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Italian Pages 224 [218] Year 2021
Il Pensiero rivista di filosofia Anno 2020 | Volume LIX | Fascicolo 2
Dialettica negativa e immagine dialettica
Andrew Benjamin Mauro Bozzetti Lucio Cortella Eli Friedlander Maria Filomena Molder Sigrid Weigel Alice Barale Francesco Valagussa Carlo Sini Luca Illetterati Giannino Di Tommaso Vincenzo Vitiello Giulio Goria Massimo Adinolfi
Il Pensiero
rivista di filosofia
diretta da Vincenzo Vitiello e Massimo Adinolfi. Comitato scientifico internazionale: Massimo Cacciari, Félix Duque, JeanFrançois Kervégan, Thomas Rentsch, Volker Rühle, Carlo Sini, Hans Vorländer. Direzione scientifica: Piero Coda, Florinda Cambria, Giannino Di Tommaso, Massimo Donà, Luca Illetterati, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Luigi Vero Tarca. Redazione: Alessandro Apruzzese, Michele Capasso, Ernesto Forcellino, Giulio Goria, Davide Grossi, Lucilla Guidi, Chiara Maggese, Anna Parente, Giacomo Petrarca, Filippo Silva. Anno 2020 | Volume LIX | Fascicolo 2 © 2020, Vincenzo Vitiello Edizioni Inschibboleth - Roma Periodico semestrale ISSN cartaceo 1824-4971 ISBN cartaceo 978-88-5529-203-0 ISBN ebook 978-88-5529-204-7 Registrazione: Tribunale di Rieti, n. 3/2015; precedente registrazione: Tribunale di Rieti, n. 2/1978. Deposito legale: febbraio 2017. Proprietario della testata: Vincenzo Vitiello. Editore: Inschibboleth società cooperativa - Roma. Direttore responsabile: Francesco Cundari. Impaginazione: Inschibboleth società cooperativa. Stampato in Italia presso Mediagraf SpA – Noventa Padovana. Sede della pubblicazione: Rieti. Indirizzo per la corrispondenza: Inschibboleth società cooperativa, Via G. Macchi 94, 00133, Roma - Italia, e-mail: [email protected], web: www.inschibbolethedizioni.com. La rivista «Il Pensiero» ha adottato un sistema di referaggio conforme agli standard internazionali. La proposta di articoli per la pubblicazione dev’essere inviata alla redazione della casa editrice in formato elettronico tramite il form online rinvenibile all’indirizzo: https://www.ilpensiero.org. Gli autori dovranno specificare il nome e il numero della rivista per cui si propone la pubblicazione e certicare che il loro testo non è mai stato pubblicato, né simultaneamente sottoposto o già accettato per altre pubblicazioni. Tutti saggi e le recensioni dovranno essere di massimo 45000 battute, spazi e note incluse. Dovranno, inoltre, essere accompagnati da un abstract di massimo 1200 battute, in italiano e in inglese, insieme a cinque keywords/parole chiave (abstract e parole chiave non sono richiesti per le recensioni). Dopo una prima lettura da parte della direzione, la segreteria di redazione invia la proposta di articolo per un esame critico a due lettori anonimi (double blind peer review) per la valutazione dei contributi proposti per la pubblicazione. Gli esiti della valutazione (accettato, riutato, proposta di modica) vengono comunicati all’autore. Le recensioni saranno valutate senza referaggio. I temi dei prossimi numeri e le scadenze entro cui inviare gli articoli da proporre per la pubblicazione sono disponibili all’indirizzo: https://www.ilpensiero.org.
Il Pensiero
rivista di filosofia LIX - 2020/2
INDICE Al Lettore
p. 9
Saggi Andrew Benjamin, Suspensions, Openings, Creations. Walter Benjamin, Architecture and the Dialectical Image
» 13
Mauro Bozzetti, Frammenti di sistema. Hegel critico di Adorno
» 29
Lucio Cortella, Dialettica negativa e dialettica speculativa. Adorno a confronto con Hegel
» 39
Eli Friedlander, The Handkerchief. A Dialectical Tale
» 57
Maria Filomena Molder, La questione della trasposizione: fenomeno originario, origine e immagine dialettica
» 71
Sigrid Weigel, Il risveglio come «caso esemplare del pensiero dialettico». Sul carattere di immagine e la struttura temporale della dialettica nella nozione epistemica di soglia in Benjamin, ovvero: Benjamin legge Michelet, Hegel e Dante
» 93
Alice Barale, The Ruin and the Artifact. Walter Benjamin and AI Art
»
113
Francesco Valagussa, Allegoria e immagine dialettica
»
131
Carlo Sini, In cammino verso Aristotele
»
147
Luca Illetterati, Pensare le cose nelle cose. L’anti-intellettualismo rigoroso di Leo Lugarini
»
155
Giannino Di Tommaso, Un Maestro di nome Leo Lugarini
»
169
Vincenzo Vitiello, “Er lebt in Hegels Logik”. Ricordando Leo Lugarini nel centenario della nascita
»
177
Forum
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Indice
Ricerche e discussioni Giulio Goria, Il metodo e il posto della riflessione nella Critica della ragion pura di Kant
p. 185
Massimo Adinolfi, Remnants of Hegel. Sui resti
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Fascicolo a cura di Alice Barale e Francesco Valagussa
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Al Lettore
«Che gli scolari l’abbiano perduta o che non riescano a decifrarla, è in fondo la stessa cosa, perché la scrittura senza la sua chiave non è appunto scrittura ma vita», così scrive Benjamin a proposito degli scolari senza scrittura del suo saggio su Kafka, contrariando non poco l’amico e grande cabalista Gershom Scholem, deciso a difendere la presenza di una scrittura, per quanto indecifrabile. Come può, però, la vita tendere ugualmente alla scrittura, una volta perduta la «chiave» e, forse, la scrittura stessa? Come possono riavvicinarsi esperienza e conoscenza, razionalità e realtà? A queste domande, e alle chances che esse offrono alla filosofia e al pensiero in generale, è dedicato questo fascicolo, dal titolo Immagine dialettica e dialettica negativa: due strategie tanto diverse quanto comunicanti sono qui considerate nella loro capacità, ancora oggi, di interpellarci. Nel suo saggio Mauro Bozzetti si sofferma, citando Bubner, su quel «tentativo inaudito di voler scrivere un sistema contro tutti i sistemi» che caratterizza la Dialettica negativa, la cui cifra emerge nel confronto con Hegel. All’unità hegeliana tra metafisica e dialettica, Adorno contrappone – nel segno di Kant – una metafisica che rimane superiore al costrutto logico, in cui ogni concetto reca in sé un limite intrinseco. Il confronto tra Adorno e Hegel, tra dialettica negativa e dialettica speculativa, è il tema su cui si sofferma anche Lucio Cortella. Non si tratta più, per Adorno, di «imparare qualcosa di positivo dalla contraddizione»: è un nuovo senso della contraddizione quello che si profila nelle pagine adorniane, quasi un antidoto alla tentazione idolatrica di determinare e concepire l’assoluto. A un simile divieto adorniano sembra rispondere positivamente in Benjamin la forza creativa dell’immagine dialettica. Come mostra Andrew Benjamin nel suo saggio, l’immagine dialettica non è qualcosa che semplicemente «accade», ma presuppone una forma di «attività» – attività che mette in causa l’essere così del mondo e vince le resistenze al suo poter essere altrimenti. Le conseguenze si riverberano anche al di fuori della sfera della pura filosofia: in accordo con il progetto di architettura su cui Andrew Benjamin sta
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Al Lettore
lavorando al momento, siamo invitati a riconfigurare lo spazio che ci circonda e il nostro modo di abitarlo. L’idea di spazio assume, in effetti, un’importanza particolare nella definizione benjaminiana di immagine dialettica: «Il vero metodo per renderci presenti le cose», scrive Benjamin in uno degli appunti per il Passagenwerk, «è di rappresentarcele nel nostro spazio (e non di rappresentare noi nel loro). […] È questo in verità (vale a dire, quando riesce) il caso anche della vista di grandi cose del passato – cattedrale di Chartres, tempio di Paestum: accogliere loro nel nostro spazio». Non è un caso che il medesimo passo sia citato non solo da Andrew Benjamin, ma anche da Maria Filomena Molder, che nel suo saggio indaga il legame tra l’immagine dialettica e il goethiano fenomeno originario. Il rapporto con Goethe, in particolare con il Goethe delle Affinità elettive, si mostra come effettivo modello dell’impresa filologica così come Benjamin la intende. Impresa in cui l’incontro tra passato e presente conserva una magia in grado, in qualche modo, di superare se stessa, di farsi immagine che mette in questione ogni ordine definitivo (mitico e magico) degli eventi e del mondo. Il nesso tra magia e superamento della magia stessa è centrale anche nel testo che Eli Friedlander dedica a un racconto poco conosciuto di Benjamin, Il fazzoletto, scritto nel 1932. Benjamin racconta, non senza una certa ironia, di averlo scritto nell’ambito di alcuni suoi lavori sullo spiritismo, fatti con il fine immediato di garantirsi la sussistenza sfruttando un tema alla moda. Il finale del racconto sembra racchiudere una sorta di sorpresa-magia, che può essere interpretata però – come cerca di fare Friedlander – anche come costellazione improvvisa di senso. Il tema è quello di un addio da una nave, e del cristallizzarsi e interpellarci d’un tratto delle cose perdute. È il tema della soglia – al centro, non a caso, anche del saggio che Sigrid Weigel dedica al nesso in Benjamin tra dialettica e immagine. Tramite l’idea di uno spazio di transizione tra il sonno e la veglia, secondo la studiosa tedesca, Benjamin riprende – benché rovesciandolo – il concetto di soglia già tematizzato da Hegel, in particolare inteso come momento di transizione tra le epoche storiche. Il concetto stesso di soglia come luogo di transito delle divinità viene accostato da Weigel al «lampo» che avvolge Dante al termine del suo viaggio infernale. Il penultimo testo ci trasporta da Dante agli anni più recenti. Rovine vecchie e nuove: adoperare il dispositivo dell’immagine dialettica per comprendere l’intelligenza artificiale rappresenta l’ipotesi di lavoro da cui nasce il saggio. Le “immagini di rovine” mostrano come le “creature” dell’AI siano qualcosa di “impredicabile” in attesa di trasformazione e per così dire di compimento, quasi di realizzazione a partire dal rapporto e dall’incontro tra umano e non umano, tra natura e tecnologia. Da ultimo, siamo riportati alla questione da cui questa introduzione aveva preso le mosse: alla scrittura e al suo rapporto con la vita, indagando il nesso tra immagine dialettica e allegoria. L’allegoria, per Benjamin, è scrittura, coincide con il rimandare “ad altro” (allos-agorein) della scrittura stessa.
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Quell’“altro” che gli scrivani e gli studenti di Kakfa inseguono: «gli scrivani, gli studenti sono senza fiato. Sono sempre all’inseguimento» (W. Benjamin, Franz Kafka). Qualche volta, però, questo loro correre verso il nulla è ricompensato, e balena, nel ritmo della lettura, un nuovo respiro, qualcosa dello sfondo dimenticato su cui la scrittura si staglia. Una parte di senso «di cui ci riappropriamo», e di cui speriamo che anche i lettori di questo numero possano fare, a tratti, esperienza. Alice Barale e Francesco Valagussa
SAGGI
Suspensions, Openings, Creations Walter Benjamin, Architecture and the Dialectical Image Andrew Benjamin
The enslavement of language in prattle is joined by the enslavement of things in folly almost as its inevitable consequence. (W. Benjamin, SW 1, p. 72; GS II/1, p. 154)
1. Opening Fundamental to the work of Walter Benjamin are strategies of interruption1. The differing ways interruption figures, while having a number of alternative formulations, are all interconnected. They are all forms of cessation that function equally as productive openings. The initial contention of this paper is that while there may be a number of ways to take up what is meant by the dialectical image in the writings of Walter Benjamin they need to be linked to forms of activity. The dialectical image is not a simple happening. It is not just an object of experience. The presence of the dialectical image involves construction. Benjamin is explicit on this point. In The Arcades Project2
1 This paper is part of an integrated research project on relational architecture. In arises in the context of Masters Architectural Studio – An Architecture of Relationality: Territory, Border, Counter-measure – directed by Gerard Reinmuth and Andrew Benjamin and which is currently being taught at the University of Technology Sydney. The research project has involved both joint and single authored papers. One of the concepts that is fundamental to the overall project is the counter-measure. In terms of the larger undertaking the aim of this paper is to show the differing ways in which the writings of Walter Benjamin can contribute to the development of that concept. The concept, located in the space opened by the relationship between architecture and philosophy, can figure as much within the strictly philosophical as it can have correlates in the realm of design. 2 W. Benjamin, The Arcades Project, trans. by H. Eiland and K. McLaughlin, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (MA)-London 2002 (occasionally translations have been modified). Subsequent references to The Arcades Project occur within the text and they are to the numbering scheme within the volume itself; references to the German are to vols. V/1 and V/2 in W. Benjamin, Gesammelte Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1982. In general references to Walter Benjamin are to Selected Writings, 4 vols., ed. by M.W. Jennings,
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Andrew Benjamin
he writes in relation to the «objects of history» that they are «constructed». In regard to the dialectical image the point is even clearer: «the object constructed [konstruierte] in the material presentation of history is itself the dialectical image» (N10a,3). Activity, as creation, is central. Again, in order to reinforce this point Benjamin also notes in the same section of the text that what he describes as «materialist historiography» when working on «objects», «springs [sprengt] them loose from the order of succession» (N10a,1). The spring continues. In N10a,3, the construction of the object as the dialectical image, «justifies the separation [Absprengung] from the order of succession». This undoing of the order of things, the order in which the given is simply assumed to run its course, demands the activity which creates «the caesura in the movement of thought» (N10a,3). Activity, here, takes on the quality of productive destruction. As a result, the meaning of activity divides at this precise point. It gives rise to two senses of project. In the first instance there can be the enforcing of continuities, the project of maintaining the giveness of what is3. While this project may take on the guise of a form of naturalism there is an attendant decision that brings into play both its own sense of order and that order’s security (the policing of order). There is however another sense of project4. In terms of historiography, it is the writing of history that contains a «destructive moment [das destruktive Moment]» (N10a,2). Destruction as an opening is the decisive element. Rather than subordinate the dialectical image to the mere study of images, the point of orientation here is the affinity between the dialectical image and that with which it is identical, namely the historical object. Again, Benjamin is clear. He states that the dialectical image «is identical with the historical object [ist identisch mit dem historischen Gegenstand]» (N10a,3). Even though there is the clear identification of the dialectical image with the historical object, what continues to matter however is the way the thinking that accompanies the dialectal image’s presentation opens up beyond the concerns of history. The dialectical image once generalized becomes another way of thinking creativity. Creativity is therefore more than a simple act of
The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (MA)-London 1996-2006 (henceforth, SW), followed by the Gesammelte Schriften, ed. by Rolf Tiedemann and H. Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1972-1990 (henceforth, GS). All references given in the body of the text. 3 In the assessment Benjamin wrote about what is described as Ein deutsches Institut freier Forschung, he mentions the work of Horkheimer favourably. He also comments on Horkheimer’s estimation of positivism, noting that it has the tendency «to assume that bourgeois society is eternal [als ewig] and to minimize its contradictions both theoretical and practical» (SW 3, p. 308; GS III, pp. 519-520). The temporal designator «eternal» identifies a setting similar to the one that maintains the giveness of what is. Not only is this a tendency within positivism, it might be conjectured that the implicit politics of analytic philosophy is captured, grosso modo, in such a formulation. 4 This doubling of project is also suggested by Massimo Cacciari. See his Progetto, in «Laboratorio politico», n. 2, 1981, pp. 88-119.
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resistance. Creativity, in this context, is the attribution of forms of performativity to resistance. Resistance, thus construed, is always situated and therefore relational. Consequently, whether intentional or not, act and object are relational in the precise sense that they are individuated within networks of relations. The question to be addressed, either as producer, agent or critic concerns the nature of the relation and thus how anyone instance of individu ation is to be understood. To insist on the force within activity and thus the presence of two senses of project, is to assume that the first sense is defined by the ubiquity of measure, and the concomitant demand for its continuity, both of which in the current context serve the interests of the logic of capital and the logic of carbon5. And yet, to recognize, at the same time, there is always another sense of project, i.e. the possibly of a response that is located in radically different senses of measure; i.e. in counter-measures. While measure allows for its non-repetition, this is not as Agamben has argued because the potentiality for its being repeated encounters the «power-of-not [potenza-di-non]» which then figures «as a resistance internal to all potentiality»6. Rather, the claim is that all potentialities can be resisted and thus their actualization is marked by an essential non-necessity. However, this is a quality that is only ever external to the structure of potentiality itself. The further point is that an actualization of a potentiality is equally contingent. Contrary to the assumption behind Aristotle’s distinction between «life [τοῦ ζῆν] and the good life [τοῦ εὖ ζῆν], namely, that the move from one to the other was more or less axiomatic given the location of human being within the polis» (Politics, 1252b 29), the argument is always going to be that precisely because that move can be undone – e.g. through the act of enslavement, the naturalization of poverty – there has to be an attendant process that aims at the universality of that actualization. Again, the processes leading to actualization are external to the potentiality even though the actualization pertains to what was there in potentia. Here because what is at stake is the actualization of a potentiality within the given, thus an insistent potentiality-to-be – where the given is understood in terms of a constancy of measurement – the moment of suspension, that is also an opening, has the form of a counter-measure and thus a work that acts. Integral to the argument here is the repositioning of the dialectical image, or at least certain essential aspects of its definition, in terms of the counter-measure7. 5 On the diagnosis of the that inscribes the climate crisis as an essential part of is structure, see E. Iturbe, Architecture and the Death of Carbon Modernity, in «Log», n. 47, 2019; B. Latour, Où atterrir? Comment s’orienter en politique, La Découverte, Paris 2017. 6 While there isn’t the space to engage it fully this is the point made by G. Agamben in his Che cos’è l’atto di creazione?, in Id., Creazione e anarchia, Neri Pozza, Vicenza 2018, pp. 2952: p. 44. His arguments are of fundamental importance and warrant detailed consideration. The point of difference lies in what will continue to be identified here as the counter-measure and what Agamben refers to as «inoperativity». 7 On the potentiality-to-be see my Potentially, Relationality and the Problem of Actualisa tion, in «Teoria», XL, n. 1, 2020, pp. 115-124.
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Unfolding here is a complex position. Any engagement with the dialectical image stages a constellation of concerns. The dialectical image cannot be subsumed within the history of the image even though, in certain instances, it can be understood imagistically. The dialectical image taken generally is itself part of a strategy that has a double register. Firstly, it associated with the production of knowledge. Secondly the dialectical image, as already indicated, can be associated with forms of production that are inextricably bound up with modes of undoing, modes that are equally openings to construction. It should be noted that these openings can register as much within the purely discursive, understood as the strictly philosophical or theoretical, and thus can engage a thinking of life, as they can on other levels of creation, such as those incorporating design. To the extent that this overall position is maintained Benjamin’s work has extension beyond the circumscribed domain of the philosophical. Consistent with the argumentation developed thus far the undoing of continuity is a position that is given a range of formulations in Benjamin’s writings. In The Arcades Project that undoing is described as «inviting the dead to the table» (N15,2). Such acts – here the act of «inviting» – undo the «semblance» (N19,1) of continuity. The moment they are invited, the «dead» become the merely apparently dead. Appearance loses its hold. Depth is acquired. The dead are dead no longer; they have acquired an afterlife. This is the moment that suspends time as pure becoming8. Interruption figures; an opening is created. Again, in general terms, what is being staged here is clear concerning the possibility of stemming the already present – already present and thus already naturalized – hold of preexistent organizational logics. Their suspension is neither spontaneous nor a form of nihilism. It depends upon knowledge. Knowing how these logics work. This is referred to by Benjamin as the «not-yet-conscious knowledge of what has been» (N1,9). Initially knowledge has a specific object. In this context the object is the set of measures that the work of these logics entails. The suspension of predetermined measures is creative, or more exactly is integral to the creative process, to the extent that suspension and creation are thought together. The interplay of suspension and production is the counter-measure. Therefore, the counter-measure becomes the act of creation. Benjamin cites Engels to this end. The creation that occurs as the result of the suspension, occurring with (and as the caesura) has to pass «beyond the sphere of thought [aus dem Denkgebiete herauskommt]» (N6a,1). That movement, as the departure from thought’s abstract presence, would be the opening as much to another mode of thinking and acting as would be to the creation of differing forms of spatial
8 It is interesting to note here that Cacciari describes what he calls the «bourgeois project» understands becoming as the «becoming of the always-the-same [divenire del sempre-uguale]» (M. Cacciari, Progetto, p. 115).
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presence. Both are the performance of resistance9. Each has its own specificity. As will be suggested, in Benjamin’s eponymous text, the «destructive character» is the figure in relation to whom destruction and space creation work together. Benjamin’s thinking of destruction is not simply inherently spatial, it concerns space creation. There are forms of movement here. Whether it is to the philosophical or those involving spatialization, both need to be understood as the creative possibilities that suspension and destruction allow. Benjamin summarizes his position in the following terms. «“Construction” presupposed “destruction”» (N7,6). This is the creative force of what will continue to be developed as the counter-measure. There are, of course, other definitions of the «dialectical image». In one of the Paralipomena to On the Concept of History Benjamin states that the «dialectical image can be defined [zu definieren] as the involuntary memory of the redeemed humanity» (SW 4, p. 403; GS I/3, p. 1233). Here it is essential to be cautious. While it may be as if the invocation of the involuntary repositions the dialectical image such that it falls uniquely within the purview of the aesthetic, this is not the case. Such a claim would be based on a misunderstanding of the force of Benjamin’s overall argument. In On Some Motifs in Baudelaire in a discussion of the loss of aura Benjamin makes the following complex claim: To experience the aura of an appearance [Die Aura einer Erscheinung erfahren] means to invest it with the ability [dem Vermögen] to look back at us. This ability corresponds to the data of mémoire involontaire. (SW 4, p. 338; GS I/2, pp. 646-647)
In other words, the claim is twofold. Firstly, there has to be the move beyond the reduction of the object to its appearance. Secondly, «experience» is never merely aesthetic. It is always accompanied. Here that accompaniment is the reworking of appearance – of what appears – such that it is imbued with the capacity «to look back». The presence of that «ability» entails that what appears is always potentially in excess of mere appearance. The “looking back” can be understood therefore as deploying the same logic as the invitation to the dead. Again, the presupposition is the both past and appearance can be divested of their attributed qualities. Both are rethought and repositioned. Hence Benjamin’s use, here, of the term «ability» (dem Vermögen). There is a transformation in what counts as the object; equally, there is a transformation in how time is conceived. The two work together. Involuntary memory while naming an important connection to Proust and thus having a set of implications that function in their own right, also, and here more significantly,
9 For an important discussion of the relationship between performance and resistance, see J. Butler, Can One Lead a Good Life in a Bad Life?, in «Radical Philosophy», n. 176, 2012 (online: https://www.radicalphilosophy.com/article/can-one-lead-a-good-life-in-a-bad-life).
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identifies a set of possibilities arising from the reconceived set of relations between time and object. In order to develop this thinking of the dialectical image and the interplay of destruction and creation, emphasis will be given to the position of architecture in Benjamin’s writings. Two instances will orientate what follows. The first involves the account of architecture that plays a foundational role in the argumentation of The Work of Art in the Age of Its Technological Reproduci bility. Central to that text is the claim that architecture is experienced in a state of “distraction”. The second is one of the ways in which architecture is linked to what Benjamin names in The Arcades Project as «the anecdote». The “anecdote” is equally a form of destruction – the destructive suspension – that is an opening and thus a locus of creation. In other words, the “anecdote” can also be understood as an instance of the counter-measure10. 2. Architecture/Distraction While in the The Work of Art in the Age of Its Technological Reproducibility there is an opposition between «distraction» and «concentration», integral to the structure of Benjamin’s argument is the claim that the overcoming of one does not involve a move to the other. Distraction is neither distanced nor effaced by an enforced contemplative concentration on particular works of art. For Benjamin there is another way through, one that involves the suspension of the distracting effect. The important point is that the possibility for the suspension of distraction is found in the structure of distraction itself. A beginning emerges therefore because of the nature of the limitations that distraction imposes. The negative or restrictive effects are central. One consequence of distraction is the impossibility, to deploy Benjamin’s terminology, of «new tasks of apperception». Again, the complexity of this position is that distraction cannot be countered by the re-emergence of a singular object and its encounter by a single subject. Distraction opens its own site of engagement. One determined by the “now” of distraction. The is a defining part of the “age” in which art and architecture are now found. In The Work of Art in the Age of Its Technological Reproducibility architecture appears in the context of the account of distracted experience. Indeed, in that text architecture is the exemplary instance. References to architecture however are to be found elsewhere in Benjamin’s writings. In The Arcades Project they are made in relation to developments both within tectonics and the histories generated by material transformations within those develop-
10 For a full and detailed discussion of the anecdote, see R.S. Lehman, Impossible Modernism. T. S. Eliot, Walter Benjamin, and the Critique of Historical Reason, Stanford University Press, Stanford 2016.
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ments (from Bötticher to Meyer)11. In that context, a distinction can be drawn between «artistic» architecture and «engineered construction»; a distinction based on a direct concern with architecture’s material presence. The «artistic», as Detlef Mertins points out, for Benjamin is linked to the «phantasmagoria of bourgeoise capitalism» while «engineered construction» to the «socialist revo lution»12. The position of architecture within the Work of Art essay is more directly linked to questions of experience. Precisely because of that connection architecture runs the risk of being completely conflated with phantasmagoria13. Within the essay’s argumentative structure film becomes the medium providing the basis for the conceptualization of any real response to distraction. There is a connection to architecture insofar as film is played before a distracted mass. Architecture pertains equally to the public realm. However film and here it is essential to insist on the medium’s possibility rather than the content of any one film, hence the claim is about technical possibility rather than mere narrative content, allows for the emergence of an attentive gaze that can become what Benjamin calls «an evaluating attitude [eine begutachtende Haltung]» (SW 4, p. 269; GS I/2, p. 505). Distraction yields its own opening therefore. Distraction is linked to habitual acts. Habit means that the state of distraction is repeated. That repetition has a temporal quality. In being absorbed into the passage of chronological time, it passes as much for time’s normalcy as it gives time a single layered almost transparent quality. The passage of time which, when it becomes mere duration is then the temporality of distraction’s repetition, thus distraction as unnoticed repetition, allows for the noting of nothing other than its own passage. Continuity is without depth. And yet, this is equally the setting for interruption. As this occurs, or more accurately in its occurring, time acquires a depth. Its depth is revealed. The invitation to the dead is recalled. Within that depth, within its openings, are images and possibilities that hitherto had been ignored. Worlds within worlds appear. This is, of course, the capacity of the object to look back. For Benjamin art holds open the possibility that it can achieve what subjects acting on their own cannot. Art can break through habitual staging and can give rise to new possibilities within «apperception». The connection to architecture lies in the idea of habit. Here it is essential to see the link between the use of «habit» and «dwelling»; thus between «gewöhnen» and «wohnen». The interplay between them is more than an etymological
11 On the significance of Bötticher for Benjamin, see M. Schwarzer, Ontology and Representation in Karl Bötticher’s Theory of Tectonics, in «Journal of the Society of Architectural Historians», vol. 52, n. 3, 1993, pp. 267-280. 12 D. Mertins, Modernity Unbound. Other Histories of Architectural Modernity, Architectural Association, London 2011, p. 118. 13 On the concept of phantasmagoriain Benjamin’s writings, see G. Markus, Walter Benjamin or the Commodity as Phantasmagoria, in «New German Critique», n. 83, 2001, pp. 3-42, and M. Cohen, Walter Benjamin’s Phantasmagoria, in «New German Critique», n. 48, 1989, pp. 87-107.
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possibility within the German language. The claim is conceptual. Habit and dwelling are inextricably connected. This position needs to be argued out on two levels. The first is that habit gestures towards the presence of forms of life whose naturalization leads to them being experienced in a state of distraction. In other words, they are experienced as forms that could not be other than they are. Distraction entails the presence therefore of a world without hope. Hope returns within that disenchanted world as no more than the provenance of an individual. The move from individual to world and then back to the individual – the specular oscillation of what now might be called neoliberal subjectivity – only continues to secure that world as a locus without hope. The way out does not have to do with actions within such a world. That world has its own prevailing economy; its own set of measures. What is at stake therefore is that economy, the measures already in place and thus the world itself. This had already been noted by Marx in the second part of Thesis XI of the Theses on Feuerbach. Rather that the interpretation of «the world [die Welt]» the project is «to other it [zu verändern]»14. The opening beyond distraction is then another thinking of the world, as opposed to the enlivening of the distracted individual in which all that then might occur is that individual’s absorption into objects of contemplation. The second claim arising from the interconnection of habit and dwelling pertains to activity. Acting is a mode of dwelling; equally, of course, dwelling is a mode of acting. Again, there is an economy that knits these elements together. It is this economy whose intricacy binds dwelling, habit and forms of life. The force of Benjamin’s position is that the “critical” recognition of this setting needs to be understood as creating or allowing for possible openings. Openings in which resistance is performed. The insistence of other possibilities would depend upon both recognition and knowledge. Knowledge here joins «thinking [Denken]» to the «how» of activity (N9,6). Moreover, those possibilities have a different form within film – which for Benjamin would be linked to montage or the jump cut – than they would within architecture. And yet, the radical force of the link to architecture needs to be underscored. Precisely because of the relationship between habit and dwelling, the possibilities within architecture have to be thought in relation to other forms of life. Architecture has an intrinsic opening to life. There is a general argument here that has the following structure. There are different modes of perception. For Benjamin what he calls «tactile perception» is linked to habit. Habit, on the other hand, determines the optical presence of architecture. The division within modes of perception allows for another setting thus for both another experience and conceptualization of that which
14 I have discussed this Thesis and its link to Walter Benjamin in considerable detail in my The World of Striving Walter Benjamin’s ‘Notes to a Study on the Category of Justice’, in «Anthropology & Materialism. A Journal of Social Research», n. 4, 2017 (online: https://journals. openedition.org/am/823).
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occurs within the visual field. If art occasions the possibility for the diminution of habit’s hold, film has a significant role within it. This occurs since film allows for the presence of «an evaluating attitude». Both the jump-cut and montage are already the undoing of time as pure duration. With art works the stand again vitalism involves a repositioning of the work of art. Within the architectural there is an important difference. The stand against vitalism takes place in the name of another conception of life. The «evaluating attitude» for Benjamin has two important characteristics. Firstly, it does not necessitate the form of attention that would singularize and which would give rise to the now redundant hold of an aesthetics of contemplation. Secondly, it undoes the incorporation of works within the realm of the ever-the-same, i.e. the domain of objects and subjects held in place by distraction’s now normalized repetition. In film this is possible on a mass level insofar as, for Benjamin, the «audience» plays the role of the «examiner». In sum, it is the medium that effects such possibilities. For Benjamin the medium and its possibilities establish the counter-measure’s conditions of possibility. This opens up the question of architecture. There are two points here. The first is that distraction in art – the film which is watched by a distracted mass – is used to overcome distraction by working within it. This is the singular possibility of film. The medium contains the dislocating power. As what orientates this paper is architecture the second point is clear. It takes the form of a question. While architecture is experienced within distraction, the question to be addressed is whether or not there is the conceptual equivalent to film within the architectural. The answer to this question has to start with the relationship between habit and dwelling. Architecture has a specific presence within The Work of Art in the Age of Its Technological Reproducibility. As a beginning Benjamin acknowledges «the human need for shelter is permanent [Das Bedürfnis des Menschen nach Unterkunft (…) ist beständig]» (SW 4, p. 268; GS I/2, p. 504). Within this permanence, perhaps even as the permanent, there is the habit of dwelling. Dwelling is a habit. Thus it is present as a form of life. The question then of film within architecture – not film as such, rather film as that which disrupted and relocated subjectivity and positionality as an effect of the work’s work – would be the presence of that which, from within the centrality and necessity of architecture, responded to that «need» whilst interrupting it. In other words, it would have the form of a counter-measure. It begins with the recognition of the «need». Dwelling has a necessity. And yet, dwelling is liked to forms of life. These forms become habitual. Were there to be an interruption of this setting then it would have to involve a radical reconfiguration of dwelling. This can occur in two interrelated ways. The first is to recognize the presence of the commodity form within this setting. Namely the conflation of that need with the commodification of dwelling as housing15. Housing once commodified is then incorporated within 15 For an engagement with this problem, see D. Madden - P. Marcuse, In Defense of Housing. The Politics of Crisis, Verso, London 2016.
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the structure of real estate. This is the positioning of architecture, i.e. the presence of a specific configuration of the architectural, that elicits the countermeasure. The counter-measure begins with the claim, to use David Harvey’s term, of a «right to the city». Harvey’s formulation is important. He writes that The right to the city is far more than the individual liberty to access urban resources: it is a right to change ourselves by changing the city. It is, moreover, a common rather than an individual right since this transformation inevitably depends upon the exercise of a collective power to reshape the processes of urbanization.16
What is significant here is the shift in subject position. «The right to the city» is no longer a right predicated of an individual. The right is held in «common». Repeated here is the claim that the potential for what Aristotle called the «good life» is one whose actualization has to tend towards universality. It has to be defined in terms of commonality not individuality. The affirmation of the right to the city, with its incorporation of the reconfiguration of agency, functions as a counter-measure not just to the commodification of housing but to the presence of dwelling as only existing as a question to be addressed within its commodified form on the level of the individual (individual consumer and the individual consumed object). While that affirmation – and thus its presence as a counter-measure – cannot be instrumentalized on the level of design, nonetheless, it brings with it an opening to design. The related point here is that within this opening design is no longer prompted simply by the «need for shelter». There is an important redirection. The «need» would then figure as part of «the right to the city» rather than as having to be thought in terms of the interconnection between rights and the commodification of shelter, i.e. the coalescence between housing and real estate. This is especially case given that the entire setting depends upon the interplay between individual rights and private property. What occurs is that the subject of right moves from the individual to the common. That incorporation establishes a profoundly different set of criteria – a form of knowledge – in relation to which design is both possible and able to be judged. In sum, therefore, architecture has a distinct presence in this context. There is the continuity of its opening to design Equally, there are the openings provided by counter-measures, i.e. creative practices whose performance and thus whose sense of project is linked to working within those particular openings created strategically by the suspension of dominating organizational logics. Once these determinations are taken together it becomes clear that architecture can have a more exact relation to forms of life than art. If the letD. Harvey, The Right to the City, in «New Left Review», n. 53, 2008 (online: https://new leftreview.org/issues/II53/articles/david-harvey-the-right-to-the-city). 16
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ter of Benjamin’s argument is followed then the correlate to film, to the medium of film, within architecture can be located in the possibilities that stem from the necessity of the relationship between habit and dwelling. Maintaining that necessity is not restricted to the forms of life that are demanded, for example, by the conflation of housing with its commodity form. Other forms of life would be linked to different housing projects. 3. The Anecdote If there is a generalizable position that has emerged thus far it is the following: the counter-measure is a reconfiguration of what is meant by project. In Convolute H, a folder containing notes and citations dealing with “collecting”, there is an entry in which time, the present and space are all staged with reference to architecture. Spatiality and architecture’s named presence occur together. The note is the following: The true method of making things present is to represent them in our space [in unserm Raum] (not to represent ourselves in their space). (The collector does just this, and so does the anecdote). Thus represented, the things allow no mediating construction from out of “large contexts”. The same method applies (in essence) to the consideration of great things from the past – the cathedral of Chartres, the temple of Paestum – when, that is, a favorable prospect presents itself: the method of receiving the things into our space [in unserm Raum]. We don’t displace our being into theirs; they step into our life [sie treten in unser Leben]. (H2,3)
As a beginning the movement into life, the steps, thus the occurrence of these «great things» within life mirrors the invitation to the «dead». The formulations have an essential affinity. Central in both instances is the projected transformation of «life». While it is always true that human worldliness and its normative dimension can be reduced to the giveness of human being, holding to such a position has inevitable consequences. Within a set up of this nature the past is inevitably distanced. The dead remain dead. Were this to be maintained then it is premised, as should be clear from what has been argued thus far, on forms of denial. This begins with the denial of the possibility that these «great things» would be able to figure in life. Then, there is the denial of what has been described as a potentiality-to-be, which is the transfiguration of life resulting here from the occurrence of these “events” in life. That potentiality is already present within the interplay of habit and dwelling. The argument advanced concerning the relationship between the already measured and the counter-measure means that potentiality is linked to a sense of project that continually others the project that has been taken to define human being. Project as creation, and the centrality of creation needs to be underscored, has a founding an ineliminable relation to the giveness of habit
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once it is recognized that habit is no more that than the continual presence of that which corresponds to what Benjamin has identified as «need». In the passage noted above, when Benjamin writes of the temple at Paestum, he writes without necessarily knowing that this is in all likelihood the temple about which Heidegger writes in The Origin of the Work of Art17. As with Heidegger, Benjamin is engaging with the sense of history proper to human being. For Heidegger the temple presents. Its elemental figuring becomes a marker within which human being discovers its own sense of propriety. As a site, for Heidegger, it «opens a world»18. For Benjamin, on the contrary, as noted, these entities «step into our lives». There is an invitation that disrupts time and thus time resists its reduction to pure becoming, on the one hand, or the enforced continuity of chronology on the other. A spacing occurs. Present as the dialectical image, the occurrence of that spacing opens beyond the literal image. It is linked to a capacity, a potentiality, not just to live on within projects but to another release and therefore to other projects. Again, what returns is the possibility of creativity. The «great things» that step into life do not provide access to a truth; truth resides in how the relationship between their presence and the presence of «our life» is to be understood. Benjamin provides two examples – though they are more hints than examples – of how to understand the «true method» of a making present and therefore of understanding presentation. Both the «collector» and the «anecdote» act in accord with the truth of things. «Anecdote» is an odd an unsettling term. It marks an interruption that fractures unity. The anecdote comes from the outside. Note again the affinity with both the dialectical image and the release sanctioned by the counter-measure. The term «anecdote» occurs a number of times in The Arcades Project. Benjamin employs the term strategically: The constructions of history are comparable to military orders that discipline the true life [die das wahre leben kuranzen] and confine it to barracks. On the other hand: the street insurgence of the anecdote. The anecdote brings things near to us spatially [räumlich], lets them enter our life [läßt sie in unser Leben treten]. It represents the strict antithesis to the sort of history which demands “empathy”; which makes everything abstract. (S1a,3)
17 See Heidegger’s The Origin of the Work of Art, in M. Heidegger, Basic Writings, ed. by D.F. Krell, Harper Collins, San Francisco 1993, pp. 139-212. While it cannot be done here, it would productive to take the presence of the Temple at Paestum as a way of plotting the differences between Heidegger and Benjamin. Indeed the role of architectural example provides one important way of examining their different philosophical. On this point see my Placing Philosophy: Heidegger’s Hut, Prologue to A. Sharr, Heidegger’s Hut, MIT Press, Cambridge 2006, pp. xv-xx. 18 M. Heidegger, The Origin of the Work of Art, p. 168.
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There is a continuing refrain of the anecdote’s capacity for «insurgence» or to stage an «uprising». The activity of the anecdote as more than an urban context. The anecdote is already a spatialising term. Benjamin is clear. He writes of «the street insurgence of the anecdote». What is this insurgence? How is the presence of the «anecdote» within that setting to be understood? Does the anecdote have its own logic? It should already be clear that the anecdote has a fundamental relation to life. Benjamin wrote that the «anecdote brings things near to us spatially, lets them enter our life». Each time that Benjamin evokes the «anecdote» it is linked to a possible transformation of life. These transformations therefore are nor abstract nor do they acceptance the assumed reiteration of the world as given. There is an opening in which acts of creation having a necessarily spatial dimension and life’s other potentialities are interconnected. Hence, there is a clear link between that conception of space creation, the one that stands in a complex form of opposition to military orders and the architecture of the «barracks», and taking a stand in relation to life. While these points prepare the way to answering the questions posed above pertaining to what has been described as the logic of the anecdote, doing so still necessitates a slight detour through another text by Benjamin. In this instance even though the text does not have any direct reference to architecture, if architecture is identified with the literal presence of buildings, nonetheless its concerns might be described as the essentially architectural insofar as it opens with an evocation of spatiality. Moreover, as will be suggested, its ostensible object of presentation is the counter-measure. Its presentation depends up a thinking of space, further reinforcing the point that the concept of the counter-measure has both a spatial thus architectural register as well as a more philosophical one. Benjamin’s text The Destructive Character was initially published in the «Frankfurter Zeitung» in November 1931. The title is inherently provocative. Hence the question: how here is destruction to be understood? While the text warrants detailed consideration, in this instance two defining lines will suffice since they underscore the presence of the spatial character of destruction: The destructive character knows only one word: place creating; and only one activity: clearing away [Platz schaffen; nur eine Tätigkeit: räumen]. His need for fresh air and free space [und freiem Raum] is stronger than any hatred. (SW 2, p. 541; GS IV/1, p. 397)
Central to this description of «the destructive character» is a specific project of place creating. This occurs as the result of the activity of creating spaces, and thus of clearing away. These descriptions have to be qualified. It is fundamentally important to differentiate between modes of destruction. Haussmannization is one such mode. The activity of «the destructive character» is a fundamentally different one. In Convolute E Benjamin quotes
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from Marcel Poëte’s Une vie de cité. Poëte is himself citing a justification for Haussmann’s creation of «large thoroughfares» in the city of Paris during the time of Napoleon III. Their construction amounted to what Benjamin describes as a «radical transformation of Paris» (E1,6). The internal justification for Poëte was clear. The transformation meant that the new roads did not lend themselves «to the habitual tactic of local insurrection» (E1,4). Here «insurrection» refers to the reality of actual or possible historical occurrences. However, what is at stake is a modality of policing. Policing is not a benign activity for Benjamin. It is through policing, which for Benjamin is indissolubly bound up with «blood», that that «the mighty» secure their «position» (E1,6). What that means is that there is an obvious politics of destruction. There are decisions creating possibilities for other forms of life within the city and then those which seek both control and the domination of space. The politics in question do not refer to a moral dimension but to life. In the language of The Destructive Character one direction is organised by the «need for fresh air and free space»; i.e. life’s needs. It is important to recall the other already noted use of the language of necessity. Benjamin wrote of «the human need for shelter [Das Bedürfnis des Menschen nach Unterkunft]» while now there is the «need for fresh air and free space [Bedürfnis nach frischer Luft und freiem Raum]» (emphasis added in both instances). Insurrection occurs for the possibility of another life; one which may be closer to what Benjamin has already referred to as «the true life». There is a general claim here, namely that what attends every moment is the possibility that what is could be other. There is therefore the continuity of potentiality. Again, there cannot be pure openness since what actually attends that continuity are forces that restrict, circumvent, police, etc., the possibility of any actualisation. Haussmannisation names one historically located form of restriction. And yet, once its presence as a form of restriction is given full force then it is not difficult go see that Haussmanniszation, while having a historical reality, is simply one more measure that has the form of a “military order” that in Benjamin’s formulation disciplines «the true life». Given that it is a specific measure, a question arises: What here would count as a counter-measure? What would such a measure effect? Answering these questions would have to start with the move from Haussmannization, as being no more than a historical referent, to its location with a generalised conception of policing. As such, what then has to be reintroduced is what Benjamin has named as the «anecdote». The anecdote stands against the “military order”. It has at least two important qualities in this regard. As a beginning there is what has already been identified as the «street insurgence of the anecdote»; then there is the anecdote as providing insight into what a «true method» might be. In the second instance, the anecdote is linked to the “true order” insofar as it refuses the possibility of a natural order, let alone of the naturalisation of order. The “true order” attends as a possibility. The structure of the anecdote reveals
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the present, understood as the now of activity, to be the locus of different modalities of time. Understanding the implications of the presence of these different modalities is to recognise that synthesis seeks to undo the genuine presence of a politics of time in the name of the politics of variety and which would take «empathy» as one of its organizing elements. (Hence, as already noted, Benjamin’s emphatic differentiating juxtaposition of «anecdote» and «empathy»). The first quality needs to be set against a broader understanding of Haussmannization. Haussmannization is the attempt to establish a form of spatial organisation; while its end goal is the policing of space, this is achieved by a synthesis of all spatial relations. The implicit urbanism here is clear. Obviously, there are more or less benign versions of these procedures. Nonetheless, what they all comprise of is a centralisation of technological power within the organisation of the urban. The anecdote resists automatic assimilation to this setting. More significantly the connection between the anecdote and the conception of destruction introduced by «the destructive character» establishes, albeit abstractly, a connection between the anecdote as a modality of interruption and destruction as a modality of creation. While Benjamin is not an urbanist, let alone an architect, he remains a philosopher, his writings show the sensibility involved in having to conceptualise what an intervention entails once the force of the dialectical image and its affinity with the counter- measure is staged. The anecdote becomes a way of thinking interruption.
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Abstract Strategies of interruption are fundamental to the work of Walter Benjamin. The differing ways interruption figures, while having a number of alternative formulations, are all interconnected. They are all forms of cessation that function equally as productive openings. The contention of this paper is that while there may be a number of ways to take up what is meant by the dialectical image in the writings of Walter Benjamin they need to be linked to forms of activity. The dialectical image is not a simple happening. It is not just an object of experience. The presence of the dialectical image involves construction. Interruption is traced here through Benjamin’s writings on architecture. Keywords: architecture, dialectical image, Walter Benjamin, anecdote.
Frammenti di sistema Hegel critico di Adorno Mauro Bozzetti
1. Questioni di metodo Come disse Rüdiger Bubner all’Adorno-Konferenz di Francoforte, sotto lo sguardo attento di Jürgen Habermas, nell’ormai lontano 1983: l’opera principale di Adorno, la Dialettica negativa, è rimasta un libro i cui sigilli non sono stati ancora aperti. Questo perché a differenza della più famosa Teoria estetica e della citatissima Dialettica dell’illuminismo, la Dialettica negativa rappresenterebbe secondo lui il tentativo più strutturato e meno saggistico di esporre il suo discorso filosofico. Pur mantenendo uno stile antiaccademico, le pretese di Adorno in questo testo sarebbero complessivamente di tipo sistematico. Le parole di Bubner: «Al di là dei capricci stilistici, le difficoltà dell’esposizione nascono dal tentativo inaudito di voler scrivere un sistema contro tutti i sistemi»1. Questa tesi di Bubner mi pare ancora molto attuale. In fondo, gli studi sulla filosofia di Adorno non hanno avuto grandi sviluppi negli ultimi trent’anni, e direi per almeno tre motivi. Il primo è legato alla difficoltà di comprendere la pagina di Adorno, anche quella dei suoi testi musicologici (che rappresentano, non dimentichiamolo, circa la metà della sua produzione); di non sapere mai se la tesi che si crede di aver afferrato corrisponda veramente a quello che lui intendeva. Anche per questo è difficile liberarsi dalla terminologia adorniana, perché si teme che qualsiasi parafrasi o ricostruzione possa falsificare il messaggio originario. Il secondo motivo, forse conseguenza di quanto detto, è dovuto al semplice fatto che le sue opere non vengono più studiate. La Scuola di Francoforte, in generale, e questo vale anche per Horkheimer, Fromm, Marcuse, Pollock, Wittfogel e altri, sembra appartenere a un’epoca storica circoscritta, che va dalla crisi nazifascista alla nascita delle nuove conquiste sociali e culturali degli anni ’60, la quale sembra esaurientemente stu1 R. Bubner, Adornos Negative Dialektik, in L. von Friedeburg - J. Habermas (a cura di), Adorno-Konferenz 1983, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1983, pp. 35-: 40: p. 35 (corsivo nostro).
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diata. Ovvero che si tratti di una corrente di pensiero incapace di estendere la sua forza critica e analitica alla nostra contemporaneità. Questa posizione mi pare poco rispettosa di una stagione di pensiero critico che invece può ancora significare molto per la nostra situazione asservita completamente al potere fagocitante della tecnica, della società oppressiva, dell’economia di mercato e della colonizzazione dell’immaginario. Per non parlare del carattere autoritario dei leader politici e del rischio ormai reale di una ricaduta in sistemi dittatoriali, a cui l’industria culturale perversamente fornisce motivi di accettabilità. Il terzo motivo che sicuramente non ha favorito letture innovative dei testi di Adorno è il confronto eccessivamente polarizzato, soprattutto in Italia e Francia, fra la sua opera e quella di Heidegger. Le ragioni dello scontro e la difesa di un contendente contro l’altro si sono anteposte a quelle della ricerca dei possibili nuovi caratteri e limiti delle loro rispettive costruzioni di pensiero. Soprattutto gli heideggeriani, mi pare (fra questi Hannah Arendt è un caso a parte), si sono sentiti in dovere di difendere il loro maestro, le sue ragioni semiteologiche, dagli attacchi di una figura non proprio simpatica come quella di Adorno. Ma per tornare alla tesi di Bubner, sostenuta anche dal richiamo agli aforismi di Friedrich Schlegel: «è altrettanto mortale per lo Spirito, avere o non avere un sistema. Quindi ci si dovrà decidere di combinarli insieme»2, questa prospetta una lettura che Schlegel stesso definiva come ellittica, essendo la ragione e la religione i due fuochi di questa figura geometrica3. Se si vuole cercare un metodo (methodisieren) alla Dialettica negativa, allora per Bubner esistono tre diversi sentieri: il primo consiste semplicemente nel negare la positività delle tesi filosofiche con atteggiamento quasi sofistico; il secondo nel seguire la traccia aporetica dei dialoghi platonici, evitando di giungere a una conclusione accettabile. Il terzo sentiero invece riporta alla logica dialettica hegeliana, a cui Adorno si vuole opporre con tutte le forze, e che rappresenta il vero filo rosso del suo testo. Personalmente ritengo che questa ultima considerazione sia fondamentale per riuscire a organizzare un discorso utile alla comprensione della dialettica negativa di Adorno, la quale, non dimentichiamolo, muove dalla premessa che «i nostri pensieri migliori sono proprio quelli che non riusciamo a pensare pienamente»4. Lo stesso Adorno ha ribadito più volte quanto la lettura della pagina hegeliana sia stata per lui determinante. Nei Tre studi su Hegel sostiene: «non
Ibidem. Cfr. F. Schlegel, Ideen, in Kritische Friedrich-Schlegel-Ausgabe, vol. II, München et al.Zürich, Schöningh-Thomas 1967, pp. 256-272, a p. 267: «Die Philosophie ist eine Ellipse. Das eine Zentrum, dem wir jetzt näher sind, ist das Selbstgesetz der Vernunft. Das andere ist die Idee des Universums, und in diesem berührt sich die Philosophie mit der Religion». 4 Cfr. Th.W. Adorno - W. Benjamin, Briefwechsel 1928-1940, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1994, p. 418. 2 3
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c’è oggi pensiero teoretico di una certa portata, capace di soddisfare all’esperienza della coscienza (e invero non della sola coscienza ma anche del corpo dell’uomo), il quale non si sia nutrito di filosofia hegeliana»5. Un confronto fra Hegel e Adorno, che può contenere anche una metacritica del primo al secondo, è semplificato dal fatto che per entrambi la filosofia trova il suo carattere principale nella descrizione di un momento assoluto, fondativo, all’interno del quale devono trovare spazio il piano etico-politico, quello storico e quello logico del pensiero. Non per nulla la terminologia adorniana è in continuità con quella idealista, ne accetta la scelta lessicale, convinta che i problemi della filosofia trovino la loro espressione migliore proprio nel vocabolario di quegli autori di epoca romantica (o preromantica) che vanno da Fichte – passando per Hölderlin e Schelling – fino a Hegel. Se la teologia insegnata nello Stift di Tübingen (frequentato negli stessi anni rivoluzionari da Hölderlin, Hegel e dal più giovane Schelling) poteva presupporre l’Assoluto, la filosofia idealista deve trovare un fondamento non dogmatico che possa essere universalmente riconosciuto come necessario. Questo moltiplica i problemi: Hegel e Adorno presentano due diverse, ma non opposte, anzi, quasi correlative soluzioni. Mentre il discorso hegeliano è alla ricerca di una chiave che possa unificare metodo e contenuto – o, come spesso si dice, logica e metafisica –, Adorno vuole intralciare questo tentativo e smontare l’architettura che lo sostiene. Critica il concetto hegeliano di soggettività su due fronti: come categoria e come architrave del sistema. Il soggetto hegeliano sarebbe, come categoria, sostanzialmente falso, perché irrispettoso della particolarità, della provenienza, della vicenda storica e religiosa delle persone che compongono un insieme. E come parte sistematica della sua logica ancora falso, perché la parte oggettiva del suo sviluppo, che va dallo spirito soggettivo a quello oggettivo, dall’essere all’essenza, non sarebbe in grado di spiegarne il suo divenire, a determinarne il nuovo status, nascondendosi dietro la categoria dell’identità. La filosofia di Hegel però non può essere presentata come un semplice sistema dell’identità, altrimenti si cade nell’errore di coloro che, come ricordava Croce6, intendono la sua filosofia solo a metà. Per Hegel identità e differenza sono in sé co-appartenenti e dialettici, di modo che senza l’uno anche il significato dell’altro non si lascia esplicitare. L’assoluta identità implica la non-identità (Nichtidentität) – il termine cerniera dell’opera di Adorno – e viceversa. «Essa [identità, dice Hegel] è pertanto identità come differenza identica con sé. La differenza è però identica con sé, solo in quanto è non identità, ma un’assoluta non identità. La non identità però è assoluta, in quanto non contien nulla del suo altro, ma solo se stessa, vale a dire, in quanto è
Th.W. Adorno, Tre studi su Hegel, tr. it. di F. Serra, il Mulino, Bologna 1971, p. 10. Cfr. B. Croce, Prefazione del traduttore, in G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, tr. it. di B. Croce, intr. di C. Cesa, Laterza, Roma-Bari 1984, p. LXIX. 5
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assoluta identità con sé»7. Per potersi assolutizzare, un concetto deve poter comprendere all’interno del suo perimetro l’opposto che lo contraddistingue. Insomma, il grande guadagno di Hegel è proprio quello di aver pensato insieme identità e differenza. Certo, l’ultima parola del suo sistema è sicuramente il raggiungimento dell’identità sia concettuale che metafisica, che alla fine diventano la stessa cosa, il concetto di concetto, ma sempre, come sostiene anche Krämer, in modo dialettico. «L’identità di identità e di non identità è dunque, ad un tempo, non identità di identità e non identità. Questo significa che anche in Hegel, così come in Platone, si ha a che fare con una correlatività delle supreme categorie, che si implicano reciprocamente»8. 2. Sistema e male radicale Adorno vuole manomettere il meccanismo sistematico hegeliano perché il suo ritmo non coinciderebbe con quello della storia. La sua filosofia risente fortemente, più di quella hegeliana, degli effetti che la barbarie politica ha prodotto nel secolo scorso, con guerre, distruzioni e campi di concentramento per milioni di ebrei, centinaia di migliaia di sinti e dissidenti politici. Certo, la filosofia politica ha bisogno della storia come suo banco di prova, come è successo a Platone con la fallimentare esperienza siracusana, e questo può portare a correggere e rivedere le teorie, ma non si può sostenere che tutto ciò che è successo prima di Auschwitz sia costitutivamente falso. Non si tratta, a mio avviso, di decidere se Hegel debba essere considerato un conservatore o un progressista, ma se le riflessioni filosofiche e le vicende storiche hanno raggiunto un punto in cui è riconoscibile una certa ragionevolezza o, detto con le parole di Hegel, una ragione superiore, un certo progresso. La presunta corrispondenza fra una “logica della distruzione” (Logik des Zerfalls) e “un’indicibile metafisica” (unsagbare Metaphysik) non è, a mio avviso, in grado di spiegare il non-concettuale, come vorrebbe Adorno. La ragione umana, la sua tradizione, vuole sapere in cosa consiste la verità di una proposizione, di un’azione, di un oggetto artistico, così come Hegel nel suo personalissimo stile ha tentato di tracciare. Il non-concettuale di Adorno, das Unbegriffliche, non costituisce una risposta filosofica, ma una critica a tutte quelle filosofie che hanno tentato una risposta. E questa critica al concetto non ha a che fare con i limiti della ragione – Adorno non è un fenomenologo –, ma con la costitutiva irraggiungibilità dell’oggetto ideale. Solo a partire da questa coscienza si può ricominciare a fare filosofia. Ma in che modo? Mo-
7 G.W.F. Hegel, Scienza della logica, 2 voll., tr. it. di A. Moni, rev. di C. Cesa, intr. di L. Lugarini, Laterza, Roma-Bari 1984, vol. II, p. 459. 8 H. Krämer, Platone e i fondamenti della metafisica. Saggio sulla teoria dei principi e sulle dottrine non scritte di Platone, tr. it. e intr. di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1989, p. 290. (Come si sa, Krämer non ha mai voluto pubblicare la sua importante opera in lingua tedesca).
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delli di riferimento per Adorno sono autori quali Benjamin, Kraus, Kafka o Valéry, che in modi diversi sono rimasti ai margini della filosofia e si esprimono in un linguaggio in cui è possibile riconoscere una cifra metafisica. Questo non significa cercare di rendere più letteraria la proposizione filosofica, bensì rinnovare il linguaggio accademico della filosofia con nuovo vigore espressivo e sensibilità stilistica. Alla forza del linguaggio compete negli occhi di Adorno un posto superiore rispetto alla forza della logica. Ma come nella riflessione speculativa si possa separare logica e linguaggio è una domanda che Hegel, in tradizione aristotelica, avrebbe posto volentieri. Quanto al piano logico della dialettica hegeliana, Adorno non accetta il momento sintetico che ne rende possibile la conclusione. Per lui il “divenire” non risolve la realtà del “nulla”, o la “realtà” e la “necessità” quelle dell’“apparenza” e della “possibilità”, perché il negativo non è – e non dev’essere – pensato come superabile, resta ciò che è. Il problema è capire se il negativo, come in Hegel, può giocare un ruolo positivo per la dialettica, o se questo deve, come in Adorno, risultare un’essenza principalmente distruttiva. La positività non va confusa con l’ottimismo, direbbe Hegel, ha un senso logico; il momento sintetico non è un trucco tattico, ma un mezzo necessario per superare la contraddizione. Anche il sapere di non sapere della tradizione socratica gioca un ruolo sia regolativo che positivo. Così anche il motto di Spinoza: omnis determinatio est negatio, molto apprezzato da Hegel, ha senso solo se il negativo non viene assunto come momento conclusivo. La teoria della contraddizione, del modo di affrontare la realtà delle contraddizioni storiche, è per Hegel dipendente dal momento sintetico, il più importante – anche per superare definitivamente il dualismo kantiano – della logica dialettica. Per cui non è facile comprendere come Adorno voglia poter usare solo una parte della dialettica senza misconoscere l’essenza stessa della contraddizione: il suo superamento anche logico. Questo il ragionamento di Adorno: tacitamente egli [Hegel] usa l’indeterminatezza come sinonimo dell’indeterminato. Nel suo concetto scompare ciò di cui essa è il concetto; esso viene equiparato all’indeterminato come sua determinazione, e ciò permette l’identificazione dell’indeterminato con il nulla. Così in verità viene supposto già l’idealismo assoluto, che dovrebbe essere prima dimostrato dalla logica.9
Se Adorno vuol dire che l’indeterminato non può essere pensato in nessuna forma, perché pur riconoscendone l’esistenza non è determinabile, misconosce il grosso guadagno della riflessione hegeliana. L’indeterminato, per Hegel, presuppone già la sua differenza e allo stesso tempo la sua dipendenza dalla determinatezza. Ovvero è già in sé dialettico, perché presuppone ciò 9
Th.W. Adorno, Dialettica negativa, tr. it. di C.A. Donolo, Einaudi, Torino 1980, p. 108.
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che espressamente nega: la determinatezza, e viene così compreso nella sua verità. Un pensiero radicalmente negativo non è filosoficamente sostenibile. Come argomenta Schmucker: «già il fatto che venga proposta una ‘Dialettica negativa’ è una prova contro la negatività»10. E Beierwaltes si chiede se «una dialettica che procede in modo puramente negativo, sebbene pretenda di sottrarsi ad un principio assoluto, non rimanga, tuttavia, in “balia dell’identità”, in quanto cerca di dar figura al non-identico e di aiutarlo a raggiungere la sua esistenza». Poi giustamente precisa: «la negatività, quale rovesciamento o distruzione del “semplicemente” identico sempre presupposto, non è la “prima” realtà cripticamente ipostatizzata di questo pensiero, l’assoluto hegeliano rovesciato in male radicale?»11. 3. Figure di riconciliazione Hegel, con il suo lavoro, non ci ha consegnato una semplice soluzione per i problemi classici della filosofia, mentre ha cercato con tutte le sue forze intellettuali di dare al sogno millenario della riconciliazione fra mondo finito e infinito un fondamento necessario. E forse anche di dare alla divino-umanità un senso razionale finalmente corrispondente alle conquiste etico-politiche dell’epoca moderna. Personalmente sono convinto che le diverse tradizioni politiche e religiose dei nostri autori giochino un ruolo decisivo. Prendere Auschwitz come categoria filosofica non ha a che fare unicamente con l’enormità del dramma, ma anche con l’impossibilità storica del popolo ebraico di combattere il male. Questa impossibilità costituisce il motivo di fondo nell’opera di Adorno, alla quale ha voluto restare fedele anche a livello logico, negando la modalità del possibile. Di fronte alla bancarotta storica, egli dice, ogni proposta logico-metafisica deve tacere. Adorno si appella alla realtà, lamenta che questa non coincide con l’orizzonte storico prefigurato dal sistema hegeliano, men che meno con la maturità del “regno germanico”, evento conclusivo del “Dio politico”, del Weltgeist: lo Spirito del mondo della sua filosofia della storia. Il futuro ha contraddetto Hegel perché la società non è diventata più umana e perché l’uomo si è piegato di fronte a una normalità che fa del mondo sociale e di quello economico il riflesso dei suoi appetiti egoistici. Hegel voleva comprendere il senso della realtà, e in che modo questa può essere riportata sotto il dominio della ragione, per poter essere pensata,
10 Cfr. J.F. Schmucker, Adorno – Logik des Zerfalls, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1977, p. 147. 11 W. Beierwaltes, Identità e differenza, tr. it. di S Saini, intr. di A. Bausola, Vita e Pensiero, Milano 1989, p. 325.
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interpretata e cambiata. Violenza, povertà, razzismo e assenza di libertà politica sono per lui problemi veri che si trovano al di là della dialettica fra razionalità e realtà, una dialettica che può essere compresa solo a partire da un contenuto assoluto. Nell’Enciclopedia spiega in questi termini la sua famosa proposizione sulla coincidenza fra razionale e reale: «Per ciò che riguarda il significato filosofico, è da presupporre tanta cultura che si sappia non solo che Dio è reale, – che è la cosa più reale e che è la sola veramente reale, – ma anche, nel rispetto formale, che l’esistenza è, in parte, apparizione, e solo in parte realtà»12. La realtà, la Wirklichkeit, non deve essere confusa a casaccio con il male, l’esistenza difettiva o l’accidentalità. Questi fenomeni hanno sì un’esistenza, ma non sono realtà, non sono ancora parte dell’idea a cui rimandano solo in senso superficiale ed esterno. Tutto il mondo del possibile non è ancora parte della realtà dell’idea, gli manca quel passaggio che lo può spingere verso la necessità. Ma la possibilità, essendo solo possibile, non è scevra dal rischio di ricadere nella casualità. È la realtà divina dell’idea a rendere possibile il giusto approdo. Proprio qui risiede a mio avviso la differenza con Adorno, il quale sostiene che Hegel è rimasto cieco di fronte all’orrore politico; che le categorie dell’apparenza e della casualità non sono altro, sul piano pratico, che il buco nero della forza negativa di un male radicale. La filosofia non deve abbellire o imbruttire la realtà, ma più che altro spiegare se al di là della nostra ottica soggettiva essa possa avere un senso condivisibile, un significato corale. La proposta di Hegel non deve essere letta come semplice teodicea, altrimenti viene disconosciuta la sua libertà e creatività nei confronti della teologia, cosa già riconoscibile negli scritti teologici giovanili, basti pensi al suo Leben Jesu. Hegel vuole assegnare alla filosofia il suo ruolo specifico, soprattutto spiegare i misteri della religione per evitare conflitti tragici ai cittadini dello stato ideale. La teologia è rimasta divisa e sostanzialmente scettica nei confronti del suo sistema, perché essa l’ha considerato come un corpo estraneo al suo modo di ragionare, un pericolo per le proposizioni di credenza e per la dogmatica cristiana. Nelle Lezioni sulle prove dell’esistenza di Dio Hegel dice espressamente: «la categoria del rapporto della contingenza e della necessità è quella nella quale si riassume e si conclude ogni rapporto della finità e dell’infinità dell’essere»13. In questo caso le categorie modali vengono applicate alle qualità dell’essere, che diventa realtà proprio nel rapporto fra la contingenza e la necessità, e che ha il suo compimento nella necessità assoluta. La casualità, se non viene necessariamente eliminata, resta al di fuori del processo della ragionevolezza, il che significa che i suoi effetti negativi non G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, cit., p. 10. G.W.F. Hegel, Lezioni sulle prove dell’esistenza di Dio, tr. it. a cura di G. Borruso, Laterza, Roma-Bari, 1984, p. 106. 12
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sono attribuibili all’idealismo hegeliano. Se la casualità, l’errore, l’imprevedibile, che costituisce il problema di Adorno, non vengono coinvolti nella dialettica che vede nella possibilità e nella necessità gli altri termini del processo, allora questo primo livello resta per Hegel qualcosa di costitutivamente irrazionale, una manchevolezza che quindi non può essere imputata alla filosofia. Come ha detto Carl Schmitt, Hegel muore nel momento in cui Hitler diventa Cancelliere del Regno. Secondo Adorno la posizione hegeliana resta insoddisfacente perché Hegel presupporrebbe l’esistenza a partire dal concetto di realtà. L’esistenza resta per Adorno eccedente e diversa dalla realtà, e soprattutto non può essere identificata con quest’ultima. La dialettica hegeliana non può spiegare i fenomeni irrazionali, quelli che falsificherebbero tutto il suo sistema. La metafisica teoretica di Hegel sembra ad Adorno essere al contempo troppo forte e troppo debole: eccessivamente forte nel suo essere razionale, e troppo debole rispetto alla misera esperienza umana. Talvolta troviamo nella riflessione adorniana passaggi in cui la prassi, come resistenza verso la normalità, esprime il momento della verità. Ma con più frequenza la dialettica teoria-prassi viene tenuta in sospeso, così che l’infinito dialogo con Hegel può essere mantenuto. Se per Hegel metafisica e dialettica possono trovare, nel lavorio della ragione che coinvolge anche la coscienza umana, una forma di unità, per Adorno la dialettica, dopo aver limitato il suo raggio di azione, entra invece in contatto con una metafisica negativa: creando così una identità nella distruzione che rende finalmente libero lo sguardo su un paesaggio apocalittico. Non posso concordare con la tesi di Theunissen, secondo la quale in Adorno la dialettica approderebbe alla metafisica. A mio avviso la visione apocalittica appartiene già alla sua visione negativistica della dialettica, come anche alla visione negativa dei concetti filosofici in generale: «l’errore determinabile di ogni concetto obbliga ad evocarne degli altri; così sorgono quelle costellazioni, alle quali soltanto è passato qualcosa della speranza del nome. Il linguaggio della filosofia gli si avvicina negandosi»14. Benché la soluzione adorniana del problema dell’identità nella differenza possa sembrare, dal punto di vista dell’utilizzo delle categorie, meno adeguata di quella hegeliana, la domanda centrale non perde di validità: come possiamo essere certi che la logica assoluta del concetto comprenda la verità dell’oggetto e non solo la nostra visione soggettiva, e, soprattutto, perché gli effetti di questo rapporto non hanno prodotto un miglioramento dello stato del mondo finito? Contro la conclusione hegeliana, che trova in un fondamento ultimo (Letztbegründung), logicamente innegabile, la struttura portante del sistema, Adorno riapre il problema kantiano dei limiti della conoscenza e crede infine che 14 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 47. Anche G. Schweppenhäuser, nella sua introduzione ad Adorno, sottolinea il valore di questa tesi: Theodor W. Adorno zur Einführung, Junius, Hamburg 2013, p. 68.
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solo a partire dalla prospettiva di un punto archimedeo sia possibile (eventualmente) parlare di soluzione. Quindi solo a partire da una impossibile possibilità. Se in Hegel la logica viene a occupare, non a sostituire, il posto della metafisica, Adorno si trova costretto a un ritorno alla metafisica considerata superiore al costrutto logico, perché sarebbe la metafisica, e non la logica, a incarnare il momento della speculazione. «È perciò che dobbiamo tenere fermo alla metafisica. Potremmo dire che essa incarna quello che nel linguaggio della filosofia in genere si chiama il momento della speculazione, e in cui andiamo legittimamente al di là del fatto che accade, poiché ciò con cui siamo messi a confronto lo esige»15. E «ciò con cui siamo messi a confronto», per tornare alla tesi di Bubner, è l’impossibilità di credere che la filosofia possa risolvere l’antica domanda della riconciliazione fra soggetto e oggetto con un sapere enciclopedico, il quale passa dalla logica alla natura e trova una conclusione nello spirito assoluto, dove arte, religione e filosofia si affratellano e il pensiero è tutt’uno con il pensato. Il mondo, direbbe Adorno, non è ancora maturo per riconoscersi in un percorso tanto ardito, e forse non lo sarà mai. Hegel, fortunatamente, poteva ancora non riconoscersi in questa tesi.
15 Th.W. Adorno, Terminologia filosofica, 2 voll., tr. it. di A. Solmi, Einaudi, Torino 1975, vol. II, pp. 364-365.
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Abstract The article brings complementary understood position of Hegel and Adorno together in a convincing philosophical synthesis. Points of emphasis are epistemology, religion and history. Herein, Adorno is viewed as critical “neohegelist” and Hegel’s logic has an actuality providing perspectives leading to a new understanding of Adorno’s negative dialectic. Keywords: ellipse, randomness, possibility, necessity, metaphysics.
Dialettica negativa e dialettica speculativa Adorno a confronto con Hegel Lucio Cortella
L’espressione dialettica negativa viola la tradizione. Già in Platone la dialettica esige che attraverso lo strumento di pensiero della negazione si produca un positivo; più tardi la figura di una negazione della negazione lo ha nominato in modo pregnante. Questo libro vorrebbe liberare la dialettica da una siffatta essenza affermativa, senza perdere neanche un po’ in determinatezza. Una delle sue intenzioni è l’esplicitazione del suo titolo paradossale.1
È il celebre inizio della Dialettica negativa. E fin dalle prime parole emerge il confronto con Hegel, la sfida adorniana alla dialettica di Hegel. Quest’ultimo conosceva molto bene la dialettica negativa, avendola appresa dalla filosofia antica, dai dialoghi del primo Platone (quelli profondamente influenzati da Socrate e dalla sua ironia dialettica)2 e poi dalla lezione dello scetticismo3. Ma al tempo stesso aveva riconosciuto al tardo Platone la ca-
Th.W. Adorno, Dialettica negativa, tr. it. di P. Lauro, intr. e cura di S. Petrucciani, Einaudi, Torino 2004, p. 3. 2 «Qui non teniamo conto dei dialoghi, che contengono soltanto dialettica negativa e conversazioni socratiche, in quanto prendono ad oggetto soltanto rappresentazioni concrete, non la dialettica in quel più alto significato; essi difatti ci lasciano insoddisfatti, essendo loro scopo ultimo di scompigliare le opinioni degli individui o di destare il bisogno della conoscenza» (G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, 3 voll., tr. it. di E. Codignola e G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1964, vol. II, p. 212). 3 Fin dai tempi di Jena Hegel aveva riconosciuto l’importante contributo dello scetticismo antico alla filosofia e tale contributo andava individuato proprio nella critica scettica del finito, un giudizio che Hegel ha tenuto fermo anche nelle opere della maturità: «Tra scetticismo e filosofia c’è questo rapporto, che il primo è la dialettica d’ogni determinato. Di ogni rappresentazione del vero si può dimostrare la finitezza, giacché essa contiene in se stessa una negazione, quindi una contradizione» (ivi, p. 503). Ma anche nel caso dello scetticismo è per Hegel altrettanto evidente che si tratta di mera dialettica negativa: «La dialettica, presa dell’intelletto per sé separatamente, dà luogo, in particolare, quando vien mostrata in concetti scientifici, allo scetticismo; il quale contiene la mera negazione come risultato della dialettica» (G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, tr. it. di B. Croce, Laterza, Roma-Bari 1984, § 81, p. 96). 1
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pacità di superare quella mera negatività giovanile e di esser pervenuto a un risultato positivo4. Conosciamo l’obiezione fondamentale che Hegel muove alla dialettica negativa e in particolare allo scetticismo, obiezione che viene sostanzialmente riassunta da Adorno in quelle prime righe della sua opera: essa si limita a mostrare la contraddittorietà dei concetti, delle teorie e delle determinazioni in genere e, poi, una volta rivelata quella contraddittorietà, ne decreta la falsità. Non produce perciò alcuna conoscenza positiva ma si limita a rilevare (soprattutto nella sua versione scettica) una indeterminata falsità del tutto. Lo riassume molto bene Hegel nell’Introduzione alla Fenomenologia: Lo scetticismo, che si conclude con l’astrazione del nulla, ossia del vuoto, non può procedere oltre da questa astrazione; ma è costretto ad attendere se gli si presenti qualcosa di nuovo, e che cosa mai gli si offra, per poi gettarlo in quel medesimo abisso vuoto.5
Ovviamente si tratta di un passo importante: rilevare la contraddittorietà del finito è elemento essenziale al manifestarsi della verità. E che la filosofia debba cominciare dallo scetticismo è una tesi che Hegel ha sostenuto fin dai tempi di Jena. Ma ovviamente non può bastare. Lo scetticismo si volge adunque contro il pensiero intellettualistico, che fa delle differenze determinate un ultimo, un essere. Invece il concetto logico è esso medesimo questa dialettica dello scetticismo: infatti questa negatività, insita nello scetticismo, è necessaria anch’essa alla vera conoscenza dell’idea. La differenza sta solo in ciò, che gli scettici s’arrestano al risultato come a un negativo.6
La dialettica speculativa hegeliana non è in fondo molto diversa dalla dialettica negativa scettica. Entrambe muovono dalle contraddizioni del finito rilevando la sua insostenibilità. Ma lo scetticismo si ferma qui e non riesce a vedere nella contraddizione alcun elemento di verità. Per la dialettica negativa (e lo vedremo ribadito in Adorno) la contraddizione è solo un index falsi. Una volta rilevata la contraddittorietà di una determinazione (un concetto, una figura della coscienza, un sapere), non vi è più nulla da sapere né da capire. Ciò che resta è semplicemente abbandonare quella determinazione per affrontarne un’altra. Sicché, come scrive Hegel, una volta trovato «qualcosa di nuovo» si finirà per «gettarlo in quel medesimo abisso». 4 Non ancora nel Parmenide ma più efficacemente nel Sofista e nel Filebo: «Veramente manca ancora nel Parmenide il ricongiungersi degli opposti in unità e manca l’affermazione di questa unità, sicché questo dialogo, come gli altri accennati, giunge a un risultato più che altro negativo; ma nel Sofista e nel Filebo Platone afferma anche l’unità» (G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, cit., vol. II, p. 212). 5 G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, tr. it. a cura di G. Garelli, Einaudi, Torino 2008, p. 62. 6 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, cit., vol. II, pp. 503-504.
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L’esercizio della dialettica negativa è semplice e certamente meno impegnativo di quello hegeliano, la cui pretesa è invece quella di imparare qualcosa di positivo dalla contraddizione. Quando da una determinazione viene dedotto un significato opposto (dall’essere il nulla, dal finito l’infinito, dal soggetto l’oggetto, ecc.) non ci si limita a vedere la falsità o nullità di quella determinazione, ma – ed è questa la novità hegeliana nella storia della dialettica – se ne è arricchito ulteriormente il significato, grazie all’aggiunta di quell’opposto. Cotesta negazione è un nuovo concetto, ma un concetto che è superiore e più ricco che non il precedente. Essa è infatti divenuta più ricca di quel tanto ch’è costituito dalla negazione, o dall’opposto di quel concetto. Contiene dunque il concetto precedente, ma contiene anche di più, ed è l’unità di quel concetto e del suo opposto.7
La dialettica speculativa supera quella negativa quando si dimostra capace di vedere nella contraddizione un nuovo significato che – unito a quello precedente – produca un progresso nella conoscenza. Perciò mentre la dialettica negativa sfocia nell’indeterminatezza della falsità del tutto, quella speculativa ottiene un risultato determinato, che emerge dall’unità di due opposti: «Il momento speculativo, o il positivo-razionale, concepisce l’unità delle determinazioni nella loro opposizione; ed è ciò che vi ha di affermativo nella loro soluzione e nel loro trapasso»8. La pretesa hegeliana di conferire alla dialettica un risultato positivo che eviti l’indeterminatezza si fonda dunque sulla sua capacità di tenere insieme due significati opposti. Ed è proprio questa capacità che invece manca allo scetticismo e a ogni dialettica negativa. Bisogna, in altre parole, saper conoscere che nel risultato è essenzialmente contenuto quello da cui esso risulta; – il che è propriamente una tautologia, perché, se no, sarebbe un immediato, e non un risultato. Quel che resulta, la negazione, in quanto è negazione determinata, ha un contenuto.9
Nella sua illustrazione della negazione determinata, Hegel continua a ribadire che quella determinatezza conclusiva avrebbe la sua radice nella determinatezza del punto di partenza («Il nulla […], preso come nulla di ciò da cui deriva, di fatto non è altro che il risultato veritiero; e perciò è esso stesso un nulla determinato, e ha un contenuto»10). In realtà allo scettico non basta la determinatezza del punto di partenza per ottenere un risultato determinato. Egli si limita a negare (mostrandolo contraddittorio) quell’oggetto e da quella 7 G.W.F. Hegel, Scienza della logica, 2 voll., tr. it. di A. Moni, rev. di C. Cesa, intr. di L. Lugarini, Laterza, Roma-Bari 1981, vol. I, p. 36. 8 G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, cit., § 82, p. 97. 9 G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., vol. I, p. 36. 10 G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, cit., p. 62.
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negazione non ricava niente di determinato (com’è noto, la negazione di un determinato non è per nulla determinata, ma è tutto ciò che quel determinato non è, ed è dunque totale indeterminatezza). Perciò, contrariamente a quel che scrive Hegel, ciò che conferisce positività alla dialettica speculativa è invece il significato opposto che Hegel riesce a dedurre da ogni concetto, un significato che – nonostante la sua opposizione – è del tutto determinato. A quel punto ciò che serve per ottenere un progresso è la capacità della ragione di tenere assieme quei due significati determinati e opposti. In ciò sta la “concretezza” dello speculativo: essere non «unità semplice e formale, ma unità di determinazioni diverse»11. Il sistema hegeliano è costruito proprio in questo modo, attraverso la continua aggiunta di nuovi significati che accrescono il concetto di partenza: «Per questa via deve il sistema dei concetti, in generale, costruir se stesso – e completarsi per un andamento irresistibile, puro, senz’accoglier nulla dal di fuori»12. 1. Un nuovo senso della contraddizione Adorno conosce bene le obiezioni di Hegel a una dialettica che voglia rimanere solo negativa. In particolare egli è ben consapevole del rischio “indeterminatezza” che pende sul suo capo. D’altra parte ha anche visto l’esito cui ha condotto la trasformazione hegeliana del negativo in positivo: la rimozione del lato critico della dialettica e la riabilitazione come vero di ciò che in prima battuta era apparso contraddittorio e falso13. Già nella Dialettica dell’illuminismo Horkheimer e Adorno avevano riconosciuto alla tesi della negazione determinata hegeliana il pregio di non voler “definire” positivamente l’assoluto e il vero ma di ottenerlo solo attraverso la negazione del falso, ma
G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, cit., § 82, p. 97. G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., vol. I, p. 36. 13 Già Marx aveva individuato nell’enfasi hegeliana del positivo e dell’affermativo il difetto della sua dialettica: «L’uomo autocosciente, in quanto ha riconosciuto e soppresso [aufgehoben] come autoalienazione il mondo spirituale, ossia la generale esistenza spirituale del suo mondo, conferma, tuttavia, di nuovo il medesimo mondo in questa figura alienata e lo dà per la sua vera esistenza, lo ristabilisce, pretende di esser presso di sé nel suo esser-altro come tale, e quindi dopo la soppressione [Aufhebung], per esempio, della religione, dopo il riconoscimento della religione come un prodotto dell’autoalienazione, si trova, tuttavia, confermato nella religione come religione. Qui è la radice del falso positivismo di Hegel e del suo solo apparente criticismo» (K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, tr. it. di G. della Volpe, in K. Marx - F. Engels, Opere complete, vol. III, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 249376: p. 367). Un’analoga obiezione si trova in Marcuse: «Il pensiero dialettico non impedì a Hegel di sviluppare la sua filosofia in un armonioso sistema totale, il quale finisce con il porre enfaticamente l’accento sul positivo. Io penso che sia la stessa idea di ragione a costituire l’elemento non dialettico della filosofia di Hegel. Tale idea di ragione, infatti, comprende ogni cosa in sé e infine risolve ogni problema, in quanto ogni cosa ha un suo posto e una sua funzione nell’insieme» (H. Marcuse, Ragione e rivoluzione. Hegel e il sorgere della «teoria sociale», tr. it. di A. Izzo, il Mulino, Bologna 1997, p. 49). 11 12
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al tempo stesso ne avevano individuato il difetto nella trasformazione di quel negativo in una positività ultima. Nel concetto di negazione determinata, Hegel ha indicato un elemento che distingue l’illuminismo dalla corruzione positivistica a cui egli lo assegna. Ma in quanto finì per elevare ad assoluto il risultato conosciuto di tutto il processo della negazione – la totalità sistematica e storica –, contravvenne al divieto e cadde a sua volta nella mitologia.14
Se la negazione determinata consente di sottrarsi alla tentazione “idolatrica” di nominare e concepire positivamente l’assoluto, la trasformazione conclusiva del negativo in positivo contravviene al divieto mosaico di farsi un’immagine di Dio e di nominarlo, e perciò finisce per ricadere nell’idolatria e nella mitologia. Al fine di riabilitare la negatività dialettica senza ricadere nell’indeterminatezza scettica, Adorno mantiene perciò l’idea hegeliana secondo cui nella contraddizione noi non facciamo unicamente un’esperienza negativa, meramente confutativa nei confronti delle determinazioni (logiche, coscienziali, sociali, storiche) prese in esame. Al di sotto della contraddizione anch’egli riconosce un elemento di verità, che per una coscienza attenta, addestrata alla dialettica, può diventare un’esperienza formativa. L’idea hegeliana che la via dialettica del dubbio e della disperazione15 sia positivamente un Bildungsprozess, un processo di formazione, non va abbandonata ma, anzi, rafforzata. Dalle contraddizioni noi possiamo imparare. Ma allora il punto è capire che cosa sia propriamente una contraddizione, che cosa essa ci comunichi e quale sia il messaggio da essa veicolato. E qui emerge in tutta la sua portata la distanza di Adorno da Hegel: La contraddizione non è ciò in cui l’idealismo assoluto di Hegel dovette inevitabilmente trasfigurarla: un essenziale eracliteo. Essa è index della non verità dell’identità, del non assorbimento del concettualizzato nel concetto.16
La dialettica è in Hegel positiva perché essa esprime l’essenza delle cose e quest’essenza è costituita da una totalità di contraddizioni, dal continuo passare ad altro delle determinazioni, dall’essenziale esser altro di ognuna di esse. La positività hegeliana non consiste, come spesso si crede, nell’eliminazione della contraddizione, ma, al contrario, nella sua valorizzazione come l’unica definitiva verità delle cose. Perciò la totalità è al tempo stesso negativa e positiva: negativa perché costituita da contraddizioni e dalla negatività che con-
14 M. Horkheimer - Th.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, tr. it. di R. Solmi, intr. di C. Galli, Einaudi, Torino 2010, p. 32. 15 Cfr. G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, cit., p. 60. 16 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 7.
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traddistingue ogni sua determinazione, positiva perché in questa negatività consiste la sua verità e il suo ultimo, inoltrepassabile senso. L’unico punto, per ottenere il progresso scientifico, – e intorno alla cui semplicissima intelligenza bisogna essenzialmente adoprarsi, – è la conoscenza di questa proposizione logica, che il negativo è insieme anche positivo.17
Nella negatività della contraddizione Hegel vede proprio la manifestazione speculativa dell’assoluto. Non vi è altro positivo che l’assunzione della negatività come il vero volto dell’assoluto, secondo la celebre proposizione enunciata da Hegel per la sua abilitazione a Jena: contradictio est regula veri, non contradictio falsi. Si tratta di un principio che Hegel ribadisce in forma ancor più completa e definitiva all’interno della Scienza della logica: Tutte le cose sono in se stesse contraddittorie, e ciò propriamente nel senso che questa proposizione esprima anzi, in confronto delle altre, la verità e l’essenza delle cose.18
Si tratta di una proposizione assolutamente centrale per capire non solo la collocazione della contraddizione in Hegel ma la sua stessa concezione dell’assoluto. Come lo stesso Hegel avverte, essa ha un significato che la colloca al di sopra delle altre, dal momento che esprime l’essenza del tutto. Ed è propriamente questa la concezione che Adorno condanna come “eraclitismo”: fare della contraddizione un’essenza, la legge della totalità, il senso ultimo delle cose. Contro di essa egli mette in luce un altro senso della contraddizione: in essa si manifesta l’insufficienza dei nostri concetti, la loro incapacità di comprendere le cose, l’impossibilità di stabilirne l’identità. Ogni nostro tentativo di fissare gli oggetti in una supposta identità è destinato a collassare e a mostrarvi incessantemente la presenza di ciò che è “altro”. In questo senso l’esperienza della contraddizione è l’esperienza di una non-identità: «La dialettica è la coscienza conseguente della non identità»19. Contraddirsi, passare ad altro, essere altro significa: impossibilità di essere identico a se stesso, presenza immanente della non-identità nell’identità20. Ma allora la contraddizione è qualcosa di radicalmente diverso da ciò che ne pensava Hegel: essa mostra la strutturale incapacità dei nostri concetti di impadronirsi delle cose, l’impossibilità dell’oggetto di venir assorbito dal pensiero. Ne deriva una conseguenza radicalmente anti-hegeliana: la resistenza G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., vol. I, p. 36. Ivi, vol. II, p. 490. 19 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 7. 20 In ciò Adorno riconosce la vera eredità della dialettica hegeliana: «secondo il risultato più duraturo della logica hegeliana esso [il singolo ente] non è assolutamente per sé, bensì è internamente il suo Altro e collegato ad Altro. L’ente è più dell’ente. Questo più non gli viene imposto, ma gli resta immanente in quanto il suo rimosso» (ivi, p. 146). 17 18
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delle cose ai concetti, l’impossibilità di risolvere nel pensare la realtà materiale. Contro l’esito idealistico della dialettica in Hegel, Adorno ne mostra un opposto esito realistico: i concetti non riescono a risolvere in loro stessi le cose, non ne vengono a capo, pretendono di conferire un’identità ai loro oggetti e ne ottengono l’opposto. La contraddizione è il segno inequivocabile della loro insufficienza e falsità. 2. La dialettica tra realismo e idealismo Il realismo adorniano si fonda su basi dialettiche. Condividendo la critica hegeliana alla cosa in sé kantiana, Adorno ritiene che non basti «la rassicurazione che ci sarebbe un ente in sé al di là della totalità delle determinazioni del pensiero». Dato che «l’in sé al di là del concetto è nullo, in quanto completamente indeterminato», la giustificazione di una realtà trascendente il pensiero diventa possibile solo in modo immanente, cioè lasciando la parola al concetto e alla sua pretesa di risolvere in sé la totalità21. La sua incapacità di tenere ferma l’identità concettuale delle cose è la prova della sua impossibilità di risolverle in sé. Adorno quindi tratta la dialettica come una sorta di “prova ontologica in grande”, capace di indicare quella via che partendo dal concetto e dalla sua pretesa di essere l’unica verità delle cose la smentisca grazie alla contraddizione, mostrando al suo interno quell’«altro» che esso non riesce a risolvere in sé. In realtà Adorno sembra pretendere dalla dialettica più di quello che essa consente. Che cosa dimostra propriamente la contraddizione? L’immanenza dell’altro in ogni determinazione concettuale, la sua incapacità di esaurire in un solo concetto l’identità della cosa. Essa è perciò critica del concetto identitario e apertura a una non-identità non risolvibile: un concetto che si proponesse hegelianamente di sintetizzare il primo significato col suo altro si ritroverebbe di fronte a un nuovo “altro”, senza alcuna possibilità di fermare la catena dei rinvii. Tuttavia non vi è alcuna necessità che questo “altro” sia costituito da una realtà materiale irriducibile al pensiero, come vorrebbe Adorno. L’immanenza dell’altro vale solo come confutazione di una concettualità identificante ma non ancora come dimostrazione (indiretta) di un realismo materialistico. Del resto dalle medesime premesse dialettiche, che secondo Adorno dovrebbero condurre al materialismo, Hegel ricava una opposta tesi idealistica. La presenza immanente dell’altro in ogni determinazione, il suo essere al tempo stesso identico e non-identico, ovvero contraddittorio, svela proprio la natura concettuale del tutto: solo logicamente si riesce a pensare la non-identità della cosa. La presunzione dell’immediatezza (empirica e naturale) si smentisce da sé e mostra l’infinità del processo del mediare. Ora proprio questa priorità della mediazione sull’immediatezza fa sì che la verità ultima 21 «Per la coscienza dell’illusorietà della totalità concettuale non è aperta altra strada, che spezzare immanentemente l’apparenza d’identità totale: in base al suo criterio» (ivi, p. 7).
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delle cose sia logico-concettuale. La non-identità dei concetti, cioè la dialetticità del tutto, è dunque per Hegel il fondamento della sua tesi idealistica. Egli non nega infatti l’infinità del processo del mediare: non c’è un concetto ultimo in cui quel processo si concluda. L’ultima categoria della Scienza della logica, l’idea, non è quell’identità concettuale ultima che Adorno imputa a Hegel, ma è proprio l’istituzione dell’infinità del processo del mediare22. La non-identità dei concetti, che per Adorno fonda l’indipendenza della realtà dal pensiero, è in Hegel il fondamento della concettualità del tutto. Ma, al pari di Adorno, anche Hegel pretende dalla dialettica più di quello che essa concede. L’impossibilità per i nostri concetti di fissare l’identità ultima delle cose, cioè l’inevitabile rinvio all’infinito delle mediazioni, non dice ancora nulla sull’essenza delle cose, ma si limita ad attestare solo l’insufficienza dei nostri concetti. Hegel, invece, di fronte all’infinità intrascendibile del mediare, finisce per ipostatizzare quel processo conferendogli uno status ontologico. In tal modo il pensiero diventa l’essenza ultima delle cose. 3. Il non-identico Adorno sembra consapevole dell’insufficienza dell’argomento dialettico al fine di fondare l’indipendenza della realtà rispetto al concetto. Egli infatti non assume mai che quell’«altro» immanente nell’identità concettuale sia la «cosa», ma si limita ad affermare l’incompatibilità tra la presenza di quell’«altro» e la pretesa totalizzante del concetto. Per fondare «il primato dell’oggetto» egli perciò prende una strada opposta rispetto a Hegel, abbandonando la tesi dell’infinità della mediazione e teorizzando l’irriducibilità del «qualcosa». Alla fine non è il primato della mediazione alla base del suo realismo ma proprio quello dell’immediatezza. Non potrebbe esserci alcuna mediazione senza il qualcosa. Nell’immediatezza non si trova il suo esser mediato allo stesso modo che nella mediazione un immediato che verrebbe mediato. Hegel ha trascurato questa differenza.23
Come l’oggetto non sembra aver bisogno del soggetto (a differenza di quanto quest’ultimo non possa fare a meno di una sua costituzione oggettiva24), 22 «L’idea è essenzialmente processo, perché la sua identità solo in tanto è quella assoluta e libera del concetto, in quanto essa è l’assoluta negatività e, perciò, è dialettica» (G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, cit., § 215, p. 201). 23 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 155. 24 «L’oggetto può essere pensato solo dal soggetto, ma rimane sempre, nei suoi confronti, un altro; il soggetto è invece sin dall’inizio anche oggetto in base alla sua costituzione. Il soggetto non è pensabile senza l’oggetto nemmeno idealmente; l’oggetto senza il soggetto invece sì. Fa parte del senso della soggettività essere anche oggetto; non invece del senso dell’oggettività essere soggetto» (ivi, p. 165). Considerazione analoga viene svolta da Adorno in Parole chiave: «Se il soggetto non è qualcosa – e “qualcosa” designa un momento irriducibilmente oggettivo –,
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così l’immediatezza non ha bisogno della mediazione (a differenza di quanto quest’ultima dipenda sempre da qualcosa su cui esercitare la sua azione mediatrice). «Mediazione» non significa affatto che essa assorbe tutto, anzi postula qualcosa da mediare, non assorbibile; ma l’immediatezza stessa rappresenta un momento che non ha così bisogno di conoscenza, di mediazione come questa dell’immediato.25
Alla fine, nonostante l’adesione alle critiche rivolte da Hegel alla cosa in sé, è proprio questa controversa nozione kantiana a venir riabilitata da Adorno. Essa infatti indica proprio l’al di là del concetto, ciò che gli resiste e presenta perciò tratti opposti a quelli dell’identità concettuale. «Ci sarebbe qualcosa da ridire contro la plausibile critica antikantiana di Fichte e di Hegel», scrive Adorno. «Nel presunto errore dell’apologia kantiana della cosa in sé, che la logica deduttiva poté dimostrare trionfalmente a partire da Maimon, sopravvive in Kant la memoria del momento ostico alla logica deduttiva, la non-identità»26. Di fronte al compito di dare una rappresentazione a questo “al di là” Adorno deve limitarsi a dire ciò che esso non è: non è concetto e dunque non ha il carattere dell’identità di quest’ultimo. Esso è il non-identico. Qualunque pensiero di esso finirebbe per stravolgerlo, perché lo sottoporrebbe al dominio dell’identità. «Pensare significa identificare»27, cioè determinare, circoscrivere, segnare i confini delle cose, altrimenti ne risulterebbe un pensiero vuoto, indeterminato. Ma Adorno evita le facili scorciatoie irrazionalistiche che ritengono di poter conoscere la realtà facendo a meno dei concetti28. Noi siamo costretti a usare i concetti, anche se in tal modo finiamo per imporre sulle cose il marchio dell’identità. «L’utopia della conoscenza sarebbe quella di aprire l’aconcettuale con i concetti, senza omologarlo a essi»29. Ma questa è appunto l’utopia, il non-luogo della nostra esistenza umana. allora esso non è proprio nulla» (Th.W. Adorno, Parole chiave. Modelli critici, tr. it. di M. Agrati, intr. di T. Perlini, SugarCo, Milano 1974, p. 218). 25 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 155. 26 Ivi, p. 259, nota. 27 Ivi, p. 7. 28 Mancano questo aspetto centrale del pensiero adorniano quelle critiche che vedono nella Dialettica negativa la sostanziale rinuncia alla razionalità al fine di consegnare solo all’arte la funzione della teoria critica. Si veda A. Honneth, Critica del potere. La teoria della società in Adorno, Foucault e Habermas, tr. it. di M.T. Sciacca, pres. di F. Riccio, postfaz. di S. Vaccaro, Dedalo, Bari 2002. Su un’analoga presa di distanza dalla Dialettica negativa si era mosso anche J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, 2 voll., tr. it. di P. Rinaudo, a cura di G.E. Rusconi, il Mulino, Bologna 1986. Di parere opposto, invece, H. Schnädelbach (Dialektik als Vernunftkritik. Zur Konstruktion des Rationalen bei Adorno, in L. von Friedeburg - J. Habermas [a cura di], Adorno-Konferenz 1983, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1983, pp. 66-93), il quale sottolinea la componente razionale della dialettica adorniana. 29 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 11.
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Neppure la dialettica riesce a ottenere quell’accesso al non concettuale, perché essa stessa è fatta di concetti e segue una sua logica (che non è quella delle cose). Essa perciò si limita a mostrarci la contraddizione in cui cadono i nostri concetti quando imprimono sulle cose il marchio dell’identità. E nella contraddizione si fa certamente sentire la presenza del non-identico, ma solo nella forma logica della contraddizione. Come abbiamo visto, la realtà per Adorno non è dialettica. La contraddizione è solo la conseguenza del pensiero identificante, una conseguenza logica che non può “dire” nulla sulla realtà. Essa non è altro che la reazione al dominio del concetto, l’index di uno stato di cose reificato. In una condizione conciliata, dove non ci fosse più il dominio del pensiero identificante, non ci sarebbe più neppure la dialettica. […] essa potrebbe avere una fine nella conciliazione. Questa rimetterebbe in libertà il non-identico, lo affrancherebbe pure dalla costrizione spiritualizzata, sola gli aprirebbe la pluralità del diverso su cui la dialettica non avrebbe più alcun potere.30
La realtà vera non è né dialettica né contraddittoria, ma semplicemente “diversa”, al di là dell’opposizione fra identità e non-identità. Ma anche al di là dell’opposizione fra soggetto e oggetto. Se noi continuiamo a pensare all’aconcettuale come a un oggetto, siamo ancora prigionieri del soggettivismo concettuale. Per questo Adorno ritiene che il non-identico possa essere più adeguatamente compreso come materia. Considerato da fuori, ciò che alla riflessione spirituale si offre come non specificamente spirituale, come oggettivo, diventa materia. La categoria della non-identità obbedisce ancora al criterio d’identità. Emancipati da questo criterio, i momenti non-identici risultano di natura materiale oppure inseparabilmente fusi con l’aspetto materiale.31
L’aconcettuale pensato al di fuori delle categorie di soggetto e identità è propriamente materia, ma una materia liberata dalla pretesa gnoseologica che voglia definirla, rappresentarla, farsene un’immagine. Ritenere che il pensiero possa semplicemente riprodurre le cose e rispecchiarle significa muoversi ancora dentro il dominio dell’identità e pensare la cosa come un oggetto definito in sé32. Perciò «solo senza immagini si potrebbe pensare l’oggetto intero»33.
Ivi, p. 8. Ivi, pp. 173-174. 32 «Il pensiero non è un’immagine riflessa della cosa – a ciò lo ridusse unicamente la mitologia materialista di stile epicureo, che inventa che la materia invierebbe delle micro-immagini – ma è lui a dirigersi alla cosa stessa» (ivi, p. 184). 33 Ivi, p. 186. 30 31
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L’immagine definita del mondo, come noi supponiamo sia il suo apparire ai sensi, non è la vera materia, ma la sua deformazione identitaria. 4. Il mondo della contraddizione: tra concetto e realtà Se la vera dimensione della realtà non è dialettica, quale status dobbiamo attribuire al mondo delle contraddizioni in cui noi ci troviamo a vivere? Come abbiamo visto, Adorno condivide con Hegel la tesi secondo cui la dialettica si muove essenzialmente in una dimensione concettuale. La contraddizione è prima di tutto la violazione di un principio logico. Essa è la conseguenza della violenza esercitata dal pensiero d’identità sul non-identico ed è la testimonianza della resistenza del non-identico all’imposizione di un principio ad esso estraneo: «Qualunque cosa che non si pieghi all’unità del principio del dominio non appare in base a tale principio come un diverso indifferente a esso, ma come violazione della logica»34. Il nostro accesso conoscitivo al mondo avviene attraverso i concetti, per cui la risposta delle cose “semplicemente diverse” al tentativo di uniformazione non può che manifestarsi concettualmente, ovvero come violazione del principio di non-contraddizione. È proprio «la cosa inconciliata, a cui manca quell’identità» a mostrarsi «contraddittoria» e a chiudersi «a ogni tentativo di una sua interpretazione univoca». Perciò «essa provoca la contraddizione, non l’impulso organizzativo del pensiero»35. In altri termini: il non-identico sottoposto alla violenza dell’identità non può mostrarsi come tale e si manifesta solo come contraddittorio. Poiché quella totalità [la totalità costruita dal concetto e formatasi sotto la sua azione] si costruisce in base alla logica, il cui nucleo è formato dal principio del terzo escluso, tutto ciò che non gli si adatta, tutto il qualitativamente diverso, assume la segnatura della contraddizione. La contraddizione è il non-identico sotto l’aspetto dell’identità.36
Il contraddittorio è dunque cosa diversa dal non-identico, di cui è solo la conseguenza, una volta che quest’ultimo sia stato sottoposto al pensiero identificante. Non c’è altro modo per l’aconcettuale di far sentire la sua voce. Il mondo in cui noi viviamo ci apparirà perciò «divergente, dissonante, negativo» non perché esso sia realmente così, ma perché così risulta una volta che «la coscienza in base alla sua formazione deve premere per l’unità» e vuol far valere la «sua pretesa di totalità». Infatti «la dialettica rinfaccia questo alla coscienza come una contraddizione»37.
Ivi, p. 45. Ivi, p. 131. 36 Ivi, p. 7. 37 Ivi, pp. 7-8. 34 35
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Ma il pensiero d’identità non è solo un pensiero. Sulla base delle sue leggi l’uomo ha costruito un mondo. Ciò che Horkheimer e Adorno avevano chiamato «illuminismo», vale a dire il processo di razionalizzazione cui l’uomo occidentale ha sottoposto la natura, la società e la stessa struttura dell’individualità, viene visto, nell’ultima grande opera teoretica di Adorno, come la conseguenza del pensiero identificante. Per poter oggettivare, controllare, manipolare le cose è necessario, prima di tutto, averle identificate, aver rinchiuso in un significato univoco la molteplicità del diverso, averle omologate alla medesima logica. Di conseguenza anche la dialettica non riguarderà solo la dimensione del pensiero ma anche la sfera del reale: «Il concetto e la realtà hanno la stessa essenza contraddittoria. Ciò che lacera antagonisticamente la realtà, il principio del dominio, è lo stesso che, spiritualizzato, matura la differenza tra il concetto e ciò che gli è assoggettato»38. Il concetto non è solo un concetto ma è un mondo, e così pure la dialettica non è solo la contraddizione del pensiero ma la contraddizione di un mondo39. Essa rivela la natura inconciliata e dissonante del mondo, ma al tempo stesso ne è la denuncia: «Come contraddizione nella realtà essa è contraddizione contro di questa»40. Da ciò la duplice faccia della dialettica: logica di un mondo dissonante e critica di esso, «ontologia della condizione falsa»41 ma anche logica «a servizio della conciliazione» in grado di smontare «il carattere logico coercitivo a cui obbedisce»42. La critica del mondo emerge dalla stessa logica che lo ha identificato, omologato e sottomesso al principio del dominio. Non vi sono scorciatoie, perché «solo i concetti possono compiere quel che il concetto impedisce»43. Ma tutto ciò conferma la tesi generale di Adorno, secondo cui la dialettica negativa rimane legata «alle massime categorie della filosofia dell’identità», figlia degenere del pensiero identificante e «pertanto resta anch’essa falsa, logico-identitaria, lo stesso contro cui viene pensata»44.
Ivi, p. 45. Ciò è alla base della tesi adorniana secondo cui «la dialettica non è né solo un metodo, né un reale in senso ingenuo» (ivi, p. 131). 40 Ibidem. Scrive a questo proposito Cicatello: «In Adorno la dialettica sembra avere la stessa struttura della realtà, ma in senso opposto a quello hegeliano; il pensiero dialettico riproduce la realtà nella misura in cui riproduce il suo stato apparente», sicché «l’apparenza del pensare riproduce una realtà fatta di apparenza» (A. Cicatello, Dialettica negativa e logica della parvenza. Saggio su Theodor W. Adorno, il melangolo, Genova 2001, p. 120). L’essenza dialettica delle cose diventa in Adorno la falsa essenza di esse, la sostanza di uno stato di cose capovolto. 41 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 12. 42 Ivi, p. 8. 43 Ivi, p. 50. 44 Ivi, p. 134. 38 39
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5. Dialettica negativa e dialettica positiva Solo in questo quadro è possibile comprendere la vera opposizione di Adorno alla dialettica hegeliana, al di là di ciò che lo stesso Adorno afferma esplicitamente. Nella sua critica a Hegel egli infatti tende ad accreditare solo a se stesso la rigorosa teorizzazione della negatività della dialettica, dipingendo il suo avversario come colui che l’avrebbe meramente risolta nel positivo, attraverso l’idea di una negazione della negazione. Considerare la negazione della negazione uguale alla positività è la quintessenza dell’identificare, il principio formale ridotto alla sua forma più pura. Con esso nel cuore della dialettica prende il sopravvento il principio antidialettico, quella logica tradizionale per la quale more arithmetico meno per meno fa più.45
Com’è noto, la negazione della negazione rappresenta in Hegel il carattere fondamentale dell’assoluto. Esso non è infatti un semplicemente affermativo contrapposto alla negatività del finito ma è costituito proprio dal movimento negativo della finitezza, cioè dal togliersi delle determinazioni finite. Come scrive Hegel nella Scienza della logica, «il non essere del finito è l’essere dell’assoluto»46. Quest’ultimo è quindi costituito solo dalla negazione della negatività del finito. Questa è la sua unica positività47. Hegel perciò non elimina la negatività dall’assoluto, ma, al contrario, fa di essa la sua ultima essenza. Non vi è traccia in lui di quel more arithmetico per cui «meno per meno fa più» di cui parla Adorno. Né, come abbiamo visto, Hegel intende addomesticare la contraddizione teorizzando un assoluto privo di scissioni, fratture e negatività. Perciò la dialettica hegeliana deve apparire ad Adorno “positiva” per un altro motivo, cioè perché essa pretende di sollevare la contraddizione e la negatività a essenza delle cose, laddove invece per lui la dialettica deve accontentarsi di mostrare negativamente come non è fatta la realtà delle cose: «La totalità della contraddizione non è altro che la non verità dell’identificazione totale»48. Se la positività hegeliana fa della dialettica un index veri, la negatività adorniana ne fa invece un index falsi. Essa perciò rimane legata al destino del pensiero identificante. Se un giorno questo cessasse di operare finirebbe anche l’opera della dialettica. In un
Ivi, p. 145. G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., vol. II, p. 495. 47 Scrive Jean-Luc Nancy: «La seconda negazione nega che la prima sia semplicemente valida: nega la pura nullità, l’abisso o la mancanza. È la liberazione positiva del divenire, della manifestazione e del desiderio. Essa è dunque affermazione del sé. Ma poiché quest’affermazione liberante non è un ritorno al punto di partenza – alla pietra o a me […] – essa non è neppure un’altra semplice posizione. È la negatività infinita in atto» (J.-L. Nancy, Hegel. L’inquietudine del negativo, tr. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 1998, p. 97). 48 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 8. 45 46
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certo senso lavora contro se stessa, operando in modo che un giorno non vi sia più bisogno di essa. «Per questo è necessario che la dialettica, che è insieme l’impronta dell’universale contesto di accecamento e la sua critica, si rivolti in un ultimo movimento anche contro se stessa»49. Al processo di autoriflessione dell’illuminismo, grazie al quale la ragione dovrebbe diventar consapevole della sua natura coercitiva (e al fondo naturalistica) dovrebbe seguire, secondo Adorno, il processo di autoriflessione della dialettica, grazie al quale anch’essa diventerebbe consapevole della sua falsità. 6. Oltre la dialettica? Adorno dedica all’autoriflessione della dialettica l’ultimo paragrafo delle sue Meditazioni sulla metafisica, in una sorta di congedo definitivo dall’oggetto fondamentale della sua opera. Quella riflessione su di sé dovrebbe impedire alla dialettica di assolutizzarsi, evitare di assumere «l’apparenza del sapere assoluto», apparenza che è «compito della sua autoriflessione cancellare, giacché proprio in questo essa è quella negazione della negazione che non trapassa in posizione»50. La negazione della negazione viene perciò intesa da Adorno, anti-hegelianamente, come quella mossa che impedisce alla dialettica di risolversi in essenza assoluta delle cose, mantenendosi negativa, consapevole della sua lontananza dalla verità del reale. Proprio per la sua avversione al pensiero identificante essa non può presentarsi come logica della totalità, rivelazione del suo senso ultimo. Ma se essa «non è l’intero, allora non è neanche peccato mortale abbandonarla in un passo dialettico»51. E così, alla fine, la dialettica adorniana si rivela – come è stato detto – non tanto una dialettica negativa quanto una «dialettica negata»52. Questa conclusione è una conseguenza inevitabile delle basi su cui si fonda la sua negatività. È evidente che se la dialettica è solo la critica dell’identità, una volta dissolto il sistema dell’identico non vi è più bisogno del suo strumento critico. Ma nell’abbandono conclusivo della dialettica c’è anche altro. C’è l’idea che essa al fondo sia una logica falsa, legata – come ogni logica – «alle massime categorie della filosofia dell’identità»53. Permane al di sotto del pensiero adorniano un costante “sospetto” nei confronti della logica e del pensare concettuale, pur ammettendone al tempo stesso l’inevitabilità. Ma se questa fosse davvero la sua tesi conclusiva, ne deriverebbe un’aporia di fondo, perché solo ponendosi come logica della verità la dialettica potreb-
Ivi, p. 363. Ivi, p. 364. 51 Ibidem. 52 M. Theunissen, Negativität bei Adorno, in L. von Friedeburg - J. Habermas (a cura di), Adorno-Konferenz 1983, cit., pp. 41-65: p. 46. 53 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 134. 49 50
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be essere in grado di criticare il falso. Se essa invece rimane legata al falso, al «bando» da cui viene colpito l’intero sistema sociale, la sua stessa capacità di manifestare le contraddizioni sarebbe colpita dal medesimo sortilegio e non avrebbe alcun valore. In realtà la posizione di Adorno non è così univoca. La stessa autoriflessione della dialettica può essere intesa in due modi diversi: come un congedo definitivo da essa oppure solo come una sua relativizzazione, il mantenersi a distanza da ogni sua assunzione come essenza della totalità. In altri luoghi infatti lo stesso Adorno apre a una concezione della dialettica come l’unico strumento a nostra disposizione per aprire un varco nel sistema dell’identità, in quanto dotata di una logica che non vuol imporsi agli oggetti ma ne rispetta la non-identità: «In un certo senso la logica dialettica è più positivista del positivismo che la disprezza. Infatti come pensiero essa rispetta il pensabile, l’oggetto, anche là dove esso non asseconda le regole del pensiero»54. Dunque, a differenza del pensiero identificante, essa è in grado di sollevarsi al di sopra di quella costrizione che disciplina il corpo e l’anima e che richiede il sacrificio del sé o la vendetta sull’altro55. Seguendo questa seconda linea, si può allora interpretare il recupero da parte di Adorno della nozione benjaminiana di “costellazione” come un modo di intendere la dialettica non più solo come critica del falso ma come accesso, limitato e fragile, al non-identico. Procedere per costellazioni è infatti l’alternativa adorniana al pensiero identificante, per cui, invece di imprimere sulle cose il marchio unilaterale di un unico concetto identico a sé, ci si avvicina ad esse attraverso un gruppo di concetti, sperando in tal modo che la “cassaforte delle cose” si apra «non per mezzo di una sola chiave o di un solo numero, ma di una combinazione di numeri»56. E la costellazione è procedimento genuinamente dialettico perché in essa ogni concetto è relazionato all’altro, è se stesso e l’altro. Laddove il pensiero d’identità recide le relazioni, la dialettica istituisce rapporti: «Solo le costellazioni rappresentano da fuori quel che il concetto ha reciso all’interno, quel più che esso tanto vuole, quanto non può essere»57. Ma pensare per costellazioni significa sviluppare le potenzialità del linguaggio, la sua strutturale apertura, la sua multisignificatività e quelle potenzialità che sono state represse dal pensiero identificante. Il linguaggio non è
Ivi, p. 128. «La ragione dialettica segue l’impulso di trascendere il contesto naturale e il suo abbaglio che si prolunga nella costrizione soggettiva delle regole logiche, senza imporgli il suo dominio: senza sacrificio e vendetta» (ibidem). 56 Ivi, p. 148. Sul ruolo della costellazione nel pensiero di Adorno si è soffermato di recente M. Seel, Versionen der Negativität konstellativen Denkens, in Th. Khurana et al. (a cura di), Negativität. Kunst, Recht, Politik, Suhrkamp, Berlin 2018, pp. 424-434. Dello stesso autore Adornos Philosophie der Kontemplation, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2004 (in particolare il cap. III). 57 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 147. 54 55
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infatti riducibile al concetto, anzi, il movimento del pensiero è dato proprio dalla tensione fra parola e concetto, cioè dal fatto che la parola è al di là di ciò che il concetto intende esporre in essa. «La differenza fra il significato puramente concettuale delle parole e ciò che il linguaggio esprime con esse è in verità il medium in cui soltanto si sviluppa il pensiero filosofico»58. Proprio l’ulteriorità del linguaggio è ciò che consente al concetto di non lasciarsi irrigidire, andando al di là di se stesso e quindi aprendosi al non-identico. Vi è quindi un’affinità profonda fra linguaggio e non-identico, perché entrambi strutturalmente aperti, relazionati ad altro. E per questo il non-identico «è alla ricerca della parola. Grazie al linguaggio esso si scioglie dal bando della sua ipseità»59. La dialettica, sotto forma di costellazione, gli mette a disposizione questa possibilità. E a quel punto nell’oggetto si aprirebbe l’intero «processo accumulato al suo interno»60, la sua storia, la riabilitazione del represso. All’abbandono della dialettica c’è dunque un’alternativa. Ma percorrere questa via significa ripensare daccapo il suo rescisso rapporto con la verità, emanciparla dall’idea più volte ribadita da Adorno che essa sia solo un index falsi e alla fine riannodare, pur da una prospettiva post-metafisica e anti-essenzialista, il rapporto con la dialettica hegeliana.
58 Th.W. Adorno, Terminologia filosofica, 2 voll., tr. it. di A. Solmi, Einaudi, Torino 1975, vol. I, p. 51. 59 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 147. Ha intuito l’importanza in Adorno della dimensione linguistico-comunicativa A. Wellmer, La dialettica moderno-postmoderno. La critica della ragione dopo Adorno, tr. it. di F. Carmagnola, Unicopli, Milano 1987 (anche se poi egli obietta che Adorno non avrebbe saputo adeguatamente sviluppare quelle intuizioni). Il rapporto fra elemento linguistico e dialettica è al centro del saggio di A. Bellan, Il linguaggio e il negativo, in Id., Trasformazioni della dialettica. Studi su Theodor W. Adorno e la teoria critica, Il Poligrafo, Padova 2006, pp. 51-72. 60 Th.W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 148.
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Abstract According to the Hegelian speculative dialectics, contradiction is the essence of the whole. According to the Adornian negative dialectics, contradiction is index of the falsity of identity thought and concept. For this reason, the Hegelian dialectics is positive, while the Adornian dialectics is negative. According to Hegel, the contradiction manifests the being-mediated by others of every determination, that is, it demonstrates the priority of mediation over immediacy and therefore the conceptual nature of the whole. According to Adorno, the presence of the other in every determination demonstrates the insufficiency of the concept, its inability to solve reality within itself. For this reason, the outcome of the Adornian negative dialectics is realistic, while that of the Hegelian dialectics is idealistic. Hence the Adornian thesis according to which the true reality, non-conceptual reality, is neither dialectic nor contradiction. Keywords: dialectics, contradiction, realism, idealism, constellation.
The Handkerchief A Dialectical Tale Eli Friedlander
What is The Handkerchief, if from its opening sentence, «Why is storytelling on the decline?»1, it fore-tells the end of storytelling2? It might seem too easy to ask whether it is itself a story, an automatic trick of the trade to so reflect question upon questioner. The text surely contains the telling of a story, one which is attributed to «the first and maybe the last storyteller I ever met in my life» – Captain O. – and yet the insertion of that tale in The Handkerchief does not in and of itself make that latter text into the telling of a story3. It all depends on how that story is framed – that is on the relation between the inner story and the outer delimiting text. The frame of the story concerns the decline of storytelling, reflecting on the possibility of what it frames. This would seem to make the inner story then just an example of what is no more 1 All references to The Handkerchief are to W. Benjamin, Selected Writings, vol. 2/2, 1931-1934, trans. by R. Livingstone et al., ed. by M.W. Jennings, H. Eiland and G. Smith, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (MA)-London 1999, pp. 658-661. (Henceforth reference to Walter Benjamin’s Selected Writings, abbreviated as SW, followed by volume number and page number). For the Italian translation of the tale, see W. Benjamin, Opere complete. V. Scritti 1932-1933, ed. by E. Ganni, Einaudi, Torino 2003, pp. 310-315. 2 In a letter to Scholem from January 15 1933 Benjamin writes in relation to his knowledge of Kaballah: «[…] I have to content myself with cobweb thin esoteric knowledge; at the moment – for the purpose of a radio play about spiritism. I am about to cast a glance over the relevant literature, not, to be sure, without having constructed, slyly, and for my private pleasure, a theory on these matter which I intend to put before you […]. You should regard some of my more recent products, like “Das Taschentuch” or the – pruned – “Kaktushecke” as originating from the same evident motives as a spirit revue. I only send them to you to honor your archive, if even at my own expense» (W. Benjamin, The Correspondence of Walter Benjamin. 1910-1940, trans. by M.R. Jacobson and E.M. Jacobson, ed. by G. Scholem and Th.W. Adorno, Chicago University Press, Chicago-London 1994, p. 401). I would seem then that Benjamin has no high esteem of this piece of writing. The evident motives are probably the necessity to earn money. Does that make the effort to interpret this piece a king of massive over-reading? 3 I will throughout refer to the first person of the framing text as the writer and to the Captain as the storyteller. The question of the relation of telling and writing will itself be an issue of this reading.
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possible as though the frame lists the conditions of impossibility of a certain kind of experience. But the frame and the story come together in a coda, a surprising sequel, hinting at a more complex relation between the two. How can the conditions of possibility of a certain experience and the experience itself be brought together, (that is, how are those conditions presented in experience) and what could that meeting be if such experience itself is no more possible? Would the story hold something back, to be brought out in reading? Is it then the task of reading to draw a bridge between the two, induce a movement of reflection from one to the other, from the inner to the outer and back, multiplying itself indefinitely, resulting ideally in a certain continuity, in the formation of one medium of meaning? Or is something of the discontinuity between the framing and the framed to be retained, even after criticism has said its last word? Thinking would then manifest itself not in endless reflection but take leave of the work in a final, discrete, image. To justify raising such strange questions, not to speak of answering them, a close reading of this short text must be undertaken, while being careful not to tear apart the fabric of meaning by looking at things in details and magnifying them. The answers to the opening question, «Why is storytelling on the decline?», are summarily provided in the text itself: First, that there is no place for boredom in our lives. Second, that there is no more of that weaving and spinning, tinkering and scraping that came with listening to stories; not enough of that structure of work, order and subordination. Third, that things no longer last the way they should. Even if explanations were provided to clarify this threefold answer, which, undoubtedly, as it stands, is far from transparent, this might not suffice to present the truth of the matter. For explanations might become themselves part of the problem. Indeed what might come handy is a good story. The opposition of storytelling and explanation is hinted at by the storyteller’s distrust of newspapers: «They always want to explain everything to you». A newspaper says what bears on the matter, as news, as information, combined with a further communication of opinions and judgements. This is contrasted to the way of the ancients who «set an example for us by presenting events, as it were dry, draining them entirely of psychological explanations and opinions of every sort […]». Examples show something concretely without relying on explicit rules for understanding. Indeed they are required precisely when there is a problem with transmission. They provide teaching by being particular cases to follow rather than rules to obey. Stories in their singularity and concreteness can be likened to example that present something without explaining it. The storyteller’s stories «kept quite free of superfluous explanations, without losing anything in consequence» (SW 2/2, p. 660). If we try nevertheless to find a common ground for the explanations of the decline of storytelling, it could be characterized in term of the disappearing of a particular structure of experience:
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everyone knew precisely what experience was: older people had always passed it on to younger ones. It was handed down in short form to sons and grandsons, with the authority of age, in proverbs; with an often long-winded eloquence, as tales; sometimes as stories from foreign lands, at the fireside – Where has it all gone? Who still meets people who really know how to tell a story? Where do you still hear words from the dying that last, and that pass from one generation to the next like a precious ring? (SW 2/2, p. 731)
The traditional structuring of experience conducive to storytelling holds together, leisure, a kind of ordering of work and its routine and the products of such work, and is most evident in the figure of the craftsman. Storytelling emerges in an environment of craftsmanship and is itself something of a craft: That old coordination among the soul, eye, and hand which emerges in Valéry’s words is that of the artisan which we encounter wherever the art of storytelling is at home. In fact, one might go on and ask oneself whether the relationship of the storyteller to his material, human life, is not in itself a craftsman’s relationship – whether it is not his very task to fashion the raw material of experience, his own and that of others, in a solid, useful, and unique way. (SW 3, p. 162)
Storytelling is not primarily a literary activity but a form of oral tradition transmitted by certain central figures. There are, as Benjamin notes in his essay The Storyteller, archaic figures of storytellers: the seaman, who brings stories from distant lands, and the farmer, who can recall the distant past of the place he has never left. To them one must add the more recent figure of the craftsman of the city, whose tinkering, spinning and weaving creates the conditions in which stories can be elaborated upon, told and retold so that they impress themselves on memory. The Handkerchief encompasses the story of a seaman, Captain O. whose daily work aboard the ship can structure time and space in such a way that is conducive to the elaboration of stories. The layout of the ship occasions much of the work as well as the idling, the boredom that is essential to storytelling. A ship has a «promenade deck» along which the captain paced, suggesting that side by side with his arduous work, he manifests something of the idleness of the flâneur. It is on this promenade deck that his story begins, just as it is on the promenade deck that the framing narrative of The Handkerchief begins. The storytelling that Captain O. excels in is said to be different from the usual kind in which the storyteller relates his own life experience. For there seemed to be a shadow lying over the Captain’s life. «And that of course, means that he appeared to lack the most marvellous feature of a storyteller: the ability to narrate his own life, to allow that wick to be consumed in the gentle flame of telling» (SW 2/2, p. 659). The material for storytelling for the Captain was not immediately life experience, but rather things, so to speak
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surrounding life4. For the Captain those things were primarily parts of the ship on which he spent most of his time, «everyone of whose ribs and spars he was able to bring to life». The relation of the storyteller to things is made clear by the framing text as one of the reasons the writer adduces for the end of storytelling is that «things no longer last the way they should. Anyone who wears a leather belt until it falls to pieces will always find that at some point in the course of time a story attached itself to it. The captain’s pipe must have known quite a number of them» (ibidem). Presumably, by saying that meaning can attach to things that last, Benjamin in part refers to the fact that things remind you of various circumstances. They can be mementos, rekindle memory even beyond the persistence of the conditions of life in which they played a part (the paradigmatical example of a thing serving as a memory aid is a handkerchief with a knot in it)5. But is there a more internal connection between things, memory and meaning, where something of the truth is expressed by way of those things only in the medium of memory? So, it would not just be that things remind you of a certain truth of the matter, but rather the truth carried by things is realized only in memory, over time. The realization of truth depends on the fact that things can last, remain, even beyond life itself6. Truth is presented by way of stories that attach to things, but presumably it is human truth that is carried by those things (so not only a matter of bringing things to life, but also of bringing a life to things). The title The Handkerchief hints that the nature of that relation between human life and things constitutes the very core of the story7. This is amply suggested by the
4 In the essay The Storyteller Benjamin centers on the idea that the storyteller’s gift is «the ability to relate his life; his distinction, to be able to relate his entire life» (SW 3, p. 162). And yet he also recognizes the depth of the stories that attach to inanimate things: «To be sure, only a few have ventured into the depths of inanimate nature» (SW 3, p. 161). 5 The example of a thing that gathers stories over generations is the Captain’s pipe: «It had come to him from his grandfather, and I think it was the storyteller’s talisman» (SW 2/2, p. 659). 6 This can be put by asking about the kind of memory that is attached to things. In this context consider the following passage from the essay on Baudelaire: «If we think of the associations which, at home in the mémoire involontaire, seek to cluster around an object of perception, and if we call those associations the aura of that object, then the aura attaching to the object of a perception corresponds precisely to the experience [Erfahrung] which, in the case of an object of use, inscribes itself as long practice» (SW 4, p. 337). 7 This identifies the question of storytelling with central issues that were of concern to Benjamin throughout his writings, from his early essay on language which revolves around the idea of a language of things, to the truth uttered by the Paris Arcades. The essence of things tends to expression and man’s essential position in the world is to sound the language of things. That is the fullness of a human life is in the devotion to the meaning of things of one’s world. That devotion is manifest in an activity which Benjamin calls «naming». The fact that the Captain never speaks of his own experience but is a mouthpiece for the truth of things around him makes him into a figure of the essential relation of man to the world. Can storytelling be understood as a form of naming, and if so, does that mean that naming must now take another form, when storytelling is on the decline? Things are somewhat more complex, for naming has always been on the decline, since that original decline of human history, mythically narrated in the story of the Fall. But this probably means that naming must ever find new ways and that
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peculiar exchange between attending to things and attending to life that the inner story recounts. It is made manifest if we juxtapose the two key encounters in that story: Once, when I had picked up her handkerchief […], I’d heard her say ‘Thank you’ in a tone that suggested I’d just saved her life. […] ‘As I held her’ […], ‘she whispered “Thank you,” as if I’d just picked up her handkerchief’. (SW 2/2, pp. 660-661)
The woman’s reactions seem disproportionate, treating the picking up of a handkerchief as if one had saved her life and the saving of her life as if it was the trifling matter of picking up of a handkerchief. She appears to confuse the whole, which is life, with a small detail, an object that occasions one incident of that life. But is the relation between things and life that encompasses them one of part and whole? At least, when memory is concerned a small thing can have momentous consequences with respect to the possibility of fulfilling the meaning of life as a whole. Benjamin was well aware of that “madeleine” effect. It all depends on the correspondences formed between things and between them and life. Maybe a bit figuratively the point can be made by refering to the handkerchief, whose tiniest details are, one learns, three groups of three stars. But these can throw us back to the largest expanses, to constellations of stars above, which, it is believed correspond in mysterious way to the fate of human lives. We can approach this question of the relation formed between microcosm and macrocosm more soberly by asking, once more, what is the relation of the text The Handkerchief to the inner story told by the captain. Here too any simple model of part and whole must be avoided. Rather correspondences between inner and outer onto which reflection can fasten can initiate a movement of thinking within that text. Start from the fact that The Handkerchief names an object that occasions a story. (At least insofar as the story to be considered is the one that the Captain narrates). As is revealed to us at the end, he possesses that very handkerchief to which his story is attached. The narrator of the text, The Handkerchief, is also, no doubt, tied to the fate of that handkerchief, but an obvious difference would be that the Captain holds the handkerchief in his hand, whereas the writer watches it disappear at a distance. For the writer it is, in the end, revealed in parting, a thing itself receding at a distance, as if allegorizing the fact that for him the significance attached not to the story but rather to the decline of storytelling itself. (A handkerchief is the kind of thing that is waved in parting). The end of this text can be linked directly with the opening of the essay on the storyteller: «Familiar though his name may be to us, the storyteller in his living efficacy storytelling cannot name experience anymore. In other words a historico-philosophical epoch can be defined by the transformation in the form of naming.
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is by no means a force today. He has already become something remote from us and is moving ever further away» (SW 3, p. 143). The enclosed story revolves around a handkerchief, and its mysterious possessor. It concerns an intimacy formed by way of a handkerchief. But the encompassing text also mentions the possibility that a last intimacy before taking leave can manifest itself in taking refuge in a handkerchief: Anyone who is accustomed to a lonely departure from foreign towns will know what it means to encounter a familiar face – even if it is not that of a close friend – at a moment when imminent departure sweeps aside all the difficulties of a prolonged conversation, but at the same time provides you with a hat, a hand, or a handkerchief in which the un-accommodated gaze may find refuge before venturing out over the sea. (SW 2/2, p. 659)
First described impersonally that last intimacy does manifest itself between writer and the storyteller, at the end, in the gaze finding refuge in the waving of a handkerchief – that very handkerchief which is the thing to which the story is attached. Reflecting this in the inner story would mean that the handkerchief was, for the Captain too, something to take refuge in, when faced with parting or a loss. The handkerchief covers or veils something that might not be faced in the story. But we can further point to a correspondence at the material level, as it were. The handkerchief, usually a white rectangular cloth with a mark on it bears some similarity to another white rectangular expanse, with marks on it, call it a page of writing. Why not a page of this text The Handkerchief? This would make the handkerchief stand for the text we read but at the same time identify that text as an emblem, like the coat of arms on the handkerchief, raising the question how a text in which one thing leads to the other could become under reading something like a fixed emblem of truth? The handkerchief could function in one way in the story, in relation to storytelling, and in another in the framing text, namely standing for textuality itself. Or better, its fate could stand for what textuality would do to telling, to what is essentially a form of oral transmission8. The connection between the weave of a white handkerchief, and a white page of text can be further amplified if we consider the narration of the second encounter between the captain and the woman: «I was suddenly enveloped in a whirl of white scraps of paper. I looked up and saw the missing woman 8 Issues concerning the weave of the text are an essential figure in Benjamin’s discussion of Proust. We can find a particularly striking example of such an intertwining of figures, of a craft of writing, in the following passages of the essay: «[…] the important thing to the remembering author is not what he experienced, but the weaving of his memory, the Penelope work of recollection. Or should one call it, rather, a Penelope work of forgetting? […] The latin word textum means “web”. No one’s text is more of a web or more tightly woven that that of Marcel Proust» (SW 2/1, p. 238).
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leaning over the railing on the sundeck, absentmindedly watching a mass of papers being tossed about by the wind and waves» (SW 2/2, p. 660). A peculiar description insofar as it suggests that the element takes possession of the papers, as it were drowning meaning. Assuming the essential similarity between the white page and the handkerchief waved, or its counterparts tossed by the waves, we must ask how a text which is essentially articulated, in which words are kept distinct from each other and meaning is determinate, can be related to an element, a continuous medium, figured by water. What is the issue of the element and the distinction, in terms of meaning? This question becomes even more pressing, as we know that the woman, a figure of distinction, throws herself into the element. There is no doubt that the woman in the story is a figure of beauty, who bears some resemblance to Ottilie of Goethe’s Elective Affinities. I note that in Elective Affinities three incidents of drowning are told. In one of them, someone often referred to as the Captain rescues a boy from drowning. But what might be even more significant is that Elective Affinities contains within itself a story, the Tale of the childhood sweethearts’. This tale involves rescue from drowning, and significantly it is said to refer to some dark past in the life of the Captain. The woman’s fate is tied to the element, to the medium, to the water of which Benjamin says in the essay on Goethe’s Elective Affinities: «on the one hand, it is black, dark, unfathomable; but on the other hand, it is reflecting, clear, and clarifying» (SW 1, p. 341). How can the medium be dark and destructive as well as reflecting and clarifying? «She was very beautiful, but her reserve was as striking as her beauty». (I note again that this is a crucial aspect of the description of Ottilie who «is reserved; more than this, nothing she says or does can deprive her of reserve» (SW 1, p. 336)9. Her beauty manifests nobility or distinction, so how could it be allied to the indistinction of the chaotic element? Are we to understand the drowning in the element as the effacement of its distinction, the falling apart of the aristocratic reserve of the woman10? Unless a more intimate connection can be formed between beauty, reserve, the elemental and the destruction of beauty. Beauty induces intimacy and distance, it is the intimacy of the distant. It attracts in its reserve. Just like the thing in this text, the handkerchief, which gathers both the melancholy of separation and the intimacy of recognition.
9 In this context I refer to another figure of beauty and reserve in another story that Benjamin admired, Goethe’s The New Melusine. The princess of the dwarves is described in those terms upon the occasion of the first encounter: «Her conversation was pleasant, yet she sought to deflect anything relating to affection and love […]; I lingered, and tried all sorts of tricks to break her reserve, but in vain. She held me back with a sort of dignity I could not withstand» (J.W. Goethe, The Collected Works, vol. 10, ed. by J.K. Brown, Princeton University Press, Princeton 1995, p. 344). The reference to Geothe’s New Melusine is particularly crucial since it is itself a model of that literary form of miniaturization and enframing. 10 I note that distinction is also attached to storytelling itself: «Storytelling is not just an art; it is a kind of dignity – if not, as in the East, an office» (SW 2/2, pp. 658-659).
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Reserve, that is a certain distance, is essential to the intimacy that beauty can produce. As Benjamin puts it in his famous characterization of the aura as «the unique apparition of a distance, however near it may be» (SW 4, p. 255). He also adds «The essentially distant is the inapproachable». One would then ask about the intimacy that assumes distance without forgetting that this text itself makes a point of describing a moment of revelation at a distance. Such is the function of the binoculars, an instrument that makes the distant present, and can, like a movie camera, focus on a striking detail11. In the essay on Goethe’s Elective Affinities, characterizing Ottilie’s essentially reserved beauty, Benjamin appeals to the figure of the veil to characterize its distance. The veil is a precursor-concept to the aura12. To link beauty and the veil is not simply to identify the beautiful with an illusion. What one is intimate with, in beauty, is truth. Insofar as there is semblance (schein) in beauty, its relation to truth should not be understood on that model of two realms, appearance and essence, usually identified with the sensuous and the intelligible. Rather, as Benjamin puts it: «beauty appears as such only in what is veiled» (SW 1, p. 350). In this characterization that overcomes the dichotomy of essence and appearance, it is not the veil itself that is beautiful. But we would also not identify the beautiful with the thing itself, for it is only in being veiled that it is beautiful13. «Beauty is not a semblance, not a veil covering something else. […] For the beautiful is neither the veil nor the veiled object but rather the object in its veil» (SW 1, p. 351). Thus there is an internal connection between truth and beauty, they are in some sense one. «[Beauty] itself is not appearance but purely essence – one which remains essentially identical to itself only when veiled» (ibidem). The reserve that is essential to beauty is not mere modesty. It is truth that is held in reserve14. Precisely because there is a distance can we afford a view
11 I note that The Handkerchief contains an extremely elaborate descriptions of various distancings and nearings throughout the text. Whether we think of it in terms of the binoculars that make things closer at the beginning and end, or of the ship beginning to recede from the port. Whether it is a closeness that can be crushing as in the unstoppable approach of the ship to the quai. 12 The veil can be the product of the imagination or of memory. It makes things seem more than they are in fact. As if surrounded by an aura. Auratic images may even seem to shrink, when confronted with the thing itself: «The Bellver is a fine, spacious steamship that one would like to think deserved a greater destiny than providing a ferry service to the Balearics. And in fact the image before my eyes really did seem to shrink when, the following day, I saw her tied up at the breakwater in Ibiza, waiting for the return voyage, for I had imagined that it would go on from there to the Canaries» (SW 2/2, p. 658). 13 The fact that beauty has no place is a central characteristic of Kant’s conception of aesthetic judgement. Only knowledge and morality have realms, but beauty is a field, between the one and the other, allied to mediation, or to the medium. See my Expressions of Judgment. An Essay on Kant’s Aesthetics, Harvard University Press, Cambridge (MA)-London 2015. 14 Remember that on Benjamin’s understanding essence has an inner tendency to express itself, and it must be brought to itself, to its self identity, by being given expression through the language of man. By being named a thing as if brought into itself, into its essence, resting
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of truth in beauty. So beauty is not merely flaunting its secret to tempt its admirers, but rather keeps at a distance to afford a view of the truth as one15. To really do justice to beauty one would have to say that the beautiful contains the essence, that one goes through the beautiful to reach truth. «Truth is the content of beauty» (O, 31). Closing the distance on truth signals the destruction of beauty, that same beauty that led the way, by way of its utter intensification. The emergence of truth from beauty is always the destruction of the beautiful semblance. Not by raising the veil to expose the bare truth, but by bringing beauty to its extreme manifestation. The truth content «is revealed in a process which might be described metaphorically as the burning up of the husk as it enters the realm of ideas, that is to say the destruction of the work in which its external form achieves its most brilliant degree of illumination» (ibidem)16. Returning to The Handkerchief, it is possible to say that the handkerchief is also a veil. In French veil, voile, means also that other white rectangular cloth, a sail, as in a sailing ship, like storytelling, another business on the decline. The handkerchief by veiling reveals at a distance the truth of the matter but bringing it closer bringing out that truth of the story within the text, by way of the text, signals the end of beauty. Beauty is destroyed by criticism or reflection that brings truth to itself. We can then lead to a provisional view of the matter, of the relation that seems to be established between the framed story and the reflective frame. The story has a certain appearance of completeness (call it narrative continuity), but reflecting criticism, that takes the story as its object, would, by intensifying its meaning, produce a different kind of continuity, a medium in which truth dwells, but in which the contingent individuality of the work is destroyed. The highest brilliance of beauty is revealed in parting. In that
within its essence. If essence is a potential for expression, then things as it were hold truth in reserve. Beauty would be the presentation of that which is held in reserve, at a distance. Beauty is the appearance of the thing brought to rest in itself. But now what would it be to grasp truth, without actualizing it, as it were while it is still in reserve, at a distance. 15 «The essence of truth as a self-presenting realm of ideas guarantees […] that the assertion of the beauty of truth can never be devalued. This presentational impulse in truth is the refuge of beauty as such, for beauty remains brilliant and palpable as long as it freely admits to being so. Its brilliance – seductive as long as it wishes only to shine forth – provokes pursuit by the intellect, and it reveals its innocence only by taking refuge on the altar of truth. Eros follows it in flight, but as its lover, not as its pursuer; so that for the sake of its outward appearance beauty will always flee: in dread before the intellect, in fear before the lover. And only the latter can bear witness to the fact that truth is not a process of exposure which destroys the secret, but a revelation that does justice to it. But can truth do justice to beauty?» (W. Benjamin, Origin of German Tragic Drama, trans. by J. Osborne, Verso, London-New York 1998, p. 31; hencefort, O). 16 Consider in this context also the end of The Concept of Criticism: «The absolutizing of the created work, the critical activity, was for him the highest. This can be illustrated in an image as the generation of dazzling brilliance in the work. This dazzling – the sober light – extinguishes the plurality of works. It is the idea» (SW 1, p. 185).
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way the medium, figured by water is destructive and reflecting, clarifying, at the same time17. Yet, a question presumably intrudes upon the present considerations: Wasn’t the woman of the story saved from drowning? It would be one thing to save beauty’s dignity, to do in truth, justice to beauty. But was the beautiful woman herself preserved, or is her figure replaced by an image of truth? This leads us back to the question whether there is any way to hold both to the idea of distinction, to the form or beautiful figure of distinction, and to that blending into the element, the medium, that seem to be the result of reflection. How are we to understand the thematic of rescue developed in the story18? Was beauty salvaged after all? Maybe the truth of the matter was veiled in the tale? Maybe the beautiful figure is no more. Can we translate this passing suspicion into a moment of reading? That would mean, according to our principle of advance, making it inform our way of reading, inform our reflection on the text and lead to a final arresting of that incessant unrest in a figure of truth. A fixity which is the result of the balance of extremes against each other. The gradual melting up that makes for continuous uniformity at the beginning of the story must be contrasted to a striking, even somewhat unreal feature of the end. For between beginning and end some time passes, evening falls erasing even ever more details of the scene. And yet, as the ship sails on, and the man directs his binoculars one last time at the captain in the crowd, he not only sees the unfolded handkerchief but also the minute details of it, the mark in its corner «a tripartite coat-of-arms with three stars in each field». This is a striking detail, one that impresses itself with no little surprise (the tale has «a most surprising sequel»), or shock at the end, as it were bringing the text to a standstill (SW 2/2, p. 660). I emphasize this idea of the striking detail because it seems to be at odds with the possibility of the infinitization of reflection and movement. If we pay 17 We can try to approach the formation of the medium out of the distinct, through the idea of gradation that characterizes the peculiar description of the sight of Barcelona, surveyed from the heights of the ship, at the beginning of the text: «The sun was setting over the city and seemed to be melting it. All life had retreated to the light-gray transitions between the foliage on the trees, the cement of the buildings, and the rocks of the distant mountains» (SW 2/2, p. 658). 18 The figure of rescue is central to the account of the dialectical image in Convolute N of the Arcades. Oddly enough it is the figure of rescue at sea: «On the concept of “rescue”: the wind of the absolute in the sails of the concept», and further: «To the process of rescue belongs the firm, seemingly brutal grasp» (W. Benjamin, The Arcades Project, trans. by H. Eiland and K. McLaughlin, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge [MA]-London 1999, p. 473). See also the centrality of the figure of the sail in the characterization of the method of investigation: «What matters for the dialectician is to have the wind of history in his sails. Thinking means for him: setting the sails. What is important is how they are set. Words are his sails. The way they are set makes them into concepts» (ibidem). «Being a dialectician means having the wind of history in one’s sails. The sails are the concepts. It is not enough, however, to have sails at one’s disposal. What is decisive is knowing the art of setting them» (ibidem).
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attention to the detail itself, we might even get a figure of that fixity and partition that does not allow any melting down. Indeed on the handkerchief we find a tripartite coat of arms, with three stars in each field, three groups of three. This is what we might call a constellation. We must therefore ask ourselves what is the contrast between the idea of continuity in reflection and the recognition of the fixity of a constellation. A constellation is discontinuous, composed of singular elements grouped in a certain order. It is always many in one (there is no one-star constellation). We must not be tempted, because of the discreteness and the ordering of a constellation, to reduce it either to the dimension of the concept or to its mere particular elements. The notion of constellation serves to avoid locating the idea, either in the empirical elements, or in the general laws of their movement. (For a constellation is not defined through the movement of the stars). In a constellation there is separation. That is, each point of the constellation is distinct and spatially separated from other. Each point is an extreme point, for a constellation is drafted by the drawing of lines between such extremes. By way of such drafting a constellation is a kind of frozen image. But we tend to associate images in language with analogies, metaphors, thus with a certain exchange, movement, life or desire in language. What is the fixity of a big picture beyond such local movement? What is a picture that is not located in the partial analogies, metaphors, or figurative details but can be as it were a figure of the total truth? No more a figure of beauty, but rather a figure of truth, still, unchangeable and expressionless. This would suggest that even after all the work of criticism, precisely after it, we could at most hold to a lifeless remain in that single short text which is The Handkerchief. Some details of the story can at the end strike us differently, arrest our attention and present a configuration of meaning. We might start hesitating about the place of this strange story, one amongst many strange tales, in the captain’s life. Isn’t this, despite appearances, the story of his life, the one that marked him forever and silenced him about his life? Isn’t it the shadow lying over his life explaining his reserve about narrating it? A strange detail, or even contradiction towards the end of the story seems to support that conjecture. For we would expect the rescuer to be Captain O. himself – the story demands it – and it seems strange that it is a third person, «someone who was willing to make the superhuman effort» (SW 2/2, p. 661), that is identified as the rescuer. All the more strange that at the end it turns out to be the captain who holds the handkerchief. This inexplicable fact, together with the peculiar laconic description of the savior, who appears in the story just to save the woman and report her strange form of thanking him to the captain, makes it more than plausible that the use of the third person pronoun comes to hide the intimate connection of the story to the captain’s life: he is the one who jumped into the water. But he his also the one who remained only with a handkerchief, maybe a sign of gratitude but also, probably, as in this story a sign of parting. This silence around the occasion of receiving that
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handkerchief might be a hint that there is more to it than meets the eye. It might be the silent center around which the captain’s storytelling gathers or revolves. Closing in on that mysterious center might reveal the truth of the matter but it might also silence the storyteller, signal the decline or destruction of storytelling. The captain holds the handkerchief of the story but also holds something back. He narrates the rescue in an odd shift to a third party, distancing himself. The handkerchief can be related to the white scraps of papers floating on the water, as well as to the veil, through the mediating connection of the sail (voile). Another picture, devastating in its utter simplicity, emerges when the details are held together. The captain didn’t tell the truth (although out of his tale the truth might emerge). The captain salvaged the handkerchief from the waves tossing it but the beautiful woman is no more. The tale veils that secret of the captain’s life. The handkerchief, that last remain of intimacy reveals that life as an immobile landscape of destruction. The Handkerchief presents the thing to which it is attached, the handkerchief, as an emblem of the emergence of truth from the decline of beauty, from the decline of storytelling.
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Abstract In my paper I consider a short story that Benjamin wrote in 1932, The Handkerchief, as encapsulating in a literary form some central aspects of the emergence of a dialectical image. I take the tale to bring out an important contrast between the infinite reflection characteristic of Romantic Critique and the image in which all the elements of the telling in time are re-ordered and the striking truth content is recognized. Several other themes in Benjamin’s thought are concentrated and form part of the dialectical unfolding of the tale, such as the nature of the decline of storytelling, the veiled character of the beautiful, as well as the way in which truth can be said to do justice to beauty, at the same time as its destroys its presentation as a self-enclosed whole. Keywords: Walter Benjamin, storytelling, reflection, dialectical image, semblance.
La questione della trasposizione: fenomeno originario, origine e immagine dialettica* Maria Filomena Molder
1. Filologia e rammemorazione Come sia evidente la relazione che sin da giovane lega Benjamin all’opera e al pensiero di Goethe ce lo mostrano le sue molteplici testimonianze. Basterebbe ricordare il saggio sulle Affinità elettive1, i cui echi e le cui risonanze persistono in molti scritti successivi. Tuttavia, già nell’Appendice al Concetto di critica nel romanticismo tedesco2, la comprensione di ciò che separa Goethe da F. Schlegel e Novalis ci consente di ottenere una visione di Goethe a cui nessun altro dei suoi lettori ci aveva preparato3: neanche Nietzsche che pure fu, senz’ombra di dubbio, il primo a rilevare l’inattualità del pensiero goethiano4. Se anche Benjamin avvertì questa inattualità, egli fu tuttavia l’unico a sondarne l’intimità: fu proprio questo a consentirgli di penetrare nella singolare Antichità del poeta. Soffermiamoci sulla sezione III di Weimar, con la descrizione dello studio e della stanzetta di Goethe5: * Traduzione dal portoghese di Gianfranco Ferraro. 1 Vale la pena di ricordare che questo saggio è menzionato in tutti i curricula vitae di Benjamin (complessivamente sei), ed è particolarmente evidente in quello redatto in francese, precisamente il quinto. Cfr. W. Benjamin, Lebensläufe, in Id., Gesammelte Schriften (7 tomi in 13 voll.), a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, in collaborazione con Th.W. Adorno e G. Scholem (e ancora per i tomi III e IX con il supporto di H. Tiedemann-Barthels e T. Rexrothe), Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1972-1990 [d’ora in avanti, GS], tomo VI, pp. 215-228; W. Benjamin, Le affinità elettive di Goethe, in Id., Opere complete. I. Scritti 1906-1922, ed. it. a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2008, pp. 523-589. 2 W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, in Id., Opere complete. I. Scritti 1906-1922, ed. it. a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2008, pp. 353-451. 3 È stata proprio questa freschezza inaudita a impressionare Hugo von Hofmannsthal, facendogli decidere di pubblicare il saggio sulle Affinità nei Neue deutsche Beiträge. 4 Cfr. in particolare F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, tr. it. di F. Masini, in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VI/III, Adelphi, Milano 1970, pp. 51-163: Scorribande di un inattuale, §§ 49 e 51, pp. 150-151 e pp. 152-153. 5 Benjamin visitò la casa di Goethe agli inizi dell’estate del 1928 (mentre preparava l’articolo Goethe per la Grande Enciclopedia Sovietica). Il 2 giugno scrive a Gershom Scholem che
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È basso, non ha tappeti né doppi vetri. I mobili sono tutt’altro che appariscenti. E facilmente egli avrebbe potuto procurarsene di migliori. Poltrone di pelle e imbottite ce n’erano anche allora. Niente, in questa stanza, che volesse sorpassare la moda dell’epoca. […] Qui il vegliardo ha celebrato le tragiche notti abitate dalla Cura, dalla Colpa, dal Bisogno, prima che rosseggiasse la spietata aurora del benessere borghese. Ancora non è stata tentata una filologia che ci schiuda questo intimo, personalissimo mondo, la vera Antichità del poeta. Questa stanza da lavoro era, nel piccolo edificio, la cella che Goethe aveva destinato unicamente a due cose: al sonno e al lavoro. È difficile apprezzare cosa abbia significato la prossimità dell’angusta camera da letto a questa stanza da lavoro isolata come un’alcova. Solo la soglia, come un gradino, lo separava durante il lavoro dal letto troneggiante. E mentre dormiva, la sua opera vegliava lì accanto, quasi a esorcizzare i fantasmi della notte. Colui, al quale per un caso fortunato è dato raccogliersi in questo luogo, avverte nella disposizione delle quattro camerette in cui Goethe dormiva, leggeva, dettava e scriveva, le potenze che obbligavano un mondo a svelarsi quando egli ne accarezzava la nota più intima. Noi invece dobbiamo provare tutte le note di una tastiera per ricavarne la debole vibrazione dell’interiorità.6
Nel luogo in cui lavora e dorme il poeta, Benjamin incontra le condizioni inerenti alla sua poesia: solitudine, concentrazione, rinuncia, spoliazione, libertà dalla morte, notti oppressive, inattualità, sorgente, torrente musicale. Goethe non è né testimone né rappresentante del suo tempo. Lo fu maggiormente Schiller, che capì anche questo di quell’uomo che gli aveva confidato (nella celebre lettera del 23 agosto 1794) di essere soggetto ai terribili poteri dell’oscurità e dell’esitazione, improbabile greco in mezzo ai tedeschi. Con maggior rigore, a Goethe si applicano gli appellativi di vate, profeta, mago, iniziatore, liberatore della poesia tedesca, così come egli volle essere considerato. Un ruolo attribuito dai Greci al dio Dioniso, e più tardi a se stesso da Nietzsche, il quale lo aveva a sua volta già conferito a Goethe7. D’accordo con le stesse parole rivolte da Benjamin a Gershom Scholem nella sua lettera dell’8 luglio 1938, il grande modello filologico e critico per questo testo è «il lato del mio volto di Giano che volta le spalle allo Stato sovietico», e, in una lettera a Hugo von Hofmannsthal del 26 giugno 1929, poco tempo prima della drammatica morte di quest’ultimo, scriverà: «Weimar è un accessorio [ein Nebenprodukt] di “Goethe”» (W. Benjamin, Briefe, 2 voll., a cura di G. Scholem e Th.W. Adorno, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1978, vol. II, p. 496). 6 W. Benjamin, Weimar, in Id., Opere complete. III. Scritti 1928-1929, ed. it. a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2010, pp. 78-80: pp. 79-80 (tr. mod.; ove non diversamente indicato, le traduzioni delle citazioni, a partire dalla traduzione in portoghese fatta dall’autrice, sono da attribuire al traduttore del presente saggio). 7 Nonostante il fatto che Nietzsche, visto il suo talento straordinario nell’osservare le cose da vari punti di vista, e dopo aver riconosciuto in lui le impronte del dio greco, abbia espresso alcune riserve riguardo l’accesso di Goethe all’elemento dionisiaco. Cfr. F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, cit., Quel che devo agli antichi, § 4, pp. 158-160. Bisogna sottolineare ancora una volta come, e in modo insuperato, Nietzsche fu il primo a riconoscere in Goethe un inattuale.
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lo studio dei Passages continua a essere lo studio sulle Affinità elettive di Goethe. Ed è in una lettera di questo stesso anno, indirizzata ad Adorno il 9 dicembre, che Benjamin, punto dalla severa analisi critica che quegli aveva fatto il 10 novembre al suo saggio su Baudelaire, e nella quale veniva sottolineata l’insufficienza di garanzie dialettiche (manca la mediazione, manca la mediazione!), spiega il lavoro del filologo. Afferma Benjamin: la filologia è una minuziosa ispezione del testo, ispezione che avanza di particolare in particolare e che fissa, magicamente, il lettore al suo testo. L’incantesimo si rompe – per quanto il filologo non se ne possa interamente liberare, a meno di non convertire altrimenti il testo, come fanno i lettori impotenti e i cattivi traduttori, in una «preparazione anatomica di passeri morti», come afferma Valéry (a proposito della sua traduzione delle Bucoliche di Virgilio)8, in un’ammucchiata di occasioni concettuali – solo quando si dovesse dare una specie di metamorfosi dello stesso sforzo di liberazione dall’incantesimo, che è quanto propiziato dalla prospettiva storica, la quale dà origine alla formazione di una immagine rapida, di una costellazione magnetica9, quella cioè per cui «l’oggetto si costituisce così come monade. Nella monade tutto quello che, in termini di analisi testuale, si stabilizza come rigidità mitica, riveste la vita»10. Anche nel Prologo al libro sul Trauerspiel, Benjamin si fa aiutare dal concetto leibniziano di monade per dar conto della discontinuità delle idee, al fine di asserire l’impossibilità di una loro reciproca deduzione. In quanto presentazioni in nuce del mondo, le idee riflettono, ciascuna a seconda della propria capacità espressiva, la totalità di un mondo. Secondo Benjamin, la loro relazione rientra nell’ordine dell’armonia musicale. La mitica rigidità a cui egli fa riferimento ha la sua origine nella pietrificazione dell’incantesimo isolato attraverso l’attenzione filologica al contenuto materiale, all’analisi chimica delle ceneri. Per scorgere nelle ceneri la fiamma della vita (il passaggio dal commentato al critico, passaggio che non si può prevenire né tantomeno assicurare), è necessario scoprire in questo contenuto materiale (Sachgehalt) il soffio della comprensione di un altro che abbia vissuto in questa comprensione, avvertendo il flusso che scorre attraverso le parole, il suo contenuto di verità (Wahrheitsgehalt)11. Non a caso, la descrizione della stanza e dello studio di Goethe è preceduta dalla visita agli Archivi Goethe/Schiller, dove i manoscritti sono depositati come malati in letti di ospedale, incapaci di muoversi, e gesticolanti secondo una mimica stanca e cifrata. 8 P. Valéry, Traduction en vers des Bucoliques de Virgile, in Id., Œuvres, vol. I, Gallimard, Paris 1957, p. 210. 9 Si ripensi al contrasto tra la fugacità dell’oggetto storico e la fissità dell’oggetto filologico, sottolineato da W. Benjamin ne I «passages» di Parigi, 2 voll., ed. it. a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2002, vol. II, p. 1014. 10 W. Benjamin, Briefe, cit., vol. II, p. 794. 11 Cfr. i paragrafi iniziali de Le affinità elettive di Goethe.
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Va sottolineato ancora come, per Benjamin, la critica all’attitudine filologica sia, allo stesso tempo, una provocazione rivolta all’operazione filologica, e come questa provocazione susciti la scoperta di contenuti nei quali la verità è storicamente “sfogliata”. Torniamo al passo citato di Weimar: «Ancora non è stata tentata una filologia che ci schiuda questo intimo, personalissimo mondo, la vera Antichità del poeta». Secondo Benjamin, deve ancora arrivare chi possa riuscire a consolidare la filologia in grado di decifrare quelle condizioni dell’anima segregate in piccole e austere abitazioni, le stesse in cui Goethe trascorse quasi tutte le notti e gran parte dei giorni: l’Antichità del poeta. Il suo oggetto di studio gli appare in tal modo irraggiungibile. E nondimeno è solo e soltanto a lui che questa decifrazione era riservata, così come dalla porta della legge sarebbe potuto passare solo colui che durante tutta la vita aveva atteso davanti ad essa l’ora propizia. È questo il gesto rammemorativo che si scorge qui, e a cui Benjamin dedica gli anni successivi: il movimento di uno sguardo rivolto all’indietro, tentando di far risvegliare «il sogno della vita anteriore», il sogno in cui la vita anteriore si è trasformata. Questo strano potere che ha il presente di distillare ciò che è già stato viene definito da Benjamin come l’essenza, o l’immagine (i termini sono intercambiabili) amara più intima di ciò che è già stato: «l’ora è l’immagine più intima di ciò che è già stato»12, ovvero, l’ora in quanto atto-tempo in cui ciò che è già stato è implicato in una immagine sorpresa da quell’atto-tempo. È tuttavia possibile affermare simmetricamente anche il contrario, ovvero che il tempo dell’ora si dispone a far risvegliare ciò che è già stato come la sua più intima immagine, e questo nonostante il fatto che, come avviene nel caso delle vere simmetrie concettuali, la portata di ciascuno dei suoi elementi non conosca una proporzione esatta. Per quanto essa non venga esplicitata formalmente, all’affermazione simmetrica Benjamin applica il concetto di “precursore”, che si duplica in una esplosione nel presente: «In questo lavoro si può parlare di due direzioni: quella che va dal passato al presente e che presenta i passages ecc. come precursori, e quella che va dal presente al passato per far esplodere nel presente il compimento rivoluzionario di questi “precursori”»13. Solo la dissipazione di questa credenza, in cui ciò che è già stato è, per così dire, estratto, strappato al continuum illusorio, permette di stabilire la relazione magnetica tra un tempo che è stato e un adesso. Si mescolano qui le acque del contenuto messianico e teologico del pensiero benjaminiano e quelle del suo elemento materialista, che molto deve all’ispirazione goethiana, al pensiero morfologico di Goethe.
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W. Benjamin, I «passages» di Parigi, cit., vol. II, Oº, 81, p. 947. Ivi, vol. II, Oº, 56, p. 944.
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2. Debito e credito Soffermiamoci ora su due annotazioni di un libro rimasto allo stato di brouillon, e conosciuto come I «passages» di Parigi (Das Passagen-Werk). Non conosco alcun altro testo di Benjamin in cui vi sia una descrizione così chiara di un debito da sanare. Meglio, di un debito che viene pagato in questo preciso momento, fornendo tutte le note di credito a chi compie la valutazione. Ecco le due annotazioni: Durante lo studio dell’esposizione simmeliana del concetto di verità in Goethe, mi apparve con molta chiarezza che il mio concetto di origine nel libro sul dramma barocco è una rigorosa e cogente trasposizione di questo fondamentale concetto goethiano dall’ambito della natura a quello della storia. Origine: si tratta del concetto di fenomeno originario trasposto dal contesto pagano della natura a quello ebraico della storia. Ora, nel lavoro sui passages, ho a che fare anche con un’esplorazione dell’origine. Io inseguo, cioè, l’origine delle configurazioni e dei mutamenti dei passages dalla loro comparsa fino al loro declino, e la colgo nei fatti economici. Questi fatti, considerati dal punto di vista della causalità, cioè come cause, non sarebbero affatto un fenomeno originario – lo diventano solo in quanto, nel proprio stesso svilupparsi [Entwicklung] – meglio sarebbe detto nel loro disvilupparsi [Auswicklung] – fanno sorgere dal loro seno la serie delle concrete forme storiche dei passages, come la foglia dispiega da sé l’intero regno del mondo vegetale empirico.14 L’immagine dialettica è quella forma dell’oggetto storico che soddisfa le esigenze che Goethe pone per l’oggetto di un’analisi: mostrare una vera sintesi. Essa è il fenomeno originario [Urphänomen] della storia.15
Teniamo fermi gli aspetti focalizzati da Benjamin in questi due passi. In N 2a, 4, il concetto di origine del suo libro sul Trauerspiel è considerato una «rigorosa e cogente trasposizione» del concetto goethiano di verità, così come presentato da Simmel nel suo studio su Goethe, trasposizione questa che si muove dal dominio della natura al dominio della storia. Ne segue un’attualizzazione dei domini, il che accentua il carattere problematico del movimento di trasposizione, vale a dire che, se il contesto della natura è profano, quello della storia è giudaico. Benjamin non si limita, inoltre, solo a chiarire il nerbo del concetto goethiano di verità, vale a dire il fenomeno originario, ma procede facendo in tal modo l’equivalenza tra origine e fenomeno originario, sempre nel quadro del movimento di trasposizione. Di conseguenza,
Ivi, vol. I, N 2a, 4, p. 517. Ivi, vol. I, N 9a, 4, p. 532. Incontriamo una variante in Zentralpark, in GS I/2, 28, p. 677: «L’immagine dialettica è la forma dell’oggetto storico che soddisfa le esigenze goethiane di un oggetto sintetico». 14 15
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egli conferma che la ricerca dell’origine delle configurazioni e delle trasformazioni dei Passages è anche l’obiettivo supremo del suo lavoro su Parigi, determinando così sia l’arco temporale – dalla loro nascita sino al loro tramonto – che l’operatore di quelle metamorfosi: i fatti economici. E questo del tutto al di fuori di qualunque concezione positivista di causalità, visto che, in quanto cause, i fatti economici non sono suscettibili di contribuire alla ricerca sull’origine, o sul fenomeno originario, dei Passages16. Ciò accade solo se questi fatti consentono di riconoscere «una serie concreta di forme storiche dei Passages», non tanto il loro sviluppo, quanto il loro dispiegamento. E qui, nuovamente, torna in ballo Goethe, più precisamente la metamorfosi delle piante: «così come la foglia dispiega e rivela a partire da se stessa tutta la ricchezza del mondo empirico delle piante». In N 9a, 4, ecco messa a fuoco l’immagine dialettica, in una delle presentazioni più sobrie e coincise. Vediamo in atto, e proprio mentre produce i suoi effetti, il movimento di trasposizione. Innanzitutto, l’immagine dialettica è una forma di oggetto storico che riattiva le condizioni morfologiche della relazione tra analisi e sintesi. Scrive Goethe: «La questione principale su cui sembra non si rifletta allorché ci si applica esclusivamente all’analisi è il fatto che ciascuna analisi presuppone una sintesi», nel momento in cui le si confronti con la ritmica respiratoria, l’espirazione e l’inspirazione17. Di questo stesso saggio Benjamin aveva già citato la conclusione come epigrafe di Der Begriff der Kunstkritik in der deutschen Romantik. In essa confluiscono due questioni critiche, quella di verificare il carattere autentico della sintesi, affinché quest’ultima non sia solo un aggregato o una giustapposizione, e quella di mettere in questione il suo stesso orientamento analitico: Prima di tutto […] colui il quale si dedica all’analisi dovrebbe indagare, o meglio, orientare la sua attenzione sulla questione di sapere se essa ha a che vedere con una sintesi misteriosa o se ciò di cui si occupa non è più di un’aggregazione, una giustapposizione […] o come tutto ciò potrebbe essere modificato.18
In secondo luogo, l’immagine dialettica può essere qualificata come «il fenomeno originario della storia». Ci torneremo.
16 «Marx espone la correlazione causale tra l’economia e la cultura. Qui ciò che importa è la correlazione espressiva […]. In altri termini, si tratta di un tentativo di comprendere un processo economico come un fenomeno originario visibile, da cui procedono le forme di vita che si manifestano nei Passages (e, in questo modo, nel secolo XIX)» (W. Benjamin, I «passages» di Parigi, cit., vol. I, N 1a, 6, pp. 513-514; tr. mod.). 17 J.W. von Goethe, Analyse und Synthese, in Id., Werke, Hamburger Ausgabe, 14 voll., a cura di E. Trunz, dtv, München 1982 [d’ora in avanti, HA], vol. 13, pp. 51. 18 Ivi, p. 52 (anche in J.W. von Goethe, Goethes Werke, vol. 4., parte II/2, Böhlau, Weimar 1887, p. 72).
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3. Sproporzioni e affinità Ci interessa ora sviluppare la questione del legame tra Urphänomen e Ursprung, così come il contrasto tra il regno della natura e quello della storia, in questione in N 2a, 3, e ciò allo scopo di chiarire meglio il movimento di trasposizione sottolineato da Benjamin nella sua relazione con Goethe. Per il poeta, la natura non è mai muta, a chi la contempla attentamente essa parla lingue molteplici, attraverso sensi conosciuti, mal conosciuti o del tutto sconosciuti19. Ciò che Benjamin riconosce in Goethe, e di cui discute ampiamente nel suo studio sulle Affinità elettive, è l’angoscia mitica proveniente da una visione della vita che riceve dalla natura i propri enigmi da decifrare, che ritorna alla natura per rinnovare i suoi doni e le sue forze, che sprofonda e si rifugia in essa, e che la assume come testimone, temendola e amandola, sapendola diversa da sé. Queste forze della Terra non sono familiari a Benjamin, nel senso che egli non può riconoscersene figlio20. La stessa consapevolezza dello sfruttamento sfrenato della natura e dei suoi effetti devastanti sulla vita umana è precoce nei suoi scritti, da Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, passando per Panorama imperiale di Strada a senso unico, fino a Sul concetto di storia. In tutti i casi, la sua scelta si rivolge, prima di tutto, a un padre, Adamo, secondo lui il primo filosofo o il padre della filosofia. Quello che in maniera più pregnante caratterizza la natura è precisamente la sua irreparabile mutevolezza, visto che la sua essenza spirituale, cioè l’espressività magica della materia, delle sue forze, dei suoi ritmi, dei suoi colori, e delle forme che ne derivano, è allo stesso tempo sprovvista di voce e anonima. È in essa che l’arte si radica21. Anche per ciò che riguarda la storia, le loro rispettive attitudini non potrebbero essere più diverse. Mentre Benjamin rifiuta la riduzione della storia a palcoscenico della vita – visione divenuta dominante a partire dall’epoca barocca – considerandola, al contrario, come l’unico gesto di comprensione che possa rendere giustizia alla vita22, Goethe, non potendo accedere in alcun modo a questa visione, diffida della storia e del suo valore disciplinare – il quaCfr. J.W. von Goethe, Die Farbenlehre, in HA 13, p. 315. «Ho trascorso all’aria aperta questa intera, magnifica giornata. Non faccio in tempo ad avvicinarmi ai monti, che mi sento subito attratto dalle pietre. Mi sento come Anteo, il quale sperimenta come le sue forze rinascano sempre, ogni volta più intense, non appena entra in intimo contatto con la sua madre terra» (J.W. von Goethe, Italienische Reise, in HA 11, Bologna, 20 ottobre 1786, notte, pp. 109-110). 21 Per tutti questi aspetti cfr. W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in Id., Opere complete. I. Scritti 1906-1922, cit., pp. 281-295. 22 Dev’essere letta in questo senso la correzione aggiunta da Benjamin alla concezione scientifica della storia difesa da Horkheimer nella lettera del 16 marzo 1937: oltre ad essere una scienza, la storia è un gesto di rammemorazione; per questa ragione non sarebbe possibile scartare del tutto l’idea di Giudizio Finale (cfr. W. Benjamin, I «passages» di Parigi, cit., vol. I, N 8, 1, p. 528). 19 20
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le va affermandosi precisamente nella sua epoca –, concludendo che di essa possiamo dire solo che è alle prese con i poteri della morte, delle sue rovine e delle sue angosce23. Il viaggio in Italia ne è una testimonianza esemplare. In Goethe, Benjamin vede la natura come una potenza mitica, elementare, la matrice e il destino di tutto quanto esiste, che rinnova i suoi ritmi indistruttibili, un arco che possiamo estendere tra «la forza che divora la forza»24, le Mütter faustiane e il tratto umoristico, il carattere indomabile della natura, questo essere «insondabile, incondizionato, umoristico, che contraddice se stesso»25. 4. Origine: il volto storico di una idea Soffermiamoci sulle Mütter, non le madri degli umani, bensì le madri cosmiche, le madri senza volto, impegnate nel compito di generare gli schemi di tutte le cose. Dà molto da pensare che, nel prologo al libro sul Trauerspiel, Benjamin chiami in aiuto le Mütter faustiane per poter portare a buon fine la sua presentazione delle idee26. Anche qui siamo davanti a un’operazione di trasposizione. Per Benjamin, le idee sono costellazioni della comprensione umana che salvano i fenomeni dalla dissipazione empirica, una salvezza portata a compimento attraverso la dispersione dei fenomeni in elementi, la loro polarizzazione in estremi, come risultato dello sforzo concettuale. I fenomeni sono, in questo caso, le realizzazioni concrete del Trauerspiel, nelle quali osserviamo come natura e storia siano reciprocamente incastonate su di un limite indecifrabile. Riuniti alla loro idea, tramite il lavoro concettuale, come figli intorno alla madre, essi vedono riconosciuta la propria singolarità. Urge a questo punto riprendere la concezione benjaminiana di origine: il volto storico di una idea. L’origine, benché sia una categoria assolutamente storica, non ha nulla in comune con la genesi [Entstehung]. Per origine non si intende il divenire di quel che è già scaturito, ma al contrario quel che, dal divenire e dal trapassare, scaturisce. L’origine sta nel fiume del divenire come un vortice, e trascina nel proprio ritmo il materiale della genesi. Nella nuda e manifesta consistenza del fattuale, l’originario [das Ursprüngliche] non si dà mai a conoscere, e il suo ritmo si dischiude soltanto a una duplice visione. Esso vuol essere riconosciuto da un lato come restaurazione,
23 Cfr. la conversazione con Heinrich Luden del 19 agosto 1806, in J.W. von Goethe, Gedenkausgabe der Werke. Briefe und Gespräche. 28. August 1949, a cura di E. Beutler, vol. XXII/1, Artemis Verlag, Zürich 1949, pp. 400-403. 24 J.W. von Goethe, Die schönen Künste von Sulzer, in HA 12, p. 18. 25 J.W. von Goethe, Erlaüterung zu dem aphoristischen Aufsatz ‘Die Natur’, in HA 13, pp. 48-49. 26 In quest’opera i generi letterari sono concepiti come idee: nel caso particolare, l’idea della tragedia e l’idea del Trauerspiel.
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come un ripristino, e dall’altro come qualcosa, proprio per questo, di imperfetto, di inconcluso. Quel che si determina in ogni fenomeno originario [Ursprungsphänomen] è la forma in cui un’idea si confronta sempre di nuovo con il mondo storico, sino a quando non se ne stia lì, compiuta, nella totalità della sua storia.27
Origine è il nome che Benjamin dà al confronto ritmico di una idea con la storia, l’elemento originario [das Ursprüngliche] è cioè una attualizzazione dell’idea esposta come virtualità. È proprio della contemplazione un «ritorno sempre più ampio e più fervido ai fenomeni – che non corrono mai il pericolo di restare oggetto di un opaco stupore, sinché la loro rappresentazione è al tempo stesso quella delle idee e può essere salvato, così, quel che hanno di unico»28. Nel concetto di origine osserviamo la concentrazione piena delle caratteristiche essenziali dell’atto contemplativo – restaurazione e incompiutezza – e del suo metodo: l’auto-presentazione. Di conseguenza, l’origine «non emerge da una diagnosi dei fatti, ma riguarda la loro pre- e post-storia»29. L’origine agisce come un turbine che trascina gli elementi in disgregazione. Non si confonda l’origine con il risultato degli accertamenti fattuali, quali le alterazioni stilistiche e tematiche, le influenze, ecc., nonostante sia evidente come queste intervengano nel suo emergere. L’origine rende visibile il volto storico dell’idea, la cui fisionomia si forma attraverso le correnti vive con cui si evolve una tradizione. Nel caso della tragedia, questa evoluzione si dà nel momento in cui l’uomo greco sente di essere stato abbandonato dagli dèi, il momento in cui prende coscienza dell’inconsolabile dolore di vivere, muovendosi come se ci fosse ancora qualcosa da aspettarsi, ma senza sapere cosa sia: ecco l’idea tragica. Tutto ciò si presentò in nuce nel mito, per Benjamin l’origine dell’idea stessa di tragedia. In quanto tale, l’evoluzione del mito rende visibili le correnti contrarie, che mostrano simultaneamente ciò che è sul punto di perire (una certa esperienza di vita consacrata nella poesia epica) e ciò che sta per nascere (la coscienza acuta di quell’agonia, associata a una muta attesa), ed è attraverso l’attiva intensificazione di questa duplice corrente che essa si trasforma in mito tragico. Non si conosce altra origine per l’idea tragica della vita. Al contrario della tragedia, il Trauerspiel non ha conosciuto una unica origine, ma se ne profilano diverse: la prima di queste si incarna in Baudelaire, nel quale Benjamin sorprende una metamorfosi dell’esperienza barocca, cioè, nel quadro della concezione dell’opera sul barocco, una delle origini dell’idea di barocco: «[…] (la preistoria di Baudelaire, così come si presenta in questa ricerca, si situa nell’allegoria, la sua post-storia, nell’art nouveau)»30.
27 W. Benjamin, Origine del dramma barocco tedesco, ed. it. a cura di A. Barale, pref. di F. Desideri, Carocci, Roma 2018, p. 90. 28 Ibidem. 29 Ivi, p. 91. 30 W. Benjamin, I «passages» di Parigi, cit., vol. I, N 10, 3, p. 533.
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Nella relazione tra idea e storia interpretata dall’origine, si osserva, da un lato, l’azione dell’epigrafe di Goethe che apre il prologo del libro sul Trauerspiel31 e, dall’altro lato, viene a completarsi la determinazione di ciò che è una idea: «Perché il concetto di essere della scienza filosofica non si appaga del fenomeno, ma deve consumarne la storia. L’approfondimento della prospettiva storica in questo tipo di ricerche non conosce per principio confini, né verso il passato né verso il futuro. Esso fornisce all’idea il totale. La struttura dell’idea, che si forma nel contrasto tra la totalità e il suo inevitabile isolamento, è una struttura monadologica»32. Che l’idea sia una monade è un modo di concentrare in miniatura la concezione dell’idea in quanto interpretazione oggettiva dei fenomeni. Nello stesso tempo in cui consacra la coincidenza, così goethiana, tra il singolare e l’universale33, l’idea è gravida di totalità: «Il compito a cui la sua rappresentazione è chiamata non è nientemeno che questo: tracciare, abbreviata, questa immagine del mondo»34. 5. Fenomeno originario e metamorfosi Implicita in Der Ursprung des deutschen Trauerspiels, l’approssimazione del concetto di origine al fenomeno originario goethiano sarà fatta da Benjamin in modo esplicito, come abbiamo visto in N2a, 4 di Das Passagen-Werk. Che cos’è il fenomeno originario? È la condizione che si presenta nel condizionato e non il fondamento che il fondamentato nasconderebbe per proprio bisogno: «Urphänomen: ideale, reale, simbolico, identico […]. Urphänomen: Ideale come l’ultimo conoscibile. Reale come conosciuto. Simbolico perché comprende tutti i casi. Identico a tutti i casi»35. Per Goethe non vi è nulla al di sopra del fenomeno originario36, esso è simultaneamente il bagliore dell’ul31 «Visto che tanto nel sapere come nella riflessione nessun tutto può essere riunito, poiché a quello manca l’interiore e a questa l’esteriore, dobbiamo necessariamente pensare la scienza come arte, se ci aspettiamo da essa una qualche forma di totalità. E, beninteso, non dobbiamo cercarla nel generale, nell’eccessivo, ma, poiché l’arte si presenta sempre come un tutto in ciascuna opera d’arte singolare, anche la scienza dovrebbe mostrarsi ogni volta come un tutto in ciascuno dei suoi oggetti singolari […]» (J.W. von Goethe, Materialen zur Geschichte der Farbenlehre, in HA 14, Betrachtungen über Farbenlehre und Farbenhandlung der Alten, p. 41). 32 W. Benjamin, Origine del dramma barocco tedesco, cit., p. 93. 33 «Cos’è l’universale? Il caso singolare. Cos’è il particolare? Milioni di casi» (J.W. von Goethe, Massima 489, in HA 12, p. 433). «L’universale e il particolare coincidono: il particolare è l’universale che si manifesta in condizioni differenti» (J.W. von Goethe, Massima 491, in HA 12, p. 433). 34 W. Benjamin, Origine del dramma barocco tedesco, cit., p. 93. 35 J.W. von Goethe, Massima 15, HA 12, p. 366. 36 «[…] Li chiamiamo Urphänomene, in quanto niente è nella manifestazione al di sopra di essi, ma, in contropartita, fanno sì che, gradualmente, così come noi ci eleviamo fino ad essi, possiamo discendere da loro sino ai casi più comuni dell’esperienza quotidiana. È un simile Urphänomen che ora presentiamo. Da un lato, vediamo la luce, la chiarezza; dall’altro, le te-
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timo conoscibile, cioè l’ideale, e ciò che genera conoscenza, reale. Esso non esclude alcun fenomeno dalla sua orbita e li comprende tutti. Non è, di conseguenza, un elemento empirico, bensì il limite dell’empirico, per quanto non lo trascenda. Il fenomeno originario è la figura dell’accrescimento e dell’apparizione in atto, che si espone temporalmente, una riduzione immagetica, una miniatura del mondo delle piante o una irradiazione della tensione tra luce e oscurità (il colore è una energia, i colori «sono le azioni e le passioni della luce»37), disegno che si muove, e che genera nuove forme. Un Urphänomen non deve essere preso per l’equivalente di un principio fondamentale [Grundsatz], dal quale risultino conseguenze diverse, dev’essere visto dapprima come una manifestazione fondamentale [Grunderscheinung], all’interno della quale occorre contemplare la varietà. Contemplare, sapere, presentire, credere e qualunque sia il nome dei modi attraverso i quali – alla maniera di tentacoli – l’uomo balbetta il mondo, essi devono davvero operare in maniera solidale se vogliamo realizzare la nostra importante – per quanto difficile – missione.38
Bisogna aggiungere che non essendoci nulla al di sopra dell’Urphänomen, neanch’esso è un fondamento o una qualche causa posta dietro o al di sotto dei fenomeni, essendo bensì quella condizione della visibilità e della temporalità dei fenomeni da essi inseparabile e che in essi si contempla quando ci immergiamo nei loro particolari (anche qui si avverte la voce di Benjamin), per esempio quando, nel caso della metamorfosi delle piante, ci immergiamo nelle varie forme di foglia. Ecco, nelle stesse parole di Goethe, la concezione della metamorfosi delle piante: Ora, sia che le piante producano germogli, sia che fioriscano, sia che producano frutti, sono, nondimeno, sempre gli stessi organi che, in multiple funzioni e sotto
nebre, l’oscurità; portiamo tra i due lo sfocato [das Trübe] e, a partire da queste opposizioni, con l’aiuto della predetta mediazione, i colori si sviluppano precisamente in una opposizione; in breve, tuttavia, attraverso una relazione reciproca, essi tendono di nuovo immediatamente verso un punto comune [auf ein Gemeinsames]» (J.W. von Goethe, Die Farbenlehre, § 175, in HA 13, pp. 366-367). 37 J.W. von Goethe, La teoria dei colori, tr. it. a cura di R. Troncon, intr. di G.C. Argan, il Saggiatore, Milano 2014, p. 5. A rigore, il concetto di Urphänomen è usato da Goethe nel quadro dei suoi studi cromatici. Benjamin si interessa soprattutto alla metamorfosi delle piante: si tratta lì della Urpflanze. Nondimeno, i concetti di Urphänomen, di Urpflanze e, possiamo aggiungere, di Urtier sono, in ciascuno dei rispettivi campi, equivalenti. In tutti i casi, abbiamo sempre a che fare con immagini la cui struttura è una polarità che si muove verso l’intensificazione, ovvero, verso un accrescimento di specificazione. Infine, Urphänomen e Urbild, termine anch’esso molto usato da Goethe, tendono e coincidere e ad accogliere i restanti. D’altro lato, si sa come il prefisso “ur-”, inglobato anche dal concetto di Ursprung, ha meno a che vedere con una dimensione arcaica o mitica che con una matrice di energia, una formula ritmica, una storia anteriore e una storia posteriore. Matrice intuitiva, percettiva, di crescita e metamorfosi. 38 J.W. von Goethe, Briefe an von Buttel, in HA/B 4, 3 maggio 1827, p. 231.
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forme molte volte alterate, realizzano la prescrizione della Natura. Lo stesso organo [vale a dire, la foglia]39, che nel gambo si espande come foglia e assume una forma altamente variegata, adesso si contrae nel calice, si espande un’altra volta nei petali, si contrae negli organi sessuali, per espandersi un’ultima volta come frutto.40
Goethe arriva a qualificare la foglia come concetto trascendentale41, condizione di possibilità della metamorfosi delle piante, cioè della loro crescita, condizione che mai si purifica dal condizionato. È anzi solo a partire dalla variazione che abbiamo accesso alla matrice. Devono essere ponderate le risonanze kantiane della qualificazione. In verità, Goethe sta facendo anche una trasposizione dal piano aprioristico della soggettività a un’immagine originaria, il riconoscimento della quale tende a superare, o meglio, a fare a meno della relazione soggetto-oggetto, il cosiddetto «gegenständliches Denken»42. In quanto condizione di possibilità, la foglia è una immagine che non si fissa mai, una immagine oscillante, originaria. Benjamin fornisce la strada d’accesso: «Rot c’est comme un papillon qui va se poser sur chacune des nuances de la couleur rouge»43. 6. Immagini e immagine dialettica Concentriamoci di nuovo su N 9a, 4. Quel che risiede nel cuore dei concetti di Ursprung e di Urphänomen, che è da essi incorporato e reso esplicito, è una immagine, per quanto solo un altro concetto verso cui entrambi convergono contenga in modo esplicito la parola immagine (Bild), quello di dialektisches Bild, precisamente quel concetto che tasta il polso al compito che attraversa Das Passagen-Werk. Il vortice, che era l’immagine di Ursprung, è sostituito dall’immagine dell’improvviso bagliore del lampo che fa temporaneamente arrestare ciò che illumina, provocando una sospensione44. 39 «Mi pareva che in questo organo della pianta, che noi chiamiamo abitualmente foglia, fosse dissimulato il vero Proteo che si poteva nascondere e manifestare in tutte le sue forme. Davanti e dietro, la pianta è sempre unicamente foglia e così indissolubilmente unita al futuro germe che non è possibile pensare l’uno senza l’altro. Comprendere un simile concetto, patire la sua azione, cercarlo nella natura, è un compito che ci pone in uno stato dolorosamente dolce» (J.W. von Goethe, Italienische Reise, in HA 11, p. 375). 40 J.W. von Goethe, Die Metamorphose der Pflanzen, in HA 13, § 115, p. 100. Alla metamorfosi presiede una ritmica, quella che si stabilisce tra espansione e contrazione, ovvero la struttura della polarità. 41 Cfr. J.W. von Goethe, Gesetze der Pflanzenbildung, in Id., Die Schriften zur Naturwissenschaft, ed. della Deutschen Akademie der Naturforscher Leopoldina zu Halle, parte I, vol. 10, a cura di D. Kuhn, Böhlaus, Weimar 1964, pp. 55-63. 42 Cfr. J.W. von Goethe, Bedeutende Fördernis durch ein einziges Geistreiches Wort, in HA 13, p. 37. 43 W. Benjamin, Protokolle zu Drogenversuchen, in GS VI, p. 607 (in francese nell’originale). 44 Ma l’immagine del vortice continua a circolare. Per esempio, a proposito della comprensione intuitiva (Einsicht) e nell’arte. Cfr. W. Benjamin, I «passages» di Parigi, cit., vol. II, Gº, 20, p. 919.
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Benjamin è impegnato in una autodisciplina che egli identifica come «il lato pedagogico di questo progetto»: si tratta di «educare in noi il medium creatore di immagini allo sguardo stereoscopico e dimensionale nella profondità delle ombre della storia»45. Da dove procedono le immagini? Dalla natura, dalle sue forze ed espressioni – lampo, ombre, riflessi, vortice, montagna, albero, fiume, il daino inseguito dal predatore – e dalle invenzioni umane da esse derivate, in cui la storia si genera e di cui è allo stesso tempo impregnata: per esempio, specchio, labirinto, danza (non si dimentichi che il labirinto nasce da una danza), barca, clessidra, cacciare, intessere, arare. Così come anche dai movimenti e dai gesti del nostro corpo, dalla nostra voce, dai nostri affetti e gesti espressivi: dare alla luce, ferirsi, ebbrezza e sogno, cadere e alzarsi, scavare, sentire scorrere il sangue, svegliarsi. In N 11, 4, incontriamo la più completa e succinta presentazione del materialismo storico46. Dei suoi cinque paragrafi, il secondo e il terzo favoriscono una lettura morfologica, ovvero la lettura che fa della storia una costellazione di figure e immagini, e quella che propone una nuova misura per la metodologia storica, vale a dire, monadologica. La sostituzione di “storie” con “immagini” ha a che vedere con la decisione di mettere da parte l’operatore della causalità e i procedimenti associati dell’induzione e della deduzione. I fatti vengono così liberati da qualunque tratto mitizzato, idolatrico e positivista. È così che i fatti, nel loro montaggio, possono fare a meno della teoria. Il soggetto si converte in questo modo in una irradiazione dell’oggetto. 7. Due metodi Metodo di questo lavoro: montaggio letterario. Non ho nulla da dire. Solo da mostrare. Non sottrarrò nulla di prezioso e non mi approprierò di alcuna espressione ingegnosa. Stracci e rifiuti, invece, ma non per farne l’inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile: usandoli.47 Formula: costruzione a partire dai fatti. Costruire con la completa eliminazione della teoria. Cosa che solo Goethe ha tentato nei suoi scritti morfologici.48
45 Parole lette in uno studio di Rudolf Borchardt su Dante. Cfr. ivi, vol. I, N 1, 8, p. 511; vol. II, Oº, 2, p. 937. 46 «Sulla dottrina elementare del materialismo storico. 1) L’oggetto della storia è quello in cui la conoscenza si attua come sua salvezza. 2) La storia si frantuma in immagini, non in storie. 3) Là, dove si compie un processo dialettico, abbiamo a che fare con una monade. 4) L’esposizione materialistica della storia reca con sé una critica immanente al concetto di progresso. 5) Il materialismo storico fonda il suo procedimento sull’esperienza, sul buon senso, sulla presenza di spirito e la dialettica» (ivi, vol. I, N 11, 4, p. 535; tr. mod.). 47 Ivi, vol. I, N 1a, 8, p. 514. 48 Ivi, vol. II, O°, 73, p. 946.
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La cosa più elevata sarebbe quella di comprendere che tutto il fattuale è già teoria. L’azzurro del cielo ci rivela la legge fondamentale della cromatica. Che non si cerchi dietro i fenomeni: essi stessi sono già la teoria.49
Nel secondo passo di Benjamin si coglie ancora una volta il movimento di trasposizione, per quanto forse siano variabili il grado di rigore e il grado di irrefutabilità. Una innegabile evidenza procede dalla massima di Goethe: che il fattuale sia già teoria non procede da una idolatria dell’empirico, ma attiene, prima ancora, al paesaggio dei fenomeni, nel caso specifico l’azzurro del cielo, i quali mostrano il fenomeno originario. Anche in Benjamin, la sospensione della teoria è un intento metodologico, un orientamento della costruzione dell’oggetto storico e una condizione della stessa esposizione dello storico: la comprensione dell’oggetto storico come una immagine drammatica costruita, strappata al continuum della corrente della causalità storica, incontra cioè un’equivalenza nella costituzione dello stesso testo dello storico. Accettando che il metodo sia una deviazione, si suppone la sua molteplicità, ossia il fatto che non possa esserci solo un metodo. Non aver nulla da dire, solo da mostrare – il montaggio letterario intimamente legato all’arte di citare senza virgolette50 –, è uno di essi. Davanti al cumulo di macerie che non smette di aumentare di fronte a lui51, Benjamin non cede alla tentazione di comunicare i segreti ivi nascosti, evitando così la retorica della erudizione, e astenendosi allo stesso tempo dal farne un inventario, forma di positivismo scientifico, questa, che ne liquiderebbe la potenza rivoluzionaria. Utilizzare queste macerie, questi residui, ecco l’unica maniera di rendere loro giustizia. Sappiamo come in Benjamin l’infanzia educa a ogni gesto di comprensione. Qui, vediamo come l’atto enigmatico di fare uso di qualcosa potrebbe essere decifrato ricorrendo all’attrazione irresistibile che i bambini avvertono per i residui «nei quali il volto del mondo si rivolge a loro e solo a loro». Anche per lo storico la conoscenza dell’oggetto si concretizza in questo gesto di uso, osservabile nella metamorfosi patita allorché si pretende di rendere presente ciò che presente non è. A rigore, l’oggetto storico è qualcosa che entra nella vita di qualcuno, qualcosa che capita a qualcuno. Il vero metodo per renderci presenti le cose è di rappresentarcele nel nostro spazio (e non di rappresentare noi nel loro). […] È questo in verità (vale a dire: quando riesce) il caso anche della vista di grandi cose del passato – cattedrale di
J.W. von Goethe, Goethe, Massima 488, in HA 12, p. 432. Cfr. W. Benjamin, I «passages» di Parigi, cit., vol. I, N 1, 10, p. 512. 51 I Passages di Parigi sono osservati come quei libri proiettati che «indicano il vero luogo delle macerie e delle catastrofi per cui non vedo limiti a dilungarmi e a guardare per i prossimi anni» (Lettera a Gerschom Scholem del 26 luglio 1932, in W. Benjamin, Briefe, cit., vol. II, p. 556). 49 50
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Chartres, tempio di Paestum: accogliere loro nel nostro spazio. Non siamo noi a trasferirci in loro, ma loro a entrare nella nostra vita.52 Noi affermiamo che, nelle stratificazioni oniriche, la realtà non è, ma capita a colui che sogna. Ed io tratto i passages esattamente come se in fondo mi fossero capitati.53
Se lo stato onirico è la trasformazione inerente a ciò che è accaduto, che già è stato e che non è più, e se «il sogno attende in segreto il suo risveglio», il risveglio che lo libera dalla morte, la falsa entrata nella cattedrale di Chartres o nel tempio di Paestum è una operazione di controllo viziata (composta da gesti nocivi di empatia) che impedisce quel risveglio. Affinché possiamo andare incontro alla loro attesa di risveglio, essi dovranno entrare nella nostra vita e, solo allora, ciò che noi aspettavamo ci sommerge. Per Benjamin, entrare in un Passage è far sì che esso entri nella sua vita. I Passages54 sono qualcosa che gli è capitata, questa metamorfosi all’origine di qualunque principio di metodo, nel quale si mescolano, in dosi che nessuno potrà definire, l’essere iniziato alla vita e il renderle giustizia. Proprio per questo è così benvenuta la parola goethiana: «Ogni nuovo oggetto, se ben contemplato, apre un nuovo organo dentro di noi»55. 8. Immagine dialettica e Aperçu L’immagine dialettica è un fulgore momentaneo. Come una immagine che balena nell’adesso della conoscibilità, così dev’essere fissata l’immagine del passato, nel caso specifico, quella di Baudelaire. La salvezza che in questo modo, e solo in questo modo, si consuma, si può ottenere solo a partire dalla percezione di quello che si perde in maniera irrimediabile.56
Questo frammento ci getta in medias res: il repentino fulgore che dà conto di come quel che è già stato – in questo caso, Baudelaire, ma non è inverosimile sostituirlo con Goethe – si sia mescolato magneticamente con il suo adesso, nel caso specifico Benjamin, cioè l’immagine del passato che Benjamin intende raccogliere, salvare, comprendendo che qualcosa si è perso e non può
W. Benjamin, I «passages» di Parigi, cit., vol. I, H 2, 3, p. 216. Ivi, vol. II, Paralipomena, VIII, p. 988. 54 In questa parola, in francese e nelle altre lingue latine, cosa che non accade nella traduzione inglese “Arkade”, risuona immediatamente una esperienza del limite. Il Passage è una zona di transizione, così come il risveglio (cfr. ivi, vol. II, Mº 26, p. 936). D’altro lato, nella parola “galleria” entriamo semplicemente in una certa categoria di costruzione e composizione architettonica associata all’aspetto mercantile. 55 Bedeutende Fördernis durch ein einziges geistreiches Wort, in HA 13, p. 38. 56 W. Benjamin, Zentralpark, in GS I/2, 33, p. 682. 52 53
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essere recuperato. È così che la coppia “quel che è stato/adesso” ripristina in modo trasfigurato il duo passato/presente. Quel che è già stato non è ciò che è accaduto, fissato su di un terreno fantasmagorico, ma quello che corrisponde al movimento dell’andare verso qualcuno. Dal suo lato, l’adesso può incontrare la sua immagine solo nel movimento rammemorativo orientato da tale interesse; è per questo motivo che si costituisce un già stato nell’«ora della sua conoscibilità». La rammemorazione consiste in questo movimento dato dalla convinzione che abbiamo accesso a noi stessi solo mentre lo facciamo. Goethe, come Baudelaire, ne è per Benjamin un esempio: è un già stato a partire dal quale egli raccoglie la sua stessa immagine: «un lavoratore indipendente, libero da vertigini e, se necessario, solo»57. Ma questa redenzione sarà autenticamente compiuta solo se orientata dalla percezione di ciò che non si può fare altro che perdere. Ecco un’altra forma di utilizzare i residui, da collegare allo sforzo di comprendere simultaneamente l’origine e il tramonto di una cosa: «Nell’immagine dialettica, insieme con la cosa stessa, si presentano anche la sua origine e il suo tramonto […]»58. Polarità essenziale per la costituzione dell’immagine dialettica – qui una variazione del concetto di origine –, insufficiente tuttavia a caratterizzarla pienamente. Vediamo la «piccola immagine rapida» (ritornando su un’annotazione di cui abbiamo già citato la conclusione): Una conoscenza storica della verità è possibile solo come superamento dell’apparenza; […] deve assumere a sua volta la configurazione di una immagine rapida. L’immagine rapida, piccola, in contrapposizione alla flemma della scienza. Questa configurazione di un’immagine rapida coincide con l’agnizione [Agnoszierung] dell’«adesso» nelle cose. […] L’apparenza che qui viene superata è che il prima sia nell’adesso. In verità l’ora è l’immagine più intima di ciò che è già stato.59 Tutto quello che chiamiamo, nel senso più elevato, inventare, scoprire [Erfinden, Entdecken], è l’esercizio, l’attività significativa di un sentimento originario di verità, che, a lungo elaborato nella quiete, conduce, a un tratto, con la rapidità di un fulmine, a una conoscenza fruttuosa […].60
Immagine rapida: nome dato alla repentina elevazione del barlume della vita verso ciò che già non è più. La formazione di questa immagine coincide con il riconoscimento (come nel caso dell’identificazione di una persona che incontriamo: “Ah, sei tu!”) dell’adesso nelle cose, ed esige che si vinca l’illu-
W. Benjamin, I «passages» di Parigi, cit., vol. I, N 1a, 1, p. 512. Ivi, vol. II, Paralipomena, XXIV, p. 1013. Il tramonto dei Passages avviene all’improvviso con l’entrata in scena della luce elettrica che obbliga tutti i loro spiriti a nascondersi nelle proprie fessure, come topolini inseguiti dal predatore. 59 W. Benjamin, I «passages» di Parigi, cit., vol. II, Oº, 81, p. 947. 60 J.W. von Goethe, Massima 364, in HA 12, p. 414. 57 58
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sione per cui il passato ci appartenga e sia alla nostra mercé. Questo adesso è il momento di leggibilità del passato. Nella massima goethiana la verità è presentata come una forma di affezione attiva, un sentimento originario, preparato con grande pazienza, e che si manifesta da subito come una immagine rapida, la rapidità di un lampo, indissociabilmente legata alla fertilità. Non sarà difficile ascoltare queste armonie nella costruzione benjaminiana. 9. Dialettica sospesa e poesia drammatica Benjamin è interessato ai Passages parigini perché sono dei limiti, delle zone di transizione, dei riti iniziatici, dei modi di accedere al mondo dei morti, emblemi pietrificati dei passi del flâneur. Essi costituiscono inoltre il miglior banco di prova per l’esperienza chiave della conoscenza storica: conoscere le cose così come sono nel preciso momento in cui non sono. Rammemorare corrisponde allo sforzo di sottrarre i morti all’oblio. Il passare, il non essere più, lavora appassionatamente nelle cose. A esso lo storico affida la sua materia. Egli si appiglia a questa forza e conosce le cose come esse sono nel momento del non-essere-più. Simili monumenti di un non essere più sono i passages. E la forza che lavora in essi è la dialettica. […] E nulla rimane di essi se non il nome: passages […].61 […] L’indice storico delle immagini dice, infatti, non solo che esse appartengono a un’epoca determinata, ma soprattutto che esse giungono a leggibilità solo in un’epoca determinata. E precisamente questo giungere a leggibilità è un determinato punto critico del loro intimo movimento. Ogni presente è determinato da quelle immagini che gli sono sincrone: ogni adesso è l’adesso di una determinata conoscibilità. In questo adesso la verità è carica di tempo fino a frantumarsi. […] Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel è stato si unisce fulmineamente con l’adesso in una costellazione. In altre parole: immagine è la dialettica nell’immobilità. Poiché mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, quella tra ciò che è stato e l’adesso è dialettica: non di natura temporale, ma immaginale. […].62
Monumenti di un non-essere-più, i Passages sono contrassegnati da un marchio funebre. La loro forza è dialettica, ovvero figurativa, discontinua, monadologica. È questa frattura esposta tra la sensazione e la tradizione che è all’origine dell’unica rappresentazione veramente concreta che possiamo
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W. Benjamin, I «passages» di Parigi, cit., vol. II, Dº 4, pp. 906-907. Ivi, vol. I, N 3, 1, pp. 517-518.
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fare degli esseri umani: «far apparire il ricordo che abbiamo di essi», il che vuol dire che la rammemorazione si dà in un momento critico in cui la memoria di quello che è accaduto brilla e, allo stesso tempo, è in pericolo63. Per Benjamin non ci sono epoche di decadenza, non ci sono città brutte, non ci sono lingue inferiori64, o meglio, la disgregazione è simile ai «miraggi delle grandi sintesi successive»65. Lo storico è una irradiazione dell’oggetto storico, quel genere di oggetto il cui studio è proporzionale alla sua rovina (si tratta di strapparlo quindi alla corrente della continuità). Che il tempo reale non entri a grandezza naturale nell’immagine dialettica, quell’immagine in cui un adesso si vincola magneticamente al suo già stato, è, per così dire, la differenza specifica tra il concetto di origine e quello di immagine dialettica. Questa è la sospensione di una relazione magnetica, di una polarità fondamentale, che sfocia nell’adesso della conoscibilità, nella percezione di come le immagini del passato siano leggibili. In questo vincolo è contenuta in nuce la storia in senso rammemorativo, in esso si «riassume in un’immane abbreviazione la storia dell’intera umanità», convertendosi nel «modello del concetto messianico»66. Che le immagini del passato giungano alla loro leggibilità in una certa epoca è un sicuro segnale del fatto che l’adesso è divenuto un punto critico, esplosivo, pericoloso, della storia, un momento in cui la conoscenza di un’epoca si rivela in una costellazione di questa epoca come quella dello storico; un abbozzo, cioè, che interrompe e salva qualunque cronologia, qualunque falsa continuità, una immagine che Benjamin chiama «dialettica sospesa». È in essa che quello che è già stato e l’adesso si incontrano, sospesi nel fulgore repentino, una forma inaudita di tableau vivant – tale da qualificare una nuova versione monadologica: Al pensiero appartiene tanto il movimento quanto l’arresto dei pensieri. Là dove il pensiero si arresta in una costellazione satura di tensioni, appare l’immagine dialettica. Essa è la cesura del movimento del pensiero. Naturalmente il suo non è un luogo qualsiasi. In breve, essa va cercata là dove la tensione tra gli opposti dialettici è al massimo. Per questo l’immagine dialettica è lo stesso oggetto storico costruito nell’esposizione materialistica della storia. Essendo identica all’oggetto storico, essa giustifica la sua estrapolazione [Absprengung] dal continuum del decorso storico.67
Siamo di fronte ai contesti giudaici della storia, incommensurabili rispetto al contesto profano della natura. La trasposizione non smette, per questo, Cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia, tr. it. a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, sez. VI, p. 27. 64 Cfr. W. Benjamin, I «passages» di Parigi, cit., vol. I, N 1, 5, p. 511. 65 Ivi, vol. II, Oº 3, p. 937. 66 W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., sez. XVIII, p. 55. 67 W. Benjamin, I «passages» di Parigi, cit., vol. I, N 10a, 3, p. 534. 63
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di essere rigorosa e inconfutabile. Esattamente al contrario, è per il fatto di non illudersi rispetto all’incommensurabilità dei contesti che la trasposizione è un gesto rigoroso e inconfutabile. Il debito viene pagato, il creditore latita, il debitore lo cerca. Ricordiamo come in N 9a, 4 viene dato risalto alla relazione tra dialektisches Bild e la sintesi in senso goethiano, le cui esigenze consistono nella convinzione che non sia possibile risolvere una polarità, ed è in questo che si riconosce la sua fertilità, che si riconoscono cioè i nuovi aspetti che essa produce. La sintesi non è la risoluzione di una polarità, così come il problematico non si dissolve attraverso l’argomentazione, in quanto esso è, precisamente, la fonte del nostro desiderio di conoscere: «Si dice che tra due punti di vista opposti proprio al centro è la verità. Assolutamente no. In mezzo si colloca il problema, non suscettibile di intuizione, la vita eternamente attiva pensata nella tranquillità»68. Si tratta infine di proteggersi contro le false sintesi, ipotesi precipitate e arroganti, di ammettere la sintesi frammentaria, inconclusa, autentica: un disegno, un profilo, un contorno, una miniatura – più oltre la creatività umana non può andare – è ciò che Goethe chiama un Aperçu: Tutto dipende da un Aperçu. È la cosa più elevata a cui arriva l’uomo e più oltre non può arrivare. È solo un contorno, il profilo di una cosa […]. Questo potere di formulare un Aperçu è simile al suo potere artistico, il potere di catturare e asservire l’immagine di un oggetto. Anche rispetto all’Aperçu storico, sull’origine di un evento si può solo dare il contorno del tutto.69
«La poesia drammatica è la causa finalis del mondo e dell’operare umano»70. Sin dal momento in cui ho letto queste parole di Goethe (scritte a Madame von Stein il 3 marzo 1785), il loro enigma non ha smesso di pretendere una decifrazione. Non c’è nulla nella vita umana e nel mondo che non faccia parte di un dramma, una tela di azioni e reazioni tra personaggi. Nel campo della natura, questa drammatizzazione ha ricevuto il nome di Polarität (la pietra di magnetite è il suo caso-limite), il cui intenso sdoppiamento si manifesta con una forma di specificazione. Goethe la chiamò Steigerung (per esempio, nella metamorfosi delle piante: in ogni momento la foglia assume una nuova forma, e ciascuna è un compimento). La struttura di questi concetti – Urphänomen, Ursprung, dialektisches Bild – è drammatica: essi sono cioè originati da una cor-relazione di forze, di ritmi, di temporalità, che influiscono gli uni sugli altri, opposti che si fronteggiano senza sottomettersi o ridursi reciprocamente, senza oltrepassamenJ.W. von Goethe, Massima 417, in HA 12, p. 422. J.W. von Goethe, Über den Wert des Aperçus, a cura di F. Schmidt, in «Jahrbuch der Goethe-Gesellschaft», vol. 29, 1967, pp. 260-266: pp. 260-261. 70 J.W. von Goethe, Goethes Briefe, Hamburger Ausgabe, a cura di K.R. Mandelkow e B. Morawe, vol. I, C. H. Beck, München 1962, p. 473. 68
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to. Ogni volta, in ciascun nuovo aspetto assunto da un campo di forze, ecco formarsi la sintesi. In quanto sdoppiamento e specificazione del concetto di origine, l’immagine dialettica è un dramma, nel senso che in essa non solo si coagula un divenire nel quale qualcosa si perde in ciò che nasce, com’è il caso del concetto di origine, ma al tempo stesso brilla il fulgore di una figura polare – la costellazione di un già stato con il suo adesso –, immagine che si discioglie nel momento in cui la struttura polarizzata entra velocemente in sospensione, rendendosi percettibile: moda, flânerie, prostituzione et alia. 10. Concettualizzazione e comunità Come si formano i concetti? Attraverso altri concetti, resti e residui di altri concetti, risonanze della maschera mortuaria, un amalgama alchemico in cui sorprendiamo una visione di ciò di cui si va alla ricerca. In fondo, la questione della trasposizione rimanda o finanche coincide con questa visione. È anzi condizione per comprendere il movimento di trasposizione un’approssimazione all’atto di concettualizzare o, detto in termini benjaminiani e soprattutto a partire dagli anni Trenta, all’atto di costruzione. Cosa significa trasporre? Significa una forma di traduzione che dispiega i movimenti di dislocazione, di trasporto e di incorporazione71. Tra Goethe e Benjamin la linea di condivisione, una lamina fine e tagliente, si stabilisce intorno alla differenza del campo di applicazione dell’Urphänomen, il passaggio che va dalla natura alla storia. Si dovrebbe aggiungere ancora che questa linea separa non solo il campo di applicazione dei concetti, ma la stessa applicazione dei concetti, da quello goethiano di Urphänomen a quello di origine e di immagine dialettica di Benjamin, visto che la visione che sostiene ogni campo contagia e regola la stessa applicazione concettuale. Ciò che si evidenzia nel movimento di trasposizione benjaminiana dei concetti goethiani «non è il passaggio da conoscenza a conoscenza, ma il salto all’interno di ciascuna conoscenza», quel gradino di contro-senso, quella piccola deviazione riconoscibili nelle antiche tappezzerie e nei fregi ornamentali. L’ispirazione per il salto della conoscenza viene da questi esempi forniti da Schuler: «un dito, passato di bocca in bocca»72. La trasposizione benjaminiana è contrassegnata da questo contrasto da orafi. Che Goethe e Benjamin possano conoscere nelle proprie particolarità una maglia, un tessuto vivo, questo accade non solo perché Benjamin richiede
71 Non è superfluo evocare il metodo nietzschiano dell’Einverleibung. In filosofia raramente si saldano i debiti. In Dopo Nietzsche (Adelphi, Milano 1968), Giorgio Colli riconosce solo due eccezioni: Schopenhauer e Nietzsche. Possiamo aggiungere a questa breve lista il nome di Benjamin. 72 Cfr. W. Benjamin, Geheimzeichen, in GS IV/1, Kurze Schatten II, p. 425.
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esplicitamente di essere assistito dalla concezione morfologica di Goethe, ma perché, davanti a un problema, due uomini, avendo trovato l’uno nell’altro un’eredità da ricevere, finiscono col formare una comunità tale da rendere giustizia non a loro, bensì allo stesso problema.
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Abstract What does it mean to transpose? A kind of translation, which unfolds the movements of dislocation, transportation and incorporation. Between Goethe and Benjamin the separation line establishes itself around the step that goes from nature to history. We should also add that this line does not only separate the concepts application domain, but also the way of applying those concepts, from the Goethean Urphänomen to the Benjaminian origin and dialectical image, since the vision which supports each domain pervades and regulates the conceptual application itself. If Goethe and Benjamin can form a live tissue in their respective paths, this occurs not only because Benjamin asks explicitly assistance to the morphological conception of Goethe, but also because, facing a problem, two men, one of them having found in the other an inheritance to receive, end up to form a community that does justice not to them, but to the problem itself. Keywords: primordial phenomenon, origin, dialectical image, transposition, nature/history.
Il risveglio come «caso esemplare del pensiero dialettico» Sul carattere di immagine e la struttura temporale della dialettica nella nozione epistemica di soglia in Benjamin, ovvero: Benjamin legge Michelet, Hegel e Dante* Sigrid Weigel
Nella sezione finale 6 del testo Parigi, la capitale del XIX secolo, che Benjamin scrisse nel 1935 come Exposé al lavoro sui Passages che aveva in mente per l’Istituto per la ricerca sociale, le figure di pensiero del suo progetto si infittiscono. La sezione, estremamente complessa, dispiega una struttura temporale dialettica dello sviluppo storico al di là di qualsiasi teleologia e logica progressista che voglia presentarsi come tipo specifico di non-simultaneità per la cui conoscenza Benjamin elabora un’autentica metodologia e teoria. Al centro di tale contesto si trova la costellazione del risveglio come «caso esemplare del pensiero dialettico». A tale riguardo non si tratta del risveglio come passaggio dal sonno alla coscienza vigile, su cui è modellata la metafora illuminista del risveglio dal sonno della ragione o della minore età. Già Hegel aveva annoverato la questione della distinzione di sonno e veglia fra i «rebus» della filosofia; nella sua Filosofia dello spirito l’individualità – definita come «esser-per-sé» – viene determinata attraverso il «risveglio dell’anima»1 e la differenza rispetto allo stato di natura dell’essere umano viene definita attraverso il «risveglio dello spirito»2.
* Traduzione dal tedesco di Giuliana Scotto. 1 G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaft im Grundrisse (1807/1830), a cura di K.-M. Guth, Hofenberg, Berlin 2017, Philosophie des Geistes. Der subjektive Geist, A. Anthropologie, § 398: Das Erwachen und der Schlaf, p. 325; tr. it., Enciclopedia delle scienze filosofiche, testo ted. a fronte, a cura di V. Cicero, Rusconi, Milano 1996, sez. Filosofia dello spirito. Lo Spirito soggettivo, A. Antropologia, § 398: Sonno e veglia, p. 659. 2 Così nelle lezioni sulla filosofia della natura, cfr. D. Stederoth, Der Übergang von der Natur- zur Geistesphilosophie, in W. Schmied-Kowarzik - H. Eidam (a cura di), Anfänge bei Hegel, Kassel University Press, Kassel 2008, pp. 81-92.
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1. Il risveglio come posizione di soglia epistemologica A differenza di ciò, Benjamin si prefigge di costruire il risveglio “teoricamente”, come può leggersi negli appunti all’Exposé3, vale a dire quale posizione epistemologica del pensiero storico: «L’utilizzazione degli elementi onirici al risveglio è il caso esemplare del pensiero dialettico. Perciò il pensiero dialettico è l’organo del risveglio storico» (IX, pp. 17-18) [«Die Verwertung der Traumelemente beim Erwachen ist der Schulfall des dialektischen Denkens. Daher ist das dialektische Denken das Organ des geschichtlichen Aufwachens»; V, p. 59]. In queste frasi che sembrano due tesi, cioè un intrecciarsi di dialettica storica e risveglio, quest’ultimo assurge a una posizione a partire dalla quale può conoscersi la dialettica intrinseca alla storia: il risveglio come costellazione epistemica della «dialettica nell’immobilità». Infatti la dialettica storica, la quale necessariamente rimane celata a una comprensione della «storia come il continuum degli eventi» (VII, p. 501) [«Historie als dem Kontinuum der Ereignisse»; I, p. 1236], per contro si mostra a una modalità di osservazione nella quale la «ambiguità dei rapporti e prodotti sociali» [«Zweideutigkeit der gesellschaftlichen Verhältnisse und Erzeugnisse»] della modernità viene percepita come una «apparizione della dialettica come immagine» [«bildliche Erscheinung der Dialektik»]. In essa «il nuovo si compenetra col vecchio» (IX, p. 6) [«das Neue sich mit dem Alten durchdringt»; V, p. 46], – similmente a quanto accade nell’immagine onirica, che nel risveglio si mostra sotto un’altra luce che nel sonno. La precedente sezione 5 dell’Exposé scopre proprio in ciò la legge della dialettica nell’immobilità: «Ambiguità è l’apparizione della dialettica, la legge della dialettica nell’immobilità. Questo arresto, o immobilità, è utopia, e l’immagine dialettica dunque immagine di sogno» (IX, p. 14; tr. liev. mod.) [«Zweideutigkeit ist die bildliche Erscheinung der Dialektik, das Gesetz der Dialektik im Stillstand. Dieser Stillstand ist Utopie und das dialektische Bild also Traumbild»; V, p. 55]. Quando Benjamin parla qui di utopia non si tratta affatto, da parte sua, di progettare un’utopia; si tratta piuttosto di quelle utopie e sogni che hanno prodotto e in cui sono entrati i moderni. Per decifrarli traendoli dal loro modo di apparire dissimulato e frantumato occorre una particolare modalità di osservazione allenata a utilizzare gli elementi onirici al risveglio, al fine di fare del pensiero dialettico l’organo del risvegliarsi storico. In questi densi passaggi si intrecciano tante linee presenti nel lavoro di Benjamin sul metodo e le figure di pensiero di cui qui di seguito si espone la genesi.
3 Cfr. W. Benjamin, Das Passagen-Werk, a cura di R. Tiedemann, in W. Benjamin, Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, vol. V, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1982, p. 1213; tr. it., I «passages» di Parigi, in W. Benjamin, Opere complete, a cura di E. Ganni, vol. IX, Einaudi, Torino 2000, Paralipomena, p. 987. Di qui in avanti, per le citazioni dalle Gesammelte Schriften (ed. Suhrkamp in 7 tomi) e dalle Opere complete di Benjamin (ed. Einaudi in 9 voll.) si indicherà soltanto il numero del volume seguito dal numero di pagina.
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All’Exposé Benjamin riconnetteva l’idea di formulare una propria teoria della conoscenza per il progetto sui Passages – similmente al caso del libro sul Dramma barocco tedesco: «Se il libro sul barocco mobilitava una propria teoria della conoscenza, questo avverrebbe perlomeno nella stessa misura per i Passages», così Benjamin in una lettera a Scholem (IX, p. 1071) [«Wenn das Barockbuch seine eigene Erkenntnistheorie mobilisierte, so würde das in mindestens gleichem Maße für die Passagen der Fall sein»4]. Con ciò, nel caso del lavoro sui Passages, non ci si riferisce a un’idea (quella del dramma barocco), bensì alla percezione e al concetto di storia. Già durante la prima fase di lavoro sui Passages di Parigi I Benjamin pensava a un’introduzione all’epistemologia della storia, «une introduction qui porte sur la théorie de la connaissance – et cette fois, surtout sur la théorie de la connaissance de l’historie», come già dice a gennaio del 1930 in una lettera a Scholem (IX, p. 1045) [GB III, p. 503]. Pertanto l’Exposé si trova in collegamento diretto con le più tarde tesi Sul concetto di storia, come anche con la cartella N degli appunti sul lavoro dei Passages relativamente al tema Elementi di teoria della conoscenza, teoria del progresso5. I tre testi costituiscono un complesso unitario; essi sono legati mediante la presenza di un’autentica teoria della conoscenza e della storia che non è formulata da una posizione al di fuori degli eventi, bensì a partire dalla prospettiva del soggetto storico e di un luogo all’interno degli eventi – cui Benjamin darà il nome di «adesso» (Jetztzeit). L’Exposé al progetto sui Passages è caratteristico per la modalità in cui nel pensiero e nella scrittura di Benjamin il metodo corrisponde con l’oggetto dell’indagine – qui l’immagine della modernità come si mostra nella Parigi del XIX secolo. Nella sezione finale citata la parola chiave è la soglia. Così come lo sviluppo delle forze produttive nel XIX secolo emancipa dall’arte le forme creative [Gestaltungsformen] della modernità (come architettura, fotografia, feuilleton, ecc.), parimenti queste al contempo divengono prodotti che «sono in procinto di trasferirsi come merci sul mercato. Ma esitano ancora sulla soglia» (IX, p. 17) [«sind im Begriff, sich als Ware auf den Markt zu begeben. Aber sie zögern noch auf der Schwelle»; V, p. 59]. Per riconoscere questa condizione storica di soglia occorre un atteggiamento di attesa sulle soglie. In ciò il risveglio può consegnare il modello per l’esercizio del pensiero dialettico soltanto se è concepito come soglia: come una posizione privilegiata che da un lato consente il passaggio agli elementi del sogno, ma dall’altro lato trae profitto dal modus di conoscenza della coscienza vigile. Pertanto, in Benjamin, a fondamento della concezione teorica del risveglio sta la sua «nozione di soglia» 4 W. Benjamin, Gesammelte Briefe, vol. V, 1935-1937, a cura di Ch. Gödde e H. Lonitz, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1999, p. 83. Le citazioni dai Gesammelte Briefe verranno fatte con la sigla GB corredata dell’indicazione del volume e numero di pagina. 5 A questo proposito, cfr. le osservazioni di G. Raulet sull’origine e la storia editoriale delle tesi Sul concetto di storia, Entstehungs- und Publikationsgeschichte, nel vol. 19 della nuova edizione delle opere benjaminiane Werke und Nachlaß. Kritische Gesamtausgabe: W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, a cura di G. Raulet, Suhrkamp, Berlin 2010, pp. 161-208.
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così come essa è descritta in connessione con l’«esperienza della soglia» da parte di un bambino nella metropoli della modernità nell’Infanzia berlinese6, in connessione con le riflessioni di teoria della conoscenza e della storia nel progetto sui Passages, ma rielaborate e messe a punto come metodo: come «organo del risvegliarsi storico». In ciò il risveglio diviene una sorta di tecnica dello spirito. Nella sezione Città di sogno Benjamin parafrasa il proprio «esperimento di tecnica del risveglio» [«Versuch zur Technik des Erwachens»] come segue: «il tentativo di prendere atto della svolta copernicana e dialettica della rammemorazione» (IX, p. 432) [«ein Versuch, der dialektischen, der kopernikanischen Wendung des Eingedenkens inne zu werden»; V, p. 490]. Se l’idea della rammemorazione si riferisce all’irriscattato nel già-stato e rinvia con ciò sempre anche al futuro, essa da parte di Benjamin viene posta in connessione con la memoria involontaria, mémoire involontaire, ovvero un sapere non-ancora-cosciente7. La svolta copernicana di quest’ultima mira a sfruttare questo tipo di sapere dal punto di vista della teoria della conoscenza e della storia. Per «utilizzarlo», similmente alle immagini oniriche, occorre il lavoro del risveglio: «C’è un sapere non-ancora-cosciente di ciò che è stato, la cui estrazione alla superficie ha la struttura del risveglio» (IX, p. 433) [«Es gibt Noch-Nicht-bewußtes-Wissen vom Gewesenen, dessen Förderung die Struktur des Erwachens hat»; V, p. 491]. Il discorso di Benjamin sulla svolta copernicana è da intendersi in modo del tutto letterale perché si tratta in questo caso di un avere a che fare con le immagini della modernità, la quale rispetto alla nostra immagine del mondo è paragonabile alla visione di Copernico. Infatti – così Hans Blumenberg – è a partire dal De revolutionibus orbium coelestium di Copernico (1543) che è possibile spiegare la parvenza all’interno delle immagini autoprodotte: la grandezza della prestazione copernicana non è la distruzione di un’illusione e la sostituzione della parvenza con la verità, bensì la fondazione di questa parvenza, la riprova del meccanismo del suo sorgere – e con ciò il dischiudersi del cammino sul quale possiamo smascherare e riprenderci le nostre proiezioni all’interno del mondo. A partire da Copernico l’umanità ha iniziato ad apprendere come cavarsela con le immagini da essa stessa prodotte, a penetrare senza posa nel regno delle proprie ovvietà [«das Große der kopernikanischen Leistung ist nicht die Zerstörung einer Illusion und die Ersetzung des Scheins durch Wahrheit, sondern es ist die Begründung dieses Scheins, der Nachweis des Mechanismus seiner Entstehung – und damit die Erschließung des Weges, auf dem wir unsere Projektionen in die Welt hinein durchschauen und zurücknehmen können.
6 Sul punto, cfr. W. Menninghaus, Schwellenkunde. Walter Benjamins Passage des Mythos, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1986. 7 Sul significato centrale e stratificato dell’idea di rammemorazione ripresa da Bloch negli scritti di Benjamin e sul suo dispiegarsi in una figura di pensiero complessa e stratificata, cfr. l’istruttiva analisi di S. Marchesoni, Walter Benjamins Konzept des Eingedenkens. Über Genese und Semantik einer Denkfigur, Kulturverlag Kadmos, Berlin 2016.
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Seit Kopernikus hat die Menschheit begonnen zu lernen, mit den von ihr selbst erzeugten Bildern fertig zu werden, unaufhaltsam in das Reich ihrer Selbstverständlichkeiten einzudringen»].8
È esattamente in siffatta modalità di conoscenza che può ravvisarsi l’ambiguità dello sviluppo sociale in quanto «apparizione della dialettica come immagine» [«bildliche Erscheinung der Dialektik»], in quanto ciò che Benjamin descrive come la «legge della dialettica nell’immobilità» (IX, p. 14) [«Gesetz der Dialektik im Stillstand»; V, p. 55)]. A differenza di un modo di osservazione critico in senso ideologico, che nella riduzione a merce delineata quale esito delle forme creative culturali dell’arte vorrebbe vedere soltanto alienazione e falsa coscienza, il richiamo alle immagini del sogno dischiude la possibilità di scoprire nelle «configurazioni della vita, dagli edifici durevoli alle mode effimere» (IX, p. 7; tr. liev. mod.) [«Konfigurationen des Lebens, von den dauernden Bauten bis zu den flüchtigen Moden»; V, p. 47], anche simboli ideali, ovvero di ravvisarvi tracce lasciate dai sogni delle generazioni precedenti. Riallacciandosi alle frasi citate sul risveglio e sul ridestarsi storico, nel riassunto dell’Exposé si dice: «Infatti ogni epoca non solo sogna la successiva, ma sognando urge al risveglio. Essa porta in sé la sua fine, e la dispiega – come ha già visto Hegel – con astuzia. Con la crisi dell’economia mercantile, cominciamo a scorgere i monumenti della borghesia come rovine prima ancora che siano caduti» (IX, p. 18) [«Jede Epoche träumt ja nicht nur die nächste sondern träumend drängt sie auf das Erwachen hin. Sie trägt ihr Ende in sich und entfaltet es – wie schon Hegel erkannt hat – mit List. Mit der Erschütterung der Warenwirtschaft beginnen wir, die Monumente der Bourgeoisie als Ruinen zu erkennen noch ehe sie zerfallen sind»; V, p. 59]. Ma per vedere in queste rovine della borghesia la dialettica storica all’opera nell’ambiguo sviluppo sociale occorre uno sguardo particolare. Perciò Benjamin conclude il proprio Exposé con la seguente riflessione: «Balzac ha parlato per primo delle rovine della borghesia. Ma solo il surrealismo ha liberato lo sguardo su di esse. Lo sviluppo delle forze produttive ha distrutto i sogni e gli ideali del secolo scorso, prima ancora che fossero crollati i monumenti che li rappresentavano» (IX, p. 17) [«Balzac hat als erster von den Ruinen der Bourgeoisie gesprochen. Aber erst der Surrealismus hat den Blick auf sie freigegeben. Die Entwicklung der Produktivkräfte legte die Wunschsymbole des vorigen Jahrhunderts in Trümmer noch ehe die sie darstellenden Monumente zerfallen waren»; V, p. 59]. In questa densa immagine Benjamin delinea una non-simultaneità nello sviluppo storico che sorge dalle tensioni della dinamica temporale delle 8 H. Blumenberg, Kopernikus im Selbstverständnis der Neuzeit, in «Akademie der Wissenschaften und der Literatur Mainz. Abhandlungen der geistes- und sozialwissenschaftlichen Klasse», n. 5, 1964, pp. 339-368: p. 354 [tr. it. di G. Scotto]; parte delle sott. sono mie.
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forze produttive nella misura in cui le forme dei sogni delle epoche passate che hanno trovato espressione materiale affiorano dentro alla vita dei contemporanei. La differenza decisiva rispetto al concetto marxiano di forze produttive (risorse naturali, intellettuali, tecniche, ovvero mezzi di produzione, abilità e saperi) risiede nel fatto che Benjamin concepisce come forze produttive anche sogni e desideri e prende sul serio il loro modo di avere effetto nella configurazione della storia. Egli stesso concettualizza questa differenza nel momento in cui distingue il proprio metodo dall’analisi del «nesso causale fra economia e civiltà» [«Kausalzusammenhang zwischen Wirtschaft und Kultur»] in Marx definendolo come questione del «nesso espressivo» [«Ausdruckszusammenhang»], cioè dell’«espressione dell’economia nella sua civiltà» (IX, p. 513) [«Ausdruck der Wirtschaft in ihrer Kultur»; V, pp. 573-574]. Da questo passo radicale consegue che la generazione presente vive in mezzo a monumenti nei quali sono esibiti i simboli dei desideri delle generazioni precedenti, mentre le forme simboliche espressive dei suoi propri sogni da lungo tempo sono mutate con lo sviluppo delle forze produttive. Di conseguenza Benjamin considera «i passages e gli intérieurs, i padiglioni da esposizione e i panorami» [«Passagen und Interieurs, die Ausstellungshallen und Panoramen»] come «residui di un mondo di sogno» [«Rückstände einer Traumwelt»] che scaturiscono dai sogni delle epoche passate (IX, p. 17) [V, p. 59]. E l’«utilizzazione degli elementi onirici al risveglio è il caso esemplare del pensiero dialettico. Perciò il pensiero dialettico è l’organo del risveglio storico». Questa densa sezione finale dell’Exposé, la quale formula in nuce la teo ria benjaminiana della conoscenza e della storia nel progetto sui Passages, rinvia per un verso alla citazione di Michelet che Benjamin usa come motto nella prima sezione dell’Exposé: «Chaque époque rêve la suivante» (IX, p. 6) [V, p. 46]. Per l’altro verso contiene una non meglio specificata citazione da Hegel. Entrambi i riferimenti saranno indagati di seguito, così come la trasformazione della nozione di soglia in una concezione epistemologica. 2. Lo spunto da Jules Michelet La frase di Jules Michelet: «Chaque époque rêve la suivante» costituisce il motto per quella sezione dell’Exposé nella quale Benjamin riflette sulla modalità in cui «il nuovo si compenetra col vecchio» (IX, p. 6) [«das Neue sich mit dem Alten durchdringt»; V, p. 46)]. La scarna indicazione della fonte: «Michelet: Avenir! Avenir!» si riferisce al titolo di un testo di Michelet in lingua francese che era stato stampato nel 1929 sulla rivista «Europe»9. Dalle note di redazione si viene a sapere che nel caso degli appunti datati 4 aprile 1839 si tratta di un brano dal diario intimo di Michelet che invero era rimasto 9
J. Michelet, Avenir! Avenir!, in «Europe», n. 73, 1929, pp. 6-10.
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inaccessibile sino al 195010. Gli appunti sono legati alla scena sul letto di morte della prima moglie di Michelet, un evento che aveva dato occasione all’autore di riflettere sul nesso fra morte e storia. Il significato di questi appunti per lo storico della Rivoluzione francese si può comprendere considerando il fatto che egli, più tardi, il 24 luglio dello stesso anno, annota di aver riconosciuto quel che vi sarebbe di fecondo e di vivace nella morte; con ciò per la prima volta gli sarebbe apparsa la storia11 – e questo dopo aver già pubblicato due dei sei volumi della sua Histoire de France. È vero che dalle annotazioni associative di Michelet è difficile trarre una tesi chiara, univoca – tanto più che in essi l’anticlericale parla fra l’altro di una provvidenza divina –, e tuttavia il morire qui viene inscritto in una storia del progresso nel momento in cui Michelet ne trae il guadagno di un lato creativo, vitale. Mentre il voler morire, «vouloir mourir», viene interpretato come «bienveillance pour le progrès», per nuove idee, la gioventù e il futuro12, il progresso viene fondato, per così dire, mediante una dinamica storico-naturale. Un Leitmotiv del testo sono le indistinte immagini (oniriche) che le generazioni uscenti si fanno della vita dei futuri e con ciò istituiscono un collegamento fra generazioni ovvero epoche. Al testo è anteposta una tesi di tre righe che interpreta il futuro come prodotto del lavoro onirico – «rêver = créer / velle videmur Chaque époque rêve la suivante, la crée en rêvant / avenir! avenir!»13 –, mentre i veri e propri appunti iniziano con la scena personale al letto di morte della moglie. L’osservazione della grande fatica con cui lei tenta di aprire gli occhi mentre le pupille si rivoltano bianche diviene per Michelet il punto di partenza della discussione di una costellazione che lo impegna. Formulata come domanda «effort au ciel? tendance en bas?»14 e interpretata come scena di indecisione – «Sphère indécise, limbes pénibles», la qual cosa contraddistingue sia una faticosa situazione di sospensione come anche rinvia al limbo preinfernale –, questa condizione viene associata alla rappresentazione michelangiolesca del Giudizio universale. Per la prima volta egli ne avrebbe compreso la parte centrale, «cet effet de songe laborieux par lequel nous nous soulevons de la nuit au jour, de la mort à la vie»15. Nella chiarificazione di queste associazioni Michelet progetta un’analogia fra la tensione verso qualcosa, ciò in 10 Brani del diario erano stati già stampati nella biografia di G. Monod, Jules Michelet. Études sur sa vie et ses œuvres, avec des fragments inédits (1875), Hachette, Paris 1905, mentre il testo completo della redazione è stato messo a disposizione da Daniel Halévy, il quale si era imbattuto negli appunti lavorando alla biografia di Michelet. 11 «[J]e sus la mort, tout ce qu’elle a de fécond et de vivace; c’est-à-dire que l’histoire m’apparut pour la première fois» (J. Michelet, Avenir! Avenir!, cit., p. 10). 12 Ivi, p. 8. 13 Ivi, p. 6 [«sognare = creare / velle videmur Ogni epoca sogna la seguente, la crea sognando / Futuro! Futuro!»; tr. it. di G. Scotto]. 14 Ibidem [«Aspirazione al cielo? Inclinazione verso il basso?»; tr. it. di G. Scotto]. 15 Ibidem [«Quell’effetto del sogno operoso attraverso il quale noi ci solleviamo dalla notte al giorno, dalla morte alla vita»; tr. it. di G. Scotto]. Ciò si riferisce alla sfera centrale dell’affresco (fra i dannati e il limbo al margine inferiore dell’immagine e il gruppo di persone raccolte
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cui i ricordi confusi sbiadiscono prima che faccia irruzione la nuova vita, e il sogno vago di un’epoca del futuro: Chaque époque probablement rêve ainsi aux époques suivantes, mais elle n’en parle guère, ne pouvant même nommer les objets inconnus, indécis, qui lui apparaissent. Nos pères des premiers âges du monde, nous ont rêvés, et sans doute avec sympathie. Leurs regards, lorsqu’ils se fermaient au présent, s’ouvraient volontiers aux figures confuses de leurs descendants…16
Con questa illazione i sogni confusi di coloro che svaniscono dalla storia divengono il progetto indistinto del futuro. In modo completamente diverso, Benjamin descriverà il rapporto delle generazioni nelle tesi sulla storia come «appuntamento misterioso» [«geheime Verabredung»], intendendo le aspettative che i predecessori ripongono nei successori a partire dalla prospettiva dell’adesso come «debole forza messianica» [«schwache messianische Kraft»] che ci è consegnata poiché «siamo stati attesi sulla terra» [«auf der Erde erwartet worden sind»]. Da ciò peraltro non si può far derivare alcun diritto, alcuna pretesa [Anspruch] «per noi», bensì, al contrario, il passato ha un diritto, e precisamente una pretesa che non si può realizzare a poco prezzo (VII, p. 484; tr. liev. mod.) [I, p. 694]17. Ma il modo in cui nell’Exposé Benjamin si riferisce all’appunto di Michelet Avenir! Avenir! corrisponde esattamente al suo modo di intendere la “citazione salvifica”, così come viene formulata nel saggio su Kraus: strappata dal luogo a cui apparteneva, la citazione appare nella compagine di un nuovo testo (IV, p. 354) [II, p. 363]. Questa prassi della citazione gli deve esser sembrata particolarmente adeguata per Michelet; negli appunti per il progetto sui Passages osserva ancora una volta che una citazione di Michelet «ovunque la si trovi, fa dimenticare al lettore il libro in cui la incontra» (IX, p. 524) [«wo immer es sich findet, den Leser das Buch vergessen macht, in dem er es antrifft»; V, p. 584]. Mentre lì Benjamin attinge soprattutto dal libro di Michelet Le peuple (1846), ciò che lo affascina in Avenir! Avenir! è l’idea del carattere onirico del progetto del futuro: ogni epoca sogna la successiva. D’altra parte, questa idea, nel quadro della sua teoria epistemologica, si trasforma radicalmente. Al posto della sphère indécise e delle figures confuses di Michelet, attorno al Giudice del mondo nella parte superiore), dove alcuni corpi aspirano ad andare verso l’alto e altri sprofondano verso il basso. 16 Ivi, pp. 6-7 [«ogni epoca probabilmente sogna così le epoche seguenti, ma quasi non ne parla, non potendo neppure nominare gli oggetti sconosciuti, indecisi, che le appaiono. I nostri padri delle prime epoche del mondo ci hanno sognato, e forse con simpatia. I loro sguardi, quando si chiudevano al presente, si aprivano volentieri alle figure confuse dei loro discendenti…»; tr. it. di G. Scotto]. 17 Più ampiamente, sul punto, cfr. S. Weigel, Acting and Memory, Hope and Guilt. The Bond of Generations in Arendt, Benjamin, Heine, and Freud, in A. Artwinska - A. Mrozik (a cura di), Gender, Generations, and Communism in Central and Eastern Europe and Beyond, Routledge, New York-London 2020, pp. 31-42.
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nell’Exposé di Benjmin si fa avanti l’«ambiguità [in quanto] apparizione della dialettica come immagine, la legge della dialettica nell’immobilità», ovvero «l’immagine dialettica [come] immagine di sogno». E al posto dell’assopirsi emerge il risveglio quale «caso esemplare del pensiero dialettico». Mentre in Michelet il sogno è definito come ciò che puramente crea, nel Benjamin lettore di Freud il sogno guadagna una struttura più complessa nella misura in cui esso si nutre del passato e del recente e per il fatto che in esso trovano espressione immagini ideali. Così come le immagini dialettiche, anche le immagini oniriche portano in sé la loro preistoria e la loro storia successiva. Perciò in Benjamin la citazione da Michelet, «Chaque époque rêve la suivante», introduce considerazioni sul rapporto fra il vecchio e il nuovo: Alla forma del nuovo mezzo di produzione, che, all’inizio, è ancora dominata da quella del vecchio (Marx), corrispondono, nella coscienza collettiva, immagini in cui il nuovo si compenetra col vecchio. Si tratta di immagini ideali, in cui la collettività cerca di eliminare o di trasfigurare l’imperfezione del prodotto sociale, come pure i difetti del sistema produttivo sociale (IX, p. 6) [«Der Form des neuen Produktionsmittels, die im Anfang noch von der des alten beherrscht wird (Marx), entsprechen im Kollektivbewußtsein Bilder, in denen das Neue sich mit dem Alten durchdringt. Diese Bilder sind Wunschbilder und in ihnen sucht das Kollektiv die Unfertigkeit des gesellschaftlichen Produkts sowie die Mängel der gesellschaftlichen Produktionsordnung sowohl aufzuheben wie zu verklären»; V, pp. 46-47].
Sicché, come delle immagini ideali è caratteristica l’aspirazione a «distanziarsi dall’invecchiato – e cioè dal passato più recente» [«sich gegen das Veraltete – das heißt aber: das Jüngstvergangene – abzusetzen»], così tale aspirazione rinvia «la fantasia, che ha tratto impulso dal nuovo, al passato antichissimo» [«die Bildphantasie, die von dem Neuen ihren Anstoß erhielt, an das Urvergangene zurück»]. In questa maniera il vagheggiamento del futuro invero non può “creare” alcun futuro, ma nondimeno le immagini oniriche avranno lasciato «le [proprie] tracce in mille configurazioni della vita, dagli edifici durevoli alle mode effimere» (IX, p. 7; tr. liev. mod.) [«tausend Konfigurationen des Lebens, von den dauernden Bauten bis zu den flüchtigen Moden, ihre Spur hinterlassen»; V, p. 47]. Ma per decifrare, all’interno di questi fenomeni, gli effetti dei sogni di epoche passate nella civiltà dell’adesso, essi devono essere intesi come immagini dialettiche – col che ci ritroviamo nuovamente alla nozione di soglia epistemologica che viene istruita mediante il risveglio. 3. Nozione di soglia – dalla topografia della città all’epistemologia Nelle considerazioni di Benjamin sulla critica della conoscenza risalenti agli anni Trenta la soglia non è una metafora, come tanto spesso accade nel discorso teorico contemporaneo. Piuttosto dai suoi scritti si può evincere esattamente in quale modo una pratica culturale nello spazio compia la
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propria trasformazione in una figura di pensiero e nel concetto chiave di una teoria critica della conoscenza in cui vengono recuperati momenti di modalità esperienziali storicamente scomparse. La nozione di soglia trova i propri protagonisti nel bambino, nel flâneur e nel lettore. Se nella modernità il flâneur viene considerato come figura che se ne va in giro per le strade della città senza una meta precisa, senza rotta né indirizzo, scoprendo in tal modo cose e fenomeni inattesi, così Benjamin ha trasposto questa figura nella teoria della lettura: una lettura topografica senza la mappa della città, nella quale l’attenzione scivola dai centri e dai monumenti verso i luoghi di passaggio e le soglie. Così facendo, egli fornisce al contemporaneo della modernità il comportamento e lo sguardo da lui sviluppato di “critica salvifica”18, nella cui prospettiva singoli fenomeni storico-culturali acquisiscono conoscibilità proprio nel momento in cui svaniscono dal palcoscenico della storia – così come nei Passages parigini sono riconoscibili i residui di un mondo di sogno delle epoche passate. Mentre i contemporanei di Benjamin sono «divenuti poveri di esperienze della soglia» [«arm an Schwellenerfahrungen geworden»], così come si dice in un appunto ai Passages, in particolare nell’annotazione che reca il titolo Rites de passage (IX, p. 555) [V, p. 617], le figure guida dell’esperienza della soglia – il bambino, il flâneur, il lettore (dell’immagine e del sogno) – riescono di nuovo a entrare in questa esperienza che dilegua. Nelle immagini di pensiero di Infanzia berlinese (scritto nel 1933 e negli anni immediatamente seguenti) il bambino viene rappresentato come flâneur: «Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta» (V, p. 360) [«Sich in einer Stadt nicht zurechtfinden heißt nicht viel. In einer Stadt sich aber zu verirren, wie man in einem Walde sich verirrt, braucht Schulung»; IV, p. 237]. Ma a differenza del flâneur, il bambino è caratterizzato da un dissidio fra curiosità ed esitazione, da desiderio e insieme timore, da piacere e paura. Il suo cuore batte più rapidamente quando si muove verso una soglia, quando si avvicina al passaggio verso un luogo sconosciuto, inquietante o estraneo. Sicché in determinati luoghi il bambino sviluppa una elevata attenzione per esperienze di soglia e con i sentimenti ad esse legati: negli interni e nelle logge delle enormi residenze borghesi di Berlino intorno al 1900, nei parchi e nelle strade, all’ingresso delle abitazioni e degli edifici pubblici, e così via. Quando per esempio fa ingresso nella piscina coperta, con il suo brusio, dice: «Porre il piede oltre la soglia significava prendere congedo dal mondo superiore» (V, p. 415) [«Den Fuß über die Schwelle setzen bedeutet, von der Oberwelt Abschied nehmen»; IV, p. 297]. Accanto a simili esperienze della soglia nello spazio, l’Infanzia berlinese tematizza ripetutamente scene di risveglio che vengono riflesse come soglia fra il sogno e la percezione dell’ambiente reale circostante. 18 Cfr. sul punto, sempre ancora attuale, N. Bolz e R. Faber (a cura di), Walter Benjamin. Profane Erleuchtung und rettende Kritik, Königshausen & Neumann, Würzburg 1985.
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Nei testi e negli appunti che si trovano in connessione con il progetto per la “storia originaria della modernità”, al posto del bambino a varcare la soglia della modernità è il flâneur. In questo progetto, per il quale il Passage de Panoramas parigino costituisce il luogo paradigmatico di uno spazio liminare nella topologia della città moderna, le percezioni del bambino dell’Infanzia berlinese continuano a produrre un effetto la cui configurazione di nuovo viene arricchita di connotazioni grazie al flâneur. Ma quando il progetto per i Passages ritorna al luogo originario del flâneur, a quel punto l’esperienza di soglia del bambino è divenuta un luogo di soglia nella storia: «Il flâneur è ancora sulla soglia, sia della grande città che della classe borghese. Egli non si sente a suo agio in nessuna delle due» (IX, p. 1008) [«Der Flaneur steht noch auf der Schwelle, der Großstadt sowohl wie der Bürgerklasse. Keine von beiden hat ihn noch überwältigt. In keiner von beiden ist er zu Hause»; V, p. 54], così si dice nell’Exposé. Con gli occhi di questo flâneur, dalla storia della religione e del culto si riattivano tracce di significati storicamente antecedenti. Così nell’antichità la soglia era «una cosa sacra», cui per esempio si riferisce La poétique de l’espace di Gaston Bachelard (1957) quando vi si può leggere che nella soglia «è incarnato un piccolo dio»19. Momenti di tali significati si lasciano ancora decifrare nei monumenti di pietra e nei resti del passato che Benjamin decodifica come “topografia mitologica di Parigi”: «Dall’ambito di esperienza della soglia si è sviluppata la porta che trasforma colui che passa sotto la sua volta» (IX, p. 92) [«Aus dem Erfahrungskreise der Schwelle hat das Tor sich entwickelt, das den verwandelt, der unter seiner Wölbung hindurchschreitet»; V, p. 139]. Oppure: «Queste porte – gli ingressi dei passages – sono soglie» (IX, p. 95) [«Diese Tore – die Eingänge zu den Arkaden – sind Schwellen»; V, p. 142]. Negli appunti al progetto sui Passages le citazioni da fonti storiche sul significato della soglia nell’antichità greca e romana o nell’architettura moderna si alternano a considerazioni proprie di Benjamin, queste ultime spesso con il titolo di magia della soglia oppure nozione di soglia. Nel corso del progetto proprio questa diviene una chiave della sua nuova teoria della conoscenza. In questo contesto la soglia si distingue dal confine poiché essa separa ambiti o situazioni non soltanto diversi, bensì piuttosto opposti, e al contempo dischiude uno spazio di transizione. Già nella prima fase di lavoro sui Passages di Parigi I, così annotava Benjamin: «Bisogna distinguere nel modo più netto soglia e confine. La soglia è una zona, una zona di passaggio» (IX, p. 936) [«Schwelle und Grenze sind schärfstens zu unterscheiden. Die Schwelle ist eine Zone. Und zwar eine Zone des Überganges»; V, p. 1025]. Nel momento in cui la nozione di soglia amplia il confine facendolo diventare zona e dischiudendolo epistemologicamente, il confine in essa viene dinamizzato e dialettizzato. Il suo significato è legato al passaggio e alla trasformazione, si19 G. Bachelard, Poetik des Raumes, Ullstein, Frankfurt a.M.-Berlin-Wien 1975, p. 254; tr. it. di E. Catalano, rev. di M. Giovannini, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 2006, p. 258.
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milmente al rite de passage e similmente al mutamento di forma nel sogno. La riflessione sulla soglia come zona si trova nella stessa annotazione che parla del fatto che saremmo diventati poveri di esperienze della soglia, e aggiunge: «L’addormentarsi forse è l’unica che c’è rimasta». Nella variante più tarda di questa annotazione, sotto il titolo di Rites de passage risalente alla fase di lavoro successiva all’Exposé, questa frase è completata con l’aggiunta «(E con essa, però, anche il risveglio)» (IX, p. 555) [«Das Einschlafen ist vielleicht die einzige, die uns geblieben ist. (Aber damit auch das Erwachen)»; V, p. 617]. Il risveglio come «caso esemplare del pensiero dialettico» nell’Exposé è comunque chiarito anche mediante la teoria della memoria di Sigmund Freud, con la sua radicale non-simultaneità dei sistemi eterogenei di coscienza e inconscio in quanto stati mentali che si escludono reciprocamente. La possibilità di usare il risveglio da un punto di vista di teoria della storia risulta peraltro non soltanto dal risveglio in quanto tale, bensì dalla sua costruzione teorica in quanto luogo a partire dal quale viene organizzato l’accesso a due modalità di considerazione diverse nel fondamento, contrapposte. Un esempio affascinante di come Benjamin dà forma a tale costellazione in una densa immagine di pensiero si può esaminare nel suo saggio su Karl Kraus (1931). Qui Benjamin analizza il giornalismo critico di Kraus, in particolare la critica di quest’ultimo all’ordinamento giuridico vigente e il suo riferimento a un concetto, per così dire, ultraterreno di giustizia, il quale alla fine rinvia all’idea di giustizia divina tratta dalla Bibbia ebraica, per cui Benjamin parla di un «salto mortale veramente ebraico» (IV, p. 342) [«echt jüdischen Salto mortale»; II, p. 349] in lingua tedesca. Nella critica di Kraus si scontrano due ordini incompatibili: il mondo preistorico della creazione, da un lato, e il giudizio universale dall’altro. Collocando Kraus «sulla soglia del giudizio universale» (IV, p. 341) [«an der Schwelle des Weltgerichts»; II, p. 348], Benjamin ne condensa l’ambiguo modo e atteggiamento in una concisa immagine di pensiero: «Se egli volge mai le spalle alla creazione, se interrompe i suoi lamenti, è solo per accusare davanti al tribunale del mondo» (IV, p. 341) [«Kehrt er der Schöpfung je den Rücken, bricht er ab mit Klagen, so ist es nur, um vor dem Weltgericht anzuklagen»; II, p. 349]. In questa immagine di pensiero si dà forma a un atteggiamento letteralmente incarnato di direzione dello sguardo che si rivolge di volta in volta a un oggetto diverso in modo discontinuo, come se lo spostamento dello sguardo fosse segnato da fratture: lì il lamento come lingua che si rivolge al mondo della creazione e, analogamente a Giobbe, accusa la “giustizia” divina; qui l’accusa che si indirizza al giudizio universale, che sia il tribunale dell’ultimo, più giovane giorno, nel quale viene fatta giustizia sulle azioni umane, che sia l’istanza della “storia del mondo” come una delle forme secolarizzate del giudizio universale20. In questa immagine di pensiero si può riconoscere molto bene che cosa BenjaSu questo nesso, in maniera esaustiva, cfr. S. Weigel, Walter Benjamin. La creatura, il sacro, le immagini (2008), tr. it. di M.T. Costa, Quodlibet, Macerata 2014, pp. 30 ss. 20
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min ricollegasse alla «dialettica nell’immobilità», vale a dire una costellazione nella quale la posizione di soglia blocca un luogo di prospettive e ordini contrapposti e al contempo fissa in immagine linguistica la dinamica del loro avvicendarsi. Infatti, come si dice in un’annotazione nella cartella N degli appunti sui Passages, appartenente al gruppo identificato dalla parola chiave risveglio: «Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio» (IX, p. 516) [«Nur dialektische Bilder sind echte (d.h.: nicht archaische) Bilder; und der Ort, an dem man sie antrifft, ist die Sprache»; V, p. 577]. 4. La costellazione hegeliana del passaggio letta a rovescio Ma dal modo in cui Benjamin cita la tesi di Michelet secondo la quale ogni epoca sogna la successiva, non consegue soltanto un rovesciamento radicale nell’interpretazione di sogno e risveglio. Egli rivolta la frase stessa e prosegue così, nei già citati passaggi conclusivi dell’Exposé: «Infatti ogni epoca non solo sogna la successiva, ma sognando urge al risveglio. Essa porta in sé la sua fine, e la dispiega – come ha già visto Hegel – con astuzia. Con la crisi dell’economia mercantile, cominciamo a scorgere i monumenti della borghesia come rovine prima ancora che siano caduti». Se qui si tratta della fine di un’epoca che in quanto dinamica è inclusa nel sogno del futuro, allora risveglio e fine coincidono. Diversamente dalla citazione di Michelet, il rinvio a Hegel non viene specificato. Tuttavia, dal momento che qui Benjamin si riferisce al modo in cui Hegel rappresenta la fine di un’epoca, si può pensare a un passo dalla Prefazione alla Fenomenologia dello spirito, in cui Hegel tematizza il passaggio a un «nuovo periodo» e con ciò coglie l’affiorare improvviso del mondo nuovo in un’immagine degna di nota. Il punto deve aver richiamato l’attenzione di Benjamin, se la fulminea apparizione del mondo nuovo in Hegel corrisponde invero alla sua idea del modo fulmineo della conoscenza che viene premessa come motto alla cartella N degli appunti sui Passages: «Negli ambiti con i quali abbiamo a che fare la conoscenza è data solo in modo fulmineo. Il testo è il tuono che poi continua a lungo a risuonare» (IX, p. 510; tr. liev. mod.) [«In den Gebieten, mit denen wir es zu tun haben, gibt es Erkenntnis nur blitzhaft. Der Text ist der langnachrollende Donner»; V, p. 570]21. Se è vero che in Hegel, in modo completamente diverso da Benjamin, è lo spirito a produrre l’effetto del mutamento di configurazione, tuttavia è lo scenario di fine e inizio aurorale a essere espresso Per il significato del fulmine nell’epistemologia di Benjamin cfr. S. Weigel, Der Blitz der Erkenntnis – Malerei und Photographie als Palimpsest von Benjamins Bilddenken, in Ead., Grammatologie der Bilder, Suhrkamp, Berlin 2015, pp. 402-442; tr. ingl., The Flash of Knowledge and the Temporality of Images. Walter Benjamin’s Image-Based Epistemology and its Preconditions in Visual Arts and Media History, in «Critical Inquiry», n. 41, 2015, pp. 344-366. 21
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in un’immagine in cui il fulmine interviene per una volta non come metafora di uno spirito che “strugge” la natura, come in altri testi di Hegel. In questo passo Hegel descrive «nascita e passaggio in un nuovo periodo» come salto qualitativo nella misura in cui i suoi preannunciatori sono rimasti a lungo inosservati. Quando egli introduce come paragone in questo contesto la nascita di un bambino e il suo primo respiro – in contrasto col morire in Michelet –, parimenti parla anche di immagini indeterminate del futuro. […] così lo spirito che si forma matura lento e placido verso la sua nuova figura e dissolve brano a brano l’edificio del suo mondo precedente; lo sgretolamento che sta cominciando è avvertibile solo per sintomi sporadici; la fatuità e la noia che invadono ciò che ancor sussiste, l’indeterminato presentimento di un ignoto, sono segni forieri di un qualche cosa di diverso che è in marcia. Questo lento sbocconcellarsi che non alterava la fisionomia dell’intero, viene interrotto dal sorgere [Aufgehen] che, come un lampo, d’un colpo, mette innanzi la piena struttura del nuovo mondo.22
Accanto a presentimenti indeterminati vi sono «sintomi sporadici» che qui alludono alla fine dell’epoca e al contempo preannunciano che «qualche cosa di diverso è in marcia». Se questa descrizione può essere ancora letta nel modello di una dinamica storica di sviluppo, tuttavia questa viene anche repentinamente interrotta per il fatto che il nuovo si trova all’improvviso davanti agli occhi. E in ciò il sorgere diviene agente di un effetto fulmineo quando si dice che esso, «come un lampo, d’un colpo, mette innanzi la piena struttura [das Gebilde] del nuovo mondo» (sott. mie). Degno di nota per lo stile di scrittura hegeliano è qui non soltanto il discorso della «fisionomia dell’intero», bensì anche il fatto che egli – nella forma ellittica del «mettere innanzi» – citi una figura della retorica antica: il mettere “davanti agli occhi”, che si collega alla particolare energeia di ciò che ha carattere di immagine. Anche dal punto di vista linguistico, la frase con il lampo non ricade nelle riflessioni consuete. Infatti nei passi salienti Hegel descrive la transizione altrimenti, con l’aiuto di metafore della natura – così quando, accanto al ricordato confronto con la nascita di un bambino, per esempio, paragona il primo affiorare del nuovo in contrasto con l’intero alla differenza fra ghianda e quercia. La parola che salta gli occhi, «sorgere» (non “ascesa”), 22 G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes (1807), in Id., Werke, a cura di E. Moldenhauer e K.M. Michel, vol. III, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1970, pp. 18-19 [«so reift der sich bildende Geist langsam und stille der neuen Gestalt entgegen, löst ein Teilchen des Baues seiner vorhergehenden Welt nach dem andern auf, ihr Wanken wird nur durch einzelne Symptome angedeutet; der Leichtsinn wie die Langeweile, die im Bestehenden einreißen, die unbestimmte Ahnung eines Unbekannten sind Vorboten, daß etwas anderes im Anzug ist. Dies allmähliche Zerbröckeln, das die Physiognomie des Ganzen nicht veränderte, wird durch den Aufgang unterbrochen, der ein Blitz, in einem Male das Gebilde der neuen Welt hinstellt»]; tr. it. di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1960, vol. I, p. 9 (tr. liev. mod.).
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con la quale egli coglie la modalità in cui fa ingresso il nuovo periodo, sta per contro sulla soglia fra metafora (sorgere del sole) e sostantivo deverbale (da sorgere); qualificato come lampo, è al sorgere che viene ascritto il momento attivo nell’intera costellazione. Non è che alla luce del lampo la struttura del mondo nuovo ci diviene visibile; piuttosto è il suo stesso modo di apparire a essere simile al lampo, sicché l’immagine del mondo nuovo ci viene posta improvvisamente davanti agli occhi. Questo intero passo deve aver interessato Benjamin, e in effetti non si accorda soltanto con il suo lavoro sulle costellazioni del passaggio, bensì anche con il suo sguardo fisiognomico e soprattutto con la lettura di sintomi. D’altronde Benjamin intende i sintomi, che in Hegel sono piuttosto degli indizi, nel senso di Freud – il sintomo inteso come simbolo mnestico23 –, quando li riconnette al sogno e all’inconscio e interpreta altri fenomeni nella metropoli della modernità come simboli ideali della società borghese decadente oppure come residui di un passato mondo onirico. Dopo un’iniziale chiara distanza rispetto a Hegel – «Hegel sembra essere terrificante!» [«Hegel scheint fürchterlich zu sein!»; GB I, p. 438], scrive da Locarno nel 1918 il dottorando venticinquenne Benjamin a Ernst Schoen –, negli anni Trenta Benjamin si occupa dei suoi scritti più intensamente rispetto a quando, all’epoca dei suoi progetti sulla modernità, aveva iniziato a studiare la storia del materialismo dialettico. In connessione con ciò egli fa riferimento innanzitutto alle hegeliane Lezioni sulla filosofia della storia e alle Lezioni di estetica, in occasione del suo lavoro al saggio sull’opera d’arte. Se le frasi conclusive dell’Exposé rinviano all’esposizione hegeliana del passaggio e dell’apparire del mondo nuovo, è comunque Benjamin a riformulare radicalmente, come anche nel caso di Michelet, la versione di Hegel relativa allo scenario del passaggio. In ciò Benjamin introduce un’accelerazione nella costellazione del passaggio, sia nei suoi contenuti, sia nella sua presentazione linguistica. Questa accelerazione è debitrice allo sviluppo delle forze produttive, che non soltanto modifica la produzione, ma anche i simboli onirici materializzati nei prodotti, e in questo modo fa nascere le asincronie nello sviluppo storico cui si è accennato. Inoltre l’apparizione fulminea del mondo nuovo non è come in Hegel il risultato delle forze intrinseche al sorgere stesso; si tratta piuttosto dell’effetto di uno specifico sguardo che si riallaccia a un determinato modus della coscienza, appunto quella «utilizzazione degli elementi onirici al risveglio», che costituisce il «caso esemplare del pensiero dialettico». A questo pensiero mira nel testo anche la valorizzazione della conoscenza come un lampo.
23 Cfr. S. Freud, Studien über Hysterie (1895), in Id., Gesammelte Werke, a cura di A. Freud, vol. I, Fischer Taschenbuch, Frankfurt a.M. 1976, pp. 75-312, in part. p. 302; tr. it., Studi sull’isteria, in Opere di Sigmund Freud, a cura di C.L. Musatti, vol. I, Opere 1886-1895. Studi sull’isteria e altri scritti, Bollati Boringhieri, Torino 1982, pp. 163-439, in part. p. 432.
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5. L’illuminazione di Dante e la conoscenza come lampo nello spazio di transizione Già in una delle annotazioni redatte nella prima fase di lavoro dei Passages di Parigi I Benjamin aveva situato il modus del lampo in quello spazio di transizione (del risveglio) «in cui noi viviamo». Ivi si legge: «lo spazio di transizione del risveglio, in cui noi adesso viviamo viene attraversato per lo più da divinità. Questo essere attraversato da divinità deve essere inteso come un lampo» (IX, p. 920, tr. liev. mod.) [«Der Übergangsraum des Erwachens, in dem wir jetzt leben, wird mit Vorliebe von Göttern durchzogen. Dieses Durchziehen des Raumes durch Götter ist blitzartig zu verstehen»; V, p. 1012]. In questo appunto può leggersi ancora l’eco dell’origine divina come essa era già ovvia per un autore come Dante – anche se nell’appunto citato Benjamin pensa piuttosto all’emergere, nell’arte della modernità, di figure divine tratte dalla mitologia greca. E tuttavia a Benjamin saranno stati familiari quei versi della Divina Commedia nei quali Dante afferma che il suo spirito viene afferrato da un lampo, evocando con ciò la scena di un’illuminazione divina. Invero la Commedia di Dante è fra i testi di cui Benjamin finisce ripetutamente per parlare: dalle immagini nell’«edizione di lusso dell’Inferno» [«Prachtausgabe von Dantes “Hölle”»; VII, p. 390] che il bambino dell’Infanzia berlinese osservava da un’anziana zia «mai senza terrore» (V, p. 365) [«nie ohne Entsetzen»; IV, p. 242; VII, p. 390], passando per la lettura della traduzione di George nel 1917, assieme con Jula Cohn, sino alle numerose citazioni in diversi scritti, fra gli altri nel saggio sulle Affinità elettive di Goethe nel libro sul Dramma barocco24. Alla fine della Divina commedia Dante usa il lampo come tipo di percezione che assomiglia alla luce dell’illuminazione. Con i versi «[…] la mia mente fu percossa / Da un fulgore in che sua voglia venne»25, alla fine del Paradiso per Dante si apre – dopo l’attraversamento di Inferno e Purgatorio e dopo che, nella sua ricerca di una verità più alta, divina, ha sperimentato i limiti degli occhi umani e della lingua esistente – una forma diversa di conoscenza. Questo modo di conoscenza oltrepassa il registro disponibile di immagini e forme espressive linguistiche. L’illuminazione simile alla folgore di cui trattano questi versi può valere come scena emblematica di un tipo di verità più alta o divina che si riceve ma che non si afferra da se stessi. Con il rinvio all’apparizione fulminea dei divini nello spazio di transizione Benjamin perciò reiscrive nella costellazione del passaggio una traccia di quell’origine di un modo folgorante dell’apparire da cui essa stessa proviene, un’origine che in Hegel viene tolta [aufgehoben] nello stesso processo storico. Per la nozione di soglia ciò significa che il risveglio non soltanto viene aperto per diveni24 Sul punto, in modo sistematico, cfr. M. Maggi, Walter Benjamin e Dante. Una costellazione nello spazio delle immagini, Donzelli, Roma 2017. 25 Dante, Divina Commedia, Paradiso, Canto XXXIII, vv. 140-141.
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re zona di uno spazio di transizione, bensì che con ciò questo spazio diviene anche luogo di conoscenza folgorante. Il modo dell’illuminazione folgorante che Dante già conosceva trova un’eco nel pensiero di Benjamin, che non è né teologico né secolare, bensì insiste sulla differenza di concetti moderni rispetto al registro dei concetti biblici e sulla base di questo fondamento si interessa proprio del modo in cui i primi si riferiscono ai secondi26. Quando tematizza la natura fulminea di una conoscenza, ciò significa anche ed esattamente che questa non va fissata, tanto meno come la «vera immagine del passato» che guizza via. Per conseguenza il passato è da trattenere «solo come immagine che balena, per non più ricomparire, proprio nell’attimo della sua conoscibilità», come Benjamin afferma nella quinta delle tesi Sul concetto di storia (VII, p. 485) [«nur als Bild, das auf Nimmerwiedersehen im Augenblick seiner Erkennbarkeit eben aufblitzt»; I, p. 695]. Tuttavia, a differenza dell’illuminazione di una rivelazione o verità divina, nel balenare è già contenuto il dileguare, col che sia la verità che la rappresentazione di un’immagine del passato valida oltre il tempo sono portate ad absurdum. In luogo di ciò viene evocata l’immagine del passato di un presente che si riconosce «implicito in essa», secondo la formula della quinta tesi, e con questo Benjamin di nuovo fonda il rapporto con il passato sulla relazione con le generazioni che sono esistite e con la loro pretesa che non può realizzarsi a poco prezzo. Nella versione francese delle tesi, il cui ricco apparato di appunti non costituisce una pura autotraduzione, da ciò scaturisce la verità che attende soltanto colui che cerca. E proprio in questo passaggio si trova un’aggiunta che rimanda a Dante. Dopo aver distinto la verità che attende colui che cerca dal concetto di verità dello storico – «La vérité immobile qui ne fait qu’attendre le chercheur ne correspond nullement à ce concept de la vérité en matière d’histoire» –, Benjamin inserisce un’integrazione che si basa piuttosto sui versi di Dante: «Il s’appuie bien plutôt sur le vers du / Dante qui dit»27. Ma ciò che dice Dante qui resta non detto. E tuttavia è altamente probabile che qui Benjamin abbia pensato proprio a quei versi finali del Paradiso, in cui lo spirito di Dante viene afferrato da un lampo di luce in cui appare tutto ciò a cui egli anela. A differenza di Dante, in Benjamin il risplendere di momenti di rivelazione nello sguardo moderno però non è collegato con il Dio cristiano, bensì con il sopravvivere di divinità antiche nella modernità. E tuttavia la sua “storia originaria della modernità” reca con ciò, a differenza del modo hegeliano di intendere la storia, ancora tracce di quell’inferno attraversato da Dante quando il suo spirito viene colpito dal lampo. Peraltro anche l’inferno in Benjamin ha un viso moderno, ma esso è il viso della modernità, ovvero del nuovo sulla cui idea si basa la modernità: «Il “moderno”: l’epoca dell’inferno» (IX, p. 609) [«Das “Moderne” die Zeit der Hölle»; V, p. 676], come può leggersi un uno degli appunti sui Passages. 26 27
Sul punto, cfr. il capitolo IV in S. Weigel, Walter Benjamin, cit. W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, cit., p. 50.
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Sigrid Weigel
«Facilis descensus Averno. Vergil: Aeneis», facile la discesa nell’inferno, così recita l’esergo di un paragrafo su Baudelaire nella sezione 5 dell’Exposé (IX, p. 87) [V, p. 55]. Qui Benjamin cita versi dal sesto libro dell’Eneide, nei quali la veggente si rivolge ad Anchise: […] facilis descensus Averno: noctes atque dies patet atri ianua Ditis; sed revocare gradum superasque evadere ad auras, hoc opus, hic labor est […].28
In ciò, è degno di nota che per la sezione su Baudelaire Benjamin non scelga un motto di Dante, bensì della guida di quest’ultimo nella Commedia. Per il resto, infatti, Virgilio si incontra a malapena nei suoi scritti, mentre Benjamin nei Fleurs du mal di Baudelaire vede un «inferno del XIX secolo» (IX, p. 261) [«enfer du XIXe siècle»; V, p. 321]. Con ciò Baudelaire diviene un successore di Dante nella modernità e la sua poesia un viaggio modellato su quello dantesco: «un quatrième voyage après les trois voyages dantesque de l’Enfer, du Purgatoire et du Paradis. Le poète de Florence continué dans le poète de Paris», come nei Passages estrapola dalla storia letteraria di Albert Thibaudet del 1936 (IX, p. 247) [V, p. 305]. La citazione di Virgilio potrebbe peraltro essere un effetto riflesso della lettura di Avenir! Avenir! di Michelet, dove l’idea che ciascuna epoca sogna le successive è arricchita di una nota a piè di pagina: «Et retro: Dante se voir venir dans Vergil»29. Lo stesso vale evidentemente anche per il Baudelaire di Benjamin, ancorché di nuovo con un mutamento di significato. Alla frase introduttiva del testo di Michelet è appunto anteposta in corsivo la formula velle videmur. Questa formula è tratta dal dodicesimo libro dell’Eneide, dove Virgilio usa il sogno nel quale «[…] nequiquam auidos extendere cursus / velle videmur et in mediis conatibus aegri / succidimus […]»30 come immagine degli sforzi vani dell’antagonista di Enea, Turno. Mentre Michelet riferisce questo velle videmur anche alla sfera al centro nel Giudizio universale di Michelangelo, quell’«effet de songe laborieux par lequel nous nous soulevons de la nuit au jour, de la mort à la vie» che egli definisce come sfera dell’indecisione, Benjamin, al posto dell’indecisione, ha inserito il paragrafo con il motto virgiliano nel quale interpreta l’ambiguità quale «apparizione della dialettica come immagine»: e cioè «la legge della dialettica nell’immobilità».
28 Virgilio, Eneide, VI, vv. 126-129 [«[…] facile la discesa nell’Averno; / notte e giorno resta aperta la buia porta di Dite; / ma ritornare sui propri passi e risalire fuori all’aria leggera / quest’opera qui è fatica […]»; tr. di G. Scotto]. 29 J. Michelet, Avenir, Avenir!, cit., p. 7. 30 Virgilio, Eneide, XII, vv. 909-911 [«[…] invano sembra che avidamente vogliamo allungare la corsa / e nel mezzo dei nostri sforzi deboli / soccombiamo […]»; tr. di G. Scotto].
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Abstract The article examines the epistemology and theory of history in Benjamin’s Exposé for his project on the passages, Paris, Capital of 19th Century, where he develops the «law of dialectics» through the reconceptualization of awakening as a «space of transition», based on his epistemological threshold knowledge. Referring to Michelet’s text Avenir! Avenir!, Benjamin interprets the ruins of the bourgeoisie as «residuals of a dream world», which create a fundamental non-simultaneity within culture. Following a hint to Hegel at the end of the Exposé, the article shows that Benjamin’s understanding of the «space of transition» is also shaped by reading Hegel’s image of the emergence of a new world against the grain, whereas the flash-like recognition is charged by a hidden reference to verses from Dante’s Paradiso, which form the blind spot in the French version of the thesis On the Concept of History. Keywords: dialectical image, flash-like recognition, Hegel, Dante, Michelet.
The Ruin and the Artifact Walter Benjamin and AI Art Alice Barale
1. Old and New Ruins This paper arises from my reflections on Benjamin’s idea of ruin, sparked by a conference I attended last year1. The discussion focused on the ruins of the second world war and ruins seemed like something important to meditate on, but also quite far from our immediate experience. While I was writing this text, however, things changed considerably. With the epidemiological emergency due to the Corona virus, images of nature taking back its power over the humanized landscape circulated throughout the online world. Some of them were true (like the image of a bear climbing a house in Rovereto), other ones were fake (like the one that showed some dolphins swimming in a canal in Venice, or elephants drinking wine in a Chinese town)2. On the other hand, technology also demonstrated its potential to be used positively: through the internet children could continue to “go to school” and adults could hold conferences and stay in touch with each other during the quarantine. There is a picture that became quite well-known in Italy. It shows a kid raising his hand to talk in front of a computer [fig. 1]3.
1 This paper was developed from a talk that I gave at the conference Gli spazi e i tempi della forma: storia naturale delle rovine, University of Pisa, 15th November 2019. 2 See N. Daly, Fake animal news abounds on social media as coronavirus upends life, in «National Geographic», March 20, 2020 (https://www.nationalgeographic.com/animals/2020/03/ coronavirus-pandemic-fake-animal-viral-social-media-posts). 3 The picture was posted by the kid’s father, Giuseppe Strazzeri, and re-posted by the writer Roberto Saviano, who commented on it (https://twitter.com/robertosaviano/status/1240293623708688385).
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Fig. 1
In this context, Benjamin’s idea of ruin becomes more and more interesting because ruin, in Benjamin’s thought, has from the outset a dialectical value. Ruin is a condition for the dialectical image to be, and it is a condition of our knowledge. If we go back to Benjamin’s early idea of the Jetzt der Erkennbarkeit (now of recognizability)4, we can say that knowledge itself must produce ruins. It must destroy the illusion of the «atemporal value» of things and show that things «constitute themselves» only in the moment («the now») of their recognizability. This idea is also central for Benjamin’s later meditation on technology. Technological reproducibility has the same function of
W. Benjamin, Erkenntnistheorie, in Id., Gesammelte Schriften, vol. VI, Fragmente, Autobiographische Schriften, ed. by R. Tiedemann and H. Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt 1991, pp. 45-46 (engl. trans. mine). For an Italian translation of this fragment see W. Benjamin, Conoscenza e linguaggio. Frammenti II, ed. by T. Tagliacozzo, Mimesis, Milano- Udine 2013, pp. 164-165. On Benjamin’s fragment see F. Desideri, L’iniziale quartetto della filosofia di Walter Benjamin, ivi, pp. 9-16. 4
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reducing the organic appearance of the artwork to ruins, and allowing new life to spread from its fragments5. It is not by chance, I think, that one of the art forms in which the relationship with technology is strongest and most urgent nowadays, the art made through (or by) artificial intelligence (AI), thematizes exactly this image of ruin, and it does this in a very transformative way that deserves to be investigated. This paper begins from the hypothesis that Benjamin’s dialectical idea of ruin can be very fruitful when seeking to understand a crucial aspect of our present time, i.e. AI art and (according to Benajmin’s aim in The Work of Art in the Age of its Technological Reproducibility) its wider implications beyond the mere artistic sphere. This paper seeks to imagine, then, Benjamin in the face of a new kind of “technological reproducibility”, the reproducibility of AI art. What does it mean for an artificial intelligence to reproduce reality? And more generally, what can Benjamin’s thought tell us in relation to this new type of art? Moreover, how do Benjamin’s categories transform themselves when faced with these phenomena? Benjamin writes, in a famous passage, that a dialectical image is something in which the present comes together with the past «in a flash»6. How can we grasp such an image now, if we try to conceive of Benjamin’s technological reproducibility together with artificial intelligence? A premise of this investigation is that there is an important connection, which will become a leading thread of this paper, between Benjamin’s book on the baroque and his later investigation on art and technology7. A key to understanding this can be found, again, in the idea of ruin and in particular in the relationship between ruin and artifact that we already find in the book on the baroque. “Artifact” in AI art is a technical term, as it will become clear shortly. Yet it is also a philosophical term. In what sense – this is one of the main questions of Benjamin’s book on the baroque – our artifacts are ruins
5 See W. Benjamin, The Work of Art in the Age of its Technological Reproducibility, in Id., The Work of Art in the Age of its Technological Reproducibility and Other Writings on Media, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (MA)-London 2008, pp. 19-55. See for example what Benjamin writes about film in this passage: «The painter’s is a total image, whereas that of the cinematographer is piecemeal, its manifold parts being assembled according to a new law» (ivi, p. 35). And in another passage: «Our bars and city streets, our offices and furnished rooms, our railroad stations and our factories seemed to close relentlessly around us. Then came film and exploded this prison-world with the dynamite of the split second, so that now we can set off calmly on journeys of adventure among its far-flung debris» (ivi, p. 37). 6 «It is not that what is past casts its light on what is present, or what is present its light on what is past; rather, image is that wherein what has been comes together in a flash with the now to form a constellation» (W. Benjamin, Arcades Project, trans. by H. Eiland and K. McLaughlin, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge [MA]-London 1999, N3,1, p. 463). 7 For this continuity inside Benjamin’s thought, see F. Desideri, Walter Benjamin e la percezione dell’arte. Estetica, storia, teologia, Morcelliana, Brescia 2018.
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from the start? Moreover, can this relationship be thought of in the opposite direction, from the ruin to the artifact? The meaning of this question will be demonstrated shortly. It is necessary to focus, first, on the type of AI art that is going to be analyzed here, the art of GANs. This will be explored through three different images of ruins that present themselves in this kind of art. 2. The Fall of the House of Usher: Memory and Oblivion One of the most famous “ruins” in the history of literature is certainly that of the House of Usher, in the homonymous novel by Edgar Allan Poe. Why does the House of Usher fall? Poe gives us a clue at the beginning of the novel, when he says that the inhabitants of the house were so attached to it, that the house and the family name had become one and the same8. In this paper we will examine the interpretation of The Fall of the House of Usher that was given by an artist working with artificial intelligence, Anna Ridler9. Ridler began by drawing 200 images in ink, inspired by the 1929 film version of the famous story by Edgar Allan Poe (in particular the first 4 minutes of the film). These images, which are already «a copy of a copy (the film) of the original (the book)»10, constitute the dataset of her GAN. Yet what is a GAN, and why is it important in this context? GANs are a particular type of artificial intelligence that were created by a young computer scientist, Ian Goodfellow, in 201411. It is a kind of irony that the “inventor” of GANs has this name, because in GANs the singular artificial intelligence finds, in some way, a (good) “fellow”. The particularity of GANs is that they are constituted not by one, but by two artificial intelligences that play against one another in some manner. Before examining this aspect in detail, however, it is necessary to have at least a short look at the very idea of AI art. Artificial intelligence is becoming more and more important nowadays due to the way it is constantly changing our lives12. In this context, one of the most «[…] it was this deficiency, perhaps, of collateral issue, and the consequent undeviating transmission, from sire to son, of the patrimony with the name, which had, at length, so identified the two as to merge the original title of the estate in the quaint and equivocal appellation of the “House of Usher” – an appellation which seemed to include, in the minds of the peasantry who used it, both the family and the family mansion» (E.A. Poe, The Fall of the House of Usher, in Id., Tales, Wiley & Putnam, London 1846, p. 66). 9 A. Ridler, Fall of the House of Usher, 2017, animation film, 12 minutes. 10 A. Ridler, Set di dati e decadenza: Fall of the House of Usher, in A. Barale (ed.), Arte e intelligenza artificiale. Be my GAN, Jaca Book, Milano 2020, pp. 111-128: p. 118). (All quotations are from the English original version that was translated into Italian for publication. I would like to thank Jaca Book for images 2-7, which are all taken from this book). 11 See I.J. Goodfellow et al., Generative Adversarial Networks, ArXiv:1406.2661 [Cs, Stat], June 2014 (http://arxiv.org/abs/1406.2661). 12 On this topic a very interesting exposition was held at the Barbican Centre in 2019: AI: More than Human, Thu. 16 May-Mon. 26 August 2019 (https://www.barbican.org.uk/whats8
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surprising fields in which AI has suddenly progressed in the last few years, concerns the very human (until now) capacity of artistic (and more in general, aesthetic) expression. Increasingly, AI is becoming not merely a means for artists, but also something different that needs to be explored. In fact, there is still a lot of confusion between the more general category of digital art and that of AI art. In the case of AI art, the work is not only «computer assisted», but also «computer generated»13. This means that the machine is not simply a tool, but takes an active part in the creative process. There is at least one part of the process that is left to the machine. The artist gives the machine some data and waits, in order to see how it will elaborate upon them. He has no control over this. Only when he receives the new data from the AI can he transform them in his own turn. What arises, therefore, is a process of interaction between man and machine, which is virtually infinite. In GANs art this interplay of different forces is even stronger, because it also occurs within the machine itself. As noted above, what differentiates GANs from other types of AI is that they are formed by two artificial intelligences, which play against one another. One, called the “discriminator”, is trained on some data (images, or texts or sounds). The other, the “generator”, must produce a new set of data, similar enough to the initial ones to make the discriminator confuse them with the original data. The generator does not have any access to the starting data. The resulting data, therefore, are not mere copies, but new and unpredictable images (or texts or sounds), which are in some way close to the initial ones but also different from them. Now it is possible to go back to Anna Ridler’s Fall of the House of Usher. Once provided with the data set constituted by Anna’s drawings, the GAN tended to produce a series of images that was similar to them. In this process of copying, however, every act of «remembering» is also a «misremembering»: as the work proceeds, «things appear and disappear, they are remembered or confused in the memory or in the imagination»14. In the images traced by the GAN there is a chair, for example, which is sometimes present and at other times missing, because in some images the artist has remembered to draw it and in others not. Even the eyebrows are often confused with the eyes,
on/2019/event/ai-more-than-human). On artificial intelligence (what it is and what types of AI exist) see: M. Boden, Artificial Intelligence. A Very Short Introduction, Oxford University Press, Oxford 2018. See also S. Russell - P. Norvig, Artificial Intelligence – A Modern Approach, Pearson, Upper Saddle River 2016; K. Frankish - W.M. Ramsey (eds.), Cambridge Handbook of Artificial Intelligence, Cambridge University Press, Cambridge 2014. On deep neural networks see I. Goodfellow - Y. Bengio - A. Courville, Deep Learning, MIT Press, Cambridge (MA)-London 2016. 13 M. Boden, Foreword, in J. McCormack - M. d’Inverno (eds.), Computers and Creativity, Springer, Berlin-Heidelberg 2012. On the art generated through artificial intelligence, see A.I. Miller, The Artist in the Machine. The World of AI-Powered Creativity, MIT Press, Cambridge (MA)-London 2019; M. du Sautoy, The Creativity Code. How AI is Learning to write, paint and think, Harper Collins, London 2019. 14 A. Ridler, Set di dati e decadenza, p. 118.
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because in the original images the two elements had been traced in a similar way. The GAN copies the human work, and learns to imitate its errors and imperfections. And the artist, in her turn, notices some aspects of her own way of drawing that she was not aware of and learns to modify them.
Fig. 2 Anna Ridler, Fall of the House of Usher (2017), drawing from a GAN generated image
In fact, in a third phase of the work, Ridler takes the images generated by the GAN as models and draws them in turn, creating a second dataset. Doing this is «incredibly difficult», she explains, because in the images produced by the artificial intelligence «the logic of the world is there but not quite there (shadows are not quite right, twists in fabric do not hang as expected)»: Style in drawing always evolves but because I drew in this style for so long, it has changed how I now draw and paint a picture. I now start to add in artifacts and my line has changed. It is odd to have two different GANs that now have my style at two separate moments in my life frozen into them.15
15
Ivi, p. 120.
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The artist herself started to «add in artifacts». This term, “artifact”, indicates all errors and deformations that the artificial intelligence “adds” to the picture. They are characteristic of this form of art, or at least of this form of art in this phase of its development. One of the most important AI artists, Mario Klingemann, writes that artifacts belong to the AI picture like «grain» to the photographic picture16. It will be necessary to go back to this aspect. What is most important for the moment is that Ridler’s work shows us a similarity between the artifacts of AI and the deformations of memory. «Remembering» the artist writes «is always misremembering». This aspect is central in Benjamin’s meditation on the dialectical image. The «antiquity» that shows itself in the dialectical image, Benjamin writes in the essay on Keller, is a «shriveled antiquity»17: contracted and deformed. If it is true that what shows itself in the dialectical image is always «what has been for time immemorial», nevertheless Benjamin also writes that only dialectical images are not archaic images18. What they show is not the “real” image of the past (that is an «archaic» image), but on the contrary the fact that the past cannot be imprisoned in any definitive image. What has to be remembered is always more than every image we can have of it, and therefore awaits a new image, in the «now of its recognizability». This has to do with the mimetic core of our knowledge19. To perceive means always, at the same time, to imitate: to give shape to something, the material («Stoff») of our perception, which always exceeds every imitation and every effort to remember20. Yet this is exactly the task that is represented through the work of GANs in Fall of the House of Usher. It is no coincidence that the story the artist chose as the object of her work has at its center precisely this link between memory and oblivion, or deformation of what is remembered. The extreme attachment of the protagonist to his family house has already been noted. Another key can be found in a poem that the narrator reads to the protagonist, about a palace that once was full of colours, perfumes and sounds. Yet «evil things, in robes of sorrow» assaulted the palace, and everything since that moment looks distorted for the ones who try to look in through the windows:
Ivi, p. 232. W. Benjamin, Gottfried Keller (1927), in Id., Selected Writings, vol. 2, part 1, 1927-1930, trans. by R. Livingstone et al., ed. by M.W. Jennings, H. Eiland and G. Smith, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (MA)-London 1999, p. 55. 18 See W. Benjamin, Arcades Project, N3,1, p. 463. 19 For Benjamin’s theory of mimesis see W. Benjamin, On the mimetic Faculty (1933), in vol. 2, part 2, 1931-1934, trans. by R. Livingstone et al., ed. by M.W. Jennings, H. Eiland and G. Smith, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (MA)-London 1999, pp. 720-722. 20 I tried to examine this idea of the «material» of our mimesis in A. Barale, Stuff that matters. Mimesis and (the end of) Magic in Walter Benjamin, in «Lebenswelt», n. 12, 2018, pp. 48-54. 16
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And travellers now within that valley, Through the red-litten windows, see Vast forms that move fantastically To a discordant melody; While, like a rapid ghastly river, Through the pale door, A hideous throng rush out forever, And laugh – but smile no more.21
Anna Ridler’s work, however, also shows the new current of life that can spill from the deformations of memory. From the “artifacts”, from the errors and inconsistencies of the GAN, the artist learns a new way of drawing and, most importantly, she sees something reappear that she did not hope to find any more. This relationship between ruin and artifact is already central in the Origin of the German Trauerspiel22. It is precisely because it is an artifact that our language and our representations become ruins. Yet – and this is what I aim to show – this relationship can also be traveled in the other direction: from the ruin to the artifact, without equating the two terms. To explain what this means, it can be useful to consider another image of ruin that is central in Benjamin’s book on the baroque, that of the skull, and the way it shows itself in AI art. 3. Infinite Skulls Between the 7th and the 19th of February 2019, in Paris, an exhibition was presented to the public that arose from the collaboration between a wellknown French painter, Ronan Barrot, and a young American artist and scholar of artificial intelligence, the nineteen-year-old Robbie Barrat23. The idea was to use some of Barrot’s works as initial data sets for Barrat’s GANs, and compare the two types of images. In particular Barrot has the habit of painting, every time he finishes a work, a skull, made with the last leftovers of color. It is – as the painter says in an interview – a sort of «collateral process of his painting», like «cleaning the engine after driving for miles and miles»24. In the last twenty years of his production, Barrot has made a few thousand skulls, a perfect dataset for Barrat’s GANs. E.A. Poe, The Fall of the House of Usher, p. 74. W. Benjamin, Origin of the German Trauerspiel, trans. by H. Eiland, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2019. 23 R. Barrot - R. Barrat, Infinite Skulls, L’Avant Galerie, 7-11 February 2019. 24 See J. Bailey, AI Artist Robbie Barrat And Painter Ronan Barrot Collaborate On “Infinite Skulls”, in «Artnome», February 6, 2019 (https://www.artnome.com/news/2019/1/22/ ai-artist-robbie-barrat-and-painter-ronan-barrot-collaborate-on-infinite-skulls). 21 22
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What happens, then, when Barrat’s GANs are trained on Barrot’s skulls? The experiment is particularly interesting because skulls are, as the authors of the exhibition know well, the symbol par excellence of the vanity of life and of art itself. The result, however, is surprising and leads, in part, in a different direction. It is worthwhile to follow the process in detail. Barrat divides his work into two phases. In the first phase, the images of skulls that he uses as a dataset are very similar to each other – they all have the same shape, size and orientation – and the skulls produced, consequently, are extremely close to the original ones. Barrat then tries to modify the layout of the initial images and to considerably increase their number (from 500 to 1700). He thus obtains something unexpected: for Epoch Two, I basically played around with feeding the machine the skulls completely independent of any rotation or perspective, so the machine sees skulls that are all flipped around and stretched out. I’m using the same model, but the number of skulls in the training set jumped from 500 to 17,000 skulls. And the results are really, really good. It makes these really strange images that you would never expect. You can tell that they are skulls, but they really are not familiar.25
The fact that the new skulls produced are «unfamiliar» is particularly important, precisely because they are skulls. If the skull, as a topos that runs through the whole history of art, represents the vanity of every individual existence, its annulment in an always identical destiny, Barrat’s skulls go somehow – as Benjamin writes about the Baroque allegory – beyond themselves. In Barrat’s work the skulls come alive, become cheerful and imaginative. One of them26 suggests a transition process between a skull and some future and mysterious robot, immersed in a deep blue-black atmosphere. Another one is extremely material (for a skull), red and angry, with a large ear, a large arched eyebrow and a missing piece of face27. The vanitas – the skulls that Barrat’s GANs can produce are “infinite”, as the title of the exhibition states – turns into a playful element, which does not lead to a destruction of art’s representative capacity, but on the contrary to an underlining of its infinite transformative possibilities. This is also expressed in the constant interaction between the artist and the machine. Not only does Barrat choose the dataset to be used, comparing the results achieved from time to time, but the images produced are then modified by Barrot, who paints over them. These skulls, Barrot says, are «the most beautiful»:
Ibidem. See the first image on this page: https://www.artnome.com/news/2019/1/22/ai-artist-robbie-barrat-and-painter-ronan-barrot-collaborate-on-infinite-skulls. 27 See the second image on this page: https://www.artnome.com/news/2019/1/22/ai-artistrobbie-barrat-and-painter-ronan-barrot-collaborate-on-infinite-skulls. 25 26
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Ronan really loves those. He really likes to correct some of the skulls. He’ll say something like, ‘I like this one but it’s not right’, or ‘There is never an image I am completely satisfied with’, so he corrects it. He also does interpretations of them.28
In an interview, Robbie Barrat explains that the artwork for him is not constituted by the individual images, but by the GAN itself. There is a new aspect, in this type of art, which consists in leaving something to its possible transformations, without denying the authorship (because it is a question of transformations, and not of copies), but taking, as an author, a step back: what matters are its possible transformations. This is the meaning the adjective “infinite” assumes in the exhibition title. From this point of view – the decline of the uniqueness and the “sacred” character of the object that constitutes the artwork – AI art seems to carry on a process that has already started, according to Benjamin, with the first forms of technical reproducibility. Although, as noted above, the “reproduction” by an AI is something very different from that of a photograph or a film: this is a point to which it will be necessary to return. What is certain, anyway, is that the new degree of autonomy that the machine acquires with AI does not mean that human intervention becomes indifferent. It is enough to think of the choice of the dataset or the selection of some images among the thousands produced. There has been a controversy recently that gives us an idea of how all this raises new problems. In October 2018 a group of young Parisian artists, “Obvious”, sold one of their GAN works at the famous auction house Christie’s. The profit was incredible: forty times its expected value. This caused a great deal of controversy, because to design their GAN picture, The Count of Belamy, the members of Obvious had used an algorithm created and shared online by Robbie Barrat. The Parisian collective was accused, then, of stealing Barrat’s algorithm and using it for commercial purposes. Who is the author of the work, the human artist or the algorithm? In order to answer, perhaps, it is necessary to change the question. Following Benjamin’s suggestion29, the problem may be better formulated as follows: how does our concept of art and artist change? And what consequences does this change have beyond the artistic domain30? A provisional answer can be attempted through a third (and last) image of ruins.
Ibidem. See W. Benjamin, The Work of Art in the Age of its Technological Reproducibility, p. 20: «In gauging this standard, we would do well to study the impact which its two different manifestations – the reproduction of artworks and the art of film – are having on art in its traditional form». 30 See ivi, p. 21: «This process is symptomatic; its significance extends far beyond the realm of art». 28
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4. A Hideaway in The Wastelands The last picture on which this paper will focus is not really a ruin, but rather a fort, in the middle of the desert. Ruins are all around, and there is a very strong wind blowing [fig. 3]. This picture is part of a travel journal, created during the travels that the artist Mario Klingemann made through the «wastelands of Big Gan». It is necessary, then, to first explain what Big Gan is.
Fig. 3 A Hideaway in the Wastelands of Big Gan
One of the main reasons for the technological and commercial interest in GANs is that they are capable of producing a wide variety of high quality images. To this end, researchers are seeking to progressively expand the starting dataset, and reduce the uncertainties of the results. In 2018, they created Big Gan, a GAN trained on that large repository of images which is Image Net, and capable of generating every category of images present in it. If we take a look at the presentation of Big Gan provided by the online magazine «Synced»31, we find some examples: a red and white mushroom, a Yorkshire puppy, a plate of spaghetti… All these are quite trivial pictures, but sometimes they also show some small errors or inconsistencies. Because of the
31 M. Zhang, BigGAN: A New State of the Art in Image Synthesis, in «Synced», Oct. 2, 2018 (https://medium.com/syncedreview/biggan-a-new-state-of-the-art-in-image-synthesiscf2ec5694024).
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technology’s imperfections – which are probably going to disappear with the progress of the research – that large reservoir of clichés that is Image Net is not simply reproduced, but a small breach or a moment of doubt is created within its pictures. It is on this moment of uncertainty that Klingemann focuses in some of his recent works. Big Gan, one of the «most powerful» AIs that exists at the moment, has «a whole universe in itself»: «animals, objects, natural elements, tools…»32. However, what is interesting for the artist is the moment in which one of these familiar images ceases to be such and begins to raise questions. This, within Big Gan, happens as soon as some parameters are changed: the dog becomes a bird and the mushroom a tower. In this sense, in the universe of Big Gan «there are no rigid boundaries», but «everything is connected», as in a gigantic reservoir of unexpected similarities. Each modified parameter corresponds to a new type of image, a new creature or inhabitant of BigGAN’s «in-between spaces»: In the hyperdimensional universe of BigGAN, each coordinate represents an image. Some are familiar, a dog or a mushroom perhaps, but others are intriguing forms that inhabit the in-between spaces, the non-physical worlds where “dog” and “mushroom” have no meaning. These are non-existent beings, artificial intelligence outputs […].33
It is worthwhile to see in details what type of creatures of the «in-between spaces» Klingemann meets during his journey. His first exploration of BigGAN’s latent space was told on twitter, in the form, as noted above, of a travel journal. It all begins with the discovery of a mysterious fort, which the artist calls «a hideaway in the wastelands of Big Gan» [fig. 4]. The second image is that of «a strange artifact, in the distant mountains. Too far out of reach to reach him with my scarce water supplies». Food supplies are also scarce, but the explorer would like to avoid eating the local fauna, such as the bizarre insect-bird shown in another image. The exploration continues, revealing sweet mammals that move with the wind [fig. 4], incomprehensible hieroglyphics and ancient machines. A sandstorm envelops the explorer. When it ends, it gives way to strange plays of light, which barely allow some approaching figures to be seen. Other adventures await the traveller, who will finally be deposited on an island, where a jacket moves incomprehensibly in the wind (an alien scarecrow) [fig. 5]?
32 M. Klingemann, Presentation of Hyperdimensional Attractions Series, in A. Barale (ed.), Arte e intelligenza artificiale, p. 229. 33 Ibidem.
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Fig. 4 Fig. 5
What is the origin of the charm that these pictures have for us? Often Klingemann’s art has been compared to that of Francis Bacon. This is true in some cases – compare in particular the work, winner of the Lumen Prize, The Butcher’s Son (2017), which recalls Bacon’s interest in the mutilations and lacerations of the body (in this case, of the face), for the body beyond any intention or representative capacity. However, the work that Klingemann undertakes with the Imposture series, to which The Butcher’s Son belongs, is part of a larger project, which investigates the artifacts that the reproduction of the human body by an AI implies. The artifact, as noted above, is something that belongs to the use of AI as a representative medium, just like the grain of a photograph, or the jpg fabric in its digital version: With photographic film, you get grain. With video, you get certain jpeg textures. Now you have neural networks and you get these convolutional artifacts. I find I like them. In this series I try to embrace the artifact.34
The artifacts can be of different types. They can mark the eruption of a chaotic materiality, as in The Butcher’s Son, but also an absence – like in the skinny figures, more similar to androids than to humans, which can be seen in other works of the same series [fig. 6] – or the isolation of some parts of the
34
Ivi, p. 232.
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body, like in the case of the girl from another picture of the series, of whom we can barely see a leg and the nose among the hair. In all these cases, the artist’s interest is on what happens to the human figure once one decides to use this particular medium, artificial intelligence, and in particular GANs.
Fig. 6 Mario Klingemann, Do Not Kill the Messenger – Imposture Series (2017) Courtesy of Onkaos
The same research is carried on by Klingemann in Uncanny Mirror, an installation in which the observer has to enter a small cabin to have a portrait made by the GAN, and Circuit Training, in which the various “portraits” are voted by the public, so that the machine can gradually learn which ones are most interesting to the human gaze. What does it mean to make a portrait when, from the pictorial or photographic medium, we switch to artificial intelligence? This is the question behind these works. A first attempt to answer can come from the extraordinary Memories of Passersby I, a work sold with
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great success at Sotheby’s in 2019. Here the “passing” – i.e. fugitive – element, as we already understand from the title itself, becomes particularly important. The GAN generates an infinite series of portraits, all unique and unrepeatable, of non-existing people. The result is a series of portraits of evolving faces, of possible identities. This calls to mind, of course, the Passagenwerk, and the idea of «passing» that it implies. The dialectical image has to be caught, according to Benjamin, in the moment of its passing, in its «flash». Also the concept of «in-between spaces» (as Klingemann calls the latent spaces of Big Gan) is central to Benjamin’s idea of dialectical image. The space of the dialectical image is an in-between space. It marks a suspension of time, in which «being» and «not being» come together, and everything is charged of possibility. The definitive appearance of things is fractured and makes way for what lies outside this appearance, what has been lost or forgotten, and what things can yet be. In Benjamin’s childhood memories it is the moon that (similarly to the desert in Klingemann’s work) creates this dimension: The light streaming down from the moon has no part in the theater of our daily existence. The terrain it illuminates so equivocally seems to belong to some counter-earth or alternate earth. It is an earth different from that to which the moon is subject as satellite, for it is itself transformed into a satellite of the moon. Its broad bosom, whose breath was time, stirs no longer; the creation has finally made its way back home, and can again don the widow’s veil which the day had torn off. The pale beam that stole into my room through the blinds gave me to understand this. […] With amazement, I realized that nothing in it could compel me to think the world. Its nonbeing would have struck me as not a whit more problematic than its being, which seemed to wink at nonbeing. The moon had an easy time with this being.35
There is another passage, in Benjamin’s Passagenwerk, in which what is already there «winks» to what is not. It is a passage about the domestic interiors (Intérieur) of the Nineteenth-century bourgeoisie and the objects that fill these rooms: Nineteenth-century domestic interior. The space disguises itself – puts on, like an alluring creature, the costumes of mood. […] In the end, things are merely mannequins, and even the great moments of world history are only costumes beneath which they exchange glances of complicity with nothingness, with the petty and the banal. Such nihilism is the innermost core of bourgeois coziness.36
W. Benjamin, Berlin Childhood around 1900, in Id., Selected Writings, vol. 3, 1935-1938, trans. by E. Jephcott, H. Eiland et al., ed. by H. Eiland and M.W. Jennings, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (MA)-London 2002, pp. 405-406. 36 W. Benjamin, Arcades Project, I2,6, p. 216. 35
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This passage is important in this context, to understand the similarities but also the differences that the new art of GANs presents in relation to Benjamin’s thought. Also Klingemann’s figures often look like mannequins, like the skinny figure of Imposture Series that we just examined. However, they don’t look like inanimate objects anymore, but rather something in the middle (an interrogative middle) between human and non-human, «creatures» (as Klingemann writes) and objects. There is a movement, within Benjamin’s thought, that goes from the animate to the inanimate matter (as a result of the process of knowledge and representation, as Benjamin shows in his book on the baroque)37, and consequently from the inanimate to the life that can arise from its ruins. Also in The Work of Art in The Age of its Technological Reproducibility, the decline of the aura represents a chance to overcome the organic appearance of the object that constitutes the work of art; its idolatrous character. In AI art, however, this dimension of the idolatrous object is deconstructed from the start, and another movement arises. GANs works are ruins from the outset, for the reason that the interpretation of data given by the AI is always incomplete and different from ours. The dream of a General AI, capable of reasoning and feeling like us, is still far off38. Precisely for this reason, however, the «creatures» of AI are ruins that tend to animate themselves. With their errors and deformations, they look similar to us. They are somewhat unpredictable (neural networks are often compared to a «black box» precisely because of this unpredictable character) and seem to await a transformation and accomplishment. They show – in a very Benjaminian way, even if, of course, beyond Benjamin – that every representation we have of the world is just a ruin that waits to be confronted with what has remained outside it and lost. The creatures of AI are something in process, a process that can neither be controlled completely, nor left to itself, at the cost of losing its sense. It is also because of this aspect that they show something important about us. Only in the interaction with humans can they become what they are. The «in-between space» to which they belong seems to be the one between identity and change, I and not-I, nature and artefact; a border that we cannot cancel, but we must learn to inhabit and take care of. A new kind of aura arises therefore, which doesn’t have to do with the sacred character of the object (with the work of art as an idol), but rather with the possibility of an encounter between human and non-human, nature and technology. This is maybe the reason for the charm that these creatures of the «in- between spaces» inspire in us. What the strange big-eared gentleman [fig. 7] and the funny mammal that moves with the wind [fig. 4] confront us with, and maybe also the origin of the tenderness that they inspire in us, is something that we are still missing – something that invites us to temporarily sus37 38
See W. Benjamin, Origin of the German Trauerspiel, p. 230. See M. Boden, Artificial Intelligence, pp. 18-49.
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pend our control (control over the results of the artistic process, and control over the identification of the image) to come to understand them, and to understand ourselves.
Fig. 7 Mario Klingemann (2017) Courtesy of Onkaos
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Abstract This paper seeks to imagine Benjamin in the face of a new kind of “technological reproducibility”, the reproducibility of art made through (or by) artificial intelligence. What does it mean for an artificial intelligence to reproduce reality? And more generally, what can Benjamin’s thought tell us in relation to this new type of art? Moreover, how do Benjamin’s categories transform themselves when faced with these phenomena? Benjamin writes, in a famous passage, that a dialectical image is something in which the present comes together with the past «in a flash». How can we grasp such an image now, if we try to conceive of Benjamin’s technological reproducibility together with artificial intelligence? Keywords: ruin, artifact, artificial intelligence, art, dialectical image.
Allegoria e immagine dialettica Francesco Valagussa
L’oggetto della conoscenza non coincide con la verità. La conoscenza è interrogabile, ma non la verità. La conoscenza è orientata alla cosa singola, ma non immediatamente all’unità.1 È molto diverso se il poeta cerca il particolare in funzione dell’universale, o se nel particolare scorge l’universale. Dal primo modo di procedere scaturisce l’allegoria, dove il particolare non è che un esempio, un campione dell’universale; ma il secondo costituisce davvero la natura della poesia, che esprime un particolare senza pensare all’universale, o alludere a esso. Chi riesce a cogliere nella sua vitalità questo particolare, coglie allo stesso tempo l’universale, senza neppure rendersene conto, o rendendosene conto soltanto in seguito.2
1. La “ricostruzione in negativo”3 del rapporto tra simbolo e allegoria, offerta da Goethe e riportata da Benjamin, trova una sua variante in una riflessione coeva: Il simbolismo trasforma il fenomeno in idea, e l’idea in un’immagine, in modo tale che nell’immagine l’idea rimanga sempre infinitamente efficace e irraggiungibile e, anche se espressa in tutte le lingue, rimanga comunque inesprimibile. L’allegoria trasforma il fenomeno in un concetto, e il concetto in un’immagine, però in modo tale che nell’immagine si possa sempre considerare il concetto comunque delimitato e completo, ed esprimerlo attraverso di essa.4
1 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, in Id., Gesammelte Schriften (= GS), a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1991, vol. I/1, p. 209; tr. it., Origine del dramma barocco tedesco, a cura di A. Barale, Carocci, Roma 2018, p. 74. 2 J.W. von Goethe, Maximen und Reflexionen, in Johann Wolfgang von Goethe Werke, a cura di E. Trunz, dtv, München 1981, vol. XII, n. 751, p. 471. 3 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 337; tr. it. cit., p. 223. 4 J.W. von Goethe, Maximen und Reflexionen, cit., n. 749, pp. 470-471.
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A pochi anni di distanza, nella sua Filosofia dell’arte, Schelling avrebbe offerto un tentativo ancora più “sistematico” d’inquadramento dei rapporti tra universale e particolare: La rappresentazione in cui l’universale significa il particolare, o in cui il particolare è intuito attraverso l’universale, è lo schematismo. La rappresentazione, invece, in cui il particolare significa l’universale o in cui l’universale è intuito attraverso il particolare, è allegorica. La sintesi di queste due, nella quale né l’universale significa il particolare né il particolare l’universale, ma nella quale entrambi sono assolutamente una cosa sola, è il simbolico.5
Benjamin non contesta, anzi ripropone l’unità di sensibile e soprasensibile – e persino il trapasso senza soluzione di continuità nella sfera del divino6 – come carattere fondamentale del simbolico, ma rifiuta di ridurre l’allegoria a mera convenzione, a semplice artificio retorico. L’allegoria che «mostra la facies hippocratica della storia come irrigidito paesaggio originario»7 dev’essere assunta quale espressione piena, «come lo è il linguaggio, anzi come lo è la scrittura»8 – proprio a differenza di quanto pensava Schelling, per il quale «il linguaggio stesso altro non è che una mitologia esangue, il quale custodisce ormai solo nella forma di distinzioni astratte e formali ciò che la mitologia possedeva ancora in forma viva e concreta»9. Sempre dalle pagine della Filosofia dell’arte emerge chiaramente la svalutazione dell’allegorico: il linguaggio è schematizzante e la stessa allegoria, come inverso dello schema, può cominciare quando è cessato ogni spirito poetico, capace di mantenersi ancora nell’indifferenza tra schematico e allegorico10. L’allegoria rimane anche qui solo un modo d’intendere il mito. 2. Secondo la concezione più diffusa, l’allegoria si contraddistingue per la propria ambiguità, la molteplicità di senso, cui sovente si contrappone la pu5 F.W.J. Schelling, Philosophie der Kunst, in Id., Sämtliche Werke, a cura di K.F.A. Schelling, Cotta, Stuttgart-Augsburg 1856-1861, vol. I/V, § 39, p. 407; tr. it., Filosofia dell’arte, a cura di A. Klein, Prismi, Napoli 1997, p. 116. 6 Cfr. W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 337; tr. it. cit., p. 223. 7 Ivi, p. 343; tr. it. cit., p. 228. Già da queste parole si potrebbe collegare il dramma barocco alle tesi sul concetto di storia, come ha mostrato G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, tr. it. di M.T. Mandalari, Adelphi, Milano 1978, p. 61: «Già nel Dramma barocco tedesco è detto che la storia per gli allegoristi barocchi non era un processo in cui prende forma la vita eterna, ma piuttosto un “evento inarrestabile di decadenza”. La frammentazione barocca, di cui tanto spesso si discorre in quel libro e che l’angelo di questa tesi riprende col voler “ricomporre l’infranto”, si riconnette alla melanconica visione del passato storico». 8 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 339; tr. it. cit., p. 224. 9 F.W.J. Schelling, Historisch-kritische Einleitung in die Philosophie der Mythologie, in Id., Sämtliche Werke, cit., vol. II/XI, p. 52; tr. it., Filosofia della mitologia. Introduzione storicocritica, a cura di T. Griffero, Guerini e Associati, Milano 1998, p. 135. 10 Cfr. F.W.J. Schelling, Philosophie der Kunst, cit., § 39, pp. 408-410; tr. it. cit., pp. 107-108.
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rezza tipica del significato unitario – Benjamin cita l’estetica di Cohen11, ma anche l’estetica di Hegel di fatto relega l’allegoria in posizione subalterna12. Nel Dramma barocco la rivalutazione delle “antinomie dell’allegorico” passa dall’esegesi delle Scritture. Proprio il continuo “rimandare ad altro” rende certi oggetti significanti incommensurabili rispetto alle cose profane e li solleva sul piano del sacro13: la convenzionalità dei significati profani entra in dialettica con un’espressività irriducibile a un senso univoco. Nell’allegoria la convenzione vive in dialettica con l’espressione, esattamente come, a livello figurativo, la fredda tecnica si accompagna all’eruttiva espressività dell’allegoria14. Tale rapporto si complica, tuttavia, nel caso dell’allegoria come scrittura sacra: dipendendo dalla capacità di esprimere “altro”, di rimandare ad altri significati, il valore sacrale entra chiaramente in conflitto con la comprensibilità profana: o il testo è sacro, oppure è comprensibile a tutti. Senza poter qui ripercorrere l’intera “genealogia benjaminiana” che dal sacro conduce al mito e al diritto, si pensi al quasi coevo racconto di Kafka Sulla questione delle leggi: «le nostre leggi non sono conosciute da tutti, ma sono un segreto di quel pugno di nobili che ci domina»15. Un’atmosfera simile si respira anche nella massima che molti recitano durante la costruzione della muraglia cinese: «cerca con tutte le forze di capire le disposizioni della direzione, ma solo fino a un certo limite, poi smetti di arrovellarti oltre con la mente»16, cioè obbedisci a “qualcosa” o “qualcuno” che sopravanza il piano accessibile all’indagine profana – come è noto, si narra che nei villaggi cinesi venissero posti sul trono imperatori già defunti: W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 351; tr. it. cit., p. 237. Malgrado gli equivoci che possono sorgere a motivo della diversa “nomenclatura” hegeliana – per cui il simbolico assume un significato totalmente differente da quello visto sinora –, cfr. G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik, in Id., Werke, a cura di E. Moldenhauer e K.M. Michel, vol. XIII, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1971, pp. 404-405; tr. it. di N. Merker e N. Vaccaro, Estetica, 2 voll., Einaudi, Torino 1998, vol. I, pp. 353-354: «il simbolico o l’allegorico è così inteso, che ad ogni opera e ad ogni figura mitologica farebbe da base un pensiero generale che deve offrire la spiegazione di ciò che propriamente significa questa opera. […] Infatti particolarmente l’intelletto corre subito al simbolo e all’allegoria, poiché esso separa immagine e significato, e distrugge così la forma artistica». 13 Cfr. W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 351; tr. it. cit., p. 237. 14 Cfr. ibidem. È verosimile che Benjamin mutuasse questa dialettica dal saggio H. Wölfflin, Kunstgeschichtliche Grundbegriffe. Das Problem der Stilentwicklung in der neueren Kunst, Bruckmann, München 19172; tr. it. di R. Paoli, Concetti fondamentali della storia dell’arte, pres. di G. Nicco Fasola, Longanesi, Milano 1984. 15 F. Kafka, Zur Frage der Gesetze, in Id., Gesammelte Werke, a cura di H.-G. Koch, Fischer Taschenbuch, Frankfurt a.M. 1994, vol. VII, p. 107; tr. it., Sulla questione delle leggi, in Id., I racconti, a cura di G. Schiavoni, BUR, Milano 1998, p. 419. 16 F. Kafka, Beim Bau der Chinesischen Mauer, in Id., Gesammelte Werke, cit., vol. VI, p. 71; tr. it., Durante la costruzione della muraglia cinese, in Id., I racconti, cit., p. 391. Cfr. W. Benjamin, Franz Kafka: Beim Bau der Chinesischen Mauer, in GS II/2, pp. 676-683; tr. it., Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in Id., Opere complete (= OC), a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2000 ss., vol. IV, pp. 449-455. 11
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chi volesse dedurne che, in realtà, non c’è nessun imperatore non sarebbe lontano dal vero17. E perché viene costruita la muraglia? Contro i popoli del Nord? Ma il paese è troppo vasto per essere invaso: «illusi i popoli del Nord che ritenevano di aver causato loro quella costruzione; stimabile, ma illuso l’Imperatore, che riteneva di averla ultimata lui»18. E in questo rimandare ad altro s’accresce il carattere sacrale della muraglia, la cui costruzione è organizzata in maniera dettagliatissima: due gruppi da venti operai, uno che doveva erigere un pezzo di muro lungo cinquecento metri, mentre un gruppo vicino veniva incontro al primo costruendo un muro di pari lunghezza19 e l’elenco delle prescrizioni potrebbe continuare. Per dirla con Benjamin: «il carattere sacro della scrittura è inseparabile dall’idea della sua rigorosa codificazione. Poiché ogni scrittura sacrale si fissa in complessi, che alla fine ne costituiscono uno unico e immutabile, o almeno cercano di costituirlo»20. Per assicurarsi un carattere sacrale, ostacolando la sua piena comprensibilità, la scrittura tenderà a questi complessi, a questi “agglomerati21 di senso”, assumendo la forma dei geroglifici: «erano scritture buone per i tempi delle grandi dinastie, quando i re incidevano le loro imprese in lunghe iscrizioni sulle pareti delle rocce, come se dovessero leggerle le aquile»22. La connessione lineare tra “blocchi di senso” e incomprensibilità23 si nota in particolare pensando a quella modalità di scrittura che si trova agli antipodi: «la scrittura alfabetica è, invece, una scrittura di massa. Non per nulla essa fu, se non inventata, perfezionata dai Greci, che scoprirono pure la democrazia»24, e Pagliaro da lì ci conduce sino al telefono e alla radio. «La scrittura alfabetica è quindi quella che più si allontana, come combinazione di atomi scritturali, dalla scrittura dei complessi sacrali»25: la separazione tra i caratteri alfabetici, la successiva spaziatura tra i vari termini, sembra impedire quasi a livello strutturale la formazione di complessi, tantomeno di un unico blocco di senso. Se si pensa alla morfologia non concatenativa di una lingua semitica come l’ebraico, la “codificazione della Scrittura” mostra una tendenza precisa: quando il testo ebraico venne puntato e vocalizzato si
Cfr. F. Kafka, Beim Bau der Chinesischen Mauer, cit., pp. 76-78; tr. it. cit., pp. 396-398. Ivi, p. 73; tr. it. cit., p. 393. Cfr. W. Benjamin, Franz Kafka: Beim Bau der Chinesischen Mauer, cit., p. 678; tr. it. cit., p. 451: «Kafka ne è talmente pieno [di questo timor panico] che nessun evento da lui descritto sfugge alla deformazione – che qui però non è altro che indagine. In altre parole potremmo dire che tutto ciò che egli descrive depone a favore di qualcosa d’altro da sé». 19 Cfr. F. Kafka, Beim Bau der Chinesischen Mauer, cit., pp. 65-66; tr. it. cit., pp. 385-386. 20 Cfr. W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 352; tr. it. cit., p. 238. 21 Così Flavio Cuniberto traduceva “Komplexe” nella sua versione dell’Ursprung. 22 A. Pagliaro, Danni dell’alfabeto, in Id., Il segno vivente. Saggi sulla lingua e altri simboli, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1952, p. 195. 23 Cfr. W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 352; tr. it. cit., p. 238. 24 A. Pagliaro, Danni dell’alfabeto, cit., p. 195. 25 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 352; tr. it. cit., p. 238. 17 18
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compì il passaggio definitivo alla “dimensione alfabetica” da parte di una “lingua scritta” ancora composta da radici trilittere, blocchi di consonanti, la cui molteplicità di significati possibili poteva forse richiamare ancora qualcosa del geroglifico26. La “forma alfabetica” mina alla base la sacralità del testo. Per recuperare l’effetto dei Komplexe, il Barocco si affiderà alla drasticità della frase, o alla metafora sovraccarica: in entrambi i casi – tra loro quasi antitetici – lo scritto tende di nuovo all’immagine, rievocando così l’ambiguità del blocco geroglifico. Tale “immagine” nulla ha a che fare, però, con il simbolo: anzi, «non è pensabile contrapposizione più netta rispetto al simbolo artistico – al simbolo plastico, immagine della totalità organica – del frammento amorfo che l’immagine scritturale allegorica rappresenta»27. L’immagine barocca28 si presenta nelle vesti del frammento. La sua bellezza simbolica svanisce, poiché la colpisce la luce della sapienza divina. La falsa apparenza della totalità si spegne. L’eidos si oscura, subentra la similitudine, e il cosmo così si inaridisce. Negli aridi rebus che rimangono è racchiusa una conoscenza che è ormai accessibile soltanto a chi rimugina confuso.29
L’allegoria vive di questa dialettica tra convenzione ed espressione, tra la fredda tecnica alfabetica e l’eruttività della creazione: «l’allegoria è considerata tanto una convenzione, come ogni scrittura, quanto però anche qualcosa di creato, come la scrittura sacra»30. Benché «il carattere dialettico di questa forma espressiva venga disconosciuto e condannato come ambiguità»31, la ricchezza dei significati costituisce non il limite, bensì l’orgoglio dell’allegoria e del Barocco medesimo. 3. Una tensione dialettica analoga si registra nel rapporto tra la dimensione simbolica del nome adamitico e il carattere allegorico della lingua dell’uomo nel saggio Sulla lingua, anzi si potrebbe dire che nel saggio del 1916 si
26 Per un’analisi più dettagliata e precisa, cfr. C. Herrenschmidt, L’invenzione della scrittura. Visibile e invisibile in Iran, Israele e Grecia, tr. it. di A. Di Bello, a cura di C. Sini, Jaca Book, Milano 1999. 27 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 352; tr. it. cit., p. 238. 28 Il riferimento all’immagine barocca dev’essere inteso con specifico riferimento all’ambito poetico, dato che il problema si concentra su una scrittura che cerca di tendere di nuovo all’immagine. Tuttavia Benjamin aveva certamente in mente anche un parallelo con le arti plastiche e figurative dell’epoca barocca, tema che era stato indagato a quei tempi in A. Riegl, Die Entstehung der Barockkunst in Rom, Schroll, Wien 1908, in part. pp. 153-200, dedicate alla pittura nell’epoca della Controriforma. 29 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 352; tr. it. cit., pp. 238-239. Cfr. F. Desideri, Walter Benjamin. Il tempo e le forme, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 168. 30 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 351; tr. it. cit., p. 237. 31 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 352; tr. it. cit., p. 239.
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costruisce un impianto concettuale che verrà poi ripreso e ampliato nell’Ursprung32. La dialettica tra espressione e convenzione si era già affacciata nel ’16 come distinzione tra l’essere spirituale e l’essere linguistico: la lingua comunica l’essere spirituale, ma Benjamin precisa che l’essere spirituale si comunica in e non attraverso una lingua33, mostrando così l’inadeguatezza di qualsiasi filosofia del linguaggio che pretendesse di ridurre per un verso lo spirituale al linguistico, e per l’altro il linguistico al comunicabile. Senza dubbio ciò che in un essere spirituale è comunicabile è il suo essere linguistico, ma ciò non significa che lo spirituale sia interamente comunicabile – cioè presentabile in forma linguistica – né che la lingua coincida con la parte comunicabile dell’essere spirituale. «All’interno di ogni creazione linguistica vige il contrasto dell’espresso e dell’esprimibile con l’inesprimibile e l’inespresso»34, ma come possiamo renderci conto, nella lingua, di qualcosa che sopravanza la lingua? E a maggior ragione, come potrebbe la lingua testimoniare uno scarto tra sé e la mera comunicabilità? Dove si mostra che la lingua sia in grado di esprimere più di quanto la concatenazione dei segni consenta di trasmettere? Qui entra in gioco il nome come essenza della lingua – Benjamin dice “la lingua della lingua” – in quanto rimanda all’onnipotenza creatrice della lingua: quel “nominare” che in Dio è verbo, è creazione. L’antitesi tra il simbolo come immagine plastica della totalità organica e il frammento amorfo costituito dalla scrittura allegorica sembra proporsi – ben prima che nell’Ursprung – già nel rapporto tra nome e giudizio. Dal momento che nella lingua rimane il contrasto tra esprimibile e inesprimibile, il nome può soltanto “apostrofare” il verbo divino esprimendolo come rivelazione – poiché «ogni lingua umana è solo il riflesso del verbo nel nome. Il nome eguaglia così poco il verbo come la conoscenza la creazione»35 – ma nel nome36, nel suo impossibile compito simbolico, si mostra l’irriducibilità 32 A riprova della stretta vicinanza tra i temi, come è stato già sottolineato dalla critica, nel 1916, accanto al saggio Sulla lingua, Benjamin lavora a opere come Trauerspiel und Tragödie e Die Bedeutung der Sprache in Trauerspiel. 33 W. Benjamin, Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in GS II/1, p. 142; tr. it., Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in OC I, p. 282. Sulla critica alla lingua come puro mezzo, cfr. S. Weigel, Walter Benjamin. La creatura, il sacro, le immagini, tr. it. di M.T. Costa, Quodlibet, Macerata 2014, p. 41. 34 W. Benjamin, Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, p. 146; tr. it. cit., p. 286. Su questo punto cfr. F. Desideri, Walter Benjamin, cit., p. 85. 35 W. Benjamin, Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, cit., p. 149; tr. it. cit., p. 289. 36 Sullo statuto simbolico del nome e sulla sua importanza decisiva all’interno del pensiero benjaminiano, cfr. F. Desideri, Walter Benjamin e la percezione dell’arte. Estetica, storia, teologia, Morcelliana, Brescia 2018, in part. pp. 15-16: «La teoria del nome è, dunque, il segreto custodito dalla filosofia benjaminiana, quanto permette di intenderla come Dottrina. Limite interno al linguaggio, con la pura forza del mostrarsi, il nome ne costituisce per così dire la potenza critica».
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della lingua a mero segno: «la lingua non è mai soltanto comunicazione del comunicabile, ma è anche simbolo del non-comunicabile»37. Rispetto alla lingua paradisiaca, nominale, in cui il nome vive intatto nella propria magia immanente, il vero peccato originale dello spirito linguistico è la parola giudicante, l’articolazione che distingue il bene e il male, la ciarla – si potrebbe dire il peccato della mediazione linguistica che infrange l’immediatezza del nome nel segno, vale a dire nella pluralità, nella molteplicità allegorica dei segni. L’allegoria è frutto del peccato, è l’erede diabolica38 dello «sguardo penetrante di Satana»39, del Lucifero che Julius Leopold Klein chiama “la figura protoallegorica”40. 4. Allegoria non è il semplice “inverso” dello schematismo proprio del linguaggio41, bensì la sua irrimediabile crisi: dal carattere intrinsecamente allegorico del giudizio si può già cogliere, anche solo intuitivamente, come la forma stessa del linguaggio – la sua articolazione – renda impossibile la costituzione del sistema. Gli interlocutori di Benjamin – a questo livello – sono Kant e Husserl. Già attorno al ’18, nel Programma della filosofia futura, si auspicava un più stretto rapporto tra linguaggio e conoscenza in vista di una nuova logica trascendentale42: assegnare al linguaggio una funzione più rilevante rispetto a quanto previsto dallo schematismo kantiano43 più che risolvere mette in risalto come il problema44 – già in Kant – non si ponga tanto a livello dell’intelletto, quanto piuttosto in quell’analogo a tale schema in cui consiste l’idea della ragione – quella di un «maximum sia nella divisione di una conoscenza dell’intelletto sia nella riunione della conoscenza dell’intelletto in un prin37 W. Benjamin, Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, cit., p. 156; tr. it. cit., p. 295. 38 Cfr. A. Pinotti, Costellazioni. Le parole di Walter Benjamin, Einaudi, Torino 2018, p. 5. 39 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 403; tr. it. cit., p. 262: questo sguardo di Satana «si accende in colui che rimugina contemplandolo», esattamente come si dice ivi, p. 352; tr. it. cit., pp. 238-239: «Negli aridi rebus che rimangono è racchiusa una conoscenza che è ormai accessibile soltanto a chi rimugina confuso». Sulla dinamica di allontanamento dalla creazione cfr. S. Weigel, Walter Benjamin, cit., pp. 45-46. 40 Cfr. W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 402; tr. it. cit., p. 261. Tale accostamento è tratto da A. Pinotti, Costellazioni. Le parole di Walter Benjamin, cit., p. 5. 41 Come accadeva – lo si citava all’inizio di questo intervento – in F.W.J. Schelling, Philosophie der Kunst, cit., § 39, pp. 408-410; tr. it. cit., pp. 107-108. 42 Cfr. W. Benjamin, Über das Programm der kommenden Philosophie, in GS II/1, pp. 165167; tr. it., Sul programma di una filosofia futura, in OC I, pp. 236-338. 43 Questa ci sembra l’interpretazione suggerita in T. Tagliacozzo, Filosofia del linguaggio e critica della conoscenza nei frammenti giovanili di Walter Benjamin, in W. Benjamin, Conoscenza e linguaggio. Frammenti II, Mimesis, Milano-Udine 2016, p. 77. 44 Del resto, i vari contributi che – almeno a partire dagli anni Settanta – tendono a rivalutare il ruolo del linguaggio nel pensiero kantiano (a partire da W. Hogrebe, Kant und das Problem einer transzendentalen Semantik, Alber, Freiburg-München 1974; tr. it. di G. Banti, Per una semantica trascendentale, Officina, Roma 1979) non hanno contribuito non si dica a risolvere, ma nemmeno a irrobustire, l’istanza sistematica.
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cipio»45. Ma questo principio sintetico è soltanto regolativo: nell’Appendice alla Dialettica trascendentale si chiarisce come l’unità sistematica delle conoscenze dell’intelletto non possa essere assunta come elemento costitutivo. Tale unità è la pietra di paragone della verità delle regole. D’altro canto, l’unità sistematica, intesa come semplice idea, è unicamente l’unità proiettata, che in sé dev’essere considerata non già come data, bensì soltanto come problema.46
La “sistematica della conoscenza” non è la verità, ma solo un’idea, anzi, è soltanto una massima della ragione: è il modo in cui si desume l’idea – è il trascendentale come modo d’intenzionare l’idea. Questa “cosa trascendentale”47, ossia lo schema di quel principio regolativo, non è il vero, bensì la maniera in cui noi ci rappresentiamo l’idea: il presupposto “soggettivo” del nostro modo di conoscere. In quella suprema unità formale, che è l’unità delle cose conforme a un fine, a parlare è un interesse speculativo della ragione48, in cui si ripresenta nel moderno l’antica intenzione platonica di salvare i fenomeni. Se «la verità non entra mai a far parte di una relazione, tantomeno di una relazione intenzionale»49, è chiaro che non potrà abitare in nessun linguaggio. Le Ricerche logiche non modificano, anzi – se possibile – chiarificano il quadro: «far emergere questa costituzione [Verfassung] a priori che abbraccia il regno dei significati, indagare in una morfologia di significati il sistema a priori delle strutture formali, cioè di quelle strutture indifferenti a qualsiasi particolarità materiale dei significati»50 è presentato ancora – kantianamente – come un grande compito per la logica e per la grammatica. La presenza di una legge di costruzione di significati unitari, di forme sintattiche determinate a priori che confluiscono in un sistema fisso di forme, per cui «ogni
45 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Kants Werke. Akademie-Textausgabe (= Ak), de Gruyter, Berlin-New York 1968, vol. III, p. 440; tr. it., Critica della ragione pura, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 20013, p. 675. Sull’importanza di questa appendice alla dialettica cfr. L. Scaravelli, Osservazioni sulla «Critica del giudizio», in Id., Scritti kantiani, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 377-401. 46 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 429; tr. it. cit., p. 662. Cfr. G. Simmel, Kant. Sechzehn Vorlesungen gehalten an der Berliner Universität, Duncker & Humblot, MünchenLeipzig 1918, pp. 65-66; tr. it., Kant. Sedici lezioni berlinesi, a cura di A. Marini e A. Vigorelli, Unicopli, Milano 1986, p. 152: «le loro immagini scientifiche vengono ora organizzate a partire dal centro della conoscenza stessa e formano un cosmo – non un cosmo dell’esserci, ma del sapere». 47 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 449; tr. it. cit., p. 688: «questa cosa trascendentale è semplicemente lo schema di quel principio regolativo, mediante cui la ragione, per quanto le è possibile, estende l’unità sistematica a tutta l’esperienza». 48 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 451; tr. it. cit., p. 692. 49 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 216; tr. it. cit., p. 80. 50 E. Husserl, Logische Untersuchungen, in Husserliana. Gesammelte Werke, vol. XIX, a cura di U. Panzer, Nijhoff, The Hague-Boston-Lancaster 1984, parte II, p. 329; tr. it., Ricerche logiche, 2 voll., a cura di G. Piana, il Saggiatore, Milano 2005, vol. II, p. 111. Su questo tema, cfr. E. Paci, Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, Laterza, Bari 1961, in part. pp. 55-56.
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significato sottostà ad una struttura ideale che può essere enucleata nella sua purezza mediante la formalizzazione»51, tutto questo è un “piano”, un immane disegno della ragione: «grande è l’interesse teoretico che è proprio di una ricerca sistematica di tutte le forme di significato possibili e delle strutture primitive»52. Perciò si può dire che «in Benjamin lo schematismo husserliano si presenta lacerato»53, in quanto costretto a confessare il suo carattere progettuale: costituire un linguaggio in grado di riappropriarsi della verità, mentre «la verità è la morte dell’intenzione»54 – non qualcosa che possa essere afferrata, «oggettualizzata in un sol colpo, in un unico raggio intenzionale»55. Il linguaggio intenziona l’idea: dice irrimediabilmente altro rispetto alla sua purezza56 – tale scissione traspare persino nel pensiero che più di tutti ha cercato di rimarginare questa “ferita”, vale a dire nel sillogismo disgiuntivo all’interno della Scienza della logica57. Tornando a Benjamin, autentico «“correlato” dell’idea è qui il Nome, non il linguaggio»58: nel nome risuona la parola-creazione di Dio, quasi tocchiamo quella che nel linguaggio appare come impossibile coincidenza di cosa e segno. Lo statuto simbolico del nome come unità dell’oggetto sensibile e di quello sovrasensibile non è poi così lontano dall’opera d’arte kantiana in cui il poeta «osa dare forma sensibile a idee della ragione di enti invisibili»59: la «finalità senza scopo»60 somiglia da vicino – staremmo per dire: anticipa – l’Intentionsloses, e d’altra parte quando l’immaginazione cerca di «emulare il gioco in avanti della ragione nel raggiungimento di un massimo, rendere sensibile ciò di cui pur non ci sono esempi nell’esperienza»61, allora «schematizza senza concetto»62, esattamente come il Nome è “senza schema”, per così dire “senza sintassi”. Il simbolico “visto da Kant” E. Husserl, Logische Untersuchungen, cit., parte I, p. 238; tr. it. cit., vol. I, p. 110. Ivi, parte II, p. 341; tr. it. cit., vol. II, p. 122. 53 M. Cacciari, Di alcuni motivi in Walter Benjamin, in «Nuova Corrente», n. 67, 1975, p. 215. 54 W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 216; tr. it. cit., p. 80. 55 E. Husserl, Logische Untersuchungen, cit., parte II, p. 477; tr. it. cit., vol. II, p. 247. 56 È lo stesso problema ravvisato in G. Calogero, I fondamenti della logica aristotelica, La Nuova Italia, Firenze 19682, p. 1: «riconosciuto come l’assoluta irrelatività delle idee renda impossibile la loro connessione nel pensiero, essa viene eliminata, nel Sofista, con l’ammissione della “comunanza dei generi”». 57 Come è stato mostrato meravigliosamente in C. Sini, Il foglio-mondo, Jaca Book, Milano 2013, pp. 135-137: «tra le due formule del sillogismo disgiuntivo Hegel scrive “oppure” e così crea, almeno a me, un bel po’ di problemi. Che significa “oppure”? […] Si tratta di pensare insieme le due cose, ma ciò che possiamo concretamente raffigurarci è solo un “oppure”: qualcosa di simile al sive di Spinoza: Deus sive natura». 58 M. Cacciari, Di alcuni motivi in Walter Benjamin, cit., p. 218. 59 I. Kant, Kritik der Urteilskraft, in Ak. V, p. 314; tr. it., Critica della capacità di giudizio, testo ted. a fronte, a cura di L. Amoroso, BUR, Milano 1998, p. 445. 60 Ivi, p. 236; tr. it. cit., p. 235. Cfr. G. Simmel, Kant, cit., p 194; tr. it. cit., p. 246. 61 I. Kant, Kritik der Urteilskraft, cit., p. 314; tr. it. cit., p. 445. 62 Ivi, p. 287; tr. it. cit., p. 375. Su questo tema, cfr. C. La Rocca, Schematizzare senza concetto. Immaginazione ed esperienza estetica in Kant, in «Rivista di estetica», XXXVII, n. 4, 1997, pp. 3-19. 51 52
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gravita ancora attorno all’Übergang, mentre in Benjamin è già pienamente assunta l’Entsagung63: il Nome rivela la “tragedia del linguaggio”, l’essersi “avventurati in altro”, l’allegoricità del segno. Se in Kant l’opera emula il “gioco in avanti”, quello che resta in Benjamin è un gioco luttuoso, il Trauerspiel. 5. Nel Nome il simbolico si dà e non si dà. Non si dà, perché si potrebbe intenderlo come segno, fagocitandolo entro la logica allegorica – e d’altra parte il nome non è verbo, ma riflesso del verbo64: non è simbolo vero e proprio, al più si può dire che opera simbolicamente. Eppure si dà, prefigura nella lingua un compito di cui i segni mai saranno capaci. Accennando all’unità di cosa e idea, il nome rivela l’intero linguaggio come allegorico: ci avverte che questo “parlare d’altro” non è tutto. Ma come può il nome – apparentemente segno tra i segni – dare notizia che quelli sono “segni di altro”? Quale forza simbolica lo trattiene, ancora oggi, dall’essere inghiottito nel «più completo archivio della similitudine non sensibile»65? […] il ritmo, quella velocità nel leggere e nello scrivere che difficilmente può essere distinta da questo processo, non sarebbe che quello sforzo, quella dote che consente allo spirito di partecipare di questa frazione del tempo, in cui le similitudini balenano fugacemente dal flusso delle cose per poi scomparirvi nuovamente.66
La lettura è l’ultima erede della tensione tra lo scritto e l’inteso67: «il rapporto semantico che si nasconde nei suoni della frase costituisce il fondamento dal quale il simile può emergere dal suono solo scintillando in un baleno»68, come quando si ascolta nell’etimo di una parola il convergere di tutta una serie di quelli che un tempo furono nessi mimetici. Nel ritmo, nel processo, nello sforzo, Benjamin vede il residuo dell’antica dote della chiaroveggenza, non ancora assorbita nella scrittura, nell’archivio delle similitudini non sensibili. Nel corso della lettura la parola cessa di essere mero segno, di dipendere dall’intenzione del lettore: diviene luogo di accumulo di similitudini prima tralasciate; all’improvviso si tramuta in immagine. Benjamin ricorda il giochino popolare nell’epoca Biedermeier: Brezel, Feder, Paise, Kalge, Firlefanz – integratele in una frase, la più breve possibi63 Su questo punto, in particolare sull’interpretazione benjaminiana di Goethe, oltre al testo già citato di M. Cacciari, si veda A. Pinotti, Allegoria: fu vera gloria?, in «Aisthesis», n. 2, 2010, in part. pp. 154-155. 64 W. Benjamin, Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, cit., p. 149; tr. it. cit., p. 289. 65 W. Benjamin, Lehre vom Ähnlichen, in GS II/1, p. 209; tr. it., Dottrina della similitudine, in OC V, p. 442. 66 Ibidem. Sulla connessione tra questo saggio e i precedenti studi sulla lingua, cfr. A. Pinotti, Costellazioni, cit., p. 53. Si veda anche C. Cappelletto, Note su due frammenti di Benjamin, in «Materiali di estetica», n. 3, 2000, pp. 17-24. 67 E chiaramente anche di quella tra il detto e l’inteso, tra il parlato e lo scritto. 68 W. Benjamin, Lehre vom Ähnlichen, cit., p. 209; tr. it. cit., p. 442.
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le, con il minor numero di elementi di connessione. Un gioco che stimolava i bambini: «per loro le parole sono ancora come caverne tra le quali essi conoscono strane vie di comunicazione»69. Presa alla rovescia, una frase costruita secondo questa regola, diventa di colpo estranea, eccitante, ma in fondo «un simile modo di vedere è incluso in ogni atto del leggere. […] La cosa è ancora più palpabile con i cosiddetti testi sacri»70, dove il commento estrae alcune parole e chiede al lettore di trovare “la soluzione”: ma la soluzione non è del lettore, balena all’improvviso alla mente del lettore. La leggibilità di queste immagini dialettiche, che s’incontrano all’interno del linguaggio71, coincide con «l’adesso di una determinata conoscibilità»72 e dipende dal ritmo, non dal lettore. Nell’“adesso” accade la verità come morte dell’intenzione73 – anche a livello testuale, si tratta di uno dei punti in cui Ursprung e Passagen-Werk si toccano74. Dal ritmo (das Tempo, in tedesco) della lettura sorgono accostamenti istantanei: «immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è la dialettica nell’immobilità»75. La parola-caverna non è “di questo linguaggio”, nessuno ha mai visto queste “strane vie di comunicazione” se non nel momento in cui divengono leggibili. Nell’arresto è come se lo Zeichen si trasformasse in Mal – una macchia, un dipinto che non ha fondo, a differenza della linea grafica che si coordina proprio col suo fondo76. Il metodo proposto per una dialettica della storia non è poi molto diverso77: si distingue tra parte fertile e parte morta dell’epoca; la prima – al pari di una linea grafica – traccia il proprio profilo in positivo sulla seconda, che vale come sfondo, in negativo; si prende la parte morta (negativa) e la si divide di nuovo «di modo che, con uno spostamento dell’angolo visuale (ma non dei parametri applicati!) riemerga anche in essa un lato positivo e diverso da quello prima designato»78. Variando il punto di vista, la stessa “cosa” produce W. Benjamin, Denkbilder, in GS IV/1, p. 433; tr. it., Immagini di pensiero, in OC V, p. 532. Ibidem. 71 Cfr. W. Benjamin, Das Passagen-Werk, in GS V/1, N 2a, 3, p. 577; tr. it., I «passages» di Parigi, in OC IX, p. 516. A proposito del Passagen-Werk, con particolare riferimento al pensiero di Adorno, cfr. l’ampia interpretazione offerta da F. Desideri, Walter Benjamin, cit., pp. 253-305. 72 Cfr. W. Benjamin, Das Passagen-Werk, cit., N 3, 1, p. 577; tr. it. cit., p. 517. 73 Cfr. W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 216; tr. it. cit., p. 80: «la verità è la morte dell’intenzione». Si veda inoltre Id., Das Passagen-Werk, cit., N 3, 1, p. 577; tr. it. cit., p. 517: «In questo adesso la verità è carica di tempo fino a frantumarsi. (E questo frantumarsi, e nient’altro, è la morte dell’intentio, che quindi coincide con la nascita dell’autentico tempo storico, il tempo della verità)». 74 Su questo punto è tornato di recente anche F. Desideri, Walter Benjamin e la percezione dell’arte, cit., pp. 18-21. 75 Cfr. W. Benjamin, Das Passagen-Werk, cit., N 2a, 3, pp. 576-577; tr. it. cit., p. 516. 76 Cfr. W. Benjamin, Über die Malerei oder Zeichen und Mal, in GS II/2, p. 603; tr. it., Sulla pittura ovvero Zeichen e Mal, in OC I, p. 318. 77 Cfr. W. Benjamin, Das Passagen-Werk, cit., N 1a, 3, p. 573; tr. it. cit., p. 513. 78 Ibidem. 69
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un’ombra diversa e dunque recupera “in positivo” parte di ciò che era destinato a rimanere sullo sfondo. Proseguendo all’infinito, «tutto il passato viene immesso nel presente»79. Ma questo procedimento si spiega proprio nelle Immagini di pensiero: in ogni atto del leggere «anche l’uomo colto sta in agguato in attesa di espressioni e di nomi, e il senso non è altro che lo sfondo in cui sta l’ombra che essi proiettano come personaggi in rilievo»80. Nella frase che per un attimo suona estranea ci riappropriamo di una parte di senso che altrimenti sarebbe rimasta (negata) sullo sfondo: il segno estende la propria ombra in direzioni inusuali, si espande, quasi come se lo Zeichen si tramutasse in Mal81. Come sostantivo Mal significa “macchia”, “neo”, ma come avverbio mal vuol dire “una volta”, “momento”, e per traslato anche “monumento” (Denkmal): i due termini dipendono dalla medesima radice althochdeutsch “meil”82. Giocando su una simile duplicità, si potrebbe dire che Mal è il momento in cui la sezione trasversale del disegno e della grafica si trasforma in longitudinale, in rappresentazione83. A un certo momento84 il segno diviene macchia, e tale trasformazione arresta il movimento, il ritmo usuale della lettura si blocca nel tempo della verità. L’effetto dell’immagine dialettica potrebbe essere “tradotto” attraverso un’espressione in lingua tedesca che sarebbe anche in grado di offrire un titolo più pertinente a queste pagine: Moment mal.
Ibidem. W. Benjamin, Denkbilder, cit., p. 433; tr. it. cit., p. 532. 81 Cfr. W. Benjamin, Über die Malerei oder Zeichen und Mal, cit., p. 605; tr. it. cit., p. 320, dove si specifica come Zeichen abbia non di rado la funzione di contraddistinguere la persona, mentre Mal assumerebbe un significato più “metafisico”, tale da dissolvere la persona in certi elementi primitivi. 82 Cfr. A. Walde, Vergleichendes Wörterbuch der indogermanischen Sprachen, 3 voll., a cura di J. Pokorny, de Gruyter, Berlin-Leipzig 1927, vol. II, p. 243. 83 Cfr. W. Benjamin, Malerei und Graphik, in GS II/2, p. 603; tr. it., Pittura e grafica, in OC I, p. 314. 84 W. Benjamin, Das Passagen-Werk, cit., N 3, 1, pp. 577-578; tr. it. cit., p. 517: «L’indice storico delle immagini dice, infatti, non solo che esse appartengono a un’epoca determinata, ma soprattutto che esse giungono a leggibilità solo in un’epoca determinata». Questo è anche il luogo in cui Benjamin prende esplicitamente le distanze dalla lettura heideggeriana della storia. Cfr. F. Desideri, La porta della giustizia. Saggi su Walter Benjamin, Pendragon, Bologna 1995, pp. 101-117, ma si vedano anche le pp. 167-184, dedicate al rapporto tra Heidegger, Benjamin e Rosenzweig. 79 80
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Abstract The article concerns the relationship between symbolic and allegorical dimensions in Benjamin’s thought. The re-evaluation of the meaning of the allegory passes through the Origin of German tragic Drama, but finds its theoretical foundation in the essay On Language as Such and on Human Language. With regard to the problem of language, we tried to put Benjamin and Husserl in dialogue with particular reference to their different conception of the Kantian transcendental: it is a question of verifying what the relationship between language, truth and intention is. By trying to clarify what the symbolic status of the name is – with respect to the allegorical nature of the judgment – it is possible to define more precisely a key notion of Benjamin’s work as the dialectical image. Crossing the analysis of texts such as Thought-Images and Doctrin of the Similar, it can be observed how the dialectical image depends on the ability to detect unusual similarities that for a moment stop the flow of historical time: this ability is preserved today in the rhythm of reading. Keywords: allegory, Trauerspiel, dialectical image, Husserl, Benjamin.
Leo Lugarini Un forum Interventi di Carlo Sini, Luca Illetterati, Giannino Di Tommaso, Vincenzo Vitiello
FORUM
In cammino verso Aristotele Carlo Sini
In tre anni, dal 1954 al 1956, si snoda il cammino straordinario di Leo Lugarini verso il capolavoro della sua prima produzione, ovvero il libro Aristotele e l’idea della filosofia (La Nuova Italia, Firenze 1961). Lugarini era allora trentacinquenne e insegnava Storia della filosofia antica all’Università degli studi di Milano, dove si era laureato su Kant con Giovanni Emanuele Barié, il suo maestro. Il lavoro di quei tre anni è documentato da altrettanti saggi: L’argomento del “terzo uomo” e la critica di Aristotele a Platone, in «Acme», VII, n. 1, 1954, pp. 3-72; Il problema delle categorie in Aristotele, in «Acme», VIII, n. 1, 1955, pp. 3-110; Il principio categoriale in Aristotele e Kant, in «Giornale critico della filosofia italiana», XXXV, n. 2, 1956, pp. 160-190. Il lavoro del giovane Lugarini può richiamare, per certi versi, il celebre libro di Werner Jaeger, Aristotele. Prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale (1923). All’inizio di quest’opera Jaeger lamentava il paradosso per il quale, mentre a proposito di Platone si è ampiamente approfondito il processo evolutivo del suo pensiero, il medesimo studio non è stato minimamente applicato ad Aristotele, che, peraltro, è proprio il creatore del principio dello “sviluppo organico” della realtà. Il grande contributo in questa direzione di Jaeger ha, tra i suoi tratti principali, l’analisi delle opere giovanili di Aristotele: l’Eudemo, il Protreptico e il Peri philosophias, al quale è riservato, come si sa, un grande e ammirevole affresco; manca però l’analisi del cammino concettuale sotterraneo che conduce infine Aristotele alla separazione della sua filosofia da quella del suo maestro, cammino culminante nella trasformazione profonda del comune termine ousia: una trasformazione così decisiva da suggerire la tradizionale differente traduzione con i due termini di “essenza” (per Platone) e di “sostanza” (per Aristotele). Leo Lugarini ha compiuto questo arduo lavoro, con una cura, una precisione filologica, una potenza argomentativa e concettuale e una forza persuasiva da suscitare ancora oggi nel lettore una ammirazione e una riconoscenza profonde. L’intento non era semplice: mancavano certezze e opinioni condivise sulla datazione degli scritti giovanili e non giovanili di Aristotele, quindi
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sull’ordine reale della loro successione e in qualche caso (clamoroso il caso delle Categorie, per esempio attribuite a un giovane studente di Aristotele, che non ne esponeva correttamente le tesi!) persino sulla certezza quanto all’autore. Tutto il sottile, tenace, profondo lavoro concettuale di Aristotele per sviluppare le grandi premesse filosofiche della scuola di Platone, sino alla costruzione della prima vera e propria scienza filosofica, restava così ampiamente ignorato o affidato a interventi parziali, occasionali e insomma mai fino in fondo chiarificatori. Dubbi e domande, soluzioni apparentemente contraddittorie continuavano pertanto a coinvolgere e ad affliggere alcune parti della metafisica e più in generale dell’opera di Aristotele che la tradizione ci aveva consegnato. Del nucleo di tali questioni credo che il lavoro di Lugarini sia stato ampiamente e convincentemente risolutore. La sua mossa vincente fu anzitutto la riconduzione dei primi scritti teoretici di Aristotele alla strutturale appartenenza di quest’ultimo al lavoro dell’Accademia. Non quindi un giovane Aristotele che intende prendere la sua strada in opposizione ai suoi compagni, ma l’intento di assumersi, stando nella scuola, l’onere di chiarire e risolvere i nodi problematici presenti in particolare nell’opera dell’ultimo Platone e già da Platone stesso, del resto, e dai suoi discepoli maggiori resi oggetto di discussione e di ricerca comune. Il punto centrale ed essenziale della ricostruzione di Lugarini è costituito dalla analisi puntuale del testo delle Categorie (uno studio di oltre cento pagine), il cui inizio vorrei richiamare al lettore di queste note. Esso concerne la sottile questione dei termini omonimi, sinonimi e paronimi. In sostanza è sul filo di questo problema, sia in modo manifesto sia in modi sotterranei, che tutta la disamina di Lugarini si sviluppa con coerente e feconda efficacia: una efficacia tuttora significativa per i nostri problemi attuali, come spero di poter almeno accennare alla fine. Nella Premessa allo scritto di cui ci stiamo occupando, Lugarini ricorda il suo primo studio (la critica del “terzo uomo”, come sappiamo) con l’intento di stabilire che nel De ideis Aristotele muove dalla interpretazione dell’eidos platonico come correlato oggettivo dei termini che siano comuni a una pluralità di oggetti aventi appunto una medesima denominazione, cioè che siano “omonimi”. L’eidos platonico rappresenta dunque una sorta di corrispettivo ontologico del significato dei nomi comuni: per esempio l’uomo in sé rispetto ai singoli uomini, ognuno dei quali è un uomo, ma nessuno dei quali è in grado di esaurire il significato universale “uomo”, cioè di essere l’uomo. Emerge così, osserva Lugarini, un divario fra il piano ontologico e quello logico-discorsivo: divario irresolubilmente problematico. Infatti, scrive Lugarini, «o l’universale è οὐσία, nel qual caso non può fungere da predicato; oppure è predicato, ma in quest’ipotesi non può essere realtà in sé» (p. 4). Già si profila la questione della ousia come “sostanza”, che dall’universale platonico tende a capovolgersi nella individualità dell’oggetto (questo uomo e non l’uo-
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mo). «L’intera dottrina delle categorie – scrive Lugarini – nasce, nello scritto omonimo, quale coerente conseguenza dell’accennato rovesciamento della prospettiva platonica», senza peraltro riuscire in quella sede a risolverne il dualismo tra piano logico e piano reale (p. 5). Per altro verso, dice Lugarini, tutto il problema delle categorie nasce in Aristotele a partire alla diairesi platonica, cioè dalla dottrina del Sofista volta a fondare il procedimento della definizione, ovvero a dire “che cosa” una cosa “è”, sia essa la pesca con la lenza oppure il sofista. Il discepolo, cioè Aristotele, si avvede della difficoltà del punto di partenza (per dire in fretta): da dove partiremo per definire la pesca con la lenza? Dall’arte? E chi o che cosa garantisce questa scelta? Non potremmo partire da un’altra idea? Avremmo così una definizione differente dalla prima. E poi: non dovremmo già sapere che cosa è la pesca con la lenza (che invece diciamo di dover definire) per scegliere un punto di partenza che le sia congruo e che finisca per incontrarla e circoscriverla? Ricostruito ciò che era evidentemente alle spalle delle Categorie, Lugarini ricorda che questo testo inizia senz’altro, senza introduzione o preambolo alcuno, dalla famosa distinzione: si dicono omonimi quegli enti che hanno in comune il nome ma non la definizione (per esempio “uomo reale” e “uomo dipinto”); si dicono sinonimi quelli che hanno comune l’uno e l’altra (per esempio “uomo” e “bue” rispetto ad “animale”); si dicono paronimi i termini caratterizzati da differenze di flessione (per esempio “grammatico” da “grammatica” o “coraggioso” da “coraggio”). La definizione è dunque decisiva; essa, dice Lugarini, concerne anzitutto la base ontologica delle cose, la loro sostanzialità reale, non il nesso meramente verbale rappresentato dalla definizione logica. È nella realtà che uomo reale e uomo dipinto sono diversi, mentre come animali uomo e bue sono sinonimi. In altre parole: il fondamento delle categorie è ontologico e non linguistico o logico formale (come altri interpreti hanno inteso e tuttora intendono). Ma il punto che qui particolarmente mi interessa sottolineare è un altro. Lugarini lo esprime così: nell’affidare la ricerca delle categorie alla definizione (al logos tes ousias), Aristotele assume implicitamente la tesi della convenzionalità dei nomi; tesi fortemente discussa nella sofistica, affrontata di petto nel Cratilo, risolta appunto nel Sofista con la dottrina della diairesi definitoria e poi pienamente ripresa da Aristotele stesso nel De interpretatione. In tal modo, «il significato ontologico dei nomi viene a coincidere col loro significato concettuale», stabilito appunto dalla definizione, di cui le differenze tra omonimia e sinonimia sono il tratto ontologico essenziale (p. 27). «Come si vede – aggiunge Lugarini – qui Aristotele non espone, ma critica, la dottrina platonica: ciò che a noi più importa notare è ch’egli la critica mostrando inammissibile l’omonimia (in senso platonico) fra l’eidos ed il sensibile e riducendo ad omonimia (in senso aristotelico) quella che dovrebbe essere la loro relazione di sinonimia» (p. 29, nota). Il punto comune che nondimeno emerge tra Platone e Aristotele è il rifiuto della “onomatologia arcaica”, che ravvisava una identità tra parola e cosa, in
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accordo con le antiche e più recenti credenze popolari. La critica aristotelica, dice Lugarini, è istruttiva, «perché implicitamente fa risalire gli inconvenienti dell’eidetica platonica al presupposto della corresponsione diretta tra il nome e l’oggetto ed alla conseguente presupposizione di poter senz’altro impostare le ricerche intorno all’essere su indagini onomatologiche» (p. 29). In altre parole, il rifiuto della onomatologia arcaica è in Platone ancora insufficiente, per il peso ontologico ancora attribuito ai nomi. Non ostante ciò, nelle Categorie Aristotele mostra peraltro di essere ancora legato all’Accademia; il suo lavoro mira a perfezionare l’eidetica platonica, non a ripudiarla. Per altro verso, vorrei aggiungere, la correzione del senso di termini come omonimia e sinonimia, ai fini della definizione categoriale, porta proprio sino in fondo un processo iniziato dallo stesso Platone nel Cratilo, dove le opposte tesi dell’arcaicizzante Cratilo e del sofisticizzante Ermogene vengono respinte. Le parole non sono immediatamente identiche alle cose e non sono loro totalmente estranee in quanto convenzionalmente relative: c’è, al loro fondo, quella verità che solo il filosofo può stabilire in base all’arte definitoria, già invocata appunto nel Cratilo e messa a punto nel Sofista. Aristotele è d’accordo, ma in sostanza rileva che, nello stabilire la diairesi definitoria, Platone rimane ancora troppo legato ai nomi. In questo senso, come si è detto, non è del tutto libero dall’influenza della onomatologia arcaica. Vedi per esempio la scelta della parola “arte” per definire la pesca con la lenza. La dottrina delle Categorie (e il grandioso, profondissimo sviluppo concettuale che si metterà in cammino da qui) condurrà invece Aristotele alla elaborazione di una inedita convenzionalità “scientifica” del segno linguistico, esposta nel già ricordato De interpretatione: una teoria sostanzialmente destinata a durare per più di due millenni, con l’eccezione del grande Vico. Torniamo a Lugarini. Le categorie aristoteliche nulla hanno dunque a che vedere con l’analisi della copula e neppure con le ricerche dei significati inerenti ai possibili predicati di una proposizione e, in generale, con lo studio delle forme del linguaggio. Esse nascono invece sul terreno della diairesi platonica, pur adattando la struttura diairetica del reale alla nuova prospettiva, secondo cui «realtà» (οὐσία) vera e propria è l’individuale, e non più l’universale. In conseguenza di questo capovolgimento, riesce ad Aristotele di fissare i punti di vista più generali da cui procedere nel definire qualsiasi oggetto. (p. 53)
Il problema del Sofista è risolto, sebbene la soluzione rechi con sé nuovi problemi ardui e complessi. Ma intanto si noti: ousia, dice Aristotele e ricorda Lugarini, è quella che non si dice di nessun sostrato e nemmeno risiede in un sostrato (Cat. 5, 2a11-13). Per significare questa novità la terminologia posteriore «riceverà il non appropriato nome di ‘sostanza’, mentre assai
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più pertinente sarebbe quello di “realtà” o, meglio, “realtà fondamentale”, o meglio ancora “realtà in sé” onde distinguerla da quella, derivata, di ciò che comunque ne dipenda» (p. 55, nota). Resta il problema di trovare un collegamento “reale”, e non solo nominale, tra le categorie in relazione alla realtà o sostanza individuale. Tutto funziona se dico che Socrate è uomo, ma se dico che Socrate è bianco, in che senso dico qualcosa di reale di Socrate, sebbene questo modo di essere non risieda nella sua definizione, ovvero sia qualcosa di meramente accidentale? Un primo essenziale passo verso la soluzione risiede nei Topici: questa la tesi di Lugarini. Il punto di differenza dei Topici rispetto alle Categorie Lugarini lo enuncia così: In Cat. 1 egli muove da denominazioni identiche per sceverare ciò che vi sia di ontologicamente identico, mentre in Top. A7 il punto di partenza è l’inverso, cioè denominazioni diverse, di cui egli cerca, di nuovo, il fondo ontologicamente identico. Nel primo testo si risente il criterio platonico della omonimia; nel secondo, quello della eteronomia. Sia nell’uno sia nell’altro la denominazione d’un oggetto è però solo indizio o spunto per risalire al suo essere, che viene comunque illustrato non in base alla semplice omonimia o eteronomia, bensì in forza d’un’indagine concettuale, volta ad enunciare il significato ontologico dei nomi. (p. 68)
Con un grande salto, ricordiamo la tappa successiva, rappresentata, secondo Lugarini, da Analitici Posteriori A 22 (pp. 74 ss.): qui viene posta la grande questione dell’accidente e di qui, con sottile perizia analitica, Lugarini ci conduce sino al cuore della Metafsica, dove tutti i nodi vengono al pettine e infine si risolvono. La questione concerne essenzialmente l’essere di ciò che è, di cui vengono indicate le due forme: “essere per accidente” ed “essere per sé” (p. 78). L’accidente e la definizione, però, non si trovano più contrapposti (come in An. Post. A 4): non qualcosa (“Socrate”) è qualcos’altro (“bianco”), ma a qualcosa accade qualcos’altro (“di esser bianco”). «Si tratta – scrive Lugarini – di unificare i molteplici significati di un medesimo termine in rapporto ad uno fondamentale e primo. La differenza è capitale, poiché si esce dalla mera onomatologia e si entra nella sfera della realtà» (p. 86). Nella Metafisica infatti «Aristotele va oltre la sua vecchia opposizione tra sinonimi e omonimi» (p. 85) e in un certo senso utilizza, con un significato diverso, i paronimi delle Categorie. Infatti nella Metafisica Aristotele osserva che se l’ente si dice in più sensi (“animale”, “bianco”, ecc.) per omonimia e non per qualcosa di realmente comune, non potrebbe essere oggetto di scienza alcuna: cosa invece possibile se lo si dice secondo qualcosa di comune. Conseguentemente, nel famoso passo di Metaf. Γ 2, Aristotele può affermare che l’ente si dice bensì in più sensi, «ma in relazione a qualcosa di uno e ad una natura unica, e non per mera omonimia» (p. 83). Di qui, dice Lugarini, «l’intrinseca unità dell’ente come tale, che subito Aristotele si avvia a mettere in luce. Individuata nell’ousia quella μία φύσις o ἀρχή cui riferire
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tutti gli altri significati dell’essere, l’ousia stessa si poneva come “ciò che è primo (τὸ πρῶτον) e da cui tutto il resto dipende e per cui forma oggetto di discorso”» (p. 87). Tirando le somme del suo lungo e impervio cammino di ricerca (di cui qui abbiamo rianimato solo qualche passaggio essenziale), Lugarini scrive: Per quanto si è veduto, l’unità dell’ente sta a base della logica non meno che dell’ontologia, dato che si risolvono per suo mezzo le aporie inerenti alla possibilità del collegamento fra le categorie e si legittima la possibilità del logo apofantico, accanto a quella del logo definitorio. Il primato ontologico dell’ousia stabilito già nelle Categorie, si completa pertanto con quello logico. Essa era già apparsa il principio unitario sia degli aspetti essenziali dell’ente sia di quelli accidentali. Ora risulta il perno anche della loro espressione discorsiva e si pone quale soggetto tanto nel logo definitorio quanto in quello apofantico. Che l’ousia sia sostrato vale dunque in duplice senso: sul piano della realtà e su quello logico-discorsivo. E nel primo senso essa costituisce il punto di appoggio delle determinazioni categoriali dell’ente. Così come nel secondo si configura quale punto di riferimento dei predicati. (p. 106)
Su questa base è dunque possibile una scienza dell’ente in quanto tale, fondamento di tutti gli altri saperi. Il cammino dell’Occidente ha varcato la decisiva soglia della scienza universale e delle scienze particolari della “realtà”. Nella Conclusione del libro del 1961 (Aristotele e l’idea della filosofia, cit.) Lugarini si chiedeva: Che ne è dell’idea aristotelica della filosofia, considerata nel suo presumibile titolo di pur remoto cominciamento della situazione filosofica d’oggi? In base a quanto precede dovremmo rispondere: essa costituisce un lontano e nascostamente operante cominciamento per un possibile mondo spirituale tuttora mancante. […] Per contro vi rientra l’onere di sottolineare che, se l’istanza di aderire da cima a fondo alle cose e di pensarle nelle guise richieste non è da Aristotele pienamente assolta, tuttavia la medesima istanza conserva oggi intero il suo determinante peso. (pp. 264-265)
Questa istanza, secondo Lugarini, invita a tener conto del motto famoso: zu den Sachen selbst!, avviando un filosofare eminentemente “teoretico”, cioè libero «da qualsivoglia prefigurazione», radicato «in un tipo di pensiero il cui movimento sia imposto dalle cose stesse ed abbia ad unico sostegno il loro proprio rigore ed il cui orizzonte, pertanto, coincida con la loro peculiare dimensione. Come ciò è possibile? La domanda è del nostro tempo. Investe l’uomo d’oggi: toccandone le radici» (p. 265). La questione – aveva ricordato poco prima (p. 260) – concerne ancora la domanda: che è ente? La risposta è condizione affinché la physis dell’uomo, dice Lugarini, giunga alla entelechia
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ed entri nella pienezza del suo più alto dispiegamento. «Indipendentemente da Aristotele diremo: tale questione è fra tutte la più pressante affinché l’esser uomo prenda senso, attingendolo a quello dell’esser ente. L’uomo stesso ne vien posto in questione, insieme con l’intera distesa degli enti». A questi orizzonti filosofici, segno iniziale di un autonomo filosofare in prima persona da parte di Lugarini, aveva già dato articolata espressione il terzo saggio citato all’inizio (Il principio categoriale in Aristotele e Kant, 1956). All’inizio di questo scritto Lugarini pone appunto il problema della non compiuta concretezza del pensiero aristotelico sulle categorie: Da Kant all’attualismo il problema cui alludiamo è al centro degli interessi speculativi. E se rammentiamo le critiche di Kant alla «rapsodica» classificazione aristotelica delle categorie e poi quelle di Fichte e di Hegel alla sistemazione tentatane da Kant stesso ed infine le riserve gentiliane circa la legittimità dello specificarle, potremo subito notare come gli sforzi più rilevanti convergano, lungo questa direttrice, nell’accentuare via via l’importanza del principio categoriale nell’ambito della teoria delle categorie. Analogamente, in seno all’ontologismo precritico – ed a cominciare da Aristotele stesso – il problema delle categorie si accentra, a mano a mano, nella questione del principio che le renda efficienti sul piano ontologico, cui esse vengono assegnate. Principio che, da Aristotele individuato nell’ousia, troverà sviluppo nel posteriore sostanzialismo e che, una volta disancorato dal suo originario nesso con le determinate categorie, sfocerà nel concetto spinoziano della sostanza. (pp. 160-161)
Ricordo ancora la mattina in cui, in un’aula della Statale di Milano, con uno sparuto numero di altri studenti (l’università non era ancora diventata “di massa”, come dagli anni Sessanta in poi), ascoltai il prof. Lugarini, docente di Storia della filosofia antica, accennare a questa grande “direttrice” di pensieri che, scavalcando i secoli, ci offriva in uno sguardo unitario la sostanza di Aristotele e quella di Spinoza, le categorie dell’allievo di Platone e quelle di Kant, la rivoluzione idealistica da Fichte a Hegel a Gentile. Ricordo perfettamente il nostro ammirato ed emozionato stupore: avevamo visto in un baleno come si filosofa “teoreticamente” attraverso il corpo storico della filosofia. Lugarini è stato un maestro in questa arte del filosofare speculativo e il saggio qui citato ne è un primo eloquente esempio, con le pagine kantiane che si richiamano appunto al primo libro di Lugarini: La logica trascendentale kantiana, Principato, Milano-Messina 1950. Il cammino successivo a questo libro avrà, fra le sue tappe più significative dopo Aristotele, il grande incontro con Hegel e il dialogo problematico con Heidegger. A questi ricordi e a queste rivisitazioni ammirate del tuttora molto importante lavoro giovanile di Leo Lugarini vorrei aggiungere una succinta considerazione. Essa spiega la ragione del mio dichiarato, inziale interesse per la questione platonico-aristotelica dei “nomi” (omonimi, sinonimi e paronimi). Ho già detto del comune accordo di entrambi, Platone e Aristotele, nel rifiuto della cosiddetta “onomatologia arcaica”. Si tratta, ai miei
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occhi e credo non solo, di una soglia in tutti i sensi decisiva, a partire dalla quale il nostro destino in Occidente venne segnato; ma è una soglia spuria, affetta da pregiudizi e palesemente autoreferenziale; quindi problematica e paradossale. Per esprimere la cosa in fretta provo a dire così: tutti e tre i personaggi del Cratilo, ponendo in vario modo la questione del rapporto tra i nomi e la realtà, parlano di qualcosa che non è mai esistito prima di loro e che in loro invece è silenziosamente ben presente quanto inavvertito; potrei dire: il fatto di essere tutti e tre catturati da un discorso che prende le sue misure e i suoi “oggetti” dalla logica dei discorsi scritti e dalla conseguente “ipnosi alfabetica”. È questa ipnosi che fa supporre l’esistenza di una “onomatologia arcaica”, come se l’arcaico, il discorso degli “antichi”, conoscesse… i nomi! – e i verbi: questa brillante invenzione del Teeteo (206d), partorita alla fine di una lunga esposizione dedicata alla combinazione delle lettere e delle sillabe, ovviamente alfabetiche. L’aver varcato questa soglia e l’aver costruito, a partire da essa e dalla sua retroflessione in un’origine immaginaria, un grandioso, straordinario, efficientissimo universo di conoscenze ci ha reso sommamente arduo, per non dire impossibile, farci un’idea adeguata di che cosa fosse o di che senso avesse parlare “prima” di questa rivoluzione (dove già tutti i termini che usiamo sono irresolubili trabocchetti nei confronti di ciò che vorremmo dire o a cui vorremmo alludere). Così, solo per fare un esempio, l’adulto sta di fronte all’infante, impossibilitato a risvegliarne in sé il ricordo, mentre nondimeno osserva e riconosce che “il pappo e il dindi” certamente non si occupano né di nomi né di verbi, di omonimi o sinonimi. Proprio il cammino verso Aristotele ha nondimeno condotto così verso di “noi”. Investe l’uomo d’oggi, ha detto Lugarini. Aveva ragione.
Pensare le cose nelle cose L’anti-intellettualismo rigoroso di Leo Lugarini Luca Illetterati
1. La crisi della filosofia Introducendo Aristotele e l’idea di filosofia, testo pubblicato per la prima volta nel 1961, Lugarini scriveva: Tema del presente volume è l’idea aristotelica della filosofia. Di sfondo per la sua tematizzazione è peraltro la situazione filosofica odierna. Nella inquietante situazione d’oggi la pur frequente domanda «che è la filosofia?» rischia di non trovare una risposta soddisfacente e comunque univoca.1
L’idea che vorrei avanzare è che l’intera impresa scientifica di Leo Lugarini – un’impresa che si è concretata soprattutto all’interno di una incessante attività ermeneutica rivolta ad alcuni dei momenti più straordinari, ardui e complessi della tradizione filosofica occidentale – ruoti tutta attorno alla questione del senso della filosofia, ovvero alla possibilità di esperire, esplicitare e praticare oggi un senso per la filosofia. Una possibilità niente affatto scontata, in quanto se c’è un tratto che secondo Lugarini sembra caratterizzare la contemporaneità – un arco di tempo che per Lugarini va dal secondo dopoguerra fino almeno al primo decennio del XXI secolo – è una sorta di radicale difficoltà ad avvertire un senso per la filosofia. Quasi che la contemporaneità non ne avesse bisogno, o che la filosofia – ed è questa la via che a me pare percorra Lugarini – sia diventata incapace di cogliere i bisogni del tempo, si sia ridotta a qualcosa che le impedisce di pensare nel modo più radicale possibile ciò che il tempo le imporrebbe invece di pensare. La fine del XX secolo e gli inizi del XXI sono tempestati di testi che cercano di dire che cosa sia la filosofia, quali i suoi scopi, quali i suoi metodi, quali
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L. Lugarini, Aristotele e l’idea di filosofia, II ed. riv., La Nuova Italia, Firenze 1972, p. 1.
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le sue domande2. La metafilosofia è diventata, soprattutto nella produzione scientifica anglofona, una vera e propria branca del lavoro filosofico, con testi ad essa dedicati3, discussioni accese, riviste che ospitano interventi e diatribe. E non è evidentemente difficile collegare questa esplosione di testi, questa attenzione all’esperienza di una difficoltà a esplicitare la sensatezza della pratica filosofica, a un bisogno di giustificazione che sorge solo quando il contesto non percepisce un certo tipo di lavoro come un lavoro dotato di senso. Lungi infatti dall’essere testimonianza della sua vivacità, il proliferare delle cosiddette filosofie speciali – le filosofie che si declinano cioè all’interno di un complemento di specificazione che darebbe loro senso (filosofia della fisica, filosofia della biologia, filosofia della letteratura, filosofia dell’economia, filosofia del camminare, filosofia dell’architettura, filosofia della tecnologia e chi più ne ha più ne metta) – appare piuttosto, nell’ottica lugariniana, manifestazione evidente del tramonto della filosofia, della sua perdita di autonomia, del suo diventare discorso (metodologico od ornamentale, e dal punto di vista dello statuto poco cambia) al servizio di qualcosa d’altro da sé. Lugarini, invece – e questo è un punto a mio parere decisivo – non risponde alla crisi di senso della filosofia trasformando il discorso filosofico in un oggetto di indagine, sottoponendo cioè la filosofia a una qualche analisi dalla quale possa emergere un senso altrimenti nascosto. Egli invece si immerge nel modo più concreto dentro il testo filosofico, dentro le forme del discorso filosofico, dentro l’esercizio concreto della filosofia quale si è venuto a determinare all’interno della tradizione occidentale; e cerca, dentro filosofie storicamente determinate e non in un discorso meta rispetto alla filosofia, tanto le tracce di un senso che in quei testi è depositato e che rischia sempre e incessantemente di andare disperso e cancellato, quanto i limiti di strutture concettuali non più adeguate alle urgenze del tempo che quei testi testimoniano. La crisi della filosofia non è infatti, secondo Lugarini, solo la crisi di un’epoca che così come non ha più bisogno di poeti non avrebbe neanche più bisogno di filosofi, ovvero di un’epoca, come diceva Heidegger commentando Hölderlin, che non è nemmeno più capace di cogliere la povertà che pure la costituisce, ma è anche – e qui a me sembra di poter rinvenire una straordinaria attualità del lavoro lugariniano – il segno di una certa inadeguatezza degli orizzonti di pensiero tradizionali rispetto alle istanze che caratterizzano la contemporaneità. Come a dire che le questioni che insistono sulla con2 Mi limito qui a citare alcuni testi che hanno un carattere, per così dire, emblematico, in quanto incarnano ciascuno linee di pensiero e percorsi teoretici molto differenti: G. Deleuze F. Guattari, Qu’est-ce que la philosophie?, Minuit, Paris 1991; tr. it. di A. De Lorenzis, Che cos’è la filosofia, a cura di C. Arcuri, Einaudi, Torino 1996; E. Bencivenga, Filosofia: istruzioni per l’uso, Bruno Mondadori, Milano 2007 (19951); G. Agamben, Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata 2016; T. Williamson, The Philosophy of Philosophy, Blackwell, Oxford 2007; N. Rescher, Metaphilosophy. Philosophy in Philosophical Perspective, Lexington Books, Lanham et al. 2014. 3 S. Overgaard - P. Gilbert - S. Burwood, An Introduction to Metaphilosophy, Cambridge University Press, Cambridge 2013.
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temporaneità e che la contemporaneità provoca al pensiero sono questioni rispetto alle quali l’orizzonte della tradizione rischia di risultare angusto, come incapace di afferrare la forma stessa di ciò che preme. Per questo, dice Lugarini sempre nel testo su Aristotele, «rideterminare l’orizzonte della nostra possibile comprensione e il nostro stile di pensiero appare compito saliente della filosofia in seno al mondo contemporaneo». Una rideterminazione che secondo Lugarini può avvenire solo attraverso uno sforzo insieme storico e concettuale di attraversamento critico della tradizione, ovvero cercando innanzitutto di comprendere e quindi di mettere sotto pressione una categorialità che, se non esplicitamente indagata, agisce in modi mai neutrali in qualsiasi tentativo di apprensione della realtà. Rideterminare il senso della nostra possibile comprensione, dice Lugarini. Un’espressione che anticipa di quasi quarant’anni il titolo del suo grande libro sulla Scienza della logica di Hegel: Orizzonti hegeliani di comprensione dell’essere. E non si tratta di una ripetizione innocente. Quella hegeliana è infatti una delle rideterminazioni del senso della nostra possibile comprensione, forse la più decisiva per Lugarini. Ma è appunto una rideterminazione e come tale richiede di essere continuamente rideterminata. La filosofia è dunque questo, fin dalle sue origini: comprensione dell’essere. Ma tale comprensione è sempre immersa dentro orizzonti diversi che testimoniano delle diverse urgenze con cui il tempo interroga l’essere. E qui emerge l’altro punto a mio parere decisivo dell’interrogare lugariniano. La comprensione dell’essere si staglia sempre dentro un orizzonte che è rivelativo dei bisogni del tempo, delle istanze del mondo della vita, delle esigenze concrete dentro cui il soggetto filosofante è immerso. La filosofia abita questo spazio liminare tra l’esperienza concreta e la possibilità di una sua trascendenza, e quindi di una sua comprensione a partire da un piano che implica una differenza. Ma se questa differenza e questa trascendenza si fanno separazione, si fanno scissione, ciò che viene meno, secondo Lugarini, è proprio la filosofia, la quale o diventa giocoforza discorso intellettualistico astratto, e dunque alieno dai bisogni della concretezza (ed è quanto accade a un’immagine iperprofessionalizzata e ipertecnica della filosofia), o nel lasciarsi travolgere dalla concretezza si impedisce di cogliere quell’orizzonte di comprensione che è la sua condizione di possibilità (ed è quanto accade a un’immagine pop continuamente avvinghiata alle circostanze del quotidiano). La filosofia è se stessa, secondo Lugarini, solo se incarna il rigore del lavoro scientifico e contemporaneamente non si separa in nome di questa scientificità dal mondo della vita, da quel mondo dei bisogni che solamente è condizione di senso per la filosofia. Un rigore radicalmente anti-intellettualistico. Questo, se mi si passa l’espressione, è il daimon che regge tutta l’impresa scientifica di Lugarini Nelle pagine che seguono vorrei cercare di evidenziare alcune tracce di questo daimon nei lavori che Lugarini dedica alla filosofia di Kant (1950), a quella di Aristotele (1961-1972) e a quella di Hegel (1972, 1998).
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2. Con Kant, oltre Kant La logica trascendentale kantiana è il primo importante lavoro monografico di Lugarini, esito del suo studio a Milano, dove si era laureato sotto la guida di Emanuele Barié, cui il volume è non casualmente dedicato4. In questa sede, non essendo in gioco l’interpretazione lugariniana di Kant, quelle che interessano sono alcune righe appena della Premessa, la quale riflette – come è tipico di questi testi posti a margine della ricerca vera e propria – la temperie del momento e l’ottica generale dentro cui si pone il lavoro. Sono in particolare due i temi fondamentali di carattere generale che vengono qui sottolineati e che Lugarini eredita evidentemente da Barié: la polemica contro il neoidealismo e il bisogno di aprirsi – proprio attraverso Kant – a un confronto con la contemporaneità. Scrive infatti Lugarini: Nei suoi molteplici aspetti e nella varietà delle sue tendenze la filosofia contemporanea è tutta animata dall’esigenza particolarmente sentita di restituire alla persona umana una più misurata posizione nella gerarchia dei valori, dopo che l’idealismo postkantiano sembrò fare dell’uomo un dio spezzando le barriere che neppure la valorizzazione umanistica e rinascimentale delle possibilità umane aveva saputo infrangere.5
Per lo svolgimento di questo programma, due sono le parole chiave che ricorrono nel lavoro lugariniano: esistenza e trascendenza. Queste nozioni, che giungono per molti versi da Heidegger e più in generale dalle filosofie della vita dei primi decenni del XX secolo, vengono assunte come nozioni in grado di scardinare l’immagine divinizzata dell’umano prodotta dalla hybris idealistica. Sono peraltro nozioni, quelle di esistenza e trascendenza, che aprono lo spazio, secondo Lugarini, a un nuovo bisogno di metafisica. Esistenza e trascendenza rivelano infatti la necessità di una riproposizione della domanda intorno all’essere. Una domanda che ha ricominciato a farsi strada in chiave antistoricista e antipositivista in filosofie come quelle di Carabellese, di Hartmann e soprattutto di Heidegger, autore con cui Lugarini intratterrà una costante Auseinandersetzung, senza mai tuttavia aderire pienamente né allo stile né alle conclusioni del pensiero heideggeriano. L’urgenza metafisica che sta alle spalle di quelle nozioni costituirebbe, dunque, una risposta tanto allo scioglimento storicistico dell’essere che sarebbe caratteristico del neoidealismo, quanto a tutte le forme di neopositivismo che a loro volta tenderebbero a spezzare la domanda intorno all’essere in domande intorno agli enti particolari. Proprio qui, però, proprio in questa istanza metafisica che è connessa alla necessità di riproporre la domanda ontologica, Lugarini coglie un problema. 4 5
Cfr. L. Lugarini, La logica trascendentale kantiana, Principato, Milano 1950. Ivi, p. 7.
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Il problema dell’essere sembra infatti emergere dentro quei contesti in termini reattivi rispetto alle conseguenze iperstoriciste dell’idealismo postkantiano e dell’epistemologismo neokantiano, assumendo perciò la forma di una sorta di contro-concetto rispetto al pensiero, come se l’essere fosse appunto una sorta di esteriorità e alterità rispetto al pensiero, chiamata a porre limite e argine alle sue pretese. In questo modo, però, secondo Lugarini, ciò che si rischia non è semplicemente un posizionamento della soggettività dentro quei limiti che l’idealismo avrebbe indebitamente preteso di spezzare, quanto piuttosto un suo annientamento, un suo radicale svuotamento. Nel momento in cui l’attenzione nei confronti dell’essere si articola nella forma di uno sguardo sull’altro dal pensiero, l’esito non può infatti che essere un tipo di sostanzialismo che, se da una parte certo consente di evitare lo scioglimento dell’essere dentro il relativismo storicistico, dall’altra lo fa al prezzo di rinunciare alla soggettività stessa, ovvero alla capacità del pensiero di essere esso stesso elemento costitutivo dell’essere. L’esito ultimo delle nuove ontologie rischia in questo modo di risolversi, secondo Lugarini – e probabilmente questo sarebbe anche ciò che egli noterebbe di fronte ai nuovi realismi – in un ritorno a quel dogmatismo della metafisica precritica di cui la filosofia kantiana sarebbe invece la più radicale e rigorosa decostruzione. Di qui il progetto di cui, secondo Lugarini, la filosofia deve farsi carico. Un progetto a cui egli, pur nell’incessante evoluzione delle sue ricerche e della sua prospettiva filosofica, rimarrà sempre fedele: da un lato, affermare l’essere senza separarlo dal pensiero e dunque anche dal soggetto, dall’attività che il soggetto incarna, e, dall’altro, affermare il pensiero senza mai renderlo autonomo e altro dall’essere. Queste le sue parole: Per cui si presenta l’esigenza di riaffermare (con l’idealismo) la forza del pensiero ed insieme (con l’ontologismo) l’assolutezza dell’essere, mettendo a base dell’ontologia o della metafisica una logica che sia logica del reale o meglio dell’essere e che d’altra parte valga a mostrare attivo l’uomo e perciò persona, in quanto soggetto pensante.6
È già qui evidente l’influenza di Hegel. È però uno Hegel, quello che inizia a farsi strada nel percorso di ricerca lugariniano, letto in una chiave che si può per molti versi connotare come anti-idealistica. Non si tratta infatti, secondo Lugarini, di radicalizzare il pensiero di Kant in chiave costruttivistica, trasformando la logica trascendentale kantiana in logica costruttiva del reale. Una tale operazione non può infatti che condurre a uno svuotamento della realtà stessa, la quale a sua volta non può che sfociare alla fin fine dentro a forme di riduzionismo soggettivistico ancora più estreme e radicali di quelle che pretenderebbe di superare. Si tratta invece, secondo Lugarini, di «ristudiare la logica trascendentale kantiana mettendola in relazione col problema 6
Ivi, p. 8.
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dell’essere» al fine di «affermare l’assolutezza dell’essere ed insieme la possibilità che l’uomo ne sia partecipe»7. Tali coordinate implicano, come è subito evidente, anche una separazione da Kant; o, per meglio dire, implicano un movimento oltre Kant che avviene attraverso lo stesso Kant. Se da un lato, infatti, Kant ha nettamente separato l’ambito del conoscere dalla realtà in sé, rischiando in questo modo di ridurre l’ontologia a epistemologia, dall’altro, mostrando come la realtà in sé, e quindi l’essere, richieda una forma di pensiero non più retta dalla logica intellettiva, ha invece evidenziato la necessità di un modello di razionalità che, se vuole essere pensiero dell’essere, non può adeguarsi alle logiche che sorreggono le diverse gnoseologie di tipo soggettivistico. È questo il punto su cui Lugarini intende muovere con Kant oltre Kant. Detto diversamente e invertendo i termini sopra evidenziati: se da una parte Kant ha mostrato in modo inequivocabile l’incapacità e l’impossibilità per la logica dell’intelletto di penetrare la struttura profonda dell’essere, dall’altra, avendo assunto «come unità di misura l’intelletto» e avendo conseguentemente «valutato la ragione alla luce dei risultati dell’Analitica», ovvero «ritenendo esauriti i compiti della logica trascendentale dopo che essa ha mostrato nell’Ich denke il fondamento logico di ogni possibilità conoscitiva»8, non sarebbe andato fino in fondo nel suo progetto di una logica trascendentale. Non assumendo cioè in tutta la sua radicalità quell’atto del pensare che, sostiene Lugarini, non si esaurisce nel suo carattere gnoseologico, la logica trascendentale kantiana continua a essere una logica dell’intelletto e dunque una logica strutturalmente inadeguata a un pensiero dell’essere. Se volessimo dirlo in termini estremamente schematici, verrebbe da dire che il progetto lugariniano rimanda fin dall’inizio a un superamento tanto dell’ontologismo, inteso come discorso sull’essere e sulla realtà che si pretenderebbe indipendente dalla dimensione della soggettività, quanto di uno gnoseologismo che sulla scorta di una lettura unilaterale di Kant tenderebbe a ridurre il discorso sulla realtà a un discorso tutto interno alla categorialità soggettiva. Detto in termini positivi, l’orizzonte lugariniano sembra muovere in direzione di una ontologia antisostanzialistica che sa di non poter mai essere separata dall’epistemolgia, ovvero dall’analisi circa le condizioni di possibilità della cognizione e in direzione di una epistemologia antisoggettivistica che sa di non poter essere indipendente e autonoma rispetto all’ontologia. 3. Cominciare da capo: Aristotele La ricerca di una logica che non sia mai separata dalla concretezza dell’esperienza e di un discorso sulle strutture profonde della realtà che sappia 7 8
Ibidem. Ivi, p. 9.
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tenersi lontano da qualsiasi sostanzializzazione di categorie logiche intellettualistiche è l’ottica a partire dal quale Lugarini legge tanto Aristotele quanto Hegel. Nel suo rivolgersi ad Aristotele, Lugarini si rivolge a quella che è una sorta di archè del filosofare dell’occidente, con l’esplicito scopo di ritrovare in quella archè le condizioni per un ripensamento di quel filosofare stesso: il cominciare da capo esige pure che il cominciamento antico venga compreso nel suo determinato titolo di ἀρχή, quanto si voglia lontana e tuttavia efficiente, delle nostre stesse aporie e in genere del negativo che vi si esprime.9
L’intento, come si è detto già all’inizio, è quello di sondare in Aristotele la possibilità di una risposta relativamente alla domanda che riguarda lo statuto, e dunque il senso, della filosofia. Più dettagliatamente, però, e in coerenza con il percorso compiuto in Kant, l’intento principale del lavoro è quello di ritrovare la possibilità di una ontologia non sostanzialistica. E per farlo bisogna rivolgersi ai testi che perlopiù la filosofia occidentale ha pensato come l’origine del sostanzialismo, ovvero appunto, Aristotele, mostrando in ciò tutti i limiti non tanto della filosofia aristotelica, che va semmai liberata da quell’immagine sostanzialistica, quanto soprattutto delle diverse forme di aristotelismo che attraversano l’intera filosofia occidentale fino alle sue varianti odierne. Ciò che l’indagine intorno all’idea aristotelica di filosofia porta innanzitutto in superficie è il carattere peculiarmente umano della filosofia, il suo essere radicata nella struttura complessa che caratterizza il modo d’essere dell’uomo, ovvero il suo essere un impasto mai risolto di tendenze oressiche e capacità noetiche10. Il filosofare è in questo senso per l’umano espressione di una sorta di bisogno originario: «all’uomo il filosofare è imposto dalla nativa órexis del sapere: esso è qualcosa di sorgivo e come tale non può venire inculcato, ma se mai acceso; e nemmeno è possibile sradicarlo»11. Alla base del theorein filosofico c’è dunque una órexis, un impulso, ovvero – e questa è una parola chiave del lessico lugariniano – un bisogno. Fuori dal suo radicamento in questa órexis originaria, fuori cioè dal suo emergere da un bisogno che coinvolge l’essere dell’umano nella sua integralità, il theorein filosofico rischia di perdersi, di smarrire il proprio senso, di rivelarsi qualcosa di simile all’immagine del Socrate aristofaneo delle Nuvole. Il radicamento del theorein nella órexis è cioè, secondo Lugarini, sia ciò che impedisce il distacco dalle cose, la separazione dal mondo della vita, sia ciò che rivela da subito i limiti di un atteggiamento intellettualistico che parla delle cose da fuori, pretendendo di non essere da esse coinvolto.
L. Lugarini, Aristotele e l’idea di filosofia, cit., p. 3. Cfr., su questo, F. Chiereghin, Possibilità e limiti dell’agire umano, Marietti, Genova 1990. 11 L. Lugarini, Aristotele e l’idea di filosofia, cit., p. 276. 9
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La domanda che chiede l’essere dell’ente è l’espressione di questa órexis, e solo in quanto tale è la domanda che dà senso al filosofare. Tale senso, però, si articola solo se il pensiero che interroga l’essere non viene pensato come elemento esterno ed estrinseco rispetto all’essere stesso. Nel momento in cui pensiero ed essere vengono infatti separati, pensati cioè come l’uno altro dall’altro, la discorsività filosofica si separa dalle cose, le considera estrinsecamente e in questa divaricazione perde qualsiasi ancoraggio con il senso che pure la costituisce. La funzione della filosofia secondo Lugarini non è né quella di imporre dal di fuori un senso alle cose, né di essere il ricettacolo di un senso già dato al di fuori di essa. La filosofia è un disvelamento attivo, per cui essa, radicandosi nell’unità di pensiero ed essere, rivela un senso che non è da essa costruito e che tuttavia non è nemmeno autonomo rispetto all’attività disvelante che essa incarna. La funzione disvelante della filosofia si fonda dunque nel riconoscimento della non separatezza fra essere e pensiero, per spiegare la quale in riferimento ad Aristotele Lugarini usa espressioni niente affatto scontate: Cardine della mentalità in questione risulta cioè l’idea di una radicale omogeneità d’essere fra l’uomo ed ogni altra cosa, per la quale tutto ciò che è – l’ente, come tale e nella sua totalità – si presenta bensì differenziato e articolantesi in svariatissime guise, ma all’interno di un terreno unitario. Gli enti, diremo, nel loro multiforme essere ed apparire compongono una sterminata distesa; compongono, però, una distesa, nella quale rientrano gli uomini e gli animali e i vegetali e gli elementi semplici dei corpi e in genere tutte quante le cose. – Del disvelare inerente alla filosofia nel senso di Aristotele è perno l’idea di una loro omogeneità di fondo. Per tal ragione l’intellettualistico atteggiamento di distacco non lo infirma, o non sembra infirmarlo. Gli è invece di sostegno una maniera non- e pre-antinomica di pensare, esplicantesi nel tentativo di comprendere le differenze a partire dal loro unitario e non ‘differente’ fondamento originativo.12
Con questa idea della distesa, Lugarini sembra in qualche modo attribuire ad Aristotele una sorta, si direbbe oggi, di ontologia piatta. Con ontologia piatta (flat ontology) si intende, nell’ambito di quella che viene chiamata Object Oriented Ontology (OOO), una ontologia che non sia antropocentrica, in cui tutti gli oggetti – e dunque tanto il computer su cui sto scrivendo, quanto gli astri, tanto le lucertole al sole, quanto l’essere umano – sono oggetti allo stesso titolo, tutti coesistenti all’interno di un sistema (che secondo alcuni di questi autori avrebbe lo statuto dell’iperoggetto). In realtà l’ontologia aristotelica è una ontologia gerarchizzata, ma il riconoscimento dell’appartenenza di tutte le cose a un’unica distesa è proprio ciò che consente al pensiero di cogliere e afferrare quell’essere che rischia però in questo di non emergere – questo il limite di questa prospettiva – nella sua originaria differenzialità. 12
Ivi, p. 277.
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Non è perciò un caso se questa idea di una distesa unitaria delle cose che sono, e dunque di una coppartenenza originaria di essere e pensiero, viene a spezzarsi nella modernità. Spezzandosi, però, l’ente viene «pensato in primo luogo come oggetto di conoscenza, acquista il carattere dello ‘star di contro’ (del Gegen-stehen)»13. Il dominio dell’ente ne esce in questo modo come spezzato in due: «da una parte l’oggetto, dall’altra il soggetto di quel rapporto»14. All’interno di un tale contesto il problema diventa dunque la forma dell’accostamento dei due termini previamente disgiunti. Le grandi opposizioni moderne e contemporanee tra razionalismo ed empirismo, tra idealismo e realismo, e ancora tra concettuale ed empirico, tra a priori e a posteriori sorgono da questa separazione. La filosofia che ne segue, muovendosi dentro queste opposizioni, risulta del tutto incapace di mettere in discussione ciò che le origina e in questa incapacità tende giocoforza – ecco riemergere il daimon di Lugarini – in direzione dell’intellettualismo, in direzione cioè di una modalità discorsiva in cui il discorso sulla cosa è sempre qualcosa d’altro dalla cosa stessa. Ripartire da Aristotele e dall’interrogazione della sua idea di filosofia è per Lugarini un modo per mettere in questione ciò che il pensiero oppositivo non può mettere in discussione. Il confronto con Aristotele impone di considerare quella eterogeneità di essere e pensiero che costituisce il dispositivo dentro cui si muove tutto il pensiero moderno «una idea nostra, costitutiva di un certo modo di pensare, piuttosto che un dato di fatto attinto all’ordine delle cose»15. E tuttavia, ricominciare da Aristotele non significa per Lugarini banalmente ritornare ad Aristotele. Certo Aristotele non è il sostanzialista che spesso la tradizione ha ritenuto che fosse e a cui molta filosofia contemporanea è ancora connessa; ma in Aristotele, secondo Lugarini, agisce un’idea di episteme elaborata in relazione ai saperi particolari, che tuttavia determina il modo in cui si pensa la filosofia stessa e nella quale si celerebbe quel germe dualizzante che trova poi esplicitazione nelle filosofie della modernità. Questo, secondo Lugarini, allontana Aristotele da quel pensiero delle cose stesse che pure trova in Aristotele stesso una sua radicale giustificazione. Nelle righe finali della conclusione del suo libro su Aristotele, Lugarini scrive: Sì che non l’ente – non le cose, le ‘cose stesse’ – funge da unica guida e unico metro del filosofare ideato dallo stagirita: entro certi limiti il rapporto di dipendenza tra filosofia e scienze particolari appare capovolto. Ma che non siano le cose stesse l’unica guida e l’unico metro comporta implicazioni estreme. Fa sì che almeno in linea di principio il ‘discorso’ filosofico stia di qua dalla loro dimensione e
Ibidem. Ibidem. 15 Ivi, p. 278. 13 14
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che filosofando la parola non sia lasciata, in tutto e per tutto, alle cose stesse. Ne proviene un modo di pensare già dualizzante e intellettualistico.16
Non è qui il luogo per discutere l’interpretazione lugariniana di Aristotele. Ciò che preme sottolineare è invece questo: se Aristotele secondo Lugarini non assolve pienamente l’istanza di aderire «da cima a fondo alle cose», dall’altro lato è invece proprio Aristotele colui che indica la via di un filosofare che «avvenga teoreticamente e che, dunque, si radichi in un tipo di pensiero il cui movimento sia imposto dalle cose stesse e abbia ad unico sostegno il loro proprio rigore ed il cui orizzonte, pertanto, coincida con la loro peculiare dimensione»17. La filosofia aristotelica è cioè, per Lugarini, l’emblema di un pensiero delle cose radicato nel modo d’essere delle cose stesse, l’esempio da seguire di un pensiero tutto orientato zu den Sachen selbst, che non pretende di imporre alle cose strutture noetiche ad esse estrinseche. In qualche modo Aristotele diventa, per Lugarini, la via di accesso a Hegel. 4. Oltre l’ontologia: Hegel Non è evidentemente una circostanza priva di significato, sulla base del percorso che si è sin qui tratteggiato, che tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 l’interesse di Lugarini nei confronti di Hegel si concentri non tanto sulla dimensione più specificamente speculativa della produzione filosofica hegeliana, quanto invece su quei testi che segnano il passaggio di Hegel da un pensiero non ancora esplicitamente filosofico e tutto centrato – come recita il famosissimo testo della lettera a Schelling del 2 novembre 1800 – sui bisogni più subordinati degli uomini in direzione di un pensiero invece decisamente filosofico, in cui quei bisogni, e con essi l’ideale di una loro comprensione e di un loro oltrepassamento, dovevano trovare articolazione scientifica all’interno di un sistema. Il titolo del lavoro lugariniano è emblematico: Hegel dal mondo storico alla filosofia; ovvero, detto diversamente: dai bisogni concreti al pensiero, dalle istanze che abitano la fatticità dell’esistenza e della storia alle forme del pensiero che sono in grado di comprenderle, di porsi, appunto, come orizzonti di comprensione dell’essere e quindi della realtà e del mondo. Verrebbe quasi da dire che Lugarini legge nel percorso hegeliano lo specchio di quel daimon che segna tutto il suo impegno scientifico. Nel cogliere il passaggio da un’analisi dei bisogni alle strutture teoretiche dentro cui quell’analisi dovrebbe trovare la sua più radicale elaborazione, Lugarini è infatti tutto teso a cogliere il legame profondo che connette le più ardite astrazioni teoretiche con l’effettualità del mondo della vita che già aveva attraversato la 16 17
Ivi, pp. 278-279. Ivi, p. 279.
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sua critica della dialettica trascendentale kantiana e la sua critica al modello epistemico aristotelico in nome di quel radicamento del theorein nella órexis che Aristotele ha svelato essere la condizione di senso della filosofia. Il lavoro lugariniano sugli scritti non ancora speculativi di Hegel, sui suoi primi tentativi di sistema, e dunque alla fine sulla Fenomenologia dello spirito, non vuole infatti essere semplicemente un lavoro di ricostruzione genetica, quanto piuttosto un tentativo di cogliere, in questa genesi, il senso stesso del filosofare hegeliano, «il senso del successivo accedere di Hegel […] alla pura speculatività del filosofare»18. Queste infatti le domande che reggono e giustificano il percorso sul quale Lugarini si impegna: per quali ragioni, e secondo quali direttive, Hegel è proceduto da un iniziale piano etico-storico ad un piano strettamente filosofico? E che significato mutua da questa sua derivazione la filosofia hegeliana, in quanto tale e precipuamente come filosofia speculativa?19
Le domande di Lugarini non sono domande che si risolvono evidentemente sul piano storico ricostruttivo; sono piuttosto domande che investono la dimensione esistenziale di colui che si decide per la filosofia – che coinvolgono il Weltbegriff della filosofia, avrebbe detto Kant –, che toccano dunque certamente la dimensione metafilosofica in relazione alla possibilità della filosofia di procedere alla giustificazione di se stessa, ma che implicano anche questioni pratico-politiche relative alla possibilità o meno della filosofia di agire nella concretezza storica20. Ciò che Lugarini intende mostrare, incuneandosi dentro i percorsi che portano Hegel dall’analisi del mondo storico e della sfera dei bisogni concreti alla filosofia, è infatti l’idea di una continuità di fondo – essenziale, costitutiva e niente affatto occasionale – tra questi due livelli del discorso. La filosofia in Hegel è cioè, secondo Lugarini, risposta a un bisogno concreto, storico ed esistenziale, movimento che sorge da quell’órexis che Aristotele aveva mostrato essere la scaturigine profonda della domanda speculativa. L’idea di Lugarini è insomma che la filosofia di Hegel, anche e soprattutto nelle sue vette speculative, sia comprensibile solo se si tiene conto che essa è la risposta scientifica, e dunque speculativa, rispetto a un’esperienza concreta, ovvero rispetto a quello stato di scissione e lacerazione tipico del mondo moderno che ha caratterizzato l’indagine hegeliana negli anni giova18 L. Lugarini, Hegel dal mondo storico alla filosofia, nuova ed. riv. con tre appendici, Guerini e Associati, Milano 2000, p. 14. La prima edizione del testo è stata pubblicata dall’editore Armando, Roma 1973. 19 Ibidem. 20 Si veda, su questo, L. Lugarini, Critica del finito e rifondazione della società in Hegel tra Francoforte e Jena, in L. Lugarini - M. Riedel - R. Bodei, Filosofia e società in Hegel, a cura di F. Chiereghin, Verifiche, Trento 1977, pp. 7-33.
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nili. Ciò che Lugarini intende cioè mostrare – ed è qui di nuovo evidente il daimon intorno al quale si sta indugiando – è che la filosofia di Hegel, lungi dall’essere un tentativo di imbrigliare il mondo dentro un sistema confezionato a livello puramente intellettuale, è invece una risposta a esigenze che sono tutte interne al mondo della vita, alla dimensione concreta dell’esistenza, alla durezza della storia: Il bisogno della filosofia coincide allora col bisogno inerente alla vita umana di riprendere la forma dell’intero: un modo d’essere grazie al quale gli uomini si riconoscano l’un l’altro e per ogni verso come soggetti, membri di una comunità di «viventi».21
In radicale coerenza con questa impostazione, il grande lavoro lugariniano del 1998 sulla Scienza della logica di Hegel – lavoro che ha quasi l’aspetto di un commentario o comunque di un attraversamento rigoroso delle diverse sfere in cui si articola la logica hegeliana – prende le mosse dalla questione dell’Entzweiung, dalla questione cioè della scissione intesa come tratto caratteristico dell’epoca moderna. La Scienza della logica è infatti, per Lugarini, certo l’articolazione di un nuovo modello di razionalità, la quale deve essere in grado di superare dall’interno quella scissione che è evidentemente il prodotto di un pensiero intellettualistico e dualizzante; ma per articolare questo nuovo modello di razionalità, ovvero per essere il dispiegamento di un pensiero che si pone al di là della scissione, la Scienza della logica non può che essere anche una metafisica, una filosofia prima, ovvero un discorso intorno all’essere dell’ente. La connessione di logica e ontologia è il tratto della logica hegeliana che Lugarini non si stanca mai di sottolineare. E questo perché, a me pare, quella connessione è appunto ciò che consente di pensare un pensiero delle cose che non sia né un’imposizione di requisiti categoriali a un essere esterno, che in quanto bisognoso di un principio d’ordine che arriva da fuori sarebbe dunque di per sé del tutto informe, né lo specchio di un essere già pienamente strutturato indipendentemente dall’attività disvelante del pensiero. La Scienza della logica di Hegel può essere compresa, secondo Lugarini, solo come una riarticolazione al culmine della modernità della domanda da cui origina il pensiero greco, la domanda intorno all’ente in quanto ente, ovvero di quella domanda che trova la sua radice, secondo Aristotele, nell’órexis umana. Questa riarticolazione non ha però i caratteri della ripetizione, ma dell’oltrepassamento. La Scienza della logica hegeliana, infatti, soprattutto nella sua terza parte, la Dottrina del concetto, porta, secondo Lugarini, l’ontologia oltre l’ontologia, ovvero decostruisce un determinato modello di ontologia, conduce cioè l’ontologia fuori da una sua pretesa di consistenza autonoma e indipendente rispetto allo svolgersi delle determinazioni logiche dentro cui l’essere viene disvelato. In Hegel, dice Lugarini, la 21
L. Lugarini, Hegel dal mondo storico alla filosofia, cit., p. 15.
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considerazione ontologica della realtà tramonta; «ma il tramonto non significa vanificazione»22, bensì possibilità di riarticolazione di quel discorso all’interno di una cornice razionale rispetto alla quale il mondo si rivela non come un dato, come qualcosa che è già là fuori indipendentemente dal pensiero, ma come qualcosa che assume la sua specifica configurazione e la sua specifica realtà solo con e nel pensiero. Pensiero che non è però semplicemente la proprietà di un soggetto, che non è cioè una protesi attraverso la quale il soggetto porta dentro se stesso una realtà ad esso esterna, ma che è invece trama razionale della realtà stessa, orizzonte, verrebbe da dire, dentro cui si muove tanto la soggettività che si apre al mondo quanto il mondo che, proprio perché stagliato dentro quello stesso orizzonte, è aperto alla comprensione del soggetto. Per questo, secondo Lugarini, Heidegger, nel suo considerare Hegel come l’apice della metafisica moderna della soggettività, non si pone davvero all’altezza del pensiero hegeliano, in quanto non coglie quello sforzo, forse non pienamente realizzato e tuttavia radicale, di pensare la soggettività del pensare al di là del soggetto, ovvero di pensare la connotazione radicalmente antisoggettivistica della hegeliana soggettività del pensiero. 5. Conclusione: al di là di ontologia ed epistemologia Il problema del senso della filosofia, si è detto, costituisce la questione che attraversa tutta la prassi scientifica di Leo Lugarini. Il suo straordinario lavoro di analisi e interpretazione di alcuni dei momenti decisivi della tradizione filosofica (Aristotele, Kant, Hegel, Heidegger, ma anche, seppure in modo diverso, Husserl, Cassirer, Natorp) è tutto coerentemente orientato a cogliere la connessione tra lo sforzo teoretico della filosofia e il problema vitale a cui tale sforzo risponde, nella convinzione che fuori da questa connessione – quella tra il mondo della vita e la teoria, tra i bisogni dell’epoca e la sua elaborazione scientifica – la filosofia diventi sterile esercizio intellettualistico che, proprio in quanto intellettualistico e dunque tutto attento alla sola coerenza interna del suo procedimento, perde di vista le cose, ovvero la realtà e il mondo. Pensare le cose, pensare la realtà e pensare il mondo non significa però per Lugarini considerare le cose, la realtà e il mondo come qualcosa che semplicemente sussiste e sta lì, fuori dal pensiero, e che il pensiero deve cercare di afferrare. Le cose, la realtà e il mondo sono ciò che sono solo in quanto sono immerse dentro una rete di relazioni che non è mai solo cosale, reale e mondana. La rete di relazioni che consente alla cosa di essere cosa, alla realtà di essere realtà e al mondo di essere mondo è infatti la logica delle cose, della realtà e del mondo; è cioè un logos, un pensiero. Logos e pensiero che 22 L. Lugarini, Orizzonti hegeliani di comprensione dell’essere. Rileggendo la «Scienza della logica», Guerini e Associati, Milano 1998, p. 432.
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non sono semplicemente una facoltà del soggetto che pensa, ma semmai ciò dentro cui e in cui il soggetto pensa, ovvero sono – per usare la felice espressione di Lugarini che lo accompagna dal testo sull’idea di filosofia in Aristotele fino a quello sulla Scienza della logica hegeliana – l’orizzonte di comprensione, ciò dentro cui possiamo pensare quell’essere che non è mai riducibile né a soggetto, né a oggetto. Questo orizzonte, e dunque questo pensiero, è ciò che a partire dal soggetto va al di là del soggetto. È cioè nel pensiero e con il pensiero che il soggetto trascende i limiti soggettivistici della sua esperienza della cosa e può dunque aprirsi alla realtà e alla cosa per ciò che essa effettivamente è, ovvero può aprirsi a quel mondo che la coscienza soggettivistica esperisce sempre come un alcunché di contrapposto e separato rispetto ad essa. Un al di là del soggetto che non è però mai, secondo Lugarini, una sostanza o una dimensione che esiste indipendentemente dal soggetto. L’al di là del soggetto si costituisce e si manifesta infatti solo nella dinamica relazionale che connette il soggetto al mondo e il mondo al soggetto, per cui esso non è né una proiezione del soggetto, quasi che la realtà e il mondo fossero banalmente riducibili a simulacri della soggettività, né qualcosa che abita uno spazio radicalmente altro da quello che abita la stessa soggettività. Considerare il pensiero e le cose, il pensiero e la realtà, il pensiero e il mondo dentro relazioni dinamiche che impediscono il sedimentarsi tanto della soggettività (e dunque della dimensione epistemologica del discorso filosofico) quanto dell’oggettività (e dunque della dimensione ontologica del discorso filosofico) in strutture autonome e indipendenti l’una rispetto all’altra, significa riconoscere la possibilità di un discorso intorno alla realtà che non si riduce né all’ipotesi di un soggetto che attraverso azioni noetiche più o meno efficaci elabora una struttura concettuale che una volta applicata alla realtà la renderebbe così razionale, né all’ipotesi di un soggetto che semplicemente rispecchia in sé, passivamente, una struttura razionale che abiterebbe il mondo indipendentemente da lui. Rispetto a queste concezioni della filosofia riconducibili a forme di costruttivismo soggettivistico o di ontologismo realistico, Lugarini pensa la filosofia, sulla scorta di Aristotele, di Kant, di Hegel e di Heidegger, come attività disvelante, ovvero come pensiero che rende possibile alla cosa di rivelarsi per ciò che essa è. Uno svelare in cui a sua volta si svela l’intima coappartenenza del pensiero e dell’essere, la quale solamente rende possibile all’órexis dell’umano di farsi theorein filosofico, all’esperienza concreta di farsi categoria di pensiero e al dolore del bisogno di farsi concetto.
Un Maestro di nome Leo Lugarini Giannino Di Tommaso
Per quanto mi sforzi di circoscrivere il ricordo di Leo Lugarini ai soli aspetti scientifici della sua personalità di studioso, non riesco tuttavia a separarli nettamente da quelli del professore dallo stile autorevole e inconfondibile, che ho avuto la fortuna di seguire nel corso dei densi e memorabili anni del suo insegnamento presso l’Università dell’Aquila. Parlerò, allora, di lui in questa forma “contaminata”, aggiungendo, con un velo di nostalgia, che egli ha insegnato a L’Aquila in una stagione felice e irripetibile che, per una fortunata congiuntura, vi ha visto operanti insieme con lui gli ancora giovani, ma già affermati, Carlo Sini e Vincenzo Vitiello: la loro contemporanea e sinergica presenza ha contribuito a conferire slancio duraturo alla piccola sede di provincia, consentendole di guadagnare un posto onorevole tra le università italiane ben qualificate. *** Ho conosciuto Lugarini frequentando un suo corso sulla Fenomenologia dello spirito e il fascino delle sue lezioni determinò i miei futuri orientamenti, a partire dall’argomento della tesi di laurea. La sua presentazione del pensiero del giovane Hegel apriva a noi studenti inattesi orizzonti, che andavano via via precisandosi fino al salto qualitativo che segnala l’avvenuta conquista di una nuova prospettiva. Solo dopo la comprensione dell’Introduzione alla Fenomenologia, che ci ha dischiuso grazie a un commento dettagliato e approfondito, abbiamo scoperto che egli agiva, nei nostri confronti, applicando concretamente quel metodo cui veniva introducendoci: porsi dalla prospettiva del “per noi”, di chi già conosce l’itinerario che si appresta a ripercorrere, lasciando al “per lei”, alla nostra ancora un-erfahrene coscienza, l’impaziente curiosità propedeutica al sorgere di ogni “nuova figura”. Il dissolversi della opinata verità immediata, il suo degradarsi a traballante certezza inghiottita dall’abisso del dubbio, a sua volta in procinto di trapassare nella disperazione, sono, com’è noto, altrettanti stadi conoscitivi e sta-
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ti d’animo che si succedono, intimamente fusi, lungo il travagliato incedere della coscienza naturale verso il compimento della scienza. Quella medesima “situazione emotiva” accomunava noi studenti, catturati dall’avvincente esposizione del pensiero di Hegel che Lugarini ci offriva; avremmo capito in seguito che eravamo stati gli inconsapevoli protagonisti di un esperimento filosofico sapientemente condotto, il cui obiettivo era metterci in sintonia con l’irrequieto dispiegarsi non tanto di un pensiero, quanto di un pensare vivente, refrattario all’oggettivazione e accessibile solo se colto nella sua originaria unità con l’imprescindibile dimensione emotiva che sempre lo colora. *** Richiamerò soltanto alcuni degli innumerevoli e fecondi spunti di cui è ricca l’interpretazione hegeliana di Lugarini, attingendo a due degli importanti lavori dedicati al filosofo di Stoccarda, quello del 1973, Hegel dal mondo storico alla filosofia, e quello del 1986, Prospettive hegeliane1. Prenderò le mosse dalla fase iniziale del suo rapporto con Kant, l’Autore con il quale Hegel ha intrattenuto una costante Auseinandersetzung, caratterizzata dal riconoscimento dei suoi meriti immortali, ma anche da riserve e critiche perfino aspre. Egli ha condiviso il giudizio entusiastico di Reinhold, di Fichte e di Schelling circa la validità della filosofia critica sul piano dei risultati, ma ne ha tratto un diverso orientamento: anziché andare alla ricerca dell’ancora mancante principio primo del sistema, come hanno fatto i suoi illustri contemporanei, Hegel è piuttosto interessato alle ricadute pratiche della filosofia kantiana e, come sottolinea Lugarini, considera prioritaria la concreta applicazione dei suoi importanti risultati nell’ambito della vita degli uomini. Il tema della dignità e della libertà come elementi costitutivi della natura umana, la presenza in noi della legge morale quale garanzia e suggello dell’una e dell’altra corrispondono, secondo Hegel, a un bisogno profondo e impellente del tempo, che Kant ha avuto il merito immortale di imporre all’attenzione generale, non come argomento di discussione teorica, ma come obiettivo da realizzare storicamente. E tuttavia la stessa legge morale, che per un breve periodo ha rappresentato per Hegel l’espressione più autentica e adeguata alla natura umana, al punto da farne – secondo la felice espressione di Lugarini – un «metastorico paradigma», nonché un esoterico sottofondo del messaggio evangelico2, diviene ben presto sospetta per il residuo, 1 L. Lugarini, Hegel dal mondo storico alla filosofia, Armando, Roma 1973; nuova ed. riv., con tre appendici, Guerini e Associati, Milano 2000; Id., Prospettive hegeliane, Ianua, Roma 1986. 2 Mi riferisco, ovviamente, a Das Leben Jesu, composta nel corso del 1795 e contenuta in G.W.F. Hegel, Frühe Schriften I, in Id., Gesammelte Werke (= GW), Meiner, Hamburg 1968 ss., vol. I, pp. 205-278; tr. it., La vita di Gesù, in Id., Scritti giovanili, a cura di E. Mirri, Orthotes, Napoli-Salerno 2015, pp. 241-299. Nel seguito, i rinvii alla traduzione italiana verranno indicati tra parentesi tonde.
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perfino «rivoltante», di una «indistruttibile positività», frutto della scissione che essa insinua all’interno dell’uomo, conferendo a una sua facoltà (la ragione) il dominio su un’altra (la sensibilità). Hegel conferma, così, la tendenza ad allontanarsi da Kant, destinata ad accentuarsi e a coinvolgere anche altri rilevanti aspetti del suo pensiero. *** Privilegiando la parte pratica della filosofia kantiana, Hegel conferma, nel contempo, una indicazione che riguarda la propria impostazione filosofica, in particolare per quanto concerne la fedeltà ai bisogni reali degli uomini. Tale orientamento costituisce il filo conduttore che attraversa la sua intera speculazione ed è alla base della netta insofferenza di Lugarini nei confronti dell’accusa di astrattezza rivolta a Hegel, accusa alla quale contrappone l’emblematica dichiarazione contenuta nella celebre lettera a Schelling del 2 novembre 1800. Nel fare un bilancio della sua pregressa attività di ricerca, Hegel vi afferma di essere partito «dai bisogni più subordinati degli uomini», di essere attualmente occupato con la realizzazione del sistema e ancora impegnato a trovare la via per tornare «a far presa sulla vita degli uomini»3. Mentre raccoglie anch’egli la sfida epocale lanciata da Kant, di innalzare la filosofia a sistema unitario del sapere, Hegel non trascura di fissare con nettezza anche la peculiarità della propria posizione, caratterizzata dall’attenzione rivolta ai bisogni concreti degli uomini. Lugarini non solo apprezza tale impostazione, ma ne evidenzia il carattere rivoluzionario, chiosando: «Con un quarantennio di anticipo su Feuerbach, la filosofia viene vista nascere dalla non-filosofia»4. Una delle precoci acquisizioni emergenti dagli Scritti giovanili è la chiara consapevolezza di Hegel circa l’originaria connessione che sottende la totalità dei bisogni umani e di tutto ciò che, nel progressivo variare e affinarsi dei bisogni e dei modi di soddisfarli, viene concretamente costruito come opera collettiva, cui l’umanità intera è chiamata a collaborare. L’operare di ogni singolo individuo all’interno di un popolo o quello di popoli interi in prospettiva universale si intrecciano in modo così articolato e complesso, da rendere ardua sia la distinzione di quanto appartiene ai diversi attori, sia la scoperta della sotterranea linea di continuità che lega tra loro le trasformazioni che si succedono nel corso della storia. In vista di quegli obiettivi la funzione dello storico tradizionale, intento a ordinare gli avvenimenti su base prevalentemente
3 Lettera a Schelling del 2 novembre 1800, cit. in L. Lugarini, Hegel dal mondo storico, cit., p. 83. 4 L. Lugarini, Hegel dal mondo storico, cit., p. 87. Già in precedenza Lugarini aveva chiarito che è proprio il «trasporre sul piano filosofico la comprensione della storicità» a esigere, per Hegel, che il sorgere della sua filosofia proceda «dal rapporto non tanto con altrui dottrine ma più direttamente con la realtà umana e i sui specifici bisogni» (ivi, p. 53).
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cronologica, appare inadeguata alla luce di un nuovo, più radicale bisogno, di cui Hegel avverte e segnala l’urgenza e che, per essere soddisfatto, richiede l’azione di una figura non ancora emersa nel panorama filosofico del tempo e che egli introduce con l’espressione denkender Geschichtsforscher. *** Questa nuova figura fa la sua comparsa nel contesto in cui è in gioco la comprensione hegeliana delle cause che hanno determinato il configurarsi del mondo occidentale come esito del passaggio epocale dal mondo greco-romano, e ad essa viene ascritta la capacità di cogliere, nei fatti, le connessioni di carattere spirituale che li hanno determinati. Quelle cause, le interazioni e le complicate composizioni di forze che agiscono in dimensione sotterranea, insieme con il groviglio dei «mille fili» che legano tra loro gli avvenimenti e la totalità delle facoltà e delle esigenze degli uomini, divengono, così, l’arduo campo di indagine dello storico pensante, «che investiga i bisogni del tempo e che in essi, e nel loro trasmutare, scopre la primaria forza originativa dei mutamenti effettuali»5. Il carattere cangiante e in continua evoluzione di tale prospettiva mostra subito l’inconsistenza di ogni tentativo di ricondurre la spiegazione dei cambiamenti epocali a un’unica o a una pluralità di cause determinanti, e Hegel lo mostra in modo esemplare con il riferimento alla giustificazione, data dai cristiani, del soppiantamento della religione pagana da parte della religione di Gesù. Per quanto possa essere gratificante per i cristiani attribuire la causa di quel fenomeno di portata storico-universale alla superiorità di una religione matura e razionale (il cristianesimo), nei confronti di una religione infantile e di fantasia (quella pagana), tuttavia quel sentimento di compiacimento non può certo occultare il carattere meramente illusorio della spiegazione. Assumendo egli stesso il ruolo di storico pensante, Hegel indaga «lo spirito dei tempi», per scoprirvi l’origine della nascosta rivoluzione dalla quale è scaturita, una volta mature tutte le condizioni necessarie, la rivoluzione che ha prodotto la trasformazione di così rilevante impatto sul mondo reale. Lo storico in senso stretto non può conseguire tale risultato poiché, nella ricerca delle cause, si limita alla concatenazione dei fatti, lasciando fuori quadro quell’elemento essenziale che Hegel indica con le espressioni «spirito dei tempi» e anche «mondo degli spiriti», la cui efficacia è invece decisiva e può essere colta solo dallo storico pensante. In occasione delle sue approfondite indagini sulla positività della religione, Hegel aveva fatto una scoperta decisiva: volendo distinguere la religione popolare da quella positiva sulla base della rispettiva adeguatezza e non- adeguatezza alla natura umana, ne conseguiva la necessità di determinare l’essenza di tale natura, per poter procedere alla comparazione. Preso atto 5
Ivi, p. 49.
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della insufficienza della definizione tradizionale dell’uomo come animal rationale e della vacuità di ogni tentativo di circoscriverne la natura, data l’infinità dei predicati a ciò necessari, Hegel – forse anche grazie agli stimoli in tale direzione provenienti dagli scritti di Fichte e di Schelling – riconosce che l’uomo non è essere, bensì divenire, e che la sua natura vivente, com’egli dice con felice espressione, è «eternamente altra rispetto al suo concetto»6. Se l’essenza dell’uomo muta costantemente, soltanto la totalità di quei mutamenti, e cioè dei suoi diversi modi d’essere, potrebbe definirlo. Lugarini esprime l’acquisizione di tale consapevolezza da parte di Hegel con una impegnativa valutazione: «Nel passaggio dall’epoca pagana a quella cristiana muta, negli uomini, il loro modo d’essere»7, e quindi, aggiungiamo, il loro stesso essere, ora divenuto adatto a recepire una religione in precedenza del tutto estranea. Anticipando uno dei risultati più significativi della sezione Ragione della Fenomenologia8, già in questi testi giovanili Hegel congiunge e riconduce a unità originaria quel che la riflessione isola e contrappone: da un lato, le cause oggettive che determinano la connessione dei fatti e la loro influenza sul modo d’essere degli uomini; dall’altro, questo modo d’essere in quanto, a sua volta, causa delle trasformazioni che hanno luogo nel mondo oggettivo. Privilegiare in maniera esclusiva l’una o l’altra di tali componenti, ugualmente essenziali dell’operare umano, conduce inevitabilmente agli opposti e inconciliabili sistemi del puro meccanismo e della casualità assoluta. Lo storico pensante non si fa scoraggiare da quella contrapposizione e coglie, al di là e prima della divaricazione degli opposti, l’unità originaria dell’oggettività dei fatti e della libertà dei comportamenti umani. Perciò, come si è visto, Hegel indica come ambito della sua indagine il «regno degli spiriti», intendendo la dimensione nella quale la congruenza tra gli opposti intellettualistici non ha ancora ceduto il passo alla reciproca repulsione e inconciliabile estraneità. Mentre lo storico tradizionale si comporta in maniera analoga alla coscienza prescientifica della Fenomenologia, restando alla superficie dei fatti da spiegare, lo storico pensante si avventura nella profondità che l’occhio fisico non può esplorare e che è raggiungibile solo con l’apporto qualitativo del «pensiero», che vede con gli occhi della mente. In questo sostrato, accessibile con difficoltà anche alla nuova figura di storico, devono essere rintracciate le linee di tendenza che sono alla base dei cambiamenti ancora in nuce. Scoprire quelle forze nel loro sotterraneo agitarsi toglierebbe all’even-
G.W.F. Hegel, Der Begriff der Positivität, in Id., Frühe Schriften II, GW II, p. 353 (625). L. Lugarini, Hegel dal mondo storico, cit., p. 53 (corsivo mio). 8 Alludo alla parte della Ragione osservativa dedicata all’esame delle leggi dell’individualità, nella quale Hegel mostra come la contrapposizione tra la pura individualità e l’influenza esercitata su di essa dal mondo circostante sia il prodotto di un procedere intellettualistico, incapace di cogliere la vivente unità che le sottende: G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes (= Phän.), in Id., Werke, a cura di E. Moldenhauer e K.M. Michel, vol. III, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1970, pp. 226-232; tr. it. di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1960, vol. I, pp. 249-256. 6 7
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to traumatico che scatenano la capacità di cogliere di sorpresa i protagonisti. Se il denkender Geschichtsforscher facesse adeguatamente il suo lavoro, il movimento storico ne sarebbe influenzato, agirebbe su di esso e forse, nel caso, ad esempio, della Rivoluzione francese, gli obiettivi perseguiti sarebbero stati raggiunti per vie meno intrise di sangue, di crudeltà e di odio rispetto a quelle battute dalla storia. Tutti questi motivi, presi nella sinergica e mutua relazione, conferiscono spessore filosofico alla figura dello storico pensante, oggetto di particolare attenzione da parte di Lugarini anche per un altro motivo: in essa egli vede delineata la medesima funzione che Hegel svolge non solo negli scritti giovanili ma, e con maggiore consapevolezza critica, nella Fenomenologia e poi, nelle guise ad essa peculiari, nella Scienza della logica. Non si tratta, in proposito, di far agire retrospettivamente acquisizioni maturate solo più tardi, ma di prendere atto di un dato, che Lugarini esprime con queste parole: «Benché non vi [scil.: nella Fenomenologia] sia espressamente richiamata, la figura del denkender Geschichtsforscher emerge con ogni evidenza. Infatti, la ricostruzione delle vicende europee dall’epoca della polis fino all’età di Hegel non è se non la globale tematizzazione di sotterranei rivolgimenti, effettuantisi […] nel “regno degli spiriti” e tali da comandare, in profondità, l’andamento della storia»9. *** La particolare sensibilità di Hegel nei confronti dei bisogni umani non riguarda solo quelli «più subordinati», ma comprende anche l’esigenza, squisitamente filosofica, di sapere da dove tragga origine il bisogno stesso della filosofia. Lugarini richiama in più occasioni il capitolo della Differenz dedicato proprio a questo tema10, poiché considera particolarmente significativa la risposta fornita da Hegel alla domanda appena ricordata. Tale risposta, sulle prime, può lasciare disorientati per la novità che introduce, non soltanto rispetto a quella, classica, data da Aristotele, ma anche rispetto a tutta la tradizione filosofica, compresa la più recente. Nelle prime righe di quel capitolo Hegel afferma: «La scissione è la fonte del bisogno della filosofia», e solo successivamente passa a spiegare questa inusuale posizione: «Quando la potenza dell’unificazione sparisce dalla vita degli uomini e le opposizioni hanno perduto il loro rapporto vivente e la loro azione reciproca e guadagnano l’indipendenza, allora sorge il bisogno della filosofia»11. Per quanto possa suonare molesto all’orecchio del filosofo, la filosofia non è un elemento essenziale della L. Lugarini, Prospettive hegeliane, cit., p. 248, il rinvio è a Phän., p. 564 (II, 305). Cfr. G.W.F. Hegel, Differenz des Fichte’schen und Schelling’schen System der Philosophie, in Id., Jenaer kritische Schriften, GW 4, pp. 12-16; tr. it., Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, in Id., Primi scritti critici, a cura di R. Bodei, Mursia, Milano 1971, pp. 13-17. 11 Ivi, p. 14 (15). 9
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natura umana; non è nemmeno l’espressione casuale di un capriccio o di un orientamento individuale, ma emerge e s’impone nelle epoche di crisi, come esigenza di ristabilire l’armonia infranta. Il permanere di quel bisogno ai tempi di Hegel indica che le condizioni di vita degli uomini erano, in larga parte, ancora oppressive. Il modo in cui la filosofia a lui contemporanea cercava di restaurare condizioni di vita conciliata appare a Hegel inadeguato, in quanto imperniato sull’intelletto, la cui caratteristica è di consolidare le scissioni anziché superarle. Solo una radicale reimpostazione della Denkungsart in una direzione che comporti il superamento della riflessione e la pratica del pensiero speculativo, fondato non sull’intelletto ma «sugli inversi poteri della ragione», potrà consentire il progressivo affievolirsi e il finale estinguersi di quel bisogno e, con esso, della filosofia12. Lugarini osserva come il testo del 1801 riprenda il c.d. Frammento di sistema13 e affianchi alla riflessione l’operare della ragione che, agendo su di essa, la trasforma da riflessione intellettualistica in riflessione razionale, capace di «nientificare» tutte le determinazioni finite e, in ultima istanza, anche se stessa nella sua qualità di mera riflessione. La ragione, quale «potenza dell’unificazione», mira a togliere, aufheben le opposizioni, ma non nel senso di misconoscerle o eliminarle materialmente, bensì di negarle in senso dialettico: negazione parziale, ma anche conferma, come «fattore essenziale della vita», e innalzamento a un livello di vita armoniosa. Solo dopo che le opposizioni abbiano mostrato la loro fluida natura si potrà procedere a ripristinare la loro vivente relazione, aprendo così la via all’impegnativo compito che si va ormai delineando con sempre maggior chiarezza: costruire l’assoluto per la coscienza14. Si tratta di un orientamento di cui Lugarini segnala gli imminenti, importanti sviluppi che ne deriveranno a breve, forse anche per le sollecitazioni dall’ancora amico Schelling. *** Sono tanti gli aspetti e le suggestioni dell’originale interpretazione che Lugarini ha offerto alla Hegel-Forschung e che si potrebbero richiamare (come gli altri contributi a questo Forum testimoniano autorevolmente), ma concludo con la sintetica indicazione di un argomento che avrei avuto il ben 12 Il tema era stato toccato da Schelling nella Introduzione alle Idee per una filosofia della natura (1797) e già prima, nelle Lettere filosofiche su dogmatismo e criticismo (1795-1796), dove l’emergere della filosofia è l’effetto dell’uscita dell’uomo dall’assoluto. Nel primo dei due scritti la Trennung, la separazione, prende il posto della hegeliana Entzweiung e vi si legge l’apparentemente paradossale affermazione secondo cui «la filosofia lavora costantemente alla sua propria distruzione» (F.W.J. Schelling, Einleitung [zu den] Ideen einer Philosophie der Natur, in Id., Historisch-kritische Ausgabe, vol. I/5, Frommann-Holzboog, Stuttgart 1994, pp. 69-72: p. 72). 13 Si tratta del primo dei due brevi, ma importanti frammenti ai quali Nohl aveva dato il titolo complessivo di Systemfragment; nell’edizione critica è indicato come testo n. 63, con il titolo: Absolute Entgegensetzung…, in G.W.F. Hegel, Frühe Schriften II, cit., pp. 341-44 (616-19). 14 L. Lugarini, Hegel dal mondo storico, cit., pp. 92-96, in part. pp. 93-94.
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diverso piacere di proporre in maniera più estesa, se l’impietosa precarietà delle cose umane non avesse impedito a Lugarini di svilupparlo com’era sua intenzione fare. In una conversazione, nel cui ricordo rivivo con uguale intensità l’esperienza della sua cultura e della sua amichevole presenza, mi confidò le linee essenziali di un lavoro che stava progettando e che avrebbe dovuto mettere a tema il parallelo tra il mito platonico della caverna e le vicende della coscienza nella hegeliana Fenomenologia dello spirito. Come il prigioniero di Platone è appagato dalle rudimentali e solo parventi conoscenze che gli sono concesse nella sua nota, misera condizione e si oppone al liberatore perché non vuole rinunciare alle opinioni, che sono per lui tutto il suo sapere, cui è affezionato come parte integrante di quel che egli è, così la coscienza fenomenologica resta abbarbicata al suo sapere inconsistente, ma ritenuto verace, recalcitrando davanti al prospettarsi di una verità che minaccia di scalzare quella con cui anch’essa si identifica e la cui perdita equivale, per lei, alla disperazione. Lugarini mi accennò alla diversa condizione dei due protagonisti, accomunati però dall’uguale angoscia davanti alla violenza che subiscono e che vivono, a diverso titolo, come estranea. Anche questo aspetto avrebbe accresciuto l’interesse per un lavoro rimasto, purtroppo, solo nelle intenzioni. La mancata realizzazione di questo progetto può, ora, esser presa in due, antitetici modi: o come malinconica conferma dei limiti della nostra costitutiva finitezza, e allora varrebbe come perdita secca, nella forma di un vuoto non colmato; oppure come occasione e stimolo che spingano a realizzarlo. Chi dovesse assumersi quest’onere lo farebbe in una ideale staffetta con l’ideatore del progetto e saprebbe in anticipo di poter contare sul suo tacito plauso di raffinato studioso di Platone e di Hegel, due giganti della filosofia che, al di là dei secoli e delle notevoli diversità che li separano, condividono sorprendenti e profonde affinità e la cui eredità Lugarini ha contribuito a rendere fruttuosa.
“Er lebt in Hegels Logik” Ricordando Leo Lugarini nel centenario della nascita Vincenzo Vitiello
La logica trascendentale kantiana, il libro con cui Leo Lugarini esordì nel 1950 sulla scena della filosofia italiana, è il testo al quale mi sento, col trascorrere del tempo, sempre più profondamente legato. E non tanto per i ricordi, che in me risveglia, di anni lontani e per la mia formazione decisivi, quanto per ciò che, muovendo da questo libro, ho “maturato” nel corso d’una vita. Termino, invero, dove il mio Maestro d’elezione aveva iniziato. Di questo intendo qui parlare, non senza, però, esprimere dapprima a Luca Illetterati la mia gratitudine per la proposta, da lui avanzata e unanimemente accolta dalla Direzione, di dedicare a Leo Lugarini, nel centenario della nascita, un Forum sulla Rivista ch’egli diresse per circa cinquant’anni. 1. Lessi La logica trascendentale kantiana1 verso la fine degli anni Sessanta. Rimasi colpito dal modo in cui Lugarini, spiegando e “criticando” la Critica della ragion pura, “praticava” la filosofia. Capii allora quale cambio di passo, quale svolta del pensiero, richiedeva la comprensione della logica trascendentale. Per dirla in breve, feci esperienza del fatto che la filosofia non si narra, si costruisce; e si costruisce sulla base di una domanda che pro-voca il pensiero, lo “libera”. In ciò la differenza tra la storia filosofica della filosofia dalla pura erudizione storica, dalla storia della filosofia senza problema filosofico. Quale la “domanda” che è all’origine dell’interesse di Lugarini per la logica trascendentale di Kant? La risposta dell’Autore è già nelle pagine iniziali del libro: è la domanda “antica” sul rapporto tra pensiero noetico e pensiero dianoetico, in cui, con Platone e Aristotele, trovò la prima formulazione filosofica il rapporto tra essere e pensiero. Il “problema” che Lugarini affronta trattando della logica trascendentale è dunque sorto nella Grecia antica. Non è dunque esagerato dire che i veri “interlocutori” di Kant – più che Wolff e
1 L. Lugarini, La logica trascendentale kantiana, Principato, Milano-Messina 1950 (nelle citazioni dei passi userò la sigla Ltk).
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Crusius, Lambert, il grande Leibniz e sull’altro fronte Locke e il sempre citato Hume, e poi Mendelssohn, Herder, Maimon, ecc. – furono Platone e Aristotele. È lì, in Grecia, che è sorto il problema della “logica”, il problema, cioè, del rapporto tra pensiero ed essere. Della “logica”, o della “gnoseologia”? Del pensiero come verità dell’essere in quanto tale, o della nostra, umana, conoscenza dell’essere? Non a caso il libro di Lugarini inizia col Teeteto, il primo passo dell’itinerario che condusse dalla gnoseologia alla logica, dall’analisi dell’apprensione umana del vero alla verità in sé (kath’hautó), e quindi alle “aporie” del rapporto del Tutto col molteplice, dell’Eterno col tempo, della Quiete col movimento. Dell’Essere col Pensiero. Scrive Lugarini: «Il problema di Kant è innanzitutto quello gnoseologico, ma in quanto introduzione alla metafisica». Il lettore “tradizionale” della Critica della ragion pura non può non arrestarsi perplesso davanti a questa tanto decisa affermazione, che terminava legando ancor più la Critica al Teeteto, la logica kantiana al «lógos che il Maestro greco aveva additato quale necessario complemento della “retta opinione”» (Ltk, p. 13). Viene spontaneo chiedersi: ma la Dialettica della ragion pura non è volta alla dimostrazione dell’impossibilità della Metafisica come scienza, pur nel riconoscimento della sua ineludibilità come “esigenza” dell’umana ragione? Invero il “disegno” di Lugarini nel comparare Kant a Platone è ben più complesso. Anzitutto non indica un successo, ma proprio il contrario. Non meno di Kant, la hodós di Platone dalla gnoseologia alla logica non raggiunge la meta: il pensiero noetico delle “idee” resta diviso dall’apprensione dianoeti ca delle “cose” – diviso dall’esperienza del mondo. Nóesis e diánoia, intui zione e intelletto discorsivo, riflessivo, restano separati – e non soltanto in Platone, sì anche in Aristotele. Insuperabile la divisione tra Cielo e Terra, tra la nóesis noéseos divina e la diánoia umana, che pure su quella poggia. È che l’Essere resta comunque diviso dal pensiero, altro da esso. E tanto altro che anche l’essere del pensiero si sottrae alla presa del pensiero – come dimostra il cogito ergo sum di Cartesio, e in particolare la sua correzione in sum cogitans, che non toglie, come pur vorrebbe, bensì accentua l’inderivabilità dell’esse del pensiero dal pensiero. Infatti, solo perché “già è” il pensiero può affermare l’innegabile certezza del suo essere. Chiaro l’intento di Lugarini: solo il pensiero che pone se stesso raggiunge l’essere, realizzando l’identità metafisica di pensiero ed essere, di essere e pensiero. Ma l’uomo non vive nella divisione, e della divisione, come con fertile fantasia Platone aveva spiegato nel Cratilo? Tra tutti gli animali (thería), sol uno infatti ha diritto al nome ánthropos, “uomo”, perché è il solo «che riflette e ragiona su ciò che ha visto» (anathreî kaì loghízetai toûto hò ópopen; Cratilo, 399c). Era l’affermazione della “doppiezza” dell’“essere- uomo”. Della doppiezza dell’identico che si conosce solo sdoppiandosi, e cioè solo nell’“A è A” del giudizio, dell’Ur-teil: la separazione originaria, che Lugarini è ben lungi dal negare nel riportarla all’unità. Ciò che nega è l’irriducibilità del doppio all’Uno, dacché il doppio “A” è tale solo nell’unità del
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giudizio (nell’esser-uno dei due). Chiaro l’influsso di Hegel, e poi di Gentile: il primo chiamato in causa sin nell’Avvertenza che apre la Logica trascendentale kantiana; il secondo citato ad esempio di effettiva attuazione dell’Io penso nella conclusione del libro: «Cogito ergo sum, è ancora la prima verità; ma diversamente che in Cartesio il sum deve essere effetto (il primo e decisivo effetto) del cogito, affermazione iniziale dell’essere, da cui ogni altra dovrà derivare e venire mediata» (Ltk, p. 359). Ma è un influsso che non porta chiarezza, ma “confusione”, perché la riconduzione dei “separati” all’unità, che in Hegel e Gentile Lugarini interpreta come il divenire stesso del pensiero, che ponendo sé pone il mondo – rectius: sé come mondo –, vista nella prospettiva di Kant è solo un’operazione estrinseca, l’imposizione di una “forma” concettuale a una “materia” altra e presupposta: la sensibilità. In breve: alla logica “produttiva” di Hegel e Gentile, al pensiero che pone l’essere, alla compiuta “metafisica” dell’idealismo, la logica trascendentale kantiana, mera gnoseologia, è impari: potrà pure essere una tappa necessaria per giungere alla verità, ma nella sua formulazione è solo conoscenza di ciò che all’uomo appare. Soggettiva Erscheinung: fenomeno d’essere, non ancora essere. Nel corso dell’analisi l’atteggiamento di Lugarini nei confronti del testo kantiano muta. È come se si estraniasse dal testo: più che cercare le motivazioni profonde della “posizione” di Kant di fronte al tema dell’essere, la “giudica”. Di qui la sua “critica” della Critica kantiana della ragione. Due i temi su cui s’appunta la sua critica. Il primo riguarda l’Estetica, il secondo la Deduzione trascendentale, e conseguentemente il concetto stesso di logica trascendentale. Ebbene, da queste critiche si può ricavare, per la comprensione non soltanto di Kant, ma della logica trascendentale tout court, molto più di quanto si trova in studi che vorrebbero essere più fedeli al dettato kantiano. 2. Cominciamo dall’Estetica. L’obiezione di Lugarini alla separazione kantiana dell’Estetica dalla Logica è del tutto condivisibile. E proprio dal punto di vista di Kant2. L’interpretazione della sensibilità come ricettività – che è il fondamento dell’Estetica kantiana – si basa sulla differenza soggetto/oggetto che ai sensi è affatto estranea, come la differenza vero/falso, e basti qui ricordare l’esempio classico del remo immerso nell’acqua, che alla vista “appare” spezzato (e per essa tale “è”). Questa riconduzione dell’estetica nell’ambito logico non toglie però la differenza tra l’immediatezza delle “intuizioni” di tempo e spazio, che vanno semplicemente esposte (erörtet), e il carattere “mediato” dei concetti dell’intelletto, che bisognano, invece, di dimostrazione (Deduktion); toglie bensì la scissione – non la “distinzione” – tra intelletto e sensibilità, Analitica ed Estetica. Con ciò si passa al secondo punto, al concetto di logica trascendentale. Diversamente dalla logica formale, che considera unicamente la correlazione dei concetti, la loro coerenza, indipendentemente dal loro riferimento 2
Cfr. Ltk, p. 110.
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agli oggetti, la logica trascendentale ha nel riferimento all’oggetto il suo fondamento originario e il suo telos. E ciò perché è una logica produttiva e non constatativa. Non dice, non enuncia; costruisce, edifica; e non con materiali già dati, e cioè a posteriori, bensì a priori, con forme proprie: “soggettive”. E qui bisogna intendersi sui termini impiegati da Kant: “soggetto” – non “Io”, bensì “l’Io”, meglio ancora: «Das: Ich denke»3, e cioè: «Ich, oder Er, oder Es (das Ding) welches denkt» (KrV, A 346 B 404) – è anzitutto il nome con cui Kant indica l’operare logico, l’attività produttiva del pensare, e solo dopo, e conseguentemente, l’“io” che ciascuno di noi è – accuratamente distinto, questo, quale fenomeno del mondo, dall’«Io stabile e permanente [das stehende und bleibende Ich]» (KrV, A 123), ovvero dall’autocoscienza trascendentale, che è “universale”, dovendo poter accompagnare ogni nostra rappresentazione, perché questa sia tale, e cioè: “cosciente”. In questa coscienza che deve poter accompagnare ogni nostra rappresentazione, per quanto il dovere sia necessario (müß e non soll: KrV, B 131-132), in questo Io penso che deve realizzarsi, che deve “essere”, e quindi già non è, Lugarini vede aspirazione al vero, “gnoseologia”, ma non Logica, non il Vero in atto. L’esteriorità del sensibile all’intelletto ne è la conferma, dacché Kant non è conscio della sua stessa ri(con)duzione a priori della sensibilità nella sfera della Logica. Di più: la stessa logica trascendentale non poggia su di sé, rinviando di necessità alla logica tradizionale. Infatti non tutte le conoscenze «sintetiche a priori» – rammenta Lugarini, citando Kant – possono definirsi “trascendentali”, bensì «soltanto quella onde conosciamo che e come certe rappresentazioni (intuizioni o concetti) vengono applicate e sono possibili esclusivamente a priori». Non sono quindi trascendentali le intuizioni spaziali della geometria, potendo dirsi «trascendentale soltanto la conoscenza dell’origine non empirica di queste rappresentazioni, e la possibilità che hanno tuttavia di riferirsi a priori agli oggetti dell’esperienza» (KrV, A 56 B 80-81). Sicché non è trascendentale l’“uso” della logica, bensì la conoscenza di questo uso. Stupefacente: Kant nega se stesso, ché non l’operare logico è trascendentale, ma la enunciazione dell’operare! Di questa contraddizione Lugarini dà un’ulteriore prova, citando il § 16 della Deduzione trascendentale, dove Kant afferma che l’appercezione sintetica, che caratterizza la conoscenza trascendentale, è sempre accompagnata da un’appercezione analitica, quantunque questa presupponga quella (KrV, B 135), ché certo se non v’è l’appercezione sintetica (il soggetto del giudizio: “A”), neppure può esservi l’enunciazione analitica dell’auto-identità della sintesi dell’appercezione originaria (e cioè, il giudizio che enuncia che “A è A”). Ma, aggiunge Lugarini, ribadendo quanto detto criticando il cogito cartesiano, la appercezione analitica, se è posteriore alla sintetica nell’enunciazione, 3 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft (= KrV), in Kants Werke. Akademie-Textausgabe (= Ak.), de Gruyter, Berlin-New York 1968, I ed. 1781 (= A) vol. IV, II ed. 1787 (= B) vol. III, B, § 16, p. 131.
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non lo è “nel fatto”: l’“essere” dell’appercezione sintetica, che l’appercezione analitica enuncia, non è certo “posteriore” ma coattuale alla sintetica. Vale a dire: l’Io penso kantiano, che costruisce il mondo fenomenico, non costruisce però il suo stesso essere in quanto potenza attiva, ma lo presuppone al modo stesso in cui il cogito ergo sum cartesiano presuppone il suo esse. Queste “obiezioni a Kant” rivelano il telos che ha guidato la ricerca filosofica di Lugarini in tutto il corso della sua vita: «l’identificazione di logica e metafisica» (Ltk, p. 9). Il libro su Kant rappresenta quindi l’experimentum crucis di questo progetto – la prova iniziale e fondamentale della necessità della sua conclusione. L’importanza della posta in giuoco e la radicalità delle critiche a Kant invitano a riprendere l’experimentum, tornando sui passaggi kantiani già citati per saggiare la possibilità, se non la necessità, di “altra” lettura. 3. Anzitutto alcune domande: la riconduzione dell’Estetica alla Logica, nel senso e con i limiti che si sono detti, lascia inalterata l’interpretazione della logica trascendentale? E cioè, è davvero trascendentale soltanto la conoscenza dell’operare logico e non l’operare logico stesso? Ed è l’appercezione analitica il presupposto della sintetica? Infine, è adeguata all’impostazione del pensiero di Kant la distinzione genealogia/logica? La riconduzione – sopra esposta – dell’Estetica alla Logica è solo il primo passo necessario alla comprensione del testo kantiano, il secondo e fondamentale è quello che già la Deduzione trascendentale della I edizione della Kritik – che per tradizionale errore d’interpretazione passa sotto il nome di “Deduzione soggettiva”4 – compie nella III parte, là dove mostra che tutte le nostre rappresentazioni (quindi anche le intuizioni sensibili) sono possibili se “coscienti”, ovvero: se e in quanto “correlate” all’appercezione pura, all’«Io stabile e permanente» che designa la coscienza trascendentale, o intelletto (KrV, A 123). Impossibile, allora, separare i sensi dall’intelletto5. Ne discende che intelletto, immaginazione, sensibilità non sono tre “elementi” dell’architettonica della ragione; sono bensì tre momenti di un unico processo: il processo della Deduzione trascendentale che consiste nell’auto-es-posizione (Selbst-Ausstellung) dell’intelletto nel suo farsi immagine e senso, nel suo farsi mondo. E cioè nel suo “oggettivarsi”. L’appercezione analitica che accompagna la sintetica non enuncia un “essere” presupposto alla sintesi del molteplice, perché questa sintesi è tale, “trascendentale”, perché non è pri-
4 “Fantasie” di interpreti che attribuiscono la Deduzione oggettiva alla II ed. della Kritik der reinen Vernunft, e la soggettiva alla I ed. – trascurando il fatto che Kant nella prefazione a questa afferma di aver messo da parte la Deduzione soggettiva per dedicare tutti i suoi sforzi alla oggettiva. Vero è che la deduzione soggettiva riguarda non il procedimento di oggettivazione del conoscere, bensì la condizione di possibilità della stessa facoltà di pensare («wie ist das Vermögen zu denken selbst möglich?»; KrV, A XVII), che è tema non della I, ma della II Critica (cfr. infra, la conclusione di questo paragrafo). 5 «[…] die Erscheinungen eine notwendige Beziehung auf den Verstanden haben» (KrV, A 119).
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ma di “farsi”. L’es-posizione vera del processo deduttivo – la sua “reale”, effettiva, wirkliche, enunciazione – non è la vacua auto-identità di un giudizio analitico enunciante: «Io penso “è” Io penso»; è bensì la sua “auto-costruzione” come mondo. La riduzione, compiuta nella II edizione della Kritik, della produktive Einbildungskraft da facoltà autonoma a momento dell’intelletto (KrV, B § 24, pp. 151-152), rende affatto evidente, con la centralità dello schematismo trascendentale, l’unità inscindibile di “processo” ed “enunciato” nell’es-posizione dell’architettonica costruzione del sapere che va sotto il nome di Deduzione trascendentale. E tuttavia… E tuttavia la logica trascendentale, pur non essendo gnoseologia, neppure è metafisica. L’identità pensiero-essere non è affatto raggiunta con l’oggettivazione dell’Io penso: il mondo che l’Io, il soggetto che opera, edifica, costruendo se stesso, è solo “fenomeno”, quello, cioè, che appare dalla prospettiva dell’osservatore, e non della cosa osservata qual è in sé e per sé (kath’hautó). Alla luce della Deduzione trascendentale, non v’è altro mondo che quello che si costruisce e che appare nella costruzione, il mondo dell’incessante cambiamento del tempo causale, prodotto dalla pluralità relazionale delle sostanze-forze (Substanzen-Kräfte) che non “occupano”, ma edificano lo spazio (KrV, Zweite Analogie, spec. A 204-211 B 249-256). Questo mondo, però, non è tutto il mondo. È solo il mondo visto dal suo interno, quindi sempre da una determinata prospettiva. La Totalità del mondo in sé (kath’hautó), l’essere assoluto del mondo, è sì un pensiero, noumenon, ma un pensiero “impensabile”. Impensabile, e non soltanto inconoscibile, dacché, oltre a esser privo di riferimento “sensibile” (id est: non è “oggetto” di possibile esperienza), in esso tutto e il contrario di tutto son pari. L’assoluta compiutezza (Vollständigkeit) della Totalità (KrV, A 415 B 443) implica insieme con l’identità del Tutto e della parte (della singola parte!) – ché se questa fosse altra dal Tutto, il Tutto non sarebbe Tutto, perché privo dell’esser-parte della parte – la loro radicale differenza, dacché il Tutto, che per contenere la parte dovesse essere identico a questa, sarebbe allora esso stesso in “altro” Tutto. Giustamente Kant afferma che della “cosa in sé”, cioè della cosa senza riferimento ad altro, del noumenon, nulla si può dire, neppure che è possibile o impossibile. Infatti è pura “indeterminatezza”. Eppure è pensiero. Pensiero ineludibile del limite della costruzione del mondo fenomenico, quindi della sensibilità e insieme del pensiero che in essa si attua. Infatti, proprio la “possibilità” del mondo fenomenico rinvia a un “ignoto alcunché” (ein unbekanntes Etwas; KrV, A 256 B 312). Pensiero da cui la gnoseologia – secondo Lugarini – deve liberarsi per costituirsi come logica metafisica, e cioè come pensiero che non presuppone nulla di ignoto, tanto meno il suo stesso essere, sorgendo esso uno actu con l’essere – o, meglio: come essere. Pensiero metafisico, che non pone l’essere, ma se stesso come essere; pensiero pensante l’essere che è dicendosi. Si spiega qui l’attenzione di Lugarini all’appercezione analitica: rendendola co- attuale all’appercezione sintetica, liberava questa dalla sua dipendenza dalla presupposizione dell’essere. Invero, però, dietro l’appercezione analitica della
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logica formale (scil.: del giudizio che afferma l’essere sintesi della sintesi) v’è ben altra “appercezione analitica”. L’appercezione analitica dell’Unità che è il presupposto d’ogni possibile unificazione. Unità che è “regola” d’ogni unificazione, ma che non partecipa a nessuna d’essa: Kant, infatti, non manca di sottolineare che questa unità presupposto d’ogni unificazione non va confusa con l’unità-categoria (KrV, B § 15, spec. pp. 129-131). Altrimenti detto: l’Uni tà qualitativa non categoriale sostiene e guida la deduzione in cui si mostra producendosi l’unificazione del molteplice, ossia l’edificazione dell’interno della Totalità-mondo, ma non partecipa ad essa. Si apre qui la voragine in cui precipita il “mondo fenomenico”: l’abisso della ragione. Ma diciamolo con le parole stesse di Kant: «La necessità incondizionata, di cui abbiamo bisogno in maniera così indispensabile, come dell’ultimo sostegno di tutte le cose, è il vero abisso [Abgrund] della ragione umana» (KrV, A 613 B 641). La Totalità in sé (kath’hautó) – di cui nel mondo fenomenico, ovvero: nella regione interna del Tutto, l’Unità che regge e guida ogni processo d’unificazione è “idea”, ma non “immagine”, non schema (dacché non è legata al sensibile: cfr. KrV, A 553 B 581) – è quella compiutezza, Vollständigkeit, in cui la possibilità stessa di tempo e spazio, movimento e processo, è negata alla radice, dacché in essa nichts geschieht (KrV, A 541 B 569), nulla accade, e nulla può mai accadere, o essere accaduto, perché tutto è già da sempre. Non è il trionfo dell’“essere”; è il tramonto della sua “signoria”. Nessun “parricidio”, quindi, ma, com’era più consono alla Nüchternheit di Kant, una precisa, “decisa”, definizione di confini. Va da sé che la “lettura” di Lugarini della Dialettica trascendentale procede in direzione opposta. Vedeva, egli, in essa il riconoscimento della “esigenza” che la gnoseologia, il processo di ricerca della verità, si elevasse a logica, traducendosi in processo di realizzazione della Verità – non però la sua realizzazione (Ltk, p. 338). Se si resta nell’ambito della Critica della ragion pura, e cioè della ragione teorica o speculativa, questa conclusione è inevitabile. Possiamo aggiungere che proprio parlando della “libertà” – il tema centrale della Dialettica trascendentale – Kant afferma che il suo intento non era quello di mostrare la sua realtà e neppure la sua possibilità, bensì solo la sua non contraddittorietà (KrV, A 557-558 B 585-586). C’è da chiedersi, però, se è possibile fermarsi alla “lettura” della I Critica, per capirne il senso, o non bisogna, proprio per intendere la Critica della ragion pura, far riferimento alla Critica della ragion pratica. Vero è che Kant sin nella prefazione della II Kritik, tenne a precisare che il «concetto della libertà costituisce la chiave di volta [Schlußstein] dell’intero edificio di un sistema della ragion pura, anche della speculativa»6. E infatti, la “spontaneità” dell’intelletto, la sua “operatività”, sulla libertà si basa: «Praktisch ist alles, was durch Freiheit möglich ist» (KrV, A 800 B 828). 6
I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, Ak. V, p. 4.
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C’è da chiedersi, allora, se quell’“esigenza” d’essere, che indica una mancanza, un’incompiutezza, non sia proprio il carattere essenziale della libertà, che non si può “predicare” che di un ente finito, limitato, e non solo riguardo al futuro – non ha futuro l’assoluto – sì anche rispetto al passato. La libertà è un fatto, meglio: un dono, dacché non per noi siamo liberi, se per scegliere la libertà, come per respingerla, dobbiamo già essere liberi. 4. Più volte nel corso degli anni ho proposto a Leo Lugarini di ripubblicare il suo libro kantiano, ottenendo sempre la stessa risposta: “Dovrei riscriverlo daccapo, ma non ho tempo”. All’obiezione che non un “nuovo” libro su Kant gli chiedevo di pubblicare, ma quello del suo esordio, per i problemi che poneva e più ancora per il modo in cui li poneva, ribatteva che non si riconosceva più in essi. Si era certo allontanato dalle radici “attualistiche” del suo Maestro, Giovanni Emanuele Barié, cui aveva dedicato il suo “Kant”, ma mi ostino a ritenere che il suo primo interesse per il pensiero kantiano non solo non si sia mai spento in lui – ricordo un suo corso aquilano degli anni Settanta sul tema –, ma, al contrario, sia stato all’origine delle sue opere maggiori, dall’Aristotele e l’idea della filosofia (1961), preceduto dal saggio Il principio categoriale in Aristotele e Kant (1956), magistralmente discussi da Carlo Sini nelle prime pagine di questo Forum, ai due libri hegeliani, Hegel dal mondo storico alla filosofia (1973) e Orizzonti hegeliani di comprensione dell’essere. Rileggendo la «Scienza della logica» (1998). Certo lo studio di Hegel negli ultimi anni lo assorbì totalmente. Mi piace ricordare a questo proposito un episodio. Due anni dopo il suo collocamento “fuori ruolo”, organizzai all’Istituto Universitario “Suor Orsola Benincasa” di Napoli un Convegno internazionale in onore di Leo Lugarini: tra i relatori stranieri, invitai due eminenti studiosi di Hegel, Otto Pöggeler e Félix Duque. Lugarini parlò per ultimo. Tenne a braccio, sbirciando tra gli appunti presi durante gli interventi che l’avevano preceduto, una relazione magistrale sulla Scienza della logica. Al termine dei lavori scambiai qualche parola con Pöggeler sull’esito del Convegno. Riferendosi alla relazione conclusiva di Lugarini, mi disse, con un sorriso d’ammirazione: “Er lebt in Hegels Logik”. Vero, verissimo, ma “vivere” la filosofia, facendo della sua pratica un abito di vita – questo Lugarini l’aveva appreso, tanti anni prima, da Kant.
RICERCHE E DISCUSSIONI
Il metodo e il posto della riflessione nella Critica della ragion pura di Kant Giulio Goria
1. Il metodo come problema È un’idea precisa quella con cui nel capitolo finale della Scienza della logica Hegel pone al centro la natura del metodo filosofico; a prendere la scena è quella sorta di capovolgimento virtuoso per cui il ritmo che fino a quel punto ha cadenzato lo sviluppo della scienza logica (e della logica come scienza) ora si trasforma nella sua tematizzazione completa e definitiva. È questo atto, quello che assume il metodo come il sigillo decisivo della scienza, che offre alla stessa scienza la statura sistematica che le compete. Infatti, secondo Hegel, la logica può avere una conclusione soltanto nel momento in cui il metodo implicito, che ha portato avanti l’articolazione dei contenuti logici della scienza, porta la scienza stessa ad avere una forma sistematica. Scriverà infatti nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio del 1817: «Un filosofare senza sistema non può essere niente di scientifico»1. Ciò che Hegel ha in mente può essere efficacemente colto seguendo il tratto principale del sapere filosofico. Esso fa la sua comparsa nei primi tre paragrafi di quell’opera e viene descritto come una particolare – e unica – esperienza di spaesamento e vuoto dovuta all’impossibilità, da parte della filosofia, di iniziare semplicemente con qualcosa di già dato nella rappresentazione, qualcosa che non richieda giustificazioni e messe in dubbio precedenti, come invece fanno tutte le altre scienze, nonostante anch’esse siano legate a esigenze sistematiche. Se dunque la filosofia assume il grado di scienza è soprattutto perché non c’è nulla ai suoi occhi che sia univocamente naturale, dato e immediato; e di conseguenza non c’è nulla che possa essere trattato come un presupposto punto e basta. Una disamina del significato hegeliano del metodo della
1 G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. Heidelberg 1817, a cura di A. Tassi, Morcelliana, Brescia 2017, § 7 An., p. 64.
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filosofia deve inevitabilmente partire da qui2. Una conferma, tra le tante che si potrebbero portare, proviene dalla prefazione alla seconda edizione della Scienza della logica; lì, infatti, viene in questione l’attitudine della logica a diventare sapere nella stessa accezione radicale e scientifica già attribuita alla filosofia. A questo proposito, Hegel, volendo abbandonare il retaggio “formalistico” della logica relativo ai modi del giudizio e alle categorie, scrive che «tanto è naturale all’uomo la logica»3, che tutto quanto entri nel linguaggio umano contiene, più o meno inviluppata e rozzamente presentata, una categoria. Chiaro è che qui la logica stia abbandonando i panni del semplice organon, per divenire un movimento riflessivo senza presupposti (voraussetzungslos)4. Ciò non significa affatto sottrarre alla filosofia la presa sulla realtà, relegandola in una dimensione astratta e purificata, ma, al contrario, conferire al gesto filosofico tutta la potenza trasformatrice che Hegel riconosce al pensiero e alla riflessione. Riflessione che, secondo il dettato della Dottrina dell’essenza, è nel suo stesso porsi un togliersi, nel darsi un fondamento da cui poter prendere inizio il tornare su quel presupposto per riconoscerne lo statuto di posto. Se dunque di un metodo si deve parlare a proposito della dialettica hegeliana, esso non è da intendersi come una serie di regole da applicare a un contenuto presupposto ed eventualmente sostituibile, ma come «il modo in cui i concetti da sé si sviluppano e richiedono di essere pensati»5. Lasciamo da parte il problema se questa radicale sospensione di tutte le nostre presupposizioni riguardanti l’essere e il pensiero, non contenga a sua volta ulteriori precomprensioni, a cominciare da quelli linguistici e grammaticali sui quali certamente dopo Nietzsche la filosofia non può più permettersi sottovalutazioni, e se infine la filosofia hegeliana sia in grado di portarli a esperienza (del concetto)6. Guardiamo invece al fatto che, prima della Scienza della logica hegeliana, la questione del metodo aveva già occupato l’ultima parte della Critica della ragion pura nella forma di una Dottri-
2 Su questo si vedano gli studi di Angelica Nuzzo, in particolare The Idea of ‘Method’ in Hegel’s Science of Logic. A Method for Finite Thinking and Absolute Reason, in «Bulletin of the Hegel Society of Great Britain», vol. 20, n. 39-40, 1999, pp. 6 ss.; più recentemente, anche Ead., Transcendental Philosophy, Method, and System in Kant, Fichte, and Hegel, in T. Rockmore - D. Breazeale (a cura di), Fichte and Transcendental Philosophy, Palgrave Macmillan, Houndmills et al.-New York 2014, pp. 58-68. Sul rapporto tra prima triade e metodo della Logica, cfr. il classico D. Henrich, Anfang und Methode der Logik, in Id., Hegel im Kontext, Suhrkamp, Berlin 2010, pp. 73-94. 3 G.W.F. Hegel, Scienza della logica, 2 voll., tr. it. di A. Moni, rev. di C. Cesa, intr. di L. Lugarini, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 10. 4 In merito a questo aspetto fondamentale della logica hegeliana insistono particolarmente due testi W. Maker, Philosophy Without Foundations. Rethinking Hegel, State University of New York Press, Albany 1994, pp. 99-100, e S. Houlgate, The Opening of Hegel’s Logic. From Being to Infinity, Purdue University Press, West Lafayette 2006, pp. 29 e ss. 5 S. Houlgate, The Opening of Hegel’s Logic, cit., p. 35. 6 Su questo, si veda L. Illetterati, Il sistema come forma di libertà nella filosofia di Hegel, in «Itinera», n. 10, 2015, pp. 41-63.
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na trascendentale del metodo. L’idea di una Methodenlehre, pur maturando inizialmente per Kant – anche attraverso una nutrita tradizione nell’ambito della quale spicca la Lehrart di Meier – all’interno di una allgemeine Logik, ha il suo esito più significativo nella prima Critica, dove prevale indiscutibilmente il problema architettonico legato all’organizzazione delle conoscenze e alla loro originaria struttura sistematica7. In questa sede, l’Architettonica della ragion pura, il metodo trova non tanto la sua più significativa illustrazione, quanto certamente il cuore pulsante del suo senso proprio; e anche qui, non per caso, il problema diventa quello della circolarità tra costruzione e progetto del sistema. Aprendo questa seconda parte della Critica, Kant definisce la dottrina del metodo come «la determinazione delle condizioni formali di un completo sistema della ragione pura»8. È però nell’Architettonica a emergere nella maniera più chiara come il sistema vada inteso a partire da un rapporto essenziale con il concetto di idea. Se, infatti, con struttura sistematica deve intendersi «un’unità di un molteplice della conoscenza sotto una sola idea»9, è questo ruolo preliminare dell’idea a venire in primo piano come perno del «concetto razionale della forma di un tutto, per mezzo del quale è determinato a priori sia l’ambito del molteplice sia la reciproca posizione delle parti»10. Alfa e omega della ragione, il sistema – o concetto della ragione assunta a scienza – racchiude il fine e la forma del tutto che ad esso corrisponde. Su di esso Kant scrive: Nessuno potrà mai tentare di costruire una scienza senza porre a suo fondamento un’idea. Ma, nella successiva elaborazione, molto raramente lo schema, e la stessa definizione che si dà all’inizio della scienza, corrispondono all’idea; e ciò perché quest’ultima è presente nella ragione come un germe in cui le varie parti si occultano, ancora inviluppate, e a mala pena riconoscibili dall’osservazione microscopica.11
L’idea è in questo caso un principio operativo che non richiede di essere interamente portato a coscienza o espresso come regola per poter adempiere alla sua funzione. E d’altra parte, lo schema che porta avanti il progetto di sistema non è un semplice artefatto dell’autore. Se così fosse, niente garantirebbe il risultato dall’essere un tentativo tecnico, una metodologia esteriore
7 Per un’analisi di questo percorso, si veda C. La Rocca, Methode und System in Kants Philosophieauffassung, in S. Bacin - A. Ferrarin - C. La Rocca - M. Ruffin (a cura di), Kant und die Philosophie in weltbürgerlicher Absicht. Akten des XI. Internationalen Kant-Kongresses, 5 voll., de Gruyter, Berlin-Boston 2013, vol. I, pp. 277-297. 8 I. Kant, Critica della ragion pura (= KrV), testo ted. a fronte, a cura di C. Esposito, Bompiani, Milano 2004, A 707-708 B 735-736. Le traduzioni sono lievemente modificate. 9 KrV, A 832 B 860. 10 KrV, A 832 B 860. 11 KrV, A 834 B 862.
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al contenuto. C’è infatti un diverso modo di progettare uno schema, a partire cioè dal fine principale della ragione, nel cui ambito esso è un prodotto che possiede l’articolazione sistematica e i confini della scienza. Ciò che Kant non spiega è come stringere insieme, secondo necessità immanente, questi due momenti. Non si ha nessuna certezza – né in realtà si potrebbe avere – di arrivare a piena esplicitazione del principio sistematico. A colpire, però, è come Kant valuta questo inciampo: lo scarto tra idea teleologica e relazione tra le parti non è un ostacolo, una battuta a vuoto del sapere, bensì la reale consapevolezza metodica della ragione, che le consente di trascendere ogni insieme dato di filosofemi, compresa la presentazione storica della filosofia trascendentale. Si apre così l’esigenza, tutt’altro che soltanto pedagogica, di distinguere conoscenza storica e conoscenza razionale, da cui deriva la nota tesi kantiana concernente l’impossibilità di imparare la filosofia. Poco di seguito, Kant aggiunge che i sistemi, oltre a essere sorti su un loro proprio schema, trovano però tutti il loro svolgimento sul terreno della ragione. Per questo essi non solo si articolano «ognuno per sé secondo un’idea», ma sono anche «tutti uniti a loro volta uno con l’altro come membri di un tutto»12. L’idea che consente di oltrepassare il dato storico di un particolare progetto filosofico, andando verso ciò che conferisce ad esso forma e senso, è paragonabile a ciò che, in una sede diversa per occasione ma non per materia trattata, come è la Streitschrift contro Eberhard, porta Kant ad accusare il suo avversario di un errore tipico di «qualche storico della filosofia»13 che non riesce a spingersi oltre la lettera delle parole per vedere cosa i filosofi (in questo caso Leibniz) abbiano voluto dire, finendo così per far dire ai loro autori semplici assurdità. Tanto che, nel corso di quello scritto, Kant propone un’interpretazione della filosofia di Leibniz per dimostrare che «la Critica della ragion pura potrebbe ben essere l’autentica apologia di Leibniz, anche contro i suoi seguaci che lo esaltano con lodi davvero poco onorevoli»14. Più che per le ragioni polemiche, la risposta a Eberhard ci interessa ora per via di una possibile lettura in controluce con la prima Critica. In particolare, perché in quest’ultima il luogo dove la filosofia leibniziana è fatta oggetto dell’analisi più approfondita è certamente la famosa Appendice dedicata all’«anfibolia dei concetti della riflessione». Lì questo elemento, così straordinariamente difficile da collocare all’interno della Critica, che è la riflessione trascendentale diventa il vettore su cui imbastire non un’espunzione della monadologia dall’edificio sistematico, ma un’accoglienza indiretta che passa dal suo più radicale ribaltamento, in particolare attraverso i concetti di materia e forma. Ecco perché, alla luce di quell’unità dei sistemi filosofici affermata dall’Ar-
KrV, A 835 B 863. I. Kant, Su una scoperta secondo la quale ogni nuova critica della ragione pura sarebbe resa superflua da una più antica, in Id., Contro Eberhard. La polemica sulla critica della ragion pura, a cura di C. La Rocca, Giardini, Pisa 1994, p. 137. 14 Ibidem. 12 13
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chitettonica, che deve essere ricercata da ogni autentica ispirazione proveniente dall’idea, si può ipotizzare come proprio la riflessione trascendentale assuma un ruolo di primo piano nel costruire, da un punto di vista “metodico”, il progetto sistematico del sapere, che in questo modo trova piena convergenza con la predisposizione degli strumenti intellettuali necessari per un compiuto dispiegamento delle risorse a priori della ragione. Prima però di arrivare ad analizzare questo snodo, che resta ancora uno dei più controversi e anche meno valorizzati dalle interpretazioni kantiane, vale la pena osservare un aspetto che non sembra potersi ridurre a mera coincidenza. Infatti, tanto Kant quanto Hegel riservano alla discussione tematica sul metodo la conclusione del percorso scientifico anziché l’inizio (e anche quando, come nella Fenomenologia dello spirito, essa occupa una posizione iniziale, lo fa in forma introduttiva e propedeutica). Il metodo diventa oggetto di diretta riflessione soltanto una volta che esso ha fornito al pensiero la sua forma scientifica. E viceversa, se da un lato è il metodo che conduce alla scienza, è vero anche che abbiamo bisogno che sia acquisito il pieno possesso del punto di vista scientifico per riconoscere qual è e che cos’è il metodo in quanto tale. Questa difficoltà nel dare statuto epistemico al metodo non coinvolge soltanto la prospettiva critico-trascendentale o quella dialettico-speculativa, ma in fondo tutte le indicazioni genericamente “metodologiche” prese tra l’istanza prescrittiva e la semplice descrizione empirica del cammino fatto, quando ormai, per così dire, la scala per il sapere è servita a raggiungere lo scopo e può essere abbandonata alle spalle del ricercatore. In realtà, sia l’insoddisfazione comprensibilmente suscitata dall’ambivalente posizione kantiana, che talvolta identifica, talaltra separa metodo trascendentale (critica) e sistema, da un lato, sia un’interpretazione della dialettica speculativa hegeliana eccessivamente portata a indicare il metodo come direzione fissata in anticipo del sapere, che porta a un sistema della scienza teleologicamente chiuso15, dall’altro, sono entrambe prospettive che perdono per strada l’elemento più interessante del metodo, vale a dire la sua intrinseca e ineliminabile circolarità. Rispetto a questo profilo paradossale, le soluzioni tanto di Kant quanto di Hegel sono due risposte certo problematiche, oltre che differenti, ma di certo mai omissive né riduzionistiche. Senza dubbio, per entrambi, “metodo” non copre tutta la gamma di significati che la parola ha assunto nella modernità e in epoca attuale16. E tuttavia, attraverso il riferimento all’originaria struttura sistematica delle conoscenze, metodo fa riferimento al problema di
15 Si muove si questa linea la critica di Schelling verso la prima triade della Scienza della logica contenuta nelle Lezioni monachesi; cfr. F.W.J. Schelling, Lezioni monachesi sulla storia della filosofia moderna ed esposizione dell’empirismo filosofico, tr. it. di G. Durante, intr. di G. Semerari, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 15 ss. 16 Per una esplorazione delle connessioni con la modernità, in particolare riguardo a Kant, ma non solo, si veda P. Basso, Il secolo geometrico. La questione del metodo matematico in filosofia da Spinoza a Kant, Le Lettere, Firenze 2004, pp. 137-176.
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determinare lo statuto epistemico, il modo di accesso e trasmissione di un sapere, quello filosofico, la cui scientificità deve poter provenire esclusivamente dalle proprie risorse fondazionali. 2. Lo statuto della riflessione trascendentale Gli usi con cui Kant impiega il termine “riflessione” sono molteplici, risultato peraltro di una lunga e significativa tradizione che, come frequentemente accade per questo filosofo, egli dimostra di avere recepito non meno di quanto abbia saputo distaccarsene17. Tra questi c’è senza dubbio l’utilizzo logico attraverso cui la riflessione definisce uno degli atti costituenti il processo di formazione del concetto. Alla domanda: “qual è l’origine logica del concetto?”, e cioè quale sia l’origine della forma che definisce un concetto come tale, Kant risponde la riflessione. È grazie a questa operazione, infatti, che «nasce una rappresentazione comune a più oggetti (conceptus communis), intesa quale forma richiesta dalla facoltà di giudizio»18. La riflessione è l’atto che costituisce la forma di un concetto come universalità richiesta dal giudizio. Tutta la successiva analisi svolta nelle lezioni di Logica Jäsche in merito all’attività di «comparazione», «riflessione» e «astrazione» non è che l’articolazione della questione relativa a come è strutturato l’atteggiamento del rappresentare affinché esso possa costituire qualcosa come una forma universale. Va detto peraltro che le attività di comparazione, riflessione e astrazione possiedono quattro usi: la comparazione di rappresentazioni empiriche, o meglio sensibili, per la formazione di concetti analoghi; la comparazione delle regole generali della nostra apprensione (schemi) di queste rappresentazioni; la generazione di una rappresentazione discorsiva di questi schemi, vale a dire i concetti; collegare i concetti all’interno dei giudizi in cui essi sono a loro volta messi in relazione. Tutte e quattro sono dimensioni diverse del medesimo atto riflessivo dell’intelletto. A questo proposito, va osservato allora che a venire in gioco con la riflessione logica non è tanto il modo con cui noi giungiamo ad avere concetti, quanto piuttosto quali atti del rappresentare (e dell’intelletto) costituiscano un concetto. Come è stato opportunamente osservato da Longuenesse, nella comparazione, nella riflessione e nell’astrazione va individuato un atto del giudicare «prodotto silenziosamente», e ancora
17 Cfr. M. Liedtke, Der Begriff der Reflexion bei Kant, in «Archiv für Geschichte der Philosophie», XLVIII, n. 1-3, 1966, pp. 207-216, e P. Reuter, Kants Theorie der Reflexionsbegriffe, Königshausen und Neumann, Würzburg 1989; su questo punto, inoltre, R. Malter, Logische und transzendentale Reflexion. Zu Kants Bestimmung des Philosophiegeschichtlichen Ortes der Kritik der reinen Vernunft, in «Revue internationale de philosophie», XXV, n. 136-137, 1981, pp. 284-301. Sulle connessioni con la tradizione precedente, soprattutto nelle lezioni di metafisica, ora si veda G. Lorini, Fonti e lessico dell’ontologia kantiana. I Corsi di Metafisica (1762-1795), ETS, Pisa 2017. 18 I. Kant, Logica, a cura di L. Amoroso, Laterza, Roma-Bari 2004⁵, p. 86.
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non pienamente portato a termine, che però deve essere tenuto in considerazione prima di ogni giudizio pienamente determinato19. Diverso è il concetto di riflessione nella sua accezione propriamente «trascendentale»; esso è presente nel corso della prima Critica e può essere definito come il confronto tra le rappresentazioni (e il loro rapporto) e le facoltà a cui esse devono essere riportate. Questo profilo della riflessione svolge una funzione fondamentale nell’Appendice sulla «anfibolia dei concetti della riflessione», che rappresenta lo snodo di passaggio tra Analitica e Dialettica trascendentale. La definizione con cui si apre questa nota sezione (forse non sempre a sufficienza conosciuta) è questa: La riflessione (reflexio) non ha a che fare con gli oggetti stessi, per farsene concetti, ma è quello stato dell’animo, in cui cominciamo a disporci a scoprire le condizioni soggettive in virtù delle quali ci è possibile giungere ai concetti. Essa è la coscienza del rapporto tra le rappresentazioni date e le varie sorgenti di conoscenza a nostra disposizione, coscienza mediante la quale soltanto può essere esattamente determinata la loro relazione reciproca.20
A differenza di quella logica, la riflessione trascendentale non riguarda i semplici concetti o le relazioni tra concetti, ma i principi in base ai quali una relazione tra rappresentazioni diventa possibile. Da un lato, cioè, questa funzione ha un carattere soggettivo, almeno nella misura in cui è diretta a risalire alle «condizioni soggettive» della formazione dei concetti; dall’altro lato, ciò che salta all’occhio dalla definizione kantiana è il carattere, per così dire, “preliminare” della riflessione. L’ambito intellettuale che infatti essa occupa, e che contestualmente determina, non è quello delle relazioni tra concetti, ma quello precedente relativo ai modi delle relazioni con cui i concetti possono rapportarsi. Questi modi hanno a che fare con le possibili relazioni tra concetti, e in questo senso la riflessione occupa un terreno previo, preliminare. Prima di rivolgerci al contenuto vero e proprio dell’Appendice della prima Critica, vale la pena capire perché l’aspetto “soggettivo”, da un lato, e quello connesso all’aspetto preliminare della riflessione, dall’altro, siano tra loro collegati. Il concetto di riflessione qui in campo ha la sua radice nell’idea di Überlegung che Kant espone nelle lezioni di logica. Riflettere, secondo il dettato di queste Vorlesungen almeno in Logik Blomberg (1771) e Logik Busolt (17891790), significa «confrontare una conoscenza con la facoltà conoscitiva dalla quale essa deve avere origine»21. Nel testo cosiddetto Logik Busolt si può os-
19 In merito, si veda B. Longuenesse, Kant and the Capacity to Judge, Princeton University Press, Princeton 1998, p. 122. 20 KrV, A 260 B 316. 21 I. Kant, Logica, cit., p. 69.
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servare una chiara distinzione tra due attività entrambe riportabili alla spontaneità dell’intelletto, la riflessione e l’indagine (Untersuchung): Wir haben zwey Handlungen der Spontaneität des Verstandes. a) Reflexion oder Überlegung, wenn wir unser Urtheil mit den Gesezzen des Verstandes vergleichen. b) Untersuchung, wenn ich gleich auf den Grund der Urtheile zu kommen suche [.] Gewiße Urtheile bedürfen einer Untersuchung, viele aber nicht [.] Überlegung aber muß bei jedem Urtheil stattfinden, obs nehmlich Subiectiv oder Obiectiv gilt.22
Nella riflessione, più che la ricerca di un fondamento pro o contro un giudizio, il problema è se e come un giudizio sia collegato a principi oggettivi e quindi se possa rappresentare una validità oggettiva; si tratta insomma della possibilità di riportare un giudizio all’interno della facoltà dell’intelletto oppure no23. Avendo in mente questi testi, a partire da cui sorge il profilo della riflessione trascendentale, Dieter Henrich ha sottolineato in particolare il fatto che la riflessione agli occhi di Kant sia una precondizione di quella consapevole razionalità critica che occupa lo spazio dell’indagine filosofica (Untersuchung) e che nelle lezioni di logica dei primi anni Ottanta viene distinta dalla riflessione, per poi tornare significativamente – anche se non in maniera tematica – nell’Appendice della prima Critica. L’argomentazione di Henrich è questa. Dato che le nostre facoltà cognitive formano un tessuto mescolato e spontaneamente non si riducono a una, e una soltanto, operazione intellettuale con un definito dominio di applicazione, è necessario perciò, al fine di avere una conoscenza genuina, un controllo preliminare che porti queste operazioni all’interno dei limiti del loro proprio dominio. Questo è il compito della riflessione. Nulla a che vedere con qualcosa di “interno” o di introspettivo; Henrich vuole invece attirare l’attenzione sul fatto che le operazioni della conoscenza, a partire dunque da quelle contenute nella facoltà di giudizio, siano accompagnate da un sapere previo, contestuale, nei cui confronti la stessa deduzione è in qualche modo debitrice, sia per il “materia22 I. Kant, Logik Busolt, in Kant’s Gesammelte Schriften (= AA), a cura della Preussische Akademie der Wissenschaften (voll. 1-22), poi Deutsche Akademie der Wissenschaften zu Berlin (vol. 23) e Akademie der Wissenschaften zu Göttingen (vol. 24), Reimer, poi de Gruyter, Berlin 1900 ss, vol. 24, p. 641. Cfr. anche un analogo passo da Logik Blomberg: «Das Überlegen ist unterschieden vom Untersuchen, und Untersuchung. Überlegen heißt etwas mit denen Verstandes Gesetzen vergleichen. Untersuchen aber heißet eigentlich mittelbahr überlegen. Von vielen Dingen können wir ohne Untersuchung wohl erkennen, was wahr, und was falsch ist. Die Überlegung aber hingegen ist allemahl zu einem jedweden Urteil nothwendig, und zur Unterscheidung des Wahren vom Falschen, es sey nun überhaupt, oder in einer Erkenntniß etc. in allen einzelnen Fällen unentbehrlich» (AA 24, p. 161). 23 Oltre a questo significato della riflessione se ne può anche individuare uno, presente sempre nel Corpus logico kantiano, che si riferisce prevalentemente alla facoltà della conoscenza (Erkenntniskraft); su questa distinzione cfr. S. Heßbrüggen-Walter, Topik, Reflexion und Vorurteilskritik: Kants “Amphibolie der Reflexionsbegriffe” im Kontext, in «Archiv für Geschichte der Philosophie», LXXXVI, n. 2, 2004, pp. 146-175, in part. p. 156.
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le” con cui essa ha a che fare, sia per il tipico argomento del “non senza” con cui, ad esempio, unità analitica dell’appercezione e unità sintetica della stessa si mostrano l’una legata all’altra nel contesto della prima e della seconda edizione della deduzione trascendentale delle categorie24. Quello che a una lettura diretta della deduzione trascendentale sembra essere un unico piano di conoscenza che collega unità dell’appercezione e principi della sintesi a priori, secondo Henrich, sulla base delle Vorlesungen sulla logica, diventa l’esito del canale di trasmissione tra due attività della conoscenza, riflessione e indagine, correlate perché entrambe stabili, ma niente affatto assimilabili l’una con l’altra. Certo, questa lettura, se ha il merito di mettere in luce il contesto operativo della riflessione, individuandolo in un orizzonte precedente o comunque laterale rispetto a quello del giudizio trascendentale, sconta però un’altra difficoltà, non da poco. Trovandosi, infatti, di fronte all’esigenza di rendere conto della correlazione tra le due tendenze della conoscenza, implicita l’una e consapevole l’altra, Henrich deve reperire il punto di incontro in un termine “medio” – i judicia praevia – interno alla riflessione, dove d’altra parte sarebbero piantati i primi germi del concetto e, quindi, del giudizio. Questi giudizi preliminari rappresentano il punto di partenza dell’indagine filosofica in senso stretto (e dunque della deduzione), senza che essa li debba accettare definitivamente; una sorta di cominciamento da lasciarsi alle spalle nel prosieguo del cammino. Soltanto che una strada del genere, almeno per quanto visto fino a qui, comporta una conseguenza di non poco conto. Da un lato, infatti, non è per nulla chiaro, dal momento che la riflessione occupa uno spazio che precede la concettualizzazione, a quale tipo di rappresentazioni essa si applichi. Se queste rappresentazioni non sono concetti, bensì intuizioni, a risultare molto limitato sarebbe allora lo spettro di azione della stessa riflessione, ridotto inevitabilmente soltanto alla facoltà della ricettività sensibile. Ma, dall’altro lato, a dover essere messo in discussione è il tipo di sapere capace di rendere conto del meccanismo riflessivo in questione, vale a dire come esso giunga al sapere, venga espresso e possa essere trasmesso25. Ha dunque ragione Henrich a sottolineare l’importanza di questa funzione meta-cognitiva assunta, secondo Kant, dalla riflessione come tale; funzione che si gioca sul piano dei giudizi provvisori, impedendo di trasformarli in giudizi definitivi. Va però osservato che essa, nel corso della prima Critica, 24 D. Henrich, Kant’s Notion of a Deduction and the Methodological Background of the First Critique, in E. Förster (a cura di), Kant’s Transcendental Deductions. The Three ‘Critiques’ and the ‘Opus Postumum’, Stanford University Press, Stanford 1989, p. 43. 25 Si noti che questo tema, relativo allo statuto della riflessione trascendentale, può leggersi anche come problema della posizione della riflessione all’interno della prima Critica, se cioè appartenente all’Analitica o alla Dialettica. Il nodo, giustificato dalla posizione di margine tra le due in cui Kant la colloca, ha sollevato un ampio dibattito; cfr. R. Malter, Reflexionsbegriffe. Gedanken zu einer Schwierigen Begriffsgattung und zu einem unausgeführten Lehrstück der Kritik der reinen Vernunft, in «Philosophia Naturalis», XIX, n. 1-2, 1982, pp. 125-150, in part. pp. 131-132, e J. Heinrichs, Die Logik der Vernunftkritik. Kants Kategorienlehre in ihrer aktuellen Bedeutung. Eine Einführung, Francke, Tübingen 1986, p. 93.
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diventa una funzione trascendentale, così assumendo una valenza «meta- critica» in grado anche di dare un contributo significativo nel definire il senso con cui la natura del metodo è al centro del progetto critico26. Se quest’ultimo ha il suo oggetto proprio nella stessa ragione pura e nel suo impiego, trova poi la sua parte essenziale nell’analisi di come l’esame soggettivo della ragione sia possibile. Sarebbe però un errore circoscrivere la portata di questa operazione a una semplice “disciplina” della ragion pura, fatta di divieti e limitazioni imperative; il ruolo giocato dalla riflessione nell’Appendice della prima Critica rivela infatti una possibilità ulteriore e, forse, ancora più significativa della capacità critica. 3. Prassi riflessiva e orizzonte trascendentale della conoscenza Abbiamo visto che riflessione è l’operazione che connette una conoscenza alla sua facoltà. Specificando la definizione di riflessione trascendentale già fornita in apertura dell’Appendice, Kant osserva: L’operazione con cui connetto il raffronto delle rappresentazioni in generale con la facoltà conoscitiva in cui esso ha luogo e con la quale determino se le rappresentazioni in questione sono raffrontate fra loro come proprie dell’intelletto puro o dell’intuizione sensibile, io la chiamo riflessione trascendentale.27
Non tutti i giudizi richiedono un’indagine (Untersuchung), ma tutti i giudizi hanno bisogno di una riflessione. Per indagine qui Kant intende «un esame dei fondamenti di verità»28, che è superfluo quando un giudizio è fornito di certezza immediata, come è il caso dei postulati della geometria euclidea. Se invece tutti i giudizi richiedono una riflessione, ciò avviene innanzitutto perché non c’è un unico modo in cui poter pensare questi concetti. Sorge così l’esigenza di una funzione riflessiva, anche a livello trascendentale: per stabilire il modo in cui questi concetti debbono essere pensati, è necessario risalire al luogo in cui ciascuno di essi va assegnato. Un conto infatti è la relazione tra concetti – inevitabile, dato che qui Kant sta trattando di giudizio –, un conto è il rapporto che questi concetti, messi in relazione all’interno del giudizio, intrattengono con la facoltà di appartenenza. La prima dipende dalla L’uso del termine «meta-critica» è stato proposto da L.W. Beck in un intervento dal titolo Towards a Meta-Critique of Pure Reason, tenuto a Ottawa nel 1976; su questo, cfr. G.J. Agich, L. W. Beck’s Proposal of Meta-Critique and the “Critique of Judgment”, in «Kant-Studien», LXXIV, n. 3, 1983, pp. 261-270. Sulla possibilità di considerare la riflessione trascendentale come un modo per configurare il problema del metodo trascendentale già nella prima Critica, si veda anche D. Breazeale, The ‘Synthetic-Genetic Method’ of Transcendental Philosophy. Kantian Questions/Fichhtean Answers, in S. Gardner - M. Grist (a cura di), The Transcendental Turn, Oxford University Press, Oxford 2015, pp. 74-95, in part. pp. 77-78. 27 KrV, A 261 B 318. 28 KrV, A 261 B 316. 26
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seconda; in altre parole, il modo in cui le cose si rapportano tra loro dipende dalla collocazione in cui si trovano rispetto al genere di conoscenza, sensibile o intellettuale. I concetti a cui Kant si riferisce sono quelli da cui è possibile derivare ogni genere di comparazione; essi sono: identità/diversità, accordo/opposizione, esterno/interno, determinabile/determinazione (materia/forma). Ma – è lo stesso Kant a specificarlo – questi non sono semplici concetti di comparazione (conceptus comparationis). La ragione sta nel fatto che essi non vengono confrontati tra loro in vista delle loro relazioni di identità, opposizione, inclusione e implicazione, come sarebbe se avessimo a che fare con la loro forma logica. Si tratta invece di stabilire se le cose siano identiche o diverse, in accordo o in opposizione; a venire in gioco è quindi il riferimento trascendentale dei concetti a un molteplice sensibile. La riflessione è trascendentale perché opera nell’ambito del giudizio trascendentale, giudizio che acquisisce la dimensione oggettiva di un significato possibile all’interno dell’esperienza. E d’altra parte, sarebbe una grave incomprensione dell’intenzione kantiana se si riducesse la riflessione a un orpello secondario rispetto al riferimento oggettivo del giudizio. Questo brano non lascia dubbi: «si potrebbe pertanto dire che la riflessione logica è una semplice comparazione, […] per contro la riflessione trascendentale (che si indirizza agli oggetti medesimi) contiene il fondamento della possibilità del paragone oggettivo delle rappresentazioni tra loro e risulta perciò assai diversa dall’altra […]»29. In primo luogo, diventa così più chiaro che la comparazione richiesta dai concetti di riflessione è inseparabile dalla capacità conoscitiva nel cui ambito la riflessione trascendentale la istituisce. Se quest’ultima contiene «il fondamento della possibilità» della comparazione oggettiva, ciò sta a significare esattamente il riproporsi del riferimento all’esperienza possibile nella veste in cui esso operava per la determinazione delle condizioni dell’oggetto. E significa inoltre, come si vedrà in seguito, che il carattere a priori dei concetti della riflessione – la loro formalità, per usare il linguaggio della Logica – non corrisponde a quello fornito dalla comparazione30. In secondo luogo, una volta definita la capacità conoscitivo-trascendentale e non semplicemente logica della riflessione, va inteso il motivo per cui essa non si riduce al terreno della determinatezza trascendentale (dell’oggetto in generale). Va qui recuperato il senso di quell’anteriorità della riflessione che
KrV, A 263 B 319. Al contrario, B. Longuenesse interpreta la riflessione trascendentale presentata nell’Anfibolia «come un’espansione del significato di “comparazione logica”» e quindi della comparazione tra concetti; lo fa introducendo una distinzione tra due diversi profili della comparazione logica, l’uno corrispondente ai giudizi analitici, l’altro a quelli sintetici; cfr. B. Longuenesse, Kant and The Capacity to Judge, cit., p. 127; opposta, e secondo noi su questo più convincente, l’impostazione di K. De Boer, Pure Reason’s Enlightenment: Transcendental Reflection in Kant’s first Critique, in «Kant Yearbook», n. 2, 2010 (Metaphysics, a cura di D.H. Heidemann), pp. 53-73. 29
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già Henrich rilevava, sottolineando con più forza, però, il suo pieno significato nell’ambito del giudizio trascendentale. Infatti, se, da un lato, i modi con cui un concetto è restituito attraverso la riflessione non possono identificarsi con le categorie con cui un oggetto è determinato, dall’altro lato ciò non può significare tanto una biforcazione della facoltà di giudizio, quanto, ben di più, un’estensione della stessa a una prassi trascendentale contestuale al giudizio determinante, ma ad essa non riducibile. I concetti trascendentali della riflessione dovrebbero esprimere questo genere di operazione che, sempre nell’ambito della manifestazione e comprensione empirica dei fenomeni, dispiega forme possibili di relazioni tra oggetti. Non forme alternative rispetto a quelle definite dalle categorie; i concetti della riflessione in questo senso non producono una comparazione precedente a cui seguirebbe poi l’oggettività dei giudizi trascendentali; né tantomeno individuano una porzione di mondo semplicemente diversa rispetto a quella dell’oggetto empirico che risulta dai Principi puri dell’intelletto. Ciò su cui la riflessione mette l’accento, piuttosto, è il carattere di possibilità che investe le relazioni in base a cui può avvenire una produzione concettuale dell’esperienza. Lo abbiamo letto in precedenza: si dà il caso che vi siano molteplici modi possibili in cui un concetto può essere pensato. Ma per arrivare a questo, a dispiegare cioè un lotto dei possibili che investa le molteplici relazioni dell’oggettualità empirica, è necessario, almeno nell’ottica di Kant, risalire a uno spazio logico-conoscitivo che precede il giudizio determinante. Da questa esigenza deriva l’anteriorità della riflessione come operazione previa e presupposta dal giudizio. Non si tratta dunque di un ripiegamento del soggetto, o della coscienza, su di sé, quanto di una «topica trascendentale», come Kant la definisce nella successiva Nota alla anfibolia dei concetti della riflessione, di una collocazione cioè delle rappresentazioni nel luogo trascendentale in cui la loro capacità conoscitiva viene istituita. La comparazione – o relazione – nell’ambito della riflessione trascendentale avviene tra i concetti kantiani prima menzionati; ed è su questi concetti che agisce la riflessione, riportandoli non a un generico “luogo” d’origine, ma a quel luogo trascendentale da cui dipende il “come” della relazione possibile. È corretto quindi il parallelo con lo schematismo dei concetti puri; se attraverso il collegamento al tempo quello istituiva le condizioni di significato delle categorie, “stringendolo” all’uso empirico, la riflessione non è una semplice distribuzione dei concetti sulla mappa della facoltà sensibile e intellettuale, bensì la produzione di un tessuto concettuale dotato di un significato che ne capovolge quello semplicemente logico e che, così facendo, disegna un orizzonte trascendentale di senso anche più ampio di quello del giudizio determinante31. Questo confronto tra schematismo e riflessione mette in evidenza anche un altro aspetto. Tanto l’uno come l’altra, infatti, presentano una funzio31 È questa l’interpretazione convincente fornita da Claudio La Rocca, in Esistenza e giudizio, cit., p. 160.
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ne intellettuale che, almeno nel caso della riflessione, non sempre è rilevata adeguatamente nelle interpretazioni più diffuse32. La definizione prima citata – secondo cui riflessione è uno «stato dell’animo» (Zustand des Gemüts) dove si possono scoprire le condizioni attraverso cui giungere ai concetti – contiene un riferimento, neanche troppo velato, all’unità trascendentale dell’autocoscienza quale orizzonte che rende possibile la sintesi del molteplice nell’oggetto. Si tratta di un elemento della spontaneità che appartiene alla ragione, più che all’intelletto, e che può giustificare il fatto che Kant individui la differenza tra riflessione logica e trascendentale nel fatto che «la capacità conoscitiva a cui esse appartengono non è la stessa»33. E cioè, per la prima è l’intelletto, per la seconda la ragione. Si chiarisce così non soltanto che la base per la riflessione trascendentale è un elemento spontaneo che appartiene alla ragione, ma che l’operazione della riflessione rientra a pieno titolo nel metodo della filosofia a cui Kant assegna il compito di predisporre le condizioni per arrivare a quel sistema della ragione pura prospettato nell’Architettonica. Se, da questo punto di vista, la principale precondizione è data dalla dimostrazione che la filosofia trascendentale sia limitata al dominio dei fenomeni, questo risultato passa attraverso l’indagine delle diverse facoltà incluse nella produzione dei principi sintetici puri a priori. Questa è la conclusione a cui giunge Kant, a partire da cui emerge una duplice linea di svolgimento della Logica trascendentale. Da un lato, infatti, essa presenta l’elaborazione sistematica dei concetti puri e dei principi costitutivi di ogni conoscenza, così come richiesto da un’ontologia diretta ai concetti di sostanza, causalità e necessità e resa possibile da una riforma della metafisica che è lo scopo principale della prima Critica34. Dall’altro lato, però, ciò avviene a partire da una indagine
32 Chi invece ci sembra abbia fornito un abbozzo interessante di interpretazione del legame tra schematismo come funzione costituente e riflessione è stato Wolfram Hogrebe; cfr. W. Hogrebe, Per una semantica trascendentale, Officina, Roma 1979; in particolare, rilevando l’esigenza che sorge a partire dalla definizione di schema nella Critica della ragion pura di mettere capo infine a uno schema che garantisca «l’unità assoluta del tempo» (p. 84), Hogrebe osserva che uno schema di questo genere non può in alcun modo essere concettualizzato, né da esso sarà dunque possibile astrarre una regola. Scrive Hogrebe: «la sua [di un tale schema] significazione può piuttosto essere pensata come una significazione di sé stesso, cioè come un significare sé stesso in modo riflessivo che, in quanto unità di ogni significato delle categorie, le contenga come proprie modalità» (ibidem). Va osservato, infine, che la prospettiva di un significato senza concetto, secondo Hogrebe, che denoterebbe la pura spontaneità dell’appercezione originaria – «io, o egli, o ciò (la cosa) che pensa» (KrV, A 346 B 404) – conduce a individuare questo carattere in un sentimento, secondo la formulazione dei Prolegomeni. 33 KrV, A 263 B 319. 34 Come è stato osservato da diverse voci, il termine “ontologia”, così come elaborato da Leibniz e Wolff, ha parte fondamentale all’interno della filosofia trascendentale kantiana. Già Wolff, ad esempio (Discursus praeliminaris, § 73), intende l’ontologia come una disciplina che ha a che fare non con gli oggetti in sé, ma con i concetti puri che rendono possibile una conoscenza degli enti; cfr. L. Honnefelder, Scientia transcendens. Die formale Bestimmung von Seiendheit und Realität in der Metaphysik des Mittelalters und der Neuzeit, Meiner, Hamburg 1990, p. 321. E sull’uso da parte di Kant del termine “ontologia”, o “metaphysica generalis”, si
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preliminare entro le fonti soggettive di questi concetti e principi. In questo senso, l’elemento auto-riflessivo della critica, oltre ai principi a priori della conoscenza, offre le ragioni per cui essi non possono soddisfare i propositi propriamente metafisici della conoscenza. La questione che ora si pone è se la topica dei concetti di riflessione si porti dietro semplicemente una limitazione empirica dell’uso dei concetti o, piuttosto, non contenga anche un ribaltamento del significato “intellettuale”-metafisico degli stessi. 4. La Topica come luogo originario dei concetti L’intera Nota alla anfibolia dei concetti di riflessione è percorsa da un confronto stretto e particolarmente critico con la filosofia di Leibniz; Kant qui propone una sorta di vivisezione dei principi del sistema monadologico a partire dai plessi fondamentali che la riflessione trascendentale ha permesso di rintracciare. Il primo che infatti è rimasto vittima dell’anfibolia dei concetti di riflessione, proprio perché privo di una topica adeguata, è stato proprio «il filosofo intellettualista» che «non poteva assumere che la forma dovesse precedere le cose stesse e dovesse determinarne la possibilità»35. Dovendo ora rivolgerci all’effettiva funzione dei concetti della riflessione, è opportuno sottolineare che Kant istituisce una corrispondenza tra questi concetti e i tipi di giudizio, in virtù della quale a ogni coppia di concetti corrispondono due giudizi, ciascuno espressione di un’alternativa. La topica trascendentale consiste nell’esposizione di questi titoli valevoli per ogni paragone e distinzione (aller Vergleichung und Unterscheidung). Questo orizzonte non ha la funzione di presentare l’oggetto quanto a ciò che ne costituisce il concetto (cosa significano “quantità”, “qualità”, “causa” una volta declinate nella dimensione temporale), ma quella di presentare nella sua molteplicità la relazione tra le rappresentazioni; e insieme a ciò, anche l’uso effettivamente possibile di queste relazioni che comporta una trasformazione del significato dei concetti con cui queste relazioni sono espresse. Si potrebbe dire che la prassi dei concetti e i modi effettivi con cui essi sono utilizzati all’interno della macchina kantiana del senso trasformano la semantica logica dei concetti; e con essa anche l’ontologia che su quei concetti di relazione si basa. Infatti, identità e differenza, accordo e opposizione, interno ed esterno, materia e forma sono innanzitutto concetti che esprimono loro stessi una relazione. In questo senso, la riflessione trascendentale, operando su di essi, non fa che accentuare ed estendere la loro relazionalità. Il concetto di identità, una volta che la relazione sia riportata sul piano dei fenomeni, non resta tale e quale a se stesso; è sufficiente, infatti, la diversità di luogo nell’identità di tempo, veda O. Höffe, Kants Kritik der reinen Vernunft. Die Grundlegung der modernen Philosophie, C. H. Beck, München 2003, p. 19. 35 KrV, A 267 B 323.
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anche in presenza di un identico contenuto logico, per istituire la diversità tra i fenomeni considerati. Così come l’opposizione tra due elementi di uno stesso sostrato, se riportata ai fenomeni, acquisisce il positivo significato, ad esempio, di presentare forze che spingono in direzioni diverse, o di sensazioni di piacere e dolore che si bilanciano reciprocamente. Ma è forse con i concetti di interno ed esterno, e poi di materia e forma, che meglio emerge il profilo che Kant intende offrire non tanto di queste diverse coppie di concetti, ma dello stesso senso della relazione che in essi è contenuta. In relazione a un oggetto intellettuale («Gegenstand des reinen Verstand»36) è interno (innerlich) ciò che non intrattiene alcuna relazione con qualcosa di diverso e che perciò non può che stare a fondamento di quello che è altro (l’esterno); tutto questo è ribaltato per i fenomeni. Infatti, si dicono determinazioni interne di una sostanza fenomenica quelle relazioni che hanno «luogo, figura, contatto e movimento»; e poiché nell’intuizione è dato lo spazio, «il quale, unitamente a tutto ciò che racchiude, è costituito da semplici relazioni formali o anche reali»37, il fatto che tra queste relazioni ve ne siano di permanenti e per sé stanti, senza le quali cioè non si abbia più nulla da pensare di un determinato oggetto, non comporta che si possa sopprimere il concetto di una cosa in quanto fenomeno. Vediamo che il ragionamento kantiano ribalta lo stesso rapporto di semplice diversità, o opposizione, tra interno ed esterno. Non sarà più possibile affermare, anche per i fenomeni come per gli oggetti dell’intelletto, che non c’è «nulla di esterno a fondamento del quale non stia qualcosa di assolutamente interno»38; infatti, anche quello che nel fenomeno è assolutamente interno è «una cosa integralmente costituita di relazioni», cioè di limitazioni e quindi tale solo in maniera relativa39. La rilevanza di questo passaggio non è in discussione. Agli occhi di Kant, la monadologia leibniziana è interamente costruita sulla differenza tra interno ed esterno. E d’altra parte, se si ricorda la definizione che Leibniz fornisce di perfezione e di sostanza perfetta, essa non investe ciò che si predica intorno alla sostanza, quello che sarebbe un suo attributo secondo la distinzione aristotelica, ma la sostanza medesima. La perfezione è qualità assoluta e non relativa ad altro, perché questo la condurrebbe a potersi rappresentare solo attraverso le limitazioni che ogni rispetto implica. Essa invece è semplice, perché quello che esprime lo esprime senza limitazioni40. Kant ribalta la precedenza assunta dal concetto di “semplice” nella sostanza leibniziana e lo fa dando priorità alla relazione, al rimando tra fenomeni il KrV, A 265 B 321. KrV, A 284 B 340. 38 KrV, A 284 B 340. 39 KrV, A 285 B 341. 40 Ci riferiamo in particolare alla definizione fornita da Leibniz in G.W. Leibniz, L’ente perfettissimo esiste, in Id., Scritti filosofici, a cura di M. Mugnai e E. Pasini, UTET, Torino 2000, vol. I, pp. 179-180, che recita: «Chiamo perfezione ogni qualità semplice che sia positiva e assoluta: tale cioè che ciò che esprime, lo esprima senza limitazione». 36 37
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quale non può che implicare la negazione, e quindi la limitazione tra una determinazione e l’altra. Non c’è un interno che sia soltanto interno e un esterno soltanto esterno. La relazione riflessa tra questi due concetti comporta la loro reciproca intersezione, tale per cui ciò che è esterno non è esclusivamente tale, ma insieme anche interno. Il concetto di «relativamente interno» (komparativ innerlich) contrapposto al concetto di «assolutamente interno» (Schlechthininneres) esprime una caratteristica fondamentale della relazione stessa più che dei singoli elementi della stessa. Se non esistono termini assoluti, se dunque non c’è un interno semplice e assolutamente interno, ma soltanto una relazione esterna che per la sua permanenza è relativamente interna rispetto ad altre, ciò accade sì perché la riflessione trascendentale colloca questi concetti nel dominio del fenomeno, ma soprattutto poiché gli stessi concetti della riflessione vengono ora semantizzati da Kant a partire dal loro carattere intrinsecamente relazionale. Tutto questo, scrive Kant, «è certamente sorprendente»41 per il senso comune, oltre che per chi filosofa intellettualmente, e tuttavia è la inevitabile conseguenza dello spazio predominante assunto dalla riflessione. L’ultima coppia di concetti esaminati è un ulteriore passo verso questa dimensione. Il rapporto tra forma e materia non riveste soltanto il ruolo di uno dei quattro titoli che compongono la topica kantiana; questi due concetti sono invece posti a fondamento di ogni altra riflessione, tanto sono legati a ogni uso dell’intelletto. Materia è ciò che indica il determinabile, forma invece la determinazione a quello relativa. Intende dire Kant che non esiste rappresentazione, né quindi uso possibile dell’intelletto, che operi una qualsiasi comparazione se non utilizzando la coppia determinabile/determinante, al di là delle differenze in quello che è l’oggetto dato e il modo della determinazione. Gli esempi forniti da Kant sono tre: il concetto, il giudizio e l’essenza. Quest’ultimo è senz’altro il più significativo: «in ogni essenza [Wesen] le parti costitutive di essa (essentialia) sono la materia, e il modo della loro connessione nella cosa la forma essenziale»42. In generale, si danno due alternative con cui presentare questa coppia di concetti. La prima, come primato di ciò che è in relazione rispetto ai modi della relazione; la seconda, al contrario, come primato del modo di relazione rispetto a ciò che è in relazione. Anche in questo caso, il metodo dell’analisi kantiana è quello predisposto dalla riflessione trascendentale. Da un lato, quindi, è la prassi operativa dell’intelletto puro, letteralmente astratto rispetto alle condizioni soggettive da cui proviene il riferimento al significato sensibile, che esige «anzitutto che qualcosa sia dato, per poterlo determinare in qualche modo»43. Da questo punto di vista, la materia precede la forma e quindi le cose, dotate da sé della loro identità e perfezione, precedono e fanno da fondamento alle relazioni nello spazio e nel tempo. KrV, A 285 B 340. KrV, A 266 B 322. 43 KrV, A 267 B 323. 41 42
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Dall’altro lato, invece, c’è l’orizzonte degli enti sensibili, dove l’intuizione sensibile è una condizione soggettiva del tutto particolare e non semplicemente un livello confuso dell’analisi a cui la conoscenza umana accede e che supera. Quello che Kant reclama per la filosofia trascendentale come primato della forma indica la precedenza di questa intuizione formale rispetto alla possibilità della materia. È vero che questa articolazione, e con essa la netta contrapposizione rispetto alla monadologia, passa dal bando del principio fondamentale di Leibniz, vale a dire l’idea che «noi intuiamo le cose come esse sono (seppure con una rappresentazione confusa)»44. La ripresa, però, al termine dell’Analitica, di una struttura – trascendentale oltre che argomentativa – comparsa già nell’Estetica trascendentale fa pensare che, insieme al primato delle forme dell’intuizione rispetto al molteplice dato, Kant stia affermando la centralità dei modi e dei codici delle relazioni al fine di interpretare le stesse relazioni tra i molteplici fenomeni. In questo senso, è da notare come un’operazione teorica, partorita con l’intento di confezionare limiti e condizioni per l’uso della macchina intellettuale umana (compreso anche l’avvertimento contro i rischi di possibili anfibolie), consegua poi di fatto un ampliamento così significativo dei codici all’interno dei quali le relazioni tra fenomeni possono venire comprese e articolate per definire la sfera dell’oggettività. La forma che ha precedenza sulla materia, e che chiude la tabella dei concetti della riflessione, non è soltanto la forma dell’intuizione, né tantomeno una forma genericamente intesa. Si tratta invece della “forma” a priori che risulta da tutti i concetti che la riflessione ha presentato lungo l’intera Analitica trascendentale. Più che di una scorza formale e vuota, quindi, si tratta dell’orizzonte problematico fondamentale per la filosofia trascendentale: non un metodo altro dal contenuto che il sapere presenta, ma i modi con cui il sapere della filosofia riduce l’immediatezza della forma e ne presenta il profilo come espressione della sua riflessione. 5. Metodo e riflessione Essendo partiti da un abbozzo di confronto sulla natura del metodo tra prospettiva critico-trascendentale e dialettico-speculativa, non sembrerà fuori luogo ritornarvi in conclusione, dopo cioè aver fissato qualche punto fermo sul modo in cui la razionalità critica interpreta le categorie di sostanza e forma all’interno di un orizzonte trascendentale confezionato anche attraverso i concetti della riflessione. Da questo punto di vista, il fatto che la riflessione trascendentale affermi il primato della forma come primato della relazione ha per il nostro percorso una certa forza illuminante, per dir così, retrospettiva. La tesi kantiana può essere fedelmente riassunta così: poiché la cosa non può essere pensata mediante categorie pure, allora essa è qualcosa «integralmente 44
KrV, A 267 B 323.
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costituita di relazioni»45. La relazionalità del fenomeno, dunque, è l’esito della sensibilizzazione delle categorie e dei concetti, o, in altre parole, dell’esigenza che essi contengano il riferimento all’esperienza possibile. Questa consapevolezza porta Kant ad attribuire alla sostanza e alla causalità alcune caratteristiche che Hegel, nella Scienza della logica, riprenderà senza nessun significativo scostamento. In primo luogo, il carattere uno e insieme molteplice della sostanza, intesa come materia universale, che si pluralizza in molteplici parti considerate tutte parimenti sostanze46. O, ancora, il fatto che la sostanza è in una relazione di reciproca determinazione con altra sostanza, la quale secondo Kant è «condizione della possibilità delle cose stesse come oggetti di esperienza»47. Infine, Kant, così come Hegel, ritiene che i modi in cui la causalità si esprime in natura siano l’attività meccanica e quella chimica. Nonostante queste somiglianze siano fuor di dubbio, esiste però una differenza fondamentale relativa al modo con cui i due filosofi offrono le rispettive argomentazioni. Un aspetto in particolare viene in evidenza. La relazionalità che secondo Kant caratterizza l’impianto ontologico del fenomeno non riguarda allo stesso modo lo statuto d’essere delle categorie. Perciò, mentre Hegel nella Dottrina dell’essenza argomenta che «la sostanza ha realtà solo come causa»48, passando dunque logicamente a essere causalità, per Kant sostanza, causalità e relazione reciproca restano tre concetti separati, che possono essere usati soltanto in congiunzione l’uno con l’altro. Da questo punto di vista, sostanza e causalità offrono un esempio lampante di ciò che distingue l’intento critico che prova a determinare la funzione trascendentale che le categorie assumono nel rendere possibile l’esperienza, dall’efficacia determinatrice del concetto con cui cui sul piano logico le categorie hegeliane sono investite. Nell’ottica critica, i concetti di causalità e di relazione reciproca sono interdipendenti, pur rimanendo distinti. Nell’argomentazione presentata nella seconda Analogia dell’esperienza, Kant afferma che «l’azione, e quindi attività e forza» sono criteri della sostanza, ma questa affermazione non implica ovviamente che esse siano identiche49. Perciò, per quanto la causalità sia sempre la causalità di una sostanza, essere una sostanza non equivale a essere una causa. Tutto ciò è piuttosto chiaro in Kant, soprattutto nel momento in cui egli discute della relazione causale di una sostanza rispetto ai suoi accidenti. Assumendo, da un lato, il mutamento come un accidente della sostanza e, dall’al-
KrV, A 285 B 341. Si veda in particolare l’Anmerkung in cui Kant scrive: «La materia, dunque, in quanto mobile nello spazio costituisce in esso la sostanza. Allo stesso modo, però, tutte le sue parti sono sostanze, in quanto si può dire che esse siano soggetti e non predicati di altre materie […]» (I. Kant, Principi metafisici della scienza della natura, testo greco a fronte, a cura di P. Pecere, Bompiani, Milano 2003, p. 191). 47 KrV, B 258. 48 G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., vol. II, p. 631. 49 KrV, A 205 B 250. 45
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tro, che la causa del mutamento sia una forza interna alla sostanza stessa, Kant si trova davanti alla possibilità di considerare equivalenti sostanza, da un lato, e causalità, espressa dalla forza, dall’altro. Davanti a questo rischio, però, indietreggia: La proposizione “la cosa (la sostanza) è una forza”, in luogo di quella del tutto naturale: “la sostanza ha una forza”, è una proposizione che contraddice tutti i concetti ontologici e che, nelle sue conseguenze, arreca notevole pregiudizio alla metafisica. […] Una sostanza ha sì, oltre alla sua relazione in quanto soggetto con gli accidenti (e la loro inerenza), anche la relazione con gli stessi in quanto causa in rapporto agli effetti; la prima cosa non coincide però con la seconda. La forza non è ciò che contiene il fondamento dell’esistenza degli accidenti (perché lo contiene la sostanza), bensì è il concetto della mera relazione della sostanza con gli accidenti, in quanto contiene il loro fondamento, e questa relazione è del tutto distinta da quella dell’inerenza.50
Tra coloro che hanno equiparato il concetto di sostanza con quello di causalità, Kant in questo testo menziona Spinoza, ma è sufficiente guardare alla sezione ontologica delle lezioni sulla Metafisica Mrongovius per individuare che l’obiettivo critico in quella sede è innanzitutto Baumgarten51. E probabilmente a questi si sarebbe aggiunto Hegel. Tutti questi sono esempi di prospettive che hanno perso di vista cosa significa per una sostanza essere una sostanza come tale, anziché una causa. Si tratta qui non soltanto del ruolo che questi due concetti svolgono all’interno del quadro epistemologico dell’esperienza, ma anche di ciò che secondo Kant è la chiara differenza logica tra essi. Da una prospettiva hegeliana, le ragioni di questa posizione sono due52. La prima è il fatto che Kant tragga le categorie non a partire dal concetto del vuoto essere, dal pensiero indeterminato dell’essere, ma da quelle che egli assume come le diverse funzioni del giudizio. O, in altre parole, assumendo un dato già costituito – la tavola delle funzioni del giudizio – anziché da un inizio che da sé sia in grado di mostrare il suo cominciamento, vale a dire la ragione del suo avanzare verso la determinazione. Una seconda ragione di insoddisfazione, per molti versi conseguenza della prima, sta nel fatto che Kant intenderebbe l’operatività epistemologica della categoria come una mera derivazione dalla funzione logica del giudizio. In altre parole, in questa prospettiva, l’esigenza kantiana di tenere ben distinte, da un lato, la sostanza come qualcosa rispetto a cui gli accidenti ineriscono e, dall’altro,
I. Kant, Su una scoperta, cit., p. 104. I. Kant, Metaphysik Mrongovius, AA 29, p. 771. 52 Questa prospettiva è ben rappresentata da S. Houlgate, Substance, Causality, and the Question of Method in Hegel’s Science of Logic, in S. Sedgwick (a cura di), The Reception of Kant’s Critical Philosophy. Fichte, Schelling, and Hegel, Cambridge University Press, Cambridge et al. 2000, pp. 232-252, in part. pp. 246-249. Ma, su questo, cfr. V. Vitiello, La “posizione” di Kant nella Logica hegeliana, in «Il Pensiero», XVIII, n. 2-3, 1973, pp. 18-53. 50 51
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la causa come ciò che è fondamento del suo effetto ha la sua principale motivazione nell’intendere rigidamente la relazione che ciascuna categoria rispettivamente esprime. Il primo termine della relazione (sostanza o causa) è fissato nel suo rapporto con il secondo (accidente o effetto) senza possibilità di trasformare e rendere fluide le posizioni meramente logiche dei termini. Al contrario, secondo quanto Hegel scrive nella seconda introduzione alla Scienza della logica, questo movimento è esattamente quell’efficacia determinatrice che appartiene al concetto grazie alla sua negatività riflessiva. In altre parole, da un’ottica hegeliana, a lasciare piuttosto sbalorditi sarebbe il fatto che per Kant la relazionalità, carattere preminente del fenomeno, non coinvolga anche lo statuto ontologico dell’apparato epistemologico presupposto, il quale proprio per questa sorta di timidezza della riflessione finisce per apparire come un regresso verso le condizioni dell’orizzonte fenomenico il cui esito, però, resta incompiuto. In realtà, se Kant, come emerge con chiarezza in Metafisica Mrongovius, sostiene una via mediana, individuando un rapporto epistemologico tra sostanza e forza, ma non un’identificazione completa tra le due, la ragione, più che nell’origine della tavola dei giudizi, risiede nelle difficoltà che la relazione di inerenza tra sostanza e accidente comporta53. Infatti, se tra sostanza e accidente c’è soltanto un’alternativa secca, il problema sarà quello di dare collocazione alla stessa relazione di inerenza tra l’una e l’altro. Sarà essa sostanza o accidente? Se l’inerenza fosse accidente della sostanza, il suo legame con questa sarebbe a sua volta di tipo “inerenziale” e, quindi, nuovamente un accidente, ragione per cui tra questo e la sostanza servirebbe una terza relazione di inerenza che avrebbe un’analoga esigenza, senza così poter evitare il regresso. Al contrario, se l’inerenza fosse sostanza, allora sarebbe tale anche il legame con l’accidente, che però a quel punto non potrebbe sottrarsi dall’essere anch’esso sostanza, perdendo così il suo carattere di accidente, a meno di non richiedere un’ulteriore relazione di inerenza tra la prima inerenza sostanziale e l’accidente; ma anche in questo caso il regresso risulterebbe inevitabile. Davanti a queste difficoltà Kant risponde individuando un duplice binario: da un lato, la sostanza è fondamento reale interno dei suoi accidenti, mentre la causa è fondamento reale esterno degli accidenti che sono i suoi effetti. In altre parole, la sostanza è fondamento interno dell’inerenza degli accidenti di quella sostanza stessa, mentre la sostanza è una causa nella misura in cui è fondamento esterno dell’inerenza degli accidenti in altra sostanza. In quest’ottica, sostanza e causa, entrambe, sono fondamenti; ciò che le differenzia è se la conseguenza, cioè l’inerenza degli accidenti, sia interna o esterna alla sostanza che contiene il fondamento.
53 Per una completa presentazione di questo nodo, dobbiamo rimandare a E. Watkins, Kant and the Metaphysics of Causality, Cambridge University Press, Cambridge et al. 2005, pp. 259-262.
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Abbiamo richiamato brevemente queste considerazioni perché sulla loro base, al di là del fatto se esse risultino risolutive del problema, sembra francamente molto difficile sostenere che la distinzione tra sostanza e causa sia un residuo della acquisizione da parte di Kant della tavola delle categorie. In realtà, andrebbe tenuto conto del fatto che la relazione di inerenza tra sostanza e accidente è strutturalmente analoga alla relazione espressa dalla causalità della causa. Ma c’è di più. Accettando infatti l’equazione tra sostanza e causa, l’impianto critico sarebbe andato in difficoltà su un altro aspetto, forse ancora più significativo, rappresentato dallo statuto delle facoltà umane. E qui torniamo, per concludere, all’anfibolia della riflessione, dove Kant offre una deduzione delle forme della sensibilità priva dell’esposizione inevitabilmente separante e isolante dell’Estetica trascendentale. Ragione e sensibilità sono facoltà distinte e irriducibili, come l’argomentazione diretta contro empirismo e razionalismo fa intendere; nello scritto contro Eberhard, Kant affermerà, usando un’espressione particolarmente efficace, che sia «la forma delle cose nel tempo e nello spazio»54, sia «l’unità sintetica del molteplice nei concetti» sono «acquisizioni originarie». Resta tuttavia che proprio questo carattere originario e insieme plurale delle facoltà conoscitive difficilmente potrebbe portare Kant a restituire un’immagine della conoscenza come il risultato di un’interazione tra due distinte sostanze. Cosa, questa, che invece sarebbe pressoché inevitabile se alla pluralità delle facoltà della conoscenza corrispondesse una moltiplicazione delle sostanze, conseguente all’identificazione tra sostanza e forza. Al contrario, l’unità del tessuto della conoscenza è garantita dalla riflessione trascendentale, che nella prima Critica estende la problematica dei limiti del significato e delle condizioni di applicazione dei concetti oltre quello delle categorie pure. Così facendo, Kant non solo individua un compito inevitabile per colui che intenda elaborare un’ontologia, ma dimostra concretamente che quest’ultima non può che passare da una radicale presa in carico trasformativa dell’orizzonte logico, che si indirizza alle operazioni che precedono il giudizio oggettivo e risultano però essenziali a scoprire le condizioni in base a cui possiamo giungere a concetti.
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I. Kant, Su una scoperta, cit., p. 101.
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Abstract In this article I aim to clarify the nature of Kant’s view of transcendental method by focusing on his conception of transcendental reflection. After considering Kant’s conception of method proposed in Transcendental Doctrine of Method, I examine his account of logical and transcendental reflection in the section entitled On the Amphiboly of the Concepts of Reflection. On Kant’s account, transcendental reflection distinguishes the origin of representations and thereby “contains the ground” of our objective judgments about phenomena. I contend, first, that Kant considered transcendental philosophy as such to rely on a mode of transcendental reflection and, second, that the employment of transcendental reflection is such as to transform the logical meaning of the concepts of reflection into the transcendental one. Keywords: Kant, transcendental reflection, amphiboly, transcendental method, transcendental topic.
Remnants of Hegel Sui resti Massimo Adinolfi
Non semplicemente un libro su Hegel: così Félix Duque presenta il suo Remnants of Hegel1. Non su Hegel, ma sui suoi resti. Su ciò che resta in Hegel, su ciò che resta di Hegel, ma ancor più su quel che resta dell’Occidente: non solo della filosofia occidentale, ma del plesso teologico-politico che si chiama Occidente. Che ha voluto chiamarsi così, dentro una certa idea della storia e della civiltà umana in generale. Nella domanda sui resti, su ciò che resta, su cosa significa restare, rimanere o residuare, si può comprendere, in un certo senso, gran parte dell’eredità hegeliana. Resti: rimanenze oppure permanenze, eredità oppure fantasmi? Si può dire, in realtà, che l’idea stessa che vi sia dell’eredità, in filosofia, fa parte dell’eredità di Hegel, e non è separabile da essa. In Hegel, i cammini della filosofia e della storia della filosofia (e della storia in generale: della storicità della storia) si sono per la prima volta intrecciati a tal punto che, per quanto ci si voglia allontanare dalla methodos hegeliana, non è facile pensare come possano separarsi, e come dunque la filosofia possa sbarazzarsi di domande relative al tempo storico, all’eredità, ai resti e a ciò che resta, al proprio tempo e al suo rapporto col passato. Ma poi: con il passato in generale o col proprio passato? E vi è un solo passato? E in che misura il passato è davvero passato se è il proprio, se è appropriato e quindi, in qualche modo, fatto presente? E in che misura invece può essere appropriato, se resta passato, nel passato? Si può dire che di questa eredità hegeliana, e dell’insieme di domande che suscita, la filosofia – e non solo la filosofia – si nutre e non può non nutrirsi tuttora; che l’Auseinandersetzung con Hegel rimane un passaggio ineludibile per chiunque voglia pensare, oggi, così come si è potuto invero ritenere, in un passato che è esso stesso nostro passato, che Hegel non fosse ormai che un cane morto, con cui sarebbe stato pericoloso civettare. 1 F. Duque, Remnants of Hegel. Remains of Ontology, Religion and Community, tr. ingl. di N. Walker, SUNY Press, Albany 2018.
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È però in un senso molto preciso che Duque parla di remnants of Hegel: in un senso che chiama in causa uno dei Grundsätze della filosofia del Novecento – che l’essere è tempo –, ma che, soprattutto, è richiesto dalla comparsa di resti nella filosofia stessa di Hegel, per giunta nel luogo in cui meno, forse, ce lo si aspetterebbe, cioè nel capitolo conclusivo della Scienza della logica. Capitolo dedicato all’Idea assoluta, all’assoluta congruenza e unità del concetto e della realtà, all’idea infinita, «dove il conoscere e l’operare si sono agguagliati e che è il suo proprio assoluto saper se stessa»2: eppure, proprio là, dove l’idea è «essere, vita che non passa, verità di sé conscia, ed è tutta la verità», ormai «l’unico oggetto e contenuto della filosofia»3, proprio là compaiono resti. Compare, anzi, tutto il resto (il tutto come resto?), che è «errore, torbidezza, opinione, tendere, arbitrio e caducità [Alles Übrige ist Irrtum, Trübheit, Meinung, Streben, Willkür und Vergänglichkeit]»4. I termini che Hegel qui impiega per indicare questa bizzarra proliferazione di resti al culmine dell’impresa logica appartengono tutti alla medesima regione: alla sfera di ciò che è accidentale, al symbebekòs, di contro a ciò che è sostanziale (al subjectum, a ciò che non passa). E però, se c’è una cosa che il progetto filosofico hegeliano non può lasciare intatta è proprio l’opposizione fra il sostanziale e l’accidentale. Se c’è una cosa che la dialettica non può permettersi, è di consegnarsi alle classiche dicotomie della tradizione metafisica: di qua l’accidentale, di là il sostanziale; di qua il finito, di là l’infinito; di qua il relativo, di là l’assoluto; di qua l’empirico, di là il razionale; di qua l’errore, di là la verità, e così via… Cosa sono, allora, quei resti? O, per meglio dire: come va inteso il fatto che la Versöhnung logica dell’idea – dell’oggettivo e del soggettivo, dell’individuale e dell’universale – lasci tuttavia dei resti? La risposta: «The Hegelian system, impressive as it is, ultimately reveals itself as a miscarried attempt to reconcile nature and theoria, individuality and collective praxis»5. Miscarried attempt: si tratta dunque, per Hegel, di un tentativo abortito, di un fallimento. Se qualcosa residua, e se il fine era quello di non lasciare nulla al di fuori della perfetta individuazione dell’idea, in una versione logico-speculativa del giovanneo ut sint consummati in unum, il sistema hegeliano si conclude in un drammatico fallimento, poiché qualcosa, purtuttavia, resta. Remnants of Hegel, ovvero: del fallimento dell’hegelismo. Quel che però interessa Duque non è la semplice dichiarazione di fallimento (non è certo trattare Hegel come un cane morto, o peggio come un pavone in redingote6), quanto piuttosto la comprensione profonda della logica di questo 2 G.W.F. Hegel, Scienza della logica, 2 voll., tr. it. di A. Moni, rev. di C. Cesa, intr. di L. Lugarini, Laterza, Roma-Bari 1988, vol. II, p. 863. 3 Ibidem. 4 Ivi, p. 935. 5 F. Duque, Remnants of Hegel, cit., p. X. 6 A mero titolo di esempio, per un genere di considerazione che ancora oggi si avverte, a riguardo di Hegel e dell’hegelismo: «Peccato che l’Autocoscienza, questa che dovrebbe essere
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fallimento. Logica intrinseca e peculiare: non si tratta quindi di addurre fatti che Hegel avrebbe trascurato di considerare, o della semplice e generica circostanza per cui le vicende del mondo e della vita si faranno sempre beffe di qualunque tentativo di ricondurle a sistema. Ovunque si rifugi la vecchia e dolente saggezza sui limiti della ragione, e insieme il riguardo verso le cose del mondo – che Hegel (giustamente) derideva come mera tenerezza –, lì Duque lascia che la dialettica del pensiero entri con tutta la sua forza, con tutta la capacità di consumare le cose, la loro intrinseca contraddittorietà, fin nel loro midollo. Non si tratta neppure di accusare la filosofia hegeliana di essere «an arbitrary mental construction»7, una costruzione arbitraria e del tutto fantasiosa, incapace di stare ai fatti: con una prosa brillante e ricca di ironia, Duque ha facile gioco nel mostrare quanto poco in realtà l’atteggiamento positivo dello stare ai fatti sia anche in grado di gettare luce su quei fatti, di dare ragione di essi, questo e non altro essendo il compito della filosofia. Se allora è vero che il rifiuto dell’hegelismo (che è cosa diversa dalla sua confutazione) ha potuto costituire «l’atto di fondazione della filosofia analitica»8, e così di larga parte della filosofia del Novecento, quello che forse si potrebbe rispondere è: tanto peggio non per i fatti, ma per la filosofia analitica, e per le molte forme di empirismo e piatto naturalismo oggi in circolazione. Remnants of Hegel non è la cronaca di un fallimento, neanche la semplice presa d’atto, dunque, ma è un felice tentativo di comprendere cosa resta dell’Occidente proprio muovendo dalle interne ragioni del fallimento dell’hegelismo. In una celebre pagina della Scienza della logica, Hegel ha spiegato che cosa significhi confutare, in filosofia: «La vera confutazione deve penetrare dov’è il nerbo dell’avversario e prender posizione dove risiede la sua forza; attaccarlo fuori di lui stesso e sostenere le proprie ragioni là dov’egli non si trova, non conclude a nulla»9. Remnants of Hegel non si trova fuori di Hegel, i resti che raccoglie (ma raccogliere è ancora leghein, è legare e collegare) si trovano proprio là, dove risiede la forza dell’hegelismo: «Yet, all of that “rest”, all of what “remains”, is just the whole of the Logic itself»10.
la coscienza stessa dello spirito, la coscienza universale, non sia altro che la coscienza di un pavone. Un pavone in redingote, che fuma la pipa ed è convinto di parlare a nome della verità assoluta – come se esistesse qualcosa come la verità assoluta!» (S. Givone, I sentieri della filosofia, Rosenberg & Sellier, Torino 2018, p. 33). 7 F. Duque, Remnants of Hegel, cit., p. 61. 8 W. Welsch, Hegel und die analytische Philosophie, in K. Vieweg - B. Bowman (a cura di), Wissen und Begründung. Die Skeptizismus-Debatte um 1800 im Kontext neuzeitlicher Wissenskonzeptionen, Königshausen & Neumann, Würzburg 2005, pp. 11-73: p. 11. 9 G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., p. 656. 10 F. Duque, Remnants of Hegel, cit., p. IX. Più avanti Duque ritorna sul punto, con una chiarezza che giustifica la lunga citazione: «How can there remain anything else, anything left over that would exceed the absolute Idea? Is it not everything explained, everything reconciled in the Idea? Everything – for the determinations of thought that have been expounded in the Logic, and any possible word or thought that presupposes those pure essentialities, are now
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Cosa è infatti l’idea hegeliana, in cui tutto infine si ricapitola, l’idea assoluta, se non una certa forma soltanto, una certa guisa? E cosa comporta ciò, se non che essa non può esser forma per sé sola, e formarsi, altrove se non presso il contenuto che è compreso in quella guisa? E cos’è, ancora, quel contenuto, se non l’intero sviluppo della logica? Ebbene, «anche la logicità dell’idea assoluta si può chiamare una sua guisa, ma mentre – continua Hegel – la guisa indica una specie particolare, una determinatezza della forma, la logicità è al contrario la guisa universale in cui tutte le guise particolari son tolte e inviluppate»11. L’avvertenza necessaria che qui il filosofo dialettico aggiunge – non guisa particolare, ma guisa universale in cui tutte le guise particolari sono superate – rappresenta però un problema (dal punto di vista interno, della logica in cui ci troviamo), dal momento che nega particolarità alla guisa universale mentre tuttavia gliela assegna, contrapponendola alle guise particolari. Omnis determinatio est negatio. La domanda intorno alla determinatezza particolare della forma universale della logica, che nel corso del Novecento prenderà pieghe diverse (in Heidegger, in Wittgenstein, in Deleuze, in Derrida), si presenta già qui, dunque. Ma Hegel non poteva non averne piena consapevolezza, se osservava, da un lato, che la determinazione che la forma logica in questo modo riceve è precisamente ciò che «ha costituito l’oggetto della scienza logica»12 lungo tutto il suo corso, come s’è detto; dall’altro lato, che, formaliter spectata, così come l’abbiamo considerata sin qui nella sua stoffa puramente logica, l’idea non può essere che il puro, e puramente formale, intender sé, «racchiusa in semplice identità nel suo concetto, senza essere ancora entrata nell’apparire». Questo secondo lato è il lato per cui, al culmine dello sviluppo logico, l’idea si esterna, come Hegel dice in questa pagina, ovvero «si affranca da se stessa [sich entlassen]»13, come dice invece nell’ultima pagina dell’opera, in una decisione che potrà culminare infine nello spirito, quale «puro concetto che comprende se stesso»14, solo però attraverso un passaggio necessariamente extra-logico, che libera «non only exteriority, but also being-outside-of-itself [Aussersichseyn]. Not something apart of thought, but something refractory and impotent in the face of the concept»15. Torneremo più avanti, brevemente, su questo passaggio. Intanto, è bene sottolineare che ciò che abbiamo indicato come un primo lato si presenta, in maniera flagrante, come una contraddizione: tale, infatti, è, per Hegel, un’idea che non è ancora entrata nell’apparire. È questa contraddizione fonthe remains of the Logical, its waste or Abfall […]. And the Idea consists in and is exhausted in being all the determinate negation of the pretentions to truth of each of those determinations (and a fortiori of any word with any meaning)» (p. 94). 11 G.W.F. Hegel, Scienza della logica, cit., p. 936. 12 Ibidem. 13 Ivi, p. 957. 14 Ibidem. 15 F. Duque, Remnants of Hegel, cit., p. 96.
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damentale, peraltro, che rende del tutto insoddisfacenti le interpretazioni “panlogiste”, “conciliatrici”, della dialettica hegeliana16. Esse non deludono perché è pretesa eccessiva quella di un logos che dia ragione di ogni cosa, ma perché il senso hegeliano del dare ragione non è affatto quello che in simili interpretazioni viene proposto, come se si trattasse semplicemente di avvolgere la realtà effettuale in una morbida (aprioristicamente presupposta) membrana logica, togliendole tutte le asprezze, i conflitti, le ferite. La realtà pensata, portata al concetto, è invece, precisamente, quella di cui si riconoscono tutte le asprezze, i conflitti, le ferite: non una di meno, non una di più. Per la lettura che Duque fornisce della dialettica hegeliana, è esemplare il seguente passo, che traiamo dal capitolo più incisivo del libro: «Let us look more closely at this intimate or inner tragedy of philosophy, this wound of Spirit that Spirit cannot close because Spirit itself is the wound of time»17: se per panlogismo deve intendersi una trasmutazione alchemica della realtà in pensiero, in cui però il significato di ciò che è reale così come il significato di ciò che è pensiero non vengono essi stessi mutati nel corso della trasmutazione, allora non c’è nulla di più lontano da Hegel di una piatta conciliazione panlogistica del reale e del razionale. Il terreno sul quale meno che in ogni altro ambito è possibile cavarsela con formulette, che riducano la razionalità dialettica a un razionalismo étriqué, è quello della rappresentazione cristiana della passio Christi, e dunque del significato dell’incarnazione, della passione, della resurrezione. One must be God, said the Devil, to be content with so much blood: Duque riprende una frase potente del Vangelo secondo Gesù di José Saramago18 che illustra molto bene il senso della necessità dialettica: è il diavolo che opina di un Dio che non può né deve aver nulla da fare con il sangue, con la morte, con il macello e il calvario della storia. È il diavolo che se ne resta al di là, o al di qua, di ogni vicissitudine umana, storica, spirituale. È il diavolo che è «incapable of sacrifice»19. Il Dio cristiano è invece il Dio della kenosis, e tutta la filosofia hegeliana non è in fondo altro che la comprensione razionale – il dare ragione – di questa kenosis. Nell’espressione appena impiegata, “comprensione”, si cela, in verità, la ferita insanabile dello Spirito (lo Spirito come 16 L’altra grande tradizione interpretativa che Duque respinge decisamente è quella che insiste sul tratto soggettivistico della filosofia hegeliana, presentata come vertice della modernità filosofica inaugurata da René Descartes. È una lettura che risente in particolare, nel Novecento, della lezione di Heidegger, su cui si veda ancora V. Vitiello, Dialettica ed ermeneutica. Hegel e Heidegger, Guida, Napoli 1979. 17 F. Duque, Remnants of Hegel, cit., p. 128. 18 Il titolo originale, in portoghese, è in realtà O Evangelho segundo Jesus Cristo. L’editore italiano ha evidentemente ritenuto che l’umanizzazione della figura richiedesse il sacrificio della cristicità di Gesù. L’esposizione di Duque mostra come il significato più profondo dell’umanità dell’uomo (e insieme la filosoficità del cristianesimo, per Hegel) passi attraverso la morte di Dio in Gesù Cristo, e non semplicemente nella rivendicazione dell’umanità di Gesù – come se tutto il resto fosse semplicemente una inutile, sovrastruttura teologica. 19 F. Duque, Remnants of Hegel, cit., p. 115.
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ferita, si diceva poc’anzi). Perché, se è vero che la filosofia è la coscienza della necessità di questa kenosis, è vero anche che, come coscienza, essa rimane e non può non rimanere nell’infelicità di una figura scissa, divisa. L’una e l’altra cosa insieme, dunque. Il compimento che si realizza assolutamente sul piano del concetto, non cancella il fatto che la sua coscienza risiede pur sempre in uno spirito finito. L’infinito abita il finito, insomma, ma non risparmia affatto al finito la tragedia della sua finitezza, al contrario la invera: comprendendo il finito proprio nella sua finitezza, mandando cioè il finito a fondo con essa, mandandolo nella morte, sua (del finito qua finito) verità e necessità. Non a caso, nota Duque con grande acume, se vi è una parola che è assente dall’Aufhebung filosofica della narrazione cristiana, questa è la parola speranza. Hegel non ne parla affatto. Per questo, si deve sottolineare ancora, non c’è da aspettare nessuna seconda venuta, ma c’è da vivere nella comunità degli uomini che si costituisce nella storia, dopo che sulla croce è stata sconfitta la morte come semplice decesso, termine naturale della vita20. Questo e non altro è il significato della morte e resurrezione di Gesù Cristo: la trasmutazione della morte naturale nella nuova vita dello spirito che è disceso in mezzo a noi. Una volta e per sempre, sottolinea Duque: Einmal ist Allemal, non c’è altro che debba scendere ancora. È come non ci sono paradisi che ci aspettano da qualche parte, così non c’è nemmeno in terra, né mai ci sarà, una Shangri-La nascosta, fuori dal tempo, governata da uomini saggi, in cui la vita scorre in perfetta armonia col creato. C’è, invece, in tutta la sua prosaicità e conflittualità morale, politica e storica, l’organizzazione della vita etica nella famiglia, nella società civile, nello Stato. La redenzione che offre la filosofia, pura attività e forma di quel «contenuto assoluto»21 che è la vera religio, non è allora nient’altro che – anzi, nessun riduzionismo: è veramente – «to acknowledge in thought the irreconcilability of Nature and Spirit»22. Per questo, Duque può dire che «the human being cannot calmly dwell in philosophy, for philosophy provides no stay or resting place; on the contrary, it is nothing but movement, fearlessly open to the elements, exposed to the elements, exposed to the inhospitable»23.
20 «The conscious awareness of human mortality is the only reliable guarantee of the persistence of the human Community» (ivi, p. 98). 21 G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, tr. it. di B. Croce, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 550. In un certo senso, il vero ferro ligneo non è, dal punto di vista di Hegel, la proposizione di una filosofia cristiana in quanto tale – come invece voleva il giovane Heidegger –, ma semmai quel platonismo cristiano che svelle dal cristianesimo la contraddizione del verbum caro (col che evidentemente ci si riferisce non a Platone, ma proprio alla sua edulcorazione nel platonismo idealizzante). 22 F. Duque, Remnants of Hegel, cit., p. 128. 23 Ivi, p. 42. Cfr. anche più avanti: «Philosophy does not compete with religion by elaborating a distinct cultus of its own that would somehow be higher than religion itself» (p. 125). È una lezione che ci permettiamo di estendere anche oltre il contesto della filosofia dello spirito hegeliana: che la filosofia non si offre come alternativa alle religioni della salvezza, che essa
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Ebbene, cos’è in conclusione l’Occidente, cosa esso è stato, nella stazione che ha raggiunto nel secolo XX, se non proprio questa tragica esposizione all’inospitale? È ben possibile, naturalmente, continuare a leggere Hegel in modo più intellettualistico, o scolastico (o forse semplicemente pre-hegeliano?), trovandovi solo la prosopopea del logos, la salda compagine onto-teologica, il postremo tentativo di ricomporre nell’unità della ragione l’irruzione della vita storica, e non anche il fallimento (e, insieme, la sua logica), ossia il contrasto aspro fra vita e pensiero, conciliato solo nella forma dell’irreconciliatezza, il cui urto, i cui postumi, le cui aporie, i cui resti raccontano ampia parte della filosofia del Novecento, nei regni solo un tempo tranquilli dello spirito: nella politica, nell’arte, nella religione24. Ma se si tratta invece di praticare l’ermeneutica hegeliana, secondo la sua reale intenzione e direzione, allora «riconoscere la ragione come la rosa, nella croce del presente»25, corrisponderà pienamente all’ingiunzione paolina, non evacuetur crux Christi, con tutta l’abnegazione necessaria, però, per cogliere proprio nella croce, non oltre di essa, la rivelazione dell’Assoluto26. Il secondo lato: la natura, «the total remainder, the absolute remains, of the Idea»27. Il saggio che apre il volume, dedicato alla nozione aristotelica di sostanza e alla sua risoluzione dialettica in Hegel, si conclude con una considerazione e un disturbing suspicion. La considerazione: la logica soggettiva, in tanto può costituire la conclusione del sistema delle determinazioni del pensiero, in quanto però passa immediatamente nell’esteriorità dello spazio e del tempo, nella natura. Ma quanto è esterna questa esteriorità, o forse: quanto è inconscia questa natura? Qui sorge il sospetto che la logica lasci in silenzio una natura più arcaica, più antica della natura a cui si rimette o da cui si riprende: would the whole Logic itself not then involve a kind of mediation, a regression to nature, a highly articulated and deliberate one, just as at the beginning the beginning had to begin with completely unconscious nature? […]. Does not Hegel himself recognize that there is a kind of unconscious logic at work here? […]. But if that is so, whence do they [= thoughts determinations] arise in the first
non appronta un proprio culto (né i filosofi potrebbero esserne gli officianti), che non si situa a una maggiore altezza rispetto al mondo. 24 L’unica pecca che si può trovare nel libro, se proprio gliene si vuole trovare una, sta nella mancanza di un capitolo esplicitamente dedicato ai temi dell’estetica hegeliana. Il lettore può però attingere ad altri importanti testi di Félix Duque, che ha scritto molto e con straordinaria efficacia sull’arte e i suoi resti (i suoi «rifiuti»). Il lettore italiano, in particolare, potrà guardare F. Duque, La fresca rovina della terra. Dell’arte e i suoi rifiuti, tr. it. a cura di L. Sessa, Bibliopolis, Napoli 2007. 25 G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, tr. it. di G. Marini, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 16. 26 «Hegel does not really speak about the resurrection of Christ» (F. Duque, Remnants of Hegel, cit., p. 51). 27 Ivi, p. 25.
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place, what is their origin and nature, a nature of course precedes the “I” in every one of us?28
Vi sono molti modi per nutrire e acuire questo sospetto, alimentandolo con i materiali che, da Nietzsche in poi e con l’assidua frequentazione di altri saperi, sono stati portati allo scoperto da uno scavo genealogico condotto sui terreni più diversi. Ancora una volta, però, la questione può e forse deve essere sollevata nel modo più incisivo all’altezza della logica, del suo stesso funzionamento, nell’ipotesi che sia possibile cioè reperire nella sua stessa kinesis l’ombra di questa più antica natura, il rovescio delle determinazioni che l’andamento immanente del pensiero comprende nel suo sviluppo. È chiaro infatti che lo svolgimento della categoria logica fuori di sé, verso l’assoluto esser altro in cui riconoscersi – per dirla con celebri parole –, richiede in generale che esso sia sempre raggiunto non semplicemente come altro, ma anche come l’altro suo proprio (di qui la necessità – necessità pur sempre logica – di sporgersi infine oltre il bordo dell’elemento logico, e cadere nell’esteriorità dell’elemento naturale). È però sul terreno stesso della Logica che va tuttavia osservato che quell’altro, che, certo, si rivelerà appropriato, ha da essere, per un istante almeno, fuori dal regime proprietario della logica, per poter poi inverarsi dialetticamente nel proprium del pensiero. Si consideri, a mo’ di exemplum, il trattamento che Hegel riserva al principio di identità, in grado di catturare, nella sua concretezza speculativa, la differenza assoluta, ossia «quel nulla che viene detto col parlare identico». È il caso di guardar dentro questo nulla, poiché è evidente che esso, per quanto sia nulla, riesce comunque a essere ciò che l’identità annulla (procurando così a ciò che è il nuovo significato di non-nulla). Con ciò però ci si infila in una presupposizione, che la logica dialettica non può riacciuffare nel suo porre, e che rimane per dir così, irrisolta, o forse irredenta, al fondo del movimento logico. Cos’è infatti il nulla, prima di essere annullato, prima cioè di offrire i suoi servigi all’identità, al dire identico? Dire sbrigativamente che è nulla (che il nulla è nulla) significa solo ribadire quanto nell’identità è detto del tutto appropriatamente, perdendo però irrimediabilmente il lato grazie al quale, per l’appunto, è il nulla che è annullato. L’identità dialettica può trionfare, perché potrà dire di esso che è nulla («quel nulla che viene detto col parlare identico») solo se non evita un inquietante sdoppiamento, che sfalsa, per dir così, il nulla in due momenti, quello che è detto, annullandosi nell’identità, e quello che non giunge al detto – resto senza identità e però necessario perché l’identità sia un risultato, perché sia essa stessa salvata dalla vuotezza immediata dell’astrazione. Escluso dal suo lavoro, indifferente al suo risultato e non rilevabile in esso, il nulla è il resto logico dell’identità, che non risulta in ciò che viene detto e che proprio perciò rimane non detto.
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Ivi, p. 26.
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Ancora un fallimento? Forse è più giusto dire: ancora «the practice of a specific Hegelian “hermeneutics” that consists in a relentless but internal “destruction”»29: sono i termini che Duque impiega per presentare, nel suo senso generale, l’avanzamento dialettico dell’idea, ma che possono indicare anche le linee di un confronto autentico con la filosofia hegeliana. Un confronto che non si limiti a fare l’elenco di ciò che è vivo e di ciò che è morto, ma provi semmai a mostrare come vita e morte, nel pensiero hegeliano, prendano significato l’una dall’altra, rendendo impossibile un bilancio lineare, un calcolo semplice e senza resti. Restituendoci l’assoluta inquietudine dello sguardo che Hegel gettava in ciò che è, il suo modo di portare la vita nel pensiero, il pensiero nella vita, invece di una salomonica e pacificata veduta d’insieme, il saggio di Félix Duque raccoglie mirabilmente tutti i resti di un sistema che richiedono di essere ancora proposti a una considerazione pensante.
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Ivi, p. VIII.
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Anno 2020 | Volume LIX | Fascicolo 2
In questo numero: Al Lettore Saggi A. BENJAMIN, Suspensions, Openings, Creations. Walter Benjamin, Architecture and the Dialectical Image; M. BOZZETTI, Frammenti di sistema. Hegel critico di Adorno; L. CORTELLA, Dialettica negativa e dialettica speculativa. Adorno a confronto con Hegel; E. FRIEDLANDER, The Handkerchief. A Dialectical Tale; M.F. MOLDER, La questione della trasposizione: fenomeno originario, origine e immagine dialettica; S. WEIGEL, Il risveglio come «caso esemplare del pensiero dialettico». Sul carattere di immagine e la struttura temporale della dialettica nella nozione epistemica di soglia in Benjamin, ovvero: Benjamin legge Michelet, Hegel e Dante; A. BARALE, The Ruin and the Artifact. Walter Benjamin and AI Art; F. VALAGUSSA, Allegoria e immagine dialettica. Forum C. SINI, In cammino verso Aristotele; L. ILLETTERATI, Pensare le cose nelle cose. L’anti-intellettualismo rigoroso di Leo Lugarini; G. DI TOMMASO, Un Maestro di nome Leo Lugarini; V. VITIELLO, “Er lebt in Hegels Logik”. Ricordando Leo Lugarini nel centenario della nascita. Ricerche e discussioni G. GORIA, Il metodo e il posto della riflessione nella Critica della ragion pura di Kant; M. ADINOLFI, Remnants of Hegel. Sui resti. Fascicolo a cura di Alice Barale e Francesco Valagussa
ISBN cartaceo 978-88-5529-203-0 ISBN e book 978-88-5529-204-7 Inschibboleth edizioni - Roma www.inschibbolethedizioni.com