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Italian Pages [95] Year 1993
«DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI» DI GALILEO GALILEI di Maria Luisa Altieri Biagi
Letteratura italiana Einaudi
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In: Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere Vol. II, a cura di Alberto Asor Rosa, Einaudi, Torino 1993
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Sommario 1.
Genesi.
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Struttura dell’opera. Le maree come «argomento principale».
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3-4.
I modelli e le tematiche del Dialogo.
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5.
Aspetti linguistici e stilistici.
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5.1. 5.2. 5.3.
Sintassi nominale. “Coesione” linguistica e strutture sintattiche. Sintassi e testualità.
58 78 86
6.
Nota bibliografica.
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1. Genesi. Nel 1624, quando comincia a stendere i Massimi Sistemi, Galileo ha ormai sessant’anni; ne ha sessantacinque-sessantasei nel periodo di più intensa scrittura, successivo a una grave crisi fisica e psichica che ha costretto lo scienziato a «intermettere» l’opera per circa tre anni. Il manoscritto «si sta[rà] in un cantone» (XIV, 217) per più di un anno, in attesa dell’imprimatur e della stampa. È dunque un Galileo alle soglie della settantina quello che, nel febbraio 1632, Può finalmente avere in sua mano i primi esemplari del Dialogo, appena usciti dalla stamperia fiorentina dei «tre pesci»1. Se pensiamo che la vita umana ha, all’epoca, una durata media di trentacinque-quarant’anni2, il Dialogo appare frutto non di una piena maturità (come si suole eufemisticamente dire) ma di un’avanzata vecchiaia. Né la salute di Galileo, malferma fin dal periodo padovano e soggetta a crisi sempre più frequenti ed intense nel successivo ventennio fiorentino, poteva sdrammatizzare il dato anagrafico e mitigare i «travagli» ad esso connessi, che spesso lo scienziato lamenta nelle lettere di quegli anni. Aggiungiamo che, di norma, il pensiero matematico coincide con la giovinezza dell’individuo, almeno per quanto riguarda gli aspetti creativi, euristici. Galileo non si sottrae alla fatale involuzione, di cui constata dolorosamente gli effetti in se stesso quando – di li a pochi anni, impegnato nella stesura dei Discorsi – scriverà a Elia Diodati di provare «quanto la vecchiaia tolga di vivezza e di velocità agli spiriti» e confesserà di durare «fatica ad intendere non poche delle cose nell’età più fresca ritrovate e dimostrate» (XVI, 524). Fatti notissimi, quelli appena riepilogati, ma da cui non sono ancora state tratte le debite conseguenze; forse perché, oggi, nel legittimo intento di distinguere l’autore dall’uomo e quindi di evitare facili biografismi e psicologismi ingenui, si rischia di cadere nell’eccesso opposto di sottovalutare condizionamenti interni ed esterni che pure influiscono sulla scrittura di un’opera. L’attuale, feconda con1 G. GALILEI, Dialogo […] dove ne i congressi di quattro giornate si discorre sopra i due Massimi Sistemi del mondo, Tolemaico e Copernicano, proponendo indeterminatamente le ragioni filosofiche e naturali tanto per l’una quanto per l’altra parte, per Gio. Batista Landini, in Fiorenza, MDCXXXII. È del 21 febbraio 1632 la laconica notizia dello stampatore Landini: «ò finito l’opera del sig.re Galileo». Utilizzeremo per le nostre citazioni l’edizione nazionale delle Opere di Galileo, a cura di A. FAVARO, 20 voll. in 21 tomi (ristampe del 1929-39; 1964-66; 1968), Firenze 1890-1909. I rinvii indicheranno il volume con numero romano e la pagina con numero arabo; dato l’alto numero di essi, nel testo di questo contributo, elimineremo le abbreviazioni «vol.» e «p.». I corsivi nelle citazioni del testo sono sempre nostri. 2 La stima non tiene conto della mortalità infantile, che – se considerata – abbasserebbe ulteriormente la media; trentacinque/quarant’anni sono dunque la reale speranza di vita che un uomo del Seicento poteva avere, una volta superata l’infanzia.
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centrazione degli interessi sugli aspetti formali della scrittura, sui problemi testuali, non dovrebbe invece compromettere la percezione di vibrazioni emotive, di fremiti etici che percorrono il testo e ne determinano le funzioni. Il pericolo è forte soprattutto per la scrittura scientifica, nella perdurante presunzione che essa non filtri gli umori dell’uomo e aderisca senza attriti alla sua razionalità. Ma ci sono autori scientifici che non si lasciano disincarnare, e Galileo è uno di questi. È probabile, per esempio, che la prospettiva in cui Galileo ha vissuto gli otto anni di gestazione del Dialogo sia ben più drammatica di quella in cui quegli stessi anni appaiono a chi ne fa storia. Noi sappiamo, a posteriori, che il gran «vecchio», quando comincia a scrivere i Massimi Sistemi, ha davanti a sé diciotto anni di vita e di operosità feconda, che gli consentiranno non solo di vedere stampata quell’opera, ma anche di pubblicare i Discorsi, di scrivere la lettera sul candore lunare, di proseguire i suoi studi sulla percossa e su altri problemi fisici e geometrici (poi pubblicati come giornate aggiunte ai Discorsi), di esercitare la sua vena polemica “postillando” le Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco. Insomma: noi sappiamo che negli ultimi tre lustri di vita Galileo riuscirà a eseguire gran parte di quel programma vastissimo che nel 1610 – all’atto del suo passaggio da Padova a Firenze – aveva esibito in una famosa lettera a Belisario Vinta, segretario del Granduca3, e che poi aveva continuamente rinviato, nei quindici anni successivi. Ma Galileo non poteva sapere tutto questo, né poteva presumerlo, date le precarie condizioni fisiche che, nel 1628, si aggraveranno tanto da fargli rasentare la morte. Già da tempo egli rimpiangeva di aver «dispens[ato], come si dice, a minuto» (X, 232) il suo «talento», ed era turbato dal «pericolo et risico» (X, 298) di plagio a cui le sue «specolazioni» erano esposte finché inedite. Con il passare degli anni la coscienza della «rapacità» del tempo (XIII, 180), del «brevissimo» tempo che gli «avanza» (XIII, 183), del fatto che gli «si consuma» la vita, mentre l’opera attende (XIV, 217), diventa sempre più piena e angosciosa; durante la stesura del Dialogo lo scienziato deve aver ragionevolmente temuto di non fare in tempo a investire il suo patrimonio intellettuale in opere a stampa. In effetti, dopo il Sidereus Nuncius, le uniche opere scientifiche pubblicate con il nome di Galileo, e quindi sottratte al rischio di appropriazioni indebite, sono il Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua del 1612 e l’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari del 16134. Per quanto importanti, queste due 3
Nella lettera del 7 maggio 1610 a Belisario Vinta (X, 348-53), Galileo elencava, come «opere [...] da condurre a fìne», due libri De sistemate seu constitutione universi, tre libri De motu locali, tre libri «delle mecaniche» e «diversi opuscolo di soggetti naturali»: De sono et voce, De visu et coloribus, De mani aestu, De composizione continui, De animalium motibus, «et altri ancora» (ibid., 351-52). 4 Come è noto, la Risposta alle opposizioni del S. Lodovico delle Colombe e del S. Vincenzio di Grazia (1615) va sotto il nome di Benedetto Castelli; il Discorso delle comete (1619) è firmato da Mario Guiducci.
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opere dovevano sembrare all’autore modesto investimento, se paragonate alle «intere scienze» che circolavano in copie manoscritte, in lettere più o meno private, che giacevano in attesa di stesura definitiva, o che addirittura erano state affidate alla labilità orale di lezioni e conversazioni. La fortunata pubblicazione del Saggiatore non poteva compensare lo scienziato di precedenti rinunce a «metter fuori altre [sue] opere» (VI, 217-18); è anzi probabile che il successo ottenuto nel 1623 abbia acuito in Galileo quel rimpianto per la lunga pausa editoriale che, nell’incipit del Saggiatore, lo aveva indotto a elencare puntigliosamente tutte le sue “pubblicazioni” e a cercare alibi per il loro scarso numero. Il dato da tenere presente è questo: quasi tutte le opere del periodo pisano e padovano sono ancora inedite, nel momento in cui Galileo inizia la stesura del Dialogo. La Bilancetta, scritta negli anni 1585-86, vedrà la luce nel 1644; i Theoremata circa centrum gravitatis solidorum, ugualmente risalenti al periodo pisano (1585-87), saranno pubblicati solo nel 1638 in appendice ai Discorsi5; inedito il De motu, le cui redazioni si collocano fra il 1588 e il 1592, e i successivi studi sul moto, databili al quinquennio 1604-609; inedite le Mecaniche, composte nel 1593, stese in forma definitiva nel periodo 1598-1600, e che solo nel 1649 avranno la loro prima edizione a stampa (dopo una parafrasi francese, procurata dal Mersenne nel 1634). Per non parlare della messe di «specolazioni» affidate alle lettere: basti ricordare quella del 1602 a Guidobaldo Dal Monte sull’isocronismo del pendolo e problemi connessi, quella del 1604 al Sarpi sull’accelerazione di caduta dei gravi, quella del 1609 ad Antonio de’ Medici sul moto dei proietti6. Queste scritture, che talvolta vengono definite giovanili in rapporto alle opere fondamentali del decennio 1632-42, in realtà appartengono alla fase più fertile del pensiero galileiano, quella che coincide con la piena vigoria di un uomo che – non va dimenticato – ha già quarantasei anni quando lascia Padova7. Esse saranno recuperate e sollevate a dignità anche letteraria solo con il Dialogo e con i Discorsi, che pertanto si configurano come splendidi mosaici di tessere preesistenti al loro assemblaggio; con queste due opere Galileo riesce finalmente a datare e a firmare tutto ciò che gli appartiene. Anche le opere edite, però, avevano bisogno di recupero: non solo per i ne5 Dando notizia al Diodati dell’imminente invio ad Amsterdam del manoscritto «de centro gravitatis solidorum», Galileo sottolineava la precocità di quelle sue «conclusioni» e il desiderio che non andassero disperse (XVI, 523-24). 6 Cfr. Lettera del 29 novembre 1602 a Guidobaldo Dal Monte (X, 97-100); Lettera del 16 ottobre 1604 a Paolo Sarpi (X, 115-16); Lettera dalla febbraio 1609 ad Antonio de’ Medici (X, 228-30). 7 Galileo stesso dichiarava, alla fine del periodo padovano, di aver già trascorso i venti anni più produttivi della sua vita, e considerava urgente (nel 1609!) pubblicare il frutto delle sue fatiche: «havendo ormai travagliato 20 anni, et i migliori della mia età […] mio pensiero veramente sarebbe conseguire tanto di ottio et di quiete, che io potessi condurre a fìne, prima che la vita, 3 opere grandi che ho alle mani per poterle publicare» (Lettera del febbraio 1609 a Belisario Vinta: X, 232).
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cessari aggiornamenti scientifici, ma anche perché Galileo doveva tener conto, nel riproporle, degli strascichi polemici che avevano seguito la loro uscita: si pensi alla fioritura di scritture contro il Sidereus Nuncius, o all’annosa polemica con lo Scheiner sulle macchie solari, che includeva anche la disputa sulla priorità delle osservazioni. Nelle due summae dovevano essere riproposte, in orchestrazione dialogica, anche opere pubblicate in pochi esemplari (del Sidereus Nuncius erano state stampate in fretta solo 550 copie) e dovevano essere presentate, in una più ardita prospettiva cosmologica, speculazioni fisiche e osservazioni astronomiche di cui Galileo aveva in precedenza mimetizzato la portata filosofica: è il caso delle leggi sul moto, che – nel “mito platonico” del Dialogo (VII, 43-45, 53-54) e dei Discorsi (VIII, 283-84) – sono applicate ad un’ipotesi cosmogonica; ed è a caso delle traiettorie apparenti delle macchie solari che, nel Dialogo (VII, 372-82), sono esibite come prova astronomica della mobilità della Terra8. Per tutte le opere valeva poi l’esigenza di una promozione letteraria che ampliasse la loro leggibilità e quindi il raggio della loro diffusione. Con l’andare degli anni e con l’esercizio assiduo la lingua galileiana, pur conservando le caratteristiche fondamentali, si era evoluta in forme di sempre maggiore raffinatezza sia al livello lessicale che a quello morfo-sintattico; un orecchio sensibile come quello di Galileo doveva, a distanza di tempo, percepire certe asperità stilistiche della prosa risalente agli anni pisani e padovani, e desiderasse una levigatura formale. Naturalmente amici e corrispondenti di Galileo conoscevano anche le scritture inedite e le diffondevano. Ma proprio la vasta circolazione di queste le esponeva a facili rapine: un rischio che sempre più ossessiona lo scienziato, come si ricava dai molti luoghi in cui lamenta i «furti» delle cose sue e rivendica a sé il primato di osservazioni e dimostrazioni risalenti alla sua giovinezza. Scriveva nel 1623, all’inizio del Saggiatore: alcuni, costretti e convinti dalle mie ragioni, ànno cercato spogliarmi di quella gloria ch’era pur mia, e, dissimulando d’aver veduto gli scritti miei, tentarono dopo di me farsi primieri inventori di meraviglie cosi stupende. Tacerò d’alcuni miei privati discorsi, dimostrazioni e sentenze, molte di esse da me non publicate alle stampe, tutte state malamente impugnate o disprezzate come da nulla; non mancando anco queste d’essersi
8 Subito dopo la pubblicazione del Sidercus Nuncius, Galileo ne avrebbe desiderato una immediata ristampa: «Sarà anco necessario tra brevissimo tempo ristampare l’opera» (X, 299). Quanto alle macchie solari, lo scienziato aveva avuto ritegno, da principio, nel sottolinearne la portata «filosofica» (V, 234-35) di cui era pienamente cosciente, tanto che – anticipando la notizia di quella scoperta all’inizio del Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua – aveva definito il fenomeno «accidente per sé grandissimo, e maggiore per le sue conseguenze».
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talora abbattute in alcuni che con bella destrezza si sieno ingegnati di farsi con esse onore, come inventate dai loro ingegni. Io potrei di tali usurpatori nominar non pochi […]. (VI, 214).
L’amarezza era destinata ad accrescersi; quale fosse – nove anni dopo – lo stato d’animo di Galileo nel vedersi derubato delle sue «meraviglie», lo si ricava dall’incidente che mette temporaneamente in crisi la sua amicizia con Bonaventura Cavalieri, colpevole di aver anticipato nello Specchio ustorio la natura parabolica della traiettoria descritta dai proietti. Nel deplorare il comportamento dell’amico, Galileo manifesta un’esasperazione che va al di là del singolo episodio (facilmente riparabile, visto che il fedele Cavalieri non avrebbe chiesto di meglio che segnalare pubblicamente il suo debito); egli non tollera che di sue scoperte, risalenti a «più di 40 anni» prima, gli «deva ora essere levato le primizie, e sfiorata quella gloria che tanto avidamente desiderav[a] e [si] promettev[a] da si lunghe [...] fatiche» (XIV, 386). L’uomo che scriveva queste parole attraversava certamente un momento di particolare tensione: il Dialogo era uscito nel febbraio di quell’anno e già nel corso dell’estate lo stampatore fiorentino aveva ricevuto da Roma l’ordine di sospenderne la distribuzione. Però, per buio che fosse quel settembre che precedeva il viaggio a Roma e il processo, Galileo aveva pure avuto la gioia di vedere stampata la sua opera; doveva dunque essersi un po’ allentata l’angoscia che lo aveva assalito negli anni precedenti nel vedere come il tempo «va fuggendo», un po’ calmata la smania di «far vive e palesi le cose che, per il favor di Dio» aveva «scoperte» nell’arco di un’intera vita (39, 27). È però vero che la pubblicazione del Dialogo “salvava” soprattutto il pensiero astronomico di Galileo, limitandosi ad anticipare quei problemi fisici, meccanici, geometrici, che solo nei Discorsi avrebbero trovato ampia trattazione e dimostrazione. Il prelievo di Cavalieri era intollerabile proprio perché insisteva su un terreno non ancora “picchettato” – se cosi si può dire – dal maestro. Galileo poteva invocare più di un valido alibi per certa inerzia editoriale successiva al rientro in Toscana: la salute malferma, i problemi familiari ed economici, gli impegni connessi con la sua carica a corte, il “monito” del 1616. Ma lo scienziato non poteva imputare ai soli condizionamenti esterni ciò che, almeno in parte, era conseguenza di sue scelte. Il monito del 1616 poteva giustificare il silenzio in materia astronomica; però Galileo avrebbe potuto benissimo eseguire il suo programma nell’ambito delle scienze fisico-matematiche: come dire che i Discorsi avrebbero potuto uscire con
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venti anni di anticipo, se Galileo – seguendo il consiglio di Luca Valerio9 e di altri amici – si fosse dedicato intensamente a quel filone di ricerca invece di farvi ritorni episodio. Anche le distrazioni connesse con il ruolo a corte (un ruolo che, d’altra parte, esonerava lo scienziato dall’insegnamento accademico) non possono essere considerate il principale impedimento all’esecuzione del programma del 1610. Anche perché i problemi “curiosi” che la corte proponeva al suo «Matematico e Filosofo», trattati da un Galileo capace di risalire «da cose triviali, quotidiane e sotto gl’occhi di tutti» a «speculationi profundissime, iniscogitabili» (XVI, 200-l), avrebbero potuto confluire nel programma di lavoro. È da un impegno di corte che scaturisce il Discorso sui galleggianti; e non si può certamente dire che quesiti in partenza o in apparenza futili come quelli relativi all’«armatura» della calamita o al gioco delle ruzzole non siano poi stati ampiamente e produttivamente recuperati da Galileo nelle opere maggiori (VII, 185-87, 429 sgg.; VIII, 634). Galileo è dunque corresponsabile di quel silenzio che poi, nell’incipit del Saggiatore, giustificherà come sdegnosa reazione alla «mordacità» dei suoi detrattori, come desiderio di starsene «cheto affatto», sottraendosi alle pubbliche «risse» e rifugiandosi nel commercio intellettuale di pochi amici: seguirò di dire che, per tante chiarissime prove non mi restando più luogo alcuno da dubitare d’un mal affetto ed ostinato volere contro dell’opere mie, aveva meco stesso deliberato di starmene cheto affatto, per ovviare in me medesimo alla cagion di quei dispiaceri sentiti nell’esser bersaglio a si frequenti mordacità, e togliere altrui materia d’essercitare si biasimevole talento. È ben vero che non mi sarebbe mancata occasione di metter fuori altre mie opere, forse non meno inopinate nelle filosofiche scuole e di non minor conseguenza nella natural filosofia delle pubblicate fin ora: ma le dette cagioni ànno potuto tanto, che solo mi son contentato del parere e del giudicio d’alcuni gentil’uomini, miei reali e sincerissimi amici, co’ quali communicando e discorrendo de i miei pensieri, ho goduto di quel diletto che ne reca il poter conferire quel che di mano in mano ne somministra l’ingegno, scansando nel medesimo tempo la rinovazion di quelle punture per avanti da me sentire con tanta noia. Amo ben questi Signori, amici miei, mostrando in non piccola parte d’applaudire a i miei concetti, procurato con varie ragioni di ritirarmi da cosi fatto proponimento. [...] E ben che tali e somiglianti ragioni, addottene dall’autorità di questi Signori, fusser vicine al distogliermi dal mio risoluto pensiero del non più scrivere, nulladimeno prevalse il mio desiderio di viver quieto senza tante contese; e cosi stabilito nel mio proposito, mi credetti in questa maniera d’aver ammutite tutte le lingue, che ànno finora mostrato tanta vaghezza di contrastarmi. (VI, 217-18). 9 Il Consiglio era quello, dato nel 1610 e ribadito nel 1611, di «non lasciarsi trasportar tanto dalle stelle ch’ella non seguiti l’opera de i varia moti terrestri» (X, 362; M, 37).
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Neppure il più convinto “galileista” può credere alla giustificazione che lo scienziato dà del suo tacere; se c’è un comportamento estraneo alla personalità di Galileo è proprio lo «star[se]ne cheto affatto». Tanto è vero che le poche opere pubblicate, dopo il Sidereus Nuncius e prima del Dialogo, sono scritture polemiche. La falsa giustificazione è però interessante perché rivela nello scienziato la dolorosa coscienza del tempo perduto. La realtà di cui Galileo è ora pienamente consapevole è quella benissimo delineata da Andrea Battistini, in un recente studio: «Oramai i propositi del periodo padovano, all’insegna di un’esistenza quieta e appartata di scienziato dedito soltanto al propri studi, lontano da distrazioni mondane e perfino dai diversivi didascalici del maestro, furono per sempre abbandonati, sopraffatti dall’entusiasmo di conquistare a sé nuovi seguaci e dalla fede di rinnovare dalle fondamenta la ricerca scientifica, secondo programmi cosi vasti da coinvolgere anche la cultura ufficiale e in particolare la posizione della Chiesa. Invano l’amico Sagredo, più scettico e smaliziato del fervido Galileo, gli raccomandava di “pigliare i studi per passatempo” e di volgersi “alla vera filosofia, nemica dell’ambitione e schiava della sanità e del gusto, sommo bene di questa nostra vita” (XII, 553)10». È la strategia per vincere questa battaglia che assorbe Galileo e lo distoglie dal suo programma di lavoro. Insomma, quando Antonio Rocco imputerà allo scienziato il «disegno di far[si] capo popolare nelle dottrine» (VII, 697) interpreterà malignamente un’aspirazione che in effetti esiste, in Galileo: quella di siglare col suo nome una riforma della scienza che non si celebra nel ristretto ambiente professionale e accademico, ma che passa attraverso il «rifacimento» dei cervelli umani. Il trionfale soggiorno a Roma del 1611, coronato dall’ottima accoglienza al Collegio Romano e dall’iscrizione all’Accademia dei Lincei, prospetta a Galileo possibilità di successo; e poiché egli concepisce tale successo come accettazione, da parte della Chiesa e della scienza ufficiale, di una teoria esplicativa della realtà fisica, non può accontentarsi di un accoglimento di essa in via puramente ipotetica. Parla delle sue intenzioni, Galileo, nell’interpretare quelle di Copernico: 10 A. BATTISTINI, Introduzione a Galilei, Bari 1989, pp. 40 sgg. Il libro mantiene molto di più di quanto promesso dalla modestia “introduttiva” del titolo (imposta dalla collocazione in una collana divulgativa). Esso rappresenta una lucida sistemazione della vicenda e dell’opera galileiana, ed è ricco di osservazioni originali. Quanto a Galileo, va detto che la consapevolezza delle inadempienze, rispetto alle promesse padovane, data fin dai primi anni fiorentini; basti rileggere le prime righe del Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua: «Perch’io so, Principe Serenissimo, che il lasciar vedere in pubblico il presente trattato, d’argomento tanto diverso da quello che molti aspettano e che secondo l’intenzione che ne diedi nel mio Avviso Astronomico, già dovrei aver mandato fuori, potrebbe per avventura destar concetto, o che io avessi del tutto messo da banda l’occuparmi intorno alle nuove osservazioni celesti, o che almeno con troppo lento studio le trattassi ho giudicato esser bene render ragione si del differir quello, come dello scrivere e del pubblicare questo trattato» (IV, 63). E siamo solo nel 1612.
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il voler persuadere che il Copernico non stimasse vera la mobilità della Terra, per mio credere, non potrebbe trovar assenso se non forse appresso chi non l’avesse letto, essendo tutti 6 i suoi libri pieni di dottrina dipendente dalla mobilità della Terra, e quella esplicante e confermante. E se egli nella sua dedicatoria molto ben intende e confessa che la posizione della mobilità della Terra era per farlo reputare stolto appresso l’universale, il giudizio del quale egli dice di non curare, molto più stolto sarebb’egli stato a voler farsi reputar tale per un’opinione da sé introdotta, ma non interamente e veramente creduta11.
Il problema diventa pertanto quello di risolvere le contraddizioni – vere o presunte – fra verità naturale e verità rivelata. È il risultato che Galileo tenta di raggiungere con un’intensa opera di proselitismo e con la messa a punto di “argomenti” atti a risolvere il contrasto fra nuova scienza e sacre scritture. Il costo da pagare, in tempo e in energie, è l’alimentazione di una dispendiosa rete epistolare e l’impegnativa scrittura delle “lettere copernicane”. Il primo esito di questa battaglia è noto: è il monito del 1616, sia pure nella versione edulcorata di una «dichiarazione» del Bellarmino, che Galileo sollecita e ottiene, che ostenta con amici e nemici, in cui forse – “rimosso” il testo ufficiale dell’ammonizione – finisce per credere lui stesso. L’illusione di poter vincere la guerra, al di là della battaglia perduta, non lo abbandona; perfino durante il soggiorno romano del 1616, pur fatto oggetto di «assalti crudeli» (XII, 226-27), Galileo continua a parlare, e discutere, nel tentativo di convincere gli «ostinati». Gli interlocutori però – pur subendo la magia della sua parola – gli chiedono prove fisiche, incontrovertibili, della mobilità della Terra. Ma l’unica prova fisica che Galileo possiede (o che egli almeno pensa di possedere) è il fenomeno delle maree; ed è sintomatico che proprio durante il soggiorno romano del’16 lo scienziato scriva quel Discorso del flusso e reflusso del mare che figurava già (come De mani aestu) nel programma padovano: l’8 gennaio ne completa la stesura, per sopportare con la parola scritta una minor cogenza della parola orale di cui ha ormai raccolto inequivocabili indizi; il 26 febbraio riceve dalla Congregazione dell’Indice la diffida dal sostenere, in qualsiasi forma, l’ipotesi copernicana. Nemmeno dopo il monito Galileo si rassegna a «studii più salutiferi» (V, 395): la forza che gli viene dalla protezione della corte medicea, dalle amicizie potenti, dall’appartenenza al sodalizio Linceo, dalle affermazioni della sua “scuola”, gli impedisce di considerare definitivo lo scacco romano. Non può, ovviamente, pubblicare il Discorso del flusso e reflusso del mare, né tanto meno può sviluppar11
Lettera del 23 marzo 1615 a monsignor Piero Dini (V, 298). Considerazione analoga è espressa in V, 355-56.
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lo nel promesso trattato del «Sistema Mondano»; ma lo mette in circolazione inviandolo a Leopoldo d’Austria, nel 1618; né rinuncia a polemizzare in materia astronomica con il Discorso delle comete (1619), anche se evita di comparirne autore. Trascorrono così sette anni dal monito, prima che si presenti la favorevole circostanza del papato di Maffeo Barberini e si produca il clima che autorizza previa accurata strategia fincea – la pubblicazione del Saggiatore. Galileo è pronto a sfruttare il consenso ottenuto con il libro e scende di nuovo a Roma. Ma la riconfermata benevolenza del papa non si traduce in garanzie sicure e i Gesuiti sono ormai apertamente ostili. La delusione dello scienziato si coglie nella nausea che le frequentazioni romane ora gli procurano e nell’aspirazione, sempre più esplicita nelle lettere, ad una «quiete» che gli consenta di «terminare qualcuna delle [sue] speculazioni» (XIII, 179). È ormai un luogo comune della critica sottolineare, a questo punto, l’imprudenza di Galileo, l’accesso di fiducia che lo porta – dopo il Saggiatore – a iniziare il Dialogo dei Massimi Sistemi. È invece probabile che Galileo abbia enfatizzato le garanzie ricevute a Roma e mimetizzato la sua percezione dei rischi, proprio per non allarmare i suoi protettori e sostenitori. Si fa un torto alla sensibilità dialogica di Galileo, pensando che egli non abbia captato le riserve degli interlocutori romani del 1624, che non ne abbia dedotto le inquietanti conseguenze, e che si sia avviato “ignaro” al fatale epilogo della vicenda. Chi definisce imprudente la decisione di scrivere il Dialogo forse non considera che l’unica alternativa ad essa sarebbe stata ormai a silenzio; e quel silenzio che Galileo aveva potuto entro certi limiti sopportare come pausa temporanea nella speranza di una vittoria, non poteva più accettarlo come definitiva autocensura per paura di una condanna. Galileo, ormai ultrasessantenne, deve fare per se stesso quello che, nel proemio Al discreto lettore, dice di voler fare per Salviati e Sagredo: «prolungar, per quanto vagliono le mie debiti forze, la vita alla fama loro sopra queste mie carte». Quindi deve a qualunque costo scrivere e pubblicare le sue due summae (quella astronomica e quella fisico-matematica), salvando le fatiche di quarant’anni e consegnandole alla storia della scienza e a quella della letteratura. Nel Galileo del 1624 che – rientrato a Firenze – comincia a scrivere la lungamente rinviata risposta all’Ingoli (abbozzo dei Massimi Sistemi) non vediamo tanto l’uomo rinfrancato dal successo del Saggiatore quanto quello che ha ormai deciso di affidarsi ai posteri. Per essere “prudente” Galileo avrebbe dovuto sacrificare, a quella «picciola
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vigilia» di vita che poteva essergli riservata, la sua fama di scienziato; non c’è da stupirsi che abbia scelto il rischio. Del doloroso tricolon di Castelli: «inter hos tamen iudices vivendum, moriendum et, quod est durius, tacendum!»12, Galileo aveva sopportato il primo membro ed era preparato ad affrontare il secondo, ma non era più disposto a tollerare il terzo. Quanto egli fosse consapevole del pericolo, lo si ricava dalle raccomandazioni di segretezza con cui accompagna l’invio a Roma del manoscritto della risposta all’Ingoli (XIII, 240). Potrebbe sembrare strana tanta cautela, dal momento che i contenuti dell’operetta stavano per essere travasati nel ben più virulento contesto dei Massimi Sistemi. La spiegazione logica di questo comportamento ce la offre il Battistini, nella già citata Introduzione a Galilei: lo scienziato non voleva fornire neppure un pallido anticipo del Dialogo perché, prevedendo le reazioni che questo avrebbe suscitato, temeva che un loro scoppio precoce potesse ostacolare la pubblicazione dell’opera. Durante la stesura la paura di Galileo non è quella delle conseguenze, ma quella di non riuscire a «condurre a fine» l’opera; l’elemento che più emerge dalle lettere di quel periodo è la fretta. Per questo egli anticipa nel Dialogo (anche a costo di turbarne la linea) argomenti destinati all’opera seguente; anche se tali argomenti non possono essere sviluppati in quel contesto, la loro enunciazione basta ad attribuirli all’«Accademico Linceo» e a rivendicarne a lui a primato. Una volta finita la stesura del Dialogo, la paura diventa quella di non ottennere l’imprimatur. Lo scienziato in precedenza insofferente di compromessi, ora li accetta tutti: scrive ex hypothesi, enfatizzando il carattere di «vanissima chimera» della teoria copemicana; in ossequio alle prescrizioni revisori romani, sparge manciate di onesta dissimulazione in tutte le giornate, anche se sta particolarmente attento a farlo nei contesti più dimostrativi, in cui più evidente risulti al lettore la falsità di tali “proteste”; esegue tutte le correzioni imposte da Roma: a partire dalla modifica del titolo per arrivare all’inclusione dell’“argomento teologico” suggerito dal papa (VII, 488). Si affida alla diplomazia medicea e lincea, ma – per sorvegliare anche personalmente la sua causa – va a Roma, dove tenta di occultare la discrepanza fra il testo ufficiale del monito e la dichiarazione privata del Bellarmino. Insomma, pur di strappare il sospirato imprimatur, Galileo non rifugge da comportamenti che poi il papa definirà raggiri (IIIV, 383, 384); egli si infila consapevolmente (non ingenuamente) nel «ginepreto» di cui parlerà Urbano VIII (XIV, 392), compromettendo anche gli amici che più si adopreranno per aiutarlo13. 12 13
«Fra tali giudici ci tocca purtroppo vivere, morire, e – quel che è peggio – tacere!» (X-V, 188). Alludiamo soprattutto a Giovanni Ciampoli, segretario dei Brevi pontifici, che fu privato della sua carica ed esilia-
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Significativa sarà, in questo senso, anche la reazione alla condanna: la forza d’animo che già a Siena consente a Galileo di rimettersi al lavoro, senza nemmeno attendere il rientro a Firenze, è certamente il comportamento dignitoso di un carattere indomito, ma testimonia anche del fatto che la saetta era prevista, come prevista era la prosecuzione del piano editoriale che – subito dopo il primo Dialogo – ne dedicava un secondo ai temi che il Sagredo dei Massimi Sistemi aveva già diligentemente «registrati» sul suo taccuino per future «sessioni». Con ciò non si vuole escludere che Galileo abbia sperato di evitare la condanna. Si vuol dire che egli ha scelto di correre il rischio, pur prevedendolo, e che ne ha sopportato stoicamente le conseguenze pensando alla durata della sua fama di scienziato più che alla qualità dei suoi ultimi giorni di uomo. Scelta degna dell’Ulisse dantesco, per il grande «vecchio» che – molti anni prima aveva splendidamente interpretato il mito di Colombo e degli Argonauti.
2. Struttura dell’opera. Le maree come «argomento principale». Fra gli argomenti che Galileo si era trascinato dietro per oltre trent’anni, uno dei più ricorrenti e «maceranti» (per usare una forte parola galileiana: VIII, 211) era certamente quello delle maree. Il fenomeno doveva essersi imposto allo scienziato, in tutta la sua vistosità lagunare, all’inizio del periodo padovano. È quasi sicuro che proprio ad esso egli alludesse nella lettera a Keplero del 4 agosto 1597, in cui, retrodatando di «molti anni» la sua fede copernicana, la confermava con il ritrovamento, «ex tali posizione», di «cause di fenomeni naturali» che sarebbero stati altrimenti inspiegabili («naturalium effectuum caussae s[u]nt a me adinventae, quae dubio procul per communem hypothesim inexplicabiles sunt»: X, 68)14. Al 1595, comunque, se non prima, può essere datato l’interesse di Galileo per il «flusso e reflusso del mare»: di quell’anno sono infatti tre annotazioni del Sarpi che trattano del fenomeno e non è pensabile, date certe analogie di impostazione (e l’amicizia che legava i due uomini), che esso non fosse stato oggetto di una riflessione comune15. to da Roma, ma anche al padre Niccolò Riccardi, maestro del Sacro Palazzo, che «haveva corse le sueburrasche» (MV, 385), per essere stato di manicatroppo larga nel “correggere” il Dialogo, e troppo corrivo nel consentire la stampa. 14 «In base a tale dottrina sono state da me scoperte cause di fenomeni naturali che, sicuramente, rimarrebbero inesplicabili in base all’ipotesi [tolemaica] comunemente accettata». 15 I “pensieri” del Sarpi, relativi alle maree, sono contrassegnati dai numeri 569, 570, 571.Si possono leggere, nella trascrizione accurata dal Codice marciano, in G. GALILEI, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tole-
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Nel 1610 il problema è ormai assunto a preciso argomento di ricerca, come si ricava dalla già citata lettera al Vinta: fra i vari “titoli” in essa elencati figura infatti un De maris aestu che anticipa nella forma latina – la più qualificante, nella prospettiva del ricevente – quel Discorso del flusso e reflusso del mare (V, 377-395) che Galileo si deciderà a scrivere solo sei anni dopo. Ma già nel 1615 Galileo lavorava a un’opera che – come egli precisa a monsignor Piero Dini – avrebbe messo insieme «tutte le ragioni del Copernico, riducendole a chiarezza intelligibile da molti dove ora sono assai difficili» e avrebbe aggiunto ad esse «molte e molte altre considerazioni, fondate sopra osservazioni celesti, sopra esperienze sensate e sopra incontri di effetti naturali […]» (V, 300). Quegli «incontri di effetti naturali» altri non possono essere che le conferme fisiche dei moti terrestri, offerte dalle maree. L’allusione ricompare nella Lettera a Madama Cristina di Lorena in una formulazione che traduce quasi letteralmente quella con cui – diciotto anni prima – Galileo aveva dato la stessa notizia a Keplero: io ne’ miei studii di astronomia e di filosofia tengo, circa alla costituzione delle parti del mondo, che il Sole, senza mutar luogo, resti situato nel centro delle conversioni degli orbi celesti, e che la Terra, convertibile in sé stessa, se gli muova intorno […] tal posizione vo confermando non solo col reprovar le ragioni di Tolommeo e d’Aristotile, ma col produrne molte in contrario, ed in particolare alcune attenenti ad effetti naturali le cause de’ quali forse in altro modo non si possono assegnare, ed altre astronomiche […]. (V, 310-11).
Dunque il problema delle maree conta circa trent’anni di gestazione, quando Galileo comincia a scrivere i Massimi Sistemi, trasformando e ampliando in Dialogo il Discorso del flusso e reflusso del mare del 1616; esso ha imposto allo scienziato fatiche e angosce che Salviati enfatizza retoricamente con un tricolon che è anche climax («quant’ore, quanti giorni, e più quante notti […]»)16, a rincuorare un Sagredo eccezionalmente smarrito davanti alla complessità del problema:
maico e copernicano, a cura di L. Sosio, Torino 1970, p. LXXVIII, oltre che nell’edizione dei Pensieri naturali, metaftsici e matematici del Sarpi, in P. SARPI, Scritti filosofici e teologici, a cura di R. Amerio, Bari 1951- Sull’importanza del tema delle maree nel Dialogo galileiano cfr. S. DRAKE, Origin and fate of Galileos theory of tides, in «Physis», n. 3 (1961), pp. 185-94; ID., The Organizing Theme of the Dialogue, in AA.VV., Giornate, lincee indette in occasione del 350° anniversario della pubblicazione del «Dialogo sopra i Massimi Sistemi» di Galileo Galilei (Roma, 6-7 maggio 1982), Roma 1983, pp. 101-14. 16 Per espressioni di analoga intensità si veda IV, 564-65: «stare i mesi e gli anni inrisoluto sopra un problema naturale, e di infiniti esser totalmente fuor di speranza d’esser per conseguirne scienza»; VIII, 211: «quelli che conoscendo di non saper quel ch’e’ non sanno, ed in conseguenza vedendosi non saper né anco una ben minimissima particella dello scibile, s’ammazzano con le vigilie, con le contemplazioni, e si macerano intorno a esperienze ed osservazioni».
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in questo particolare, che ora abbiamo alle mani, non voglio meravigliarmi che la perspicacità del vostro ingegno resti ancora offuscata dalla caligine alta ed oscura che ci nasconde il termine al quale noi camminiamo: e cessa la mia meraviglia dal rimembrarmi quant’ore, quanti giorni, e più quante notti, abbia io trapassate in questa specolazione, e quante volte, disperato di poterne venire a capo, abbia, per consolazione di me medesimo, fatto forza di persuadermi, a guisa dell’infelice Orlando, che potesse non esser vero quello che tuttavia la testimonianza di tanti uomini degni di fede mi rappresentava innanzi agli occhi. (VII, 472).
Giorni e notti insonni dovrebbero aver permesso a Galileo di risolvere tutte le difficoltà che si oppongono alla sua teoria. Ma è evidente, a una rilettura della quarta giornata, che alcune incertezze permangono. Prima di tutto è debole la base osservativa su cui poggia l’ipotesi. Anche se Salviati invoca spesso la testimonianza oculare di Sagredo (che ha effettivamente viaggiato per mare) e si rifà a «relazioni» altrui per le modalità varianti del fenomeno in alcuni luoghi deputati (stretto di Gibilterra, stretto di Messina, Mar Rosso, Mar Nero, stretto di Magellano, ecc.), è chiaro che le uniche osservazioni dirette sono quelle relative al golfo di Venezia e ad alcune altre località adriatiche e tirreniche. Al di là della generica ammissione che le diverse manifestazioni locali dipendono da peculiarità del bacino e da altre variabili ambientali, Salviati non può andare17. Infatti il merito che Galileo si attribuisce è quello di aver individuato per primo la causa principale delle maree, lasciando ad altri l’investigazione di cause secondarie, responsabili di «particolarità» o «anomalie», che comunque non avrebbero mai potuto smentire la sua «prima general proposizione»: parmi di poter pervenire al ritrovamento delle vere cause e primarie; non mi arrogando di poter addurre tutte le ragioni proprie ed adequate di quelli effetti che mi giungesser nuovi, e che in conseguenza io non potessi avervi pensato sopra. E quello che io son per dire lo propongo solo come una chiave che apra la porta di una strada non mai più calpestata da altri, con ferma speranza che ingegni più specolativi del nùo siano per allargarsi e penetrar più oltre assai di quello che avrò fatto io in questa mia prima scoperta [...]. (VII, 443-44). Io mi contenterò d’aver avvertito come le cause accidentarie sono in natura, e son potenti a produrre molte alterazioni: le minute osservazioni le lascerò fare a quelli che praticano diversi mari [...] queste particolarità ricercano lunghe osservazioni, le quali né io ho sin qui fatte, né meno son per poterle fare per l’avvenire. 17 Galileo aveva visto giusto, su questo punto. Come è noto, il moto mareale dipende anche dalla geometria della costa e dei fondali, dai venti, dalle correnti marine. In particolare a Venezia – dove Galileo aveva potuto fare osservazioni accurate – succede spesso che le maree di scirocco e di bora producano effetti più vistosi di quelli delle maree luni-solari.
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SAGR. Assai mi par che voi abbiate fatto in aprirci il primo ingresso a cosi alta specolazione: della quale quando altro non ci aveste arrecato che quella prima generai proposizione [...] questo solo mi par che superi di tanto intervallo le vanità introdotte da altri, che il ripensare a quelle mi muove nausea [...]. (VIII, 485-86).
Manca però anche un controllo matematico dell’ipotesi. Il Galileo che ritiene di poter calcolare il “punto” da cui avrebbe avuto origine il moto – prima rettilineo e poi circolare – dei pianeti all’atto della loro creazione (VII, 53 –54) e che abbonda in computi astronomici a proposito della «stella nuova» (VIII, 318-42), arrivato alla giornata finale non calcola gli effetti del moto rototraslatorio; ed è stato osservato che, se lo avesse fatto, pur sbagliando il calcolo (perché all’epoca la distanza Terra-Sole era stimata molto minore di quella reale) avrebbe comunque ottenuto un risultato incompatibile con la sua teoria18. Viene dunque meno, a proposito delle maree, quel processo di matematizzazione dei dati sperimentab a cui di solito si affida il metodo galileiano. La spiegazione si basa, come è noto, su un’analogia: quella del comportamento dell’acqua dolce, trasportata da Lizzafusina a Venezia in una barca che si muove di moto non uniforme. Ogni accelerazione o decelerazione della barca provoca scorrimento dell’acqua trasportata, e innalzamento di essa alle estremità: a poppa, nelle fasi di accelerazione; a prua, nelle fasi di rallentamento. Tale comportamento fornisce un modello concreto di quello delle acque contenute nei «vasi» marini. Procedura legittima, quella analogica, che sta all’origine di molte intuizioni scientifiche; ma questa volta l’analogia è sbagliata, non estendibile ai moti del mare. Combinando due moti paralleli (quello di rotazione e quello di traslazione), il moto rototraslatorio che ne risulta genera accelerazioni variabili in superficie con periodo quasi giornaliero, non correlabili con il fenomeno delle maree. Gli scienziati sostengono che Galileo avrebbe avuto gli strumenti matematici per giungere a questa verifica negativa. Ci si può chiedere come mai Galileo osi pubblicare la sua spiegazione delle maree, senza averne tutte le necessarie conferme. La risposta può essere quella già fornita per la decisione di ignorare il monito e di rompere il silenzio. Il vecchio scienziato non ha più il tempo di controllare sperimentalmente la sua ipotesi: dopo un’esistenza sedentaria, trascorsa sull’asse Venezia-Firenze-Roma, egli non può certamente ipotizzare viaggi di studio e osservazioni di verifica. Quindi osa, anche se non gli è «ascoso che meglio sarebbe [...] tacer quel vero che ha faccia di 18 Si veda l’intervento di Giuseppe Colombo, nella Discussione seguita alla relazione di L. ROSINO, Il Dialogo come occasione per il processo e la condanna di Galileo, in AA.VV., Giornate lincee cit., p. 195.
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menzogna che, pronunziandolo, esporlo alle contradizioni e impugnazioni, e tal volta anche alle derisioni, di molti» (VI, 642). D’altra parte egli sa che la sua teoria, «volando per le bocche degli uomini», ha già trovato «padri carftativi» disposti ad adottarla «per prole di proprio ingegno» (VIII, 30) e non può lasciarsi sfuggire l’ultima occasione per produrla a stampa e assicurarsene il merito. In realtà la soluzione escogitata per giustificare le alterazioni mensili delle maree è cosi geniale che il lettore – anche se si chiama Einstein – non può sottrarsi al pathos metafisica che essa produce19. È affascinante l’analogia del gran de pendolo a cui è assimilato il sistema Terra-Luna in rapporto al Sole, e suggestiva l’ipotesi che – scorciandosi la corda del pendolo nel novilunio (quando la Luna è interposta fra Terra e Sole) e allungandosi quella corda nel plenilunio (quando la Luna è esterna alla Terra rispetto al Sole) – le due diverse situazioni influiscano sulla velocità del moto rototraslatorio della Terra, e quindi sull’intensità delle maree. Il Galileo della quarta giornata non rifugge dunque da quell’audacia speculativa che egli sottolinea in Copernico; né sarà un caso che l’elogio del coraggio ipotetico dell’astronomo polacco ricorra più volte nella terza giornata del Dialogo (VIII, 335, 362, 367, 368, 400) riverberandosi sull’analogo coraggio con cui subito dopo Salviati proporrà la spiegazione del flusso e reflusso: SAGR. Oh Niccolò Copernico, qual gusto sarebbe stato il tuo nel veder con si chiare esperienze confermata questa parte del tuo sistema! SALV. Sì; ma quanto minore la fama della sublimità del suo ingegno appresso agl’intendenti! mentre si vede, come pur dissi dianzi, aver egli costantemente continuato nell’affermare, scorto dalle ragioni, quello di cui le sensate esperienze mostravano il contrario: che io non posso finir di stupire ch’egli abbia pur costantemente voluto persistere in dir che Venere giri intorno al Sole, ed a noi sia meglio di sei volte più lontana una volta che l’altra, e pur sempre si mostri eguale a se stessa, quando ella dovrebbe mostrarsi quaranta volte maggiore. (VII, 367).
Le inquietudini residue di Galileo sono, del resto, a più riprese denunciate da Salviati; solo che il lettore, ormai avvezzo alla tecnica dissimulatoria che mitiga la portata rivoluzionaria di argomenti ben più dimostrabili e dimostrati, interpreta quelle dichiarazioni di incertezza e le conseguenti deleghe alla posterità come manifestazioni della stessa tecnica. Nel complesso gioco retorico creato dalla dialogicità dell’opera, dall’ambiguità delle funzioni linguistiche sottese alle battute dei tre interlocutori, diventa difficile sceverare il dubbio sinceramente ammesso da quello ironicamente o dissimulatoriamente esibito. 19 Anche il grande matematico (e amico di Galileo) Giovan Battista Baliani aveva trovato «meraviglioso» il «quarto dialogo» (XIV, 343), pur avanzando qualche perplessità circa la periodicità delle maree.
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Per dir la stessa cosa con parole diverse: la prova etica rappresentata dall’autorità di Salviati ha una tale forza, alla fine dell’opera, che l’interlocutore ben disposto – Sagredo, e il lettore con lui – interpreta il dubbio come fase del processo argomentativo, come componente del metodo socratico; anche se l’ipotesi si presenta paradossale, l’interlocutore è ormai disposto a credere che a Maestro «dimostrer[à] il [suo] paradosso» (VIII, 452). La collocazione finale dell’argomento è dunque quella strategicamente più opportuna: non solo perché l’epilogo di un’opera è luogo retoricamente rilevato, ma anche perché la spiegazione delle maree giunge nel momento in cui il lettore può accettarla come definitiva conferma dell’intera argomentazione. Tale collocazione serve a enfatizzare l’importanza dell’argomento marino, non certo – come troppi, e troppo a lungo hanno creduto – a relegarlo in appendice: importanza dichiarata da Galileo stesso (XIV, 289) e confermata da altri indizi che ora elencheremo. 1) Prima di tutto l’ambientazione del Dialogo nel palazzo di Sagredo, a Venezia. È possibile che quest’ambientazione serva a segnalare la destinazione dell’opera a quelli che oggi chiameremmo gli intellettuali e che Galileo chiamava gli «intendenti», scartando l’Accademia e la Corte. Né è da respingere la motivazione autobiografica della scelta: Galileo aveva vissuto nel Veneto un periodo di felicità intellettuale che forse non aveva apprezzato fino in fondo – teso com’era al rientro in patria – ma che doveva riemergere positivamente nella dimensione della memoria. La seconda motivazione non va però neppure sopravalutata: Galileo non avrebbe mai rischiato (e meno che mai in quel momento) di urtare la suscettibilità dei suoi «protettori» toscani, dando all’ambientazione veneziana del Dialogo il significato di una preferenza ideale o addirittura di una nostalgia per quell’ambiente culturale. Bisogna inoltre considerare che, a segnalare l’indirizzo dell’opera e a recuperare elementi autobiografici, sarebbe stata altrettanto e forse più indicata la toscana Villa delle Selve di Salviati che pure compare nel Dialogo come luogo d’incontro e di nobile conversazione (VIII, 374-75, 414-15). Proprio in quella villa si erano tenute, nel 1611, discussioni sul caldo e sul freddo da cui poi si era sviluppata la disputa sui galleggianti; nel Dialogo essa è teatro delle osservazioni sulle macchie solari: l’unico palcoscenico su cui l’«Accademico Linceo», tante volte evocato da Salviati, si materializzi e parli in prima persona (VII, 374-75). Sicché la scelta della città lagunare è, principalmente quella dello scenario
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più adeguato all’episodio saliente della commedia filosofica. Come dire che l’intera opera, a partire dalla prima levata di sipario, gravita sul suo epilogo: su quel «flusso e reflusso» che a Venezia diventa evento palpabile, quotidiano, imponendo il suo ritmo alterno alla vita della città e al comportamento degli abitanti. Obbligato dalla censura a minimizzare l’importanza dell’argomento (a sottrarlo dal titolo e, conseguentemente, dall’incipit dell’opera), Galileo poteva solo sperare che lettori al corrente di come erano andate le cose se ne facessero testimoni presso i posteri20, oppure che il «discreto lettore» cogliesse ugualmente la chiave di lettura fornita dall’ambientazione geografica e restituisse alla spiegazione delle maree la dimensione conclusiva – nel significato di “pienamente dimostrativa” – che le compete nella struttura dell’opera. 2) Altro indizio: la terza giornata comincia con un episodio a cui saremmo tentati di attribuire valore allegorico. Simplicio arriva all’appuntamento quotidiano con un’ora di ritardo: la gondola del filosofo peripatetico «è restata in secco» a causa del reflusso, in un «certo canale dove non son fondamenta»; e Simplicio, «stando cosi senza potere smontar di barca», ha modo di notare un particolare «assai meraviglioso»21: l’acqua, fuggita velocemente per diversi rivoletti, torna indietro per gli stessi «senza intervallo alcuno di tempo»; ossia il moto delle acque «di retrogrado [si fa] diretto, senza restar pure un momento stazionario» (VIII, 300-1). Normalmente Simplicio – come Salviati sottolinea nel Dialogo – è del gregge di coloro che «per acquistar le notizie de gli effetti di natura, e’ non vanno su barche», ma «si ritirano in studio a scartabellar gl’indici e i repertorii per trovar se Aristotile ne ha detto niente» (VII, 211). Ma ecco che, sottratto casualmente alla consultazione dei suoi “testi” prediletti e indotto a guardare la natura con l’«occhio della fronte e della mente», scopre subito un errore peripatetico: nel punto di riflessione di un moto non esiste il benché minimo intervallo di quella quiete che è postulato della Fisica aristotelica, smentito da Galileo fin dagli esordi pisani, in quel capitolo del De motu (I, 323-28) «in quo contra Aristotelem et communem sententiam ostenditur, in puncto reflexionis non dari quietem»22. 20 La speranza è espressa in una breve lettera di Galileo del 16 agosto 1631, quando un terzo del Dialogo era stato già stampato. Galileo, dopo aver lamentato di non aver potuto «ottenere di nominare il flusso e riflusso del mare, ancorché questo sia l’argomento principale che tratto nell’opera», si consola pensando che «doppo qualche tempo si spargerà la voce, per relazione di quei primi che l’averanno letto» (XIV, 289). 21 L’aggettivo, tipicamente secentesco, è qui usato nella sfumatura galileiana di un’adesione – intellettuale ed emotiva al tempo stesso – a fenomeni che rivelano la struttura razionale dell’universo. 22 «In cui si mostra, contro Aristotele e contro l’opinione comunemente accettata, che nel punto di riflessione di un moto non si dà quiete». L’espressione occhio della fronte e della mente ricorre con piccole varianti nel Dialogo (VII, 138, 169).
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L’allegoria ci sembra trasparente: il reflusso (utilizzato come prova della mobilità della Terra) può far repentinamente arenare e restare in secco la filosofia peripatetica: anche chi, come Simplicio, è imbarcato su di essa e non può smontare, deve constatare l’inconsistenza dei suoi fondamenti. 3) Né forse è un caso che Salviati e Sagredo anticipino, nel corso del Dialogo l’esempio della barca che, urtando in un ostacolo, fa traboccare il suo carico questo è infatti l’episodio che – in quarta giornata – sarà assunto a modello analogico del comportamento delle acque; l’insistenza sull’immagine della barca ce la configura come il tema che periodicamente affiora nella sinfonia dialogica, fino a culminare nel movimento conclusivo: quell’effetto che tutto il giorno si vede accadere in una barca che, scorrendo velocemente, arreni o urti in qualche ostacolo, che tutti quelli che vi son dentro, all’improvvùol repentinamente traboccano e cascano verso dove correva il navilio [...]. (VII, 239). Voi sete pur, signor Simplicio, per quel ch’io credo, andato mille volte nelle barche da Padova, e se voi volete confessar il vero, non avete mai sentita in voi la partecipazione di quel moto, se non quando la barca, arrenando o urtando in qualche titegno, si è fermata, e che voi con gli altri passeggieri, colti all’improvviso, sete con pericolo traboccati. (VII, 280). Figuriamoci una tal barca venirsene con mediocre velocità per la Laguna, portando placidamente l’acqua della quale ella sia piena, ma che poi, o per dare in secco o per altro impedimento che le sia opposto, venga notabilmente ritardata; non perciò l’acqua contenuta perderà, al pari della barca, l’impeto già concepito, ma, conservandoselo, scorrerà avanti verso la prua, dove notabilmente si alzerà, abbassandosi dalla poppa [...] se già il corso della barca non fusse velocissimo, e l’urto o altro titegno che la ritenesse, gagliardissimo e repentino, nel quale caso potrebbe anco tutta l’acqua non pure scorrer avanti, ma per la maggior parte saltar fuor della barca [...]. (VIII, 451).
Si potrebbe anche generalizzare l’osservazione notando che la grande maggioranza delle diversioni narrative, degli episodi, degli esempi disseminati nel Dialogo si riferiscono al mare o hanno un’ambientazione “navale”23. In realtà l’acqua è da sempre, in Galileo, il mezzo privilegiato per studiare il moto dei corpi; e sarebbe quindi azzardato dire che questi episodi costituiscano una specie di sistema segnaletico per il lettore, a indicargli il sentiero che, attraverso le prime tre giornate, conduce all’argomento marino della quarta.
23 Indichiamo solo i luoghi delle prime tre giornate, dato che la quarta è interamente dedicata all’argomento marino: VII, 142, 147, 152, 160-61, 167-68, 169, 170,174-76, 180, 197-98, 200, 206, 210, 212 –14, 239, 274, 275, 280, 402.
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4) Solido è invece l’indizio che compare nella seconda giornata (VII, 236-237). In un intervento di Salviati l’argomento della «costituzione del mondo» pur definito «uno de’ più nobili problemi che sieno in natura», è subordinato a quello della «causa del flusso e reflusso del mare», che affiora qui per la prima volta, nel testo dialogico: SALV. Signori [...] noi consumiamo il tempo in altercazioni frivole e di nessun rilievo. Ricordiamoci di grazia che il cercar la costituzione del mondo è de’ maggior e de’ più nobil problemi che sieno in natura, e tanto maggior poi, quanto viene indirizzato allo scioglimento dell’altro, dico della causa del flusso e reflusso del mare, cercata da tutti i grand’uomini che sono stati gin qui e forse da niun ritrovata [...] . (VII, 236-37)
È un’indicazione gerarchica esattamente contraria a quella imposta dalla censura ecclesiastica, che preferiva configurare l’opera come un dibattito cosmologico piuttosto che come un’indagine fisica comprovante la mobilità della Terra. Essa contrasta anche con la presentazione dell’argomento nella dedica Al discreto lettore: in quel contesto sorvegliatissimo il problema delle maree compare come episodio casuale (si noti il tono svagato e discorsivo del «Mi trovavo aver detto, molti anni sono [...]»), quasi una fantasia narrativa che avrebbe dovuto rimediare a precedenti indiscrezioni orali di Galileo e mettere al riparo gli scienziati italiani da critiche malevole degli stranieri: Nel terzo luogo proporrò una fantasia ingegnosa. Mi trovavo aver detto, molti anni sono, che l’ignoto problema del flusso del mare potrebbe ricever qualche luce, ammesso il moto terrestre. Questo mio detto, volando per le bocche degli uomini, aveva trovato padri caritativi che se l’adottavano per prole di proprio ingegno. Ora, perché non t)ossa mai comparire alcuno straniero che, fortificandosi con l’armi nostre, ci rinfacci oca avvertenza in uno accidente cosi principale, ho giudicato palesare quelle probabilità che lo renderebbero persuasibile, dato che la Terra si movesse. (VII, 30).
Ma è in terza giornata che compare l’indizio più sicuro (già utilizzato da Stillman Drake): il fenomeno delle maree è promosso ad «accidente massimo» e indicato come l’argomento da cui hanno avuto «origine» i ragionamenti: SALV. […] E perché mi pare che assai a lungo si sia in questi tre giorni discorso circa il sistema dell’universo, sarà ormai tempo che venghiamo all’accidente massimo, dal quale presero origine i nostri ragionamento; parlo del flusso e reflusso del mare, la cagione del quale pare che assai probabilmente si possa riferire a i movimenti della Terra [...]. (VIII, 439).
Si tratta di un vero e proprio rinvio a vuoto perché, nel testo a stampa del 1632, il «flusso e reflusso del mare» non è affatto «origine» della discussione. Sicché bisogna ammettere che la battuta di Salviati si riferisca alla stesura che prece-
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de la revisione censoria e la conseguente correzione del testo: in quella stesura le maree dovevano figurare anche nell’incipit e fornire lo spunto alla discussione. Un refuso tematico, dunque, quanto mai opportuno a farci recuperare la struttura originaria dell’opera. Un uomo dotato di gusto enigmistico, quale Galileo era, deve aver contato sull’eventualità che lettori attenti rilevassero quel refuso e ricostituissero la versione autentica, al di sotto delle modifiche coatte24. Stillman Drake ha già proposto una sua ricostruzione dell’incipit del Dialogo, individuando gli argomenti che dovevano essere in esso contenuti e attribuendo al veneziano Sagredo la curiosità iniziale per il momento delle maree e l’invito a discutere e a ritrovare la causa25. Ma forse si può fare un ulteriore passo avanti, in questa ricostruzione. Non è escluso che noi possediamo l’originale galileiano in quell’episodio di Simplicio «arrenato» per la bassa marea, che – come abbiamo visto poco sopra – apre la terza giornata. L’episodio potrebbe essere stato quello iniziale dell’opera, poi trasferito con ritocchi minimi nella collocazione attuale per ridimensionarne l’importanza, in obbedienza all’indicazione censoria. In questa ipotesi il sipario della «commedia filosofica» si sarebbe aperto su una scena occupata da due soli interlocutori, in attesa del terzo. Il loro colloquio avrebbe ospitato, con varianti minime rispetto all’attuale testo “trasferito”26: – il «desiderio grande» di iniziare la discussione: SAGR. Il desiderio grande con che sono stato aspettando la venuta di Vostra Signoria, per sentir le novità de i pensieri intorno alla conversione annua di questo nostro globo, mi ha fatto parer lunghissime le ore notturne passate, ed anco queste della mattina [...] . (VII, 299).
– le considerazioni sulla puerilità e fragilità delle tesi sostenute dai peripatetici, fermo restando il rispetto per Aristotele e per Tolomeo, loro «autori gravissimi»: SAGR. [...] ponderando le ragioni addotte dalle parti a favor delle due contrarie posizioni, quella d’Aristotile e Tolomeo, e questa di Aristarco e del Copernico [...] parmi, che qualunque di questi si è ingannato sia degno di scusa; tali sono in apparenza le 24 Il gusto enigmistico, tipico del secolo, si rivela per esempio negli anagrammi con cui lo scienziato comunicava le sue scoperte: senza svelarle ma assicurandosene la patemità. Cosi Galileo aveva comunicato a Keplero (XI, 11-12,42) e a Giuliano de’ Medici (X, 426) la scoperta delle fasi di Venere e di «Satumo tricorporeo». 25 Cfr. S. DRAKE, The Organizing Theme of the Dialogue cit., p. 105. 26 Segnaleremo in corsivo le parole su cui Galileo dovrebbe essere intervenuto, per trasferire l’episodio in terza giornata, e che pertanto avrebbero bisogno di un “restauro”, nell’ipotesi di un ripristino del brano all’inizio del Dialogo.
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ragioni che gli possono aver persuasi, tuttavolta però che noi ci fermassimo sopra le prodotte da essi primi autori gravissimi: ma, come che l’opinione peripatetica per la sua antichità ha auti molti seguaci e cultori, e l’altra pochissimi [...] mi pare scorgeme tra quei molti, ed in particolare tra i moderni, esserne alcuni che per sostentamento dell’oppinione da essi stimata vera abbiano introdotte altre ragioni assai puerili, per non dir ridicole. (VII, 299).
– la denuncia dell’ostinazione, della faziosità e pericolosità degli stessi peripatetici, con un pudico ma preciso accenno alle persecuzioni subite da Galileo ad opera loro: SALV. [...] mi sono accertato esser tra gli uomini alcuni i quali, preposteramente discorrendo, prima si stabiliscono nel cervello la conclusione, e quella, o perché sia propria loro o di persona ad essi molto accreditata, si fissamente s’imprimono, che del tutto è impossibile l’eradicarla giammai [...] ed all’incontro quelle che lor vengono opposte in contrario, quantunque ingegnose e concludenti, non pur ricevono con nausea, ma con isdegno ed ira acerbissima; e taluno di costoro, spinto dal furore, non sarebbe anco lontano dal tentar qualsivoglia machina per sopprimere e far tacere l’avversario; ed io ne ho veduta qualche esperienza. (VII, 299-300).
– la presentazione in absentia del ritardatario Simplicio, sottratto per la sua “innocenza” mentale dal novero degli avversari pericolosi, eppur cosi «pratico nella peripatetica dottrina» da poter essere usato come ottimo rivelatore delle reazioni di quelli: SAGR. [...] Per tanto seguiteremo col nostro signor Simplicio, conosciuto da me di lunga mano per uomo di somma ingenuità e spogliato in tutto e per tutto di malignità: oltre che è assai pratico nella peripatetica dottrina, si che io posso assicurarmi che quello che non sovverrà ad esso per sostentamento dell’opinione d’Aristotile, non potrà facilmente sovvenire ad altri. (VII, 300).
Solo a questo punto un trafelato Simplicio avrebbe fatto la sua comica “entrata” scenica, preannunciato e affabilmente accolto da Sagredo: SAGR. […] Ma eccolo appunto tutto anelante, il quale questo giorno si è fatto desiderare un gran pezzo. Stavamo appunto dicendo mal di voi. SIMP. Bisogna non accusar me, ma incolpar Nettunno, di questa mia così lunga dimora, che nel reflusso di questa mattina ha in maniera ritirate le acque, che la gondola che mi conduceva, entrata non molto lontano di qui in certo canale dove non son fondamenta, è restata in secco, e mi è bisognato tardar li più di una grossa ora in aspettare il ritorno del mare. E quivi stando cosi senza poter smontar di barca, che quasi repentinamente arrenò, sono andato osservando un particolare che mi è parso assai meraviglioso [...] (VIII, 300).
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La giustificazione del ritardo avrebbe fornito lo spunto colloquiale più appropriato all’argomento della prima giornata: per spiegare le maree sarebbe stato indispensabile risalire alla loro “causa” astronomica, e quindi iniziare il confronto fra il sistema tolemaico e quello copernicano. Si noti invece che l’episodio, collocato in terza giornata, non ha alcuna connessione con l’argomento che segue, e cioè con la discussione sull’altezza delle «stelle nuove». Anche la presentazione che Sagredo fa di Simplicio appare – se riletta in questa prospettiva – un po’ tardiva per un personaggio che il lettore conosce ormai da due giornate e di cui ha potuto personalmente constatare l’ortodossia peripatetica e la «somma ingenuità». È evidente il guadagno di dinamismo scenico che questo incipit avrebbe realizzato, nei confronti dell’attuale esordio espositivo di Salviati. Ma si pensi anche alla complicità che il colloquio a due, fra Salviati e Sagredo, avrebbe instaurato con il lettore/spettatore, coinvolgendolo in una dimensione più confidenziale del discorso, alimentando la sua attesa del terzo personaggio e “preparandolo” all’entrata di questi. La presenza del modulo dell’entrata ritardata non solo nella commedia, ma anche nel dialogo di tipo filosofico, rende ancora più plausibile l’ipotesi. Nel Simposio platonico Socrate e Aristodemo vanno assieme al banchetto di Agatone; ma Socrate rimane indietro, assorto nei suoi pensieri, e solo a metà cena farà la sua comparsa. Anche nella Repubblica di Platone i personaggi iniziali sono solo Socrate e Glaucone, raggiunti «poco dopo» da Polemarco («caˆ l…gw ßsteron te Polmarco$ ºce») e da altri27. Sono due i personaggi iniziali del De re publica di Cicerone, un testo che benché scomparso dalla circolazione, e quindi inattingibile da Galileo – doveva aver avuto la capacità di convalidare un modulo scenico; poi uno dei due, Scipione, «vede arrivare» il terzo, L. Furio, e lo accoglie amichevolmente (proprio come Sagredo preannuncia Simplicio e lo riceve con cordiale disinvoltura): L. Furium repente venientem aspexit eumque ut salutavit amicissime adprebendit. Tum Furius: «Quid vos agitis? Num sermonem vestrum aliquem diremit noster interventus?»28.
Nel De oratore Lutazio Catulo e il fratello giungono in un secondo tempo alla villa di Crasso, dove sono già riuniti gli altri interlocutori del dialogo: 27
«E poco dopo giunse Polemarco». «Scorse L. Furio che arrivava e lo salutò e accolse con grande amicizia. E Furio: “Che cosa state facendo? Forse il mio arrivo ha interrotto qualche vostro discorso?”» (De re publica, I, 11, 17). 28
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cum etiam tum in lecto Crassus esset et apud eum Sulpicius sederet, Antonius autem inambularet cum Cotta in porticu, recente eo Q. Catulus senex cum C. Iulio fratre venit [...] Qui cum inter se [...] amicissime consalutassent: «quid vos tandem?» Crassus «num quidnam» inquit «novi?»29.
Anche nel De re rustica di Varrone (altro testo sicuramente noto a un Galileo che il Viviani descrive appassionato e assiduo lettore di autori latini) la scena si apre su tre personaggi, uno dei quali «vede arrivare» e annuncia altri due interlocutori: «Sed opinor, qui haec conunodius estendere possint adsunt. Nam C. Licinium Stolonem et Cn. Tremelium Scrofam video venire […]». E Stolone, arrivando: «Num cena comessa, inquit, venimus?»30. Precedenti come questi confortano la nostra ipotesi. Certamente – se le cose stessero cosi – deve essere stato un notevole sacrificio, per Galileo, ribassare a intermezzo scenico e mimetizzare nel testo quello che era il suo significativo preludio: un Simplicio assediato e immobilizzato dal reflusso del mare – all’inizio di un’opera che proprio del flusso e reflusso fa l’«argomento principale» contro la cosmologia peripatetica – avrebbe avuto un forte impatto sul lettore e avrebbe garantito la ricezione del valore emblematico dell’episodio. La modifica del titolo del Dialogo, voluta espressamente dal papa, deve essere costata a Galileo quanto quella dell’incipit, se non di più. Lo scienziato attribuiva infatti grande importanza a questo elemento di “appello” al lettore: lo dimostrano le discussioni con il Cesi sul titolo da imporre alle Lettere sulle macchie solari, il dolore che Galileo manifesta per I’«intitolazione plebea» data dagli Elzeviri ai Discorsi intorno a due nuove scienze; per non parlare del gioco metaforico sotteso al titolo del Saggiatore, in rapporto alla grossolana Libra del Grassi31. Titolo e inizio anticipanti il fenomeno delle maree avrebbero determinato una lettura in chiave diversa del Dialogo: avrebbero suscitato e alimentato le attese del lettore per il tema della quarta giornata; gli avrebbero segnalato che il baricentro dell’opera era collocato proprio alla sua fine. 29 Mentre Crasso era ancora sul lettuccio, e Sulplicio stava seduto vicino a lui, e Antonio passeggiava nel portico assieme a Cotta, arrivò li inaspettatamente d vecchio Q. Catulo con d fratello C. Giulio [...] Dopo che questi si furono salutati con viva amicizia [...] Crasso chiese: “Che cosa fate qui? È successo qualcosa di nuovo?”» (De oratore, II, 3, 12). La situazione è ovviamente diversa da quella galileiana, perché i due nuovi arrivati sono in ritardo di un’intera giornata; ma il dinamismo scenico assicurato da questo episodio è, ciò nonostante, un precedente significativo. 30 «Ma ecco qui persone che penso ce lo possano spiegare meglio. Vedo infatti arrivare C. Licinio Stolone e C. Tremelio Scrofa»; «Siamo forse arrivati a cena finita? – disse» (De re rustica, I, 2, 9). 31 Il Cesi considerava riduttivo, per le macchie solari, un titolo in cui figurasse solo la parola Lettere (M, 420); fra le varie proposte (Helioscopia, Celispicio, Scoprimenti solari), prevalse poi Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti. Per le reazioni di Galileo al titolo dei Discorsi, Cfr. XVIII, 370, 373.
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Non consola osservare che le due modifiche abbiano, a posteriori, «giovato» a Galileo, relegando l’errore in appendice e impedendo che la sua assunzione a titolo compromettesse il valore globale dell’opera; sotto questa osservazione si annida la concezione trionfalistica di un sapere scientifico che cresce per somma di successi, censurando gli inevitabili scacchi. Ma se crediamo, con Einstein, che non siano tanto i risultati a caratterizzare uno scienziato vero, quanto la sua «passione» conoscitiva, l’errore relativo al flusso e reflusso del mare e la scoperta della legge di caduta libera dei corpi appaiono degni dello stesso rispetto. Purtroppo la critica galileiana (ma anche il teatro brechtiano) ha spesso costruito un Galileo su misura, quello che meglio collimava con contrapposte filosofie o ideologie, o magari quello che più conveniva a qualche campanilismo culturale o scientifico; un Galileo platonico o aristotelico, euclideo o archimedeo, campione del metodo ipotetico-deduttivo o di quello sperimentale; proiettato alla conquista dell’aristocrazia o, viceversa, tanto democratico da rasentare la demagogia; un Galileo rinascimentale o barocco, maestro della parola o artefice della conversione da parola a numero e quindi capostipite della divaricazione fra le «due culture». Ma in una personalità cosi complessa atteggiamenti scientifici diversi e comportamenti umani contrastanti possono convivere. Per quanto riguarda la spiegazione delle maree, ad esempio, non bisogna dimenticare la molla personale a cui Galileo ubbidiva. Nel sostenere il sistema eliocentrico lo scienziato assumeva il pensiero di Copernico: quando nel Dialogo Salviati avverte che «f[arà] da Copernichista» (VII, 157), allude, si, al ruolo scenico e usa un’astuzia dissimulatoria, ma contemporaneamente avverte che esporrà il contenuto del De revolutionibus (rendendolo cosi accessibile anche a un pubblico colto, non specialista): un compito divulgativo di cui Galileo non sottovaluta l’importanza e la dignità, ma che certamente non lo esalta quanto i suoi originali contributi di conferma della teoria, di questi egli era autore, non soltanto attore o interprete. Infatti la tensione del Dialogo sale sensibilmente quando Galileo parla delle osservazioni lunari, dei pianeti medicei, delle fasi di Venere, delle macchie solari, insomma di tutte quelle sue scoperte che sono anche prove delle alterazioni celesti, dell’eccentricità della Terra e del suo moto attorno al Sole. Se lo scienziato tiene particolarmente alla spiegazione delle maree è perché si tratta di una prova “terrestre”, e tutta sua, della teoria copernicana. Grazie ad essa il sistema matematico-astronomico ipotizzato da Copernico si sarebbe realizzato nella struttura del mondo fisico descritta da Galileo. Ecco perché non si può sottrarre allo scienziato il suo “errore”: perché, assie-
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me ad esso, gli sottrarremmo la splendida illusione che egli coltiva per un’intera vita, a cui sacrifica la sua sicurezza personale, a cui principalmente affida la sua fama presso i posteri. 6) Si può produrre un ultimo argomento, a sottolineare la tensione intellettuale ed emotiva che percorre la quarta giornata ed enfatizza la sua importanza, nell’economia generale dell’opera. Essa realizza una forte accelerazione di ritmi, nei confronti delle tre giornate precedenti. Eliminate le digressioni, Salviati non perde più il «dritto filo» del discorso; assume un ruolo preponderante rispetto ai due interlocutori; parla in prima persona, senza far più deleghe all’«Accademico Linceo»: le citazioni esplicite dell’anonimo personaggio sono solo due (mentre nelle tre giornate precedenti erano, rispettivamente, sei, cinque, undici) e si tratta di due rinvii ai futuri Discorsi, il secondo dei quali – a fine Dialogo – funziona come puro “appuntamento” per successive «sessioni». Non è dunque un caso che questa giornata sia cosi breve, a paragone delle prime tre: se prendiamo come unità di misura le pagine dell’edizione nazionale, la quarta giornata, con le sue 47 pagine, è circa la metà della prima (98 pagine) e circa un terzo delle due giornate centrali (rispettivamente 166 e 142 pagine). Al di là dei conteggi, è la nitida scansione retorica del discorso ad accelerare la giornata finale e a conferirle un ritmo che non è esagerato definire vertiginoso, rispetto alle altre: 1) C’è un breve exordium (VII, 442) che, oltre ad assolvere alla funzione fatica (riattivazione del rapporto fra i tre interlocutori dopo la separazione notturna), serve a sottolineare l’eccezionale intensità emotiva dell’“attesa” per l’argomento in programma: da una «grossa ora» Sagredo sta affacciato alla finestra «aspettando di momento in momento di vedere spuntar la gondola» da lui mandata a prelevare Salviati e Simplicio. 2) Viene poi la propositio del tema generale (VII, 442-44): la mobilità della Terra e il fenomeno del «flusso e reflusso» sono in rapporto di causa/effetto; è quindi possibile risalire dall’esame dell’uno al ritrovamento dell’altra. 3) Segue la divisio (VIII, 444): essendo tre i periodi del flusso e del reflusso del mare (diurno; mensde; annuo), tre saranno le corrispondenti parti della trattazione. 4) Inizia la narratio relativa al periodo diurno (VII, 445), con interventi di
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Simplicio che riferisce altre ipotesi esplicative delle maree; il che impone a Salviati una prima confutatio (VII, 446-48). 4a) Si sviluppa la narratio relativa al periodo diurno (VIII, 448-62); altre obiezioni di Simplicio determinano una seconda confutatio da parte di Salviati (VII, 462-70); Sagredo produce, intercalandola alle obiezioni di Simplicio, una confirmatio della teoria di Salviati (VIII, 466). 4b) Si conclude la narratio con la spiegazione dell’alterazione mensile (VII, 472-82) e annua (VIII, 482-85) delle maree. 5) Breve confutatio finale (VII, 486). 6) La conclusio (VIII, 487-89) ospita il riconoscimento da parte di Simplicio dell’“ingegnosità” della proposta galileiana: ammissione che comunque viene subito invalidata dall’«angelica dottrina» di cui il peripatetico si fa portavoce. Segue il commiato dei tre personaggi e l’appuntamento per nuove sedute (preludio ai Discorsi). Come si vede, inventio e dispositio rispettano senza soggezioni la partizione classica. Atteggiamento confermato dalla struttura generale dell’opera, se per un momento la liberiamo dai molti episodi che la sommergono: consegnati exordium, propositio e divisio al proemio, Galileo anticipa la confutatio (del sistema aristotelico e delle obiezioni alla mobilità della Terra) alla narratio (illustrazione dei moti terrestri) e alla confirmatio (prove astronomiche e prova fisica di quei moti): – la prima giornata è destinata a «ricollocare la Terra in ciclo» o, come dice un indignato Simplicio, a metterla «in ischiera con l’altre stelle», abolendo le aristoteliche opposizioni fra mondo elementare e mondo celeste; – la seconda giornata è dedicata a vanificare le obiezioni contro il moto diurno della Terra. Non dimostra quel moto, ma lo ammette come alternativa possibile a quello delle sfere: tutti i fenomeni celesti osservabili dalla Terra possono essere spiegati da quel semplice moto, «senza imbrigar» la complicata macchina celeste. Sulla base dell’assioma aristotelico e galenico per cui la natura non fa con dispendio di mezzi quello che può realizzare con risparmio di essi, l’ipotesi più semplice ed economica si raccomanda nei confronti di quella più complicata e costosa; – la terza giornata affronta il problema del moto annuo attorno al Sole, e ne produce due prove celesti: 1) con tale moto si spiegano le apparenti stazioni e retrogradazioni dei pianeti; 2) si spiegano anche le traiettorie curvili-
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nee delle macchie solari, quali esse a paiono a un osservatore terrestre; – la quarta giornata torna in Terra per leggere in un effetto naturale la causa celeste di esso. Le prove positive della mobilità della Terra sono dunque tre: due celesti e una terrestre; Galileo sa – per sofferta esperienza – che solo la terza può chiudere la bocca agli avversari32. Si spiega così anche la rigidità con cui Galileo respinge l’ipotesi dell’attrazione solare, coinvolgendo nelle «fanciullezze» ad essa relative uno scienziato del livello di Keplero. Vengono meno, qui, l’equilibrio del giudizio, la valorizzazione del dubbio, la disponibilità a correggere l’errore che Salviati sempre raccomanda: quei comportamenti socratici sono praticabili quando esistono certe dimostrazioni che matematizzano osservazioni sperimentali; ma quando le prime mancano e le seconde scarseggiano, il Maestro è indotto a gettare sul suo piatto della bilancia il peso di un’autorità indiscussa. Alla dimostrazione subentra la persuasione; al linguaggio sereno dei «cerchi» e dei «triangolo» si sostituisce quello, ben più ambiguo e anfrattuoso, della parola; l’urbanità delle obiezioni lascia il posto alla puntura degli «aculei ironici»33.
3-4. I modelli e le tematiche del Dialogo. Modelli del “dialogo”. L’ultima osservazione consente il passaggio a un tema ben esplorato, negli ultimi anni: quello della scelta del genere dialogico. I precedenti e le motivazioni di questa scelta sono ormai noti, grazie agli studi di storici della letteratura e della lingua. Prima di recuperare alcune motivazioni da un capitolo di questa stessa Letteratura italiana34 ricaviamo dalla rilettura della quarta giornata l’importante corollario di una di esse: fra le opportunità offerte dal Dialogo, va valorizzata quella della mimetizzazione di lacune e incertezze, da parte dell’autore. Nelle pieghe colloquiali del genere dialogico, possono essere ospitate reali ambiguità di pensie32 Dei fenomeni celesti i peripatetici riuscivano a dare spiegazioni alternativa a quelle galileiane; per esempio le traiettorie curvilinee delle macchie solari, quali appaiono a un osservatore terrestre, ve nivano giustificate ammettendo un movimento conico dell’asse solare; è infatti questa l’obiezione di Simplicio nel Dialogo (VII, 379-80). 33 A. BATTISTINI, Gli «aculei» ironici della lingua di Galileo, in «Lettere italiane», XXX (1978), 3, pp. 289-332. 34 Cfr. M. L. ALTIERI BIAGI, Forme della comunicazione scientifica, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, III/2. Le forme del testo. La prosa, Torino 1984, pp. 891-947. Il rinvio vale anche per l’utilizzazione del dialogo in area scientifica, prima e dopo l’episodio galileiano.
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ro: basta l’affidamento di un’affermazione a Sagredo per liberare Salviati, e quindi Galileo, da obblighi dimostrativi; la disponibilità didattica richiesta al Maestro dalla «debole apprensiva» di interlocutori inesperti può fornire abbi per l’assenza di calcolo. In un certo senso si ripropone – al livello del genere – l’osservazione intelligente che Paolo Galluzzi faceva a proposito della terminologia galileiana: la fluidità che caratterizza certi termini (per esempio quello di momento, studiato a fondo dal Galluzzi) non è soltanto reazione alla sclerosi della terminologia peripatetica, preferenza per la parola non ancora disidratata dall’uso tecnico; è anche una nicchia elastica in cui possono essere utilmente allogate oscillazioni semantiche o ambiguità concettuali non ancora risolte dallo scienziato35. Analoga opportunità è offerta dall’elasticità del genere: il dialogo è si – come abbiamo avuto occasione di dire altrove – «luogo del dubbio socratico, metodologico», ma con l’importante coronario di nicchia del dubbio residuo, là dove – come nel caso delle maree – manchino verifiche rigorose. L’osservazione non riecheggia famosi giudizi riduttivi sull’ars deceptiva dello scienziato; prende invece atto di ciò che Galileo stesso ammette sinceramente, parlando delle macchie solari: è «molto più difficile di trovar il vero, che ’l convincere il falso». Non si può pretendere, in una situazione di crisi dei paradigmi, che il sistema rifiutato venga immediatamente sostituito da un sistema coerente, uscito tutto intero e armato dalla testa di Giove. Galileo è tanto consapevole di ciò, che continuamente insiste sulla limitatezza del suo sapere, sulla drammaticità di conquiste isolate che squarciano il velo dell’ignoranza umana, senza eliminarlo. È questo un topos che entrerà a far parte del mito galileiano, attraverso successive generazioni di “gableisti”: il Galileo che Lorenzo Magalotti introduce nella nona delle sue Lettere familiari si vanta di aver «ritrovato la soluzione di una mezza dozzina di problemi fisici» nell’arco di «settant’anni»; ma, «per trovar tutto il resto», dubita «che il tempo non [gli] voglia servire»36. Una coscienza cosi radicata del carattere a-sistematico del proprio sapere male si concilierebbe con la struttura rigida del trattato. Naturalmente rimangono valide altre, importanti motivazioni della scelta dialogica. Prima fra tutte l’intima corrispondenza di essa alla forma mentis di uno scienziato a cui il processo che porta a una «conclusione» interessa tanto quanto 35 P. GALLUZZI, Momento. Studi galileiani, Roma 1979. L’osservazione del Galluzzi integra l’intuizione di Bruno Migliorini, poi da me sviluppata in Galileo e la terminologia tecnico-scientifica, Firenze 1965. 36 L’editio princeps delle Lettere usci postuma, a Venezia, per Sebastiano Coleti, nel 1719. Citiamo da una successiva edizione, sempre veneziana: L. MAGALOTTI, Lettere familiari, Sebastiano Coleti, Venezia 1741, p. 81.
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il risultato raggiunto. Parafrasando Lorenzo Bellini (non a caso Bellini, “gableista” fervido, anche se a distanza), il «gusto» di Galileo è «l’intendere, non il trovare»37. Lo stile filosofico di Galileo rifiuta l’esposizione ordinata e sistematica di conclusioni già raggiunte; esige invece una discussione in cui nemmeno il Maestro sia tutelato dal suo prestigio, risparmiato da obiezioni. Il dialogo risponde a questa esigenza di ripercorrere diacronicamente le tappe dell’itinerario mentale che porta alla soluzione di un problema. Si può dire che Cableo abbia precocemente e lungamente aspirato al dialogo, prima di adottarlo. Non deduciamo questa tendenza dall’episodio della redazione dialogata del De motu: in quel caso Galileo si era limitato ad adottare un topos della tradizione didascalica, che affianca al Maestro un evanescente Discepolo, scarsamente reattivo o addirittura spente. Appare più significativo il passaggio dal trattato del periodo pisano e padovano al discorso (Discorso sopra le cose che stanno in su l’acqua, Discorso del flusso e reflusso del mare, Discorso delle comete). Anche se discorso significa qui “ragionamento”, esso rappresenta – soprattutto nella dimensione polemica, evocativa di un antagonista – un passo avanti sulla strada della disponibilità colloquiale. Già nel Discorso sui galleggianti, del 1612, Galileo rivela l’urgenza dentro di sé della forma dialogica, quando – insofferente del tono espositivo – si finge una scena e ne cura la regia: Io mi fingo d’essere in questione con alcuno degli avversario [...] Si fa l’avversario innanzi e, facendomi abbassare alquanto la testa, mi fa veder cosa della quale io non m’era prima accorto [...] Io, vedute e intese queste cose, non so che altro fare se non chiamarmi persuaso, e ringraziar l’amico d’avermi fatto capace di quello di che per l’addietro non mi era accorto [...]. (IV, 121-22).
L’osservazione diventa ancor più pertinente per le Lettere, implicando il genere epistolare una dialogicità a distanza e una dialetticità differita che Galileo enfatizza, particolarmente in quella lettera sui generis che è il Saggiatore, dando corpo – gesto, movimento, parola – al suo antagonista «Sarsi». Anche quando, dopo i Massimi Sistemi, lo scienziato tornerà formalmente alla lettera (pensiamo in particolare a quella sopra il candore della luna, indirizzata a Leopoldo di Toscana), la vocazione dialogica emergerà incontenibile. Dimenticando l’augusto destinatario, ancora una volta Galileo sbotterà nell’allocuzione diretta, promuovendo a interlocutore quel Fortunio Liceti che dovrebbe essere
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Cfr. l’Introduzione a Scienziati del Sciceiito, a cura di M. L. Altieri Biagi e B. Basde, Milano-Napoli 1980, p. XXI.
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solo il referente della comunicazione epistolare. Si veda il brusco passaggio dalla terza alla seconda persona: E se così è, vorrei che il Sig. Liceti avvertisse, che nel voler noi far paragone del lume di Luna in Terra col candor della Luna vicina alla congiunzione, e di essi giudicare quello che alla prima vista si rappresenta, avvertisse, dico, che la Terra illuminata dalla Luna non è dall’occhio nostro più lontana di tre o quattro braccia, lontananza incomparabilmente minore di quella della Luna candente posta alla congiunzione, la quale eccede di assai trecento milioni di braccia: qual dunque meraviglia è che, posto anco che il candor della Luna fusse eguale all’illuminazione della Luna in Terra, in tanta differenza di lontananza ci apparisse minore? Eccellentissimo Sig. Liceti, per giudicare nella presente causa senza fallacia, bisognerebbe che, notato a parte quello che vi si rappresenta alla vista mentre che, stando in Terra, guardate il lume di Luna in Terra, paragonandolo al candor della Luna quando poi è posta nella congiunzione, notaste ancora a parte quello che vi si rappresenterebbe alla vista quando voi foste costituito nella Luna incandita dal lume terrestre, e di li poteste poi vedere la Terra, da voi lontanissima, illuminata dalla Luna; e se nell’una e nell’altra esperienza voi trovaste che la Terra si mostrasse più candida della Luna incandita postavi sotto i piedi, bene e concludentemente avereste sentenziato; ma dubito che la seconda esperienze vi farebbe mutar parere, e giudicare tutto l’apposito di quello che la prima vista intorno a questo vi persuase. (VIII, 511-12).
Concorrono alla scelta del dialogo anche motivazioni connesse con la funzione persuasiva del testo: una lettura del mondo densa di conseguenze filosofiche ha come destinatario l’uomo colto, con una preferenza – teorizzata dal Cesi – per il nobiluomo e per l’uomo di potere. Ad esso ci si deve ovviamente rivolgere con una scrittura di livello altamente letterario, con personaggi il cui comportamento e la cui lingua consentano processi di identificazione. Il dialogo di Platone, di Cicerone, di tutta la tradizione umanistica, è il genere più accattivante per lettori di questo tipo. Cooperava a suggerire la scelta anche la teorizzazione cinquecentesca della nobile conversazione. Nel costume stesso del secolo c’erano i modelli di comportamento suggestivi della scelta letteraria: pensiamo all’ambiente veneziano, spesso evocato dal Sagredo dei Massimi Sistemi, in cui Galileo si era trovato a vivere negli anni più decisivi della sua vita: già pervaso da quel gusto dell’incontro, del contatto internazionale, che poi evolverà nella formula più galante e femminilmente amministrata della «conversazione» settecentesca. L’analoga scelta di tanti altri scienziati successivi a Galileo (da Antonio Vallisneri senior a Vincenzo Riccati) dimostra che il genere dialogico – nel corso del Seicento e anche del Settecento – non era considerato forma incongrua ai conte-
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nuti scientifici. Ovviamente su tale scelta avrà agito il modello galileiano, ma non dimentichiamo che, se questo poteva stimolare l’imitazione (e la parodia gesuitica, da parte di un Filippo Buonanni), la dolorosa vicenda processuale e censoria ad esso collegata poteva funzionare anche come deterrente. E in effetti funziona come tale, se è giusto interpretare in questo senso la rinuncia al dialogo (o almeno alla pubblicazione di esso) da parte di tanti scrittori di fede galileiana, fra cui Bonaventura Cavalieri, Marcello Malpighi, Geminiano Montanari38. Del resto l’exploit letterario in ambito scientifico era tutt’altro che raro, all’epoca. Si pensi, per un esempio clamoroso e coevo a Galileo, al Keplero del Somnium (pubblicato nel 1634, ma scritto nel 1609), che contamina la problematica scientifica con la tradizione lucianesca dei viaggi sulla Luna: un episodio ben più spinto di quello rappresentato dal dialogo galileiano. Fra le varie motivazioni non va dimenticata quella prudenziale-strategica, che sfruttava la libertà colloquiare concessa a interlocutori senza responsabilità professionali. Libertà più volte sottolineata, nel Dialogo, e che poi Galileo stesso esibirà al processo come abbi per certe intemperanze. Concludiamo con un piccolo ritocco alla nostra stessa definizione di «dialogo a tre voci». I personaggi sono effettivamente tre, ma le presenze sono quattro: ben ventiquattro volte, nel corso dell’opera, viene evocato l’«Accademico Linceo»; se poi alle citazioni esplicite aggiungiamo quelle implicite (allusioni ad opere, a scoperte, ecc.) il numero sale a cinquanta. Si tratta dunque di una presenza che incombe sulla scena, con il suo trasparente anonitnato. Una sola volta questo convitato di pietra “parla” – nel doppiaggio di Salviati – e lo fa con una modulazione oracolare degna dell’ápax (VII, 374-75). L’intervento è preparato abilmente da Salviati, che crea attorno ad esso una cassa di risonanza epico-narrativa: basti notare la precisazione delle coordinate spaziali, temporali, e anche meteorologiche dell’evento: «l’anno 1610... nello Studio di Padova... in Venezia... un anno dopo... in Roma... doppo alcuni anni, essendo noi nella mia villa delle Selve... invitati anco da una chiarissima e continuata serenità di cielo...» Notevole è anche l’uso insistito dei perfetti attivi, talvolta anticipati solennemente al soggetto, a scandire la momentaneità irripetibile delle scoperte e dell’illuminazione finale: «Fu il primo scopritore ed osservatore delle macchie solari... scopers’egli... ne parlò le fece vedere... Fu il primo... affermò... giudicò... Occorse in questo tempo con tali parole mel conferì…»
38 Per la fortuna del “dialogo”, fra Sei e Settecento, cfr. M. L. ALTIERI BIAGI, Forme della comunicazione scientifica cit., in cui sono sviluppati gli argomenti a cui qui brevemente si allude.
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Sì che, quando l’«Accademico Linceo» inizia a parlare («Filippo, a gran conseguenza mi par che ci si apra la strada ...»), la sua voce ha una risonanza inedita, quasi venisse da profondità maggiori di quella assicurata dalla “scena” abituale del Dialogo. E si noti che questa è la prima e unica volta in tutta l’opera che il «signor Salviati» compare al lettore come «Filippo»: il nome personale sottolinea l’inversione di ruolo del personaggio che – maestro nei confronti di Sagredo e di Simplicio – è scolaro davanti all’Accademico Linceo; ma soprattutto misura l’intimità di un rapporto intellettuale e affettivo cementato – al di là di tutte le convenzioni sociali – dal pathos della ricerca e della scoperta. Se prescindiamo da quest’unica manifestazione ectoplastica, l’«Accademico Linceo» non agisce, non calca il palcoscenico della commedia filosofica; ma l’ammirazione, la soggezione mentale che Salviati mostra nei suoi confronti, proiettano la sua ombra sullo sfondo: è una sagoma impassibile, sottratta al dinamismo spazio-temporale della fabula. Proprio per questo è enorme ed eterna: non più aggredibile dalla cronaca, già consegnata alla storia. Tematiche e contenuti. L’argomento delle maree è stato anticipato perché non è uno dei temi che figurano nel Dialogo, ma il tema che organizza l’intera opera e ne determina la struttura. Rimane opportuna un’analisi tematica e contenutistica dei Massimi Sistemi che recuperi – al di là dello scarso riassunto proposto al paragrafo precedente i molti «episodii» di cui Salviati sottolinea la legittimità, in un’opera che tratti di scienza a un livello letterario non indegno del Decameron: SALV. [...] Non voglio che il nostro poema si astringa tanto a quella unità che non ci lascia campo aperto per gli episodii, per l’introduzion de’ quali dovrà bastarci ogni piccolo attaccamento, e quasi che noi ci fussimo radunati a cantar favole, quella sia lecito dire a me, che mi farà sovvenire il sentir la vostra. (VII, 188).
In effetti le digressioni sono «tante e tali» da far perdere l’orientamento anche a Salviati, nonché al lettore: SALV. Le diversioni di ieri, che ci torsero dal dritto filo de’ nostri principali discorsi, furon tante e tali, ch’io non so se potrò senza l’aiuto vostro rimettermi su la traccia, per poter procedere avanti. (VII, 131).
La tecnica dell’«intarsiatura» galileiana è già stata paragonata da Andrea Battistini alla tecnica narrativa del Tristram Shandy; pensiamo, in particolare, a quella pagina del romanzo (libro VI, cap. XL) in cui Sterne dà una rappresentazione grafica dei «capricci digressivi» del suo eroe39:
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Sono le quattro linee lungo le quali mi sono mosso durante il primo, secondo, terzo e quarto volume. Nel quinto sono stato molto bravo, perché ho tracciato precisamente la linea seguente
L’accostamento è meno impertinente di quanto possa sembrare, se si pensa alla forte componente carnevalesca del Dialogo galileiano e – viceversa – al fatto che Sterne respirava, nell’Inghilterra della prima metà del Settecento, un clima culturale fortemente influenzato dalla rivoluzione scientifica newtoniana. Chi volesse rappresentare graficamente l’andamento delle giornate galileiane, vedrebbe che la prima è quella in cui i “meandri” delle digressioni sono più sviluppati e vistosi; che la seconda e la terza giornata, pur notevolmente «frastagliate» (per usare un’immagine sterniana), si distinguono dalla prima per una minore autonomia delle deviazioni dall’argomento principale, come lo stesso Salviati sottolinea, a moderare l’impazienza di Sagredo: SAGR. Ma troppo lungamente ci siam partiti dalla materia; e se il signor Simplicio resta appagato della soluzione del primo argomento contro alla mobilità della Terra, 39 Cfr. A. BATTISTINI, Introduzione a Galilei cit., p. 125; L. STERNE, The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman, 1760 (trad. it. La vita e le opinioni di Tristram Shandy gentiluomo, prefazione di C. Levi, Torino 1990, pp. 430-31).
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preso da i cadenti a perpendicolo, si potrà venire a gli altri. SALV. Le digressioni fatte sin qui non son talmente aliene dalla materia che si tratta, che si possan chiamar totalmente separate da quella […]. (VII, 188).
Per quanto riguarda la quarta giornata, si è già visto che Galileo, anche se – a differenza del personaggio sterniano – «non raggiunge l’eccellenza di andare in linea retta», pure si discosta pochissimo da essa. Le digressioni non servono soltanto a vivacizzare la rappresentazione, inserendo in essa piacevoli apologhi, intermezzi rilassanti; esse sono funzionali soprattutto a due scopi: 1) al recupero nel tessuto del Dialogo delle «specolazioni», edite e inedite, di Galileo; 2) a una caratterizzazione dei personaggi capace di influenzare a priori – positivamente o negativamente – la ricezione dei loro interventi da parte del lettore. Il recupero delle quarantennali «fatiche». Salviati dichiara – nel brano citato sopra – che «ogni piccolo attaccamento» sarà sufficiente ad autorizzare digressioni. Gli appigli saranno sfruttati da un Sagredo in vena di apologhi per creare rapporti osmotici fra scienza e vita: una scienza che abbia portata filosofica non può chiudersi nel pensatoio o nel laboratorio, non può ridursi a sapere cartaceo, a esercizio di memoria. Essa deve diventare un abito mentale: il libro della natura può essere letto da Sagredo mentre naviga verso Aleppo come «consolo» della repubblica veneziana o mentre osserva un gruppo di ragazzi che gioca con le ruzzole (VII, 197, 183). Salviati sfrutta invece gli «attaccamenti» per portare o riportare alla luce le «fatiche» di un’intera vita. Si è già visto che la quarta giornata è tutta un recupero di più che trentennali riflessioni sul fenomeno delle maree. Rimane da vedere come analogo recupero si attui nelle tre giornate precedenti. Quattro sono gli “intarsi” vistosi, nella prima giornata del Dialogo; a dare un’idea della loro entità, basti dire che essi occupano ben 62 delle 98 pagine dell’edizione nazionale. Possiamo schematizzare così la prima giornata: Speculazioni de motu
VII, 43-54
Scoperte celesti
76-83
Osservazioni lunari
87-126
Intendere intensive extensive
126-31
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1) La prima digressione (VIII, 43-54) trova il suo «attaccamento» nell’esame dei moti secondo Aristotele. Essa consente a Galileo di recuperare studi del periodo pisano e padovano, dal 1585 al 161o (Bilancetta; De motu; Mecaniche; frammenti sul moto del quinquennio 1604-609); studi mai confluiti in quel trattato De motu locali, il cui titolo Galileo aveva anticipato al Vinta nel 1610. L’argomento prelude a più ampi sviluppi in seconda giornata e all’organica trattazione dei Discorsi40. 2) La seconda digressione (VII, 76-83) si «attacca» alla dottrina aristotelica dei contrari, per riproporre le scoperte astronomiche di Galileo: un argomento che avrà ulteriori sviluppi, in prima e soprattutto in terza giornata. All’opposizione moto circolare (dei corpi celesti)/ moto rettilineo, sursum e deorsum (dei corpi elementari), si associano le opposizioni inalterabile, incorruttibile, ecc. (caratteristiche dei corpi celesti) / alterabile, corruttibile, ecc. (caratteristiche dei corpi elementari). E a questo punto che possono essere riproposte le «specolazioni» galileiane che smentiscono l’inalterabilità dei cieli: le stelle nuove del 1572 e del 1604 (a cui Galileo aveva dedicato tre lezioni per noi perdute), le osservazioni sulla faccia della Luna, sulla Via Lattea sul pianeti medicei, sulle comete, sulle macchie solari: insomma, l’intero percorso dal Sidereus Nuncius (1610) al Saggiatore (1623) attraverso le lettere al Welser (1613) e il Discorso delle comete (1619). 3) Un’osservazione di Simplicio sull’inutilità di alterazioni lunari che – per la grande distanza – non potrebbero avere alcun effetto benefico sulla Terra fornisce a Galileo l’appiglio per riproporre ampiamente tutta la materia lunare (VII, 87-126) tenendo conto delle polemiche successive all’uscita del Sidereus Nuncius. 4) L’intarsio “lunare” si è appena concluso, che si apre – sollecitato dall’appiglio socratico – quello sulla capacità d’intendere intensive/extensive (VII 126-31), argomento già circolante nelle Lettere copernicane (come capacità umana di leggere «nell’aperto libro del cielo») e nel Saggiatore. 40 La problematico de motu è intrecciata con quella degli infinitesimi e della composizione del continuo (VII, 46, 52, 190; in seguito: VIII, 226-28, 255-56), anch’essa risalente al periodo padovano (II, 261 sgg.), affiorante in lettere (XIII, 381) e mai confluita in quel trattato De composizione Continui che pure figurava nel programma del 1610 (X, 352). Sarà Bonaventura Cavalieri a scrivere la Geometria indivisibilibus continuorum nel 1635. La stessa problematico viene qui assunta in una prospettiva cosmogonica, quella del«mito platonico» (VII, 43-45), secondo cui le diverse velocità orbitali sarebbero effetto del diverso grado di accelerazione acquistato dai singoli pianeti (nel moto rettilineo di caduta per tempi diversi) a partire dal ’punto’ comune della loro creazione divina. Del mito platonico (che ricomparirà nei Discorsi, VIII, 284), Galileo aveva notizia fin dai suoi studi pisani (I, 23). È probabile che l’ipotesi cosmogonica dovesse già figurare nel progettato De systemate seu constitutione universi, promesso al Vinta fin dal 1610, preannunciato dal Sidereus Nuncius, e a cui si continuerà in seguito a fare allusione nel carteggio.
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Sappiamo già che la seconda giornata presenta intarsi numerosi, ma meno «alieni» dalla materia trattata, rispetto alla prima. La maggior parte di essi recupera speculazioni fisiche e meccaniche di Galileo: dagli inizi pisani alla Risposta alle opposizioni […] contro il trattato delle cose che stanno in su l’acqua (1615). Nel loro complesso gli “episodi” occupano circa 80 delle 166 pagine di questa un’idea del numero e della varietà degli argomenti: – polemica contro gli aristotelici (VII, 132-39); – principio d’inerzia (VII, 171-75); – dei moti (VII, 175-76; 180-81; 189-93; 220-29); – accelersazione di caduta libera (VII, 189-90; 248-56) e lungo il piano inclinato (VII,171-73), con insistenza sulla divisibilità infinita delle grandezze geometriche a composizione del continuo41; – moto dei proietti (VII, 181-83; 194-209)42; – principio di relatività (VIII, 212-14)43; – argomenti idrostatici (VII, 216, 262-63, 275); interesse che riaffiorerà in terza giornata44; – problema del rapporto fra astrazioni geometrico-matematiche e realtà fisica (VIII, 229-36); in particolare, problema della sfera materiale che, fatti i debiti «diffalchi», tangit planum in puncto45; – velocità virtuali (VII, 240-42)46; – isocronia del pendolo (177-78; 253-54; 256-57); il tema ricomparirà in quarta giornata47; – centro di gravità (270-71)48; 41 La prima formulazione della legge sulla proporzionalità degli spazi al quadrato dei tempi risale, come noto, alla lettera del 1604 al Sarpi, e viene sviluppata nei frammenti sul moto degli anni seguenti. 42 Anche questo argomento risale al pisano De motu (I, 307-15 e 337-40) e doveva essere diffusamente trattato nel terzo libro di quel trattato De motu locali che Galileo, come già detto, prometteva al Vinta (X, 351-52). Al 1609 (ma Galileo retrodata ulteriormente questa scoperta, in una lettera a Cesare Marsili: XIV, 386-87) risalgono le speculazioni sulla traiettoria parabolica dei proietti (X, 229). Come già nella prima giornata, la problematico de motu si intreccia con quella degli infinitesimi e della composizione del continuo (VII, 226-28, 255-56). 43 Già enucleato negli anni padovani; cfr. il passo di una lettera del Castelli in cui si parla di una galileiana «definitione del moto» come «mutatone di una cosa in relazione a un’altra» (X, 170). 44 Galileo si era occupato dell’argomento fin dagli inizi pisani; lo aveva poi sviluppato negli anni 1611-15, con il Discorso sui galleggianti e con la Risposta alle opposizioni. 45 Tema fondamentale dell’epistemologia galileiana fin dal periodo pisano, e costante elemento polemico contro gli aristotelici, che negavano l’applicabilità fisica della verità matematica (cfr. per esempio IV, 49). Benedetto Castelli sviluppa questo stesso tema nel Discorso sopra la laguna di Venezia, leggibile in edizione moderna e con commento in Scienziati del Seicento Cit., pp. 213 sgg. 46 L’approccio dinamico al concetto di momento risale alle Mecaniche (II, 164); Galileo lo utilizza anche nel Discorso sui galleggianti (IV, 68-69) usando il modello delle velocità virtuali per spiegare l’equilibrio idrostatico. 47 Speculazione degli anni pisani, che poi compare nella lettera del novembre 1602 a Guidobaldo Dal Monte (X, 97-98). 48 Interesse che risale ai Theoremata circa centrum gravitatis. Cfr. X, 45.
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– problemi de motu animalium (VII, 283-85; 295-96)49. La terza giornata ripropone le «specolazioni» astronomiche di Galileo. Gli “episodi” quantitativamente vistosi sono tre: 1) sulla localizzazione della stella nuova del 1572 (VII, 30I-46): contro i peripatetici che, a tutelare l’inalterabilità dei cieli, la consideravano «sublunare», Galileo ritiene che il «sito» della stella sia «molto superiore all’orbe lunare» (X, 134). È l’idea che aveva ispirato le conferenze del 1604 (II, 26970, 275-84) e il Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la stella nuova, di cui Galileo era stato suggeritore a Girolamo Spinelli nel 1605; 2) sulle macchie solari (VIII, 372-82); Galileo recupera osservazioni risalenti al periodo padovano (V, 9-10; XIV, 299; XIX, 611) e ripropone quale prova della mobilità della Terra la materia già annunciata nel Discorso sui galleggianti (IV, 64) e poi sviluppata nell’Istoria e dimostrazioni; 3) sulla «filosofia magnetica» di Gilbert; in particolare sulla calamita (VIII, 426-36): un interesse che, già vivo a Padova (X, 89), si sviluppa a Firenze (IV, 213, 255; XIII, 328). A questi si aggiungono molti altri “episodi”, la maggior parte dei quali valorizzano le scoperte celesti di Galileo, tenendo ovviamente conto delle polemiche ad esse seguite. Su 142 pagine della terza giornata più di 60 sono dedicate a tale recupero: – fasi di Venere (VII, 351-52); – effetti di «irraggiamento» (VIII, 363-67, 389-91)50; – uso del telescopio (VIII, 363, 364, 367, 380, 388); – pianeti gioviali (VII, 368, 396); – deprecazione dell’uso delle Sacre Scritture in testi scientifici (VII, 38485)51;
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Altro interesse datato 1610 (il titolo De animalium motibus figura nella lettera al Vinta) e mai sviluppato organicamente da Galileo; sarà Alfonso Borelli a scrivere su quel “titolo” galileiano un trattato famoso, uscito postumo nel 1680-81 (De motu animalium). 50 Argomento già trattato in “postille” al La Galla (III, 395), nell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari (V, 196-97), nel Discorso delle comete (VI, passim), nel Saggiatore (VI, 273 sgg.). 51 Tema già presente nelle lettere copernicane e nel Saggiatore (VI, 366).
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– critica dei concetti assoluti di grande, piccolo, immenso, minimo (396397)52. In conclusione si può affermare che oltre la metà delle 489 pagine occupate dal Dialogo nel VII volume dell’edizione nazionale sono dedicate alla proposizione o ri-proposizione di studi precedenti. Ciò che un’analisi contenutistica non può documentare è la sensazione complessiva di déjà vu che il lettore prova quando si accosta al Dialogo dei Massimi Sistemi nella giusta prospettiva diacronica: vale a dire dopo aver letto le opere scritte (anche se non pubblicate) in precedenza. Al di là dei singoli recuperi scientifici, è l’intero tessuto del Dialogo che provoca l’impressione di un leggere che è essenzialmente un rileggere. il procurare questa sensazione è il ricorrere dei moduli linguistici (di cui parleremo in seguito) e il continuo affiorare di topoi argomentativi e polemici tipicamente “galileiani”. Ne selezioniamo alcuni, a scopo esemplificativo, e senza pretendere di esaurire la fitta trama dei confronti intertestuali53: – critica del principio di autorità e di una cultura libresca che presuppone ciò che deve dimostrare, contrapposte alla capacità di leggere con gli occhi della fronte e della mente il libro della natura (VII, 134, 138-39, 169, 299-300, 388//IV, 517, 653; VI, 232; X, 423, 503-4); – contrapposizione fra chi vive nelle tenebre o nel labirinto e chi vive alla luce della natura e delle esperienze naturali (VII, 139, 479 // IV, 508, 654; VI, 232, 609); – abitudine peripatetica di citare gli autori senza averli capiti e forse senza averli letti (VIII, I03, 474 // IV, 461), o di manipolare le loro opere facendone un centone (VII, 135,137-38//IV, 463, 651); – maniera incivile con cui i peripatetici scrivono e operano contro chi non la pensi come loro (VII, 300 // IV, 81, 444 sgg., 462, 739; VI, 573; XII, 234); – polemica contro i «nomi» che, nella terminologia peripatetica, si sostituiscono alle «cose» (VIII, 260-61, 429 // IV, 611; V, 97; VI, 350); – attribuzione ad Aristotele e ad altri Maestri di errori non loro, da parte dei peripatetici (VII, 41//IV, 659; VI, 249, 272); – fiducia nel fatto che Aristotele ammetterebbe l’alterabilità dei cieli, se potesse vedere ciò che mostra il telescopio o essere informato delle nuove scoperte (VIII, 75, 76, 157, 162; V, 138-39, 2311, 235); 52
Anche questo tema compare nel Saggiatore (VI, 263-64). Elencheremo in parentesi i luoghi del Dialogo e, dopo due barrette oblique, luoghi tematicamente corrispondenti in opere precedenti. 53
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– polemica contro le vane disputationes accademiche (VII, 138-39, 488// IV, 248; VI, 235, 625); – difficoltà del rinunciare a un’«opinione imbevuta col latte» (VII, 155, 426 //V, 102, 353); – inesorabilità delle leggi naturali; esse non si piegano al volere degli uomini, non realizzano miracoli, operano con la massima semplicità (VII, 299-300, 423, 447, 473 //II, 155; IV, 24, 565, 604; V, 96, 102; VI, 546-47; XI, 109, 19, 344); – insondabilità delle «essenze» dei fenomeni (VII, 260-61//V, 106, 187); – rivendicazione da parte di Galileo dell’originalità delle sue speculazioni e del “primato” nelle scoperte (VIII, 374, 444 // III, 59, 62, 79; X, 277, 351). Non mancano nel Dialogo travasi letterali di brani stesi in precedenza, soprattutto se – come è ovvio – quei brani appartengono a scritture inedite che anticipano tematicamente i Massimi Sistemi: È il caso del Discorso del flusso e reflusso del mare e della Lettera all’Ingoli. Quando invece il prelievo è da opere già pubblicate, Galileo si impegna in variazioni linguistiche, a evitare la copia. Nell’esempio che segue, un brano dell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari precede quello dei Massimi Sistemi che – a distanza di circa vent’anni – lo ripropone e lo rielabora: Io dubito che [...] l’odio nostro particolare contro alla morte ci renda odiosa la fragilità: tuttavia non so dall’altra banda quanto, per divenir manco mutabili, ci fosse caro l’incontro d’una testa di medusa, che ci convertisse in un marmo o in un diamante, spogliandoci de’ sensi e di altri moti [...]. (V, 235). Questi che esaltano tanto l’incorruttibilità, l’inalterabilità, etc., credo che si riduchino a dir queste cose per il desiderio grande di campare assai e per il terrore che hanno della morte; e non considerano che quando gli uomini fussero immortali, a loro non toccava venire al mondo. Questi meriterebbero d’incontrarsi in un capo di Medusa che gli trasmutasse in istatue di diaspro o di diamante, per diventar più perfetti che non sono. (VII, 84).
Altro esempio: il luogo del Saggiatore in cui si discute del «terzo moto» copernicano ricompare nel Dialogo con piccole varianti linguistiche che testimoniano della cura con cui Galileo evita il prelievo materiale e si adegua stilisticamente al nuovo genere: il qual effetto si vedeva pigliando noi in mano un vaso pien di acqua e mettendo in esso una palla notante; perché, stendendo noi il braccio e girando sopra i nostri piedi, subito veggiamo la detta palla girare in sé stessa al contratio efinir la sua conversione nell’istesso
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tempo che noi finiamo la nostra: onde cessar doveva la meraviglia [...] se essendo la Terra un corpo pensile e sospeso in un mezo liquido e sottile, ed in esso portata per la circonferenza d’un gran cerchio nello spazio d’un anno, ella non avesse di sua natura e liberamente acquistata una conversione parimente annua in sé medesima al contrario dell’altra. [...] al che soggiungevo poi, che chi meglio considerava, conosceva che falsamente veniva da esso Copernico attribuito un terzo moto alla Terra, il quale non è altramente un muoversi, ma un non si muovere ed una quiete [...]. (VI, 326). Potrete veder questa mirabile ed accomodata al nostro proposito esperienza, mettendo in un catino d’acqua una palla che vi galleggi, e tenendo il vaso in mano: se vi andrete rivolgendo sopra le piante de’ piedi, vedrete immediatamente cominciar la palla a rivolgersi in se stessa con moto contrario a quel del catino, e finir la sua rivoluzione quando finirà quella del vaso. Ora, che altro è la Terra che un globo pensile e librato in aria tenue e cedente, il quale, portato in giro in un anno per la circonferenza di un gran cerchio, ben deve acquistar senz’altro motore una vertigine circa ’l proprio centro, annua e contraria all’altro movimento pur annuo? Voi vedrete quest’effetto; ma se poi andrete più accuratamente considerando, vi accorgerete quest’esser non cosa reale, ma una semplice apparenza, e quello che vi assembra un rivolgersi in se stesso, essere un non si muovere ed un conservarsi del tutto immutabile [...]. (VII, 425). Eramo su ’l dimostrare, quel terzo moto attribuito dal Copernico alla Terra non esser altrimenti un movimento, ma una quiete [...]. (VII, 437).
Il fenomeno della rifrazione ottica (VII, 101, 363-67, 388) è un riaffioramento tematico che convoglia l’intero campo semantico e metaforico dell’«irraggiamento avventizio», quale compare in tutte le scritture galileiane di argomento astronomico: in particolare nell’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari (V, 196-97) e nel Saggiatore (VI, 273 sgg.) Basterà un confronto fra espressioni tratte dal Saggiatore (che abbrevieremo in S.) e dal Dialogo (che abbrevieremo in D.) a documentare l’attenzione di Galileo a variare il mosaico, se non altro con la diversa combinazione delle tessere lessicali: irraggiamento avventizio [...] altri lumi inghirlandandosi appariscono assai maggiori [...] raggi ascitizii e stranieri [...] (S.) // irradiazione avventizia [...] inghirlandati di raggi avventizii [...] raggi avventizii e stranieri [...] (D.); piccoli corpicelli spogliati di tali raggi (S.) // i corpi lor spogliati di tale irradiazione [...] (D.); capillizio splendido [...] (S.) // capellizio radioso [...] splendore avventizio (D.); coronato di troppo lunghi crini [...] (S.) // ricrescimento de’ crini risplendenti [...] (D.);
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la forma di Venere del tutto si perderà tra la sua capellatura [...] chioma raggiante [...] (S.) // Toltagli poi nel modo detto la capellatura [...] per levargli poi la chioma [...] (D.); spogliar le stelle dell’irraggiamento [...] il telescopio spoglia le stelle di quello irraggiamento [...] (S.) // se noi lo spoglieremo de i raggi avventizii [...] (D.).
Anche in assenza di esatte coincidenze tematiche e linguistiche, è l’analogia di situazioni argomentative a ricondurre il Dialogo a precedenti scritture: – la discussione fra Salviati e Simplicio sulla «particola» aristotelica aeque bene (VII, 149-50) richiama l’analoga discussione sulla «particula simpliciter», nel Discorso sui galleggianti (IV, 759). E tutte e due le discussioni riposano sulla «vanità» delle distinzioni peripatetiche («di per accidens, di per se, di mediate, di primario, di secondario o d’altre chiacchiere») denunciata nel Saggiatore (VI, 334) e, ancor prima, altrove (IV, 26, 249, 605, 613-14); – la brusca conversione argomentativa dal macrocosmo al microcosmo (dalla costituzione dell’universo alla fisiologia del corpo umano), a sottolineare la difficoltà umana di penetrare le leggi della natura in tutti e due gli ambiti, realizza una significativa concordanza fra un passo del Dialogo (VIII, 39596) e un passo della Lettera a Madama Cristina di Lorena (V, 329); – la presunzione peripatetica di assegnare limiti alla «grandezza dell’universo» è deprecata con analogo piglio interrogativo nel Dialogo (VII, 394): «Comprendi tu con l’immaginazione quella grandezza dell’universo, la quale tu giudichi troppo vasta?») e nel Discorso delle comete (VI, 783): «Chi ha posto questi confini alle stelle? Chi racchiude entro limiti cotanto angusti l’opere e le meraviglie divine?» (ma si veda, per l’analogo modulo interrogativo, la Lettera a Madama Cristina di Lorena: «E chi vuol por termine alli umani ingegni?»). Sotto a tutti e due i brani c’è Seneca (Naturales quaestiones, VII; De cometis, XIX, I). Come mostra l’ultimo esempio, può bastare un tour stilistico-retorico a mettere in risonanza il Dialogo con precedenti pronunce. Per esempio: la critica del concetto di perfezione si applica, nel Dialogo, al «numero 3»; nel Saggiatore e in una lettera degli inizi fiorentini si applica alla «figura storica»; ma il brano dei Massimi Sistemi si lega a ritroso con gli altri due per l’analogo ricorso ironico a esemplificazioni concrete che avviliscono la pretesa «nobiltà» o «perfezione», qualunque sia l’oggetto a cui si applica: per un corpo che si abbia a poter raggirare per tutte le bande, la figura sferica è perfettissima [...] all’incontro, per un corpo che dovesse consistere stabile et immobile, tal fi-
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gura saria sopra ogn’altra imperfettissima; e chi nella fabbrica delle muraglie si servisse di pietre sferiche, faria pessimamente, et perfettissime sono le angolari [...]. (XI,146-47). ma credo che tutte [le figure] non sieno né nobili e perfette, né ignobili ed imperfette, se non in quanto per murare credo che le quadre sien più perfette che le sferiche, ma per ruzzolare o condurre i carri stimo più perfette le tonde che le triangolari. (VI, 319). non intendo e non credo che, verbigrazia, per le gambe il numero 3 sia più perfetto che’1 4 0 il 2; né so che’1 numero 4 sia d’imperfezione a gli elementi, e che più perfetto fusse ch’e’ fusser 3. (VIII, 35).
La critica dei concetti assoluti di piccolo / grande, minimo / massimo, vicino / lontano, si realizza in modi diversi nel Saggiatore, nella Lettera all’Ingoli, nel Dialogo; ma è ancora una volta il ricorso a paragoni concreti (e l’ironia realizzata attraverso la quotidianità di questi) che accomuna i diversi luoghi e li lega indissolubilmente, nella memoria del lettore: le medesime cose si potranno chiamar vicinissime e lontanissime, grandissime e piccolissime [...] e si potrà dire: «Questa è una cornetta piccolissima», e «Questo è un grandissimo diamante»; quel corriero chiama brevissimo il viaggio da Roma a Napoli, mentre che quella gentildonna si duole che la chiesa è troppo lontana dalla casa sua. (VI, 264). dirò bene che sia grandissimo [il mondo in cui viviamo] in comparazione al mondo de i lombrichi e di altri vermi, i quali, non avendo altri mezzi da misurarlo che il senso del tatto, non lo posson stimare più grande di quello spazio che essi occupano; ed a me non repugna che il mondo compreso da i nostri sensi, in comparazione dell’universo possa esser così piccolo come il mondo de i vermi rispetto al nostro. (VI, 530). dico che questo grande, piccolo, immenso, minimo, etc. son termini non assoluti, ma relativi, sì che la medesima cosa, paragonata a diverse, potrà ora chiamarsi immensa, e tal ora insensibile, non che piccola. [...] e così gli elefanti e le balene saranno senz’altro chimere e poetiche immaginazioni, perché quelli, come troppo vasti in relazione alle formiche, le quali sono animali terrestri, e quelle rispetto alle spillancole, che sono pesci [...] sarebbono troppo smisurati […]. (VII, 396).
Si può anche supporre che talvolta Galileo alluda, nel Dialogo, a opere sue già note al lettore, nella fiducia che questi riesca a captare la citazione. Questa arte allusiva investe per esempio Simplicio, proiezione scenica di tanti avversari in carne ed ossa. Quando Simplicio esige «una scorta nella filosofia» e chiede a Salviati di «nominare qualche autore» che possa sostituire Aristotele in questa funzione (VIII,
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138), entra in risonanza con l’Orazio Grassi/ «Lotario Sarsi» del Saggiatore, convinto «che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all’opinioni di qualche celebre autore» (VI, 232). Né sarà solo un caso che il Sinplicio del Dialogo usi nella sua battuta d’esordio transito e trapasso, i due termini peripatetici implicati nella polemica con l’autore della Libra: come ora ci insegna il Sarsi, si doveva chiamar non accrescimento, ma transito dal non essere all’essere [...] Ma se non si può senza errore usar la parola accrescimento [...] forse che la parola transito o trapasso non verrà troppo più veridicamente usurpata dal Sarsi dove non sieno due termini, cioè quello donde si parte e l’altro dove si trapassa. (VI, 247).
Il medesimo «Sarsi» – costretto nel Saggiatore ad «attaccarsi, come noi sogliamo dire, alle funi del cielo» (VI, 253) – non è forse un precedente acrobatico dell’ancor più spericolato Chiaramonti dei Massimi Sistemi? Noi sogliamo dire che quando altri, non trovando ripiego che vaglia contro a i suoi falli, produce frivolissime scuse, cerca di attaccarsi alle funi del cielo; ma quest’autore ricorre non alle corde, ma alle fila de’ ragnatele del cielo [...]. (VIII, 339).
Rinunciamo per ragioni di spazio a documentare la fitta trama di consonanze più specificamente linguistiche: parole-chiave, espressioni figurate, configurazioni sintattiche e ritmiche (su cui avremo modo di tornare in seguito). Il lettore dei Massimi Sistemi ha dunque l’impressione di assistere alla rappresentazione teatrale di un’opera di cui – attraverso precedenti sedute di prove strumentali – conosce già tutta la partitura. Tutto si fonde e si compone, nell’esecuzione filata; ma le singole frasi giungono attese all’orecchio, che quasi sempre riesce ad anticiparne la linea melodica. E poiché nel Galileo ultrasessantenne la minore «vivezza» del pensiero euristico è compensata da un’accresciuta abilità compositiva, il risultato – nell’estetica della ricezione – è quello di un ascolto che, pur riconoscendo tutti i particolari, viene sorpreso e affascinato dalla loro splendida orchestrazione. La caratterizzazione dei personaggi. Cartesio è stato il primo a notare che tutti e tre i personaggi del Dialogo sono proiezioni di Galileo e collaborano alla sua esaltazione. L’osservazione, depurata dal suo veleno, è ormai largamente accettata dalla critica galileiana. Sagredo («un libero ingegno», come lo definiva Campanella: XIV, 366) eredi-
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ta la passionalità dello scienziato i suoi entusiasmi e le sue intemperanze polemiche; non arriverà mai a dire «ignorantissimo bue» (o peggio) all’avversario, come fa il Galileo delle postille, ma la sua reazione a Simplicio e a ciò che Simplicio rappresenta sarà più sarcastica che ironica, tanto da suscitare il rimprovero di Salviati: «Voi, signor Sagredo, sete troppo arguto e satirico; ma lasciamo pur gli scherzi da una banda, mentre trattiamo di cose serie» (VIII, 295). Così facendo, Sagredo sottrae a Salviati quel «sogghigno» (VII, 133) che male si concilierebbe con la disponibilità del Maestro, con l’impassibilità di «un gran Socrate» (sempre nella definizione di Campanella: XIV, 366), e che risulta invece tollerabile nel rapporto orizzontale fra condiscepoli. Rapporto non del tutto alla pari, ché Sagredo – esibendo fin dall’inizio la sua «veloce apprensiva» – si accaparra un ruolo di primo della classe che esercita in vari modi: manifestando impazienza per i ristagni che la presenza dello “sciocco” impone al discorso; cercando di stabilire con Salviati un rapporto privilegiato; subentrando al Maestro nella spiegazione di passaggi facili che pure risultano oscuri a Simplicio; talvolta inscenando veri e propri battibecchi con il compagno. Quanto sia opportuna questa supplenza di Sagredo nel rapporto antagonistico con Simplicio è provato dai rari casi in cui Salviati si lascia andare a tenergli bordone: SAGR. Che bella materia sarebbe quella del cielo per fabbricar palazzi, chi ne potesse avere, così dura e tanto trasparente! SALV. Anzi pessima, perché sendo, per la somma trasparenza, del tutto invisibile, non si potrebbe, senza gran pericolo di urtar negli stipiti e spezzarsi il capo, camminar per le stanze. SAGR. Cotesto pericolo non correrebbe egli, se è vero, come dicono alcuni Peripatetici, che la sia intangibile e se la non si può toccare, molto meno si potrebbe urtare. SALV. Di niuno sollevamento sarebbe cotesto; conciosiaché, se ben la materia celeste non può esser toccata, perché manca delle tangibili qualità, può ben ella toccare i corpi elementari; e per offenderci, tanto è che ella urti in noi, ed ancor peggio, che se noi urtassimo in lei. Ma lasciamo star questi palazzi o per dir meglio castelli in aria, e non impediamo il signor Simplicio. (VIII, 94).
Avvertiamo come stonatura questo duetto Bruno-Buffalmacco ai danni di Calandrino; il Maestro può reagire severamente e anche sdegnosamente nei confronti del peripatetico (in effetti Salviati lo fa, nel corso del Dialogo), ma sempre nella dimensione sentenziosa che compete alla sua autorità, non in quella burlesca del compagno di brigata.
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Sagredo spartisce con Salviati il gusto galileiano dell’analogia concreta che, traducendo in immagini quotidiane l’inconsistenza logica dell’avversario, ne dà una rappresentazione corposa e spesso irresistibilmente comica54. Per esempio, la pretesa di tener ferma la piccolissima Terra e di far ruotare attorno ad essa l’intero universo viene così tradotta da Sagredo: stimerei che colui che reputasse più ragionevole far muover tutto l’universo, per ritener ferma la Terra, fusse più irragionevole di quello che, sendo salito in cima della vostra Cupola non per altro che per dare una vista alla città ed al suo contado, domandasse che se gli facesse girare intorno tutto il paese, acciò non avesse egli ad aver la fatica di volger la testa [...]. (VIII, 141).
È Sagredo, infine, che assume da Galileo il gusto per la digressione autobiografica, per l’“apologo”55. Quella dimensione aneddotica, che sarebbe riduttiva per Salviati, conviene a un uomo che passa parte della sua giornata in «Broio» (VII, 139), che viaggia per incarico ufficiale della repubblica, che ha intense frequentazioni sociali e che, nel Dialogo, ospita in casa sua la «conversazione», con tutti gli obblighi organizzativi che tale funzione comporta. C’è anche una caratterizzazione linguistica di Sagredo nei confronti di Salviati. Non è facile coglierla perché non è costante (ci sono luoghi in cui Sagredo subentra in pieno al fiorentino, ereditandone anche il registro) e perché consiste in una sfiumatura: una modulazione sintattica leggermente più informale, più mimetica del parlato; una scelta lessicale più orientata verso la parola espressiva. La sfumatura si apprezza soprattutto all’inizio del Dialogo, e in contesti in cui sarebbe d’obbligo un registro formale, se non proprio l’uso di un sotto codice. Per esempio, Sagredo risponde intelligentemente alle interrogazioni geometriche di Salviati, ma con una mobilità sintattica e una approssimazione terminologica, nei confronti del Maestro, che subito lo rivela un laico della scienza: SALV. Ma quando voi aveste a determinare un’altezza, come, per esempio quanto sia alto questo palco dal pavimento che noi abbiamo sotto i piedi; essendo che da qualsivoglia punto del palco si possono tirare infinite linee, e curve e rette, e tutte di diverse lunghezze, ad infiniti punti del sottoposto pavimento, di quali di cotali linee vi servireste voi? SAGR, Io attaccherei un filo al palco, e con un piombino, che pendesse da quello, lo lascerei liberamente distendere sino che arrivasse prossimo al pavimento; e la lunghezza di tal filo, essendo la retta e brevissima di quante linee si potessero dal medesimo punto tirare al pavimento, direi che fusse la vera altezza di questa stanza. (VILI, 37). 54 55
Il Segnaliamo alcuni di questi paragoni, scegliendo fra i più efficaci: VII, 81, 265, 281, 346, 395, 436, 438-39, 479. Cfr. VIII, 133-34, 154, 183, 187,199, 229, 275, ecc.
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Anche in contesti colloquiali la lingua di Sagredo si caratterizza per una sua maggiore corposità lessicale e per un più libero movimento orale della sintassi. Una battuta come quella che segue stonerebbe sulla bocca di Salviati: Io sogghigno solamente, ma crediatemi ch’io scoppio nel voler far forza di ritener le risa maggiori, perché mi avete fatto sovvenire di un bellissimo caso, al quale io mi trovai presente non sono molti anni, insieme con alcuni altri nobili amici miei, i quali vi potrei ancora nominare. (VIII, 133).
Il desiderio di sapere può essere manifestato da Sagredo con espressioni che sarebbero troppo intense per un filosofo di professione: «Satollate la mia famelica avidità […]» (VIII, 472). Simplicio è il personaggio più variamente interpretato dalla critica. Alcuni hanno sottolineato la sua deformazione calandrinesca, insistendo sulle qualità negative che lo sciocco rivela quando è investito dall’ironia corrosiva di Sagredo o da quella, più socratica, di Salviati: dogmatismo, arroganza, presunzione, ostinazione, superficialità. Altri invece hanno visto il personaggio nella prospettiva di una tolleranza galileiana che, in certi luoghi, confina con la bonarietà. Rimane dubbio, nel secondo caso, se tale tolleranza sia una forma di generosità mentale da parte di Galileo, oppure sia la tattica con cui egli sottrae Simplicio a un ruolo di vittima che potrebbe procurargli, se non la simpatia, almeno la compassione del lettore. Probabilmente le due interpretazioni sono conciliabili, nell’evoluzione del personaggio. C’è, in effetti, una lenta modifica di Simplicio, che non si risolve in conversione, che non è esente da ricadute e rigurgiti peripatetici, ma che almeno attenua, l’aggressività e la petulanza iniziali. Si potrebbe dire che Sinplicio comincia come «Sarsi» ma che, alla fine del Dialogo, i suoi comportamenti sono meno legnosi. A contatto con Salviati e Sagredo, la condizione di Simplicio somiglia a quella di don Abbondio investito dai discorsi del Cardinale: è «un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono sollevato in una regione sconosciuta, in un’aria che non ha mai respirata»; ma, alla fine del trattamento, anche Simplicio fa pensare allo «stoppino umido e ammaccato di una candela, che, presentato alla fiamma d’una gran torcia, da principio fuma, schizza, scoppietta, non ne vuol saper nulla; ma alla fine s’accende e, bene o male, brucia»56. A mano a mano che il peripatetico rinuncia alle sue sicurezze, muta anche 56 A. MANZONI, I promessi sposi, capp. XXV e XXVI, in ID., Tutte le opere, a cura e con introduzione di M. Martelli, premessa di R. Bacchelli, Firenze 1973, I, pp. 1162 e 1166.
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l’atteggiamento dei suoi interlocutori: aumenta la carità pedagogica di Salviati, che incoraggia i goffi tentativi di ragionamento autonomo dell’allievo, e anche Sagredo diventa più cordiale. Non che il veneziano rinunci a farsi beffe del compagno: quando lo elogia per essere diventato – dopo «alcune sbrigliatelle» – un docile cavallo da passeggio, da «saltatore» che era, il paragone non è certamente riguardoso (e siamo alla fine del Dialogo: VII, 474); ma il fatto stesso che l’ironia sia esplicita e che Sagredo senta di potersela impunemente permettere testimonia di una raggiunta familiarità. Per documentare l’evoluzione di Simplicio sarebbe necessario seguire sul testo le sue battute e identificare i luoghi in cui’ il comportamento vira. Ci limiteremo a commentare alcune tappe dell’«addestramento» filosofico (così lo chiamano Salviati e Sagredo) del personaggio. L’esordio di Simplicio, dopo la proposizione del tema da parte di Salviati, merita un’analisi attenta. Reagendo immediatamente a Salviati e anticipando Sagredo, Simplicio infrange la convenzione didattica per cui il discepolo dovrebbe tacere o parlare solo se interrogato dal maestro. Trasuda dalla prima battuta di Simplicio la sicurezza boriosa di chi sa di rappresentare la posizione ufficiale della scienza e dell’autorità ecclesiastica. Ciò che Simplicio vuol far capire con il suo primo profluvio di parole (dove le citazioni di Aristotele, la dottrina pitagorica, la terminologia peripatetica, le parolette latine si mescolano a prove della «perfezione» del numero 3) è che egli non è disposto ad accettare un ruolo subalterno. Ma ciò che più caratterizza l’esordio di Simplicio nei confronti di quello di Salviati è – al di là dei contenuti e delle intenzioni strategiche del parlante – il ritmo sintattico breve, spezzato, l’intonazione ascendente delle reiterate, interrogative retoriche. La sensazione che il lettore ne ricava è quella di una sovreccitazione mentale, di una pronuncia stridula, che contrasta fortemente con la razionalità e con la pronuncia grave e pacata di Salviati. Basti confrontare l’ampia costruzione ipotattica dei periodi di Salviati (qui ci limiteremo a riprodurre quello conclusivo) con la raffica di segmenti interrogativi di Simplicio, che immediatamente segue57: SALV. //Che poi, venendo dalla semplice lunghezza costituita quella magnitudine che si chiama linea, aggiunta la larghezza si costituisca la superficie, e sopragiunta l’altezza o profondità ne risulti il corpo, e che doppo queste tre dimensioni non si dia passaggio ad altra, si che in queste tre sole si termini l’integrità e per così dire la totalità,
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Per la struttura sintattica del periodo di Salviati si veda qui, pp. 957 sgg.
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averei ben desiderato che da Aristotile mi fusse stato dimostrato con necessità, e massime potendosi ciò esequire assai chiaro e speditamente.// SIMP. // Mancano le dimostrazioni bellissime nel 2°, 3° e 4° testo, doppo la definizione del continuo?// Non avete, primeriamente, che oltre alle tre dimensioni non ve n’è altra, perché il tre è ogni cosa, e ’l tre è per tutte le bande? // E ciò non vien egli confermato con l’autorità e dottrina de i Pittagorici, che dicono che tutte le cose son determinate da tre, principio, mezo e fine, che è il numero del tutto? // E dove lasciate voi l’altra ragione, cioè che, quasi per legge naturale, cotal numero si usa ne’ sacrifizii degli Dei? e che, dettante pur così la natura, alle cose che son tre, e non a meno, attribuiscono il titolo di tutte? // [...] Di più nel testo 4°, doppo alcune altre dottrine, non prov’egli l’istesso con un’altra dimostrazione [...]?// Or da tutti questi luoghi non vi par egli a sufficienza provato, com’oltre alle tre dimensioni, lunghezza, larghezza e profondità, non si dà transito ad altra, e che però il corpo, che le ha tutte, è perfetto?// (VIII, 34).
Nella replica Salviati non si lascia contagiare dal nervosismo dell’avversario: riprende il tono calmo dell’esordio, usa riguardi verbali («per dire il vero»), circonlocuzioni e litoti che contrastano con la sicurezza ostentata da Simplicio («non mi son sentito strignere a concedere»; «non sento io cosa che mi muova a concederlo»). Snellisce ovviamente il periodo, nel passare da un contesto espositivo a uno dialogico, ma non ne abbandona la struttura ipotattica. Non risparmia una stoccata alla filosofia peripatetica (gli «elementi» sono quattro, non tre; il che non sottrae loro «perfezione»!) e sottolinea il suo ruolo magistrale usando due volte il verbo concedere, che – pur essendo un consolidato tecnicismo della dialettica filosofica – può conservare, in questo contesto, la sfumatura condiscendente dell’uso colloquiale. Ma la mossa più abile è quella conclusiva: per assestare la zampata finale, Salviati accelera improvvisamente il ritmo sintattico, passando da una ipotassi ragionativa a una sintassi stringata a funzione conativa, e abbandona la prima persona singolare per un impersonale sentenzioso e apodittico che assolutizza in massima la sua affermazione: Meglio dunque era lasciar queste vaghezze a i retori e provar il suo intento con dimostrazione necessaria, ché così convien fare nelle scienze dimostrative. (VII, 35).
Simplicio non disarma: alla frecciata di Salviati contro gli elementi peripatetici risponde con quella contro i numeri pitagorici: Par che voi pigliate per ischerzo queste ragioni: / e pure è tutta dottrina de i Pittagorici, / i quali tanto attribuivano a i numeri; / e voi, / che sete matematico, / e, / credo anco, / in molte opinioni filosofo Pittagorico, / pare che ora disprezziate i loro misteri. (VII, 35).
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Ancora una volta, al di là del contenuto delle battute, è il contrasto dei due stili di pensiero che si impone al lettore. Simplicio risponde allo stile ipotattico di Salviati (correlativo linguistico di un pensiero complesso) con una sintassi segmentata, paratattica, che mima l’elementarità dei processi mentali e la difficolià di strutturazione gerarchica delle unità concettuali. Il Dialogo è appena cominciato e già il lettore si è accorto dell’inconsistenza del filosofo peripatetico; già è disposto ad attribuire importanza agli interventi di Salviati e a sottrarla a quelli del suo antagonista. È proprio così che reagisce Sagredo, nella sua battuta di esordio: dopo un commento sdegnoso, che non ammette replica da parte di Simplicio, subito esclude il terzo incomodo dal discorso, rivolgendosi a Salviati con una serie di pronomi singolari: SIMP. […] e credo che quando ci fusse stata dimostrazione più necessaria, Aristotile non l’avrebbe lasciata in dietro. SAGR. Aggiugnetevi almanco, se l’avesse saputa, o se la gli fusse sovvenuta. Ma voi, signor Salviati, mi farete ben gran piacere di arrecarmene qualche evidente ragione, se alcuna ne avete così chiara, che possa esser compresa da me. (VIII, 36).
Salviati non commette l’errore suggeritogli dall’insofferente Sagredo e recupera, con magnanimità magistrale, anche lo scolaro “debole”: «Anzi, e da voi e dal signor Simplicio ancora […]» (VII, 36). Nella dimostrazione e nelle discussioni che seguono, Simplicio ha modo di rivelare ignoranza delle più elementari nozioni di geometria (VII, 36-38) e perfino lacune in filosofia aristotelica (VII, 38-42); infine – dopo un lungo, immusonito silenzio (VIII, 49-58) – il peripatetico si abbandona a recriminazioni che sollecitano la carità pelosa di Sagredo (VII, 811). È una «sensata esperienza» a provocare, sul finire della prima giornata, la prima crisi salutare di Simplicio: i raggi solari riflessi su un muro da uno specchio piano e da uno sferico, non producono gli effetti da lui previsti. Non potendo negare ciò che vede con gli occhi, il filosofo dapprima sospetta di «qualche gioco di mano», ma poi è costretto a fare la prima domanda vera (non retorica) dall’inizio del Dialogo: «Come dunque cammina questo negozio?» (VII, 101). Subito dopo Simplicio darà segni di interesse per una «dimostrazione» geometrica di Salviati. Il brano è interessante anche a confermare l’atteggiamento prevaricante di Sagredo, nei confronti di un Simplicio che comincia a prendere coscienza dei suoi limiti: SALV. [...] per non consumare il tempo, eccovene un poco di dimostrazione in questa figura.
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SAGR. La sola vista della figura mi ha chiarito il tutto, però seguite. SIMP. Dite in grazia il resto a me che non sono di si veloce apprensiva. (VII, 105-6).
All’inizio della seconda giornata Simplicio dà un altro segno di ravvedimento, confessando di essere «andato ruminando» per tutta la notte i discorsi del giorno prima. Non che questo ripensamento bovino provochi distacchi dall’«autorità di tanti grandi scrittori»; ma intanto Simplicio si rivaluta su quei peripatetici «accorti e sagaci» (VII, 81-82) che riescono «col solo silenzio» a gettare disprezzo e derisione sugli avversari58. Al contrario di essi, Simplicio ammette un turbamento («quanto più si va avanti, più mi confondo»), subito sottolineato positivamente da Sagredo: Cotesto è indizio che quelle ragioni che sin qui vi erano parse concludenti, e vi tenevano sicuro della verità della vostra opinione, cominciano a mutare aspetto nella vostra mente ed a lasciarvi pian piano, se non passare, almeno inclinare verso la contraria. (VII, 155).
Da ora in poi Simplicio inizierà le sue battute in tono più modesto. – Conquisterà l’uso dei verbi credere, parere; arriverà perfino a sostituire con un socratico-galileiano «Io non lo so» (VII, 222) il presuntuoso «Sollo» (VII, 69, 184) iniziale di battuta59: «Io credo, e in parte so» (156); «A me non par cotesta cosa» (167); «Sin qui mi è parso di si» (169); «Io non credo» (17); «Parmi di sì» (173); «Par che deva essere così» (174); «Così pare a me» (201); «secondo me» (218), ecc. – Imparerà ad usare il futuro dubitativo e il condizionale: «Sarà un moto retto» (218); «Si potrebbe dire» (210). – Concepirà qualche dubbio su se stesso: «Io non mi sento rimossi tutti gli scrupoli; e forse il difetto è mio, per non esser di così facile e veloce apprensiva come il signor Sagredo» (181). – Diventerà più riflessivo, non avrà sempre «le risposte in pronto»: «Qui bisogna ch’io pensi un poco alla risposta […]» (173); «Lasciate ch’io ci pensi un poco, perché non ci ho più fatto fantasia» (218); «non posso aver le risposte così in pronto […]» (193). 58 Simplicio si distingue dai vari Cremonini, anche per la sua disponibilità a usare il telescopio: «Io veramente non ho fatte tali osservazioni [si tratta di osservazioni lunari], perché non ho avuta questa curiosità, né meno strumento atto a poterle fare; ma voglio per ogni modo farle» (VII, 112). 59 L’enclisi del pronome, all’inizio del periodo (legge Tobler-Mussafia) è fenomeno normalissimo nel secolo di Galileo, e tale rimarrà fino all’Ottocento. Rimane il fatto che nei Massimi Sistemi, pur non mancando qualche esempio del fenomeno negli interventi di Salviati e di Sagredo, è Simplicio che ne fa uso frequente e marcato, all’inizio di battuta: «Chiamerassi ...» (VII, 41), «Dicelo» (70); «Hannogli ...» (147), «Hannolo per participazione ...» (147), «Hollo detto ...» (221), «Averollo ...» (249), ecc. Probabilmente la connotazione letteraria di questo modulo era utile a Galileo per caratterizzare gli interventi del personaggio meno disponibile a un rapporto colloquiale rilassato.
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– Solleciterà le spiegazioni di Salviati: «vedete pur di farmi restar capace de’ problemi» (184); «Questo è quello ch’io non capisco e ch’io vorrei intendere» (186). – Mostrerà di appassionarsi ai discorsi e dichiarerà di provarne gusto: «La novità delle cose che sento mi fa curioso, nonché tollerante, di ascoltare: però dite pure» (197); «ho gran gusto che il signor Sagredo m’abbia destato questo pensiero. Però seguitiamo innanzi, che la speranza di poterne sentir degli altri mi terrà più attento» (199). – Comincerà finalmente a «capire’: «Ho compreso il tutto benissimo» (187); «Ora intendo che ciò può facilmente seguire [...]» (187). – Capterà perfino l’ironia di Sagredo, reagendo senza stizza: «Sì bene, sì bene; ma lasciamo le beffe» (184). Ovviamente questo concentrato di esempi occulta la lentezza del processo, all’interno della seconda giornata, e non tiene conto delle frequenti ricadute: basta che Simplicio prenda fra le mani il testo di uno dei suoi «autori» perché quel contatto rassicurante gli restituisca energie antagonistiche. È però vero che la sua fede è meno cieca di prima, e non gli impedisce più il rilievo degli errori peripatetici: «Intendo ora benissimo l’errore [...]» (247); «Ho inteso benissimo, né saprei qual cosa produr per isgravio di un tanto errore [...]» (286); «Oh io, che appena ho veduti i primi elementi della sfera, son sicuro che non arei errato si gravemente [...]» (286). Con il passare del tempo anche la difesa degli «autori» diventerà sempre più fiacca, sempre più d’ufficio (VII, 314, 315, 321). Simplicio è ampiamente compensato per i suoi progressi: non viene più estromesso dal discorso, ma coinvolto in esso con pazienza, i suoi interventi, che all’inizio provocavano continui ristagni, ora collaborano allo sviluppo dell’argomentazione. Egli fa perfino qualche rozzo tentativo di esemplificazione concreta, nello stile di Sagredo. Avendo provato gusto nell’imparare che la cima dell’albero di una nave descrive un cerchio maggiore di quello della base (andando «in volta» con la Terra!), Simplicio trasferisce comicamente la situazione al corpo umano: «E così, quand’un uomo cammina, fa più viaggio col capo che co’ i piedi?» (VII, 199). Un’estensione ingenua, che suscita l’approvazione ironica di Sagredo: «L’avete da per voi stesso e di vostro ingegno penetrata benissimo» e di Salviati: «Mi piace di veder che il signor Simplicio si va addestrando […]» (VII, 199-200). Tanto si addestra, il peripatetico, che – nella terza giornata (VII, 350-53) sarà proprio
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lui, assistito passo passo dalla maieutica di Salviati, a disegnare il sistema planetario copernicano. Ma il grado massimo di «addestramento» – e aggiungiamo subito di comicità – Simplicio lo raggiunge esibendosi in una dimostrazione: disegna una «figura matematica» e imita lo stile geometrico di Salviati con un impegno sproporzionato all’elementarità del problema; il che crea un irresistibile effetto ventriloquo: SIMP. Parmi d’esserne capacissimo, in segno di che mi proverò a farne una figura matematica: ed in questo cerchio grande noterò il polo P, e in questi due cerchi più bassi noterò due stelle vedute da un punto in Terra, che sia A, e le due stelle sieno queste B, C, vedute per la medesima linea ABC incontro a una stella fissa D; camminando poi in Terra sino al termine E, le due stelle mi appariranno separate dalla fissa D e avvicinatesi al polo P, e più la più bassa B, che mi apparirà in G, e manco la C, che apparirà in F; ma la fissa D averà mantenuta la medesimalontananza dal polo. (VII, 309-10).
E Salviati non lesina elogi: «Veggo che voi intendete benissimo»; «Voi sete un Archimede […]» (VII, 313). Commenti garbatamente ironici, beninteso; il ravvedimento di Simplicio è funzionale al successo di Salviati, non certo al riscatto della setta a cui Simplicio appartiene. Ma se si pensa all’iniziale ignoranza del peripatetico, al suo rifiuto sdegnoso di quelle «minuzie» o «tritumi» matematici che il «filosofo naturale» dovrebbe delegare al «mecanico» (VII, 189, 190) come indegni del livello speculativo, occorre riconoscere che lo sciocco ne ha fatta, di strada. Lo riconosce anche Sagredo: s’io debbo dire il vero, mi par che la conversazione del signor Salviati ancor che sia stata di tempo breve, l’abbia addestrato assai nel discorrere concludentemente [...]. (VIII, 380).
Simplicio stesso è consapevole della sua evoluzione, e fiero di essa: Io, che liberamente confesso essere stato uno de gl’ingegni comuni, e solamente da questi pochi giorni in qua, che mi è stato conceduto d’intervenire a i ragionamenti vostri, conosco di essermi alquanto sequestrato dalle strade trite e popolari, non però mi sento per ancora sollevato tanto, che le scabrosità di questa nuova fantastica opinione non mi sembrino molto ardue e difficili da superarsi. (VII, 426-27)
La frequentazione di Salviati e di Sagredo aumenta anche la competenza linguistica, in particolare terminologica, di Simplicio. Un solo esempio: Salviati ha appena chiesto al peripatetico per quale linea si muoverebbe una pietra, scagliata da una canna nuotante:
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SIMP. Secondo me il moto concepito nell’uscir della cocca non può esser se non per linea retta [...]. SALV. Ma per quale linea retta? perché infinite e verso tutte le bande se ne posson produrre dalla corsa della canna e dal punto della separazion della pietra dalla canna. SIMP. Movesi per quella che è alla dirittura del moto che ha fatto la pietra con la canna. [...] Io mi intendo dentro di me, ma non so ben esplicarmi. SALV Ed io ancora mi accorgo che voi intendete la cosa, ma non avete i termini proprii da esprimerla: or questi ve gli posso ben insegnar io [...]. Ritenete dunque in memoria che il vostro concetto reale si spiega con queste parole: cioè che il proietto acquista impeto di muoversi per la tangente l’arco descritto dal moto del proiciente nel punto della separazione di esso proietto dal proiciente. (VIII, 218-19).
E Simplicio riterrà in memoria la lezione terminologica di Salviati, sì da poterne far tesoro di lì a poco: SALV. [...] Però ditemi: quando la penna fusse estrusa dalla vertigine della Terra, per che linea si moverebb’ella? SIMP. Per la tangente nel punto della separazione. (VII, 222).
Galileo non commette l’errore di redimere il filosofo peripatetico; quello che non aveva ottenuto in un’intera vita – «convincere gl’ostinati» – non può riuscirgli in quattro giornate di dialogo. Però Simplicio diventa sempre più «mansueto»: arrivato alla quarta giornata, esporrà le teorie peripatetiche sulle maree senza metterci del suo e – a un certo punto – ammutolirà, confessando di «non capir nulla» (VIII, 474), il che è già un notevole progresso rispetto all’iniziale presunzione. Giunto al commiato, Simplicio dichiara di non rimanere «interamente capace» dei discorsi di Salviati, ma di considerare «più ingegnosi» di tutti gli altri ascoltati in precedenza. Non cerca più scampo nel «Pritaneo» aristotelico: come ha dichiarato poco prima, è ormai «neutrale» fra le due teorie. L’estremo rifugio di Simplicio non è un sistema filosofico elaborato dalla mente umana, ma un’«angelica dottrina», alla quale – per lui come per Galileo – «è forza quietarsi» (VII, 488).
5. Aspetti linguistici e stilistici. Galileo è uno dei pochi scienziati che abbiano costantemente attirato l’attenzione di letterati e di critici; uno dei pochissimi che – sia pure con criteri ispirati al prelievo antologico – siano stati accolti nel canone letterario e quindi entrati a far parte dell’enciclopedia mentale dell’uomo di cultura media.
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Occorre però dire che, fino a pochi decenni fa, l’attenzione dei critici non ha rispettato nelle opere galileiane la specificità dei contenuti e delle funzioni comunicative a cui lo stesso livello letterario della scrittura è subordinato. Alla prosa di Galileo sono state applicate le medesime categorie critiche che, volta per volta, valevano per testi specificamente letterari, dimenticando che – anche se uno scienziato è scrittore colto e raffinato – i paradigmi a cui la sua scrittura va riferita sono altri. L’osservazione precedente rischia di apparire ovvia, oggi, perché la ricerca letteraria e linguistica degli ultimi decenni l’ha finalmente resa tale, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti più studiati: quello lessicale-terminologico e quello stilistico-retorico. Ma basterebbe trasferire il discorso al piano sintattico, ancora inesplorato, per constatare che non si è andati molto al di là dei giudizi intuitivi di tipo estetico, per definire questo aspetto fondamentale della prosa galileiana e, più in generale, della prosa scientifica. Qualche accenno utile emerge da studi che riguardano la nostra storia linguistica, o che esplorano gli aspetti retorici della scrittura di Galileo60. Ma come è fatta, quella scrittura, cioè in quali moduli sintattici si traducano le strutture concettuali e le procedure mentali dello scienziato, ancora non sappiamo. Lacuna grave in assoluto, perché la costruzione sintattica è la spia più significativa dell’organizzazione logica del pensiero; ma particolarmente grave in prospettiva storico-linguistica perché l’ambito della sintassi, dal Cinquecento in poi, è quello più evolutivo, quello che – recuperando dal latino classico moduli utili alle strategie del pensiero complesso o elaborandone dei nuovi – più efficacemente risponde alle esigenze di rinnovamento culturale e scientifico. Si insisterà dunque su questo aspetto, nel tentativo di individuare alcune tendenze sintattiche della prosa di Galileo e di derivare da quelle una valutazione stilistica che superi certo impressionismo estetico, o che almeno consenta verifiche intersoggettive sul testo. Lo spunto, però, ci sarà offerto proprio da un giudizio letterario; da quello del De Sanctis che – pur ammirando l’opera di Galileo – denunciava la sensazione di immobilità, di ristagno che la lettura di essa gli procurava: «un bel lago», la prosa galileiana, ma senza fremiti, senza impeti fluviali61. Una riserva che, come lettori, non condividiamo, ma di cui, come linguisti interessati anche ai fenomeni della ricezione’ ci interessa capire le motivazioni. 60 Alludo in particolare a M. DURANTE, Dal latino all’italiano moderno, Bologna 1981, pp. 188-90, 198-99, 2023, 207-9; A. BATTISTINI, Gli «aculei» ironici della lingua di Gatileo cit.; ID., Scienza e retorica. L’esempio di Galileo, in Come si legge un testo, a cura di M. L. Altieri Biagi, Milano 1989, pp. 77 sgg. 61 F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, a cura di L. Russo, Milano 1960, II, p. 287.
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L’elemento comune ai giudizi positivi e a quelli negativi che – nel corso di trecento cinquant’anni – sono stati espressi su Galileo scrittore sembra essere il rilievo di un perfetto equilibrio statico della sua prosa. Da tale equilibrio la maggioranza dei lettori ha tratto un’impressione di chiarezza, precisione, limpidezza, eleganza, copia, purità, luminosa evidenza. Ma non è mancato chi, attribuendo alla scrittura di Galileo il carattere di «scolpitezza evidente» (Leopardi) o paragonandola a una «scoltura» (Gioberti), ha sottolineato certa sua grevità statuaria; né chi – come il De Sanctis, appunto – ha lamentato assenza di dinamismo, in quella «forma pietrificata»62. Cercheremo dunque nel testo galileiano gli elementi costitutivi di quell’equilibrio che, a suo tempo, aveva impressionato un lettore sensibile come Parini63, e che noi qui accetteremo come spunto intuitivo iniziale.
5.1. Sintassi nominale. Il fenomeno più caratteristico della sintassi galileiana sembra essere la riduzione del ruolo “verbale” a favore di quello “nominale”. Non si giunge a quelle soluzioni vistose che caratterizzano manifestazioni attuali del cosiddetto stile nominale, ma la delega al nome (o meglio, a forme che rientrano nella classe morfologica del nome) di funzioni che, nella sintassi presecentesca, erano affidate specificamente o prevalentemente al verbo è fenomeno evidente. Lo documenteremo raccogliendo – oltre ai moduli tipici – emergenze embrionali di una sintassi nominale intesa come ridimensionamento morfologico e funzionale del verbo (non necessariamente come sua assenza, o eliminazione) e come correlativo aumento della frequenza del nome e della sua funzionalità sintattica64. Sono presenti, nella prosa di Galileo, alcuni moduli brachilogici già inventariati come tipici dello stile nominale.
62 Cfr. G. LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, edizione critica e annotata di G. Pacella, Milano 1991, I, p. 41 (p. 30, secondo la numerazione leopardiana); V. GIOBERTI, Introduzione allo studio della Filosofia (1840), Bruxelles 1844, I, p. 359; F. DE SANCTIS, Storia cit., II, p. 287. 63 G. PARINI, Principi generali e particolari delle Belle Lettere (1775), in ID., Poesie e prose, a cura di L. Caretti, Milano 1953, pp. 523 sgg. 64 Sull’ambiguità del concetto di stile nominale concordano gli studiosi che si sono interessati del fenomeno; cfr. G. HERCZEG, Lo stile nominale in italiano, Firenze 1967; B. MORTARA GARAVELLI, Fra norma e invenzione: lo stile nominale, in «Studi di grammatica italiana», I (1971), pp. 271-315; M. DARDANO, Il linguaggio dei giornali italiani (1974), Roma-Bari 1986, pp. 300-20; L. SERIANNI, Grammatica italiana, Torino 1988, pp. 528-29; in prospettiva diacronica: P. TRIFONE, Aspetti dello stile nominale nella «Cronica» trecentesca di Anonimo Romano, in «Studi linguistici italiani», XII (1986), pp. 217239; M. DURANTE, Dal latino all’italiano moderno cit., pp. 184-98.
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Frequènti, ad esempio, quei sintagmi olofrastici – spesso di valore esclamativo, anche in assenza dell’interpunzione corrispondente – che Galileo utilizza all’inizio di battuta, o comunque alla frontiera fra due unità sintattiche; essi funzionano spesso (si vedano i primi due esempi), ma non sempre (si veda il valore esortativo del terzo esempio), come commenti appositivi alla battuta o all’unità sintattica precedenti65: SAGR. Oh, se la Terra fu, pure avanti tale alluvione, generabile e corruttibile, perché non può essere tale la Luna parimente senza una simile mutazione? perché è necessario nella Luna quello che non importava nulla nella Terra? SALV. Argutissima instanza. Ma io vo dubitando che il signor Simplicio alteri un poco l’intelligenza de i testi d’Aristotile […]. (74). SALV. [...] anco i corpi mondani, dopo l’essere stati fabbricati e del tutto stabiliti, furon per alcun tempo dal suo Fattore mossi di moto retto, ma [...] dopo l’esser pervenuti in certi e determinati luoghi, furon rivolti a uno a uno in giro, passando dal moto retto al circolare, dove poi si son mantenuti e tuttavia si conservano: pensiero altissimo e degno ben di Platone, intorno al quale mi sovviene aver sentito discorrere il nostro comune amico Accademico Linceo [...]. (44). SIMP. Dubito che voi abbiate voluto dir tre volte, perché aggiunto quattro dita di qua e quattro di là al diametro d’un cerchio che sia pur quattro dita, si viene a replicar la sua quantità, e non a crescerla nove volte. SALV. Un poco di geometria signor Simplicio. È vero che il diametro cresce tre volte, ma la superficie, che è quella della quale noi parliamo, cresce nove volte [...]. (364-65).
Brachilogia tipicamente dialogica (e in questo caso potremmo anche definirla ellissi) è quella realizzata in battute che – rispondendo a una sollecitazione o interrogazione – non ripetono il verbo in quella già contenuto; il verbo cioè è contestualmente presente, anche se non figura nell’unità responsiva: SAGR. [...] Ma voi, signor Salviati, mi farete ben gran piacere di arrecarmene qualche evidente ragione, se alcuna ne avete così chiara, che possa esser compresa da me. SALV. Anzi, e da voi e dal signor Simplicio ancora […]. (36). SAGR. E di questo dite esserne dimostrazione matematica? SALV. Matematica purissima, e non solamente di questa, ma di molte altre bellissime passioni attenenti a i moti naturali e a i proietti ancora [...]. (248).
Episodi di ellissi verbale si verificano anche in frasi coordinate o unite per asindeto, quando il predicato espresso nella prima di esse non viene ripetuto nella frase o nelle frasi seguenti: 65 Poiché le citazioni di questo paragrafo appartengono tutte ai Massimi Sistemi, e sono quindi tratte dal vol. VII dell’edizione nazionale, eliminiamo l’indicazione del volume dai numerosi esempi, limitandoci alla segnalazione della pagina.
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[...] il dipingere s’apprende col continuo disegnare e dipingere; il dimostrare, dalla lettura dei libri pieni di dimostrazioni, che sono i matematici soli, e non i logici. (60).
Presenti in Galileo anche le subordinate nominali, cioè quelle in cui la congiunzione si applica a un nome, a un aggettivo o a un participio: dove che le parti di mezo, benché piene di valli e monti, mediante l’avere il Sole elevato, rimarrebbero senz’ombre [...]. (106). quando averò spianata la strada in maniera, che voi ancora, benché non intelligente di calcoli astronomici, possiate restar capace […]. (312). perché la nave stessa, come di fabbrica anfrattuosa, porta seco parte dell’aria sua prossima [...]. (214).
Soluzioni sintetiche, intonate alla vivacità del registro dialogico, sono quelle realizzate con l’avverbio ecco – spesso seguito da participio passato – nella ricca gamma dei suoi valori attualizzanti (presentativi, indicativi, ecc.): Eccovi levata via ogni recessione […] Eccovi dunque mostrato al senso […] Eccovi il pozzo, che denota il cannone; eccovi i vapori grossi, dai quali è tolta l’invenzione de i cristalli; ed eccovi finalmente fortificata la vista nel passare i raggi per il diafano più denso e oscuro. (135).
I moduli nominali finora elencati non sono ignoti alla sintassi presecentesca: documentati fin dai primi secoli della prosa volgare, essi registrano un rilancio cinque-secentesco che li grammaticalizza, rendendoli disponibili a sfruttamenti opzionali. Opzioni che possono essere dettate, oltre che dal gusto personale dell’autore, da esigenze intrinseche al tipo di scrittura. È infatti la stessa scrittura scientifica ad avvantaggiarsi di soluzioni che sottraggono la comunicazione al dinamismo dei tempi e alle modulazioni affettive dei modi verbali e a richiedere forme di sintesi e di economia sintattica (utili anche – nel caso specifico – alla modulazione colloquiale del discorso). Ma, come già precisato, non ci riferivamo solo né principalmente a questi moduli tipici, parlando di riduzione del ruolo verbale a favore di quello nominale. Alludevamo invece a tutta una serie di fenomeni che – pur senza compromettere la struttura verbale dell’enunciato – riducono la funzionalità del verbo, trasferendola alla componente nominale. Quando, per esempio, leggiamo le prime parole del Dialogo:
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Fu la conclusione e l’appuntamento di ieri che noi dovessimo in questo giorno discorrere, quanto più distintamente e particolarmente per noi si potesse, intorno alle ragioni naturali e loro efficacia, che per l’una parte o per l’altra sin qui sono state prodotte dai fautori della posizione Aristotelica e Tolemaica e dai seguaci del sistema Copernicano (33),
non incontriamo episodi di assenza o di ellissi del verbo, ma certamente questa soluzione ha un tasso di dinamismo verbale inferiore a quello realizzabile con alternative quali «Ieri abbiamo concluso e abbiamo stabilito che [...]» o «Ieri concludemmo e stabilimmo che [...]»; la stessa anticipazione del verbo essere ai due sostantivi espone questi ultimi a un “contatto” con la congiunzione subordinante che non è ancora assunzione di responsabilità sintattica, ma che prelude a questo esito qualora il sostantivo riesca a svincolarsi dal sintagma a verbo essere, e quindi a esercitare in proprio la reggenza della frase subordinata. Soluzioni come questa e altre (che vedremo), ancora più sbilanciate verso la reggenza autonoma da parte del sostantivo, preinstallano, per così dire, un modulo oggi affamatissimo, che ci fa apparire del tutto normali espressioni fino a un secolo fa poco diffuse, quali «L’opinione che», «La considerazione che», «Il fatto che», ecc.66. Passererno in rassegna questi fenomeni, precisando in anticipo che quasi tutti hanno documentazione presecentesca; la maggioranza di essi ha una matrice latino-classica e un rilancio umanistico-rinascimentale: è dunque la frequenza del loro impiego, non la loro qualità, a diventare caratterizzante in Galileo e, più generalmente, nella prosa scientifica del Seicento. La scrittura galileiana potenzia al massimo i participi, quelle forme cioè che – pur appartenendo al paradigma verbale – partecipano del ben più ridotto e quindi più economico statuto morfologico del nome. Alla ricchissima polimorfia delle forme verbali esplicite, il participio risponde con due o al massimo con quattro forme. La funzionalità sintattica del participio nel realizzare il rapporto ipotattico propria del latino classico ed ereditata dal latino scientifico, in particolare da quello del filone geometrico – consente a Galileo di risparmiare in connettivi subordinanti (congiunzioni o pronomi relativi che siano) e di sostituire a forme verbali finite, disponibili alla segnalazione morfologica della persona, del numero, del 66 Interessante la testimonianza di Giorgio pasquali (riferita da M. DUMNTE, Dal latino all’italiano moderno cit., p. 188) che, mentre documenta per il 1940 l’ampia diffusione di espressioni quali il fatto che, la considerazione che, ecc., afferma che solo cinquant’anni prima esse non si usavano o erano rare.
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tempo, dell’aspetto, del modo, forme bloccate nella segnalazione del numero e del genere, o addirittura del solo numero. Si considerino gli esempi che seguono, relativi al participio presente: discorsi dependenti da alcuni assunti generali [...].
(33):
alcuni gentili uomini che furon presenti quando un dottor leggente in uno Studio famoso [...] disse [...]. (135). Voi stimate […] la Terra, per la sua asprezza, non potente a far simile recessione [...]. (95). il signor Simplicio cominci a produr quelle difficoltà che gli paiono contrarianti a questa nuova disposizione del mondo. (150) argomenti necessariamente concludenti, il moto loro esser al centro della Terra [...]. (151). l’esperienze dell’artiglierie non l’avete voi conosciute ed ammirate e confessate più concludenti di quelle d’Aristotile? (157). essenza del movente le stelle in giro
(261).
potrebbe dar bando al suo stesso libro, come nulla concludente[…]
(314).
Come si vede, Galileo coagula in un participio presente il significato che avrebbe potuto essere diluito in una frase relativa («discorsi che dipendono», «dottore che leggeva»), oggettiva («Voi stimate che la Terra non possa fare simile riflessione»), causale («dar bando al suo stesso libro perché non conclude nulla»), concessiva, ipotetica, ecc., con verbo esplicito e quindi coniugato nel modo e nel tempo volta a volta richiesti. Tale processo, fortemente economico, presenta anche un altro vantaggio, fondamentale per una scrittura scientifica interessata a quei mezzi di coesione linguistica che garantiscono la perspicuità dei rapporti fra parole, e quindi la coerenza logica del testo: il participio si immette in una catena di accordi morfologici nominati che “trama” saldamente la scrittura. Si veda il sesto esempio, fra quelli sopra elencati: l’esperienze dell’artiglierie […] non l’avete voi conosciute ed ammirate e confessate più concludenti di quelle d’Aristotele?
La coesione morfologica cosi ottenuta è certamente maggiore di quella realizzabile con alternative verbali esplicite (esempio: «non avete voi [...] confessato che l’esperienze dell’artiglierie concludono meglio di quelle d’Aristotele?»).
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Né bisogna trascurare l’opportunità terminologia che i participi offrono, con la loro possibile evoluzione in senso aggettivale o sostantivale. Nel quinto dei nostri esempi il participio concludenti ha piena funzionalità verbale; ma già nel sesto e ottavo esempio lo stesso participio è entrato in metamorfosi aggettivale. Il fenomeno di nominalizzazione è evidente nel settimo esempio, per quanto riguarda «il movente», come altrove «il cadente» (VII, 47, 48, 52), «il proiciente» (VIII, 219), «lo scendente» (VII, 49), «il discendente» (VII, 51), «il resistente» e «la scendente» (VIII, 31), «la tangente» (VII, 219, 263), «la segante» (VII, 263), ecc.: il proietto acquista impeto di muoversi per la tangente l’arco descritto dal moto del proiciente del punto della separazione di esso proietto dal proiciente. (219).
Questa è la procedura abituale con cui Galileo cristallizza la parola in termine, quando il contesto lo esige; possiamo coglierne le diverse fasi in un altro luogo del Dialogo, a proposito del participio ambiente: nella sua prima occorrenza, «ambiente» – attribuito a «campo» – conserva energia verbale e sta per una frase relativa («La luna si mostra più luminosa assai la notte che il giorno, rispetto all’oscurità del campo che la circonda»); nella seconda occorrenza «l’ambiente» è invece nome, completo di articolo: non avete voi per voi stesso saputo che la Luna si mostra più luminosa assai la notte che il giorno, rispetto all’oscurità del campo ambiente? ed in conseguenza non venite voi a sapere in genere, che ogni corpo lucido si mostra più chiaro quanto l’ambiente è più oscuro? (115).
È il fenomeno che la sensibilità storico-linguistica di Bruno Migliorini coglieva (con notevole anticipo rispetto a noi) nel passaggio dall’espressione fluida «corpo pendente» o «corpo pendolo», al suo irrigidimento terminologico: «il pendulo», il «pendolo»67. Ma ora vediamo che questo fenomeno ha latitudine più ampia di quella terminologica, configurandosi come caso particolare della tendenza generale alla nominalizzazione. Ancora più frequente è l’uso del participio passato; esso aggiunge infatti un’opportunità a quelle offerte dal participio presente: poiché segnala il genere, oltre che il numero, realizza anche quel tipo di accordo con il nome, contribuendo alla sua individuazione. Contributo particolarmente utile quando risolva ambiguità del riferimento, come nell’esempio che segue, in cui «compresa» – esclu67
B. MIGLIORINI, Galileo e la lingua italiana (1942), in ID., Lingua e cultura, Roma 1948, pp. 146-47 (pp. 135-
58).
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dendo il collegamento con «orbe» – è ovviamente da riferire a «una delle celesti sfere»: ma non è l’orbe lunare una delle celesti sfere, e, secondo il consenso loro, compresa nel mezo di tutte l’altre? (292).
Ampliamo l’esemplificazione, anche se essa – necessariamente selettiva non potrà dare idea dell’altissima frequenza di questo participio: Questa mi pare una domanda da non farsi se non per burla, o vero a qualche persona conosciuta per insensata affatto. (113). dovrebbe accadere il contrario quando tal lume fusse suo o comunicatole dalle stelle […] (117). E perché da Tolomeo, da Ticone e da altri astronomi e filosofi, oltre a gli argomenti d’Aristotele, presi, confermati e fortificati da loro, ne son prodotti degli altri, si potranno unir tutti insieme [...]. (151). nel sentir circoscrivere il telescopio, da sé non ancor veduto […]
(157).
Producolo per amor di quella virtù impressa, nominata ed introdotta da voi […] (176). con patto però che questa sia una delle proposizioni riservata da esaminarsi tra le altre in altra particolar sessione [...] ed intanto torniamo alla linea descritta dal grave cadente dalla sommità della torre sino alla sua base. (190). il tener dietro alla Terra è l’antichissimo e perpetuo moto participato indelebilmente ed inseparabilmente da essa palla [...]. (203).
Questi esempi confermano l’ormai nota economia, nei confronti delle alternative esplicite, e l’infittimento della trama morfosintattica con conseguente aumento della coesione testuale. Presente o passato che sia, il participio è spesso utilizzato nel modulo dell’ablativo assoluto che, oltre ad essere sintatticamente economico, è uno dei mezzi con cui Galileo connota classicamente la sua prosa: fecero saggia risoluzione di trovarsi alcune giornate insieme, nelle quali, bandito ogni altro negozio, si attendesse a vagheggiare con più ordinate speculazioni le meraviglie di Dio nel cielo e nella terra. Fatta la radunanza nel palazzo dell’illustrissimo Sagredo, dopo i debiti, ma però brevi, complimenti, il Sig. Salviati in questa maniera incominciò. (31). E dove lasciate voi l’altra ragione […] che, dettante pur così la natura, alle cose che son tre, e non a meno attribuiscono il titolo di tutte? (34).
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i corpi leggieri [...] son ben tanto meno atti a conservar il moto impressolo, cessante la causa movente; onde l’aria […] è anco nettissima a conservare il moto, cessante il motore. (463).
Corollario importante del privilegio accordato al participio passato è un fenomeno rimasto finora inosservato: l’altissima frequenza della costruzione passiva, in Galileo68. Essendo analitica la forma passiva del verbo italiano, composta cioè dall’ausiliare e dal participio passato del verbo volta per volta impiegato, essa consente a Galileo di delegare la funzione morfosintattica all’ausiliare essere (sempre lo stesso) e di cristallizzare il valore semantico del verbo (sempre diverso) nella forma nominale del participio. Il risultato è una forte semplificazione della morfologia verbale e una più salda cementazione delle unità nominata ricorrenti nel periodo: discorrere […] intorno alle ragioni naturali e loro efficacia, che per l’una parte e per l’altra sin qui sono state prodotte da i fautori della posizione Aristotelica [...]. (33). quale assunto non credo che sia per essere negato né da voi né da altri.
(43).
da astronomi eccellenti sono state osservate molte comete generate e disfatte in parti più alte dell’orbe lunare [...]. (76). problema che sin qui non credo che sia stato saputo da filosofo né da matematico alcuno, ancorché da filosofi, ed in particolare Peripatetici, sieno stati volumi intieri, e grandissimi, scritti intorno al moto. (189).
I vantaggi dell’operazione sono evidenti; ma dobbiamo valutarne anche il costo. La costruzione passiva privilegia gli oggetti sui soggetti, i fenomeni sui processi, trasforma in essere l’agire, blocca in situazioni gli eventi. Tutti effetti che male si concilierebbero con una scrittura narrativa, o con qualsiasi altro tipo di scrittura personalmente (emotivamente o conativamente) modulata, ma dei quali si avvantaggia la lingua scientifica, come quella che tende ad appiattire la dimensione cronologica dell’evento nella definizione del fenomeno e che valorizza l’oggetto della ricerca in rapporto al soggetto che la conduce69. Il prezzo da pagare è, ovviamente, una perdita di articolazione e di dinamismo verbali. Galileo paga volentieri i vantaggi assicurati dalla costruzione passiva nelle 68
Tale frequenza emerge già dagli esempi forniti a proposito del participio passato. Oltre che con il passivo, la mimetizzazione “modesta” dell’«io» si realizza anche con l’impersonale (usatissimo da Galileo). 69
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parti espositive e dimostrative del Dialogo, che più si prestano ad essere verbalmente disidratate. Lo paga più avaramente, o non lo paga affatto, là dove l’azione scenica, soprattutto se investita da umori personali o da tensioni polemiche, esige una sintesi più fluida, forme verbali capaci di recuperare la persona che agisce, di segnalare l’aspetto momentaneo degli eventi, di inserirsi agilmente nel dinamismo dei tempi e nella gamma affettiva dei modi. Nella dedica del Dialogo a Ferdinando II de’ Medici, Galileo esalta in tricolon di perfetti attivi le “personalità” di Tolomeo e di Copernico: «Tolomeo e ’l Copernico furon quelli che sì altamente lessero s’affisarono e filosofarono nella mondana costituzione» (VII, 27). Anche Salviati recupera spesso la prima persona e la diatesi attiva per valorizzare suoi interventi: «lo, seguendo l’istesso ordine, proporrò, e poi liberamente dirò il mio parere» (VII, 29); «Io dimostrerò il mio paradosso» (VIII, 452; non già «Il paradosso sarà da me dimostrato»). Intensamente verbale – come abbiamo già visto (cfr. sopra, pp. 919-20) – è lo stile che accompagna l’unica epifania dell’«Accademico Linceo» (VII, 373 –75). Possiamo dire che, in episodi come questi, il «bel lago» della prosa galileiana si convoglia in corrente fluviale e non ignora le “rapide”. Ed è proprio l’esistenza di questi luoghi, densi di verbalità attiva, a farci capire che lo stile nominale non è «forma necessaria» dello stile di pensiero galileiano, ma scelta funzionale a scopi espositivi / dimostrativi, che può alternare con scelte diverse, là dove contesto e cotesto lo esigano. Le osservazioni fatte a proposito dei participi sono estendibili agli aggettivi verbali (quelli in –(a)bile, –(i)bile soprattutto) di cui Galileo fa uso intenso. Il vantaggio è quello ormai noto: la trasformazione in unità nominali, varianti solo in numero (al massimo in numero e genere), di frasi secondarie con verbo esplicito: Gradiscano quelle due grand’anime, al cuor mio sempre venerabili, questo publico monumento del mio non mai morto amore [...]. (31). ma non mi trovò poi corpo alcuno che fusse naturalmente mobile di tal moto.
(42).
Se bene la linea retta, ed in conseguenza il moto per essa, è produttibile in infinito […]. (43). la natura del corpo sempre mobile convien che sia diversissirna dalla natura del sempre Stabile. (291).
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Non può dunque l’interna sustanza di questo nostro globo essere una materia frangibile dissipabile e nulla coerente, come questa superficiale che noi chiamiamo terra. (428-29). l’aver mescolati luoghi della Sacra Scrittura, sempre veneranda e tremenda, tra queste puerizie [...]. (384).
Anche per questi aggettivi si verifica il fenomeno di emancipazione terminologica già rilevato a proposito dei participi: nel secondo esempio l’aggettivo mobile conserva piena funzionalità verbale; invece il «corpo sempre mobile» e quello sempre stabile» del quarto esempio sono già implicati in quella metamorfosi aggettivale che – in contesti più tecnici – conduce alla totale sostantivazione («il mobile»): partendosi due mobili dalla quiete, cioè dal punto C, uno per la perpendicolare CB e l’altro per l’inclinata CA, nel tempo che nella perpendicolare il mobile avrà passata tutta la CB, l’altra avrà passata la CT, minore [...]. (50).
Fra i molti mezzi con cui la tendenza nominale si manifesta elenchiamo anche l’infinito, la forma che aderisce senza modulazioni morfologiche al puro valore semantico del verbo. Se è vera l’intuizione da cui si sono prese le mosse, e cioè l’aspirazione di Galileo a un equilibrio statico del periodo, nessuna forma verbale risponde meglio dell’infinito a questa esigenza. Quella «forma pietrificata» che il De Sanctis denunciava come tipica della prosa galileiana (e stiamo vedendo che la sensazione era motivata, anche se non ne accettiamo a risvolto critico) si realizza spesso grazie all’effetto-Medusa degli infiniti. Il massimo dell’irrigidimento è rappresentato dall’infinito sostantivato, frequentissimo in Galileo e spesso ribadito nel suo ruolo nominale dall’articolo: il rimettersi ad asserir la fermezza della Terra, e prender il contrario solamente per capriccio matematico non nasce da non aver contezza di quant’altri ci abbia pensato […]. (30). Ho poi pensato tornare molto a proposito lo spiegare questi concetti in forma di dialogo […]. (30). moto retto, dal quale ora solo ne seguirebbe il rimuoversi dal proprio e natural luogo, cioè il disordinarsi. (44). Dall’aver questa inclinazione ne nasce necessariamente che egli [il corpo] nel suo moto si anderà continuamente accelerando [...]. (44). nel diminuirsi la velocità, o volete dire nel crescersi la tardità, non è egli ragionevole che si faccia più presto trapasso dai 10 gradi a gli 11 che da i 11 a i 12? (55).
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Piena funzione verbale ha ovviamente l’infinito in frasi oggettive di stampo latino (e in frasi soggettive, rette da espressioni impersonali: «è necessario», «è forza», «sarà bene», ecc.): scelta motivata dal desiderio di atteggiare classicamente il periodo, ma collaborante anche alla semplificazione di esso, grazie al risparmio della congiunzione che e della flessone verbale: Dichiara poi, i movimenti locali esser di tre generi [...].
(38).
Possiamo dunque dire il moto retto servire a condur le materie per fabbricar l’opera […]. (44). effetto che mi rende totalmente incredibile, quella [la palla di piombo] in alcuno momento essersi trovata in stato tale di tardità […]. (54). Di qui è manifesto, la Luna [...] constantemente riguardare con una sua faccia il globo terrestre, né da quello divertir mai. (91).
Beninteso, questo tipo di costrutto infinitivo convive con quello concorrente (che + modo finito). Costituisce quindi una scelta, volta per volta dettata dal registro linguistico più o meno formale. Così come costituiscono una scelta, rispetto alle alternative esplicite, le secondarie realizzate con congiunzioni che reggono l’infinito; esemplifichiamo con frasi causali: piccolissirna parte è quella che perviene all’occhio […], per essere una minimissima particella di tutta la superficie sferica quella l’inclinazione della quale ripercuote il raggio al luogo particolare dell’occhio […]. (99). e però la Luna, per essere di superficie aspra e non tersa, rimanda la luce del Sole verso tutte le bande [...]. (102). illuminazion del Sole, la quale, per esser la sustanza del globo lunare alquanto trasparente, penetra per tutto il suo corpo [...]. (117).
Interessante è anche la conquista dell’infinito che Galileo realizza anticipando ad esso verbi servili o verbi fraseologici e scaricando su questi tutte le responsabilità morfosintattiche: Fu la conclusione e l’appuntamento di ieri che noi dovessimo in questo giorno discorrere […] intorno alle ragioni naturali [...]. (33). suoi seguaci troppo pusillanimi che darebbero occasione, di stimarlo meno, quanto noi volessimo applaudire alle loro leggereze […]. (136). quando verremo a trattare dell’altro movimento […].
(141).
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Naturalmente questi verbi realizzano sfumature semantiche particolari, utili a precisare modalità dell’azione espressa dal verbo. Ma talvolta essi sono pleonastici: nel secondo dei nostri esempi nulla si perderebbe coniugando il verbo applaudire nella forma del congiuntivo imperfetto di valore ipotetico («seguaci che darebbero occasione, di stimarlo meno, quando noi applaudissimo alle loro leggereze […]»); la loro funzione principale, in questi casi, sembra essere proprio quella di esonerare i verbi a cui “servono” dalla polimorfia delle forme finite. Non può mancare a questo elenco la segnalazione del gerundio, anche se è presenza meno caratterizzante di quelle finora elencate. Pur ribadendo che tutti questi fenomeni appartengono saldamente al sistema linguistico, e che quindi la specificità dell’uso galileiano risiede nell’abitualità dello sfruttamento, bisogna poi riconoscere che l’impiego dei participi, degli aggettivi verbali, della costruzione passiva è più vistoso – nei confronti della norma linguistica e di usi individuali coevi – di quello dell’onnidiffuso gerundio. Ciò non toghe che anche il gerundio sia uno dei mezzi con cui Galileo opera il risparmio sintattico: la sua forma monolitica, la gamma di sfumature semantiche in esso implicite, collaborano alla potatura della morfologia verbale e alla semplificazione della struttura sintattica. Un solo esempio: Ora, se il moto eterno e la quiete eterna sono accidenti tanto principali in natura […] ed essendo di più impossibile che l’una delle due proposizioni contradittorie non sia vera e l’altra falsa, e non si potendo per prove della falsa produrr’altro che fallacie, ed essendo la vera persuasibile per ogni genere di ragioni concludenti e dimostrative; come volete che quello di voi che si sarà appreso a sostener la proposizion vera non mi abbia a persuadere? (157).
A questo punto è opportuno interrompere la rassegna dei fenomeni per chiarire che cosa esattamente si intenda per semplificazione della struttura sintattica. Il periodo di Galileo è infatti, di norma, tutt’altro che semplice. Fra le definizioni che la prosa galileiana ha prodotto, passando per i circuiti mentali dei diversi lettori nelle diverse epoche, compaiono spesso quelle di «chiarezza», di «evidenza», di «efficacia», di «eleganza», perfino quella di «naturalezza»; mai – se il ricordo è esatto – di semplicità. La sintassi galileiana è fortemente ipotattica, anche se episodicamente disponibile alla coordinazione, all’accelerazione dei ritmi, perfino a quello stile “spezzato” (periodi di una sola frase, o comunque fortemente segmentati da una punteggiatura di tipo emotivo) che pure è una delle manifestazioni caratteristiche del secolo. Ma rimane eccezionale (ed eccezionalmente motivato: si tratta della spiega-
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zione delle maree, argomento che – come si è visto – coinvolge anche emotivamente Galileo) l’andamento paratattico che caratterizza il brano seguente: Siamo qui in Venezia, dove ora sono l’acque basse, ed il mar quieto e l’aria tranquilla: comincia l’acqua ad alzarsi, ed in termine di 5 o 6 ore ricresce dieci palmi e più: tale alzamento non è fatto dalla prima acqua, che si sia rarefatta, ma è fatto per acqua nuovamente venutaci, acqua della medesima sorte che era la prima, della medesima salsedine, della medesima densità, del medesimo peso: i navili, signor Simplicio, vi galleggiano come nella prima, senza demergersi un capello di più; un barde di questa seconda non pesa un sol grano più né meno che altrettanta quantità dell’altra; ritiene la medesima freddezza, non punto alterata: è insomma acqua nuovamente e visibilmente entrata per i tagli e bocche del Lio. Trovatemi ora voi come e donde ell’è qua venuta. Son forse qui intorno voragini o meati nel fondo del mare, per le quali la Terra attragga e rifonda l’acqua, respirando quasi immensa e smisurata balena? (448-49).
Questo brano può essere utilizzato a documentare la vasta gamma di soluzioni sintattico-stilistiche che Galileo è in grado di realizzare, ma non è rappresentativo della sua scrittura, proprio perché la struttura più tipica del periodo galileiano è – come vedremo in seguito – quella ipotatticamente proliferante, non quella concatenata che il brano appena citato esibisce. Il che ovviamente non esclude che, in particolari contesti dialettici, Galileo faccia parlare Salviati con quella brevità che trasforma in “massima” l’affermazione, e con quello stile coupé che più si presta – anche in contrasto con l’abituale misura ampia e riposata del discorso espositivo e dimostrativo – a incalzare l’avversario: SALV. Signor Simplicio, noi siamo qui tra noi discorrendo familiarmente per investigar qualche verità; io non arò mai per male che voi mi palesiate i miei errori, e quando io non avrò conseguita la mente d’Aristotile riprendetemi pur liberamente, che io ve ne arò buon grado. […] la logica, come benissimo sapete, è l’organo col quale si filosofa: ma si come può esser che un artefice sia eccellente in fabbricare gli organi, ma indotto nel sapergli sonare, cosi può esser un gran logico, ma poco esperto nel sapersi servir della logica; si come ci son molti che sanno per lo senno a mente tutta la poetica, e son poi infelici nel compor quattro versi solamente; altri posseggono tutti i precetti del Vinci, e non saprebber poi dipignere uno sgabello. Il sonar l’organo non simpara da quelli che sanno far organi, ma da chi gli sa sonare; la poesia s’impara dalla continua lettura de’ poeti; il dipignere s’apprende col continuo disegnare e dipignere; il dimostrare, dalla lettura dei libri pieni di dimostrazioni, che sono i matematici soli, e non i logici. (60).
Nonostante questi contro-esempi, l’«equilibrio» della prosa galileiana si affida di solito e principalmente alla perfetta coerenza logica e coesione linguistica con cui le molte unità ospitate nel periodo sono gerarchicamente strutturate e sal-
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date fra loro. Sicché, parlando di mezzi che producono la semplificazione, intendiamo quelli che consentono al periodo galileiano di rimanere lucido e lineare nonostante la forte complessità della sua struttura. La linearità di cui si tratta è quella che emerge come nitida e ben stagliata dorsale da un complesso sistema orografico. Come ottiene, lo scrittore, questo risultato? Si potrebbe dire, per recuperare la metafora desanctisiana, che Galileo – realizzando le subordinate in forma implicita o trasformandole in sintagmi nominali – sottrae linfa verbale alle molte derivazioni della linea sintattica; sicché il ramo principale del periodo conserva la sua portata, senza depauperarsi in rivolii o ristagnare nelle numerose anse. È l’organizzazione gerarchica delle unità interne al periodo (corrispettivo linguistico di una disciplina mentale abituata a graduare l’importanza degli argomenti, a discernere l’essenziale dall’accessorio) che consente il fluire maestoso del discorso e del pensiero. La sensazione di pesantezza che alcuni lettori hanno provato, nel leggere la prosa galileiana, dipende forse dal fatto che la straordinaria capacità di programmazione sintattica del periodo, da parte dell’autore, esige un’altrettanto sviluppata capacità di attenzione e di memorizzazione da parte del lettore. La prosa di Galileo non tollera una lettura di tipo intuitivo né una ricezione frettolosa, distratta. La mediazione intellettuale – sempre indispensabile, anche per testi specificamente letterari – deve essere massima in rapporto a una scrittura tutt’altro che neutra dal punto di vista emotivo, ma che filtra razionalmente, con calviniana «esattezza», anche le componenti affettive e passionali. Finora sono stati elencati fenomeni di nominalizzazione del verbo, o almeno di riduzione della sua funzionalità morfo-sintattica. Ma lo stile nominale si manifesta anche come addensamento della presenza del nome e dell’aggettivo e come potenziamento del loro ruolo. In effetti la scrittura di Galileo è fittissima di nomi, in particolare di nomi d’azione corradicali al verbo: fra «il mobile cade» e «la caduta del mobile», è la seconda alternativa – quella che astrae il fenomeno dall’evento – la più congeniale a Galileo. L’incremento di nomi astratti, soprattutto deverbali, è forte già nel Duecento e continua nei secoli seguenti; ma in Galileo esso non avviene a spese dell’alternativa latineggiante, e cioè dell’infinito sostantivato (che rimane frequentassimo, come si è già visto). Nomi e sintagmi nominali consentono, ovviamente, il risparmio di frasi espli-
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cite. Quando Galileo scrive: «E per più facile intelligenza, piglieremo carta e penna» (VIII, 36), evita una frase finale (“E affinché possiamo capire meglio [oppure: “E per capire meglio”] piglieremo carta e penna”); quando dice che un fenomeno può essere sfuggito a Copernico «per mancamento di strumenti esatti» (VII, 399), risparmia una frase causale (“perché gli mancavano strumenti esatti”, o “perché non possedeva strumenti esatti”). L’entità del risparmio può esser meglio apprezzata traducendo in sintassi verbale un segmento più ampio di testo, per esempio il primo in elenco, qui sotto: “né senza che io ne fossi informato in precedenza fu poi pubblicato quel decreto”: né senza qualche mia antecedente informazione seguì poi la pubblicazione di quel decreto. (29). io m’ingegnerò di persuadervi, ed anco forse senza vostra contradizione ad alcune semplici interrogazioni ch’io vi farò. (46). l’acqua […] rimonta altrettanto quanto fu la sua scesa.
(47).
producete [...] quello che vi sovviene per mantenimento della somma differenza che Aristotile pone tra i corpi celesti e la parte elementare [...]. (62). [Le macchie solari] verso la circonferenza, mediante lo sfuggimento della superficie globosa [del sole], si mostrano in iscorcio […]. (79). onde ne segua lo staccamento e l’allontanamento della penna dalla Terra
(222).
Una documentazione selettiva, come questa è, serve a esemplificare il fenomeno; la verifica della sua (altissima) frequenza è, come al solito, delegata al lettore. Brani più ampi consentiranno comunque di apprezzare la densità di sfruttamento del nome, con un effetto di reificazione dei processi a cui collaborano anche fenomeni osservati in precedenza (participi presenti e passati, infiniti sostantivati, qui segnalati in semplice corsivo): in lui [nel corpo che si muove di moto circolare] la repugnanza e l’inclinazione son sempre di eguali forze; dalla quale egualità ne risulta una non ritardata né accelerata velocità, cioè l’uniformità del moto. Da questa uniformità e dall’essere terminato ne può seguire la continuazione perpetua col reiterar le circolazioni. (56). ma dopo l’ottima distribuzione e collocazione [dei corpi] è impossibile che in loro resti naturale inclinazione di più muoversi di moto retto, dal quale ora solo ne seguirebbe il rimuoversi dal proprio e naturl luogo, cioè il disordinarsi. (44). E perch’io so che non avete dubbio in conceder che l’acquisto dell’impeto sia mediante l’allontanamento dal termine donde il mobile si parte e l’avvicinamento al centro dove tende il suo moto, arete voi difficoltà nel concedere che due mobili eguali, ancorché
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scendenti per diverse linee, senza veruno impedimento, facciano acquisto d’impeti eguali, tuttavolta che l’avvicinamento al centro sia eguale? (47).
L’ultimo esempio documenta anche una tendenza che – data la costanza con cui agisce – si rivela uno degli strumenti più attivi a produrre la dominanza del nome: Galileo tende a realizzare fraseologicamente unità semantiche che potrebbero essere espresse da singoli verbi di significato specifico. Egli preferisce cioè associare a verbi molto generici (essere, avere, dare, fare, tenere, provare, ecc.) sostantivi che, volta per volta, ne determinano il significato, piuttosto che ricorrere a verbi semanticamente densi. Per esempio, nell’ultimo brano citato qui sopra, abbiamo un «facciano acquisto d’impeti eguali», quando sarebbe stato possibile usare a verbo acquistare (“acquistino impeti eguali”). Anche «avete dubbio», «arete difficoltà», nello stesso brano, potrebbero essere sintetizzati da verbi di significato pieno, quali esitare, dubitare, riluttare, ecc. Nel sintagma possono anche figurare verbi semanticamente un po’ più consistenti di quelli finora considerati: «venire in cognizione» (VII, 41), invece di apprendere; «conservare memoria» (VII, 39), invece di ricordare; «porger l’assenso» o «prestare assenso» (VII, 101, 207), invece di assentire o approvare, ecc. La frequenza del fenomeno individua una precisa tendenza di Galileo a sottrarre spessore semantico al verbo, lasciandogli la sola funzionalità morfosintattica. La motivazione di questa tendenza è prima di tutto economica: anche se sono necessarie due unità lessicali invece di una (fare acquisto// acquistare, avere dubbio // esitare, avere opinione // ritenere, ecc.), la base verbale semanticamente generica tollera l’associazione con un numero altissimo di sostantivi e quindi consente la realizzazione di un numero altrettanto alto di significati che altrimenti avrebbero dovuto essere espressi ciascuno da un verbo, debitamente selezionato e coniugato. Per esempio: il verbo fare è usato da Galileo, oltre che in «facciano acquisto», in «far passaggio» (VII, 55), «fece fondamento» (VII, 75), «far discapito» (VII, 28), «fecero risoluzione» (VII, 31), «fare giudizio» (VII, 35), «fare stima» (VII, 355), «far guadagno» (VII, 355), ecc., A che consente di evitare la coniugazione dei verbi corrispondenti (passare, fondarsi, scapitare, decidere, giudicare, stimare, guadagnare, ecc.). Accanto al risparmio va valutata l’opportunità di realizzare particolari sfumature modali: un verbo come dubitare neutralizzerebbe modalità dell’evento, rivelate invece da alternative quali «avere dubbio» (VII, 137), «stare in dubbio» (VII, 114), «metter dubbio» (VII, 179), ecc. L’uso di verbi generici è inoltre scelta adeguata al registro dialogico. Anche
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nell’italiano contemporaneo (in cui il modulo qui esaminato trionfa) noi riserviamo i verbi specifici ai livelli più formali della comunicazione; mentre per il parlato e per usi informali della comunicazione scritta preferiamo – come meno costosi – sintagmi quali dar noia, far finta, far paura, fare schifo, ecc. ai loro corrispondenti verbali (annoiare, fingere, impaurire, disgustare, ecc.). Il risultato della scelta galileiana non è soltanto l’addensamento del nome ma anche l’ampliamento della sua funzionalità sintattica. Sintagmi quali «avere opinione» o «essere d’opinione» (per ritenere), «avere sospetto» (per sospettare), ecc., espongono (e – in progresso di tempo – abilitano) i sostantivi alla reggenza della subordinata seguente: ho grande opinione che voi ancora non l’intendiate, ma abbiate imparate a mente quelle parole [...]. (103). Io son d’opinione che a questi più specolativi sia avvenuto quello che di presente accade a me ancora [...]. (486). molto si diminuisce in me l’opinione che egli abbia rettamente filosofato […].
(137).
Ma io ho qualche sospetto che a bello studio e’ voglia anche tacerle [le obiezioni ad Aristotele]. (106-7). E non aver poi fatto menzione delle macchie solari […] mi dà grand’indizio che possa esser che questo autore scriva più tosto a compiacenza di altri che a soddisfazion propria [...] (83).
Il nome si avvia così ad assumere forme di reggenza che, in secoli precedenti, erano specifiche del verbo. Anche in questo caso non si tratta di una novità assoluta, ma del rilancio di un modulo che era raro prima del Cinque-Seicento, o che si presentava in soluzioni più timide: per esempio in quella (pure ben documentata in Galileo) che – inserendo fra la reggente e la dipendente un nesso esplicativo o un segno interpuntivo – conferiva alla seconda frase valore epesegetico della prima. La maggiore autonomia semantica cosi conquistata dalla dipendente allenta il rapporto di subordinazione, come si può mostrare usando esempi galileiani: Io per me darei una risposta generale: che […] quegli uccelli farebber tutto quello che alla medesima volontà di Dio piacesse. (266). Di grazia, toglietevi giù di questa opinione, ch’io sia simulatore o dissimulatore […]. (107). A me resta un’altra difficoltà ed è che, per esser il moto della palla nel pezzo velocissimo, non par possibile che in quel momento di tempo la trasposizion dell’artiglieria da CA in ED conferisca inclinazion tale [...]. (203).
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Ma in Galileo si va oltre, superando la riluttanza ad assegnare al nome reggenza sintattica. Non si tratta soltanto del consolidamento e massiccio impianto cinque-secentesco della costruzione essere, stare, ecc. + sostantivo + che, e di sue manifestazioni stereotipe del tipo «È forza che» (di cui pure va sottolineata la massiccia presenza nei Massimi Sistemi: VII, 33, 49, 67, 72, 73, 77, 84, 87, 98, 99, 146, 154, 180, 267, ecc.); si tratta anche di sfruttamenti più elastici e originali, in cui il nome esercita più autonomamente la funzione reggente: si udirono querele che consultori totalmente inesperti delle osservazioni astronomi che non dovevano con proibizione repentina tarpar l’ale a gli intelletti speculativi […].(29). Io ritorno nella mia incredulità, e nella medesima sicurezza che l’esperienza sia statafatta da gli autori principali che se ne servono [...]. (171). L’errore di Aristotile ha radice in quella fissa e inveterata impressione, che la Terra stia ferma […]. (196). questa nuova cognizione più tosto mi accresce che mi scemi l’incredulità che la terra possa muoversi in giro con tanta velocità [...]. (220).
Concludiamo osservando che la reggenza del nome si associa spesso al modulo appositivo: molte di tali macchie si veggono nascere nel mezo del disco solare, e molte parimente dissolversi e svanire pur lontane dalla circonferenza del Sole; argomento necessario che le si generano e si dissolvono [...]. (79). Per la più gagliarda ragione si produce da tutti quella de i corpi gravi, che cadendo da alto a gasso vengono per una linea retta e perpendicolare alla superficie della Terra; argomento stimato irrefragabile, che la Terra stia immobile [...]. (151).
Sintesi e risparmio del verbo sono realizzati da Galileo anche con l’uso di particolari aggettivi: deverbali in –tore con funzione aggettivale (oltre che nominale), aggettivi in –ivo e, più generalmente, aggettivi capaci di reggenza sintattica. Parlare di «aria aperta e non seguace del corso della nave» (ultimo esempio in elenco) consente il risparmio di una frase relativa: “aria aperta e che non segue il corso della nave»: Noi dunque aviamo la linea retta per determinatrice della lunghezza tra due termini. (36). le alterazioni che si facessero nelle stelle sarebber destruttici delle prerogative del cielo […]. (82).
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qualunque moto venga attribuito alla Terra, è necessario che a noi, come abitatori di quella ed in conseguenza partecipi del medesimo, ei resti del tutto impercettibile [...]. (139-40). credete voi che nissuno peripatetico sia altrettanto posseditore delle dimostrazioni copernicane? (159). questi due [moti] non son contrari né destruttivi l’un dell’altro.
(175).
aria aperta e non seguace del corso della nave […].
(214).
Un sintagma nominale interessante, questa volta per la sua originalità oltre che per la sua frequenza, è quello in cui a un nome sono attribuiti due aggettivi uniti per asindeto, il secondo dei quali specifica il primo. Marcello Durante che per primo ha rilevato il fenomeno in Galileo70 – lo considera peculiare dello scienziato, datando quindi a partire dalla prosa scientifica del Seicento la sua ampia diffusione nell’italiano contemporaneo (per esempio: scuola media inferiore, liceo scientifico statale, servizio telefonico interurbano, ecc.). Aggiungeremo agli esempi del Durante («il moto generale diurno»; «il moto universale diurno»; «il prisma triangolare cristallino»; «la sfera celeste immobile») altri esempi tratti dal Dialogo; non prima, però, di aver sottolineato il risparmio che questo smtagma consente: il dire che le navigazioni verso occidente saranno comode «mercé dell’aria perpetua orientale» (ultimo esempio in elenco) è soluzione ben più sintetica di quella con frase causale esplicita: “perché l’aria spira costantemente da oriente”. ogni altro corpo integrale mondano [...].
(70).
donde viene la reflessione de i raggi solari incidenti.
(104).
quanto più si accostano i raggi visivi a essi raggi luminosi incidenti
(109).
E questa incorruttibilità da che la cavate voi? SIMP. Dal mancar di contrari immediatamente, e mediatamente dal moto semplice circolare. (109). Par grande per l’oscurità de i luoghi circonvicini ombrosi […]
(115).
libertà di produrre quel che mi dettasse talora il discorso semplice naturale.
(139).
movimenti oriente […].
fatti, come tutti gli altri de’ corpi mondani mobili, da occidente verso (442).
E di questi corpi semplici elementari quali sono i moti loro naturali? 70
(438).
M. DURANTE, Dal latino all’italiano moderno cit., p. 189.
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Ma, signor Simplicio, con due moti retti semplici voi non comporrete mai un moto circolare [...]. (438). le navigazioni verso occidente verranno ad essere comode […] mercé dell’aria perpetua orientale [...]. (468).
Il Durante attribuisce a Galileo, e più generalmente alla prosa scientifica del Seicento, anche il sintagma sostantivo + nomen agentis con funzione attributi «cerchio estremo terminator dell’emisferio apparente» (VII, 381). Il modulo rientra nella categoria di quei “concentrati” nominali, capaci di reggenza sintattica, che Galileo attua anche con participi: «corpi naturali integranti l’universo» (VII, 56) e con aggettivi: «corpi naturali mobili circolarmente» (VII, 69). Rimane da osservare che tutti i fenomeni elencati finora sono compresenti nella scrittura galileiana e si rafforzano a vicenda, producendo quell’effetto di “alta definizione”, linguistica e concettuale al tempo stesso, che ha affascinato con rare eccezioni – lettori capaci di recuperare nella razionalità della scrittura l’appassionata avventura della mente. Un’ultima considerazione, prima di chiudere questo argomento: lo stile nominale è certamente uno degli aspetti qualificanti la “modernità” della prosa galileiana: una modernità che il lettore avverte ma di cui gli è difficile individuare gli elementi costitutivi proprio perché essi suonano normali al suo orecchio assuefatto. Alcuni esempi chiariranno il concetto: il sintagma nominale documentato poco sopra (nome + 2 aggettivi uniti per asindeto) è cosi normalizzato nell’italiano contemporaneo che occorre una competenza storico-linguistica per reagire all’assuefazione e ricuperarne l’originalità secentesca. Altrettanto dicasi per i nomi che reggono una frase subordinata: l’attuale normalità di costruzioni quali «La notizia che sei guarito», «Il pensiero che tu parta», «La preoccupazione che scenda la nebbia» ecc. condiziona il rilievo dell’originalità che costruzioni analoghe rivestivano nel Seicento e in secoli successivi, nei confronti della normale reggenza verbale. L’osservazione può essere rovesciata: se la sintassi galileiana viene avvertita come particolarmente “vicina” a quella dell’attuale uso scritto, ciò può dipendere dal fatto che essa ha avuto notevole incidenza sull’evoluzione dalla nostra lingua. La sintassi dell’italiano contemporaneo, se considerata a livello di scrittura colta, semplifica e dinamizza quella della tradizione letteraria, senza smentirla. Il modello a cui essa si mantiene coerente, nonostante recenti accelerazioni, è quello codificato nel Cinquecento e semplificato, illimpidito, nazionalizzato dal fuso scientifico del Seicento e di un Settecento illuminista e francesizzante. Certamente, fra Galileo e noi c’è il Manzoni e quel testo-Vangelo della lingua
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italiana che sono I promessi sposi (per limitarci alle ascendenze letterarie e non parlare di altre “forze”, attive sulla nostra lingua dall’Unità in poi). Ma, a sua volta, il Manzoni si rifaceva a una tradizione linguistica che era essenzialmente quella rinascimentale, passata attraverso il filtro culturale della rivoluzione scientifica del Sei-Settecento, o trasmessa oralmente attraverso generazioni di fiorentini colti: due volte Galileo, per cosi dire. E vedremo in seguito che, nella prosa dialogica galileiana – pur rispettosa della “grammatica” letteraria – sono presenti anche quei fenomeni di testualità comunicativa che il Manzoni utilizza ampiamente e infittisce nella redazione del 1840, favorendone la diffusione71. Se questa impostazione è giusta, l’opera di Galileo non è soltanto alle radici del pensiero scientifico moderno, ma è anche alla base della nostra più recente storia linguistica.
5.2. «Coesione» linguistica e strutture sintattiche. Passiamo ad un altro aspetto della sintassi galileiana, che però rivela strette connessioni con il fenomeno analizzato finora. Si è già osservato che, nonostante la sintesi realizzata dallo stile nominale, il periodo galileiano rimane complesso. Anche i molti “blocchetti” nominali in esso stipati rischierebbero talvolta di disgregarsi – malgrado la forte malta interna degli accordi morfologici – se Galileo non usasse una serie di accorgimenti per tendere il filo del discorso fra unità sintattiche interne al periodo o tra periodi consecutivi. Uno di questi accorgimenti è la coniunctio relativa: un modulo classico, di livello letterario, che ha l’effetto di rafforzare la coesione sintattica. Saranno necessarie porzioni abbastanza ampie di testo, a documentare l’opportunità della ripresa relativa in corpo di periodo (spesso alla sua fine, con funzione conclusiva) o alla frontiera fra due unità periodali: Servanci dunque le cose dette sin qui per averci messo in considerazione qual de’ due generali discorsi abbia più del probabile: dico quello di Aristotile, per persuaderci, la natura de i corpi sullunari esser generabile e corruttibile etc. [...]; o pur questo del Sig. Salviati, che, supponendo le parti integrali del mondo essere disposte in ottima costituzione, esclude per necessaria conseguenza da i corpi naturali i movimenti retti, come di niuno uso in natura, e stima la Terra esser essa ancora uno de i corpi celesti, adornato di tutte le prerogative che a quelli convengono; il qual discorso sin qui a me consuona assai più che quell’altro. (71). 71 Cfr. F. SABATINI, Questioni di lingua e non di stile. Considerazioni a distanza sulla morfosintassi nei «Promessi Sposi», in AA.VV., Manzoni.- «L’eterno lavoro». Atti del Congresso internazionale sui problemi della lingua e del dialetto nell’opera e negli studi del Manzoni (Milano, 6-9 novembre 1985), Milano 1987, pp. 157-76.
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In questo brano l’aggettivo relativo è attribuito a «discorso» che, iterando l’iniziale «discorsi», realizza già per suo conto una forma lessicale di coesione. La stessa cosa può avvenire in associazione a un nome che sia sinonimo, iponimo, iperonimo o coreferente di altro nome che precede, oppure che abbia un significato riepilogativo di espressioni antecedenti; esemplificheremo quest’ultimo caso, molto frequente in Galileo: Egli è necessario dire, o che egli [il globo terrestre] resti e si conservi perpetuamente immobile nel luogo suo, o che, restando pur sempre nell’istesso luogo, si rivolga in se stesso, o che vadia intorno ad un centro, movendosi per la circonferenza di un cerchio: de i quali accidenti, e Aristotile e Tolomeo e tutti i lor seguaci dicon pure che egli ha osservato sempre ed è per mantenere in eterno, il primo, cioè una perpetua quiete nel medesimo luogo. (70).
Da un brano più ampio emergerà la densità e la varietà d’impiego della ripresa relativa (ma sono anche presenti, e collaboranti all’economia sintattica e alla coesione testuale, molti dei fenomeni già osservati in precedenza): Conforme è sicuramente la Luna alla Terra nella figura, la quale indubitabilmente è sferica, come di necessità si conclude dal vedersi il suo disco perfettamente circolare, e dalla maniera del ricevere il lume del Sole, dal quale, se la superficie sua fusse piana, verrebbe tutta nell’istesso tempo vestita, e parimente poi tutta, pur in un istesso momento, spogliata di luce, e non prima le parti che riguardano verso il Sole e successivamente le seguenti, si che giunta all’opposizione, e non prima, resta tutto l’apparente disco illustrato; di che, all’incontro, accaderebbe tutto l’apposito, quando la sua visibil superficie fusse concava, cioè la illuminazione comincierebbe dalle parti avverse al Sole. Secondariamente, ella è, come la Terra, per se stessa oscura ed opaca, per la quale opacità è atta a ricevere ed a ripercuotere il lume del Sole, il che, quando ella non fusse tale, far non potrebbe. Terzo, io tengo la sua materia densissima e solidissima non meno della Terra; di che mi è argomento assai chiaro l’esser la sua superficie per la maggior parte ineguale, per le molte eminenze e cavità che vi si scorgono mercé del telescopio: delle quali eminenze ve ne son molte in tutto e per tutto simili alle nostre più aspre e scoscese montagne [...]. (87-88).
La coesione del periodo si realizza anche con la ripresa appositiva, costituita da un nome o da un sintagma nominale che riassume il discorso precedente, recuperandolo all’attenzione del lettore: Vedesi in oltre che Aristotile accenna, un solo esser al mondo il moto circolare, ed in conseguenza un solo centro, al quale solo si riferiscano i movimenti retti ’in su e in giù; tutti indizi che egli ha mira di cambiarci le carte in mano […]. (38). poco fa volevi che il moto semplice e il composto m’insegnassero quali siano i corpi
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semplici e quali i misti; ed ora volete che da i corpi semplici e da i misti io venga in cognizione di qual sia il moto semplice e quale il composto: regola eccellente per non saper mai conoscer né i moti né i corpi. (41). se però noi non volessimo dir con Platone, che anco i corpi mondani, dopo l’essere stati fabbricati e del tutto stabiliti furono per alcun tempo dal suo Fattore mossi di moto retto, ma che dopo l’esser pervenuti m certi e determinati luoghi, furon rivolti a uno a uno m giro, passando dal moto retto al circolare dove poi si son mantenuti e tuttavia si conservano: pensiero altissimo e degno ben di Platone [...]. (43). Or di quale uso potrebber esser mai al genere umano le generazioni che si facessero nella Luna o in altro pianeta? se già voi non voleste dire che nella Luna ancora fussero uomini, che godesser de’ suoi frutti; pensiero, o favoloso o empio. (85).
Questi esempi autorizzano un’osservazione che dal piano sintattico rinvia a quello concettuale: la ripresa appositiva, strumento di sintesi e di coesione sintattica, serve anche a scandire nel discorso il passaggio dal piano dell’esposizione a quello del commento. Tutte le opposizioni esemplificate sopra rappresentano una chiosa valutativa di ciò che la precede. A restaurare equilibri minacciati dalla complessità concettuale e sintattica e a rafforzare la Coesione testuale possono servire soluzioni meno vistose delle già elencate; per esempio la sola ripetizione lessicale: ricomparsa della stessa parola o – più spesso, a evitare monotonia – di suoi sinonimi o di suoi derivati: Ora, quando la vostra opposizione sia concludente, bisognerà che, abbassando noi l’occhio tanto che, rimirando l’altra maggior parte, meno illuminata, in iscorcio, ella ci apparisca non più larga dell’altra pia illuminata, e che in conseguenza non sia veduta sotto maggior angolo che quella, bisognerà dico, che il suo lume si accresca si, che ci sembri cosi lucida come l’altra. (108). Ora, questa accelerazion di moto non si farà se non quando il mobile nel muoversi acquista; né altro è l’acquisto suo se non l’avvicinarsi al luogo desiderato [...]. (44). La considerazione per la sua novità è bellissima, e quando l’effetto sia vero, è meraviglioso: e della sua verità io non ne dubito [...]. (181).
Uno degli espedienti più usati da Galileo, per tendere il filo logico e linguistico del discorso, è la collocazione del baricentro sintattico e semantico del periodo alla fine di esso. Lo scrittore, cioè, ritarda la frase reggente tenendo in sospensione il lettore fino alla conclusione del discorso. Si veda, nei densi periodi che seguono, come l’anticipo delle oggettive e di altre frasi secondarie, esplicite o implicite, sposti alla fine l’equilibrio sintattico dell’intera costruzione: Che poi, venendo dalla semplice lunghezza costituita quella magnitudine che si chiama
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linea, aggiunta la larghezza si costituisca la superficie, e sopragiunta l’altezza o profondità ne risulti il corpo, e che doppo queste tre dimensioni non si dia passaggio ad altra, si che in queste tre sole si termini l’integrità e per cosi dire la totalità, averei ben desiderato che da Aristotile mi fusse stato dimostrato con necessità [...]. (34). Ma se nel passar archi piccoli, quali sarebbono, per esempio, i 12 segni, e’ mantenga un moto regolarissimo, o pure proceda con passi or più veloci alquanto ed or più lenti, come è necessario che segua quando il movimento annuo sia solo in apparenza del Sole, ma in realtà della Terra accompagnata dalla Luna, ciò non è stato sin qui osservato, né forse ricercato. (481).
È una struttura a piramide rovesciata che, a partire dalle propaggini iniziali del periodo, convoglia l’attenzione del lettore fino al vertice di esso, senza consentirle rilassamenti o ristagni. In una esecuzione orale l’intonazione sospensiva dovrebbe essere protratta fino allo scioglimento finale. Possiamo mettere in evidenza questa struttura piramidale con un’opportuna dislocazione grafica dei suoi elementi72:
venendo dalla semplice lunghezza costituita quella magnitudine che si chiama linea
aggiunta la larghezza
Che poi si costituisca la superficie
sopragiunta l’altezza o profondità
e ne risulti il corpo e
che doppo queste tre dimensioni non si dia passaggio ad altra
sì che in queste tre sole si termini l’integrità e per così dire la totalità
a v e r e i b e n d e s i d e r a t o che da Aristotile mi fusse stato dimostrato con necessità
La costruzione è frequente, in Galileo; essa compare anche in varianti che eliminano ogni monotonia. Il periodo che segue (VII, 35), ad esempio, ce ne propone uno sfruttamento in chiasmo73: 72 Segnaliamo in tondo spazieggiato la frase principale; in tondo le subordinate di 1° grado; in corsivo le subordinate di grado superiore al 1°. 73 Il chiasmo è una delle figure retoriche più congeniali a Galileo, che lo utilizza in periodi complessi come quello che stiamo esaminando o anche in periodi più snelli e in realizzazioni più puntuali: «convengo con voi in una parte, e nell’altra dissento» (VII, 94); «La velocità si va sempre aumentando, e in conseguenza sempre mutando la semplicità» (VII, 41); «ed i moti semplici gli attribuisce a’ corpi semplici ed a’ composti il composto» (VII, 40); «chiamando quella perfetta, ed imperfetta questa», ecc.
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perché principio, mezo e fine son 3
ma che poi il numero 3 sia numero perfetto
ed
abbia ad aver facilità
di conferir perfezione
a chi l’averà
non sento io cosa che mi muova a concederlo
e
non intendo e non credo
che, verbigrazia, per le gambe il numero 3 sia più perfetto che ‘l ( o il 2
né
che ‘l numero 4 sia d’imperfezione a gli elementi
so
e
che più perfetto fusse ch’ e’ fusser 3
L’esempio precedente fa parte dello scambio iniziale di battute fra Salviati e Simplicio; appartiene dunque a un contesto particolarmente sorvegliato perché è quello che presenta i due personaggi al lettore e attribuisce loro un “ruolo”. Si spiega quindi che Galileo esasperi il contrasto fra i due stili di pensiero e di lingua. La sintassi architettonica e solenne di Salviati contrasta qui, più che altrove, con lo stile paratattico, segmentato e affannoso del peripatetico. Dallo stesso contesto (VIII, 35) è prelevato il periodo che segue e che permette di apprezzare un’altra splendida variante della struttura piramidale, e cioè la sua duplicazione argomentativa:
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Che i Pittagorici avessero in somma stima la scienza de i numeri
e che Platone stesso ammirasse l’intelletto umano
e lo stimasse partecipe di divinità solo per l’intender egli la natura de’ numeri
io benissimo lo so né sarei lontano dal ferne l’istesso giudizio
ma che i misteri
sieno le sciocchezze che vanno per le bocche e per le carte del volgo
per i quali Pittagora e la sua setta avevano in tanta venerazione la scienza de’ numeri
non credo io in veruna maniera
Esistono ovviamente realizzazioni più agili di questi stessi moduli. Ecco altri esempi, progressivamente sempre più snelli, di costruzione a chiasmo: Che nella Luna o in altro pianeta si generino o erbe o piante o animali simili ai nostri, o vi si facciano pioggie, venti, tuoni, come intorno alla Terra, io non lo so e non lo credo [...] ma non intendo già come tuttavolta che non vi si generino cose simili alle nostre, si deva di necessità concludere che niuna alterazione vi si faccia, né vi possano essere altre cose che si mutino, si generino, e si dissolvano, non solamente diverse dalle nostre, ma lontanisime dalla nostra immaginazione, ed in somma del tutto a noi inescogitabili. (85-86). Che l’illuminazione della Terra, quanto alle diverse figure, si rappresentasse, a chi fusse nella Luna, simile in tutto a quello che noi scorgiamo nella Luna, l’intendo io benissimo; ma non resto già capace, come ella si mostrasse fatta coll’istesso periodo, avvenga che quello che fa l’illuminazion del Sole nella superficie lunare in un mese, lo fa nella terrestre in ventiquattr’ore. (88).
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Che mutazioni così vaste sieno seguite nella Luna, io non ardirei di dirlo; ma non sono anco sicuro che non ve ne possano esser seguite [...]. (73).
E ora altri esempi di duplicazione (in climax argomentativo) della costruzione piramidale: Che le parti di questo globo più interne siano più compresse, e per ciò più costipate e solide, e più e più tali secondo che elle si profondan più, lo concedo, e lo concede anco Aristotile; ma che elle degenerino, e sieno altro che terra della medesima sorta che questa delle parti supefficiali, non sento cosa che mi necessiti a concederlo. (429). Se voi volete dire di non averlo potuto persuadere loro si che e’ l’intendino, io molto me ne meraviglio […]; ma se voi intendete di non avergli persuasi si che e’ lo credano, di questo non mi meraviglio punto [...]. (92).
Quando questi schemi si applicano a periodi molto complessi (come quelli che abbiamo esemplificato in precedenza) possono provocare una sensazione di pesantezza, in un lettore che ami lo stile coupé. Ma quante cose riesce a inserire, Galileo, in un solo periodo, e quale lucidità conserva il discorso, pur nell’estrema densità concettuale! Chi provasse a trascrivere quei periodi modificandone la struttura, o operando delle trasformazioni (per esempio segmentando il periodo in unità più brevi, sciogliendo le frasi implicite, ecc.) constaterebbe che il discorso si snerva, che perde la sua «scolpitezza evidente». D’altra parte il lettore si abitua a certi moduli sintattici ricorrenti; un «Che ...» iniziale – usato anche pleonasticamente da Galileo – già segnala al lettore la complessità del periodo e la necessità di “trattenere” fiato e attenzione fino alla conclusione di esso. Si legga il passo seguente: Che se il moto retto è semplice per la semplicità della linea retta, e se il moto semplice è naturale sia pur egli fatto per qualsivoglia verso, dico in su, in giù, innanzi, in dietro, a destra ed a sinistra e se altra differenza si può immaginare, purché sia retto, dovrà convenire a qualche corpo naturale semplice. (40).
Questa struttura non è limitata ai casi di anticipo della frase oggettiva o di quella ipotetica; essa compare spesso anche in periodi di intonazione interrogativa, aumentandone la tensione: Ma quando, senza introdurr’altre sfere incognite e vastissima, senza altri movimenti o rapimenti participati, col lasciare a ciascheduna sfera il suo solo e semplice movimento, senza mescolar movimenti contraria, ma fargli tutti per il medesimo verso, come è necessario ch’e’ sieno dependendo tutti da un sol principio, tutte le cose caminano e rispondono con perfettissirna armonia, perché rifiutar questo partito, e dar assenso a quelle cosi strane e laboriose condizioni? (148).
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Ora, se il moto eterno e la quiete eterna sono accidenti tanto principali in natura, e tanto diversi che da essi non posson dipendere se non diversissime conseguenze, e massime applicati al Sole ed alla Terra, corpi tanto vasti ed insigni nell’universo, ed essendo di più impossibile che l’una delle due proposizioni contraddittorie non sia vera e l’altra falsa, e non si potendo per prove della falsa produrr’altro che fallacie, ed essendo la vera persuasibile per ogni genere di ragioni concludenti e dimostrative; come volete che quello di voi che si sarà appreso a sostener la proposizion vera non mi abbia a persuadere? (156-57). Ma perché con queste cagion primarie ed universali si mescolano poi le secondarie e particolari, potenti a far molte alterazioni, e sono, queste secondarie, parte inosservabili ed incostante, qual è, per esempio, l’alterazion de i venti, e parte, benché determinate e ferme, non però osservate per la loro multiplicità, come sono le lunghezze de i seni, le loro diverse inclinazioni verso questa o quella parte, le tante e tanto diverse profondità dell’acque; chi potrà, se non forse doppo lunghissime osservazioni e ben sicure relazioni, formarne istorie cosi spedite che possano servir come ipotesi e supposizioni sicure a chi volesse con le lor combinazioni render ragioni adeguate di tutte le apparenze, e dirò anomalie e particolari difformità, che ne i movimenti dell’acque possono scorgersi? (485).
Periodo particolarmente complesso, quest’ultimo, che impone a Galileo l’uso di mezzi ausiliari, a rinforzo dell’ormai nota struttura: – la “ripresa” realizzata con la ripetizione di una parola (preceduta da un attualizzante deittico): «le [cagioni] secondarie e particolari e sono, queste secondarie [...]»; – le geometrie simmetriche (spesso contrappositive) di tipo lessicale e sintattico: «cagioni primarie e universali… // ... [cagioni] secondarie e particolari»; «parte... // ... parte»; «inosservabili ed incostanti...//.. determinate e ferme, non però osservate»; «qual è l’alterazion de i venti… // ... come sono le lunghezze de i seni». Collaborano alla coesione, e quindi alla stabilità sintattica del periodo anche la frase consecutiva, frequentissima in Galileo («così spedite che possano servire») e altre espressioni correlative, iterative, ecc. («verso questa o quella parte»; «tante e tanto diverse»). Ma, ovviamente, la coesione si affida anche a quella tramatura morfologica del testo su cui abbiamo a lungo insistito, in precedenza, e che si realizza con “accordi” in numero e in genere fra nomi, participi, aggettivi. Seguiamo, all’interno del periodo, una di queste “trame” morfologiche:
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le [cagioni] secondarie e particolari potenti […] inosservabili ed incostanti determinate e ferme [... ] osservate [...].
5.3. Sintassi e testualità. Nel paragrafo precedente abbiamo interpretato la struttura a piramide rovesciata come espediente per ritardare lo scioglimento logico-semantico del discorso e quindi per tenere agganciata l’attenzione del lettore fino alla conclusione dell’unità periodale. Se si ripercorreranno gli esempi e se si cercheranno nel testo galileiano conferme di questa struttura, si potrà constatare che essa viene catalizzata soprattutto da situazioni dialogiche che implicano una particolare tensione dialettica, argomentativa. In contesti di tipo espositivo prevale invece la struttura inversa, che antiche la base sintattica ai suoi sviluppi e realizza una progressione lineare del periodo. I due tipi di organizzazione del discorso sono disponibili, in Galileo, a diverse tattiche del pensiero e a diverse funzioni pragmatiche della comunicazione. La struttura a piramide rovesciata è quindi interpretabile anche come manifestazione vistosa di una strategia galileiana che movimenta la linea sintattica, anticipandone o posticipandone certi segmenti allo scopo di metterli in rilievo e di richiamare su di essi l’attenzione del lettore. Sono pertanto frequenti, nel Dialogo, fenomeni di tematizzazione del discorso. Si tratta, come è noto, della dislocazione – nella catena sintagmatica del segmento che funziona come tema, o parte “nota” della comunicazione, a fianco del quale si sviluppa il rema, o segmento che fornisce l’informazione «nuova» su quel tema. Lo scopo è quello di isolare il segmento tematico collocandolo in una posizione marcata; la coesione non ne soffre perché il segmento tematizzato è richiamato, nella parte rematica, da un elemento (di solito un pronome) che ad esso si riferisce. La segmentazione della frase, che questo modulo comporta (per esempio: «La velocità della carrozza / bisogna supporla di un grado»: VII, 196) nei confronti dell’altemativa non tematizzata, viene di solito considerata funzionale all’immediatezza e vivacità del parlato o di una lingua scritta permeabile a forme parlate o mimetica di esse. Questo è, senza dubbio, uno degli effetti che Galileo tende a realizzare negli scambi dialogici; ma la rottura della continuità e progressione del periodo finalizzata soprattutto alla creazione di una gerarchia logico-semantica delle unità interne all’enunciato. La tematizzazione del discorso è uno dei mezzi (non il solo) con cui Galileo regola la distribuzione dell’informazione, nell’enunciato, adeguandola ad esigenze testuali, comunicative.
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Si rifletta, ad esempio, sul periodo iniziale della dedica del Dialogo al Granduca di Toscana: Serenissimo Gran Duca, la differenza che è tra gli uomini e gli altri animali, per grandissima che ella sia, chi dicesse poter darsi poco dissimile tra gli stessi uomini, forse non parlerebbe fuor di ragione. (27).
Si individuano due nuclei semantici, in questo periodo: uno, che Galileo considera largamente condiviso dal lettore (“c’è una notevole differenza fra gli uomini e gli animali”), e che quindi può essere eletto a tema del discorso e anticipato; e uno che invece deve essere “contrattato” con il lettore (“differenza analoga esiste fra diversi tipi di uomini”) perché estende la nota e scontata opposizione «uomo» // «animale» a una coppia nuova: «uomo filosofo» // «uomo non-filosofo». Per apprezzare l’audacia sintattica di questo inizio (al limite dell’anacoluto, direbbero alcuni), basterà affiancare al periodo una sua trascrizione rispettosa della collocazione grammaticalmente normale: “Forse non parlerebbe fuor di ragione chi dicesse che la differenza che è tra gli uomini e gli altri animali, per grandissima ch’ella sia, poter darsi poco dissimile tra gli stessi uomini”. La coesione del periodo è tutelata, in casi come questo, dalla tramatura morfologica di esso, da eventuali ripetizioni, da richiami realizzati con pronomi: Queste osservazioni, ancorché navigando non mi sia caduto in mente di farle a posta, tuttavia son più che sicuro che succederanno nella maniera raccontata [...]. (214). Quel ch’io senta dell’opinion di Platone, posso significarvelo con parole ed ancora con fatti […].
(217).
Talché le diverse nature dell’acqua, della terra, dell’aria, e dell’altre cose che sono per questi elementi, voi non l’arguite da quelle operazioni [...]. (290). Quando poi la disparità d’essenza tra la Terra e i corpi celesti la vuol quest’autore inferire dall’incorruttibilità di quelli e corruttibilità di questa [...]. (292). Della vanità poi di queste retoriche illazioni, se n’è parlato abbastanza.
(292).
Imperocché del mostrarsi tal luce secondaria più vivace intorno all’estremo limbo, ne è cagione la brevità dello spazio da esser penetrato dai raggi del Sole [...]. (117).
Questo modulo è ulteriormente rafforzato dal frequentissimo impiego di locuzioni preposizionali del tipo quanto a.... circa a..., ecc., a cui la grammatica assegna valore limitativo, ma che – proprio perché perimetrano un particolare elemento dell’enunciato – lo isolano e lo valorizzano:
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quanto al movimento per linea retta, lascisi che la natura se ne serva per ridur al suo tutto le particelle della terra […]. (70). quanto alle comete, io, quant’a me, poca difficoltà farei nel porle generate sotto o sopra la Luna. (76-77). Quanto alle stelle nuove, l’Antiticone se ne sbriga benissimo in quattro parole [...].(77). Circa poi alle materie che alcuni dicono generarsi e dissolversi in faccia al Sole, ei non ne fa menzione alcuna [...]. (77). Circa il quinto riscontro, lo ammetto tutto. […].
(95).
Quanto si può perdere di continuità e di progressione all’interno della singola unità sintattica può essere compensato da un aumento della coesione fra unità diverse, quando l’elemento anticipato richiami (ripeta, riassuma, commenti, ecc.) l’unità precedente o parti di essa. Ad esempio: la repugnanza e l’inclinazione son sempre di eguali forze; dalla quale egualità ne risulta una non ritardata né accelerata velocità, cioè l’uniformità del moto. Da questa uniformità e dall’essere terminato ne può seguire la continuazion perpetua, col reiterar sempre le circolazioni […]. (56). mi è argomento assai chiaro l’esser la sua superficie per la maggior parte ineguale, per le molte eminenze e cavità che vi si scorgono mercé del telescopio: delle quali eminze ve ne son molte in tutto e per tutto simili alle nostre più aspre e scoscese montagne [...]. (87-88).
Il “rilievo” di un elemento dell’enunciato può essere ottenuto anche con mezzi che non investono la collocazione sintattica: per esempio, con l’uso di avverbi come appunto, proprio o di frasi del tipo «quel che più importa» (VII, 41) che Localizzano l’attenzione sul segmento a cui si riferiscono. Ma succede spesso che questi espedienti si associno ai fenomeni di dislocazione sintattica, rafforzandone l’effetto. Negli esempi che seguono l’elemento dislocato è al tempo stesso una divisio che segnala e anticipa al lettore l’articolazione bipartita o tripartita del discorso: Tre capi principali si tratteranno. Prima cercherò di mostrare, tutte l’esperienze fattibili nella Terra essere mezi insufficienti a concluder la sua mobilità, ma indifferentemente potersi adattare cosi alla Terra mobile, come anco quiescente [...] Secondariamente si esamineranno li fenomeni celesti [...] Nel terzo luogo proporrò [...]. (30). Due cose adunque si ricercano, acciò che un mobile senza intermissione possa muoversi eternamente: l’una è che il moto possa di sua natura essere interminato e infinito; e l’altra, che il mobile sia parimente incorruttibile ed eterno. (161).
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Due posizioni, o vogliam dire due conclusioni, son quelle che Aristotile vuole impugnare: l’una è di quelli che, collocando la Terra nel mezo, la facesser muovere in se stessa circa ’l proprio centro: l’altra è di quelli che, costituendola lontana dal mezo, la facessero andar con moto circolare intorno ad esso mezo: ed amendue queste posizioni impugna congiuntamente con l’istesso argomento. Ora io dico che egli erra nell’una e nell’altro impugnazione, e che l’errore contro la prima posizione è di uno equivoco o paralogismo, e contro alla seconda è una conseguenza falsa. Venghiamo alla prima posizione […] Vengo ora alla seconda posizione [...]. (164).
Il terzo esempio ci mostra quanto sia vario il “guardaroba” sintattico di Galileo; si noti come collabori alla “messa in rilievo” la scissione in due frasi («Due posizioni [...] son quelle/ che Aristotile vuole impugnare [...]») di una frase sola a normale struttura SVO (soggetto-verbo-oggetto: «Aristotele vuole impugnare due posizioni...») o a struttura già più marcata OVS, OSV, ecc. («Due posizioni […] Aristotile vuole impugnare»; «Due posizioni […] vuole impugnare Aristotile»). È un modulo (essere / pronome dimostrativo / frase relativa) che Galileo usa molto spesso, per identificare un elemento dell’enunciato e metterlo in evidenza contrastiva con ciò che segue: Tolomeo e ’l Copernico furon quelli / che si altamente lessero, s’affisarono e filosofarono nella mondana costituzione [...]. (27). È il primo passo del progresso peripatetico quello / dove Aristotile prova la integrità e perfezione del mondo [...]. (33). È dunque, la penuria e l’abbondanza quella/ che mette in prezzo ed avvilisce le cose appresso il volgo [...]. (84).
Più raro il caso in cui al pronome dimostrativo e al verbo essere segue un che subordinante: e quel che ci è anche di più degno di considerazione è che dentro a quel medesimo incavo si formeranno sfere di diverse grandezze. (235-36).
Tra i fenomeni che movimentano la struttura sintattica includiamo anche le frasi incidentali. Esse infatti, disponendosi su “piani” diversi da quello dell’enunciazione, collaborano a dare spessore comunicativo al discorso. In particolare: - affiancano all’enunciato un “commento” che ne precisa la validità assoluta o relativa (in rapporto a chi parla o ad altri), o il grado di probabilità: dalle quali due cognizioni si raccoglie quanto [...] il moto di Giove è più veloce del mo-
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to di Saturno; e trovato (come in effetto è) che Giove si muove più velocemente, conviene che [...] Giove sia sceso più che Saturno [...]. (53). La costituzione dell’universo, tra i naturali apprensibili, per mio credere, può mettersi in primo luogo [...]. (27). vedere se per avventura (si come io stimo) incamminandoci per altra strada ci indrizzassimo a più diritto e sicuro cammino [...]. (42). potendo esser (come afferma il Copernico) che l’immensa lontananza della sfera stellata renda inosservabili cotali minime apparenze. (414). ma egli di ciò non ci ha fatti sicuri, né forse ce ne poteva fare, e forse (e questo è più credibile) tal cautela è stata tralasciata da gli osservatori. (344). Erano casualmente occorsi (come interviene) varii discorsi alla spezzata tra questi signori [...]. (31).
- rinviano a luoghi precedenti (richiamandoli alla memoria) o seguenti (preannunciandoli); questi legami anaforici e cataforici realizzano coesione a distanza fra diverse parti del testo: ridurre nella sua natural costituzione qualche particella di alcuno de’ corpi integrali che per qualche accidente fusse stata rimossa e separata dal suo tutto, come di sopra dicemmo. (69). Aristotile antepone (come più volte s’è detto) l’esperienze sensate a tutti i discorsi […] (76). non vi bisogna chiamar principio interno né esterno (come a suo luogo dimostrerò) dal quale, come da causa, venga prodotto. (287).
- regolano conativamente e faticamente la ricezione del messaggio; per esempio inducono il ricevente a focalizzare l’attenzione su un particolare elemento di esso: si che (notate bene) la corruzzione e generazione non è se non ne i contrari [...]. (62). Ma perché (notate bene) la lontananza del firmamento, in relazione alla piccolezza della Terra, come s’è già detto, si reputa come infinita [...]. (311).
- attenuano l’impatto che una parola o un termine insoliti (o comunque bisognosi di essere espressi con qualche “riguardo verbale”) possono produrre sul destinatario del messaggio: Ma (siami permesso d’usar questo termine) la pusillanimità degli ingegni comuni è giusta a segno, che [...] recusano di ascoltare […] (426). Letteratura italiana Einaudi
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quell’effetto che i giuocatori di palla a corda più esperti fanno con loro vantaggio, cioè d’ingannar l’avversario col trinciar (ché tale è il loro termine) la palla [...]. (187). le materie gravissime [...] se, lasciate da una altissima torre, le cui parete sono dirittissime gli vengono, per così dire, lambendo […] (58).
- forniscono una spiegazione o una informazione accessoria, sottraendola alla linea del discorso e quindi evitando un suo appesantimento: costituire il centro della pupilla dell’occhio nel centro del sestante (strumento adoprato nell’osservare gl’intervalli tra due stelle), ma tenendolo elevato sopra detto centro [...]. (344). si volga in se stesso non intorno all’asse di essa eclittica (Che sarebbe l’asse del movimento annuo della Terra), ma sopra un inclinato [...]. (374).
Nel classificare, ovviamente, si semplifica e si irrigidisce una realtà testuale ben più sfumata e complessa. Sarebbe riduttivo, per esempio, interpretare come puro “rinvio” l’incidentale del brano che segue; con essa Galileo non si limita a richiamare un concetto già espresso, ma né ribadisce l’importanza, giustificando la ripetizione: ma quelle esperienze che apertamente contrariano al moto annuo, son ben di tanto più apparente repugnanza, che (lo torno a dire) non posso trovar termine all’ammirazion mia, come abbia possuto in Aristarco e nel Copernico far la ragione tanta violenza al senso, che contro a questo ella si sia fatta padrona della loro credulità. (355) .
Altrettanto riduttivo sarebbe trascurare la componente fatica Presente in molte incidentali; nell’esempio che segue, il parlante (Salviati) non si limita ad attribuire un’osservazione, all’interlocutore (Sagredo), ma – approvandola – migliora l’interazione dialogica; minuzia forse, ma è anche di queste «solari inezie» che è fatta la lingua del Dialogo: che la Terra (come bene avete notato) non vede altro che la metà della Luna […]. (90)
Si può concludere che l’evidenza, la chiarezza, l’eleganza, l’efficacia della prosa galileiana sono il risultato di scelte attentamente calibrate: c’è un’“officina” linguistica che Galileo frequenta non meno di quella meccanica, anche se poi il risultato non rivela fatica, e l’effetto può essere quello della «naturalezza» tanto apprezzata dai lettori rondisti. 74 I. CALVINO, Due interviste su scienza e letteratura (1968), in ID., Una pietra sopra, Torino 1980, pp. 186-87; ma di Calvino si vedano anche, su Galileo: Lezioni americane, Milano 1988, pp. 43-44; Il libro della Natura in Galileo (1985), in ID., Perché leggere i classici, Milano 1991, pp. 102-10.
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È il lavoro di combinazione sinatattica (associato a quello di raffinata selezione lessicale) che fa della prosa di Galileo un modello di compostezza, di eleganza, di vigore precisione dei particolari. È comprensibile che Calvino, affascinato dall’«esattezza» del pensiero e della parole di Galileo, lo abbia giudicato «il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo»74: un giudizio che forse non avremmo avuto l’audacia di formulare, ma che ci sentiamo di sottoscrivere.
6. Nota bibliografica. L’opera di Galileo gode del privilegio – raro per testi scientifici – di una edizione moderna, filologicamente curata, a cui si può sempre fare riferimento anche quando – per comodità di lettura – si utilizzino edizioni parziali o edizioni di singole opere: G. GALILEI, Le Opere, edizione nazionale a cura di A. Favaro, 20 voll. (il terzo è diviso in due tomi), Barbera, Firenze 1890-1909 (ristampe: 192939; 1964-66; 1968). Può essere utile qualche indicazione sul contenuto dei volumi: I. Opere del periodo pisano. II. Opere del periodo padovano. III. Sidereus Nuncius (1610). IV. Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (1612); Risposta alle opposizioni di Lodovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro il trattato delle cose che stanno su l’acqua o che in quella si muovono (1615). V. Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, comprese in tre lettere scritte a Marco Velseri (1613); Lettera a D. Benedetto Castelli (1613); Lettere a Mons. Piero Dini (1615); Lettera a Madama Cristina di Lorena, Granduchessa di Toscana (1615); Discorso delflusso e riflusso del mare (1616). VI. Discorso delle comete (1619); Il Saggiatore (1623); Lettera a Francesco Ingoli in risposta alla «Disputatio de situ et quiete Terrae» (1624). VII. Dialogo dove ne i congressi di quattro giornate si discorre sopra i due Massimi Sistemi delmondo, Tolemaico e Copernicano, proponendo indeterminatamente le ragioni filosofiche e naturali tanto per l’una, quanto per l’altra parte (1632).
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VIII. Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla meccanica e i movimenti locali (1638); Lettera al Principe Leopoldo di Toscana sul candore lunare (1640). IX. Scritti letterari. X-XVIII. Carteggio dal 1574 al 1642. XIX. Biografie di Galileo scritte dai contemporanei. XX. Indice dei volumi; Indice dei nomi e delle cose notevoli. Fra le edizioni parziali di opere galileiane indichiamo: Opere, a cura di P. Pagnini, 5 voll., Firenze 1935; Opere, a cura di S. Timpanaro sr, 2 voll., Milano 193638; Opere, a cura di F. Brunetti, 2 VOII., Torino 1966. Esistono buone edizioni del singolo Dialogo, fra le quali segnaliamo: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, a cura di F. Flora, 2 voll., Milano 1959; Dialogo sui massimi sistemi, a cura di F. Brunetti, Bari 1963; Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, a cura di L. Sosio, Torino1970. Elenchiamo ora scritti che trattano della vita dello scienziato e della sua opera, da un punto di vista storico-scientifico e filosofico: A. BANFI, Vita di Galileo Galilei (1930), Milano 1962; L. GEYMONAT, Galileo Galilei (1957), Torino 1984; E. GARIN, Galileo e la cultura del suo tempo e Galileo filosofo, in ID., Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, Bari 1965, pp. 109-46 e 147-70; P. ROSSI, Profilo di Galileo Galilei (1962), in ID., Aspetti della rivoluzione scientifica, Napoli 1971, pp. 85-150; A. PASQUINELLI, Letture galileiane, Bologna 1968; p. GALLUZZI, Momento. Studi galileiani, Roma 1979; S. DRAKE, Galileo, 1980 (trad. it. Milano 1981); G. ZANARINI, Rileggendo Galileo: riflessioni sul linguaggio della formazione scientifica, in «Giornale di Fisica», XXIII (1982), 2, pp. 109-25; ID., Dialogo con Galileo: per una lettura psicoanalitica dei testi scientifici, Bologna 1983. Contributi importanti si trovano all’interno di opere miscellanee e di atti di convegni su Galileo: Saggi su Galileo Galilei, a cura di C. Maccagni, 3 voll., Firenze 1967-72; Galileo, a cura di A. Carugo, Milano 1978; Giornate lincee indette in occasione del 35° anniversario della pubblicazione del «Dialogo sopra i Massimi sistemi» di Galileo Galilei (Roma, 6-7 maggio 1982), Roma 1983; Novità celesti e crisi del sapere. Atti del convegno internazionale di studi galileiani (1983), a cura di P. Galluzzi, Firenze 1984; Galileo e Napoli. Atti del convegno di Napoli (12-14 aprile 1984), a cura di F. Lomonaco e M. Torrini, Napoli 1987. Non sono molti gli scritti che studiano l’opera di Galileo da un punto di vista storico-letterario e linguistico; stupisce soprattutto la loro rarefazione negli ultimi
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decenni: L. OLSCHKI, Geschichte der neusprachlichen wissenschaftlichen Literatur, III. Galileo und seine Zeit, Halle 1927; U. Bosco, Galileo scrittore (1932), in ID., Saggi sul Rinascimento italiano, Firenze 1970; B. MIGLIORINI, Galileo e la lingua italiana (1942), in ID., Lingua e cultura, Roma 1948, pp. 135-59; R. SPONGANO, La prosa di Galileo e altri scritti (1948), Messina-Firenze 1949; T. BOLELLI, Lingua e stile di Galileo, in «Supplemento al Nuovo Cimento», serie X, II (1955), pp. 1173-92; G. MARZOT, Variazioni barocche nella prosa del Galilei, in «Convivium», XXIII (1955), pp. 43 –67; M. L. ALTIERI BIAGI, Galileo e la terminologia tecnico-scientifica, Firenze 1965; G. VARANINI, Galileo critico e prosatore, Verona 1967; A. ASOR ROSA, Galilei e la nuova scienza, in La letteratura italiana. Storia e testi, diretta da C. Muscetta, V/1. Il Seicento, Bari 1974, pp. 245328; M. PASTORE STOCCHI, «Galilei, Galileo», in Dizionario critico della letteratura italiana (1973), a cura di V. Branca, Torino 1986, II, pp. 316-28; A. BATTISTINI, introduzione a Galilei, Bari 1989, pp. 171-89; ID., Gli «aculei» ironici della lingua di Galileo, in «Lettere italiane», XXX (1978), 3, pp. 289-332; ID., Scienza e retorica. L’esempio di Galileo, in Come si legge un testo. Da Dante a Montale, a cura di M. L. Altieri Biagi, Milano 1989, pp. 77-100. Segnaliamo inoltre opere che trattano specificamente del Dialogo: U. FORTI, Introduzione storica alla lettura del «Dialogo sui massimi sistemi» di Galileo Galilei, Bologna 1931; F. ENRIQUEZ, Introduzione al Dialogo dei massimi sistemi, Roma 1945; c. M USCETTA, Simplicio e la «Commedia filosofica» dei «Massimi sistemi» (1964), in ID., Realismo, neorealismo, controrealismo, Milano 1976, pp. 61-213; B. VICKERS, Epideictic Rhetoric in Galileo’s Dialogo, in «Annali dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze», VIII (1983), 2, pp. 69-101. Ricordiamo infine che l’intero volume degli Atti dei Convegni Lincei, già citato nella sezione dedicata agli atti di convegni e ad opere miscellanee, tratta in particolare del Dialogo. Poiché questa bibliografia privilegia l’aspetto storico-letterario e storico-linguistico (rimanendo, anche in questi ambiti, piuttosto selettiva) sarà opportuno fornire le indicazioni utili ad integrarla e atecuperare la copiosissima produzione storico-scientifica e filosofica concernente Galileo. Prima di tutto segnaliamo alcuni repertori bibliografici: Bibliografia galileiana (1568-1895), a cura di A. Carli e A. Favaro, Roma 1896; di G. Boffito, Roma 1943 (si tratta di un Supplemento all’opera precedente). Per la produzione più recente rinviamo al volume Galileo: Man of science, a
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cura di E. McMullin, New York 1968, Appendice A: Bibliografia galileiana (19401964), a cura di E. McMuflin; e alla Bibliografia contenuta nel volume di A. BATTISTINI, Introduzione a Galilei, Bari 1989, pp. 171-89.
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