento che si articola nell’organizzazione interna del corpo vivente, ossia nel suo ambiente interno in interrelazione costitutiva con il corrispondente ambiente esterno. Popper ha trattato a lungo delle “aspettative” e degli “orizzonti di aspettative” che sono “innate” in ogni organismo vivente, il quale dunque le porta con sé fino dalla sua nascita2. Si tratta di aspettative che devono poi essere messe alla prova, ossia controllate dalle risposte, positive o negative, dell’ambiente in cui il vivente viene a trovarsi. Anche queste “aspettative” però presuppongono la capacità di riconoscimento, della quale quindi possono essere soltanto la conseguenza. Il riconoscimento è per sua natura soltanto parziale proprio perché “distingue” alcuni elementi da assimilare a differenza di altri che restano fuori a costituire l’ambiente esterno. Gli elementi da assimilare e trasformare vanno dunque prima cercati e scelti. Prima di arrivare alle “aspettative” delle risposte dell’ambiente, il vivente deve quindi “provocare” l’ambiente perché risponda in modo da ripetere l’azione provocatoria se la risposta 2 Cfr. soprattutto Objective Knowledge. An Evolutionary Approuch, Oxford 1972; tr. it. Armando, Roma 1975.
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soddisfa il vivente: e in questo caso l’azione va perdendo sempre più il suo iniziale aspetto provocatorio per diventare sempre più normale adattamento vicendevole. Se invece la risposta è negativa, ossia se l’ambiente non fornisce gli elementi da assimilare e trasformare, o addirittura mette in pericolo la stessa possibilità di ricerca e di scelta, il vivente fugge da quella situazione tentando di cambiarla in tempo. La pianta in luoghi dove è scarsa la radiazione necessaria alla sintesi clorofilliana invece di foglie espanse produce foglie filiformi, e l’antilope fugge veloce per allontanarsi dal leone. “L’errore” (error) che il vivente tenterà di evitare un’altra volta se non è stato fatale, non è dunque da porre accanto al “tentativo” (trial) per indicare il metodo (trial and error) con cui il vivente “apprende” dall’esperienza, ma è già implicito nel tentativo stesso come suo esito negativo3. L’ordine di questi diversi aspetti costitutivi della vita di un vivente è allora il seguente: attuale riconoscimento, disponibilità al riconoscimento degli oggetti o situazioni attualmente assenti immanente al riconoscimento attuale, provocazione dell’ambiente a rispondere a quelle disponibilità, adattamento: ossia assimilazione e trasformazione degli elementi rispondenti a quella disponibilità, indifferenza o fuga dalle situazioni non rispondenti, conservazione della vita attraverso il ritorno al riconoscimento permesso dall’adattamento a conclusione del “circolo vitale”. La “disponibilità” è il risultato di tutti i miliardi di anni attraverso cui è andata complicandosi e distribuendosi la vita, sia che i viventi abbiano un’unica origine sia che ne abbiano più d’una: un’argomento questo su cui non è né necessario né opportuno soffermarsi in questo nostro discorso filosofico. Questa enorme diversità delle specie e degli individui viventi attualmente presenti nel mondo e di quelli scomparsi sono il risultato non soltanto della diversità degli ambienti in cui ogni specie e ogni individuo viene a trovarsi, ma anche della diversità degli ambienti in cui sono venute a trovarsi tutte le specie e gli individui a loro antecedenti, e di cui 3
Popper ha esposto la sua teoria dell’adattamento ‘by the method of trial and error’, applicabile sia alla genetic adaptation, che alla adaptive behavioural learning, e alla scientific discovery, nel saggio The Rationality of Scientific Revolution, nel volume Problems of Scientific Revolutions, a cura di R. Harre, Oxford Univ. Press, Oxford 1975, pp. 72-101, ristampato in Scientific Revolutions, a cura di I. Hoching, Oxford Univ. Press, Oxford 1981, pp. 80-106.
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ogni individuo è l’ultimo risultato. Questa complessa “disponibilità” costitutiva dell’organizzazione interna propria di ogni essere vivente è predisposta nel “codice genetico” proprio di ogni individuo e della specie a cui appartiene. Questo codice decide del modo come deve essere scelta e ordinata la serie degli amminoacidi dell’ambiente esterno nel processo di costruzione dell’organismo (morfogenesi) di modo che in questo si formi quella pluriforme “disponibilità” che gli consente di agire e di reagire all’ambiente in modo da conservare la propria vita e quella della specie a cui appartiene. In ogni individuo in conclusione è conservata la storia dello sviluppo delle specie da cui deriva trasformata nelle possibilità di interagire con l’ambiente esterno. In certo senso tutto il suo passato si trasforma nel futuro dei suoi riconoscimenti, delle sue scelte, delle sue attività. Se il risultato di una linea evolutiva è una specie composta di individui dotati di mani, le “disponibilità” costitutive della vita di questi individui saranno diverse da quelle delle specie composte di individui dotati di zampe, e queste molto diverse da quelle che senza zampe si muovono solo strisciando, o nuotando nell’acqua, o volando nell’aria. Sarebbe falso, o almeno unilaterale pensare che queste diverse strutture anatomico-morfologiche siano la causa delle funzioni che rendono possibili, e altrettanto falso che queste funzioni siano la causa finale di quelle strutture. I due aspetti concrescono insieme e la loro realtà è il vivente dotato di quelle strutture e funzioni. Le gambe non sono fatte per camminare, né le ali per volare, ma un vivente che cammina ha le gambe e un vivente che vola ha le ali. Ogni organo è organo di una funzione e non per una funzione; e ogni funzione è funzione di un organo e non funzione causata dall’organo. La visione teleologica della vita criticata dalla scienza, e anche da molta filosofia (si ricordino tra gli altri Spinoza, Voltaire) non va eliminato a vantaggio della visione meccanicistica, ma ambedue vanno superate nella visione realistica del vivente considerato nella unità della sua simultanea complementarità di aspetti. La biologia ha svelato molto delle strutture che presiedono a queste svariate funzioni. Molti dei meccanismi che operano nell’universale produzione delle variazioni emergenti negli organismi degli individui viventi, soprattutto di quelle destinate a ripresentarsi nelle generazioni successive (mutazioni) nell’indefessa opera di selezione che l’ambiente esterno opera su questi viventi mutanti, sono
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oggi in buona parte conosciuti, ma si tratta sempre di descrizioni di processi e strutture che non riescono a cogliere il senso e l’origine remota da cui provengono4. Essenziale è a questo proposito l’evidente constatazione che il riconoscimento degli oggetti dell’ambiente di ogni vivente ossia delle differenze in cui in definitiva l’ambiente consiste, non è mai completo, perché la maggior parte di queste differenze e quindi di quei possibili oggetti restano fuori del riconoscimento. Nasce allora quella dialettica tra cosmo e metacosmo, tra ambiente interno ed esterno di cui abbiamo poc’anzi parlato. In questa dialettica vitale i due casi più importanti che possono verificarsi sono la prevalenza dell’ambiente interno sull’ambiente esterno, o la prevalenza di quest’ultimo sul primo. Il primo caso è quello che in biologia si chiama “adattamento” all’ambiente, il secondo è il “disadattamento”: in questo diverso gioco tra i due tipi di ambiente agisce la “selezione”. La quale in verità da un punto di vista semplicemente biologico è attribuita all’ambiente esterno, ma da un punto di vista più vasto a cui abbiamo cercato di collocarci, dipende anche nello stesso tempo dall’azione dell’ambiente interno su quello esterno. Lo stesso fenomeno della “mutazione”, che determina una nuova disposizione ereditaria dell’organismo e avviene quindi nella parte più intima dell’ambiente interno, nel suo codice genetico, non è causata dall’ambiente esterno del vivente, perché questo riesce solo a produrre variazioni acquisite, superficiali, ossia non ereditarie, come enuncia il cosiddetto “dogma centrale della genetica” 5. Questo importante dogma tuttavia va rettamente capito. Certo le variazioni che un organismo acquista dall’ambiente esterno non sono “ereditarie”, si dicono appunto “acquisite”, e quindi si è dimostrato falso il punto di vista di Lamarck e della classica scuola genetica russa capitanata da Lisenko. Sono le variazioni nel DNA del codice genetico a determinare le variazioni nella composizione degli amminoacidi che formano l’organismo e non viceversa, ma queste mutazioni del codice ge4
Cfr. il mio libro L’uomo all’inseguimento dell’universo (La Scuola, Brescia 1984), in cui i fattori dell’evoluzione biologica sono trattati anche da un punto di vista epistemologico. 5 In altre parole nella morfogenesi si va sempre dal DNA del nucleo della cellula al RNA, e da questo alle sostanze proteiche di cui sono formati gli organi e i tessuti, e mai viceversa.
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netico non possono non avere una causa che non può non derivare in qualche modo dall’ambiente esterno di quell’organismo, tant’è vero che effettivamente opportune radiazioni riescono a produrre parecchie di queste mutazioni. Non saranno in altre parole le variazioni che si producono nell’organismo visibile a modificare il suo codice genetico ma certamente le azioni di elementi che agiscono dal di fuori dell’organismo e del suo specifico ambiente, ossia nell’ambiente precisamente ad esso esterno, ossia nel suo metacosmo. Il gioco delle prevalenze nella vicendevole azione dei due ambienti in cui consiste la vita ha sempre variato in un verso o nell’altro portando o a un maggiore adattamento all’ambiente o al degrado e infine all’eliminazione di organismi e di specie. Ma alcuni dati in questo gioco sono certi. Primo: sebbene in questa corsa, in questo ininterrotto flusso della storia della vita, molte specie spariscano, si è verificato che se ne sono formate anche sempre delle altre meglio adattate delle precedenti al loro ambiente esterno. Secondo: tutti gli organismi presi uno a uno scompaiono. Terzo: tra questo multiforme apparire di nuove specie è apparsa anche la specie che possiede la coscienza di quanto è avvenuto nella storia degli esseri viventi, in particolare della loro capacità di riconoscimento, della loro coscienza, la specie cioè dotata di una coscienza alla seconda potenza, ossia di una autocoscienza. Per quanto riguarda il primo punto, non crediamo che si possa dimostrare che tutto il susseguirsi delle specie viventi abbia avuto come scopo l’apparire della specie dotata di una coscienza alla seconda potenza, di un’autocoscienza, ossia, come ci siamo sempre espressi, di una coscienza consapevole, come viene sostenuto da varie teorie dell’evoluzione, tra cui quelle famose di Lecomte du Noüy, e di Teilhard de Chardin. È difficile dimostrare che uno “scopo” abbia agito, e descrivere come effettivamente abbia agito nello sterminato susseguirsi delle specie dei viventi. Si può dire però qualcosa di più certo: ossia che esistono delle specie che vivono in un contatto più ampio e più intimo con un ambiente esterno più vasto in base a una più complicata organizzazione del loro ambiente interno. Nessuno ardirà negare che un mammifero, come un leone o uno scimpanzé, è a contatto e in relazione con un ambiente più vasto di quanto non lo sia una pianta di prezzemolo o un virus con il loro ambiente. E nessuno potrà negare che vi è una specie la quale, oltre ad essere aperta a un ambiente enormemente
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vasto, ossia ad avere la capacità del riconoscimento di un’enorme quantità di oggetti ignorati dalle altre specie è in possesso anche del riconoscimento dell’esistenza degli altri riconoscimenti ossia degli altri esseri viventi, e quindi anche della possibilità di ammaestrarli, addestrarli, manipolarli. Per quanto riguarda il secondo punto abbiamo già esaminato il terribile fenomeno della morte. Ogni metacosmo si muove aldilà del cosmo in cui vive non solo un singolo vivente, ma la specie e ogni vivente in assoluto. Ha le sue leggi che non coincidono con quelle incompiute, fratturate, ipotizzate che sono proprie del cosmo corrispondente. È fatale che questa differenza poco alla volta si trasformi in un contrasto sempre più aperto tra questi due costituenti dello stesso essere vivente. In un primo tempo le disponibilità e le energie accumulate dopo miliardi di anni di evoluzione prevalgono su quelle esteriori, le quali anzi sembrano addirittura piegarsi alle esigenze di quelle interiori in formazione. Ma poco alla volta queste avvertono la fatica della lotta contro un nemico ben più forte e resistente, e all’evoluzione succede allora l’involuzione, prima lenta, subdola, inavvertita, ma poi sempre più marcata e violenta: ogni cosmo viene distrutto dal corrispondente metacosmo, ogni ambiente interno viene invaso da quello esterno e scompare, e con esso la distruzione di quella porzione di metacosmo che era l’ambiente esterno del vivente. L’individualità del vivente scompare così con tutti gli oggetti del suo cosmo tramontato. Il suo cosmo e il suo metacosmo non erano consaputi, non erano cioè mediante questa consapevolezza ancorati all’essere in quanto tale. Avevano dell’essere appunto solo l’essere effimero vissuto nei brevi istanti distaccati della loro esistenza. Ma il destino di quell’essere vivente che è consapevolmente ancorato all’essere intramontabile è diverso. È il terzo punto. Di esso abbiamo già precedentemente trattato considerandolo in se stesso, ma ora lo dovremo toccare nel suo rapporto con il vivente esclusivamente biologico, ossia inconsapevole. Ogni ambiente esterno di qualunque vivente inconsapevole si prolunga a tutto l’universo fisico di cui il vivente stesso, in quanto inconsapevole, non ha alcuna percezione. Chiariamo con un esempio. Un’escherichia coli, bacillo del colon, ha come ambiente esterno in cui vive una porzione infinitesima dell’intestino di un organismo; questo intestino tuttavia a sua volta è contenuto dentro l’ambiente di tutto
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l’organismo da cui dipende; e questo a sua volta è contenuto dentro l’ambiente esterno della regione in cui vive e da cui dipende, regione che è dentro l’ambiente più vasto di una nazione, poi di un continente, della Terra, del sistema solare, della Via Lattea, e così via fino a quella totalità fisica che chiamiamo Universo, sempre ognuno dipendente dagli altri. Da qualunque ambiente interno si parta, da qualunque batterio, formica, rettile, mammifero, si arriva sempre alla stessa totalità dell’universo fisico, che si configura allora come l’ambiente esterno a tutti gli ambienti interni reali o possibili. Lo stesso organismo fisico del vivente consapevole, ossia del vivente che si accorge di questo ambiente di tutti gli ambienti, si trova nella stessa situazione. È una situazione assolutamente nuova che impone un’interpretazione “globale” dell’essere vivente, ossia dell’universale rapporto tra ambiente interno e ambiente esterno che lo costituisce. Ogni rapporto tra ambiente interno e ambiente esterno, che è quanto dire ogni vivente, è possibile solo dentro il rapporto con l’universale ambiente esterno che è l’universo, il cui corrispondente ambiente interno è il suo riconoscimento effettivamente presente nel vivente consapevole, del quale è anzi il costitutivo essenziale. Solo questo infatti ne ha coscienza; solo davanti a lui esso appare come ambiente esterno. Il limite di ogni considerazione scientifica è di supporre, con un tipico atteggiamento ingenuo implicito nell’impostazione dello scienziato come tale, l’ambiente esterno che egli ha davanti come un ambiente esterno privo del corrispondente ambiente interno, ossia privo di un soggetto davanti al quale esso sta, e senza del quale non potrebbe es6 Come esempio tipico di tale atteggiamento può essere considerata l’obiezione che F.H.C. Crick, lo scopritore del DNA, muove a un ipotetico vitalista che si trovasse davanti a un meccanicista al quale fosse riuscito di formare un essere vivente dalla materia “inanimata”. Neppure allora dice Crick, il vitalista si arrenderebbe, direbbe “che tale sistema da noi prodotto è stato ‘colonizzato’ dalla forza vitale, la quale si è fatta poi guida delle funzioni del sistema” (Of Molecules and Man. The Nature of Vitalism, Univ. of Washington Press, Seattle 1966. La citazione è dalla tr. ted. nell’Antologia, Leben = Physik + Chemie?, Piper, München 1984, p. 136). Ma ad essa si contrappone la considerazione della scienza diventata consapevole del suo limite intrinseco, ossia della fisica quantistica diventata filosofica. W. Heisenberg, ad esempio, sulla scia di Niels Bohr, scrive: “i concetti biologici sono del tutto indipendenti [da quelli della fisico-chimica], sono formati da noi anche perché noi viviamo, e per la delimitazione dei due ambiti di connessione sono necessari concetti ben più numerosi di quello solo di selezione” (Das Organische Leben, in Gesammelte Werke, I, Piper, München 1984, p. 267.
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sere6. Il che è evidentemente un assurdo. Questo pseudo-ambiente esterno senza il corrispondente ambiente interno consiste solo nella incomprensione, ossia nel “non riconoscere” i nessi esistenti tra gli elementi dell’ambiente esterno: questa sì che è per definizione fuori di ogni ambiente interno. Un sasso è senza ambiente esterno e ambiente interno rispetto a ogni altro sasso e a ogni altro oggetto fisico, ma appartiene all’ambiente esterno di qualche vivente, e in quanto percepito, all’ambiente interno di qualche vivente: senza questa appartenenza non sarebbe nulla. Anche il vivente consapevole però, qualunque esso sia, non riesce a “riconoscere” in pieno il contenuto del suo ambiente esterno universale in cui stanno tutti i contenuti esterni dei viventi, compreso quello in cui egli stesso è collocato. Ma dell’unicità di questo ambiente esterno universale egli non può avere alcun dubbio. Vi è un solo universo appunto perché è l’universo. Solo per questa sua identica unicità tutti i viventi hanno un’identica struttura essenziale e possono interferire tra di loro, pur tra di loro differenziandosi. Di tutti i viventi quell’unicità dell’ambiente esterno universale (l’essere) è la fondamentale condizione di esistenza. In conclusione, l’enorme moltitudine dei circoli vitali in cui si esprime la vita di tutti i viventi è resa possibile ed è effettivamente sostenuta dall’universale circolo vitale dell’essere che si manifesta nel vivente consapevole pur senza identificarsi con lui.
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Il ritorno dell’essere
Capitolo nono
L’INTERPRETAZIONE SCIENTIFICA DELLA VITA BIOLOGICA: MECCANICISMO-VITALISMO UN CONTRASTO INSANABILE
La storia dei due tipi antitetici di spiegazione scientifica della vita biologica, incominciata ancora nell’antichità e continuata attraverso i secoli, continua ancor oggi con la stessa intensità e virulenza, e continuerà anche in avvenire senza poter arrivare, come ci accingiamo a dimostrare, a una valida soluzione. I due tipi di spiegazione sono riassunti nei termini con cui vengono chiamati: meccanicismo e vitalismo. Il fatto stesso che sono antitetici e quindi tra di loro incompatibili, e tuttavia che persistono con la stessa forza, dimostra già che nessuno dei due possiede un’autentica definitiva validità, anche se all’indagine sulla vita portano indubbiamente dei chiarimenti per il fatto stesso che controllandosi a vicenda e quindi affinandosi sempre più nella polemica riescono a mettere sempre più in evidenza aspetti reali della vita che diversamente rimarrebbero nel nascondimento. Si è incominciato con il tentativo di Democrito e della sua Scuola di ridurre la vita a esclusivi rapporti spazio-temporali tra atomi considerati come gli elementi ultimi di tutta la realtà. In contrapposizione Aristotele e la sua Scuola hanno messo in evidenza che la vita è contrassegnata da un movimento immanente all’organismo vivente stesso, ossia non ricevuto passivamente da forze esteriori. D’allora la schiera dei meccanicisti è andata sempre più infittendosi, soprattutto quando la scienza moderna iniziata da Galileo e codificata da Newton ha fornito principi e metodi di una precisione ignota ai secoli precedenti. La descrizione del corpo umano e Le passioni dell’anima di Cartesio (1649); il De motu cordis (1628) di William Harvey, la Zootomia democritea (1645) di Marco Aurelio Se-
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verino, il De motu animalium (1680) di Alfonso Borelli; L’uomo-macchina (1748) di de la Mettrie sono solo alcune tappe importanti di questo indirizzo. Ma altre opere, altrettanto famose, hanno segnato il cammino del vitalismo. Nella Theoria medica vera (Halle 1707) G.E. Stahl attribuisce a una “forza vitale”, irriducibile alle forze fisico-chimiche, i fenomeni biologici. Nella Évolution créatrice (Parigi 1907) H. Bergson spiega che la vita è “slancio vitale semplice” che si insedia nella materia complessa dalla quale viene talvolta frenato nella sua corsa, altre volte favorito, così da diramarsi nelle linee divergenti dell’evoluzione, ma rimanendo ad essa sostanzialmente estranea. Nella Einleitung in die theoretische Biologie (Berlino 1901), e in altre opere Johannes Reinke spiega la sua “teoria delle dominanti”: forze formatrici e ordinatrici dell’organismo, immanenti all’organismo stesso, “superiori” quindi a quelle puramente fisiche che regolano i corpi inorganici. In Der Vitalismus als Geschichte und als Lehre (Lipsia 1905) e in altre opere H. Driesch spiega che la vita è dovuta a un fattore extraspaziale e superindividuale, “interno e immanente [...] espressione complessiva [...] di armonia, particolare potenza prospettica, carattere specifico di sviluppo e funzionalità dei tessuti” 1, irriducibile quindi alla “categoria delle varietà fisiche e chimiche”, “non estensiva [...] principio assolutamente nuovo” 2, “quindi reale (dinghaft), per la verità non intuibile” 3, che opera nei sistemi viventi con una “causalità fatta di totalità” (Ganzheits Kausalität) che li organizza secondo fini e li fa passare a gradi superiori senza intervento di azioni esteriori. Era ragionevole supporre che gli enormi progressi compiuti dalla scienza in questi ultimi anni, in particolare la “fisica quantistica” da una parte e la biologia molecolare” dall’altra, avrebbero consentito di dirimere finalmente e definitivamente questo secolare contrasto. Così avevano pensato parecchi scienziati e filosofi. Il contrasto si è invece ulteriormente accentuato e inasprito: gli scienziati e i filosofi di orientamento meccanicistico non hanno potuto ridurre con le loro nuove teorie certe proprietà degli esseri viventi messe in rilievo dai vitalisti, alle proprietà che sono tipiche degli esseri non viventi spiegate dalla loro scienza fisica e chimica; 1
Tr. it. Sandron, Milano 1912, p. 299. Ibid., p. 303. 3 Kant-Studien XVI (1911), 49. 2
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e d’altra parte i vitalisti a queste proprietà irriducibili non hanno potuto dare con le loro nuove conoscenze alcuna spiegazione autenticamente scientifica. Consideriamoli più in dettaglio4. La fisica quantistica insegna sostanzialmente che nell’analisi di qualunque tipo di materia, che va dai corpi macroscopici dell’esperienza ordinaria, alle loro molecole, agli atomi, ai nuclei degli atomi, agli elettroni..., si arriva a elementi che non possono essere individuati completamente: per individuarli infatti bisognerebbe immaginare prima come sono fatti attraverso modelli non percepibili dal momento che i sensi e gli strumenti non li raggiungono, e poi sottoporre questi modelli a controlli per sperimentare se effettivamente, realmente sono fatti come si era supposto. Ma per controllarli bisogna adoperare strumenti che quando li raggiungono anche inevitabilmente li modificano nell’atto di raggiungerli, per cui non si può mai sapere come sono in se stessi. Tanto è vero che per spiegare e prevedere il loro comportamento visibile e sperimentabile sono necessari due modelli: quello “corpuscolare”, che li interpreta come corpi, e quello “ondulatorio”, che li interpreta come piccolissime onde: modelli che sono nello stesso tempo necessari e tra di loro incompatibili. La conclusione è che la più intima sostanza della realtà fisica, quella studiata dalla fisica e dalla chimica, è indeterminata. Heisenberg, sulla scia di Planck, fondatore della meccanica quantistica, e di Bohr, suo codificatore e interprete, ha trovato le formule matematiche dell’indeterminazione di questi ultimi elementi. Se si calcola con precisione la loro posizione non si può sapere con precisione il loro stato: la loro velocità, orientamento, energia; se si calcola con una certa precisione il loro stato, non si può sapere con precisione dove si trovano. Questi due aspetti necessari per individuare l’elemento sono dunque complementari: quando si determina l’uno resta indeterminato l’altro5. Risultava allora chiaro, e lo si vide subito, che la fisica classica, basata sull’assoluta determinazione (si ricordi la celebre ipotesi di 4 Ho trattato anche altrove questo argomento: “La natura della vita. Una indagine filosofica”, Giornale di metafisica XIV (1992), pp. 277-330. 5 A dire il vero il termine “complementare” non è appropriato se si riferisce all’inevitabile indeterminatezza dell’uno o dell’altro elemento. Va riferito invece alla necessità dell’uno e dell’altro perché indeterminato è l’oggetto che si vuole individuare, ossia l’ultimo elemento fisico della realtà fisica.
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Laplace) era invece in se stessa intrinsecamente indeterminata, e quindi sbagliava nella sua pretesa di capire a fondo la realtà fisica. Vi è dunque uno spazio, aldilà di quello determinabile dalle leggi fisiche, che sfugge ad esse in linea di principio e non solo in linea di fatto, e questo spazio è dovuto all’interferenza del soggetto (i sensi, gli apparecchi di misura, di osservazione e di sperimentazione) sull’oggetto da studiare. Un’assoluta oggettività è impossibile, non ha senso. La profonda complementarità dunque, ha continuato a insistere Niels Bohr, che sta alla base di quella tra “posizione” e “stato”, tra “particella” e “onda” è quella tra “soggetto” e “oggetto”. È proprio in questo spazio profondo, segnato dall’indeterminazione empirica, che è possibile immaginare la radice di quei fenomeni della vita che sfuggono alla fisica stessa. Sentiamo Niels Bohr: L’incompletezza dell’analisi meccanica dei fenomeni atomici proviene in ultima analisi dall’ignoranza della reazione dell’oggetto sugli strumenti, presente in ogni procedimento di misurazione. Come il concetto generale di relatività esprime la dipendenza essenziale di ogni fenomeno dal sistema di riferimento spazio-temporale adottato, così la nozione di complementarità posizione-velocità, corpuscolo-onda simbolizza una limitazione fondamentale, rivelata dalla fisica atomica, dell’esistenza oggettiva, e indipendente dagli strumenti impiegati per la loro osservazione, dei fenomeni fisici6.
E per quanto riguarda lo spazio d’indeterminatezza presente nelle strutture empiriche, visibili, dell’organismo, egli pensa che in esso può essere nascosto il segreto della vita: In ogni esperimento eseguito su degli organismi viventi va lasciata una certa indeterminatezza alle condizioni fisiche cui quegli esperimenti sono sottoposti, e tutto induce a ritenere che la libertà minima che si è venuti a concedere all’organismo sia in ogni caso sufficiente a permettergli di nasconderci, per così dire, il suo segreto...7.
W. Heisenberg riscontra un progresso nelle ultime spiegazioni dei vitalisti, soprattutto di H. Driesch perché si sarebbero accorti che fermandosi al loro tradizionale concetto di “forza viva” (Le6 “Licht und Leben”, Naturwissenschaften 21 (1933); tr. it. in N. Bohr, Teoria dell’atomo e conoscenza umana, Boringhieri, Torino 1961, pp. 380-381. 7 “Licht und Leben”, cit., p. 381.
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benskraft), “aggiunta” a quelle semplicemente fisico-chimiche, sarebbero rimasti ancora nell’ambito delle forze fisico-chimiche, e quindi sono arrivati a un altro tipo di spiegazione, quello delle “connessioni sovraordinate” (übergeordnete Zusammenhänge) che fanno del vivente una “totalità”, una “entelechia” (Entelechia oder Ganzheit), irriducibile alle forze fisico-chimiche perché “il tutto è più della somma delle sue parti” 8. Trattandosi di “superiori connessioni”, qualitativamente diverse da quelle rappresentate dalle forze fisico-chimiche, da considerarsi concretamente come una “guida” dei processi fisico-chimici allo stesso modo di un ingegnere che dirige una macchina, questo vitalismo si ritiene in grado di superare le difficoltà dei meccanicisti e dei materialisti. Per Heisenberg tuttavia il paragone non regge perché l’ingegnere ha anch’egli un corpo fatto di materia, ed è l’insieme macchina-corpo che entra in funzione, per cui anche all’entelechia si dovrebbe attribuire una natura fisica, contro l’intendimento del vitalismo. Dovrebbero allora paragonare “la guida” allo “spirito” dell’ingegnere, ma si entra allora in un problema ancora più difficile: quello del rapporto spirito-corpo9. Heisenberg suppone qui senza dimostrarlo che gli unici livelli della realtà siano quelli di spirito e corpo inanimato, mentre vi è anche appunto quello della realtà del corpo vivente. Una cosa comunque è certa per Heisenberg: se un organismo lo si interpreta come un sistema puramente materiale (ein rein materielles Gebilde) di cui è completamente noto lo stato quantomeccanico degli atomi di cui è composto, allora non c’è più spazio per queste leggi biologiche “sovraordinate”. Ma allora non si raggiunge ciò che è caratteristico della vita. Per raggiungerlo si potrebbe pensare di rivolgersi al fattore storico connesso con la vita, in particolare alla selezione naturale. Si arriva allora all’apparizione della “coscienza” (Bewusstsein) che non è riducibile a concetti fisico-chimici. E allora il discorso si può allargare: appare del tutto naturale supporre che anche i concetti biologici e fisiologici più semplici, in particolare quello di “vita” si contrappongano ai concetti fisico-chimici come qualcosa di estraneo e di nuovo (als etwas Fremdes, Neues) [...] i concetti biologici sono del 8
Das organische Leben, dal manoscritto del 1942 Ordnung der Wirklichkeit, Gesammelte Werke, I, Piper, München 1984, pp. 259-273. Citeremo dall’antologia Leben = Physik + Chemie?, Piper, München 1987, p. 52. 9 Ibid., p. 55.
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tutto indipendenti, sono formati da noi anche perché noi viviamo, e per la delimitazione dei due ambiti di connessione sono necessari concetti ben più numerosi di quello di selezione10.
Heisenberg ritiene che questa impostazione derivi dalla sostanza della meccanica quantistica come viene interpretata da Bohr e dalla Scuola di Copenhagen: La novità nella situazione conoscitiva della teoria quantistica è consistita nello stabilire che noi possiamo solo osservare ciò che non si può realmente staccare da noi, cosicché il concetto di “osservazione oggettiva” in certo senso è in se stesso contraddittorio11.
Pertanto le leggi biologiche rappresentano un coordinamento a parte che non può assolutamente venire immediatamente unito sul piano degli oggettivi processi spazio-temporali con le leggi fisicochimiche. Il compito della biologia di chiarire la connessione delle leggi biologiche con il comportamento fisico della materia (in particolare della materia atomica) lo si dovrà dunque portar fuori dal piano dei processi spazio-temporali, così come avviene nella teoria quantistica. Solo in tal modo si potrà raggiungere il panorama di un campo di realtà immediatamente superiore (den nächsthöheren Bereich der Wirklichkeit) che contiene anche la vita. Questo campo potrà essere chiamato biologico, sebbene la biologia rappresenti solo una proiezione di questo campo sul piano dei processi oggettivi12.
W. Heisenberg ha centrato bene l’ambito in cui risiede la vita, anche se poi non l’ha saputa individuare con sufficiente precisione, indicandoci in particolare in che rapporto stiano i concetti di questo campo biologico con quelli dell’inferiore campo fisico, e soprattutto con quelli del superiore campo della “coscienza” umana, ossia come “i concetti biologici – come egli si esprime – siano formati da noi perché noi stessi viviamo”. Erwin Schrödinger, l’altro grande fondatore della fisica quantistica, ha affrontato il nostro problema distinguendo “l’ordine che viene dal disordine”, ed è quello della materia inanimata, da “l’ordine che viene dall’ordine, che è tipico degli esseri viventi13. Il 10
Gesammelte Werke, cit., p. 267. Ibid., p. 270. 12 Leben = Physik + Chemie?, cit., p. 59. 13 What is Life?, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1944; tr. it. Sansoni, Firenze 1947, p. 113. 11
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primo tipo di ordine è riscontrabile nei corpi macroscopici dell’esperienza ordinaria e della fisica classica. Questi corpi risultano da una moltitudine sterminata di elementi microscopici agitati da movimenti disordinati che però “nella media” danno un risultato costante e quindi sottoponibile a leggi che si credevano deterministiche e invece sono statistiche. L’insieme dei movimenti elementari di base tendono però spontaneamente al disordine, secondo un processo che è stato chiamato “entropia”, esattamente calcolabile per ogni evento fisico. Ma negli esseri viventi si assiste a un processo inverso: la materia inanimata raccolta e assimilata come cibo da questi esseri viventi viene da essi organizzata in organi e tessuti funzionanti, e diventa così organismo sempre più sviluppato e complicato nelle sue strutture e funzioni coordinate. Nel tentativo di chiarire questa diversità e quindi la natura della vita egli si richiama a un celebre saggio di Max Planck: Leggi dinamiche e leggi statistiche in cui veniva spiegato che le leggi “statistiche” regolatrici dei corpi macroscopici derivano dalle leggi “dinamiche” regolatrici degli elementi microscopici, i quali in se stessi sono certi, precisi come i movimenti dei pianeti14. In linea teorica può darsi il caso che possano valere le leggi dinamiche precise invece di quelle imprecise statistiche anche nel mondo macroscopico, sia pure con una probabilità estremamente bassa, come quando si verificano condizioni particolarmente rare, ad esempio un avvicinamento allo zero assoluto (teorema di Walter Nernst, chiamato anche “terzo principio della termodinamica”), in cui “il disordine molecolare cessa di avere una qualche influenza sugli eventi fisici” 15. L’organismo vivente deve essere in analoghe situazioni favorevoli, come un orologio assolutamente perfetto, anche se si deve dire che si è davanti a un caso “del tutto nuovo e senza precedenti” 16, comprensibile solo pensando che allora “ogni singolo ingranaggio non è ovviamente opera umana, ma il più bel capolavoro mai compiuto da Dio, secondo le linee della meccanica quantistica” 17. Non è difficile accorgersi che così si è aldilà della meccanica quantistica. Egli si rifugia in sostanza nella supposizione che nei 14
Ibid., Ibid., 16 Ibid., 17 Ibid., 15
p. p. p. p.
114. 117. 107. 110.
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processi atomici valgano quelle leggi “dinamiche” precise, prima supposte dalla meccanica classica, ma poi confutate proprio da quella meccanica quantistica che egli invoca. Si sa che anche dopo di lui, per non doversi adattare alla costitutiva indeterminatezza di tutti i processi fisici (ossia in termini filosofici alla loro contingenza) che è la sostanza della meccanica quantistica si è ricorsi a delle “variabili nascoste” che dal loro nascondimento determinerebbero, senza poterli raggiungere, i fenomeni fisici apparentemente statistici. Ma il grosso guaio è che essendo e rimanendo “nascoste”, in modo da non poterle controllare con nessun esperimento diretto o indiretto, sono fuori della realtà studiata dalle scienze reali, le quali, come sappiamo dopo Galilei, sono tali in quanto sono sperimentali, ossia sottoponibili all’esperimento. Vi è sì un ordine che sta alla base della vita e che anzi la costituisce: è l’ordine della individuazione di un oggetto distinguendolo da tutti gli altri e collocandolo quindi al posto che gli spetta rispetto a tutti gli altri, ma è un ordine ben diverso da quello possibile negli eventi spazio-temporali studiati dalla scienza. Un altro rappresentante insigne della nuova fisica quantistica è C.F. von Weizsächer, discepolo di Heisenberg. Si domanda se l’indeterminatezza quantomeccanica abbia ristabilito il concetto di fine. Ci potrebbero essere delle “forze che nei singoli atomi sviluppano solo effetti inosservabili, ma tali da condizionare effetti decisivi in grandi corpi come cellule e organismi viventi” 18. Certo, “fisici leader dei nostri tempi, come Bohr, Heisenberg, Pauli e altri hanno progettato proprio questa spiegazione fisico-chimica”. Egli però non l’accetta perché è ancora una “spiegazione fisico-chimica”. Effettivamente, quello che sta aldilà dell’osservabile e del calcolabile, appunto lo spazio d’indeterminatezza che sfugge al calcolo, non può essere concepito e trattato come ciò che sta nel campo del calcolabile. Egli punta pertanto sulla “coscienza” dei significati che sono interni alle situazioni spazio-temporali studiati dalla scienza. Quando si parla si generano delle onde acustiche che portano con sé un “significato”. “Ma segue da ciò che le leggi dell’acustica debbano in qualche modo venir violate perché il suono possa portare con sé un significato? No, al contrario, direi che ci 18 Die Enwicklung des Lebens, dal vol. Die Tragweite der Wissenschaft, I, Hirzel Verlag, Suttgart 1964, 1976, pp. 135-153. Citiamo dall’antologia Leben..., cit., p. 114.
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deve essere un’udibile proprietà delle onde acustiche, un elemento di forma o di struttura, che porta il significato” 19. Questo significato è chiaro nell’uomo, ma non si può negare nelle macchine fatte dall’uomo. Come possiamo sapere che le macchine non possono avere coscienza?”. E gli esseri viventi non possono essere accostati in qualche modo alle macchine fatte dall’uomo? Von Weizsächer non crede impossibile che un giorno un uomo possa arrivare a fare un uomo, anche se forse occorrono quattro miliardi di anni di storia per arrivare a questo risultato20. Il tentativo di vedere un “significato” nell’attività dei viventi e perfino in quella delle macchine fabbricate dall’uomo, e quindi un fine e qualche traccia di coscienza è estremamente interessante, ma rimane in una tale indeterminatezza e confusione che tiene ancora ben lontana la soluzione del problema. Egli dichiara esplicitamente di non “voler deviare in ipotesi più o meno metafisiche” 21. Si rifiuta però di credere che le solite soluzioni fisico-chimiche, comprese quelle dei fisici quantistici siano valide. Dove egli allora collochi “il significato” è difficile capirlo. Pochi concetti sono così metafisici come quello di “significato”. I fondatori della chimica quantistica e della “biologia molecolare” sono più decisamente meccanicisti dei fondatori della fisica quantistica. L’argomento centrale di F. Crick, lo scopritore con J.D. Watson, del DNA, è sempre quello dell’impossibilità in cui si trovano i vitalisti con la loro proclamazione della necessità di una “forza speciale” (spezielle Kraft), che “guida” la crescita e il comportamento degli esseri viventi, irriducibile a quelle fisico-chimiche, di dirci “di che tipo di forza si debba trattare”. Si tratterà pur sempre di “una forza che deve poter essere descritta con i soliti concetti della chimica e della fisica” 22. Non si possono invocare “leggi aggiunte” a quelle fisico-chimiche senza imporsi insieme il difficile compito di chiarire che cosa siano, e di presentare qualche esempio concreto e preciso della loro presenza23. Data la frequenza con cui quest’argomento si presenta nei meccanicisti e la straordinaria importanza che vi annettono è forse 19
Ibid., p. 115. Ibid., p. 118. 21 Ibid., p. 42. 22 Die Natur des Vitalismus, nell’Antologia, cit., p. 129. 23 Ibid., p. 136. 20
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opportuno soffermarvisi un momento. Questi autori possono dimostrare che la spiegazione unicamente valida è quella fisico-chimica solo se sono in grado di dimostrare che tutte le altre non sono valide. Può darsi anzi che all’opposto proprio una spiegazione che sta oltre quella fisico-chimica sia in grado di rendere conto dei fenomeni, e quelle fisico-chimiche si riducano a essere solo descrizioni di ciò che segue a questa autentica spiegazione. È proprio il caso della vita, come abbiamo visto nel numero precedente. Nel suo nucleo centrale la vita è la capacità di riconoscere, individuare, distinguere (sono verbi sinonimi nel nostro caso) un oggetto presente da altri presenti o assenti. Non è certo questa una forza fisicochimica ma qualcosa di ancor più primitivo e fondamentale. E “l’esempio concreto”? È la differenza osservabile dell’antilope davanti al leone e davanti a un’altra antilope. Questa differenza non è riducibile alle leggi del movimento spazio-temporale dell’antilope; va ricercata proprio nella capacità insita nell’antilope di distinguere il leone da un’altra antilope Questa radicale debolezza della spiegazione meccanicistica di Crick indebolisce logicamente tutte le altre critiche che rivolge ai vitalisti. Vediamone alcune. Egli concede al vitalista W. Elsasser che nell’analisi delle grosse molecole costitutive degli esseri viventi il calcolo delle parti che le costituiscono “è praticamente irraggiungibile” 24, e che se si procede in quest’analisi fino ad avvicinarsi agli ultimi costitutivi si finisce per distruggere la vita, invece che rivelarla, come aveva messo ben in chiaro N. Bohr. Quindi occorre anche per lui “ricorrere poi anche allo studio della cellula intatta” con un metodo dunque sintetico oltre che analitico. Ma tutto questo può essere fatto all’interno del meccanicismo: “L’ultimo scopo del moderno movimento in biologia è effettivamente la spiegazione della biologia presa nella sua totalità (gesammte Biologie) sulla base della fisica e della chimica” 25. Sia “la selezione naturale” di C. Darwin e di A.R. Wallace che il funzionamento del “codice genetico” sono procedimenti di “automatico meccanicismo”. Anche le “mutazioni” che sono un fattore necessario del processo evolutivo, sono dovute a “errori di copiatura” (Kopierfehler) del DNA in cui a una delle quattro basi che la costituiscono se ne sostituisce 24 Of Molecules and Man. The Nature of Vitalism, Univ. of Washington Press, Seattle 1966; tr. ted. Goldmann Verlag, München 1970, p. 126. 25 Ibid., p. 125.
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un’altra. Si dovrà ricorrere dunque al concetto di “totalità” (Ganzheit), come continuano a ripetere i vitalisti Polanyi, Elsasser, Heitler, anzi a “una gerarchia di totalità”, ognuna delle quali è “più della semplice somma delle parti”, ma per questo non occorre uscire dall’ambito della scienza, perché anche in chimica, ad esempio, una molecola di benzolo è più della semplice somma aritmetica dei sei atomi di carbonio e di sei atomi di idrogeno” 26. Il “di più” è dovuto all’applicazione delle strutture della meccanica quantistica e dei metodi che le sono propri. Ma proprio qui, in queste considerazioni, Crick mostra l’insufficienza del suo meccanicismo: proprio la meccanica quantistica, a cui fa appello, dimostra l’impossibilità di una definitiva analisi coerente di ogni sistema fisico-chimico, perché questa approda, come si è visto, a grandezze che sono necessarie ma incompatibili, e in ogni modo a risultati che sono sempre di carattere statistico. E allora vi è uno spazio inaccessibile alle strutture fisico-chimiche in cui si verificano collegamenti d’altro genere che si manifestano poi nel comportamento tipico del vivente preso nella sua totalità. Le sintesi, in altre parole, che si possono fare rimanendo nel campo della scienza sono relative alle analisi che essa può fare, ma queste analisi sono parziali e quindi parziali sono le sue sintesi, e quindi le totalità che in essa si possono esprimere. Una conseguenza importante di questa critica situazione è che le tre questioni dalla cui soluzione secondo Crick dipende la soluzione del problema della conoscenza della vita non possono trovare questa loro soluzione rimanendo nell’ambito della scienza. Sono: 1° qual è la linea di confine tra vivente e non vivente; 2° quale è stata l’origine della vita; 3° qual è la definizione esatta della “coscienza”, e quindi quale sia “l’esatto comportamento del cervello e la spiegazione dei nostri soggettivi sentimenti ed emozioni sulla base di questo comportamento” 27. Anche lui, Crick, naturalmente tenta di risolvere le tre questioni, ma le sue soluzioni sono deludenti, e in definitiva, per sua stessa confessione, non ci sono. Nel suo più recente libro La vita in se stessa – La sua origine e la sua natura, dopo aver espresso dubbi sulla teoria del big-bang28, dichiara 26
Ibid., p. 128. Ibid., p. 130. 28 Live itself. Its Origin and Nature, New York 1981. Citazioni dalla antologia Leben..., cit., p. 28. 27
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che quando circa quattro miliardi di anni fa hanno presumibilmente avuto origine le prime forme di vita in organismi verisimilmente monocellulari, le condizioni della Terra, soprattutto l’altissima temperatura, hanno reso impossibile la formazione e la conservazione di “fossili molecolari”, per cui non è possibile conoscere la forma, lo stato in cui allora si trovava la vita 29. E in seguito le condizioni attraverso cui è passata la Terra hanno reso talmente “inverosimile” la formazione delle complicatissime strutture molecolari da cui deriva la formazione delle sostanze proteiche costitutive degli organismi e della loro trasmissione, da suggerire che i primi organismi siano arrivati sulla Terra da altri pianeti: teoria della “panispernia”, che non può tuttavia ancora essere considerata scientifica30, e in ogni caso rimanda il problema senza risolverlo. L’ampia descrizione (capp. 3, 4 e 5) della struttura del codice genetico, delle “informazioni” secondo cui attraverso le operazioni di duplicazione, trascrizione, traduzione, vengono costruite e organizzate le proteine in modo da formare gli organi e i tessuti degli esseri viventi, e quindi le caratteristiche di cui sono dotati e che Crick riduce alla “riproduzione” e alla “variazione” (mutazione), dovute, secondo lui, al caso e alla selezione naturale, per quanto interessante non risolve il problema di fondo dove sia la linea di confine tra vivente e non vivente. Egli stesso confessa che lasciano ben difficile “definire la vita nell’unità dei suoi nessi” (bündig). Non si può ridurre la distinzione tra ciò che è vivo e ciò che non lo è al fatto che i viventi hanno una connessione con “il pensare e il sentire” a differenza dei corpi inanimati, perché le piante sono certo viventi, ma poche persone (eccetto i creduloni senza formazione scientifica) credono che le piante pensino e sentano, come possiamo farlo noi e gli animali” 31. Meglio allora rivolgersi ai “viventi più semplici”, alla cellula del batterio Escherichia coli, per esempio che egli prende in particolare considerazione. Considera la sua struttura elementare, le proprietà della sua membrana che permette l’interazione con l’ambiente in cui si trova 32, le reazioni 29
Ibid., p. 53. La stessa difficoltà aveva espresso nel vol. Of Molecules..., cit., p.
68. 30
Of Molecules..., cit., p. 182. Ibid., p. 51. 32 Ibid., pp. 38-39. 31
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chimiche che avvengono al suo interno in grazia degli “enzimi” che figurano da catalizzatori, ossia da coadiutori delle reazioni chimiche accelerandole con l’energia che desumono dall’ambiente esterno; la struttura delle molecole del DNA e del RNA che permettono di guidare e controllare la sintesi delle molecole di proteina33. Ma tutte queste belle descrizioni, che valgono anche per i virus, dichiarati “i più semplici viventi”, girano intorno al problema senza risolverlo: suppongono già la vita, di cui descrivono proprietà irriducibili a quelle della materia inanimata. Per questa riduzione si dovrebbe poter definire i termini che figurano in quelle descrizioni con i termini della fisica e della chimica, e inoltre dedurre logicamente le proprietà di queste descrizioni da quelle della fisica e della chimica dei corpi inanimati: cosa che né Crick né gli altri meccanicisti hanno finora potuto fare. Crick si ritiene “abbastanza sicuro che nei prossimi cinque o dieci anni si potrà costruire artificialmente un vero enzima con procedimento chimico” (il libro è del 1966), anche se si deve tener presente che esso è un prodotto di un lungo processo di selezione naturale, per cui “solo attraverso la precisa imitazione di ciò che la natura ha fatto nel corso dell’evoluzione si renderà possibile con le conoscenze odierne costruire artificialmente un autentico enzima, piuttosto che cercare quali siano state le sue prime origini” 34. La conclusione che deriva da questa situazione è sostanzialmente negativa: “Si manifesta con tutta chiarezza che per quanto riguarda una cellula si tratta di un oggetto molto complicato. Sarà dunque estremamente difficile costruirla artificialmente dal niente, e perciò non sarà facile produrre la vita in senso stretto” 35. Nel successivo lavoro citato del 1981 il panorama è ancora più incerto. Sulla terza questione le prospettive di una soluzione sono ancor meno promettenti. Quando si parla di “coscienza” si parla per lui della spiegazione dei nostri soggettivi sentimenti ed emozioni sulla base del comportamento del cervello” (auf der Basis dieses Verhaltens)36. Ma questa stessa formulazione non è giustificata: suggerisce che i sentimenti e le emozioni trovano il loro fondamento nei movimenti del cervello. Per molti pensatori, filosofi e scienziati, 33
Ibid., Ibid., 35 Ibid., 36 Ibid., 34
pp. 40-50. p. 54. p. 136. p. 130.
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oltre che per il buon senso, è vero invece l’opposto: sono il pensiero, il sentimento e le emozioni che causano, ossia che stanno alla base dei movimenti del cervello. Sarebbe certo una grande fortuna poter pensare la verità, avere sentimenti ed emozioni autenticamente felici manipolando con strumenti tecnici le cellule del cervello! Anche un altro celebre Nobel della biologia molecolare si è impegnato a demolire la concezione vitalistica della vita: J. Monod. Per quanto riguarda il vitalismo che egli chiama “metafisico”, egli se la sbriga in poche parole. L’esempio che egli sottopone ad analisi è la teoria dell’élan vital di Bergson. Questo “slancio”, questa corrente radicalmente distinta dalla materia inanimata che tuttavia “attraversa” per organizzarla, è priva di cause finali o efficienti perché è “spontaneità essenziale”. La si può “intuire direttamente con l’istinto che è consostanziale con lo “slancio vitale”. Per Monod sono tutte frasi poetiche di “dialettica metafisica priva di logica”, che perciò si rifiuta di giudicare, perché egli al contrario si sente “chiuso nei confini della logica”, e quindi sa che è inutile ragionare con chi, come Bergson, ritiene ogni “discorso analitico e razionale sulla vita senza senso, o meglio, fuori tema” 37. Siamo qui di nuovo alle prese con l’argomento principe dei meccanicisti contro i vitalisti, che è l’impossibilità in cui questi si trovano di dare una definizione precisa o indicare un fatto preciso in cui si evidenzi la forza irriducibile a quelle fisico-chimiche. Effettivamente, prescindendo dal fatto che definire la vita come “slancio vitale” significa ripetere nel definiens il definiendum, che è grave errore logico, anche la dichiarazione che tale “slancio” si possa solo “intuire”, e non capire con un chiaro concetto, significa lasciare tutto il problema in una oscurità misteriosa che non risolve nulla. Ma è altrettanto grave da parte di Monod rifiutare in base a un solo esempio ogni “vitalismo metafisico”. Se la vita s’incentra nella capacità di riconoscimento di oggetti nel senso che si è detto non vi è dato di fatto più chiaro di questo, anche se rimane “metafisico” perché la capacità non è il riconoscimento pur essendovi contenuta, e il riconoscimento stesso produce dopo di sé l’evento spazio-temporale, come la fuga dell’antilope: questo evento soltanto sottostà alle forze e alle leggi della fisica e della chimica. Senza quel riconoscimento è proprio 37
Le hasard et la nécessité, tr. it. Mondadori, Milano 1971 2, pp. 33-34.
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questo evento fisico-chimico che rimane misterioso. Più impegnata è la sua critica al “vitalismo scientifico”, come egli lo chiama. Si tratta del vitalismo di scienziati che vengono dall’ultima fisica, e che noi quindi considereremo esponendone il pensiero più diffusamente di quanto lo faccia egli stesso, perché è da questo confronto che emerge con più chiarezza il contrasto tra meccanicisti e vitalisti, il valore delle loro critiche opposte e insieme la loro debolezza. Egli considera in particolare Polanyi ed Elsasser. Polanyi in un articolo dal titolo molto significativo: “La struttura irriducibile della vita” 38, spiega come nell’azione di una macchina siano operanti due principi: quello inferiore che regola i suoi processi puramente fisico-chimici, e quello superiore del “progetto” (design) che limita, “asservisce” (harnesses) quello inferiore in modo da realizzare un fine, da ottenere un prodotto. Se la macchina va in pezzi scompare il principio superiore che la regola ma continua a valere quello inferiore perché i processi fisico-chimici continuano a essere da esso regolati. L’asservimento consiste dunque in “limitazioni” (restrictions) a cui si sottopongono le leggi della fisica e della chimica. Lo stesso vale per gli organismi viventi in cui “la struttura vivente impone condizioni al contorno (boundary conditions) ai processi fisico-chimici con l’aiuto dei quali gli organi espletano la loro funzione” 39. Evidentemente “la struttura di queste condizioni al contorno non può essere formulata con il linguaggio delle leggi che esse determinano”. Allo stesso modo che un vocabolario non può determinare le regole della grammatica, né questa il contenuto di un discorso, ma viceversa è il contenuto del discorso che si sovrappone alla grammatica determinandola (e diventando così la sua “condizione al contorno”), e questa al vocabolario determinandolo. L’applicazione di questa legge generale all’essere vivente è chiara. Le leggi generali della chimica e della fisica che valgono anche per i componenti del codice genetico di un organismo vengono poi ulteriormente determinate dalla struttura che è propria del codice genetico perché si sviluppino in modo da formare un organismo: “La struttura del DNA è quella di una condizione al contorno che connette le sostanze fisico-chimiche nell’organismo a servizio delle sue funzioni fisiologiche”. La condizione al contorno 38 39
“Life’s Irreducible Structure”, Science 160 (1968), pp. 1308-1313). Polanyi, op. cit., p. 1308.
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del DNA è la matrice dell’organismo in crescita40. Negli organismi vi è tutta una gerarchia di “condizioni al contorno” che si aggiungono (are additional) alle condizioni inferiori e tutte alla fondamentale indeterminata struttura fisico-chimica in cui a un massimo di stabilità corrisponde un minimo di energia potenziale. Così gli organismi si complicano e si elevano sempre più: ridurre i livelli superiori a quelli inferiori significa in conseguenza annientarli togliendone il significato41. Considerazioni analoghe portarono Walter Elsasser a mettere in evidenza la quantità di modelli secondo cui possono essere disposti i componenti microscopici perché si realizzino le strutture osservabili degli organismi viventi. Propose di chiamare “funzione organismica” (organismische Funktion) “quegli aspetti del comportamento di un organismo che consistono nello sfruttamento del modello microscopico per scopi che non possono completamente venir rappresentati dalla causalità fisica” 42. Essa coincide con la “dichiarazione dell’autonomia dei fenomeni biologici rispetto a quelli fisici” 43. Le variabili potenziali che entrano in gioco nei modelli di organismi sempre più sviluppati rispetto a quelle poche che entrano in gioco nei corpi inanimati sono di un “numero immenso”. Può così enunciare la sua tesi generale che porta avanti la tesi della complementarità di Bohr a cui egli si richiama: “La mia affermazione è che questa qualitativa differenza sta alla base di tutti i dualismi della metafisica tradizionale (corpo e anima, materia e forza vitale, ecc.)” 44. Solo con queste leggi superiori, con queste “leggi biotoniche”, dice Monod, pensa Elsasser che si possano spiegare le proprietà tipiche dei viventi, come l’invarianza e la teleonomia, senza violare le leggi della fisica. Ma egli è di parere opposto. A tutti e due questi vitalisti venuti dalla fisica rimprovera, come al solito, di portare “argomentazioni che mancano singolarmente di rigore e di fermezza” 45. Non portano, in altre parole, dati precisi e interpretazioni chiave di tali dati. Per quanto riguarda “l’invarianza e la te40
Ibid., p. 1309. Ibid., p. 1312. 42 Eine Kritik am Reduktionismus, manoscritto del 1977, pubblicato con permesso dell’autore nell’Antologia, cit., p. 231. 43 Ibid., p. 232. 44 Ibid., p. 234. 45 Le hasard..., cit., p. 35. 41
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leonomia” egli si dice convinto che sono spiegabili rimanendo nell’ambito della pura scienza fisico-chimica, con la solita affermazione che tale scienza espone bene il meccanismo sempre invariato della duplicazione, trascrizione, traduzione, e “i meccanismi morfogenetici che costruiscono le strutture teleonomiche”. Con l’aggiunta, anch’essa solita nei meccanicisti, che sì “lo sviluppo embrionale è uno dei fenomeni in apparenza più miracolosi di tutta la Biologia”, ma solo perché “sfugge ancora in gran parte (e per ragioni tecniche) alle analisi genetica e biochimica, le sole, con ogni probabilità, che potrebbero consentire di interpretarle”. È solo “la nostra attuale ignoranza” delle leggi fisiche che ci impedisce di dare spiegazioni “sufficienti”, per cui la sopravvivenza del vitalismo può essere garantita solo dal fatto che “continuano a esistere in Biologia se non paradossi veri e propri, almeno ‘misteri’” 46. La critica di Monod coglie solo quando esige che si esibiscano fatti precisi del vivente irriducibili a quelli dei corpi inanimati. Ma l’ingenua difesa: “la scienza non riesce oggi, riuscirà domani” è un’argomentazione ancor più “mancante di rigore e di fermezza” di quella che rimprovera ai vitalisti. Tanto più che essa si basa sull’incomprensione della costitutiva indeterminatezza della fisica atomica dalla cui soluzione soltanto potrebbe derivare la spiegazione dei fenomeni della realtà inanimata e poi di quella animata. Dire che la fisica e la chimica riescono a descrivere i fenomeni biologici nella loro successione spazio-temporale non vuol dire spiegarli con le leggi che sono a disposizione di tali scienze. Anche tutte le raffinate operazioni cibernetiche descritte nel capitolo IV, in particolare quelle dovute agli “enzimi allosterici, ad esempio, di inibizione retroattiva” 47 sono descrizioni qualitative e quantitative di fenomeni le cui cause sfuggono alla descrizione stessa. Nessuna descrizione o equazione che mette in relazione le quantità spaziali e temporali in cui avviene la fuga dell’antilope, e tanto meno la descrizione spazio-temporale di quella fuga può spiegare perché l’antilope è fuggita davanti al leone e si è avvicinata invece a 46
Ibid., p. 35. “L’enzima che catalizza la prima reazione di una sequenza che termina con un metabolita essenziale [...] è inibito dal prodotto finale di tale sequenza”. Lo stesso per una “attivazione retroattiva”: “l’enzima è attivato da un prodotto di degradazione del metabolita finale”, p. 60. ‘Metabolita’ è qualunque sostanza prodotta dal metabolismo. 47
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un’altra antilope. Vi sono dei fattori che stanno “aldilà” di questi rapporti spazio-temporali e delle leggi fisiche che li regolano, come “le condizioni al contorno” di Polanyi, le “funzioni organismiche” di Elsasser, che abbiamo esaminato, la “forma o totalità” (Gestalt und Ganzheit), e “la vita interiore vissuta” (erlebtes Innenleben) di Walter Heitler, su cui non è il caso di soffermarsi48, solo che si deve rinunciare alla pretesa, ancora soggiacente ai discorsi dei vitalisti, di dare ad essi una veste scientifica. In questo caso ricadrebbero nelle insormontabili difficoltà del meccanicismo. La veste scientifica non ce l’hanno perché appartengono a un settore più elevato della realtà, che bisogna avere il coraggio di chiamare con il suo nome: è il settore “metafisico”, perché sta sostanzialmente, irriducibilmente, “aldilà’ (met£) di quello fisico. Non si creda in tal modo di abbandonare la concretezza della realtà, ma di conquistarla riempiendo i vuoti costitutivi delle spiegazioni scientifiche. Siamo ora in grado di inquadrare in uno sguardo sintetico questa secolare interminabile disputa tra meccanicismo e vitalismo. La soluzione non può trovarsi nel campo della scienza. I meccanicisti non potranno mai spiegare con le loro relazioni spazio-temporali certi eventi e comportamenti che sono esclusivi degli esseri viventi a differenza degli esseri senza vita. La radice di questa impossibilità sta in buona parte nel fatto che alla base dei comportamenti di ogni oggetto del mondo fisico sta uno spazio di indeterminazione che è costitutivo del mondo fisico stesso. Questa indeterminazione fisica, che dipende dall’impossibilità di un’analisi completa, lascia aperto lo spazio ai comportamenti degli esseri viventi, i quali pertanto in quanto tali non appartengono più al mondo fisico a cui invece appartengono in quanto oggetti fisici. Gli stessi corpi viventi in quanto oggetti fisici non spiegano le loro qualità viventi. Quando i meccanicisti ripetono in continuazione ai vitalisti che dicano cosa sono queste qualità viventi irriducibili a quelle che sono oggetto della fisica, esigono che le esprimano in termini di fisica, e allora cadono in contraddizione. E in questa stessa contraddizione dei meccanicisti cadono gli stessi vitalisti quando pretendono di spiegare le qualità che dichiarano come 48
Cfr. “Über die Komplementarität von Lebloser und Lebender Materie”. Abhandlungen der Mathematisch-Naturwissenschaftlichen Klassen der Akademie der Wissenschaften und der Literatur in Mainz, Nr. I (1976), pp. 3-21, riportata nell’Antologia, cit. Per ulteriori dettagli si veda il mio articolo “La natura della vita...”,
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irriducibili alla fisica con discorsi che vorrebbero avere un significato scientifico. Li degradano invece in questo caso al disvalore scientifico. Il riconoscimento del leone da parte dell’antilope non appartiene più al mondo fisico studiato dalla scienza, ma a un mondo superiore49. L’antilope riconosce il leone perché lo sa distinguere dagli altri oggetti che distinguerà quando si presenteranno, ad esempio un’altra antilope, ma che ora sono assenti fisicamente o fisiologicamente. La presenza di questi oggetti fisicamente assenti nel riconoscimento dell’oggetto presente fisicamente non appartiene alle presenze fisiche proprio per definizione. L’illusione che vi appartengano nasce dal fatto che negli stadi primitivi più elementari dei fenomeni vitali il riconoscimento diventa molto simile a una reazione chimica. Vediamolo in una frase di Monod: “Come gli enzimi ‘classici’, gli enzimi ‘allosterici’ riconoscono, associandovisi, un substrato specifico e attivano la sua conversione in prodotti, ma, in più, hanno la proprietà di riconoscere elettivamente uno o parecchi altri composti” 50. In questi casi il riconoscimento viene attribuito da Monod a una reazione chimica51, ma in realtà va attribuito a tutto l’organismo, per quanto piccolo esso sia, in cui si verifica questa reazione chimica, la quale da sola non arriverebbe a queste autoregolazioni cibernetiche tipiche degli esseri viventi. Né l’analisi fisico-chimica da sola, né la sintesi fisico-chimica o cibernetica da sola che ne dipende, né tutte e due insieme, essendo caratterizzate dalla costitutiva impossibilità di essere complete, possono spiegare la vita del vivente. Essa sta in un’altra dimensione di cui le strutture fisiche sono una conseguenza. La duplicità di ambiente interno e ambiente esterno, basato a sua volta nella capacità di riconoscimento degli oggetti, e quindi della loro scelta per un adattamento mai completo ma in movimento nel tentativo di cit. 49 Abbiamo citato sopra la precisa dichiarazione di von Weizsächer di non voler immischiarsi in questioni metafisiche, proprio mentre lo sta f acendo quando ricorre ai “significati” e “alla coscienza” nelle sue spiegazioni. Questo deriva da una concezione antiquata della metafisica che gli studiosi di scienza hanno supinamente ereditato da filosofi anch’essi ormai sorpassati. 50 Il corsivo del verbo “riconoscere” è mio. 51 “L’analisi delle interazioni allosteriche dimostra che le prestazioni teleonomiche non sono appannaggio esclusivo dei sistemi complessi, a componenti multipli, poiché una sola molecola proteica si rivela già capace non solo di attivare elettivamente una reazione, ma di regolare la propria attività in funzione di
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raggiungere questa completezza attraverso l’evoluzione in cui abbiamo visto consistere la sostanza della vita, non è per principio riducibile alla omogenea uniformità delle strutture spazio-temporali in cui si muove la ricerca e la conoscenza scientifica. In questa prospettiva che non esclude queste strutture fisiche ma anzi le comprende in base a quell’incompletezza che muove la ricerca scientifica a completarla52, s’apre di nuovo anche in questo campo l’orizzonte volto alla totalità dell’Essere. Ciò che sta aldilà dell’ambiente parziale, al quale si è provvisoriamente adattato il vivente qualunque esso sia, condiziona questo adattamento stesso e l’ambiente sia interno che esterno in cui si è collocato, anche se rimane nascosto, ossia non ancora rivelato negli oggetti che si presentano al riconoscimento del vivente. La massiccia presenza, non conosciuta dal vivente, di ciò che si chiama ambiente esterno al suo ambiente interno ricostituisce quell’unità in cui ogni vivente, per quanto elementare, è costretto a trovarsi. Una conseguenza esteriore, e quindi in certo senso banale, di questa situazione la si può esemplificare dicendo che se non ci fosse la Via Lattea, e in essa il nostro Sole, non ci sarebbero sulla Terra quelle condizioni indispensabili perché questa gracile pianticella del mio giardino possa crescere, respirare, e produrre i suoi fiori dal profumo delicato. Ma si è allora appunto ancora davanti ad apparizioni esteriori, simboliche di cose e di mondi di cose che rimandano gli uni agli altri senza poter arrivare alla loro conclusione: moltitudini di viventi in cammino affannoso per tentare di sopravvivere, dietro le quali è in marcia il vero unico Essere da cui attingono i lineamenti del loro volto e l’energia che li sospinge.
molteplici informazioni chimiche”, Le hazard..., cit., p. 72. 52 Per questa incompletezza, del resto già evidente al semplice buon senso, si veda l’interessante saggio di Popper, The Rationality of Scientific Revolutions, in cui tra l’altro scrive: “It is to be noted that in general no equilibrium state of adaptation is reached by any one application of the method of trial and the elimination of error, or by natural selection. First, because no perfect or optimal trial solutions to the problem are likely to be offered; secondly – and this is more important – because the emergence of new structures, or of new instructions, involves a change in the mental situation”; e questo in tutti e tre i livelli di adattamento: genetico, comportamentale, scientifico. Nel vol. Scientific Revolutions, Oxford Readings in Philosophie, Oxford 1981, pp. 82-83.
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Il ritorno dell’essere
Capitolo decimo
LA RIPRODUZIONE
Tra le caratteristiche che abbiamo riscontrato appartenere a ogni essere vivente ve n’è una che sembra essere in contrasto con il circolo vitale in cui abbiamo visto la sostanza stessa della vita. In realtà risulterà invece che ne è la piena realizzazione, a patto che l’argomento non sia affrontato rimanendo sul piano della semplice “spiegazione scientifica”, ma su quello ben più fondamentale della “spiegazione filosofica”. Se la “spiegazione scientifica” di qualcosa è tale in quanto fa vedere “fra le sue pieghe” la struttura nascosta all’osservazione ordinaria, per cui allora quel “qualcosa” risulta “dispiegato”, “spiegato”, e in conseguenza “chiarito”, “messo in chiaro”, la “comprensione” filosofica deve andare ben aldilà di tale “spiegazione”. Essa deve far vedere in che modo questa struttura “presa” nella sua totalità, ossia anche spiegata nei suoi particolari, emerga dalle altre sue connessioni con l’altro da sé, e così si manifesti, si renda presente, riceva l’esistenza (“ex-sistere” = essere qui da), così da essere “con-presa” in una totalità più ampia da cui riceve il suo senso. Si parla molto oggi di “ermeneutica”, o “dottrina dell’interpretazione”: mi pare che in sostanza tale “interpretazione” consista in questa “comprensione” che va ben aldilà, anzi infinitamente aldilà della semplice ‘’spiegazione”, anche la più sofisticata, fornita dalla scienza. Per scendere in concreto al nostro tema, sarà certamente utile esporre come avvenga la riproduzione nei batteri, ossia nei più piccoli organismi visibili al microscopio ottico, e come tale riproduzione sia asessuata, per divisione trasversale della cellula perpendicolarmente all’asse longitudinale; e come invece nei celenterati la riproduzione avvenga per gemmazione della cellula madre. Come negli animali superiori la riproduzione sia invece sessuata, e quindi “descrivere” le complicate fasi di tale sviluppo.
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Ma tutto questo non mi dà la “comprensione” della riproduzione biologica. A questa comprensione invece mira “l’analisi filosofica” che intendiamo effettuare tenendola dunque sempre combinata con “una sintesi” ad essa corrispondente. Si tratta di arrivare alla “con-scienza” delle cose e non soltanto alla loro “scienza”. Se la sintesi è totale la “comprensione” è per definizione piena, purché non si fermi all’astrazione vuota, e arrivi effettivamente alla realtà concreta che si vuole comprendere, altrimenti si riesce solo a comprendere l’ampia intercapedine che sta tra la cosa e il discorso. Da queste strutture metafisiche si deve dunque partire perché sono le più evidenti, le più concrete strutture della realtà, più evidenti e concrete di quelle dell’esperienza ordinaria e di quella scientifica che le suppongono. Non ci si deve pertanto meravigliare se ripartiamo ancora dai principi su cui si regge la realtà della nostra esperienza. L’essere vivente si è rivelato come la capacità di riconoscimento di oggetti che vengono in tal modo, ossia in quanto e per quanto vengono riconosciuti, a formare il suo mondo interiore, il suo ambiente interno, il suo cosmo. Gli oggetti sono attualmente riconosciuti dal vivente in quanto vengono diversamente distinti dagli altri oggetti, i quali quindi nella loro diversa distinzione costituiscono la manifestazione degli oggetti attualmente presenti. Ma la maggior parte delle distinzioni tra gli oggetti sfuggono alla capacità di distinzione che è propria del vivente. Il riconoscimento di ogni oggetto è quindi radicalmente parziale. In quanto le sue differenze dagli altri oggetti non vengono colte, rimangono fuori del mondo, del cosmo, dell’ambiente interno del vivente, e formano così il suo aldilà, il suo metacosmo, il suo ambiente esterno. Questo è dunque esterno alla sua diretta manifestazione, ma condiziona tutti gli oggetti che si manifestano, ossia tutti gli oggetti del cosmo del vivente. Sono infatti il complemento costitutivo degli oggetti che si formano attraverso la sintesi della loro distinzione. Questo trovarsi costitutivamente insieme: del cosmo di ogni vivente e del suo complementare metacosmo, dell’ambiente interno e del corrispondente ambiente esterno, rivela la presenza della totalità dell’essere in ogni essere vivente. L’essere è infatti il cosmo universale in cui sono compresi tutti i cosmi (gli ambienti interni) dei viventi, e in cui i metacosmi (gli ambienti esterni) sono diventati la reificazione di quanto mancava ossia di quanto era rimasto fuori di questi cosmi.
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L’enorme molteplicità degli esseri viventi che hanno fuori di sé il loro ambiente esterno è infatti solo possibile perché è infinitamente diversa la possibilità di spartizione tra ambiente interno ed esterno (tra cosmo e metacosmo) in cui in parte si manifesta e in parte si nasconde l’essere. Basta anche la perdita di una sola distinzione perché si configuri un vivente diverso da ogni altro: una sola distinzione si riversa su tutte le altre proprio per sua definizione. Ma l’essere in cui possono avvenire questi nascondimenti (e quindi l’Essere) è sempre lo stesso, è uno soltanto, e in questo senso soltanto è trascendente rispetto a tutte queste sue possibili manifestazioni che costituiscono gli esseri viventi. Occorre a questo punto fare un ulteriore passo in avanti. Sappiamo che l’Essere si mantiene nell’Essere, ossia non può non essere, perché è movimento assolutamente totale, ossia in quanto uscendo da se stesso per manifestarsi non trova nessun ambiente esterno (nessun metacosmo) fuori di sé che ne limiti il movimento; per così dire il suo ambiente esterno (il suo metacosmo) s’identifica con il suo ambiente interno (con il suo cosmo). A questo eterno movimento che è insieme interno ed esterno si arriva partendo dalla constatazione evidente che in ogni coscienza consapevole, propria del vivente razionale che è l’uomo, il movimento di ogni atto di pensiero non può fermarsi in se stesso perché è se stesso in quanto esce da se stesso: la candela è candela in quanto ha una certa diversità dal tavolo e un’altra diversità dall’albero, e quindi se non esce in questi altri oggetti non può costituirsi per quello che è, non può trovare la sua identità, ossia essere ciò che è distinto da l’albero e dal tavolo. In questo discorso figura naturalmente la candela, l’ albero, il tavolo, ossia i contenuti essenziali delle cose indicate da questi termini. Il discorso sui contenuti esistenziali, fisici, di queste cose qui non c’entra. Se questi contenuti esistenziali sono tali che l’esistenza fisica della candela esclude di essere l’esistenza fisica del tavolo e dell’albero, è perché i contenuti essenziali di queste cose sono fatti anche di non-essere, ossia nella loro formazione lasciano fuori di sé la maggior parte delle distinzioni che li costituiscono, ossia perché non sono l’Essere. L’Essere dunque non può non essere perché proprio uscendo da sé manifesta se stesso, in certo senso perché la sua morte apparente è la sua vera vita. O meglio, il suo darsi all’Altro lo costituisce in se stesso. Ritorniamo quindi a riconsiderare in che consiste il riconosci-
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mento nel quale abbiamo riscontrato l’intima costitutiva essenza dell’atto vitale, e quindi dell’ambiente interno del vivente, e quindi in definitiva del vivente stesso. Lo terremo presente nel particolare esempio che abbiamo scelto come paradigmatico. Riconoscere significa identificare il contenuto essenziale della cosa riconosciuta, ossia distinguerla a) da tutti gli altri contenuti essenziali, e nello stesso tempo anche b) dai contenuti esistenziali, ossia dalle qualità rispetto ad esso accidentali che lo accompagnano. Nel nostro caso l’antilope distingue il leone quando il suo corpo è investito dai colori, dalla forma, dall’odore, dai modi delle radiazioni del leone. Lo distingue da tutti gli altri oggetti, per esempio dall’antilope, dai cui colori, forme, odori potrebbe essere colpito il suo corpo. Sono queste possibilità diverse che manifestano all’antilope il leone presente nella sua attualità. Ma inoltre l’antilope riconosce ancora il leone attuale anche se avesse una chioma meno folta di quella che effettivamente ha, fosse più giovane di qualche anno, fosse zoppicante, il colore della sua pelle fosse meno intenso e la pelle macchiata qua e là da qualche altro colore. Sebbene queste particolarità siano dunque secondarie per il fatto che l’una può essere sostituita dall’altra senza che vari il riconoscimento e il comportamento, essenziale rimane soltanto che qualcosa di attuale ci sia per indicare all’antilope la presenza fisica del leone, la sua esistenza attuale. Ricordiamoci ora che ogni contenuto essenziale è dato e si mantiene per la presenza in esso della possibilità reale di tutti gli altri, nei quali deve effettivamente passare per diventare, essere e mantenere se stesso. È in questo nascondimento che è veramente se stesso. Se a lungo andare non riesce a mantenere se stesso è perché queste possibilità volte a manifestarlo e a realizzarlo non erano complete, ossia molte di esse, la maggior parte di esse, erano rimaste fuori. Sono rimaste “fuori del riconoscimento”, ma fuori continuano a esserci e a condizionare ciò che è dentro. Deve presentarsi il leone perché venga riconosciuto, e il leone, assieme a ogni altra cosa fuori dell’ambiente interno, ha strutture, movimenti e ritmi diversi da quelli che attualmente appaiono all’antilope e li condizionano quando essi appaiono. Questo esercito di differenze cadute fuori del riconoscimento, e quindi fuori dell’ambiente interno costitutivo del vivente, e tuttavia costitutivamente ad esso in maniera intrinseca connesse, che si muovono con il suo movimen-
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Il ritorno dell’essere
to, lo condizionano quando appaiono e, a ben guardare, anche quando non appaiono al vivente, costituiscono l’ambiente esterno ora articolato e in se stesso organizzato del vivente stesso. Questo vivente è, proprio considerato nella sua sostanziale identità, l’insieme delle sue possibilità di riconoscimento e l’insieme delle impossibilità che gli derivano dal limite della sua capacità di riconoscimento. Anche queste impossibilità costituiscono la sua realtà: condizionano ogni momento i suoi riconoscimenti e i suoi relativi comportamenti. Le une e le altre sono in se stesse costitutivamente organizzate e vicendevolmente condizionate: da esse simultaneamente deriva la struttura globale del vivente di essere un corpo organizzato, un organismo vivente. In conclusione in ogni vivente sono distinguibili tre livelli di organizzazione: quello degli oggetti di cui ha coscienza e che quindi gli si manifestano, quelli di cui non ha né può avere coscienza (le strutture nascoste dei precedenti), e infine quello delle possibilità di riconoscimento degli oggetti che gli sono attualmente assenti, che si identificano nella sua capacità di comportamento nei loro riguardi quando gli si faranno presenti. Il secondo livello, ossia quella maggior parte della realtà che è rimasta fuori della coscienza del vivente forma quel suo ambiente esterno che, non soltanto per definizione è irrecuperabile dal vivente, ma che finisce per opporsi con il suo universale dinamismo intrinseco a quello ben più limitato del suo ambiente interno e alle sue capacità di difesa e ad aggredirlo. L’aggressione è la “malattia” nel significato più vasto del termine. Poco alla volta quest’ambiente esterno sopraffà l’ambiente interno del vivente, che è quindi condannato all’involuzione e finalmente alla scomparsa. Con l’ambiente interno scompare anche il relativo ambiente esterno, e quindi la loro dialettica ossia il circolo vitale costitutivo del vivente, e quindi il vivente stesso. È il momento della morte. Questo sarebbe effettivamente l’esito finale conclusivo della vita se alla base di ogni vivente come suo stesso costitutivo non vi fosse la totalità dell’essere sempre implicata in ogni circolo vitale, anche se il vivente non ne ha coscienza. È la totalità dell’essere, come sappiamo, che si autoproduce. La sua presenza, sia pure nascosta, si rivela in ogni essere vivente finito già nel fatto che la continuazione della vita appare al vivente finito stesso (ossia al vivente fatto di nascondimento dell’essere), precisamente nel seme visibile che da
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esso germina. Non si vede certo nel seme la vita nel suo sviluppo, ossia nell’effettivo riconoscimento degli oggetti che è proprio della vita che si sviluppa in quel seme, ma la si vede nei suoi effetti esteriori: nella sua assimilazione di elementi che formano ormai il suo ambiente esterno, nel suo metabolismo, nella sua crescita. Aldisotto, aldilà della vita dell’organismo adulto che deve lottare contro un ambiente esterno che lo aggredisce nel superficiale angusto spazio della loro vicendevole relazione continua il flusso della vita dell’essere nello spazio in cui esso si occulta al vivente stesso pur costituendone lì la sua più intima sostanza. Vi è solo un modo perché un Essere in se stesso assolutamente disvelato, ossia che è in quanto si autogenera, sia tale anche negli enti in cui si trova nascosto, ed è che, quando quella parte dell’essere del vivente che è nascosta al vivente stesso, ossia il suo ambiente esterno, prevale sull’ambiente interno fino a minacciarne la vita, questa si riproduca in un individuo diverso della stessa specie non ancora aggredito dal proprio ambiente esterno. Riprodursi mantenendo la propria individualità può infatti essere possibile solo per l’unico Essere capace di autoriprodursi, e quindi l’essere nascosto nel vivente finito (ossia nel vivente sprovvisto della sua totale individualità e quindi condizionato da un ambiente esterno) può riprodursi solo in un individuo simile, ossia nella specie. Quello che può avvenire solo sulla base di una ben determinata condizione diventa così la prova della validità di quella condizione quando esso avviene. La modalità di quanto avviene in questa corrente di vita che, attraverso il nascondimento e la conseguente infinita possibile varietà dei rapporti di ambiente interno ed esterno, distribuisce la potenza autogeneratrice consostanziale dell’essere alla moltitudine altrettanto infinita di individui, tocca alla scienza descrivere, ma ricordiamoci che qui troveremo solo descrizioni che non toccano la sostanza del problema e quindi neppure il suo vero senso. Le “mutazioni” che, come si è visto, vengono a modificare il codice genetico stesso, e che determinano quindi poco alla volta in collaborazione con la “selezione naturale” la nascita di nuove specie, non sono altro evidentemente che modificazioni strutturali che per definizione non appartengono né all’ambiente interno del vivente, né al suo ambiente esterno, ma a qualcosa che precede ambedue, o meglio che sta alla base di ambedue. La potenza generatrice rac-
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chiusa nel seme, che si dischiude nella formazione dell’organismo vivente nella fase della morfogenesi, s’imbatte in un contrasto sempre più intenso con l’ambiente esterno che intende assimilare e trasformare per realizzarsi. Ripiega allora su se stesso e ricomincia l’impresa formando un nuovo individuo, ancora in collaborazione ma ancora in contrasto con un ambiente che lo trascende. Le nuove vie che in questa collaborazione e lotta si aprono a questa corrente di vita nascosta nel seme sono la conseguenza delle mutazioni interne, che nella loro apparizione esteriore e nel loro esteriore impatto con l’ambiente esterno vengono descritte dalla scienza biologica. Non importa se molti di questi tentativi falliscono e i tentativi di nuove specie meglio adattate si risolvono nell’estinzione di molte di esse o di una loro evoluzione. Questo è lo scotto che quella corrente di vita nascosta deve pagare alla corrente autogeneratrice dell’Essere che la trascende. Importante è il fatto definitivamente constatato dalla scienza che vi sono tentativi che sono riusciti così che la differenza tra le due correnti, dell’Essere e dei viventi finiti, si è andata riducendo attraverso i molti secoli del percorso, fino ad arrivare a un punto d’incontro delle due correnti nella vita consapevole dell’uomo. Ma questo secondo dato di fatto, ancora più evidente del primo, non tocca più alla scienza trattarlo: appartiene alla filosofia da una parte e alla teologia dall’altra. Era facile prevedere che la struttura biologica, esterna, del vivente in fatto di riproduzione ripetesse su di un piano diverso la struttura della riproduzione che è tipica della vita interna del vivente stesso, ossia la struttura che è tipica del riconoscimento, il quale, come si è a lungo trattato, si conserva uscendo in ogni suo momento da ogni suo oggetto attuale a quelli possibili in quello racchiusi. Nella riproduzione biologica infatti si riproduce: 1) una precisa specie ben distinta da tutte le altre specie così da ottenere la sua identificazione a confronto di tutte le altre. La stessa cosa avviene nel riconoscimento di un oggetto: ravvisarlo, riconoscerlo significa distinguere il significato di certi segni da tutti gli altri significati di altri segni, ossia distinguere un contenuto essenziale da tutti gli altri contenuti essenziali dalla cui diversa distinzione ottiene la sua identificazione; 2) nella riproduzione biologica la specie si ripresenta in ogni organismo individuale che, pur appartenendo alla stessa specie, si differenzia da tutti gli altri della stessa specie. Lo stesso avviene
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L’essere della coscienza inconsapevole
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nel riconoscimento: l’oggetto riconosciuto è sempre presente in un individuo, e il riconoscimento è sempre lo stesso nella diversità degli individui in cui esso è presente: il leone riconosciuto dall’antilope è sempre il leone, sia che sia giovane o vecchio, di due o tre metri di lunghezza, di sfumature diverse di colore, e così via. Le due correnti di vita: biologica e cosciente procedono mantenendosi ognuna sulla propria stessa strada, in cui però ogni passo che viene fatto è diverso da quello precedente. La strada è la specie da una parte e il contenuto essenziale dall’altra; i passi sono i singoli organismi viventi di quella specie da una parte, e gli individui chiamati con lo stesso nome dall’altra. Nel profondo le due correnti, biologica e cosciente, coincidono; si differenziano quando il riconoscimento non esaurisce il suo oggetto, non riesce a individuarlo nella sua completezza; qualcosa di esso e quindi di sé rimane fuori nel nascondimento e allora l’unica corrente originaria si scompone in due: la corrente scoperta della coscienza generatrice dei riconoscimenti delle cose, l’uno dall’altro, e la corrente nascosta della vita biologica generatrice di organismi da altri organismi. È una distinzione certo essenziale per chi vive nel nascondimento nel quale il riconoscimento è diventato riconoscimento di cose staccate e isolate, ma non lo è per la corrente di vita da cui promanano, perché in essa le cose si ritrovano unite nell’unico essere, e la loro coscienza nell’unico Essere. Questa impostazione per la comprensione del fenomeno della riproduzione vale evidentemente per ogni genere di essere vivente dalla più semplice pianta all’uomo più evoluto. Ovunque l’essere vivente è fatto di ambiente interno e di ambiente esterno (di cosmo e di metacosmo), presi nel loro intrinseco movimento che li mantiene in quanto ogni loro situazione attuale esce in ogni altra situazione attuale. Le modalità sono diverse in quanto i tipi di riconoscimento e quindi di rapporto: ambiente interno-ambiente esterno (cosmo-metacosmo) sono diversi. Nella pianta vi è una prevalenza quasi totale dell’ambiente esterno (metacosmo) sull’esiguo ambiente interno (cosmo), negli animali superiori l’ambiente interno (cosmo) si allarga fino a fare arretrare sempre più lo spazio dell’ambiente esterno (metacosmo). Si pensi a quanto spazio di riconoscimenti è aperta un’aquila o uno scimpanzé. Nel vivente consapevole l’apertura dell’ambiente interno (del cosmo) è senza
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Il ritorno dell’essere
limiti così da far sparire al suo orizzonte l’ambiente esterno e da agganciarsi così all’Essere contrassegnato dall’assenza totale di ambiente esterno (di metacosmo) sia nelle sue strutture microcosmiche che in quelle ultramacrocosmiche. Le condizioni che rendono possibile la presenza, aldilà del singolo essere vivente, dell’essere stesso con la sua innata proprietà di mantenersi anche quando l’ambiente interno del vivente sarà divorato dal suo ambiente esterno, rimangono pur sempre nel rapporto ambiente interno-ambiente esterno: quella presenza è infatti la potenzialità di un altro essere vivente con il suo duplice versante. Ma è anche possibile che quel rapporto cessi di fornire le condizioni per la formazione, o nella maggior parte dei casi per lo sviluppo delle potenzialità presenti nel seme, e allora oltre che l’individuo, anche la specie, come spesso è successo nella storia dell’evoluzione, viene meno e scompare. Basta che l’ambiente esterno muti troppo rapidamente o troppo profondamente perché i portatori del rapporto delle due potenzialità complementari contenute nel seme vengano meno e quindi la possibilità del seme stesso. E per quanto riguarda quell’essere vivente che porta nella sua consapevolezza stessa l’Essere, da cui radicalmente deriva la continuità della specie, egli stesso può modificare le condizioni dalle quali dipendono le mutazioni ereditarie, positive o negative, ossia volte all’evoluzione o all’involuzione della specie e in particolare della specie a cui appartiene. Basta inserire, invertire, eliminare frammenti del DNA del codice genetico perché queste modificazioni persistano nelle generazioni seguenti. Non si potrà mai dire che egli stesso produce queste generazioni variate, egli può soltanto mutare le circostanze da cui dipende la produzione delle modificazioni ereditarie, appunto con quelle operazioni esteriori sull’ambiente esterno del vivente. L’apertura o la chiusura di una nuova finestra non distrugge o non crea il paesaggio che da quella finestra si può osservare. L’energia autentica che produce quelle modificazioni ereditarie sta sempre aldilà della conoscenza delle manipolazioni a cui è sottoposto l’ambiente esterno che è proprio del seme del vivente. Tanto è vero che si lascia poi sempre alle energie endogene il compito di formare l’organismo dopo che si sono modificate le condizioni esteriori da cui dipende il suo sviluppo. Un ruolo importante nella riproduzione di nuovi individui al-
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L’essere della coscienza inconsapevole
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l’interno di una specie è assolto dalla riproduzione sessuata. Da un punto di vista semplicemente fenomenologico questa importanza deriva dal fatto che dall’unione dei cromosomi di due individui di sesso diverso le composizioni dei geni del codice genetico dei figli che ne derivano possono essere di una varietà enormemente più grande che nella riproduzione asessuata. Le proposte offerte allora dagli organismi che si sviluppano al loro ambiente esterno sono altrettanto numerose, e quindi enormemente più alta è la probabilità di ottenere generazioni di individui che meglio si adattano al loro ambiente esterno. Ma non si può evitare a questo punto di dire in questo caso: maggiore probabilità di adattamento all’ambiente esterno universale, ossia a quell’ambiente che contiene tutti gli ambienti esterni propri di ogni individuo e di ogni specie. Come si potrebbe infatti parlare di maggiore o minore adattamento, se non in relazione a quest’unico ambiente universale? Considerati ognuno per se stesso ogni vivente si adatta per definizione al suo ambiente esterno: il vivente è infatti per definizione rapporto tra ambiente interno ed esterno. Per parlare allora di un maggiore o minore adattamento si deve supporre uno stesso ambiente universale come termine di riferimento dei vari ambienti esterni che sono propri dei singoli individui e specie. L’ambiente esterno universale è allora per definizione l’essere stesso. Ma questa è ancora una considerazione esterna riguardante direttamente l’ambiente esterno e solo indirettamente quello interno. Più importante è la considerazione, che pertanto chiameremo “interna”, riguardante direttamente l’ambiente interno, e quindi in particolare il riconoscimento, che dell’ambiente interno è l’elemento centrale. Come sappiamo, un oggetto qualunque viene identificato dalle varie differenze che lo distinguono da tutti gli altri oggetti. Gli esseri viventi in particolare vengono distinti e quindi individuati da differenze profondamente diverse da quelle che individuano gli oggetti inanimati, le cose non-viventi. Sono quelle differenze che abbiamo in parte toccato precedentemente: i viventi hanno a che fare con un loro ambiente che riconoscono, da cui scelgono particolari elementi che diventano alimenti di cui si cibano e che assimilano, ossia mangiano e bevono, e in conseguenza si muovono, crescono, si costruiscono nidi o tane dove si riparano, si riproducono e si comportano con i minuscoli organismi che generano con
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Il ritorno dell’essere
un comportamento del tutto particolare che non si riscontra nelle cose inanimate. Ogni cosa inanimata è solo un oggetto del vivente, ma questo vivente è la possibilità di riconoscimento di un’infinità di questi oggetti, e quindi la possibilità di un’infinità di comportamenti ignoti all’oggetto inanimato. Tutto questo entra come elemento nuovo nei riconoscimenti dei viventi che appartengono alla stessa specie o a specie diverse. Questi diversi comportamenti riconosce ad esempio l’antilope nelle altre antilopi o nel leone. Ma evidentemente tra questi riconoscimenti particolari acquistano ancor più particolare rilevanza quelli che caratterizzano gli organismi della stessa specie, dal momento che questi sono riscontrati simili al proprio organismo, ossia all’organismo che è talmente intimo al riconoscimento del vivente individuante da identificarsi in buona parte con il proprio essere. Quegli organismi sono dunque anch’essi parte del proprio essere in quegli aspetti in cui sono simili a questo proprio essere. E tuttavia anche nel riconoscimento di questi organismi della stessa specie vi è compresa la mancanza di un adeguato riconoscimento: si ritrovano infatti tutti immersi in un ambiente ad essi esterno che li contrasta, li minaccia, minaccia in particolare oltre che se stessi anche la prole da essi partorita. E anche per quanto riguarda quegli aspetti dell’ambiente e degli organismi della stessa specie che sono decisamente positivi (quella somiglianza a cui si è appena accennato ne è una prova sicura) essi perdono di importanza quando se ne riconoscono altri in cui quegli aspetti positivi sono più evidenti. È questo il caso del riconoscimento dell’essere vivente della stessa specie che è di sesso diverso. Esso emerge da tutte le cose e da tutti gli organismi dei viventi di specie diverse e dello stesso sesso. Il suo comportamento apre una nuova dimensione all’ambiente interno del vivente che lo riconosce. È ad esso simile e in questa somiglianza appartiene al suo stesso contenuto essenziale, ma nello stesso tempo assieme a questa sua appartenenza rivela comportamenti, movimenti, profili, espressioni, interpretazioni che riempiono quella parte mancante di se stesso che ogni vivente trascina pesantemente con sé. Quello che offre sta sullo stesso piano di ciò che manca a chi lo riconosce. Il peso, l’inerzia, la solitudine, la fatica della vita scompaiono allora, o per lo meno diventano tollerabili, e la vita si solleva ad altezze che possono diventare vertiginose nella loro bellezza, dolcezza e sublimità. L’arte ha trovato in gran parte qui le sorgenti inesauribili
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L’essere della coscienza inconsapevole
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delle sue creazioni. Questa complementarità che sul piano della coscienza riluce in ogni gesto, azione, parola della persona amata dell’altro sesso, nasconde una complementarità altrettanto profonda sul piano della dimensione inconscia, che è altrettanto e forse ancor più costitutiva in ogni maschio e in ogni femmina della loro dimensione conscia. Ci troviamo qui ancora sempre nella struttura dicotomica di ogni vivente costituito come sappiamo di ambiente interno e ambiente esterno (di cosmo e di metacosmo), solo che gioca ora anche un ruolo essenziale l’interpretazione puramente percettiva, in ogni individuo di un sesso, dei gesti, delle forme, dei suoni della voce dell’altro sesso. È questa interpretazione di carattere inconscio soprattutto che porta all’unione fisica, ossia strettamente individuale dei due sessi, perché questa complementarità a questo livello è essa stessa di carattere fisico, ed è a tutti noto con quanta forza essa, anche da sola, cerchi la sua soddisfazione, ossia la sua effettiva realizzazione. Rimane tuttavia che in un individuo dotato di coscienza percettiva, e soprattutto consapevole, questa tendenza alla complementarità fisica è di per sé indissolubilmente congiunta con la complementarità cosciente perché proprio la loro unione costituisce un essere vivente. Qualora nel vivente consapevole l’una prevalga talmente da soffocare l’altra nascono quelle innumerevoli degenerazioni di carattere pseudomistico, superstizioso e fanatico da una parte, e di brutale squallida libidine biologica con le conseguenti ributtanti violenze carnali dall’altra, che sono appunto per definizione la dissoluzione dell’unità dell’essere vivente. La nostra società è colma di queste lacerazioni. Poiché nel vivente dotato di coscienza percettiva, e ancor più in quello dotato di coscienza consapevole, l’interpretazione dei comportamenti dell’altro sesso diventa anch’essa sempre più accentuata e raffinata, gioca nella relazione intersessuale un ruolo sempre più accentuato anche l’illusione, quando quest’interpretazione si discosta dalla reale situazione in cui sta il rapporto dei due sessi. Si ricordi che la struttura psicologica di ogni esser vivente viene intessuta quasi esclusivamente dall’interpretazione che la coscienza con i suoi risvolti inconsci fa delle cose, delle coscienze, dei comportamenti inconsci dei suoi oggetti. Di questi non è mai possibile raggiungere la reale ricchezza ma la fanno presagire. Questo presagio viene trasformato in illusione dall’inesperienza (e quindi
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Il ritorno dell’essere
dall’ignoranza o dalla dimenticanza) che il nascondimento è un ineliminabile costitutivo di ogni oggetto per quanto elevato esso sia, e quindi in conseguenza di ogni essere vivente che lo possiede e lo vive. Lo si potrà ridurre con la conoscenza e soprattutto con l’amore della persone amata nel corpo e nello spirito, ma non si può cancellare salvo a cancellare la propria personalità o almeno la propria individualità nei casi dei viventi inconsapevoli. Talvolta il sentimento del proprio ineliminabile limite, della propria ineliminabile solitudine possono persino inasprirsi proprio nel presunto o già fallito amore dell’altro essere vivente che si è scelto o che si è stati costretti dal proprio o dall’altrui errore a scegliere: allora i due nascondimenti dell’Essere, costitutivi dei due falsi amanti caduti nell’inganno si sovrappongono, e la vita diventa intollerabile. L’Essere si rende allora presente soltanto nella sua terrificante opprimente trascendenza. Ma quest’illusione rivela anche soprattutto la realtà di ciò di cui era la preparazione e la vissuta intuizione. Essa contiene il presentimento che la completezza raggiungibile nell’altro sesso possa diventare assoluta, e quindi si profila chiara la possibilità di caduta di ogni limite in quella bellezza, dolcezza, sublimità vissuta nel rapporto che lega i due sessi: l’Essere nella sua totalità è alle porte della vita cosciente e questa rimane sconvolta dalla sua infinità. È il segreto dell’amore da cui è preso ogni essere vivente che s’innamora di chi risveglia in lui l’illusione di trasformarlo nell’Essere stesso. Di quest’Essere, in ogni caso, ad ogni livello di vita: vegetale, percettivo o consapevole, ripete in forme e in gradi diversi la legge suprema che consiste nel mantenere se stesso uscendo da Sé.
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Parte III
L’ESSERE DEL MONDO FISICO
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L’essere del mondo fisico
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INTRODUZIONE
Abbiamo finora considerato la realtà manifesta, ossia la realtà di cui si ha diretta coscienza consapevole, di cui cioè si ha quella coscienza che la rende direttamente manifesta. Ma abbiamo anche dovuto constatare che la realtà si manifesta direttamente in modo molto parziale. Anche di questa parzialità però si ha consapevolezza, e quindi la consapevolezza si snoda in due diverse direzioni: consapevolezza di ciò che si manifesta direttamente e consapevolezza di ciò che si manifesta indirettamente. Alla prima abbiamo visto appartenere in modo del tutto particolare la coscienza religiosa, quella estetica, quella morale, ma anche quella storica, e le abbiamo finora considerate non solo in sé ma anche nella loro intrinseca vicendevole relazione. La realtà che sfugge alla presa diretta della coscienza consapevole è una realtà che tuttavia ha anch’essa una struttura che accompagna passo per passo, punto per punto la struttura manifesta. Essa può essere indirettamente raggiunta dalla coscienza consapevole per il semplice fatto che le sue strutture, poste alla base di quelle manifeste, non possono non essere in buona parte analoghe a quelle manifeste: come potrebbero altrimenti stare alla base di quelle manifeste, e come potrebbero rivelare attraverso rigidi controlli di essere state raggiunte da quelle manifeste, dopo essere state da queste in buona parte previste e prefigurate? Anche l’essere della coscienza inconsapevole, come abbiamo già visto nella seconda parte, viene raggiunto da una conoscenza che può essere solo indiretta. Esso infatti consiste sostanzialmente nella indeterminatezza della coscienza consapevole, ossia appunto nel suo aspetto nascosto, inconsapevole, per cui questa coscienza si riveste di strutture psico-biologiche. Questi contenuti sono tuttavia
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immediatamente connessi con quelli della coscienza consapevole: sono come la concavità di una convessità. Ancora più radicalmente indiretta è allora la conoscenza dei contenuti che sfuggono anche alla coscienza inconsapevole. Questi contenuti sono quindi pensati come appartenenti a un “mondo” diverso apparentemente opposto a quello della coscienza: è il mondo fisico. È stata soprattutto la scienza, in modo particolare quella moderna, da Galileo in poi, a raggiungere la conoscenza di questa dimensione della realtà che chiamiamo “mondo fisico”. Dalla considerazione di questa conoscenza non si può quindi prescindere se si vuole arrivare a una consapevolezza unitaria della realtà nella sua totalità, sia esteriore che interiore, che abbiamo sempre indicato con il nome di Essere. È una necessità che si deve con insistenza sottolineare soprattutto per due motivi di importanza capitale tra di loro strettamente collegati. Primo, perché la filosofia che tratta di ciò che direttamente si manifesta, e che si può sostanzialmente identificare con la corrente classica tradizionale, senza questa seria considerazione filosofica del mondo fisico, si perde in astrattezze che nonostante le loro raffinate sottigliezze, e anzi anche proprio per queste, si riveleranno sempre più vuote di contenuto, così da perdere sempre più di credibilità. E, secondo, perché d’altra parte per inevitabile reazione la considerazione centrata sul “mondo fisico”, anche da parte della filosofia e della scienza, e quindi poi anche dalla conoscenza ordinaria, finirà per essere sempre più confusa con la considerazione della realtà nella sua totalità, ossia con lo stesso Essere. Proprio per questa intrinseca reciproca appartenenza della consapevolezza diretta di ciò che si manifesta con quella che si rivela solo indirettamente la considerazione del mondo fisico era già indirettamente presente in ciò che finora si è trattato nei capitoli precedenti, ma ora la dovremo affrontare direttamente sia pure nelle sue linee essenziali per evidenziare il posto preciso occupato dal “mondo fisico” nell’ambito della realtà totale, e quindi raggiungere con il suo vero senso, anche un senso più profondo della realtà totale.
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L’essere del mondo fisico
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Capitolo undicesimo
IL “MONDO FISICO” DELL’ESPERIENZA ORDINARIA E DELLA SCIENZA MODERNA
Nell’esperienza ordinaria per “mondo fisico” s’intende in generale l’insieme delle cose che si trovano nello spazio e il cui intreccio di azioni e reazioni vicendevoli (i loro eventi) avviene nel tempo. I due elementi che lo definiscono sono dunque l’insieme delle cose e degli eventi e il loro comune trovarsi insieme nello spazio e nel tempo con legami più o meno stabili e necessari, per cui ogni cosa e ogni evento è ottenuto solo da alcuni altri che si dicono loro causa e non indifferentemente da ogni altro. Anche quando si dice che il mondo fisico è il “mondo della natura” s’intende dire sostanzialmente la stessa cosa anche se allora s’intende sottolineare più direttamente quel particolare avvenimento delle cose e degli eventi che è quello della loro “nascita”, del loro “venire all’esistenza” espresso appunto dal termine latino “natura” (da “nasci”, nascere, venire all’essere per generazione) e dal greco f⁄sij (da f⁄w, “genero”). L’unità delle cose del mondo fisico viene allora sottolineata nel fatto che tutte vengono “generate” e si trovano poi collocate in un comune spazio e tempo, cosicché la natura, la f⁄sij è sentita e concepita come il grembo unitario da cui germogliano tutte le cose e nel quale vengono custodite nel loro essere. La religione ha messo bene in evidenza fino dai primordi della civiltà questo elemento dell’unità in cui si trovano tutte le cose, quando ha posto come suo principio fondamentale la fede in un Essere da cui sono state “create” tutte queste cose (Bibbia ebraica), o in un Tao assolutamente indeterminato dall’unione dei cui due principi originari: maschile (lo Yang) e femminile (lo Yin) tutto sarebbe germogliato (taoismo cinese). Nella religione greca gli stessi dei erano creduti originati da una realtà più profonda, la
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natura universale. Da Ouranós (Cielo) e da Gea (Terra) sarebbe nato Crónos (Tempo) e poi gli altri dei: Afrodite, per esempio (la Venere dei Romani), nata dalla schiuma (afrós) del mare. Non è per caso che i primi filosofi della civiltà occidentale hanno poi cercato di vedere in un elemento naturale la sostanza di tutte le cose: nell’ “acqua” (Talete), nell’ “aria” (Anassimene), nell’insieme di “terra, acqua, aria, fuoco” (Empedocle), nel “fuoco” (Stoici). Sono elementi naturali ma con valenza soprannaturale proprio per la loro originaria fecondità generatrice di tutte le cose. Non indicano più “la cosa particolare” sensibile ma il principio da cui tutte le cose derivano, da cui sono generate, in cui tutte si ritrovano. È un discorso che vale anche quando è lasciato nell’indeterminatezza questo grembo (l’“ápeiron” di Anassimandro) da cui provengono e in cui si ritrovano tutte le cose. Quando l’interesse per l’invisibile unità in cui stanno tutte le cose diverse del mondo fisico prende il sopravvento sulla loro diversità e molteplicità il discorso si rivolge con sempre maggior fervore a ricercarla aldilà dei dati percettivi: nell’ “atomo” invisibile (Democrito), nel “numero” (Pitagora), nell’ “Essere” (Parmenide), nel “Divenire” (Eraclito), nelle “idee” (Socrate, Platone), nella “sostanza” (Aristotele). L’interpretazione del mondo preso nella sua fisicità, che aveva contrassegnato la prima epoca del pensiero riflesso occidentale sul mondo: l’epoca dei “Fisiologi” (i filosofi della f⁄sij) lascia così il campo alla considerazione delle strutture che si reputano poste aldilà (met£) del mondo “fisico”, ossia alle strutture “metafisiche”. Non è qui certo il caso di soffermarsi a sottolineare l’importanza di questo nuovo cammino intrapreso dalla considerazione riflessa sulla realtà, che si è mostrata immensamente più vasta di quella ristretta del mondo “fisico”; i capitoli precedenti, soprattutto quelli dedicati alla “coscienza consapevole” ne sono una prova evidente. Certo è però che questo “mondo fisico” preso proprio nella sua fisicità è stato in tal modo messo tra parentesi e quasi del tutto dimenticato. La sua riscoperta s’identifica con la nascita della scienza moderna, su cui dunque dovremo ora soffermarci perché appunto del mondo “fisico” ci stiamo qui occupando. Ci accorgeremo che non si tratta di un’aggiunta marginale a quanto si è detto precedentemente, ma di una dimensione essenziale della realtà in cui si trova ogni coscienza finita, necessaria quindi anche tra l’altro a chiarire il senso della dimensione “me-
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tafisica”. Era fatale che la riscoperta del “mondo fisico” fosse in buona parte preparata dalla critica alla persuasione tradizionale che la metafisica quale si era sviluppata nelle grandi correnti platoniche e aristoteliche del Medioevo, fosse la conoscenza per eccellenza di tutta la realtà, compresa dunque anche quella fisica, che doveva pertanto desumere da quella metafisica i suoi principi e i suoi metodi. Tale critica è incominciata soprattutto nell’ultima fase della filosofia scolastica, la fase nominalistica. Il nucleo centrale di tale critica riguardava la realtà degli universali. Ciò che s’intende per “albero” è per questi filosofi l’insieme degli alberi individuali, i quali soltanto sono reali, mentre il termine generico “albero” è appunto soltanto un “termine linguistico” un “nome” con cui indico quell’insieme di individui. Così per ogni altro termine: “uomo”, “cavallo”, e così via. La scienza che vuol essere la conoscenza della realtà deve riguardare prima di tutto gli individui, e poi i termini linguistici con cui indico gli insiemi di individui. Se ci si riferisce alle “essenze universali” delle cose considerandole come qualcosa di reale corrispondente ai termini comuni, si va a finire in una scienza vuota. I corifei del nominalismo non hanno dubbi in proposito. Pietro Aureolo: “la scienza che coglie le essenze (quidditates), non coglie le cose esattamente come sono [...] ma la conoscenza di questo preciso individuo è la conoscenza della cosa come esiste. Perciò è di maggior pregio conoscere la cosa singola indicata come tale (rem individuam et demonstratam) che conoscerla in modo astratto e universale” 1. Il metodo scientifico è dunque quello basato sull’esperienza. “Noi dovremo aderire al metodo dell’esperienza piuttosto che a qualsiasi ragionamento logico, dal momento che la scienza nasce dall’esperienza” 2. E Guglielmo d’Occam: “Nessuna cosa può essere conosciuta naturalmente in se stessa se non la si conosce intuitivamente” 3. La conoscenza astrattiva (il cui oggetto è l’universale) è invece conoscenza confusa: Con tale intellezione le cose singolari esterne all’anima sono conosciute confusamente. Per esempio, avere una conoscenza confusa dell’uomo non significa altro che avere una sola conoscenza 1
In I Sent., 35, 4, 2, 816, b CE. Prologus in Sent., proemium, 3. 3 In I Sent., 3, 2, F. 2
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per mezzo della quale non si conosce (non magis cognoscitur) un uomo meglio di un altro, e tuttavia con una tale conoscenza si conosce un uomo meglio che un asino. Ciò non significa altro che una tale conoscenza, per qualche sorta di assimilazione, è più simile a un uomo che a un asino e non è più simile a quest’uomo che a quello (non magis assimilatur isti homini quam illi). Secondo quanto s’è detto, sembra si debba in conseguenza affermare che con una tale conoscenza confusa può essere conosciuto un numero infinito di oggetti; tuttavia non sarà una conoscenza propria (non tamen erit cognitio propria) di nessuno di essi 4.
Colpito così il cuore stesso della metafisica, la metafisica degli universali, delle quidditates, delle “essenze” delle cose, dei “contenuti essenziali”, come spesso li abbiamo chiamati noi (2), rimaneva aperta la strada alla ricerca strettamente scientifica nelle sue dimensioni essenziali: la scientia realis delle cose fisiche, e la scientia rationalis dei “termini” con cui si indicano e che “suppongono” le cose reali, e delle loro strutture logiche in cui si renderà celebre la filosofia “terministica” dei nominalisti. È su questa linea che si muoverà il metodo della nascente scienza moderna della natura, riassunto da Galileo nel connubio delle “sensate esperienze” con le “necessarie dimostrazioni” 5. Ma un ulteriore passo essenziale è stato poi fatto da questa scienza, ancora più importante del precedente, ossia la precisa visione del rapporto esistente tra questi due poli di per sé ancora apparentemente del tutto eterogenei, e quindi della formidabile potenza inventiva che ne è derivata, insieme alla garanzia di una perfetta legittima autonomia dell’esperienza scientifica sia rispetto all’esperienza ordinaria che alla speculazione metafisica. Lo vogliamo esporre molto sinteticamente. Prima di questa rivoluzione metodologica della scienza moderna si riteneva che tutto quello che veniva colto dalla percezione sensibile fosse per ciò stesso vero, anche senza rappresentare ovviamente tutta la verità, e quindi occorresse supporre altri elementi e connessioni di carattere metafisico. Così si riteneva che il Sole realmente ossia veramente sorgesse all’orizzonte, si muovesse circolar4 Expositio super duos libros Perihermeneias, 7, 44-45, a cura di Ph. Boehner, New York 1951-54. 5 “Pare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinanzi agli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio”, Opere, V, 316.
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mente attorno alla Terra sulla volta celeste, e scendesse scomparendo alla sera. Allo stesso modo si muovessero i pianeti e le stelle nel cielo, anche se si doveva supporre, dal momento che l’osservazione ci assicura che senza eccezione ogni cosa cade se non è sostenuta, che ci dovessero essere delle sfere, sia pure invisibili ma reali, che portassero in giro tutti questi corpi celesti. I quali poi dovevano essere senza generazione e corruzione, a differenza delle cose sotto il cielo della Luna, perché sempre così erano stati osservati. Poiché all’osservazione ordinaria un corpo si muove tanto più velocemente quanto più grande è la forza con cui viene sospinto, si riteneva che la forza fosse proporzionale alla velocità. Tra l’altro, si arriverebbe altrimenti a pensare che un corpo possa muoversi senza una forza che lo faccia muovere, cosa che non si è mai vista. Poiché si vede dappertutto che i corpi più pesanti, per esempio una palla di piombo, cadono a terra con velocità più grande dei corpi leggeri, per esempio una piuma, si riteneva che la velocità di caduta fosse proporzionale al peso, e così via. Considerazioni ancora più generali, sempre nell’ambito di questa impostazione basata sulla veridicità di ciò che appare così come appare, ce l’offre il filosofo più insigne dell’università di Padova ai tempi di Galileo, lo Zabarella. Ci si deve convincere, egli asserisce, che è inutile sezionare i corpi, dividerli, analizzarli, pensando di scoprire con questo metodo nuove conoscenze. Con tale metodo infatti si avranno sempre davanti solo oggetti di osservazione che danno l’immediata verità di ciò che immediatamente si osserva, e non qualcos’altro che spieghi quello che si vede, come lo fa invece la considerazione metafisica 6. Cremonini, altro filosofo padovano insigne, non aveva voluto leggere le lettere di Galileo a Marco Welser quando gli si disse che vi si parlava di macchie nel Sole. E in generale i peripatetici, secondo quanto racconta il Viviani nella Vita di Galileo, si rifiutavano di osservare con il cannocchiale i satelliti in giro attorno a Giove, perché l’osservazione vera per loro era solo quella dei sensi nudi non sofisticati e alterati da strumenti artificiali. Tutto questo sostanziale modo di vedere è stato rovesciato dalla 6
Lo Zabarella, aristotelico padovano, aveva cessato il suo insegnamento all’Università di Padova tre anni prima che Galileo iniziasse nella stessa Università il suo insegnamento. Si era occupato soprattutto di problemi logici, in particolare di metodo, su cui ha scritto, tra l’altro, quattro libri De Methodis.
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nuova scienza fisica, e in questo rovesciamento di carattere eminentemente filosofico consiste più propriamente la rivoluzione scientifica moderna 7. I dati di senso non sono affidabili come punto di partenza della ricerca scientifica del mondo fisico. All’opposto si deve partire dalla supposizione che i dati dei sensi hanno una struttura e un ordine diversi da quelli forniti dalle apparenze sensoriali. Contro le “apparenze” sensoriali Galileo lottò per tutta la vita. Si deve partire dalla supposizione, egli scrive, che “il senso nella prima apprensione può errare ed essere bisognoso di correzione, da ottenersi mediante l’aiuto del retto discorso razionale” 8. Così non è il Sole e le stelle che si muovono nella volta celeste, ma è la Terra che gira su se stessa e intorno al Sole. La Terra non è dunque ferma e non è il centro di ogni altro movimento circolare dei corpi celesti: attorno a Giove si muovono i suoi satelliti, come lo dimostra il cannocchiale che potenzia i sensi nudi e non li altera. I corpi celesti non sono sostanzialmente diversi dai corpi sulla Terra, come suggerisce l’osservazione immediata: il Sole ha le sue macchie ben visibili e variabili, e la Luna ha le sue montagne. Su di un piano che fosse “perfettamente levigato” un corpo in moto rettilineo e uniforme manterrebbe la sua velocità senza che alcuna forza lo muova. E “nel vuoto” due corpi di peso diverso cadono con la stessa velocità, anche se “par duro a credere che una lacrima di piombo si abbia a muovere così veloce come una palla sempre di piombo di artiglieria” 9. Gli “esperimenti ideali” (i “Gedankenexperimente”) come in seguito si chiameranno, hanno un valore ancora più grande delle osservazioni sensoriali. Giovanni Battista Benedetti ancor prima di Galileo, nel 1554, si era messo su questa strada. “Contro Aristotele e tutti i filosofi” – egli scrive: Miseri, se sapessero che cosa voglia dire parlare in base a dimostrazione invece che in base all’esperienza sensoriale, non direbbero tali cose; il senso infatti, preso nella sua nudità (simpliciter), nelle cose che non sono propriamente sensibili sbaglia in molti modi, e per il fatto che non possiamo percepire quest’inganno mediante il semplice senso, sembra che le cose non possano essere nella loro verità diverse da come appaiono al senso10. 7
Cfr. il mio saggio “La radice filosofica della rivoluzione scientifica moderna”, Giornale di Metafisica X (1988), pp. 393-420. 8 Opere, VIII, p. 511. 9 Opere, VIII, p. 109.
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Ed esemplifica con la legge della caduta dei gravi ben diversa da quella suggerita dal senso e dagli aristotelici, e inoltre con la falsa apparenza del Sole prima del tramonto, che sembra ancora sopra l’orizzonte per effetto della rifrazione dei raggi, mentre in realtà ne è aldisotto. Gli esempi esposti da questi primi epistemologi della scienza moderna: Galileo, Benedetti, ma anche Copernico, Keplero..., riguardano il macrocosmo, ossia il mondo che appare nelle cose che si presentano al senso e a quelle supposte di queste più grandi in dimensione, come le stelle supposte aldilà di quelle visibili, considerate ormai da Galileo, Keplero, Giordano Bruno, a distanze diverse rispetto alla Terra, e non più poste quindi sulla stessa sfera celeste, e “il piano perfettamente levigato”, o “il vuoto”, raggiungibili soltanto sulla base di “esperimenti ideali”. Su questa strada si andrà sempre più aprendo la struttura del cosmo fino a pensare di poterlo considerare in tutta la sua fisica ampiezza. Ma la natura ultrapercettiva delle strutture raggiunte da questa nuova impostazione della scienza è ancora più evidente nella dimensione opposta a quella macroscopica e ultramacroscopica, ossia nella dimensione microscopica, che, al tempo di Galileo, come si è visto, era stata positivamente esclusa dallo Zabarella. È certo un grande vanto di Bacone aver sottolineato l’ottusità dei sensi proprio soprattutto in questa direzione, ossia nella dimensione microscopica della realtà, anche se ha poi affidato quasi esclusivamente all’ “esperimento” invece che agli “strumenti” tecnici, e razionali, ossia matematici, la penetrazione e l’esplorazione di questa essenziale regione. L’aforisma 50 del Novum Organum (1620) ha in questo senso un’importanza eccezionale: “Ma di gran lunga il più grave impedimento e la più grave aberrazione dell’umano intelletto derivano dal torpore, dall’incapacità e dalle fallacie dei sensi, perché le cose che li colpiscono hanno un peso preponderante rispetto a quelle che non li colpiscono immediatamente... Il senso per sé è infermo e aberrante”. Per cui “le operazioni degli spiriti inclusi nei corpi” e i “meta-schematismi troppo sottili” di cui sono composte le parti più grandi, rimangono nascosti (latent)11. 10
Demonstratio proportionum motuum localium contra Aristotelem et omnes philosophos, 1554, c. 5. Cfr. il mio saggio “Considerazioni sul metodo ‘risolutivo’ in Aristotele, nell’aristotelismo padovano e in Benedetti”, Atti del Convegno intern. su “G.B. Benedetti e il suo tempo”, Venezia 1987, pp. 93-112.
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Non è necessario soffermarsi a esporre nei suoi particolari e nelle fasi del suo sviluppo la scoperta delle strutture ultrapercettive costitutive del microcosmo. Significherebbe ripercorrere tutte le tappe della storia della scienza dai tempi di Galileo fino ad oggi. Non è necessario farlo, come temono scopertamente o nascostamente la maggior parte dei filosofi tradizionali, perché è solo essenziale rendersi conto del fatto che in tutte queste penetrazioni ed esplorazioni di queste regioni della realtà si rimane sempre sostanzialmente aldilà dei dati percettivi, secondo quel principio dal quale abbiamo visto nascere ed erigersi la scienza moderna. Quando Rutherford, per fare un esempio che potrà valere come paradigmatico per tutti gli altri, prese una sostanza radioattiva, orientò le particelle “alfa” invisibili che emetteva, su di una sottilissima foglia d’oro, di cui pure non si poteva vedere la composizione atomica, e raccolse su di uno schermo fluorescente posto aldilà della foglia, le stesse particelle “alfa”, ora deviate in tutte le 11 Gli “spiriti inclusi nei corpi” e i “meta-schematismi” sono spesso indicati come “latens processus” e “latens schematismus” nel N.O. È solo nella seconda parte che questo geniale aforisma 50 decade, là dove afferma che “gli strumenti per amplificare e acuire i sensi non valgono molto”, per cui bisogna ricorrere agli “esperimenti”. Non si è accorto che quella penetrazione ed esplorazione è possibile solo se quegli “esperimenti” sono immaginati, scoperti, realizzati e interpretati proprio basandosi sugli strumenti tecnici, e soprattutto razionali costituiti dalla matematica, in particolare dalla matematica infinitesimale. Ecco l’intero aforisma 50: “At longe maximum impedimentum et aberratio intellectus humani provenit a stupore et incompetentia et fallaciis sensuum; ut ea quae sensum feriant, illis quae sensum immediate non feriunt, licet potioribus, praeponderent. Itaque contemplatio fere desinit cum aspectu; adeo ut rerum invisibilium exigua aut nulla sit observatio. Itaque omnis operatio spirituum in corporibus tangibilium inclusorum latet, et homines fugit. Omnis enim subtilior meta-schematismus in partibus rerum crassiorum (quem vulgo alterationem vocant, cum sit revera latio per minima) latet similiter: et tamen nisi duo ista quae diximus explorata fuerint et in lucem producta, nihil magni fieri potest in natura quoad opera. Rursus ipsa natura aeris communis et corporum omnium quae aerem tenuitate superant (quae plurima sunt) fere incognita est. Sensus enim per se res infirma est et aberrans; neque organa ad amplificandos sensus aut acuendos multum valent; sed omnis verior interpretatio naturae conficitur per instantias, et experimenta idonea et apposita; ubi sensus de experimento tantum, experimentum de natura et re ipsa judicat”. È opportuno almeno nominare a questo punto Paracelso, per il suo quasi maniacale interesse per le strutture del microcosmo nascosto nelle cose dell’ordinaria esperienza macroscopica, e per i suoi indefessi esperimenti volti a portarle allo scoperto, sebbene anch’egli, come e più di Bacone, non abbia capito l’importanza degli strumenti fisici e razionali capaci di renderli idonei a quel loro scopo.
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direzioni, secondo traiettorie esattamente calcolabili, e di cui si vedevano solo i lampi che producevano colpendo lo schermo, riuscì a dimostrare come era composto un atomo. Era composto di particelle positivamente cariche poste in un minuscolo centro, e intorno, a grandissima relativa distanza, di elettroni negativi. Siamo qui davanti a un risultato impercettibile di un comportamento impercettibile di particelle impercettibili. Di tutta questa struttura impercettibile si vedono soltanto alcuni effetti da essa causati sulla realtà percettibile formata della sostanza radioattiva, dell’orientatore, della foglia d’oro e dello schermo che s’illumina di piccoli lampi variamente distribuiti. Da questa nuova rivoluzionaria impostazione della conoscenza del mondo fisico, incominciata con la nascita della scienza moderna e sempre più poi confermata nei suoi ulteriori sviluppi sono derivate per la conoscenza scientifica dello stesso mondo fisico alcuni caratteri che le sono essenziali e che quindi sono da ritenere a buon diritto ormai definitivi. Li esporremo in sintesi, portando in nota esempi classici che possono aiutare la loro comprensione. 1 – Le strutture che stanno alla base di quelle percepibili con i sensi, e da cui queste possono ottenere la loro spiegazione e previsione, sono sostanzialmente impercettibili : sono “modelli” dell’immaginazione12. 2 – In quanto modelli dell’immaginazione sono anch’essi, come i dati di senso, collocati nello spazio e nel tempo13. 3 – Lo strumento razionale che permette di confrontare i modelli dell’immaginazione con i dati di senso è la logica-matematica, primo, perché gli elementi dello spazio (i punti) e gli elementi del tempo (gli istanti) e le loro diverse differenze trovano la loro espressione naturale sia nelle figure e nelle moltitudini presenti nei dati di senso che nelle figure e nei numeri dei modelli dell’imma12 Anche se alla percezione sensoriale la Terra risulta del tutto ferma è tuttavia immaginata del tutto in movimento rotatorio e intorno al Sole. Anche se nulla si osserva di un campo gravitazionale, o elettromagnetico, si immaginano come flussi di forza uscenti dalla loro sorgente. Anche se di un atomo non si percepisce nessuna struttura lo si immagina come un piccolissimo nucleo centrale carico positivamente attorno al quale ruotano elettroni negativi, o come treni d’onda in interferenza stazionaria. 13 Le nebulose lontanissime e oscure e le strutture atomiche elementari, sebbene tutte fuori del campo osservabile sono sempre pensate collocate in zone dello spazio e in movimenti di precise durate nel tempo.
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ginazione, e, secondo, perché le grandezze e le differenze immaginate superano quelle dei dati di senso che sono costitutivamente fissate e limitate dalle “soglie” dei sensi stessi14. 4 – Poiché sia le strutture percepibili che quelle impercettibili appartengono allo spazio e al tempo risulta oltre che possibile anche necessario controllare i risultati dello strumento razionale applicato ai modelli dell’immaginazione con i dati dei sensi previsti dalle strutture immaginate che stanno alla loro base. Ossia la scienza deve essere in definitiva sempre sostanzialmente sperimentale 15. 5 – La scienza pertanto, avendo ben delimitato l’ambito della realtà che è oggetto esclusivo della sua conoscenza e della sua ri14 Sono rigorose equazioni matematiche quelle che indicano i valori degli invisibili campi gravitazionale, elettromagnetico, nucleare, per ogni minima differenza di spazio e di tempo. Già Galileo aveva con chiarezza enunciato questo punto centrale della metodologia scientifica (Il Sarsi, ossia Galileo): “stima che la filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto” (Opere, VI, p. 232). L’affermazione di Kant che in una disciplina c’è tanto di scienza quanto c’è di matematica, in se stessa esagerata, va intesa nel senso dell’universale valore strumentale della matematica nella conoscenza e ricerca scientifica. 15 Sempre in riferimento agli esempi precedenti la scienza deve rendere sempre possibile ma anche necessario prevedere la posizione in cui si trova la Terra rispetto al Sole e agli altri pianeti in ogni momento; la direzione di un ago magnetico posto in un punto qualunque di un campo magnetico; l’attrazione che agisce su di un corpo in un punto qualunque del suo campo gravitazionale, ecc. ecc. È in questo senso che l’esperimento ha un’apparenza di primato rispetto alla ragione calcolante, secondo quanto lo stesso Galileo insegna: “quello che l’esperienza e il senso ci dimostra si deve anteporre ad ogni discorso ancorché ne paresse assai ben fondato” (il corsivo è mio). Sebbene Salviati (Galileo) abbia potuto affermare: “senza esperienza sono sicuro che l’effetto seguirà come vi dico, perché così è necessario che segua” (Opere, VII, p. 171), si tratta di un “effetto” che è conclusione di principi matematici i quali a loro volta sono di carattere “suppositivo” quando intendono esprimere le leggi del mondo fisico, come si esprime Galileo stesso nella lettera a Carcavy del 5 giugno 1637, nella lettera a Giovan Battista Baliani del 7 gennaio 1639, e nei Discorsi intorno a due nuove scienze (VIII, p. 197). Le deduzioni matematiche, seguono con assoluta necessità dalle definizioni, ma rimane da vedere se quelle definizioni esprimono esattamente ‘l’essenza’ della struttura o della legge naturale che intendono definire, ad esempio la definizione di spirale di Archimede o la sua legge del moto
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cerca, dei suoi metodi, dei suoi fini, dei suoi controlli, gode di una sua autonomia rispetto a ogni altro tipo di conoscenza e di ricerca. In particolare rispetto alla metafisica, la quale, riguardando strutture della realtà che prescindono direttamente dalle situazioni spaziotemporali, ossia fisiche, si colloca appunto aldifuori, e aldilà (met£) di esse16. 6 – Per questa sua natura il metodo scientifico garantisce un progresso indefinito. Su di esso è opportuno soffermarsi un po’ più dei gravi: bisogna vedere se “la definizione che daremo del nostro moto accelerato abbia a coincidere con l’essenza del moto naturalmente accelerato” (il corsivo è mio). Tale coincidenza Galileo pensava di averla ottenuta nel suo caso specifico “soprattutto per il fatto che alle proprietà da noi successivamente dimostrate, sembra esattamente corrispondere ed essere congruente (respondere atque congruere) ciò che gli esperimenti naturali presentano ai sensi” (VIII, p. 197). In generale però era ben conscio che tale coincidenza era più un ideale a cui “il calcolatore” poteva avvicinarsi senza pretendere di raggiungerlo completamente: “quando il filosofo geometra vuol riconoscere in concreto gli effetti dimostrati in astratto, bisogna che difalchi gli impedimenti della materia, che se ciò saprà fare, io vi assicuro che le cose si riscontreranno non meno aggiustatamente che i computi aritmetici. Gli errori dunque non consistono né nell’astratto, né nel concreto, né nella geometria o nella fisica, ma nel calcolatore che non sa fare i conti giusti” (VII, p. 234). Sapeva che il piano inclinato perfetto su cui si sarebbe dovuto far rotolare una sfera altrettanto perfetta era figura ideale, “in qualche modo incorporea” (I, pp. 298-299; VII, p. 243; VII, p. 172). E anche per quanto riguarda la nuova astronomia, la nuova via, da essa finalmente trovata, poteva non essere mai completamente percorribile: “chi ci assicura che i movimenti de’ pianeti non siano stati tutti incommensurabili tra di loro, e però capaci, anzi bisognosi, d’una eterna emendazione, poi che noi gli maneggiamo se non come commensurabili? (VI, p. 534). Non poteva prevedere allora, anche se ne aveva ormai il sentore, che “gli impedimenti della materia” si sarebbero dimostrati un costitutivo essenziale della materia stessa, e quindi anche del mondo fisico. Per maggiori dettagli su questa impostazione galileiana cfr. il mio libro Il problema metodologico alle origini della scienza moderna, ed. dell’Ateneo, Roma 1972, capp. V e VI. 16 Era fatale che nei fondatori e nei cultori della nuova scienza del mondo fisico la scoperta di un suo metodo, di un suo fine, di suoi strumenti, di una sua struttura facesse sorgere la tendenza non soltanto a considerare questa loro scienza autonoma rispetto alla metafisica, ma come l’unica conoscenza autentica, e quindi a ritenere la metafisica destituita di un autentico valore conoscitivo. Già in Galileo fa capolino questa tendenza. “Il tentar l’essenza, l’ho per impresa non meno impossibile e per fatica non meno vana nelle prossime sustanze elementari che nelle remotissime e celesti [...] e questa è quella cognizione che ci vien riservata da intendersi nello stato di beatitudine e non prima” (Opere, V, 187-188). La corruzione e generazione di nuove sostanze “non ho per impossibile che possa seguire per una semplice trasposizione di parti, senza corrompere o ge-
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diffusamente. I modelli che sono immaginati per rendersi conto della parzialità (e non della falsità) della realtà rivelata dalla percezione sensoriale e per superarla non possono non essere suggeriti da questa realtà, e insieme dalla convinzione di questa parzialità. È stata, ad esempio, la percezione della cosiddetta “prima” e “seconda disuguaglianza” del movimento dei pianeti, ossia dell’evidenza che essi si muovono alzandosi e abbassandosi sull’orizzonte e che retrocedono talvolta dal loro ordinario movimento da est a ovest, a rendere inverosimile la supposizione che si muovessero con movimenti circolari su sfere ruotanti con movimento uniforme, come pensava l’astronomia tolemaica basata su principi che risalivano a Platone. Per spiegare sulla base di questi principi le disuguaglianze suddette si doveva supporre che i pianeti, oltre a muoversi su cerchi e sfere principali, “deferenti”, si muovessero anche su cerchi e sfere ad essi subordinati, sui cosiddetti “epicicli”, che dovettero aumentare di numero quanto più le osservazioni sempre più precise, permesse da strumenti di osservazione sempre più perfezionati, mostravano movimenti effettivi troppo diversi da quelli previsti e spiegati in base a quei principi. Il sistema divenne inverosimilmente complicato, addirittura “mostruoso”, come si esprime Copernico nella Prefazione al suo capolavoro De revolutionibus orbium coelestium. La previsione si rendeva invece enormemente più semplice e più precisa, ossia più corrispondente ai dati della percezione, se si supponeva che fosse invece la Terra e gli altri pianeti a muoversi intorno al Sole. Poiché ci si muove ormai sullo stesso piano, sia per quanto riguarda la struttura dei dati percettivi che per quanto riguarda i modelli dell’immaginazione: ossia sempre sul piano delle strutture spazio-temporali, e si possono dedurre i primi dai secondi usando lo stesso linguaggio possibile in tale piano, ossia il linnerar nulla di nuovo, perché di simili metamorfosi ne vediamo noi tutto il giorno” (VII, pp. 64-65). Le qualità sono reali solo negli aspetti quantitativi che implicano: “Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori etc. per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l’animale, siano levate ed annichilate tutte queste qualità [...] e stimo che, tolti via gli orecchi e le lingue e i nasi, restino bene le figure i numeri e i moti, ma non già gli odori né i sapori né i suoni, li quali fuor dell’animal vivente non credo che sieno altro che nomi” (VI, pp. 348, 350). Anche l’altro grande pilastro della metafisica, il principio di causalità, come vedremo prossimamente, verrà ridotto a fenomeno puramente fisico-matematico.
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guaggio matematico con le sue esatte dimostrazioni, si rendeva automaticamente possibile il confronto tra i vari modelli e la scelta di ognuno rispetto agli altri. Questa scelta ovviamente dipende dal grado di concordanza tra gli asserti derivati dai principi e quelli che esprimono la situazione offerta dall’osservazione. Questa possibilità di controllo del grado di concordanza fornisce nello stesso tempo la garanzia del grado di validità dei principi inerenti ai modelli immaginati e la possibilità di scelte tra di loro sempre migliori ossia la possibilità di un continuo progresso. Si è parlato di “corrispondenza”, di “concordanza”, qualunque sia la scelta che fa progredire la ricerca e il pensiero scientifico, e mai di esatta coincidenza tra le conseguenze dedotte matematicamente dai modelli ed espresse da proposizioni singolari e i dati di osservazione anch’essi espressi da proposizioni singolari. Anche dopo la rivoluzione copernicana si rese dunque necessario determinare ulteriormente, ossia migliorare, la conoscenza delle orbite dei pianeti pensandole non più circolari ma ellittiche, come dimostrò Keplero, e quindi in seguito ancor più con la teoria della gravitazione universale di Newton, e poi di Einstein che permetteva di spiegare e prevedere nuovi fenomeni inspiegabili con le precedenti, come la curvatura dei raggi di luce e la precessione del perielio di Mercurio. E, per quanto riguarda la regione del microcosmo, nell’esempio, citato come paradigmatico, del modello dell’atomo immaginato da Rutherford come formato da una carica positiva al centro e attorno ad essa, a grandi relative distanze, di elettroni rotanti, da esso derivava una distribuzione di lampi sullo schermo fluorescente che con buona approssimazione concordava con quella effettivamente riscontrata dall’osservazione. Per ciò stesso si dovette abbandonare l’ipotesi di Thompson che, supponendo invece che l’atomo fosse tutto occupato da una carica positiva nella quale navigavano come in una gelatina i vari elettroni, prevedeva una distribuzione di lampi molto più discorde da quella effettiva. La scelta del primo modello dunque rispetto al secondo si imponeva e costituiva un evidente progresso. E tuttavia quanto discendeva dalla teoria di Rutherford non riusciva ancora ad accordarsi con precisione con l’effettiva singola distribuzione dei lampi sullo schermo. Si trattava ancor sempre di un modello indeterminato rispetto alla effettiva realtà dell’atomo. Tant’è vero che si dovette poi ulteriormente immaginare con Niels Bohr che gli elet-
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troni potessero occupare solo determinate orbite circolari e non qualunque, quindi con Sommerfeld che le orbite fossero ellittiche e non circolari, e così via, fino a riconoscere che nessun modello, né corpuscolare né ondulatorio, poteva rappresentare l’effettiva precisa reale struttura dell’atomo, pur dovendo riconoscere che ci si era andati in tal modo progressivamente avvicinando. In tal modo però si manifestava una situazione del tutto nuova della conoscenza possibile del mondo fisico, e quindi anche del mondo fisico stesso, la cui importanza dal punto di vista filosofico superava addirittura quello della nascita della scienza moderna. Su di essa si dovrà dunque ora concentrare la nostra riflessione.
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Capitolo dodicesimo
LE INVALICABILI BARRIERE DEL MONDO FISICO
Si poteva supporre che trovata la sua autentica strada, in cui era garantita la possibilità di un continuo progresso, la scienza avrebbe definitivamente risolto il problema della completa conoscenza del mondo fisico che era il suo preciso specifico oggetto. E così di fatto fu creduto da parecchi scienziati e filosofi. È rimasta celebre l’affermazione di Laplace secondo la quale qualora si conoscesse l’esatta situazione in cui attualmente si trova il mondo fisico e le leggi fisiche da cui è regolato si potrebbe conoscere tutto il suo avvenire e tutto il suo passato. E recentemente L. Wittgenstein più in generale ha scritto: “l’enigma non c’è. Se una domanda può porsi, può pure avere risposta” 1, tesi che è stata chiamata da Carnap, che la condivideva, “l’orgogliosa affermazione dell’onnipotenza della scienza razionale” 2. Vedremo come tali affermazioni, che riassumono un modo di pensare abbastanza diffuso nel mondo moderno e contemporaneo, siano state confutate proprio dalla storia dello sviluppo della scienza, soprattutto dai suoi ultimi esiti. Sarà questo un primo passo che ci introdurrà a capire la ragione di simile critica situazione in cui si trova per sua natura la conoscenza scientifica del mondo fisico, una ragione che si trova quindi più propriamente aldilà del piano scientifico, sul piano del pensiero strettamente filosofico. Incominciamo dall’esito dello sviluppo del pensiero scientifico nella dimensione ultramacroscopica del cosmo. Alla scienza è riuscito di dimostrare che le stelle e le galassie più lontane si allontanano con velocità proporzionale alla loro distanza da ogni punto di 1
Tractatus logico-philosophicus, 6, 5. Der logische Aufbau der Welt, Berlin 1928; tr. it. La costruzione logica del mondo, F.lli Fabbri, Milano 1966, p. 360. 2
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Il ritorno dell’essere
osservazione, ossia che l’universo è “in espansione”. Ne deriva che retrocedendo nel tempo, è possibile trovare il momento in cui tutta la materia del cosmo, ora dispersa in tutte le direzioni dell’espansione, era concentrata nel punto da cui questa espansione è incominciata. È il momento del Big Bang in cui si è avuta l’iniziale esplosione, che è stato effettivamente valutato a circa 15 miliardi di anni or sono. Altro dato fondamentale. In tutto l’universo è presente una cosiddetta “radiazione fossile”, che è dovuta dunque a un fenomeno comune a tutti i corpi dell’universo stesso, e la cui temperatura assoluta attuale dà un’indicazione del tempo che tale radiazione ha impiegato dalla sua origine per arrivare, raffreddandosi, a questa temperatura attuale stessa: come la temperatura a cui si trova un motore ancora caldo di un’automobile indica da quanto tempo quel motore è stato spento. Sorprendentemente indicativo è il fatto che il risultato del calcolo relativo al primo evento dell’espansione dell’universo è uguale a quello relativo al secondo evento della “radiazione fossile”, il che indica che questi due eventi coincidono nell’indicazione di un identico inizio da cui è partito l’universo fisico. Tutto l’universo è dunque, per così dire, tenuto insieme da questo universale movimento di espansione che, appunto riguardando l’universo nel suo insieme, riguarda anche ogni corpo che lo costituisce. Anche in ogni corpo sarà possibile trovare qualcosa che indica la sua appartenenza alla totalità dell’universo fisico, e quindi che indica l’unitarietà dell’universo fisico stesso. Questo “qualcosa”, prima piuttosto misterioso, è andato manifestandosi sempre più nella scienza. Newton aveva già mostrato e dimostrato che tutti i corpi si attirano, ossia che sono tra di loro legati con un legame che è direttamente proporzionale alla massa dei corpi stessi e all’inverso del quadrato delle loro reciproche distanze. Abbiamo detto “misterioso” questo “qualcosa” all’inizio della sua manifestazione. Newton infatti si era limitato a esprimere l’equazione matematica della forza che tiene uniti tutti i corpi, nonostante la forza contraria espansiva che li costringe invece ad allontanarsi l’uno dall’altro. Per cui si era sentito in obbligo di dichiarare che non voleva “formulare ipotesi” (hypotheses non fingo) sulla natura di questa forza di cui riusciva soltanto a calcolare numericamente la intensità. Una notevole migliore chiarificazione di questa “misteriosa”
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natura si è avuta poi con la teoria della “relatività generale” di Einstein. Questi infatti, basandosi su di una ancora molto generica intuizione di Ernesto Mach, ossia sull’esatta equivalenza della “massa inerziale” di un corpo qualunque con la sua “massa gravitazionale”, ossia della resistenza che ogni corpo oppone ad essere mosso con la massa che abbiamo visto responsabile della sua attrazione con tutti gli altri corpi, è riuscito a determinare, sia pure in modo ancora inevitabilmente generico, l’intensità della forza che un corpo verrebbe a risentire in ogni punto dello spazio e del tempo. Si tratta dunque di una forza universale, ossia che pervade tutto l’universo fisico, il quale pertanto si configura come un unico “campo di forza” variamente distribuita, l’unico “campo della gravitazione universale”. Si è parlato di determinazioni “ancora inevitabilmente generiche”, perché nelle equazioni che le esprimono deve necessariamente figurare la distribuzione delle masse materiali dell’universo che può essere data soltanto in modo approssimativo. Tuttavia il mistero rimane. Saper determinare l’intensità con cui “qualcosa” agisce su ogni corpo che si trova in ogni punto spaziotemporale, e quindi il movimento fisico che ne consegue, non significa ancora sapere che cosa sia questo “qualcosa” che agisce, né che cosa sia quel corpo di cui viene conosciuto soltanto il conseguente movimento nello spazio e nel tempo. Un oggetto della realtà è enormemente di più della sua massa materiale e del suo movimento nello spazio e nel tempo. La chiara dimostrazione della misteriosità di questo “qualcosa” che agisce su tutti i corpi è stata espressa chiaramente proprio da coloro che più di tutti gli altri l’avevano messo in evidenza. Scrive Einstein: Tutti i tentativi di fare dell’etere3 una realtà fisica sono falliti. Esso non ha rivelato né la propria struttura meccanica, né il moto assoluto4 [...] sembra giunto il momento di dimenticare l’etere e di non pronunciarne più il nome. Diremo dunque che il nostro spazio possiede la facoltà di trasmettere le onde, e cesseremo di usare una parola ormai inutile. Ma l’omissione di un vocabolo dal nostro dizionario non è un rimedio. Il nostro imbarazzo è infatti troppo serio per venir eliminato in tal guisa5. 3 Per “etere” s’intende ciò in cui si trovano tutti insieme i corpi fisici, ossia lo spazio fisico assoluto. 4 Per “moto assoluto” s’intende non già il moto di un corpo rispetto agli altri corpi (moto “relativo”), ma l’eventuale moto di ciò in cui sono tutti i corpi. 5 Einstein-Infeld, Physik als Abenteuer der Erkenntnis, Brill, Leiden 1938; tr. it.
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La sola precisa qualità che Einstein riesce a rilevare a proposito di questo “etere”, che pure trasmette le onde e così raggiunge ogni corpo in esso immerso è di “non essere una realtà”. Questo discorso vale per tutto l’etere, vale anche per quelle sue zone costitutive di quel campo atomico e nucleare in cui si trovano le cosiddette “particelle” di cui è composto ogni corpo materiale. Parlando dell’analogo “campo elettromagnetico” 6 Maxwell, dopo essere riuscito a scriverne le equazioni matematiche, termina il suo trattato con una domanda a cui non sa dare risposta: Se si ha la trasmissione di un qualche cosa da una particella all’altra a distanza, quale è la sua condizione dopo che ha lasciato una particella e prima di raggiungere l’altra? [...] Ci deve essere un mezzo o sostanza in cui l’energia esiste dopo aver lasciato un corpo e prima di raggiungere l’altro7.
È una domanda che vale per ogni “campo”, compreso quello, come si è visto, gravitazionale. A uno stesso esito universale e fondamentale è arrivata la ricerca scientifica nella dimensione opposta a quella finora considerata, ossia nella dimensione microscopica, cioè la ricerca degli elementi minimi, ultimi di cui pare debba essere composto ogni corpo del mondo fisico. Basandosi sul cosiddetto “buon senso” dell’esperienza ordinaria, veniva spontaneo pensare che vi fosse uno o più elementi irriducibili della materia di cui è costituito il mondo fisico, e quindi che l’analisi portata avanti con i rigorosi metodi immaginati dalla scienza moderna avrebbe finito per scoprirli definitivamente. Il risultato della ricerca ha smentito invece definitivamente questa “ovvia” aspettativa. L’analisi rigorosa della materia è incominciata con la nascita e con lo sviluppo della chimica, dopo la dissoluzione delle fantasie, su cui prevalentemente si reggeva l’alchimia, delle “qualità occulte” del “flogisto”, delle “simpatie” e “antipatie” esistenti tra le varie sostanze della natura. Esse furono sostituite dalla conoscenza delle precise leggi che regolano le reazioni in cui le sostanze del mondo fisico si compongono e si scompongono seL’evoluzione della Fisica, Einaudi, Torino 1948, pp. 184-185. 6 Ossia la zona in cui un corpo caricato elettricamente o magneticamente risente un influsso che lo pone in movimento. 7 A Dynamical Theory of Electromagnetic Field, Philosophical Transaction, London 1865, Treatise of Elecrticity and Magnetism, Cambridge 1873; tr. it., 2 voll., UTET, Torino 1973, § 866, p. 66; cfr. “Non abbiamo dato nessuna spiegazione di questo sforzo e di come esso venga mantenuto”, ibid., § 110, pp. 367-368.
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condo proporzioni fisse e ben determinate, calcolabili esattamente sulla base della possibilità, divenuta realtà, di pesare esattamente, prima e dopo le reazioni empiricamente constatabili, i vari componenti, e sul principio universale che in natura “nulla si crea e nulla si distrugge” (Lavoisier). Si vide allora che i famosi quattro elementi ultimi e fondamentali della tradizione: terra, acqua, aria e fuoco, erano ben lontani da essere “ultimi” e “fondamentali”, perché anch’essi composti di elementi ben più elementari. Anche le molecole, gli ultimi elementi delle sostanze del mondo fisico che possiedono le stesse caratteristiche delle sostanze a cui appartengono, sono composte a loro volta di elementi più originari, gli “atomi”, i quali dunque, il nome stesso con cui vennero chiamati lo indicava, erano pensati come “non ulteriormente divisibili”. Ma era anche questo un sogno che doveva poco alla volta dissolversi. In base a prolungati meticolosi esperimenti si riuscì a capire quanto invece complessi erano questi atomi, di cui, come si è detto, si arrivò a evidenziare la composizione complessiva: un nucleo centrale, e attorno elettroni il cui numero e le cui orbite determinavano il tipo di atomo. E la cosa si ripete per il “nucleo” prima ritenuto semplice, irriducibile, e poi invece composto di protoni, neutroni, mesoni, e quindi di quark, e così via. Le cose a questo punto, invece di semplificarsi, si complicarono quanto più ci si addentrava dentro la presunta “ultima semplicità”. Si fece chiaro poco alla volta che l’analisi verso gli ultimi componenti della materia si complicava in un senso diverso da quello evidentemente implicito nelle difficoltà di una sempre più raffinata divisione, un senso che è da ritenersi ormai definitivo, e quindi di fondamentale valore. Si espresse in forme apparentemente diverse, ma tutte derivanti in realtà da una comune radice. Ricorderemo le principali. Applicando le formule classiche dell’elettromagnetismo, codificate da Maxwell, all’atomo a cui si era arrivati, tutti gli elettroni periferici in un tempo brevissimo (10-8 secondi) avrebbero dovuto precipitarsi nel nucleo centrale per la perdita dell’energia dovuta al loro velocissimo movimento circolare. Inoltre, applicando le leggi della termodinamica e ancora dell’elettromagnetismo per ottenere la legge della relazione tra l’intensità della radiazione della materia riscaldata, illuminata (in particolare per semplicità di un “corpo nero”), con la frequenza della radiazione stessa si ottiene una for-
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mula (di Rayleigh e Jeans) in cui l’intensità aumenta con il quadrato della frequenza, con la conseguenza che l’energia irradiata risulterebbe infinita, contro l’evidenza dei fatti. Per ottenere la relazione corrispondente a quella sperimentale, Planck dimostrò che si doveva supporre, contro un presupposto fondamentale della fisica classica, che l’energia è discreta, discontinua, formata di granuli, di quanti, i “quanti d’azione” (energia per il tempo), di cui determinò l’esatto valore. Le conseguenze furono rivoluzionarie: sia la materia, come si sapeva da sempre, che la radiazione si mostrarono discontinue, ossia manifestarono una natura corpuscolare; ma nello stesso tempo si rese evidente che sia la radiazione, come si sapeva da sempre, che la materia, mostrarono anche una natura ondulatoria. In sintesi, tutta la realtà fisica (materia e radiazione) nei suoi elementi fondamentali, evidentemente i più importanti della sua costituzione, mostrava due aspetti, due volti incompatibili tra di loro, e tuttavia ambedue ad essa essenziali. Voleva dire che la realtà fisica è in se stessa contraddittoria? Che è assurda, e quindi irreale? No certo. Voleva solo dire che è in se stessa indeterminata, ossia che il suo aspetto ondulatorio e corpuscolare sono soltanto sue manifestazioni, che non colgono la radicale realtà di cui sono manifestazioni. Le formule matematiche, da cui si ricavano le grandezze quantitative di questi aspetti della realtà, danno soltanto la distribuzione della probabilità di trovare, in base alle possibili misurazioni fisiche di questa profonda realtà microscopica del mondo fisico, la posizione nello spazio-tempo di una particella e dello stato in cui si trova, in cui però quanto più viene determinata la posizione tanto meno rimane determinato lo stato, e viceversa. Siamo dunque davanti a possibilità in se stesse soltanto “virtuali” che si realizzano nei vari aspetti e valori, determinabili solo secondo probabilità, a seconda del modo, in particolare a seconda degli strumenti che si adoperano osservandoli e misurandoli 8. L’interpretazione chiamata “ortodossa” di tale critica situazione 8 Le equazioni di E. Schrödinger danno la distribuzione di queste probabilità, e le “relazioni di indeterminazione” di Heisenberg determinano matematicamente l’aumento dell’indeterminazione della quantità di moto (e quindi dello stato) in cui si trova la particella in esame all’aumentare della precisione con cui la si vuole trovare collocata nello spazio, o viceversa.
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della struttura fine di base degli eventi fisici è che l’applicazione di uno strumento di osservazione di qualunque realtà fisica allo scopo di manifestarla e determinarla disturba in una maniera non oggettivamente determinabile l’oggetto da osservare o misurare, proprio per il semplice fatto logico che chi osserva o misura non è per definizione l’oggetto dell’osservazione e misurazione, pur dovendo necessariamente interferire con l’oggetto stesso. La conseguenza generale di questa fondamentale situazione la troviamo riassunta, tra le molte altre, in sostanza equivalenti, nelle parole di Niels Bohr, il primo pioniere di questa interpretazione: L’incompletezza dell’analisi meccanica dei fenomeni atomici proviene in ultima analisi dall’ignoranza della reazione dell’oggetto sugli strumenti, presente in ogni procedimento di misurazione. Come il concetto generale di relatività esprime la dipendenza essenziale di ogni fenomeno dal sistema di riferimento spazio-temporale adottato, così la nozione di complementarità posizione-velocità, corpuscolo-onda simbolizza una limitazione fondamentale, rivelata dalla fisica atomica, dell’esistenza oggettiva, e indipendente dagli strumenti impiegati per la loro osservazione, dei fenomeni fisici9.
W. Heisenberg, uno dei fondatori della fisica quantistica ha ancor più approfondito e generalizzato questa conclusione: Le leggi della natura che formuliamo matematicamente nella teoria quantistica non trattano più delle particelle elementari. La questione se queste particelle esistono “in sé”, nello spazio e nel tempo, non può più dunque essere posta, perché noi possiamo parlare sempre soltanto dei processi che si svolgono quando inferiamo il comportamento della particella con qualche altro sistema fisico, per esempio con gli apparecchi di misurazione. La rappresentazione di una oggettiva realtà delle particelle elementari si è dunque dissolta in una maniera sorprendente non nella nebbia di una nuova, confusa e non ancora capita rappresentazione della realtà, ma nella trasparente chiarezza di una matematica, che non ci dà più il comportamento della particella elementare, ma della nostra conoscenza di tale comportamento10.
In queste due ultime righe del fisico Heisenberg viene indicato con chiarezza il tipo di limite invalicabile e definitivo a cui è arrivata la conoscenza delle strutture microscopiche del mondo fisico, 9 “Licht und Leben”, Naturwissenschaften 21 (1933); tr. it. Teoria dell’atomo e conoscenza umana, Boringhieri, Torino 1961, pp. 380-381. 10 Das Naturbild der heutigen Physik, Rowohlt, Hamburg 1965, p. 12.
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Il ritorno dell’essere
analogamente a quanto si è visto accadere per le strutture ultramacroscopiche. La realtà fisica, considerata precisamente nella sua fisicità non è spiegabile con i mezzi che sono propri della scienza. La scoperta di questa inspiegabilità, ossia di questa essenziale indeterminatezza a cui la scienza è arrivata non è più una conoscenza fisica del mondo, ma una conoscenza di quale natura sia questa conoscenza fisica, ossia appunto “una rappresentazione... della nostra conoscenza” del comportamento delle particelle costitutive della realtà fisica. È solo per questa indeterminatezza essenziale che si spiega come vi siano immagini (corpuscolare, ondulatoria) della realtà necessarie e nello stesso tempo incompatibili: “L’indeterminazione dalla quale ciascuna di queste immagini è inficiata e che viene espressa dalle relazioni d’indeterminazione è sufficiente appunto a evitare le contraddizioni logiche tra le diverse immagini” 11. Così la scienza, sia nelle sue esplorazioni verso l’infinitamente grande che in quelle verso l’infinitamente piccolo, ci porta fino 11
Ibid., p. 26. È noto come eminenti fisici (Planck, Einstein, von Laue, De Broglie all’inizio della nuova fisica, e più recentemente A. Alexandro, D. Blohincev, L.I. Mandelsta, Jarossy, Bohm) non si siano mostrati soddisfatti di questo esito della scienza fisica atomica. La loro “fede” (non può essere chiamata altrimenti) nell’assoluto determinismo dei fenomeni della natura, che sarebbe la garanzia di fondo della sua oggettività li ha spinti a supporre “variabili nascoste” da inserire nelle strutture matematiche del mondo fisico assieme a quelle classiche “ortodosse” della fisica quantistica. Ma il vizio originale di queste “variabili nascoste” è appunto di non essere sperimentalmente controllabili, secondo un principio fondamentale della metodologia scientifica postgalileiana. La supposizione da cui devono partire queste teorie “realistiche” porta a risultati che, a differenza di quella “ortodossa”, si sono mostrate in disaccordo con precisi dati sperimentali (la bibliografia è enorme. Mi limito a segnalare il molto documentato libro di Max Jammer, The Philosophy of Quantum Mechanics, J. Wiley & Sons, New York-London-Sydney-Toronto 1974, che così conclude: “The experiment was therefore carried out at Bell Laboratories, at Harvard University, and at Berkeley and at each place different atomic sources were used for the photon pair production. The results obtained seem to confirm the prediction of quantum mechanics and not those of local hidden variable theories. They thus provide strong evidence against the existence of local hidden variables”, p. 339. Più recentemente (1982) l’esperimento, ancora più sofisticato, diretto da Alain Aspect nell’Istituto di Ottica dell’Università di Parigi, ha dato gli stessi risultati). In modo molto suggestivo e molto noto, Einstein, riluttante ad accettare la nuova mentalità probabilistica della nuova fisica quantistica, ha espresso questo suo rifiuto dichiarando che “Dio non gioca a dadi”, ossia che non stabilisce le strutture della natura in maniera indeterminata. Il guaio è che il fisico, per quanto geniale sia, non è Dio, e si distingue da Dio appunto perché ha bisogno di dadi per giocare.
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L’essere del mondo fisico
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all’atrio del santuario in cui è nascosta la verità del mondo fisico preso nella sua totale globalità, senza potervi entrare. La porta che permette di accedervi può essere aperta solo con una chiave che non appartiene più ormai al mondo fisico, pur consentendo di rivelarne il senso e i limiti che lo costituiscono.
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Il ritorno dell’essere
Capitolo tredicesimo
L’UNITÀ NASCOSTA DEL MONDO FISICO: LO SPAZIO-TEMPO
Rimanendo dunque all’interno del mondo fisico non solo non è stato possibile trovare l’unità su cui esso si basa, ma si è potuto dimostrare, ed è questa una tappa di incalcolabile valore dal punto di vista filosofico oltre che scientifico, che non è per principio possibile in esso trovarla. Dovremo quindi cercarla in un’altra dimensione ben più profonda e ampia di quella fisica, in quella rigorosamente filosofica, ossia metafisica, andando cioè aldilà della piccola porzione dell’essere, o meglio aldilà del particolare aspetto dell’essere, dato dalla sua fisicità. Ogni essere vivente inizia e si forma attraverso le sue sensazioni. Significa che riceve stimoli diversi dall’ambiente in cui si trova, e ne conserva le tracce. Ogni stimolo seguente può in tal modo evidenziarsi, ossia manifestarsi nella sua diversità dagli stimoli precedenti, e il vivente può quindi in conseguenza reagire ad esso in modo diverso. Se per impossibile si avesse un solo stimolo, o anche più stimoli ma sempre esattamente uguali, non si avvertirebbero. Così in particolare il primo stimolo, nella supposizione che vi fosse, non potrebbe essere avvertito. Solo quando la sua traccia venga ritenuta nell’organismo e confrontata con quelle degli altri stimoli, esso emerge, viene identificato. Da semplice “stimolo” dell’ambiente colto in una semplice “sensazione” diventa allora un “oggetto” dell’ambiente che si manifesta in una “percezione” del vivente. Sono differenze di grande importanza, dalla cui inavvertenza sono derivate in psicologia, fisiologia, filosofia molte confusioni. Anche una semplice pianta o un semplice animale avverte la differenza degli stimoli che riceve, e reagisce diversamente, come abbiamo già considerato parlando della vita biologica in generale. In questo
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vasto senso anche una pianta o un animale ha la “percezione dell’oggetto” da cui riceve lo “stimolo”. Si deve però anche aggiungere che la pianta, l’animale, la differenza degli stimoli l’ha “in sé” e non “per sé”, in quanto ha solo la possibilità di atteggiarsi diversamente in corrispondenza alla diversità degli stimoli senza accorgersi di questa possibilità. Ma le cose cambiano radicalmente in quel particolare vivente che è l’uomo. Non solo egli, come gli animali, “riconosce” i diversi stimoli, comportandosi così diversamente rispetto ad essi, come abbiamo a suo tempo studiato, ma “riconosce” anche le diverse differenze delle tracce che essi hanno lasciato, anche indipendentemente quindi dalla presenza degli stimoli. L’insieme delle diverse differenze diventano così un’unica struttura differenziata di differenze. Nel primo caso gli oggetti sono avvertiti e tenuti differenti, ossia ognuno di essi esclude gli altri; nel secondo caso sono riscattati dalla loro estraneità, perché ogni oggetto diversamente diverso dagli altri mantiene in sé queste sue differenze come costitutive della propria identità. Questa sua diversa differenza da tutti gli altri lo colloca nel suo posto preciso nell’insieme di tutti gli altri posti riservati agli altri oggetti. L’identità quindi di un qualunque oggetto è costituita dalla trama delle sue diverse differenze da tutti gli altri oggetti: è per questa onnipresenza in ogni oggetto delle sue differenze dagli altri oggetti che l’oggetto è precisamente quell’oggetto che è, ed è riconosciuto per quello che è. Si faccia bene attenzione che non si tratta ovviamente dell’onnipresenza degli altri oggetti nell’oggetto presente, ma delle loro differenze, o meglio delle differenze delle loro “tracce”. Sono queste differenze che rivelano l’oggetto presente, ossia che trasformano lo “stimolo” puramente fisico nella “manifestazione” dell’oggetto, per cui esso viene “riconosciuto”, e diventa l’oggetto di un soggetto. Questa è l’unità vera di ogni oggetto con ogni altro oggetto. Un oggetto qualunque la porta con sé, è un suo costitutivo, è la sua identità. Questo tipo di differenza riguarda dunque il contenuto di una cosa qualunque, tutto il suo contenuto manifesto: le sue qualità, i suoi colori, la sua grandezza, il suo comportamento, e così via, ed è tanto lontana dal contrastare l’identità della cosa, da costituirla addirittura. Vi è tuttavia una diversità tra le cose di ben altro tipo, che, a differenza della precedente separa le cose, le tiene fuori l’una dall’altra: è la loro diversità “fisica”, ossia la loro diversa colloca-
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zione nello spazio e nel tempo. Perfino due oggetti che appartengono alla stessa specie, che hanno dunque lo stesso essenziale contenuto: due cavalli, due stelle, due piante d’ulivo, che ovviamente strutturano nello stesso modo tutte le loro differenze dagli altri oggetti, appaiono diversi, sono collocati in due punti diversi dello spazio e i loro comportamenti si svolgono in intervalli diversi di tempo. E tuttavia le collochiamo nello spazio e nel tempo. Si può correttamente dire che si trovano in diverse zone dello stesso spazio e in diversi intervalli dello stesso tempo. Che cos’è allora questo nuovo tipo di diversità e soprattutto di unità, e dove si trova? Per rispondere a questa domanda occorre prima di tutto mettere in chiaro due costitutivi essenziali del mondo fisico. Il primo consiste nel fatto che oltre alle variazioni dell’ambiente a cui corrispondono variazioni dell’organismo, le quali, come si è appena visto, colte poi nella loro diversa differenza costituiscono l’identità degli oggetti dell’esperienza, vi sono variazioni dell’ambiente che non sono colte dall’organismo, ossia variazioni a cui l’organismo non reagisce e non si trasformano quindi in esperienza. In particolare anche in ogni singolo oggetto dell’ambiente, qualunque esso sia, vi sono differenze che non sono colte dall’organismo. La psicofisica ha dimostrato da molto tempo che per ogni senso dell’organismo vi è una “soglia”, un “limen”, ossia una ben determinata differenza, aldisotto della quale, ossia per differenze minori della quale, il senso non reagisce, non si modifica, non le coglie1. Per orientarsi su qualche ambito di questa nascosta enorme dimensione “subliminare”, ossia infrasensoriale, e quindi anche infrapercettiva, si ricordi che l’ambito in cui le onde elettromagnetiche si rendono visibili, ossia sono colte dagli occhi, è il piccolo intervallo che sta tra 0,38 e 0,78 micron (milionesimi di metro), mentre l’ambito delle onde dei raggi X2, e dei raggi gamma3 vengono ingoiati dall’oscurità, ossia dall’impossibilità di rivelarli. Altrettanto per le onde sonore, ossia per le vibrazioni dell’aria rivelate 1 Le opere di E.H. Weber e di G.T. Fechner stanno alla base di questo importante ramo della scienza, che è stato poi ulteriormente sviluppato da filosofi come H. Bergson (cfr. il suo Saggio sui dati immediati della conoscenza) e da molti altri psicologi. Per maggiori dettagli rimando al mio libro Il senso della ricerca scientifica, ed. dell’Ateneo, Roma 1978, cap. IX: “L’indeterminatezza dell’esperienza percettiva”. 2 Da millimiliardesimi a centomilionesimi di metro. 3 Da centesimi di millimiliardesimi a decimiliardesimi di metro.
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dalle vibrazioni del timpano dell’orecchio. Possono esser avvertite solo se la loro frequenza è compresa tra 16-20 e 16.000-20.000 hertz (numero di vibrazioni al secondo). Aldifuori di questo intervallo le variazioni delle onde vengono ingoiate dal silenzio. Per ogni frequenza caratteristica di un colore o di un suono vi è un limite inferiore di intensità aldisotto del quale il colore e il suono non vengono percepiti (“soglia di visibilità” e di “udibilità”). E inoltre le variazioni di frequenza, ossia le variazioni del numero delle vibrazioni al secondo, devono essere sufficientemente ampie perché si avverta la variazione di colore e di suono. Le differenze tra due punti di un corpo qualunque aldisotto di una certa soglia non sono avvertite dall’occhio, ossia “il potere separatore” dell’occhio, ma poi anche in generale di ogni strumento per quanto raffinato sia, è molto limitato. E inavvertite rimangono le variazioni nel tempo, ossia gli accadimenti che avvengono in un tempo inferiore al decimo di secondo. Tutta questa massa enorme di variazioni sono ingoiate dall’ottusità. La seconda componente essenziale del mondo fisico, su cui ci soffermeremo un po’ più a lungo perché riteniamo che non sia stato sufficientemente colta e valutata nel suo senso profondo, sostanzialmente consiste nel fatto che le differenze dell’ambiente che non vengono avvertite dai sensi, e quindi dalla percezione e dalla coscienza, esistono, e agiscono in essa quanto quelle avvertite. Negarlo equivarrebbe tra l’altro a negare l’esistenza della scienza. In tutta la sua sorprendente nuova sistemazione e nei suoi moderni enormi sviluppi, la scienza ha infatti manifestato di consistere sostanzialmente nella capacità effettivamente realizzata di penetrazione e conseguente esplorazione delle strutture, ossia delle differenze e conseguenti loro relazioni, situate “aldidentro”, ossia aldisotto delle “soglie” dei sensi, aldisotto dunque delle differenze e conseguenti relazioni rivelate dai sensi. È una struttura di differenze enormemente più fitta e complicata di quella avvertita dai sensi. La chimica, l’elettromagnetismo, la fisica atomica e subatomica, la biologia molecolare hanno qui la loro sede. Solo che, appunto per la loro stessa definizione, queste strutture, oggetto della scienza, non si rivelano direttamente attraverso le sensazioni e conseguenti percezioni, pur dimostrando poi la loro realtà attraverso controlli che avvengono sul piano di queste sensazioni e percezioni. La realtà di queste strutture nascoste dentro e aldilà di
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quelle rivelate dai sensi supera ormai in evidenza e importanza quella di queste ultime4. Se ora si tiene bene presente quanto si è sopra esposto, ossia che ogni oggetto dell’esperienza ottiene la sua identificazione, ossia diviene se stesso per le sue differenze da tutti gli altri, il nascondimento della maggior parte di queste sue diverse differenze costituisce una sua componente altrettanto essenziale quanto quella costituita dalle sue differenze effettivamente percepite. Non sarà difficile accorgersi che questa esistente nascosta struttura che riguarda ogni oggetto dell’esperienza corrisponde a quel fondamentale concetto della esperienza ordinaria e soprattutto scientifica che è chiamata “la materia”. Sulla sua contrapposta valutazione negativa e positiva nella storia del pensiero è quindi ora opportuno accennare. Per Platone la materia è addirittura un “non-essere” ( mæ ‘n ), perché inconoscibile in quanto opposta alla “forma” che è “idea pura”, e perché questa “idea pura” diventa oscura proprio quando viene “partecipata” e “imitata” nelle cose materiali. Aristotele, Plotino, e poi la filosofia Scolastica medioevale classica si sono tenuti sostanzialmente fedeli a questa valutazione negativa, puntellata da considerazioni di carattere metafisico e religioso più che da ricerche di carattere anche soltanto vagamente scientifico. Anche quando nasce la scienza moderna Cartesio considera la materia come qualcosa di vago, di astratto, di formale, la cui caratteristica principale è “l’estensione”, ossia l’estraneità in cui stanno le cose o le parti di un corpo le une rispetto alle altre. Ma già nell’antichità con Democrito inizia l’altra robusta valutazione, stavolta positiva, della materia. Egli riteneva che se si guardano le cose “secondo ragione” risulta che la materia è composta di atomi impercettibili, indivisibili, infiniti, separati tra di loro dal vuoto, diversi in forma e grandezza, senza qualità: una struttura dunque ben definita, e sottoponibile a dimostrazioni rigorose. Se si 4 “[...] la fisica moderna mi ha assicurato con delicata esperienza e logica inesorabile che la mia seconda tavola scientifica [fatta di ‘campi di forza’, di ‘elettroni’, ecc.] invisibili è la sola veramente esistente” (A. Eddington, The Nature of Physical World, Cambridge 1928; tr. it. La natura del mondo fisico, Laterza 1935, p. 12). “Per il fisico moderno, il campo elettromagnetico è altrettanto reale quanto la sedia su cui egli siede” (Einstein-Infeld, Physik als Abenteuer der Erkenntnis, Leiden 1938; tr. it. L’evoluzione della Fisica, Einaudi, Torino 1948, p. 161).
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segue invece la “percezione sensibile” si approda soltanto a una conoscenza “confusa”. Alla fine della Scolastica, Occam e i Nominalisti, pur privilegiando la conoscenza “intuitiva”, che coglie i singolari, rispetto a quella “astrattiva” dell’intelletto, “che conosce le cose esterne all’anima confusamente” 5, ritengono tuttavia che la conoscenza confusa dei singoli individui materiali dipende appunto dalla debolezza dell’intelletto, il quale con le sue idee astratte è incapace di cogliere la ricchezza racchiusa nella realtà materiale e individuale. Si rovescia in tal modo qui la classica impostazione platonica e aristotelica con quanto ne è seguito. È su questa linea che si muoverà prevalentemente la filosofia italiana del Rinascimento (Telesio, Nizolio, Giordano Bruno,...). Più tardi, in opposizione alla concezione formalistica di Cartesio, Galileo e poi Newton identificano la materia con la “massa” di un corpo, e la fanno protagonista del movimento fisico e in generale del comportamento dei corpi materiali. Ancora più decisa opposizione alla concezione di Cartesio si trova in Leibniz, per il quale tale concezione cartesiana non renderebbe conto della “inerzia propria della materia, ossia della sua resistenza al movimento”, il che rivela come nella materia sia presente, oltre “l’estensione”, anche una forza attiva, “l’antitypia”, ossia “ciò che fa sì che un corpo sia impenetrabile all’altro” 6. Questa valenza positiva della materia si rende ancora più manifesta secondo Leibniz, se la si considera da un punto di vista metafisico. Essa si presenta allora addirittura come “mens momentanea, seu carens recordatione” 7, e ha sì anche lì una componente passiva, la “materia prima”, ma indubbiamente anche una componente attiva: “una massa come risultato”, che “presuppone sostanze semplici o unità reali” 8. Siamo davanti a una concezione dinamica, realistica, che si troverà con sempre maggior frequenza in altri, in R. Boscovich per esempio, per il quale “i punti inestesi e indivisibili separati da intervalli”, costitutivi della materia esercitano a distanza azioni alternativamente attrattive e repulsive. E in Kant, secondo il quale “la materia 5
Expositio super duos libros Perihermeneias, in Philosophical Writings, raccolti da Ph. Boehner, Nelson, Edinburgh 1962, pp. 44-45. 6 Examen des principes du p. Malebranche, 1712; ed. Erdmann, Berlino 1840, p. 691a. 7 Ed. Erdman, IV, p. 230. 8 Nouveaux essais, IV, c. 3.
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riempie lo spazio con forze repulsive di tutte le sue parti” 9. La scienza moderna ha chiarito e confermato ambedue queste componenti: positiva e negativa, che sono andate sempre più evidenziandosi nella lunga storia del concetto di materia. È ormai certo che nella materia, ossia in ogni parte del mondo fisico, abitano e agiscono strutture complicate e forze di incalcolabile potenza, le quali però nello stesso tempo restano in gran parte nascoste in un’indeterminazione che non è soltanto “di fatto”, ma “di principio”, ossia che è un costitutivo essenziale della materia, sia pure con costante possibilità di indefinita riduzione. Siamo così arrivati finalmente a un panorama complessivo del mondo fisico. È risultato composto di due regioni ambedue essenziali anche se radicalmente diverse. La prima è la regione del suo essere manifesto, fatto di cose talmente unite tra di loro da risultare ciascuna di esse dalla struttura di tutte le sue diverse differenze da tutte le altre cose. Queste differenze, e quindi questa manifestazione, sono andate formandosi attraverso le sensazioni e le conseguenti loro relazioni percettive. L’altra regione del mondo fisico è la sua regione nascosta costituita dalla struttura di tutte le diverse differenze che sono inosservabili, ossia che stanno aldisotto delle “soglie” degli stessi sensi e quindi delle conseguenti percezioni. Di fronte alla regione estremamente varia delle cose manifeste questa seconda regione, altrettanto reale quanto la prima, è contrassegnata dalla caratteristica dell’assoluta mancanza di manifestazione osservabile, e quindi dalla totale uniformità del suo nascondimento. Si tratta di un uniforme totale nascondimento su cui stanno tutte le cose manifeste nella loro diversità. Tale nascondimento è prima di tutto nascondimento degli eventi che, aldisotto degli eventi e comportamenti manifesti da cui è scaturita la manifestazione delle cose, sono tutti contrassegnati dal loro nascosto uniforme procedere, e quindi poi in conseguenza anche nascondimento della situazione a cui in ogni momento quell’uniforme nascosto procedere conduce. Questa regione nascosta ma reale in uniforme movimento aldilà di tutte le singole cose, assieme alla costitutiva parziale unità che sta alla base della manifesta superficiale diversità delle cose stesse, costituisce ciò che viene sentito e pensato come il tempo e lo spazio 9
Metaph. Anfangsgründe der Naturwissenschaft, Riga 1786, p. 36.
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in cui sono situate tutte le cose. Cerchiamo di chiarire un po’ meglio questa intricata struttura a costo di ripeterci. Abbiamo visto come tutte le cose siano tali in quanto ognuna consiste nella trama di tutte le sue diverse differenze da tutte le altre, con le quali dunque deve confrontarsi per essere se stessa. Questa comune loro natura può essere indicata come il principio universale di identità, perché individua una cosa qualunque attraverso il suo riferimento a tutte le altre. Questa comune natura manifesta le cose unendole costitutivamente tra di loro, e quindi manifesta nello stesso tempo se stessa. Ma questa manifestazione delle cose e quindi di se stessa è soltanto parziale e per questa parzialità le cose sono tenute separate le une dalle altre, pur conservando tutte il complemento della loro completa unità nella loro regione nascosta. Esse quindi in definitiva appaiono come isole diverse che emergono da questa loro completa totalità in parte ad esse nascosta. È questa totalità, che è in parte manifesta e in parte nascosta, e nella quale pertanto la parte manifesta si trova come in essa contenuta che fa scaturire in una esperienza cosciente finita il concetto e il sentimento del tempo. Il movimento che è implicito nell’oggetto di tale concetto e di tale sentimento nasce dal fatto che sia la regione manifesta della realtà che quella nascosta si costituiscono, si formano, si identificano attraverso i comportamenti delle cose. Sono i comportamenti delle cose che le portano necessariamente fuori di sé per confrontarsi e differenziarsi con quelli delle altre cose. Lo spazio è la situazione in cui si trovano le due regioni con la distribuzione di tutte le loro cose in un momento qualunque (e quindi in ogni momento) di quell’inarrestabile flusso che è il tempo. Evidentemente è dunque per un’astrazione che si può separare lo spazio dal tempo, di cui è solo un’istantanea sezione. Ancora a causa della complessità di questa struttura del mondo fisico, che tuttavia va tenuta tutta simultaneamente presente, è forse utile aiutarsi con qualche immagine che la renda più visibile, sia pure con tutti i difetti e le limitazioni che ogni immagine comporta a confronto della realtà che intende rappresentare. La paragoneremo dunque a quella del nostro globo terrestre. In esso vi sono i continenti, le isole, gli arcipelaghi che emergono dall’oceano e che quindi sono ben visibili e abitabili. L’oceano uniforme li separa da tutto ciò che sta aldisotto della sua superficie, e che pertanto, reso
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invisibile e inapprodabile, risulta apparentemente tutto uniforme e apparentemente tutto annullato. Tuttavia le strutture del globo immerse nel profondo oceano, anche se non percettibili al senso, esistono, e possono essere portate in piccola parte, attraverso meccanismi complicati di immersione e di pescaggio, aldisopra dell’uniforme superficie, e quindi essere anch’esse percepite così da confermare l’autentica esistenza delle strutture che rimangono e sempre rimarranno nascoste nelle profondità dell’oceano. Il senso dell’immagine è chiaro: i continenti, le isole, gli arcipelaghi sono i contenuti manifesti dell’esperienza, aldisotto dei quali, separati dalla soglia dei sensi come dalla superficie di un oceano, stanno i contenuti nascosti dell’esperienza, che, appunto per il loro nascondimento, sono uniformati in quella loro comune dimensione che è la loro materia. Materia dunque consistente anche nella possibilità implicita in ogni punto del globo di essere ricercata e pescata. La molteplicità dei continenti, delle isole, degli arcipelaghi è superficiale, e certamente reale per chi vive in queste isole aldisopra dell’oceano, anche se a un livello più profondo di realtà, tutti senza eccezione sono tenuti insieme dall’unico globo. Essi sono e non possono non essere nell’unità del globo, che è realizzata effettivamente nel profondo, e dal quale quindi emergono tutti. Le variazioni manifeste che si evidenziano su queste terre emerse sembrano isolate e indipendenti perché queste terre sono separate dall’oceano, ma in realtà esse sono contenute tutte senza eccezione nelle strutture e nelle vicende di tutto il globo senza del quale non possono accadere, e nel quale quindi pur nella loro apparente discontinuità, sono tutte raccolte. È in questa unitaria vicenda di tutto il globo, che è nascosta e uniforme dentro l’oceano, manifesta e separata nelle terre emerse, che è rappresentato il tempo e lo spazio del mondo fisico. L’immagine, abbiamo detto, è naturalmente imperfetta. Ci limiteremo a una sola osservazione. Nell’immagine l’oceano, e l’acqua che lo costituisce, è della stessa sostanza fisica delle terre emerse e dei corpi in esso nascosti. Ma nella realtà che volevamo rappresentare ciò che separa le cose manifeste dalle loro strutture nascoste e tiene nascoste queste ultime è di natura radicalmente diversa. Non appartiene più alle cose fisiche, è un limite essenziale delle cose per cui esse diventano cose separate, cose fisiche. Per questa ragione, dopo aver pensato che questa radice del nascondi-
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mento delle cose fisiche appartenesse al mondo delle cose fisiche, e averlo chiamato “etere”, o “spazio e tempo assoluti”, gli scienziati si misero accanitamente a ricercarlo con strumenti fisici, ma sempre invano. Finché, come si è visto, Einstein, e dopo di lui tutti gli altri, hanno finito per dimenticarlo. Non appartiene alla fisica, ma è alla radice della fisica, ed è quindi più reale delle cose della fisica. Un’altra immagine dello spazio-tempo da cui risulta più chiaro il senso negativo della separazione tra la struttura manifesta e la più ampia struttura nascosta in cui quella è contenuta, e quindi più chiaro e più vero anche il rapporto in cui le due strutture si trovano, può essere quella di una nave nella cui stiva senza oblò verso il mare parecchie persone conversano, giocano, lavorano senza avere la visione della nave in cui si trovano né dei suoi movimenti, anche se dagli scossoni che tutte sempre risentono hanno una comune confusa percezione di questa nave e di questi movimenti. Il loro vicendevole comportamento è la struttura manifesta, i sommovimenti da essi indirettamente percepiti e che si combinano con lo stesso loro comportamento è la struttura nascosta. La separazione tra le due non è ovviamente di natura fisica e non ha alcuna consistenza positiva: è solo dovuta al nascondimento per la coscienza dei viaggiatori del comportamento più ampio della nave e del mare in cui essi si trovano. In questa visione complessiva dello spazio-tempo costitutivo del mondo fisico si possono riscontrare le varie interpretazioni che di esso si sono succedute nella storia della scienza e della filosofia. La supposizione, usuale nell’esperienza ordinaria, e per molto tempo in quella scientifica, della separazione dello spazio dal tempo, pensate come se fossero due realtà diverse, nasce dal fatto evidente che le cose, a causa della parzialità del loro essere manifesto, appaiono indipendenti ciascuna dalle altre e quindi sottratte all’unico flusso in cui tutte insieme esse si trovano nel loro profondo. In realtà anche il semplice volo di una farfalla in America fa cambiare tutte le sue distanze da tutte le altre cose della Terra e addirittura dell’Universo, e quindi tutte queste da quella; solo chi tiene esclusivamente lo sguardo e l’attenzione sulla farfalla attribuisce solo a lei il suo movimento e non si accorge minimamente della nuova situazione in cui viene a trovarsi il mondo fisico nella sua totalità. Sembra che la farfalla si muova nello stesso spazio. In generale dunque le cose dell’universo pensate superficialmente nel loro
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isolamento sembrano mantenere nel loro movimento un rapporto fisso e permanente rispetto alle altre cose, così che lo spazio, ossia la distribuzione delle cose in un dato momento, si stacca dal flusso continuo in cui esse invece effettivamente nel loro profondo si trovano, ossia nel tempo. Leibniz ha sottolineato questo aspetto della fissità in cui isolatamente si trovano le singole cose e quindi la loro complessiva vicendevole situazione nei vari momenti del tempo, e ha scorto in esso la sostanza dello spazio. “La nozione dello spazio”, egli dice, nasce quando gli uomini “considerano più cose esistenti insieme e vi trovano un certo ordine di coesistenza (ordre de coexistence)”. Nel cambiamento del loro posto “secondo certe regole fisse” pensano alla “possibilità di determinare il rapporto di situazione [distanza] in cui ciascuna verrebbe a trovarsi rispetto alle altre”. Quando alcune cose si sostituiscono ad altre in un rapporto uguale rispetto a quelle che non hanno avuto cambiamenti dicono che “hanno lo stesso posto (la même place)”. Ebbene, “ciò che contiene tutti questi posti è chiamato spazio” 10. Sebbene qui sia concepito ancora lo spazio come “contenitore” (comprend) di tutti questi “posti”, questi “posti” sono chiaramente visti come rapporti di distanze tra cose coesistenti, sicché in definitiva la spazio è così definito: “Lo spazio non è altra cosa che un ordine dell’esistenza delle cose che risulta dalla loro simultaneità” 11, ossia dalla loro fissità nel tempo (ossia apparentemente da un arresto del tempo). L’esigenza che ha portato Newton, e quindi tanti altri filosofi e scienziati, a cercare l’unità di tutte le cose in uno spazio “assoluto”, e l’unità di tutti gli eventi in un tempo “assoluto”, nasce dal fatto che effettivamente tutte le cose sono sostanzialmente unite tra di loro, e tutti gli eventi scorrono in un unico flusso che è loro sostanziale. “Sostanziale” nel senso che non vi è nessuna cosa che non coinvolga tutte le altre, e nessun evento che non coinvolga tutti gli altri, secondo quanto si è visto. Ma l’errore consisteva nel cercare questa unità di tutte le cose e di tutti gli eventi ancora nella loro separazione, nella loro diversità, nel loro essere insieme, in definitiva nel loro essere fisico (in un “etere”), adoperando quindi per 10 “Et ce qui comprend toutes ces places, est appelé Espace”, Die Philosophischen Schriften, VII, ed. C.I. Gerhard, Berlin 1890; ed. fotost. Olms, Hildesheim 1965, p. 400. 11 Ibid., p. 395.
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evidenziarlo strumenti razionali (matematici) e tecnici (interferometro, ecc.) che si adoperano quando si indaga il mondo fisico. Abbiamo già constatato che questa strada non poteva portare altro che alla delusione. Solo con Kant si è seriamente incominciato a pensare che questa unità, questo spazio e tempo, “in cui sono tutte le cose e tutti gli eventi”, non sono oggetti fisici, ma sono di altra natura ben diversa da quella fisica. Dirli però “forme a priori” della sensibilità, significa fermarsi a un loro aspetto, certo non più fisico, ma ancora solo formalistico, e quindi vago, astratto, indeterminato. È come semplicemente dire: lo spazio e il tempo sono unità di tutte le cose e di tutti gli eventi sensibili senza essere a loro volta sensibili. Ma scompare allora del tutto la loro costitutiva dimensione reale. L’unità delle cose sensibili è nel loro stesso contenuto, nel loro più vero costitutivo contenuto, prima (in senso ontologico e cronologico) della loro separazione e dispersione superficiale dovuta al fatto che quel loro contenuto è in buona parte nascosto, ossia non completamente manifesto.
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Capitolo quattordicesimo
L’ UNITÀ MANIFESTA DEL MONDO FISICO: SOSTANZIALITÀ, CAUSALITÀ, QUANTITÀ
Riprendiamo il discorso dalle due regioni in cui abbiamo visto scomposto il mondo fisico: la regione “manifesta” risultante dalla trama delle diverse differenze formatesi attraverso la percezione sensibile, e la regione “nascosta”, data anch’essa da diverse differenze reali, di cui però non è possibile la percezione, per cui di fronte a quest’ultima risulta del tutto uniforme e indeterminata. Nello spazio-tempo di cui abbiamo poc’anzi trattato il mondo fisico nella sua totalità è visto dalla sua regione nascosta. Allora la regione manifesta scomposta nelle sue cose appare come emergente da un fondo uniforme che la comprende sia nel suo divenire (il tempo) che nel suo essere (lo spazio). Ma è possibile vedere il mondo fisico dall’altra regione, dalla sua regione manifesta. Allora esso risulta composto di varie sostanze nel suo essere e di vari nessi causali nel suo divenire. Delle sostanze e dei loro nessi causali dovremo dunque ora trattare. Ogni cosa del mondo: una pianta, un sasso, una stella, appare in quanto è il risultato delle sue diverse differenze da tutte le altre cose. Tutte le altre cose sono dunque presenti nelle loro differenze nella cosa che appare. Sebbene la cosa: il sasso, la stella, sembri isolata, la sua manifestazione la lega a tutte le altre da cui in fondo deriva. Essa emerge da questa struttura che è dunque il suo fondamento, la sua base, il suo soggetto. Questa sua componente essenziale ha un nome famoso nella tradizione ordinaria e poi anche filosofica: è la sostanza, ossia ciò che sta sotto (sub-stans ; ÿpoceÖmenon), ciò che sta a fondamento della cosa. Sappiamo anche con altrettanta certezza da quanto si è andati dicendo precedentemente, che le diverse differenze di una cosa
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qualunque da tutte le altre che non si manifestano, esistono, e si constata in continuazione, attraverso le ricerche e le scoperte della scienza e della filosofia, ma lo intravede anche il semplice senso comune, che agiscono sulla cosa stessa, pur non essendo percepibili ai sensi. Aiutiamoci ricordando un esempio già proposto. Un organismo qualunque non mostra all’osservazione ordinaria la maggior parte delle sue interne e intime differenze costitutive. Non si scorgono i polmoni, i reni, e così via, e quindi neppure le loro operazioni, ma è chiaro che la respirazione ben visibile e l’orina che si elimina dipende da questi organi, dalle loro funzioni e dalle loro effettive azioni. E nell’esperienza scientifica quando si va ad analizzare ulteriormente questi organi e quindi a evidenziarli, a un certo punto in queste analisi ci si deve fermare non solo “di fatto”, come è evidente, e come lo stesso classico positivismo del secolo scorso aveva ben messo in risalto, ma anche “in linea di principio”, come ci ha insegnato la scienza quantistica di questo secolo. Questa enorme struttura di diverse differenze non riscontrabili ai sensi, che tuttavia ha sempre agito e agisce nella formazione di una cosa qualunque, sta anch’essa alla base e al fondamento del suo comportamento, costituisce anch’essa dunque parte costitutiva della “sostanza”, stavolta tuttavia di ben altro tipo, di tipo “materiale”, a confronto della quale, quella manifesta, di cui abbiamo sopra parlato, la potremo quindi chiamare, con la tradizione filosofica classica, sostanza “formale”. La sostanza di una cosa qualunque risulta dunque composta di due elementi essenziali: la sostanza “formale” e la sostanza “materiale”. Il “tutto insieme” di una cosa, il s⁄nolon, come lo chiama Aristotele e la tradizione aristotelico-scolastica, è fatto di “forma sostanziale” e di “materia sostanziale”. Insieme formano il “soggetto” delle sue qualità di cui sono sempre rivestite le cose dello spazio e del tempo. È il “soggetto” che chiameremo “alla prima potenza” per distinguerlo da un loro soggetto ben più profondo che chiameremo “soggetto alla seconda potenza”, di cui dovremo dunque ora dire sia pure assai brevemente (3, 8). La struttura di diverse differenze che abbiamo visto stare al fondamento di una cosa qualunque (chiamiamola A, ad esempio la rosa) deve essa pure manifestarsi perché identifichi proprio A (la rosa), ossia quella particolare sostanza a differenza delle altre sostanze (chiamiamole B, C, D,...: il tavolo, la candela, la stella). A è infatti se stessa perché tutte le altre sono se stesse, ossia perché la
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struttura comprensiva di tutte le differenze dalle altre cose hanno ciascuna una diversa differenza comprensiva di tutte le differenze dalle altre cose. Non potrebbe evidenziarsi ossia manifestarsi la diversa differenza di una cosa dalle altre se non si sapesse che ogni altra cosa a sua volta è differente in modo diverso da tutte le altre. Quando si dice infatti diversa differenza di A da tutte le altre cose come costitutiva della cosa A, questa altre cose devono appunto essere concepite come “cose”, come “sostanze”, ossia come contenuti essenziali ognuno dei quali è formato dalle differenze diverse dalle altre. Naturalmente, come si è altrove detto, nella manifestazione di A non sono presenti le altre cose, ma le loro differenze da A, differenze che implicano la possibilità della presenza di queste altre cose, quando la A deve uscire da se stessa per identificarsi attraverso le sue differenze dalle altre cose, e quindi viene da esse sostituita. Ci si può aiutare con un’immagine. La struttura delle diverse differenze da tutte le altre cose che identificano la A la possiamo paragonare a un piano che si estende all’infinito, e che è formato da tutte le distanze in cui un punto A' si trova rispetto a tutti gli altri punti del piano. Queste distanze raffigurano tutte le diverse differenze in cui A si trova rispetto a tutte le altre. Chiamiamo questo piano a per ricordarlo relativo alla cosa A. Se questo piano a ruotasse intorno al punto A' in tutte le diverse altre possibili direzioni dello spazio, divenendo così il piano b, c, d, ecc, nello spazio ora tridimensionale, cambierebbero tutte le diverse distanze dei punti, e quindi, fuori di metafora, dalla cosa A si sarebbe passati alla cosa B, C, D, ecc. Facciamo ora un secondo passo nel nostro paragone. La presenza virtuale di tutte queste strutture di diverse differenze (raffigurate dai piani b, c, d,...) in ognuna di esse A, quando questa è presente come reale, come attuale, costituisce la manifestazione di questa struttura reale, la manifestazione di A. Pensando allora che ogni struttura è la sostanza, ossia il soggetto costitutivo della cosa presente nella sua attualità (nella raffigurazione: le varie distanze dei punti del piano a), questa struttura di strutture è il soggetto di quei primi soggetti, un “soggetto alla seconda potenza”, ossia la coscienza che sta alla base di ogni manifestazione della cosa. Siamo così arrivati all’ “io reale”, dal quale dunque dipende, e addirittura nel quale si costituisce ogni manifestazione ossia ogni
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contenuto delle cose nella loro attualità. Un “io reale” fatto prevalentemente delle infinite strutture virtuali presenti in ogni cosa attuale, e quindi anche in ogni situazione attuale, come sua manifestazione1. Un “io reale” a confronto del quale quello rappresentato dell’ “io penso” di Kant, dalla sua “appercezione trascendentale”, mostra tutto il suo carattere puramente formale, il suo aspetto parziale e la sua dipendenza da quello autenticamente reale. Solo perché ogni cosa si manifesta come struttura attuale che contiene virtualmente tutte le strutture in cui risiede la manifestazione di tutte le altre cose, “la cosa viene pensata”. “L’io penso” non pensa niente se non è detto ciò che pensa, esattamente come il “penso dunque sono” di Cartesio non dice niente se non dice, sia pure in assoluta genericità, cos’è il contenuto di questo pensiero. L’intuizione certo geniale di Kant è stata quella di considerare la “sostanzialità” come una categoria appartenente al soggetto cosciente, e non più al mondo fisico considerato nella sua fisicità, nella sua struttura spazio-temporale, ma rimane ancora in lui il limite di farne una categoria dell’intelletto del soggetto cosciente, invece che del soggetto cosciente stesso, del soggetto alla seconda potenza, dell’io reale. Il soggetto alla prima potenza allora, la particolare cosa A attualmente presente nella sua sostanza, di fronte a quell’indefinita molteplicità di strutture potenziali costitutive di tutte le altre sostanze virtuali che in essa è contenuta, si configura come un “oggetto” che sta di fronte al suo “soggetto”. Ogni cosa presente è “oggetto” (ob-jectum), ossia “posto” o addirittura “opposto” al suo soggetto, al suo fondamento dal quale soprattutto è costituito nella sua manifestazione. Si è detto che la sostanza attuale A contiene la molteplicità di quelle virtuali, ma a ben considerare, poiché la complessa struttura delle sostanze virtuali dà la manifestazione di quella attuale, è essa che contiene quella attuale più che essere da questa contenuta. Se, nonostante questa intrinseca reciprocamente costitutiva relazione in cui una cosa sta con tutte le altre, per cui si ritrovano nel loro autentico io, queste cose appaiono distinte tra di loro, e addirittura tra di loro separate, questo dipende dall’opposto di ciò 1 Abbiamo parlato e così faremo usualmente, di “cose” attuali, ma ovviamente il discorso vale anche per complessi, situazioni di cose: un paesaggio, una biblioteca, una stanza ammobiliata, ecc. attualmente presenti.
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che le ha rese intrinsecamente unite, ossia dalla assenza nella loro manifestazione di tutte le trame di diverse differenze che abbiamo individuato come l’altro elemento costitutivo della stessa sostanza di ogni cosa, ossia dipende dalla sua materia. Ne deriva che il passaggio da una struttura essenziale costitutiva di una cosa (la trama delle sue diverse differenze) a un’altra costitutiva di un’altra cosa non avviene più con continuità, ma con discontinuità, come se nella nuova struttura andasse in parte perduta la struttura precedente che l’aveva generata (si ricordi la materia come “mens momentanea, seu carens recordatione” di Leibniz). Nel paragone che abbiamo precedentemente usato il passaggio da ogni piano al successivo non avviene con continuità, e pertanto il risultato di tutti questi passaggi non sarà una sfera di raggio infinito, ma un insieme di innumerevoli piani tutti passanti per quello che sarebbe dovuto essere il punto centrale della sfera, una pseudo-sfera dunque scompaginata nell’insieme, sia pure estremamente compatto, delle sue innumerevoli sezioni, in cui al posto del centro vi è la zona indeterminata costituita dalle imprecisioni, dagli errori, dagli sbandamenti dell’io reale. Il nostro discorso è partito dalla struttura orizzontale di tutte le diverse differenze che costituisce la “sostanza” di una cosa qualunque, il suo contenuto essenziale manifesto, il soggetto alla prima potenza. Come se ogni cosa: “un sasso”, “una rosa”, possa considerarsi in sé autonoma, sostanzialmente indipendente dalle altre cose. E così infatti è stata considerata dalla filosofia occidentale classica partendo soprattutto da Aristotele2. Gli scolastici hanno ulteriormente sottolineato questo concetto definendo la sostanza “ciò che è in sé e non in un altro come in un soggetto” (quod in se est et non in alio tamquam in subjecto)3. Al contrario dell’ “accidente”, il quale, come dice il nome, “accade” a una sostanza, e quindi è nella sostanza: “il rosso” è nel sangue e nella bandiera, invece il sangue e la bandiera sono in se stessi e non in un altro. Vi è una profonda ragione in questa tesi, ed è che ogni sostanza, implicando, come si è visto, le sue differenze da tutte le altre, impegna tutte le altre cose, le ha tutte in sé, sia pure nelle loro differenze, e quindi non può 2
Cfr. Metaf., soprattutto libro VII. Substantia “significat essentiam cui competit per se esse”, S. Tommaso, Summa theol., I, q. 3, a. 1; “Quidditati seu essentiae substantiae competit habere esse non in subjecto”, ibid., III, q. 77, a. 1. 3
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essere in nessuna delle altre. È questa la sostanza del grande principio d’identità e di non-contraddizione. A un livello più profondo però, appunto perché ognuna è data da questa trama di differenze da tutte le altre, dipende da tutte le altre, è in relazione essenziale con tutte le altre, dalle cui differenze soltanto può costituire se stessa. Il sangue non può essere tale se non contenesse in se stesso l’ossigeno, se non fosse prodotto da un organismo e non funzionasse in un organismo, e quindi in tutti i suoi organi. Il problema che allora si presenta è in che modo si instaurano queste relazioni di una cosa con le altre da cui deriva la sua identità. La risposta è perfino ovvia. È dal modo come una cosa agisce e reagisce con tutte le altre che essa si identifica e diventa se stessa. Questo modo però va inteso in un senso estremamente pregnante: si tratta del modo come la cosa agisce e reagisce a differenza di come agiscono e reagiscono tutte le altre cose. In altre parole, il suo modo di agire e reagire si manifesta solo nella sua differenza dai modi delle altre cose; il che significa che una cosa qualunque si sviluppa, emerge e si identifica assieme, simultaneamente, a come emergono e si identificano le altre cose. Il suo modo di agire, e quindi di essere, emerge come polo attuale di tutti gli altri modi di agire e reagire che contiene virtualmente in sé, e che faranno emergere le altre cose quando si presenteranno nella loro attualità. Questi altri modi delle altre cose non sono attualmente presenti in quella attuale, ma la presenza delle loro differenze è la manifestazione di quello attuale. La palla di bigliardo A che spinta da una forza F rotola sul piano ben levigato fino a colpire e mettere in moto un’altra palla uguale B posta sullo stesso piano è un’esperienza che non emerge da sola. Essa è collocata nell’insieme delle moltissime altre possibili esperienze che con la loro differenza da essa la fanno emergere, e di cui sarà qui sufficiente nominarne alcune: l’esperienza dell’urto della stessa A contro una bolla di sapone della stessa grandezza di B, che allora invece di muoversi si rompe; l’esperienza del lancio di una palla di piombo invece della solita palla normale molto meno pesante A; l’esperienza della spinta di un cubo di ferro contro un altro cubo di ferro sullo stesso tavolo, e così via. È da tutte queste diverse innumerevoli altre possibilità estese a tutta l’esperienza possibile che l’esperienza con la palla di bigliardo identifica la palla da bigliardo e la fa emergere per quello che è. Si ha qui la spiega-
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zione di ciò che nella filosofia classica era denominata “causa formale” di una cosa, e anche del fatto messo in evidenza da Kant che “la causa” è una categoria dell’intelletto, e quindi in definitiva dell’ “io” (da lui, come si è visto, ridotto all’ “io penso”), perché implica per un certo verso tutta l’esperienza, addirittura non la sola esperienza del pensiero, della conoscenza, ma tutta l’esperienza reale, ossia l’esperienza dell’io reale. La causalità tuttavia, proprio perché implica l’io reale con la sua esperienza reale, ne implica anche l’indeterminatezza, che, come si è a lungo discorso, deriva dall’assenza nella sensazione e quindi nella coscienza, e quindi nell’io, della maggior parte delle diverse differenze, le quali tuttavia esistono e agiscono appunto dal di fuori della coscienza dell’io. Accanto alla causa “formale” derivante dalle diverse differenze di cui si ha coscienza, esiste una causa “materiale” derivante dalle diverse differenze rimaste estranee alla coscienza ma nondimeno costitutive della cosa stessa. È soprattutto nel rapporto tra questi due costitutivi essenziali di ogni sostanza che si verificherà il nesso di causalità. La quale pertanto solo per un’astrazione della ragione potrà essere separata dalla sostanzialità e dalla sua duplice composizione. Vi sono in continuazione variazioni nella struttura “materiale”, ossia “non manifesta” di ogni cosa che determinano variazioni nella sua struttura manifesta. Non vi è roccia, pianta, animale, uomo, in cui i mutamenti continui della struttura nascosta dei suoi atomi, delle sue molecole, cellule, tessuti, non modifichi il suo aspetto e il suo comportamento manifesti, osservabili. Le rocce sono catalogate in base al tempo in cui, dopo essersi formate, sono andate trasformandosi, e quindi assumendo l’aspetto e le proprietà osservabili che sono diventate loro specifiche; ogni pietra dei templi antichi portano nel loro aspetto e nella loro varia consunzione il segno delle trasformazioni che hanno prodotto quelle ora constatabili ai sensi; ogni organismo mostra la sua età, la sua decadenza e quindi la sua morte fatale in base a variazioni che avvengono in quella parte di se stesso che sfugge nella sua composizione alla sua sensazione e alla sua coscienza. Ma viceversa è anche modificando la struttura formale, manifesta, di una cosa qualunque, che si determina, sempre per l’unità intrinseca dei due elementi essenziali di ogni cosa, una modificazione della sua struttura materiale invisibile. Quando buttiamo nel
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fuoco un bicchiere, ossia una cosa ben determinata nel suo costitutivo formale, modifichiamo il suo costitutivo interno materiale, ossia invisibile, con una modificazione tale che in conseguenza anche quel suo precedente costitutivo formale viene modificato. Noi ci limitiamo a gettarlo nel fuoco quale si manifesta nella sua componente formale, ma è la conseguente modificazione materiale interna del bicchiere che determina la sua modificazione esterna formale, ossia il suo passaggio a un’altra sostanza. Nella causalità cosiddetta “efficiente” parrebbe a prima vista che questa composizione metafisica di ogni sostanza sia esclusa, e quindi non debba essere considerata. E così effettivamente incominciarono a pensare, e poi con sempre più decisa persuasione pensarono molti scienziati e filosofi della natura quando vollero rendersi conto delle “cause” dei movimenti dei corpi nello spazio e nel tempo, che chiamarono “forze”. Il grande scienziato Max von Laue lo esprime con molta chiarezza. Si cercava dietro il concetto di forza fisica qualcosa di più profondo, di metafisico, uno sforzo (Streben) intrinseco ai corpi per unirsi, ad esempio nella forza di gravità, ai corpi simili. Oggi ci riesce difficile capire questo punto di vista.
Ricorda che anche dopo la lunga lite tra cartesiani, per i quali la misura di tale forza era data dall’“impeto” (mv, massa per velocità) del corpo, e i leibniziani per i quali invece doveva essere l’energia cinetica o “forza viva” (mv2), anche dopo l’indecisione di Newton e l’opinione di d’Alembert per il quale si trattava di una “lite verbale” (Wortstreit), rimase sempre qualcosa di “mistico” attaccato a questo concetto fondamentale. Ma finalmente nel 1874 G.R. Kirchhoff disse la parola definitiva (das erlosende Wort): La meccanica è la scienza del movimento; indichiamo come suo compito la descrizione completa e più semplice possibile dei movimenti che hanno luogo nella natura4.
E von Laue continua: Si tratta soltanto di conoscere il vettore, chiamato forza, come funzione dello spazio del punto materiale (Massenpunkt) o del tempo o anche di ambedue... Di più la fisica non può e non ha bisogno di fornire. Se il lettore della parola “descrizione” sente a 4 Prima proposizione delle sue “Lezioni di Meccanica” (Vorlesungen über Mechanik).
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questo punto qualcosa che manca alla spiegazione causale, gli sia detto: spiegare un processo naturale può solo consistere nel connetterlo per mezzo di leggi di natura note con altri processi, ossia nel descrivere un complesso di processi tra di loro connessi come un tutto. Questa nozione oggi si è generalmente bene affermata e non soltanto per la meccanica5.
Sì, vi è evidentemente qualcosa che manca alla pura descrizione del movimento spazio-temporale dei corpi: da una parte manca la regolarità con cui avviene tale movimento, e dall’altra l’impossibilità di una precisa determinazione quantitativa di tali movimenti, così da apparire in buona parte come affidata al caso. La prima è espressa dalle leggi matematiche che legano tra di loro i vari movimenti, l’altra l’impossibilità di un accordo perfetto tra i risultati di tale calcolo matematico e la situazione effettiva in cui si trovano i vari componenti del processo. La prima deriva dalla comune appartenenza dei corpi fisici alla stessa regione uniforme nascosta rappresentata dalla loro materia indeterminata, la seconda dal fatto che tale appartenenza è appunto indeterminata nella sua sostanza. In altra parole, da un punto di vista puramente fisico il discorso di questi scienziati è certamente sufficiente, ma non lo è da un punto di vista filosofico. Qui si esige infatti di sapere perché i processi della natura sono legati tra di loro “secondo leggi di natura in modo da formare un complesso totale unitario” (Komplex Zusammenhängender Vorgänge als Ganzes). E inoltre di sapere perché “le leggi della natura” sono tante e diverse nonostante i continui sforzi degli scienziati, per cui questa mancanza di unità è soltanto sostituita dal fatto esteriore che tutti questi processi avvengono nello spazio e nel tempo; e perché i risultati delle misure ricavate dalle “leggi della natura” non sono mai coincidenti con i dati riscontrabili nell’esperimento e nell’osservazione. È la mancanza della risposta a questi interrogativi che rende la “descrizione” (Beschreibung) puramente matematica e fisica della realtà fisica, e prima ancora dell’esperienza ordinaria, sempre avvolta in ciò che von Laue chiama “qualcosa di mistico” (etwas Mystisches), per cui rimane l’impressione che qualcosa “vada perduto del vero rapporto causale”. Per rispondere a queste domande occorre ritornare alla causa formale, a quella materiale, e al loro rapporto. Ogni oggetto è quello che è per il suo modo di agire e reagire che lo differenzia da 5
Geschichte der Physik, Universitäts-Verlag, Bonn 1947 2, pp. 22-23.
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quello di tutti gli altri oggetti. L’espressione “lo differenzia da” colloca l’oggetto in questione nell’insieme di tutti gli altri oggetti, ossia sul piano della coscienza (ben più che in quello dell’intelletto, come pensava Kant), e quindi nella regolarità del suo comportamento. Questa palla da bigliardo, abbiamo detto, è il segno del comportamento regolare di questo oggetto della coscienza, che si colloca in un ambito ben delimitato dell’esperienza data da tutti gli altri oggetti e comportamenti. E tuttavia sappiamo in antecedenza che non sapremo mai con totale esattezza dove si troverà quando spinto dalla mano e dalla stecca la lanceremo sul tavolo da bigliardo contro le altre palle e contro le sponde dello stesso tavolo. È infatti un oggetto di cui si sa “in genere” la sua regolare collocazione nell’ambito di tutta l’esperienza, ma è formato anche di diverse differenze dagli altri oggetti che non sono state colte dalle sensazioni e quindi poi dalla coscienza dell’osservatore, per cui bisognerà soltanto “osservare” quello che accadrà dopo il lancio. Il suo viaggio nello spazio e nel tempo è il suo viaggio nel regno di quelle differenze che non sono state catturate e sintetizzate dalla sensazione e dalla coscienza, ma che pure operano su di esso. Tali differenze ci sono, sono infatti visibili con gli occhi, come lo sarebbero le altre di una palla di legno, di piombo, ecc.; sono misurabili con il metro e con l’orologio; ma non sono confondibili, come ha ben messo in evidenza Hume, con la causalità, la quale quindi dovette essere posta da Kant, in una sua prima approssimazione, nell’intelletto di una coscienza. Una indiretta, parziale comprensione delle diverse differenze che non sono state catturate dai sensi e dalla coscienza dell’uomo ce la dà comunque la scienza stessa. Essa ci permetterà di capire la traduzione del loro significato di “materia” metafisica in quello eminentemente fisico di “massa”, che ha un’importanza centrale nelle leggi della natura e quindi in generale nella causalità “efficiente”. Io ho qui sul mio tavolo un bel sasso che ho raccolto da terra. Per spostarlo dal suo luogo ho dovuto faticare: resisteva, si opponeva. Questa resistenza di un oggetto fisico qualunque ad essere mosso è stata chiamata dalla scienza la sua “massa inerziale”. Tale resistenza dipendeva anche evidentemente dal fatto che era attratto dalla Terra che lo teneva stretto a sé. Ce lo ha insegnato Newton. Ma la Terra a sua volta si trova nel suo luogo e gira intorno al Sole perché anch’essa è attratta dal Sole, e il Sole, con tutto il
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suo sistema, è attratto, ossia dipende dalla Galassia in cui si trova, la quale a sua volta dipende da tutte le altre galassie, e così via. Si tratta dell’ “attrazione universale” e del movimento di tutti i corpi dell’universo visibile, e, insieme, di quello invisibile, della cui esistenza la scienza ormai non dubita più (“materia oscura”, “onde gravitazionali”). Per muovere il sasso dalla sua precedente posizione ho dunque dovuto, per così dire, disturbare e oppormi a tutto l’Universo. È l’intuizione di E. Mach, adoperata e portata avanti da A. Einstein, che ha cercato di spiegare l’uguaglianza, a un’osservatore ordinario sorprendente, tra la misura della “massa inerziale”, di cui si è parlato e quella della “massa gravitazionale” che entra nelle formule della gravitazione universale. Quel corpo, quel sasso, è legato a tutto l’universo; siamo noi che l’abbiamo staccato da esso, anche e soprattutto perché i nostri sensi possono vedere solo le poche isole che sono i corpi: sassi, pianeti, stelle, galassie, ammassi di galassie..., di modo che la coscienza di essi che ne consegue è coscienza di spettri staccati dalla loro autentica realtà, che si muovono in un vuoto fittizio, il vuoto che chiamiamo spazio-tempo. È un vuoto “fittizio” perché, come sappiamo, dal suo nascondimento condiziona realmente il comportamento dei corpi visibili che rimarrebbe altrimenti inspiegabile 6. Del vuoto ha tuttavia una proprietà di incalcolabile valore: quella uniformità su cui si basa lo strumento razionale per eccellenza, il calcolo matematico e la possibilità della sua applicazione a quella realtà che si nasconde nello spazio-tempo stesso. Dopo essere rimasta fuori della sensazione e quindi poi anche della coscienza, questa realtà rimane per la coscienza senza struttura (l’uniformità è assenza di struttura), e conserva solo il senso di pervadere ovunque nello stesso modo, e quindi anche di contenere in senso pregnante tutta la struttura che invece si manifesta. Quest’ultima l’abbiamo paragonata alle isole ben visibili nella loro diversità e nella loro distanza l’una dall’altra, e quella invece all’oceano uniforme da cui esse emergono, o meglio ancora in cui esse rimangono ancora quasi totalmente immerse. Di questo oceano onnipervasivo la scienza si è sempre più accorta, individuandolo addirittura come il campo della sua ricerca, 6
Il discorso qui non riguarda ovviamente la materia “metafisica” ma la materia propriamente “fisica”, ossia la cosiddetta “massa mancante”, la “massa oscura”, senza la quale non risultano spiegabili i movimenti delle galassie dei gruppi e degli ammassi.
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come la riserva della sua caccia. Qualora emergessero tutte le zone di vuoto che stanno tra tutte le isole dell’oceano uniforme, l’oceano scomparirebbe, il fluido uniforme scomparirebbe. Fuori di metafora scomparirebbe ciò che, invisibile, separa ogni cosa da tutte le altre; scomparirebbe lo spazio-tempo, perché sarebbe sostituito dalla sua realizzazione, ossia dai contenuti di realtà che nascondeva e sostituiva. E poiché, d’altra parte, l’identificazione delle cose avviene tra di loro vicendevolmente, allora ogni nuova cosa scoperta, solo se considerata superficialmente, esteriormente, appare come l’aggiunta di un nuovo elemento al numero precedente delle cose, mentre nella realtà essa è solo un aumento dell’identificazione della loro comune sostanza e quindi in conseguenza di ognuna di esse. Lo scienziato che per sua professione vede le cose nel loro aspetto di esteriorità, di estensione, di diversa posizione nello spazio e nel tempo, in definitiva di estraneità alla coscienza può pensare, e anzi, dato l’ambito ben delimitato e ristretto della sua ricerca, è costretto a pensare di aver moltiplicato il numero degli enti quando dai corpi macroscopici dell’esperienza ordinaria è passato alle molecole, e poi agli atomi, e agli elettroni, protoni, neutroni, mesoni, quark, ma il filosofo, ponendosi da un punto di vista più comprensivo, capisce che in realtà è andato invece riducendosi lo spazio-tempo in cui tutte queste cose si trovano immerse. È nel campo dell’unità di base costitutiva dei contenuti delle cose che è comprensibile la loro reciproca azione e la loro autenticità. Le considerazioni sulla sostanzialità e sulla causalità di cui è fondamentalmente costituito il mondo fisico ci hanno portato automaticamente a un altro suo aspetto essenziale; la quantità. L’uniformità, risultante dall’uguale nascondimento di tutte le sue reali strutture subliminari, dovuto alle soglie costitutive dei sensi dell’organismo, sta alla base della esteriorità in cui stanno le parti di cui risultano composte tutte le sue cose (“l’estensione”), e quindi in conseguenza della loro divisibilità. È la divisibilità in parti del tutto uguali che rende possibile poi contarle prendendone una come unità di base da ripetere sempre uguale a se stessa, e quindi permettendo poi tutte le operazioni di addizione, sottrazione, moltiplicazione, e così via, che costituiscono la struttura tipica della matematica. Anche quando si contano le cose macroscopiche percepibili (le dita delle mani, i sassi di un mucchio), alla base di
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questa operazione sta la convenzione, consaputa o no, che si intende prescindere dalla differenza che inevitabilmente invece esiste tra quelle cose (il pollice è diverso dall’indice, un sasso del mucchio non è mai del tutto uguale agli altri). Quella convenzione a sua volta è possibile perché tutte le cose sono fatte di “estensione”, ossia di parti l’una fuori dell’altra, ossia del nascondimento che, come abbiamo visto, è il costitutivo della materia. Questa contabilità di cose addirittura separate nello spazio o nel tempo si estende poi, anche alle parti di uno stesso corpo, e perfino alle parti che per la loro esiguità sono in grandezza minori delle dimensioni delle soglie per quanto piccole esse siano. È proprio allora anzi che la matematica permette di cogliere, sia pure indirettamente, ma proprio nella loro sostanza, le strutture sfuggite alla percezione e quindi alla coscienza diretta del mondo, mostrando proprio allora con le sue strutture infinitesimali, di essere per eccellenza il più potente strumento razionale volto all’apertura del mondo fisico. Siamo entrati in tal modo nella considerazione della grande categoria della “quantità” che riguarda tutti i contenuti della realtà fisica proprio nella loro essenziale finitezza dovuta al nascondimento di gran parte della loro realtà. Non vi è dunque meraviglia che Guglielmo d’Occam, i nominalisti, Galileo, e molti altri l’abbiano addirittura identificata con la sostanza stessa delle cose, anche se in tal modo si esponevano all’errore logico del “salto in un altro genere” (met£basij eÑj •llo gönoj), ossia al salto dal piano dell’“estensione” delle cose, della loro divisibilità, a quello del contenuto effettivo delle cose, consistente nella loro sostanza formale direttamente, e indirettamente in quella materiale7. 7 Basta qualche citazione in proposito. Occam: “Quantitas non est res absoluta, distincta realiter a substantia et qualitate, sed aliqua quantitas est realiter eadem cum substantia” (De sacramento altaris, Strasburgo 1491, ristampa Louvain 1962, terzo e ultimo capitolo); “Quantitas non est posterior in esse quam substantia. Sed si esset res distincta, sequeretur quod esset res posterior in esse” (Expositio super VIII libros Physicorum, commento al 1° libro, ed. Venezia 1491, testo 25. Galileo: “la filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri, né quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola: senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto” (Opere, VI, 232); e per quanto riguarda i contenuti: “Il tentar l’essenza, l’ho per impresa non
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L’estensione uniforme a cui sono condannati tutti i corpi, la coscienza che se ne acquista, e quindi la concreta conseguente possibilità di strutturarla con il calcolo, viene a integrare con un apporto di incalcolabile valore il processo di unificazione rappresentato dai nessi causali in cui sono legate tutte le cose del mondo fisico. Vien qui infatti legata, aldilà dei particolari nessi in cui stanno tra di loro le cose manifeste, tutta la regione “manifesta” con la regione “nascosta”. Il modo lo si è già visto: si riesce a portare a contatto tra di loro le strutture nascoste e in movimento delle cose, si fanno interagire tra di loro aldilà della loro regione manifesta, e ne derivano allora effetti sconvolgenti su questa regione stessa. Un esempio per tutti: pochi kilogrammi di uranio ben visibile, aggrediti in base a calcoli complicati, nelle loro strutture invisibili da elementi invisibili (i neutroni) di una sorgente visibile, innescano una reazione a catena invisibile che scatena quell’inferno di energia ben visibile che distrugge in pochi minuti città intere con tutti i loro abitanti. Su questa fondamentale relazione, ancora evidentemente di carattere causale, che indica l’intima costitutiva connessione tra le due regioni della realtà fisica, dovremo ancora soffermarci nel prossimo capitolo, perché si tratta in fondo della sostanza stessa del pensiero e dell’attività scientifica. Prima tuttavia sarà opportuno accennare, sia pure molto fugacemente, a un’altra grande “categoria” in cui si articola il mondo fisico: la categoria della “qualità” . Sembra che a differenza delle precedenti “categorie” trattate: sostanzialità, causalità, quantità, e relazione in cui tutte si ritrovano, che esprimono l’unità del mondo fisico, la qualità invece ne esprima la disunione: “il rosso” non riuscirà mai a causare “il bianco”, e tanto meno a causare “l’amaro” o “il duro”, e da questi rimane saldamente ben distinto. E quando una qualità si altera diventando più intensa non si potrà propriamente dire che è aumentata di due o tre volte perché, come ha ben messo in chiaro Bergson (Saggio sui dati immediati della conoscenza), essa diventa un’altra qualità dovuta a un’altra sensazione. Tuttavia, sotto un altro importante aspetto è anch’essa un fattore di unità nella regione manifesta del mondo fisico. “Il rosso” è una qualità perché appartiene non solo al meno impossibile e per fatica non men vana nelle prossime sustanze elementari che nelle remotissime e celesti [...] questa è quella cognizione che ci vien riservata da intendersi nello stato di beatitudine, e non prima” (ibid., V, 187-188).
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sangue, ma anche alla rosa, al vino, alla bandiera, al gambero, per cui non costituisce nessuna di queste cose come loro elemento essenziale, ma “accade” ad esse, ossia è di esse un “accidente” comune, nel quale quindi coincidono. Esso risulta quindi quando, dopo essere stato osservato nel sangue, nella rosa, nel vino, viene da ciascuna di questa cose “separato”. Ha certo anch’esso un suo contenuto essenziale come ogni “cosa” del mondo, ma in più anche una sua “separazione” o “astrazione” dalle cose stesse, e questa “astrazione” appartiene anch’essa al suo contenuto essenziale. Proprio perché è ottenuto per astrazione dalle sostanze a cui “accade”, l’emergenza nella coscienza di una qualità deve seguire l’emergenza delle sostanze, e mai precederla. In altre parole, come si era illuso di fare l’empirismo classico (Locke, Hume) e più recentemente il neoempirismo (Carnap), non si potrà mai ottenere nessuna cosa sommando le varie qualità percettive. Anche in questo caso il tutto viene prima delle parti e, come diceva Hegel, “il vero è il tutto”. La totalità dell’ambiente, così potremo chiamare qui l’essere parlando del mondo fisico, si scompone nei suoi vari aspetti passando attraverso i sensi dell’organismo, ma rimanendo sempre trattenuto insieme da ciò che invece attraverso i sensi non è passato, ossia dalla comune “materia” delle cose da una parte, dal “corpo passivo” dell’organismo dall’altra. Come avviene per la semplice luce che si scompone nei suoi vari colori passando per un prisma. Poiché è causata dal filtro dei sensi questa scomposizione dell’unico ambiente nelle sue diverse qualità dovrà corrispondere alla distinzione dei sensi dell’organismo, su cui non è qui il caso di soffermarsi. Parlando di queste fondamentali “categorie” del mondo fisico, abbiamo posto tra virgolette la parola “categoria”, perché da quanto siamo venuti dicendo non dovranno più significare una classificazione di diverse entità del mondo o di funzioni dell’intelletto: sono la stessa unitaria struttura della realtà totale risultante dalla sua dicotomia fondamentale di “realtà manifesta” e di “realtà nascosta”. Ognuna è intrinsecamente connessa con tutte le altre: la sostanzialità è nulla senza la causalità, come nulla era lo spazio senza il tempo, e in ambedue non può non instaurarsi la quantità. Addirittura, alla loro origine, non vi è l’essere senza il divenire né il divenire senza l’essere. È da questa originaria struttura che derivano poi le particolari classificazioni delle varie determinazioni og-
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gettive e soggettive dell’essere, di cui si è occupata, sempre in modo diverso, la filosofia.
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Capitolo quindicesimo
IL SENSO FILOSOFICO DELLA CONOSCENZA SCIENTIFICA DEL MONDO FISICO
I dati di fatto e le leggi che li connettono sono sempre stati i due pilastri su cui si è costruita la scienza del mondo fisico. Quando si è voluto, dopo secoli di ricerca effettiva, militante, sistemare rigorosamente tale conoscenza scientifica da un punto di vista filosofico, si è fatalmente dovuto cercare da una parte i dati di fatto ultimi, elementari, dei quali tutti gli altri sono combinazioni, e dall’altra i principi, anch’essi ultimi, elementari in senso apposto ai precedenti, dai quali fosse possibile derivare, mediante la logica e la matematica, le varie leggi dei vari campi della realtà del mondo fisico. Riducendo in tal modo ogni asserto della scienza ai dati di senso incontrovertibili di base si sarebbe dimostrato prima di tutto che tale asserto “ha senso”, e poi che è “vero o falso” senza ricorrere a nessuna metafisica, la quale, non essendo per definizione riducibile alla fisica, è dichiarata “senza senso”. Dopo le impegnatissime analisi e le accese polemiche sollevatesi nelle prime decadi di questo secolo, soprattutto nell’ambito del Circolo di Vienna e del movimento “neopositivistico” da esso scaturito, si è dovuto constatare che non è possibile né trovare gli autentici ultimi dati di senso, che dovrebbero essere espressi dagli “asserti protocollari” (Protokollsätze) della scienza, né gli ultimi assoluti definitivi validi principi di carattere logico-matematico capaci di sistemare definitivamente la scienza. Gli asserti protocollari della scienza infatti non sono evidentemente mai equivalenti ai dati di senso che dovrebbero esprimere. Nasce allora il grosso problema, che non è più fisico ma metafisico, del rapporto esistente tra la realtà fisica effettiva e il linguaggio che intende esprimerla. È emerso con sempre maggiore chiarezza che gli “asserti protocollari” apparten-
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gono a tutto il linguaggio nel quale si trovano e dal quale trovano il loro significato. Il grado della loro validità dipende dal grado di osservabilità raggiunto dall’esperienza ordinaria e da quella scientifica, che non è mai definitivo1. La tesi della theory-ladenness, ossia del “carico di teoria” contenute in ogni enunciato, anche protocollare, si è andata sempre più confermando e diffondendo. Anche per questa ragione dunque “il metodo induttivo”, che avrebbe potuto portare dai dati singolari empirici a quelli universali, che sono l’ossatura del linguaggio scientifico, si è mostrato insufficiente. Ma soprattutto per l’ovvia ragione che ogni legge della natura è un enunciato appunto “universale” che contiene in sé un’infinità di enunciati singolari, anche quelli mai constatati nel passato e nel futuro, e non solo quei pochi da cui si presume che possa essere costruita. La legge espressa dall’enunciato: “i metalli riscaldati si dilatano” comprende gli infiniti pezzi di metallo non constatati del passato e del futuro. Così per tutte le leggi della natura. Analogamente per i “termini disposizionali” (“fragile”, solubile”, ...), necessari alla scienza ma irriducibili ai singoli casi di effettiva rottura e soluzione constatati. E ancor più per i cosiddetti “termini teorici” (“elettrone”, “campo elettromagnetico”, ...), sui quali per la loro eccezionale importanza sarà opportuno tra poco soffermarsi ancora un momento. Ma perfino lo stesso “linguaggio cosale”, in cui intervengono termini di cose, di sostanze, non si può spiegare in base ai soli dati di senso2. E analogamente per lo stesso importante concetto di “verità”, anche se si crede, con Carnap, che si possa far 1
È diventata celebre a questo riguardo il paragone della palude di Popper: “... la base empirica delle scienze oggettive non ha in sé nulla di ‘assoluto’. La scienza non posa su un solido strato di roccia. L’ardita struttura delle sue teorie si eleva, per così dire, sopra una palude. È come un edificio costruito su palafitte. Le palafitte vengono conficcate dall’alto, giù nella palude, ma non in una base naturale o ‘data’; e il fatto che desistiamo dai nostri tentativi di conficcare più a fondo le palafitte non significa che abbiamo trovato un terreno solido. Semplicemente, ci fermiamo quando siamo soddisfatti e riteniamo che almeno per il momento i sostegni siano abbastanza stabili da sorreggere la struttura” (The Logic of Scientific Discovery, Londra 1964; tr. it. Einaudi, Torino 1970, pp. 107-108). 2 Nell’esempio di Carnap il termine “tavolo nero” indica parecchie infinità di possibili effettivi dati di senso in esso contenuti: a seconda della distanza e della direzione da cui il tavolo è visto, a seconda dei momenti del giorno in cui variano le sfumature della luce e dei colori, a seconda dell’esame delle condizioni fisiche degli osservatori, ecc. E così nell’esempio di Popper: “questo è un bicchiere d’acqua”, i termini “bicchiere” e “acqua”, “denotano corpi chimici che esibiscono un certo comportamento regolare” (Logica..., cit., p. 87).
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coincidere semplicemente con l’affermazione di un dato di senso3. Sono discorsi che demoliscono la pretesa della possibilità di una “verificabilità” degli enunciati della scienza, in particolare delle sue leggi e delle sue teorie. Si è ricorso allora alla “falsificabilità”, a cui apparentemente tali enunciati sarebbero sottoponibili. Infatti, anche se non è “verificabile” l’enunciato “tutti i metalli riscaldati si dilatano”, basta trovare un qualunque pezzo di metallo che non si dilata riscaldandolo, perché quella legge sia falsificata. Ma anche questo metodo non si è dimostrato valido. Già l’asserzione che un “dato di fatto”, come si è visto, non è mai con assoluta rigorosità dimostrabile vero, impedisce che possa valere come controllo definitivo della falsità di una legge, e meno ancora di una teoria: la “fallibilità” dei dati di senso esclude la “falsificabilità” delle teorie. Inoltre la deduzione dalla teoria o dalla tesi da falsificare degli enunciati singolari da confrontare con i dati di senso impiega sempre “ipotesi ausiliarie”, e non si può sapere allora da dove derivi l’eventuale disaccordo falsificante. Oltre a non rendere conto di ciò che positivamente nei suoi contenuti è la scienza perché i suoi contenuti non sono certamente riducibili alla loro eventuale falsificabilità, questo metodo condannerebbe preventivamente a morte tutte le teorie scientifiche dal momento che esse, presto o tardi, non saranno in grado di spiegare sempre tutti i nuovi fatti emergenti. Ciò non significa che l’induzione e il tentativo di trovare fatti che non si accordano con una teoria proposta non abbiano un robusto valore nella costruzione e nello sviluppo di una scienza, ma è ritenerli esclusivi e definitivi metodi di costruzione, di giustificazione e di controllo delle conoscenze scientifiche che assolutamente non vale. Insieme agli immancabili fattori “oggettivi” 4 intervengono sempre fatalmente fattori “soggettivi” (appartenenza a una scuola, a una tradizione, a una situazione sociale, carattere 3 Nell’esempio dibattuto: “sul tavolo c’è un pezzo di carta” viene supposta un’analisi della carta, non tanto della sua superficiale apparenza quanto della composizione chimica, la quale quindi a sua volta suppone la validità della chimica che si adopera, e così via. 4 Così sono indicati da Thomas Kuhn: “accuratezza”, ossia “dimostrato accordo con i risultati delle osservazioni e degli esperimenti disponibili” (è il “respondere atque congruere” di Galileo, Opere, VIII, 197), “semplicità”, “coerenza” (assenza di contraddizione), “ampiezza” (estensione oltre le osservazioni e le leggi che spiega), “redditività” (fecondità di nuove prospettive e nuove ricerche) (cfr. La tensione essenziale, Chicago 1977; tr. it. Einaudi, Torino 1985, pp. 318-320).
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personale del ricercatore e sua “visione del mondo”, sue credenze religiose, i ben noti “idola” di baconiana memoria) che sono altrettanto decisivi nella costruzione di una teoria, la quale, proprio per sua natura, mantiene sempre la sua qualità di “ipotesi”, accettata per “scelta”, e mai imposta inesorabilmente dai suoi intrinseci caratteri oggettivi. Si tratta di componenti della scienza che sono stati ben messi in evidenza da contemporanei filosofi della scienza: Thomas Kuhn, N.R. Hanson, P. Feyerabend, e altri, su cui non è possibile dubitare, anche se in questi autori è altrettanto evidente l’esagerazione di dichiarare in conseguenza “incommensurabili” le teorie, soprattutto quando tra di esse è intervenuta una “rivoluzione” che avrebbe determinato in esse un “cambiamento di significato” (meaning change) dei termini che in esse intervengono, e quindi della “distribuzione delle classi” e degli oggetti, e del “criterio di similitudine” che ne sta a fondamento5. Certamente i significati cambiano, ma solo in un senso parziale su cui dobbiamo un momento soffermarci data la sua grande importanza. Sostanzialmente essi cambiano nel senso di una loro progressiva determinazione. Sappiamo che ogni oggetto della conoscenza è costituito da una congenita indeterminazione, ma insieme dall’altrettanto congenita possibilità di ridurre questa indeterminazione attraverso qualunque nuovo collegamento con gli altri oggetti. Così nell’astronomia tolemaica vale come principio che la Terra sta ferma al centro dell’Universo e tutti gli altri corpi celesti le girano intorno. È un principio che vale indubbiamente per un “osservatore” posto sulla Terra. Così infatti a lui appaiono le cose, dato che non entra qui in considerazione l’eventuale movimento della Terra. Quando questo movimento della Terra, di rotazione e di rivoluzione attorno al Sole, entra anch’esso in considerazione, allora quelle apparenze autenticamente vere si deter5 Per Tycho Brahe, scrive Hanson, “vedere il Sole” significa “vedere che da un qualche punto di osservazione celeste si potrebbe osservare il Sole orbitare intorno alla Terra” (Pattern of Discovery, Cambridge 1958; tr. it., I modelli della scoperta scientifica, Feltrinelli, Milano 1978, p. 32). E analogamente per Copernico. Secondo T. Kuhn, che sulla rivoluzione copernicana ha scritto un libro (La riv. cop. (1957); tr. it. Einaudi, Torino 1973), prima della rivoluzione copernicana Sole, Luna, Marte, appartenevano alla stessa classe da cui era esclusa la Terra; dopo quella rivoluzione il Sole venne ad appartenere alla classe delle stelle, la Luna a quella dei satelliti, Marte e la Terra a quella dei pianeti: la “similitudine” e “la distribuzione delle classi cambiarono dunque radicalmente.
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minano ulteriormente, e vengono quindi “spiegate” come apparenze “vere” di chi osserva le cose dalla Terra. Così in un altro esempio spesso tirato in campo e superficialmente interpretato nel senso detto dagli “irrazionalisti”, la massa e la lunghezza di un corpo, che nella fisica di Newton sono considerate costanti, invece nella fisica di Einstein subiscono una variazione quando il corpo si muove rispetto al loro osservatore e misuratore6. La vera interpretazione è facile: quelle variazioni non sono rilevabili dai sensi anche muniti di semplici strumenti di osservazione. Per la semplice esperienza basata sui sensi quella variazione quindi non c’è. Quando però le velocità del corpo sono abbastanza grandi, e addirittura si avvicinano a quelle della luce, allora si rivelano all’esperienza scientifica e possono rivelarsi a quella ordinaria: per queste allora solo le seconde formule più determinate sono “vere”. Questi esempi indicano quanto sempre avviene nell’esperienza ordinaria, e ancor più manifestamente in quella scientifica. Quando in ogni esperienza entrano nuovi elementi prima non considerati, le strutture e gli elementi precedenti vengono meglio determinati, senza che per questo siano stati prima falsi: ora sono soltanto resi più veri. Ci si muove infatti nella stessa struttura orientata alla propria determinazione. L’antico adagio abstrahentium non est mendacium può essere così inteso: chi nella propria esperienza o nel proprio discorso prescinde da qualche elemento o collegamento non è nella falsità ma nell’indeterminatezza. 6
Ossia la massa a riposo m0 diventa allora m0 1 - v2/c2
e la lunghezza a riposo l0 diventa l0
1 - v2/c2
dove v è la velocità del corpo e c la velocità della luce. La spiegazione è semplice. Quando le velocità del corpo sono quelle dell’esperienza ordinaria, quelle variazioni non sono rilevabili dai sensi anche muniti di semplici strumenti d’osservazione. Per l’esperienza ordinaria basata sui sensi quella variazione quindi non c’è. Quando invece le velocità del corpo sono abbastanza grandi, e addirittura si avvicinano a quelle della luce, allora si rivelano all’esperienza scientifica e possono rivelarsi a quella ordinaria; per queste allora solo le seconde formule sono “vere”.
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Viene in tal modo confutata anche la tesi, che questi autori (Thomas Kuhn, Paul Feyerabend soprattutto) fanno discendere da quella della natura “ghestaltica”, olistica della scienza, del conseguente “cambiamento di significato” e della conseguente “incommensurabilità” delle teorie, ossia la tesi dell’inesistenza di un “avvicinamento alla verità”. Infatti per il principio dell’interconnessione costitutiva, che abbiamo sempre sottolineato, ogni “nuovo” elemento, ogni “nuovo” nesso aumenta l’identificazione di tutti gli altri. Si è dovuto porre tra virgolette il termine “nuovo” perché, appunto per lo stesso principio, il “nuovo” elemento era già prerequisito e predisposto dagli elementi e nessi precedenti, e quando figura espressamente il suo vero significato è quell’aumento di determinazione e di identificazione che produce in tutti i precedenti. È sempre la totalità che qui entra in questione e in azione. Si tratta sempre di un progressivo riempimento dello spazio di indeterminazione che oscura l’identità degli oggetti del mondo fisico, e quindi più propriamente del mondo fisico nella sua totalità. Quanto più questo spazio, superficialmente vuoto nel suo versante fisico, viene riempito facendo emergere i contenuti nascosti in quelli manifesti, tanto più viene ridotto lo spazio-tempo fisico ed evidenziate l’unità e la verità del mondo. È nel cammino verso questo traguardo che consiste la ricerca scientifica, anche se, come subito vedremo, solo indirettamente essa ha a che fare con gli autentici contenuti della realtà. Esposte così nella loro sostanza le più gravi debolezze delle interpretazioni della scienza rappresentate dal verificazionismo, dal falsificazionismo, e infine dal più recente irrazionalismo ed anarchismo, è più agevole ora cogliere il senso dell’interpretazione che già da quelle stesse critiche, oltre che da considerazioni più generali, è andata spontaneamente manifestandosi, e che possiamo indicare con il nome di “determinazionismo”. Nel suo nucleo essenziale consiste nella constatazione che le diverse differenze, che manifestano e identificano gli oggetti del mondo fisico legandoli costitutivamente tra di loro, sono una minima parte di quelle che non si manifestano alla coscienza. Eppure quelle dipendono per la maggior parte da queste. L’unità in cui costitutivamente sono legati tra di loro gli oggetti manifesti e l’unità in cui costitutivamente sono legati tra di loro gli oggetti nascosti, sono a loro volta costitutivamente unite in una più profonda unità che sta alla base della
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possibilità che gli oggetti nascosti si manifestino gradatamente, ossia gradatamente passino all’altro campo della realtà determinandoli progressivamente. Ciò che andremo ora dicendo ha lo scopo di chiarire ulteriormente questa fondamentale impostazione. La scienza moderna è nata quando si è constatato e dimostrato che l’esperienza ordinaria basata sui dati di senso non è attendibile, e molto spesso è falsa. Come abbiamo a suo tempo considerato, Galileo è partito dalla supposizione che “Il senso nella prima apprensione può errare ed essere bisognoso di correzione, da ottenersi mediante l’aiuto del retto discorso razionale” 7. Dello stesso parere erano evidentemente Copernico e Keplero che sulla supposizione della falsità che il Sole si muova intorno alla Terra costruirono la loro astronomia. L’altro tratto essenziale in questa nuova direzione è stata la persuasione che non occorreva ricorrere a concetti e strutture metafisiche sulla sostanza e sugli accidenti delle cose per correggere quegli errori e scoprire la vera situazione del mondo fisico: bastava con l’immaginazione costruire modelli di carattere ancora spazio-temporale, e quindi poi con ragionamenti di carattere geometrico e in generale matematico, ancora evidentemente collegati con il mondo spazio-temporale fatto di cose e di eventi multipli e misurabili, spiegare e prevedere le apparenze presenti e quelle future. Su questa strada la nuova scienza del mondo fisico ha escogitato con l’immaginazione strutture inosservabili scoprendone in conseguenza di nuove nel mondo reale. La seconda rivoluzione scientifica dell’800, impegnata con le strutture microscopiche della materia (chimica, elettromagnetismo, fisica atomica e subatomica, biologia molecolare) ha continuato, integrato e confermato il cammino iniziato con la prima. In sintesi, il campo delle ricerche scientifiche è diventato sostanzialmente quello delle strutture spazio-temporali irraggiungibili con i sensi, ma in grado di spiegare, prevedere e agire su quelle dai sensi raggiungibili. Si presenta allora a questo punto il problema che, da un punto di vista filosofico, va considerato come il problema centrale della conoscenza e dell’attività scientifica. In che modo queste strutture nascoste ai sensi hanno potuto manifestarsi? Qual è il senso e il grado di questa loro manifestazione e della loro azione sulle strut7
Opere, VIII, p. 511.
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ture manifeste? Per rispondervi torniamo a riconsiderare, per un’analisi più approfondita, l’esempio di ricerca e di scoperta scientifica che abbiamo scelto come paradigmatico: la scoperta della prima struttura dell’atomo. L’apparecchiatura adoperata da Rutherford a questo scopo consta di una sostanza radioattiva, di un orientatore del flusso di radiazione emessa da quella sostanza su di una sottilissima lamina d’oro, e di uno schermo cosparso di solfuro di zinco che “lampeggia” quando viene colpito dalla radiazione passata attraverso la lamina. Tutti questi oggetti sono oggetti dell’esperienza ordinaria: appartengono al mondo fatto di cose i cui contenuti, attraverso le sensazioni, emergono alla coscienza. Lo chiameremo il “primo mondo”. Invece la radiazione e i suoi componenti, ossia le particelle alfa, non si mostrano in se stesse ma solo negli effetti che producono sulle cose di quel primo mondo, in particolare, nel nostro caso, sullo schermo dove producono quei lampeggiamenti. Anche la loro distribuzione, dopo essere passate attraverso la lamina d’oro, si manifesta solo nella distribuzione dei lampi che causano sullo schermo, mai in se stesse. È questa una distribuzione dovuta certamente al loro passaggio attraverso la lamina d’oro dal momento che prima di quel passaggio erano tutte orientate in una stessa direzione. Dal modo in cui sono distribuiti questi lampi, attraverso calcoli, si può desumere che i componenti invisibili della visibile foglia d’oro sono formati di atomi composti a loro volta di piccolissimi nuclei caricati positivamente, e di elettroni periferici negativi ruotanti a grandissima relativa distanza attorno a quei nuclei. Anche questi autentici protagonisti che causano la deviazione delle invisibili particelle alfa, i protoni e gli elettroni, non sono osservabili e quindi neppure le loro vicendevoli azioni. Tutti questi elementi inosservabili in se stessi: radiazione, particelle alfa, protoni, elettroni, loro azioni e reazioni vicendevoli appartengono a quello che (ricordando la celebre distinzione di Eddington) chiameremo “il secondo mondo”. I dati certi che emergono da questa esperienza, paradigmatica di tutte le altre costitutive della scienza, sono i seguenti: 1° - Vi è una radicale differenza tra le cose che si manifestano in se stesse, appartenenti al “primo mondo” e le strutture, in se stesse inosservabili del “secondo mondo” che si rivelano soltanto negli effetti che producono nel primo mondo. 2°- Le strutture del secondo mondo, anche se in se stesse inos-
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servabili, sono reali per questa loro azione e reazione sugli oggetti del primo mondo. 3° - I modelli, i relativi calcoli, e le apparecchiature tecniche volte a mettere a contatto le strutture del primo mondo con quelle del secondo, anche se il risultato è un insieme di effetti osservabili nel primo mondo, non hanno solo un valore “strumentale”, ma anche altamente “conoscitivo” della realtà, perché della realtà manifestano un settore per un certo verso nascosto ma che agisce e interagisce su quello manifesto con la regolarità che è propria della causalità. Servono come strumenti che producono effetti nel primo mondo solo perché possiedono una struttura reale che in buona parte mantengono anche quando non operano e così garantiscono la possibilità di esatte previsioni. Questa struttura, sebbene inosservabile, è stata immaginata come composta di parti distinte e diversamente distribuite nello spazio e nel tempo, esattamente come avviene per le strutture del primo mondo, secondo modelli quindi a cui poteva essere applicata la stessa logica-matematica che vale per il mondo osservabile. Ma con una fondamentale, essenziale distinzione: le dimensioni (le differenze) in cui stanno le componenti delle strutture inosservabili sono per definizione superiori o inferiori in grandezza a quelle delle componenti del mondo osservabile. È su questa base che furono superate quelle autentiche colonne d’Ercole rappresentate dalle “soglie” dei sensi, e la navigazione potè aprirsi verso quegli sterminati oceani che in un primo tempo l’entusiasmo della scoperta aveva fatto supporre senza confini 8: vediamolo in particolare. L’aritmetica è nata e cresciuta nella sua prima fase per contare gli oggetti dell’esperienza ordinaria e le parti in cui essi possono venir divisi. Nei numeri “naturali” (1, 2, 3,...) la differenza (la so8 È sufficiente tenere presente in questa questione fondamentale la “soglia’’ che è il limite “minimo delle differenze percepibili” dai sensi, ossia la soglia del microcosmo indicata con la sigla j. n. d. (just noticeable difference), e in italiano con d. a. p. (differenza appena percepibile), che è del resto quella precisamente definibile. Ciò che sta aldilà del macrocosmo globalmente preso dell’esperienza ordinaria, ossia che supera la soglia massima, ossia la differenza massima, dipende dalla soglia minima. In altre parole se si fosse in grado di osservare l’infima struttura reale del mondo fisico si sarebbe in grado di osservare anche la sua struttura massima. L’enorme galassia più lontana si nasconde dentro la minima traccia che manda al più potente telescopio.
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glia) che ne sta alla base era dunque l’unità intera; nei numeri “frazionari” la differenza era fra le parti (la “frazione”) in cui quell’unità intera poteva essere divisa. Era già qui evidente la possibilità teorica di considerare come parte di base dell’intero una parte più piccola delle parti empiricamente percepibili in cui questo intero poteva essere diviso. La parte percepibile infatti, per quanto piccola sia, è ancora “estesa”, ossia ha le parti l’una fuori dell’altra, è nello spazio. Si era così scoperto il numero “razionale” (da “ratio” = rapporto, rapporto effettivo tra le parti, per quanto piccole, in cui può pensarsi diviso l’intero). Un altro passo sostanziale si è poi fatto quando si è scoperto che nell’intervallo tra una frazione qualunque dell’unità e la sua successiva, per quanto piccolo esso sia, vi erano differenze ancora più piccole, espresse dai numeri “irrazionali”. Si è così arrivati ai numeri “reali” che si presumeva esprimessero ora finalmente la continuità dei fenomeni naturali, dei fenomeni “reali”. Ma rimaneva invece ancora un ultimo passo da fare, più rivoluzionario di tutti i precedenti: la scoperta del calcolo “differenziale”, “infinitesimale”. L’infinitesimo, questo numero qualitativamente diverso da tutti gli altri è una grandezza per definizione più piccola di qualunque grandezza “data”, per quanto piccola essa sia. Qualunque sia il numero “dato”, esprima esso pure una grandezza piccola quanto si vuole, appunto in quanto “piccola”, rimane ancora una differenza autentica, una differenza “data”. Ebbene “l’infinitesimo”, che sta alla base del calcolo infinitesimale, è il numero per definizione più piccolo di quello “dato”: esso è dunque per definizione “il” superamento di ogni numero “dato”, di ogni soglia “data”. Si parla qui di “soglie” numeriche, ma esse esprimono soglie della realtà fisica, sia pure “presa nella sua genericità”, con il loro necessario riferimento dunque alle soglie della realtà, e fondamentalmente, radicalmente a quelle della sensibilità 9. In conclusione dunque, l’infinitesimo, e quindi il calcolo infinitesimale, rappresenta lo strumento razionale che per eccellenza permette di penetrare nel cuore di ogni realtà fisica oltrepassando le soglie più intime in cui essa ha nascosto i suoi contenuti. Se la soglia indica e 9
Le “soglie”, com’è noto, sono relative al tipo di animale, di sensazione, di età, di condizioni fisiologiche dell’organismo, e così via, ma nelle nostre considerazioni entra in gioco la soglia in assoluto, ossia la più piccola di tutte quelle reali o anche possibili, purché “date”.
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porta effettivamente all’indeterminazione la conoscenza ordinaria del mondo fisico, questo calcolo volto al sorpasso di ogni soglia “data”, si presenta come lo strumento razionale ideale, assoluto, della possibilità di determinare, ossia come la dimostrazione per eccellenza del “determinazionismo”. Era fatale supporre che gli enormi crescenti successi ottenuti in tal senso dall’applicazione di questo strumento razionale alla realtà fisica fossero dovuti al fatto che esso possedesse in proprio in tutta la sua purezza questa sua formidabile potenza di togliere ogni indeterminatezza alla conoscenza del mondo. Si è andato invece sempre più evidenziando che esso non gode di una sua assoluta autonomia, che è anch’esso condizionato dalla realtà fisica che ha il compito di determinare, e quindi anch’esso porta con sé un’ineliminabile elemento di indeterminatezza. Il tentativo di ridurre la matematica alla pura logica, ossia “il logicismo”, fatto soprattutto da Gottlob Frege, Bertrand Russell e dall’“empirismo logico” è fallito. Si è rivelato che nella matematica sono inevitabilmente presenti dei principi, come quello “moltiplicativo” e “dell’infinito” 10 che implicano il concetto non puramente logico di “esistenza”. E inoltre nascono vere e proprie “antinomie”, sia “logiche” (relative a “concetti”) che “sintattiche” (relative a “espressioni”), e inoltre “concetti impredicativi” (come quello di numero “induttivo”) che danno origine a circoli viziosi11. L’altro tentativo estremo di rendere del tutto autonoma la scienza formale (logica-matematica) è stato compiuto da D. Hilbert, Ackermann e altri con il loro “formalismo”. I segni di un sistema formale non avrebbero nessun significato “eidetico”, nessun significato cioè volto a indicare qualcosa di diverso da sé, ma solo un significato “operativo”, ossia indicativo esclusivamente delle operazioni tra i segni di cui è composto. Gli “assiomi” da cui parte 10 Si possono così esprimere: “Per ogni insieme di insiemi non vuoti, gli elementi di ognuno dei quali sono distinti dagli elementi di qualunque altro, esiste un insieme formato da elementi ognuno dei quali è preso da uno e uno soltanto degli insiemi dati”. E l’altro: “Per ogni numero naturale ne esiste uno più grande”. Già nel 1925 F.P. Ramsey nel suo libro I fondamenti della matematica (London 1931; tr. it. Feltrinelli, Milano 1964) aveva messo in evidenza le componenti non logiche dei Principia mathematica di B. Russell e Whitehead. 11 I tentativi di B. Russell per superare con la sua “teoria dei tipi” e “dei gradi” di proprietà e di espressioni, non si è rivelato persuasivo. Sono fatti di “imposizioni” e di “divieti” che come tali, vanno ben aldilà della pura logica.
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L’essere del mondo fisico
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valgono solo in quanto sono “posti”, e in quanto non sono in contraddizione tra di loro, e quindi anche nelle loro formali conseguenze necessarie. Questa condizione della non-contraddittorietà è tanto più importante in quanto, essendo stato il sistema formale sganciato da ogni riferimento alla realtà, rimaneva l’unico criterio che lo distingueva da ogni ammucchiata di segni che non sono segni di niente. Ebbene K. Gödel ha dimostrato che usando unicamente dei segni forniti da un sistema formale, ossia rimanendo all’interno di tale sistema rimangono “indecidibili”, ossia né dimostrabili né confutabili, alcuni asserti, tra i quali, indubbiamente il più importante, quello che afferma la non-contraddittorietà del sistema stesso. La stessa sostanza del sistema che vuol essere esclusivamente formale è naufragata contro questo scoglio per esso mortale12. Il significato di questo ultimo esito è importante: ogni sistema formale, in particolare ogni matematica, non può prescindere dal suo riferimento alle strutture reali del mondo fisico, anche se non è vincolato a nessuna di esse in particolare perché riguarda uniformemente la loro comune costituzione essenziale di essere una molteplicità di cose e di eventi spazio-temporali 13. Questo riferimento salva dunque il sistema formale garantendogli la validità, ma d’altra parte non può non comprometterlo perché ne trasmette l’essenziale indeterminatezza. Il sistema formale matematico consiste infatti anch’esso di diverse molteplicità che tali rimangono anche se le differenze di cui può disporre possono essere ridotte indefinitamente, e pertanto non possono mai approdare all’autentica continuità della realtà. Questa, anche se interpretata e analizzata con il razionale strumento del calcolo infinitesimale, 12 Il famoso saggio ha per titolo: “Über formal unentscheidbare Sätze der Principia Mathematica und verwandter Systeme” (“Gli enunciati formali indecidibili dei Principia Mathematica e dei sistemi affini”), in Monatshefte für Mathematik und Physik, vol. 37, 1930, pp. 349-360. 13 Per questa ragione la fondazione della matematica elaborata da L.E.F. Brower e A. Heyting, basata sull’intuizione del tempo (“l’attività della mente di natura alinguistica, che trae dalla percezione di un passaggio di tempo, cioè dallo scindersi di un momento di vita in due cose distinte, l’una delle quali cede il posto all’altra ma è conservata nella memoria”), ossia “l’intuizionismo”, si è dimostrata ben più logicamente robusta e pura di quelle a cui abbiamo accennato, ossia del “logicismo” e del “formalismo”. Cfr. A. Crescini, Il senso della ricerca scientifica, cit., cap. XIV.
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Il ritorno dell’essere
dovrà sempre manifestarsi in effetti e in modelli necessari ma irriducibili l’uno all’altro, i quali pertanto, oltre a portare allo scoperto contenuti prima nascosti della realtà, li porterà ancora inevitabilmente avvolti nella loro indeterminatezza, per quanto riducibile essa poi sempre sia. Questa fondamentale antinomia della realtà fisica in quanto tale non è possibile esorcizzarla 14. Gli strumenti razionali per romperne la serratura, e poi penetrarla ed esplorarla, ossia i modelli dell’immaginazione e i calcoli logico-matematici hanno dovuto desumere dalla realtà fisica stessa il materiale di cui sono formati, e quindi ne portano sempre in parte con sé il difetto congenito per togliere il quale essi sono stati costruiti.
14
Di questa “antinomia fondamentale” ho parlato nel saggio “L’antinomia della fisica moderna”, Rivista di Fil. Neoscol. (1960), pp. 11-28 e nel vol. Il senso..., cit., Cap. XVIII, n. 2. Nel presente contesto è vista inoltre nel suo rapporto con la struttura formale matematica della ricerca scientifica.
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L’essere del mondo fisico
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Capitolo sedicesimo
UNIVERSO “ESTENSIVO” E UNIVERSO “INTENSIVO”
Le precedenti considerazioni sull’essere del mondo fisico si sono limitate ai tratti essenziali di questa dimensione dell’Essere. Siamo ora tuttavia in grado di vederlo nella sua giusta collocazione all’interno della totalità dell’Essere dalla quale soltanto deriva la sua giustificazione e il suo senso. Esso è risultato come manifestazione parziale della totale realtà. La struttura in cui esso si manifesta è la struttura di quelle diverse differenze che, colte nella sensibilità, sono emerse poi come strutture di cose di cui si ha coscienza. Questa coscienza è la presenza della diversa diversità delle cose altra volta presenti e ora assenti in quelle che sono attualmente presenti all’organismo dotato di sensi. Poiché i sensi hanno sempre potuto cogliere solo una minima parte delle diverse differenze, e precisamente le più grossolane tra di esse, questa struttura di differenze sempre sfuggite alla presa dei sensi sta alla base di quella manifesta. Sta alla base come potenzialità di manifestazione della struttura manifesta che è sempre solo parzialmente manifesta, ma per sua costituzione anche dotata della possibilità di ridurre questa sua parzialità. È l’inseparabile unione di questa duplice struttura: struttura manifesta, che per essere solo parzialmente manifesta appare scomposta nella molteplicità delle cose, e la struttura rimasta nascosta in quella manifesta e in ognuna delle sue cose, che costituisce il mondo fisico. L’inesauribile compito della ricerca scientifica consiste sostanzialmente nella progressiva riduzione del nascondimento, ossia della seconda struttura a favore della prima. Si ricorderà che il nostro cammino sulle orme dell’Essere è incominciato chiedendoci “cosa avverrebbe qualora tutta la struttura delle diverse differenze nascoste di una cosa uscisse dal nascondimento”. La risposta allora molto generica può essere ora, dopo il
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Il ritorno dell’essere
lungo percorso, assai più concreta. La materia del mondo e delle cose scomparirebbe, l’unità di tutte le cose, ora effettiva solo nel profondo, ossia nello spazio e nel tempo, diventerebbe l’unità manifesta in cui da tutte le cose scomparirebbe la separazione e quindi l’incompletezza della loro identità. La stessa sensibilità, che è costitutivamente formata di soglie che separano tra loro le due suddette strutture, si dissolverebbe in una totale unica completa accoglienza. È infatti anche dal vario modo in cui i messaggi dell’unica esteriore realtà vengono esclusi che si determina il vario modo di quelli che vengono accolti e il conseguente rapporto tra le due strutture. Questo vario modo è costitutivo dell’organismo vivente prima, e poi della sua coscienza; è una duplice struttura bene organizzata che si è andata formando attraverso i miliardi di anni dell’evoluzione della vita. Ogni vivente è una particolare sintesi di queste due strutture da cui dipende il suo particolare comportamento nei riguardi dell’ambiente e in particolare nei riguardi degli altri esseri come lui viventi. In quell’ipotesi ognuno di questi viventi, ognuna di queste diverse sintesi, incomplete e indeterminate a causa della componente nascosta materiale, si completerebbe risolvendosi nell’unico accoglimento della totalità unificata dei messaggi che non sarebbero più allora messaggi di cose, di pluralità di cose, sia pure tra di loro connesse, ma dell’unico mondo completamente unificato. Il mondo come totalità quantitativa, cumulativa, ossia come totalità di moltitudini di cose, e come totalità estensiva, ossia come totalità di cose distanti nello spazio e nel tempo si risolverebbe, sempre in quell’ipotesi, in una totalità che in contrapposizione a quella estensiva chiameremo intensiva. In essa tutto il contenuto positivo delle cose verrebbe non soltanto mantenuto ma totalmente integrato, così che le cose perderebbero tutta la loro indeterminatezza, ossia il loro essere nascosto e otterrebbero la loro assolutamente precisa identità. Equivale a dire che le cose si identificherebbero con la coscienza che se ne ha, ossia con la loro stessa manifestazione, una manifestazione non più distribuita nella pluralità delle cose, ma in se stessa totalmente unificata. Si arriva in tal modo a una unità che è tale in senso assoluto proprio perché assoluta è la differenza che la costituisce. Questa che sembra una contraddizione è invece l’evidenza più elementare. Sappiamo infatti che ogni cosa è se stessa per le differenze in cui si trova rispetto a tutte le altre cose. Là dove queste differenze si ri-
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L’essere del mondo fisico
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velano solo parzialmente la cosa appare isolata, separata dalle altre cose, confusa con esse, indeterminata. È in altre parole il nascondimento delle sue reali differenze che rende la cosa disunita in se stessa, e quindi separata da tutte le altre. Nel caso allora che tutte le differenze reali ma nascoste si manifestassero (è il caso della “totalità intensiva”), la situazione attuale di questa totalità verrebbe manifestata non dal comportamento diverso delle altre cose (comportamenti e cose in numero indefinito ma sempre finito), come succede nella “totalità estensiva”, ossia nel mondo fisico, ma dal suo proprio comportamento, ossia dalle possibili infinite situazioni diverse in cui essa può trovarsi. La situazione “attuale” non è data allora da tutte le diverse cose manifeste e dai loro diversi nascondimenti ma dalla loro unica totale realtà priva di nascondimenti. Anche la totalità intensiva, perché si manifesti e diventi così se stessa, esige le sue situazioni possibili non attuali, come è evidente anche dal conseguente fatto che ogni situazione dell’universo fisico risulta da ciò che l’universo fisico era prima di questa sua situazione attuale. La differenza in cui sta l’attualità della totalità intensiva rispetto alla sua possibilità che la manifesta non è più la differenza relativa di una cosa, di un “ente” rispetto alle altre cose, agli altri enti, ma la Differenza Assoluta nell’atto della sua assoluta manifestazione1. Senza questa concreta Manifestazione dell’unità dell’Essere, come espressione della sua possibilità, l’unità cade nel vuoto e 1 Si è spesso parlato in filosofia della cosiddetta “differenza ontologica”. Si tratta della differenza che sussiste tra “l’ente”, “ogni ente”, tutti gli “enti” o “essenti” (Heidegger), nella loro relatività e pluralità, e “l’Essere”. Heidegger recentemente si è particolarmente occupato di essa. Ha accusato tutta la filosofia occidentale, soprattutto da Platone in poi, di essersi polarizzata e fissata sull’“ente”, sugli “enti” o “essenti”, su ciò che è quindi solo “ontico” e aver dimenticato “l’Essere”, ciò che è “ontologico”. La stessa teologia si sarebbe degradata a semplice “onto-teologia”, per aver pensato Dio come un “ente”, sia pure il sommo. E proprio lì, in questo “oblio dell’Essere” sarebbe riposta la radice della decadenza della filosofia e in generale della cosiddetta “civiltà occidentale”, e del conseguente “nichilismo” in cui essa starebbe morendo. Werner Beierwaltes (Platonismus und Idealismus, Frankfurt am Main 1972; tr. it. Il Mulino, Bologna 1987; Identität und Differenz, Klostermann, Frankfurt am Main 1980, soprattutto l’ultimo capitolo dell’edizione italiana, Vita e Pensiero, Milano 1988) ha mostrato come il pensiero neoplatonico (Plotino, Proclo, Eriugena, Meister Eckart, Cusano) sia proprio nella sua sostanza la confutazione della tesi di Heidegger. I neotomisti (J.B. Lotz, C. Fabro, G. Siewerth, Geiger) hanno trovato anche in S. Tommaso espressioni di questa radicale differenza.
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Il ritorno dell’essere
l’Essere nel Nulla; in conseguenza rimane inspiegabile e inconcepibile l’unità delle cose nel loro unico spazio-tempo reale, e quindi la stessa “differenza ontologica” tra gli “enti” e “l’Essere”. La mancanza della sua considerazione porta a due eccessi opposti: da una parte alle varie forme di cosmologismo, in cui la totalità intensiva viene confusa con quella estensiva2; dall’altra alle forme ancora più frequenti in filosofia di astrattismo speculativo in cui viene eluso il concreto rapporto esistente tra la totalità intensiva e quella estensiva3. Questa totalità intensiva, che è lo stesso Essere non è ovviamente soggetto per la sua stessa essenza a decadenza, a corruzione, a estinzione. Tutte queste negative proprietà sono infatti possibili in una realtà in cui assieme all’essere è contenuto l’autentico possibile non-essere, ossia il nascondimento dell’essere, così che nei tratti di ogni sua “successiva” manifestazione non sono più ravvisabili quelli delle sue “precedenti” manifestazioni, per cui appunto diventano “precedenti” e “successive”, ossia poste nel “tempo che passa”, e da questo tempo poco alla volta distrutte. La scienza è arrivata a capire che il mondo fisico dopo un suo inizio, l’esplosione del Big Bang, di cui approssimativamente ha potuto determinare il tempo (15 miliardi di anni), si è evoluto e si trova ora in una fase di espansione contrastata dall’altra forza fondamentale: la forza d’attrazione universale, e si sforza di capire quale delle due forze dovrà nel tempo futuro prevalere, con conseguenze opposte, o di dissolvimento nello spazio vuoto, o di concentrazione verso un insondabile “punto nero” abissale, il Big Crunch. Ma è chiaro che tutti questi discorsi valgono soltanto per quel mondo fisico che è la totalità quantitativa, estensiva, con i limiti quindi ontologici che le sono connaturali. Il fatto stesso che i momenti essenziali della sua vicenda, l’esplosione iniziale, il dis2 Cfr. i vari recenti edificanti tentativi di filosofi e scienziati di vedere Dio nelle strutture fisiche in quanto tali, in particolare nelle strutture atomiche e subatomiche. Lo si può vedere, ma lo si deve anche tenere ben distinto da esse, radicalmente distinto da esse. 3 Cfr. le speculazioni di Heidegger per rivelare il rapporto tra l’Essere e gli essenti (“L’Essere trapassa in (ciò) che-, sopravviene scoprendo (ciò) che-, mediante tale sopravvento, arriva proprio allora di per sé allo scoperto. Arrivo vuol dire: rifugiarsi nel non-nascondimento, ossia consistere riparato, essere essente...”. In definitiva: “La differenza di Essere ed essente come distinzione di sopravvento e arrivo è l’apporto (Austrag) disvelante e proteggente di entrambi” (Identität und Differenz, G. Neske, Pfullingen 1957, pp. 62-63).
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L’essere del mondo fisico
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solvimento nello spazio o la concentrazione in un punto, non possono essere pensati né detti rimanendo all’interno del pensiero e del discorso scientifico indica chiaramente che essi appartengono a un altro ordine di idee. Per superare le difficoltà in cui s’è imbattuta la cosmologia “convenzionale” con le sue leggi “classiche”, s’è andata sviluppando in questi ultimi tempi una cosmologia “quantistica” della gravitazione, e, a più vasto raggio, molti tentativi sono stati fatti per elaborare “teorie di grande unificazione (GUT)” (teoria della “supersimmetria” delle “supercorde”, dello “spazio ad anelli”) per unificare tutte le quattro forze fondamentali della natura (elettromagnetica, dell’interazione debole, dell’interazione forte, della gravitazione). Ma da un punto di vista teorico nessuna si è mostrata soddisfacente, e da un punto di vista sperimentale si è arrivato ormai da parte degli scienziati alla convinzione che nessuna macchina, acceleratrice o no, potrà portare a energie in cui si verifichi sperimentalmente “la grande unificazione”, e quindi, tra l’altro, alla descrizione dell’esplosiva nascita dell’universo fisico in cui si pensa abbia regnato per un breve istante l’unica forza fondamentale suprema della natura4. Questa radicale incapacità non dipende dalla storica situazione in cui sempre si trova la scienza fisica, ma dalla natura stessa del mondo fisico che è il suo oggetto, e che non può non essere fatto di strutture spazio-temporali esprimibili con strutture matematiche che si avvicinano alla continuità senza poterla raggiungere. L’incapacità è di carattere metafisico. Rimarrà sempre senza risposta per la scienza la domanda: da dove è venuta l’esplosione delle cui conseguenze essa riesce a dire confusamente qualcosa, secondo le leggi fisiche note, solo dopo un centesimo di secondo che è avvenuta. Quest’intervallo di tempo è piccolissimo ma è più importante di tutta l’evoluzione che ne è scaturita. E lo stesso vale per l’altra domanda relativa: che ne sarà di tutta la materia quando si sarà dissolta nello spazio vuoto o concentrata nell’infimo “punto nero”. È possibile pensare che ci sia un 4
“Negli ultimi decenni siamo stati viziati, perché ottenevamo non un solo dato a conferma di una teoria, ma tanti, e allora sapevamo davvero di essere nel giusto; ora temo che dovremo accontentarci di dati che convinceran no solo quelli che sono già convinti. Non è un problema transitorio: siamo di fronte a un limite fondamentale della natura” (Howard Georgi della Harvard University, cit. in “Scientific American”, tr. it. Le Scienze (aprile 1944), p. 86. Cfr. W. Steven, Dreams of a Final Theory, Pantheon Books, 1992; L. David, The End of Physics: The Myth of a Unified Theory, Basic Books, 1993).
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Il ritorno dell’essere
essere che è venuto dal nulla, o un essere che si dissolve nel nulla? Il sovrano principio di Parmenide: “L’essere è e il non-essere non è” 5, ossia l’essere non può non essere, né può il non essere essere l’essere, resta fermo, stabile, irremovibile. Qui la scienza cozza in difficoltà ancor più insormontabili di quelle in cui abbiamo visto precedentemente incorrere la fisica del macrocosmo quando non ha saputo dirci cos’è il campo le cui manifestazioni sono l’attrazione dei corpi, i fenomeni elettromagnetici, e così via, e quella del microcosmo quando non ha saputo dirci cos’è quel vero ultimo componente elementare della realtà fisica che si manifesta in effetti tra di loro incompatibili, per cui quel presunto ultimo componente è condannato a rimanere indeterminato e quindi mai ultimo (cap. 12). Sono discorsi questi che riguardano la totalità “estensiva” fatta di essere disvelato e di essere nascosto, ossia il mondo come è visto da un organismo e capito da una coscienza che ha potuto cogliere nella vicenda della sua passata evoluzione, e che può cogliere in quella della sua esperienza attuale, solo una minima parte dei messaggi della realtà, pur essendo ormai ben persuasa dell’esistenza di quella non colta, senza della quale quella manifesta né si spiega né può esistere. Certo, questa totalità estensiva in quanto “estensiva” può dissolversi, ossia può dissolversi il mondo fisico in quanto “fisico” (la stessa scienza nel secondo principio della sua termodinamica lo intravede), ma non certo la totalità intensiva che ne sta alla base e insieme anche nella sua costante perfetta realizzazione. È per questa ragione che l’esperienza di questo mondo fisico, di questa totalità estensiva si trova imprigionata e insieme liberata, e quindi in buona parte lacerata (se non si sa cos’è la libertà non è dolorosa la prigione). Le cose del mondo fisico sono intrinsecamente tra di loro legate, l’abbiamo constatato quando abbiamo visto come ognuna si costituiva attraverso le sue diverse differenze da tutte le altre, e come le sue situazioni si realizzino attraverso le situazioni in cui si trovano tutte le altre. Ma poiché questa struttura di diverse differenze che identificano una cosa è una ben minima parte della struttura non colta, la cosa rimane sempre identificata parzialmente. Equivale a dire che ogni cosa di cui si ha coscienza, dipende anche, aldilà di tale coscienza, da tutte le altre cose. Ossia ogni 5
ústi g¶r eçnai, mhdùn d'oŸk ústin (framm. 6; cfr. framm. 2, Diels-Kranz).
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L’essere del mondo fisico
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cosa, oltre che essere spostata, usata, trasformata, prevista nel suo comportamento dalla sua coscienza, deve sottomettersi alla nascosta totalità di tutte le altre, per cui in buona parte il suo comportamento deve essere in gran parte soltanto accettato qualunque esso sia, constatato, osservato nella sua combinazione con i comportamenti e le rivelazioni dovuti alla coscienza. In altre parole, la cosa, ogni cosa dipende per la massima parte dalla totalità delle cose di cui non si ha coscienza. Essa è vincolata, e vincolata rimane in conseguenza anche la parziale coscienza che se ne ha. Le leggi della scienza e le teorie che le articolano saranno sempre tentativi mai del tutto riusciti di captare i legami che tengono subordinata la cosa alla totalità delle altre cose, mai del tutto riusciti perché la coscienza che se ne ha è parziale e quindi la cosa non potrà mai rivelare questa sua totale dipendenza da tutte le altre. Essa sfugge per sua natura di “cosa” a questa sua totale rivelazione: è più legata alla totalità delle altre cose che alla coscienza che se ne può avere. Per la coscienza risulta dunque vincolata da una necessità che sfugge alla coscienza. Significa che “le leggi della natura” scoperte dalla scienza non possono mai perdere la loro caratteristica di “ipotesi” valevoli soltanto nell’ambito dei legami della cosa a quella piccola porzione di realtà di cui si è potuto avere coscienza, e che quindi dovranno sempre parzialmente modificarsi, sempre meglio determinandosi e identificandosi, a mano a mano che si amplia questa porzione della realtà. Questo è il destino di tutte le cose che compongono il mondo fisico; esse rimangono sempre prigioniere della totalità “estensiva” a cui appartengono. Solo la Totalità in cui le cose perdono il loro nascondimento, ossia in cui esse perdono la loro qualità di “cose” racchiuse nello spazio e nel tempo, solo cioè la Totalità “intensiva”, che non ha nulla fuori di sé a cui debba il suo ossequio, vive nella sua eterna libertà.
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Il ritorno dell’essere
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INDICE
Prefazione .............................................................................................
5
Introduzione .........................................................................................
15
Parte I - L’ESSERE DELLA COSCIENZA CONSAPEVOLE Introduzione .........................................................................................
27
I - L’essere della coscienza religiosa ................................................... 1. La coscienza finita dell’essere ................................................ 2. La religiosità naturale ............................................................. 3. La religione “rivelata” ............................................................. 4. Religione e morale .................................................................. 5. La comunità religiosa .............................................................
29 29 33 37 47 51
II - L’essere della coscienza morale 1. Coscienza consapevole e moralità ......................................... 2. Il fondamento della moralità: la libera volontà ................... 3. Le quattro fondamentali distorsioni della coscienza morale 4. La violenza del nichilismo ......................................................
55 55 59 64 71
III - L’essere della coscienza estetica .................................................. 1. Considerazioni introduttive ................................................... 2. Le manifestazioni inautentiche della cosa: uso e strutturazione scientifica ...................................................................... 3. La manifestazione autentica: la coscienza estetica .............. 4. Il “significato estetico” dell’opera d’arte .............................. 5. Suggerimenti dalla storia dell’estetica .................................. 6. Universalità logica e universalità estetica ............................. 7. Incompletezza di ogni espressione estetica .......................... 8. La presenza del nascosto. Il sentimento ............................... 9. Qualche esempio illustrativo.................................................. 10. L’estetica di R.M. Rilke...........................................................
78 78
IV - L’essere della coscienza storica ................................................... 1. I due aspetti, “ideale” e “positivo” della realtà storica......... 2. L’unità degli accadimenti storici ........................................... 3. Le contrastanti interpretazioni del percorso storico e del suo esito ................................................................................... 4. Il percorso dell’Essere e della sua coscienza finita ..............
80 82 85 88 92 98 100 106 112 121 121 129 132 140
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Parte II - L’ESSERE DELLA COSCIENZA INCONSAPEVOLE Introduzione .........................................................................................
145
V - L’anima e il suo corpo ...................................................................
147
VI - Coscienza consapevole e coscienza inconsapevole ....................
162
VII - L’immortalità della coscienza consapevole ............................... 1. L’immortale appartenenza all’Essere ................................... 2. Prove tradizionali e modelli dell’immortalità. Differenza cosmologica e ontologica ......................................................
173 173 185
VIII - La “semplice” coscienza inconsapevole: la vita biologica. Il suo costitutivo essenziale: il riconoscimento ...................................
194
IX - L’interpretazione scientifica della vita biologica: meccanicismo e vitalismo, un contrasto insanabile ...........................................
210
X - La riproduzione .............................................................................
230
PARTE III – L’ESSERE DEL MONDO FISICO Introduzione .........................................................................................
245
XI - Il “mondo fisico” dell’esperienza ordinaria e della scienza moderna ........................................................................................
247
XII - Le invalicabili barriere del mondo fisico ..................................
261
XIII - L’unità nascosta del mondo fisico: lo spazio-tempo ..............
270
XIV - L’unità manifesta del mondo fisico: sostanzialità, causalità, quantità .......................................................................................
282
XV - Il senso filosofico della conoscenza scientifica del mondo fisico ................................................................................................
298
XVI - Universo “estensivo” e universo “intensivo” ............................
311
Finito di stampare nel mese di Agosto 1995 presso la Microart’s in Recco (Genova) per conto della Casa Editrice Tilgher-Genova s.a.s.
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