Il pensiero e la voce dei filosofi. Da Kant e Heidegger


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Il pensiero e la voce dei filosofi. Da Kant e Heidegger

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MARIO LINO STANCATI

Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

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Proprietà letteraria riservata © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy Stampato in Italia nel mese di aprile 2010 da Pellegrini Editore Via De Rada, 67/c - 87100 Cosenza - Tel. 0984 795065 - Fax 0984 792672 Sito internet: www.pellegrinieditore.it E-mail: [email protected]

I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

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Introduzione

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INTRODUZIONE

“Per essere filosofo si deve essere nati filosofi, bisogna venir educati ad esserlo, ed educare se stessi a diventarlo: ma non esiste nessuna arte umana che faccia diventare filosofo. È per questo, dunque, che questa scienza si ripromette pochi proseliti fra gli uomini che sono già fatti; e se le è consentito sperare, allora essa si aspetta di più dai giovani, la cui forza innata non è ancora stata distrutta dalla fiacchezza del nostro tempo”. J. G. Fichte

L’Opera vuole essere un agevole strumento per una prima comprensione del pensiero dei filosofi che, da Kant a Heidegger, hanno segnato, in modo indelebile, la filosofia del mondo contemporaneo e influenzato quella a noi più vicina. L’Opera si rivolge a chi non è “già fatto”, a chi non considera chiusa la questione riguardante il senso e il valore del pensare e dell’agire, a chi non ha rinunciato a ricercare il senso e il valore della vita presa in tutta l’ampiezza delle sue manifestazioni. La sfida principe che si gioca in queste pagine, è stabilire se la filosofia possa fornirci la totalità della verità, la verità originaria e ultima, il fondamento primo e il fine assoluto. Se v’è una tale verità, non può essere che im5 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

mutabile, definitiva, eterna, e la sua adeguata comprensione comporterebbe la totale comprensione della vita e del suo senso. Comporterebbe sapersi salvi dal terrore e dalla disperazione della morte, dal dolore e dagli scacchi dell’esistenza, in quanto rivelerebbe l’eterno destino che attende ogni cosa, il porto glorioso dal quale salpa e dove attracca ogni esistenza, navigatrice oscillante e sparente, ma da sempre e per sempre accolta nell’abbraccio infinito dell’oceano-verità. Se la filosofia possa fornire questa chiave eterna e possente, è la febbre e l’urgenza stessa che spinge a filosofare, a ricercare sentieri della mente inesplorati, a contemplare la realtà con occhi pieni di meraviglia e stupore, a rintracciare l’appoggio ideale, per poter saltare dal mondo delle apparenze comuni al regno dell’apparire genuino, dalla chiacchiera quotidiana al verbo autentico, dall’opinione alla verità. Ridottasi ogni cosa alla rilevanza pratica e al valore economico, la filosofia, in quanto regno della pura contemplazione teoretica, rappresenta la sola dimensione nella quale poter arrestare l’andirivieni acefalo e la corsa nevrotica del disumano sopravvivere, per immergersi nella calma del pensiero e nella profondità della riflessione. Forgiarsi nella calma dell’attività speculativa e immergersi nella profondità del pensare, rappresentano la dote fondamentale che la filosofia dona a chi si abbandona volonteroso al suo ascolto imponente. Chi decide di affidarsi alla filosofia, in modo inevitabile, inizia a sentire, amplificato al massimo, il frastuono dei vocalizzi triti e ritriti del mondo, l’incomprensibilità degli schiamazzi e dei farfugliamenti del quotidiano dir nulla. Ma, allo stesso tempo, la filosofia offre la corda di violino grazie alla quale, arrischiandosi e impegnandosi come funamboli ballerini, è possibile superare tanto vuoto discorsivo, tanto chiasso anonimo, tanta assenza di autenticità, e pervenire all’essenza delle cose, alle questioni fondamentali dell’esistere, al perché e allo scopo della vita e del mondo. 6 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Introduzione

Rappresenta un grave e ingenuo errore considerare la filosofia estranea alla vita concreta, alla cosiddetta esistenza effettiva. Accantonare e relegare nel tempo perso l’attività pensante in cui consiste la filosofia, perché non apportatrice di risultati spendibili e beni consumabili, significa ridurre l’intera esistenza a truce gozzoviglia indiscriminata di cose e di corpi, di chincaglierie materiali e aggregati molecolari, di inutilità e violenze, palesando nel modo più nocivo la superficialità indefessa, il livellamento generale e lo sfruttamento incondizionato del mondo e degli uomini. Per questo motivo, la riflessione qui riportata di Fichte, non può non essere fatta nostra: si può sperare soltanto nei “giovani” – e l’età anagrafica, sia chiaro, non c’entra nulla. Possiamo sperare soltanto in chi, nonostante il vecchiume ideologico e la decrepitezza intellettuale che ingolfa la mente e consuma il corpo, riesce ancora a sentirsi e desidera affermarsi come essere pensante, come esistenza capace di opporsi e superare ciò che fiacca e distrugge lo slancio vitale e l’innata forza a vivere una vita energicamente voluta, autenticamente consapevole e irriducibilmente affermata come unica e irripetibile. Nata dall’intenzione di scacciare il funesto spettro di considerare la filosofia come attività riservata in modo esclusivo agli addetti del settore, l’Opera è stata pensata come una guida che si muove attraverso le argomentazioni essenziali e gli snodi portanti di ogni filosofo trattato, scansando qualunque tipo di esposizione specialistica. Ci si è ben guardati dal disperderci in sottigliezze erudite, in sfoggi di terminologie e periodizzazioni complesse, in giudizi di valore personali, in rompicapo filologici e annotazioni storiografiche, preferendo soffermarci sul palpito vivo e pregno di stimoli che lo studio attento, se svolto senza pregiudizi, rende possibile estrapolare da ogni testimonianza filosofica. Si è certo ben consci di quanto una esposizione introduttiva non può offrire al lettore il completo pensiero di un filosofo, e per questo motivo ci sembra opportu7 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

no riportare qui le parole di Schopenhauer, che spronano a intraprendere in prima persona lo studio delle opere filosofiche: “Le speculazioni filosofiche si possono ricevere solo dai loro autori; chi si sente quindi portato alla filosofia deve visitarne gli immortali maestri nel santuario delle loro stesse opere”. Così come abissale è la differenza tra il sentir dire e l’esperire personalmente un determinato fatto o evento della vita, una distanza considerevole esiste tra il recepire, in maniera indiretta, il pensiero di un filosofo e il gustare, in prima persona, il piacere della lettura e della comprensione delle opere filosofiche. L’Opera avrà adempiuto al suo compito, se agevolerà e spingerà il lettore a intraprendere uno studio completo sui filosofi che la lettura delle nostre pagine avranno stimolato ad approfondire. Per questo motivo abbiamo pensato fosse indispensabile offrire, unitamente alla nostra esposizione del pensiero dei filosofi, la loro stessa voce, riportando alcune pagine delle opere più rappresentative. Per lo stesso motivo, si è deciso di riportare le parole degli stessi filosofi nell’esposizione introduttiva da noi compiuta, convinti che, in un quadro generale dei filosofi contemporanei, sia fondamentale offrire i pensieri nella loro veste originale, soprattutto quando questi si presentano in una tale limpidezza e incisività che non può essere sottaciuta. Intenzionati a non tralasciare nessun elemento indispensabile per la corretta comprensione del pensiero dei filosofi, ci siamo confrontati con importanti opere di storia della filosofia, quali la Storia della filosofia di Nicola Abbagnano, la Storia della filosofia occidentale di Bertrand Russell e, in special modo, La filosofia dai greci al nostro tempo di Emanuele Severino, rintracciandovi un’esemplare agilità di esposizione accompagnata da un’impeccabile ed esaustiva indagine speculativa. Per non appesantire troppo il volume, abbiamo inteso limitare i riferimenti bibliografici alle opere citate, e a segnalare le opere dei filosofi maggiormente citate. 8 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Introduzione

I dati bio-bibliografici sono stati reperirti da Laura Ferrara, la quale ha a sua volta curato la stesura dei paragrafi “Vita e Opere” di tutti i filosofi. Al suo impegno e alla sua vicinanza vanno i miei più sentiti ringraziamenti. Ringrazio Denise Perrone per la consulenza sulle questioni scientifiche, e Walter Stancati e Maria Carmela Errico per la loro amorevole disponibilità. Mario Lino Stancati

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Immanuel Kant

L’illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Kant

Immanuel Kant: vita e opere1 Immanuel Kant nasce a Königsberg (l’odierna Kaliningrad) il 22 aprile 1724. Seguendo l’educazione religiosa instillatagli dalla madre, frequenta il Collegium Fridericianum, il principale centro di studi dell’epoca sul pensiero pietista. Terminato il Collegio nel 1740, si dedica agli studi di filosofia, teologia e matematica presso l’Università di Königsberg. Dal 1747 al 1754 fu precettore privato presso alcune case patrizie,

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  I paragrafi “Vita e opere” dei filosofi sono a cura di Laura Ferrara.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

lavoro grazie al quale Kant riuscì a guadagnarsi da vivere; nel 1755 ottenne la licenza di magister che gli permise di insegnare presso l’Università di Königsberg per 15 anni. In quel periodo, e precisamente nel 1766, diventa bibliotecario della Reale Biblioteca della sua città; nonostante, infatti, avesse ottenuto la docenza presso l’Università, Kant veniva retribuito direttamente dagli studenti e ciò implicava un maggiore impegno da parte sua, non solo in termini di tempo quanto anche e soprattutto di studio. Finalmente, a coronare la dedizione per gli studi portati avanti sino ad allora, Kant ottiene nel 1770 la cattedra di logica e metafisica nella stessa Università in cui fino ad allora aveva insegnato e dove avrebbe continuato a lavorare strenuamente fino agli ultimi anni della sua vita. Scrupoloso, metodico, estremamente abitudinario, Kant dedicò infatti la sua vita agli studi: i pasti ed una passeggiata pomeridiana erano i soli momenti in cui concedeva tregua alla sua attività intellettuale. Il sopraggiungere di una forte debolezza senile gli impedì di portare avanti i suoi impegni lavorativi: il 1798 fu infatti l’anno in cui Kant cessò la sua docenza universitaria. Il 12 febbraio del 1804, quando ormai aveva perso finanche la memoria e la parola, Kant morì nella sua città natale che mai aveva voluto abbandonare. Tra le numerose opere, ricordiamo: Forma e principi del mondo sensibile e intellegibile (1770); Critica della ragione pura (1781, edizione riveduta 1786); Critica della ragione pratica (1787); Critica del giudizio (1790). Il mondo prima di Kant La filosofia moderna, che da Cartesio (1596-1650) arriva fino a Kant, nega la certezza fondamentale caratterizzante la filosofia antica e quella medioevale, le quali affermavano: 12 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Immanuel Kant

1) che il pensiero umano conosce la realtà così come essa è in se stessa (certezza), 2) che la realtà esiste indipendentemente dal pensiero dell’uomo (verità). “A partire da Cartesio, la filosofia moderna scopre che la realtà, in quanto pensata, non è la realtà che esiste in se stessa indipendentemente dal pensiero. In quanto realtà pensata, l’intero universo che ci circonda è quindi contenuto di pensiero, cioè pensiero, “idea” (organismo di idee)”2. Bisogna, ora, stabilire cosa la conoscenza umana è capace di conoscere della realtà a lei esterna, e quale verità possa avere la certezza del nostro pensare. Kant, che col suo “criticismo” aprirà la strada per l’avvento dell’“idealismo”, è considerato il più grande dei filosofi moderni, ed è colui che portò al compimento massimo quella tendenza speculativa, inaugurata proprio da Cartesio, che arrivava a postulare la netta separazione e opposizione esistente tra l’uomo e le cose, tra il pensiero (res cogitans) e la materia (res extensa), tra lo spirito umano e il mondo concreto. Cartesio, dopo aver messo radicalmente in dubbio l’esistenza di tutte le cose, asserì che l’uomo può essere certo della sua esistenza solo in quanto egli è pensiero in atto. Ossia asserì l’indubitabilità dell’esistenza della mente umana: cogito ergo sum, penso quindi sono, io sono perché penso, sono certo che esisto proprio perché penso di esistere. Tramite il mio pensiero, e solo grazie ad esso, riesco a riconoscermi senza dubbio come un “io”, ovvero come un soggetto pensante – indubitabilmente certo di pensare e quindi di esistere. L’affermazione, “Io sono, io esisto, – afferma Cartesio – è necessariamente vera tutte le volte che

2   E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo, vol. II (la filosofia moderna), BUR, Milano 2008, p. 283.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

la pronuncio, o che la concepisco nel mio spirito”. Dopo Cartesio, e precisamente all’interno dell’“empirismo inglese”, Locke (1632-1704) afferma: “Dato che lo spirito, in tutti i suoi pensieri e ragionamenti, non ha altro oggetto immediato se non le sue stesse idee, che esso solo contempla e può contemplare, è evidente che la nostra conoscenza può riferirsi solo ad esse”. La nostra conoscenza non può in nessun modo riferirsi alla realtà come realmente essa è. Per Locke, quindi, la nostra conoscenza (certezza) non può raggiungere la realtà in sé delle cose (verità). Berkeley (1685-1753), radicalizza il discorso, e sostiene l’esistenza solo degli spiriti umani e delle loro idee (“impressioni”), negandola in ogni modo alla materia (realtà, natura). Hume (1711-1776), chiudendo da ultimo i conti, nega perfino l’Io (il soggetto umano) e mette in dubbio l’induzione e il principio di causalità, principi fondanti, questi, di ogni scienza che pretenda d’essere vera: l’uomo non possiede conoscenze universali e necessarie del mondo esterno a lui, ma solo dei propri stati d’animo (idee, impressioni) e dei loro rapporti casuali e accidentali. Non solo la filosofia e la “metafisica” – che ha sempre teso alla conoscenza delle cose in se stesse, ossia alla “struttura e il senso delle cose in se stesse” (verità) – ma, per Hume, ogni conoscenza razionale della natura è priva di valore universale e necessario, non possiede cioè i caratteri della necessità oggettiva. Ogni “scienza”, che riguardi l’uomo o la natura, è solo un semplice “sentito”, una credenza personale, una “predisposizione a pensare” meramente soggettiva, una “necessità soggettiva”, cioè assolutamente non universale. Lo stesso Kant, influenzato dall’empirismo inglese, definirà la metafisica nei termini di “abisso senza fondo”, “oceano tenebroso senza sponde e senza fari”, sogno mentale, pura fantasia senza possibilità di concretezza epistemica. Che una conoscenza non ha valore universale e necessario significa che essa potrebbe anche rivelarsi non og14 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Immanuel Kant

gettivamente esistente, che potrebbe essere solo un sogno creduto reale da qualcuno ma non da altri, e quindi non da tutti. Una conoscenza non universale, potrebbe presentarsi in un modo del tutto diverso da come, di fatto, si presenta per me, per voi, per tutti. “Hume, nella sua coerenza, mostrò che l’empirismo, spinto fino alle sue conclusioni logiche, portava a risultati che pochi esseri umani potevano accettare ed aboliva nell’intero campo della scienza ogni distinzione tra convinzione razionale e credulità”3. Per lo scetticismo radicale di Hume, dunque, l’uomo non può raggiungere, neppure nei limiti dell’esperienza, la sicurezza di un sapere stabile. In filosofia, fu grazie al pensiero di Kant che, reagendo all’agnosticismo estremo di Hume, in qualche modo si poté salvare e salvaguardare la conoscenza umana, pur riconoscendone appieno i suoi inestirpabili limiti fondamentali e costituzionali. Per Kant è ancora possibile raggiungere un autentico sapere umano, cioè un sapere filosofico epistemico, o, in altri termini, è ancora possibile che, per l’uomo, vi sia un sapere necessario e universale, ossia una sapere indubitabile (epistéme). La rivoluzione kantiana Kant rappresenta un evento epocale all’interno della filosofia. La sua teoria è stata da egli stesso definita come una sorta di “rivoluzione copernicana”, come un rovesciamento totale della tradizione precedente, effettuato attuando, come proprio compito teoretico, una ferrea critica della “ragione”, indagata sia come “ragione pura” (formale, logica), che come “ragione pratica” (morale, etica).

3   B. Russel, Storia della filosofia occidentale, vol. IV (da Rousseau ad oggi), Longanesi, Milano 1967, p. 938.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

La critica mossa da Kant alla metafisica – termine questo che letteralmente significa “oltre la fisica”, intesa come sapere capace di oltrepassare i limiti dell’esperienza sensibile – è ribadita dal suo stesso procedere speculativo, che analizza l’esperienza sensibile, per poi ridurre i contenuti di questa a regole e a leggi necessarie e universali. La filosofia può arrivare a definizioni incontrovertibili solo dopo aver chiarito i dati sensibili a cui l’uomo fa riferimento. La vera scienza (epistéme) – cioè quel sapere incontrovertibile che, per Kant, non cede ai regni dell’invisibile o dell’ultraterreno – è solo quella che è capace di porsi come “scienza dei limiti della ragione umana”, ossia quella scienza capace di fondare, e quindi giustificare, “il limite intrinseco del possibile, che è l’esperienza”4. È solo dopo aver scovato i reali limiti costitutivi dell’uomo nei confronti dell’esperienza sensibile, che una vera scienza, come intende essere quella di Kant, può, proprio su quei limiti, innestare e fondare le capacità e i poteri, innanzitutto conoscitivi, dell’uomo razionale. Kant non si limita, come fece Hume, a constatare e accertare i limiti della ragione umana, fermandosi a questo unico passo, bensì giustifica, proprio in virtù di essi e sul loro fondamento, i poteri conoscitivi da assegnare al pensiero umano. In altri termini, “ogni facoltà o atteggiamento dell’uomo può trovare la garanzia della sua validità, il suo fondamento, solo sul riconoscimento esplicito dei suoi stessi limiti”5, ossia solo determinando i criteri limitativi stessi del sapere umano. I limiti della ragione non possono essere determinati da qualche cosa ritenuta superiore alla ragione stessa, come, per esempio, insegna la fede e ogni esperienza soprasen-

  N. Abbagnano, Storia della filosofia, vol. III (il pensiero moderno: da Cartesio a Kant), Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2006, p. 630. 5   Ibidem, p. 633. 4

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Immanuel Kant

sibile: solo la ragione può determinare i suoi stessi limiti, ovvero “le condizioni condizionanti” della ragione stessa e perciò dell’uomo. Kant supera il macigno e il dogma speculativo di Hume, tentando di trovare nella “costituzione dell’uomo” il movente ultimo capace di spingere il pensiero umano oltre l’esperienza, ossia quel pensiero capace di trascendere quest’ultima, per arrivare ad una conoscenza finalmente universale e necessaria. Questo sapere, capace di superare i limiti dell’esperienza sensibile, é detto “trascendentale”. Per Kant, la “possibilità fondante” della scienza non può trovarsi nella “materia” della conoscenza umana, ma deve essere riconosciuta solo nella “forma pura” di tale conoscenza, cioè in quegli “elementi e funzioni” del pensiero, che non siano dipendenti o derivati dall’esperienza. La possibilità fondante dell’autentico sapere umano deve essere riconosciuta solo in quegli elementi e in quelle funzioni puramente mentali (logiche e formali) che rendono possibile, prescindendo da ogni riferimento e giustificazione dell’esperienza, ogni esatta conoscenza umana, quella conoscenza, cioè, capace di ordinare e unificare il molteplice empirico delle impressioni sensibili in modo universale e necessario. Kant arriva alle sue nuovissime conclusioni filosofiche – che, per propria forza intrinseca, influenzeranno tutto il pensiero filosofico seguente – principalmente studiando, indagando, giudicando e criticando a fondo i vari processi mentali, attraverso cui l’uomo conosce tutto ciò che conosce. La sua è un’approfondita autocritica della ragione tutta, che viene sottoposta ad un’intensa verifica, ad un incessante vaglio teoretico, riguardante tutte le conoscenze cui può arrivare la ragione indipendentemente dall’esperienza, in quanto ragione “pura”. Come compito primo della critica della ragione, Kant si prefigge di isolare e di giustificare nettamente quegli elementi formali della conoscenza e quelle funzioni pure (“a priori”) del nostro intelletto, elementi e funzioni del pensiero umano, che si 17 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

presentano privi di ogni riferimento all’esperienza e indipendenti da essa. Ne La Critica della ragion pura, Kant dimostra che la nostra conoscenza – che non può in nessun modo prescindere dall’esperienza –, è in parte “a priori”, cioè non è desunta induttivamente, non deriva dall’esperienza che facciamo della realtà a noi esterna. Molte delle nostre conoscenze sono dedotte dall’osservazione diretta che ne facciamo nell’esperienza, come ad esempio accade per i fatti storici, le nozioni geografiche o le leggi scientifiche: queste conoscenze sono dette “empiriche” (“a posteriori”). Altre conoscenze invece sono “a priori”, cioè sono in nostro possesso anche senza dover per forza ricorrere all’osservazione empirica. Di questo tipo, cioè “a priori”, sono tutti gli enunciati della matematica e della fisica pura. La matematica e la fisica pura hanno come proprio contenuto (formale, logico) qualcosa di indipendente dall’esperienza, e pertanto sono verità, ossia giudizi universali e necessari. Di contro si capisce come ogni conoscenza empirica, e quindi tutti i giudizi derivati (dedotti) dall’esperienza sensibile, sono sempre passibili di confutazione, e possono venire contraddetti e negati da altri “fatti” empirici e sensibili. Le conoscenze derivate dall’esperienza, ossia le conoscenze “a posteriori”, non sono pertanto giudizi e verità, e non sono né necessarie né universali. Il “molteplice disordinato ed amorfo delle impressioni sensibili”, dette anche “intuizioni sensibili”, sono la “materia” della realtà esterna che l’intelletto riceve; mentre quegli elementi o funzioni “a priori”, che permettono all’intelletto di formulare dei giudizi (sintetici a priori) universali e necessari – quindi non amorfi e non disordinati, cioè con una forma necessaria e con un ordine universale – sono la “forma” attraverso cui la conoscenza dà ordine ed unità a quelle impressioni sensibili, o intuizioni empiriche, ricevute passivamente dalla realtà esterna. È solo scoprendo gli elementi formali della conoscenza – quelli che Kant 18 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Immanuel Kant

chiama “a priori” (o “puri”), cioè privi di un riferimento alla realtà in sé delle cose, e perciò indipendenti dall’esperienza – che si potranno rintracciare i limiti della ragione umana ed evidenziare le capacità conoscitive della stessa. Pur nei limiti dell’esperienza, l’uomo è in grado di raggiungere una conoscenza universale e necessaria riguardante la totalità dell’esperienza umana: una conoscenza “pura”, “sintetica” e “a priori” appunto. Come detto, solo la matematica e la fisica pura sono conoscenze che posseggono tali caratteristiche, ossia sono “trascendentali”, in quanto non hanno bisogno, per la propria giustificazione, di riferirsi agli oggetti esterni della realtà. Pertanto, in quanto conoscenze pure e a priori (innate), caratterizzano il modo (la “forma”) attraverso cui la nostra mente riesce a conoscere (pensare) gli oggetti dell’esperienza nella loro totalità. Se i giudizi della matematica e della fisica pura sono “giudizi sintetici a priori”, la prima e più urgente domanda è questa: come è possibile che la nostra mente possegga delle verità, cioè dei giudizi, indipendenti dalla nostra esperienza, essendo appunto “sintetici” e “a priori”? Come è possibile una matematica e una fisica pura? Vedremo di seguito come Kant tenterà di risolvere questo enigma. Per ora possiamo concludere affermando, con Kant, che “ il mondo esterno fornisce solo la materia per le nostre sensazioni, ma è il nostro apparato mentale che dispone questa materia nello spazio e nel tempo e fornisce i concetti per mezzo dei quali comprendiamo l’esperienza. Le cose in se stesse, cause delle nostre sensazioni, sono inconoscibili; esse non sono nello spazio e nel tempo, non sono sostanze né possono essere descritte da alcuno di quegli altri concetti generali” (chiamati da Kant “categorie”, che sono i concetti “puri” dell’intelletto).

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Il limite della mente umana, ovvero la “cosa in sé” La novità principe del sistema kantiano è la teorizzazione e l’introduzione, nel mondo filosofico, della “cosa in sé”, o meglio, del concetto di “cosa in sé”, da intendere come fondamento primo (causa, principio, sostrato, radice) di ogni conoscenza umana, nei confronti della quale l’uomo può solo nominarla o al massimo intenderla astrattamente. L’essere umano può solo pensare ad essa, non riuscendo mai a conoscerla indubitabilmente: la “cosa in sé” è l’inconoscibile, è il limite ineliminabile che l’uomo non può in nessun modo oltrepassare e svelare. Tutto ciò che l’uomo concepisce non è mai realtà immediata, originale, autentica, non è mai “vera”, ma è esclusivamente immagine, apparenza, mera copia di un modello sempre inconoscibile (“cosa in sé”). Tutto ciò che l’uomo concepisce è semplice “rappresentazione”, mero “fenomeno”. L’oggetto della conoscenza è sempre e solo “fenomeno”, e non è quindi l’“essere in sé”. Il “fenomeno” – l’oggetto dei pensieri umani –, è ciò che della “cosa in sé” appare all’uomo. La “cosa in sé”, essendo per Kant l’“inconoscibile” per eccellenza, può apparire all’uomo, per propria forma mentis, solo come “fenomeno”, come copia che non combacia mai con l’originale, come immagine alterante, come “apparenza”. L’uomo, pertanto, ha fuori di sé il proprio fondamento conoscitivo, e risulta un estraneo nei confronti della realtà, ossia nei confronti del mondo delle cose come sono in se stesse. In sintesi: – lo spirito umano riceve dall’esterno gli oggetti che gli sono dati e per questo aspetto esso è “sensibilità” passiva rispetto alle “cose in sé”; – la mente dell’uomo, lo spirito umano, riceve il proprio materiale da pensare dall’esterno, dal mondo delle “cose in sé”, non lo crea da sé attivamente; – in quanto “sensibilità passiva”, lo spirito umano si trova 20 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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a che fare con qualcosa di già dato, già tutto “in sé”, radicalmente chiuso, assolutamente inconoscibile. Essendo la “cosa in sé” l’incondizionato, il principio primo, il fondamento di tutto il nostro conoscere sensibile, questa in nessun modo può essere provata e accertata dall’esperienza umana. Se, infatti, “il principio assolutamente primo”, in questo caso la “cosa in sé” kantiana, si potesse dimostrare e determinare nell’esperienza, codesto principio non sarebbe più “assolutamente primo”, poiché avrebbe bisogno d’altro su cui fondarsi (in questo caso l’uomo). La filosofia kantiana, allora, esclude che l’uomo possa conoscere la verità metafisica del mondo (la realtà in sé delle cose), esclude la conoscibilità delle cose come esse sono in se stesse. La “cosa in sé” è dunque un “noumeno”, un semplice pensato, e ciò che nell’esperienza l’uomo conosce di questo “noumeno” è solo “fenomeno”, “semplice apparenza”, rappresentazione soggettiva di una realtà esterna a lui e a lui inconoscibile. L’uomo si trova, per propria costituzione, come uno spettatore a teatro. Di fronte a lui, su quella scena che è il mondo, viene rappresentato lo spettacolo della realtà a lui esterna, lontana, distante, estranea. L’uomo, di tutto quello che vedrà e sentirà, in una parola di tutto quello che riceverà dalla scena (realtà esterna), non potrà mai affermare con sicurezza se sia verità o finzione, se quegli attori sul palco, che poi sono le cose del mondo dei fenomeni, stiano dicendo o mostrando veramente quello che dicono e mostrano, o se tutto è finzione, rappresentazione, apparenza, “teatro”. Ma abbiamo visto che, per Kant, non si tratta neanche più di porsi tali dubbi: la realtà in sé, la “scena”, il mondo esterno all’uomo, la “cosa in sé”, è in tutto e per tutto inconoscibile: “ […] Ogni nostra intuizione si risolve nella rappresentazione di un fenomeno; […] le cose da noi intuite non sono in se stesse ciò per cui le intuiamo e […] i loro rapporti non sono in se stessi tali quali ci appaiono”. Ora, 21 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

“sopprimendo il nostro soggetto o anche soltanto la disposizione soggettiva dei sensi in generale, ne seguirebbe la dissoluzione di ogni qualificabilità e di ogni relazione degli oggetti nello spazio e nel tempo, anzi dello spazio e del tempo stessi, perché, in quanto fenomeni, essi non possono esistere in sé, ma soltanto in noi. Che cosa siano gli oggetti presi in se stessi, a prescindere dall’intera recettività della nostra sensibilità, ci è del tutto ignoto. Ciò che noi conosciamo è solo il nostro modo di percepirli, modo che ci caratterizza e che non implica alcuna necessità di appartenere ad ogni essere, sebbene sia proprio di ogni uomo”. “È solo con esso”, cioè è solo con “il nostro modo di percepire” gli oggetti, che noi abbiamo a che fare. Possiamo conoscere, giudicare e criticare solo il nostro modo di percepire le cose che di volta in volta conosciamo. Possiamo determinare con certezza solo la struttura mentale, le “forme” dei nostri processi logici, la caratterizzazione peculiare della nostra conoscenza, in quanto di universale e di necessario possiamo trovare soltanto le nostre “leggi” interne (“sintetiche” e “a priori”), appunto quelle “forme pure” attraverso cui il nostro pensiero pensa, conosce e ci permette di vivere in modo illuminato, razionale, umano. La rivoluzione copernicana attuata da Kant è così portata al suo punto più potente: non è più la conoscenza umana a regolarsi sugli “oggetti” dell’esperienza, ma, all’opposto, dopo Kant, sono gli oggetti a regolarsi sulla struttura mentale del soggetto umano. Copernico, ribalta la certezza (l’ipotesi) peculiare della tradizione a lui antecedente – l’immobilità della terra e la rotazione degli astri attorno a questa – e rivoluziona il modo di pensare di tutta l’umanità, scientifica e non, affermando che sono gli astri ad essere immobili e che la terra semplicemente ruota su stessa. Kant, “imitando” le tesi copernicane, ribalta tutto il sistema speculativo fino ad allora vigente: gli oggetti del mondo e “l’esercito degli astri”, non più si “muovono” verso gli uomini, non sono più cono22 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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scibili dall’uomo come sono in realtà, bensì è l’uomo a farli “muovere” da sé, a rappresentarli come fenomeni soggettivi, attraverso i suoi “movimenti” interni, ossia attraverso le particolari leggi “pure” (“sintetiche” e “a priori”) della sua mente. La rivoluzione di Kant è pertanto la costruzione più vigorosa del “soggettivismo”, come mai prima d’ora s’era presentato nel pensiero filosofico tutto. Ora tutti gli oggetti possibili dell’esperienza dovranno sottostare alle leggi della conoscenza umana. L’uomo può conoscere la “natura” perché è proprio lui a produrla, o, detto in altri termini, “le leggi che regolano il mondo sono prodotte dallo spirito umano”, o anche, “la realtà dell’esperienza (…) si regola sulle leggi o ‘forme’ a priori prodotte dallo spirito”6. Le intuizioni pure: lo spazio e il tempo Lo “spazio” e il “tempo” sono da intendere come esclusivamente soggettivi, in quanto dipendenti e condizionati dalla nostra struttura mentale e non dal mondo esterno. Essi esistono solo per il nostro apparato percettivo, non sono rilevabili nella realtà delle cose in se stesse (sempre inconoscibili), e, soprattutto, sono forme dell’intuizione (“sguardo”, “visione”) sensibile, cioè sono da ben distinguere dai concetti mentali (categorie intellettuali) e dalle “qualità delle cose”. Le intuizioni pure, cioè le forme “a priori” della sensibilità – lo spazio e il tempo –, devono essere considerate come le condizioni che ci permettono di intuire le qualità di tutto ciò che possiamo intuire. Solo lo spazio e il tempo, solo queste determinate “intuizioni pure”, che sono le condizioni formali costitutive la struttura del nostro apparato

6

  E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo, cit., p. 299.

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percettivo, e quindi del nostro modo di intuire sensibile, ci rendono capaci di poter qualificare qualcosa come esistente, conoscibile e pensabile (nominabile, descrivibile, ecc.), in quanto ci permettono di localizzare (spazio) e dare un senso interno (tempo) a ciò che, di volta in volta, intuiamo. Se non fossimo capaci di inquadrare, già da sempre, qualcosa nello spazio o ordinare qualcosa nel tempo, non potremmo in nessun modo essere capaci di pensiero, né potremmo conoscere qualche cosa. Regnerebbe cioè il caos, e il vortice infinito e insensato del molteplice empirico dominerebbe sovrano. In altri termini, “il molteplice empirico deve sottostare alle intuizioni pure di spazio e di tempo, perché esse sono il modo in cui il soggetto riceve quel molteplice dall’esterno”7. Spazio e tempo costituiscono i modi principali, le “forme pure” dice Kant, attraverso cui la mente umana riesce a percepire e ad organizzare la realtà esterna, secondo la successione temporale e la rilevazione spaziale. Mentre la “sensibilità” costituisce la “materia” con cui il nostro pensiero ha a che fare, ossia la “materia” percepita e organizzata dalle “forme pure”(spazio e tempo) che rendono possibile, e in questo senso condizionano, ogni nostra conoscenza. Essendo “a priori”, lo spazio e il tempo prendono il nome di “intuizioni pure”; mentre la “materia”, cioè ciò con cui la nostra sensibilità ha direttamente a che fare, al contrario, rappresenta nella nostra conoscenza ciò che fa sì che si parli di conoscenza “a posteriori”, di “intuizione empirica”. Solo dopo aver visto un cane per strada, o solo dopo aver ascoltato qualcuno che parlava di un cane, posso venire a conoscenza di cosa esso sia, di come si presenti un cane. Questa intuizione sensibile-empirica-materiale di un cane è una “conoscenza a posteriori”, è una “intuizione empiri-

7

  Ibidem, p. 308.

24 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ca”, che si “forma” nella mente solo dopo aver visto-udito come si presenti, nell’esperienza, un cane. Un sapere autentico, dunque, non può e non deve fondarsi sulle conoscenze empiriche, sempre varianti e disordinate, bensì deve esclusivamente avvalersi e basarsi sulle verità delle intuizioni “pure” e, soprattutto, sulle verità dei concetti “puri”, anche detti “categorie”. Le categorie dell’intelletto Concetti “a priori”, chiamati anche concetti “puri”, sono le dodici “categorie” kantiane prodotte dall’intelletto, anch’esse soggettive, come le intuizioni “pure” del tempo e dello spazio. “La nostra forma mentale è tale che esse sono applicabili a qualunque cosa noi sperimentiamo, ma non c’è ragione di supporle applicabili alle cose in sé”, in quanto esistono prima di ogni applicazione possibile alle cose. Ai concetti di “sostanza”, “causa”, esistenza”, “necessità” ecc., ossia ai concetti delle categorie kantiane, non corrisponde, per postulato teorico, niente che sia ritrovabile nell’esperienza. Non è dall’esperienza che tali concetti sono derivati, ed appunto perciò sono detti “a priori”. Le categorie consentono di unificare “a priori” il molteplice empirico, ossia i fenomeni del mondo e quindi il mondo dei fenomeni che si offre al nostro sguardo e al nostro pensiero in quanto rappresentazione sensibile: “Senza sensibilità non ci sarebbe dato nessun oggetto, e senza l’intelletto nessun oggetto sarebbe pensato” . È attraverso l’introduzione di queste categorie che Kant riesce a non cadere nel puro soggettivismo, tipico di certo scetticismo radicale – come era in fondo quello di Hume – permettendogli di affermare che soltanto la fisica, che si basa su categorie o concetti “puri”, a differenza della metafisica, possiede i caratteri della vera scienza. Le categorie kantiane, cioè i concetti “puri” dell’intellet25 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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to, essendo delle “sintesi a priori”, sono da considerarsi come leggi (funzioni) costanti e regolari, e “nessi che uniscono in modo necessario e universale i dati empirici”. Oltre alle “intuizioni pure” (anche dette “sintetiche a priori”) rappresentate dallo “spazio” e dal “tempo”, le categorie rendono possibile all’uomo, in questo caso a Kant, di arrivare alla formulazione di un autentico sapere umano e filosofico. In definitiva, “Kant mostra […] che se i concetti ‘puri’ – che egli chiama anche ‘categorie’ – non possono essere determinazioni delle cose in se stesse, non per questo essi sono privi di valore conoscitivo: essi sono appunto i concetti puri prodotti dall’intelletto, il concorso dei quali, insieme alla sensibilità, è necessariamente richiesto per costituire la conoscenza vera e propria”8. In sintesi : – il soggetto umano, essendo sensibilità, riceve dalla realtà a lui esterna, ossia dal mondo delle “cose in sé”, il molteplice empirico, già da sempre dato, chiuso in sé e quindi inconoscibile; – il soggetto, in quanto sensibilità, riceve dall’esterno, cioè dal mondo delle “cose in sé”, le sensazioni, che sono l’effetto dell’azione esercitata dalle cose in sé sul soggetto; – il soggetto, essendo “sensibilità” che riceve sensazioni, ossia in quanto essere “recettivo” (non creativo, non attivo), unifica questo molteplice empirico (“materia”) ricevuto dall’esterno; – il soggetto, in quanto “spirito”, unificando il molteplice ricevuto dalle cose in sé, conferisce “una forma alla materia in cui tale molteplice consiste”9; – la “forma”, in quanto “a priori”, deve già trovarsi all’interno dello spirito umano, affinché il molteplice empirico (la “materia” delle sensazioni) possa essere ricevuto in quel-

8 9

  Ibidem, p. 308.   Ibidem, p. 319.

26 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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la data “forma” intellettuale che appunto rende possibile ogni esperienza e pertanto ogni conoscenza umana. Dire che il soggetto è capace di “fare esperienza”, e che quindi è capace di conoscere, significa che esso è in grado, per propria costituzione mentale, di unificare “a priori” il molteplice empirico; è capace di produrre quell’unificazione e quella sintesi del molteplice empirico, in cui consiste ogni esperienza e ogni conoscenza umana. Il soggetto unifica “a priori” il molteplice empirico, conferisce una “forma” alla “materia” sensibile attraverso un preciso “organismo di forme”, che sono: a) le intuizioni “pure”, o intuizioni “sintetiche a priori”, quali il “tempo” e lo “spazio” b) le categorie, dell’intelletto (o concetti “puri”, cioè “sintetici a priori”), quali le categorie di “causa”, “unità”, “esistenza”, ecc. c) le “idee trascendentali”, ossia quelle “idee” capaci di superare e di esistere al di là della realtà sensibile e quindi di valere (di essere giustificate) per se stesse. Idee trascendentali che esistono in modo necessario e universale esclusivamente per la “ragione” dell’uomo e a prescindere da ogni esperienza che l’uomo possa fare della realtà a lui esterna, e, quindi, senza il bisogno di doversi riferire alle “cose in sé” della realtà. La ragione umana è la facoltà dell’infinito Oltre alle “categorie”, prodotte dall’intelletto, che sono necessarie all’uomo per unire (sintetizzare) il molteplice empirico dato, Kant - partendo dal principio che “se è dato il condizionato [l’esperienza] è data anche l’intera somma delle condizioni e quindi l’assolutamente incondizionato” nel suo originale discorso speculativo, introduce una specifica facoltà che permette al soggetto di unificare lo stes27 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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so intelletto in una unificazione più ampia e insuperabile: questa facoltà è la “ragione”. La ragione è l’“assolutamente incondizionato”, è al di là dell’esperienza, non è condizionata da questa, come in qualche modo lo era ancora l’intelletto, per quanto riguarda le intuizioni empiriche e i concetti a posteriori. Perciò, “l’intelletto è la facoltà del finito, la ragione è la facoltà dell’infinito. L’intelletto ha per oggetto il finito, cioè l’esperienza. La ragione ha per oggetto l’infinito, ossia la totalità delle cose, oltre la quale non vi è nulla. L’infinito è l’unificazione più alta e inoltrepassabile del molteplice empirico”. “L’incondizionato” è una idea necessaria e inconfutabile (universale) della ragione, cioè l’“incondizionato” propriamente non esiste. È sì nominabile (pensabile, criticabile) ma non è determinabile concretamente. Non è una “cosa in sé”, non è materialmente rilevabile nella realtà empirica, né questa potrà mai confutare la sua esistenza. È tale solo a causa della nostra ragione, che, per il principio succitato, deve affermare l’“esistenza” dell’“incondizionato”. L’esistenza dell’“incondizionato”, ossia della “ragione”, è da intendersi valida solo per l’uomo. È una verità esclusivamente “soggettiva”, riguarda cioè solo la “sfera umana” e non il mondo esterno. L’esistenza dell’“incondizionato”, o meglio, l’esistenza dell’idea necessaria dell’“incondizionato” (l’infinito), ha pertanto una esistenza “ideale”, essendo l’“idea” (il concetto), per definizione kantiana, ciò il cui contenuto non può essere ricondotto all’esperienza, ma solo alla ragione. Il concetto che ha come contenuto l’incondizionato (l’infinito) è “l’idea trascendentale” – dove il termine “trascendentale” indica proprio questo stare “al di là dell’esperienza”. L’“idea trascendentale”, oltre a non essere rilevabile nell’esperienza in quanto è oltre questa, supera (trascende) a sua volta i limiti di ogni esperienza empirica, e per questo motivo è detta anche “trascendente”. È vero che l’uomo, conoscendo solo “fenomeni”, ha co28 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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me suo inestirpabile limite l’inconoscibilità delle cose come sono in se stesse (realtà) – “anche se ci fosse permesso di penetrare nel fenomeno fino al suo fondamento ultimo, resterebbe radicalmente diverso dalla conoscenza dell’oggetto in se stesso” – ma Kant, partendo proprio da questo punto fermo, riesce a teorizzare il concetto assoluto dell’“idea trascendentale” e “trascendente”. Una “idea” capace cioè di superare e di esistere al di là della realtà stessa, e quindi di essere, per la ragione, assolutamente necessaria e universale. Nonostante l’uomo non possa conoscere la realtà a lui esterna, egli può, dopo Kant, idealmente, cioè esclusivamente tramite la ragione, trascendere e quindi superare questa stessa realtà limitante. E questo grazie alla facoltà della “ragione”, che ha come suo contenuto l’infinito, l’“incondizionato”, “ossia la totalità delle cose, oltre la quale non vi è nulla”. Soltanto la ragione è la facoltà capace di assicurare all’uomo delle verità necessarie e universali. Ora, l’“idea” dell’assolutamente incondizionato, che è l’“idea della totalità stessa della realtà”, è l’idea di “Dio”, ossia l’idea dell’“Essere originario”, dell’Essere sommo, cioè del principio originario della totalità stessa della realtà. Non avendo l’“idea trascendentale”, come detto, un contenuto tale che possa essere ricondotto all’esperienza sensibile, “Dio”, o meglio, l’“idea trascendentale” in cui “Dio” consiste, non è giustificabile attraverso delle constatazioni puramente empiriche, il che vuol dire che l’esistenza di “Dio” non può essere dimostrata “a posteriori”. “Dio” è una “idea trascendentale”, che la ragione possiede in quanto non può non pensarla se vuole davvero unificare la totalità stessa della realtà. Oltre all’idea di “Dio”, come “idea trascendentale”, esistono anche l’idea dell’“anima” e l’idea del “mondo”. L’“anima”, il “mondo” e “Dio”, essendo “idee trascendentali”, non sono “cose in sé”, ma sono il contenuto delle idee necessarie della ragione, con le quali la ragione unisce, rispettivamente: 29 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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– i fenomeni del “senso interno” (fenomeni psichici) alla totalità delle loro condizioni, che è l’“anima” – i fenomeni del “senso esterno” (fenomeni corporei) alla totalità delle loro condizioni, che è il “mondo” – e infine, la ragione unisce tutte le cose alla totalità delle loro condizioni, che è “Dio”. In quanto capace di superare e di esistere al di là della realtà stessa, l’“idea trascendentale” (Dio, anima, mondo) è una verità necessaria e universale. Così che solo e nient’altro che la “ragione” può fornire e assicurare all’uomo un sapere incontrovertibilmente stabile e infallibile. L’imperativo categorico Come abbiamo visto, la “ragione” è la facoltà che permette la perfetta unificazione del molteplice sensibile (esperienza) che si forma all’interno dell’“io”, ossia all’interno dell’intelletto umano condizionato dai fenomeni psichici e dai fenomeni corporei. Oltre a questa capacità di sintesi assoluta (incondizionata), la ragione ha inoltre il potere di determinare e “comandare” la volontà dell’uomo e la sua condotta morale. “La ragione è anche in relazione alla volontà”10, la ragione “determina” e “comanda” la volontà dell’uomo. La ragione “pura”, nei confronti della volontà umana, presenta e determina certe regole (leggi, imperativi), che ogni uomo può e deve seguire. Ogni uomo può condurre una vita morale, una vita buona e giusta, perché in ogni uomo, in quanto essere razionale, è presente quella condizione suprema che rende ciò possibile: in ogni uomo è infatti presente la voce della ragione, o “voce della coscienza”. Oltre ai molteplici imperativi ipotetici o esclusivamen-

10

  Ibidem, p. 332.

30 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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te pratici, dettati cioè da esigenze “empiriche” (tradizionali, sanitarie, sociali, comunitarie, religiose, ecc.), la ragione determina la volontà anche mediante un imperativo “categorico”. Per “imperativo categorico” bisogna intendere un qualcosa, in questo caso specifico una legge, che non è condizionata da nient’altro, per esempio dal desiderio di seguirla oppure no, o dal diletto sperato, dal piacere previsto, dall’utile ricavabile, dalla “salvezza” promessa in cambio di determinati atteggiamenti, e così via. A) Da un lato, la volontà dell’uomo è determinata da “principi pratici”, ossia da comandi e prescrizioni che fanno sì che la volontà (di Mario, Giovanni, x) voglia questo piuttosto che quello; possiamo distinguere questi “principi pratici” nei seguenti due insiemi: 1 - i “principi pratici” che sono “immediatamente” condizionati dai desideri e dagli impulsi che si riferiscono a oggetti empirici; 2 - i “principi pratici” che esprimono “regole” della ragione, che non sono dettati da desideri e impulsi da soddisfare immediatamente, ma si riferiscono, per esempio, ad un determinato scopo o utile da raggiungere nel tempo adoperando determinati mezzi. Del primo tipo è, per esempio, quel principio pratico tradotto nella famosa massima del “mangiar bene”, il quale altro non è che un principio relativo, cioè un principio condizionato dal desiderio immediato del cibo, e che presuppone quindi un desiderio particolarmente intenso del cibo da parte di chi accetta di seguire questo principio. Del secondo tipo, invece, è il principio pratico che consiglia ai giovani, per esempio, “di fare economie per non stentare nella vecchiaia”. Anche questo è un principio pratico relativo e condizionato, ma stavolta è in relazione ad un particolare scopo finale, qual’è quello dell’agiatezza, da ottenere solo dopo aver adoperato specifici mezzi, in questo caso adoperando il mezzo “di fare economie”. Questi tipi di principi, essendo esclusivamente “pratici” 31 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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e “ipotetici”, saranno ritenuti validi magari per la volontà di Mario e di Giovanni, ma non lo saranno magari per Luna e Lorenzo i quali non desiderano affatto “mangiar bene”, né tanto meno si pongono, essendo ancora giovani e forti, il problema di come e cosa fare per viversi agiatamente la propria “vecchiaia” . I principi di questo tipo, ossia “ipotetici” e “pratici” non sono leggi e regole applicabili universalmente, non sono leggi applicabili a tutti gli uomini: “Gli imperativi stessi, se sono condizionati, cioè se non determinano la volontà semplicemente in quanto volontà, ma solo in vista dell’effetto desiderato, cioè se sono imperativi ipotetici, saranno, sì, precetti pratici, ma non leggi”. B) Poiché la legge universale – l’“imperativo categorico” – ordinato dalla ragione, ha il compito di comandare e guidare la condotta umana e la vita morale di ogni uomo, esso deve “determinare […] la volontà in quanto volontà, prima ancora che io mi chieda se ho la capacità richiesta per produrre l’effetto desiderato o ciò che occorre per produrlo”. Una legge, un imperativo è “categorico” solo quando possiede i caratteri della necessità. In quanto universalmente necessaria, la legge della ragione deve risultare indipendente e autonoma da ogni condizione “soggettiva”, accidentale, casuale, “patologica”, empirica, “a posteriori”, ecc. Solo la ragione “può dar luogo a tutte le regole che comportano necessità”, e può far ciò perché, come detto, la ragione è quella facoltà la quale non ha bisogno d’altro che di se stessa per giustificare e fondare le proprie leggi, e quindi, in questo caso, il proprio unico “imperativo categorico”. La ragione, in quanto “imperativo categorico”, senza presupporre e senza essere condizionata da nessuna ipotesi, da nessun sentimento, impulso, desiderio, inclinazione, utilità, in breve, la ragione, “da sola”, determina la volontà dell’uomo. Tradotto in termini kantiani: “affinché la ragione possa dar leggi, occorre che essa abbia bisogno di presupporre solo se stessa; infatti la regola è oggettiva e fornita di valore universale solo quando vale a prescinde32 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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re dalle condizioni accidentali e soggettive che distinguono un essere razionale da un altro”. Se gli imperativi ipotetici e pratici sono “a posteriori”, ossia determinati (condizionati, dipendenti) dall’esperienza (impulsi, desideri, scopi), l’“imperativo categorico” è invece “a priori”. È direttamente la ragione “pura” che, attraverso la “voce della coscienza”, detta il suo imperativo all’uomo: “La ragione comanda alla volontà di procurarsi l’ordinamento universale del mondo; e in quanto la ragione è questo comando, essa si presenta alla volontà appunto come legislazione universale - che può anche contrastare tutte le inclinazioni, tutti i sentimenti, i desideri e gli impulsi da cui l’uomo si trova posseduto. […] La ragione è un imperativo categorico, un comando cioè che non è subordinato ad alcuna condizione o ipotesi”11. L’unico imperativo categorico della ragione recita: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale”. Data una certa situazione, il motivo della mia azione, se intende eseguire l’ordine costrittivo impostomi dall’“imperativo categorico” appena citato, deve poter valere come legge applicabile all’agire di tutti gli altri uomini, i quali, supponendo si trovassero nella mia stessa situazione, agirebbero secondo la stessa massima che io ho ritenuto di dover eseguire. La ragione, in quanto facoltà capace di determinare la volontà dell’uomo, non ordina quali azioni pratiche siano più giuste o più morali, non postula un decalogo o una costituzione giuridica da dover pedissequamente seguire, così come non paventa pene e roghi punitivi per gli eventuali “disubbidienti” o “eretici”, bensì ordina all’uomo, o meglio, comanda alla volontà dell’uomo di seguire l’unico “imperativo categorico” della ragione.

11

  Ibidem, p. 333.

33 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

La ragione comanda all’uomo d’essere un essere ragionevole, un essere dotato di quella “buona volontà” che ognuno di noi possiede indubitabilmente, in quanto esseri “illuminati” dalla ragione: “Il volere qualcosa, per il motivo che si è convinti che ogni essere razionale, in una certa situazione, dovrebbe volerlo, è ciò che il senso comune chiama ‘buona volontà’. E la buona volontà è appunto la volontà determinata dalla ragione. La ragione determina la volontà, nel senso che le prescrive incondizionatamente (categoricamente) di volere ciò che essa crede che dovrebbe essere creduto da ogni volontà razionale”12.

12

  Ibidem, p. 308.

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La rivoluzione kantiana La metafisica è una conoscenza speculativa della ragione, del tutto isolata, che si innalza totalmente al di sopra dell’ammaestramento dell’esperienza e fa ciò, a dire il vero, mediante semplici concetti (non già, come la matematica, mediante l’applicazione di questi all’intuizione): in essa dunque la ragione stessa dev’essere la scolara di se medesima. La metafisica non ha avuto sinora un destino tanto favorevole, da permetterle di prendere la via sicura di una scienza. […] In essa, difatti, la ragione si arena continuamente, persino quando vuole scorgere a priori (tale è la sua pretesa) quelle leggi, che sono confermate dalla più comune esperienza. Nella metafisica si deve ripercorrere indietro la strada infinite volte, poiché si scopre che il cammino non conduce nella direzione voluta. […] Non vi è dunque alcun dubbio che il modo di procedere della metafisica sia stato sinora un semplice brancolare, e quel che è peggio, un camminare a tastoni tra semplici concetti. Orbene, da che cosa dipende il fatto, che in questo campo non abbia ancora potuto essere trovata alcuna via sicura che porti alla scienza? È forse impossibile trovare tale cammino? […] Oppure, se sinora abbiamo soltanto sbagliato strada, di quali segni possiamo servirci, per sperare, rinnovando le ricerche, che saremo più fortunati di quanto altri siano stati prima di noi? Dovrei pensare che gli esempi della matematica e della scienza naturale – le quali sono divenute ciò che sono ora con una rivoluzione prodottasi d’un tratto – siano abbastanza notevoli, per farci riflettere sulle linee essenziali della radicale trasformazione nel modo di pensare, che è stata tanto vantaggiosa per quelle, 35 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

e per far sì che noi le imitiamo in questo campo, per lo meno a scopo di tentativo, in quanto ciò è permesso dall’analogia di esse, come conoscenze della ragione, con la metafisica. Si è ritenuto sinora, che ogni nostra conoscenza debba regolarsi secondo gli oggetti: tutti i tentativi di stabilire su di essi, attraverso concetti, qualcosa a priori, mediante cui fosse allargata la nostra conoscenza, caddero tuttavia, dato tale presupposto, nel nulla. Per una volta si tenti dunque, se nei problemi della metafisica possiamo procedere meglio, ritenendo che gli oggetti debbano conformarsi alla nostra conoscenza. Già così, tutto si accorda meglio con la desiderata possibilità di una conoscenza a priori degli oggetti, la quale voglia stabilire qualcosa su di essi, prima che ci vengano dati. La situazione al riguardo è la stessa che si è presentata con i primi pensieri di Copernico: costui, poiché la spiegazione dei movimenti celesti non procedeva in modo soddisfacente, sino a che egli sosteneva che tutto quanto l’ordinamento delle stelle ruotasse attorno allo spettatore, cercò se la cosa non potesse riuscire meglio, quando egli facesse ruotare lo spettatore e facesse per contro star ferme le stelle. Nella metafisica, orbene, si può fare un analogo tentativo, per quanto riguarda l’intuizione degli oggetti. Se l’intuizione dovesse conformarsi alla struttura degli oggetti, io non riesco allora a vedere, come di essa si potrebbe sapere qualcosa a priori; ma se l’oggetto (in quanto oggetto dei sensi) si conforma alla struttura della nostra facoltà di intuizione, io posso allora rappresentarmi benissimo questa possibilità. […] In tal caso io scorgo senz’altro una più semplice prospettiva, poiché l’esperienza stessa è una specie di conoscenza, che rende necessario l’intelletto: la regola di questo debbo presupporla in me, prima ancora che mi siano dati degli oggetti, quindi a priori, e tale regola viene espressa in concetti a priori, ai quali dunque si conformano necessariamente tutti gli oggetti dell’esperienza, e con i quali essi debbono accordarsi. […] Noi adottiamo […] una trasformazione nel metodo di pensare, ossia […] che delle cose conosciamo a priori soltanto ciò che noi stessi poniamo in esse. […] Questa deduzione della nostra facoltà di conoscere a priori porta tuttavia, nella prima parte della metafisica, ad un risultato sorprendente, e all’apparenza assai dannoso all’intero proposito della metafisica, del quale si occupa la seconda parte: cioè, che con tale facoltà noi non possiamo mai oltrepassare il limite di un’esperien36 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Immanuel Kant: pagine antologiche

za possibile, mentre proprio questo è ciò che interessa nel modo più essenziale tale scienza. Proprio qui, peraltro, la verità del risultato di quel primo apprezzamento della nostra conoscenza a priori della ragione viene sperimentata mediante una controprova, consistente cioè nel fatto che la conoscenza della ragione si rivolge soltanto ad apparenze, lasciando per contro che la cosa in sé certo sussista come per sé reale, ma sia da noi sconosciuta. (I. Kant, Critica della ragione pura, Adelphi, Milano 2004, pp. 22-26) Cosa si può e cosa non si può conoscere Sarà necessario, in primo luogo, spiegare quanto più chiaramente è possibile, quale sia la nostra opinione riguardo alla natura fondamentale della conoscenza sensibile in generale, al fine di evitare ogni fraintendimento in proposito. Noi abbiamo dunque voluto dire, che tutta la nostra intuizione non è altro se non la rappresentazione di un’apparenza; che le cose da noi intuite non sono in se stesse così come le intuiamo, e che i loro rapporti non sono costituiti in sé così come appaiono a noi; che se noi sopprimiamo il nostro soggetto, o anche soltanto la costituzione soggettiva dei sensi in generale, in tal caso tutta quanta la costituzione e tutti i rapporti degli oggetti nello spazio e nel tempo, anzi persino lo spazio ed il tempo, sono destinati a svanire. Tutte queste cose, in quanto apparenze, non possono esistere in se stesse, ma esistono soltanto in noi. Di che cosa mai possa trattarsi, riguardo agli oggetti in se stessi, separati da tutta questa recettività della nostra sensibilità, ci rimane perfettamente ignoto. Noi non conosciamo null’altro se non il nostro modo di percepire gli oggetti: questo modo ci è peculiare, e precisamente non tocca per necessità ad ogni ente, sebbene debba spettare ad ogni uomo. Noi abbiamo unicamente a che fare con questo modo di percepire gli oggetti. Spazio e tempo sono le forme pure di esso, e la sensazione in generale, la materia. La forma, noi possiamo conoscerla soltanto a priori, cioè prima di ogni percezione reale, ed essa si chiama quindi intuizione pura; la materia, invece, è nella nostra conoscenza ciò che fa sì che si parli di conoscenza a posteriori, cioè intuizione empirica. Spazio e tempo ineriscono in modo assolutamente 37 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

necessario alla nostra sensibilità, di qualsiasi specie possano essere le nostre sensazioni; queste ultime possono essere assai differenti. Anche se noi potessimo portare questa nostra intuizione ad un supremo grado di chiarezza, non giungeremmo in tal modo più vicino alla natura degli oggetti in se stessi. In ogni caso, difatti, noi conosceremmo compiutamente solo il nostro modo di intuizione, cioè la nostra sensibilità, e conosceremmo ciò pur sempre sotto le condizioni, inerenti originariamente al soggetto, di spazio e tempo. Che cosa possano essere gli oggetti in se stessi, non ci risulterà mai noto, neppure attraverso la più chiara conoscenza dell’apparenza – soltanto essa ci è data – di tali oggetti. […] La rappresentazione di un corpo non contiene assolutamente nulla, nell’intuizione, che possa toccare a un oggetto in se stesso, ma semplicemente l’apparenza di un qualcosa, e il modo in cui noi siamo modificati da esso. Questa ricettività della nostra capacità di conoscenza si chiama sensibilità: essa, anche se si potesse penetrare con lo sguardo sino al fondo dell’apparenza, rimarrebbe pur sempre radicalmente distinta dalla conoscenza dell’oggetto in se stesso. […] Mediante la sensibilità noi non conosciamo solo confusamente la natura delle cose in se stesse, ma non la conosciamo affatto, e non appena eliminiamo la nostra costituzione soggettiva, non si ritrova, né può ritrovarsi, da nessuna parte l’oggetto rappresentato, con le proprietà che gli attribuiva l’intuizione sensibile: in effetti, è proprio questa costituzione soggettiva che determina la forma di tale oggetto in quanto apparenza. […] Se quindi lo spazio (e così pure il tempo) non fosse una semplice forma della vostra intuizione, che contiene le condizioni a propri – le uniche sotto le quali le cose possono essere per voi oggetti esterni, che senza queste condizioni soggettive non sono nulla in se stessi – voi non potreste allora decidere, a priori e sinteticamente, assolutamente nulla riguardo agli oggetti esterni. È dunque indubitatamente certo, e non soltanto possibile oppure verosimile, che spazio e tempo, in quanto costituiscono le condizioni necessarie di ogni esperienza (esterna e interna), sono condizioni semplicemente soggettive di ogni nostra intuizione: in rapporto ad esse, quindi, tutti gli oggetti sono semplici apparenze e non cose date per sé in un determinato modo. Per tale ragione, si può anche dire a priori molto sulle apparenze, per quanto riguarda la loro forma, ma non è mai possibile pronunciarsi minimamente sulla 38 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Immanuel Kant: pagine antologiche

cosa in se stessa, che può trovarsi a fondamento di queste apparenze. […] Nell’apparenza […] gli oggetti, anzi persino le proprietà che attribuiamo ad essi, sono sempre considerati come qualcosa di realmente dato; senonché, in quanto questa costituzione dipende soltanto dal modo di intuizione del soggetto nella relazione che ha con esso l’oggetto dato, questo oggetto come apparenza viene distinto dal medesimo come oggetto in sé. (I. Kant, Critica della ragione pura, cit., pp. 96-104) La categorie, ovvero i concetti puri dell’intelletto La logica generale, […] fa astrazione da ogni contenuto della conoscenza, e attende che da un altro lato qualsiasi le siano date rappresentazioni, al fine di trasformare anzitutto tali rappresentazioni in concetti: ciò avviene analiticamente. Per contro, la logica trascendentale ha dinanzi a sé il molteplice della sensibilità a priori che le è fornito dall’estetica trascendentale. Quest’ultima fa ciò per dare ai concetti puri dell’intelletto una materia, senza la quale essi risulterebbero privi di ogni contenuto, e quindi del tutto vuoti. Spazio e tempo, orbene, contengono un molteplice dell’intuizione pura a priori, ma costituiscono nondimeno le uniche condizioni della recettività del nostro animo, sotto le quali esso può accogliere rappresentazioni di oggetti: esse quindi debbono pure modificare sempre i concetti di tali oggetti. La spontaneità del nostro pensiero, tuttavia, esige che questo molteplice sia dapprima in certo modo dominato, raccolto e collegato, perché si possa trarne una conoscenza. Questo atto, io lo chiamo sintesi. Per sintesi poi, nel senso più generale, io intendo l’atto di aggiungere l’una all’altra diverse rappresentazioni, e di comprendere la loro molteplicità in una sola conoscenza. Una tale sintesi è pura, se il molteplice è dato non empiricamente, bensì a priori (come il molteplice nello spazio e nel tempo). Anteriormente ad ogni analisi delle nostre rappresentazioni, queste debbono essere già date, e nessun concetto, riguardo al suo contenuto, può sorgere analiticamente. Peraltro, la sintesi di un molteplice (dato empiricamente o a priori) produce anzitutto una conoscenza, che a dire il vero può essere da principio ancora rozza e confusa, ed ha bisogno quindi dell’analisi. La sintesi è nondimeno ciò 39 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

che propriamente raccoglie gli elementi per costituire conoscenze, e li riunisce in un certo contenuto. Essa è dunque la prima cosa cui dobbiamo prestare attenzione, se vogliamo formulare un giudizio sull’origine prima della nostra conoscenza. La sintesi in generale, […] è il semplice effetto della capacità di immaginazione, di una cieca, ma indispensabile funzione dell’anima, senza la quale non avremmo assolutamente mai una conoscenza, ma della quale siamo coscienti solo di rado. Il riportare questa sintesi a concetti, tuttavia, è una funzione la quale tocca l’intelletto, e mediante la quale esso ci procura per la prima volta la conoscenza in senso proprio. […] Mediante l’analisi, differenti rappresentazioni vengono riportare sotto un solo concetto (un compito, questo, di cui si occupa la logica generale). Ma il riportare a concetti non già le rappresentazioni, bensì la sintesi pura delle rappresentazioni, è ciò che insegna la logica trascendentale. Il primo strumento, che ci deve essere dato per la conoscenza a priori di tutti gli oggetti, è il molteplice dell’intuizione pura; la sintesi di questo molteplice attraverso la capacità di immaginazione costituisce il secondo strumento, ma non fornisce ancora alcuna conoscenza. I concetti, che dànno unità a questa sintesi pura, e che consistono unicamente nella rappresentazione di questa unità sintetica necessaria, sono il terzo strumento per la conoscenza di un oggetto che si presenti, e si fondano sull’intelletto. La medesima funzione, che fornisce unità – in un solo giudizio – alle differenti rappresentazioni, fornisce altresì unità – in una sola intuizione – alla semplice sintesi di diverse rappresentazioni: tale unità, con espressione generale, si chiama il concetto puro dell’intelletto. Perciò il medesimo intelletto […] introduce altresì un contenuto trascendentale nelle sue rappresentazioni, mediante l’unità sintetica del molteplice nell’intuizione in generale. Per questa ragione, tali rappresentazioni si chiamano concetti puri dell’intelletto, i quali si riferiscono a priori ad oggetti: ciò non può essere fatto dalla logica generale. […] Chiameremo quindi questi concetti – seguendo Aristotele – categorie. Tavola delle categorie: 1) DELLA QUANTITÀ: Unità; Pluralità; Totalità. 2) DELLA QUALITÀ: Realtà, Negazione; Limitazione. 3) DELLA RELAZIONE: dell’Inerenza e sussistenza (substantia et accidens); della Causalità e dipendenza (causa ed effetto); della Comunanza (azione reciproca tra l’agente e il paziente). 4) DELLA MODALITÀ: Possibilità – im40 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Immanuel Kant: pagine antologiche

possibilità; Esistenza – non essere; Necessità – contingenza. Questo è dunque l’elenco di tutti i concetti puri originari della sintesi: l’intelletto li contiene in sé a priori, e soltanto in vista di questi esso è inoltre un intelletto puro, dato che solo mediante questi esso può intendere qualcosa nel molteplice dell’intuizione, ossia può pensare un oggetto della medesima. Questa classificazione è ricavata da un principio comune, cioè dalla capacità di giudicare (che equivale alla facoltà di pensare). (I. Kant, Critica della ragione pura, cit., pp. 130-134) Le idee trascendentali della ragione Il concetto trascendentale della ragione, […] non è altro che il concetto della totalità delle condizioni, per un condizionato che sia dato. Ora, poiché è soltanto l’incondizionato, che rende possibile la totalità delle condizioni, è poiché viceversa la totalità delle condizioni è sempre essa stessa incondizionata, allora un concetto puro della ragione, in generale, può essere spiegato come concetto dell’incondizionato, in quanto contiene un fondamento per la sintesi del condizionato. […] I concetti puri della ragione, riguardanti la totalità nella sintesi delle condizioni, sono perciò necessari, almeno come problemi, per portare, se possibile, l’unità dell’intelletto sino all’incondizionato, e sono fondati nella natura della ragione umana. […] Ora, il concetto trascendentale della ragione si riferisce sempre unicamente alla totalità assoluta nella sintesi delle condizioni, e non trova mai una fine, se non nell’assolutamente – cioè sotto ogni rapporto – incondizionato. In effetti, la ragione pura lascia tutto quanto all’intelletto, il quale si riferisce direttamente agli oggetti dell’intuizione, o piuttosto, alla loro sintesi nella capacità di immaginazione. La ragione si riserva soltanto la totalità assoluta nell’uso dei concetti dell’intelletto, e cerca di portare l’unità sintetica, che viene pensata nella categoria, sino all’assolutamente incondizionato. Questa unità, perciò, si può chiamare unità razionale delle apparenze, così come quella, che è espressa dalla categoria, si può chiamare unità dell’intelletto. Per conseguenza, la ragione si riferisce soltanto all’uso dell’intelletto, e precisamente, non in quanto questo contenga il fondamento di un’esperienza possibile (la totalità assoluta 41 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

delle condizioni non è infatti un concetto adoperabile in un’esperienza, poiché non esiste un’esperienza incondizionata), bensì per prescrivere a tale uso una direzione verso una certa unità, di cui l’intelletto non possiede alcun concetto, e che tende a raccogliere tutti gli atti dell’intelletto – a riguardo di ogni oggetto – in un tutto assoluto. L’uso oggettivo dei concetti puri della ragione è perciò sempre trascendente, mentre quello dei concetti puri dell’intelletto deve sempre, per sua natura, essere immanente, in quanto si limita semplicemente all’esperienza possibile. Per idea, io intendo un concetto necessario della ragione, cui non può essere dato, nei sensi, alcun oggetto corrispondente. I concetti puri della nostra ragione – considerati ora – sono perciò idee trascendentali. Essi sono concetti della ragione pura, poiché considerano ogni conoscenza di esperienza come determinata da una totalità assoluta di condizioni. Essi non sono escogitati arbitrariamente, ma proposti dalla natura stessa della ragione, e si riferiscono quindi necessariamente all’intero uso dell’intelletto. Infine, essi sono trascendenti e oltrepassano i limiti di ogni esperienza: in questa non potrà dunque presentarsi mai un oggetto, che sia adeguato all’idea trascendentale. […] Ora, sebbene a riguardo dei concetti trascendentali della ragione noi dobbiamo dire: sono soltanto idee, tuttavia non ci sarà affatto lecito di considerarli come superflui e nulli. Difatti, quantunque mediante essi non possa venir determinato alcun oggetto, essi nondimeno, sostanzialmente e inavvertitamente, possono fornire all’intelletto un canone per il suo uso esteso e coerente: con tale canone l’intelletto, a dire il vero, non può conoscere alcun altro oggetto, oltre a quelli che conoscerebbe in base ai suoi concetti, ma viene tuttavia guidato meglio e più in là, in questa conoscenza. […] Tutti i concetti puri in generale, orbene, hanno a che fare con l’unità sintetica delle rappresentazioni, mentre i concetti della ragione pura (idee trascendentali) hanno a che fare con l’unità sintetica incondizionata di tutte le condizioni in generale. Di conseguenza, tutte le idee trascendentali si possono disporre in tre classi: la prima di queste contiene l’unità assoluta (incondizionata) del soggetto pensante; la seconda, l’unità assoluta della serie delle condizioni dell’apparenza; la terza, l’unità assoluta della condizione di tutti gli oggetti del pensiero in generale. Il soggetto pensante è il soggetto della psicologia, l’insieme di tutte le apparenze (il mondo) è l’oggetto della cosmologia, 42 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Immanuel Kant: pagine antologiche

e la cosa, che contiene la suprema condizione della possibilità di tutto ciò che può essere pensato (l’ente di tutti gli enti), è l’oggetto della teologia. Così, la ragione pura fornisce l’idea per una dottrina trascendentale dell’anima (psychologia rationalis), per una scienza trascendentale del mondo (cosmologia rationalis), e infine, anche per una conoscenza trascendentale di Dio (theologia transscendentalis). (I. Kant, Critica della ragione pura, cit., pp. 381-391) L’imperativo categorico I principi pratici sono proposizioni che racchiudono una determinazione universale della volontà che ha sotto di sé varie regole pratiche. Essi sono soggettivi, o massime, se il soggetto considera la condizione come valida soltanto per la sua volontà; ma sono oggettivi, o leggi pratiche, se la condizione è ritenuta oggettiva, ossia valida per la volontà di ogni essere razionale. […] Nella conoscenza pratica, in cui si ha a che fare semplicemente coi motivi che determinano la volontà, i princìpi che si assumono non sono ancora per ciò stesso leggi a cui si sia inevitabilmente sottoposti, perché nell’uso pratico la ragione ha a che fare col soggetto, cioè con la facoltà di desiderare, la cui costituzione particolare può modificare la regola. La regola pratica è sempre un prodotto della ragione perché prescrive l’azione come mezzo rispetto all’effetto che costituisce il fine. Ma in un essere per il quale il motivo determinante della volontà non è esclusivamente la ragione, questa regola è un imperativo, cioè una regola caratterizzata da un dovere essere esprimente la necessità oggettiva dell’azione: questa regola sta a significare che, se la ragione determinasse interamente la volontà, l’azione avrebbe luogo infallibilmente secondo questa regola. Gli imperativi hanno dunque validità oggettiva e differiscono nettamente dalle massime che sono princìpi soggettivi. Ma gli imperativi o determinano le condizioni della causalità dell’essere razionale, in quanto causa efficiente e semplicemente in relazione all’effetto e ai mezzi sufficienti per raggiungerlo, o determinano semplicemente la volontà, sia essa sufficiente o no rispetto all’effetto. Nel primo caso, sarebbero imperativi ipotetici e conterrebbero semplici precetti dell’abilità; nel secondo ca43 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

so sarebbero invece imperativi categorici e semplicemente leggi pratiche. Le massime sono quindi anch’esse princìpi, non imperativi. Ma gli imperativi stessi, se sono condizionati, cioè se non determinano la volontà semplicemente in quanto volontà, ma solo in vista dell’effetto desiderato, cioè se sono imperativi ipotetici, saranno, sì, precetti pratici, ma non leggi. Le leggi debbono determinare sufficientemente la volontà in quanto volontà, prima ancora che io mi chieda se ho la capacità richiesta per produrre l’effetto desiderato o ciò che occorre per produrlo. Perciò esse debbono essere categoriche; in caso diverso non sono leggi, facendo loro difetto la necessità che, in quanto pratica, deve risultare indipendente da ogni condizione patologica, perciò da ogni condizione connessa incidentalmente alla volontà. […] Affinché la ragione possa dar leggi, occorre che essa abbia bisogno di presupporre solo se stessa; infatti la regola è oggettiva e fornita di valore universale solo quando vale a prescindere dalle condizioni accidentali e soggettive che distinguono un essere razionale da un altro. Se dite a qualcuno che non deve mai fare promesse false, si tratta di una regola che concerne semplicemente la sua volontà, a prescindere dalla realizzazione o meno, mediante essa, dei fini che egli può essersi proposto; ciò che deve essere determinato interamente a priori mediante quella regola è il semplice volere. Se poi si trova che questa regola è praticamente giusta, si tratterà di una legge, perché è un imperativo categorico. LEGGE FONDAMENTALE DELLA RAGIONE PURA PRATICA . Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale. […] Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di venerazione sempre nuove e crescenti, quanto più sovente ed a lungo si riflette sopra di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me. Non si tratta di due cose che io debba cercare o semplicemente supporre come se fossero avvolte nelle tenebre o situate nel trascendente, al di là del mio orizzonte; io le vedo dinanzi a me e le congiungo immediatamente con la coscienza della mia esistenza. (I. Kant, Critica della ragion pratica e altri scritti morali, a cura di P. Chiodi, UTET, Torino 2006, pp. 153-155, 167, 313)

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Georg W. F. Hegel

“L’Assoluto è lo Spirito”: questa è la più alta definizione dell’Assoluto. Trovare questa definizione e comprenderne il significato e il contenuto, tale, si può dire, è stata la tendenza assoluta di ogni cultura e filosofia; a questo punto ha mirato coi suoi sforzi ogni religione e ogni scienza; solo questo impulso spiega la storia del mondo. Hegel

L’idealismo, ovvero il fratricidio della “cosa in sé” kantiana L’idealismo, che comprende la triade Fichte (1762-1814) – Shelling (1775-1854) – Hegel, è il pensiero filosofico che si presenta come diretta negazione del concetto kantiano di “cosa in sé”. Senza la “cosa in sé” da superare, e quindi senza il pensiero filosofico di Kant, l’idealismo non avrebbe potuto prendere la direzione che poi effettivamente prese, raggiungendo il suo apice in Hegel, considerato come “il più difficile a capirsi di tutti i grandi filosofi”1. Per questo legame intimo, il criticismo kantiano e l’idealismo sono a un tempo fratelli e nemici acerrimi, esattamente come lo

1   B. Russel, Storia della filosofia occidentale, IV vol (da Rousseau ad oggi), Longanesi, Milano 1967, p. 972.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

fu Caino nei confronti di Abele. Possiamo dunque definire l’idealismo come il fratricidio di Kant, come l’assassinio della “cosa in sé” kantiana, o meglio, come la dissoluzione del concetto kantiano di “cosa in sé”. La “cosa in sé”, agli occhi dell’idealismo, è una fantasia, una illusione, uno spettro, un fantasma, una invenzione mentale, una supposizione personale contingente e dunque non necessaria. La “cosa in sé” – il principio fondante e la radice teorica del sistema filosofico kantiano – è un “assurdo”, è qualcosa che non esiste e non può esistere. Il credere o meno alla “cosa in sé”, e su di essa impiantare il proprio sistema speculativo, come fece Kant, è una scelta personale, un “capriccio”, un creduto, un semplice presupposto, una “opinione” momentanea e in ogni momento controvertibile. La filosofia kantiana afferma l’esistenza della “cosa in sé”, ossia afferma l’indubitabile esistenza di ciò che l’uomo non può e non potrà mai conoscere, in quanto la “cosa in sé” è, per definizione kantiana, “l’inconoscibile”. Affermare “l’esistenza” della “cosa in sé” significa determinarla con i caratteri dell’inconoscibilità. Ciò significa concepire la “cosa in sé” allo stesso tempo come esistente e come inconoscibile, e concepire la “cosa in sé” in questo modo è appunto un “assurdo”. Dire che la “cosa in sé” è inconoscibile significa affermare che siamo impossibilitati sia a conoscerla che a pensarla. Siamo impossibilitati a concepirla e pensarla proprio come quel determinato “inconoscibile”, cosa che Kant, invece, sostiene senza nessun tipo di coerenza teorica, affermando la netta distinzione tra “pensare” e “conoscere” . Può servire un esempio: Kant afferma che qualcosa (“la cosà in sé”) è da sempre chiusa in sé come in una inaccessibile cassaforte, e per sempre rimarrà chiusa in quella cassaforte inaccessibile. Kant afferma che esiste una cassa (un limite, un recinto, un muro) che detiene forzatamente qualcosa di inaccessibile. Quella cassaforte, o meglio il contenuto di quel46 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Georg W.F. Hegel

la cassaforte, che per Kant è l’inconoscibilità della “cosa in sé”, rappresenta il limite della conoscenza umana. Il limite dell’uomo pertanto è il mondo a lui esterno, il mondo delle cose come sono in se stesse. A tutto ciò l’idealismo controbatte chiedendo a Kant: – Se quella cassaforte risulta da sempre chiusa, come possiamo affermare che ci sia qualcosa al suo interno? – Come è possibile che si sappia che la cassaforte, risultando da sempre chiusa, ha come proprio contenuto qualcosa di inaccessibile alla conoscenza umana? – Se conosco e concepisco che una cosa è chiusa in una cassaforte, non bisogna che almeno una volta io abbia conosciuto e concepito questa “cosa”? Non deve essere stata almeno una volta, questa cosa chiusa in se stessa, “aperta alla conoscenza umana”? Se pensata, la “cosa” non è più “in sé”, non è più chiusa in se stessa e inaccessibile (inconoscibile). In quanto pensabile e pensata dall’uomo, essa risulta essere “aperta” (disponibile, accessibile) alla conoscenza umana: la famosa “cosa in sé” kantiana, è stata chiusa nella cassaforte, e resa quindi inaccessibile, “a posteriori” dallo stesso Kant. In breve, Kant afferma di conoscere l’inconoscibile, di aver trovato l’introvabile, di poter accedere all’inaccessibile. Kant concepisce ciò che lui stesso ha definito come il “non concepibile”: la filosofia kantiana ha alla sua base una “contraddizione” vera e propria. Il concetto di “cosa in sé” è contraddittorio, è un “assurdo”, filosoficamente non esiste e non può esistere e pertanto, non possedendo nessuna validità epistemica, va superato e abolito del tutto. È questa la prima e fondamentale svolta teorica dell’idealismo, dalla quale prenderanno avvio tutte le successive speculazioni, che noi inquadreremo, per ragioni di sintesi, rifacendoci principalmente alla filosofia di Hegel, ossia all’apice a cui arrivò l’idealismo tedesco sorto dopo e grazie a Kant. 47 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

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Georg W. F. Hegel: vita e opere Georg Wilhelm Friedrich Hegel nasce a Stoccarda, il 27 agosto 1770; ricevendo sin da piccolo un’educazione aderente ai principi di una rigida ortodossia politica e religiosa. All’età di tre anni inizia a frequentare la scuola elementare e, dal 1777, si dedica agli studi umanistici iscrivendosi al Ginnasio di Stoccarda pur continuando a coltivare, privatamente, anche studi scientifici. Dal 1875 al 1878, a seguito della morte della madre, compila un diario, in cui manifesta il suo forte interesse per la Bibbia e per autori contemporanei quali Goethe, Schiller e Lessing. Nel 1788 consegue la maturità e si iscrive all’Università di Tubinga. Molto importante fu la frequentazione del poeta Hölderlin e di Schelling, con i quali condivise per alcuni anni anche la camera del collegio e celebrò gli anniversari della Rivoluzione francese: la loro frequentazione sortì, in Hegel, una forte influenza. Nel corso degli studi universitari, si concentra nelle letture dei classici greci, degli illuministi, di Kant e dei filosofi suoi seguaci. Nel gennaio del 1801 va a Jena, ospite dell’amico Schelling, ed ottiene un insegnamento presso la locale università. Nel 1808 viene nominato professore e rettore del Ginnasio di Norimberga. Dal 1816 è professore universitario di filosofia dapprima presso l’Università di Heidelberg, poi, due anni dopo, presso quella di Berlino. Nel 1829 diventa rettore presso l’Università di Berlino dove già prestava insegnamento e, nel corso della prolusione accademica, celebra l’accordo tra la legge dello Stato e la libertà d’insegnamento. Muore, probabilmente per colera, il 14 novembre dello stesso anno nella città che in quel periodo lo stava ospitando, Berlino; gli vengono tributati funerali straordinari e viene sepolto accanto alla tomba di Fichte. Delle sue opere ricordiamo: Differenza tra i sistemi filosofici di Fichte e di Schelling (1801); Fenomenologia dello spirito (1807); Scienza della logica (1812-1816); Enciclopedia delle scienze 48 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Georg W.F. Hegel

filosofiche in compendio (1817); Lineamenti di filosofia del diritto (1821). Il pensiero non ha limiti Il pensiero di Fiche, che prefigura l’idealismo nella sua forma compiuta, mette in risalto la contraddittorietà del concetto kantiano di “cosa in sé”. Come fondamento e condizione del pensiero umano non può esserci qualcosa come la “cosa in sé”, non può esserci quel limite che la “cosa in sé” rappresenta. Schelling, col suo “idealismo trascendentale”, si spinge oltre Fichte, il quale pur contesta la “cosa in sé”, ma ne resta ancora teoricamente imprigionato non riuscendo a negarla indubitabilmente. “L’idealismo trascendentale” di Schelling, come dice lo stesso Hegel, “conobbe il nulla di quello spettro della cosa in sé lasciato sussistere dalla filosofia critica, conobbe il nulla di quest’ombra astratta separata da ogni contenuto, ed ebbe per scopo di distruggerla completamente”. La filosofia di Hegel, infine, che porta al compimento massimo le speculazioni e le distruzioni filosofiche di Fichte e di Schelling, è da considerarsi come la negazione assoluta di ogni realtà trascendente, di ogni realtà che supera e che esiste indipendentemente dal pensiero. Non esiste nessun limite di sorta al pensiero, il pensiero può tutto. Proprio perché il pensiero dell’uomo, nello specifico il pensiero di Kant, è stato capace di arrivare a pensare il proprio fondamento (la “cosa in sé), inteso come limite e condizione del pensiero umano, questo stesso limite e fondamento non sono più tali, in quanti pensati, ossia raggiunti, e superati dal pensiero che, pensandoli, li libera da ogni presunto e presupposto “esser limite”. L’idealismo, negando e abolendo il concetto kantiano di “cosa in sé”, e quindi negando e abolendo ogni limite del 49 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

pensiero, oltrepassa una volta per tutte il “realismo”, ossia quell’atteggiamento filosofico con cui possiamo qualificare tutto il pensiero che dall’antichità arriva all’idealismo. Kant stesso è un filosofo che si rifà all’atteggiamento speculativo o al dogma del “realismo”, che affermava l’indubitabilità dell’esistenza della realtà esterna (res extensa) all’uomo, ossia affermava l’esistenza delle cose esterne che esistono indipendentemente dal pensiero umano. Per il “realismo” la realtà è e resta esterna, ed è indipendente dal conoscere umano. Ciò vuol dire che il “realismo” presuppone “in primo luogo che la materia del conoscere sussista già in sé e per sé quale un mondo bell’e compiuto al di fuori del pensiero”, e quindi “che il pensiero sia di per sé vuoto”, privo di contenuto e realtà. Per l’idealismo, negare la validità epistemica del concetto di “cosa in sé”, negare una volta per tutte che esista qualcosa di esterno e d’indipendente dal pensiero umano, significa affermare che niente d’inconoscibile esiste per il pensiero umano, che non ha nulla al di fuori di sé cui non possa arrivare e conoscere. Il pensiero umano non ha più nessun limite. Il pensiero, una volta scoperta e affermata la contraddittorietà della “cosà in sé”, abolita la presupposta limitazione rappresentata dalla “cosa in sé” kantiana, si scopre essere illimitato, infinito, incondizionato, “Assoluto”. Di conseguenza, tutto ciò che il pensiero conosce è tutto ciò che esiste in realtà. Tutto ciò che esiste è conosciuto dal pensiero. È possibile conoscere tutto ciò che esiste, perche tutto ciò che esiste, in verità, è solo il pensiero: il pensiero è il Tutto. “Nulla è completamente reale tranne il tutto, poiché ogni parte, se staccata, viene a mutare il proprio carattere, e quindi non appare più proprio come è in realtà. D’altronde, quando una parte è considerata in relazione al tutto, come dovrebbe essere, la si vede non auto-sussistente o addirittura incapace di esistere tranne che come parte in 50 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Georg W.F. Hegel

quel tutto che, solo, è veramente reale. Questa è la teoria metafisica”2, che Hegel approfondì con una sua personalissima visione, e che noi abbiamo inteso chiamarla “anatomia divina del pensiero”. Anatomia divina del pensiero Per Hegel la realtà e il pensiero sono assolutamente identici. La realtà non si presenta più come un’entità estranea nei confronti del pensiero umano. Con Hegel e il suo originale pensiero speculativo, si sfugge definitivamente alla gabbia solipsistica del soggettivismo intellettuale, ben presente nella filosofia kantiana, che sosteneva che ogni “fenomeno” umano, ossia ogni conoscenza umana, è solo una immagine soggettiva della realtà come è in se stessa, realtà che resta sempre inconoscibile. Kant pertanto si chiude e si ingabbia da sé nel pensiero (nella rappresentazione, nel “fenomeno”), in quella “parte” radicalmente isolata (pensiero, certezza) e separata dalla realtà delle cose come sono in se stesse (realtà, verità). Per l’idealismo, invece, il “fenomeno”, l’“idea”, cioè la realtà che appare all’interno della coscienza umana, non è un qualcosa di meramente soggettivo, bensì è una verità oggettiva: il “fenomeno”, ossia l’“idea” (certezza) è la stessa realtà come è in se stessa (verità). Il “fenomeno” non è più una mera apparenza soggettiva, un’immagine sempre alterata e inevitabilmente alterante della realtà come è in se stessa, ma coincide, corrisponde, combacia ed è perfettamente identica a questa. Pensiero e realtà, certezza e verità, razionale e reale coincidono assolutamente, ed una delle più celebri affermazioni hegeliane è appunto quella che asserisce che “il reale è razionale, e

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  Ibidem, p. 988.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

il razionale è reale”. Nulla del reale resta fuori dal razionale in quanto la totalità del reale è razionale. Il pensiero è quindi l’“orizzonte assoluto e totale” che ingloba, abbraccia e contiene ogni cosa. Il pensiero epistemico di Hegel è tendenzialmente “imparziale”, è cioè “indifferente” nei confronti delle determinazioni singole, che non devono più essere considerate come degli atolli, degli atomi chiusi in sé e isolati gli uni dagli altri. Semmai devono essere filosoficamente intese come isole di un solo oceano totale, fiori di quell’unico giardino assoluto e inglobante che è il “pensiero”. Il “pensiero” non è una “cosa” determinata, non è un “fiore”, non è “Giovanni”, bensì è il giardino-orizzonte infinito che permette alle cose, ai fiori e agli individui singoli di esistere come determinati, di esistere come delle parti “apparentemente” (astrattamente) isolate dal Tutto. Il pensiero pensa l’“essere”, il pensiero ha come proprio contenuto il Tutto (essere e pensiero, realtà e uomo) e non le parti apparentemente isolate. Hegel è fermamente convinto che ogni “differenziazione”, ogni cosa chiusa in sé, senza relazione col tutto, ogni “particolarità isolata” è irreale. Solo il Tutto, in quanto unità assoluta, è reale. Il mondo “non è un insieme di salde unità, atomi od anime, ognuna completamente esistente in sé. L’apparente esistenza in sé delle cose finite [è] un’illusione; nulla, sostiene Hegel, è definitivamente e completamente reale tranne il tutto”3. Quella realtà che è il mondo, non è da considerarsi come un’accozzaglia disordinata di cose (atomi od anime) isolate, separate, inaccessibili e inconoscibili, bensì la realtà esterna si costituisce e si rivela all’interno dell’apertura infinita del pensiero, o meglio, all’interno di quella apertura infinita che è il pensiero. Nulla esiste e può esistere di esterno alla mente umana, nulla esiste e può esistere

3

  Ibidem, p. 973.

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Georg W.F. Hegel

che sia indipendente dal pensiero, perché, lo ribadiamo, il pensiero è il Tutto. Per “Tutto” si intende ciò che non ha nulla al di fuori di sé, nulla accanto a sé, nulla oltre a sé. Il Tutto è ciò che non ha limiti, è Realtà Assoluta, Infinita, Divina. Il pensiero, essendo il Tutto, è “Dio”. Ma questo pensiero-“Dio” non è “trascendente”, ossia non è separato dalla realtà, in quanto, soprattutto per l’idealismo di Hegel, il pensiero è la realtà che non ha più nessun “oltre” e nessun limite fuori di sé. Così come Dio creò il mondo pensandolo, il pensiero in quanto “Dio” crea ciò che incessantemente e infinitamente pensa: il pensiero (l’Idea) produce il pensato (il contenuto, la materia, la realtà). Il pensiero è produzione immanente di se stesso, niente è esterno e impossibile ad esso, e ciò significa che il pensiero è auto-produzione immanente. Il “pensiero”, bisogna ribadirlo, non è il pensiero di Mario o di Giovanni o di Giuseppe, non è un atto dell’individuo umano, come non è una “sostanza semplice”(cosa, individuo, ente). Non è quindi attività soggettiva e particolare, ma sono, al contrario, Mario e Giuseppe e Giovanni le parti, ossia le “determinazioni accidentali e provvisorie” di quella Sostanza-Realtà assoluta che è il pensiero (la “ragione”). Non è il pensiero particolare di Mario che è Dio, bensì è Mario, in quanto “pensante”, ad appartenere alla Sostanza divina che è il “pensiero”: “Questo non significa che una singola persona sia tutta la realtà; nella sua singolarità essa non è del tutto reale, ma ciò che è reale in essa è la sua partecipazione all’intera Realtà”4. Il pensiero è pertanto la chiave, la combinazione per accedere al Tutto, in quanto il Tutto è pronto e disponibile ad aprirsi al pensiero (che è il Tutto stesso), ossia è pronto ad aprirsi a se stesso, perché è il pensiero a produrre il Tutto e quindi è proprio il pensiero che, producendo infini-

4

  Ibidem, p. 977.

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tamente, si produce e si rivela e si conosce (si realizza) infinitamente come il Tutto. La realtà esterna non è da intendere come un limite, come un qualcosa di esterno al pensiero ed estraneo alla conoscenza umana, bensì, agli occhi di Hegel, tale realtà esiste proprio per essere conosciuta, per rivelarsi alla coscienza umana, e rivelarsi totalmente, senza limiti, senza misteri o oscurità di sorta. La coscienza dell’uomo può conoscere tutto proprio in quanto tutto è coscienza. Tutto è “idea”, e l’“idea” è tutta la realtà, il vero essere: l’Idea non ha nulla al di fuori di sé, accanto a sé e oltre a sé, l’“idea” è “Assoluta”. L’“Idea Assoluta”, cioè “Dio”, “è pensiero che pensa se stesso, poiché non esiste altro, tranne che per i nostri imperfetti ed erronei mezzi di conoscere la Realtà.” L’Idea Assoluta è l’unica realtà. Realtà che pensando pensa se stessa, è pensiero che si pensa, pensiero che producendo (esclusivamente pensiero, ossia pensando incessantemente) produce (pensa) se stesso, e dunque si auto-produce, si auto-realizza. Detto in termini hegeliani, “il pensiero è riflesso in se stesso attraverso l’auto-coscienza”. “Dio” guardando non fa altro che guardarsi, pensando non fa altro che pensarsi, producendo (pensiero) non fa altro che prodursi (in quanto pensiero, in quanto Tutto), si auto-produce, ossia diventa cosciente di sé, diventa sempre più cosciente che nulla esiste se non lui stesso. Hegel dice: “Questa unità” – ossia l’unità totale rappresentata da “Dio” il quale non ha nulla al di fuori di sé – “è di conseguenza l’assoluto e tutta la verità, l’Idea che pensa se stessa”. Nessuna realtà può e deve essere esterna al pensiero epistemico, o, più precisamente, nessuna realtà potrà e dovrà essere esterna al pensiero filosofico di Hegel . Il “sistema hegeliano” è perciò il sistema che ha come proprio contenuto il Tutto, è il sistema dove nulla resta escluso. Per Hegel infatti, “non c’è verità all’infuori dell’intera verità”. Il sistema hegeliano è pertanto un sistema assoluto. Inoltre Hegel, affermando che il Pensiero è “Dio”, ed 54 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Georg W.F. Hegel

essendo colui che per la prima volta nel panorama filosofico afferma che “il pensiero è la Realtà assoluta” (Dio), si trova ad essere colui che porta agli uomini la verità assoluta di “Dio”: Hegel incarna il Verbo di Dio, è il Cristo della filosofia idealistica. Il movimento triadico del Tutto Il sistema hegeliano, che si propone di comprendere, spiegare e giustificare il Tutto, si articola in tre momenti: 1) nella Logica 2) nella Filosofia della Natura 3) nella Filosofia dello Spirito Il Tutto stesso – la Realtà –, secondo Hegel, si divide e si articola in tre momenti. La Realtà non è semplice “sostanza”, ma Soggetto (“Io trascendentale”), Pensiero, Ragione (Idea, Logos), Spirito Assoluto. Bisogna intendere lo Spirito Assoluto (il Tutto), come un “processo” infinito, come movimento incessante (“andamento irresistibile”), e più precisamente come movimento “circolare”. Lo Spirito Assoluto è un “auto-prodursi”, ossia il Tutto si produce da sé riflettendo su sé medesimo in senso circolare e all’infinito. – Primo momento: l’Idea, nel suo primo momento, è da intendersi come “in sé”, e la Logica hegeliana ha come proprio contenuto l’“in sé” dell’Assoluto, l’Idea in sé dell’Assoluto. – Secondo momento: l’Idea, uscendo dal suo “in sé”, si porta “fuori di sé”, e si obbiettiva nella Natura. La Filosofia della Natura ha come proprio contenuto questo uscir fuori dell’Idea per farsi-altro da sé, per farsi appunto Natura (oggetto esterno), la quale è allora da intendere come il “fuori di sé” dell’Idea, il farsi-altro dell’“in sé” dello Spirito (Idea). – Terzo momento: l’Idea, proprio perché è Assoluta, ed essendo infinito movimento circolare, ritorna dal se55 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

condo momento al primo. L’Idea ritorna “in sé” dopo essersi fatta altro da sé in quanto Natura. Ritornando in sé si ri-conosce come Spirito Assoluto (“in sé e per sé”), il quale è il contenuto della Filosofia dello Spirito, da considerarsi come l’esito finale e la sintesi di tutto il sistema hegeliano. In questo processo circolare, bisogna tener fermo il punto cruciale, ossia che è sempre e solo la stessa Idea, in quanto Assoluta, che si svolge e che si determina e che si auto-conosce attuandosi e pervenendo a se medesima, auto-producendosi incessantemente. Lo Spirito Assoluto è la sintesi massima di ogni determinazione (momento) parziale in cui la stessa Idea si svolge (si muove, si articola) all’infinito per arrivare a conoscersi (realizzarsi). Superando la Natura, lo Spirito è da considerare, in quanto infinito processo circolare, come il ritorno dell’Idea in se stessa. Proprio questo infinito ritorno circolare o incessante riflessione su di sé dell’Idea, costituisce il processo sintetizzante e quindi totalizzante dello Spirito in quanto Spirito Assoluto. La Logica La Logica hegeliana è la scienza che concerne l’Idea, è la scienza che concerne l’“in sé” o il primo dei tre momenti dell’Idea stessa. Per Hegel la logica antica non rappresenta una scienza assoluta, ma solo uno strumento teorico che concerne esclusivamente il “pensare” dell’individuo singolo. La logica antica serve per permettere all’uomo di pensare correttamente, ma non riesce a spingersi oltre a questa particolare e determinata utilità formale. Tale logica, compresa anche la “logica trascendentale” di Kant – che, pur presentandosi come “trascendentale”, restava ancora condizionata dall’inconoscibilità della realtà delle cose come sono in se stesse e quindi dall’esperienza sensibile – es56 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Georg W.F. Hegel

sendo puramente “formale” e “astratta”, prescinde da ogni contenuto reale. Essa non riesce ad arrivare e a comprendere la realtà, non riesce ad essere una scienza assoluta, che deve essere assolutamente non condizionata e capace perciò di comprendere tutto (pensiero e contenuto, forma e materia, verità e certezza). Per Hegel, dunque, “il concetto che fino a qui si è avuto della logica è basato sulla separazione, presupposta una volta per sempre nella coscienza ordinaria, del contenuto della conoscenza dalla forma di essa, sulla separazione cioè della verità e della certezza”. Una “scienza”, per essere “Assoluta”, non può essere un mero riferirsi e concernere l’aspetto formale e soggettivo del pensiero (certezza), il quale lascia fuori di sé l’aspetto contenutistico della realtà (verità). Una logica che abbia come proprio contenuto il funzionamento mentale del pensiero individuale e che prescinda da ogni contenuto, e che quindi sia “priva di quella materia che occorre a una conoscenza effettiva e vera”, non potrà mai raggiungere un sapere universale e totale, non potrà mai essere quella scienza assoluta a cui mira Hegel, ma solo “coscienza ordinaria, […] coscienza apparente o fenomenica”. Secondo Hegel, la stessa realtà ha una “struttura logica”, o meglio coincide con la “natura” stessa della logica. La Logica hegeliana, quindi, intende cogliere e concernere la realtà stessa (l’“essere”), e non solo il contenuto formale del pensiero (logica antica e kantiana): la realtà stessa è “razionale”, si struttura come l’Idea (la Ragione) stessa, che è sempre, ricordiamolo, un auto-strutturarsi infinito. Per Hegel, la Logica rappresenta “Dio” prima della creazione del mondo, ossia “prima” che “Dio” (l’Idea) esca fuori di sé per individualizzarsi nella Natura, e prima di ritornare in sé come Spirito Assoluto. Pertanto la Logica di Hegel, che ha come proprio contenuto “l’assoluto Vero” (il “pensiero oggettivo”), è da considerasi come “filosofia prima”, ossia come “metafisica” che intende porsi come comprensione del Tutto (certezza e verità): “solo nel sapere assolu57 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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to si è completamente risoluta la separazione dell’oggetto dalla certezza di sé, e la verità si è fatta uguale a questa certezza, così come questa alla verità”. In sintesi. La materia è pensiero, o meglio la “vera materia” è “puro pensiero”, pensiero che non ha nulla fuori di sé: la “vera materia” è “assoluta forma”. La Logica – il sistema hegeliano delle categorie della ragione pura –, rappresenta la Verità come è “in sé”, ed è dunque il “regno del puro pensiero”, o, detto in altri termini, è “l’esposizione di Dio”, è l’esposizione dell’“eterna essenza prima della creazione della natura e dello spirito finito”. Ragione versus intelletto Hegel ha come obbiettivo teorico quello di riconfermare la validità onnicomprensiva e illimitata della “ragione”. Egli mira ad abolire le operazioni isolanti dell’“intelletto riflettente o riflessivo” che è da intendere come “intelletto astraente e con ciò separante, che persiste nelle sue separazioni”. L’intelletto separante è l’“intelletto umano o senso comune” che, “volto contro la ragione”, crede “che la verità riposi sulla realtà sensibile, che i pensieri siano soltanto pensieri, nel senso che solo la percezione sensibile dia loro sostanza e realtà, e che la ragione […] non dia fuori che sogni”. Affermare ciò comporta che il “concetto della verità va perduto” e che “la ragione viene ristretta a conoscere soltanto una verità soggettiva”, una verità particolare e isolata e quindi non assoluta e universale. La “ragione” non è più da considerare, come lo era per Kant, come la facoltà che permette all’uomo di sintetizzare esclusivamente il molteplice empirico della realtà. Ora è la stessa Realtà Assoluta (pensiero e materia, forma e contenuto: “Idea”) a corrispondere a quella “logicità” unificatrice e sintetizzante della Ragione. L’“essenza” (la razionalità) della “realtà esterna”, una volta depurata da tut58 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ta l’accidentalità che l’esistenza materiale e particolare si porta dietro, si presenta avente la medesima struttura logica della Ragione (Idea, Logos), proprio perché “il reale è razionale, il razionale è reale”. La Logica hegeliana – denominata precisamente “logica speculativa”, per differenziarsi da quella “formale” e “naturale” del passato – intende porsi come scienza assoluta (“verità universale”) capace di unificare tutte le determinazioni (“concetti”) della ragione pura, in quanto capace di conoscere la struttura concreta dell’Idea stessa. L’Idea infatti consiste nel “sistema delle categorie” (“essenze dominanti”, determinazioni concettuali), ossia è quel “sistema concreto” secondo cui si realizza ogni aspetto dell’universo. La Logica hegeliana intende quindi porsi come la verità assoluta capace di “svelare l’essenza” del mondo (realtà), di svelare l’“universale che abbraccia in sé la ricchezza del particolare”, e porsi perciò come “sistema di rigorosa scientificità”, come rigoroso sistema epistemico capace finalmente di esporre quella irresistibile “logicità” che costituisce, in modo immanente e necessario, ogni regione della realtà (natura e spirito, cose e idee). Per Hegel, dunque, l ‘”Idea” è l’Essenza assoluta, ossia è il “Senso” e il “Significato” del tutto. Ogni cosa che esiste è una forma di rispecchiamento e di individuazione dell’Essenza assoluta. L’Idea è quindi da intendere come la verità stessa, il vero Senso del Tutto, l’Essere assoluto. Essa è la dimensione che non ha niente al di fuori di sé, in quanto la sua struttura determinata e concreta è identica sia nello “spirito” che nella “natura”. La dialettica hegeliana La Logica concerne dunque la Verità – l’Idea assoluta –, ed è da intendersi come movimento puro e originale, come processo infinito e circolare caratterizzato da un “ritmo” o 59 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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“senso” triadico, coincidente con quel processo logico (razionale) denominato “dialettica” che, già per Kant, era da considerare come l’“operazione necessaria della ragione”. La razionalità del reale, ossia l’Idea in quanto Senso del tutto, è da intendere come un movimento puro e non dipendente da nulla, in cui la razionalità si sviluppa incessantemente dalla sua forma più semplice (parte) a quella più complessa (tutto): la “dialettica” è proprio questo sviluppo “irresistibile”. “La dialettica è innanzitutto l’Assoluto stesso, lo sviluppo stesso dell’Idea”5, e ciò significa che la “dialettica” non va intesa come quella “legge” secondo cui si costruisce solo il sistema categoriale dell’Idea, ma è lo stesso sviluppo in cui l’Idea si fa (uscendo fuori di sé) Natura e (ritornando in sé) Spirito. Secondo Hegel, ogni determinazione particolare (concetto, significato, senso) che intenda porsi astrattamente come un assoluto, dipendente da nulla, e quindi indipendente da tutto, necessariamente cade e incorre da sé nella propria contraddizione, nel proprio opposto, nella propria negazione (auto-soppressione). È solo l’Assoluto – che in fondo rappresenta “l’intima natura dello spirito e del mondo” – colui che riesce a unificare e sintetizzare quelle determinazioni, opposte ed isolate, nell’Idea Assoluta. Ossia in quella Idea capace di comprendere l’opposto nella sua unità, il “positivo” (soggetto, tesi) nel suo “negativo” (oggetto, antitesi), in quella sintesi estrema nella quale consiste, appunto, l’Idea Assoluta (indifferenza di soggetto e oggetto; sintesi della tesi e dell’antitesi; “unità degli opposti”). Ogni determinazione logica, ogni concetto costituente il sistema delle categorie, se vuole possedere una validità epistemica, va sempre riferito all’Assoluto, in quanto solo

5   E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo, vol. II (la filosofia moderna), BUR, Milano 2008, p. 382.

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Georg W.F. Hegel

l’Assoluto (la Ragione, il Logos), essendo sintesi totalizzante, è capace di contenere il positivo (tesi) nel suo negativo (antitesi). Esso soltanto è capace di mantenere uniti e in relazione quel positivo che, superato e mantenuto dal proprio negativo (opposto) il quale conserva quel “positivo” come suo opposto a cui deve riferirsi necessariamente – essendo appunto il “negativo” la negazione del “positivo” –, forma la sintesi totale nella quale consiste l’Idea assoluta. I tre lati (segmenti, momenti) della logica speculativa (o dialettica) di Hegel sono rispettivamente: A) momento astratto o intellettivo (tesi) B) momento dialettico o negativamente razionale (antitesi) C) momento speculativo o positivamente razionale (sintesi) A) Il primo momento di ogni conoscenza è sempre separato e isolato dal tutto, e coincide col primo momento dialettico denominato “astratto o intellettivo”. L’“astrarre”, che è l’operazione di ogni intelletto soggettivo, indica il “separare”, l’“isolare” intellettualmente una determinazione (una parte) dal suo necessario riferimento alla totalità delle cose (il tutto). È un semplice determinare astratto (formale, privo di contenuto, limitato, “finito”), in quanto si riferisce esclusivamente a quella “incolore e fredda semplicità di determinazioni pure”, ossia a quelle determinazioni prive di un contenuto oggettivo. B) Ogni momento “astratto” dell’intelletto, appartenendo a quell’interno (“immanente”) movimento incessante in cui consiste appunto la Ragione (l’Idea, il Logos) – la quale, attraverso i suoi tre momenti logici-dialettici succitati, fa sì che ogni determinazione intellettuale limitata (tesi) si scontri col suo opposto (antitesi) per riunirsi quindi nella sintesi estrema e totale dell’Idea assoluta –, cade necessariamente (inevitabilmente) nel suo opposto, e si contraddice da sé. Questo contraddirsi da sé, questo inevitabi61 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

le incorrere d’ogni determinazione isolata dell’intelletto nel proprio opposto (nella propria negazione), è rappresentato dal secondo momento, denominato “dialettico o negativamente razionale”. In questo secondo momento, ogni determinazione particolare cade nella sua contraddizione oggettiva, ossia esce fuori dalla propria unilateralità soggettiva (tesi) oltrepassando il suo ambito puramente “finito” (formale, parziale, soggettivo) per divenire altro da sé, e quindi per divenire il suo opposto oggettivo (anti-tesi). Dobbiamo essere ancora più chiari: ogni determinazione dell’“intelletto”, in quanto determinazione isolata e limitata (finita), si sopprime e diventa il proprio opposto. Poniamo, per esempio, che io voglia considerare come assolutamente isolato il concetto “vita”, che voglia considerare la “vita” come separata da ogni altra determinazione (concetto, significato). Sicché la “vita”, per me, non ha bisogno di nient’altro che di sé per costituirsi come “vita”. Astrattamente (intellettualmente) per me la “vita” è dunque un puro “soggetto” (tesi) che non sta in relazione con nessun’altra determinazione. Essa prescinde ed è indipendente da ogni altra determinazione (concetto, significato): la “vita” è “vita”, e nient’altro. Imporre un siffatto significato alla “vita”, comporta inevitabilmente il mio cadere in contraddizione. È inevitabile che la “vita”, intesa come assolutamente isolata e indipendente, cada nel suo significato opposto, divenendo quindi “morte”. La “vita”, isolata dalla “morte”, considerata cioè a prescindere dalla “morte”, non può nemmeno presentarsi come negazione della “morte”, ossia non può presentarsi come “vita”, essendo quest’ultima ciò che nega la “morte”. Per essere negazione della “morte”, la “vita” deve essere necessariamente in relazione alla “morte”. Isolata dalla “morte”, la “vita” diventa essa stessa “morte”. Isolata dalla “morte”, la “vita” cade in contraddizione, si sopprime e diventa il proprio opposto: la “vita” diventa “morte”, la propria negazione assoluta. L’isolamento assoluto delle determinazioni (la vita è vi62 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Georg W.F. Hegel

ta), fa sì che ogni determinazione si presenti come identica al proprio opposto (la vita è morte). Fa sì che ogni determinazione assolutamente isolata si contraddica sempre, che si neghi e dunque si sopprima inevitabilmente da sé. C) Ogni determinazione intellettuale, ogni isolamento astratto e finito operato dall’“intelletto”, è dunque un contraddirsi. Ogni determinazione isolata, da sé, o meglio, a causa del movimento incessante della “logicità”, ossia della dialettica dell’Idea, diventa la propria negazione. Bisogna attendere il terzo momento – il momento “speculativo o positivamente razionale” –, per cogliere “l’unità delle determinazioni nella loro contrapposizione”. Per unire cioè quei negarsi e quei contraddirsi reciproci – il soggetto assoluto (la vita) non è l’oggetto assoluto (la morte), l’oggetto (la morte) non è il soggetto (la vita) – nell’affermazione positiva della Ragione. Quest’ultima costituisce l’universale risoluzione dell’opposizione, consistente appunto (la risoluzione) “nel loro passare in altro” delle determinazioni contraddicentesi a vicenda, ossia nel loro passare in quell’unità insuperabile e assoluta rappresentata dalla Ragione (Logos, Idea). La “vita”, per ritornare al nostro esempio, non va considerata (logicamente) come separata e isolata dalla “morte”, in quanto se così fosse diverrebbe essa stessa “morte”. La “vita” è, intesa speculativamente, un infinito negare la “morte”, ovvero è la positiva (razionale) negazione della propria negazione, ed è dunque da considerarsi necessariamente in relazione alla “morte”. Questo perché essa ha incessantemente bisogno di negare e di opporsi a tale “morte”, per potersi presentare come “vita”, come ciò che, se non vuol cadere in contraddizione e autosopprimersi, si deve opporre alla “morte” e negarla incessantemente. Affinché due determinazioni siano effettivamente non contraddittorie, non si può considerale separate e indipendenti le une dall’altre. Non si può considerarle non in relazione necessaria, in quanto è proprio dal “conflitto”, dal 63 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

perpetuo combattersi e negarsi a vicenda, che si costituisce l’“unità” razionale e la sintesi positiva, capace di render concrete, identiche a sé e non contraddittorie, quelle stesse determinazioni. In breve, “la contraddizione delle determinazioni intellettuali è tolta solo se esse sono tolte dal loro isolamento e vengono concepite nella loro unità e relazione”. La Ragione, in quanto sintesi assoluta, unisce e mette in relazione quelle determinazioni intellettuali, supera la loro reciproca contraddizione, creata a sua volta dal loro reciproco isolamento, perché è capace di superare e di togliere quell’isolamento contraddittorio delle due determinazioni. Secondo il nostro esempio - che è applicabile a qualunque coppia di opposti, tipo “male-bene”, “verità-errore”, ecc. - la “vita” resta identica alla “vita” (cioè “a sé”), ossia non diventa “morte” e non si contraddice, solo se è considerata razionalmente come in perpetua relazione alla “morte”, solo se la determinazione “vita” è concepita nella sua unità necessaria con la propria determinazione opposta che è la “morte”. La “vita” è positivamente “vita”, la “vita” non cade in contraddizione solo se è negazione della “morte”, solo se è concepita “razionalmente” come opposizione del proprio opposto, negazione della propria negazione, come necessariamente legata alla “morte”, come unità e sintesi razionale di “vita” e “morte” (soggetto e oggetto). La “vita” intesa razionalmente, intesa in senso assoluto, è l’unità (la sintesi) delle determinazioni, è l’unità della “vita” e della “morte” nella loro opposizione, nel loro incessante negarsi reciproco (relazionale). Capire queste complesse e necessarie implicanze reciproche dei tre momenti della Logica hegeliana, significa comprendere correttamente la struttura concettuale sulla quale si basa tutto il resto del sistema hegeliano.

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Georg W.F. Hegel

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La Filosofia della Natura Se la Logica hegeliana riguarda la struttura interna, ossia il primo momento dell’“in sé” dell’Idea, la Filosofia della Natura intende mostrare e argomentare il secondo momento, dove l’Idea esce fuori di sé per farsi altro da ciò che è, per farsi Natura. Hegel considera la Natura come “l’idea nella forma dell’esser altro”. L’Idea, divenendo Natura, si estrania e si aliena da sé, diventa altro da ciò che è, si contraddice, da interna (in sé, soggettiva) si fa esterna (fuori di sé, oggettiva) e diventa il suo opposto, sopprimendosi inevitabilmente. L’Idea, in quanto Natura, si nega da sé, e dunque è negazione di se stessa, o, come dice Hegel, è “contraddizione insoluta”. Le “determinazioni concettuali” della Natura, appaiono “indifferenti e isolate le une dall’altre”, e in essa tutto mostra i caratteri dell’accidentalità, del rozzo arbitrio, del disordine brutale, della più bieca accidentalità, del puro capriccio. Tutto mostra i caratteri di una irrazionalità sregolata e sfrenata. Queste aggettivazioni negative stanno ad indicare quanto l’Idea, divenendo Natura, appaia come il suo esatto contrario, come la totale negazione di se stessa, in quanto è negazione assoluta dei suoi propri caratteri quali sono l’ordine, la libertà, l’assolutezza e la “razionalità” tout court. La Natura è dunque la “morte”, l’antitesi e l’opposto dell’Idea che, decaduta da se stessa, si presenta esternamente come negazione di se stessa, come auto-negazione (autosoppressione, contraddizione, antitesi). Appunto perciò, l’Idea si presenta nella Natura come puro “gioco delle forme”, come forma senza nessun concetto, pura esteriorità vuota di ogni “in sé”, vuota di ogni “idea” (di ogni razionalità). La Natura appare ad Hegel come un blocco rigido, un masso immobile, priva d’ogni possibilità di movimento, di cambiamento, di produzione cangiante, priva di “meta65 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

morfosi” insomma. Questo perché soltanto l’“idea” (il “concetto”) è capace di produrre – dove tale “produrre” non va inteso, sia chiaro, come “produzione naturale”, ma come produzione immanente, ossia come divenire interno, come metamorfosi di sé, come idea che “produce” altra idea: circolo dell’auto produzione infinita dell’Idea Assoluta. A chi obbiettava il fatto che dalla Filosofia della Natura non si riesce a ricavare nessuna conoscenza (“deduzione”) riguardante le “cose” della natura (stelle, pianeti, astri, ecc.), Hegel stesso più o meno rispondeva che dalla natura, essendo “irrazionalità” feroce, non si può dedurre, né tantomeno conoscere razionalmente alcunché: la Natura è la “morte” dell’Idea, è contenutisticamente sterile in quanto priva di razionalità. L’“esperienza” empirica mostra solo “aborti, mostri, esseri ibridi”, mostra l’“esteriorità” e l’impotenza di ogni “positiva” produzione, di ogni possente perfezione, di ogni purezza originale, mostra la “morte” dell’Idea, il suo morire per farsi Natura, per farsi cadavere. L’Idea, di fronte a questo scenario di immobilità e cose morte che è la Natura, essendo movimento incessante capace di superare ogni contraddizione e opposizione, si “pone” e si riconosce come “vivente”, come “vita” che si oppone alla “morte”. Si riconosce come vita che nega e che è negazione della morte, e quindi come Idea che nega e che è negazione della Natura. L’Idea (la vita), procedendo oltre il suo secondo momento dell’esteriorità, supera e conserva la Natura, oltrepassa quella “morte” che è la Natura, ma nello stesso tempo la conserva, in quanto è ciò a cui la propria negazione deve necessariamente riferirsi, per riconoscersi come superamento incessante della Natura (della morte). L’Idea (tesi), ovvero il circolo infinito della sua autoproduzione, non si arresta di fronte al suo esser fuori di sé in quanto Natura (antitesi), ma procede necessariamente oltre, riconoscendosi positivamente come “vita” che si oppone alla “morte” (idea contro natura, ovvero relazione polemica della tesi e della antitesi). “Auto-coscienza” que66 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Georg W.F. Hegel

sta, che gli permette di rivelarsi e di conoscersi finalmente e totalmente come sintesi assoluta dell’“idea” e della “natura”, ossia come “spirito”, o meglio, come Spirito Assoluto, “che è la verità e lo scopo finale della natura, ed è quindi da intendere come la vera e completa realtà dell’Idea”. Lo Spirito Assoluto Il “processo dialettico” è quel processo che, con un “andamento irresistibile”, conduce dall’Idea allo Spirito. L’Idea si riconosce Spirito grazie e attraverso la mediazione della Natura, ossia mediante la negazione del suo opposto rappresentato dalla Natura. L’Idea (tesi) e la Natura (antitesi) sono dunque momenti indispensabili – poli dialettici tra loro reciprocamente legati, lati opposti che stanno in necessaria relazione perché si negano a vicenda – affinché la sintesi assoluta, costituita appunto dallo Spirito, sia possibile e totale. Lo Spirito è “movimento concreto” il quale “forma una serie di svolgimenti, che non deve essere concepita” – la serie di svolgimenti dello Spirito – “come una linea retta diretta verso un infinito astratto, bensì come un circolo che ritorna su di sé”. Lo Spirito rappresenta il momento sintetizzante dove l’Idea (l’Assoluto), ritornando su di sé, diventa coscienza di sé, diventa autocosciente, riconoscendosi come Idea “in sé e per sé”, come “piena e concreta unità”. Il che vuol dire che lo Spirito, finalmente riconosciutosi come Assoluto, è il pieno superamento e la concreta unificazione di quelle “determinazioni differenti” e opposte (dialettiche) rappresentate dall’”in sé “ dell’Idea (tesi) e dal “fuori di sé” della Natura (antitesi). Lo Spirito pertanto è sintesi vivente che, come momento conclusivo del processo dialettico, ha tolto ogni contraddizione e ogni limite possibile, ed è quindi autorealizzazione insuperabile, autocoscienza totale e assoluta, in quanto 67 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

è la più alta espressione dell’Idea. “L’assoluto è lo spirito: questa è la più alta definizione dell’assoluto”. Ritornando a se stesso, dopo essersi “alienato” e “sdoppiato” nell’Idea e nella Natura, lo Spirito non fa altro che auto-riconoscersi come “autentica libertà: giacché è libero solo ciò che non si riferisce ad altro, né dipende da altro”. Pertanto il processo dialettico in cui consiste lo Spirito è “processo di liberazione dello Spirito”. “Lo Spirito nella sua verità assoluta” è “unità che è in sé e per sé”, unità che eternamene si produce, e “questa conciliazione dello spirito, questo suo tornare a se stesso può essere considerato come il suo scopo supremo ed assoluto: ciò soltanto egli vuole e null’altro”. Secondo Hegel, l’intera storia universale, tutto ciò che esiste ed è esistito, mostra i caratteri del processo dialettico (o razionale), dell’unione graduale e progressiva degli opposti in una perfetta e positiva sintesi finale. Ed è nell’uomo che finalmente l’Idea si fa cosciente di sé, che diviene “spirito”. Se l’Idea era da considerare come “Dio prima della creazione” e la Natura come Dio “fuori di sé”, lo Spirito è allora “Dio” che diventa cosciente di sé: “Dio” si auto-riconosce come “Dio” (Spirito Assoluto). Pertanto, “ogni forma della coscienza umana, dalla più semplice alla più complessa, dalla più primitiva e ingenua alla più matura, è un modo in cui Dio, necessariamente e irresistibilmente, prende coscienza di sé”. È esattamente nella storia dell’uomo che “Dio” diventa cosciente di sé. Per Hegel l’Uomo è Dio, o meglio, è nello svolgimento della storia dell’Uomo, in quanto irresistibile svolgimento dialettico dello Spirito, che Dio si riconosce come Dio, così che la filosofia hegeliana si presenta come “l’autorivelazione assoluta e definitiva di Dio”. Ma, si faccia attenzione, Hegel non vuole assolutamente dire che ogni singolo individuo è da considerarsi come Dio. È esclusivamente lo Stato, in quanto rappresenta la reale unione (sintesi totale) di ogni particolarità soggettiva (le parti), ad assumere i 68 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Georg W.F. Hegel

caratteri di quel Dio che ha preso definitivamente coscienza di sé, che si riconosce come “Dio” assoluto. Lo Stato è il soggetto e il protagonista della storia umana, è il soggetto e il protagonista della storia dello “spirito” che gradualmente arriva a conoscersi in modo definitivo e totale. Lo Stato non è da intendere come la mera somma delle attività particolari dei singoli individui. Bensì è da considerare come “attività etica”, attività capace di unificare speculativamente quegli opposti rappresentati dal “diritto” e dalla “morale”. Questo perché l’eticità dello Stato è la sola capace di unire la legge esterna del “diritto” (leggi sociali) e le “leggi” della coscienza interiore della “morale”. L’eticità, ossia lo Stato “etico”, è dunque l’unione del diritto e della morale, è “legge esterna che si fa interiore, coscienza morale che si fa legislazione della comunità sociale”. Essendo il più alto livello dell’autoconsapevolezza dello Spirito, lo Stato sa di essere questa sintesi totale e insuperabile, e dunque si riconosce come Stato Assoluto e totalitario. Lo Stato stesso, agli occhi di Hegel, rappresenta quello sviluppo dialettico che ha come proprio risultato l’unità di tutti gli opposti, ossia si presenta come quello sviluppo necessario che caratterizza ogni altro momento della realtà. La storia dell’uomo è dunque da considerare come quel processo inevitabile, che dall’antichità sino ad Hegel “spinge necessariamente gli individui ad unirsi” in forme e in modi sempre crescenti – dalla monarchia (libertà di uno solo) dei popoli orientali, passando dall’oligarchia (libertà di alcuni) greca-romana, per arrivare alla libertà di tutti gli uomini del “mondo cristiano-germanico”. Individui che, gradualmente, tendono ad arrivare a quella unità insuperabile rappresentata dallo Stato “etico”, a quello Stato Assoluto dove “l’individuo è autenticamente libero e sa di esserlo”: solo lo Stato, per Hegel, “conferisce all’uomo la libertà e la consapevolezza di essere libero”. Pertanto, il “fine della storia” è la libertà dell’uomo che si oggettiva in modo assoluto con la costituzione dello Sta69 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

to “etico”. Il fine della storia umana è la sintesi massima in cui “Dio”, ovvero la Ragione divina, dialetticamente si libera da ogni limitazione astratta (intellettuale), servendosi delle volontà individuali (“passioni e intenti” dei popoli) come mezzi per la propria autorealizzazione, come mezzi di quello “scopo assoluto” che è l’autorealizzazione dello Spirito (Dio). Poiché nelle “molteplici formazioni che chiamiamo popoli” è sempre e solo lo Spirito che “esplica e manifesta se stesso”, e tutta la storia dell’uomo non è altro che l’inarrestabile autorealizzarsi dello Spirito, la filosofia, secondo Hegel, deve “portare nella storia la fede e il pensiero che il mondo del volere” – cioè il mondo dell’uomo – “non è rimesso nelle mani del caso”, bensì nelle mani eccelse ed onnipotenti del Logos universale. In tutte le vicissitudini e contingenze dei popoli vi è da rintracciare il “fine ultimo” ed evidenziare quanto “nella storia universale vi sia una ragione – e non la ragione di un soggetto particolare, ma la ragione divina, assoluta”, quella “ragione” che “riposa in sé e ha in sé il suo fine”. Affermare, come fa Hegel, che “una volontà divina domina poderosa nel mondo, e non è così impotente da non saperne determinare il gran contenuto”, significa sostenere che tutto ciò che i popoli del mondo hanno prodotto, che siano le guerre più inumane come le paci più clementi, “doveva essere fatto e non poteva non essere fatto”.

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PAGINE ANTOLOGICHE

La logica hegeliana A proposito di nessuna scienza si sente così forte il bisogno di cominciar subito dalla cosa stessa, senza riflessioni preliminari, come a proposito della scienza logica. In ogni altra scienza l’oggetto, ch’essa tratta, e il metodo scientifico sono distinti uno dall’altro; e così pure il contenuto non costituisce un cominciamento assoluto, ma dipende da altri concetti, e si connette, tutto attorno, con altra materia. […] La logica all’incontro non può presupporre alcuna di queste forme della riflessione, o di queste regole e leggi del pensare, perché esse fanno parte del suo stesso contenuto e non debbono essere fondate che dentro la logica stessa. Ma non solo la dichiarazione del metodo scientifico: anche il concetto stesso della scienza in generale appartiene al contenuto della logica, costituendo propriamente l’ultimo risultato di essa. Quello ch’essa è, essa non lo può perciò dir prima; ma l’intiera sua trattazione produce questa sua conoscenza di se stessa come suo ultimo fastigio e suo compimento. […] Quando si prende la logica come scienza del pensare in generale, s’intende con ciò che questo pensare sia la semplice forma di una conoscenza, che la logica astragga da ogni contenuto, e che il cosiddetto secondo elemento che apparterrebbe ad una conoscenza, vale a dire la materia, debba esser dato da un’altra parte, per modo che la logica, come quella da cui questa materia sarebbe affatto indipendente, non possa dare altro che le condizioni formali di una vera conoscenza, non già contenere essa stessa una verità reale, e nemmeno esser soltanto la via per giungere a questa, appunto perché l’essenziale della verità, il contenuto, rimarrebbe fuori di essa. Ora, prima di tutto, è già fuor di propo71 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

sito il dire che la logica astragga da ogni contenuto, che insegni soltanto le regole del pensare, senza entrare a considerare il pensato e senza poter tener conto della sua natura. Poiché, infatti, la logica deve aver per oggetto il pensare e le regole del pensare, ha anzi in cotesto il suo particolare contenuto; ha in cotesto anche quel secondo elemento della conoscenza, una materia, della cui natura si occupa. Se non che, in secondo luogo, quelle rappresentazioni, in generale, su cui riposò fin qui il concetto della logica, in parte son già tramontate, e in parte è tempo che spariscano completamente, che il punto di vista di questa scienza si prenda più in alto, e ch’essa acquisti una forma affatto diversa. Il concetto che fino a qui si è avuto della logica è basato sulla separazione, presupposta una volta per sempre nella coscienza ordinaria, del contenuto della conoscenza dalla forma di essa, sulla separazione cioè della verità e della certezza. Si presuppone in primo luogo che la materia del conoscere sussista già in sé e per sé quale un mondo bell’e compiuto al di fuori del pensiero, che il pensiero sia di per sé vuoto, che sopravvenga a quella materia estrinsecamente quale una forma, si riempia di essa, e solo con questo acquisti un contenuto e così diventi un conoscere reale. Questi due elementi poi (giacché secondo tal maniera di vedere debbono star fra loro nel rapporto di elementi, ed il conoscere ne vien composto in guisa meccanica o, al più, chimica) vengono ordinati l’uno di fronte all’altro per modo che l’oggetto sia un che di già per sé compiuto, un che di già pronto, che per la sua realtà possa perfettamente fare a meno del pensiero, e che all’incontro il pensiero sia qualcosa di manchevole cui occorra completarsi in una materia, e cioè rendersi a questa adeguato quale una cedevole forma indeterminata. Verità è l’accordo del pensiero coll’oggetto; e al fin di produrre quest’accordo (poiché esso non sussiste in sé e per sé) bisogna allora che il pensiero si adatti e si acconci all’oggetto. […] Queste vedute intorno al rapporto fra soggetto ed oggetto esprimono le determinazioni costituenti la natura della nostra coscienza ordinaria, la coscienza apparente o fenomenica. Ma quando questi pregiudizi si trasportano nella ragione, quasi che nella ragione avesse luogo lo stesso rapporto, quasi che un tal rapporto avesse in sé e per sé verità, allora essi diventano gli errori di cui 72 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Georg W.F. Hegel: pagine antologiche

la filosofia è la confutazione condotta attraverso ad ogni parte dell’universo spirituale e naturale, o meglio, gli errori che impediscono l’accesso alla filosofia, e che perciò convien deporre alla sua soglia. La vecchia metafisica aveva sotto questo riguardo un concetto più alto del pensiero, che non quello ch’è venuto di moda ai tempi nostri. Metteva cioè per base che quello, che per mezzo del pensiero si conoscesse delle cose e nelle cose, fosse il solo veramente vero che le cose racchiudessero. Il vero, per quella metafisica, non eran quindi le cose nella loro immediatezza, ma soltanto le cose elevate nella forma del pensiero, le cose come pensate. Quella metafisica riteneva perciò che il pensiero e le determinazioni del pensiero non fossero un che di estraneo agli oggetti, ma anzi fosser la loro essenza, ossia che le cose e il pensar le cose coincidessero in sé e per sé, che il pensiero nelle sue determinazioni immanenti, e la vera natura delle cose, fossero un solo e medesimo contenuto. Ma l’intelletto riflettente s’impadronì della filosofia. Occorre sapere esattamente che cosa vuol dire questa espressione che altrimenti si adopera in vari significati come termine di battaglia. Per intelletto riflettente o riflessivo è da intendere in generale l’intelletto astraente e con ciò separante, che persiste nelle sue separazioni. Volto contro la ragione, cotesto intelletto, si conduce quale ordinario intelletto umano o senso comune, e fa valere la sua veduta che la verità riposi sulla realtà sensibile, che i pensieri sian soltanto pensieri, nel senso che solo la percezione sensibile dia loro sostanza e realtà, e che la ragione, in quanto resta in sé e per sé, non dia fuori che sogni. Ora in questa rinuncia della ragione a se stessa, il concetto della verità va perduto, la ragione vien ristretta a conoscer soltanto un verità soggettiva, soltanto l’apparenza, soltanto qualcosa cui la natura dell’oggetto stesso non corrisponda. Il sapere è tornato ad esser l’opinione. Tuttavia questa piega, che prende il conoscere, e che appare quale una perdita e quale un regresso, ha per base un profondo motivo, quel motivo su cui riposa in generale l’elevamento della ragione nel più alto spirito della nuova filosofia. Vale a dire che il motivo di quella rappresentazione divenuta ormai universale è da ricercare in ciò che venne scorto il necessario contrasto delle determinazioni dell’intelletto con se stesso. – L’accennata riflessione consiste nel sorpassare il concreto Immediato, 73 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

e nel determinarlo e dividerlo. Ma la riflessione deve anche sorpassare queste sue determinazioni divise, e metterle anzitutto in relazione tra loro. Ora in questo punto del metterle in relazione vien fuori il loro contrasto. Cotesto riferire della riflessione appartiene in sé alla ragione; il sollevarsi sopra a quelle determinazioni che va fino alla visione del loro contrasto, è il gran passo negativo verso il vero concetto della ragione. Ma quella visione cade, quando non sia condotta a termine, nell’errore per cui si crede esser la ragione, quella che viene a contraddire a se stessa. Essa non si accorge che la contraddizione è appunto il sollevarsi della ragione sopra le limitazioni dell’intelletto, e il risolver queste. […] La vuotezza delle forme logiche sta unicamente nella maniera di considerarle e di trattarle. In quanto, come determinazioni fisse, cadono una fuori dell’altra, e non vengon tenute assieme in una unità organica, coteste son forme morte, né risiede in esso lo spirito, che è la lor concreta unità vivente. Mancan così del vero contenuto – di una materia, che sia in se stessa una sostanza e un valore. Il contenuto, di cui si trovan mancanti le forme logiche, non è altro che una ferma base e concrezione di queste determinazioni astratte; ed una tal essenza sostanziale si suol per quelle forme andarla a cercar fuori. Ma il sostanziale o reale, quello che riunisce assieme, in sé, tutte le determinazioni astratte, ed è la loro schietta ed assolutamente concreta unità, è appunto la ragione logica. Non vi sarebbe dunque bisogno d’andar lontano, per cercar quello che si suol denominare materia. Non è colpa dell’oggetto della logica, se questa par vuota, ma solo della maniera come quell’oggetto viene inteso. […] Il sapere assoluto è la verità di tutte le guise di coscienza, perché, come risultò da quel suo svolgimento, solo nel sapere assoluto si è completamente risoluta la separazione dell’oggetto dalla certezza di sé, e la verità si è fatta eguale a questa certezza, così come questa alla verità. […] Lungi quindi dall’esser formale, lungi dall’esser priva di quella materia che occorre a una conoscenza effettiva e vera, cotesta scienza ha anzi un contenuto che, solo, è l’assoluto Vero, o, se si voglia ancora adoperare la parola materia, che, solo, è la vera materia – una materia, però, cui la forma non è un che di esterno, poiché questa materia è anzi il puro pensiero, e quindi l’assoluta forma stessa. La logica è perciò da intendere come il sistema della ragione pura, come il regno del 74 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Georg W.F. Hegel: pagine antologiche

puro pensiero. Questo regno è la verità, com’essa è in sé e per sé senza velo. Ci si può quindi esprimer così, che questo contenuto è la esposizione di Dio, com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito. (G. W. F. Hegel, Scienza della logica, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 23-31) Il momento dialettico Il momento dialettico è il superarsi proprio di tali determinazioni finite e il loro passare nelle determinazioni loro opposte. 1) Il momento dialettico, preso dall’intelletto come per sé separato, costituisce, specialmente nel suo manifestarsi nei concetti scientifici, lo scetticismo; lo scetticismo contiene la semplice negazione come risultato del momento dialettico. 2) La dialettica viene usualmente considerata come un’arte estrinseca che arbitrariamente porta confusione in concetti determinati e produce una semplice apparenza di contraddizioni in essi, in modo che non queste determinazioni, ma quest’apparenza sarebbero un nulla e l’intellettivo invece sarebbe il vero. Spesso la dialettica è anche nient’altro che una sorta di altalena soggettiva di ragionamenti che vanno su e giù e dove manca ogni contenuto effettivo e la nudità viene nascosta semplicemente dalla sottigliezza che produce un tale raziocinare. – Nella sua determinatezza peculiare la dialettica è piuttosto la natura propria, vera, delle determinazioni dell’intelletto, delle cose e del finito in generale. La riflessione è dapprima l’oltrepassare la determinatezza isolata e il metterla in relazione; così questa determinatezza viene messa in rapporto e, per il resto, viene conservata nella sua validità isolata. La dialettica invece è questo immanente oltrepassare, in cui l’unilateralità e la limitatezza delle determinazioni dell’intelletto si espone per quello che è, cioè come la loro negazione. Ogni finito è il superare se stesso. La dialettica è quindi l’anima motrice del procedere scientifico ed è il principio mediante il quale soltanto il contenuto della scienza acquista un nesso immanente o una necessità, così come in esso in generale si trova la vera elevazione, non estrinseca, al di là del finito. Aggiunta n. 1. È di somma importanza cogliere e conoscere adegua75 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

tamente l’elemento dialettico, che è in generale il principio di ogni movimento, di ogni vita e di ogni impegno attivo nella realtà effettiva. Così pure l’elemento dialettico è anche l’anima di ogni conoscenza veramente scientifica. Nella nostra coscienza comune il non fermarsi alle determinazioni astratte dell’intelletto appare come semplice equità secondo il detto: “vivere e lasciar vivere”, in modo che valga l’una cosa e anche l’altra. Ma, più esattamente, le cose stanno così: il finito non viene semplicemente limitato dal di fuori, ma, mediante la sua propria natura, si supera e passa mediante se stesso nel suo contrario. Così, per esempio, si dice che l’uomo è mortale, e si considera poi il morire come qualcosa che ha il suo fondamento soltanto in circostanze esterne; secondo questo modo di considerare, l’esser vivente e l’esser anche mortale sono due proprietà particolari dell’uomo. Ma il vero modo di vedere sta nel comprendere che la vita come tale porta in sé il germe della morte e che, in generale, il finito si contraddice in se stesso e quindi si supera. – La dialettica poi non va affatto confusa con la semplice sofistica, la cui essenza consiste proprio nel far valere per sé determinazioni unilaterali e astratte nel loro isolamento, via via secondo l’interesse dell’individuo e nella sua situazione particolare. Così, per esempio, rispetto all’agire è un momento essenziale che io esista ed abbia i mezzi per l’esistenza. Ma se poi accentuo per sé questo lato, questo principio del mio benessere, e ne ricavo la conseguenza che posso rubare o tradire la mia patria, questa è una sofisticheria. […] – La dialettica è essenzialmente diversa da tal modo di agire, perché la dialettica tende a considerare le cose in sé e per sé, e di qui risulta subito la finitezza delle determinazioni unilaterali dell’intelletto. […] Nei tempi più recenti è stato soprattutto Kant a richiamare l’attenzione sulla dialettica e a rimetterla nel dovuto onore, e questo, precisamente, sviluppando le cosiddette antinomie della ragione, dove non si tratta affatto di un semplice andirivieni di argomenti né di un procedimento semplicemente soggettivo, ma piuttosto di mostrare come ogni determinazione astratta dell’intelletto, presa soltanto così come si dà essa stessa, si rovescia immediatamente nel suo opposto. […] Noi sappiamo che ogni finito, invece di essere un termine fisso e ultimo, è piuttosto mutevole e transeunte, e questo non è altro che la dialettica del finito, mediante la quale il finito, in quanto in sé è l’altro di sé, viene spinto anche oltre quello che è immediatamente 76 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Georg W.F. Hegel: pagine antologiche

e si rovescia nel suo opposto. (G. W. F. Hegel, La scienza della logica, a cura di V. Verra, Utet, Torino 1981, pp. 249-52) Il processo di liberazione dello Spirito Lo spirito è coscienza, libertà, perché in lui coincidono il principio e la fine. È bensì vero che anche lo spirito, come il germe nella natura, dopo essersi fatto un altro, si raccoglie nuovamente ad unità; ma in esso ciò che è in sé diventa per lo spirito ed egli diventa così per sé. Invece il frutto e il nuovo seme contenuto in esso non diventano per il germe primitivo, bensì soltanto per noi. Al contrario nello spirito non solo entrambi i momenti sono in sé la stessa natura, ma si verifica in essi un esser per l’altro e, appunto per questo, un esser per sé. Ciò per cui l’altro è, è uguale a quell’altro; solo così lo spirito è conciliato con sé nel suo altro. Lo svolgimento dello spirito risiede dunque nel fatto che egli, mentre si estrinseca e si scinde, contemporaneamente torna a se stesso. Questa conciliazione con sé dello spirito, questo suo tornare a se stesso può esser considerato come il suo scopo supremo ed assoluto: ciò soltanto egli vuole e null’altro. Tutto ciò che avviene, che avviene eternamente in cielo e sulla terra, la vita di Dio e tutto ciò che si compie nel tempo, tende soltanto allo scopo che lo spirito conosca se stesso, che faccia di sé il proprio oggetto, che diventi per se stesso, che si concilii con sé. Egli è sdoppiamento, alienazione, ma solo al fine di poter trovare se stesso, e di poter ritornare a sé. Solo questa è autentica libertà: giacché è libero solo ciò che non si riferisce ad altro, né dipende da altro. E lo spirito, mentre torna a se stesso, ottiene appunto di esser libero. Solo qui vi è autentico possesso di se stesso, vera ed autentica convinzione: in ogni altra cosa che non sia pensiero lo spirito non raggiunge tale libertà. […] Quanto allo svolgimento, ci si può chiedere: che cosa si svolge? che cosa è il suo contenuto assoluto? Giacché lo svolgimento si rappresenta in genere come un’attività formale, senza contenuto. Ma l’azione non ha altra determinazione che l’attività: e il carattere generale del contenuto già si determina attraverso essa. Poiché i momenti dell’attività sono l’esser in sé e l’esser per sé: l’azione consiste nel contenere in sé que77 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

sti momenti distinti. L’atto è tuttavia essenzialmente unico e proprio: questa unità dei due momenti differenti costituisce il concreto. Non soltanto l’azione è concreta, ma lo è anche l’in sé, il soggetto dell’attività, quello che inizia: il prodotto è altrettanto concreto quanto l’attività e il soggetto cominciante. Il corso dello svolgimento costituisce anche il contenuto, l’Idea stessa, la quale appunto consiste nel fatto che v’è l’un opposto e v’è l’altro, ma entrambi sono una cosa sola; essa è il terzo, poiché l’uno è nell’altro restando sempre in sé, non fuori di sé. È un comune pregiudizio l’opinione che la scienza filosofica abbia soltanto a che fare con astrazioni, con vuote generalità, mentre invece l’intuizione, la nostra autocoscienza empirica, il sentimento di noi stessi, il senso della vita sarebbero invece il concreto in sé, la ricchezza di ciò che è determinato in sé. In realtà la filosofia vive nell’ambito del pensiero: essa quindi ha a che fare con universalità: il suo contenuto è astratto, però solo secondo la forma, secondo l’elemento; mentre invece l’Idea in se stessa è essenzialmente concreta, poiché essa è l’unità di determinazioni differenti. Proprio in questo la conoscenza razionale differisce dalla pura conoscenza intellettualistica: ed è appunto il compito della filosofia il dimostrare, contro l’intelletto, che il vero e l’Idea non consistono in vuote generalità, bensì in un universale, che è in se stesso il particolare, il determinato. Se il vero è astratto, esso non è vero. La sana ragione umana, il buon senso, mira solo al concreto; soltanto la riflessione dell’intelletto forma una teoria astratta, priva di verità, giusta soltanto nel cervello ed inoltre impraticabile, la filosofia è quanto mai nemica dell’astratto e riconduce al concreto. […] Il concreto è dunque semplice e insieme diverso. Questa sua contraddizione interiore è proprio ciò che stimola allo svolgimento. Attraverso essa la differenza giunge all’esistenza. Ma anche alla differenza viene riconosciuto il suo diritto. Esso consiste nell’esser riassorbita e quindi superata: poiché la sua verità è solo d’esser nell’unità. […] Così questo movimento, in quanto è concreto, forma una serie di svolgimenti, che non deve essere concepita come una linea retta diretta verso un infinito astratto, bensì come un circolo che ritorna su di sé. Questo circolo ha alla sua periferia una grande quantità di circoli, il cui insieme costituisce una grande serie di svolgimenti, che si volgono su se stessi. (G. W. F. Hegel, Introduzione alla storia della filosofia, Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 60-66) 78 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Georg W.F. Hegel: pagine antologiche

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Lo Stato è l’ingresso di Dio nella storia del mondo Lo Stato, in sé e per sé, è la totalità etica, la realizzazione della libertà: ed è finalità assoluta della ragione, che la libertà sia reale. Lo Stato è lo spirito che sta nel mondo, e si realizza nel medesimo con coscienza, mentre, nella natura, esso si realizza soltanto in quanto l’altro da sé, in quanto spirito sopito. Solamente in quanto esistente nella coscienza, in quanto consapevole di se stesso, come oggetto che esiste, esso è lo Stato. Nella libertà non deve procedersi dall’individualità, dall’autocoscienza singola, ma soltanto dall’essenza dell’autocoscienza: poiché, ne possa essere consapevole o meno l’uomo, quest’essenza si realizza come potere autonomo, nel quale i singoli individui sono soltanto momenti. L’ingresso di Dio nel mondo è lo Stato; il suo fondamento è la potenza della ragione che si realizza come volontà. Nell’idea dello Stato, non devono tenersi presenti Stati particolari, istituzioni particolari; anzi si deve considerare per sé l’idea, questo Dio reale. Ogni Stato, lo si dichiari anche cattivo secondo i principi che si professano, si riconosca in esso questo o quel difetto, – ha sempre in sé, specialmente se appartiene alla nostra epoca civile, i momenti essenziali alla sua esistenza. Ma, poiché è molto più facile scoprire un difetto, che intendere l’affermativo, si cade facilmente nell’errore di dimenticare, al disopra dei suoi aspetti singoli, l’organismo interiore dello Stato stesso. Lo Stato non è un’opera d’arte: esso sta nel mondo e, quindi, nella cerchia dell’arbitrio, dell’accidentalità e dell’errore: un cattivo comportamento lo può svisare da molti lati. Ma l’uomo più odioso, il reo, un ammalato e uno storpio, sono sempre ancora uomini viventi: l’affermativo, la vita esiste, malgrado il difetto; e questo affermativo importa qui. […] (G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1979, p. 238) La considerazione filosofica non ha altro intento che quello di eliminare l’accidentale. Accidentalità è lo stesso che necessità esteriore, cioè necessità che risale a cause le quali non sono esse stesse che circostanze esteriori. Dobbiamo ricercare nella storia un fine universale, il fine ultimo del mondo, e non uno scopo particolare dello spirito soggettivo o del sentimento; lo dobbiamo intendere attraverso la ragione, che non può porre il proprio interesse in un particolare scopo finito, 79 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

ma solo in quello assoluto. Questo è un contenuto che dà e reca in sé testimonianza di sé stesso, e in cui ha la sua base tutto ciò che l’uomo può considerare come proprio interesse. Il razionale è ciò che è in sé e per sé, e attraverso cui ogni cosa ha il suo valore. Esso assume forme diverse: ma in nessuna ha più chiaro aspetto finale che in quelle che prende quando, nelle molteplici formazioni che chiamiamo popoli, lo spirito esplica e manifesta se stesso. Bisogna portare nella storia la fede e il pensiero che il mondo del volere non è rimesso nelle mani del caso. Che nelle contingenze dei popoli elemento dominante sia un fine ultimo, che nella storia universale vi sia una ragione – e non la ragione di un soggetto particolare, ma la ragione divina, assoluta – è una verità che presupponiamo; sua prova è la trattazione stessa delle storia: essa è l’immagine e l’atto della ragione. Più propriamente, poi, la prova sta nella conoscenza della ragione stessa, la storia non ne è che la riprova. La storia del mondo è solo la manifestazione di questa unica ragione, una delle particolari forme in cui essa si rivela, una copia dell’archetipo raffigurata in un elemento speciale, in quello dei popoli. […] La ragione riposa in sé e ha in sé il suo fine; essa porta se stessa all’esistenza e realizza il suo sviluppo. Il pensiero deve acquistar consapevolezza di questo fine della ragione. […] Se ci si accosta al mondo solo con la soggettività, lo si troverà conformato a seconda della propria costituzione individuale, e di ogni cosa si presumerà di sapere e vedere come piuttosto avrebbe dovuto essere fatta, come sarebbe dovuta andare. Ma il grande contenuto della storia del mondo è razionale, e razionale dev’essere: una volontà divina domina poderosa nel mondo, e non è così impotente da non saperne determinare il gran contenuto. Nostro scopo dev’essere il riconoscimento di questa realtà sostanziale; e per raggiungerlo bisogna portar con sé la coscienza della ragione: non occhi fisici, non un intelletto finito, ma l’occhio del concetto, della ragione, che penetra la superficie ed energicamente si apre la via attraverso il molteplice e variopinto groviglio delle contingenze. (G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, La Nuova Italia, Firenze 1961, pp. 8-9)

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Arthur Schopenhauer

I primi due requisiti del filosofare sono questi: prima di tutto che si abbia il coraggio di non serbare nel proprio cuore alcuna domanda e, in secondo luogo, che si porti a chiara coscienza tutto ciò che si capisce da sé per concepirlo come problema. Infine, per filosofare davvero, lo spirito deve essere veramente ozioso: non deve perseguire degli scopi e dunque non deve essere guidato dalla volontà, bensì dedicarsi integralmente all’ammaestramento che gli danno il mondo intuibile e la sua stessa coscienza. I professori di filosofia, invece, pensano al loro utile e vantaggio personale, a ciò che serve in questo senso: qui risiede la loro serietà. Per questo non vedono affatto tante cose che invece sono chiare; anzi non giungono mai alla meditazione, sia pure soltanto sui problemi della filosofia. Schopenhauer

Arthur Schopenhauer: vita e opere Arthur Schopenhauer nasce a Danzica il 22 febbraio 1788. Sin da giovane viene indirizzato al mondo del commercio. Nell’intento di farne un futuro imprenditore commerciale, il padre lo invoglia a seguirlo nei suoi viaggi lun81 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

go l’Europa passando per la Gran Bretagna, l’Olanda, il Belgio, la Francia. Nel 1805 muore il padre ed in Schopenhauer comincia a serpeggiare l’idea di abbandonare il tirocinio commerciale che stava portando avanti presso la ditta Jenisch per dedicarsi agli studi classici; due anni dopo decide di mettere in pratica la scelta maturata già da tempo: si trasferisce così a Gotha, dove si esercita nelle composizioni in tedesco e latino. Nel 1809 si immatricola alla facoltà di medicina dell’Università di Gottinga, dove porta avanti studi scientifici di anatomia, matematica e metafisica, ma proprio sotto la spinta ad approfondire quest’ultima materia, decide, dopo poco tempo, di iscriversi alla facoltà di filosofia; lì legge Leibniz, Wolff, Hume, Platone e Kant. Nell’autunno del 1811 si reca a Berlino, dove ascolta le lezioni tenute da Fichte; l’iniziale venerazione nutrita nei confronti del filosofo tedesco si trasforma, alla lettura della sua opera, in forte disgusto. Nel 1813 con la tesi spedita all’Università di Jena Sulla quadruplice radice del principio di ragione sufficiente ottiene la laurea in filosofia in absentia. Nello stesso anno torna a Weimar, dove ha modo di incontrare Goethe. Negli anni a seguire si trasferisce a Dresda, dove rimarrà fino al 1818; lì, porta avanti un’intensa attività letteraria che culmina nella stesura della sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione (1818). L’opera ebbe scarsa fortuna e gran parte di questa prima edizione fu destinata al macero. Fu solo con la pubblicazione, nel 1851, dell’opera Parerga e Paralipomena che arriva finalmente il successo: Schopenhauer si guadagna infatti il consenso soprattutto da parte della critica inglese. Muore il 21 settembre 1860 a Francoforte sul Meno, a seguito dell’aggravarsi del suo stato di salute già compromesso da mesi a causa di polmoniti e problemi cardiaci.

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Arthur Schopenhauer

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Il padre eretico della filosofia contemporanea Arthur Schopenhauer è il filosofo che dà inizio al pensiero contemporaneo, colui che spalanca le porte ad alcuni degli atteggiamenti teorici che in gran parte caratterizzeranno la filosofia successiva. Se l’idealismo rappresenta il trionfo assoluto e reale del “razionale”, la filosofia di Schopenhauer si presenta, al contrario, come netto rifiuto dei presupposti e dei risultati idealistici, ed è in questo senso che si deve intendere il cosiddetto “irrazionalismo” schopenhaueriano. Se l’idealismo rappresenta la totale negazione del concetto kantiano di “cosa in sé”, con Schopenhauer assistiamo ad una ripresa di quel “limitante” concetto kantiano. Secondo Schopenhauer, l’uomo e il suo pensiero non sono i padroni e i produttori di tutto il reale, bensì sono padroneggiati e prodotti da un che di superiore ed estraneo e insondabile. L’uomo e il suo pensiero appaiono come schiavi totalmente passivi e impossibilitati a non esserlo, in quanto sono comandati intimamente da una “forza” inarrestabile e perversa, che getta l’uomo e il mondo degli esseri viventi nella più insopportabile e insopprimibile sofferenza. In questo senso dobbiamo intendere il cosiddetto “pessimismo” schopenhaueriano . Se l’idealismo si proponeva di fornire un sistema e quindi una verità assoluta all’intera umanità, se intendeva porsi come definitiva contemplazione della verità come è “in sé e per sé”, con la filosofia di Schopenhauer ci troviamo di fronte ad un pensiero che intende porsi come “cura individuale”, capace di spiegare e presentare una possibile via di fuga e di liberazione, eminentemente personale, dall’orrore e dal dolore della vita. Pur riconfermando la tipica distinzione kantiana tra “noumeno” (realtà in sé) e “fenomeno” (oggetto del pensiero), non si deve intendere la filosofia di Schopenhauer come una semplice continuazione di quella kantiana. 83 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

Le differenze tra le due sono sostanziali e innegabilmente eterogenee. Per Schopenhauer, la “cosa in sé” non “condiziona” esclusivamente il pensiero umano, bensì “produce” direttamente ogni essere vivente. La “cosa in sé” appare come una “attività” totale , una “energia” universale, una “tendenza” onniproducente e onnipotente. Appare come “Volontà”, al cui confronto il “mondo” è ciò che la Volontà vuole, il mondo è una sua “produzione” esclusiva, un suo “spettacolo” (espressione) essenzialmente privato, nel quale può oggettivarsi rendendosi visibile. Il nocciolo, l’“in sé”, il “cuore”, l’essenza del soggetto conoscente, come di ogni altro essere, è la Volontà, la quale detiene ogni cosa sotto il suo rigido controllo: nulla possiede più, per Schopenhauer, una autonomia reale, un movimento libero, un volere incondizionato, né tantomeno una esistenza positivamente autogovernata. La Volontà, essendo da considerare coi medesimi caratteri della “cosa in sé” kantiana, è ciò che sta oltre ogni esperienza umana, che esiste cioè al di là dei “fenomeni” dell’esperienza ed esternamente alla ragione umana. Assumendo i caratteri essenziali della “cosa in sé” kantiana, la Volontà si presenta come quell’“inconoscibile” e quell’“imperscrutabile” per eccellenza, alla cui distruzione definitiva si era strenuamente e copiosamente impegnato il pensiero hegeliano, considerato da Schopenhauer con termini sprezzanti, che raggiungono un livello di polemica estrema e di astio incisivo che in pochi altri filosofi ritroveremo. Basti qui questa sorta di breve aforisma, per farci capire quale considerazione egli avesse del suo contemporaneo Hegel, “filosofastro insulso”, e della sua “pseudofilosofia” universitaria: “Se mai vi venisse voglia di ottundere le facoltà mentali di un giovane e di rendere il suo cervello incapace di qualsiasi genere di pensiero, non avete nient’altro di meglio da fare che dargli da leggere Hegel”. L’idealismo arrivava alla conclusione affermante che la Ragione (Logos, Idea) è il senso universale e il fondamento 84 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Arthur Schopenhauer

primo e l’origine necessaria del Tutto (dell’“essere”); Schopenhauer ora ribalta la situazione e afferma che Tutto è senza ragione, senza origine e senza senso, in quanto ogni cosa opera secondo i dettami della Volontà, la quale è: – senza ragione, pertanto non ha senso domandarsi, essendo al di là di ogni sapere razionale, “perché esiste e da dove viene”; – senza fine, in quanto è pura irrazionalità, da intendersi come “impulso cieco”, e quindi come forza e tendenza infinita priva del tutto di coscienza, e non ha senso chiedersi “dove vada”; – senza scopo, in quanto non ha nessun fine razionale, ed essendo noi suoi giocattoli, sue marionette, suoi ignari interpreti e attori privati, è privo di senso chiedersi “dove andiamo”. Quanto detto è il presupposto principale che troviamo alla base della concezione filosofica di Schopenhauer, è “quell’unico argomento” che sarà da egli argomentato sotto “quattro punti di vista diversi”, che formano i quattro libri de Il mondo come volontà e rappresentazione, la sua opera fondamentale. La questione della realtà del mondo esterno Il libro primo de Il mondo come volontà e rappresentazione1, si occupa di spiegare come il “mondo” viene conosciuto dal soggetto conoscente. La verità immediata, la più generale, l’“a priori” per eccellenza, la certezza non smentibile dall’esperienza è quella che afferma che l’uomo è “sempre e solo” un occhio che vede un sole e una mano che sente una terra. Il “mondo” che circonda l’uomo è sempre e solo

1   Le citazioni di quest’opera sono tratte da: A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, 2 vol., BUR, Milano 2002.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

la “rappresentazione”, ossia l’immagine che l’uomo, vedendo e toccando, di volta in volta se ne fa. Io non sono altro che “il portatore della rappresentazione”, e “il mondo” non è altro che “la mia rappresentazione”. Il mondo che io vedo e sento è sempre e solo il “mio” mondo (soggettivo), e non corrisponde mai a come il mondo è in realtà, a come è al di fuori della mediazione operata dalla mia percezione mentale. Il “mondo”, così come ogni altro “oggetto”, in quanto mia rappresentazione, esiste solo relativamente, cioè esiste solo per un soggetto, solo mediante la rappresentazione dell’uomo. Rifacendosi alle speculazioni di Cartesio, a quelle di Berkeley, e soprattutto a quelle dell’antica filosofia indiana, Schopenhauer sostiene che il mondo, in quanto oggetto di conoscenza, esiste solo per il soggetto ed è condizionato (mediato) dal soggetto stesso: “tutto ciò che esiste per la conoscenza, quindi tutto il nostro mondo, è soltanto oggetto in rapporto al soggetto, intuizione dell’intuente, in una parola: rappresentazione”. Tutto il mondo è “condizionato dal soggetto ed esiste solo per il soggetto. Il mondo è rappresentazione”. Non possiamo considerare il mondo come “un’essenza indipendente dalla percezione mentale” del soggetto, non possiamo considerarlo come “oggetto in sé” assolutamente isolato e indipendente, bensì il mondo è solo l’oggetto (intuizione) che sta sempre in rapporto al soggetto (intuente), ossia è da considerare come mera ed esclusiva “rappresentazione” (immagine) dell’uomo. Il protagonista di questa rappresentazione, colui che rappresenta il mondo-oggetto è il “soggetto”, ed il soggetto è colui “che tutto conosce e da nessuno è conosciuto”, perché non può mai divenire a sua volta “oggetto” di conoscenza. Il soggetto “è quindi il portatore del mondo, la condizione universale, sempre presupposta, di tutto ciò che appare, di ogni oggetto: giacché tutto quanto è, esiste sempre e solo per un soggetto”. Pertanto il “mondo come rappresentazione” è da intendersi come unità indivisibile 86 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Arthur Schopenhauer

e cioè come rapporto inseparabile tra soggetto e oggetto: sparito il soggetto sparisce anche l’oggetto, sparito l’uomo sparisce il “mondo”. Non ci può essere oggetto senza soggetto, né soggetto senza oggetto: l’uomo e il mondo sono strettamente correlati. Sbagliava il realismo a considerare la realtà (il mondo) come un oggetto che se ne sta chiuso in sé, e che condizionava il pensiero dell’uomo (soggetto). Sbagliava lo scetticismo, che affidava tutta la realtà esclusivamente al soggetto negandola all’oggetto. Sbagliò l’idealismo a considerare assolutamente identici il soggetto (pensiero) e l’oggetto (realtà). Per Schopenhauer, solo riconoscendo la divisione immediata di soggetto e oggetto e il loro essere necessariamente correlati, è possibile qualsiasi “rappresentazione”, ossia qualunque oggetto del pensiero. Per questo rapporto reciproco tra uomo (soggetto) e mondo (oggetto), ciò che conosciamo in realtà non è che un qualcosa di sempre “relativo”. Niente esiste “in sé” proprio perché tutto, essendo sempre e solo “rappresentazione”, esiste “solo mediante e per un’altra cosa”, ovvero l’oggetto-mondo esiste solo mediante e per il soggetto-uomo. Il mondo, in quanto oggetto (fenomeno) della rappresentazione dell’uomo, presuppone sempre il soggetto, perché la “forma generalissima della rappresentazione, è appunto lo scomporsi in oggetto e soggetto”. Il mondo non potrebbe esistere ed essere percepibile se non esistesse il soggetto, perché il mondo-oggetto – il mondo come rappresentazione, il mondo come “spettacolo” (immagine, visione) privato dell’uomo –, è assolutamente dipendente dal quel suo “correlato necessario” che è il soggetto, il rappresentante, il portatore dello “spettacolo”. Il mondo non può essere considerato se non come unità inscindibile di soggetto e oggetto, “perché in genere non si può pensare senza contraddizione un oggetto senza soggetto”. Il mondo, interessando immediatamente i nostri sensi tramite le sue “affezioni” sensibili, non ci fornisce altro che 87 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

dei semplici dati isolati ed evanescenti, ossia non ci fornisce nessuna reale conoscenza di sé (concatenazione temporale e concretezza spaziale), ed è solo attraverso l’intelletto che l’uomo lo può conoscere. Solo l’intelletto umano, come lo era anche per Kant, possiede quegli strumenti a priori (le intuizioni intellettuali del tempo e dello spazio e della causalità), i quali rendono possibile all’uomo di ordinare (mettere in relazione) e conoscere e pensare gli oggetti del mondo. In breve, “tutto il mondo degli oggetti è e rimane rappresentazione, e proprio perciò sempre e per tutta l’eternità condizionato dal soggetto”. Tutto il mondo degli oggetti ha una “idealità trascendentale”, ossia tutto ciò che l’uomo conosce, non è da rintracciare all’esterno di esso, bensì “si trova dentro la sua coscienza”: la filosofia di Schopenhauer è una precisa forma di filosofia idealistica. Siamo corpi di una sola Volontà Schopenhauer ribadisce più volte che ogni oggetto, compreso il mondo stesso (che è il regno degli oggetti), è mia rappresentazione. Ogni oggetto è identico e relativo alla rappresentazione che me ne faccio, ossia ciò che conosco è sempre e solo come io lo conosco (certezza), e pertanto non lo conosco mai come è in sé, come è in realtà (verità). Tornerà utile un esempio. Se per strada vedo un cane, lo vedrò e lo conoscerò sempre e solo come io posso vederlo e concepirlo, come mia esclusiva rappresentazione (immagine-visione soggettiva), come oggetto del mio pensiero, come fenomeno condizionato e dipendente dal mio determinato modo di percepirlo mentalmente, come mia rappresentazione intellettuale insomma. Se per strada vedo un cane non so “affatto distinguere tale oggetto dalla rappresentazione” che me ne faccio, ossia non riesco a distinguere (a differenziare) quel cane (oggetto) come è in realtà dalla visione (rappresentazione) che me ne sto facendo tra88 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Arthur Schopenhauer

mite le intuizioni a priori del mio intelletto. Pertanto il cane (oggetto) e la mia rappresentazione soggettiva (la mia visione intellettuale: la mia idea-cane) “sono un’unica e medesima cosa, dato che ogni oggetto presupporrà sempre e in eterno un soggetto e rimarrà quindi sempre una rappresentazione”, e nient’altro. A questa dettagliata definizione, esclusivamente formale, di “rappresentazione” è dedicato gran parte del primo libro del Mondo. Nel secondo libro, invece, Schopenhauer tenta di scoprire il contenuto della formalità intellettuale, questo perché se il mondo fosse solo rappresentazione, immancabilmente si ridurrebbe ad una soggettiva visione fantastica o a un sogno inconsistente, ossia non possiederebbe nessun contenuto e nessuna concretezza reale. “Noi vogliamo sapere il significato di quella rappresentazione; ci domandiamo se questo mondo non sia nient’altro che rappresentazione; nel qual caso ci dovrebbe passar davanti come un sogno inconsistente, o come una visione spettrale, non degna della nostra attenzione; o se invece non sia anche qualcosa d’altro, anche qualcosa al di fuori delle rappresentazioni, e che cosa poi ciò sia” . Bisogna quindi trovare l’“essenza” di quei fenomeni che sono le rappresentazioni intellettuali dell’uomo. Poiché tutto il mondo è sempre e solo mia rappresentazione, codesta essenza non la potrò trovare nel mondo esterno, nel mondo delle mie rappresentazioni. L’essenza del mondo, come quella di ogni oggetto (rappresentazione, fenomeno), non risiede e non è rintracciabile nel mondo degli oggetti. Non posso rintracciare l’essenza del tutto, e quindi di me stesso, all’esterno e dall’esterno, ma in qualcosa di assolutamente altro e soprattutto in qualcosa di assolutamente “interno” e intimo e a me immediatamente noto. “Dall’esterno non ci si potrà mai accostare all’essenza delle cose: per quanto sempre si ricerchi, non si ricava null’altro che immagini e nomi. […] Eppure è questa la via che è stata percorsa da tutti i filosofi prima di me.” 89 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

È possibile trovare questo significato essenziale, perché l’uomo non è esclusivamente “un puro soggetto conoscente”. L’uomo non è “una testa alata senza un corpo”, bensì è una testa connessa strettamente ad un corpo specificatamente individuato nel mondo. Il ricercatore-filosofo si trova nel mondo “come un individuo, ossia il suo conoscere, che è il portatore condizionante di tutto il mondo come rappresentazione, è tuttavia sempre mediato da un corpo, le cui affezioni sono per l’intelletto il punto di partenza per l’intuizione di quel mondo”. In questo caso, però, il proprio corpo appare “una rappresentazione come ogni altra, un oggetto fra gli oggetti”. Il che vuol dire che il ricercatore-filosofo, non andando oltre alle mere e spettrali (fenomeniche) rappresentazioni dell’intuizione intellettuale, non riuscirà mai a trovare il contenuto e l’essenza del mondo, e quindi non risolverà l’“enigma” tanto a cuore a Schopenhauer: quale è la chiave, il significato, il congegno intimo del mio essere e di ogni essere, del mio fare e di ogni fare, dei miei moti e di ogni moto? Per Schopenhauer la parola che risolve codesto enigma è “la volontà”, la quale è a tutti gli uomini immediatamente nota, in quanto ogni moto del corpo umano è identico all’atto della sua volontà. Volere realmente l’atto, realizzare la propria volontà, non è altro che un muoversi volontario del corpo: l’atto di volontà e l’azione del corpo sono “una stessa ed unica cosa”. L’azione del corpo è dunque l’atto di volontà oggettivato. Nell’azione del corpo la volontà si rende visibile, “tutto il corpo non è nient’altro che la volontà oggettivata, cioè diventata rappresentazione”, volontà resasi evidente e visibile nel movimento del corpo. “Il volere e il fare” sono tutt’uno, il mio corpo è immediatamente identico alla mia volontà: “l’identità del corpo e della volontà si rivela fra l’altro nel fatto che ogni moto violento ed eccessivo della volontà, cioè ogni emozione, scuote in modo affatto im90 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Arthur Schopenhauer

mediato il corpo e il suo congegno interno, disturbando l’andamento delle sue funzioni vitali”. Il corpo, nei sui singoli atti, “è condizione per la conoscenza della mia volontà”, perché non posso “rappresentarmi questa volontà senza il mio corpo”. Il mio corpo dunque è l’“oggettità” della volontà, è il farsi visibile e il rendersi manifesta (negli atti stessi del mio corpo) della mia volontà. Il mio corpo, non considerandolo (intuitivamente) come un mero oggetto tra gli oggetti, ossia come rappresentazione fenomenica (mediata cioè dall’intelletto), è a me immediatamente noto come ciò che “non è poi se non la mia volontà”, la quale è da considerarsi dunque come la mia essenza più intima. Per Schopenhauer, in analogia al corpo umano, tutti gli oggetti del mondo, “noti all’individuo solo come rappresentazioni”, e il mondo stesso, sono “fenomeni di una volontà”. Se abbiamo finalmente capito che nell’intima essenza, ossia prima e oltre la rappresentazione intellettuale che ne abbiamo di esso, il nostro corpo è essenzialmente “volontà”, “quale altra specie di esistenza o realtà dovremmo attribuire al restante mondo corporeo?”. Tutto il mondo non è che “volontà e rappresentazione”, e nient’altro. Resta da capire quali conseguenze comporti il fatto di essere tutti corpi di una sola Volontà. La Regina della sofferenza L’uomo è in grado di conoscersi, oltre che come oggetto tra gli oggetti, anche e soprattutto come identico alla sua volontà. Ma per quanto l’uomo possa sempre volere ciò che di volta, per i motivi e le situazioni più disparate, appunto vuole, non riuscirà mai a capire perché in effetti vuole, desidera, inclina e brama. Se ad un uomo “gli si domandasse perché egli in genere voglia, o perché voglia in genere esistere, egli non avrebbe nessuna risposta da dare, anzi la domanda gli apparirebbe assurda”. Ciò si91 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

gnifica che l’essenza stessa del mio volere – che possiamo tradurre nella domanda: “perché voglio (volere), perché desidero (desiderare), ecc.” – non può essere spiegata in base a dei motivi particolari e determinati (“legge di motivazione”), che riguardano sempre le manifestazioni occasionali e accidentali (e pertanto non essenziali) della volontà. “La volontà stessa”, ossia l’essenza intima di ogni volontà particolare e individuale, “è da dire immotivata” e non ha “essa stessa una ragione”. La “volontà” così intesa è da considerarsi come il congegno interno di ogni cosa, e come “la chiave per la conoscenza dell’intima essenza di tutta quanta la natura”. Intendere questa verità immediata può rendere possibile oltrepassare l’apparenza del mondo fenomenico ed entrare così nel regno della “cosa in sé”, ossia nel regno della Volontà, la quale è da considerare come completamente diversa da ogni rappresentazione, in quanto “è ciò da cui viene ogni rappresentazione, ogni oggetto, il fenomeno, la visibilità, l’oggettità.” Codesta Volontà è “ciò che è più addentro, il nucleo di ogni cosa particolare altrettanto che del tutto; si manifesta in ogni cieca forza di natura, si manifesta anche nell’agire mediato dall’uomo; la grande differenza fra queste due cose (natura e uomo) concerne solo il grado del manifestarsi, non l’essenza di ciò che si manifesta”. La Volontà, essendo totalmente diversa da qualunque fenomeno, è fuori dal tempo e dallo spazio e dalla legge della causalità (rapporto di causa ed effetto). È dunque fuori del cosiddetto “principio di individuazione”, che rende possibile la molteplicità e la diversità degli oggetti (rappresentazioni fenomeniche). Essa “è libera da qualsiasi molteplicità, benché i suoi fenomeni nel tempo e nello spazio siano innumerevoli; essa stessa è una; […] è una come ciò che si trova fuori del tempo e dello spazio, del principium individuationis, ossia della possibilità della molteplicità”. La Volontà, sottraendosi al “principio di individuazione”, è l’essenza “imperscrutabile” di ogni essere, e non es92 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Arthur Schopenhauer

sendo causata e prodotta da nulla è essa stessa priva di “fondamento”. Essa non è spiegabile per mezzo di un’altra cosa, così come non è spiegabile tramite le forme “a priori” dell’intelletto, quali sono appunto il tempo e lo spazio e la causalità, sottraendosi così a qualunque indagine strettamente scientifica: “in ogni cosa della natura c’è qualcosa di cui non si potrà mai assegnare la ragione, di cui nessuna spiegazione è possibile e di cui nessuna causa più si può ricercare: ed è il suo specifico modo di agire, cioè appunto il modo del suo esistere, la sua essenza”. Pertanto la Volontà si presenta in “modo cieco, sordo, unilaterale e immutabile”, e le forze che agiscono nella natura – quali la gravità, il magnetismo, l’elettricità, lo stimolo, il motivo – non sono altro che aspetti di un’unica e identica “volontà di vivere”. La Volontà si rende visibile (si oggettiva) nel mondo dei fenomeni in gradi diversi, che sono, dal più basso al più alto, il regno inorganico, il regno vegetale, il regno animale e infine quello umano. Attraverso questi gradi (stadi, livelli) essa tende ad oggettivarsi in maniera sempre maggiore, tendendo sempre ad un grado di perfezione di volta in volta superiore, dando così inizio ad una lotta universale (“incessante ed inconciliabile”) tra questi stessi gradi (oggettivazioni della volontà). “Così nella natura vediamo dappertutto contesa, lotta e alternarsi della vittoria” perché “ogni grado di oggettivazione della volontà contende all’altro la materia, lo spazio, il tempo”. Ogni grado di oggettivazione è in lotta con gli altri per la propria esistenza e il proprio dominio, e la stessa Volontà è da considerarsi come in dissidio con se stessa (“si nutre di se stessa”), essendo auto lacerazione infinita, discordanza, sopraffazione, sofferenza universale e incessante. Lo stesso uomo, che con la sua conoscenza razionale rappresenta il grado più elevato, è, come tutte le altre oggettivazioni, “al servizio della volontà”. L’uomo è suo schiavo e adempie necessariamente ai suoi inderogabili voleri, in quanto “in tutti gli svariati 93 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

fenomeni che l’uno accanto all’altro riempiono il mondo, o che l’uno dietro l’altro si incalzano come avvenimenti, ciò che si manifesta è l’unica volontà […] che rimane immota in mezzo a quel mutare” rappresentato dall’intero mondo dei fenomeni (o mondo delle apparenze). Poiché assegnare una finalità e una meta è possibile solo se ci riferiamo a fenomeni isolati e limitati (naturali e umani), la “cosa in sé” (la Volontà), che è il nocciolo e l’essenza d’ogni fenomeno, e quindi qualcosa di totalmente diverso dal “fenomeno”, si presenta come “l’assenza di ogni fine e di ogni confine”. L’essenza della volontà in sé è “un agognare senza fine” e “ogni meta raggiunta è a sua volta principio di un nuovo corso vitale, e così all’infinito”. L’agognare senza fine, continua Schopenhauer, è più che mai evidente nelle aspirazioni e nei desideri umani, i quali “ci illudono, facendoci vedere il loro adempimento sempre come meta ultima del volere; ma non appena sono realizzati, essi non sembrano più gli stessi e vengono quindi tosto dimenticati, superati e in realtà sempre, benché incofessatamente, messi da parte come illusioni svanite”. L’uomo è come un gladiatore romano costretto all’inevitabile massacro finale, o come un giocatore cronico il cui gioco consiste nel “continuo passaggio dal desiderio all’appagamento e da questo al nuovo desiderio”. Così fino all’ultimo dei giorni, giorni che non conoscono mai fini ultimi e appagamenti totali, ma solo relative, momentanee e passeggere felicità sempre apparenti, a meno che non subentri quella immobilità tragica e disastrosa, rappresentata dalla “terribile noia che irrigidisce la vita, fiacco bramare senza oggetto determinato, languor mortale” che tanto spesso conduce alla soppressione volontaria della propria esistenza, ossia al suicidio.

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Arthur Schopenhauer

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L’arte come rimedio temporaneo Schopenhauer non si limita a determinare il mondo nei due lati inscindibili – volontà e rappresentazione  –, ma indaga e presenta, nel terzo e nel quarto libro del Mondo, le possibili vie di fuga e di liberazione da esse, che si identificano nell’“arte” e nell’“ascesi”. A differenza di tutte le altre forme di conoscenza (scientifiche, sociali, religiose, ecc.), l’arte è una conoscenza libera e disinteressata. Essa non è irretita e incatenata al mondo della rappresentazione, condizionato com’è dalle forme del principio di individuazione, né tantomeno è vincolata e asservita ai bisogni della volontà (stimoli, motivi, inclinazioni, desideri, interessi, ecc.). Il “genio”, l’artista eccelso, è colui che riesce a staccarsi e ad elevarsi dal suo essere un mero “individuo” (oggetto tra gli oggetti) del mondo fenomenico. È colui che riesce a liberarsi dalle esigenze della volontà, divenendo così “il puro occhio del mondo”, il puro soggetto del conoscere (ed è “puro” perché non è più condizionato da nulla). Se il nostro mondo “non è altro che l’apparire delle idee nella pluralità, mediante il loro ingresso nel principium individuationis (la forma della conoscenza possibile all’individuo come tale)”, il genio, allora, è colui che contempla esclusivamente le “idee”, colui che contempla l’“adeguata e piena oggettivazione della volontà”. Superato il principio di individuazione, il genio diviene “il soggetto puro della conoscenza, senza volontà, senza dolore, senza tempo”. Ciò significa che l’“idea”, che è ciò che il genio contempla, è da intendere come la prima e immediata oggettivazione (manifestazione, espressione) della Volontà. L’“idea” è quella precisa forma universale, originaria e generica, nella quale la Volontà si rende visibile al pensiero dell’uomo, in quanto immediata rivelazione della Volontà stessa. Il semplice individuo – l’“uomo comune” dice Schopenhauer –, è capace di conoscere soltanto oggetti singoli, che 95 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

non sono dunque “idee” (sempre universali e generiche). “Idee” che invece sono il tramite e il medio attraverso cui l’uomo può conoscere e individuare i singoli oggetti. L’individuo comune conosce solo quel fenomenico mondo dove impera l’indiscriminata molteplicità e il mutamento (divenire) incessante, il genio, invece, essendo in qualche modo il superatore di questo mondo apparente e spettrale, è da considerarsi come colui che contempla esclusivamente l’“idea nella sua specie”, in cui la Volontà si oggettiva in modo perfetto e adeguato, cioè non molteplice e non mutabile. Il genio è pertanto – essendo ciò che esso contempla, ovvero l’“idea” (“forma permanente”), fuori dalla “forma dell’apparenza” e dei mutamenti relativi – totalmente estraneo e perfettamente liberato dal tempo e dallo spazio e dalla causalità (principio di individuazione della ragione). Ci si potrà liberare dal mondo delle rappresentazioni fantasmatiche (fenomeni) e dal mondo della Volontà perversa, soltanto dopo che l’“individuo” abbia completamente annullato il proprio essere mero “individuo”. Ci si libera totalmente dai due inscindibili lati del mondo, quando “si è consapevoli non più di se stessi, ma soltanto degli oggetti intuiti”. “Se quindi le idee devono divenire oggetto di conoscenza, ciò potrà accadere soltanto mediante la soppressione dell’individualità nel soggetto conoscente” . Tale soppressione e liberazione è possibile esclusivamente all’uomo, ma è importante chiarire che tale liberazione è da intendersi come una “eccezione”. Non tutti possono essere “geni” (ossia contemplatori esclusivi dell’idea), pochissimi uomini possono realmente superare il mondo dei fenomeni (oggetti) particolari. “Il passaggio dalla conoscenza comune delle cose particolari alla conoscenza dell’idea avviene improvvisamente, in quanto la conoscenza si strappa dal servizio della volontà, e appunto perciò il soggetto cessa di essere un soggetto meramente individuale ed è ora il soggetto puro della conoscenza, privo di volontà, che non tiene più dietro alle relazioni in conformità 96 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Arthur Schopenhauer

del principio di ragione, bensì riposa nella ferma contemplazione dell’oggetto dato, al di fuori della sua connessione con tutti gli altri, dissolvendosi in esso”. Ciò è capace a farlo esclusivamente quell’eccezione umana rappresentata dal genio. L’arte ha come sua unica origine la conoscenza delle idee, ed il suo unico fine è la comunicazione di questa conoscenza assolutamente “pura”. Le varie arti – che sono, in ordine crescente di valore, l’architettura, la scultura, la pittura, la poesia e la tragedia –, corrispondono ai gradi diversi in cui la Volontà, sempre più perfettamente, si manifesta e si oggettiva. La tragedia, dunque, è da considerarsi come l’arte più alta e perfetta. Essa ha il compito di rivelare quanto più possibile ciò che è la Volontà che, come abbiamo detto, si presenta come intimo dissidio e infinita lotta. La tragedia infatti “è la rappresentazione della parte terribile della vita” attraverso “il dolore senza nome, lo strazio dell’umanità, il trionfo della cattiveria, lo schernevole dominio del caso e la caduta senza salvezza dei giusti e degli innocenti”. Nei tanti eroi della tragedia “è una sola e identica volontà che vive e si manifesta in tutti loro, e i cui fenomeni però si combattono fra loro dilaniandosi a vicenda”. Attraverso questo immenso dolore, senza perché e senza senso, prodotto dal caso e dall’errore, che dominano il mondo illusorio dei fenomeni, e che la tragedia rappresenta poeticamente, il soggetto (l’attore tragico come lo spettatore) viene purificato e potenziato intimamente. Il mondo delle apparenze, ossia il mondo fenomenico soggetto al “principium individuationis” della ragione, “non lo inganna più”. Venendo a conoscenza, tramite il linguaggio artistico della tragedia, dell’essenza del mondo, che è a dolore e caso e errore, l’uomo si rassegna, si acquieta e rinuncia “non semplicemente alla vita, bensì a tutta la stessa volontà di vivere”. Questo perché “il vero senso della tragedia è l’approfondimento della verità che ciò che l’eroe sconta non sono i suoi peccati personali, bensì il peccato 97 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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originale, la colpa dello stesso esistere: “Poiché il più gran delitto / Dell’uomo è di essere nato”. Un posto a parte, per Schopenhauer, spetta alla musica, la quale non è, come le altri arti, manifestazione (immagine) delle idee, ma immediata manifestazione e rivelazione della Volontà stessa. La musica è dunque “immagine della volontà stessa”, ed è la più universale e la più profonda di tutte le arti, e “perciò appunto l’azione della musica è tanto più potente e penetrante di quella delle altri arti: queste, infatti, parlano solo dell’ombra, quella invece dell’essenza”. Per quanto possiamo intendere l’arte come “il fiore della vita”, come il rischiaramento geniale capace di “mostrare gli oggetti più puramente”, per quanto l’arte possa consolare ed entusiasmare l’uomo mediante il “godimento di tutto ciò che è bello”, per quanto possa far dimenticare i travagli e i tormenti incessanti della vita, principalmente al genio e di conseguenza all’uomo che disinteressatamente contempla le opere del genio, “essa non lo redime per sempre dalla vita, ma solo per attimi, e quindi non è per lui la via per uscire da essa”. L’arte si presenta dunque come un conforto e un “quietivo” puramente momentaneo, temporaneo, parziale e perciò insoddisfacente a liberare, in modo totale, l’uomo da quella esistenza che “è una continua sofferenza, in parte miseranda e in parte terribile” . Dall’ingiusto egoismo alla compassione amorevole Nella trattazione delle azione umana (l’“etica” del III e IV libro), Schopenhauer sottolinea che nessuna filosofia può pretendere di essere “pratica”, ma soltanto “teoretica”. Il procedere e l’investigare della filosofia deve essere puramente speculativo e non può avere il compito di prescrivere e di indicare agli uomini il modo di agire tramite precetti o “teorie dei doveri” (morale). “Saremmo quindi altrettan98 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Arthur Schopenhauer

to stolti se ci aspettassimo che i nostri sistemi morali e le nostre etiche suscitassero uomini virtuosi, nobili e santi, che se ci aspettassimo che le nostre estetiche suscitassero poeti, artisti e musicisti”. Per Schopenhauer, come detto, l’uomo e ogni altro essere del mondo non è affatto libero. Solo la Volontà è autenticamente autonoma e “ addirittura onnipotente”. L’agire degli esseri, come quello del mondo intero, sono determinati e condizionati da essa, “giacché fuori di essa non c’è niente”. La Volontà si determina esclusivamente da se stessa, e non vi è nessuna legge a cui debba sottomettersi ed è indipendente dal principio di ragione (tempo, spazio, causalità) a cui è soggetto l’individuo. La Volontà – il contenuto intimo e essenziale del mondo e di ogni fenomeno –, è immune da ogni divenire storico, non è mai nata così come non morirà mai, giacché è fuori dal tempo. Pur specchiandosi (manifestandosi) nel mondo delle rappresentazioni, attraverso cui conosce se stessa con gradi crescenti di chiarezza e compiutezza (di cui l’uomo rappresenta il grado più alto), in sé essa “non ha conoscenza ed è solo un impulso cieco e inarrestabile”. Ciò che la Volontà vuole “è sempre la vita”, per cui dire “volontà” o “volontà di vivere” significa dire la stessa cosa. Tutta la natura, che sia organica o animale o umana, non ci mostra nient’altro che questo preciso “adempimento della volontà di vivere”. Alla Volontà non interessa l’individuo singolo, “l’individuo non ha per essa nessun valore”, è indifferente che esso soffra o muoia. Ad essa importa soltanto la “specie”, per la cui conservazione e perpetuazione si interessa e si premura con ogni serietà e cura. La Volontà, in tutti i gradi del suo manifestarsi, dal più basso al più alto, non possiede nessuna meta come nessuno scopo, non possiede nessun fine determinato,essendo un avido “urgere” mai soddisfatto e un infinito “aspirare” (volere) incessantemente rinnovato. Nelle forze della natura, quali la gravità, l’elettricità, il galvanismo ecc., non riscontriamo “mai una meta, mai un finale appagamento, 99 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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mai un punto di riposo”. Questo urgere senza posa, costituendo il nocciolo e l’“in sé” di ogni cosa esistente, appartiene anche a noi uomini, anzi è in noi che si manifesta nel modo più chiaro e limpido (precisamente nella volontà del nostro corpo). Ogni fenomeno del mondo è preda di un eterno (senza scopo, senza meta, senza fine) soffrire e ogni essere si trova privo di felicità o anche solo di un appagamento durevole, poiché ogni aspirare e urgere e volere proviene da mancanza e “da scontentezza del proprio stato”. “Essenzialmente ogni vita è dolore”. Poiché la Volontà nell’uomo si conosce e si manifesta al massimo grado, di conseguenza anche il dolore e il tormento da essa stessa voluto è dall’uomo maggiormente avvertito e riconosciuto. Detto in termini più precisi, “nella stessa misura dunque in cui la conoscenza perviene alla chiarezza e la coscienza si accresce, cresce anche il tormento, che raggiunge per conseguenza il suo grado più alto nell’uomo, e qui ancora tanto più, quanto più l’uomo conosce chiaramente, quanto più è intelligente; colui nel quale vive il genio soffre di più”. La maggior parte degli uomini non sembrano accorgersi di queste verità terribili e senza scampo, anzi essi sono ottimisticamente convinti di vivere, come disse Leibniz (1646-1716), “nel migliore dei mondi possibili”. Questi uomini, non riconoscendo la malvagità irrazionale della Volontà, continuamente affermano la propria volontà di vivere, attraverso il mantenimento del corpo, attraverso la propagazione della specie tramite la riproduzione sessuale. Da questo ingenuo e cieco attaccamento alla vita, derivano poi tutte le opere dettate dall’egoismo umano. Derivano tutti i torti, le sopraffazioni e le ingiustizie che l’uomo egoisticamente compie contro tutti gli altri uomini, considerati come estranei e come nemici da dover eliminare per il proprio tornaconto. Solo l’“orrore” provato per questa sordida ed egoistica affermazione della volontà di vivere, può permettere all’uomo di compiere un importante passo in avanti verso la liberazione dal dolore e dalla sofferenza, 100 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Arthur Schopenhauer

che essenzialmente abitano l’individuo umano e ogni altro essere del mondo. Così come solo l’“orrore” verso tale egoistica e ingiusta “separazione” e isolamento reciproco degli individui, appartenente esclusivamente al mondo fenomenico, può permettere alla “giustizia eterna”, che è l’essenza di ogni virtù e di ogni nobiltà d’animo, di presentarsi nel mondo dell’agire umano. Conoscendosi come determinazioni della “cosa in sé”, ossia della Volontà – che è appunto una e identica a tutti gli uomini come a tutti gli altri esseri viventi –, si può arrivare al “vero essere delle cose”, grazie al quale l’uomo è capace di “considerare come suoi tutti i dolori del mondo”. Elevandomi al di sopra e sottraendomi “allo sguardo imprigionato nella conoscenza che segue il principio di ragione, il principium individuationis” (forma del fenomeno), che mi illude di essere un individuo separato e isolato da tutti gli altri e dal mondo intero, mi sarà finalmente chiaro che “la diversità fra colui che infligge la sofferenza e colui che è destinato a sopportarla è solo fenomeno e non riguarda la cosa in sé”. “Il tormentatore e il tormentato sono una cosa sola” in quanto sono appunto illusori fenomeni (falsamente creduti) diversi e isolati, di una sola e identica Volontà. Volontà che, essendo essenzialmente terribile e perversa e sadica, si diverte a rivolgere le sue stesse armi (gli individui stessi) contro se medesima, senza accorgersene, essendo essa, per definizione, priva di ogni coscienza e scrupolo. L’uomo giusto e virtuoso, dopo aver superato l’egoismo ed essersi immerso nell’equità d’animo, che rappresenta il primo stadio per raggiungere la perfetta “santità”, non afferma esclusivamente la propria volontà negando tutte le altre. Per lui “gli altri non sono semplici larve il cui essere sia assolutamente diverso dal suo”, bensì negli altri riconosce la sua stessa essenza, ponendo in tal senso “l’essere che è fuori di lui come uguale al proprio”. L’uomo giusto e virtuoso non costringerà più alla servitù, alla schiavitù, al101 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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la povertà coatta e ad altre sopraffazioni violente “l’essere che è fuori di lui”, perché ha finalmente riconosciuto che la differenza fra lui e gli altri (uomini, animali, natura, ecc.) appartiene solo a un fenomeno transitorio, illusorio, falso e ingannevole. In questo oltrepassare il proprio angusto “io”, in questo abbandonare l’illusione ingannatrice dell’egoismo, in questo amore caritatevole e disinteressato per gli altri consiste la “compassione”, la quale, lo ripetiamo, è il primo passo per la totale redenzione dalla malvagità del mondo intero, di cui però è capace soltanto il “santo”, ossia colui che ha rinunciato totalmente alla volontà di vivere, e dunque ad ogni volere. La santità perfetta L’uomo nobile, virtuoso, equanime, l’uomo compassionevole insomma, è colui che ha superato l’egoismo che ottusamente lo separava da ogni altro essere umano e vivente, comprendendo finalmente che ogni dolore del mondo è uguale al proprio e pertanto “nessun dolore gli è più estraneo”. È colui che ha chiaro che è la stessa Volontà ad aizzare gli uni contro gli altri, che tutto ciò che esiste è l’oggettivazione di essa, che è lei stessa che, contraddittoriamente, si auto-divora e si auto-sopprime, si combatte da sola incessantemente e senza ragione. “Santo”, invece, sarà non solo colui che proverà orrore per lo stolto e scellerato egoismo, ma anche e soprattutto colui che proverà orrore per questa contraddittoria e paradossale Volontà. Il santo è chi rinnega, totalmente, la propria volontà di vivere, o meglio, la “sua volontà si volge indietro, non afferma più la propria essenza rispecchiantesi nel fenomeno, ma la nega”. Al santo non basta più amare gli altri come se stesso (compassione), in lui nasce l’orrore dell’essenza, l’orrore della volontà di vivere stessa, che è il “nocciolo ed essenza 102 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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di questo mondo riconosciuto come pieno di strazio”. Si ha così il passaggio dalla “virtù” all’“ascesi”, che consiste nel cessare di volere alcunché, nel negare la propria volontà e smentire il proprio corpo tramite una “perfetta castità”, una volontaria e intenzionale povertà e nel compiere severi digiuni affinché il proprio corpo, specchio e espressione della Volontà, si senta mortificato, disprezzato, negato. Mortificando il corpo, il santo sempre più “spezza e uccide” la Volontà stessa, “che egli conosce e aborrisce come la fonte della dolorosa esistenza propria e del mondo”. Per ascesi, quindi, si deve intendere “questo deliberato spezzare la volontà, con il rifiuto del piacevole e la ricerca dello spiacevole, con la vita di penitenza e la macerazione di sé spontaneamente scelte, a continua mortificazione della volontà”. Questo perché “l’argenteo bagliore della negazione della volontà di vivere, cioè della redenzione, […] si sprigiona improvvisamente dalla fiamma purificatrice del dolore”. Secondo Schopenhauer, “il fenomeno più grande, più importante e più significativo che il mondo possa mostrare, non è chi il mondo conquista, bensì chi il mondo supera”, e chi supera il mondo è chi nega l’essenza maligna e perversa di ogni cosa. È il santo e l’asceta, colui che, rinunziando e negando la propria volontà di vivere, si immerge in “una pace imperturbabile, una calma profonda e intima serenità” . Il nostro filosofo mette in chiaro che rinnegare la propria volontà di vivere è cosa diversissima dalla “reale soppressione del proprio fenomeno individuale”, ossia dal suicidio. Chi si suicida nega esclusivamente il fenomeno, ossia il proprio corpo meramente materiale (fenomeno individuale), ma mai la sua essenza, la Volontà. Il suicida non fa altro che affermare in massimo modo l’auto-contraddittorietà della Volontà, la quale gode a vedere i propri “figli” ammazzarsi (tra loro e da sé) nei modi più terribili e disperati. Detto in termini più precisi, “il suicida vuole la vita ed è solo insoddisfatto delle condizioni in cui 103 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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essa gli è toccata. Quindi non rinuncia affatto alla volontà di vivere, ma solo alla vita, quando distrugge il fenomeno individuale”, ossia, “appunto perché il suicida non può cessare di volere, cessa di vivere, e la volontà si afferma qui proprio con la soppressione del suo fenomeno, non potendo più affermarsi altrimenti”. Quanto appaiono diverse ed opposte le vite di quei santi, sia orientali che occidentali, che la letteratura agiografica e la produzione artistica ci hanno tramandato, da coloro che in preda a dolori più o meno potenti, scelgono di porre fine alla propria esistenza fisica (esclusivamente fenomenica, cioè non essenziale). Per i santi, comprendere che l’essenza di tutto il mondo, come di ogni essere vivente, è il dolore più irrazionale e insensato che possa esistere, non funge da motivo per uccidersi, bensì funge come “quietivo finale” della propria volontà, per giungere ad una redenzione perfetta e ad un superamento totale e assoluto del mondo.

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PAGINE ANTOLOGICHE

La vita è sogno? Noi facciamo sogni; non è per caso tutta la vita un sogno? O in modo più determinato: esiste un criterio sicuro per distinguere il sogno dalla realtà? i fantasmi dagli oggetti reali? Il pretesto della minore vivacità e chiarezza dell’intuizione sognata rispetto a quella reale non merita nessuna considerazione, perché ancora nessuno ha messo queste due a confronto l’una accanto all’altra; si è potuto paragonare soltanto il ricordo del sogno con la realtà presente. Kant risolve il problema così: “La concatenazione delle rappresentazioni fra loro secondo la legge di causalità distingue la vita dal sogno”. Ma anche nel sogno tutte le cose particolari sono parimenti concatenate fra loro secondo il principio di ragione in tutte le sue forme, e questa concatenazione si interrompe soltanto fra la vita e il sogno e fra i singoli sogni. La risposta di Kant potrebbe quindi suonare ancora solo così: il sogno lungo (la vita) ha in sé concatenazione totale secondo il principio di ragione, ma non con i sogni brevi, benché ciascuno di essi abbia in sé la stessa concatenazione; fra questi e quello dunque il suddetto ponte è interrotto e da ciò si distingue l’uno e gli altri. Comunque istituire una indagine secondo questo criterio, per vedere se qualcosa sia sognato o accaduto, sarebbe molto difficile e spesso impossibile, poiché non siamo affatto in grado di seguire anello per anello la concatenazione causale fra ogni atto vissuto e il momento presente, ma non per questo diciamo che sia sognato. Perciò nella vita reale, per distinguere il sogno dalla realtà, comunemente non si ricorre a questa specie di indagine. Il solo criterio sicuro per distinguere il sogno dalla realtà, in effetti, non è 105 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

nessun altro che quello del tutto empirico del destarsi, dalla qual cosa però la concatenazione causale fra i fatti sognati e quelli della vita desta viene espressamente e avvertibilmente spezzata. Un’eccellente prova di ciò fornisce l’osservazione che Hobbes fa nel Leviatano, cap.2: cioè che noi facilmente riteniamo i sogni realtà anche dopo, quando, senza averne avuto l’intenzione, abbiamo dormito vestiti, ma specialmente quando a ciò si aggiunge il fatto che qualche impresa o progetto assorba tutti i nostri pensieri e ci occupi in sogno altrettanto che nella veglia. In questi casi, infatti, ci si accorge del destarsi quasi altrettanto poco che dell’addormentarsi, il sogno confluisce con la realtà e viene con essa confuso. […] Molto chiara ci appare qui invero la stretta affinità che esiste fra la vita e il sogno; e neanche vogliamo vergognarci di ammetterla, dopo che essa è stata riconosciuta ed espressa da molti grandi spiriti. I Veda e i Purana non hanno, per tutta la conoscenza del mondo reale, che essi chiamano il tessuto di Maja, nessun paragone migliore del sogno, e non ne usano nessuno più spesso. Platone dice molte volte che gli uomini vivono solo in sogno e che soltanto il filosofo si sforza di destarsi. Pindaro dice, umbrae somnium homo e Sofocle: Nos enim, quicunque vivimus, nihil aliud esse / comperio, quam simulacra et levem umbram. Al quale fa degno riscontro Shakespeare: Noi siamo della stessa materia / di cui son fatti i sogni, e la nostra piccola vita / è chiusa da un sonno. Dopo tutte queste citazioni di poeti, sia ora concesso anche a me di esprimermi con un paragone. La vita e i sogni sono pagine di uno stesso, identico libro. La lettura fatta di seguito si chiama vita reale. Ma quando la normale ora di lettura (il giorno) è finita ed è venuto il momento del riposo, spesso noi sfogliamo ancora oziosamente, aprendo il libro, senza ordine e connessione, ora a una pagina ora a un’altra: talvolta è una pagina già letta, talvolta una pagina non ancora conosciuta, ma sempre dello stesso libro. Così una pagina letta isolatamente è in verità senza connessione con la lettura completa fatta ordinatamente; non per questo tuttavia essa differisce troppo da quest’ultima, se si pensa che anche l’intera lettura ordinata comincia e finisce del pari improvvisamente ed è quindi da considerare solo come una pagina isolata più lunga. Benché dunque i singoli sogni siano distinti dalla vita reale dal fatto di non entrare nella concatenazione dell’esperienza che costantemen106 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Arthur Schopenhauer: pagine antologiche

te l’attraversa, e il risveglio segni questa differenza; tuttavia proprio questa concatenazione dell’esperienza appartiene già alla vita reale come sua forma, e il sogno ha del pari da mostrare, di contro a quella, una concatenazione anche in sé. Se dunque per giudicare ci si pone da un punto di vista estraneo a entrambi, non si trova nella loro essenza nessuna differenza determinata e si è costretti a concedere ai poeti che la vita è un lungo sogno. (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, RCS Libri, Milano 2002, pp.142-145) Voler vivere senza soffrire è impossibile Lo sviluppo più perfetto della ragione pratica, nel senso vero e genuino della parola, la cima più alta a cui l’uomo possa giungere col mero uso della propria ragione, e su cui la sua diversità dall’animale appare nel modo più chiaro, è rappresentata come ideale dal sapiente stoico. […] Lo scopo dell’etica stoica è la felicità. […] Secondo come io ho inteso lo spirito dell’etica stoica, la sua origine risiede nel pensiero: se il grande privilegio dell’uomo, la ragione, che indirettamente, con l’agire metodico e ciò che ne deriva, tanto alleggerisce la vita e i suoi pesi, non sia anche capace di sottrarlo d’un colpo, in tutto o quasi in tutto, direttamente, cioè con la sola conoscenza, ai dolori e alle ambasce di ogni genere che riempiono la sua vita. Non si ritenne appropriato al privilegio della ragione che l’essere di essa dotato, che grazie ad essa abbraccia e domina con lo sguardo una infinità di cose e di circostanze, dovesse essere nondimeno, a causa del presente e a causa degli avvenimenti che i pochi anni di una vita così breve, fugace e incerta possono contenere, abbandonato a dolori così violenti e a un’angoscia e sofferenza così grandi, quali scaturiscono dall’impetuoso impulso del desiderio e dell’avversione, e si credette che l’uso appropriato della ragione dovesse poter innalzare l’uomo al di sopra di tutto ciò, (e potesse) renderlo invulnerabile. […] L’etica stoica, presa nel suo insieme, è in effetti un pregevolissimo e rispettabilissimo tentativo di utilizzare il grande privilegio dell’uomo, la ragione, per uno scopo importante e salutare, cioè per elevare l’uomo al di sopra delle sofferenze e dei dolori, a cui ogni vita è com107 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

messa, con un ammonimento: Qua ratione queas traducere leniter aevum; / Ne te semper inops agitet vexetque cupido, / Ne pavor et rerum mediocriter utilium spes. – e per renderlo appunto con ciò in sommo grado partecipe della dignità che gli spetta, come essere razionale, in contrasto con l’animale, e della quale comunque si può parlare in questo senso, ma non in un altro. […] Ma per quanto raggiungibile sia in certo grado quello scopo, con l’impiego della ragione e con un’etica meramente razionale, come poi anche l’esperienza mostra, dato che quei caratteri puramente razionali che sono detti comunemente filosofi pratici – e a ragione, perché, come il filosofo vero e proprio, cioè teoretico, traduce la vita in concetto, essi traducono il concetto in vita –, sono certo i più felici; moltissimo tuttavia manca perché si possa addivenire in tal modo a qualcosa di perfetto e perché la ragione rettamente usata possa realmente sottrarci a tutto il peso e a tutte le sofferenze della vita e condurci alla beatitudine. C’è al contrario una perfetta contraddizione nel voler vivere senza soffrire, che quindi anche l’espressione sovente usata di “vita beata” porta in sé […]. Questa contraddizione si rivela anche già in quell’etica della stessa ragione pura, in quanto lo stoico è costretto a intrecciare ai suoi consigli per una vita felice (ché ciò rimane sempre la sua etica) una raccomandazione del suicidio (allo stesso modo che fra le sontuose gioie e suppellettili dei despoti orientali si trova anche una preziosa boccetta di veleno), per il caso cioè che i dolori del corpo, che non si lasciano sopprimere da nessun principio o ragionamento filosofico, siano preponderanti e incurabili, ossia che il suo unico scopo, la felicità, sia dunque frustrato, e niente rimanga per sfuggire alla sofferenza se non la morte, che però allora è da prendere con indifferenza, come ogni altra medicina. […] Ma la summenzionata contraddizione intima, da cui l’etica stoica è affetta fin nella sua idea fondamentale, si rivela inoltre anche nel fatto che neanche nella sua rappresentazione il suo ideale, il sapiente stoico, poté mai acquistare vita o intima verità poetica; egli rimane un rigido manichino di legno, di cui non si sa cosa fare, che non sa egli stesso che cosa farsi della sua saggezza, e di cui la perfetta calma, contentezza e beatitudine contraddicono addirittura la natura dell’umanità e non ci fanno pervenire a nessuna rappresentazione intuitiva di essa. Come del tutto diversi appaiono, confrontati con lui, i superatori del mondo e peni108 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Arthur Schopenhauer: pagine antologiche

tenti volontari, che la sapienza indiana ci presenta e ha effettivamente prodotti, o addirittura il Redentore del cristianesimo, questa figura magnifica, piena di vita profonda, di grande verità poetica ed altissimo significato, che però, anche con una perfetta virtù, santità e sublimità, ci sta davanti in stato di massima sofferenza. (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., pp. 245-253) L’arte, ovvero l’opera del genio Ma quale forma di conoscenza considera poi quell’unica autentica essenza del mondo, che sussiste fuori e indipendentemente da ogni relazione, che è il vero contenuto dei suoi fenomeni, non soggetto a mutamento e perciò conosciuto con verità identica in ogni tempo, in una parola, le idee, che sono l’oggettità immediata e adeguata della cosa in sé, della volontà? È l’arte, l’opera del genio. Essa riproduce le idee eterne, colte nella pura contemplazione, ciò che in tutti i fenomeni del mondo è essenziale e permanente e, a seconda della materia in cui le riproduce, è arte figurativa, poesia o musica. Sua unica origine è la conoscenza delle idee; suo unico fine la comunicazione di questa conoscenza. Mentre la scienza, seguendo il flusso senza posa e senza consistenza delle cause e degli effetti nella loro quadruplice forma, a ogni meta raggiunta viene sempre risospinta oltre e non può mai trovare una meta ultima, né soddisfazione piena, non più di come si può raggiungere correndo il punto in cui le nuvole toccano l’orizzonte; l’arte per contro è dappertutto alla meta. Giacché strappa l’oggetto della sua contemplazione dal flusso universale delle cose e se lo pone davanti isolato; e questo oggetto, che era in quel flusso una parte infinitamente piccola, diviene per essa qualcosa che rappresenta il tutto, un equivalente dell’infinita molteplicità nello spazio e nel tempo. Essa si ferma perciò a questo oggetto; arresta la ruota del tempo; scompaiono per essa le relazioni: solo l’essenziale, l’idea, è il suo oggetto. Possiamo quindi definirla addirittura il modo di considerare le cose indipendentemente dal principio di ragione, in contrapposizione al modo di considerare le cose che proprio quello segue, e che è la via dell’esperienza e della scienza. […] Quello che segue il principio di ragione è il modo 109 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

di considerare razionale, che soltanto vale e soccorre nella vita pratica, come nella scienza; quello che prescinde dal contenuto di detto principio è il modo di considerare geniale, che soltanto vale e soccorre nell’arte. […] Il primo è simile alle innumerevoli gocce nel movimento impetuoso della cascata che, sempre mutando, non si fermano un attimo; il secondo all’arcobaleno che posa silenzioso su questo furioso tumulto. […] Solo con la pura contemplazione […], che si scioglie tutta nell’oggetto, vengono colte le idee, e l’essenza del genio consiste appunto in un’attitudine preponderante a tale contemplazione; ma poiché questa richiede una totale dimenticanza della propria persona e dei suoi rapporti, la genialità non è nient’altro che la più perfetta oggettività, cioè direzione oggettiva dello spirito, opposta alla soggettiva, che mette capo alla propria persona, cioè alla volontà. In conseguenza la genialità è la capacità di comportarsi in modo puramente contemplativo, di perdersi nella contemplazione e di sottrarre la conoscenza, che esiste originariamente solo per servire la volontà, a codesto servizio, vale a dire la capacità di perdere completamente di vista il proprio interesse, il proprio volere e i propri fini, e in tal modo di rinunciare appieno, per un certo tempo, alla propria personalità, per rimanere come soggetto puro della conoscenza, come chiaro occhio del mondo; e ciò non per attimi, bensì con tanta persistenza e con tanta consapevolezza, quanta è necessaria per riprodurre con arte meditata ciò che si è afferrato e per “fissare in pensieri durevoli ciò che fluttua in ondeggiante apparizione”. È come se, affinché il genio compaia in un individuo, a questo dovesse essere toccata una misura di forza conoscitiva di gran lunga superiore a quella necessaria per servire una volontà individuale; e questo sovrappiù di conoscenza liberatosi diviene ora un soggetto scevro di volontà, un chiaro specchio dell’essenza del mondo. Con ciò si spiega la vivacità spinta fino all’irrequietezza negli individui geniali, raramente potendo loro bastare il presente, dato che esso non colma la loro coscienza. Ciò dà loro quella tensione senza posa, quell’incessante ricerca di oggetti nuovi e degni di considerazione, quindi anche quel desiderio mai soddisfatto di esseri a loro simili, alla loro altezza, coi quali poter comunicare; mentre l’ordinario figlio della terra, tutto riempito e soddisfatto dall’ordinario presente, si discioglie in esso e poi anche, trovando dappertutto suoi simili, ha nella vita 110 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Arthur Schopenhauer: pagine antologiche

quotidiana quello speciale benessere che al genio è negato. […] Mentre per l’uomo comune la propria capacità di conoscenza è la lanterna che rischiara la sua via, per l’uomo geniale essa è il sole che rivela il mondo. (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., pp. 383-388) Dalla sofferenza del volere alla pace della contemplazione Ogni volere scaturisce dal bisogno, quindi da mancanza, quindi da sofferenza. A questa pone fine l’appagamento. Tuttavia contro un desiderio che viene appagato ne rimangono almeno dieci insoddisfatti; inoltre la brama dura a lungo, le esigenze vanno all’infinito; l’appagamento è breve e misurato con spilorceria. Ma anche la stessa soddisfazione finale è solo apparente; il desiderio appagato fa subito posto a uno nuovo: quello è un errore conosciuto, questo un errore ancora sconosciuto. Nessun oggetto del volere conseguito può dare una soddisfazione durevole, che non venga più meno: esso è sempre e solo come l’elemosina, che, gettata al mendicante, prolunga oggi la sua vita per prolungare all’indomani la sua distretta. Perciò dunque, finché la nostra coscienza è riempita dalla nostra volontà, finché ci abbandoniamo all’impeto dei desideri, col suo continuo sperare e temere, finché siamo soggetti del volere, non abbiamo mai né felicità durevole né pace. Che diamo la caccia o fuggiamo, che temiamo la sventura o aneliamo al godimento, è nell’essenziale tutt’uno: la preoccupazione per la volontà che sempre esige, non importa in qual forma, riempie ed agita continuamente la coscienza; ma senza pace nessun vero benessere è mai possibile. Così il soggetto del volere giace costantemente sulla ruota volgente d’Issione, attinge sempre con lo staccio delle Danaidi, è il Tantalo che si strugge eternamente. Ma quando un’occasione esterna o una disposizione interiore ci solleva improvvisamente fuori della corrente senza fine del volere, strappa la conoscenza alla schiavitù della volontà, e l’attenzione non viene poi più rivolta ai motivi del volere, ma concepisce le cose libere dalla loro relazione con la volontà, dunque senza interesse, senza soggettività, contemplandole in modo puramente oggettivo, del tutto abbando111 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

nata ad esse, in quanto sono soltanto rappresentazioni, non in quanto sono motivi: ecco che subentra da sé di colpo quella pace, per quella prima via del volere sempre cercata ma mai raggiunta, e noi ci sentiamo perfettamente bene. È lo stato senza dolore che Epicuro esaltava come il bene supremo e come lo stato degli dèi; giacché noi siamo per quel momento sbarazzati dalla spregevole bramosia della volontà, celebriamo il “sabbath” dei lavori forzati del volere, la ruota d’Issione si ferma. Ma questo stato è appunto quello che io ho sopra descritto come necessario per la conoscenza dell’idea, come pura contemplazione, dissolvimento nell’intuizione, smarrimento di sé nell’oggetto, oblio di ogni individualità, abolizione del modo di conoscere che segue il principio di ragione e che concepisce solo relazioni. Contemporaneamente e inseparabilmente la cosa particolare intuìta si innalza all’idea della sua specie, l’individuo conoscente si eleva a puro soggetto del conoscere privo di volontà, ed entrambi poi in quanto tali non stanno più nella corrente del tempo e di tutte le altre relazioni. Fa allora tutt’uno contemplare il tramonto del sole da un carcere o da un palazzo. Disposizione interiore, preponderanza del conoscere sul volere, possono provocare questo stato in ogni ambiente. […] Giacché nel momento in cui noi, strappati dal volere, ci siamo abbandonati al conoscere puro e privo di volontà, siamo per così dire entrati in un altro mondo, dove tutto ciò che agita la nostra volontà e in tal modo ci scuote con tanta violenza non esiste più. Quella liberazione della conoscenza ci trae completamente fuori da tutto ciò altrettanto che il sonno e il sogno; felicità e infelicità sono sparite: noi non siamo più l’individuo, esso è dimenticato, ma soltanto puro soggetto di conoscenza; esistiamo ancora solo come l’unico occhio del mondo, che guarda da tutti gli esseri conoscenti, ma che solo nell’uomo può divenire pienamente libero dal servizio della volontà, per il che ogni distinzione di individualità sparisce così totalmente, che è poi tutt’uno che l’occhio che guarda appartenga a un potente re o a un afflitto mendico. Giacché né felicità né affanno ci accompagnano oltre quel confine. Così vicino a noi si trova costantemente questo dominio, in cui siamo interamente sottratti a tutta la nostra miseria; ma chi ha la forza di mantenervisi a lungo? (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., pp. 399-402) 112 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ciò che resta dopo la totale negazione della Volontà Questa volontà e questo mondo siamo appunto anche noi stessi, e a questo mondo la rappresentazione in genere appartiene come una delle sue facce. La forma di questa rappresentazione è costituita da spazio e tempo, quindi tutto ciò che è per questo punto di vista dev’essere in un certo luogo e in un certo tempo. Alla rappresentazione appartiene poi anche il concetto, materiale della filosofia, e infine la parola, segno del concetto. Negazione, soppressione, conversione della volontà sono anche soppressione e sparizione del mondo, suo specchio. E se non scorgiamo più in questo specchio la volontà, domandiamo invano da che parte si sia voltata, e lamentiamo poi che non abbia più un dove e un quando, che si sia perduta nel nulla. […] Se abbiamo conosciuto l’essenza in sé del mondo come volontà, e in tutti i suoi fenomeni solo la sua oggettità, e seguito quest’ultima dall’impulso privo di coscienza delle oscure forze naturali fino al più consapevole agire dell’uomo; non evitiamo affatto di trarre la conseguenza che con la libera negazione, con la rinuncia alla volontà siano poi anche soppressi tutti quei fenomeni, quel costante premere e agitarsi senza meta e senza posa, in tutti i gradi di oggettità, in cui e per cui il mondo consiste, soppressa la molteplicità delle forme susseguentisi gradualmente, soppresso con la volontà tutto il suo manifestarsi, e infine anche le forme generali di questo, tempo e spazio, e anche l’ultima forma fondamentale di esso, soggetto e oggetto. Non più volontà: non più rappresentazione, non più mondo. Davanti a noi rimane invero solo il nulla. Ma ciò che in noi si ribella a questo svanire nel nulla, la nostra natura, è appunto solo la volontà di vivere che noi stessi siamo, com’essa è il nostro mondo. Che noi tanto aborriamo il nulla non è niente più che un’altra espressione del fatto che vogliamo ardentemente la vita, e altro non conosciamo che essa appunto. Ma se rivolgiamo lo sguardo dalla nostra meschinità e parzialità a coloro che superarono il mondo, nei quali la volontà, pervenuta alla piena conoscenza di sé, si ritrovò in tutto e quindi liberamente negò se stessa, e che poi aspettano solo di vederne svanire l’ultima traccia, col corpo che essa anima; ci appare allora, invece dell’impulso e dell’agitazione senza posa, invece del continuo passaggio dal desiderio 113 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

alla paura e dalla gioia al dolore, invece della speranza mai appagata e mai spenta, in cui consiste il sogno di vita dell’uomo che vuole, quella pace che è più alta di ogni ragione, quella assoluta calma dell’animo, quella profonda quiete, quella imperturbabile sicurezza e serenità, il cui semplice riflesso nel volto, come lo hanno rappresentato Raffaello e Correggio, è un Vangelo completo e sicuro: solo la conoscenza è rimasta, la volontà è svanita. Noi guardiamo allora con intensa e dolorosa nostalgia a questo stato, accanto al quale appare in piena luce, per contrasto, la miseria e la disperazione del nostro. Nondimeno questa contemplazione è l’unica che ci possa consolare durevolmente, quando da una parte abbiamo riconosciuto un dolore insanabile e una miseria senza fine come essenziali alla manifestazione della volontà, il mondo, e dall’altra vediamo il mondo, soppressa la volontà, svanire nel nulla, e solo il vuoto nulla ci rimane davanti. In questo modo dunque, con la contemplazione della vita e della condotta dei santi, che è invero raramente dato incontrare nella propria esperienza, ma che ci sono messe sotto gli occhi dalla loro storia annotata e, garantite col suggello della verità interiore, dall’arte, dobbiamo scacciare la tetra impressione di quel nulla, che aleggia come l’ultima meta dietro ogni virtù e santità, e di cui noi abbiamo paura come i bambini del buio; invece di aggirarlo, come gli Indiani, con miti e parole prive di significato, come riassorbimento in Brahma, o nel Nirvana dei buddhisti. Noi dichiariamo anzi liberamente: ciò che resta dopo la totale soppressione della volontà è invero, per tutti coloro che sono ancora pieni di volontà, il nulla. Ma anche, viceversa, per coloro in cui la volontà si è rovesciata e negata, questo nostro mondo tanto reale con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è – nulla. (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., pp. 705-708)

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Ludwigh Feuerbach

Potremo noi considerare nostra, presente, quella che è la filosofia di un’altra epoca, la filosofia del passato? E perché mai passano le filosofie se non perché passano i tempi e gli uomini, e le nuove generazioni vogliono vivere non sull’eredità degli antenati, ma dei beni che loro stesse hanno acquisito? E non sentiremo anche noi la filosofia hegeliana come una costrizione esteriore, come un peso, proprio come un tempo i riformatori sentirono l’Aristotele della tradizione medievale? Non si verificherà necessariamente una contrapposizione tra filosofia vecchia e filosofia nuova, tra una filosofia non libera, perché ricevuta dalla tradizione, e una filosofia libera, perché elaborata da noi stessi? Feuerbach

Ludwigh Feuerbach: vita e opere Ludwig Feuerbach nasce il 28 luglio 1804 a Landshut, in Baviera. Nel 1822 conclude gli studi ginnasiali ad Ansbach e l’anno seguente si immatricola alla facoltà di teologia dell’Università di Heidelberg. Ben presto, però, si rende conto di nutrire maggiormente interesse per la filosofia e comincia 115 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

a seguire le lezioni che in quel periodo Hegel stava tenendo all’Università di Berlino; entusiasta, decide di trasferirsi lì, cambiando così facoltà ed iscrivendosi a quella di filosofia. Prosegue poi gli studi in Baviera, ad Erlangen, presso l’Università del posto. Nel 1829 ottiene la docenza di corsi liberi presso la stessa Università in cui si era laureato, ma la sua carriera fu presto stroncata dalla pubblicazione di uno dei suoi primi scritti, Pensieri sulla morte e l’immortalità (1830), in cui Feuerbach negando l’immortalità dell’anima individuale si poneva in netta contrapposizione con i principi propri dell’ortodossia religiosa; il libro uscì dapprima in forma anonima, ma una volta individuatone l’autore in Feuerbach, lo scritto fu sequestrato ed il filosofo fu costretto ad abbandonare l’insegnamento. Questo episodio segnò definitivamente la possibilità, per il filosofo, di diventare docente universitario. A causa di grossi problemi finanziari, fu costretto ad abbandonare Bruckberg ed a trasferirsi nel borgo di Rechenberg, nei pressi di Norimeberga, dove visse gli ultimi anni della sua vita in condizioni di estrema difficoltà economica. A seguito di due attacchi di trombosi, l’ultimo dei quali lo ridusse in uno stato vegetativo, morì a Rechenberg il 13 settembre 1872. Ricordiamo le opere: La critica della filosofia hegeliana (1839); Tesi provvisorie per una riforma della filosofia (1843); Principi della filosofia dell’avvenire (1844); L’essenza del cristianesimo (1841); L’essenza della religione (1845). La verità è nella carne e nel sangue dell’uomo Ludwigh Feuerbach rappresenta il netto tentativo di capovolgere e ribaltare l’idealismo. Buona parte della sua opera filosofica è una potente e decisa negazione del pensiero hegeliano nonché di tutta la metafisica tradizionale. In un primo momento lo stesso Feuerbach fu e si considerò un fervente discepolo e convinto sostenitore di Hegel, 116 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ludwig Feuerbach

del quale fu anche allievo. In seguito, dopo aver abbandonato il “credo” hegeliano, si affiliò alla “sinistra hegeliana”, la quale – a differenza della “destra hegeliana” che utilizzò il sistema hegeliano per giustificare “razionalmente” le credenze e i dogmi della religione cristiana – tendeva ad una riforma radicale, ad un forte rinnovamento e superamento dello stesso hegelismo, puntando l’attenzione sul valore essenziale e sul carattere terreno dell’“uomo”, che Hegel non aveva adeguatamente riconosciuto, approfondito e correttamente considerato. Feuerbach, in una delle sue prime opere, Principi della filosofia dell’avvenire, definisce il proprio pensiero come l’inizio della “filosofia dell’avvenire”, con la precisa intenzione di ribaltare la filosofia del “maestro” Hegel. Eppure alcune coincidenze non mancano: l’“unità dell’infinito e del finito” all’interno dalla coscienza dell’uomo, che altro non è che il principio fondamentale dell’idealismo, è ciò che accomuna principalmente i due filosofi. Per entrambi la coscienza umana è “onnicomprensiva” e “illimitata”: “Coscienza, in senso rigoroso o proprio, e coscienza dell’infinito sono inscindibili; coscienza limitata non è coscienza; la coscienza è essenzialmente di natura infinita, universale”. Nulla è estraneo al pensiero (coscienza, ragione), al “cogito”, all’“io”, al “soggetto”. Nulla è al di là dell’“essenza” umana, essendo il tratto più tipico dell’uomo il suo aver coscienza dell’infinito. La “ragione” (coscienza, pensiero), per entrambi i filosofi, non ha alcun limite, in quanto ha per suo contenuto la totalità dell’essere, cioè l’“Infinito”, e ciò che ha per contenuto l’“Infinito” non può a sua volta non essere che di natura infinita. “La coscienza dell’Infinito non è altro che la coscienza dell’infinità della coscienza. In altri termini: nella coscienza dell’infinito il soggetto cosciente ha come oggetto soltanto l’infinità della propria essenza” (ossia della propria “coscienza”). Dire che l’uomo (il soggetto cosciente) ha come oggetto (come contenuto) della propria coscienza l’Infinito, signifi117 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

ca che l’“essenza” stessa dell’uomo è a sua volta realmente infinita. La coscienza dell’uomo “non può riconoscere qualche cosa di essenzialmente diverso da lei, che essa non possa penetrare, ma di cui pure debba ammettere l’esistenza”1 – come invece sosteneva Kant a riguardo della “cosa in sé”. Ma, come abbiamo visto, per Hegel non è l’uomo “materiale”, “sensibile” e “finito” colui che detiene tale infinità reale e totale. L’uomo è “infinito” soltanto in quanto appartiene e partecipa all’onnicomprensività esclusiva dell’Idea Assoluta (Logos, Ragione, Spirito), la quale pone e determina ogni cosa, e che perciò viene definita dallo stesso filosofo con i caratteri tradizionali del Dio creatore e onnipotente. Caratteri, questi, adoperati similmente sia dalla teologia speculativa che dalla religione cristiana. Bisogna essere più precisi, perché la questione è di fondamentale importanza per capire le differenze tra i due filosofi. È vero che per Hegel l’uomo è l’Infinito, e che l’uomo è Dio, ma questo uomo-Dio viene da Hegel stesso definito esattamente come il Dio della tradizione. L’uomo viene definito da Hegel come “puro pensiero, puro spirito, pura coscienza”, rimanendo pertanto all’interno della prospettiva e dell’interpretazione “teologica”, con la sola differenza, esclusivamente formale, di sostituire al posto del Dio trascendente della metafisica tradizionale l’uomo totalmente “puro”. Hegel riconosce e pone sì il “finito”, ossia l’uomo mortale e sensibile e materiale, nell’“infinito” rappresentato appunto dall’Idea-Dio, ma assegna soltanto a quest’ultima quella definitiva capacità di sintesi in grado di arrivare all’assoluta “unità dell’infinito e del finito”, alla quale essa giunge tramite lo svolgersi incessante del processo dialettico del Tutto (tesi-antitesi-sintesi: infinito-finito-Idea assoluta). Per Feuerbach, invece, “il compito della vera filosofia non è di riconoscere l’infinito come finito bensì quello di

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  C. Cesa, Introduzione a Feuerbach, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 30.

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Ludwig Feuerbach

riconoscere il finito come non finito, come infinito; cioè di porre non il finito nell’infinito, ma l’infinito nel finito”. Ciò vuol dire che bisogna riconoscere, ribaltando l’idealismo, che l’unità dell’infinito e del finito si realizza esattamente nella coscienza dell’uomo, nel soggetto finito, e non in Dio, né tantomeno nell’Idea assoluta o in qualche altro “trascendente” o “immaginario” o “astratto” ente sovraumano e sovrasensibile. La nuova filosofia, se vuol veramente diventare “la scienza della realtà nella sua verità e nella sua totalità”, deve avere come suo contenuto esclusivamente l’uomo, perché soltanto l’uomo rappresenta la realtà nella sua verità e totalità. Alla luce di ciò possiamo intendere perché Feuerbach considera Hegel come l’esponente di spicco e l’ideatore primo della “teologia speculativa”. Teologia eminentemente razionale che “si distingue dalla teologia comune per il fatto che colloca nell’al di qua, rendendolo presente e determinato e attuale, quell’essere divino che appunto la teologia comune ha per paura e incomprensione relegato, lontano, nell’al di là”. Il Dio hegeliano non è altro che il “pensiero”, il quale è presente nel Tutto proprio perché è esso stesso quel Tutto (l’“essere”) perfettamente autonomo rispetto a qualunque forma di sensibilità e finitezza (individui, natura, oggetti, ecc.). La stessa “natura”, come d’altronde l’intera realtà, “è posta dall’idea”, essendo essa “l’essenza assoluta che si svolge da sé”, alla quale ogni cosa è sottomessa e dalla quale ogni cosa deriva. Ma ciò non è altro che “l’espressione in termini razionali della dottrina teologica, secondo cui la natura è creata da Dio, o l’essere materiale è creato da un essere immateriale, cioè astratto”. Feuerbach afferma la necessità di riconoscere nella teologia speculativa di Hegel, come in quella più prettamente religiosa, nient’altro che una “antropologia” (scienza che ha per contenuto l’uomo), che è sempre stata misconosciuta e snaturata, e che dovrà dunque essere ripulita da tutti gli sviamenti astratti, illusori e trascendenti. Ta119 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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le “antropologia” del futuro avrà come proprio contenuto esclusivamente l’uomo finito (corporeo, terreno, mondano) e l’infinità della sua essenza (“il proprio genere, la propria essenzialità”, la propria “specie”). Una volta che l’uomo (la ragione “umana”) avrà realmente colto la propria essenza infinita, sarà finalmente in grado di giustificare e accettare concretamente la propria “natura sensibile” e soprattutto la propria “natura finita”. La “nuova filosofia” – l’“antropologia” del futuro – sarà allora la “risoluzione della teologia non soltanto nella ragione, come aveva fatto la vecchia filosofia, ma anche nel cuore, in breve nell’essere reale e totale dell’uomo”. Ciò che l’idealismo aveva “risolto una volta nell’intelletto, deve risolversi alla fine anche nella vita, nel cuore, nel sangue dell’uomo”, perché “solo la verità diventata carne e sangue è verità”. L’unità di spirito e corpo In massimo modo Hegel, essendo di fatto colui che sancì la definitiva vittoria dell’“ideale” nei confronti del “sensibile”, ha contribuito a snaturare l’uomo ed ha “completamente spostato il punto di vista della verità”, attribuendo all’uomo precisi caratteri, quali quelli che lo caratterizzano esclusivamente come “puro pensiero, puro spirito, pura coscienza”. Ma “la verità non esiste nel pensiero, non esiste nel sapere considerato in se stesso”, perché l’uomo non è “puro pensiero”, o meglio, non è soltanto “pensiero”. Ridurre l’uomo a puro pensiero è una illusione, una miopia distorcente che ci rende filosoficamente incapaci di giungere alla realtà effettiva delle cose. Non si potrà mai arrivare alla verità se si considera l’uomo come separato dalla propria sensibilità e dalla propria corporeità. Al contrario, vi arriveremo se lo intenderemo in modo unitario e “integrale”, “dalla testa al calcagno” – e in questo modo Feuerbach compie la 120 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ludwig Feuerbach

stessa critica, seppur usata con intenti molto diversi, che Schopenhauer aveva polemicamente rivolto all’idealismo contestandogli quanto l’uomo non possa essere considerato come “una testa d’angelo alata senza corpo”. L’“uomo” è definito da Feuerbach come un essere razionale dotato di “coscienza”, grazie alla quale si distingue nettamente dalla “bestia”, che è certamente “consapevole di sé come individuo” e dunque “ha il senso di se stessa”, ma è da considerarsi come totalmente priva di “coscienza – termine che deriva da conoscere” –, come priva di pensiero razionale (di “scienza”). Il “pensiero è una conseguenza e una proprietà necessaria” dell’essere umano – e non la sua “causa”, il suo “creatore”, come invece credeva l’idealismo – ed ha per proprio contenuto essenziale l’Infinito. Allo stesso tempo, quest’uomo dotato d’una coscienza infinita è sostanzialmente de-finito dai bisogni materiali, dalle indigenze fisiche, dai limiti materiali, dalla caducità inevitabile rappresentata dal tempo naturale della vita umana, dalla sua naturalità finita, che condiziona inevitabilmente la sua corporeità ed esistenza sensibile. L’uomo è sia essenza che sostanza, è unità inscindibile di coscienza (vita interna) e corpo (vita esterna), di pensiero e carne, di mente e sangue. Non si possono considerare questi aspetti separatamente, isolatamente e quindi astrattamente (speculativamente), bensì bisogna sempre intenderli come uniti in una totalità assolutamente inscindibile, a meno che non si voglia ricadere nell’errore snaturante dell’idealismo tanto criticato dallo stesso Feuerbach. Il filosofo dell’avvenire è allora colui che sa di avere una “duplice vita, una esterna e una interna; nella prima è condizionato dalle cose, nella seconda si riferisce invece al genere, alla essenza universale; nella prima è obbligato a distinguere tra ciò che l’oggetto è in sé e ciò che esso è per lui, nella seconda, invece, egli ‘pensa’, cioè parla con se stesso, è insieme io e tu. Il non doversi riferire ad altro 121 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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costituisce la sua infinità”2. L’uomo non è solo coscienza pura, in quanto ad esso appartengono anche quegli aspetti che cadono totalmente al di fuori della coscienza, quali la volontà, il sentimento, la sensibilità e il cuore. L’essenza autentica, “la vera umanità” dell’uomo è pertanto tale integrità di sensibilità e coscienza, di volontà e pensiero, di cuore e ragione. Continuare a dire che l’essenza dell’uomo altro non è che l’Infinito, ora, al contrario dell’idealismo, significa affermare che l’essenza dell’uomo è appunto l’Infinito “non solo perché l’uomo è coscienza, ma anche perché è volontà e sentimento”3. Ciò vuol dire “che il mondo concreto, la natura concreta e sensibile che è oggetto della coscienza e del sentimento, non sta al di là dell’essenza infinita dell’uomo, ma è l’oggetto di tale essenza e proprio per questo ne è la manifestazione e la rivelazione”. Appare chiaramente quanta differenza intercorra tra questa affermazione e la posizione hegeliana, che affermava che la natura concreta e sensibile non fosse altro che il lato puramente negativo del processo dialettico dell’Idea, la qual cosa comportava il fatto di negare a tale “natura” ogni possibilità di manifestare e rivelare l’essenza umana. Non così è per Feuerbach, il quale sostiene che quel mondo naturale e sensibile e materiale, troppo velocemente messo da parte dalle speculazioni hegeliane, è, all’opposto, da considerare come “l’oggetto dell’essenza infinita dell’uomo”, ossia è ciò a cui l’essenza dell’uomo continuamente e necessariamente si rivolge, ma non per superarlo e negarlo, bensì per riconoscersi in esso come coscienza umana, essenzialmente infinita. Se per l’idealismo solo il “pensiero” esisteva realmente ed era assolutamente indipendente da ogni “essente” finito, e

  Ibidem, p. 37.   E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo, vol. III (la filosofia contemporanea), BUR, Milano 2007, p. 76. 2 3

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Ludwig Feuerbach

se, quindi, “l’idealismo della filosofia non consiste in altro che nel non riconoscere il finito come un autentico essente”, per Feuerbach, al contrario, il “pensiero” non è autonomo rispetto alla sensibilità, ma deriva ed è determinato dall’esser concreto e finito dell’uomo. Pertanto l’“antropologia” non sarà altro che quel sapere capace di vedere nell’uomo “l’essere in quanto essere”, o, detto con le stesse parole del nostro filosofo, “la nuova filosofia fa dell’uomo l’oggetto unico, universale e supremo della filosofia, includendovi la natura considerata come fondamento dell’uomo”. L’essenza dell’uomo Chiarito quale potenza e capacità infinita possiede la “coscienza” umana, e chiarito a quale oggetto supremo deve riservare la propria attenzione la nuova filosofia – tale oggetto speculativo, lo ribadiamo, altro non è che l’uomo – bisogna subito precisare che quest’“uomo” a cui l’antropologia feuerbachiana si riferisce, non è in nessun modo il singolo, l’uomo in quanto individuo, la cosiddetta “persona” (Giovanni, Lorenzo, Luna, ecc.). Ciò che a Feuerbach interessa determinare e indagare scientificamente è l’“essenza” dell’uomo, ossia la “coscienza” che l’uomo ha non della sua individualità singolare, ma della propria “natura umana”, della sua “essenza universale”. Questo perché se “nella vita abbiamo a che fare con individui”, nella “scienza” abbiamo a che fare con la “specie”, “e solo un essere consapevole della propria specie, della propria essenza, può oggettivare altre cose o esseri secondo la loro natura essenziale”. Tale posizione speculativa, che non ritiene necessario occuparsi della “vita” intesa come opera materialmente e storicamente determinata dall’azione pratica dei singoli individui, per occuparsi esclusivamente dell’“essenza” dell’uomo in generale, causerà la maggior parte delle critiche che determinati filosofi, come ad esem123 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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pio Stirner e Marx, ovviamente con modi e intenti diversi, rivolgeranno a Feuerbach. Ciò detto, vediamo che l’“essenza universale” dell’uomo che la “coscienza” rivela ad esso e che costituisce la “vera umanità dell’uomo”, per Feuerbach si esprime nell’intreccio del “sentimento” (il “cuore”), della “volontà” e del “pensiero”. Il singolo uomo, che è essenzialmente sentimento, volontà e pensiero (ragione), una volta che ne sia diventato consapevole, una volta che sia arrivato ad aver completa coscienza di se stesso, capirà che tale intreccio essenziale non è un qualcosa di personale e di individuale. Tale “essenza” non è la determinazione di una esistenza singola isolata da tutte le altre esistenze umane, bensì è la legge universale dell’umanità intera. È esclusivamente tale legge universale (e mai gli individui) che determina l’infinito e perfetto sviluppo dell’umanità stessa. Tale essenza universale è l’“oggetto” comune a cui l’uomo è legato da rapporti necessari, così come il sole è l’oggetto comune dei pianeti. L’uomo è necessariamente legato alla propria essenza-oggetto perché “l’uomo è nulla senza oggetto”: l’essenza universale è dunque quell’“oggetto comune a più individui della medesima specie, ma diversi per qualità”. Essa “manifesta e rivela” l’intima natura, compiuta e perfetta, dell’uomo: l’uomo senza la propria volontà, senza il proprio sentimento e il proprio pensiero non sarebbe niente, sarebbe nulla. Dire che l’uomo è nulla senza il pensiero e la volontà e il sentimento, significa esplicitamente affermare che l’uomo non è padrone di queste suddette “facoltà” (“forze”). L’uomo è uomo solo per esse e solo grazie ad esse. Bisognerà quindi considerare tali facoltà quali elementi costitutivi (e appunto essenziali) del suo essere, “che egli né possiede né crea”. La volontà, il pensiero e il sentimento infatti, essendo l’essenza universale dell’uomo, “sono le potenze che lo animano, lo determinano, lo governano; potenze divine, assolute, alle quali egli non può opporsi”. 124 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ludwig Feuerbach

L’“essenza” dell’uomo è infinita, “poiché volontà, sentimento e pensiero sono perfezioni, essenze, realtà”, perché è “impossibile che noi con la ragione, con il sentimento, con la volontà sentiamo e percepiamo la ragione, il sentimento e la facoltà limitate, finite, ossia nulle”. Il che significa, ancora una volta, che “ragione, amore, volontà sono perfezioni, sono le più alte facoltà, sono l’essere assoluto dell’uomo in quanto uomo e lo scopo della sua esistenza”. Tutto ciò che l’uomo incontra e conosce, che siano oggetti sensibili (cose, individui) o oggetti del pensiero (idee, concetti), rivela sempre la natura essenziale dell’uomo, in quanto “la facoltà che egli ha di vederli e il modo in cui li vede, sono una testimonianza della sua natura”. O meglio, “la potenza dell’oggetto su di lui non è infatti che la potenza stessa della sua intima natura”, così come “di qualsiasi oggetto diveniamo noi coscienti, sempre diveniamo nel contempo coscienti del nostro proprio essere” perché “la potenza dell’oggetto del sentimento è la potenza del sentimento, la potenza dell’oggetto della ragione, è la potenza della ragione stessa, la potenza dell’oggetto della volontà, è la potenza della volontà”. L’individuo singolo indubbiamente può e deve riconoscersi limitato, “e in questo si distingue dalla bestia”, ma non deve compiere il “ridicolo” e “colpevole” errore, dettato a seconda dei casi dall’egoismo o dalla vanità o dalla pigrizia, di identificare i propri limiti con quelli della “specie” (la “natura”) umana. Se tale “essenza” è perfetta e infinita essendo “l’essere assoluto dell’individuo”, allora ogni essere umano è “in sé” intimamente infinito, in quanto ha in se stesso, e non altrove, il suo dio, “il suo essere sommo”. Si capisce allora perché, per Feuerbach, “ogni limitazione della ragione, o comunque della natura dell’uomo, si fonda su un inganno, su un errore”. L’inganno e l’errore che maggiormente limita la natura infinita dell’uomo, è quello operato e perpetuato dalla religione, che teorizza quell’essere infinito, trascendente e superiore che è Dio. Esso rappresenta, allo stesso tempo, 125 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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sia l’irraggiungibile per eccellenza, il sovrumano tout court, che il limite invalicabile di fronte a cui l’uomo deve arrestarsi e dichiarare la propria imperfezione e assoluta dipendenza. Dio rappresenta dunque una natura assolutamente altra rispetto a quella dell’uomo. Ma tale Dio è stato di volta in volta pensato nei suoi modi specifici sempre e soltanto dall’uomo, ed è qui che il nocciolo della questione presenta le maggiori difficoltà. Per Feuerbach, “l’uomo non può uscire dalla propria natura”, perché la sua “natura”, la sua “essenza”, abbraccia tutto e lo abbraccia in modo infinito: non esistono limiti e limitazioni di fronte ai quali essa dovrebbe arrestarsi. L’uomo “ben può immaginare con la fantasia individui diversi da lui, di pretesa natura superiore, ma assolutamente non può mai astrarre dalla propria specie, dal proprio essere”, cioè a dire che “le qualificazioni essenziali che egli conferisce a questi altri individui”, in questo specifico caso a Dio, “sono sempre qualificazioni attinte dalla sua propria natura, e non sono in realtà che la sua propria immagine”. Come smascherare l’inganno della religione Il problema centrale che attraversa tutta la filosofia di Feuerbach, è la liberazione dell’uomo dai tanti vincoli della “tradizione” religiosa e filosofica, che ormai da tempi immemorabili lo incatenano, alienandolo da se stesso, spodestandolo dalla sua essenza, limitandolo nelle sue possibili azioni e soffocandolo con timori apocalittici, superstizioni irreali e promesse ultraterrene assolutamente false. In modo speciale, egli si sofferma sulla schiavitù atavica e ben radicata che il Cristianesimo ai suoi occhi incarna. Esso storicamente rappresenta il maggior sviluppo del sentimento e dell’entusiasmo religioso, la forma compiuta dell’ideale metafisico e, soprattutto, legando strettamente Dio e l’uomo tramite la figura del Cristo Redentore, è a 126 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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tutti gli effetti da considerare come la religione perfetta e compiuta. Nella sua opera principale, L’essenza del Cristianesimo4, il nostro filosofo tenta di dare una spiegazione rigorosamente razionale, eminentemente umana e quindi sostanzialmente antropologica di tutti quei misteri e dogmi soprannaturali che connotano il credo cristiano. La prima parte della suddetta opera intende riportare alla vera fonte antropologica tutti i misteri cristiani quali sono quelli dell’incarnazione, della passione, della provvidenza, della creazione dal nulla, della fede, del miracolo, ecc. Nella seconda parte, invece, si sforza di smascherare le molte e profonde contraddizioni del cristianesimo stesso. È interessante evidenziare le affermazioni speculative che tale opera porterà alla luce, risultati teorici che influenzeranno notevolmente, sia in positivo che in negativo, gran parte del mondo filosofico. Già David Strauss (1808-1874), pochi anni prima di Feuerbach, andava sostenendo che il mondo della religione è essenzialmente “mitico”. Di esso non possiamo dire né che sia vero e né che sia falso. Il mondo della religione è un mondo particolare (in questo caso concretamente esistente) che la fantasia dell’uomo ha storicamente creato, per assicurarsi una rassicurante soluzione ideale in un mondo ultraterreno (in questo caso concretamente inesistente), come è da intendere, per esempio, la risoluzione finale dell’anima nell’aldilà, la quale, per il suddetto autore, altro non è che una credenza totalmente illusoria e fantastica e, proprio per questo, decisamente “mitica”. Feuerbach, da parte sua, si impegna a comprendere qual è l’origine del “mito” cristiano, e arriva all’originale conclusione affermante che il principio e l’essenza religiosa di tale fede appare esattamente “come un proiettarsi in un ordine di

4   Le citazioni di quest’opera sono tratte da: L. Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo, Feltrinelli, Milano 1960.

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realtà assolute delle aspirazioni, dei sentimenti, dei desideri più alti dell’uomo”. Da sempre gli uomini – dai pagani che veneravano semplici oggetti (feticci) o eventi naturali impressionanti come potevano essere il tuono, la pioggia, la tempesta; ai Greci che veneravano gli “déi” dell’Olimpo i quali avevano sembianze, passioni e caratteri tipicamente umani; fino ai cristiani che venerano il Dio assolutamente lontano, irraggiungibile, estraneo, ecc. – hanno proiettato fuori di loro stessi le proprie più alte inclinazioni, i desideri più eccelsi, i sentimenti più puri, per riversarli e porli in un “essere” considerato assolutamente “altro” dall’uomo terreno e mortale. Il Dio del cristianesimo è questo essere superiore assolutamente “altro” dall’uomo. È ciò che rappresenta l’immagine suprema, il simbolo glorioso, il modello ideale e sovrannaturale a cui l’uomo affida i suoi migliori slanci e propositi “divini”, quali la “personalità”, la “creatività”, l’“amore”, la “fede”, la “misericordia”, la “giustizia”, la “speranza”, che non sono altro che le qualità e gli attributi mediante i quali viene rappresentato il Dio del cristianesimo. Io, in quanto uomo religioso, in quanto credente , “prendo” le mie migliori qualità, i miei desideri, le mie aspirazioni più pure e le “sposto” in “cielo”, le porto via da me per porle assolutamente lontano da me, le trasferisco in Dio, le proietto in un essere sovrumano e ultraterreno. A questo essere supremo, d’ora in avanti, dedicherò la mia più impegnata contemplazione e completa devozione, perché egli rappresenta adesso ciò che io stesso ho ritenuto impossibile attuare in terra e che soltanto lui potrà compiere e adempiere, in modo perfetto, nel regno dei cieli. Non sarò io a poter amare, indiscriminatamente, tutta l’umanità, a considerare il mio prossimo come me stesso, a vedere in ogni altra persona e razza e popolo nient’altro che miei fratelli. Ciò sarà possibile solo se sarò un umile e devoto credente nel Dio creatore del cielo e della terra, solo se mi affiderò senza riserve e senza indugi alla sua opera divina, 128 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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la sola capace, in grazia del suo amore e della sua potenza soprannaturale, di adempiere infine a queste perfezioni eccelse e infinite, essendo Dio, per definizione “umana”, ciò a cui niente è impossibile. In breve, ciò che Feuerbach si sforza di dimostrare è che “Dio è l’opera dell’uomo”, Dio è creato dall’uomo stesso, e in esso l’uomo, nel corso della storia, ha sempre immaginato, illusoriamente, la completa realizzazione di tutte quelle volontà e desideri i quali non erano altro che le volontà e i desideri dell’uomo stesso. L’origine di Dio, e nel cristianesimo ciò appare in modo netto e limpido, è esclusivamente, o meglio, essenzialmente, di natura umana: l’essenza di Dio non è altro che l’essenza dell’uomo, perché il volto santo e immacolato di Dio è lo specchio fulgente nel quale l’uomo non ha fatto altro che specchiarsi, non riuscendo però mai, per paura o per incomprensione o per viltà, a riconoscere in esso il suo stesso autentico volto. L’avvento della nuova èra Non bisogna pensare che la perentoria presa di posizione di Feuerbach nei confronti del cristianesimo e nei confronti della “religione” in genere, sia un qualcosa di meramente unilaterale che si fermi a considerare soltanto il lato negativo del suo oggetto in questione. Il nostro filosofo – il quale intende attuare una “critica” che separi “soltanto il vero dal falso”, non nascondendosi però di voler giungere ad “una verità nuova, essenzialmente diversa dall’antica” –, afferma, a più riprese, il ruolo positivo, necessario e inevitabile che le progressive forme storiche del credo e del sentimento religioso hanno svolto a favore dell’educazione spirituale ed esistenziale dell’essere umano. Attraverso il vario susseguirsi, il progressivo raffinarsi e perfezionarsi delle religioni storiche (paganesimo, deismo greco, monoteismo ebraico, cristianesimo), l’uomo non ha fatto al129 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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tro che raffinare e perfezionare la conoscenza che aveva di se stesso, del suo più proprio essere, della sua “essenza”. Questo è un valore positivo e altamente formativo che non si può in nessun modo negare alla religione, e sotto questo aspetto, o meglio, solo per questo aspetto la religione va apprezzata, se non addirittura santificata: “La religione è la prima coscienza che l’uomo ha di sé stesso e appunto per questo le religioni sono sante”. Tramite la conoscenza di quell’“essere supremo” rappresentato da Dio, l’uomo può riconoscere il proprio essere specifico, la propria essenza assoluta e suprema: “Dio è amore, questa che è la proposizione più sublime del cristianesimo, esprime solo la certezza che il cuore ha di se stesso, della sua potenza come della sola potenza legittima cioè divina. Dio è amore significa che il cuore è il Dio dell’uomo, l’essere assoluto”. Dio, quindi, è ciò che sostanzialmente l’uomo è e che in nessun modo potrebbe non essere, proprio perché l’uomo è capace di affermare (percepire, volere, amare) “Dio”: “Come potresti tu percepire il divino mediante il sentimento, se il sentimento stesso non fosse di natura divina?”. Una volta chiarito l’influsso positivo che la religione esercita sulla vita umana, vediamo che lasciando esclusivamente a Dio la capacità di compiere ogni perfezione, la stessa vita umana rimane priva di mire e aspirazioni elevate, spegnendosi, irrigidendosi, bloccandosi in una esistenza piatta e inerte, fatta di piccoli interessi particolari, isolati, egoistici, effimeri, inessenziali. A ciò si aggiunga l’inevitabile cedimento strutturale, insito in tutte le cose tipicamente “umane” e storiche, che coinvolge lo stesso cristianesimo. Cristianesimo che, se tramite la figura del Cristo originariamente predicava il “verbo di Dio”, con l’avvento della Chiesa si degrada a difensore indefesso, esclusivo ed escludente, del “verbo dei preti”. L’originaria purezza benefica della religione cristiana in modo inevitabile si avvia alla sua decadenza, comportando l’apparizione di 130 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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quei caratteri superstiziosi, dogmatici, fanatici, oscurantisti e completamente assurdi. Questi opprimono severamente l’uomo e la sua libertà di azione nel mondo, mettendone a serio rischio, nei casi peggiori, la loro vita stessa, perché “quando la morale viene fondata sulla teologia e il diritto su un’autorità divina, le cose più immorali, più ingiuste e più vergognose possono avere il loro fondamento in Dio e venir giustificate”. Se in principio l’uomo ha, fantasticamente, creato il suo Dio assolutamente libero e pieno d’amore per l’intera umanità, ora si ritrova schiavo di un terribile incubo, si ritrova incatenato alla più totale assenza d’amore. L’originario amore, indiscriminato e compassionevole, viene spodestato dal suo trono “naturale” per far posto al trionfo fanatico della guerra, sempre benedetta e santificata dalle autorità ecclesiastiche. Guerra che viene esercitata, in nome della “fede”, contro l’eventuale e immancabile “nemico” di turno (infedeli, non credenti, “rivali” di altre religioni, atei, eretici, ecc.): “l’uomo è così incatenato dalla sua opera stessa: là dove egli esprime al più alto grado la sua potenza, sperimenta la più dolorosa schiavitù, là dove afferma più libera la sua natura, là più radicalmente e dolorosamente si estrania da se stesso”. La nuova filosofia, ovvero l’interpretazione antropologica che Feuerbach propone, ha il preciso compito di liberare l’uomo da tutte le immagini del mito religioso da egli stesso creato, restituendo così all’uomo terreno e finito i suoi slanci virtuosi e le sue aspirazioni migliori, restituendo all’uomo la “potenza” della propria “vita”, la quale “nei suoi valori essenziali è di natura assolutamente divina”. Soprattutto la nuova filosofia – tramite la riduzione degli attributi divini ad attributi umani, che è appunto la metodologia specifica dell’analisi antropologica adottata dal nostro filosofo – ha il sacrosanto dovere di ridare interamente fiducia all’essere umano, affinché esso d’ora in avanti confidi esclusivamente in se stesso, senza più sentire l’irragionevole, mortificante ed estraniante bisogno di crearsi da sé 131 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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altri falsi e fantasiosi esseri ultraterreni, a cui demandare quei compiti che egli stesso può e deve compiere. Perché, non scordiamolo mai, per Feuerbach è quel “finito” che noi tutti siamo, ad essere l’“infinito”, l’illimitato, il divino. Bisogna dunque, con “ineluttabile necessità”, “innalzarci al di sopra del cristianesimo, al di sopra di ogni religione in genere”, in quanto la nuova filosofia ha finalmente dimostrato che “il contenuto e l’oggetto della religione sono assolutamente umani, che il mistero della teologia è l’antropologia, che il mistero dell’essere divino è l’essere umano”. Soltanto dopo che ci saremo riappropriati della nostra “essenza universale”, del nostro “essere assoluto”, soltanto dopo aver “praticamente” riportato il cielo in terra, il divino nell’umano, l’infinito nel finito: soltanto allora l’umanità intera e la “storia del mondo” potrà affacciarsi e scorgere all’orizzonte una “nuova èra”. La nuova èra “ha inizio con l’aperto riconoscimento che la coscienza di Dio null’altro è che la coscienza della specie; che l’uomo può e deve superare i limiti della propria individualità e personalità, ma non le leggi e gli attributi essenziali della propria specie; che l’uomo non può pensare, intuire, rappresentare, sentire, credere, volere, amare e adorare come essere assoluto e divino, alcun altro essere che l’essere umano”.

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PAGINE ANTOLOGICHE

La nuova filosofia come unità razionale di pensiero e vita L’unità di pensare e di essere ha senso ed è vera solo se l’uomo viene colto come il fondamento, il soggetto di questa unità. Solo un ente reale conosce cose reali; solo dove il pensare non è soggetto per se stesso, ma è predicato di un ente reale, solo là il pensiero non è separato dall’essere. L’unità di pensare ed essere non è quindi formale, come se al pensare in sé e per sé appartenesse, quale determinatezza, l’essere; questa identità dipende soltanto dall’oggetto, dal contenuto del pensare. E da questo deriva il seguente imperativo categorico: non voler essere filosofo differenziandosi dall’uomo: non devi essere altro che un uomo pensante; non pensare come pensatore, cioè con una sola facoltà avulsa ed isolata per sé dalla totalità della reale essenza umana, pensa come un ente reale, vivente, che, in quanto tale, è calato nelle onde vivificanti e refrigeranti del gran mare del mondo; pensa nell’esistenza, nel mondo, e come un membro di esso, non nel vuoto dell’astrazione, come una monade isolata, come un monarca assoluto, come un Dio indifferente e trascendente – ed allora tu puoi essere sicuro che i tuoi pensieri sono unità di essere e di pensare. Come sarebbe possibile che il pensare, in quanto attività di un ente reale, non cogliesse le cose e gli enti reali? Il problema logorante, inutile, ed insolubile da questo punto di vista: “Come può il pensiero cogliere l’essere, l’oggetto?” si presenta soltanto quando il pensare è fissato per se stesso, quando è separato dall’uomo. Infatti il pensiero fissato per se stesso, posto cioè fuori dell’uomo, è il pensiero che non ha alcun legame ed alcuna connessione col mondo. Tu puoi metterti in condizione di giungere all’oggetto soltanto se ti abbassi 133 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

ad essere un oggetto per un altro. Tu pensi soltanto perché i tuoi pensieri possono, a loro volta, essere pensati, ed essi sono veri solo se superano la prova dell’oggettività, se sono accettati anche da un altro, diverso da te, che li ha come oggetti; tu vedi solo in quanto sei a tua volta un ente visibile, e senti solo in quanto sei un ente sensibile. Il mondo è aperto solo per le menti aperte, e soltanto i sensi sono le porte e le finestre della mente. Ed invece il pensare isolato per sé, chiuso in sé, il pensare senza sensi, fuori dell’uomo senza l’uomo, è un soggetto assoluto che non può e non deve essere oggetto di un altro, ma che proprio per questo, e malgrado tutti i suoi sforzi, non troverà mai e poi mai il modo di arrivare all’oggetto, all’essere; come del resto una testa separata dal tronco non può trovare il modo di afferrare un oggetto, perché le mancano i mezzi, gli organi del prendere. […] La nuova filosofia fa dell’uomo, nel quale include la natura come base dell’uomo, l’oggetto unico, universale e supremo della filosofia – e fa quindi dell’antropologia, integrata dalla fisiologia, la scienza universale. […] L’unità di testa e di cuore, che è conforme a verità, non consiste nel cancellare o nell’occultare la differenze dei due termini, ma piuttosto in questo, che l’oggetto essenziale del cuore è anche l’oggetto essenziale della testa – non si afferma quindi che nell’identità dell’oggetto. La nuova filosofia, che fa dell’oggetto essenziale, dell’oggetto più alto che il cuore abbia, e cioè dell’uomo, l’oggetto essenziale e più elevato dell’intelletto, stabilisce così una unità razionale di testa e cuore, di pensare e di vita. La verità non esiste nel pensare e nel sapere per se stesso. La verità è soltanto la totalità della vita e dell’essenza umana. L’uomo singolo, preso per sé, né in quanto solo ente morale né in quanto solo ente pensante ha in sé l’essenza dell’uomo. L’essenza dell’uomo è contenuta soltanto nella comunità, nell’unità dell’uomo con l’uomo – una unità che però si fonda sulla realtà della differenza tra io e tu. La solitudine è finitezza e limitatezza, la vita in comune è libertà e infinità. […] La vecchia filosofia ha una doppia verità – la verità per se stessa, che non si preoccupa dell’uomo, cioè la filosofia, e la verità per l’uomo, cioè la religione. La nuova filosofia invece, essendo filosofia dell’uomo, è anche, per sua essenza, filosofia per l’uomo; – essa ha una tendenza eminentemente pratica, e pratica nel senso più elevato della parola, e tutto questo senza ledere la dignità e l’autonomia della teoria, anzi nel più intimo accordo con essa. La nuova filosofia prende il posto della reli134 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ludwig Feuerbach: pagine antologiche

gione, ha in sé l’essenza della religione, è in verità essa stessa religione. Le riforme fin qui tentate nella filosofia si differenziano più o meno dalla vecchia filosofia per la specie, non per il genere. La condizione ineliminabile di una filosofia realmente nuova, cioè autonoma, che corrisponda ai bisogni dell’umanità e dell’avvenire è però che essa sia differente essenzialmente, toto genere, dalla vecchia filosofia. (L. Feuerbach, La filosofia dell’avvenire, Laterza, Roma-Bari 1994, pp.190-197) La ragione, la volontà, il cuore: la nostra “essenza” La religione riposa sulla distinzione essenziale dell’uomo dalla bestia; le bestie non hanno religione. È ben vero che i più antichi naturalisti attribuivano all’elefante, fra le altre lodevoli qualità, anche quella della religiosità; ma la religione degli elefanti appartiene al regno delle favole. Cuvier, uno dei più grandi conoscitori del regno animale, basandosi su osservazioni personali, non pone l’elefante su un grado spirituale più elevato di quello del cane. Ma in che consiste questa essenziale differenza fra l’uomo e la bestia? Nella coscienza, è la risposta più semplice e universale, ed anche la più popolare – intendendo però coscienza nel significato più rigoroso della parola; poiché se intendiamo coscienza nel significato di consapevolezza di sé, di facoltà di percepire, di distinguere e perfino di giudicare gli oggetti esterni per mezzo dei sensi, una simile coscienza non può venire negata alle bestie. Abbiamo invece coscienza nel significato più rigoroso della parola quando un essere è consapevole della propria specie, della propria essenza. La bestia è consapevole di sé come individuo, ha il senso di sé stessa, ma non si conosce come specie; è priva quindi di coscienza, termine che deriva da conoscere. Dove si ha coscienza, si ha capacità di scienza. La scienza è la coscienza delle specie. […] La bestia ha perciò solo una vita semplice, l’uomo una duplice vita: nella bestia la vita interiore si identifica con quella esteriore; l’uomo invece ha una vita interiore e una vita esteriore. La vita interiore dell’uomo è la vita in relazione alla sua specie, alla sua essenza. […] Ma che cos’è quest’essenza dell’uomo, che la coscienza gli rivela, ossia che cosa costituisce la specie, la vera e propria umanità dell’uomo? 135 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

La ragione, la volontà, il cuore. Un uomo completo è dotato della forza del pensiero, della forza della volontà, della forza del cuore. La forza del pensiero è la luce della conoscenza, la forza della volontà è l’energia del carattere, la forza del cuore è l’amore. Ragione, amore, volontà sono perfezioni, sono le più alte facoltà, sono l’essere assoluto dell’uomo in quanto uomo e lo scopo della sua esistenza. L’uomo esiste per conoscere, per amare, per volere. Ma qual è il fine della ragione? è la ragione; dell’amore? l’amore; del volere? la libera volontà. Noi conosciamo per conoscere, amiamo per amare, vogliamo per volere, ossia per essere liberi. Vero essere è l’essere pensante, amante, volente. Vero, perfetto, divino è solo ciò che esiste in funzione di se stesso. Tale è la ragione, tale è l’amore, tale è la volontà. La divina trinità nell’uomo, al di sopra dell’uomo come individuo, è l’unità di ragione, amore e volontà. Di queste facoltà l’uomo non è padrone, poiché nulla egli è senza di esse, poiché egli è ciò che è solo per esse, ma quali elementi costitutivi del suo essere, che egli né possiede né crea, sono le potenze che lo animano, lo determinano, lo governano; potenze divine, assolute, alle quali egli non può opporsi. Come potrebbe l’uomo sensibile opporsi al sentimento, l’amante all’amore, il ragionevole alla ragione? Chi non ha sperimentato l’invincibile potenza della musica? Ma che cos’altro è la potenza della musica se non la potenza del sentimento? La musica è la lingua del sentimento, il sentimento che si esprime, che si comunica. Chi non ha provato la potenza dell’amore, o non ne ha almeno sentito parlare? È più forte l’amore o l’individuo? L’uomo possiede l’amore, o non è piuttosto l’amore che possiede l’uomo? Quando l’amore induce l’uomo a dare con gioia perfino la vita per l’essere amato, questa forza, che trionfa della stessa morte, è propria dell’uomo come individuo, o non è piuttosto la forza dell’amore? E se talvolta hai veramente pensato, non ti sei allora reso conto della tranquilla, silenziosa potenza del pensiero? Quando ti immergi in profonda meditazione, obliando te stesso e ciò che ti circonda, domini tu la ragione, o non sei da essa dominato e sommerso? E l’entusiasmo della scienza non è il più bel trionfo che la ragione celebra su di te? La sete di conoscere non è una forza assolutamente irresistibile, capace di tutto superare? E quando reprimi una passione, quando ti spogli da una consuetudine, in breve, quando riporti una vittoria su te stesso, questa forza vittoriosa è tua propria, o non è piuttosto l’energia del volere, la forza 136 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ludwig Feuerbach: pagine antologiche

della moralità, che con violenza si impadroniscono di te facendoti sdegnare contro te stesso e le tue debolezze di individuo? (L. Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo, Feltrinelli, Milano 1960, pp. 25-28) Dio è umano, nient’altro che umano La religione è la prima, ma indiretta autocoscienza dell’uomo. Perciò la religione precede sempre la filosofia, nella storia dell’umanità così come nella storia dei singoli individui. L’uomo sposta il suo essere fuori da sé, prima di trovarlo in sé. In un primo tempo egli è consapevole del proprio essere come di un altro essere. La religione è l’infanzia dell’umanità; il bambino vede il proprio essere, l’uomo, fuori da sé, ossia oggettiva il proprio essere in un altro uomo. Perciò il progresso storico delle religioni consiste appunto nel considerare in un secondo tempo come soggettivo e umano ciò che le prime religioni consideravano come oggettivo e adoravano come dio. Le prime religioni sono idolatrie per le religioni posteriori; queste riconoscono che l’uomo ha adorato il proprio essere senza saperlo. In ciò consiste il loro progresso, e di conseguenza ogni processo nella religione è per l’uomo una più profonda conoscenza di sé stesso. Ma ogni religione particolare che definisce idolatrie le sue più antiche sorelle, esclude sé stessa – ed invero necessariamente, altrimenti non sarebbe più religione – da questo destino, da questa natura universale della religione; soltanto alle altre religioni attribuisce ciò che rimane pur sempre – se pure in modo diverso – il vizio della religione in generale. Per il fatto di avere un altro oggetto, un altro contenuto, per il fatto di avere superato il contenuto delle religioni anteriori, immagina di essersi innalzata al di sopra delle leggi necessarie ed eterne sulle quali si fonda l’essenza di ogni religione, immagina che il suo oggetto, il suo contenuto sia soprannaturale. Ma ciò che la religione da sé stessa non può fare, cioè studiare la sua natura come un qualsiasi oggetto, può farlo il pensatore, che perciò penetra nell’essenza della religione e ne rivela ogni segreto. Il nostro compito è appunto di mostrare che la distinzione fra il divino e l’umano è illusoria, cioè che null’altro è se non la distinzione fra l’essenza dell’umanità e l’uomo individuo, e che per conseguenza anche l’ogget137 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

to e il contenuto della religione cristiana sono umani e nient’altro che umani. La religione, per lo meno la religione cristiana, è l’insieme dei rapporti dell’uomo con sé stesso, o meglio con il proprio essere, riguardato però come un altro essere. L’essere divino non è altro che l’essere dell’uomo liberato dai limiti dell’individuo, cioè dai limiti della corporeità e della realtà, e oggettivato, ossia contemplato e adorato come un altro essere a lui distinto. Tutte le qualificazioni dell’essere divino sono perciò qualificazioni dell’essere umano. […] Tu credi che l’amore sia un attributo di Dio perché tu stesso ami, credi che Dio sia un essere sapiente e buono perché consideri bontà e intelligenza le migliori tue qualità; credi che Dio esista, che egli dunque sia un soggetto o un essere […] perché tu stesso esisti, perché tu stesso sei un essere. […] L’uomo – questo è il mistero della religione – proietta il proprio essere fuori di sé e poi si fa oggetto di questo essere metamorfosato in soggetto, in persona; egli si pensa, ma come oggetto del pensiero di un altro essere, e questo essere è Dio. […] Così l’uomo in Dio attraverso Dio ha di mira solo sé stesso: indubbiamente l’uomo ha di mira Dio, ma Dio non mira a null’altro che alla salvezza morale ed eterna dell’uomo, dunque l’uomo non ha di mira che sé stesso, e l’attività divina non differisce per nulla da quella umana. D’altronde come potrebbe l’attività divina avere me a oggetto, agire in me e su me, se fosse essenzialmente diversa dalla mia, e come potrebbe avere uno scopo umano, lo scopo di migliorare l’uomo, di renderlo felice, se non fosse essa stessa umana? L’azione non è determinata dallo scopo? Se l’uomo si propone il suo miglioramento morale, ha risoluzioni divine, propositi divini; ma se Dio ha di mira la salvezza dell’uomo, ha scopi umani e di conseguenza una attività umana. Così l’uomo in Dio oggettiva unicamente la propria attività. Ma poiché considera questa attività come diversa dalla propria e poiché contempla il bene come oggetto esteriore, necessariamente anche l’impulso, lo stimolo morale lo sente proveniente non da sé stesso, ma da questo oggetto. Egli contempla il proprio essere come l’essere buono per eccellenza fuori di sé: è quindi evidente, – non è che una tautologia – che anche l’impulso al bene gli proviene unicamente di là dove ha posto il bene stesso. Dio è l’essere più soggettivo, l’essere più proprio dell’uomo, che l’uomo ha distinto e isolato da sé: dunque l’uomo non può agire da sé, dunque ogni bene proviene da Dio. Quanto più 138 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ludwig Feuerbach: pagine antologiche

Dio è soggettivo, quanto più è umano, tanto più l’uomo si spoglia della sua soggettività, della sua umanità, ma per tornare poi a farla sua. (L. Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo, cit., pp. 38-39, 43-44, 55-57) Onnipotente è la ragione Nella religione l’uomo opera una frattura nel proprio essere, scinde sé da sé stesso ponendo di fronte a sé Dio come un essere antitetico. Nulla è Dio di ciò che è l’uomo, nulla è l’uomo di ciò che è Dio. Dio è l’essere infinito, l’uomo l’essere finito; Dio perfetto, l’uomo imperfetto; Dio eterno, l’uomo perituro; Dio onnipotente, l’uomo impotente; Dio santo, l’uomo peccatore. Dio e l’uomo sono due estremi: Dio il polo positivo, assomma in sé tutto ciò che è reale, l’uomo il polo negativo, tutto ciò che è nullo. Ma, come già abbiamo detto, l’uomo nella religione ha come oggetto il suo proprio essere ignoto. Si deve dunque dimostrare che questa antitesi, questa discordanza fra Dio e uomo, da cui trae origine la religione, è una discordanza fra l’uomo e il suo proprio essere. […] Questo essere null’altro è che l’intelligenza, la ragione, l’intelletto. Dio concepito quale antitesi dell’uomo, quale essere non umano, ossia non come persona umana, è l’essenza stessa della ragione posta come oggetto, come un essere esterno all’uomo. Il puro, perfetto, completo essere divino è l’autocoscienza della ragione, la coscienza che la ragione ha della propria perfezione. […] Dio in quanto dio, ossia concepito come un essere non limitato, non umano, non materialmente determinato, non sensibile, è unicamente un oggetto del pensiero. È l’essere metafisico, inafferrabile, senza forma, senza figura, l’essere astratto, negativo, che viene riconosciuto, ossia oggettivato, soltanto attraverso astrazione e negazione (via negationis). Perché? perché non è altro che l’oggettivazione della facoltà del pensiero, ossia della facoltà o attività in genere, la si chiami come si vuole, per mezzo della quale l’uomo ha coscienza della ragione, dello spirito, dell’intelligenza. L’uomo non può credere, presentire, immaginare, pensare nessun altro spirito, ossia nessun’altra intelligenza – il concetto di spirito è unicamente il concetto di pensiero, di conoscenza, di ragione, ogni altro spirito è una creazione della fantasia – all’infuori dell’intelligenza che lo illumina, che opera in lui. Null’altro può 139 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

fare che sceverarla dai limiti della propria individualità. Lo spirito “infinito” distinto da quello finito non è perciò che l’intelligenza sceverata dai limiti dell’individualità e della corporeità – individualità e corporeità sono infatti inscindibili, - non è che l’intelligenza posta e pensata a se stessa. […] Vuoi sapere che cos’è la ragione? Dio solo te lo dirà, perché dio è la ragione che si afferma, che si esprime come sommo essere. Per l’immaginazione la ragione è la rivelazione, o una rivelazione di Dio; per la ragione invece Dio è la rivelazione della ragione, perché solo in Dio si oggettiva ciò ch’essa è, si manifesta la sua onnipotenza. […] Rigorosamente parlando, solo quando pensi Dio, tu pensi; poiché soltanto Dio è la forza del pensiero realizzata, compiuta, esaurita. Dunque pensando Dio tu pensi la ragione quale essa veramente è, anche se poi con l’immaginazione tu torni a rappresentarti Dio come un essere distinto dalla ragione. […] Nell’infinità dell’essere divino non fai che rappresentare in forma sensibile l’infinità della tua intelligenza. Quindi dichiarando questo essere infinito fra tutti il più essenziale, l’essere sommo, in realtà non fai che dichiarar questo: la ragione è l’être suprème, l’essere sommo. La ragione è inoltre l’essere autonomo e indipendente. Dipendente e subordinato è ciò che è privo d’intelligenza. Un uomo privo di intelligenza è anche un uomo privo di volontà. Chi non ha intelligenza si lascia sedurre, accecare, lascia che altri si servano di lui come mezzo. Come potrebbe agire con una propria volontà colui che nel pensiero è strumento d’altri? Solo chi pensa è libero e autonomo. Solo mediante l’intelligenza l’uomo riduce gli esseri estranei e inferiori a sé a puri mezzi della sua esistenza. Autonomo e indipendente è insomma unicamente ciò che è fine a sé stesso, ciò che è a sé stesso oggetto. Ciò che è fine e oggetto a sé stesso, appunto per ciò non è più un mezzo né un oggetto di un altro essere. […] La ragione quale somma di tutte le realtà – infatti che cosa sono tutte le meraviglie dell’universo senza la luce e che cos’è la luce esteriore senza luce interiore? – la ragione è l’essere più indispensabile, l’esigenza più profonda e più essenziale. Solo la ragione è l’esistenza consapevole di sé; solo nella ragione si manifesta lo scopo, il significato dell’esistenza. La ragione è l’essere che si oggettiva quale scopo assoluto, quale scopo finale di tutte le cose. Ciò che è oggetto e scopo a se stesso è l’essere sommo, l’essere ultimo; ciò che è padrone di se stesso è onnipotente. (L. Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo, cit., pp. 61-67, 71) 140 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Ludwig Feuerbach: pagine antologiche

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La fede è dispotica, l’amore libertà L’essenza segreta della religione è l’unità dell’essere divino e dell’essere umano; ma la forma della religione, ossia la sua natura apparente, manifesta, è la loro distinzione: ossia, Dio è l’essere umano, ma viene conosciuto come un altro essere. Orbene, l’amore rivela l’essenza segreta della religione, la fede invece fissa la religione nella sua forma risaputa. L’amore identifica l’uomo con Dio e Dio con l’uomo, e quindi unisce gli uomini fra di loro; la fede separa Dio dall’uomo, quindi anche l’uomo dall’uomo; Dio infatti null’altro è che il concetto della specie, dell’umanità, espresso in forma mistica, perciò la separazione di Dio dall’uomo è la separazione dell’uomo dal suo simile, l’abolizione del vincolo comune. Con la fede la religione si pone in contraddizione con la morale, con la ragione, con il semplice senso della verità insito nell’uomo; con l’amore invece cerca di ristabilire l’accordo. La fede isola Dio, fa di lui un essere particolare, un essere diverso; l’amore generalizza, fa di Dio un essere universale, il cui amore si identifica con l’amore per l’uomo. La fede pone in intima discordia l’uomo con sé stesso, e di conseguenza anche con gli altri uomini; l’amore invece sana le ferite che la fede apre nel cuore dell’uomo. La fede si erige a legge, l’amore invece è libertà; non condanna neppure l’ateo, perché egli stesso è ateo, perché egli stesso, se non in teoria almeno praticamente, nega l’esistenza di un dio particolare, contrapposto all’uomo. La fede separa: questo è vero, questo è falso, e pretende che la verità sia un suo possesso esclusivo. La fede possiede una verità determinata, particolare, perciò porta necessariamente in sé la negazione di tutte le altre; la fede è per sua natura esclusiva: non vi è che una sola verità, non vi è che un Dio, un essere soltanto ha il diritto di monopolizzare il titolo di figli di Dio; tutto il resto è nulla, errore, menzogna. […] La fede è essenzialmente precisa, determinata. Soltanto in questa determinatezza Dio è il vero Dio. Questo Gesù è Cristo, il vero, l’unico profeta, il figlio unigenito di Dio. E in questo oggetto determinato devi credere, se non vuoi giocare la tua eterna beatitudine. La fede è dispotica. È perciò necessario, è insito nell’essenza stessa della fede, il formularsi come dogma. Il dogma non fa che esprimere ciò che già originariamente è implicito nella fede. […] Una precisione dogmatica, esclusiva, scrupolosa, è connaturata alla fede. Può essere liberale, larga 141 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

di idee per quel che riguarda questioni indifferenti, ma non quando si tratta di ciò che è materia di fede. Chi non è per Cristo è contro Cristo; ciò che non è cristiano è anticristiano. Ma che cosa è cristiano? Ciò deve venir definito con la massima precisione, non può esser lasciato in balìa dell’arbitrio. Quando la materia di fede è depositata in libri compilati da autori diversi, sotto forma di narrazioni o di sentenze incoerenti, spesso contraddittorie e occasionali, la delimitazione e la precisazione dogmatica divengono, anche materialmente, necessarie. Il cristianesimo deve la sua continuità unicamente alla dogmatica della Chiesa. […] La Chiesa ha il pieno diritto di condannare i seguaci di altre religioni o gli increduli in genere, poiché questa condanna è insita nell’essenza della fede. In un primo momento la fede appare soltanto come una separazione senza prevenzioni dei fedeli dagli infedeli; ma questa separazione è una distinzione critica. Il credente ha dalla sua parte Dio, l’infedele ha Dio contro di sé; soltanto come possibile credente non ha Dio nemico, e su questo principio ci si fonda per esigere da lui che abbandoni lo stato di incredulità. Chi ha Dio contro di sé, è per ciò stesso insussistente, ripudiato, condannato, poiché chi ha contro di sé Dio, è esso stesso contro Dio. Credere è sinonimo di essere buono, non credere, di essere malvagio. La fede, limitata e prevenuta, sposta tutto nelle intenzioni. L’incredulo è incredulo per ostinazione, per malvagità, è un nemico di Cristo. La fede perciò accoglie soltanto i fedeli, respinge gli infedeli. Verso i fedeli è buona, ma malvagia verso i miscredenti. Nella fede è insito un principio malvagio. […] Benedetto, caro a Dio, partecipe dell’eterna beatitudine è il credente; maledetto, ripudiato da Dio e respinto dagli uomini, è l’incredulo; poiché ciò che Dio condanna non può essere assolto dall’uomo: sarebbe un criticare il giudizio divino. I maomettani sterminano gli infedeli col ferro e col fuoco, i cristiani con le fiamme dell’inferno; e le fiamme dell’inferno irrompono anche su questa terra per rischiarare la notte del mondo incredulo. Come il credente già in questa vita pregusta le gioie del cielo, così bisogna che, almeno nei momenti di esaltazione religiosa, divampino i roghi dell’inquisizione per dare all’infedele un’anticipazione del fuoco dell’inferno. (L. Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo, cit., pp. 295-301)

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Max Stirner

Dio e l’umanità hanno fondato la loro causa su nulla, su null’altro che se stessi. Allo stesso modo io fondo allora la mia causa su me stesso, io che, al pari di Dio, sono il nulla di ogni altro, che sono il mio tutto, io che sono l’unico.[…] Io non sono nulla nel senso della vuotezza, bensì il nulla creatore, il nulla dal quale io stesso, in quanto creatore, creo tutto. Lungi da me perciò ogni causa che non sia interamente la mia causa! Voi pensate che la mia causa dovrebbe essere almeno la “buona causa”? Macché buono e cattivo! Io stesso sono la mia causa, e io non sono né buono né cattivo. L’una e l’altra cosa non hanno per me senso alcuno. Il divino è la causa di Dio, l’umano la causa “dell’uomo”. La mia causa non è né il divino né l’umano, non è ciò che è vero, buono, giusto, libero, ecc., bensì solo ciò che è mio, e non è una causa generale, ma – unica, così come io stesso sono unico. Non c’è nulla che mi importi più di me stesso. Stirner

Max Stirner: vita e opere Max Stirner, pseudonimo di Johann Kaspar Schmidt datogli dagli amici per la sua fronte alta (stirn, fronte), nasce a Bayreuth il 25 ottobre 1806. Della sua vita si hanno 143 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

poche notizie frammentarie. Studia filosofia, teologia e filologia presso l’Università di Berlino, dove è allievo di Hegel. Nel 1839 ottiene la cattedra di letteratura in una scuola per ragazze d’alta borghesia, e comincia a frequentare, sempre a Berlino, il circolo intellettuale dei liberi, “Die Freien”, cui partecipavano, tra gli altri, Bruno Bauer, Ludwig Feuerbach, Friedrich Engels e Karl Marx. Nel frattempo dà inizio alla stesura di quella che diventerà la sua opera principale, L’unico e la sua proprietà. Sommerso dai debiti, morì in circostanze misteriose a Berlino il 26 giugno 1856. L’offesa blasfema Con Max Stirner, assistiamo ad un pensiero originale, ardito e polemico. Possiamo considerare la sua opera principale, L’unico e la sua proprietà1, senza timore di esagerare, come una delle più scandalose e “offensive” della filosofia in generale. I ripetuti sequestri dell’opera in questione messi in atto dalle autorità prussiane a suo tempo (1844), in qualche modo sta a confermare quanto detto. Le suddette autorità motivarono il sequestro con queste parole: “Poiché non solo in singoli passi di tale scritto Dio, Cristo, la Chiesa e la religione in genere vengono trattati con la più irriguardosa blasfemia, ma anche tutto l’assetto sociale, lo Stato e il governo vengono definiti come qualcosa che non dovrebbe più esistere, mentre la menzogna, lo spergiuro, l’assassinio e il suicidio vengono giustificati e il diritto di proprietà viene negato”. Oltre a queste forti censure statali, si dibatté a lungo, negli ambienti filosofici, se davvero si dovesse riservare un posto nella “storia

1   Le citazioni di quest’opera sono tratte da: M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano 2009.

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Max Stirner

della filosofia” ad un pensiero così “degenerante”, definito come un “sistema del più rozzo egoismo” per di più “estremo e pazzo” e il cui “brutale”, “eretico”, “pirata”, “malvagio”, “diabolico” e “farneticante” autore era da considerare come un essere “fiacco e ignorante”, tipicamente sofista e fondamentalmente “stupido”. Tocchiamo un punto nevralgico e, se vogliamo, problematico: come e, soprattutto, in base a quale criterio possiamo e dobbiamo distinguere un filosofo da un non-filosofo? Tentare di dare una risposta a tale enigma richiederebbe approfondite e lunghe analisi, che qui non intendiamo affrontare, ma ciò non toglie che l’autore di quest’opera, come suo personale criterio di scelta, si rifà, con piena convinzione, alle parole che, nel capitolo su Schopenhauer, abbiamo scritto in calce. Filosofo è chi ha “il coraggio di non serbare nel proprio cuore nessuna domanda”, è colui che mal si accontenta delle piccole e sbrigative risposte preconfezionate della tradizione o della moda del tempo, e chi, attraverso le sue opere, stimola alla riflessione e alla contemplazione anche noi semplici lettori o studiosi, facendo sorgere in noi se non le stesse questioni di quel dato filosofo, qualche importante e coraggiosa domanda intorno a temi che non si erano mai posti alla nostra attenzione. E L’unico di Max Stirner, se affrontato senza pregiudizi e preconcetti di sorta e soprattutto se letto integralmente, non può non farci sorgere delle domande determinanti e pressoché inevitabili. Chiarito ciò, vediamo come Stirner di solito venga etichettato come un neo-hegeliano di “sinistra”. Se, in effetti, la sua formazione filosofica si svolse a Berlino, dove seguì i corsi universitari tenuti dallo stesso Hegel, la sua filosofia, però, a fatica rientra in ambiti e correnti specifici. Possiamo anzi intendere la sua opera come il tentativo di seppellire, una volta per tutte, l’intera filosofia. In special modo il linguaggio universalizzante e oggettivante dell’idealismo, come quello di molti altri filosofi, viene duramente schernito e sarcasticamente sbeffeggiato, senza nessun tipo di ri145 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

serva o timore referenziale. Il pensiero stirneriano, inoltre, viene spesso associato al movimento anarchico-libertario – ossia a quel pensiero eminentemente “politico” che vedeva nell’assenza di un’autorità statale, l’unica possibilità per la realizzazione effettiva di un ordine sociale fondato sull’autonomia e la libertà degli individui – e più precisamente alla famiglia degli “anarchici individualisti”. A tal proposito v’è da notare che nella sua opera principe, il termine “anarchia” viene a malapena nominato e che a differenza degli altri padri fondatori dell’anarchismo – quali sono Bakunin, Proudhon e Kropotkin – egli non si dedicò mai ad una qualche attività politica, anche se, per la verità, della sua vita si hanno pochissime notizie. Altra questione da notare é il pressoché totale silenzio riguardante l’opera di Stirner da parte dei grandi filosofi contemporanei. Le poche eccezioni rintracciabili riguardano esclusivamente coloro che si scagliarono violentemente contro le sue idee “criminali”, insulse e “vuote”, come fecero Marx , Engels e Feuerbach. Ciò non toglie che il pensiero di Stirner abbia notevolmente influenzato autori come Nietzsche, Kierkegaard, Heidegger e altri ancora. All’interesse di questi filosofi, posto com’è sull’“individualità” e sul “singolo”, non poteva certo sfuggire la lettura de L’unico, ossia del più grande monumento speculativo che sia mai stato eretto nei confronti della persona umana considerata come unica, insormontabile, strapotente e invincibile. Visto la povertà di giudizi positivi che l’opera stirneriana suscitò, sembra giusto, dopo tante denigrazioni, ricopiare almeno un parere positivo in queste nostre pagine, e lo facciamo citando alcune parole del russo Aleksej Chomjakov, il quale considerava L’unico come la “ più totale e definitiva protesta della libertà spirituale contro ogni vincolo arbitrario e imposto dall’esterno. È il grido di un’anima per la verità immorale, ma immorale solo perché priva di ogni appoggio morale, di un’anima impegnata infaticabilmen146 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Max Stirner

te, benché inconsciamente, a proclamare la possibilità di sottomettersi a un principio di cui abbia preso coscienza e in cui abbia creduto; insorta con indignazione e odio contro le pratiche quotidiane dei ‘sistematizzatori’ occidentali, i quali non credono, ma esigono la fede, creano arbitrariamente dei vincoli e si attendono che gli altri vi si adattino umilmente.” Codesto grido stirneriano, immorale, “inumano” e colmo d’inaudito disprezzo, così sentenzia: “Io voglio soltanto essere io; io disprezzo la natura, gli uomini e le loro leggi, la società umana e il suo amore, e recido ogni rapporto generale con essa, perfino quello del linguaggio. A tutte le pretese del vostro dovere, a tutte le designazioni del vostro giudizio categorico contrappongo l’‘atarassia’ del mio io; e già faccio una concessione, se mi servo del linguaggio, io sono l’‘indicibile’, ‘io mi mostro soltanto’. E non ho forse, col terrorismo del mio io, che respinge tutto ciò che è umano, altrettanta ragione di voi col vostro terrorismo umanitario, che mi marchia subito quale ‘mostro inumano’, se commetto qualcosa contro il vostro catechismo, se non mi lascio disturbare nel mio godimento di me stesso?”. Reale e ideale, antico e moderno Che Stirner intenda contestare tutti i sistemi filosofici, va inteso tenendo presente la sua feroce critica contro il “pensiero” e lo “spirito” e quindi contro la “ragione” in generale. Confrontando l’infanzia con la giovinezza, Stirner paragona il fanciullo a colui che non si preoccupa affatto della “ragione” (“buoni motivi”, “princìpi”, ecc.). Da fanciulli “corriamo qua e là senza lambiccarci tanto il cervello” ed impariamo i rapporti materiali che intercorrono tra le cose in modo “meccanico”. Al contrario il giovane, che rappresenta l’uomo razionale , cioè l’uomo “spirituale”, è colui che “cerca d’impadronirsi non delle cose, ma dei pensieri 147 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

che si nascondono dietro le cose”. L’uomo razionale è colui che ascolta e segue esclusivamente la propria “coscienza”, le sue azioni si conformano esattamente ai suoi pensieri, che non sono altro che “idee, rappresentazioni, credenze”. I “pensieri” dell’uomo spirituale sono “incorporei, astratti, assoluti, cioè nient’altro che pensieri, un cielo a sé, un puro mondo di pensieri, di pensieri logici”. Il fanciullo può essere considerato come un realista imprigionato nel mondo, mentre il giovane, al contrario, è un idealista che si entusiasma solo dei pensieri, spregiando a sua volta tutto ciò che non è spirituale, e quindi spregiando il mondo stesso. Proseguendo l’analogia, Stirner paragona gli “antichi”, ossia i nostri antenati precristiani e pagani, ai bambini realisti, e i “moderni” ai giovani idealisti seguaci del Cristo, considerato come “l’innovatore rivoluzionario” che separa nettamente l’antichità dalla modernità. Gli antichi “vivevano nel sentimento che il mondo e le relazioni mondane fossero il vero, davanti a cui il loro io impotente doveva piegarsi”. Mentre per i cristiani, ossia per gli uomini moderni, il mondo è vano, caduco, falso, né possiede alcun valore. Per gli antichi la natura, le cose e i legami terreni (famiglia, comunità, patria, ecc) rappresentano la verità inconfutabile dinnanzi a cui piegarsi, mentre per i moderni solo lo spirito e i legami “celesti” possiedono inconfutabile verità, cosicché “per ciascuna delle due parti vale come verità il contrario di ciò che vale per l’altra”. Questo passaggio da una presunta verità all’altra non è da considerarsi come casuale, accidentale o fortuito, perché sono stati gli stessi uomini dell’antichità a rendere possibile il passaggio alla modernità. Ciò fu possibile perché gli antichi, soprattutto con la “cultura scettica”, diventarono sempre più indifferenti, incuranti e privi di rapporti col mondo (realtà), arrivando a conoscersi come uomini “senza rapporti e senza mondo”, ossia a conoscersi come puro “spirito”: “Lo spirito infatti non ha corpo né relazione alcuna col mondo e con la corporeità: per lui non esistono né il mondo né i legami 148 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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naturali, ma solo ciò che è spirituale e i legami spirituali”. Lo stesso Cartesio, considerato a ragione come il fondatore della filosofia moderna, non fa altro che confermare questa tesi, in quanto, col celeberrimo “penso, cioè: sono” (cogito ergo sum), attesta che solo “il pensare è il mio essere, la mia vita”, “solo se io vivo spiritualmente, vivo davvero”, “solo come spirito sono reale”, il che vuol dire che “io sono spirito fino in fondo e nient’altro che spirito”. L’uomo spirituale (l’uomo moderno), “quest’eredità degli antichi”, è dunque colui che ha superato il mondo e tutto ciò che è concreto, mondano e materiale; è colui che è giunto al di là delle cose e si è liberato dai legami naturali, ed è ormai “libero e trascendente”. Ma io, in quanto essere umano, non posso essere, o meglio, non sono unicamente spirito, non sono un essere puramente e assolutamente spirituale, ma posseggo anche un corpo concreto e materiale. Ne viene che questo “puro spirito” ho da cercarlo al di fuori di me, “giacché un uomo non può assolutamente dissolversi del tutto nel concetto di ‘spirito’. Il puro spirito, lo spirito come tale, non può essere che fuori degli uomini, al di là del mondo umano, non in terra, ma in cielo”. Lo spirito “è qualcos’altro da me. Ma che cos’è mai questo qualcos’altro?”. Il mondo si è rovesciato, ed è divenuto un manicomio Per i moderni il mondo, e di conseguenza tutto ciò che lo riguarda, è vano e vacuo e “parvenza accecante”. Esso è un corpo illusorio dietro il quale si cela l’unica verità che è lo “spirito”, che è “libero”, “unico signore” e “assoluto”. Da quando il mondo si è spiritualizzato, per Stirner, questo stesso mondo è divenuto uno “spettro”, un “fantasma”, uno “spirito”. La parte più importante e “veramente esistente” delle cose, è divenuta solo la loro “parte interna”, l’essenza intima, la loro “idea” generale. Esiste, dun149 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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que, qualcosa di superiore rispetto allo stesso mondo e alle cose singole (oggetti e persone): lo “spirito” è la sola verità. In modo analogo, l’“umanità” (“l’uomo”) è divenuta l’essenza del singolo, ossia l’umanità è ciò che si staglia in modo superiore rispetto ad ogni singola persona, così come “l’essenza dell’animo umano è l’amore, l’essenza della volontà umana è il bene e quella del pensiero umano è la verità, e così via”. Esclusivamente la verità, il diritto, la legge, la buona causa, la maestà, il matrimonio, il bene comune, l’umanismo, la moralità, la legalità, la cristianità, l’ordine, la patria, ma innanzitutto lo “Spirito Santo” (Dio), rappresentando le essenze spirituali e ideali del tutto, sono divenuti gli unici “esseri” (sacrosanti). “Sprofondino i monti, appassiscano i fiori, crolli l’universo, muoiano gli uomini – che importa la rovina di questi corpi visibili? Lo spirito, l’‘invisibile’, rimane in eterno!”. Questi ideali intramontabili, queste essenze eterne, rappresentando ciò che vi è di “superiore” rispetto a tutto il resto, agli occhi di Stirner, non sono altro che “idee fisse”, delle fissazioni, delle manie. Gli uomini che sono ossessionati e “invasati” da codeste superiorità ideali, sono da considerare “completamente matti, matti da manicomio”. Tutte queste “follie”, essendo ormai credute e venerate dall’intera umanità, hanno fatto sì che il mondo stesso si sia ribaltato, capovolto, totalmente rovesciato, trasformandosi in un immenso manicomio. “Un povero matto del manicomio è convinto, nel suo delirio, di essere Dio padre o l’imperatore del Giappone o lo Spirito Santo, ecc.; un bravo borghese è convinto di essere chiamato ad essere un buon cristiano, un protestante credente, un cittadino fedele, un uomo virtuoso, ecc. – bene, nell’un caso come nell’altro si tratta esattamente della stessa cosa: di un’‘idea fissa’ ”. L’umanità è fondamentalmente divisibile in ossessionati dalla “fede religiosa”, che teorizza la “santità di Dio”, e in ossessionati dalla “fede morale”, che teorizza la “santità del Bene”, ma in entrambe queste fedi l’essenza non 150 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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cambia, perché entrambe parlano di santificare e venerare qualcosa di assolutamente superiore ed esterno ad ogni singola persona. Che poi questo “essere superiore” sia Dio o il Bene, che sia qualcosa di divino o di umano, riguarda sempre e soltanto una questione di “fede”, di adorazione e di devozione: “gli uni e gli altri sono credenti”, gli uni e gli altri sono sottomessi a qualcos’altro da loro. Detto in altri termini, la religione (Dio, sovrumano) e la moralità (Bene, morale), seppur nel corso della storia si siano spesso contrastate, “concordano sul punto fondamentale”: “entrambe trattano con un essere supremo”, e poco importa se tale “essere” sia “umano o sovrumano, poiché in ogni caso è un essere al di sopra di me, per così dire un essere sovramio”. La loro intimità essenziale è così forte, che una volta che la moralità dell’uomo abbia cancellato e rotto qualunque legame con quell’essere sovrumano rappresentato da Dio, non si avrà per conseguenza la soppressione della religione, come alcuni filosofi credevano (specialmente Feuerbach), bensì la moralità, così perfezionata. La moralità, emancipandosi dalla sua posizione subordinata rispetto al divino, non farà altro che affermare quanto l’essere supremo sia ora solo “l’uomo”. In questa maniera “l’uomo”, raggiungendo la “supremazia assoluta”, diviene ciò a cui ci si deve sottomettere, onorare e venerare devotamente: “l’uomo” diventa il “nuovo signore”. È importante capire che per Stirner, “chi si esalta per l’uomo non considera, finché dura la sua esaltazione, le persone e nuota in un interesse ideale, sacro. L’uomo, infatti, non è una persona, ma un ideale, un fantasma”. “L’uomo” e Dio rappresentano, dunque, due facce di una stessa medaglia, e quest’unica medaglia assume i caratteri tipici del “sacro”, verso il quale bisogna riservare un “sacro timore”. Il concetto stesso di “sacro” implica che “si consideri qualcosa di esterno più potente, più grande, più giusto, migliore, ecc., cioè che si riconosca una potenza estranea, non che la si senta solamente, ma che la si riconosca 151 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

esplicitamente, cioè la si ammetta, ci si ritiri, ci si conceda prigionieri e ci si lasci legare (dedizione, umiltà, sottomissione, sudditanza, ecc.)” La filosofia dei fantasmi e il più grande spettro Per Stirner, la ragione, il pensiero, l’idea, la rappresentazione, in una parola lo “spirito”, è ciò che rende possibile il “sacro” e il conseguente “sacro timore” che noi individui, ormai totalmente sottomessi, rivolgiamo nei confronti di determinati ideali eterni quali sono lo Stato, la Chiesa, Dio, il Bene, l’uomo, la moralità, l’ordine, ecc., che sono da considerare come quei “pensieri o spiriti che esistono solo per lo spirito”, e non nel mondo terreno. Se “i pensieri sono il sacro”, chi meglio di Hegel, con la sua teoria dell’assolutezza dello “Spirito” (Logos, Idea, Ragione), confermò una volta per tutte la sottomissione completa a tale entità puramente ideale? Per Hegel, “al pensiero deve corrispondere perfettamente la realtà, il mondo delle cose, e nessun concetto dev’essere privo di realtà”. Il che significa che il pensiero (lo spirito), combaciando perfettamente con la realtà tutta, arriva ad essere concepito come ciò che detiene il dominio esclusivo su ogni cosa del mondo e quindi sul mondo stesso. Il complesso sistema hegeliano non rappresenta altro, agli occhi di Stirner, che il culmine inevitabile della filosofia degli ideali, della filosofia dei fantasmi, in quanto, teorizzando il “trionfo dello spirito”, di quest’ultimo ne attesta inesorabilmente la tirannica e definitiva “onnipotenza”. Fu lo stesso Hegel colui che, portando al massimo sviluppo le speculazioni introdotte da Cartesio – il quale, lo ribadiamo, iniziò il suo discorso filosofico dubitando su tutto ciò che il singolo uomo può conoscere immediatamente – portò a compimento quell’allontanamento sistematico da tutto ciò che non è legittimato dallo “spirito” e dunque dal “pensiero”. Si ricordi, per fare un esem152 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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pio, come Hegel considerava la Natura (i corpi, la materia), da esso ritenuta come il lato antitetico e morto e quindi cadaverico dell’Idea Assoluta. Si ricordi la pretesa di negare e dissolvere ogni individualità umana in nome dell’universalismo del pensiero, perché “solo il razionale è reale”. Con Hegel assistiamo, dunque, alla vittoria definitiva della ragione, dello spirito, del pensiero: “tutto è spirito perché tutto è razionale; tanto l’intera natura quanto le più assurde opinioni degli uomini contengono la ragione, infatti ‘ogni cosa agisce necessariamente per il meglio’, cioè contribuisce alla vittoria della ragione”. Ciò che viene affermato è il dogma spirituale del “si vive solo se si pensa”, o ancora, “solo il pensiero, nell’uomo come nella natura, vive; tutto il resto è morto!”. Affermare ciò non significa altro che credere nell’assurdità, inaccettabile per chi abbia ancora conservato un po’ di buon senso e non si sia quindi ammattito e perso nelle astrazioni della ragione, che “soltanto gli spettri sono veramente vivi”. Per Hegel “i concetti devono decidere in ogni cosa, i concetti devono regolare la vita, i concetti devono dominare” : tutto deve essere religiosamente sottomesso alla ferrea e sistematica legge dei concetti, dei pensieri, degli “spiriti”, dei “fantasmi”. Il più grande e possente “spettro”, e quindi il più grande peso opprimente e inquietante, è soprattutto lo Stato, considerato nelle sue due accezioni particolari, “liberale” e “comunista”. Già la filosofia dell’illuminismo, sorta all’inizio dell’800, aveva strenuamente combattuto per allontanare dalle speculazioni filosofiche tutto ciò che non rientrava sotto il dominio dei “lumi” della ragione. Principalmente la filosofia dell’illuminismo si era scagliata contro quelle derive superstiziose e ultraterrene, cioè contro quelle credenze strettamente religiose e mistiche, le quali non potevano avere il diritto di rientrare in un discorso epistemico assoluto e scientifico, in quanto si basavano esclusivamente sulla “fede personale”, la qual cosa impediva di far assumere ai diversi e contrastanti dogmi delle varie religioni i 153 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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caratteri di un’unica e solida verità speculativa. Per Stirner, però, codesto “superamento di Dio”, inaugurato appunto dall’illuminismo e portato a termine dall’idealismo di Hegel – definito come il “filosofo della borghesia” – , il quale dà inizio all’“epoca propriamente politica”, non ha portato altra conseguenza che quella bizzarra di erigere al posto del Dio ultraterreno, oscuro e imperscrutabile, un “altro Dio”. Questo nuovo “essere superiore”, è un “Dio” totalmente terreno, che appartiene al mondo, ed è lo Stato, l’insuperabile, il “tutto in tutto”: d’ora in avanti “il valore umano del singolo consiste nell’essere un cittadino dello Stato”, e in nient’altro. Ognuno deve, da buon cittadino, dedicarsi con “entusiasmo” e dedizione al “bene comune” e perseguire l’“interesse generale di tutti”, essendo lo Stato (o la “nazione”: unità di più Stati), per definizione, una comunità di uomini liberi e assolutamente uguali tra loro, i quali fanno dello Stato “il proprio fine e il proprio ideale” assoluto e supremo. Il cittadino fa dello Stato “una causa tanto seria da essere santa, la sua causa del cuore, la sua causa principale, la sua propria causa”, in cambio della libertà politica e individuale che tale Stato gli promette di offrire. Essere cittadino di uno Stato significa che ciò “ che mi è permesso o non mi è permesso non dipende dalla decisione personale di un altro”, ossia, in quanto cittadino, io non sono legato e vincolato in nessun modo alla volontà di un’altra persona che decide per me e che mi comanda. In quanto cittadino, sono libero da ogni forma di sudditanza, non dipendo da un altro uomo, e le mie azioni dovranno conformarsi esclusivamente alle leggi e ai doveri dello Stato a cui appartengo. Questa presunta “libertà limitata” dei cittadini dello Stato, per Stirner, non è altro che l’ennesima illusione, l’ennesimo abbaglio, l’ennesima beffa, perché, pur essendo garantiti e difesi dallo Stato, che si mobilita affinché i suoi cittadini non siano più comandati da singoli uomini (tiranni, despoti, schiavisti, ecc.), questi stessi cittadini non si trovano affatto liberi dall’essere co154 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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mandati e sottomessi. Tale asservimento non si svolge più tra schiavo e padrone, tra singolo e singolo, bensì è ora la ferrea azione legislativa dello Stato, del “dominatore impersonale” voluto dalla “borghesia”, ciò che detiene la forza e il potere del comando e dell’oppressione: “ci siamo sì liberati dai comandi e ‘nessuno può comandarci niente’ ma tanto più sottomessi siamo ora, in compenso, nei confronti della – legge”. Ciò che comanda e costringe l’individuo è ora lo Stato stesso, il nuovo fantasma legale, la nuova forma della sottomissione che ordina a tutti: – di sacrificarsi al lavoro per giovare all’umanità intera e per favorire “il progresso storico, cioè umano, umanitario”; – di rispettare le leggi e chi legifera, a meno che non si voglia finire nelle galere statali; – di andare in guerra e morire con onore per difendere la propria patria, per la “buona causa”, per l’indiscutibile “ragione” dello Stato; – di onorare e venerare con entusiasmo l’illuminata verità dei diritti umani. La questione, agli occhi di Stirner, non appare affatto cambiata: anche nello Stato la singola persona non è “libera”, né tantomeno autonoma. Solo ritornando ad essere ciò che ogni singola persona è sempre stata e sempre sarà, si potrà ribaltare tale situazione fantasmatica e opprimente. Solo tornando ad essere un puro egoista, il singolo individuo potrà essere il detentore indiscusso della propria incontestabile unicità. L’unico che io sono Per Stirner, “lo Stato, la religione, la coscienza, questi tiranni mi rendono schiavo e la loro libertà è la mia schiavitù”. L’uomo, quanto più crede d’essere libero, come cittadino, come figlio di Dio e come uomo dotato di coscienza 155 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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razionale, tanto più viene sovrastato da costrizioni di fronte alle quali si sente sempre più impotente. Questa libertà tanto agognata e invocata, in realtà, riguarda solo l’aspetto della “privazione” e mai quello della “proprietà”. Essere libero significa “essere libero da qualcosa”, “esserne privo” o “esserne sbarazzato”, così come, per esempio, quando dico che “sono libero dal mal di testa” significa che mi sono sbarazzato del mal di testa o che ne sono sempre stato privo. Tra la libertà e l’individualità propria (proprietà) c’è dunque una differenza notevole: “la libertà vive solo nel regno dei sogni”, perché per quanto ci si possa liberare (sbarazzare) di molte cose, in realtà non si sarà mai totalmente liberi. Al contrario di ciò, “la mia propria individualità è tutto me stesso: la mia essenza e la mia esistenza, sono io stesso. Io sono libero da ciò di cui mi sono sbarazzato, privato, ma sono proprietario di ciò che è in mio potere o di ciò che posso. Mio proprio lo sono in ogni momento e in qualsiasi circostanza, purché io sappia restare padrone di me e non mi getto in pasto ad altri”. Considerato in questi termini, il singolo individuo capace di non cadere in pasto ad altri (uomini, déi, idoli, ideali), sarà “misura” e “criterio” di ogni cosa, l’unico centro d’ogni decisione come d’ogni sua attività. Lo stesso Dio, così come lo intendono i cristiani, ha sempre agito per impulso proprio, “senza chiedere consiglio a nessuno”, e così anche io farò. Io che ho in me stesso la mia legge e che farò esclusivamente ciò che piace a me, senza più comportarmi come vuole Dio, lo Stato, la morale, l’umanità: mi comporterò da perfetto egoista. A ben guardare “coloro per la cui causa noi dobbiamo lavorare, sacrificarci ed entusiasmarci” - ossia “la causa di Dio, la causa dell’umanità, della verità, della libertà, della filantropia, della giustizia, […] del mio popolo, del mio principe, della mia patria, […] la causa dello spirito e mille altre cause ancora” – non agiscono e non si preoccupano altrimenti che delle loro cause, non si occupano che dei loro 156 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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“interessi” egoistici, non si interessano che del loro bene e mai del nostro. Per Stirner “i doveri verso Dio, la coscienza, i princìpi, le leggi, ecc., sono solo frottole di cui vi hanno riempito la mente e il cuore, facendovi ammattire”, e coloro i quali (“preti”, “professori”, “genitori”, “persone per bene”) ci hanno fin da bambini inculcati queste “frottole”, sono da considerare come “i veri seduttori e corruttori della gioventù, che seminano diligentemente la gramigna del disprezzo di sé e della venerazione di Dio, che insozzano i cuori dei giovani e inebetiscono le loro menti”. Pertanto, “piuttosto che continuare a servire disinteressatamente quei grandi egoisti, voglio essere l’egoista io stesso”, voglio tornare ad essere ciò che millenni di civiltà hanno oscurato portandomi a credere che gli uomini sono chiamati “a diventare idealisti” e “uomini dabbene”. Per attuare tale ritorno bisogna, anzitutto, impegnarsi a capire non che cosa è “l’uomo”, o il suo fine, il suo compito, la sua “vocazione”, la sua “destinazione”, la sua missione, bensì bisogna cercare solo noi stessi, bisogna diventare perfetti egoisti, divenire un “io onnipotente”. Solo tornando a riconoscerci in ciò, riconosceremo quel che siamo veramente e abbandoneremo le nostre “ispirazioni ipocrite” e la nostra “stolta mania” d’essere qualcos’altro (cittadini, fedeli, patrioti, idealisti, ecc.) da quel che realmente siamo (egoisti). L’ipocrita è colui che fa finta d’essere altro da ciò che è. Ogni persona, in tutto ciò che fa, in realtà, si comporta sempre da egoista, ma, siccome aspira affannosamente ad essere altro da ciò che è, appare, dunque, come un egoista addormentato, un ingannatore di sé, un alienato da sé, un fustigatore di sé, uno che mente a se stesso: appare come un perfetto ipocrita. In tutto quello che facciamo traspare un “egoismo inconfessato, segreto, mascherato e nascosto”, come quando ci professiamo disinteressati e contriti fedeli di una religione e affermiamo di “fare il bene per amore del bene” e 157 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

per nient’altro. In realtà non cerchiamo altro che il nostro egoistico tornaconto, la ricompensa promessaci e l’interesse esclusivamente personale, che in questo caso si traduce con la sperata “beatitudine eterna” o l’agognata “immortalità dell’anima” o il bramato “paradiso celeste”, ecc. “Ma siccome si tratta di un egoismo che non volete confessare neppure a voi stessi, che nascondete a voi stessi, insomma di un egoismo non aperto o manifesto, ma inconsapevole, non è in fondo egoismo, ma schiavitù, servitù, rinnegamento di sé”. Contro questo rinnegamento di sé, inconsapevolmente o volontariamente realizzato per servire con entusiasmo un “essere superiore” e trascendente (Dio, Stato, umanità, libertà, moralità, ecc.), Stirner propone di esaltare e riabilitare “l’interesse personale, il capriccio individuale, la volontà personale, l’individualità propria, l’amor proprio”. Propone di adottare un atteggiamento egoistico capace di non attribuire a nessuna cosa un valore proprio o “assoluto”, capace di cercare in ogni cosa ciò che possa valere unicamente per la propria individualità e per il proprio interesse personale, perché “il mio interesse personale persegue ciò che giova a me stesso, a questa persona che possiede se stessa, che è proprietà di se stessa”. Se lo Stato – a differenza della Chiesa che, in quanto “comunità di credenti”, esclude da sé i non credenti – rappresenta la perfetta unione di tutti i cittadini, che in quanto “uomini” capaci di formare una determinata “società umana” sono da considerarsi come simili l’uno all’altro, l’egoista rappresenta inequivocabilmente la rovina, la maggiore opposizione e l’inevitabile tramonto d’ogni “società umana”: “gli egoisti, infatti, non si rapportano più l’uno all’altro come uomini, ma ciascuno di loro si presenta egoisticamente come un io nei confronti di un tu o di un voi assolutamente differente da me e a me contrapposto”. Lo Stato mi impone d’essere “uomo”, e mi impone moralmente di vedere nel prossimo un uomo identico e uguale a me. Mi ordina di considerarlo e trattarlo come un mio 158 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Max Stirner

simile, e se non volessi eseguire questo “comando umanitario” sarei definito e trattato come un “mostro”, come un essere inumano, e, alla pari di un delinquente o di un assassino, sarei rinchiuso nelle galere statali, visto che, con la mia presenza, potrei mettere in serio pericolo la “sussistenza” stessa dello Stato. Che io sia un “uomo” e nient’altro che un “uomo” è allora il dovere supremo a cui devo subordinare ogni mia “proprietà” in nome di quell’“essere supremo” che è lo Stato. Per lo Stato dunque, “io non devo essere un egoista, ma un uomo ‘retto, onesto’, cioè morale. Insomma io devo essere, nei confronti suoi e della sua sussistenza, impotente e pieno di rispetto”. Questa impotenza, questo rispetto è il frutto di quella “astrazione” che ha per contenuto proprio “l’essenza astratta” del mio essere “uomo”. Se così stanno le cose non resta altro che chiedersi e rispondersi: “Ma chi è l’uomo? Io lo sono!”, e nient’altro. Io non compio mai qualcosa di astrattamente “umano”, ma sempre e soltanto qualcosa “di mio proprio”. Ogni mia azione concreta è sempre diametralmente diversa da quella di ogni altro uomo, “e solo grazie a questa differenza essa è reale e mi appartiene”. In fondo gran parte della filosofia, così come quasi tutta la storia dell’uomo, è sempre andata alla ricerca dell’“essenza” umana, è sempre andata in “cerca dell’uomo, ma egli è me, è te, è noi. Cercato come un essere misterioso, come il divino, prima come Dio, poi come l’uomo (l’umanità, il genere umano, il carattere umano), egli viene trovato come il singolo, il finito”, come l’“unico”. L’avvento degli egoisti Ciò che posso fare, la legittimità, il permesso di poter fare qualcosa mi è concesso, a secondo dei casi specifici, di volta in volta da Dio, dall’amore, dalla ragione, dalla natura, dall’umanità, ecc., ma soprattutto dallo Stato, il qua159 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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le ha come suoi “concetti” fondamentali quelli del “diritto” e della “giustizia”. In tutti questi casi, “io sono completamente privo di diritti miei, perché quelli che ho, non sono miei, ma estranei”, ossia mi sono ordinati e prescritti da un “essere” che è altro da me e a me superiore, il quale mi limita e mi rende suo umile servitore e dunque suo schiavo. Se la religione cristiana ha posto essenzialmente la fraternità e l’uguaglianza delle singole persone perché tutti siamo “figli di Dio”, lo Stato ha posto l’uguaglianza dei diritti, ossia suppone che tutti gli uomini hanno, per natura ma soprattutto in quanto lavoratori, gli stessi sacri e inalienabili diritti. In entrambi i casi per Stirner, ossia per il puro egoista, codesta venerata “uguaglianza” non è altro che una frottola, una menzogna, un inganno maligno, alienante e mortifero, così che alta si erge la voce inumana e mostruosa dell’“unico”, la quale, “ineffabile”, grida: – “Io faccio derivare ogni diritto e ogni legittimità da me stesso; io sono legittimato a fare tutto ciò che ho il potere di fare”; – “Io non sono autorizzato a fare soltanto ciò che non faccio liberamente e coraggiosamente, vale a dire ciò che io non mi autorizzo a fare”; – “Io decido se io sono nel giusto; fuori di me non c’è alcun diritto o giustizia. Se qualcosa è la cosa giusta, la cosa che ci vuole per me, allora è giusta. È possibile che non per questo essa sia la cosa giusta per gli altri: questo è affar loro, non mio: si difendano, se vogliono!”. È soltanto la “forza”, la “potenza” e il “coraggio” del singolo individuo (riscopertosi egoista) ciò che determina quel che è permesso o non è permesso compiere da egli stesso. La stessa “proprietà”, ossia ciò che uno possiede o magari desidera o sente il bisogno di possedere (casa, terra, oggetti, cose, ecc.), sarà da considerare come frutto esclusivo non del lavoro, del merito, della ricompensa prevista da un contratto sociale o simili, bensì è ora una semplice 160 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Max Stirner

questione di “appropriazione” personale. Se voglio qualche cosa basta solo questa mia volontà per darmi immediatamente il “diritto” di divenirne proprietario. Se qualcuno verrà ad obbiettarmi che quel che ho preso o occupato non mi appartiene, insistendo affinché io indietreggi da questa mia egoistica appropriazione, non mi resterà altro che affermare: toglimela, se ne sei capace, se ne hai la forza e il coraggio, altrimenti vattene via e lasciami ciò che ho preso arbitrariamente rendendolo di mia unica proprietà, perché così io volevo e così io ho fatto! La stessa difesa che lo Stato promette di assicurare ai propri cittadini – preventivamente attraverso la prescrizione delle varie leggi costituzionali e repressivamente tramite le esecuzioni delle pene nei confronti di coloro i quali le trasgrediscono –, è per l’egoista l’ennesimo fantasma da allontanare per far posto all’unico atteggiamento possibile del singolo nei confronti di ogni altro singolo: “Difenditi e nessuno ti farà niente!”. Stirner stesso, va detto, è ben cosciente che tali atteggiamenti non sono altro che gli atteggiamenti tipici di colui che lo Stato stesso definisce come il “delinquente permanente”, come la serpe in seno la quale va presto soppressa o, che è lo stesso, imprigionata prima che si perpetuino i suoi velenosi “delitti”. Un io individuale riscopertosi finalmente come “unico”, “senza freni”, senza limiti e senza legge alcuna, non può “desistere dall’essere un delinquente”, non può non essere considerato dalla “potenze superiori”, quali lo Stato e la Chiesa e la “morale”, altro che un fuorilegge incallito, un profanatore perverso e irrecuperabile: per l’unico, “il delitto è la sua vita” e solo la “colpa è il valore di un uomo” una volta ritornato perfetto “egoista”. L’adulterio, l’infedeltà, la dissidenza, lo spergiuro, la distruzione d’ogni vincolo sacro e venerato (matrimonio, famiglia, popolo, Stato, nazione, umanità, ecc.), insomma l’attuazione della “rottura radicale” nei confronti d’ogni “essere superiore” che prepotentemente mi comanda, mi 161 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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determina e mi “plasma”, così come la difesa diretta e l’attacco personale contro ogni altro essere terreno (tu, loro, voi) che cerca di sottomettermi alla sua pre-potenza, sicuramente acutizzerà all’estremo il “contrasto” tra i singoli individui, riconosciutisi come dei perfetti “unici” a sé stanti e indipendenti gli uni dagl’altri. Allo stesso tempo, però, proprio grazie a tale radicalità, si supererà questo apparente “contrasto”, perché adesso, essendo ormai divenuto un egoista, essendo ormai un uomo assolutamente diverso e diviso dagli altri uomini, non ci sarà più nulla (essenza astratta, essere superiore, ideale sociale, fantasma umanitario, Dio, Stato, ecc.) che mi accomunerà a un altro uomo, così come non ci sarà più nulla che mi renderà nemico a e di un altro uomo. Paradossalmente, dunque, l’unica “uguaglianza” possibile consiste nella disuguaglianza d’ogni singolo individuo nei confronti degli altri singoli individui. L’unica uguaglianza è una non uguaglianza, e appare ovvio che non ha più alcun senso, né ha più alcuna “ragione” parlare di “uguaglianza”, così come di “rispetto”, “diritti”, “doveri”, “giustizia”, “legge”, “bene comune”, ecc. Tutto ciò che non sono io concretamente, tutto ciò che non è la mia carne e le mie ossa, non avrà diritto al mio rispetto. Tutte le altre persone umane, “come ogni altro essere”, saranno dal puro egoista considerate semplicemente come un “oggetto per il quale provo o non provo simpatia, un oggetto interessante o non interessante, un oggetto di cui mi posso o non mi posso servire”. Se, a patto che io stesso lo voglia, troverò qualcun’altro che si vorrà unire a me, se questo accetterà le mie condizioni e io le sue, soprattutto in merito alla questione delle rispettive “proprietà”, allora potremmo intenderci ed andare reciprocamente d’accordo. Potremmo addirittura associarci e formare l’“unione degli unici”, la quale però non legherà e non vincolerà in nessun modo i singoli individui appartenenti ad essa. Se tale “unione” fallisse o se non fosse possibile realizzarla, ciò che regnerà sarà inevitabilmente “la guerra 162 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Max Stirner

di tutti contro tutti” – i poveri contro i ricchi, i nullatenenti contro i proprietari, i carcerati contro i carcerieri, i sudditi-cittadini contro lo Stato, ecc. Questo perché, d’ora in poi, sarò unicamente io, essendo un “tutto in tutto” indipendente da ogni cosa e persona e legge, che deciderò arbitrariamente cosa posso fare (avere, prendere, rispettare, distruggere, ecc.), e ciò che non potrò fare sarà dettato solo dalla mia incapacità e impotenza e da nient’altro. Solo ciò che la mia stessa “forza” e potenza non riuscirà a compiere, determinerà ciò a cui non posso arrivare, ossia avrò tanto quanto avrò la “facoltà” (capacità, forza, potenza) di “appropriarmi” (prendermi, “conquistare”): “Io solo decido ciò che voglio avere” perché “ora tutto mi appartiene, io sono proprietario di tutto ciò di cui ho bisogno e di cui posso impadronirmi”, in quanto “io voglio aspettarmi tutto solo dalla mia potenza”. Tutto ciò non ha altra conseguenza, ancora una volta, che la rovina immediata di ogni forma di Stato (monarchico, costituzionale, borghese-liberale, popolare-comunista, ecc.), come di qualunque altro “essere superiore”, o “ideale sacro”, o “missione umanitaria”, o “vocazione amorevole”; ma soprattutto decreta la fine immediata di ogni astratto “pensiero” e di ogni vacua “parola”. Stirner tutto questo lo sa benissimo, anzi, potremmo dire che in realtà non aspetta altro che questa violenta “insurrezione” volta ad abolire definitivamente ogni costituzione politica. Dopo che tale “rivolta” sarà compiuta e la spensieratezza estrema renderà finalmente possibile al singolo individuo di “usare” e “consumare” e godere appieno la propria insostituibile e irripetibile vita; quando finalmente consapevoli ci considereremo e ci comporteremo da “unici”, non si dovrà far altro che “restare a vedere” quel che accadrà. Ciò che è certo è che “d’ora in poi non si tratta più dello Stato (della costituzione statale, ecc.), ma di me. A questo modo tutte le questioni concernenti il potere dei prìncipi, la costituzione, ecc., sprofondano nel loro ve163 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ro abisso e nel loro vero nulla. Io, questo nulla, estrarrò da me le mie creazioni”. Questo sprofondamento e questa creazione saranno possibili soltanto dopo esser divenuti pienamente coscienti che il “proprietario del mio potere sono io stesso, e lo sono nel momento in cui so di essere unico. Nell’unico il proprietario stesso rientra nel suo nulla creatore, dal quale è nato. Ogni essere superiore a me stesso, sia Dio o l’uomo, indebolisce il sentimento della mia unicità e impallidisce appena risplende il sole di questa mia consapevolezza. Se io fondo la mia causa su di me, l’unico, essa poggia sull’effimero, mortale creatore di sé che se stesso consuma, e io posso dire: Io ho fondato la mia causa su nulla”.

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PAGINE ANTOLOGICHE

Educazione e/è imposizione Quando si contrappone ciò che ci è proprio a ciò che ci viene imposto, non ha nessun valore l’obiezione secondo cui non possiamo avere in noi niente di isolato, ma ogni cosa solo in rapporto al nostro vivere nel mondo, tramite l’impressione, cioè, che riceviamo da ciò che ci circonda, perciò come qualcosa di “imposto”; ma c’è una bella differenza fra i sentimenti e i pensieri che vengono destati in me da qualcos’altro e quelli che vengono posti in me. Dio, l’immortalità, la libertà, l’umanità, ecc., vengono impressi in noi fin dall’infanzia nella forma di pensieri e sentimenti che muovono più o meno vigorosamente la nostra interiorità e ci dominano senza che ne siamo consapevoli oppure, nelle nature più ricche, possono esprimersi in sistemi di pensiero o in opere artistiche, ma rimangono comunque sentimenti imposti, non destati in noi, come mostra il fatto che dobbiamo credere loro e dipendere da loro. Che ci sia un assoluto e che questo assoluto debba venir concepito, sentito e pensato da noi, veniva fermamente creduto da coloro che mettevano in azione tutte le forze del loro spirito per conoscerlo e rappresentarlo. Il sentimento dell’assoluto è in noi in quanto ci è stato imposto; il suo sviluppo conduce solo alla molteplicità delle sue manifestazioni. […] La differenza è dunque fra i sentimenti che mi sono stati imposti e quelli che sono stati semplicemente destati in me. Questi ultimi sentimenti sono miei propri, egoistici, perché non mi sono stati impressi, imbeccati e inculcati come sentimenti; degli altri, invece, mi vanto, me ne preoccupo come di un’eredità, li coltivo e ne sono posseduto. Chi non ha mai osservato, più o meno consapevolmente, che 165 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

tutta la nostra educazione mira a creare in noi dei sentimenti, cioè a imporceli, invece di lasciare a noi la loro creazione, anche a rischio di fallimenti. Se udiamo il nome di Dio, dobbiamo provare timor di Dio; se udiamo quello del principe, dobbiamo ascoltarlo con rispetto, venerazione e sottomissione; se udiamo quello della morale, dobbiamo pensare di essere di fronte a qualcosa d’inviolabile; se udiamo quello del male e dei malvagi, dobbiamo rabbrividire, ecc. Questi sentimenti sono l’oggetto e il fine dell’educazione e chi, per esempio, ascoltasse con compiacimento le azioni dei “malvagi”, dovrebbe venir “castigato ed educato” con la verga. Strapieni in questo modo di sentimenti imposti, dobbiamo comparire alla sbarra della maggiore età, dove veniamo “giudicati adulti”. Il nostro equipaggiamento consiste di “sentimenti edificanti, pensieri sublimi, massime nobilissime, princìpi eterni”, ecc. Adulti, i giovani lo divengono quando cinguettano come i vecchi; li s’incalza con la scuola, affinché imparino la vecchia lagna, e quando ce l’hanno ormai dentro, li si dichiara adulti. Non ci è permesso di sentire, di fronte a ogni cosa e ogni nome che ci capita d’incontrare, ciò che vorremmo e potremmo sentire, non ci è permesso, per esempio, di pensare, di fronte al nome di Dio, a qualcosa di ridicolo, e non sentire venerazione alcuna, ma ci è invece prescritto ed imposto che cosa dobbiamo sentire e pensare e in che modo questo deve avvenire. Il senso della cura d’anime è appunto questo: la mia anima o il mio spirito dev’essere disposto come altri ritengono opportuno, non come io stesso vorrei. Com’è faticoso per il singolo conquistarsi infine un sentimento proprio almeno di fronte a questo e quel nome e ridere in faccia a qualcuno che si aspetta da noi, come reazione al suo discorso, sguardi santimoniosi ed espressioni immacolate! Ciò che ci è imposto è a noi estraneo, non ci appartiene e perciò è “sacro” ed è difficile superare il “sacro timore” che ci provoca. Al giorno d’oggi si sente anche esaltare nuovamente la “serietà”, la “serietà nelle cose e nei fatti di grande importanza”, la “serietà tedesca”, ecc. Questa specie di serietà esprime chiaramente quanto siano ormai divenuti antichi e seri la follia e l’invasamento. Infatti non c’è nessuno più serio di un folle, quando si tratta del nocciolo della sua follia: allora, preso da gran zelo, non comprende più scherzo alcuno. (Si 166 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Max Stirner: pagine antologiche

vedano i manicomi). (M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano 2009, pp. 73-75) L’umiliazione della morale Ma come mai l’egoismo di coloro che sostengono l’interesse personale e con esso si consigliano in ogni occasione soggiace tuttavia pur sempre, alla fin fine, a un interesse bigotto e pedantesco, cioè ad un interesse ideale? La loro persona appare a loro stessi troppo piccola, troppo insignificante, e così è effettivamente, per poter avanzare delle pretese su tutto e per poter imporsi completamente. Un segno sicuro di questo sta nel fatto che essi si dividono in due persone, una eterna e una temporale, e ogni volta si curano esclusivamente o dell’una o dell’altra, la domenica dell’eterna, nei giorni di lavoro della temporale, pregando per la prima, lavorando per la seconda. Essi hanno in sé un prete bigotto, per questo non sanno liberarsene e si sentono far la predica, nel loro animo, tutte le domeniche. Quanto hanno lottato e calcolato gli uomini per scoprire questi esseri dualistici! Le idee, i princìpi, i sistemi si susseguivano, ma nessuno sapeva contenere, alla lunga, la contraddizione dell’uomo “mondano”, del cosiddetto “egoista”. Questo non dimostra che tutte quelle idee erano troppo impotenti per assorbire in sé e soddisfare tutta la mia volontà? Esse mi erano e mi rimasero ostili, anche se l’ostilità restò per lungo tempo nascosta. Sarà lo stesso con la individualità propria? È anch’essa soltanto un tentativo di mediazione? A qualsiasi principio mi rivolgessi, come per esempio a quello della ragione, dovevo poi sempre distaccarmene. O forse posso essere sempre razionale, disporre della mia vita, in ogni cosa, secondo ragione? Certo, io posso aspirare alla razionalità, posso amarla, appunto come Dio o come quelle altre idee: io posso essere filosofo e amare la sapienza così come amo Dio. Ma ciò che amo, ciò a cui aspiro, è soltanto nelle mie idee, nelle mie rappresentazioni, nei miei pensieri: è nel mio cuore, nella mia mente, è in me come è in me il mio cuore, ma non è me e io non sono lui. Fra gli effetti degli spiriti bigotti bisogna ricordare soprattutto ciò che spesso si sente chiamare “influenza morale”. L’influenza morale ha inizio dove 167 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

comincia l’umiliazione, anzi non è altro che questa umiliazione stessa, cioè lo scoraggiamento del coraggio che, così spezzato e piegato, diventa umiltà. Se io grido a qualcuno che si trova sul luogo dove sta per scoppiare una mina di allontanarsi, non esercito con questo avvertimento alcuna influenza morale; se dico a mio figlio: “Resterai affamato se non vuoi mangiare quel che c’è in tavola”, non si tratta di un’influenza morale. Ma se gli dico che dovrà pregare, onorare il padre e la madre, venerare il crocifisso, dire la verità, ecc., perché tutto ciò fa parte della natura umana ed è la missione dell’uomo o addirittura perché è la volontà di Dio, ecco qui l’influenza morale: un uomo deve piegarsi davanti alla missione dell’uomo, deve essere docile, diventare umile, deve rinunciare alla propria volontà in cambio di un’altra estranea che varrà come regola e legge; deve abbassarsi, umiliarsi davanti a un essere superiore: autoumiliazione. “Chi umilia se stesso verrà esaltato”. Eh, sì! I bambini devono essere sospinti per tempo verso la devozione, la religiosità e la rispettabilità; un uomo che è stato ben educato è uno al quale sono stati fatti apprendere, con l’insegnamento e con le prediche, impressi, inculcati, infusi “buoni principi”. Se si alzano le spalle di fronte a questi santi princìpi, i “buoni” alzano le mani con un gesto di disperazione e gridano: “Ma per l’amor di Dio, se non si danno buoni insegnamenti ai bambini, essi andranno dritti dritti per la via del peccato, fin nell’abisso e diventeranno monelli buoni a nulla!”. Calma, profeti di sventura! Buoni a nulla nel vostro senso lo diventeranno certamente, ma appunto il vostro senso non è proprio buono a nulla! Quei monelli insolenti non si lasceranno più abbindolare con chiacchiere e piagnistei e non proveranno alcuna simpatia per tutte le scemenze per le quali voi vi esaltate e di cui vaneggiate da sempre: essi aboliranno il diritto ereditario, cioè non vorranno ereditare le vostre cretinate che voi invece avete ereditato dai vostri antenati; essi cancelleranno il peccato originale, che si trasmette anch’esso per via ereditaria. Se voi ordinerete loro: “Piègati davanti all’Altissimo”, essi risponderanno: “Se egli vuole che noi ci pieghiamo, venga lui stesso e ci costringa; quanto a noi, non ci piegheremo spontaneamente”. E se voi li minaccerete ricordando loro la collera e le punizioni divine, essi reagiranno come se li aveste minacciati col babau. Una volta che non potrete più incuter loro timore dei fantasmi, il dominio dei fantasmi sa168 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Max Stirner: pagine antologiche

rà finito e le fandonie non troveranno più nessuno che presti loro – fede. (M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, cit., pp. 88-90) Lo Stato borghese Teniamoci uniti, quindi, e proteggiamo l’un nell’altro l’uomo; così troveremo nella nostra unità la protezione necessaria e in noi che ci teniamo uniti una comunità i cui membri conoscono la propria dignità umana e si tengono uniti appunto in quanto “uomini”. La nostra unità è lo Stato, noi che ci teniamo uniti siamo la nazione. […] Lo Stato dev’essere una comunità di uomini liberi e uguali e ognuno deve dedicarsi al “bene comune”, disciogliersi nello Stato, fare dello Stato il proprio fine e il proprio ideale. “Stato! Stato!”: ecco il grido di tutti; da allora si cercò l’“ordinamento giusto”, la costituzione migliore, insomma lo Stato nella sua forma più perfetta. L’idea dello Stato entrò in tutti i cuori e generò entusiasmi; servire lo Stato, questo Dio mondano: ecco il nuovo servizio divino, il nuovo culto! L‘epoca propriamente politica era cominciata. Servire lo Stato o la nazione divenne l’ideale supremo, l’interesse statale l’interesse supremo, il servizio statale (che si può benissimo compiere anche senza essere funzionari dello Stato) l’onore supremo. Così venivano messi al bando gli interessi particolari e gli aspetti personali e sacrificarsi per lo Stato era diventato lo shibbòleth. La propria persona va sacrificata: solo per lo Stato bisogna vivere. Si deve agire “disinteressatamente”, cercare non il proprio utile, ma quello dello Stato. Quest’ultimo è perciò diventato la vera persona, di fronte alla quale la personalità singola scompare: non io devo vivere, ma lo Stato in me. Perciò ci si oppose all’egoismo di un tempo: viva il disinteresse e l’impersonalità! Di fronte a questo Dio – lo Sato –, scomparve ogni egoismo e davanti a lui tutti erano uguali: essi erano, senza alcun’altra differenza – uomini, nient’altro che uomini. […] Che cosa vuol dire che noi godiamo tutti quanti di “uguali diritti politici”? Soltanto questo: che lo Stato non ha nessun riguardo per la mia persona, che io, come ogni altro, sono per lui soltanto un uomo, senza alcun altro significato che in qualche modo possa imporglisi. […] Per lo Stato […] è indifferente la persona che da esso ottiene certi di169 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

ritti, purché essa adempia ai doveri che da quei diritti discendono. Per lo Stato andiamo tutti bene, siamo tutti uguali, nessuno è da più o da meno di un altro. Chi sia colui che riceve il comando dell’esercito, mi è indifferente – dice lo Stato sovrano – purché si dimostri all’altezza del suo compito. […] Gli Stati moderni, quale più quale meno, hanno attuato questo principio egualitario. […] Chi serve soltanto la causa e “le si dedica tutto”, ha la vera libertà. E la causa, per chi pensa, è sempre stata la – ragione; essa promulga leggi universali, come Stato e Chiesa, e incatena il singolo uomo col pensiero dell’umanità. Essa decide che cosa è “vero” e noi dobbiamo prenderlo per norma. Non c’è gente più “razionale” e “ragionevole” dei servitori devoti, ai quali, come servitori dello Stato, spetta più che ad ogni altro il titolo di bravi cittadini. Che tu sia ricco sfondato o povero in canna è una cosa che lo Stato della borghesia rimette alle tue personali preferenze; basta che abbia “buone intenzioni”: te le richiede lo Stato, che considera suo compito essenziale inculcarle in tutti. […] Ma, se domina la ragione, soccombe la persona. […] Non si vuole che la persona, cioè che io abbia libertà di movimenti e valore autonomo: questi sono riservati alla ragione e si proclama appunto il dominio della ragione, che è un dominio come un altro. […] Nello Stato borghese ci sono soltanto “uomini liberi” che vengono costretti a un’infinità di cose (per esempio al rispetto, alla professione di fede e simili). Ma che importa? Chi li costringe è “solo” lo – Stato, la legge, non un uomo! Dove vuol arrivare la borghesia, scagliandosi piena di zelo contro ogni comando personale, ossia tale che non si fondi sulla “causa”, sulla “ragione”, ecc.? Essa lotta per l’appunto solo nell’interesse della “causa”, contro il dominio delle persone”! Ma la causa dello spirito è ciò che razionale, buono, legale, ecc.: questa è la “buona causa”. La borghesia vuole un dominatore impersonale. […] La borghesia ha il suo potere e al tempo stesso i suoi limiti nella costituzione, in una carta, in un principe legale, cioè “giusto”, che si regola e regna egli stesso in base a “leggi razionali”, insomma nella legalità. […] La borghesia professa una morale che è strettamente connessa alla sua essenza. La sua prima esigenza è che si abbia un lavoro sicuro, si eserciti una professione onorevole e si tenga una condotta morale. Immorali sono, secondo lei, il cavaliere d’industria, la cortigiana, il ladro, il bandito e l’assassino, il giocatore, l’uomo senza un patrimonio e senza un 170 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Max Stirner: pagine antologiche

lavoro, l’uomo leggero. (M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, cit., pp. 106-108, 110-111, 113-114, 117, 119-121) Io non sono “uomo” Quando Fichte dice: “L’io è tutto”, può sembrare che questo concordi pienamente con le mie tesi. Ma l’io non è tutto, bensì distrugge tutto e solo l’io che si dissolve, l’io che non arriva mai ad essere, l’io – finito è realmente io. Fichte parla dell’“io” assoluto, io, invece, parlo di me, dell’io caduco. Pare anche che uomo e io significhino la stessa cosa, e invece l’espressione “uomo” significa, come si vede per esempio in Feuerbach, l’io assoluto, il genere, non l’io singolo, caduco. Egoismo e umanità dovrebbero significare la stessa cosa, ma secondo Feuerbach il singolo (l’“individuo”) “può elevarsi soltanto al di sopra dei limiti della sua individualità, ma non al di sopra delle leggi, delle determinazioni positive che definiscono l’essenza della sua specie”. Ma il genere, da solo, non è niente e se il singolo si eleva al di sopra dei limiti della sua individualità, egli lo fa appunto come singolo, egli esiste soltanto in quanto si eleva, egli esiste soltanto in quanto non resta fermo; altrimenti sarebbe finito, morto. L’uomo è solo un ideale, il genere è solo un qualcosa di pensato. Essere un uomo non significa adempiere l’ideale dell’uomo, ma invece rappresentare se stesso come singolo. Non il modo in cui io realizzo l’universalmente umano deve essere il mio compito, ma il modo in cui io soddisfo me stesso. Io sono per me il mio genere, sono senza norma, senza legge, senza modello o simili. È possibile che io riesca a fare ben poco di me; ma questo poco è tutto ed è meglio di ciò che potrei lasciar fare di me dal potere di altri, dal condizionamento della morale, della religione, delle leggi, dello Stato, ecc. Mille volte meglio – se proprio bisogna parlare di “meglio” – un ragazzo maleducato di uno saputello, meglio un uomo ribelle di uno docile in ogni occasione. Il ribelle maleducato ha ancora la possibilità di formarsi secondo la propria volontà; il docile saputello, invece, viene determinato dal “genere”, dalle necessità generali, esse sono per lui la legge: in base a esse egli viene destinato a questo o a quello; e infatti che cos’altro è 171 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

per lui il genere se non la sua “destinazione”, la sua “missione”? Il fatto che io guardi all’“umanità”, al genere umano, come a un ideale da raggiungere, oppure a Dio o Cristo con lo stesso intento, fa ben poca differenza! Tutt’al più la differenza consisterà nel fatto che il primo ideale è più pallido del secondo. Il singolo, come è la natura intera, così è anche il genere intero. Ciò che io sono condiziona ciò che io faccio, penso, ecc., insomma il mio modo di manifestarmi e di rivelarmi. […] Si va in cerca della mia essenza. Se non è l’ebreo, il tedesco, ecc., sarà allora – l’uomo . “L’uomo è la mia essenza”. Io sono nauseato di me, odioso a me stesso; provo ribrezzo e schifo di me stesso, mi sento un essere abominevole, ossia io per me non sono mai abbastanza, non faccio mai abbastanza. Da questi sentimenti nasce l’autodistruzione e l’autocritica. La religiosità comincia col rinnegamento di sé e si conclude con il compimento della critica. […] L’uomo è l’ultimo spirito del male, l’ultimo spettro maligno, il più ingannatore perché è, apparentemente, il più amico, è il più astuto mentitore dall’espressione onesta, il padre delle menzogne. Rivoltandosi contro le pretese ed i concetti del presente, l’egoista compie spietatamente la – profanazione estrema. Niente gli è sacro! Sarebbe stolto affermare che non c’è alcuna potenza superiore alla mia. Ma l’atteggiamento che io assumo nei suoi confronti è completamente diverso da quello dell’epoca della religione: io sarò il nemico di ogni potenza superiore, mentre la religione ci insegna invece a farcela amica e a comportarsi umilmente nei suoi confronti. […] Ma tutto ciò che fu tolto a Dio venne attribuito all’uomo e la potenza dello spirito umanitario si è accresciuta esattamente in proporzione al diminuire d’importanza della devozione religiosa: “l’uomo” è il Dio di oggi e il timore dell’uomo è subentrato al vecchio timore di Dio. […] La potenza è dell’uomo, il mondo è dell’uomo, io sono dell’uomo. Ma non posso forse dichiarare me stesso legittimo proprietario, mediatore e mio proprio “io”? Allora si dirà: La mia potenza è la mia proprietà. La mia potenza mi dà la mia proprietà. La mia potenza sono io stesso e grazie a essa io sono la mia proprietà. (M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, cit., pp. 192-195) 172 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Max Stirner: pagine antologiche

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Il godimento di me stesso Noi ci troviamo al confine di un’epoca. Il mondo com’è stato finora non ha cercato altro che di guadagnarsi la vita, si è preoccupato della – vita. Tutte le attività vengono messe in moto per la vita terrena o per quella celeste, per la vita nel tempo o per quella eterna, si brama il “pane quotidiano” […] oppure il “pano sacro” […], ci si preoccupa della “cara vita” oppure della “vita nell’eternità”, ma in tutti questi casi lo scopo della tensione e della preoccupazione appare lo stesso: la vita. Le tendenze moderne si presentano forse con un aspetto diverso? Si vuole che nessuno si trovi più in difficoltà per i bisogni vitali più necessari, ma sia invece sicuro da questo punto di vista, e d’altro canto s’insegna che l’uomo deve curarsi dell’aldiqua e deve impegnarsi a vivere nel mondo reale, senza vane preoccupazioni per un aldilà. Riconsideriamo la cosa da un’altra prospettiva. Chi si preoccupa solo di vivere dimentica facilmente, a causa di questa preoccupazione angosciosa, il godimento della vita. Se gl’interessa solo di vivere e pensa: “Purché resti in vita!”, non dispiega tutte le sue forze per usare la vita, cioè per goderla. Ma come si usa la vita? Consumandola come una candela che si usa bruciandola. Si fa uso della vita e insieme di se stesso, il vivente, consumando la vita come se stesso. Godere la vita significa usarla, consumarla. Ebbene – il godimento della vita è appunto quello che noi cerchiamo! Ma che cosa faceva il mondo religioso? Cercava la vita. “In che cosa consiste la vita vera, la vita beata, ecc.? Come la si può raggiungere? Che cosa deve fare l’uomo e come deve diventare per essere un vero vivente? Come può adempire questa missione?”. Queste domande e altre simili dimostrano chiaramente che chi le poneva cercava prima di tutto se stesso, se stesso, cioè, nel senso vero, nel senso della vitalità vera. “Quel che sono non è che ombra e fumo; quel che sarò è il mio vero io”. Dar la caccia a questo io, attuarlo e realizzarlo costituisce il difficile compito dei mortali, che muoiono solo per risuscitare, che vivono solo per morire, che vivono solo per trovare la vita vera. […] Una distanza enorme separa le due concezioni: nell’antica io vado verso me stesso, nella nuova parto da me, in quella aspiro a trovarmi, in questa mi posseggo completamente e faccio di me ciò che si fa con ogni altra proprietà: godo di me come più mi piace. Io non mi 173 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

curo più della vita, ma la “spendo”. […] Un uomo non è “chiamato” a nulla e non ha nessun “compito”, nessuna “vocazione”, così come una pianta o un fiore non hanno una “missione”. Il fiore non svolge la sua missione di perfezionarsi, ma impiega tutte le sue forze a godere e a consumare il mondo meglio che può, cioè assorbe tanti succhi della terra, tanta aria dell’etere, tanta luce del sole quanta è in grado di riceverne e di contenerne. L’uccello non vive secondo una missione, ma usa le sue forze quanto può: va in caccia di insetti e canta come vuole . […] Non c’è pecora né cane che si sforzi di diventare una “vera pecora” o un “vero cane”; non c’è animale che veda la sua essenza come un compito, cioè come un concetto che deve realizzare. L’animale si realizza vivendo fino in fondo, cioè dissolvendosi, “passando”, e non pretende di essere o di diventare qualcosa d’altro da ciò che è. Voglio forse consigliarvi di imitare gli animali? Io non voglio certo esortarvi a diventare animali, perché si tratta nuovamente di un compito, di un ideale. […] E lo stesso sarebbe se si richiedesse agli animali di diventare uomini. La vostra natura è una volta per tutte una natura umana, voi siete esseri umani, cioè uomini. Ma proprio perché lo siete già, non avete bisogno di diventarlo. […] Da sempre si tenta affannosamente di “plasmare” gli uomini in modo da farne “esseri” morali, razionali, pii, umani, ecc., cioè di ammaestrarli. Ma questi tentativi sono sempre naufragati contro lo scoglio della egoità indomabile, della natura propria, dell’egoismo. Coloro che vengono addestrati non raggiungono mai il loro ideale e professano solo a parole quei princìpi sublimi, fanno insomma una professione di fede. Ma rispetto a questa essi devono “riconoscersi sempre peccatori” nella vita e restano sempre indietro rispetto al loro ideale, sono “uomini deboli” e portano con sé la consapevolezza della “debolezza umana”. Le cose vanno altrimenti se tu non vai a caccia di un ideale che rappresenti la tua “missione”, ma invece ti dissolvi, così come il tempo dissolve ogni cosa. Il dissolvimento non è la tua “missione”, perché è il tuo presente. (M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, cit., pp. 334-335, 341, 346-347)

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Karl Marx

In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni! K. Marx - F. Engels

Karl Marx: vita e opere Karl Marx nasce a Treviri (Germania) il 5 maggio 1818. Dal 1830 comincia a frequentare il liceo di Treviri, ottenendo la maturità nel 1835; nello stesso anno si immatricola alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bonn. Nell’autunno del 1835 si trasferisce all’Università di Berlino, dove prosegue i suoi studi giuridici; lì legge tutte le opere di Hegel e ne rimane fortemente colpito. Matura, co175 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

sì, l’idea di abbandonare gli studi giuridici e indirizzarsi a quelli filosofici, che porta a compimento con successo laureandosi nel 1841 presso l’Università di Jena. Scrive per la Gazzetta renana, quotidiano di Colonia (Germania), città in cui Marx decide di trasferirsi nel 1842; nell’ottobre dello stesso anno diventa capo redattore della testata giornalistica che man mano si affermava quale organo d’opposizione nei confronti del regime prussiano; l’anno dopo, però, messo alle strette delle censure continuamente imposte alle pubblicazioni, decide di abbandonare il giornale che di lì a poco sarebbe stato soppresso dal governo. Lascia, così, la Germania e si trasferisce a Parigi, dove collabora con la rivista Annali franco-tedeschi; è in questa occasione che conosce Friedrich Engels. Del 1844 sono i Manoscritti economico-filosofici (pubblicati solo nel 1932), frutto delle letture degli economisti classici, dei loro critici e di alcuni scritti di Engels. Costretto a lasciare la Francia per disposizione del governo prussiano, si trasferisce a Bruxelles, dove sarebbe rimasto fino al 1848. È, questo, un periodo denso di scritti concepiti assieme all’amico Engels, tra i quali si annoverano La sacra famiglia (1845), L’ideologia tedesca (uscita postuma nel 1932) e Manifesto del partito comunista (1848), mentre frutto del lavoro del solo Marx è Miseria della filosofia (1847). Con la rivoluzione francese del 1848 e l’insurrezione degli operai belga a Bruxelles, Marx viene arrestato ed espulso; torna a Colonia, dove fonda l’Associazione democratica e ridà vita alla Nuova Gazzetta Renana, che ancora una volta avrebbe avuto vita breve: verrà soppressa, infatti, nel 1849. Con la soppressione del giornale Marx torna a Parigi ma a seguito della cruenta repressione dei moti popolari del 1949 gli viene riprospettata l’alternativa tra abbandonare la Francia o trasferirsi altrove. Marx decide, così, di andare a Londra. Nel 1859 escono i Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, e Marx dà inizio agli studi sulla produzione capita176 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Karl Marx

listica che lo avrebbero portato, nel 1867, a pubblicare il primo libro del Capitale, cui avrebbero fatto seguito altri due libri usciti postumi nel 1885 e nel 1894. Ad una grave bronchite, si aggiunse il forte dolore per la morte della moglie e di una figlia, perdite dalle quali Marx non si sarebbe più ripreso; morì a Londra, il 14 marzo del 1883. La fine dell’ideologia L’opera filosofica di Karl Marx si presenta come la massima elaborazione dei propositi antropologici caratterizzanti la sinistra hegeliana e, allo stesso tempo, come diametralmente opposta a questa per quanto riguarda il modo di realizzare tali propositi. Se la sinistra hegeliana è da intendere come il tentativo di reagire all’idealismo contrapponendo ad esso un’approfondita considerazione e rivalutazione dell’uomo e del suo mondo, senza ombra di dubbio Marx è da considerare come un appartenente a tale movimento filosofico. Marx stesso considera Feuerbach, che è appunto l’esponente di spicco della sinistra hegeliana, come il “vero vincitore della vecchia filosofia”, e, soprattutto, ad esso assegna il merito di aver lucidamente affrontato il grave problema rappresentato dall’“alienazione” dell’uomo, ossia della realtà umana costruita in conformità dell’alienazione. Per Feuerbach, la storia umana è caratterizzata dalla costante, quanto progressiva, alienazione dell’essenza dell’uomo operata dall’uomo stesso, il quale proietta, trasferisce e attribuisce da sé i tratti della propria essenza a qualcosa di esterno a lui. Questi tratti essenziali vengono alienati, tolti, staccati, scissi, separati dall’uomo e trasferiti in una Potenza assoluta la quale, pur essendo sempre prodotta dalla fantasia (dal “sentimento”) dell’uomo, viene concepita come realmente indipendente da esso e dalla quale l’uomo si trova a dipendere. Questa Potenza assoluta, questo essere supremo, prodotto dall’alienazione 177 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

dell’essenza dell’uomo operata dall’uomo stesso (e quindi si può parlare di “autoalienazione” o “autotoglimento”), è il Dio delle religioni storiche. Feuerbach, una volta portata alla luce questo tratto specifico della storia umana, come proprio intento filosofico propone quello di “recuperare” l’essenza specifica che l’uomo ha alienato in Dio, affinché l’uomo possa ritornare ad essere finalmente il solo depositario della propria infinita potenza, che attende di realizzarsi nel mondo terreno. Per Stirner, anch’esso solitamente affiliato alla sinistra hegeliana, Feuerbach rappresenta ancora un esempio lampante dell’uomo separato da sé, dell’uomo alienato, essendo colui che ha semplicemente sostituito il Dio della religione con l’“Uomo” dell’antropologia. Stirner accusa Feuerbach di essersi limitato a cambiare soltanto il nome a quell’“essere superiore” di fronte al quale il singolo individuo è ancora costretto a inginocchiarsi e a concepirlo come l’unica Potenza effettivamente infinita. Se per “alienazione” si intende il cedere a qualcosa di estraneo ciò che è proprio dell’uomo, non fa alcuna differenza che questo qualcosa di estraneo sia il Dio della metafisica o l’Uomo dell’antropologia, l’essenza divina o l’essenza umana: in entrambi i casi, per Stirner, la mia unicità di singolo individuo, la mia potenza e la mia forza creatrice sono sottomessi ad un Potenza assoluta, indipendente da me, e dalla quale forzatamente dipendo. Marx, dal canto suo, porta fino in fondo la critica contro l’alienazione dell’uomo messa in evidenza dalla sinistra hegeliana, dandogli una configurazione radicalmente diversa. Marx, dopo aver elogiato l’attenzione che Feuerbach ha posto sul problema cruciale dell’alienazione umana, non esita a dichiarare che Feuerbach – come tutti gli altri hegeliani di sinistra –, è erroneamente convinto che l’alienazione dell’uomo “andrà in pezzi mediante un’operazione mentale, cioè mediante la correzione, all’interno della 178 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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nostra coscienza, dell’errore in cui consiste l’alienazione”1. Concepire la risoluzione dell’autoalienazione umana come un qualcosa da affrontare semplicemente all’interno della mente, è ciò che di più sbagliato e inefficace possa esserci agli occhi di Marx. Se Feuerbach, attraverso la sua critica contro il cristianesimo e la religione in generale, ha evidenziato la negatività dell’alienazione umana e ha correttamente indicato quali propositi la nuova filosofia debba far propri, ha però sbagliato a indicare il modo con cui tale negazione debba essere negata, superata e abolita una volta per tutte. Non sarà attraverso la mera critica dei “pensieri” e dei “concetti” portanti della religione che si potranno liberare gli uomini dall’oppressione alienante e dalle catene umilianti rappresentate dalla religione – da Marx definita come l’“oppio dei popoli” –, dalla metafisica, dalla teologia, nonché dalla morale religiosa che influenza la vita sociale. Per la sinistra hegeliana, essendo la questione dell’alienazione umana essenzialmente di natura teoretica-contemplativa, cioè non di natura “pratica”-“attiva”, si tratta allora, per risolvere tale situazione opprimente e angusta, soltanto di “interpretare diversamente” il mondo. Si tratta cioè di sostituire i “pensieri”, i “concetti” e le “rappresentazioni” riferite al divino con quelle riferite all’umano. Per Marx – visto che la sinistra hegeliana si limita a sostituire semplicemente la vecchia “ideologia” religiosa e idealistica con una nuova “ideologia” umana e naturale –, ciò comporta che, nonostante le notevoli differenze rispetto alla precedente, pur sempre di “ideologia” si tratta, dove per “ideologia” si deve intendere “falsa coscienza, consapevolezza contraffatta della realtà”. A questo punto capiamo perchè Marx, pur avendo inizialmente elogiato il movimento della sinistra hegeliana,

1   E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo, vol. III (la filosofia contemporanea), BUR, Milano 2007, p. 88.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

ben presto se ne allontana e in modo assai deciso, privilegiando, al contrario di esso, un approccio antiteoretico e anti-ideologico. Marx si decide per un approccio capace di prendere in considerazione la realtà “empirica e materiale” dell’uomo, cioè la realtà pratica e effettiva dell’uomo e del mondo in cui quest’ultimo vive. Al “mondo delle pure idee”, al mondo delle “ideologie”, egli preferisce lo “studio del mondo reale”. E a quei filosofi che, sino ad ora, si erano limitati ad interpretare in modo diverso il mondo tramite “idee pure” (che differivano da un filosofo all’altro), lo stesso Marx fa presente che il mondo ora “si tratta di trasformarlo”, di mutarlo praticamente, di rivoluzionarlo attivamente una volta per tutte. È giunto il tempo di “realizzare la filosofia”, è giunto il tempo di sostituire l’ideologia astratta con la “prassi” reale, la teoria con l’azione, i pensieri con i fatti. Alla scoperta del mondo reale La tendenza specifica adottata da Marx, che intende indagare, in special modo, il mondo realmente esistente e non la “coscienza” che gli uomini hanno di questo, è motivata dal fatto che per lui “non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”. Visto che Marx si propone di fondare una “scienza” capace di indagare le varie “rivoluzioni sociali” della storia umana “con la precisione delle scienze naturali”, ciò comporta che tale scienza deve compiere, innanzitutto, una netta distinzione tra “lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione” di una data società e le “forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche” di quella stessa società. È indispensabile distinguere tra le reali condizioni materiali dell’esistenza sociale e le “forme ideologiche” (“coscienza”, “idea”, “rappre180 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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sentazioni”) che si sviluppano in quella stessa esistenza sociale. Questo perché “come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione”. Solo indagando le forme di esistenza materiale e sociale tramite cui gli uomini storicamente si sono organizzati tra loro, si può comprendere realmente ciò che, di volta in volta, tramite continui conflitti e sviluppi, il mondo umano esistente è stato, è e sarà. Ecco perché Marx intende realizzare, prima di tutto, un nuovo atteggiamento filosofico, definito come “nuovo materialismo” o “materialismo storico”, che si pone in aperto contrasto nei confronti del vecchio materialismo speculativo o “intuizionista” (o “naturale”) di Feuerbach. Il primo passo che questo nuovo atteggiamento deve compiere, consiste nel prendere coscienza dell’aspetto attivo e pratico della natura umana, che si costituisce e si realizza soltanto nei rapporti materiali e sociali, rapporti che vanno indagati e compresi nella loro realizzazione storica. A ciò si deve aggiungere la ferma convinzione che solo una “prassi rivoluzionaria”, una totale trasformazione degli aspetti materiali e sociali, che interessano gli individui umani, potrà risolvere i problemi dell’uomo. Solo tramite l’azione (prassi) “criticamente illuminata e diretta” si può pervenire alla perfetta risoluzione finale di ogni contraddizione presente all’interno del mondo umano. Se, per Hegel, il valore e il significato degli individui umani, come di ogni altro “dato di fatto” naturale, è da ricondurre esclusivamente al valore e al senso assoluto dell’Idea, intesa dunque come protagonista esclusivo della storia, per Marx, esattamente all’opposto, è sugli individui umani, in quanto “dati di fatto” empiricamente osservabili, 181 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

che bisogna centrare l’attenzione per constatare e osservare quale valore e significato essi posseggono. Bisogna, per Marx, affidarsi, in modo rigoroso, soltanto all’osservazione empirica, evitando di cadere in vuote e arbitrarie astrazioni. Bisogna mettere in luce il contenuto autentico dell’esperienza immediata, che è da intendere come “l’insieme dei dati di fatto”, cioè l’insieme di quei “dati” materialmente constatabili, quali sono appunto gli individui umani, protagonisti concreti del mondo e soggetti esclusivi del divenire della storia. Risulta evidente quanto il richiamo all’osservazione diretta ed empirica dei dati di fatto immediatamente constatabili, avvicini l’atteggiamento filosofico di Marx, come egli stesso afferma, a quello delle “scienze naturali”. In questo senso, Marx è da intendere come colui che anticipa quell’atteggiamento sperimentale che la più recente filosofia svilupperà in maniera più completa e radicale, adeguandosi sempre più alle metodologie scientifiche basate appunto sull’osservazione empirica dei dati immediati, la qual cosa porterà all’abbandono della “speculazione” epistemica e metafisica per favorire, detto in termini marxiani, la “scienza reale e positiva”. Ritornando al nostro discorso, vediamo che se volessimo seguire Hegel – il quale ha come suo unico interesse quello di ritrovare l’idea pura, l’idea logica, in ogni elemento, sia della natura, sia della società –, ci ritroveremmo impossibilitati ad arrivare ad una conoscenza reale sia della natura che della società umana, in quanto potremmo attribuire ad esse soltanto dei caratteri astratti, cioè “delle determinazioni inconcepite, perché non concepite nella loro specifica essenza”. Lo stesso “materialismo intuizionista” di Feuerbach, che intendeva superare l’hegelismo, non riesce a sfuggire a tale sterilità dell’astrazione, in quanto esso “ha il difetto di considerare passivamente la realtà, come un dato immutabile, come qualche cosa che l’attività umana non possa assolutamente modificare”. Non resta, quindi, che capire in che modo bisogna in182 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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tendere la “specifica essenza” dell’uomo e quale sia l’azione trasformatrice, la prassi rivoluzionaria che l’uomo deve attuare per liberarsi dalle mille catene che lo immobilizzano. Immobilità, questa, che è il frutto amaro di secoli e secoli caratterizzati dalla più completa alienazione dell’uomo, alienazione che, nell’età moderna, coinvolge, sostanzialmente, il modo in cui l’uomo affronta la sua attività lavorativa. Il lavoro è l’essenza dell’uomo Secondo Marx, non bisogna considerare l’essenza dell’uomo come un qualcosa di fermo, di immutabile, di determinato una volta per tutte. Né tantomeno è possibile considerare quest’essenza come un qualcosa che riguardi esclusivamente l’interiorità, ovvero la coscienza dell’uomo. Ciò che l’uomo è, ciò che è la sua essenza, va invero rintracciata nei suoi rapporti esterni con gli altri uomini e con la natura, che gli permette di sussistere materialmente. Quel che distingue gli uomini dagli animali è anzitutto la capacità di produrre quei mezzi specifici che permettono all’uomo di sostenersi fisicamente e di sviluppare la propria vita sociale. “Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita”; oppure, “ciò che gli individui sono, dipende dal loro produrre, da ciò che essi producono e dal modo in cui essi lo producono”. Se la “produzione” è l’essenza dell’uomo, si capisce perché per Marx tale essenza non può che essere diveniente, in continuo sviluppo, non può non essere che storica, in quanto è assurdo affermare, giusto per fare un esempio, che nell’antico Egitto si producevano beni materiali nello stesso identico modo e con gli stessi identici mezzi adoperati per produrre nella Germania del 1800, o che nel Medioevo i ruoli e le caste sociali erano uguali a quelle dell’uomo selvaggio. 183 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

La produzione dei beni tramite il lavoro, appare dunque a Marx come ciò che contraddistingue essenzialmente l’uomo, e pertanto il “lavoro” non va inteso solamente come ciò che permette l’“esistenza fisica degli individui” ma, oltre a ciò, va inteso come il “modo determinato”, l’atteggiamento essenziale, attraverso cui gli individui “esternano la loro vita”. Il lavoro umano è il rapporto attivo dell’individuo con la natura e con la società, ed esso è “l’unica manifestazione della libertà umana cioè della capacità umana di creare la propria forma di esistenza specifica”. Certamente la libertà dell’uomo non è infinita, perché la produzione è sempre condizionata dalle possibilità materiali a disposizione e dai bisogni (esigenze) che si intende soddisfare e da quelli già sviluppati – nel deserto africano, per esempio, non sono certo libero di produrre dei pomodori, così come non sentirò il bisogno di produrre qualcosa di cui già dispongo. Quando si parla di produzione, lavoro, attività umana, non bisogna commettere l’errore di considerare i prodotti di tale lavoro come qualcosa di puramente materiale. A quest’ultimi vanno aggiunti tutte quelle altre determinanti produzioni che permettono agli uomini di collaborare e interagire tra loro per vivere insieme, e quindi per vivere in società, come è per esempio il linguaggio, il sistema scolastico, le manifestazioni artistiche e culturali e filosofiche, e tutto ciò che permette e favorisce la crescita e lo sviluppo della vita interpersonale di un determinato popolo o nazione. Andava sottolineato ciò, perché è di fondamentale importanza capire che, per Marx, pensare un individuo come un ente assolutamente isolato, e quindi considerare il mondo umano come una moltitudine di “atomi” chiusi in sé e non legati tra loro (asociali), come sosteneva Stirner, significa allontanarsi in modo definitivo dalla possibilità di comprendere ciò che veramente l’individuo è e il suo sviluppo storico. Infatti, per Marx, 184 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Karl Marx

“l’individuo è un ente sociale”, e la sua “manifestazione di vita” altro non è che “una manifestazione di vita e una affermazione di vita sociale”. È vero che gli individui umani producono materialmente i loro mezzi di sussistenza, quali sono il cibo, le abitazioni, i vestiti, gli attrezzi di lavoro, ecc., ma questa produzione non è isolata, non è compiuta singolarmente dalla volontà dei singoli individui, bensì è accompagnata dalla “produzione sociale”. Gli uomini, intenti a produrre tali mezzi, producono allo stesso tempo determinati “rapporti di produzione”, i quali sono sempre condizionati dal “grado di sviluppo delle forze produttive materiali dell’uomo”, cioè dalla natura dei mezzi di sussistenza già disponibili. Detto con le stesse parole di Marx, vediamo che “nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali”. L’insieme dei rapporti di produzione costituisce la “struttura “ economica di una determinata società, e su tale struttura, su tale “base reale”, viene costruita la “sovrastruttura” della “coscienza”, ossia l’insieme delle norme giuridiche, politiche, spirituali e culturali: “L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale”. È in base a come l’uomo “lavora” il mondo, a come lo trasforma tramite il suo lavoro, che l’uomo produce e trasforma la propria “ideologia”, la propria “coscienza”, i suoi pensieri sul mondo e sulla storia reale, essendo “il modo di produzione della vita materiale [ciò che] condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita”. 185 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

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Il materialismo storico Con l’intendere la vita dell’uomo come risultato del processo storico, Marx si propone di concepire un nuovo materialismo, che, come detto, prende il nome di “materialismo storico”. Esso ha come suo presupposto la convinzione che tutto ciò che è reale è in un incessante processo di trasformazione, è in un continuo sviluppo (svolgimento storico) caratterizzato da azione e reazione reciproca, ossia da incessanti conflitti e lotte. Già Hegel aveva messo in evidenza che la storia umana è da intendersi come un lungo processo di conflitti, contraddizioni e lotte. Queste lotte, però, erano esclusivamente “conflitti di idee”, essendo solo l’Idea ciò che si realizza in un processo incessante di contraddizioni e conflitti puramente ideali. Per Hegel, ogni singola fase della civiltà umana è una determinata “tesi”, e in quanto tesi è “l’incarnazione di un aspetto incompleto dell’Idea”. Tale aspetto incompleto, genera all’interno della società civile il desiderio di negare e quindi di contraddire tale incompletezza, e si ha così l’“antitesi”: fra questi due opposti (tesi e antitesi) segue necessariamente una lotta, dalla quale nasce la “sintesi” (negazione della negazione), la quale non è né la tesi né l’antitesi ma reca in sé elementi di entrambe. Ora, questa “sintesi” diviene a sua volta “tesi”, la quale inevitabilmente porterà alla comparsa dell’“antitesi”, e quindi alla comparsa di una nuova lotta per ottenere una superiore “sintesi”, e così via. In questo modo Hegel è convinto che si sia sviluppata la storia degli uomini, intesa come “attuazione graduale e progressiva della realtà immanente dell’Idea”. Marx mantiene tale processo conflittuale indicato da Hegel, che altro non è se non la riproposizione del metodo dialettico all’interno dello sviluppo storico delle civiltà, ma all’Idea sostituisce gli individui umani, la vita delle società umane svoltasi attraverso le varie epoche storiche, fino ad arrivare all’epoca contemporanea. Da una concezione idealistica, si passa quindi ad una concezione materialistica della storia, 186 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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dove lo svolgimento storico è costituito da una continua e reciproca azione degli uomini sulla natura e viceversa, degli uomini sulle forze produttive e viceversa. Secondo Marx, come detto, lo sviluppo della società è fondato sullo sviluppo delle forze produttive – “Secondo la concezione materialistica della storia l’elemento in ultima analisi determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale”. Ai suoi occhi la società borghese rappresenta la società civile giunta al suo pieno sviluppo – “Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana”. Lo sviluppo storico dei rapporti di produzione è maggiormente comprensibile se analizziamo lo sviluppo dei “rapporti di proprietà”, che sono quei rapporti che si instaurano nella società in base al modo in cui l’uomo possiede il proprio lavoro, i propri strumenti e i prodotti del proprio lavoro. Abbiamo quindi: – i rapporti di produzione asiatico, che si esprimono nella proprietà tribale dove i beni appartengono ancora a tutta la comunità; – i rapporti di produzione greco-romano, che si esprimono nella proprietà statale caratterizzata dalla nascita delle prime forme di proprietà private e dove i membri liberi dello Stato sono i proprietari degli schiavi; – i rapporti di produzione feudale, che si esprimono nella proprietà feudale, dove il centro economico si sposta dalla città alla campagna e al posto degli schiavi troviamo i contadini asserviti; – i rapporti di produzione borghese, che si esprimono nella proprietà privata borghese che detiene in modo esclusivo i mezzi di produzione e che si serve del lavoro degli operai per aumentare la propria potenza ed egemonia economica e sociale2.

2

  Ibidem, p. 90.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

Chiarito, a grandi linee, lo sviluppo storico dei rapporti di produzione, vediamo che dalla “classe borghese” nasce la classe del proletariato, così come dalla tesi, in modo inevitabile, nasce la propria antitesi. Di conseguenza, prende avvio una dura battaglia per togliere la contraddizione rappresentata da queste due classi che si oppongono reciprocamente, ossia prende avvio una “lotta di classi” per il conseguimento definitivo della sintesi pacificante e stabilizzatrice. A tale sintesi non si potrà giungere se non attraverso la rivoluzione proletaria, che condurrà ad uno stadio più alto della società, alla “società senza classi” rappresentata dalla società comunista. Proviamo ad andare per ordine, e snoccioliamo brevemente il contenuto del Manifesto del partito comunista3 scritto a quattro mani con Engels, dove questi temi sono trattati limpidamente. La borghesia moderna e il suo tramonto La storia moderna, per Marx e Engels, è caratterizzata dalla lotta di classe, in atto tra borghesi e proletari, ed è perciò importante definire anzitutto queste due classi tra loro contrapposte: – borghesia: “Per borghesia s’intende la classe dei moderni capitalisti, proprietari dei mezzi della produzione sociale e assuntori dei salariati”; – proletariato: “Per proletariato s’intende la classe dei moderni salariati i quali, non avendo mezzi di produzione propri, sono ridotti a vendere la loro forza-lavoro per vivere”. Da un lato, abbiamo chi possiede i mezzi di produzione,

3   Le citazioni di quest’opera sono tratte da: Marx – Engels, Manifesto del Partito comunista, Laterza, Bari 1966.

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i borghesi; dall’altro chi è costretto a lavorare con dei mezzi non suoi, i proletari. Da un lato abbiamo chi possiede il “capitale” (il denaro, la potenza economica) e dall’altro chi non possiede nulla ed è costretto a vendere la propria forza-lavoro, e quindi a “vendersi” per poter sopravvivere. Da un lato abbiamo chi non è obbligato a lavorare perché è lui che offre il lavoro ricavandone immediatamente profitto, e dall’altro chi è impossibilitato a non lavorare in quanto assolutamente indigente e nullatenente. Tale contrasto e opposizione radicale intercorrente tra queste due classi – che noi abbiamo, semplificando, ridotto a quella classe “che ha tutto” (capitale, mezzi, potenza) e a quella “che non ha niente” –, è ciò che caratterizza l’intera storia della società umana fino all’avvento della borghesia moderna, fondatrice della società capitalistica: “liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta”. La storia d’ogni società è dunque “storia di lotte di classi”, e la nostra epoca, che è l’epoca della borghesia capitalista, vede contrapposti due grandi “campi nemici”, due “classi direttamente contrapposte l’una all’altra”: la classe borghese e quella del proletariato. La borghesia si è sviluppata nella stessa misura in cui, dopo la scoperta dell’America e la circumnavigazione dell’Africa, si “estendevano industria, commercio, navigazione, ferrovie”. Grazie a questi mezzi, la borghesia ha potuto accrescere i suoi capitali e la sua potenza economica, divenendo così capace di superare le vecchie forme nonché le classi produttive del passato. A questo sviluppo materiale (struttura) si accompagna un cambiamento nell’apparato politico e statale (sovrastruttura). Infatti la borghesia, “dopo la creazione della grande industria e del mercato mondiale, si è conquistata il dominio politico esclusivo nello Stato rappresentativo moderno”, il quale è da conside189 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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rare come quel “comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese”, escludendo di conseguenza gli affari e gli interessi di tutte le altre classi sociali. La borghesia, inoltre, si contraddistingue da tutte le altre classi dominanti del passato (feudali, patriarcali, idilliche), per il fatto di rivoluzionare continuamente i propri sistemi di produzione (struttura) così come “tutte le situazioni sociali” e intellettuali (sovrastruttura). A tale trasformazione incessante, si deve aggiungere la grande proliferazione della borghesia in tutto il globo terreste, resa possibile dal commercio mondiale che la caratterizza (mercato delle Indie orientali e della Cina, colonizzazione dell’America, scambi con le colonie, ecc.), il quale pian piano costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema capitalistico della borghesia. Così come assoggetta sia la campagna al “dominio della città” che l’Oriente all’Occidente, la borghesia elimina sempre più la “dispersione dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione”, agglomerandole e centralizzandole “in poche mani”, che sono le mani dei capitalisti borghesi. Ma così come la borghesia supera e elimina la produzione e la proprietà feudale in quanto esse non corrispondevano più alle esigenze e alle forze produttive della borghesia nascente – caratterizzata dalla libera concorrenza, dalla “libertà di commercio priva di scrupoli”, dal traffico mondiale, dallo scambio internazionale, dalla concentrazione economica, ecc. – la stessa borghesia, giunta al suo massimo sviluppo, si trova a vivere l’identica (nonché contraddittoria) situazione di crisi e stravolgimento. Così Marx: “i rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti” – quali “il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l’applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, e il dissodamento d’interi continenti” – “rassomiglia al mago che non riesce più a do190 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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minare le potenze degli inferi da lui evocate”. Le numerose e periodiche crisi economiche che attanagliano la società borghese, sono causate perché “la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio”. Ciò significa che la borghesia non riesce più a contenere ciò che essa stessa ha prodotto, nello stesso modo in cui l’apparato produttivo-economico e politicosociale dell’età feudale non riuscì a contenere e a soddisfare le nuove esigenze nate al suo interno. Fatto, questo, che portò al suo inevitabile declino, favorito anzitutto dall’opera “sommamente rivoluzionaria” della borghesia nascente, la quale ha “lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo ‘pagamento in contanti’ ”. Così come da una tesi si genera (dialetticamente) sempre la propria antitesi, allo stesso modo la borghesia, sviluppandosi, ha creato da sé il proprio contrario, il proprio radicale negatore, il proprio uccisore: “la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le porteranno la morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari”. Essendo la stessa borghesia colei che “produce anzitutto i suoi seppellitori”, quali sono i proletari di tutto il mondo, “il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili”. La miseria del proletariato Man mano che la borghesia si sviluppa, perfezionando e intensificando il proprio potere economico, essendo essa il “capitale” tout court, ne consegue che coloro i quali rendono materialmente possibile questo maggior sviluppo e incremento capitalistico, si sviluppano al pari di essa. Coloro i quali, tramite la mano d’opera del loro lavoro, rendono materialmente possibile l’incremento e lo sviluppo del 191 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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capitale borghese, altro non sono che gli “operai moderni”, ovvero le masse enormi (di uomini, donne e fanciulli) del “proletariato” che lavorano all’interno delle grandi fabbriche del capitalista borghese. Marx a più riprese sottolinea questa dipendenza reciproca, questo legame necessario tra il capitale (“denaro”, “rendita fondiaria”) e il “lavoro salariato” dell’operaio: “il capitale presuppone il lavoro salariato, il lavoro salariato presuppone il capitale. Essi sono l’uno condizione dell’altro, essi si creano a vicenda. L’operaio di una fabbrica di cotone, produce forse solo stoffe di cotone? No, egli produce capitale”. Capitale questo, sia chiaro, di proprietà esclusiva (“privata”, “personale”, “indipendente”) del “proprietario borghese”, del “capitalista” appunto, e mai degli operai, i quali, al contrario, “vivono solo fintantoché trovano lavoro, e […] trovano lavoro solo fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale”. L’operaio moderno, oltre a essere costretto a lavorare sempre per il capitalista e mai per sé, si trova in una situazione che, per poco, non rasenta la povertà, perché quel che guadagna, ovvero il “salario” stabilito dal datore di lavoro borghese, “è sufficiente soltanto per riprodurre la sua nuda esistenza” e per la “riproduzione della sua specie” (i propri figli, i quali formeranno la futura forza lavoro delle fabbriche borghesi). Il proletario tramite il suo lavoro non crea nulla per se stesso. Il lavoro salariato (“il lavoro del proletario”) non crea “proprietà a questo proletario”, bensì crea proprietà (denaro, potenza economica e sociale: capitale) soltanto ai padroni borghesi (“classe dominante”), ovvero a coloro che sfruttano il lavoro salariato dell’operaio e che solo grazie a questo sfruttamento sono ciò che sono (capitalisti appunto), e detengono ciò che detengono (la “proprietà” economica e la “potenza sociale”): “l’operaio vive solo allo scopo di accrescere il capitale, e vive solo quel tanto che esige l’interesse della classe dominante”. L’industria moderna è caratterizzata soprattutto dall’utilizzo massiccio delle “macchine” e dalla divisione del lavo192 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ro, fattori questi che fanno sì che l’operaio, oltre a esser costretto “a vendersi al minuto”, oltre a essere una “merce come ogni altro articolo commerciale” esposto alle oscillazioni del mercato e della concorrenza, diviene un “semplice accessorio della macchina”. Operaio-accessorio che per otto-dieci ore (se non più) al giorno è tenuto a premere sempre lo stesso pulsante, a stringere sempre gli stessi identici bulloni di identici prodotti seriali, e così via. Tale monotonia quotidiana, tale perdita d’attrattiva per il proprio lavoro, fa cadere l’operaio nel “tedio” più buio, nella noia più assoluta, e a ciò si aggiunge l’aumento delle ore e della massa di lavoro, che aumenta in proporzione della crescita dell’uso delle macchine e della divisione del lavoro. La noia profonda e lacerante che investe l’operaio; lo spossessamento forzato dei frutti del proprio lavoro destinati a riempire, in gran parte, le larghe tasche del capitalista e in minima parte le pance magre dell’operaio e della sua misera famiglia; l’aumento sconsiderato dell’orario e del carico lavorativo, a cui l’operaio deve sottostare, senza lamentele, se vuol continuare a sopravvivere, non reca però nessun problema all’industriale moderno (“padrone di fabbrica”). Per quest’ultimo, dunque, gli operai delle sue fabbriche “sono soltanto strumenti di lavoro che costano più o meno a seconda dell’età e del sesso”, sono delle vere e proprie “merci” al pari del cotone e dei mattoni prodotti nelle proprie fabbriche. La rivoluzione comunista Come detto, il “proletariato” si sviluppa allo stesso modo di come si sviluppa il sistema industriale borghese, ma, si badi bene, ciò non significa affatto che il proletariato diviene più ricco e più agiato, bensì significa che esso sviluppa la “forza” e la potenza reale della sua “lotta contro la borghesia”, la quale è iniziata sin dall’esistenza stessa del 193 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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proletariato (in quanto antitesi necessaria e quindi inevitabile della tesi-borghesia). Il proletariato, “con lo sviluppo dell’industria non solo si moltiplica” – in quanto tutti i “piccoli ordini medi” della società, quali sono i piccoli industriali e commercianti, gli artigiani e i contadini, “precipitano nel proletariato”, perché soccombono di fronte alla potenza economica e concorrenziale della borghesia industriale – ma “sente” anche che la propria forza cresce. Il proletariato prende sempre più coscienza della propria miserabile e inumana condizione lavorativa, cominciando a preoccuparsi di difendere il proprio piccolo salario, che col passare del tempo viene sempre più livellato e diminuito, indistintamente, dai padroni di fabbrica. Gli operai cominciano ad unirsi sempre più tra loro, riunendosi in associazioni, superando i confini nazionali, formando delle vaste “coalizioni contro i borghesi” grazie ai collegamenti internazionali favoriti dal maggior sviluppo dei mezzi di comunicazione e dei mezzi di trasporto. Gli operai iniziano ad unirsi tra loro grazie allo sviluppo di quei mezzi costruiti proprio nelle fabbriche degli industriali, ossia nelle fabbriche degli “antagonisti” da abbattere per poter liberare il proletariato di tutto il mondo dallo sfruttamento, dalla mortificazione e dalla miseria che riduce l’attività dell’uomo a quella della bestia (mangiare, bere, procreare, e basta!). Siccome in ogni paese sviluppato esistono delle fabbriche con i suoi operai che allo stesso identico modo, in Italia come in Russia, vengono sfruttati e mercificati senza scrupolo, questi stessi operai pensano bene di associarsi tra loro, concentrando identici risentimenti, rimostranze e rivendicazioni in una unica grande “lotta nazionale, in una lotta di classe” diretta contro la classe borghese, contro il nemico comune. Ed “ogni lotta di classi è lotta politica”: il proletariato, una volta unitosi in modo compatto contro la borghesia, forma un vero e proprio partito politico, il “partito comunista”, che avrà come suo compito principale la “rivoluzione” radicale e la soppressione completa dei 194 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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rapporti di produzione della società borghese. Fatto, questo, che porterà alla negazione e all’eliminazione totale di quella contraddizione, nociva e mortificante, rappresentata dalla borghesia capitalistica e dalla sua sovrastruttura ideologica (Stato rappresentativo, morale ed etica borghese, cultura dominante, religione, ecc.). I comunisti, ovvero “la parte progressiva più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi””, tramite l’opera (la prassi) rivoluzionaria, vogliono trasformare il “capitale” dei pochi, ossia il capitale della borghesia, “in proprietà collettiva, appartenete a tutti i membri della società”. Eliminare il capitale significa abolire ogni classe sociale, essendo inevitabile che, fino a quando esisteranno storicamente delle “classi”, continueranno ad esistere gli oppressi e gli oppressori: gli uomini che lavorando non guadagnano e gli uomini che guadagnano non lavorando, gli operai e i capitalisti, i proletari e i borghesi, i poveri e i ricchi. I comunisti – i proletari unitisi in “partito” –, una volta assicuratisi il dominio politico tramite la rivoluzione comunista (“la più radicale rottura con i rapporti tradizionali di proprietà”), adopereranno questo dominio acquisito per accentrare tutti gli strumenti di produzione (macchine, fabbriche, mezzi di trasporti, ecc.) nelle mani dello Stato comunista, ossia nelle mani del “proletariato organizzato come classe dominante”. Essi faranno ciò per moltiplicare la massa delle forze produttive e di conseguenza aumentare quella “ricchezza collettiva” della quale beneficeranno tutti gli individui in egual misura, essendo il “comunismo” nient’altro che l’abolizione di ogni privilegio, di ogni esclusività e dominanza. Ciò potrà avvenire solo “mediante interventi dispotici” nei confronti della borghesia, che sarà espropriata dei propri beni sia materiali che economici, da destinare interamente allo Stato comunista che, a questo punto, sarà in grado di preoccuparsi dello “sviluppo onnilaterale degli individui”, nessuno escluso (“gli strumenti di produzione 195 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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debbono essere sfruttati in comune”; “la proprietà perde il suo carattere di classe”). È vero che i comunisti, divenendo Stato (“potere politico”) tramite la rivoluzione proletaria, rappresentano ancora una “classe dominante” organizzata per opprimerne un’altra, che in questo caso è la “classe borghese”, ma allo stesso tempo è vero che, proprio in quanto “classe dominante” capace dispoticamente di poter fare tutto, lo Stato comunista è in grado di abolire “con la forza” ogni differenza e ogni antagonismo di classe. Il che non significa altro che lo Stato comunista “abolisce le condizioni d’esistenza delle classi in genere, e così anche il suo proprio dominio in quanto classe. Alla vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi fra le classi subentra una associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti”. La società comunista La rivoluzione comunista, si è visto, si pone come l’unica azione umana, reale e concreta, capace di liberare l’uomo dalle catene disumanizzanti e dall’egemonia sfruttatrice e mortificante della società capitalistica. Soltanto la rivoluzione comunista può ciò, perché la liberazione e il progresso della natura umana non può essere conseguito tramite un perfezionamento spirituale da compiere sotto la guida della religione, o della morale o della filosofia (in quanto forme della sovrastruttura). Soltanto la rivoluzione del proletariato può liberare e far progredire la natura umana, perché la schiavitù e l’arretratezza dell’uomo costituiscono un problema sociale non risolvibile se non attraverso la trasformazione diretta e totale della struttura economica della società. Trasformare la struttura economica della società capitalistica tramite la rivoluzione del proletariato, per Marx significa trasformala in società comunista (o “comunistica”), ovvero: 196 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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– in quella società dove è soppressa ogni forma di proprietà privata, e dove quindi è abolito il capitale, causa principe e unica fonte dell’arricchimento dei proprietari borghesi e, allo stesso tempo, dell’impoverimento coatto del proletariato nullatenente; – in quella società dove il lavoro non è sottomesso alle aggressioni senza scrupoli della speculazione economica della concorrenza borghese caratterizzante il libero mercato capitalistico; – in quella società dove la divisione del lavoro – che comporta il fatto che il lavoratore è costretto a compiere solo quella determinata attività impostagli dal padrone e dalla quale “non può sfuggire” –, non sarà più contemplata e permessa: “nella società comunista, nessuno ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere”; – in quella società dove il lavoro (sia fisico che intellettuale) ridiventa “lo strumento della solidarietà umana”, il mezzo grazie al quale sarà gradualmente possibile realizzare “il completo, consapevole ritorno dell’uomo a se stesso, come uomo sociale, cioè come uomo umano”. L’inevitabilità storica del comunismo Ne Il Capitale, considerato come il suo capolavoro speculativo, Marx, attraverso la “fusione” di procedimenti filosofici (dialettica hegeliana) e di ricerche proprie dell’economia politica, si sforza dettagliatamente di giustificare, in modo scientifico, la necessità e quindi l’inevitabilità storica dell’avvento della società comunista. Per Marx, il comunismo non può non prendersi quello che storicamente gli spetta, non può non affermarsi come soppressione della contraddizione economica rappresentata dalla moderna società capitalistica. Il comunismo non può non affermarsi 197 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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come la sintesi suprema che cancella, in modo definitivo, la lotta cruenta e reale di quegli opposti rappresentati dalla classe della borghesia e da quella del proletariato. Il comunismo è l’esito invitabile di quel “moto storico che si va svolgendo sotto i nostri occhi” e che ha portato alla lotta di classe tra il proletariato e la borghesia, lotta causata dallo sviluppo inevitabile della stessa economia capitalistica. Tentiamo di comprendere come e perché questa lotta prende piede all’interno della società capitalistica. a) La struttura economica della società capitalistica è riassumibile nella seguente “tesi”: – il capitale privato della borghesia è frutto del lavoro degli operai, di cui essa non può fare a meno. Siccome il fenomeno fondamentale della società capitalistica è la produzione del denaro mediante denaro, ovvero la produzione del capitale tramite il capitale, e siccome tale profitto economico dipende dal lavoro fisico e materiale dell’operaio, risulta ovvio quanto sia indispensabile la presenza dell’operaio per attuare i fini della società capitalistica; b) La struttura economica della società capitalistica cova in sé la propria disfatta, il proprio tramonto, ossia incorre inevitabilmente nella propria contraddizione interna, la quale possiede i caratteri dell’“antitesi” così riassumibile: – per aumentare i loro capitali economici, i proprietari borghesi devono sfruttare sempre più i propri operai, impoverendoli costantemente, arrivando fino al punto di non riuscire più, contraddittoriamente, ad assicurare l’esistenza fisica proprio a quegli operai senza i quali non potrebbero accumulare capitale per arricchirsi (accumulazione capitalistica) e quindi per esistere; c) È proprio questo scontro contraddittorio degli opposti rappresentati dalle suddette “tesi” e “antitesi”, appartenenti entrambe alla stessa struttura economica della 198 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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società capitalistica, che porta inevitabilmente alla sua dissoluzione reale. Dissoluzione reale operata da quella sintesi dialettica (superamento degli opposti) rappresentata appunto dal comunismo, che, col suo avvento, toglierà l’intera massa di contraddizioni prodotte dalla struttura economica della società capitalistica: “La produzione capitalistica, genera essa stessa la propria negazione con la fatalità che presiede ai fenomeni della natura”. Marx adotta il metodo dialettico per comprendere il movimento reale dei fatti umani, perché esso è critico e rivoluzionario per essenza, in quanto comprende non solo lo stato di cose “esistente” (tesi, proprietari privati, borghesia moderna) ma anche la “negazione” inevitabile di esso (antitesi, proletari nullatenenti, poveri moderni). Il metodo dialettico, tramite il conflitto reciproco di questi opposti, rende possibile giungere al risultato finale rappresentato dalla sintesi del “comunismo”, che è da intendere come la necessaria e ineluttabile distruzione dell’intero stato di cose esistente (tesi-antitesi), in questo caso dell’intera società capitalistica. La dialettica è rivoluzionaria per essenza, perché in ogni stato di cose esistente, in questo caso nella società borghese, vede anche il suo “necessario tramonto”, la sua negazione, rappresentata in questo caso dalla lotta rivoluzionaria del proletariato. La dialettica è rivoluzionaria perché comprende che ogni stadio o configurazione della società appartiene al movimento progressivo della storia, e che quindi non può essere una configurazione immutabile ed eterna, bensì essa appartiene, come ogni dato di fatto umano, al “fluire del movimento” dialettico che, necessariamente, trasforma ogni configurazione positiva (tesi) nella propria opposizione negativa (antitesi). Il comunismo, dunque, coincide con la dialettica, anzi, è esso stesso la dialettica, in quanto è il “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”, in quanto è il movimento reale che abolisce la società capitalistica. La sin199 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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tesi suprema rappresentata dal comunismo, altro non è che la scomparsa definitiva delle divisioni in classi sociali e di conseguenza la scomparsa del dominio della proprietà privata, nonché la soppressione definitiva tanto della borghesia quanto del proletariato, tanto del capitale quanto del salario, in una parola, l’abolizione suprema tanto degli oppressori che degli oppressi: “Il comunismo è cioè la sintesi suprema in cui viene rimossa ogni contraddizione sociale e, insieme, è la liberazione concreta dell’individuo umano”4.

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  E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo, cit., p. 101.

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Il materialismo storico Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giu201 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

dicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. […] La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale, della religione, della metafisica, ecc. di un popolo. Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, così come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese. La coscienza non può mai essere qualche cosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita. Se nell’intera ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico. Esattamente all’opposto di quanto accade nella filosofia tedesca, che discende dal cielo sulla terra, qui si sale dalla terra al cielo. Cioè non si parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita. Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita, empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali. Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza dell’autonomia. Esse non hanno storia, non hanno sviluppo, ma gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la 202 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Karl Marx: pagine antologiche

vita, ma la vita che determina la coscienza. Nel primo modo di giudicare si parte dalla coscienza come individuo vivente, nel secondo modo, che corrisponde alla vita reale, si parte dagli stessi individui reali viventi e si considera la coscienza soltanto come la loro coscienza. (K. Marx - F. Engels, L’ideologia tedesca, Roma 1958, pp. 22- 24) L’alienazione del lavoro In che consiste ora l’alienazione del lavoro? Primieramente in questo: che il lavoro resta esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e che l’operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera attività fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito. L’operaio si sente quindi con se stesso soltanto fuori del lavoro, e fuori di sé nel lavoro. Come a casa sua è solo quando non lavora e quando lavora non lo è. Il suo lavoro non è volontario, bensì costrittivo, è lavoro forzato. Il lavoro non è quindi la soddisfazione di un bisogno, bensì è soltanto un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni ad esso. La sua estraneità risalta nel fatto che, appena cessa di esistere una costrizione fisica o d’altro genere, il lavoro è fuggito come una peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si aliena, è un lavoro-sacrificio, un lavoro mortificazione. Finalmente l’esteriorità del lavoro al lavoratore si palesa in questo: che il lavoro non è una cosa sua ma di un altro; che non gli appartiene, e che in esso egli non appartiene a sé, bensì a un altro. Come nella religione l’attività spontanea dell’umana fantasia, dell’umano cervello e del cuore umano, opera indipendentemente dall’individuo, cioè come attività estranea, divina o diabolica, così l’attività del lavoratore non è attività sua propria. Essa appartiene ad un altro, è la perdita del lavoratore stesso. Il risultato è che l’uomo (il lavoratore) si sente libero ormai soltanto nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere e nel generare, tutt’al più nell’aver una casa, nella sua cura personale ecc., e che nelle sue funzioni umane si sente solo più una bestia. Il bestiale diventa l’umano e l’umano il bestiale. Il mangiare, il bere, il generare ecc., sono in effetti anche schiette funzioni umane, ma sono bestiali nell’astrazione che le separa dal restante cerchio dell’umana attività e ne fa degli scopi ultimi 203 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

e unici. Abbiamo considerato da due lati l’atto di alienazione dell’attività pratica umana, del lavoro. 1) Il rapporto dell’operaio col prodotto del lavoro come oggetto estraneo e avente un dominio su di lui. Rapporto ch’è contemporaneamente rapporto col mondo sensibile, cogli oggetti naturali, come mondo che gli sta di fronte estraneo, nemico. 2) Il rapporto dell’operaio con l’atto di produzione nel lavoro. Rapporto ch’è il rapporto dell’operaio con la sua propria attività come estranea, non sua, l’attività come passività, la forza ch’è debolezza, la generazione ch’è castrazione, l’energia fisica e spirituale propria dell’operaio, la sua vita personale – che cos’è la vita se non attività – come un’attività rivolta contro lui stesso, e da lui indipendente, a lui non appartenente. […] Giacché primieramente il lavoro, l’attività vitale, la vita produttiva, appaiono all’uomo solo come un mezzo per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservazione dell’esistenza fisica. Ma la vita produttiva è la vita generica. È la vita generante la vita. Nel modo dell’attività vitale si trova l’intero carattere di una specie, il suo carattere generico. E la libera attività consapevole è il carattere generico dell’uomo. Ma la vita stessa appare, soltanto come mezzo di vita. L’animale fa immediatamente uno con la sua attività vitale, non si distingue da essa, è essa. L’uomo fa della sua attività vitale stessa l’oggetto del suo volere e della sua coscienza. Egli ha una cosciente attività vitale: non c’è una sfera determinata con cui immediatamente si confonde. L’attività vitale consapevole distingue l’uomo direttamente dall’attività vitale animale. Proprio solo per questo egli è un ente generico. Ossia è un ente consapevole, cioè ha per oggetto la sua propria vita, solo perché è precisamente un ente generico. Soltanto per questo la sua attività è libera attività. Il lavoro estraniato capovolge il rapporto in modo che l’uomo, precisamente in quanto è un ente consapevole, fa della sua attività vitale, della sua essenza, solo un mezzo per la sua esistenza. […] Proprio soltanto nella lavorazione del mondo oggettivo l’uomo si realizza quindi come ente generico. Questa produzione è la sua attiva vita generica. Per essa la natura si palesa opera sua (dell’uomo), e sua realtà. L’oggetto del lavoro è quindi l’oggettivazione della vita generica dell’uomo: poiché egli si sdoppia non solo intellettualmente, come nella coscienza, bensì attivamente, realmente, e vede se stesso in un mondo fatto da lui. Allorché, dunque, il lavoro alienato sottrae all’uomo l’oggetto della sua produzione, è la sua vita generica che gli sottrae 204 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Karl Marx: pagine antologiche

[…]. Egualmente, quando il lavoro alienato abbassa la spontaneità, la libera attività, ad un mezzo, fa della vita generica dell’uomo il mezzo della sua esistenza fisica. (K. Marx - F. Engels, in Scritti sull’arte, a cura di C. Salinari, Laterza, Bari 1970, pp. 195-199) La miseria disumana del denaro e della macchina Ogni uomo s’ingegna di procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo a un nuovo sacrificio, per ridurlo a una nuova dipendenza e spingerlo a un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica. Ognuno cerca di creare al di sopra dell’altro una forza essenziale estranea per trovarvi la soddisfazione del proprio bisogno egoistico. Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei ai quali l’uomo è soggiogato, e ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni. L’uomo diventa tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno di denaro, per impadronirsi dell’essere ostile, e la potenza del suo denaro sta giusto in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza del denaro. Perciò il bisogno di denaro è il vero bisogno prodotto dall’economia politica, il solo bisogno che essa produce. La quantità di denaro diventa sempre più il suo unico attributo di potenza: come il denaro ha ridotto ogni essere alla propria astrazione, così esso si riduce nel suo proprio movimento a mera quantità. La sua vera misura è di essere smisurato e smoderato. Così si presenta la cosa anche dal punto di vista soggettivo: in parte l’estensione dei prodotti e dei bisogni si fa schiava – schiava ingegnosa e sempre calcolatrice – di appetiti disumani, raffinati, innaturali e immaginari; la proprietà privata non sa fare del bisogno grezzo un bisogno umano; il suo idealismo è l’immaginazione, l’arbitrio, il capriccio. […] Ogni prodotto è un’esca con cui si vuole attrarre a sé ciò che costituisce l’essenza dell’altro, il suo denaro; ogni bisogno reale o soltanto possibile è una debolezza che farà cascare la mosca nella trappola – sfruttamento universale dell’essere sociale dell’uomo. […] Ogni necessità è un’occasione per presentarsi al proprio prossimo sotto le più allettanti spoglie e dirgli: caro amico, io ti do quel che ti è necessario, ma tu conosci la conditio sine 205 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

qua non, tu sai con quale inchiostro devi scrivere l’impegno che assumi con me; nel momento stesso in cui ti procuro un godimento, io ti scortico. In parte questa estraniazione si rivela nel fatto che il raffinamento dei bisogni e dei loro mezzi produce, da un lato, un imbarbarimento animalesco, e una completa, rozza, astratta semplificazione dei bisogni, dall’altro; o meglio, altro non fa che riprodurre se stesso in senso inverso. Lo stesso bisogno dell’aria aperta cessa di essere un bisogno per chi lavora; l’uomo ritorna ad abitare nelle caverne, la cui aria però è ormai viziata dal mefitico alito pestilenziale della civiltà, e ove egli abita ormai soltanto a titolo precario, rappresentando esse per lui ormai un’estranea potenza che può essergli sottratta ogni giorno e da cui ogni giorno può essere cacciato se non paga. Perché questo sepolcro lo deve pagare. La casa luminosa che, in Eschilo, Prometeo addita come uno dei grandi doni con cui ha trasformato i selvaggi in uomini, non esiste più per chi lavora. La luce, l’aria ecc., la più elementare pulizia, di cui anche gli animali godono, cessa di essere un bisogno per l’uomo. La sporcizia, questo impantanarsi e putrefarsi dell’uomo, la fogna (in senso letterale) della civiltà, diventa per l’uomo un elemento vitale. Diventa un suo elemento vitale il completo e innaturale abbandono, la natura putrefatta. Nessuno dei suoi sensi esiste più, non solo nella sua forma umana, ma anche in una forma disumana, e quindi neppure in una forma animalesca. Le forme più rozze, i più rozzi strumenti del lavoro umano vengono riesumati: la macina degli schiavi romani è diventata la forma di produzione, la forma di esistenza di molti operai inglesi. L’uomo non solo non ha più bisogni umani; ma in lui anche i bisogni animali vengono meno. L’irlandese conosce soltanto il bisogno di mangiare, o meglio soltanto il bisogno di mangiare patate, o meglio ancora soltanto il bisogno di mangiare le patate della qualità più scadente. Ma l’Inghilterra e la Francia possiedono già in ogni città industriale la loro piccola Irlanda. Il selvaggio, la bestia hanno ancora se non altro il bisogno della caccia, del moto ecc., della società. La semplificazione della macchina, il lavoro vengono utilizzati per trasformare in operaio l’uomo ancora in via di sviluppo, l’uomo che non è ancora affatto formato – il fanciullo – allo stesso modo che l’operaio è diventato un fanciullo abbandonato all’incuria più totale. La macchina si adatta alla debolezza dell’uomo, per fare dell’uomo debole una macchina. (K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einuadi, Torino 1975, pp. 127-133) 206 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Perché la borghesia deve essere abbattuta Fra tutte le classi che oggi stanno di contro alla borghesia, il proletariato soltanto è una classe realmente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e tramontano con la grande industria; il proletariato è il suo prodotto più specifico. Gli ordini medi, il piccolo industriale, il piccolo commerciante, l’artigiano, il contadino, combattono tutti la borghesia, per premunire dalla scomparsa la propria esistenza come ordini medi. Quindi non sono rivoluzionari ma conservatori. Anzi, sono reazionari, poiché cercano di far girare all’indietro la ruota della storia. Quando sono rivoluzionari, sono tali in vista del loro imminente passaggio al proletariato, non difendono i loro interessi presenti, ma i loro interessi futuri, e abbandonano il proprio punto di vista per mettersi da quello del proletariato. […] Le condizioni di esistenza della vecchia società sono già annullate nelle condizioni di esistenza del proletariato. Il proletariato è senza proprietà. […] Leggi, morale, religione sono per lui altrettanti pregiudizi borghesi, dietro i quali si nascondono altrettanti interessi borghesi. Tutte le classi che si sono finora conquistato il potere hanno cercato di garantire la posizione di vita già acquisita, assoggettando l’intera società alle condizioni della loro acquisizione. I proletari possono conquistarsi le forze produttive della società soltanto abolendo il loro proprio sistema di appropriazione […] che c’è stato finora. I proletari non hanno da salvaguardare nulla di proprio, hanno da distruggere tutta la sicurezza privata e tutte le assicurazioni private che ci sono state fin qui. Tutti i movimenti precedenti sono stati movimenti di minoranze, o avvenuti nell’interesse di minoranze. Il movimento proletario è il movimento indipendente della immensa maggioranza. Il proletariato, lo strato più basso della società odierna, non può sollevarsi, non può drizzarsi, senza che salti per aria l’intera soprastruttura degli strati che formano la società ufficiale. La lotta del proletariato contro la borghesia è in un primo tempo lotta nazionale, anche se non sostanzialmente, certo formalmente. È naturale che il proletariato di ciascun paese debba anzitutto sbrigarsela con la propria borghesia. Delineando le fasi più generali dello sviluppo del proletariato, abbiamo seguito la guerra civile più o meno latente all’interno della società attuale, fino al momento nel quale quella guerra erompe in aperta rivoluzione e nel 207 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

quale il proletariato fonda il suo dominio attraverso il violento abbattimento della borghesia. Ogni società si è basata finora, come abbiam visto, sul contrasto fra classi di oppressori e classi di oppressi. Ma, per poter opprimere una classe, le debbono essere assicurate condizioni entro le quali essa possa per lo meno stentare la sua vita di schiava. Il servo della gleba, lavorando nel suo stato di servo della gleba, ha potuto elevarsi a membro del Comune, come il cittadino minuto, lavorando sotto il giogo dell’assolutismo feudale, ha potuto elevarsi a borghese. Ma l’operaio moderno, invece di elevarsi man mano che l’industria progredisce, scende più al di sotto delle condizioni della sua propria classe. L’operaio diventa un povero, e il pauperismo si sviluppa anche più rapidamente che la popolazione e la ricchezza. Da tutto ciò appare manifesto che la borghesia non è in grado di rimanere ancora più a lungo la classe dominante della società e di imporre alla società le condizioni di vita della propria classe come legge regolatrice. Non è capace di dominare, perché non è capace di garantire l’esistenza al proprio schiavo neppure entro la sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo sprofondare in una situazione nella quale, invece di esser da lui nutrita, essa è costretta a nutrirlo. La società non può vivere sotto la classe borghese, vale a dire l’esistenza della classe borghese non è più compatibile con la società. La condizione più importante per l’esistenza e per il dominio della classe borghese è l’accumulazione della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e la moltiplicazione del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro. Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è veicolo involontario e passivo, fa subentrare all’isolamento degli operai risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria, risultante dall’associazione. Con lo sviluppo della grande industria, dunque, vien tolto di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili. (K. Marx - F. Engels, Manifesto del partito comunista, Laterza, Bari 1958, pp. 71-76)

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Il comunismo abolisce tutte le verità eterne Ci rimproverate di voler abolire lo sfruttamento dei figli da parte dei genitori? Confessiamo questo delitto. Ma voi dite che sostituendo l’educazione sociale a quella familiare noi aboliamo i rapporti più cari. E anche la vostra educazione, non è determinata dalla società? Non è determinata dai rapporti sociali entro i quali voi educate, dalla interferenza più o meno diretta o indiretta della società mediante la scuola e così via? I comunisti non inventano l’influenza della società sull’educazione, si limitano a cambiare il carattere di tale influenza, e strappano l’educazione all’influenza della classe dominante. La fraseologia borghese sulla famiglia e sull’educazione, sull’affettuoso rapporto fra genitori e figli diventa tanto più nauseante, quanto più, per effetto della grande industria, si lacerano per il proletario tutti i vincoli familiari, e i figli sono trasformati in semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro. […] Inoltre, si è rimproverato ai comunisti ch’essi vorrebbero abolire la patria, la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro quello che non hanno. Poiché la prima cosa che il proletariato deve fare è di conquistarsi il dominio politico, di elevarsi a classe nazionale, di costituire se stesso in nazione, è anch’esso ancora nazionale, seppure non certo nel senso della borghesia. Le separazioni e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno scomparendo sempre più già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e delle corrispondenti condizioni d’esistenza. Il dominio del proletariato li farà scomparire ancor di più. Una delle prime condizioni della sua emancipazione è l’azione unita, per lo meno dei paesi civili. Lo sfruttamento di una nazione da parte di un’altra viene abolito nella stessa misura che viene abolito lo sfruttamento di un individuo da parte di un altro. Con l’antagonismo delle classi all’interno delle nazioni scompare la posizione di reciproca ostilità fra le nazioni. Non meritano d’essere discusse in particolare le accuse che si fanno al comunismo da punti di vista religiosi, filosofici e ideologici in genere. C’è bisogno di profonda comprensione per capire che anche le idee, le opinioni e i concetti, insomma, anche la coscienza degli uomini cambia col cambiare delle loro condizioni di vita, delle loro relazioni sociali, della loro esistenza socia209 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

le? Cos’altro dimostra la storia delle idee, se non che la produzione intellettuale si trasforma assieme a quella materiale? Le idee dominanti di un’epoca sono sempre state soltanto le idee della classe dominante. Si parla di idee che rivoluzionano un’intera società; con queste parole si esprime semplicemente il fatto che entro la vecchia società si sono formati gli elementi di una nuova, e che la dissoluzione delle vecchie idee procede di pari passo con la dissoluzione dei vecchi rapporti d’esistenza. Quando il mondo antico fu al tramonto, le antiche religioni furono vinte dalla religione cristiana. Quando nel secolo XVIII le idee cristiane soggiacquero alle idee dell’illuminismo, la società feudale dovette combattere la sua ultima lotta con la borghesia allora rivoluzionaria. Le idee della libertà di coscienza e della libertà di religione furono soltanto l’espressione del dominio della libera concorrenza nel campo della coscienza. Ma, si dirà, certo che nel corso dello svolgimento storico le idee religiose, morali, filosofiche, politiche, giuridiche si sono modificate. Però in questi cambiamenti la religione, la morale, la filosofia, la politica, il diritto si sono sempre conservati. Inoltre vi sono verità eterne, come la libertà, la giustizia e così via, che sono comuni a tutti gli stati della società. Ma il comunismo abolisce le verità eterne, abolisce la religione, la morale, invece di trasformarle; quindi il comunismo si mette in contraddizione con tutti gli svolgimenti storici avuti sinora. A che cosa si riduce questa accusa? La storia di tutta quanta la società che c’è stata fino ad oggi s’è mossa in contrasti di classe che hanno avuto un aspetto differente a seconda delle differenti epoche. Lo sfruttamento d’una parte della società per opera dell’altra parte è dato di fatto comune a tutti i secoli passati, qualunque sia la forma ch’esso abbia assunto. Quindi, non c’è da meravigliarsi che la coscienza sociale di tutti i secoli si muova, nonostante ogni molteplicità e differenza, in certe forme comuni: forme di coscienza, che si dissolvono completamente soltanto con la completa scomparsa dell’antagonismo delle classi. La rivoluzione comunista è la più radicale rottura con i rapporti tradizionali di proprietà; nessuna meraviglia che nel corso del suo sviluppo si rompa con le idee tradizionali nella maniera più radicale. (K. Marx - F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., pp. 86-90)

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Soren Kierkegaard

Io scelgo l’assoluto. Ma che cos’è l’assoluto? Sono io stesso nel mio eterno valore, altro all’infuori di me stesso non potrò mai scegliere come assoluto; poiché se scelgo qualche cosa d’altro lo scelgo come una cosa finita, e perciò non lo scelgo in modo assoluto. Perfino l’ebreo che scelse Dio, non lo scelse in modo assoluto, poiché scelse sì l’assoluto, ma non lo scelse assolutamente, e così cessò di essere assoluto e divenne una cosa finita. Ma che cosa è questo me stesso? Se volessi parlare di un primo momento, di una sua prima espressione, la mia risposta sarebbe: è la cosa più astratta di tutte, che nello stesso tempo in sé è la più concreta – è la libertà. Kierkegaard

Soren Kierkegaard: vita e opere Soren Aabye Kierkegaard nasce a Copenaghen il 5 maggio 1813; riceve sin da giovanissimo un’educazione fortemente improntata al pietismo che lo portò a maturare un grande senso del peccato che condizionerà l’intera sua esistenza. Nel 1830 si iscrive alla facoltà di teologia dell’Università della sua città natale, con l’intento di diventare pastore protestante. Nel 1840 si fidanza con la diciottenne Regina 211 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

Olsen, ma il fidanzamento sarebbe durato solo un anno: Kierkegaard, infatti, annebbiato dal persistente senso del peccato e dall’idea che fosse ricaduta su di lui e sulla sua famiglia una sorta di maledizione divina, fa il possibile per portare la fidanzata a disamorarsi di lui. Di tale scelta ne serbò il rimpianto per tutta la vita. Si trasferisce poi a Berlino per ascoltare le lezioni di Schelling, ma la sua curiosità non trova soddisfazione e decide di tornare a Copenaghen. Scontroso, introverso, Kierkegaard condusse una vita molto solitaria e tranquilla; gli unici episodi rilevanti sono gli attacchi che il giornale satirico “Il corsaro” mosse nei confronti suoi e del conformismo religioso che connotava la sua esistenza. Morì nella sua città natale l’11 novembre 1855. Le sue opere sono: Aut-Aut (1843); Timore e Tremore (1843); Il concetto dell’angoscia (1844); Briciole di filosofia (1844); Postilla conclusiva non scientifica (1846); La malattia mortale (1849); Diario (pubblicato postumo). Il rifiuto della speculazione astratta L’opera di Kierkegaard rappresenta il rifiuto radicale dell’intero procedimento speculativo che, da Hegel in poi, prese piede nel mondo filosofico. Pur non mancando abbondanti e precisi riferimenti critici nei confronti di Hegel e dei suoi “discepoli” (i neohegeliani), la contestazione di Kierkegaard si rivolge all’intera filosofia e ai suoi propositi epistemici. Il nemico numero uno è la “speculazione” tout court, dove per “speculazione” dobbiamo intendere quel procedimento teorico che si impegna ad affermare l’obiettività neutra e impersonale del filosofare. La “speculazione” esclude dal suo intento teorico la descrizione e lo studio delle emozioni personali, dei moti sentimentali e degli stati d’animo dell’individuo, per pervenire ad un risultato di obbiettività e constatabilità inconfutabile, rigorosamente intellettuale, razionale, assoluta, in una parola, “scientifica”. 212 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Sören Kierkegaard

Codesto modo di procedere, appare a Kierkegaard come la massima espressione della negazione del reale soggetto umano e della sua singolare esistenza nel mondo, perpetrata in nome di un illusorio e freddo sapere “puro”, neutro, sovra-personale, astratto, oggettivo. Questa precisa presa di posizione, si traduce nel netto rifiuto del sistema hegeliano, che pretende di poter prescindere dall’“io” personale, per interessarsi esclusivamente alle forme dello “spirito oggettivo”, quali l’umanità, lo Stato, la Storia del mondo, e via dicendo. Hegel non si è preoccupato d’approfondire l’individuo reale inteso come singola entità calata nel mondo, si è interessato soltanto dell’“Uomo”, inteso come concetto generale, come “genere”, in quanto il “reale” stesso coincide con il progressivo autorealizzarsi del Concetto (Idea, Logos). Essendo la filosofia speculativa (o filosofia razionale) interessata unicamente ai concetti, all’uomo in generale, al concetto di uomo – risolvendo il singolo nella specie, l’individuo nel genere umano - è ovvio che essa trascuri e tralasci dalla sua analisi quell’esistente concreto, “quel singolo” direbbe Kiekegaard, che possiamo essere io e tu. Per Kierkegaard, esattamente al contrario di quanto appena detto, “un uomo singolo non ha certo una esistenza concettuale”, e sarà proprio sul “Singolo” e sulla sua concreta esistenza che “resta fuori, e in ogni modo non coincide, con il concetto”, che farà leva per rovesciare il sistema speculativo hegeliano e zittire, una volta per tutte, i pedanti seguaci. Il Singolo è quella irripetibile particolarità, che non può essere dissolta all’interno di un sistema filosofico che intende fornire esclusivamente delle definizioni generali, oggettive e assolute, negando quindi ogni valore e significato al singolare, al particolare, all’individuo umano. Il sistema speculativo, tralascia dalla sua indagine tutto ciò che non rientra nel campo della scientificità obbiettiva, dell’esattezza logica, della coerenza lineare e della necessità razionale, convinto com’è che “l’incomprensibile sia qualcosa di falso e secondario”. Ciò che esso tralascia, in realtà, non è che il Singolo, il 213 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

quale è caratterizzato dalla passione, dal pathos, dall’ambiguità, dall’irrazionale, dall’incoerenza, dalla pazzia, dal patologico, dall’estasi, in una parola, dall’“incomprensibile”. L “io” individuale kierkegaardiano confuta ogni forma di sapere sistematico-epistemico, ogni scienza che pretende di avere una conoscenza universale, così come contesta ogni forma di “panteismo” e “immanentismo” (derivanti da tale impostazione speculativa) che intendono ridurre e riassorbire l’individuale nell’universale. Allo stesso modo, la categoria del Singolo rifiuta ogni tipo di argomentazioni politiche e sociali, si contrappone in modo netto al “pubblico”, al “numero”, alla “massa”, alla “pluralità”, alla “plebaglia”, alla “folla”, ovvero a ciò il nostro filosofo aborriva e tacciata come sintomo esplicativo di una decadenza pericolosa nonché di una devianza annichilente e mortifera. Gli uomini, avverte Kierkegaard, non intendono più riconoscersi come singoli individui, preferiscono “essere come gli altri”, conformarsi alla vita e alle “verità” della “massa degli scimmiotti”, perché “amare la Folla oppure fingere di amarla, farne l’istanza per la verità è la via per la quale poter acquistare materialmente potenza, ottenere vantaggi sia temporali sia mondani di qualunque genere”. Ma “tutta questa massa, questi milioni, contano zero, sono esistenze sprecate, perdute”. La folla è “il male del mondo”, “è la falsità” per eccellenza che abita il mondo umano, e poiché annulla il Singolo distruggendone la sua autonomia e la sua inderogabile responsabilità personale, rappresenta “l’unico tiranno e la perdizione fondamentale”: “In verità non vi è nessun luogo, neppure quello destinato nel modo più abominevole ai piaceri e ai vizi, dove l’uomo si corrompe così facilmente come in mezzo alla folla”. Il Singolo è la causa del Cristianesimo Con Kierkegaard, assistiamo alla più vigorosa affermazione dell’importanza e della centralità dell’individuo preso nel214 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Sören Kierkegaard

la sua irripetibile singolarità e unicità, e ciò avviene in modo ancor più perentorio rispetto alla concezione di Stirner e di Feuerbach. Quest’ultimo, pur rivendicando la necessità di rivalutare l’individuo sensibile, si preoccupò di inserirlo nella categoria universale della “ragione” intesa come essenza dell’uomo in generale, affermando che l’individuo singolo deve necessariamente integrarsi alla vita intersoggettiva e comunitaria, se vuole esprimersi e realizzarsi in modo maturo e autentico. Dal suo canto Stirner, dopo aver dichiarato guerra a tutto ciò che limitava la libera potenza ed espressione dell’Unico (l’egoista), si limitò ad esporre come e perché il singolo individuo deve considerarsi ed essere il libero proprietario di se stesso, e di tutto ciò che la sua forza e il suo coraggio gli permettono di conquistare e possedere. Con Kierkegaard, e questo rappresenta il suo contributo inedito, siamo guidati ad introdurci nell’“interiorità” del singolo uomo, nel suo cuore e nelle sue viscere, nei suoi più intimi e segreti recessi. L’accento viene messo sulle paure, sui timori e sui tremori che il singolo uomo vive durante la sua particolare, soggettiva e originale esistenza; come sulla disperazione e sull’angoscia, che accompagnano inevitabilmente il lungo e tortuoso cammino dell’irripetibile e irriducibile esistenza della singolarità umana. Ora, tale evidenziazione del Singolo, non è operata in nome di una pura e semplice esaltazione fine a se stessa, che pretenda di far dell’uomo la causa unica del mondo e della vita in generale, bensì è interessata a collegare questo Singolo alla “trascendenza” di Dio, e in special modo con quella trascendenza “magnifica” e “paradossale” rappresentata dal Cristo Redentore. Se nella specie animale “il singolo è inferiore al genere”, nel genere umano invece il Singolo “è più alto del genere”, proprio perché “ogni singolo è creato ad immagine di Dio”. Soltanto dopo aver riportato la giusta luce sull’unicità e sul valore eccezionale che ogni singolo individuo, in quanto creatura di Dio, concretamente possiede, è possibile, per Kierkegaard, far di questa singolari215 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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tà umana quell’essere speciale che ha nelle sua possibilità esistenziali l’incontro con la parola del Signore, la sola capace di salvare e redimere l’essere umano. Il rapporto tra l’uomo e Dio, che deve e può essere accettato soltanto in nome della “fede”, è da intendere come un rapporto solitario che il soggetto intraprende con la trascendenza divina. Questo rapporto avviene nella più completa solitudine del Singolo, che si trova completamente solo “davanti a Dio”, ponendosi nel chiuso della sua intimità in quel colloquio superiore e silenzioso che è la preghiera, la quale è sempre ascolto di ciò che Dio ha da dire a colui che ha fede in lui e mai il contrario. Infatti, “la relazione della preghiera non è autentica quando Dio ascolta quello che gli si chiede, ma quando colui che prega continua a pregare, finquando non è lui a diventare colui che ascolta, che ascolta quello che Dio vuole. […] Chi prega in maniera autentica sta semplicemente in ascolto”. L’uomo può incontrare la “dolcezza” del Dio cristiano, il quale è a un tempo il “Salvatore” e il “Giudice”, non attraverso la mediazione operata dalla Chiesa ufficiale, dai preti né tantomeno dai pastori protestanti, bensì tramite un rapporto diretto tra il Singolo e Cristo, da approfondire con l’apporto fondamentale del Nuovo Testamento: soltanto “la sacra scrittura indica la via, Cristo è la Via”. Il “cavaliere della fede”, il credente è appunto colui che ha compreso che nessuno può mettersi al suo posto “davanti a Dio”, in quanto “la legge dell’esistenza (che a sua volta è Grazia) che Cristo ha istituito per essere uomo è: méttiti in rapporto come Singolo con Dio”. Per Kierkegaard, “il cristianesimo può soltanto essere annunciato quasi nello stato di isolamento”, senza lasciarsi distrarre dalle chiacchiere della “massa”, della “folla”, della “moltitudine” degli uomini, che “non fa caso al cristianesimo come alla voce dal cielo (Gv., 12, 29), essi la ascoltano, ma non la capiscono e pensano che sia il tuono – oppure ascoltano la voce, ma non vedono chi è colui che parla (At., 9, 7)”. Lo stesso Cristo, pur rivolgendosi a tut216 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ti, “non ha voluto avere a che fare con la Folla, perché non ha voluto avere nessun aiuto dalla Folla”, e questa purezza d’intenzioni è stata possibile perché egli “volle essere ciò che egli era, la verità che si rapporta al singolo”. È ridicolo voler arrivare a Dio con la ragione La destra hegeliana aveva tra i suoi propositi quello di far combaciare la filosofia razionale al discorso religioso del cristianesimo. Agli occhi di Kierkegaard, ciò risulta più che mai goffo e comico, in quanto questo tentativo cade nell’illusione scellerata di poter spiegare tutti i contenuti della rivelazione biblica tramite quella razionalità obbiettiva che, come detto, è ciò che caratterizza l’impianto sistematico della filosofia hegeliana. È questo il tratto ottimistico della speculazione hegeliana, che ha pensato bene di volatilizzare tutti i concetti irrazionali, dogmatici e soprannaturali caratterizzanti il cristianesimo, riconducendoli arbitrariamente, seppur in modo coerente col suo intento razionalizzante, all’interno della sfera logica. Se Hegel, “con coerenza perfetta, ha volatilizzato tutti i concetti dogmatici al punto che riescono appena a conservare un’esistenza ridotta come ingegnose espressioni della sfera logica”, chi ha continuato il suo discorso, al pari di esso, è fermamente convinto che “ogni dogma non è altro che un distillato più concreto della comune coscienza umana”. Se da un lato per Hegel è la filosofia, e non la religione, a rappresentare il culmine dell’appropriazione della verità da parte dell’uomo, dall’altro lato i teologi della destra hegeliana, tentando di far coincidere, di accordare, di armonizzare filosofia e religione, hanno alterato il significato originale di quest’ultima subordinandola definitivamente alla “razionalità assoluta del sistema”, al pari del loro maestro tedesco. La ragione è divenuta quindi il nuovo “Dio” della filosofia speculativa. Anche questo tentativo di 217 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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inserire la religione (il messaggio divino) in un discorso razionale-scientifico – che rende il cristianesimo un insieme di dottrine molto ragionevoli e fa di Dio semplicemente il “superlativo dell’essere uomo” – cade inevitabilmente nella più bieca stupidità. Questa stupidità è tale perché intende “giustificare il cristianesimo davanti agli uomini”, non comprendendo affatto che il compito davvero importante dell’uomo è, al contrario, di “giustificare se stessi davanti al cristianesimo”. Ciò che a Kierkegaard appare ancor più stupido, tanto da sfociare ancora una volta nel ridicolo, è la frivola pretesa di giustificare e di dimostrare scientificamente e con tutti i mezzi tecnici-teorici a disposizione (“mappamondi”, riscontri storici e geografici, ricerche filologiche, ecc.), l’esistenza di Dio e quindi la divinità del Cristo. È nel corposo Diario, pubblicato postumo, che Kierkegaard insiste più volte su tale assurdità e sulla differenza insanabile tra la speculazione e la fede, ed è qui che troviamo alcune affermazioni talmente chiare che non necessitano di ulteriori approfondimenti: “Il voler dimostrare l’esistenza di Dio è la cosa più ridicola di tutte. O Egli esiste, e allora non si può dimostrarlo (così come io non posso dimostrare che qualcun esista; al massimo posso trovare delle testimonianze, ma così presuppongo però l’esistenza) – oppure Dio non esiste, ma allora neanche questo può essere dimostrato”; “Per tutto ciò che è umano vale questo principio: più ci si riflette, meglio si capisce. Ma per tutto ciò che è divino, più ci si riflette, meno lo si capisce. Questa è la differenza qualitativa, e fa sì che sia impossibile altrimenti; l’eterogeneità qualitativa fra Dio e l’uomo deve proprio mostrare questo stato di cose”; “La speculazione può comprendere tutto – tranne come io sia arrivato alla fede oppure come la fede sia entrata nel mondo. Ma la filosofia considera la fede come una somma di teoremi”; “Con la speculazione si cerca di entrare nel cristianesimo, in realtà speculando si scaccia il cristianesimo dal mondo”. La speculazione potrà anche occuparsi, con lodevole 218 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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successo, delle cose del mondo, ma non della fede; di fronte ad essa deve sostanzialmente restare in profondo e rispettoso silenzio, perché “la fede è esattamente il ‘punto fuori dal mondo’ il quale perciò muove anche tutto il mondo. È facile vedere che quello che emerge, dalla negazione di tutti punti del mondo, è il punto fuori dal mondo. Dal sillogismo: ‘Non c’è nessuna giustizia, ma soltanto ingiustizia’, da questo dimostrare che c’è la giustizia – cioè che essa deve certamente esistere fuori dal mondo; ecco il punto fuori. Questo è il sillogismo della fede. Prendete l’assurdo: il negare ogni comprensione spinge ad andare fuori dal mondo, verso l’assurdo – e qui sta la fede”1. La fede autentica crede nell’assurdo Kierkegaard insiste ad affermare che, se si vuole ritornare ad un senso autentico del cristianesimo, inteso davvero come il supremo legame fra Dio e l’uomo, bisogna capire, una volta per tutte, che la fede è l’opposto della ragione. Bisogna capire che la ragione non può comprendere la fede, che la razionalità umana è impossibilitata a comprendere il messaggio divino. Tra Dio e l’uomo vi è una “distanza qualitativa” incolmabile. Se Dio è infinito, è infinita anche la distanza tra lui e l’uomo. Orbene, quale è per Kierkegaard la definizione di fede, ovvero il concetto cristiano di fede? Che cosa significa per lui credere? “È volere (quello che si deve e perché si deve) difendersi, devotamente e in maniera incondizionatamente obbediente, contro il vano pensiero di voler comprendere e contro la vana illusione di poter comprendere”. La fede in Cristo è così diversa dalla ragione dell’uomo, che essa

1   Ultime citazioni tratte da: S. Kierkegaard, Aforismi e pensieri, Newton Compton, Roma 1995.

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si presenta caratterizzata da una paradossalità e una assurdità radicale e incontrovertibile. Ma cos’è il paradosso e l’assurdo? Ebbene, “l’assurdo, il paradosso, è congegnato in modo tale che la ragione da sola non può mai risolverlo e dimostrare che è un nonsenso; no, è un segno, un enigma, un enigma della combinazione, del quale la ragione deve dire: non posso risolverlo, non riesco ad afferrarlo, ma da ciò non deriva che sia un nonsenso”. Il massimo esempio di quel paradosso che è il Cristianesimo, è rappresentato in modo eminente dalla figura di Cristo, il quale è allo stesso tempo uomo e Dio, è “tanto Dio quanto uomo”, è allo stesso tempo “un individuo e più che un individuo”. Così come è assurdo per la ragione che Cristo-Dio, ovvero l’Onnipotente per eccellenza, sia stato umiliato, deriso, offeso e brutalmente crocifisso da deboli e piccoli uomini. Il credente deve accettare con fermezza che l’“assolutamente Altro” dall’uomo si è fatto uomo in carne ed ossa, che Dio è sceso in terra per soffrire e patire come nessun altro essere ha fatto, che l’Onnipotente per definizione è stato l’impotente più famoso della storia umana. Il cristianesimo, dunque, “non sta affatto nella sfera dell’intellettualità”, e soltanto la fede è l’unica via che porta a quel totalmente Altro che è Dio (l’Assoluto): “la Fede non si può comprendere; il massimo a cui si arriva è poter comprendere che non si può comprendere. Così anche per un Assoluto non si possono dar ragioni, al massimo si possono dar ragioni che non ci sono ragioni”. L’essenza del Cristianesimo per la ragione umana è “da cima a fondo scandalo, lo scandalo del divino”, e va accettato tramite grandi sacrifici e sofferenze, quali quello fondamentale di abbandonare la pretesa di poter comprendere tutto, di dover giustificare razionalmente la propria fede: “Questa è […] la mia tesi […]: comprendere che non si può comprendere la fede, oppure (il lato più etico e timoroso di Dio) comprendere che non si deve comprendere la fede”. La fede si rapporta all’“invisibile” e all’“inverosimile”. Non si possono trovare prove per 220 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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giustificare la fede né nella natura né tantomeno all’interno dello spirito umano, essa non segue in nessun modo i “criteri mondani” in quanto ha di mira l’infinito e mai il finito, la trascendenza e mai l’immediato, l’eternità e mai il tempo. Chi prende la sofferta e ardua decisione di credere in Cristo, chi sceglie di annientarsi come individuo per abbandonarsi in e a Dio, deve dunque sacrificare il finito, il terreno, l’immediato, il contemporaneo, il tempo. In una parola, deve sacrificare il suo “mondo”, seguendo l’esempio di quel modello dell’uomo religioso quale l’Abramo del racconto biblico: “come egli è dovuto uscire dalla terra dei suoi padri per recarsi in una terra straniera, così l’uomo religioso deve uscire, ovvero abbandonare l’intera totalità dei contemporanei, sebbene rimanga fra loro, ma isolato, straniero per loro. L’essere straniero, in esilio, è esattamente la sofferenza propria della religiosità”. L’angoscia dell’esistenza È in merito all’esistenza del Singolo che Kierkegaard intende porre la sua attenzione, ed è ad essa che indirizza tutti i suo sforzi letterari, poetici, filosofici e religiosi. Veniamo dunque a delineare i tratti specifici dell’esistenza umana. Essa si presenta con dei caratteri tutt’altro che semplici, unilaterali, determinati, bensì la complessità, la diversità di direzioni, l’eventualità di poter essere aperta a numerosi tragitti e risultati ne fanno qualcosa d’essenzialmente instabile e precaria. L’esistenza del singolo è “possibilità pura”, intesa sia in senso positivo che in quello negativo, ossia è possibilità che qualcosa si verifichi così come è possibile che non si verifichi affatto. Dire che l’esistenza è possibilità, significa affermare che la minaccia del nulla incombe in ogni atto ed evento dell’individuo posto nel mondo. Il punto zero dell’esistenza è pertanto l’oscillazione permanente, l’equilibrio instabile tra le alternative op221 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

poste del sì e del no, che si trovano aperte a qualsiasi possibilità. Il Singolo non è determinato una volta per tutte, il suo rapporto col mondo non possiede compiti immutabili o tragitti prefissati, egli si trova aperto alle diverse possibilità che la propria esistenza gli pone dinnanzi, trovandosi continuamente di fronte alla minaccia del nulla di queste stesse possibilità. Ogni evento futuro è assolutamente imprevedibile, potrebbe avverarsi così come potrebbe non avverarsi, perché il nulla circonda l’esistenza umana, essendo la radice autentica della possibilità. La felicità e la fortuna si trovano legate all’infelicità e allo scacco, la salvezza alla perdizione, l’essere al non essere, il sì al no, il positivo al negativo, perché nella possibilità, ossia nell’esistenza di ogni uomo, “tutto è egualmente possibile” (onnipotenza della possibilità). Sentire che “tutto è egualmente possibile” è ciò che determina nell’uomo quel “terribile incantesimo”, quel sentimento vertiginoso che è l’“angoscia”. Subito Kierkegaard precisa che “il concetto dell’angoscia […] è completamente diverso da quello del timore e da simili concetti che si riferiscono a qualcosa di determinato, mentre invece l’angoscia è la realtà della libertà come possibilità per la possibilità”. È ne Il concetto dell’angoscia2 che Kierkegaard affronta tale questione, e in esso leggiamo che “l’angoscia è la possibilità della libertà” e che l’oggetto dell’angoscia è il “nulla”: “Ma quale effetto ha il nulla? Esso genera l’angoscia”, la quale è dunque “la più pesante di tutte le categorie”. Ci aiuterà forse a comprendere meglio quanto segue: “Di solito la possibilità, di cui si dice che è così lieve, s’intende come possibilità di felicità, di fortuna, ecc. Ma questa non è affatto la possibilità. […] No, nella possibilità tutto è egualmente possibile, e chi fu realmente educato mediante la possibilità ha compreso tanto il la-

2   Le citazioni di quest’opera sono tratte da: S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, SE, Milano 2007.

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to terribile quanto quello piacevole. […] Un tale esce dalla scuola della possibilità sapendo, meglio di un bambino il suo abbiccì, ch’egli dalla vita non può pretendere assolutamente nulla e che il lato terribile, la perdizione, l’annientamento abitano con ogni uomo porta a porta”. L’angoscia è la situazione fondamentale dell’uomo calato nel mondo; essa ha la sua radice nell’esistenza umana che è essenzialmente “possibilità”. L’angoscia, non riferendosi a nulla di preciso, è il puro sentimento della possibilità umana, perché l’uomo vive continuamente proteso verso il futuro: “Il possibile corrisponde perfettamente al futuro. Il possibile è, per la libertà, il futuro, e il futuro, per il tempo, è il possibile. Ad ambedue corrisponde, nella vita individuale, l’angoscia”. L’uomo può illudersi quanto vuole che le possibilità della propria vita abbiano esiti piacevoli, positivi e gioiosi, ma in realtà, essendo possibilità umane (ovvero non divine), esse non offrono garanzie assolute, anzi esse, nel loro interno, celano sempre l’alternativa dell’insuccesso e della disfatta. Le possibilità che si presentano e che si prospettano all’uomo non hanno dunque nessuna garanzia di realizzazione, perché “nel possibile tutto è possibile”, il successo quanto il disastro, la vittoria quanto la sconfitta, la vita quanto la morte. L’angoscia, in breve, è quel sentimento umano che ha per proprio contenuto “la minaccia immanente ad ogni possibilità umana come tale”3. Ora, “se l’uomo fosse un animale o un angelo non potrebbe angosciarsi”, il che significa che l’angoscia riguarda strettamente l’individuo umano il quale è da considerarsi come “una sintesi di anima e corpo, costituita e portata dallo spirito”. Proprio perché è una tale sintesi l’uomo “può angosciarsi, e più profonda è l’angoscia più grande è l’uomo”, e l’uomo “più grande” è colui che, “formato dall’angoscia”

3   N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, (terza edizione aggiornata e ampliata da G. Fornero), UTET, Torino 1998, p. 49 (“Angoscia”).

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ossia “formato dalla possibilità”, “distrugge tutte le finitezze scoprendo tutte le loro illusioni”. L’angoscia, se sentita al suo massimo grado, ossia se non è rivolta alle “cose finite” (uomini, cose, piaceri, ecc.), bensì se è rivolta all’orrore terribile rappresentato dalla “possibilità” umana, è ciò che può portare l’individuo al suicidio o alla fede, al tramonto o all’infinito, alla sconfitta o alla salvezza, alla morte volontaria o a quell’“Amore immutabile” che è Dio. L’uomo, se “non inganna la possibilità che vuole istruirlo, se non abbindola l’angoscia che vuole salvarlo”, scopre la finitezza di ogni cosa, compresa la finitezza e la nullità della propria vita. Ed è a questo punto che, fraintendendo l’insegnamento dell’angoscia, il singolo può decidere di togliersi la vita oppure, comprendendo appieno quell’insegnamento, può decidere di affidarsi totalmente nelle mani di Dio, l’unico a cui sia davvero possibile volere tutto ciò che può e potere tutto ciò che vuole, in quanto solo Dio è colui che non conosce alcun tipo di angoscia, finitezza e morte. L’aut-aut della vita, la scelta radicale dell’individuo Dire che l’esistenza dell’individuo è il regno della possibilità, significa affermare che niente di essa è prestabilito in anticipo, che niente è deciso necessariamente. Si potrebbe dire che le pagine del libro della nostra esistenza sono assolutamente bianche, libere d’essere redatte, compilate e riempite da noi stessi, coi caratteri e i pensieri e, soprattutto, le azioni che noi e noi solo sceglieremo di porre in atto. Proprio perchè l’esistenza è il regno della libertà, l’uomo è ciò che sceglie di essere, diviene quello che decide di divenire. È in Aut-Aut4 che Kierkegaard concentra la sua atten-

4   Le citazioni di quest’opera sono tratte da: S. Kierkegaard, Aut-Aut, Mondadori, Milano 1966.

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zione su questo tema fondamentale, domandandosi “sotto quale punto di vista si voglia considerare tutta l’esistenza e vivere”. L’uomo si trova di fronte al dilemma esistenziale di scegliere che cosa egli vuole essere, e tale dilemma è tanto più lacerante per l’individuo in quanto a lui solo spetta questo compito capitale. Kierkegaard mette in confronto due concezioni di vita assolutamente opposte tra loro, due modi di affrontare l’esistenza personale che si basano su due atteggiamenti tra loro inconciliabili: la vita estetica e la vita etica. L’individuo è dunque posto di fronte al primo e fondamentale “aut-aut”, che significa letteralmente “o questo, o quello”. Il singolo è chiamato a scegliere se vuole vivere secondo i dettami della vita estetica o secondo quelli della vita etica, e ciò che sceglierà escluderà assolutamente ciò che non si è scelto: “si deve vivere o esteticamente o eticamente”. Il momento della scelta è “assai serio”, non si può in nessun modo rimandare perché “vi è pericolo che nel momento seguente io non sia più così libero di scegliere”. È inutile e pericoloso perdersi in mille riflessioni, in molteplici pensieri per criticare, giustificare o valutare ciò che più conviene scegliere, perché, pensando, non si avanza di un passo e ci si pietrifica nell’astrattezza intellettuale, senza decidere concretamente quale “vita” intraprendere. Questo atteggiamento di immobilità, di passività inerme, questo disperdersi in mille ragionamenti infruttuosi è ciò che caratterizza l’atteggiamento estetico, il quale non sceglie mai in senso effettivo, perché “la scelta estetica o è completamente spontanea, e perciò non è una scelta, o si sperde nella molteplicità”. L’esteta non sceglie mai in modo assoluto, coerente, durevole, bensì lo fa solo “per il momento, e perciò nel momento seguente si può scegliere qualche cosa d’altro”. L’abissale differenza, la distanza “qualitativa” tra il “vivere esteticamente” e il “vivere eticamente” consiste nel fatto che “l’estetica nell’uomo è quello per cui egli spontaneamente è quello che è; l’etica è quello per cui diventa quello che diventa”. L’esteta si accontenta di vivere così come la 225 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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vita di volta in volta gli si presenta e gli si offre, vive nell’immediato quasi al pari degli animali, sprofonda nell’accidentale, nel caso a tal punto che “non può dare della sua vita nessuna spiegazione soddisfacente”. La sua vita si disfa in una serie incoerente di episodi occasionali senza un minimo di “continuità”, perché “non possiede liberamente il suo spirito”, il quale soltanto è in grado di garantire l’ordine e la limpidezza alle vicende della vita personale. In sostanza, l’esteta non fa altro che spendere la propria esistenza nella sola convinzione che “bisogna godere la vita”, ma “chi scorge nel godimento il senso e lo scopo della vita, sottopone sempre la sua vita a una condizione che, o sta al di fuori dell’individuo, o nell’individuo ma in modo da non essere posta per opera dell’individuo”. Chi vive esteticamente, quindi, non vive in accordo con la sua personalità interiore, intima, essenziale e spirituale, ma si affida all’esterno, all’immediatezza che la natura sensibile e materiale può offrirgli, ai piaceri e alle voluttà che riesce a trovare nel mondo, che però non durano che un istante e poi subito svaniscono lasciando un senso di tristezza, spossatezza e noia senza pari. Kierkegaard traccia vari stadi nei quali la visione estetica (“bisogna godere la vita”) s’incarna. Abbiamo la concezione di vita che insegna che la salute fisica è il bene più prezioso, che la bellezza fisica è il valore più alto. Quella che eleva a compito e contenuto della vita la ricchezza, gli onori, la nobiltà, ecc.. Quella che punta tutto sulla valorizzazione del talento personale (talento pratico, mercantile, matematico, poetico, artistico, filosofico). Quella che insegna a vivere e a realizzare fino in fondo ogni desiderio personale. E quella, infine, dove prende il sopravvento l’amaro disincanto per la vita, che, in una sorta di “disperazione intellettuale”, porta ad affermare che “tutto è vanità” (scetticismo assoluto), che nella vita non vi è alcuno scopo, nessun senso, nessun compito e nessuna soddisfazione e felicità è possibile per l’essere umano. In tutti questi stadi, per quanto differenti tra loro, 226 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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“si vive per ciò che immediatamente si è”, perché l’individuo non vuole diventare “trasparente a se stesso”. L’individuo non può divenire cosciente di se stesso perché non vuole scegliere se stesso in modo assoluto, e non volere ciò significa, indifferentemente dal fatto che lo si sappia o meno, essere condannati alla “disperazione”. Ogni concezione di vita estetica è disperazione, perché “si fonda su ciò che può essere e non essere”, sul casuale, sull’accidentale, sull’immediato, sull’esteriore – “Ogni concezione che fa dipendere il senso della vita da qualcosa di esteriore è disperazione”. E questo va inteso soprattutto in riferimento alla propria personalità, la quale, nella vita estetica, resta sempre indeterminata, fluttuante, discontinua, eccentrica, priva di “memoria interna”, non determinata spiritualmente, senza nessun tipo di valore, scopo e compito esistenziale. La disperazione è dunque non voler “divenir coscienti di se stessi nel proprio eterno valore”, è allontanare da sé e tradire peccaminosamente “il momento più importante della propria vita” in cui “ci si lega per l’eternità a una potenza eterna, in cui si accetta se stesso come colui il cui ricordo non sarà cancellato in nessun tempo, in cui, in senso eterno ed inalterabile, si diventa coscienti di se stessi come quello che si è”. È proprio in questo “divenire coscienti di se stessi come quello che si è” che si traduce la decisione di chi sceglie di vivere eticamente. Chi sceglie di vivere eticamente, si impegna volontariamente a scegliere se stesso, a possedere se stesso, a indossare se stesso, a penetrare se stesso “nel suo eterno valore”. Disperare è quindi fondamentale per potersi scegliere, bisogna liberamente volere (e quindi scegliere di volere) la disperazione che ci apre, ci “dischiude” all’assoluto, proprio perché essa risveglia l’attenzione e il coraggio dell’individuo, perso nell’indifferenza spirituale e nella molteplicità del godimento, affinché esso si decida a compiere quell’importante “salto qualitativo” per riuscire a riconquistare se stesso, ossia per riuscire a rinascere “per il fatto di aver scelto me stesso” in modo assoluto: “la per227 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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sonalità finita diventa infinita con la scelta in cui egli sceglie se stesso in modo infinito”. Chi sceglie di vivere eticamente “possiede se stesso come posto da se stesso, cioè come scelto da se stesso, come libero”, e solo grazie a questa libera scelta – che rende a sua volta spiritualmente liberi, attivi, responsabili – compare la “differenza assoluta” tra il male e il bene che permette appunto di intraprendere una vita etica e morale, ossia una vita interamente rivolta al bene e intenta a negare, in modo assoluto, il male. Detto in altri termini, “solo quando ho scelto me stesso assolutamente, ho posto una differenza assoluta, cioè quella tra il bene e il male”. Scegliere se stessi, ossia vivere eticamente, significa assumere tutto sotto la propria responsabilità, significa divenire un individuo determinato (“cioè questo stesso individuo che egli è”), significa imporre alla propria personalità, e quindi alla propria vita, una solida stabilità, una concretezza reale (etica e morale) vista come scopo e fine, perché “chi vive eticamente ha se stesso come proprio compito”. In breve, riprendendo l’esempio iniziale, “l’individuo etico può dire di sé che egli è il proprio redattore, ma è perfettamente cosciente di essere il redattore responsabile di se stesso; responsabile di se stesso in senso personale, perché quello che sceglie avrà su lui un’influenza decisiva; responsabile di fronte all’ordine delle cose in cui vive, responsabile di fronte a Dio”. Lo stadio della salvezza La vita estetica, per Kierkegaard, è incarnata dal “seduttore”, ossia da colui ch’è impegnato nell’incessante ricerca della “varietà”, colui che si disperde nell’accecante sete di particolarità (piaceri, donne, immagini, riflessioni) sempre nuove, particolari, singolari, eccezionali. L’uomo etico, invece, trovandosi su un piano diametralmente opposto a 228 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Sören Kierkegaard

quello del seduttore, come il “nord” rispetto al “sud”, è incarnato dal “marito”, da intendere quale massimo esempio di stabilità e continuità esistenziale. Il “marito” rappresenta il Singolo che si adegua all’universale, che si sottopone a una “forma”, non affermandosi come una “eccezione”, bensì adeguandosi volontariamente al “generale”, ossia a ciò che “è valido per ognuno” e che “vale a ogni momento”. Il marito, cioè l’uomo che sceglie di vivere eticamente, è colui che, concretamente, si impegna nella fedeltà del matrimonio inteso quale porto di felicità (disponibile per ogni uomo); nel dovere del lavoro considerato non come costrizione materiale ma come “vocazione” e “piacere”; così come nell’amore e nel rispetto sincero da dedicare e offrire sia ai propri figli che all’intera famiglia umana. Tuttavia ciò non costituisce ancora la forma di vita totalmente perfetta, nonostante rappresenti un notevole grado di perfezionamento e di elevazione spirituale rispetto alla vita estetica del “seduttore”. Non è quello etico lo stadio esistenziale del quale si possa dire che costituisca la completa realizzazione dell’essere umano. L’uomo realmente compiuto è solo colui che sceglie la “vita religiosa”, colui che compie l’ultima e rischiosa scelta esistenziale per saltare direttamente dal mondo umano (etico) a quello divino (religioso), colui che col suo audace lancio elastico, col suo coraggioso “balzo” istantaneamente si stacca dalle sagge voci della terra per approdare al salvifico Verbo del cielo. Così come tra vita estetica e vita etica, anche tra quest’ultima e la vita religiosa, non c’è continuità di sorta, in nessun modo è possibile attuare una mediazione tra queste opposizioni (vita estetica- vita etica; vita etica- vita religiosa) – “mediazione” tanto cara al sistema di Hegel, il quale credeva che ogni contraddizione (opposizione) potesse essere mediata e quindi superata da una sintesi logica superiore : “ […] la mediazione è una chimera che in Hegel deve spiegare tutto e nello stesso tempo è l’unica cosa che egli non ha cercato di spiegare”. 229 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

Siccome in nessun modo si può attuare una conciliazione tra questi stadi radicalmente opposti tra loro, ne viene che per passare da uno stadio all’altro, e in special modo per compiere il passaggio fondamentale – il “movimento” dalla vita etica a quella religiosa – occorre una scelta volontaria coinvolgente per intero la propria esistenza, una scelta che sappia affrontare, con la massima decisione, l’abisso profondo che separa la vita etica da quella religiosa. Tale diversità sostanziale, tale aperta distanza tra il mondo etico e quello religioso è rappresentata dalla figura biblica di Abramo, il “Padre della fede”, l’“eletto di Dio”, sul quale, in Timore e tremore5, il nostro filosofo intende farci porre la nostra attenzione per comprendere appieno a quale compito l’uomo religioso, passando attraverso l’angoscia e la miseria e il paradosso, è chiamato a rispondere se vuole veramente esistere come “quel singolo” postosi “in un rapporto assoluto all’Assoluto”. La Sacra Scrittura narra che Dio tentò Abramo, dicendogli: “Prendi Isacco, il tuo unico figlio che tu ami, e va nella terra di Moria e sacrificalo ivi in olocausto sul monte ch’io ti mostrerò”(Gen., 22, 1 sgg.). Abramo “resistette nella tentazione”, prese il suo unico e amato figlio Isacco - il “figlio della vecchiaia”, avuto alla veneranda età di settanta anni, per dono divino – e per tre giorni, l’uno accanto all’altro, camminarono in silenzio, “senz’aprir bocca”, fino al monte Moria. Salito sul monte Abramo era pronto per il sacrificio – “Abramo tagliò la legna, legò Isacco, accese la catasta, estrasse il coltello” –, il padre era pronto ad uccidere suo figlio, il “frutto della sua vita”, era pronto ad assassinare Isacco come Dio gli aveva chiesto: Abramo “conservò la fede e riebbe per la seconda volta il figlio contro ogni prospettiva”. Abramo nella sua azione, nella sua fede, nella

5   Le citazioni di quest’opera sono tratte da: S. Kierkegaard, Timore e Tremore, BUR, Milano 2001.

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Sören Kierkegaard

sua “sublime passione” è “il più grande di tutti” perché ha “amato Dio”, perché “attese l’impossibile”, perché “combatté con Dio”: “grande con la sua forza, la cui potenza è impotenza (I Cor., 3, 19), grande per la sua saggezza il cui segreto è stoltezza, grande per la sua speranza la cui forma è pazzia, grande per il suo amore che è odio di se stesso”. La sua è stoltezza, odio, pazzia agli occhi di tutti gli altri uomini, perché in “generale” non è accettabile, è inconcepibile, è assurdo che il padre uccida il proprio figlio, in quanto “verso il figlio il padre ha il dovere più alto e più sacro”, e sovvertire questo dovere “universale” è un delitto etico, una bestemmia morale, un atto sovrumano e ingiustificabile. “Ma Abramo credette e non dubitò, egli credette l’assurdo”. Egli “non dubitò”, perché “sapeva ch’era Dio, l’Onnipotente, che lo metteva alla prova”, e “nessun sacrificio è troppo duro quando è Dio che lo vuole – e cavò fuori il coltello”. Tutto ciò è vissuto da Abramo con estrema angoscia e profonda sofferenza, e su questo punto Kierkegaard insiste più volte. L’angoscia e la sofferenza di Abramo non vanno assolutamente trascurate, né sfumate, né addolcite, perché la situazione, la prova, la “tentazione” a cui è sottoposto Abramo è, a tutti gli effetti, la più assurda, disperata, paradossale che possa essere affrontata da qualunque altro padre. È proprio il fatto che Abramo, nonostante tutta la sua angoscia vertiginosa, non dubita ad estrarre l’arma, non rifiuta di compiere l’assassinio filiale per obbedire al dovere impostogli da Dio, fa di esso colui che si porta fuori, ovvero colui che salta fuori da qualunque generalità comportamentale, da qualunque conformismo etico e morale, sfidando ogni buon senso, ogni buona condotta, ascoltando esclusivamente la sua “follia divina”, la sua fede incrollabile, la qual cosa è “la più grande e difficile di tutte”. È solo questa fede appassionata che “trasforma in una azione santa il voler uccidere il proprio figlio”, perché se è vero che in senso religioso Abramo voleva sacrificare Isacco, in senso etico egli voleva ucciderlo: per l’uomo etico, ovvero 231 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

per l’uomo che non ha compiuto il salto nella fede, “Abramo era un assassino”. Da questa contraddizione, da questo scontro tra mondo etico e religioso, tra “normalità” e “follia”, tra legge generale e azione singolare nasce l’angoscia, o meglio, “in questa contraddizione si trova precisamente l’angoscia”, e da ciò capiamo perché Kierkegaard parla sia di “grandezza” che di “orrore” quando si riferisce all’impresa di Abramo. Il contenuto della vita di Abramo è dunque un “enorme paradosso”, sfugge a qualunque “calcolo umano”, non è razionalmente svolgibile in e da nessun sistema filosofico che non intende arrestarsi “alla fede, al suo miracolo di trasformare l’acqua in vino, ma trasforma il vino in acqua”: “il movimento della fede infatti si deve fare sempre in forza dell’assurdo però in modo, si badi bene, di non perdere la finitezza ma di guadagnarla tutt’intera”. Il “cavaliere della fede”, ossia colui che seguendo l’esempio di Abramo è pronto a gettarsi senza dubbi nell’assurdo della fede, non intende vivere la propria esistenza fuori del mondo, fuori della “finitezza”, bensì essendo colui che “ha provato il dolore di rinunziare a tutto ciò che si ha nel mondo” egli “gusta il finito tanto quanto colui che non ha conosciuto nulla di più elevato”. Ma poiché “la massa degli uomini vive perduta nelle cure e gioie mondane” è inevitabile che “i cavalieri dell’Infinito” siano “degli estranei in questo mondo”. La fede, allora, è il “paradosso dell’esistenza”, crede nell’impossibile perché crede che a “Dio tutto è possibile”, rifiuta la stabilità generale dell’eticità umana per immergersi nell’assurdità divina, ed è grazie a tale fede – la quale è “la passione suprema di un uomo” e nella quale ogni uomo può immergersi, nessuno escluso – che “Abramo non rinunziò a Isacco ma con la fede Abramo ottenne Isacco”. “[…] Quale enorme paradosso è la fede, un paradosso ch’è capace di trasformare un omicidio in un’azione sacra e gradita a Dio, il paradosso che restituisce Isacco ad Abramo e di cui nessun pensiero può impadronirsi poiché la fede comincia appunto là dove il pensiero finisce”. 232 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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PAGINE ANTOLOGICHE

La mia lotta per risvegliare l’uomo a Dio «Senza autorità» RENDERE ATTENTI al religioso, al cristiano, è la categoria di tutta la mia attività di scrittore, considerata nel suo complesso. Che io fossi “senza autorità” lo ho sottolineato e stereotipicamente ripetuto fin dal primo momento: preferisco considerarmi un lettore dei libri, non il loro autore. «Davanti a Dio», religiosamente, io chiamo, quando parlo con me stesso, l’intera attività di scrittore la mia propria educazione e il mio proprio sviluppo, ma non intendendo questa espressione come se io ora fossi perfetto o perfettamente compiuto riguardo all’aver bisogno di educazione e sviluppo. […] Non ho mai condotto la mia battaglia dicendo: io sono il vero cristiano, gli altri non sono cristiani, o addirittura ipocriti, o simili. No, io ho combattuto in questi termini: io so che cos’è il cristianesimo; io stesso riconosco la mia imperfezione come cristiano – ma io so che cos’è il cristianesimo. E mi sembra che conoscerlo a fondo sia nell’interesse di ogni uomo, sia egli cristiano oppure non cristiano; sia sua intenzione aderire al cristianesimo oppure abbandonarlo. […] La tattica che si è usata per lungo tempo è stata: impiegare ogni mezzo per far sì che quanti più uomini possibile, possibilmente tutti, aderissero al cristianesimo – ma senza curarsi poi tanto se ciò a cui li si era fatti aderire fosse davvero il cristianesimo. La mia tattica è stata: con l’aiuto di Dio, impiegare ogni mezzo per chiarire quale sia in verità l’istanza del cristianesimo – anche se così nessuno, nemmeno uno solo, avesse voluto aderirvi, anche se io stesso avessi dovuto rinunciare ad essere cristiano, cosa che in tal caso mi sarei sentito in obbligo di am233 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

mettere pubblicamente. […] Quel che ho voluto fare è contribuire, con l’aiuto di confessioni, a portare se possibile un po’ più di verità in queste esistenze imperfette (riguardo all’essere un carattere etico e etico-religioso, a rinnegare la saggezza mondana, a voler soffrire per la verità, ecc.) che noi conduciamo: è pur sempre qualcosa, e in ogni caso è la prima condizione per giungere ad esistere in modo più virtuoso. […] Mai come nel nostro secolo l’umanità e i singoli in essa (il governante e il governato; il superiore e il subordinato; il docente e il discente, ecc.) sono stati tanto emancipati da – per così dire – ogni incomodo derivante dal fatto che qualcosa stia o debba stare incondizionatamente stabile. […] Mai l’umanità arriverà a riconoscere per vero che essa ed ogni singolo che la compone hanno bisogno di qualcosa che stia e debba stare incondizionatamente stabile; che hanno bisogno di ciò che Dio, con amore e per amore, ha stabilito; che hanno bisogno dell’Incondizionato, in luogo del quale l’uomo – sagace per quanto concerne la propria perdizione – in autocompiacimento ha posto quel “fino a un certo grado” che tanto lo compiace. Ordina al marinaio di navigare senza zavorra – si ribalterà; lascia che l’umanità, lascia che ogni singolo in essa tenti di reggersi senza l’incondizionato: il risultato sarà e rimarrà un vortice. Nel frattempo, per un periodo più o meno lungo, potrà sembrare altrimenti: che ci sia solidità e sicurezza; ma in fondo c’è e rimane un vortice, perfino gli eventi più grandi e la vita più laboriosa sono comunque un vortice o come cucire senza fermare la fine – fino a quando non si ferma nuovamente la fine ponendo l’Incondizionato, oppure facendo in modo che il singolo, sebbene a enorme distanza, tuttavia si rapporti con un Incondizionato. Vivere solo nell’incondizionato, respirare solo l’incondizionato, non è possibile all’uomo: egli perisce, come il pesce quando deve vivere nell’aria; ma d’altra parte un uomo non può neppure “vivere” in senso più profondo senza rapportarsi all’incondizionato: egli spira, ovvero magari continua a vivere, ma senza spirito. Se – per restare al mio tema: il religioso – se l’umanità, o una gran parte dei singoli in essa, perde, crescendo, la visione infantile che un altro uomo è per essa ciò che rappresenta l’incondizionato, beh, non per questo si può comunque fare a meno dell’incondizionato, o meglio: a maggior ragione non se ne può fare a meno. Per cui “quel singolo” 234 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Sören Kierkegaard: pagine antologiche

stesso deve rapportarsi all’incondizionato. È per questo che ho lottato, secondo le doti concessemi, con il massimo sforzo e numerosi sacrifici, combattendo ogni tirannia, anche quella del numero. Questo mio sforzo è stato esposto all’altrui odio perché giudicato estremo orgoglio e arroganza: io credevo – e credo – che esso sia cristianesimo e amore per il “prossimo”. (S. Kierkegaard, Sulla mia attività di scrittore, Edizioni ETS, Firenze 2006, pp. 46-56) L’angoscia umana: terrore e salvezza Imparare a sentire l’angoscia è un’avventura attraverso la quale deve passare ogni uomo, affinché non vada in perdizione, o per non essere mai stato in angoscia o per essersi immerso in essa; chi invece impara a sentire l’angoscia nel modo giusto ha imparato la cosa più alta. Se l’uomo fosse un animale o un angelo, non potrebbe angosciarsi. Poiché è una sintesi, egli può angosciarsi, e più profonda è l’angoscia più grande è l’uomo; non l’angoscia, come gli uomini l’intendono di solito, cioè l’angoscia che riguarda l’esteriore, ciò che sta fuori dell’uomo, ma l’angoscia ch’egli stesso produce. Soltanto in questo senso bisogna intendere il racconto del Vangelo quando si dice che Cristo fu angosciato fino alla morte (Mt, 26, 38), come pure quando egli dice a Giuda: “Quello che fai, fallo presto” (Jo, 13, 27). Nemmeno la terribile espressione di Cristo che mise in angoscia lo stesso Lutero quando predicava su di essa, “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt, 27, 46), nemmeno queste parole esprimono così fortemente il patimento; infatti, con l’ultima si indica uno stato in cui Cristo si trova, la prima invece indica il rapporto con uno stato che non è. L’angoscia è la possibilità della libertà; soltanto quest’angoscia ha, mediante la fede, la capacità di formare assolutamente, in quanto distrugge tutte le finitezze scoprendo tutte le loro illusioni. […] Colui ch’è formato dall’angoscia è formato mediante possibilità; e soltanto chi è formato dalla possibilità è formato secondo la sua infinità. Perciò la possibilità è la più pesante di tutte le categorie. […] Nella possibilità tutto è ugualmente possibile, e chi fu realmente educato mediante la possibilità ha compreso tanto il lato terribile quanto quello piacevole. […] Se le scoperte della possibili235 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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tà sono trattate con sincerità, la possibilità scoprirà tutte le cose finite, idealizzandole però nella forma dell’infinità, e abbatterà nell’angoscia l’individuo finché esso, da parte sua, non le vincerà nell’anticipazione della fede. Quanto ho detto qui sembra forse a molti un discorso oscuro e stolto; poiché essi, al contrario, si vantano di non provare mai angoscia. A costoro vorrei rispondere che certamente non si deve aver angoscia degli uomini, delle cose finite; ma solo colui ch’è passato attraverso l’angoscia della possibilità, soltanto egli è formato in modo da non dover più avere angoscia; non perché scansa i terrori della vita; ma perché questi restano sempre tenui in confronto a quelli della possibilità. Se invece il mio interlocutore credesse che la sua grandezza fosse proprio di non aver mai avuto angoscia, lo inizierei con piacere alla mia spiegazione, cioè che la sua opinione risulta dal fatto ch’egli è assai privo di spirito. Se l’individuo inganna la possibilità dalla quale dev’essere formato, non arriva mai alla fede; la sua fede diventa una prudenza delle cose finite, come la sua scuola era quella della finitezza. […] Nella realtà nessun uomo è mai divenuto così infelice da non aver potuto serbare un piccolo resto di felicità; e, come dice giustamente la prudenza, chi è furbo sa aiutarsi. Ma colui che ha finito il corso di sventura dato dalla possibilità ha perduto tutto, tutto, come non l’ha mai perduto nessuno nella realtà. Ora, se egli non inganna la possibilità che vuole istruirlo, se non abbindola l’angoscia che vuole salvarlo, gli viene restituito tutto come non avviene mai a un uomo nella realtà, anche se ricevesse dieci volte tanto; perché il discepolo della possibilità ottiene l’infinito, mentre l’anima dell’altro esala l’ultimo respiro nel mondo finito. […] Chi cadde nella possibilità ebbe lo sguardo annebbiato, l’occhio turbato in modo che non potè afferrare, mentre affondava, la pertica che Tizio e Caio gli porgevano come un filo di paglia salvatore; il suo orecchio si chiuse, e perciò non sentì quale era il prezzo corrente dell’uomo al suo tempo, non sentì ch’egli valeva quanto valgono i più. Egli sprofondò assolutamente, ma poi emerse di nuovo dalla profondità dell’abisso, molto più lieve di tutto ciò che nella vita aggrava e spaventa. Una cosa non voglio negare, cioè che colui che viene formato dalla possibilità è esposto, non al pericolo di imbattersi in compagnie cattive, di tralignare in diversi modi, come colui che si forma con la finitezza, ma a una sola eventualità, cioè al suicidio. Se egli, avendo 236 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Sören Kierkegaard: pagine antologiche

cominciato la formazione, fraintende l’angoscia, in modo ch’essa non lo conduca alla fede, allora egli è perduto. (S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, SE, Milano 2007, pp. 149-152) Il compito esistenziale dell’individuo etico L’individuo etico è trasparente a se stesso. […] Chi vive eticamente ha visto se stesso, conosce se stesso, compenetra colla sua coscienza tutta la sua concretezza, non permette a pensieri indefiniti di scorazzare in lui, a possibilità tentatrici di distrarlo coi loro incanti; egli non è se stesso come una lettera magica dalla quale ora esca una cosa ora un’altra, secondo il modo in cui la si gira. Egli conosce se stesso. L’espressione “conosci te stesso” è stata ripetuta abbastanza spesso, e in essa si è vista la meta di tutti gli sforzi dell’uomo. È giustissimo, ma è ugualmente certo che non può essere la meta se non è anche il principio. L’individuo etico conosce se stesso, ma questa conoscenza non è solo contemplazione (perché allora l’individuo si coglierebbe soltanto secondo la sua necessità), è una riflessione su se stessi, che in sé è azione, e perciò di proposito ho scelto l’espressione scegliere se stessi invece che conoscere se stessi. […] Quando l’uomo considera esteticamente se stesso […] dice: “ho del talento per dipingere – lo considero una casualità; ma ho spirito e acume – questo mi pare l’essenziale che non mi può venir tolto, senza che io diventi un altro”. A ciò risponderei: “[…] finché tu non assumi questo spirito e questo acume eticamente, come un compito, come una cosa di cui sei responsabile, essi non ti appartengono essenzialmente; e questo specialmente per il motivo che fin che vivi solo esteticamente, la tua vita non è affatto essenziale”. Chi vive eticamente fino a un certo grado abolisce la distinzione tra il casuale e l’essenziale, poiché egli assume se stesso in tutto e per tutto come ugualmente essenziale: ma questa distinzione ritorna, dopo che egli ha fatto ciò, così modificata: egli si assume la responsabilità per l’esclusione di ciò che egli distingue come casuale e questa assunzione di responsabilità è per lui essenziale. Quando un individuo estetico, con “serietà estetica” pone un compito alla sua vita, esso consiste 237 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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propriamente nello sprofondarsi nella propria casualità, nel diventare un individuo paradossale e irregolare di cui non si è mai visto l’uguale, nel diventare la smorfia di un uomo. È raro trovare nella vita figure del genere, per il motivo che solo poche persone hanno un’idea di cosa sia vivere. […] Il compito che si propone un individuo etico è di trasformarsi in individuo universale. Solo un individuo etico si rende sul serio conto di se stesso, e ha perciò dirittura verso se stesso; egli solo ha quella distanza paradigmatica e quel decoro che son più belli di ogni cosa. Ma posso trasformare me stesso in un uomo universale solo se, secondo le mie forze, io già l’ho in me stesso. L’universale può infatti benissimo esistere con e nel particolare senza divorarlo; è come quel fuoco che non divora quel cespuglio nel quale brucia. […] Chi ha scelto e trovato se stesso eticamente, ha determinato se stesso in tutta la sua concretezza. Egli allora ha se stesso come un individuo con determinate doti, determinate passioni, determinate inclinazioni, determinate abitudini, esposto a determinate influenze esteriori, sollecitato ora in un senso ora in un altro. Egli ha se stesso come compito, e tale compito consiste soprattutto nell’ordinare, educare, temperare, infiammare, reprimere, in breve, nel raggiungere nell’anima un equilibrio, un’armonia che è frutto delle virtù personali. Lo scopo della sua attività è qui lui stesso, ma non seguendo il suo arbitrio, bensì come un compito che gli è stato posto, anche se gli è diventato suo perché l’ha scelto. Ma benché egli stesso sia il proprio scopo, pure questo scopo è un altro: poiché quell’io che è lo scopo, non è un io astratto che va bene dovunque e perciò in nessun luogo, ma un io concreto che sta in una viva reciproca comunione con un determinato ambiente, con certe circostanze, con un determinato ordine di cose. Questo io, che è lo scopo, non è soltanto un io personale, ma un io sociale e civile. Egli dunque ha se stesso come compito per un’attività, in virtù della quale egli, come personalità ben definita, interviene nelle circostanze della vita. In questo senso il suo compito non è educare se stesso, ma agire; eppure, mentre agisce, educa se stesso. […] Dalla vita personale egli trapassa in quella civile, dalla vita civile in quella personale. La vita personale come tale è un isolamento ed è quindi imperfetta, ma quando attraverso la vita civile l’uomo ritorna nella sua personalità, la vita personale si rivela in una 238 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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immagine più alta. La personalità diviene allora l’assoluto, che ha la sua teleologia in se stesso. (S. Kierkegaard, Aut-Aut, Mondadori, Milano 1956, pp. 139, 141-144) La fede è il paradosso del Singolo come Singolo L’etica è come tale il generale e, come tale, è valido per ognuno: ciò che in un altro modo si può esprimere dicendo che vale a ogni momento. Esso riposa immanente in se stesso, non ha nulla fuori di sé che sia il suo telos [fine, scopo], ma esso stesso è il telos, di tutto ciò che ch’è fuori di sé e quando l’etica ha assunto questo in sé, non si va più oltre. Il Singolo, concepito immediatamente come realtà sensibile e psichica, è il Singolo che ha il suo telos nell’universale; il suo compito etico è di esprimere se stesso nel togliere la sua singolarità per diventare il generale. […] Hegel ha torto quando parla della fede; ha torto perché non protesta con alte e chiare parole perché Abramo goda onori e gloria come un Padre della fede, mentre dovrebbe essere additato e cacciato come un assassino. Infatti la fede è questo paradosso che il Singolo è più alto del generale però, si badi bene, in modo che il movimento si riprende; il Singolo quindi, dopo essere stato nel generale, ora come il Singolo esso si isola come più alto del generale. Se la fede non consiste in questo, Abramo è perduto, la fede allora non è mai esistita in questo mondo: precisamente perché essa è esistita da sempre. […] La fede è appunto questo paradosso, cioè che il Singolo come Singolo è più alto del generale; esso è giustificato di fronte a questo, non subordinato ma sopraordinato. Questo però va inteso a questo modo: ch’è il Singolo il quale, dopo esser stato subordinato come Singolo al generale, ora mediante il generale il Singolo il quale, come Singolo, è sopraordinato; il Singolo come Singolo sta in un rapporto assoluto all’Assoluto. Questo punto di vista non si lascia trattare con la mediazione, poiché ogni mediazione avviene appunto in virtù del generale; esso è e resta per tutta l’eternità un paradosso, inaccessibile per il pensiero. […] La storia di Abramo contiene una sospensione teleologica dell’etica. […] Abramo rappresenta la fede: essa è normalmente espressa in lui, la cui vita non è 239 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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soltanto la più paradossale che si possa pensare, ma così paradossale che non si lascia affatto pensare. Egli agisce in forza dell’assurdo; poiché è proprio un assurdo che il Singolo sia più alto del generale. […] Il rapporto di Abramo a Isacco, sotto il profilo etico, è semplicemente questo: che il padre deve amare il figlio più di se stesso. […] [Ma Abramo] ha cancellato con la sua azione tutta l’etica ottenendo il suo telos superiore fuori di essa, rispetto al quale ha sospeso questa. Infatti mi piacerebbe sapere come si può mettere l’azione di Abramo in rapporto al generale. […] Non per salvare il popolo, non per affermare l’idea dello Stato, non per placare l’ira degli dei Abramo lo fa. Se fosse in ballo l’ira della divinità, Dio dovrebbe prendersela solo con Abramo, l’azione non sta in nessun rapporto col generale ma è un’impresa puramente privata. […] E allora perché Abramo lo fa? In nome di Dio ed è del tutto identico, in questo caso, in nome proprio. Lo fa in nome di Dio, perché Dio esige questa prova della sua fede; lo fa in nome proprio per poter portare questa prova. L’umiltà è espressa benissimo dall’espressione con cui sempre s’indica questa situazione: è una prova, una tentazione. Una tentazione, ma cosa questo vuol dire? Vuol dire di solito ciò che vuol distogliere l’uomo dal compiere il proprio dovere: ma qui la tentazione è la stessa etica che vuol distogliere l’uomo dal fare la volontà di Dio. Ma cos’è allora il dovere? Il dovere è appunto l’espressione della volontà di Dio. […] Egli [Abramo] credette (Rom., 4, 3). Questo è il paradosso col quale egli resta sulla cima, ch’egli non può spiegare a nessun altro: il paradosso consiste infatti ch’egli si pone, come Singolo, in un rapporto assoluto all’Assoluto. È egli autorizzato? La sua autorizzazione costituisce a sua volta il paradosso; poiché se lo è, non lo è in virtù di qualcosa di generale, ma in virtù della sua condizione di Singolo. […] La storia di Abramo contiene allora la sospensione teleologica dell’etica. Egli è come il Singolo diventato più alto del generale. Questo è il paradosso che non si lascia mediare. È altrettanto inesplicabile sia come egli vi entri sia come rimanga in esso. […] Colui che va per la via stretta della fede, nessuno lo può consigliare, nessuno riesce a capirlo. La fede è un prodigio, eppure nessun uomo ne è escluso: poiché ciò in cui ogni vita umana si unisce è la passione e la fede è una passione. (S. Kierkegaard, Timore e tremore, RCS, Milano 2001, pp. 79- 89, 94) 240 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Sören Kierkegaard: pagine antologiche

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La condizione perché l’uomo possa amare Dio la dà Dio stesso Dio è apparso come maestro; ha assunto su di sé la figura di servo; perché, mandare un altro al posto suo, fosse pure della massima fiducia, non avrebbe potuto soddisfarlo come neppure poteva soddisfare quel nobile re mandare al suo posto il più fidato del suo regno. […] La figura di servo, per Dio, non è, intanto, qualcosa in cui si è avvolto ma reale, non un corpo parastatico ma reale e Dio si è, per così dire, dal momento che con l’onnipotente decisione del suo onnipotente amore è diventato servo, imprigionato nella sua decisione e ora deve restarci (se vogliamo parlare da insensati) che lo voglia o no. Cioè, non può venir meno al suo impegno, non gli è possibile, come a quel nobile re, mostrare improvvisamente che egli è, invece, il re. […] Ma Dio non ha assunto la figura di servo per prendersi gioco degli uomini, non si propone di andarsene per il mondo senza che nessuno se ne accorga. […] Egli si è abbassato prendendo la figura di servo, ma non è venuto a viver come servo di qualcuno in particolare, svolgendo il suo compito senza far capire né al suo padrone né ai suoi compagni di servitù chi egli fosse. Non possiamo pensare che Dio si comporti in un modo così irritante. Che egli fosse nella figura di servo, significa soltanto che era un umile, quell’umile uomo che non si distingueva dalla massa degli uomini né per i vestiti raffinati, né per altra distinzione mondana, che non si poteva distinguere da altri uomini, neppure con le innumerevoli legioni di angeli che si lasciò dietro quando si umiliò. Ma, pur essendo un umile uomo, le sue preoccupazioni non sono come normalmente sono quelle degli uomini; egli vuole andare per la sua strada, senza preoccuparsi di scambiare e dividere beni terreni, come chi non possiede nulla e nulla desidera possedere, senza preoccuparsi del suo cibo, come gli uccelli del cielo, senza preoccuparsi della casa e dell’abitazione, come chi non ha una tana e un nido e non lo cerca. Egli non si preoccupa di seppellire i morti, non si volge indietro a guardare qualcosa che di solito attira l’attenzione degli uomini, non è legato a una donna, suo prigioniero per compiacerla: cerca soltanto l’amore del discepolo. Tutto questo è molto bello, ma è anche opportuno? Non si mette egli, così, al di sopra di ciò che è comune agli uomini? […] Se Dio non dà nel contempo la condizione per comprenderlo, come potrebbe il discepo241 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

lo immaginarselo? […] Come arriva, dunque, il discepolo all’intesa con questo paradosso, giacché non diciamo che egli non debba capire il paradosso ma soltanto capire che questo è un paradosso? Come questo accade, lo abbiamo spiegato poc’anzi: si verifica quando la ragione e il paradosso si incontrano felicemente nel momento; quindi, la ragione si mette da parte e il paradosso si concede da se stesso. Il terzo nel quale questo si verifica (infatti, non avviene attraverso la ragione perché messa in disparte, e neppure attraverso il paradosso che si concede, dunque, attraverso qualcos’altro) è quella felice passione ala quale ormai diamo un nome, anche se, in realtà il nome non ci interessa molto. La chiameremo fede. Questa passione deve essere indubbiamente quella condizione che il paradosso comporta. Non dimentichiamo che se il paradosso non comporta la condizione, è il discepolo che deve possederla e se la possiede, eo ipso è egli stesso la verità e il momento è soltanto il momento dell’occasione. […] [Dunque] il discepolo deve tutto al maestro […] e questa situazione non può essere espressa con storie e strombazzamenti, ma solo con quella passione felice che chiamiamo fede, il cui oggetto è il paradosso. Ma il paradosso riunisce proprio la contraddizione, eleva sul piano dell’eternità la realtà storica e porta l’eterno sul piano storico. […] Si vede allora facilmente […] che la fede non è conoscenza; ogni conoscenza o è conoscenza del’eterno e ciò che è nel tempo e nella storia ne rimane fuori come indifferente o è pura conoscenza storica; e nessuna conoscenza può avere per oggetto questo assurdo che l’eterno è un fatto storico. […] Il discepolo, nella fede, si rapporta a quel maestro in modo da essere eternamente occupato con la sua esistenza storica. Se le cose stanno come abbiamo supposto, che quel maestro dia lui stesso al discepolo anche la condizione, l’oggetto della fede non è la dottrina ma il maestro […] . Il maestro, dunque, deve dare consistenza alla fede. Ma perché il maestro possa dare la condizione deve essere Dio e per mettere il discepolo in condizione di appropriarsene deve essere uomo. Questa contraddizione è ancora oggetto di fede, il paradosso, il momento. (S. Kierkegaard, Briciole filosofiche, Editrice Queriniana, Brescia 2003, pp. 114-123)

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Auguste Comte

Senza dubbio, quando si considera l’intero insieme dei lavori di ogni genere della specie umana, si deve concepire lo studio della natura come destinato a fornire l’autentica base razionale dell’azione dell’uomo sulla natura, poiché la conoscenza delle leggi dei fenomeni, il cui risultato costante è quello di farceli prevedere, può, essa sola, evidentemente, condurci, nella vita attiva, a modificarli a nostro vantaggio, gli uni con gli altri. Comte

L’avvento del positivismo scientifico Possiamo definire il positivismo come la dottrina filosofica che rivendica il primato dei metodi e dei risultati delle scienze naturali. Il termine “positivo” sta qui ad indicare il grado di serietà, affidabilità, efficacia e certezza razionale riferibili alle “scienze d’osservazione” che, rispetto alle costruzioni più o meno arbitrarie delle filosofie tradizionali, per lo più basate su ideali infondati, astratti e non verificabili concretamente, fanno appello ai “fatti” realmente osservabili nell’esperienza. “In siffatto movimento culturale che porta le scienze della natura a ricevere impronta filosofica, e la filosofia a informarsi allo spirito proprio delle 243 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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scienze della natura, consiste il positivismo. Questo, più che una dottrina particolare, è un metodo: esprime cioè il principio che anche in filosofia – come nelle scienze speciali – l’esperienza debba essere l’unico criterio di verità, atto a stabilire l’accordo tra le menti”1. In termini comtiani, la “condizione fondamentale” della scienza positiva, che intende affermarsi come scienza “esatta”, è quella di “subordinare ogni nostra concezione alla realtà dei fenomeni” (naturali, empirici). Si può dire che, nel positivismo, le domande intorno ai più alti problemi dello “spirito umano”, non vengono affrontate all’interno della mente di questo o quell’altro filosofo, per quanto ingegnosi ed eruditi essi siano, bensì a tali domande si cerca di rispondere nei gabinetti di fisica, nei laboratori di chimica, in quelli di fisiologia, e così via. È evidente la lontananza dalla credenza hegeliana che, oltre a giudicare inferiore il metodo delle scienze rispetto a quello della filosofia, affermava che la realtà coincideva esattamente con lo sviluppo di un principio esclusivamente spirituale o logico (Logos, Idea) e non con quei “fatti” empirici di cui si occupano le scienze. Marx, invece, auspicava un capovolgimento radicale rispetto alle fantasiose astrazioni speculative, affermando che l’autentico metodo che la filosofia doveva seguire era quello di affidarsi esclusivamente all’osservazione e al ragionamento basato sui fatti concreti e reali dell’esperienza, tralasciando le ardite costruzioni idealistiche, irrealizzabili e prive di ogni riscontro effettivo possibile. Il positivismo, appellandosi al metodo e ai risultati delle scienze naturali – dove per “metodo scientifico” bisogna intendere quel procedimento sperimentale nel quale, una volta deciso l’oggetto o il fenomeno da studiare, lo si osserva con occhio critico misurandone

1   E. P. Lamanna, Storia della filosofia, vol. IV (La filosofia dell’Ottocento), Le Monnier, Firenze 1962, p. 350.

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Auguste Comte

le grandezze oggettive, se ne deduce una legge e si costruisce un modello –, realizza l’auspicio di Marx. E lo realizza affermando che “solo il riferimento ai fatti positivi, quali son dati dall’osservazione e dall’esperimento, può valere a frenare l’arbitrio della fantasia nell’interpretazione della realtà naturale e nella direzione e organizzazione della vita umana”2. Il positivismo, però, non crede affatto nella validità della rivoluzione del proletariato teorizzata da Marx, bensì è convinto che l’intera umanità possa giungere ad una felicità incontrovertibile soltanto grazie alle scienze (e alle sue applicazioni all’industria, all’economia, alla tecnologia, ecc.), le quali dotano gli uomini di tutti quegli strumenti, eminentemente reali, attendibili e sicuri, capaci di risolvere qualunque problema. Il primato della scienza, esaltato al massimo grado, si traduce appunto nella fiduciosa affermazione che la scienza è l’unico rimedio possibile per i problemi dell’umanità, nessuno escluso. Inoltre, solo ciò che ci fa conoscere la chimica, la fisica, la biologia, la fisiologia, la medicina ecc., è degno di essere conosciuto, perché il “metodo positivo” di tali scienze, basato sul reperimento delle “leggi causali” ricavate dall’osservazione diretta sui “fatti” empirici, è l’unico metodo di conoscenza del quale si possa dire che possieda i caratteri della concretezza, della certezza e della reale verificabilità. In ciò che rientra nell’ambito delle scienze bisogna inserire anche quei “fatti naturali”, che sono i rapporti umani e sociali: “i fatti specificatamente umani rientrano nel mondo della natura, e la conoscenza di essi consisterà, come per altre sfere della realtà naturale, nella determinazione di fatti (soggetti all’osservazione) e di relazioni costanti tra essi (leggi della natura)”3. Ai fatti umani si dedicherà la “fisica sociale”, o “sociologia” (che approfondiremo

2 3

  Ibidem, p. 350.   Ibidem, p. 349.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

più avanti), pervasa da quell’ottimismo generale che caratterizza tutto l’ambiente e il movimento positivista, scaturente dalla certezza in una “rigenerazione universale” e in un progresso inarrestabile, in grado di portare benessere e pace duratura a ogni società umana e, di conseguenza, al mondo intero. Auguste Comte: vita e opere Auguste Comte nasce a Montpellier (Francia) il 19 gennaio 1798. Studia alla Scuola Politecnica di Parigi e diventa docente privato di matematica. Tra il 1826 ed il 1827 fu colpito da una violenta crisi che lo costrinse al ricovero in manicomio; superate le difficoltà in salute, nel 1830 pubblica il primo volume del Corso di filosofia positiva cui ne fecero seguito altri cinque, l’ultimo dei quali uscì nel 1842. I numerosi tentativi di inserirsi nella vita accademica si rivelarono vani; con la pubblicazione, poi, dell’ultimo volume del Corso ed il mancato consenso che riscossero le idee in esso contenute, le speranze di ottenere una cattedra alla Scuola Politecnica di Parigi cui ambiva svanirono definitivamente. Da allora, avendo rinunciato altresì ai compensi provenienti dalle sue opere, contribuirono al suo sostentamento gli aiuti provenienti da amici e discepoli. L’impostazione religiosa data alla sua educazione influenzò il suo pensiero e si rese fortemente evidente nella seconda opera più importante, il Sistema di politica positiva (1851-1854). Muore a Parigi, il 5 settembre 1857. La distruzione dell’epistéme Auguste Comte, considerato il fondatore del positivismo e il padre ufficiale della sociologia moderna, si pone come 246 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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obbiettivo “un grande rinnovamento” da attuare all’interno della filosofia e del mondo umano tutto. Il tratto più rilevante del suo pensiero è il rifiuto della ricerca del “perché”. Alla filosofia è sempre interessata la “ricerca delle cause ultime della realtà, ossia la ricerca dell’origine e della destinazione dell’universo, la ricerca del ‘perché’ delle cose”4. A tale affannosa, quanto irrisolta, ricerca si è strenuamente impegnata sia la “filosofia teologica”, che afferma l’origine e lo scopo di ogni cosa in un Essere divino, che la filosofia metafisica, la quale afferma la causa prima e ultima dell’universo al di là del mondo fisico. Al contrario di esse, la scienza moderna, inaugurata dal pensiero di Bacone (1561-1626), Galileo (1564-1642) e Cartesio (1596-1650), intende stabilire esclusivamente “come” avvengano i fenomeni, ossia “come” la realtà si produca effettivamente. Ora, rinunciare al “perché”, incentrando la propria attenzione esclusivamente al “come” i fenomeni dell’intero universo accadano, significa distruggere definitivamente “l’epistéme, cioè la verità definitiva che si propone appunto come risposta ai ‘perché’ sull’origine e sullo scopo del mondo e dell’uomo”5. La “nuova filosofia” positiva, che si affida esclusivamente ai procedimenti e ai risultati della razionalità scientifica, intende dunque cessare di indicare all’uomo l’origine e lo scopo del mondo (e quindi l’origine e lo scopo dell’uomo stesso). Non intende scoprire quali siano le cause della realtà, in quanto intende occuparsi di spiegare soltanto i “fatti” (dell’universo, del mondo, dell’umanità, ecc.). I “fenomeni particolari”, devono essere messi in rapporto con quelle regolarità rappresentate dai “fatti generali” che, con il progredire (sia teorico che tecnologico) della scienza, verranno progressivamente ridotti fino a

  E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo, vol. III (La filosofia contemporanea), BUR, Milano 2007, p. 123. 5   Ibidem, p. 124. 4

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pervenire alle cosiddette “leggi” scientifiche, che permettono di comprendere in modo certo e sicuro “come” si produca la realtà: “Nella scienza la ricerca di ‘come’ si producono i fenomeni è ricerca delle loro ‘leggi’, cioè delle regolarità con le quali i fenomeni si presentano e succedono gli uni agli altri”6. Così Comte: “il carattere fondamentale della filosofia positiva è di considerare i fenomeni assoggettati a leggi naturali invariabili, la scoperta precisa e la riduzione al minor numero possibile delle quali sono il fine di tutti i nostri sforzi, considerando come assolutamente inaccessibile e priva di senso per noi la ricerca di ciò che si chiamano le cause, sia prime che finali”. Un esempio del “processo di riduzione” operato dalla razionalità scientifica, e a cui la filosofia positiva deve adeguarsi (essendo essa l’unica forma autentica di razionalità), lo troviamo nella “legge della gravitazione” enunciata da Newton, il quale unifica un’enorme varietà di fenomeni astronomici in un’unica “legge” affermante che tutti i “corpi celesti” sono soggetti ad una “forza”, che li spinge ad avvicinarsi, oppure, detta in un’altra formula, che la gravitazione è ciò che tiene in piedi l’universo. È bene osservare che, per quanto le differenze tra gli uni e gli altri siano indubbiamente enormi, la maggior parte dei filosofi contemporanei – si pensi a Schopenhauer, o a filosofi quali Nietzche, Heidegger, Wittengstein – sono accomunati dal rifiuto della ricerca del “perché”, o meglio, dal rifiuto della ricerca “epistemico-filosofica” del “perché” della realtà, convinti del fatto che l’uomo non può pervenire in nessun modo a una verità definitiva, a un sapere incontrovertibile, a una spiegazione ultima, ossia a una spiegazione data una volte per tutte, eterna e immutabile. L’uomo, e la filosofia, non può pervenire a un sapere definitivo, a delle “conoscenze assolute”, non perché non ne sia capace o

6

  Ibidem, p. 125.

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perché tale verità immutabile appartenga ad un essere trascendente e superiore, bensì perché ogni cosa del mondo è senza perché, senza causa, senza senso. Ogni sapere, ogni verità, ogni spiegazione a cui l’uomo giunge, sono sempre e soltanto parziali, momentanee, relative, nient’altro che relative: “tutto è relativo, ecco il solo principio assoluto”. La previsione scientifica Altro punto centrale del positivismo comtiano riguarda la capacità di “previsione” che la scienza garantisce all’uomo, il quale, soltanto grazie alla previsione scientifica, è in grado di agire in modo corretto e sicuro. Solo grazie alla previsione scientifica l’uomo è in grado di dominare e modificare gli eventi presenti e i fenomeni futuri della natura. Comte chiarisce ciò affermando che “l’autentico spirito positivo consiste nel prevedere, nello studiare ciò che è, al fine di concluderne ciò che sarà, secondo il dogma generale dell’invariabilità delle leggi naturali”. Ovvero, “il principio fondamentale della sana filosofia consiste necessariamente nell’assoggettamento continuo di tutti i fenomeni, quali che siano, inorganici o organici, fisici o morali, individuali o sociali, a leggi rigorosamente invariabili, senza le quali, essendo ogni previsione razionale evidentemente impossibile, la scienza reale resterebbe limitata a una sterile erudizione”. Poiché la scienza si occupa di stabilire con quali regolarità, ossia con quali “leggi invariabili” (“leggi numeriche”) i fenomeni si manifestano – “leggi invariabili” che indicando i rapporti di successione e di somiglianza tra i fenomeni stessi –, ne segue che soltanto su queste “leggi” si può fondare una “previsione razionale”. Soltanto la scienza può fornire all’uomo quelle conoscenze razionali (le “leggi” scientifiche appunto) che gli permettono di prevedere qualsiasi evento e fenomeno futuro. Lo scopo della scienza 249 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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positiva, dunque, consiste nella ricerca delle “leggi dei fenomeni, il cui risultato costante è di farceli prevedere”, e tale previsione scientifica dei fenomeni “può condurci nella vita attiva a modificarli a nostro vantaggio”; o, più sinteticamente, “lo scopo finale di tutti i nostri studi positivi [è] l’esatta previsione degli eventi”. Senza le “leggi reali ed effettive”, scoperte dalla scienza positiva, nessuna previsione riguardante i fenomeni futuri è possibile. Senza questa previsione razionale derivante dalle leggi scientifiche nessuna azione umana, nessuna “arte” dice Comte, riesce ad essere concretamente sicura e infallibile. “Insomma, scienza, donde previsione; previsione, donde azione: tale è la formula semplicissima che esprime in modo esatto la relazione generale fra la scienza e l’arte, prendendo questi due termini nella loro accezione totale”. La legge dei tre stadi Si badi però a non cadere nell’errore di considerare i successi e le scoperte scientifiche come qualcosa di assolutamente perfetto e compiuto, perché così facendo si trascurerebbe la metodologia essenziale della scienza stessa. La previsione razionale fondata sull’osservazione della realtà che è la scienza, è ben consapevole del carattere relativo di tutte le sue teorie, vittorie e ipotesi, e proprio per questo verifica continuamente i risultati ai quali essa giunge, mediante l’analisi attenta dei fenomeni (i “fatti”) di cui si occupa. È di primaria importanza capire tale questione, perché, per Comte, come ogni cosa dell’universo è in perpetuo movimento, così anche nella scienza tutto è in divenire, in incessante progresso, in irrefrenabile sviluppo, in continuo perfezionamento. La stessa umanità, così come ogni singolo uomo, non è qualcosa di assolutamente fermo, statico, immobile, bensì appartiene in tutto e per tut250 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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to alla storia, al movimento progressivo e modificante che caratterizza ogni fenomeno storico. La stessa umanità si muove, o meglio, passa attraverso tre stadi (o stati): quello teologico (infanzia), quello metafisico (giovinezza) e quello positivo (virilità). È nel Corso di filosofia positiva che Comte espone questa teoria, questa “grande legge fondamentale”, alla quale giunge grazie allo studio attento del “cammino progressivo dello spirito umano, considerato nel suo insieme”, ovvero studiando lo “sviluppo dell’intelligenza umana […] dal suo primo manifestarsi ad oggi”. Tale legge grandiosa consiste nel fatto “che ciascuna delle nostre concezioni principali, ciascun ramo delle nostre conoscenze passa necessariamente per tre stati teorici differenti”. 1)  Il primo stadio (o stato) delle conoscenze umane – lo stadio infantile della filosofia, che è da intendere come il “punto di partenza necessario dell’intelligenza umana” –, è quello “teologico”, definito da Comte come lo stadio “fittizio” perché in esso i fenomeni naturali vengono visti dall’uomo come “prodotti dell’azione diretta e continua di agenti soprannaturali, più o meno numerosi”. Questi “agenti soprannaturali” saranno dapprima identificati in semplici oggetti materiali e in questo caso si parla di “feticismo”, successivamente in più esseri divini e in questo caso si parla di “politeismo”, per poi arrivare alla definizione di un unico essere divino, di un solo Dio e in questo caso si parla di “monoteismo”. 2)  Lo stadio metafisico, che “è unicamente destinato a servire come tappa di transizione” dal primo al terzo stadio, è detto “astratto” perché in esso i fenomeni vengono visti e spiegati come se fossero causati da essenze, principi, idee, qualità occulte e forze astratte quali la “simpatia” (che fa unire due corpi), l’“anima vegetativa” (che fa crescere le piante), ecc. Se lo stadio teologico è caratterizzato dalla credenza nei miti e nelle “immagini”, quello metafisico ai miti oppone la filosofia e alle immagini fittizie le categorie astratte della ragione. 251 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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3)  Il terzo stadio, infine, è quello scientifico o positivo, che agli occhi di Comte è lo “stato fisso e definitivo” dell’intelligenza umana, ossia il culmine a cui può giungere la razionalità umana e il punto massimo a cui deve tendere ogni filosofia che intenda porsi come perfettamente matura e compiuta. È soltanto “nello stadio positivo, che lo spirito umano, riconoscendo l’impossibilità di ottenere conoscenze assolute, rinuncia a domandarsi quale sia l’origine e il destino dell’universo, quali siano le cause intime dei fenomeni, per cercare soltanto di scoprire, con l’uso ben combinato del ragionamento e dell’osservazione, le loro leggi effettive, cioè le loro relazioni invariabili di successione e di somiglianza”. La classificazione delle scienze Di notevole interesse appare la classificazione delle varie scienze positive operata da Comte, il quale teorizza tale gerarchia seguendo quel preciso “ordine logico”, che pone ad un livello inferiore le scienze che studiano i fenomeni naturali più generali e meno complicati, per poi porre ai livelli superiori le scienze meno generali, caratterizzate da una maggiore complessità e da una crescente complicazione. Secondo quanto detto, la classificazione comtiana vede l’astronomia, o “fisica celeste”, posta al livello più basso della scala gerarchica delle scienze positive, perché essa si occupa dei “fenomeni generali dell’universo”, e più precisamente studia le origini e l’evoluzione, le proprietà fisiche, chimiche e temporali, degli oggetti, i cosiddetti corpi celesti, che formano l’universo. Ad uno stadio più elevato troviamo la fisica, che si occupa dei cosiddetti “fenomeni meccanici” riguardanti i “corpi bruti” che non sono altro che i “corpi terrestri”. Più precisamente essa studia i fenomeni naturali, ovvero tutti quegli eventi che possono essere descritti tramite grandezze 252 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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fisiche, al fine di stabilire le leggi che regolano le interazioni tra le grandezze stesse e tengano conto delle reciproche variazioni. Alla fisica segue la chimica, che si occupa di studiare la struttura, le proprietà e le trasformazioni della materia a livello atomico, e più precisamente essa ha come proprio oggetto di studio le proprietà e le strutture dei costituenti della materia e le loro interazioni reciproche, da cui hanno origine gli stati della materia. In una posizione più elevata vi è poi la biologia, o fisiologia, che studia il funzionamento degli organismi viventi, e più precisamente essa utilizza principi chimico-fisici per spiegare il funzionamento degli esseri viventi, sia vegetali che animali, mono e pluricellulari7. Infine vi è la sociologia, che si occupa dello “studio razionale dei fenomeni sociali” dell’umanità intera. La matematica, non inserita in tale schema gerarchico come la teologia e la metafisica, non considerate da Comte come scienze positive (razionali); come la morale, la quale viene risolta nella sociologia; e la psicologia, ridotta in parte alla biologia e in parte alla sociologia – è considerata da Comte come “la vera base fondamentale di tutta la filosofia naturale”, e quindi come la base portante di tutte le scienze positive. Profonda e sentita appare l’ammirazione che Comte rivolge alla matematica, descritta come quella “immensa e mirabile scienza che, base necessaria della filosofia positiva nella sua interezza, costituisce, d’altronde in se stessa, la testimonianza più irrevocabile della portata del genio umano”. La filosofia stessa non è compresa nella classificazione succitata, perché essa, non essendo, come si potreb-

  Le definizioni approfondite di tali scienze, esposte in termini quanto più divulgativi su mia espressa richiesta, mi sono state fornite dalla dott.ssa Denise Perrone, laureata in Astrofisica. 7

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

be erroneamente pensare, l’insieme di tutte le scienze, ha il proprio compito “nel determinare esattamente lo spirito di ciascuna di esse, nello scoprire le loro relazioni e connessioni, nel riassumere, se è possibile, tutti i loro principi proprii in un numero di principi comuni, in conformità del metodo positivo”. La filosofia positiva, essendo “il solo vero mezzo razionale per mettere in evidenza le leggi logiche dello spirito umano”, si occupa di relazionare e connettere i vari metodi delle scienze positive (astronomia, fisica, chimica, biologia e sociologia) riassumendo e riducendo i vari principi di tali scienze in pochi e precisi principi comuni. Dove tale processo di riduzione ad un “metodo unico”, come visto, è ciò che contraddistingue esattamente tutto il metodo scientifico. “Per filosofia positiva, comparata alle scienze positive, intendo solamente lo studio proprio delle generalità delle differenti scienze, concepite come assoggettate ad un metodo unico e come tali che formano le differenti parti di un piano generale di ricerche”. La nuova scienza positiva: la fisica sociale In base alla classificazione operata da Comte, la fisica sociale, detta anche sociologia, è da considerare il vertice dell’ordinamento gerarchico delle scienze positive. Essa, occupandosi dei fenomeni sociali, rispetto alle altre scienze interessate a fenomeni più generali e semplici, ha, come proprio oggetto di studio, i fenomeni più complicati, che d’altronde risultano possedere maggior interesse da parte degli uomini. Se la scienza positiva posta al primo gradino della scala gerarchica teorizzata da Comte, ossia se l’astronomia “considera i fenomeni più generali, più semplici, più astratti e più lontani dall’umanità”, i fenomeni sociali studiati dalla sociologia, ovvero dalla scienza che occupa il vertice della scala gerarchica, “sono, al contrario, i più particolari, i più complicati, i più concreti e più diret254 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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tamente interessanti per l’uomo; essi dipendono, più o meno, da tutti i fenomeni precedenti, senza esercitare su di essi alcuna influenza”. Questo maggior interesse, questa maggiore particolarità, complicazione e concretezza fanno della fisica sociale, o sociologia, la “scienza suprema”, il punto più alto della razionalità scientifica a cui l’uomo possa dunque pervenire. La conoscenza che appartiene alla scienza è fatta di leggi provate sui fatti empirici, e ciò deve necessariamente valere, agli occhi di Comte, anche per i fenomeni umani. Affinché si possa “costruire la filosofia positiva” in modo completo, bisogna colmare la “grande lacuna” che riguarda i fenomeni sociali, i quali sono affrontati ancora con metodi fittizi e astratti, ossia teologici e metafisici. Per sopperire a tale mancanza, bisogna sottoporre i fenomeni dell’intera società umana ad una rigorosa indagine scientifica. La qual cosa è ciò che si occupa di fare la fisica sociale (sociologia), che è quella “scienza che ha per proprio oggetto lo studio dei fenomeni sociali, considerati nello stesso spirito in cui sono considerati i fenomeni astronomici, fisici, chimici e fisiologici, cioè assoggettati a leggi naturali invariabili, la scoperta delle quali è lo scopo essenziale delle sue ricerche”. La sociologia si occupa di trovare le leggi della società umana, le leggi dei fenomeni sociali, sia per risolvere le varie crisi in cui essa versa, sia per prevedere lo sviluppo futuro del vivere sociale. L’interesse fondamentale del nostro filosofo è quello di realizzare una profonda e decisiva riorganizzazione della società umana, che si trovava preda di una lacerante crisi interna, caratterizzata da una pericolosa anarchia e da nocivi turbamenti e disordinati sconvolgimenti rappresentati dalle rivoluzioni sociali diffuse in molte parti della terra. A tale disperata e sanguinosa situazione, non si può porre rimedio se non approntando un attento studio scientifico capace di pervenire ad una soluzione finale, razionale e 255 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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positiva, non più basata su convinzioni chimeriche o propagande ideologiche, meramente utopistiche. Di ciò si fa carico la sociologia, che procede su due direzioni di ricerca complementari: da un lato la “statica sociale” e dall’altro la “dinamica sociale”. La “statica sociale” studia le strutture sociali che garantiscono l’“ordine”, la regolarità e l’uniformità a tutte le società in tutti i tempi, come la religione, la proprietà, la famiglia, il lavoro, le varie forme di cooperazione sociale, il linguaggio, ecc. La “dinamica sociale”, invece, studia le condizioni del “progresso” che hanno interessato tali strutture sociali, ossia studia le leggi secondo cui tali strutture sono venute via via mutandosi, e i diversi modi in cui esse si sono progressivamente configurate. La sociologia, che si pone come “studio positivo dell’umanità”, come studio che vive della “comparazione storica dei diversi stati consecutivi dell’umanità” e quindi come studio del “movimento umano” preso nella sua interezza storica, considera “ciascun fenomeno dal duplice punto di vista elementare della sua armonia con i fenomeni coesistenti e del suo concatenamento con lo stato anteriore e lo stato posteriore dello sviluppo umano”. Non si possono considerare isolatamente la “statica” e la “dinamica” sociale, come se fossero due scienze a sé e indipendenti l’una dall’altra, bensì è necessario considerarle come parti complementari appartenenti ad un unico organismo: lo studio sociologico deve essere improntato alla considerazione “totalitaria” delle suddette parti. Infatti, come dice lo stesso Comte, “poiché i fenomeni sociali sono così profondamente connessi, il loro studio reale non può essere, dunque, mai razionalmente separato; ne risulta l’obbligo permanente, irrecusabile e diretto, di considerare sempre simultaneamente i diversi aspetti sociali, sia nella statica sociale, sia, di conseguenza, nella dinamica”. Questo perché “ogni studio isolato dei diversi elementi sociali è, dunque, per la natura della scienza, profondamente irrazionale e deve restare essenzialmente sterile”. 256 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Anche lo sviluppo dinamico che interessa la società umana segue il movimento progressivo (e quindi storico) dei tre stadi: le società basate sulla supremazia del potere militare-teocratico, forma tipica del Feudalesimo, corrispondono allo stadio teologico, ossia allo stadio fittizio o infantile della società. Le società interessate dalle rivoluzioni, iniziate con la Riforma protestante e culminate con la Rivoluzione francese, corrispondono allo stadio metafisico, ossia allo stadio astratto o giovanile della società. Le società basate sull’organizzazione industriale corrispondono allo stadio positivo, e dunque allo stadio scientifico e virile della società. I “mezzi scientifici”, i “mezzi di esplorazione” utilizzati dalla sociologia per reperire le leggi invariabili dei fenomeni sociali sono essenzialmente tre: l’osservazione pura, l’esperimento e il metodo comparativo. Il mezzo dell’osservazione pura è necessario alla fisica sociale, per emanciparsi dall’atteggiamento metafisico che ancora infetta lo studio delle società umane. L’osservazione pura è l’unico mezzo capace di combattere l’“immaginazione” (assolutamente non scientifica, non razionale) che caratterizza l’atteggiamento metafisico. Affidarsi soltanto all’osservazione, però, non darebbe quella serietà ed esattezza cui la scienza positiva per principio tende. È per questo motivo che si ricorre all’esperimento, che, pur essendo “uno dei mezzi fondamentali di esplorazione propri della fisica sociale”, si scontra contro notevoli difficoltà pratiche. È ovvio che studiando i fenomeni sociali non si può procedere nello stesso modo con cui si affrontano gli esperimenti scientifici nei laboratori di chimica o di biologia, essendo i fenomeni posti in tale procedura sperimentale notevolmente differenti. A questo problema la sociologia risponde analizzando i “casi patologici” che si presentano all’interno di una determinata società, che alterando il normale comportamento della società in questione mostrano quali effetti si producano modificando certe condizioni sociali. Infine il metodo 257 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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comparativo, che è il metodo privilegiato nella costruzione della fisica sociale, consiste nel compiere delle mirate “comparazioni sociologiche”. Il metodo comparativo consiste nel mettere a confronto tra loro le società umane e le società animali più elevate, oppure nel comparare tra loro i diversi stati (coesistenti) della società umana nel mondo, o nel confrontare tra loro i diversi gradi dell’evoluzione umana, e così via. Con l’attento uso di questi tre mezzi, la nuova scienza della fisica sociale fondata da Comte, intende “fornire realmente una base razionale all’attiva coordinazione degli sforzi direttamente relativi alla rigenerazione finale dell’umanità”. La religione dell’Umanità Nel Sistema di politica positiva, troviamo la teorizzazione di una nuova forma di religione nata dall’intenzione comtiana di rigenerare positivamente la società umana. La grande svolta di questa opera consiste nel fatto che non più alla razionalità scientifica, non più al “calcolo razionale”, ma al “sentimento sociale” è affidato il compito di generare un nuovo universo umano, un nuovo “stato positivo”. Per far ciò bisogna impegnarsi strenuamente a eliminare l’individualismo e l’egoismo dell’uomo, che lo incatenato ad una esistenza inautentica e immorale. Dire che l’uomo deve emanciparsi e liberarsi da tali pesanti catene, significa affermare la necessità irrecusabile di una vera e propria “trasformazione fondamentale”. Anzitutto, “la parola diritto deve essere eliminata dal vero linguaggio politico come la parola causa dal vero linguaggio filosofico”, in quanto “nello stato positivo l’idea di diritto scompare irrevocabilmente”, perché nella nuova civiltà positiva “ciascuno ha dei doveri, e nei confronti di tutti, ma nessuno ha alcun diritto propriamente detto”. L’uomo deve rinunciare ad ogni “diritto propriamente detto”, 258 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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perché la parola “diritto” e il suo significato rappresentano un residuo della concezione teologica-metafica che intende conferire dei poteri e dei “diritti” all’uomo come se questi gli venissero concessi da una potenza superiore o soprannaturale. L’uomo, una volta eliminata l’infondata pretesa di detenere dei “diritti” particolari, non dovrà far altro che riconoscere i propri “doveri” nei confronti di ogni altro uomo, venendosi così a formare una sorta di obbligazione reciproca tra gli uomini, la qual cosa comporterà l’avvento di giuste garanzie individuali e collettive. L’essenza di questa rigenerazione della vita politica e sociale dell’uomo auspicata da Comte, consiste nella subordinazione della persona singola alla socialità, dell’individuo alla collettività, del singolo all’umanità intera, in nome dell’“amore reciproco” e dell’“armonia volontaria”. Per Comte, al culto di Dio bisogna sostituire l’amore incondizionato per l’“Umanità”. Se il “vecchio” Dio non aveva nessun bisogno dell’uomo per esistere, il nuovo Dio positivo, ovvero l’Umanità, vive e dipende dalla volontà, dall’abnegazione sincera e dall’azione concreta di ciascun uomo che si impegna, in nome di quel “principio affettivo” che è l’amore (“sentimento sociale”), ad operare in essa non più come un essere “separato” (egoistico), come una “individualità assoluta”, bensì come una parte fondamentale e fondamentalmente solidale e connessa con tutte le altri parti, come un organo indispensabile e costitutivo di quel grande organismo sociale che è l’umanità intera. Quanto detto si traduce in termini comtiani nel fatto “tutti gli uomini devono essere concepiti, non come tanti esseri separati, bensì come i diversi organi di un solo Grande-Essere”. L’Umanità, composta, si badi bene, da tutti gli individui viventi, da quelli non più in vita e da quelli ancora non nati, è dunque il “nuovo Dio” che prende il nome di “Grande Essere”, il quale non è più un essere trascendente, lontano, distante dall’uomo, bensì è “calato negli uomini, di tut259 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ti i luoghi e di tutti i tempi, in uomini che, servendolo, servono se stessi e, adorandolo, adorano se stessi”8. Secondo la religione positiva dell’Umanità, per l’essere umano non vi è morte possibile, o meglio, essa “concerne direttamente solo l’esistenza corporea o anche la vita solamente vegetativa”, ossia riguarda solo quell’“esistenza oggettiva” dell’uomo la quale è “sempre passeggera”. L’uomo in realtà è immortale, in quanto gli è riservata una “immortalità soggettiva”, perché una volta che gli esseri umani avranno abbandonato la loro “esistenza oggettiva”, attraverso i ricordi dei vivi guadagneranno una “seconda vita” che ne fa degli “organi dell’Umanità”. I vivi sono dunque “via via sempre più dominati dai morti”, ed è proprio tale culto amorevole dei morti che costituisce, nella sua essenza, la “religione dell’Umanità”. Questa nuova religione, che si contraddistingue per i suoi notevoli apparati ritualistici e formali, presenta molti dei caratteri tipici del cattolicesimo, assai apprezzato da Comte per la capacità di attrarre a sé ogni individuo. In essa abbiamo nove “sacramenti sociali”, che rispondono ad una funzione eminentemente pedagogica educando l’uomo ad essere un fedele “servitore dell’Umanità”, preparando e consentendo all’individuo umano d’incorporarsi nel “Grande Essere”, e trasformare la sua vita da “privata” a “santificata”. Vi è poi il “calendario positivista”, in cui l’anno è diviso in tredici mesi di quattro settimane ciascuno. I giorni delle settimane prendono il nome dalle sette scienze, mentre i mesi prendono il nome da vari “eroi” che rappresentano delle fasi o tappe decisive che hanno interessato il cammino progressivo e storico dell’Umanità: Mosè che rappresenta la “teocrazia iniziale”, Omero la “poesia antica”, Aristotele la “filosofia antica”, Archimede la “scienza antica”, Cesare la “civiltà militare”, san Paolo il “cattolicesimo”,

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  A. Negri, Introduzione a Comte, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 150.

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Carlo Magno la “civiltà feudale”, Dante l’“epopea moderna”, Gutenberg l’“industria moderna”, Shakespeare il “dramma moderno”, Descartes la “filosofia moderna”, Federico la “politica moderna”, Bichat la “scienza moderna”. Vi è poi, in analogia al cattolicesimo, il sacerdozio dei cosiddetti “preti positivi”, necessario alla diffusione della nuova religione positiva; i “dogmi” rappresentati dalla filosofia positiva e dalle leggi scientifiche; il battesimo, la cresima e l’estrema unzione secolare; l’“angelo custode” che è la donna; i “templi” che sono gli istituti scientifici; per finire con la nuova trinità della religione positiva rappresentata dal “Grande Essere” (Dio), dal “Grand’Ambiente” che è lo spazio e dal “Gran Feticcio” che è la terra. Se nel “positivismo scientifico” Comte pone la sociologia quale detentrice del titolo di “scienza suprema”, nel suo “positivismo religioso”, rimasto purtroppo incompiuto, ciò che ha per contenuto quella “scienza finale” non è altro che la “supremazia del cuore”, il sentimento sociale, l’amore totale, la dedizione volontaria e il culto impegnato verso quel Grande Essere che è l’Umanità.

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PAGINE ANTOLOGICHE

La scienza irrompe nella filosofia: il positivismo Il positivismo è stato certamente una dottrina e una corrente filosofica, ma forse è stato assai più un’atmosfera, una cultura, un costume vero e proprio. Come disse una volta il Croce, nell’età del positivismo “i gabinetti di chimica, di fisica, di fisiologia erano diventati antri di Sibille, dove risuonavano fiduciose le domande intorno ai più alti problemi dello spirito umano”. In effetti una delle prime e più vistose caratteristiche del positivismo rispetto all’età idealistica è quella di un radicale capovolgimento nella valutazione delle scienze e del loro rapporto con la filosofia e con la vita. Nell’idealismo le scienze erano state subordinate a una visione totale della realtà come sviluppo di un principio spirituale o, almeno, logico; e, soprattutto, il loro metodo era stato giudicato inferiore a quello della filosofia (fosse essa sapere concettuale o intuizione intellettuale); con il positivismo, invece, si rivendica il primato non solo dei risultati, ma, anche e soprattutto, dei metodi delle scienze naturali. Del resto lo stesso uso del termine “positivo”, nel senso che divenne poi caratteristico per l’intero movimento, risale a un medico francese, il dottor Burdin, un amico di Saint-Simon, che se ne servì per indicare il grado raggiunto dalle scienze che avevano superato lo stadio delle pure congetture e si erano fondate su adeguati esperimenti. Appello alle scienze, dunque, vuol dire appello ai fatti e rifiuto delle costruzioni più o meno arbitrarie, degli ideali infondati, inverificabili e perciò irrealizzabili. […] Tutto questo, al limite, ha portato anche a forme di materialismo; ma, anche in tal caso, si tratta di un materialismo molto più complesso di quello a carattere meccanicistico proprio dell’età 263 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

moderna, se non altro per il grande sviluppo delle scienze biologiche e, più tardi, psicologiche. Col positivismo, più che ridurre l’uomo a “macchina” si tende invece a comprendere l’unità e la continuità dell’uomo con le forme inferiori di vita da cui deriva attraverso un’evoluzione che è anche un progresso. Ma, anche qui, occorre segnare bene le differenze tra il positivismo e le epoche precedenti; la fiducia positivistica nel progresso non si fonda affatto su una razionalità in sé definita, inevitabilmente e, per così dire, automaticamente trionfante non appena vengano eliminate le tenebre dell’errore, come pensavano certe forme di illuminismo; e neppure si fonda su una razionalità teleologica, escatologica, destinata a realizzarsi come ritorno dell’idea a se stessa dopo essersi immersa nel mondo della natura e essersi articolata nelle diverse istituzioni storiche e nei diversi popoli; al contrario, nel positivismo il progresso viene sentito come una conquista da raggiungere in un contesto esclusivamente naturale e pertanto come una conquista sofferta, drammatica, derivante da processi secolari di lotte nelle quali emerge e si forma la stessa ragione; un processo dunque che si può unicamente misurare con il metro dell’intero genere umano o di intere società, come ben insegna l’evoluzione in campo biologico. Se poi questa visione cruda e, in fondo, spietata della natura come campo della lotta per l’esistenza, e della selezione dei più adatti non si conclude in un cupo e irrimediabile pessimismo è proprio per quella grandissima fiducia nella scienza e nei suoi sviluppi che caratterizza il positivismo. Sorretto da questa fiducia il positivismo riconosce che la situazione dell’uomo nella natura e nella storia è estremamente precaria, ma nello stesso tempo ritiene che vi siano ormai enormi possibilità di stabilizzarla e ordinarla a favore dell’uomo in quanto le scienze l’hanno portato vicino alla realizzazione del sogno di Bacone: dominare la natura obbedendo alle sue leggi. Tutto questo, naturalmente, porta a una concezione utilitaristica non solo della scienza, ma dell’intelligenza in generale. Anche nel campo dell’estetica si affermano concezioni moralistiche e realistiche dell’arte, che viene considerata come un potente strumento per affermare e sviluppare la solidarietà umana, per promuovere la costruzione di una nuova forma di società. Questo non impedirà però al positivismo di portare in questo campo contributi notevolissimi, con il suo insistere sui fatti, sulla scoperta della vera realtà, che condurrà alle 264 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Auguste Comte: pagine antologiche

varie forme di verismo e naturalismo. (F. Adorno, T. Gregory, V. Verra, Storia della filosofia, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 199-201) Auguste Comte e la “grande legge” della filosofia positiva Per spiegare convenientemente la vera natura e il carattere proprio della filosofia positiva, è indispensabile in primo luogo dare uno sguardo generale al cammino progressivo dello spirito umano, visto nel suo insieme, giacché una concezione, quale che sia, non può essere ben conosciuta che attraverso la sua storia. Studiando così lo sviluppo totale dell’intelligenza umana in tutte le sue diverse sfere d’attività, dal suo primo più semplice moto sino ai nostri giorni, credo di aver scoperto una grande legge fondamentale, alla quale è soggetto per una necessità invariabile, e che mi sembra possa essere saldamente stabilita, sia sulle prove razionali fornite dalla conoscenza della nostra organizzazione, sia sulle verifiche storiche che risultano da un esame attento del passato. La legge consiste in questo, che ogni nostra concezione principale, ogni branca delle nostre conoscenze, passa successivamente per tre stadi teorici diversi: lo stadio teologico o fittizio, lo stadio metafisico o astratto, lo stadio scientifico o positivo. In altri termini, lo spirito umano, per sua natura, usa successivamente, in ciascuna delle sue ricerche, tre metodi di filosofare, il cui carattere è essenzialmente diverso ed anche radicalmente opposto: prima il metodo teologico, poi il metodo metafisico e infine il metodo positivo. Onde, tre tipi di filosofare, o sistemi generali di concezioni sull’insieme dei fenomeni, che si escludono reciprocamente: il primo è il punto di partenza necessario dell’intelligenza umana; il terzo, il suo stadio stabile e definitivo; il secondo è unicamente destinato a servire di transizione. Nello stadio teologico, lo spirito umano, indirizzando essenzialmente le sue ricerche alla natura intima degli esseri, alle cause prime e finali dei fenomeni che lo colpiscono, in una parola alle conoscenze assolute, si rappresenta i fenomeni come prodotti dell’azione diretta e continua d’agenti sovrannaturali più o meno numerosi, il cui intervento arbitrario spiega tutte le anomalie apparenti dell’universo. Nello stadio metafisico, che non è altro che una semplice modifica generale del primo, gli agenti 265 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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sovrannaturali sono sostituiti da forze astratte, vere entità (astrazioni personificate) inerenti ai diversi esseri del mondo, e concepiti come capaci di generare di per sé tutti i fenomeni osservati, la cui spiegazione consiste allora nell’assegnare a ciascuno l’entità corrispondente. Infine, nello stadio positivo, lo spirito umano, riconoscendo l’impossibilità di ottenere nozioni assolute, rinuncia a cercare l’origine o il fine dell’universo e a conoscere le cause intime dei fenomeni, per consacrarsi unicamente alla scoperta, con l’uso ben combinato del ragionamento e dell’osservazione, delle loro leggi effettive, cioè delle loro relazioni invariabili di successione e di somiglianza. La spiegazione dei fatti, ridotta allora ai suoi termini reali, non è più ormai che un legame stabilito tra i diversi fenomeni particolari e alcuni fatti generali, di cui i progressi della scienza tendono via via a diminuire il numero. Il sistema teologico ha toccato la più alta perfezione, di cui era suscettibile, quando ha sostituito l’azione provvidenziale di un unico essere al gioco delle numerose divinità indipendenti, che erano state immaginate in principio. Allo stesso modo l’ultima fase del sistema metafisico consiste nel concepire, al posto delle differenti entità particolari, una sola grande entità generale, la “natura” considerata come l’unico fondamento di tutti i fenomeni. Analogamente, la perfezione del sistema positivo, verso il quale la filosofia tende costantemente pur senza pretesa di mai raggiungerlo, consiste nella possibilità di rappresentare tutti i fenomeni osservati come casi particolari di un solo fatto generale, come ad esempio la gravitazione generale. […] Da questo insieme di considerazioni si vede che la filosofia positiva è lo stadio vero e definitivo dell’intelligenza umana, quello verso cui essa si è andata via via avvicinando; non ha potuto per questo fare a meno di impiegare da principio e per tanti secoli, sia come metodo, sia come dottrina provvisoria, la filosofia teologica: una filosofia il cui carattere è d’essere spontanea, e che perciò agli inizi si presenta come la sola possibile e capace di suscitare un qualche interesse nel nostro spirito all’età della sua infanzia. È ora facile capire che per passare da questa filosofia provvisoria alla filosofia definitiva, lo spirito umano ha dovuto naturalmente adottare, come filosofia di transizione, i metodi e le dottrine metafisiche. Quest’ultima considerazione è necessaria per completare l’orizzonte generale della grande legge che abbiamo indicato. (A. Comte, Corso di filosofia positi266 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Auguste Comte: pagine antologiche

va, prima lezione, tr. it. di A. Negri, in Positivismo europeo, Le Monnier, Firenze 1981, pp. 51-53) Rinunciare alla ricerca delle cause e colmare l’ultima lacuna Dopo aver stabilito, per quanto mi è possibile farlo senza entrare in una discussione speciale che ora sarebbe fuor di posto, la legge generale dello sviluppo dello spirito umano, così come lo concepisco, ci sarà ora agevole determinare con precisione la natura propria della filosofia positiva: che è l’oggetto essenziale di questo discorso. Vediamo, da quanto precede, che il carattere fondamentale della filosofia positiva è quello di considerare tutti i fenomeni come soggetti a leggi naturali invariabili, la scoperta precisa e la riduzione al minor numero possibile delle quali sono lo scopo di tutti i miei sforzi, considerando come assolutamente inaccessibile e vuoto di senso per noi la ricerca di quelle che si chiamano cause, sia prime che finali. È inutile insistere molto su un principio divenuto ora così familiare a tutti coloro che abbiano fatto uno studio un po’ approfondito delle scienze d’osservazione. Ognuno sa, infatti, che, nelle nostre spiegazioni positive, anche le più perfette, non abbiamo per niente la pretesa di esporre le cause generatrici dei fenomeni, perché non faremmo altro, allora, che spingere indietro la difficoltà, ma soltanto di analizzare con esattezza le circostanze della loro produzione, e di collegarle le une alle altre con relazioni normali di successione e di somiglianza. Così, per citare l’esempio più mirabile, diciamo che i fenomeni generali dell’universo sono spiegati, per quanto è possibile, dalla legge della gravitazione newtoniana, perché, da un lato, questa bella teoria ci mostra tutta la immensa varietà dei fatti astronomici, come se non fosse che un solo e medesimo fatto osservato da diversi punti di vista: la tendenza costante di tutte le molecole ad attrarsi reciprocamente in ragione diretta delle loro masse ed in ragione inversa al quadrato delle distanze; mentre, dall’altro lato, questo fatto generale ci è presentato come la semplice estensione di un fenomeno che ci è molto familiare e che, solo per questo, consideriamo come perfettamente conosciuto, il peso dei corpi sulla superficie della terra. Quanto a determinare ciò che sono in se stesse questa attrazione e 267 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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questo peso, quali ne sono le cause, sono problemi che consideriamo tutti come insolubili, che non appartengono più all’ambito della filosofia positiva e che noi abbandoniamo con ragione alla immaginazione dei teologi e alle sottigliezze dei metafisici. […] Dopo aver precisato, con l’esattezza possibile in questo preambolo generale, lo spirito della filosofia positiva, che questo corso nella sua interezza è destinato a sviluppare, devo ora esaminare a quale epoca della sua formazione è giunta oggi e ciò che resta da fare per finire di costituirla. […] Tutto si riduce, dunque, ad una semplice questione di fatto: la filosofia positiva che, negli ultimi due secoli, si è così estesa, abbraccia, oggi, ogni ordine di fenomeni? È evidente che questo non è avvenuto, e che, di conseguenza, resta ancora una grande operazione scientifica da compiere, per dare alla filosofia positiva quel carattere di universalità indispensabile alla sua costituzione definitiva. Infatti, nelle quattro categorie principali di fenomeni naturali enumerati finora (i fenomeni astronomici, fisici, chimici e fisiologici) si nota una lacuna essenziale, relativa ai fenomeni sociali, che, pur compresi implicitamente tra i fenomeni fisiologici, meritano, per la loro importanza e per le difficoltà del loro studio, di formare una categoria distinta. Quest’ultimo ordine di concezioni, che si riferisce ai fenomeni più particolari, più complessi e meno indipendenti di tutti gli altri, necessariamente, proprio per questo, si è venuto perfezionando più lentamente dei primi […]. Comunque, è evidente che non è ancora entrato nel dominio della filosofia positiva. […] Ecco, dunque, la grande ma evidentemente la sola lacuna che bisogna colmare, per portare a termine la costituzione della filosofia positiva. Ora che lo spirito umano ha fondato la fisica celeste, la fisica terrestre, sia meccanica che chimica; la fisica organica, sia vegetale che animale, gli resta di portare a compimento il sistema delle scienze di osservazione, fondando la fisica sociale. Questo è, oggi, da molti punti di vista di capitale importanza, il più grande e più pressante bisogno della nostra intelligenza; questo è, oso dire, il primo fine di questo corso, il suo fine particolare. (A. Comte, Corso di filosofia positiva, in Positivismo europeo, cit., pp. 56-60) 268 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Auguste Comte: pagine antologiche

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Sulla necessità e l’opportunità della fisica sociale In ognuna delle cinque precedenti parti di questo trattato l’indagine filosofica si è basata costantemente su uno stato scientifico preesistente e unanimamente riconosciuto, la cui costituzione generale, benché più o meno incompleta fino ad oggi, anche riguardo ai fenomeni meno complessi e meglio studiati, soddisfa già almeno in linea di principio, anche per i casi più recenti ed imperfetti, alle condizioni fondamentali della positività, in modo da non esigere qui che un semplice lavoro di valutazione razionale. Questo lavoro, sempre diretto da regole incontestabili, conduce quasi spontaneamente alla indicazione motivata dei principali perfezionamenti ulteriori, destinati soprattutto a liberare definitivamente la scienza reale da ogni indiretta influenza dell’antica filosofia. Ciò non è più possibile, sfortunatamente, in questa sesta ed ultima parte, dedicata allo studio dei fenomeni sociali, le cui teorie non sono ancora uscite, anche negli spiriti più eminenti, dallo stato teologico-metafisico, al quale tutti i pensatori sembrano oggi considerare che debbano essere, per una fatale eccezione, indefinitamente condannate. Senza cambiare natura né scopo, l’operazione filosofica che ho osato intraprendere diventa dunque ora più difficile e più ardita, e deve presentare un nuovo carattere: invece di giudicare e migliorare, si tratta ormai essenzialmente di creare un ordine completo di concezioni scientifiche, che nessun filosofo precedente ha mai neppure delineato e la cui possibilità non era mai stata neppure esattamente intravista. […] Dovrò qui limitarmi necessariamente alle considerazioni più generali, tenendomi sempre, il più scrupolosamente possibile, al punto di vista strettamente scientifico, senza propormi altra immediata azione se non la soluzione della nostra anarchia intellettuale, vera sorgente prima dell’anarchia morale, e per conseguenza dell’anarchia politica. […] La lacuna fondamentale che lascia, evidentemente, nel sistema generale della filosofia positiva, il deplorevole stato d’infanzia prolungata nel quale langue ancora la scienza sociale, dovrebbe bastare, senza dubbio, a rendere assolutamente incontestabile per ogni intelligenza veramente filosofica, la necessità di un’impresa destinata ad imprime269 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

re finalmente allo spirito umano, già così ben preparato sotto molti altri aspetti, quel grande carattere di unità di metodo e di omogeneità di dottrina, indispensabile alla pienezza del suo sviluppo speculativo, e senza il quale la sua stessa attività pratica non potrebbe avere né abbastanza nobiltà né abbastanza energia. Ma, qualunque sia la profonda gravità intrinseca di una tale considerazione, che in verità abbraccia implicitamente tutte le altre, gli spiriti migliori sono posti oggi, per quanto riguarda le idee politiche, da un punto di vista troppo superficiale e troppo limitato per diventare capaci di afferrarne immediatamente l’effettiva portata, e trovarvi motivo sufficiente per sostenere, con perseveranza, la lunga e faticosa applicazione che esige necessariamente il graduale compimento di un’operazione così difficile. Nessuna scienza, nel suo stato iniziale, potrebbe essere coltivata né concepita separatamente dalla corrispondente arte, […] [e] una tale aderenza deve essere naturalmente tanto più intensa e prolungata quanto più si tratti di un ordine di fenomeni complesso. Se dunque la stessa scienza biologica, malgrado la sua costituzione più progredita, ci è parsa ancora troppo strettamente legata all’arte medica, bisogna stupirsi dell’abituale tendenza degli uomini di Stato a disdegnare, come sterili teorizzazioni, tutte le speculazioni sociali che non siano immediatamente legate ad operazioni pratiche? Per quanto cieca possa essere una simile disposizione, si deve, in questo caso, persistervi con ostinazione tanto maggiore quanto più si crede di vedervi la migliore difesa contro la perniciosa invasione di vaghe e chimeriche utopie, sebbene anche la più decisiva esperienza abbia certamente con sovrabbondanza provato la grande insufficienza di questa precauzione così vantata, che non può in nessun modo impedire l’eccesso continuo delle più stravaganti illusioni. […] Tutti i veri uomini di Stato comprenderanno, spero, che, pur non mirando ad alcuna applicazione attuale e particolare, questo grande lavoro non è meno incontestabilmente suscettibile d’una utilità reale e fondamentale. Senza di essa infatti non meriterebbe d’interessare la sollecitudine di coloro che sono preoccupati soprattutto, ed a sì giusta ragione, per l’obbligo, ogni giorno più indispensabile, e in apparenza più difficile, di risolvere infine la grave costituzione rivoluzionaria delle società moderne. (A. Comte, Corso di filosofia positiva, volume primo, UTET, Torino 1979, pp. 43-47) 270 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Auguste Comte: pagine antologiche

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Solo l’ordine e il progresso salveranno gli uomini dal dissolvimento L’insieme di questa situazione sociale si presenta in tutta la sua chiarezza, e sotto l’aspetto più semplice, come essenzialmente caratterizzato da un’anarchia profonda, sempre più estesa, quantunque d’altra parte di natura puramente transitoria, di tutto il sistema intellettuale, durante il lungo interregno che doveva derivare dalla decadenza sempre crescente della filosofia teologico-metafisica, pervenuta, ai nostri giorni, ad un’impotente decrepitezza, e dallo sviluppo continuo, ma ancora incompleto, della filosofia positiva, fin qui troppo limitata, troppo particolare e troppo timida, per impossessarsi finalmente del governo spirituale dell’umanità. È fin là che bisogna risalire per afferrare realmente l’origine effettiva dello stato fluttuante e contraddittorio nel quale vediamo oggi tutte le grandi nozioni sociali, e che, per un’insuperabile necessità, turba così deplorevolmente la vita politica e morale. Ma è anche là soltanto che si può nettamente scorgere il sistema generale delle operazioni successive, le une filosofiche, le altre politiche, che devono a poco a poco liberare la società da questa fatale tendenza ad un imminente dissolvimento, e condurla direttamente ad una nuova organizzazione al tempo stesso più progressiva e più consistente di quella che si è fondata sulla filosofia teologica. […] Nessun ordine reale può più essere stabilito, né soprattutto durare, se non è pienamente compatibile con il progresso; nessun grande progresso potrebbe effettivamente compiersi, se non tendesse infine all’evidente consolidamento dell’ordine. Tutto ciò che sta ad indicare una preoccupazione esclusiva dell’una di queste due necessità fondamentali, a scapito dell’altra, finisce per ispirare alle società attuali una ripugnanza istintiva, poiché misconosce profondamente la vera natura del problema scientifico. Anche la politica positiva sarà soprattutto caratterizzata, nella pratica, dalla sua attitudine talmente spontanea a soddisfare a questa duplice indicazione, che l’ordine ed il progresso vi appariranno direttamente i due aspetti necessariamente inseparabili d’uno stesso principio, secondo la proprietà essenziale già gradualmente realizzata, sotto certi aspetti, per le diverse categorie di idee divenute ora positive. […] Ma lo stato presente del mondo politico è ancora troppo lontano da questa inevitabile 271 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

conciliazione finale. Infatti il principale difetto della nostra situazione sociale consiste, al contrario, nel fatto che le idee di ordine e quelle di progresso sono oggi profondamente separate e sembrano anche necessariamente opposte. […] Il vecchio sistema politico si mostra totalmente distrutto ormai, che i suoi più devoti partigiani ne hanno completamente perduto la vera cognizione generale. Lo si può riconoscere senza difficoltà, non soltanto nella pratica attiva, ma anche negli spiriti puramente speculativi, anche i più eminenti, modificati a loro insaputa dall’ineluttabile spinta del loro secolo. Alcuni esempi salienti saranno sufficienti per mostrare all’attento lettore la facile estensione di un tale esame. La dimostrazione sarebbe troppo facile, se, come esigerebbe evidentemente il rigore logico, si considerasse innanzitutto la dottrina reazionaria in rapporto agli elementi fondamentali della società moderna. Non v’è alcun dubbio, infatti, che il continuo sviluppo ed il crescente propagarsi delle scienze, dell’industria e delle stesse arti, siano stati storicamente la principale causa originaria, sebbene latente, della radicale decadenza del sistema teologico e militare, le cui perdite naturali sarebbero sembrate, senza questo fatto, suscettibili d’un possibile risanamento. Oggi, è soprattutto il graduale affermarsi dello spirito scientifico che ci preserva per sempre da qualunque ritorno reale dello spirito teologico, in qualsiasi aberrazione retrograda il corso degli avvenimenti possa momentaneamente tendere a trascinare la società: del pari, dal punto di vista temporale, lo spirito industriale, ogni giorno più esteso e più preponderante, costituisce certamente la garanzia più efficace contro ogni serio ritorno dello spirito militare o feudale. Sebbene le lotte politiche non siano ancora chiaramente stabilite fra queste due coppie di princìpi, è egualmente tale, in fondo, il carattere attuale del nostro vero antagonismo sociale. Ora, nonostante questa incontestabile opposizione, è mai esistito, nello sviluppo moderno della politica teologica, qualche governo o anche qualche scuola tanto reazionaria da osare perseguire realmente o soltanto concepire l’oppressione sistematica delle scienze, delle arti e dell’industria? (A. Comte, Corso di filosofia positiva, volume primo, cit., pp. 47-48, 55)

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Empirismo ed Evoluzionismo: John Stuart Mill; Herbert Spencer

La sola libertà che meriti questo nome è quella di perseguire il nostro bene a nostro modo, purché non cerchiamo di privare gli altri del loro o li ostacoliamo nella loro ricerca. Ciascuno è l’unico autentico guardiano della propria salute, sia fisica sia mentale e spirituale. Gli uomini traggono maggior vantaggio dal permettere a ciascuno di vivere come gli sembra meglio che dal costringerlo a vivere come sembra meglio agli altri. J. S. Mill

John Stuart Mill: vita e opere John Stuart Mill nasce a Londra il 20 maggio 1806. Il padre aveva a cuore la sua formazione e si prese cura della sua istruzione spirituale e culturale sin da quando era giovanissimo. A diciassette anni entra nella Compagnia delle Indie, ma tre anni dopo, probabilmente provato dalla grossa mole di studi e di lavoro cui fu sottoposto precocemente, fu colpito da una crisi depressiva, superata la quale Mill si dedicò ad un’intensa attività propagandistica delle sue idee sociali e politiche. Muore ad Avignone, l’8 maggio 1873. Tra i suoi scritti, si menzionano: Sistema di logica deduttiva e induttiva (1843); Principi di economia politica (1848); Sulla libertà (1859). 273 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

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Esperienza e divenire Il pensiero di John Stuart Mill, pur possedendo notevoli peculiarità, continua il discorso inaugurato dal positivismo comtiano, in special modo per quel che riguarda la diretta distruzione d’ogni sapere che pretenda essere immutabile, definitivo, assoluto. Alla base di questa distruzione vi è la chiara convinzione, da parte di Comte come di Mill, che ogni ordine, sociale quanto concettuale, che si presume immutabile, si trova in palese contraddizione con l’evidente divenire della realtà. Dire che il regno della realtà non si presenta con i caratteri dell’immutabilità, che non è dato una volta per tutte, ma che, al contrario, è caratterizzato dal “divenire”, significa affermare che l’uomo e il mondo intero sono sottoposti ad un incessante mutamento e ad uno sviluppo interminabile. Contro la pretesa di immobilizzare la realtà, Mill fa appello all’“esperienza”, che, immediatamente, ci rende palese e manifesto quanto i “fatti” del mondo e dell’uomo appartengono inequivocabilmente al regno del divenire. Nell’esperienza tutto appare in perpetuo mutamento, e niente appare come incontrovertibile: ogni cosa appare e poi scompare, ogni essere vivente nasce, si trasforma e muore. Affidarsi all’esperienza, significa rifiutare radicalmente ogni conoscenza “a priori” della realtà. Conoscenza, questa, giudicata da Mill come arbitraria, infondata e, soprattutto, in aperta contraddizione con lo sviluppo incessante e con il flusso diveniente manifestato dalla realtà empirica. Pretendere di poter conoscere “a priori” la realtà, implica che si possa fare a meno della conoscenza derivante dall’esperienza, significa giudicare la realtà indipendentemente dal modo in cui essa si presenta nell’esperienza. Il voler giudicare “a priori” la realtà, la pretesa di poter conoscere la realtà ancor prima di farne una qualche esperienza possibile, oltre a dar luogo ad un sapere immutabile e assoluto, comporta, inevitabilmente, un sapere basato 274 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Empirismo ed Evoluzionismo: John Stuart Mill; Herbert Spencer

su un vero e proprio “pre-giudizio”, che, a sua volta, causa tutti i pregiudizi metafisici, religiosi e sociali. A questa erronea pretesa, a questo assolutismo, così come a questo apriorismo infondato, il nostro filosofo controbatte, facendo sua la lezione del positivismo, appellandosi in modo esclusivo ai “fatti dell’esperienza”. È in questo senso che in merito a Mill si parla di “empirismo”, che è quella concezione o dottrina filosofica secondo la quale tutti i dati della conoscenza derivano dall’esperienza, che viene dunque assunta come unico criterio di verità. La critica contro la logica tradizionale La critica dell’assolutismo operata da Mill si presenta anzitutto come critica della logica tradizionale. Come detto, Mill critica qualunque conoscenza (che pretenda essere) “a priori” e assoluta, e in tale direzione va inserita la critica operata nei confronti della “logica tradizionale”, incarnando essa, in modo esemplare, il regno della conoscenza “a priori”. La logica, è la scienza che si occupa del corretto inferire (dedurre, argomentare), ossia si occupa di ricavare correttamente proposizioni (sconosciute) da altre proposizioni (conosciute), essendo l’“inferenza” quel processo logico mediante il quale, data una o più premesse, è possibile trarre una conclusione. Questo procedimento logico, consiste nel partire da una proposizione generale (universale, oggettiva) messa in relazione con una proposizione particolare per inferire (dedurre, trarre) una terza e nuova proposizione, che rappresenta quindi il risultato, la conclusione logica scaturita dalla connessione di quelle due prime proposizioni. Tale procedimento logico appartiene al cosiddetto “sillogismo”, formato da una premessa maggiore, che corrisponde alla proposizione universale, per esempio “Tutti gli uomini sono mortali”(A); da una premessa minore, che corrisponde alla 275 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

proposizione particolare, per esempio “il duca di Wellington è un uomo”(B); per concludere con una terza proposizione risultante dalla connessione di quelle due premesse (maggiore e minore), che, in base al nostro esempio, porta alla conclusione che “il duca di Wellington è mortale”(C). Il sillogismo logico ricava che il duca è mortale (C) dall’affermazione che tutti gli uomini sono mortali (A), ossia inferisce la nuova proposizione particolare (C) dalla proposizione universale (A), che recita che “tutti gli uomini sono mortali”. Ma – ed è qui che si inserisce la critica all’assolutismo logico compiuta da Mill – come sappiamo che tutti gli uomini sono mortali? Come è possibile arrivare a questa proposizione universale? Da dove ricaviamo che “tutti gli uomini sono mortali”? La risposta, da vero e convinto empirista quale è Mill, non può non essere quella affermante che la proposizione “tutti gli uomini sono mortali” non è ricavabile altrimenti che dall’esperienza. Per tentare di capire questo problema, bisogna delucidare alcuni aspetti cruciali del pensiero del nostro filosofo, che ci permetteranno di riprende questo discorso critico condotto nei confronti del sillogismo e quindi dell’intera logica tradizionale, essendo esso il suo perno e strumento principe. Per Mill – e questo è un tema dominante dell’empirismo in generale –, non esiste una “natura” o una “essenza comune” che possa essere riferita a tutti gli individui di una certa classe. Un’essenza comune degli individui, per esempio l’essenza “uomo” riferibile sia a Giovanni che a Sandra come ad ogni altro individuo, implica che tale essenza (“uomo”) sia superiore all’individuo in quanto tale e in qualche modo distinto da questo, essendo essa l’“universale” rispetto al “particolare”, ossia essendo l’“uomo” ciò che è comune a tutti gli individui umani (ed essendo ciò che è comune a tutti gli uomini non può essere uguale a questi, bensì deve essere a loro superiore). La concezione, che vede l’“universale” (l’essenza) superiore all’individuo particolare, che è di conseguenza conside276 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Empirismo ed Evoluzionismo: John Stuart Mill; Herbert Spencer

rato come l’“individuazione di un’essenza comune”, risale al pensiero del grande filosofo greco Aristotele (384-322 a.C.), ed è ciò che Mill contesta e rifiuta in modo categorico. Per quest’ultimo, infatti, l’“universale” non esiste nella realtà. L’“uomo” in generale non esiste affatto, l’“essenza-universale-uomo” non indica ciò che è comune a tutti gli individui umani, ma è semplicemente il “nome” col quale viene designato l’insieme di tali individui. Solo l’individuo esiste, perché nella realtà solo il “particolare” esiste. Nell’esperienza io non vedo mai l’“uomo”, non mi trovo mai di fronte a una “essenza comune”, a un “universale”, bensì incontro e conosco un Giovanni, una Sandra: nell’esperienza empirica, ho a che fare solo con individui particolari, concreti, reali. Oltre a ciò, Mill rifiuta la validità concettuale di una “essenza comune agli individui” perché essa rappresenta e si costituisce come un “a priori”, come una struttura conoscitiva aprioristica, come una conoscenza, ma sarebbe meglio dire una convinzione, “che presume di rimanere immutabile nel flusso dell’esperienza e che finisce con l’opporsi alle variazioni che gli individui possono presentare nell’esperienza, e col riportare tali variazioni al proprio contenuto, dato una volta per tutte”1. Ora, per ritornare alla critica milliana contro la logica tradizionale, se non esistono essenze comuni e universali, non possono esistere nemmeno “proposizioni universali” del tipo “tutti gli uomini sono mortali” (A). Questa proposizione non esprime altro che il risultato delle nostre osservazioni fatte nell’esperienza, dalla quale ricaviamo, vedendo direttamente coi nostri occhi oppure ascoltando resoconti altrui riguardanti fatti del genere, che, in determinate condizioni, certi uomini, certi casi singoli, certi individui particolari effettivamente sono morti. È sempre e

1   E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo, vol. III (la filosofia contemporanea), BUR, Milano 2007, p. 135.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

solo da questa constatazione empirica (concreta, reale, effettiva), che sia essa diretta (vedere) o indiretta (ascoltare), che posso compiere e compio una “generalizzazione” di quanto ho desunto (inferito) dall’esperienza, la qual cosa mi porta ad affermare che tutti gli uomini, in determinate condizioni (analoghe a quelle riscontrate nell’esperienza), effettivamente muoiono. Il sillogismo logico, strumento principe della logica tradizionale, non ha dunque nessun valore dimostrativo, nessuna efficacia reale, nessun riscontro empirico. Esso è incapace di dimostrare “stati di fatto reali”, che saranno conosciuti correttamente facendo ricorso unicamente all’esperienza empirica, la quale soltanto può fornirci le conoscenze effettive della realtà. Il processo fondamentale della mente e la legge dell’universo: induzione e causalità Affermare che lo strumento fondamentale della logica – il sillogismo – non genera nessuna reale conoscenza all’uomo, che esso è inutile tant’è incapace di aumentare il bagaglio intellettuale e spirituale dell’essere umano, significa affermare che soltanto “la nostra passata esperienza” è ciò che “ci autorizza a inferire insieme la verità generale e il fatto particolare con lo stesso grado di sicurezza per l’una e per l’altro”. Solo dopo aver fatto esperienza che un individuo umano, in determinate condizioni, è morto, concludo con certezza, e allo stesso tempo, sia che “tutti gli uomini sono mortali” (A), sia che quell’individuo particolare, chiamato “duca di Wellington”, in quanto uomo è un mortale (B). La vera conoscenza riguardante la morte umana, che posseggo nella mia mente con un certo “grado di sicurezza”, non è stata generata da una “verità generale” (A) che mi ha permesso di trasferire quella verità ad un fatto particolare (B), bensì, è stata generata da una conoscenza particolare che ho appreso direttamente (osservando o ascoltando) tra278 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Empirismo ed Evoluzionismo: John Stuart Mill; Herbert Spencer

mite una mia passata esperienza concreta, reale, effettiva. “Il processo concreto della conoscenza è cioè un passaggio dal particolare al particolare, che non ha dunque bisogno di conoscere una verità generale (la quale pertanto ha ‘lo stesso grado di certezza’ del fatto particolare)”2. Non ho nessun bisogno di sapere che “tutti gli uomini sono mortali” dopo aver realmente fatto esperienza che Enzo è morto (B), e non ho bisogno di nessun processo logico per comprendere che siccome Enzo è morto allora anche tutti gli altri uomini muoiono, o, il che è lo stesso, che tutti gli uomini (A), seppur in circostanze le une diverse dalle altre, muoiono così come è morto Enzo. Ciò che mi permette di fare questo collegamento tra la verità (particolare) scaturita da un determinato fatto particolare (B) esperito nell’esperienza, ad una verità generale (A), ossia, ciò che mi permette mentalmente di generalizzare la verità appresa esperendo un singolo caso (B) a tutti i casi (A) che si presentano ad esso uguali, è una precisa “operazione della mente” detta “induzione”, ampiamente delucidata da Mill nel Sistema di logica. L’induzione, come dice lo stesso Mill, “è appunto l’operazione della mente con cui inferiamo che ciò che sappiamo vero in uno o più casi singoli sarà vero in tutti i casi rassomiglianti ai primi per certi determinati aspetti”. L’induzione, dunque, è quel processo mentale che consiste nel ricavare (inferire) da concrete osservazioni ed esperienze particolari (uno o più casi singoli) i principi generali in esse contenuti (impliciti, sottointesi). Così come è implicitamente contenuto che la morte di Enzo (esperienza particolare, singolo caso), seppur in modi e circostanze diverse, riguarda esattamente qualunque essere mortale (qualunque altro uomo), e che essa sia quindi generalizzabile ad ogni essere umano. A questo punto bisogna chiarire che l’induzione rimane sempre un “passaggio” dal particolare al particolare, per-

2

  Ibidem, p. 137.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

ché quel “tutti gli uomini sono immortali” (A) è soltanto una generalizzazione (operata dalla mente umana) di un fatto particolare (B) realmente esperito. Il che vuol dire che tale generalizzazione (A) non rappresenta in nessun modo un “universale”, in quanto nella realtà empirica – che per Mill, lo ribadiamo, rappresenta l’unica fonte attendibile dalla quale poter attendere una reale conferma riguardante ogni nostra costruzione mentale – non esiste nessun “universale” di questo come di ogni altro genere. L’induzione, ovvero il processo mentale delle inferenze induttive, ci consente sì di operare delle corrette generalizzazioni, ma in nessun modo ci permette di arrivare a delle verità assolute, definitive, universali, immutabili. In ogni momento la realtà concreta, in ogni istante l’esperienza empirica potrebbe mostrarmi il contrario di ciò che la mente, attraverso le sue generalizzazioni induttive, mi ha fatto conoscere, con una certa sicurezza, appena un attimo prima. Questa mia sicurezza conoscitiva scaturisce esclusivamente dal fatto che, dopo aver osservato nell’esperienza determinate regolarità e uniformità riguardanti gli eventi empirici, estendo tale regolarità e uniformità a tutti gli eventi, arrivando così a concepire l’intero universo sottoposto ad una determinata “legge”. Tale legge è la cosiddetta “legge di causalità”, che afferma che lo stato dell’universo, in un dato momento, è causato dallo stato in cui esso si trovava nel momento precedente. Agli occhi di Mill, “il corso della natura è uniforme”, ed è questo il principio fondamentale dell’induzione mentale. L’universo naturale, per la mente dell’uomo, è governato da leggi costanti (uniformi, regolari), e tale conoscenza permette all’uomo di formulare delle generalizzazioni mentali confermate costantemente dall’esperienza empirica, del tipo “il fuoco brucia”, “l’acqua bagna”, “i corpi pesanti cadono”, ecc. L’uomo possiede conoscenze mentali confermate costantemente dalla realtà proprio perché, per l’uomo, è l’universo intero che si presenta caratterizzato da un andamento costante, uniforme, dove ciò che è (lo stato presente) dipende, 280 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Empirismo ed Evoluzionismo: John Stuart Mill; Herbert Spencer

in base alla legge di causalità che è “il principio fondamentale dell’induzione”, da ciò che è stato (lo stato passato). Trovandomi all’aperto, da lontano, vedo un albero in fiamme, mi avvicino, vedo che il fuoco sta consumando l’albero, mi avvicino ancora di più, tento di toccare con la mano il fuoco ma mi brucio e così decido di allontanarmi. La prossima volta che incontrerò un fuoco saprò, senza bisogno di avvicinarmi, che a toccarlo ci si brucia. In questa operazione mentale – che dal fatto di aver esperito concretamente, una volta (ossia in passato), che il fuoco brucia, mi porta, in futuro, ogni qual volta incontro un fuoco, a sapere, grazie alla legge di causalità, che esso brucia senza aver dunque bisogno di esperirlo nuovamente – consiste, grosso modo, l’induzione. La legge di causalità è dunque “il principio fondamentale, od assioma generale, dell’induzione”, e su quest’ultima sono fondate tutte le cosiddette conoscenze empiriche altrimenti dette “leggi naturali”. Spontaneità e libertà dell’individuo umano Grave errore sarebbe, ancora una volta, considerare la “legge di causalità” – che, oltre a regolare i processi induttivi di ogni uomo, è lo strumento conoscitivo utilizzato dalla scienza per formulare le leggi naturali – come una verità posseduta dall’uomo “a priori”, ossia posseduta dall’uomo senza il bisogno di ricavarla dall’esperienza. Seppur tale legge suggerisce all’uomo che la natura intera (l’universo) si presenta dotata di leggi costanti, che tutti gli eventi accadono con regolarità prevedibili (il fuoco brucia) e uniformi (il sole sorge sempre ad est e tramonta sempre ad ovest), che ciò che conosco da un fatto particolare posso generalizzarlo a tutti i fatti ad esso simili, che ogni fenomeno ha una causa, non bisogna però scambiare questa conoscenza generale per qualcosa che esista al di là dell’esperienza umana, come una verità “a priori “ appunto. Né tanto meno essa è 281 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

un qualcosa che intuisco immediatamente e quindi, ancora una volta, senza ricorrere all’esperienza. Essa è e rimane semplicemente una “grande generalizzazione […] fondata essa stessa su generalizzazioni precedenti”. La legge che regola i processi induttivi della nostra mente – la legge di causalità – è essa stessa il risultato di una generalizzazione induttiva operata dalla nostra mente. Ciò comporta che la verità posseduta dall’uomo circa le leggi naturali, le uniformità e regolarità della realtà intera ricavate utilizzando i principi della “legge di causalità”, hanno sì un certo “grado” di sicurezza, ma tale sicurezza in nessun modo può essere considerata come assoluta, totale, definitiva. Più precisamente, possiamo dire che l’uomo “crede”, in base al principio della legge di causalità, che lo stato successivo dell’universo sia determinato dallo stato precedente di questo, e che ciò accada con regolarità e uniformità per ogni evento. L’uomo crede nella sicurezza suggeritagli dalla “legge di causalità” ricavata dai processi induttivi della mente, soltanto perché “il corso della natura” stesso si presenta dotato di “uniformità”. Ma tale apparizione uniforme degli eventi dell’universo, non giustifica l’eventuale pretesa di ritenere la legge di causalità desunta da tale apparizione, come una verità che possa fornirci una sicurezza conoscitiva assoluta e totale. Tale sicurezza, al contrario, va intesa, è necessario ribadirlo, come esclusivamente relativa (“approssimativa” dice Mill), instabile e precaria. Ogni legge naturale che l’uomo nel corso della sua esistenza storica scopre, per quanto complessa essa sia, non implica in nessun modo che essa possa essere considerata come necessariamente valida e vera per sempre, come se la realtà empirica non fosse capace di smentirla da un momento all’altro. Ogni legge naturale scoperta dall’uomo, dunque, non possiede una verità assoluta perché essa è il risultato di una generalizzazione induttiva, ossia è risultata dall’osservazione empi282 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Empirismo ed Evoluzionismo: John Stuart Mill; Herbert Spencer

rica di un “fatto” particolare, che non può mai essere un “fatto” universale, definitivo e immutabile, in quanto l’intera realtà è preda del divenire, del cambiamento e del mutamento incessante. Ogni legge naturale è sì un fatto che esiste ed è probabile che si perpetui, ma che è possibile che si modifichi e che venga a cessare, da un momento all’altro. Nella realtà nulla è inevitabile che accada, niente accade per necessità, nulla è determinato una volta per tutte, in modo assoluto. Nessun ordine fisso e immutabile detiene e pre-determina ciò che può o non può accadere e quindi ciò che può o non può essere. Nella realtà, al contrario, ciò che regna sovrana è la piena libertà degli eventi, degli accadimenti, delle apparizioni e delle sparizioni, dell’essere e del non essere, della possibilità avveratasi e della possibilità non avveratasi. Che la scienza naturale sia senza dubbio in grado, anche con una certa sicurezza, di predire e prevedere razionalmente ciò che seguirà dato un determinato evento – come per esempio la scienza meteorologica è in grado di prevede una precipitazione nevosa ogni qualvolta il vapore acqueo, a temperatura inferiore a zero gradi centigradi, produce il cosiddetto brinamento capace di far passare la neve (forma d’acqua ghiacciata cristallina) formatasi nell’alta atmosfera dallo stato gassoso a quello solido, in modo che la neve sia così in grado di raggiungere il terreno senza fondersi – non implica però che essa possa pervenire ad un sapere assoluto, dotato di una sicurezza totale, di una verità invulnerabile. Questo perché la realtà sfugge ad ogni determinismo assolutistico, ad ogni prevedibilità indubitabile, ad ogni sapere incontrovertibile. La stessa vita individuale e sociale dell’uomo sfugge ad ogni forma di determinismo assolutistico, non è prevedibile, in quanto è aperta alla piena libertà, o meglio, in quanto il volere umano è pienamente libero, impossibile da determinare, da ingabbiare in una previsione definitiva. L’uomo è aperto alle decisione di determinare liberamente il comportamento, le abitudini, il carattere, i propri stili di vita, 283 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

ecc., non essendo costretto da nessuna forza esterna misteriosa, da nessun ordine impossibile da mutare, da nessun “fato” incontrovertibile. Al “fatalismo”, nel libro VI del Sistema di logica concernente la “logica delle scienze morali”, Mill contrappone il “sentimento della libertà”. Grazie ad esso l’uomo sente la propria vita, esperisce la propria esistenza (individuale e sociale) come ciò che non è stabilita ineluttabilmente e fatalmente una volta per tutte. L’esistenza umana è e resta aperta ad ogni possibilità di cambiamento, può divenire sempre ciò che un attimo prima non era. Ciò che essa è un istante prima può in quello seguente divenire altro; oppure, nell’attimo successivo essa non sarà più ciò che appena un attimo prima era. L’uomo non subisce la realtà, non è un soldato pre-determinato in ogni sua azione e in ogni suo volere da quel misterioso generale chiamato “fato”, perché la sua realtà (l’esistenza umana), immersa com’è nel divenire dell’universo, è essenzialmente e, soprattutto, concretamente dinamica, aperta al nuovo, senza limiti. Realtà umana nella quale ogni decisione è pienamente spontanea (incondizionata), nella quale la vita è libera di essere vissuta nella maniera in cui all’uomo più gli aggrada, libera di essere progettata secondo il carattere, le inclinazioni e le aspettative di ciascuno. Pertanto, ogni ordinamento statale che limiti la libertà e la spontaneità dell’uomo, ogni ordinamento statale che intende porsi come il detentore assoluto della libertà e della spontaneità dell’uomo, è in contraddizione con l’essere dell’uomo stesso, è qualcosa di inumano, irrazionale e immorale (non essendo né buono e né giusto). Interdire e negare la totale spontaneità di espressione, di scelta e di azione agli individui umani, come fanno tutti i poteri dispotici e gli stati tirannici, significa opprimere, soffocare, vampirizzare l’uomo, il quale viene dunque privato del suo sentimento più alto e vitale quale quello della libertà, il sangue della vita umana. 284 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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La massima felicità come unico scopo Nel saggio Sulla libertà, scritto a quattro mani con la moglie, Mill si sforza di far emergere “l’importanza, per l’uomo e per la società, di una larga varietà di caratteri e di una completa libertà della natura umana di espandersi in direzioni innumerevoli e contrastanti”. Tale “completa libertà” deve essere difesa dal dispotismo delle strutture statali, principali cause delle limitazioni operate nei confronti della naturale espansione della natura umana, così come deve essere protetta dalla “tirannia dell’opinione e del sentimento prevalenti”, ossia dalla nociva “tendenza della società ad imporre […] le sue proprie idee e consuetudini come regole di condotta a quelli che dissentono da queste”. La libertà dell’uomo, con Mill, è portata ed esaltata al massimo grado. Egli infatti difende strenuamente il diritto dell’individuo di vivere come più gli piace, in quanto “ciascuno è il completo guardiano della propria salute, sia corporea, sia mentale che spirituale”. Essendo l’intera realtà in perpetuo mutamento, in continuo progresso, Mill si pone il quesito se sia rintracciabile il modo in cui l’uomo si è sviluppato nel corso della storia , se si possa stabilire quale sia stato e quale è lo scopo (il fine ultimo) a cui l’umanità intera tende. Detto in altri termini, Mill si chiede cosa ha mosso l’uomo in tutti questi secoli, quale desiderio lo ha spinto a sviluppare incessantemente nuovi usi, nuovi costumi, nuove forme di socialità, di lavoro, nuove possibilità di vita e di comportamenti. Ebbene, il fine ultimo, il desiderio principe, lo scopo fondamentale dell’uomo, dall’antichità fino a nostri giorni, è stato ed è quello della “massima felicità”. Che la “massima felicità” sia il mio desiderio principale, significa che ogni altra cosa che desidero è desiderata in nome di quel desiderio principe, che ogni mio desiderio e tutte le mie aspirazioni tendono a pervenire alla “massima felicità”, al pieno godimento, e a nient’altro. Essere massimamente felici, o meglio, desiderare di esserlo signi285 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

fica soprattutto che ciò a cui aspiro maggiormente è avere “un’esistenza esente quanto è possibile da dolori”. Qui Mill si rifà alla concezione “utilitaristica” di Jeremiah Bentham (1748-1832), il quale afferma che l’azione dell’individuo umano tende a massimizzare il piacere e minimizzare il dolore, così che ogni organizzazione statale che intenda assecondare e favorire la naturale aspirazione umana deve sempre più garantire e promuovere “la massima felicità per il numero più grande possibile di persone”. Siccome gli uomini non cercano altro che la propria felicità personale, il legislatore ha come suo compito fondamentale quello di armonizzare gli interessi privati con quelli pubblici, gli interessi individuali con quelli sociali. Il legislatore può fare ciò, sempre secondo la tesi utilitaristica di Bentham, attraverso l’uso oculato e non dispotico della “legge penale”, la quale punisce non per odio verso il criminale, ma per prevenire il delitto, ossia punisce chi potrebbe turbare, interrompendolo violentemente, il naturale corso dell’uomo orientato verso una esistenza “ricca di godimenti”. Ritornando a Mill, alla vita “ricca di godimenti” si può arrivare esclusivamente sviluppando forme di vita (individuali e sociali) sempre più esenti da quel “dolore” (fisico e morale) che è l’opposto e il veleno della “massima felicità”. È in questo senso che capiamo perché l’uomo, pur tendendo alla propria felicità personale, prende sempre più coscienza, nel corso della sua esistenza storica, di quanto anche tutti gli altri uomini non fanno che tendere esattamente allo stesso e identico scopo, qual è quello della massima felicità. L’uomo, col passar dei secoli, tende a tenere sempre più conto dei desideri di felicità di ogni altro uomo, tende a generalizzare la propria aspirazione a quella dell’intera umanità, ed è proprio lo sviluppo storico dell’umanità che mostra questa “intensificazione crescente”, questo progresso operato in nome della “massima felicità” contro ogni forma di dolore possibile (ingiustizia sociale, povertà, miseria, soprusi, violenze, ecc.). 286 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Empirismo ed Evoluzionismo: John Stuart Mill; Herbert Spencer

Non esistono contrasti di sorta tra la maggior felicità del singolo individuo e quella della società umana (felicità complessiva), anzi, è la stessa vita sociale, lo stesso vivere immerso nella collettività la propria e l’altrui ricerca di una identica felicità massima, ciò che educa e radica nell’uomo sentimenti disinteressati. Sentimenti disinteressati sono quei sentimenti “civili” capaci di farmi sentire e di rendermi cosciente dell’ingiustizia insita nel mio nuocere (molestare, rubare, uccidere, ecc.) un altro individuo, pur se tale nuocere può procurarmi un determinato piacere (denaro, piacere sadico, vendetta compiuta, ecc.). Lo sviluppo della società, dunque, dipende dallo sviluppo delle più svariate iniziative degli individui singoli, i quali sono progressivamente pervenuti, nel corso della storia dell’umanità, a forme di aggregazioni sociali dove, via via in maniera sempre minore, la libertà individuale risulta essere oppressa e negata da altri individui (padroni, despoti, tiranni, ecc.). Una società che voglia veramente porsi come società progredita rispetto a quelle passate e finalmente conscia dell’autentica natura umana, non può prescindere dal fatto che in essa l’individuo debba essere pienamente convinto di quanto egli sia tenuto “a non ledere gli interessi altrui o quel determinato gruppo di interessi che, per espressa disposizione della legge o per tacito consenso, devono considerarsi quali diritti”. L’individuo, se intende costruire una società dove si possa finalmente essere (tutti) felici, deve sentirsi pronto ad “assumere la sua parte di responsabilità e sacrifici necessari per la difesa della società e dei suoi membri contro ogni danno o molestia”. Herbert Spencer: vita e opere Herbert Spencer nasce a Derby (Inghilterra) il 27 aprile 1820. Fu ingegnere delle ferrovie a Londra ma non appena ricevette, nel 1845, una modesta eredità, abbandonò l’at287 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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tività d’ingegnere per dedicarsi alla scrittura. Dal 1848 al 1853 fece parte della Redazione della rivista Economist. Il suo primo scritto è del 1857, Il progresso, sua legge e sua causa cui ne seguirono molti altri, tra i quali si menzionano Primi principi (1862), la sua opera fondamentale, e Sistema di filosofia sintetica (1862). Muore a Brighton (Inghilterra), l’8 dicembre 1903. Evoluzione e selezione naturale Perfettamente in linea con i dettami del positivismo, il pensiero filosofico di Spencer intende adottare i procedimenti e i risultati ricavati dall’indagine scientifica. Spencer trasporta le teorie della scienza nell’ambito della filosofia, convinto del fatto che ciò che la scienza afferma riguardo a determinati fenomeni naturali – quali quelli studiati, per esempio, dalla biologia o dalla geologia –, può e deve essere valido per l’intera realtà (naturale e umana). Più precisamente Spencer si rifà alla scoperta principe del grande scienziato Charles Darwin (1809-1882), il quale scoprì la cosiddetta “teoria dell’evoluzione della specie”, che costituisce una delle teorie più importanti della storia della scienza. Le ricerche e i risultati scientifici di Darwin tendono a smentire categoricamente la pretesa di considerare le specie viventi come se queste fossero state fissate una volta per tutte all’inizio della creazione. Smentiscono dunque il cosiddetto “fissismo della specie”. Per Darwin tale fissità delle specie, tale assolutismo immutabile, tale quietismo (pace, calma, stasi) uniforme non esistono affatto nella natura. La verità è che gli esseri viventi, appartenenti al regno della natura, da sempre e per sempre, combattono per difendere la vita, lottano per la sopravvivenza fisica, sono costretti a lottare per sopravvivere e per poter perpetuare la specie. La celebre legge darwiniana della “selezione naturale” afferma infatti che, soprattutto in 288 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Empirismo ed Evoluzionismo: John Stuart Mill; Herbert Spencer

campo sessuale, ogni essere vivente tende ad imporsi e a riprodursi a spese degli altri, e, come in ogni lotta, i vincitori (e quindi i sopravvissuti) risultano essere gli “elementi migliori”, i più dotati, i più forti. I più forti che, eliminando gli elementi più deboli, perpetuano nella discendenza le loro caratteristiche maggiormente evolute rispetto a quelle degli sconfitti. Stando a quanto detto, lo stato attuale degli esseri viventi deriva dalla loro continua e insopprimibile trasformazione. Esseri viventi che, sottoposti alla legge della selezione naturale, ossia costretti a lottare tra loro per sopravvivere, una volta impostisi come vincitori e quindi dopo aver eliminato i loro diretti avversari, si attestano come gli elementi più idonei, più organizzati e maggiormente adattatisi alle condizioni di vita concernenti una determinata era storica. La concezione evoluzionistica di Darwin riguarda anche l’essere umano: l’attuale stirpe umana ha la sua origine e il suo conseguente sviluppo da forme di vita inferiori (elementari, poco sviluppate), che sono state eliminate da forme di vita superiori, e quindi selezionate negativamente (sono state insomma rifiutate, scartate, eliminate) in quanto non adatte a sopravvivere perché troppo deboli per resistere, per reagire e per non soccombere di fronte alla dura legge della natura. Legge della natura, questa, che consente soltanto ai migliori (“variazioni favorevoli”), ai più forti, ai meglio organizzati, in una parola ai più evoluti, di affermarsi nel suo regno e di affermare così la prosecuzione (nella discendenza, negli eredi) della propria specie a scapito di quella di ogni altra. Riassumendo, Darwin dice: “A questa conservazione delle variazioni favorevoli ed all’eliminazione delle variazioni nocive ho dato il nome di selezione naturale” la quale “scruta di giorno in giorno, di ora in ora, in tutto il mondo, qualsiasi variazione, anche la più leggera, rifiutando quel che è cattivo e conservando ed accumulando quel che è buono; lavorando silenziosamente e insensibilmente, tutte le volte ed ovunque se ne dia 289 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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l’occasione, al perfezionamento di ciascun essere vivente in rapporto alle sue condizioni di vita organiche e inorganiche”. Ora, affermare, come fa Darwin e come approva lo stesso Spencer, “l’evoluzione delle specie viventi – cioè la graduale trasformazione delle specie più elementari in specie più complesse e più evolute – significa smantellare una delle strutture che più tenacemente si sono presentate come immutabili lungo il corso della cultura occidentale”3. Significa negare radicalmente che le specie naturali non siano trasformabili in specie diverse, cioè negare che esse siano assolutamente identiche a sé stesse, fisse, immutabili, eterne. Distruggere il fissismo della specie, affermare che l’evoluzione biologica degli esseri viventi è una forma di progresso conducente dalle forme di vita meno idonee a quelle più idonee alla sopravvivenza, significa affermare, nel modo più perentorio possibile, che il mondo è divenire. Significa affermare che la realtà è evoluzione infinita, che tutto è preda di quel movimento progressivo che va dal meno idoneo al più idoneo, dall’omogeneo all’eterogeneo, dal meno complesso (meno articolato: semplice) al più complesso, dal disorganizzato all’organizzato, dal meno civile al più civile, in una parola, dal meno evoluto al più evoluto. Questo è ciò che, dopo Darwin (in campo scientifico), Spencer afferma in campo filosofico: l’evoluzione è il “fondo di ogni progresso”, e ogni campo della realtà, che sia esso biologico, geologico, sociale, culturale, linguistico, conoscitivo ecc., è soggetto all’evoluzione, ossia è soggetto a quel progresso che “va dal semplice al complesso attraverso differenziazioni successive”. Secondo Spencer la totalità della realtà è sottoposta al movimento mutante mediante il quale ogni stato di cose, ogni fenomeno concreto (biologico, umano, culturale, ecc.) progredisce ininterrot-

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  Ibidem, p. 143.

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tamente, trasformandosi da omogeneo ad eterogeneo, da indeterminato a indeterminato, da semplice a complesso. Tale cambiamento evolutivo rappresenta appunto l’“essenza stessa del progresso”. Bisogna sottolineare che quanto appena detto, per Spencer, riguarda esclusivamente i “fenomeni” della realtà e non la “realtà in se stessa”, che, al pari di Kant, è e rimane sempre inconoscibile, essendo essa l’“Inconoscibile” per eccellenza. La scienza, dunque, non può in nessun modo pervenire ad un sapere riguardante la realtà come è in se stessa, ma può ottenere delle verità riguardanti i “fenomeni” (biologici, sociali, culturali) della realtà: la scienza può conoscere unicamente come la realtà si manifesta nei “fenomeni” e mai come essa è in sé. Ciò comporta che le cosiddette verità scientifiche, che tutti i risultati conoscitivi conseguiti dalla scienza, per quanto notevoli, saranno sempre e soltanto parziali, relativi, non definitivi, mutabili, instabili, insicuri. I risultati della scienza, riguardando esclusivamente i fenomeni della realtà – riguardando il “come” appare la realtà e mai il “cosa è” la realtà – si riferiscono a ciò che in nessun modo può essere fissato e stabilito una volta per tutte in un sapere assoluto, incontrovertibile, infallibile. La scienza non può mai scoprire quella realtà che resta celata dietro i suoi fenomeni. Non potrà mai svelare l’intima natura della realtà che sta ritirata e immersa nel mistero più profondo, non potrà mai ammirare il vero volto del mondo arroccatosi dietro lo schermo opaco e impenetrabile della più adamantina inconoscibilità. In questo senso e solo in questo senso, agli occhi di Spencer, la scienza può riconciliarsi senza problemi con la religione, ossia con quel sentimento che, al di là di quale credo professi (cristiano, mussulmano, valdese ecc.), riconosce palesemente quanto il senso ultimo dell’intera realtà appartenga al mistero più assoluto, e che mai l’essere umano potrà accedere a quel mistero inconoscibile rappresentato dalla realtà in se stessa. Se da un lato il campo 291 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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specifico della religione è la “coscienza dell’incomprensibile” e quello della scienza, invece, è la “coscienza dei limiti” dell’uomo nei confronti dello stesso incomprensibile (realtà in se stessa), la loro riconciliazione e la pacifica coesistenza della religione a fianco della scienza risulta essere perfettamente possibile. In definitiva – afferma Spencer per convalidare la sua teoria – gli scontri e i conflitti tra scienza e religione, che occupano molte e tristi pagine della nostra storia, sono stati causati dal non aver specificato e separato in modo netto e inequivocabile i loro campi specifici e i loro limiti conoscitivi. L’evoluzione sociale Il processo evolutivo, che per Spencer interessa la totalità dei fenomeni della realtà, coinvolge e caratterizza anche i comportamenti umani. Gi uomini, attraverso tempi storici lunghissimi, hanno sviluppato forme di vita sociali sempre più organizzate e maggiormente articolate rispetto a quelle precedenti. Dire che anche la società umana partecipa all’evoluzione, essendo questa la legge fondamentale di ogni fenomeno della realtà, significa affermare che tutto ciò che pretenda ostacolare o che effettivamente ostacola tale sviluppo sociale – che va, come ogni altro sviluppo riguardante i fenomeni della realtà, dall’indeterminato al determinato, dall’indifferenziato al differenziato, dal semplice al complesso, dall’omogeneo all’eterogeneo, dal disorganizzato all’organizzato, e così via – tradisce e contrasta ciò che costituisce in modo autentico la realtà umana. Il modo autentico di intendere la vita umana è, invece, quello che considera la vita politica, sociale ed economica dell’uomo come ciò che vada lasciata libera di evolversi e soprattutto libera di seguire le leggi dell’evoluzione stessa, quali sono la lotta per la vita, la sopravvivenza del più adatto, ecc. Chiunque intenda negare tale libertà all’uomo si pone 292 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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come antagonista nei confronti del movimento evolutivo caratterizzante la realtà umana, che, seppur lento, rimane sempre inevitabile. Movimento evolutivo che produce in campo sociale, politico ed economico atteggiamenti e tendenze sempre nuove, dalle quali soltanto può scaturire il progresso reale dell’intera umanità. Da ciò consegue che, essendo anche la natura umana sottoposta in modo inevitabile alle leggi dell’evoluzione, ciò che si pone da ostacolo, da antagonista e da avversario contro lo sviluppo incessante di essa sarà, ancora una volta in modo inevitabile, progressivamente eliminato per far posto a forme di vita (sociali, politiche ed economiche) in grado di rispondere nel modo più adatto alle esigenze del libero movimento evolutivo. Ciò che agli occhi di Spencer si pone come l’ostacolo e il nemico principale dell’azione e dello sviluppo degli individui, è precisamente il potere statale, definito “regime militare” per sottolinearne il suo carattere autoritario, oppressivo e immobilizzante. Lo Stato, ovvero il “regime militare”, è allora l’ostacolo da eliminare, la forma inautentica da abbandonare, l’antagonista da abbattere, e, soprattutto, rappresenta la forma di organizzazione sociale meno sviluppata da sostituire con una forma (o fase) più progredita, meglio organizzata e articolata. È inevitabile, per la legge dell’evoluzione naturale, che accetta e concede soltanto ai “più adatti” di esistere in una data realtà, che qualunque forma sociale oppressiva che limiti e incateni l’azione e il volere umano, vada incontro alla sua sparizione, alla sua morte, alla sua “dissoluzione” (o “disintegrazione”). È inevitabile che l’essere umano elimini tale nemico autoritario, per affermare la propria (libera) esistenza, per poter continuare a esistere (e a svilupparsi in piena libertà e indipendenza), in una parola, per poter sopravvivere. Al “regime militare”, considerato come forma sociale da superare, Spencer oppone l’organizzazione sociale del “regime industriale” basato, esattamente al contrario di quello militare, sulla libera azione (iniziativa) e 293 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

sulla indipendente produzione (economica) degli individui. Individui indipendenti, che realizzano un tipo di cooperazione più sviluppata rispetto alla precedente, una cooperazione non più sottoposta all’azione totalitaria e oppressiva dello Stato. Tale “regime industriale”, che in termini politici assume il nome di “liberalismo”, è il risultato inevitabile a cui, attraverso “piccole modificazioni successive” durate decine d’anni se non secoli, il movimento evolutivo degli esseri umani è giunto allo stato attuale (al tempo di Spencer). Il regime industriale incarna quindi la più alta forma d’emancipazione (liberazione) dell’uomo nei confronti dello Stato, ossia nei confronti di ciò che impedisce e immobilizza il divenire umano. Coerentemente col suo pensiero, nemico d’ogni fissismo originario come d’ogni risultato immobilizzante, Spencer non intende il “regime industriale” come punto d’arrivo dell’evoluzione sociale, come ultima tappa dell’organizzazione umana, che non preveda nessun miglioramento o perfezionamento possibile. Il nostro filosofo prevede una terza fase sociale – dove la prima fase è rappresentata dal “regime militare” (società autoritaria nella quale l’individuo è subordinato rigidamente alla casta militare) e la seconda dal “regime industriale” (società liberale nella quale l’individuo si è liberato dal controllo rigido dello Stato dal quale dipende sempre meno) – dove la cooperazione degli individui non sarà più basata sull’interesse personale e quindi sull’egoismo (ancora presente nel “regime industriale”), bensì sull’altruismo. La nuova èra della società umana prevista da Spencer, sarà caratterizzata da una forma di vita collettiva estremamente sviluppata, dove finalmente i bisogni e i piaceri personali coincideranno in modo perfetto coi bisogni e i piaceri di tutti gli altri uomini, dove gli interessi privati coincideranno in modo perfetto con quelli pubblici.

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PAGINE ANTOLOGICHE

J.S. Mill: le previsioni della scienza non sono esatte ma approssimative I fatti che si succedono secondo leggi costanti sono, in se stessi, suscettibili di essere l’oggetto di una scienza, anche quando queste leggi non fossero state ancora scoperte o non potessero ancora esserlo con i nostri mezzi attuali. Prendiamo, ad esempio, la classe più comune dei fenomeni meteorologici, quelli della pioggia o del bel tempo. La ricerca scientifica non è ancora riuscita ad accertare l’ordine di antecedenza e di precedenza fra questi fenomeni, in modo da essere capace, almeno nelle zone terrestri, di predirli con certezza o con un alto grado di probabilità. Eppure non c’è nessun dubbio che questi fenomeni dipendono da leggi e che queste leggi derivano da leggi ultime conosciute, quelle del calore, dell’elettricità, della vaporizzazione e dei fluidi elastici. Né si può mettere in dubbio che, se fossimo al corrente di tutte le circostanze precedenti, potremmo, solo attraverso queste leggi più generali, predire (salvo difficoltà di calcolo) lo stato delle condizioni atmosferiche in un qualunque tempo futuro. La meteorologia, perciò, non solo ha in se stessa tutti i naturali requisiti per essere una scienza, ma una scienza anche ora costituisce, pur se si tratta, per la difficoltà di osservare i fatti da cui dipendono i fenomeni (una difficoltà inerente alla peculiare natura di questi fenomeni), di una scienza molto imperfetta. […] Si può concepire un caso di carattere intermedio tra la perfezione della scienza e la sua estrema imperfezione. Può accadere che le cause maggiori, quelle da cui dipende la parte maggiore dei fenomeni, siano suscettibili di osservazione e di calcolo, così che, se non intervenissero altre cause, potrebbe darsi una spiegazione completa non solo del fenomeno in 295 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

generale, ma anche di tutte le variazioni e modificazioni che esso comporta. Ma, secondo che altre cause, forse molte altre cause, separatamente insignificanti nei loro effetti, cooperano o contrastano, in molti o in tutti i casi con le cause maggiori, l’effetto presenta, di conseguenza, più o meno differenza da quello che sarebbe stato prodotto dalle cause maggiori. Ora, se le cause minori non sono costantemente accessibili o non sono accessibili del tutto ad un’esatta osservazione, della principale parte dell’effetto si può ancora, come prima, render conto e si può anche predirla; ma possono esserci variazioni e modificazioni che non possiamo spiegare completamene e le nostre predizioni non possono farsi esattamente ma solo approssimativamente. […] È questo che si intende o si deve intendere quando si parla di scienze che non sono scienze esatte. […] Poiché i fenomeni di cui si occupa sono i pensieri, i sentimenti e le azioni degli esseri umani, questa scienza avrebbe raggiunto la perfezione ideale se ci mettesse in condizione di predire come un individuo penserà, sentirà o agirà nella vita, con la stessa certezza con cui l’astronomia ci fa capaci di predire le posizioni e gli occultamenti degli astri. C’è appena bisogno di affermare che non può farsi niente che si avvicini a questo. Le azioni dell’individuo non possono predirsi con esattezza scientifica, fosse ciò unicamente perchè non possiamo prevedere tutte le circostanze in cui questi individui si troveranno. Inoltre, anche in una data combinazione di circostanze presenti, non può farsi un’asserzione, precisa e universalmente vera ad un tempo, sui modi in cui gli esseri umani penseranno, sentiranno o agiranno. Questo non avviene, tuttavia, perché i modi di pensare, di sentire e di agire non dipendono da cause; non possiamo dubitare che, se per un individuo i nostri dati potessero essere completi, conosceremmo, almeno per il momento, un numero sufficiente delle leggi primitive dalle quali i fenomeni spirituali sono determinati, tanto da essere capaci, in molti casi, di predire, con discreta esattezza, quali, nella maggior parte delle circostanze supponibile, possano essere la sua condotta o i suoi sentimenti. Ma le impressioni e le azioni degli esseri umani non sono solo il risultato delle loro presenti circostanze, ma il risultato di queste circostanze e del carattere degli individui messi insieme; e gli agenti che determinano il carattere umano sono così numerosi e diversi (poiché tutto ciò che capita ad una persona nella vita ha una parte di influenza) che, nell’insieme, non so296 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Empirismo ed Evoluzionismo: John Stuart Mill; Herbert Spencer: pagine antologiche

no mai esattamente simili in due casi. Onde, anche se la nostra scienza della natura umana fosse teoricamente perfetta, se potessimo cioè calcolare un carattere allo stesso modo in cui calcoliamo l’orbita di un pianeta sulla base di determinati dati, tuttavia, poiché non ci sono mai tutti i dati, e nemmeno mai casi precisamente analoghi in casi differenti, non potremmo né fare positivamente predizioni né stabilire proposizioni universali. (J. S. Mill, Sistema di logica, tr. it. di A. Negri, in Positivismo europeo, Le Monnier, Firenze 1981, pp. 106-110) La sovrana libertà e l’assoluta indipendenza dell’individuo Scopo di questo saggio è formulare un principio molto semplice, che determini in assoluto i rapporti di coartazione e controllo tra società e individuo, sia che li si eserciti mediante la forza fisica, sotto forma di pene legali, sia mediante la coazione morale dell’opinione pubblica. Il principio è che l’umanità è giustificata, individualmente o collettivamente, a interferire sulla libertà d’azione di chiunque soltanto al fine di proteggersi: il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri. Il bene dell’individuo, sia esso fisico o morale, non è una giustificazione sufficiente. Non lo si può costringere a fare o non fare qualcosa perché è meglio per lui, perché lo renderà più felice, perché, nell’opinione altrui, è opportuno o perfino giusto: questi sono buoni motivi per discutere, protestare, persuaderlo o supplicarlo, ma non per costringerlo o per punirlo in alcun modo nel caso si comporti diversamente. Perché la costrizione o la punizione siano giustificate, l’azione da cui si desidera distoglierlo deve essere intesa a causar danno a qualcun altro. Il solo aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve render conto alla società è quello riguardante gli altri: per l’aspetto che riguarda soltanto lui, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l’individuo è sovrano. […] La libertà, come principio, non è applicabile in alcuna situazione precedente il momento in cui gli uomini sono diventati capaci di migliorare attraverso la discussione libera e tra eguali. Fino ad allora, non vi è nulla per loro, salvo l’obbedienza assoluta a un Aqbar o a un Car297 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

lomagno se sono così fortunati da trovarlo. Ma, non appena gli uomini hanno conseguito la capacità di essere guidati verso il proprio progresso dalla convinzione o dalla persuasione[…], la costrizione, sia in forma diretta che sotto forma di pene e sanzioni per chi non si adegua, non è più ammissibile come strumento di progresso, ed è giustificabile solo per la sicurezza altrui. […] Una persona può causare danno agli altri non solo per azione ma anche per omissione, e in entrambi i casi ne deve giustamente render conto alla società. È vero che il secondo caso richiede, in misura molto maggiore del primo, cautela nell’esercizio della coercizione. Rendere chiunque responsabile del male che fa agli altri è la regola; renderlo responsabile del male che non impedisce è, in termini relativi, l’eccezione. Tuttavia vi sono molti casi sufficientemente chiari e gravi da giustificarlo. In tutto ciò che riguarda i rapporti esterni dell’individuo, quest’ultimo è de jure responsabile verso coloro i cui interessi sono coinvolti, e, se necessario, verso la società in quanto loro protettore. […] Ma vi è una sfera d’azione in cui la società, in quanto distinta dall’individuo, ha, tutt’al più, soltanto un interesse indiretto: essa comprende tutta quella parte della vita e del comportamento di un uomo che riguarda soltanto lui, o se riguarda anche altri, solo con il loro libero consenso e partecipazione, volontariamente espressi e non ottenuti con l’inganno. Quando dico “soltanto” lui, intendo “direttamente e in primo luogo”, poiché tutto ci che riguarda un individuo può attraverso di lui riguardare altri […]. Questa, quindi, è la regione propria della libertà umana. Comprende, innanzitutto, la sfera della coscienza interiore, ed esige libertà di coscienza nel suo senso più ampio, libertà di pensiero e sentimento, assoluta libertà di opinione in tutti i campi, pratico o speculativo, scientifico, morale, o teologico. […] In secondo luogo, questo principio richiede la libertà di gusti e occupazioni, di modellare il piano della nostra vita secondo il nostro carattere, di agire come vogliamo, con tutte le possibili conseguenze, senza essere ostacolati dai nostri simili, purché le nostre azioni non li dannegino, anche se considerano il nostro comportamento stupido, nervoso, o sbagliato. In terzo luogo, da questa libertà di ciascuno discende, entro gli stessi limiti, quella di associazione tra individui: la libertà di 298 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Empirismo ed Evoluzionismo: John Stuart Mill; Herbert Spencer: pagine antologiche

unirsi per qualunque scopo che non implichi altrui danno, a condizione che si tratti di adulti, non costretti con la forza o l’inganno. Nessuna società in cui queste libertà non siano rispettate nel loro complesso è libera, indipendentemente dalla sua forma di governo; e nessuna in cui non siano assolute e incondizionate è completamente libera. (J. S. Mill, Saggio sulla libertà, Il Saggiatore, Milano 1981, pp. 32-36) Darwin e l’origine dell’uomo La conclusione principale a cui siamo giunti qui, ora sostenuta da molti naturalisti capaci di dare un giudizio obbiettivo, è che l’uomo è disceso da qualche forma meno altamente organizzata. Le basi di questa conclusione non saranno mai scosse, data la intima somiglianza tra l’uomo e gli animali inferiori, nello sviluppo embrionale ed in infiniti punti di struttura e di costituzione, sia di grande che di lieve importanza; i rudimenti che l’uomo conserva e le anormali reversioni a cui è occasionalmente soggetto, son tutti fatti che non si possono confutare. Essi sono noti da lungo tempo, ma fino a poco fa non ci dicevano niente sull’origine dell’uomo. Ma ora, visti alla luce delle nostre conoscenze di tutto il mondo dei viventi, il loro significato non può sfuggire. Il grande principio dell’evoluzione domina chiaro e fermo, quando questi gruppi di fatti son considerati in rapporto con altri, quali le affinità reciproche dei membri dello stesso gruppo, la loro distribuzione geografica nel passato e nel presente, e la loro successione geologica. Non si può assolutamente pensare che tutti questi fatti dicano il falso. Chi non si accontenta di pensare (come un selvaggio) che i fenomeni naturali non sono collegati, non può credere che l’uomo sia l’opera di un atto separato di creazione. Egli sarà costretto ad ammettere che l’intima rassomiglianza dell’embrione umano con quello, ad esempio, di un cane, la struttura del cranio, delle membra, dell’intera forma somatica dell’uomo ripete lo stesso modello di quella degli altri mammiferi (indipendentemente dall’uso a cui le singole parti sono destinate), la ricomparsa occasionale di varie strutture, per esempio, di parecchi muscoli che normalmente non sono presenti nell’uomo, ma che sono normali nei quadrumani, ed una quantità di fatti analoghi, tutti portano nella 299 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

maniera più evidente alla conclusione che l’uomo discende da un progenitore comune agli altri mammiferi. Abbiamo visto che l’uomo presenta continuamente differenze individuali in tutte le parti del corpo e nelle facoltà mentali. Queste differenze o variazioni dipendono dalle stesse cause generali e obbediscono alle stesse leggi che (troviamo) negli animali inferiori. In entrambi i casi valgono le stesse leggi dell’eredità. L’uomo tende a moltiplicarsi molto al di là dei suoi mezzi di sussistenza, e di conseguenza è soggetto occasionalmente a una grave lotta per l’esistenza e la selezione naturale agisce su tutto ciò che è nel suo campo d’azione. Non è affatto necessaria una successione di variazioni molto spiccate di natura simile; piccole, fluttuanti differenze individuali bastano per l’azione della selezione naturale; non vi è ragione di pensare che nella stessa specie, tutte le parti dell’organizzazione tendano a variare nello stesso grado. Possiamo esser certi che gli effetti ereditari del continuo uso o disuso di parti agiscono intensamente nella stessa direzione della selezione naturale. Modificazioni dapprima importanti, anche quando non servono più in qualche funzione particolare, rimangono per lungo tempo ereditate. […] Se consideriamo la struttura embriologica dell’uomo, le analogie con gli animali inferiori, i rudimenti che conserva, e la reversione cui è soggetto, possiamo in parte immaginare la condizione primitiva dei nostri progenitori e possiamo approssimativamente collocarli in un posto appropriato nella serie zoologica. Impariamo così che l’uomo è disceso da un quadrupede peloso, provvisto di coda, probabilmente con l’abitudine di vivere sugli alberi e che abitava il Vecchio continente. Se un naturalista avesse esaminato l’intera struttura di questo essere, l’avrebbe classificato tra i quadrumani, con la stessa sicurezza con cui avrebbe classificato l’ancora più antico progenitore delle scimmie del Vecchio e del Nuovo Continente. I quadrumani e tutti i mammiferi più elevati derivano probabilmente da qualche antico marsupiale e questo, attraverso una lunga discendenza di forme che andavano divergendo, da qualche creatura simile agli anfibi, e questi ancora da qualche animale simile ai pesci. Nella profonda oscurità del passato, possiamo intravedere che il primo progenitore di tutti i vertebrati, deve essere stato un animale acquatico, provvisto di branchie, coi due sessi riuniti nello stesso individuo e con la maggior parte degli organi 300 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Empirismo ed Evoluzionismo: John Stuart Mill; Herbert Spencer: pagine antologiche

più importanti (come il cervello e il cuore) imperfettamente o per nulla sviluppati. Questi animali dovevano esser più simili alle attuali ascidie di mare che a qualsiasi altra forma conosciuta. (C. Darwin, L’origine dell’uomo, Universale Economica, Milano 1949, pp. 126-133) La lotta universale e l’evoluzione sociale secondo Spencer Tutte le cose si sviluppano o decadono, accumulano materia o la consumano, si integrano o si disintegrano. Tutte le cose variano nella loro temperatura, si contraggono o si espandono, s’integrano o si disintegrano. Tanto la quantità di materia quanto la quantità di moto contenuta in un aggregato cresce o diminuisce; e l’aumento o la diminuzione dell’una o dell’altro è un avanzamento verso una diffusione maggiore o una maggiore concentrazione. Continue perdite o acquisti di sostanze, per quanto lenti, implicano una finale scomparsa o un ingrandimento indefinito; e le perdite o gli acquisti di moto insensibile produrranno, se continuano, una completa integrazione o una completa disintegrazione. […] Dopo avere così ottenuto un’idea generale di queste azioni universali sotto i loro aspetti più semplici, possiamo ora considerarle sotto certi aspetti più complessi. Fin qui abbiamo supposto che l’uno o l’altro dei due opposti processi avesse luogo da solo – abbiamo supposto che un aggregato perde moto e s’integra, o acquista moto e si disintegra. Ma sebbene ogni cambiamento promuove l’uno o l’altro di questi processi, nessuno dei due rimane mai affatto indipendente dall’altro. Poiché in qualunque momento ogni aggregato acquista e perde moto allo stesso tempo. Ogni massa da un granello di sabbia a un pianeta, irradia calore verso altre masse, e assorbe il calore irradiato da altre masse; e in quanto compie il primo processo essa s’integra, mentre in quanto compie il secondo si disintegra. Negli oggetti inorganici questo doppio processo opera ordinariamente effetti non apprezzabili. […] Negli aggregati viventi, e specialmente negli animali, questi processi in conflitto tra loro si compiono con grande attività sotto parecchie forme. […] I processi che così sono ovunque in lotta, e ovunque acquistano ora un predominio temporaneo, ora un predominio durevole l’uno sull’altro, noi li chiamiamo Evoluzione e Dissoluzione. L’evoluzione sotto il suo aspetto 301 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

più generale è la integrazione di materia e la concomitante dissipazione di moto; mentre la dissoluzione è l’assorbimento di moto e la concomitante disintegrazione di materia. […] Passando dall’Umanità sotto la sua forma individuale all’Umanità come corpo sociale, troviamo la legge generale esemplificata in modi ancor più vari. Il cambiamento dall’omogeneo all’eterogeneo si manifesta egualmente nel processo della civiltà come un tutto, e nel progresso di ogni tribù o nazione; e continua sempre a procedere con crescente rapidità. La società nel suo primo e più basso stadio è una riunione omogenea di individui che hanno poteri simili e simili funzioni: la sola differenza di funzione è quella che accompagna la differenza di sesso. Ogni uomo è guerriero, cacciatore, pescatore, fabbricante di ordigni, costruttore di abitazioni; ogni donna è sottoposta alle stesse fatiche; ogni famiglia è sufficiente a se stessa, e, se non fossero il desiderio di compagnia, la necessità di aggredire, e il bisogno di difendersi, potrebbe vivere egualmente bene isolata dalle altre. Assai presto tuttavia, nel corso dell’evoluzione sociale, troviamo una differenziazione incipiente tra i governanti e i governati. Qualche specie di preminenza da parte di un capo sorge subito dopo che la riunione di famiglie erranti separatamente dà luogo alla formazione di una tribù nomade. L’autorità dei più forti e dei più astuti si fa sentire tra i selvaggi, come in un branco di animali o in un’adunanza di scolari: specialmente in guerra. Dapprima, tuttavia, essa è indefinita, incerta; ad essa partecipano altri individui che godono di un potere appena inferiore; ed è scompagnata da qualsiasi differenza nel genere delle occupazioni e nel tenore di vita: il primo reggitore uccide la propria selvaggina, fabbrica le proprie armi, costruisce la propria capanna, e, economicamente considerato, non differisce dagli altri membri della sua tribù. Insieme con le conquiste e col raccogliersi delle tribù in grandi masse, il contrasto tra i governanti e i governati diventa crescendo più deciso. Il potere supremo diventa ereditario in una famiglia; il capo, prima militare e poi politico, cessando di provvedere alle proprie necessità, viene servito dagli altri; e comincia ad assumere il solo ufficio di dominare. Allo stesso tempo è andata sorgendo una specie coordinata di governo: quello della religione. […] Così, non appena la massa sociale originariamente omogenea si differenzia nella parte dei governati e in quella dei governanti, quest’ultima manifesta una incipiente differenziazione nelle clas302 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Empirismo ed Evoluzionismo: John Stuart Mill; Herbert Spencer: pagine antologiche

si religiosa e secolare – Chiesa e Stato, mentre nello stesso tempo e anche prima comincia a prender forma quella specie meno definita di governo che regola le nostre relazioni quotidiane – una specie di governo che, come possiamo vedere nei collegi araldici, nei libri del corpo dei Pari, nei maestri delle cerimonie, non è priva di certe caratteristiche evidenti sue proprie. Ciascuna di queste forme di governo è essa stessa soggetta a successive differenziazioni. Nel corso delle età sorge, come tra noi, una organizzazione politica altamente complessa costituita del monarca, dei ministri, della camera dei Lord e di quella dei Comuni, coi loro subordinati dipartimenti amministrativi, corti di giustizia, uffici del Tesoro, ecc., a cui si aggiungono nelle province i governi municipali, i governi delle contee, i governi delle parrocchie o delle unioni di parrocchie – tutte forme di governo più o meno complicate. Accanto ad essa cresce un’organizzazione religiosa altamente complessa, coi suoi vari gradi di ufficiali dagli arcivescovi fino ai servi di chiesa, coi suoi collegi, concistori, corti ecclesiastiche, ecc.; mentre a tutto questo si devono aggiungere le numerose sètte indipendenti che continuamente si moltiplicano, ciascuna con le sue autorità generali e locali. E simultaneamente si sviluppa un complicato sistema di costumi, di usanze, e di mode temporanee, che sono imposte dalla società in generale, e servono a regolare quei minori rapporti tra uomo e uomo che non sono regolati dalla legge civile e religiosa. Inoltre, v’è da osservare che questa crescente eterogeneità nei meccanismi governativi di ciascuna nazione è stata accompagnata da una crescente eterogeneità nei meccanismi governativi delle differenti nazioni. Tutti i popoli sono più o meno dissimili nei loro sistemi politici e nella loro legislazione, nelle loro credenze ed istituzioni religiose, nei loro costumi ed usi cerimoniali. […] Intanto è andata procedendo una differenziazione di un genere più noto; quella, cioè, per cui la massa delle comunità si è divisa in classi distinte e distinti ordini di lavoratori. Mentre la parte governante ha subìto il complesso sviluppo ora descritto, la parte governata ha subìto uno sviluppo più complesso ancora, che ha avuto come risultato quella minuta divisione del lavoro che caratterizza le nazioni avanzate. È inutile tracciare questo progresso dalle sue prime fasi, attraverso le divisioni di casta dell’Oriente e le corporazioni d’arti dell’Europa, fino alla complicata organizzazione di produttori e di distributori quale esiste presso di noi. Gli economisti hanno 303 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

già da lungo tempo descritto il progresso industriale che, attraverso una crescente divisione del lavoro, finisce con una comunità incivilita i cui membri separatamente compiono differenti azioni gli uni per gli altri. […] Ma questo avanzamento dall’omogeneo all’eterogeneo nella organizzazione industriale della società presenta ancora altre e più elevate fasi. Molto tempo dopo che si è fatto un progresso considerevole nella divisione del lavoro tra le differenti classi di operai, c’è relativamente una piccola divisione del lavoro tra le parti ampiamente separate della comunità: la nazione continua ad essere comparativamente omogenea nel senso che in ogni distretto si compiono le stesse occupazioni. Ma quando le strade e gli altri mezzi di comunicazione diventano numerosi e buoni, i differenti distretti cominciano ad assumere differenti funzioni, e a diventare dipendenti l’uno dall’altro. La manifattura del cotone si localizza in questa regione, la manifattura della lana in quella; le sete si producono qui, là i merletti; le calze in un posto, le calzature in un altro; le stoviglie, le chincaglierie, la coltelleria, vengono ad avere i loro centri speciali; e da ultimo ogni località diventa più o meno distinta dalle altre per l’occupazione principale che in essa si esercita. Anzi, di più, questa suddivisione di funzioni si manifesta non solo tra le differenti parti della stessa nazione, ma anche tra nazioni differenti. Quello scambio di mercanzie, che il libero commercio permette di accrescere così grandemente, avrà infine l’effetto di specializzare, in un grado maggiore o minore, l’industria di ciascun popolo. Così che cominciando con una tribù primitiva, quasi del tutto se non affatto omogenea nelle funzioni dei suoi membri, il progresso ha avuto luogo e procede tuttora verso un’aggregazione economica di tutta la razza umana; che diventa sempre più eterogenea rispetto alle funzioni separate, assunte da nazioni separate, rispetto alle funzioni separate assunte dalle divisioni locali di ciascuna nazione, rispetto alle funzioni separate assunte dalle molte classi di produttori in ciascun luogo, e rispetto alle funzioni separate assunte dai lavoratori uniti nel coltivare o fabbricare ciascuna mercanzia. E poi, da ultimo bisogna menzionare la vasta organizzazione di distributori, all’ingrosso e al minuto, costituenti un elemento così cospicuo nelle nostre popolazioni cittadine, che va diventando sempre più specializzato nella sua struttura. (H. Spencer, Primi principi, Bocca, Milano 1901, pp. 228-281, passim.) 304 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Storicismo: Wilhelm Dilthey; Max Weber

La lingua in cui penso è sorta nel tempo, i miei concetti sono sorti in esso: io sono, fino alla profondità non più penetrabile del mio io, un essere storico. In tal modo si presenta il primo importante momento per la soluzione del problema conoscitivo della storia: la prima condizione per la possibilità della conoscenza storica sta nel fatto che io stesso sono un essere storico, e che colui che indaga la storia è il medesimo che fa la storia. Dilthey

Caratteri generali dello storicismo Lo storicismo intende smentire la pretesa del positivismo comtiano di risolvere, in una spiegazione esclusivamente logica (razionale, lineare) e matematica (numerica, sintetica), tutti gli eventi e i fenomeni della realtà, compresi, di conseguenza, quelli umani. Il positivismo di Comte, affidandosi interamente ai procedimenti e ai risultati delle “scienze naturali”, si basa sulla convinzione fondamentale che determinate “leggi costanti” (uniformi, generali) ricavate osservando e studiando la realtà naturale, che permettono di prevedere, con un certo grado di sicurezza, gli eventi e i fenomeni naturali del futu305 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

ro, sono rintracciabili anche nella realtà umana. Agli occhi dello storicismo, che il positivismo si è, in un certo senso, limitato a “spiegare” ogni cosa mediante definizioni generali (universali) e concetti intellettuali (logiche e matematiche), ossia mediante argomentazioni “astratte”, che non tengono affatto conto di ciò che nella realtà si presenta coi caratteri fluenti dell’“individuale”, del singolare, del particolare. Le argomentazioni astratte del positivismo non tengono conto delle singolarità storiche della realtà umana. Realtà, questa, assolutamente non “spiegabile” mediante nozioni intellettuali e formule logico-matematiche: “Tra questa realtà e l’intelletto non sembra possibile nessun rapporto conoscitivo, poiché il concetto separa ciò che è legato nel fluire della vita, e rappresenta qualcosa di valido universalmente e per sempre, indipendentemente dalla mente che lo ha formulato, mentre il fluire della vita è ovunque soltanto singolare, e ogni onda va e viene entro di essa”. Ciò che in nessun modo può rientrare in spiegazioni o sistemazioni logico-matematiche, in formule numeriche, in leggi costanti e “sicure”, ciò che non si presenta affatto coi caratteri dell’uniformità, della ripetibilità, della prevedibilità scientifica non è altro che l’attività spirituale dell’uomo, la vita spirituale dell’umanità intera, essenzialmente fluente, diveniente, che si esprime e si è espressa nel corso della storia. La realtà umana non segue esclusivamente il corso della natura, non compie un tragitto uniforme e prestabilito o comunque retto da rigidi meccanismi, che determinano in modo assoluto la volontà e l’azione storica degli uomini. L’uomo, seppur condizionato dal mondo naturale, non è un elemento fermo e passivo, come può essere un vegetale o una zecca o un corpo celeste, non è pura materia, non è un “fatto”, non è un “dato” inerte e immobile. La realtà umana, o meglio, la storia dell’umanità è opera esclusiva degli uomini: l’“elemento storico essenziale” è la “forza creatrice” dell’uomo. Ciò implica che, per studia306 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Storicismo: Wilhelm Dilthey; Max Weber

re correttamente le manifestazioni storico-spirituali degli uomini, non si possono utilizzare i modelli e i metodi delle scienze naturali, ma si deve fare appello alle cosiddette “scienze spirituali”, quali la storia, l’economia, la politica, le scienze del diritto e dello Stato, della religione, della letteratura, della poesia, dell’arte, e, infine, la filosofia. Per lo storicismo è fondamentale distinguere tra “storia” e “natura”, tra “scienze dello spirito” e “scienze della natura”, così come è di primaria importanza ricercare a proposito dei fenomeni umani (storico-spirituali, storico-sociali) non una “spiegazione causale” (sempre concettuale e generalizzante) ricavabile dai metodi scientifici (del tipo: tutti i corpi cadono a causa della legge di gravità), bensì tendere ad una “comprensione” immediata, intuitiva e sentimentale di tali fenomeni. Comprendere immediatamente (intuitivamente, sentimentalmente) determinati fenomeni umani, implica che il ricercatore deve essere in grado di “sentire” e “rivivere” lo spirito degli uomini di un dato periodo storico, deve “accordarsi” ad esso, instaurare un rapporto simpatetico con esso. Tale metodo gnoseologico avanzato dallo storicismo, tende, in sostanza, a delineare e a ricercare il senso delle varie manifestazioni spirituali, eminentemente creative, presenti e caratterizzanti il mondo umano. Lo storicismo, come suo compito, sottopone ad un esame critico e rigoroso, d’ispirazione kantiana, tutto ciò che concerne la conoscenza e l’azione dell’uomo: cosa egli ha conosciuto e cosa ha fatto in concreto nel lungo corso della storia dell’umanità, e in quale modo ha manifestato concretamente tali conoscenze e iniziative. Wilhelm Dilthey: vita e opere Wilhelm Dilthey nasce a Biebrich (Germania) il 19 novembre 1833. 307 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

Studia ad Heidelberg e a Berlino, e nel 1867 diventa professore di filosofia a Basilea. Dal 1882 succedette a Lotze presso l’Università di Berlino, dove avrebbe continuato ad insegnare fino al 1906. Muore a Siusi (Bolzano), il 1° ottobre del 1911. Delle sue opere, significativi sono gli scritti: Introduzione alle scienze dello spirito (1883); Studi per la fondazione delle scienze dello spirito (1905); L’essenza della filosofia (1907); Nuovi studi sulla costruzione del mondo storico nelle scienze e nello spirito (pubblicato postumo). Le scienze dello spirito Wilhelm Dilthey intende pervenire, attraverso una attenta “critica della ragione storica”, ad una validità oggettiva per quanto riguarda le “scienze dello spirito”, per affidare ad esse, nel modo più adatto e fruttifero possibile, lo studio dei fenomeni storici-umani. La sua ricerca intende esaminare se sia possibile fondare su una base sicura e affidabile, rappresentata dalle scienze dello spirito, una scienza storica autonoma nei confronti di ogni altra disciplina, e in particolar modo indipendente dalle scienze naturali. Egli, alla sua stessa domanda che recita: “come possono essere delimitate le scienze dello spirito dalle scienze della natura?”, risponde che anzitutto bisogna chiarire quale sia l’oggetto specifico di tali scienze. Se l’oggetto delle scienze naturali sono i “fenomeni esterni” all’uomo (il mondo dei “dati” e dei “fatti” naturali appunto, nei quali viene compreso anche l’uomo), quello delle scienze dello spirito, invece, è il mondo dei rapporti tra gli individui, il mondo delle relazioni umane. Le scienze spirituali studiano tutti i prodotti dell’attività umana associata e il modo in cui gli individui li fanno propri o li giudicano, e il modo in cui tali attività e giudizi creano il mondo storico dell’uomo. Questo mondo è un mondo di cui l’uomo ha una coscienza 308 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Storicismo: Wilhelm Dilthey; Max Weber

immediata, diretta, come se lo sentisse, come se ne avesse coscienza “internamente”. All’osservazione che mira a spiegare i fenomeni “esterni”, i fenomeni empirici, e quindi ad una conoscenza mediata (derivata) dall’osservazione del mondo esterno caratterizzante il metodo gnoseologico delle scienze della natura, Dilthey intende preferire ed adottare un metodo basato sulla comprensione dell’“esperienza vissuta” immediatamente dall’uomo, cioè sull’osservazione di ciò che si chiama “vita” (Erleben). La “vita” a cui fa riferimento Dilthey è in un certo senso nascosta all’osservazione empirica, perché è la manifestazione interna dell’uomo, è il suo spirito, è ciò che si sottrae ad ogni spiegazione intenta ad occuparsi dei fenomeni “esterni”, della materia, dei corpi e delle masse e dei pianeti ecc. La “vita” umana, sulla quale Dilthey intende basare la sua indagine storica, non è affatto una nozione biologica né un concetto metafisico, non può essere ridotta a “leggi costanti” così come sono ridotti i fenomeni della natura, né può essere compresa dalle argomentazioni dogmatiche e astratte della metafisica o della teologia. Essa riguarda specificatamente la concreta e reale situazione dell’uomo nel mondo, il suo essere in un determinato spazio e in un determinato tempo, riguarda quindi la situazione storica dell’uomo, il suo essere una creatura calata nel corso irripetibile ed eccezionale della storia. Storia che in nessun modo può essere bloccata e immobilizzata in formule matematiche e logiche o in sistemi filosofici immutabili e definitivi. La “vita” è ciò che di reale e immediato l’individuo intuisce ed esperisce, senza bisogno di capire (concettualmente) cosa essa sia, perché, se vogliamo, già per rispondere alla domanda “cos’è la vita?”, bisogna almeno una volta aver vissuto, bisogna essere vivi e immediatamente coscienti di esserlo. Alla vita spirituale dell’uomo, alla vita della coscienza umana e al suo manifestarsi (oggettivarsi) nel corso del309 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

la storia, lo storicismo intende porre tutta la sua attenzione filosofica. Le scienze dello spirito, dunque, si occupano di indagare il “vissuto” degli uomini manifestatosi nel corso della storia, la sua vita storica. Indagano la storia delle manifestazioni spirituali dell’uomo (arte, religione politica, ecc.), ricercandone, o meglio, cercando di rivivere e di farci rivivere quale significato, quale scopo e valore esse possedevano. Le scienze dello spirito sono in grado di comprendere la “vita” dell’uomo, perché non si rivolgono all’aspetto esteriore e naturale dell’esistenza umana, ma all’esperienza interna dell’uomo, alla sua coscienza spirituale, che permette all’uomo di cogliere se stesso. La “coscienza” dell’uomo è, allora, il punto dal quale le scienze dello spirito partono per “comprendere” in che modo questa, da esperienza immediata e interna, si è manifestata ed esternata nel corso della storia. Lo spirito umano si fa storia Il vissuto immediato dell’uomo è, come tale, intimo, soggettivo e incomunicabile. L’essere umano, però, non può vivere isolato, chiuso in sé, perché egli è ciò che, per propria costituzione potremmo dire, si relaziona incessantemente con la natura esterna e soprattutto con gli altri uomini, creando così, nel corso della storia, determinati gruppi sociali, determinati rapporti culturali, certe istituzioni politiche e giuridiche, particolari usi morali e etici, singolari espressioni artistiche, e via dicendo. La struttura del mondo umano, per Dilthey, è essenzialmente una struttura storica, che ha il suo centro nell’individuo. Quest’ultimo, relazionandosi con gli altri individui, costituisce sistemi culturali e organizzazioni sociali che sono “finiti”, determinati, relativi ad un certo periodo storico (e non a un altro), divenienti, transuenti (tramontanti, perituri). La “vita” dell’individuo consiste nell’insieme dei dati vis310 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Storicismo: Wilhelm Dilthey; Max Weber

suti di cui, come detto, si è immediatamente certi senza bisogno di alcuna ulteriore mediazione, senza bisogno di ricavarla da qualcosa d’altro se non da essa stessa: la “vita” è ciò che non richiede nessuna giustificazione (esteriore, naturale, metafisica, teologica, ecc.) per essere affermata come vera. Questa vita immediata e intima, questa realtà interiore a cui Dilthey fa riferimento, consiste esattamente in quell’“atto di coscienza”, in quell’“evento interiore” attraverso cui l’uomo conosce la realtà esteriore. Tale vita immediata, tale realtà spirituale, si badi, non resta un qualcosa di esclusivamente sentito, non si limita a manifestarsi internamente, non resta soltanto un fatto della coscienza individuale, non si ferma ad un puro e semplice atto d’“introspezione” incomunicabile, bensì si esprime oggettivamente, si oggettiva, si esterna, si manifesta all’esterno, si esprime concretamente nel mondo e nella storia effettiva dell’umanità intera. Secondo Dilthey, i “suoni”, i “gesti del volto” e le “parole” degli uomini si oggettivano, si manifestano, si incarnano in istituzioni, Stati, Chiese, istituti scientifici ecc.. Gli “stati di coscienza” degli individui (che si esprimono appunto in suoni, gesti, parole, ecc.), appartenenti ad un determinato periodo storico, per esempio quello dell’antica Grecia, sono “connessi” con la creazione concreta e effettiva delle varie istituzioni, monumenti, leggi, opere d’arte – così come la creazione degli anfiteatri greci è connessa all’esigenza spirituale di esprimere concretamente determinati “stati di coscienza” quale quello, per esempio, riguardante il sentimento tragico dell’esistenza. È precisamente in “queste connessioni che si muove la storia”. Le impressioni immediate dell’uomo (coscienza personale), il “vissuto” o più semplicemente la vita (l’esperienza) immediata e soggettiva dell’individuo umano diventa “spirito oggettivo”, si oggettiva (si manifesta, si incarna, s’esterna, prende forma) in qualcosa di assolutamente concreto. 311 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Nella fattispecie si oggettiva in istituzioni, in sistemi giuridici, movimenti religiosi, dottrine filosofiche, stili letterari, ambienti artistici, sistemi etici, concezioni morali, e così via. A questo spirito oggettivo della vita storica dell’umanità, a questa manifestazione concreta delle azioni e delle idee, delle volontà e delle iniziative degli uomini si devono rivolgere e si rivolgono le scienze dello spirito per “comprendere” (per “intendere”) con uno sguardo retrospettivo “la realtà storico-sociale dell’uomo”. Comprendere la finitudine d’ogni cosa Le scienze dello spirito, dunque, devono comprendere il significato e l’essenza intima delle opere e delle istituzioni umane apparse lungo il corso della storia. Ciò può essere affrontato soltanto da queste scienze perchè, a differenza di quelle naturali, hanno direttamente a che fare con l’espressioni e le manifestazioni dello spirito umano, che si oggettivano nell’arte, nella religione, nella filosofia, da considerare come le supreme forme di vita della società umana. L’uomo, grazie alle scienze dello spirito, è capace di intendere le espressioni storiche delle passate esistenze umane, è capace soprattutto di rivivere, attraverso un “trasferimento interiore” derivato da una partecipazione diretta e un coinvolgimento emotivo (“con-sentimento” e “penetrazione simpatetica”), altre esistenze storiche. Se le scienze naturali spiegano le leggi inerenti ai fenomeni naturali, le scienze dello spirito mirano a rintracciare il significato, il valore e lo scopo di tutto ciò che riguarda e appartiene all’umanità. Le scienze dello spirito mirano a comprendere, a capire, a intendere il senso della vita umana nella totalità delle sue manifestazioni oggettive. Il compito delle scienze dello spirito è di fondamentale importanza per l’essere umano, perché osservando l’oggettività storica dell’umanità intera l’uomo può realizzare la cono312 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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scenza autentica di se stesso, e raggiungere lo scopo ultimo a cui, seppur sempre libero di non farlo, è chiamato a tenere conto (scopo che è appunto quello di conoscere se stessi autenticamente). È importante notare che, essendo l’uomo un essere storico, tutti i suoi prodotti culturali sono a sua volta storici. Tutti i saperi umani sono finiti, relativi, temporanei, transeunti e instabili, e non possono essere considerati eterni e immutabili. La stessa filosofia non sfugge a tale destino. Per liberarsi dalla pretesa metafisica ed epistemica di sottoporre il divenire universale a un principio incondizionato e assoluto, contenente in modo definitivo il senso del mondo, quale il Dio della teologia o il Logos hegeliano, è assolutamente necessario prender coscienza della “finitudine di ogni fenomeno storico, di ogni situazione umana e sociale”. Anche questa presa di coscienza, anche questa “coscienza storica” della finitudine di ogni fenomeno storico è storica, ossia è anch’essa soggetta alla finitudine, alla dissoluzione, all’annientamento. Non c’è verità, non c’è sapere, non c’è scienza che possa fornirci una sicurezza definitiva capace di soddisfare la nostra sete di conoscenza. Non vi è sapere in grado di rimediare positivamente alla mancanza di senso, che riscontriamo nel continuo apparire e sparire, nascere e morire della vita e dei suoi elementi. Non vi è stabilità possibile per chi intende orientarsi nel divenire del mondo umano. Mondo umano creato dall’uomo stesso, da “questa creatura del tempo”, da questa creatura mortale, instabile, precaria, la quale si illude di pervenire a qualcosa di duraturo, si illude di trovare qualcosa (una legge, una verità, un rimedio) che stia fuori del tempo storico, che non appartenga al flusso del divenire, che non sia soggetto alla finitudine. E, tuttavia, l’uomo “con queste illusioni crea con maggiore coraggio e con maggior forza”.

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Max Weber: vita e opere Maximilian Carl Emil Weber nasce ad Erfurt (Germania) il 21 aprile 1864. Nel 1882 si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Heidelberg, dove compie studi di economia, diritto e teologia; due anni dopo si trasferisce alla Università di Berlino. Nel 1894 diventa professore di economia presso l’Università di Friburgo; nel 1896 presso quella di Heidelberg; a seguito della morte del padre nel 1897, cadde in una forte depressione che lo costrinse a sospendere il suo insegnamento universitario. Superati questi anni difficili, Weber decise comunque di rinunciare all’insegnamento e nel 1903 diventa direttore associato della rivista Archivio di Scienze Sociali e Politica Sociale, sulla quale pubblicò in due parti nel 1904 e 1905 l’articolo fondamentale L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Fu direttore degli ospedali militari di Heidelberg durante la prima guerra mondiale, al termine della quale tornò all’insegnamento ottenendo una cattedra in economia dapprima a Vienna e poi a Monaco di Baviera, dove diresse il primo istituto universitario di sociologia in Germania. Nel 1918 fu uno dei rappresentanti della Germania per la firma del trattato di pace a Versailles; fu consulente nel corso dei lavori per la Costituzione della Repubblica di Weimar. Morì a Monaco di Baviera il 14 giugno 1920, colpito dalla epidemia dell’influenza spagnola. Tra i suoi scritti, ricordiamo Il lavoro intellettuale come professione, Il metodo delle scienze storico-sociali ed Economia e società. La “dottrina della scienza” Il pensiero di Max Weber è essenzialmente teso a definire le linee e i contenuti specifici della “dottrina della scienza”. Mediante un approfondito studio del metodo utilizzato 314 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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dalla scienza, intende delineare i principi teorici fondamentali della scienza in generale, con speciale riferimento alle cosiddette scienze storico-sociali (sociologia, politica, economia). In questo esame dei metodi e degli strumenti scientifici, Weber non nasconde affatto le difficoltà, le complessità, le condizioni limite e le “possibilità oggettive” che riguardano la ricerca scientifica, che sia essa storica, sociale, economica, o biologica, astronomica, fisica, e così via. L’opera di Weber, può essere vista come il tentativo razionale e rigoroso di delimitare, esattamente, il campo d’azione della scienza in generale e delle scienze storicosociali in particolare, evidenziando ciò che esse possono o non possono raggiungere, fino a dove possono arrivare, e, soprattutto, quale grado di autonomia detengono rispetto alle altre forme di conoscenza umana. Per Weber esiste una sola scienza, perché unico è il fondamento sul quale si basano tutte le scienze. Ogni conoscenza scientifica, per essere tale, deve sempre e solo fornire delle “spiegazioni causali” - smentendo così Dilthey, che, come visto, alla spiegazione causale delle scienze naturali aveva opposto la “comprensione” immediata (intuitiva, sentimentale) delle scienze delle spirito. Gli scopi della scienza consistono nel “programmare il nostro agire pratico in base alle attese suscitate dall’esperienza scientifica”. Essa fornisce al cosiddetto “uomo d’azione” precisi “vantaggi tecnici” capaci di migliorare, per esempio, il suo modo di “vestire, nutrire, illuminare, governare”, e via dicendo. Gli strumenti fondamentali della scienza sono il “concetto” e l ‘”esperimento razionale”; dove per “concetto” s’intende una “idea”, una “proposizione” logica o matematica che si presenta come perfettamente definita, dotata di significato costante e universalmente valido; mentre l’esperimento razionale è il “mezzo” scientifico adottato per “ottenere un’esperienza accuratamente controllata”. 315 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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La scienza si basa su proposizioni e concetti logico-matematici, ovvero i concetti e le proposizioni della scienza sono “ideali”, razionali, mentali, sono cioè “costruzioni idealtipiche di carattere generale”. La conoscenza scientifica è logico-teoretica, una conoscenza cioè che riguarda esclusivamente il “senso razionale” che l’uomo rintraccia nei vari fenomeni della realtà empirica (naturale e umana) studiati appunto dalle scienze (della natura e dello spirito). L’autonomia della scienza si fonda proprio nel suo essere assolutamente “razionale”. Razionalità, che la fa essere autonoma rispetto a qualunque interpretazione o ipotesi metafisica, extralogica, irrazionale, ideologica, e ad ogni concezione che vorrebbe far della scienza uno “strumento”, da utilizzare per perseguire fini pratici, individuali, politici, morali, ecc. La scienza non può e non deve emettere giudizi di valore su “ciò che è”. La scienza, in quanto “avalutativa”, non è in grado di valutare la “realtà” (“ciò che è”). Essa non deve e non può, di conseguenza, giudicare la realtà, né tantomeno formulare “norme” (regole pratiche) e “ideali” (visioni del mondo) riguardanti e condizionanti l’azione umana (privata e pubblica). L’“onestà intellettuale” del ricercatore scientifico consiste, pertanto, nel rinunciare a esprimere giudizi di valore nel contesto di un discorso scientifico. Dal ricercatore (dallo scienziato) si deve pretendere l’“onestà intellettuale” di “riconoscere che esistono due ordini di problemi totalmente eterogenei: da un lato quello di individuare dei dati di fatto, dei rapporti matematici e logici o l’intima struttura dei fenomeni culturali, dall’altro lato quello di rispondere alla domanda sul valore della cultura e dei suoi singoli contenuti, nonché su come si debba agire nella società civile e nelle formazioni politiche”. La scienza non può interessare in nessun modo l’agire concreto dell’uomo, non lo può determinare né lo può valutare nei confronti della sua azione privata o sociale, ma può fornirgli determina316 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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te “idee” (le cosiddette “leggi” scientifiche) sviluppate “in maniera logicamente coerente”, da non presentare al loro interno nessuna contraddizione logica. Queste “leggi”, dunque, possono fungere da base razionale, da appoggio critico allo “scopo concreto” dell’uomo: la scienza non insegna ciò che l’uomo “deve” fare, ma solo ciò che egli “può” o “vuole” fare. La “dottrina della scienza” si presenta quindi come “teoria critica delle scienza”, come teoria dei suo limiti e dei suoi procedimenti logico-concettuali. Tale critica rigorosa da un lato respinge, in quanto contraria alla “ragione”, ogni determinazione assoluta della realtà, ogni eventuale sistema che, al pari dell’idealismo e dell’empirismo, pretenda di risolvere i significati della realtà; e dall’altro si oppone ad ogni strumentalizzazione pratica del sapere scientifico, che subordina la razionalità scientifica a giudizi di valore, ideologie, visioni del mondo, interessi economici, sociali, e altro. La scelta soggettiva dell’“oggetto” La scienza può e deve conoscere, esclusivamente, la realtà così com’è. Ma come si presenta all’uomo la realtà? Weber afferma che la realtà ci offre “immediatamente” una “molteplicità, senz’altro infinita, di processi che sorgono e che scompaiono in un rapporto reciproco di successione e di contemporaneità, ‘in noi’ e ‘al di fuori’ di noi”. La realtà, spirituale-umana (in noi) o naturale (al di fuori di noi) che sia, appare immersa nel divenire assoluto e infinito. La molteplicità infinita della realtà è divenire. In essa ogni cosa appare e poi, inevitabilmente, scompare; ogni cosa è e poi non è. Nella realtà-divenire ogni cosa prima (d’essere) non è, poi è, e prima o poi, presto o tardi, inesorabilmente non sarà più. L’“assoluta infinità di questa vita molteplice”, l’“infinità priva di senso del divenire del mondo”, resta 317 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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sempre tale anche quando la scienza prende in esame un singolo e isolato “oggetto” (fenomeno, elemento, processo, evento) di questa stessa “vita molteplice”. L’assoluta infinità della realtà senza senso, non diminuisce affatto nonostante la conoscenza scientifica ci illustri in modo coerente, e quindi razionalmente accettabile (ovvero dotato di senso logico), determinate e precise “leggi” riguardanti un determinato oggetto “finito”. L’analisi scientifica sceglie di studiare un “oggetto finito” della “realtà infinita”, un elemento “singolo” della “vita molteplice”, un determinato fenomeno dell’indeterminata successione delle apparizioni e sparizioni del mondo diveniente, cosi come intende applicare un senso logico a un determinato “oggetto” appartenente alla totale mancanza di senso della realtà diveniente, infinita e molteplice. Il ricercatore scientifico, sceglie il suo “oggetto” finito con lo scopo d’intenderne il significato e spiegarne le connessioni e relazioni causali rispetto ad altri “oggetti” della conoscenza. Tale scelta soggettiva “ha luogo sempre e ovunque in forma sia consapevole che inconsapevole”. Insieme all’“oggetto”, il ricercatore sceglie ciò che di questo “oggetto” è “degno di essere conosciuto”. Sceglie, a partire da un suo preciso “punto di vista”, e quindi a partire dal suo “punto di vista” soggettivo, ciò che di conoscitivamente interessante può presentare quel determinato “oggetto” preso in esame. L’importanza conoscitiva, la “qualità” scientifica, il “significato culturale” riferibile ad un determinato “oggetto” sottoposto all’analisi del ricercatore scientifico, non è “qualcosa che inerisca ad esso come tale, oggettivamente”. Ciò vuol dire che l’“oggetto” analizzato, non è in sé importante, la qualità culturale, il suo valore conoscitivo non è un qualcosa che è realmente connesso e inerente ad esso. Il fatto che un determinato “oggetto”, per esempio l’aspetto economico di una determinata situazione storica, sia considerato come “degno d’essere conosciuto” dalla scienza storica, non è giustificato dall’esperienza empirica, 318 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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non è giustificato “oggettivamente”. La decisione di studiare quel dato “oggetto” è “piuttosto condizionata dalla direzione del nostro interesse conoscitivo, quale risulta dallo specifico significato culturale che noi attribuiamo nel caso singolo allo specifico oggetto in questione”. L’interesse del ricercatore condiziona il significato culturale di un determinato “oggetto”, condiziona cioè il “valore” (l’importanza, la preferenza, l’apprezzamento) che noi doniamo a tale “oggetto”, e lo fa, da un lato scegliendo quale “oggetto” prendere in esame e quale no, dall’altro scegliendo il “punto di vista” attraverso il quale osservare scientificamente tale “oggetto”. I risultati della scienza si basano, quindi, su un vero e proprio atto soggettivo, su una scelta personale, su una libera decisione esclusivamente individuale e particolare: i risultati di una determinata ricerca scientifica si fondano esclusivamente sulla “fede” del ricercatore. La fede del ricercatore scientifico La “fede” (la convinzione) del ricercatore si traduce nel considerare un determinato elemento (aspetto, fenomeno, ecc.) come il “presupposto” inevitabile, come la “precondizione” necessaria a tutta la seguente ricerca – dove per “presupposto” s’intende ciò che non ha bisogno di essere dimostrato in quanto è immediatamente creduto vero da quello o quell’altro ricercatore. Detto in termini più precisi, il “presupposto” è ciò che “regge la validità di altre affermazioni senza essere a sua volta esplicitamente dimostrato”. Tutte le scienze sono caratterizzate da un “presupposto”: “nessuna scienza è assolutamente priva di presupposti, e nessuna può dimostrare la propria validità a chi ne rifiutasse i presupposti”. Le scienze naturali (fisica, chimica, astronomia) “presuppongono come una cosa ovvia che valga la pena di conoscere le leggi supreme del divenire cosmico”. Il presup319 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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posto generale della medicina è, invece, “che i compiti di conservare la vita e alleviare i dolori il più possibile siano in quanto tali degni di approvazione”. Dal suo canto l’“estetica non si chiede se vi debbano essere opere d’arte” (e quindi le presuppone esistenti); così come la scienza giuridica (la “giurisprudenza”) “non risponde alla domanda se vi debba essere un diritto, se siano proprio queste le regole da emanare”. Allo stesso modo le “scienze storiche” non rispondono alla domanda se i fenomeni (politici, artistici, letterari, sociali) presi in esame “fossero o siano tutt’ora degni di esistere, né alla domanda se valga la pena di conoscerli”. In tutte queste scienze il “presupposto” che sta alla base della loro attività analitica e sperimentale, risulta essere ciò che non è e che “non può essere affatto dimostrato”. Gli storici sono più o meno concordi tra loro, quando affermano che il motivo scatenante la prima guerra mondiale sia da riferire a determinate cause economiche, degne d’essere analizzate scientificamente. Così facendo, gli storici e quindi le scienze storico-sociali, come del resto ogni altra scienza, tra tutte le possibili e infinite cause di un determinato fenomeno – perché, ricordiamolo sempre, per Weber infinita è la realtà stessa, così come essa è il regno della più totale possibilità, dell’apertura infinita pronta ad accogliere o a non accogliere qualunque evento e fenomeno –, selezionano, scelgono, si “decidono per”, preferiscono alcune cause e non altre, quelle economiche e non quelle religiose per esempio. Gli storici hanno “fede”, hanno la convinzione (soggettiva) che le cause economiche hanno determinato la prima guerra mondiale, e in base a tale fede le reputano degne di essere indagate scientificamente. Tali cause fungono da presupposto indimostrato per tutta la seguente indagine scientifica, riguardante appunto quella precisa guerra – così come la “fede” di Kierkegaard non aveva bisogno di nessuna giustificazione o dimostrazione per credere nell’esistenza di Dio creatore di ogni cosa. 320 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il ricercatore scientifico (lo storico, il sociologo, lo scienziato della natura, ecc.), sempre ed inevitabilmente, opera una selezione soggettiva sia dei fenomeni che intende prendere in considerazione – per esempio scegliendo di studiare una guerra piuttosto che una missione di pace –, sia dei “punti di vista” attraverso cui intende studiare tale oggetto, per esempio scegliendo di studiare l’aspetto morale della guerra e non quello economico. Il ricercatore, dunque, sceglie il suo oggetto d’indagine, traendolo dalla sconfinata e infinita sfilza dei fenomeni della realtà (naturale e umana), in base ai suoi stessi interessi, in base alle sue “idee di valore”. Questo, agli occhi di Weber, è il procedimento inevitabile e insopprimibile di ogni ricercatore scientifico, che riguarda e caratterizza ogni scienza. In tal modo Weber afferma che il ricercatore (lo “scienziato”) non può mai prescindere veramente dai propri interessi e dalle proprie inclinazioni personali. Interessi e inclinazioni che condizionano la sua scelta spingendolo ad approfondire un determinato aspetto (economico) piuttosto che un altro (religioso), e spingendolo ad arricchire di valore e importanza un determinato “oggetto” piuttosto che un altro (considerato quindi meno interessante, ossia dotato di minor valore conoscitivo, se non addirittura privo di qualunque importanza). Non si può pretendere dal ricercatore (e quindi dalla scienza in generale) una conoscenza totale, assoluta e definitiva. È impossibile, per Weber, che le scienze arrivino ad una spiegazione definitiva e totale della realtà, così che il capitolo riguardante la conoscenza di essa possa essere chiuso una volta per tutte. Ciò è impossibile perché, da un lato, essendo infinita la realtà, risulta impossibile pervenire alla spiegazione di tutte le cause riguardanti gli infiniti e sconfinati fenomeni di questa. Dall’altro perché il procedimento delle varie ricerche scientifiche che, come abbiamo visto, si basano sempre su particolari (non totali) punti di vista scelti “in riferimento ai valori” dello stesso ricercatore, 321 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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fa nascere di continuo, nel mondo della scienza, nuovi punti di vista, sempre più particolari, più complessi e inediti, creando nuovi problemi gnoseologici, nuove indagini sperimentali e nuovi interessi che vanno ad infoltire il già ricco mondo del sapere (il cosiddetto mondo della “cultura”). La scienza, allora, “è chiamata ad offrire chiarezza su quale sia il valore che funge da punto di riferimento di una determinata azione o di un determinato punto di vista sulla realtà”, ossia “essa può mostrare come, una volta assunto a punto di riferimento un certo valore, ne consegua necessariamente una certa interpretazione della realtà (nel sapere) o una certa scelta di mezzi per ottenere la realizzazione di quel valore (nell’azione)”. La specializzazione come unica fonte di conoscenza L’indagine weberiana dei procedimenti logici e delle “possibilità oggettive” della scienza in generale, afferma la necessità di sgombrare il campo da ogni illusoria e vana visione totalitaria, come da ogni metafisica interpretazione onnicomprensiva, per far posto ad una “prospettiva specialistica”, ad una “rigorosa specializzazione” scientifica, l’unica capace di realizzare “qualcosa che durerà nel tempo”. Il campo della scienza è quello della conoscenza particolare, della ricerca specializzata. È in questo campo che il ricercatore, lo “specialista” è chiamato a realizzare una descrizione scientifica riguardante precisi e determinati fenomeni, in quanto “una realizzazione realmente valida e definitiva è sempre frutto della specializzazione”. Affermare, come fa Weber, che la ricerca e l’analisi scientifica è basata sulle “idee di valore” soggettive di una data “soggettività”, quale è quella del ricercatore che può decidere liberamente da quale “punto di vista” (economico, sociale, filosofico, ecc.) condurre la propria indagine, non implica che la ricerca e i risultati ricavati dall’analisi sia322 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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no soggettivi, “nel senso che valgano per l’uno e non per l’altro”. L’analisi scientifica è sempre tesa a determinare il “fatto” (l’oggetto o il fenomeno preso in esame), e, seppur condizionato inizialmente dall’interesse soggettivo del ricercatore, non impedisce che il procedimento scientifico, eminentemente logico e concettuale, non sia in grado di pervenire all’“oggettività conoscitiva” di quel dato “fatto”. Il “fatto”, in breve, è determinato in modo oggettivo, in un modo che sia valido per tutti, mediante la struttura logica-concettuale dell’indagine scientifica, che comprende l’insieme delle connessioni concettuali, “in sé privo di contraddizioni”, in cui le relazioni e i processi reali di quel “fatto” vengono descritti (sempre e soltanto concettualmente e quindi oggettivamente, essendo il concetto ciò che per definizione è universalmente valido). La scienza perviene alle sue “proposizioni” logico-matematiche, alle sue “leggi razionali”, mettendo in relazione le teorie (ipotesi concettuali) con i fatti reali dell’esperienza, riscontrando e descrivendo se e in che modo quest’ultimi rispettino la “legalità” logica-razionale di quelle teorie ideali o ipotesi concettuali. La “costruzione concettuale” (logica, ideale) della scienza è una “utopia”, in quanto non può essere ritrovata nella realtà empirica, dove non v’è nulla che corrisponda a tale costruzione logica e concettuale. Il valore dei risultati scientifici dipende esclusivamente dalle “idee geniali” del ricercatore, dalla sua “immaginazione” fertile, dal suo talento a costruire, concettualmente, nuove e inedite connessioni razionali capaci di descrivere un dato fenomeno fornendolo di comprensibilità oggettiva. La validità e la serietà di un ricercatore è da rintracciare nel talento e nella “dedizione” personale a porsi “esclusivamente a servizio della cosa stessa”, nel dedicarsi esclusivamente “al servizio del proprio oggetto”, senza cercare di inserire nella sua analisi elementi personali, soggettivi, tratti cioè da proprie convinzioni o mire morali, etiche, politiche; convinzioni o mire, queste, che esulano dal compito scien323 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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tifico di pervenire ad un risultato oggettivo e quindi in grado di valere per tutti. Per Weber, inoltre, è indispensabile comprendere che il lavoro scientifico, pur realizzando “qualcosa che durerà nel tempo”, comunque “si inserisce nel flusso del progresso”, e in tale flusso diveniente tutti determinati risultati (interpretativi e tecnici, teorici e pratici) della scienza appaiono come non assoluti, non definitivi, non immutabili, non eterni. I risultati della scienza sono destinati ad essere continuamente superati, così come la vecchia teoria astronomica che teorizzava l’immobilità della terra e il movimento degli astri è stata superata da quella galileiana teorizzante, esattamente al contrario di quella, il movimento della terra e l’immobilità degl’astri. Quindi, “in campo scientifico ognuno di noi sa che in dieci, venti o al massimo cinquanta anni il suo lavoro sarà invecchiato”, perché ogni “riuscita” scientifica, per quanto notevole essa sia, “implica il sorgere di nuove domande e deve essere superata, e quindi invecchiare”. A ciò “è necessario che si rassegni chiunque voglia dedicarsi alla scienza”. La “legge” e lo “scopo” della scienza è quello di fornire all’umanità sempre nuove descrizioni logiche-concettuali, nuove analisi razionali, inedite prospettive interpretative e migliori strumenti tecnici, in quanto essa richiede dai suoi “esperti”, dai suoi “specialisti” di spingersi oltre i risultati ottenuti in un dato tempo storico. Il senso della razionalità scientifica Il cammino progressivo e progredente del sapere scientifico, non è ciò che tende ad un fine ultimo, ad una soluzione totale, ad una verità incontrovertibile. È progressivo e progredente “perché si sottopone al giudizio dei posteri e alla loro capacità, in base a un incremento e approfondimento di conoscenza, di confutarla e modificarla”. Ciò che 324 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Storicismo: Wilhelm Dilthey; Max Weber

i posteri confuteranno sarà a sua volta confutato dai posteri futuri, e così all’infinito, senza approdo alcuno, senza attracco risolutivo: “quello di essere superati dal punto di vista scientifico, lo ripeto, non solo è il nostro destino comune, ma è anche il nostro scopo”. Così che “in linea di principio questo progresso tende all’infinito”: “giungiamo così al problema del senso della scienza”. Che senso ha, infatti, darsi da fare “intorno a qualcosa che in realtà non giunge, e non potrà mai giungere, a una conclusione?”. Questa domanda capitale, nasce dalla volontà di Weber, quale filosofo e professionista della scienza interessato in prima persona a risolvere tale enigma, di non voler considerare soltanto il lato pratico-tecnico della scienza, ma indagare, al contrario, che tipo di progresso spirituale apportano l’allargamento e l’approfondimento delle conoscenze scientifiche. Quali cambiamenti la “crescente intellettualizzazione e razionalizzazione” degli studi scientifici produce nel mondo umano? Per Weber la scienza in generale produce nell’uomo il progressivo “disincantamento del mondo”, che si traduce nella “consapevolezza, o la fede, che se solo lo si volesse, si potrebbe sempre giungere a conoscenza, ossia che in linea di principio non sono in gioco forze misteriose e irrazionali, ma al contrario che tutte le cose possono – in linea di principio – essere dominate dalla ragione. Ciò non è altro che il disincantamento del mondo”. Quel “se solo lo si volesse”, sta a dire che tale disincantamento riguarda eminentemente l’interesse personale del ricercatore, riguarda la “vocazione individuale alla scienza” del singolo individuo interessato a divenire uno “specialista” scientifico. Lo specialista scientifico, se vuol veramente esser tale, deve (voler) aver fede nel “principio” affermante che la “ragione”, che la razionalità scientifica, che i metodi conoscitivi e gli strumenti logico-razionali della scienza sono in grado di dominare la realtà, sono in grado di poter conoscere ogni cosa (fenomeno, evento, elemento, processo) della realtà. 325 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

Tutt’altra cosa è rispondere alla domanda: “a che cosa è chiamata la scienza nel contesto della vita dell’umanità? Qual’è il suo valore?”. Per Weber, il sapere scientifico non è la via per “giungere alla natura”, per trovare Dio, “per cogliere i suoi disegni sul mondo”, per giungere alla “vera felicità”. Il sapere scientifico non ci porta ad aver “fede nel fatto che esista qualcosa come un ‘senso’ nel mondo”. Il mondo studiato dalle scienze, sia esso il mondo naturale o storico o politico, “non può essere dimostrato che sia degno di esistere, se abbia un ‘senso’, e se abbia senso esistere in esso” . La razionalità scientifica moderna, appartenente ad un mondo che ha ormai perso la fiducia e la fede in un Dio concepito come guida autentica e infallibile dell’uomo, non può essere e non deve assumere le vesti del nuovo “profeta” moderno, che dona al mondo e all’umanità intera un senso ultimo e definitivo. La scienza non deve guidare l’uomo, perché non può farlo in nessun modo, perché non ha capacità infallibili, eterne, divine. Né può dire quale “valore” bisogna seguire piuttosto che un altro, ossia a quale “valore” (sociale, economico, religioso, politico, ecc.) l’uomo deve scegliere di offrire la propria attenzione conoscitiva o la propria azione pratica. Questo perché il mondo moderno è caratterizzato dal “politeismo dei valori”, ossia da una lotta continua dove ogni “valore” è in guerra contro l’altro e dove ogni “valore” è posto allo stesso livello di ogni altro, sicché da questa lotta è impossibile che un determinato “valore” si imponga come unico vincitore, e imponga la sua superiorità valoriale nei confronti di tutti gli altri. Per Weber, nel mondo moderno nessun “valore” (nessun “dio”) può essere considerato o indicato come il più degno d’essere preferito rispetto a tutti gli altri, così come nel politeismo pagano nessun “dio” presentava un valore, un’importanza, una dignità superiore alla svariata ed eterogenea costellazione degli dèi. La razionalità scientifica moderna è calata in un mondo senza “senso”, in un mondo senza più valori rilevanti 326 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Storicismo: Wilhelm Dilthey; Max Weber

capaci di convogliare in un’unica direzione la conoscenza e l’azione dell’uomo, in un mondo dove nessuna scelta di “valore” è confermata o giustificata dalla realtà. La scienza, oltre ad offrire agli uomini delle “conoscenze sulla tecnica per dominare la vita con la ragione, tanto le cose esterne quanto l’agire umano”; oltre ad offrire “i metodi e gli utensili del pensiero, e il relativo addestramento”, ha da offrire la “chiarezza”. La chiarezza che fornisce la scienza è necessaria all’uomo al fine di comprendere razionalmente a quali “supreme conseguenze” si può andare incontro se si sceglie un determinato “valore” e quali se ne sceglie uno diverso. Se scelgo, per esempio, di valorizzare in campo politico la democrazia avrò determinate conseguenze (il popolo che decide) che non sono quelle presenti nella monarchia (solo il re decide), o, in campo economico, la scelta del liberalismo si oppone e si scontra contro una economia centralizzata nelle mani dello Stato, e via dicendo. “Ciò che noi possiamo fare, dunque, una volta compreso il nostro compito, è di costringere o quanto meno aiutare il singolo a rendersi conto del senso ultimo del suo agire”. La scienza è dunque chiamata a delucidare i “valori” del mondo (naturale e umano) che sono aperti alla libera “scelta” dell’individuo umano. Scelta che condizionerà la conoscenza e l’azione stessa di quel determinato individuo, come di ogni altro individuo e quindi dell’intera umanità.

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PAGINE ANTOLOGICHE

Caratteri generali dello storicismo Si può considerare con il nome di storicismo ogni filosofia che riconosca, come suo compito esclusivo o fondamentale, la determinazione della natura e della validità degli strumenti del sapere storico. Lo storicismo non è, o non vuole essere innanzitutto o esclusivamente, una metafisica o una teologia della storia, una visione o interpretazione globale della storia che può essere ottenuta anche prescindendo dalle limitazioni del sapere storico di cui l’uomo dispone e dei mezzi con cui l’ha conseguito. Se il termine fosse inteso in questo significato, sarebbe inadatto a designare una corrente specifica della filosofia contemporanea perché si presterebbe ugualmente a designare qualsiasi concezione del mondo storico, comunque qualificata. L’oggetto proprio e specifico dello storicismo come filosofia sono gli strumenti della conoscenza storica, quindi gli oggetti possibili di tali strumenti. Le caratteristiche dello storicismo possono quindi esprimersi così: 1) Lo storicismo suppone che gli oggetti della conoscenza storica abbiano un carattere specifico che li distingue da quelli della conoscenza naturale. La differenza fra storia e natura è cosa ovvia per esso, che si sviluppa parallelamente alla fase positivistica delle scienze naturali. 2) Lo storicismo suppone che gli strumenti della conoscenza storica siano, nella loro natura o almeno nelle loro modalità, diversi da quelli di cui si avvale la conoscenza naturale. Esso si propone, a proposito della conoscenza storica, lo stesso problema che il criticismo kantiano e il neocriticismo si erano posto a proposito 329 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

della conoscenza naturale: cioè quello di risalire dalla conoscenza storica alle condizioni che la rendono possibile cioè che fondano la sua validità. […] Sulla base di questi due presupposti, lo storicismo si è fermato da un lato a caratterizzare la natura specifica dell’oggetto della conoscenza storica (o in generale delle scienze culturali), dall’altro a chiarire gli strumenti di essa. La natura dell’oggetto della conoscenza storica è stata riconosciuta da esso nella individualità, in quanto opposta al carattere generico, uniforme e ripetibile degli oggetti della conoscenza naturale. E l’operazione fondamentale della conoscenza storica è stata vista dallo storicismo nel comprendere, la cui natura è stata diversamente chiarita dagli storicisti ma al quale in ogni caso è stata riconosciuta la capacità di constatare e descrivere le individualità storiche. Talvolta, lo storicismo si è anche preoccupato di determinare la natura e il compito di una filosofia che si accentri intorno al problema della conoscenza storica. E, nell’ambito di questa filosofia, ha spesso considerato il cosiddetto problema dei valori: ciò il problema del rapporto fra il divenire della storia e i fini o gli ideali che gli uomini cercano di realizzare in essa e che costituiscono le costanti di giudizio o di orientamento nella variabilità degli eventi storici. Una teoria dei valori è così spesso parte integrante delle filosofie storicistiche. Con questi caratteri lo storicismo si presenta in quella corrente della filosofia tedesca che va da Dilthey a Weber e che trova in quest’ultimo la sua più riuscita espressione; nonché nella ricca letteratura metodologica che arricchisce o perfeziona i risultati da essa conseguiti. La definizione che Croce ha dato della filosofia come “metodologia della storiografia” si presta bene a esprimere la natura dello storicismo. Ma la tesi propria di Croce che tutta la realtà è storia e nient’altro che storia elimina i presupposti fondamentali dello storicismo: non può dirsi perciò storicismo la filosofia di Croce che è infatti una manifestazione contemporanea dell’idealismo romantico. (N. Abbagnano, Storia della filosofia, volume 5, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2006, pp. 267-268)

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Storicismo: Wilhelm Dilthey; Max Weber: pagine antologiche

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Wilhelm Dilthey: l’autonomia delle scienze dello spirito Sotto il titolo di “scienze dello spirito” in quest’opera si comprende il tutto delle scienze che hanno per oggetto la realtà storico-sociale. Il concetto di tali scienze grazie al quale esse formano un tutto, la delimitazione di questo tutto rispetto alla scienza della natura, si possono chiarire e giustificare in modo conclusivo soltanto con l’opera stessa; qui, al suo inizio, stabiliamo solo il significato in cui useremo l’espressione, e accenniamo in via provvisoria a quell’insieme di fatti che giustifica la delimitazione di un simile tutto unitario delle scienze dello spirito nei confronti delle scienze della natura. Per “scienza” l’uso corrente della lingua intende un insieme di proposizioni i cui elementi siano concetti, cioè siano perfettamente definiti, abbiano un significato costante e universalmente valido nel contesto discorsivo: un insieme i cui legamenti siano giustificati e in cui finalmente le parti siano collegate ad un tutto al fine della comunicazione, vuoi che con tale congiunzione di proposizioni si tratti di pensare nella sua completezza una parte costitutiva della realtà di fatto, vuoi che si tratti di disciplinare un ramo dell’attività umana. Qui dunque con l’espressione “scienza” designiamo ogni insieme di fatti spirituali in cui si riscontrino i connotati suddetti e a cui quindi si applichi comunemente il nome di scienza: con il che abbiamo già stabilito, in via provvisoria, l’ambito stesso del nostro problema. Questi fatti spirituali svoltisi nella storia dell’umanità, ai quali secondo un comune uso della lingua s’è applicata la designazione di scienze dell’uomo, della storia, della società, sono la realtà di fatto che noi non vogliamo dominare ma in primo luogo comprendere. Il metodo empirico esige che il valore delle singole forme di procedimento di cui si serve il pensiero per risolvere i suoi problemi, si sviluppi e commisuri per via storico-critica a questo status effettivo delle scienze stesse, che insomma la natura del sapere e del conoscere in questo campo si spieghi nella prospettiva di tutto questo grande processo il cui soggetto è l’umanità stessa. E un metodo siffatto è dunque cosa ben diversa da quello recentemente perpetrato anche troppo spesso proprio dai cosiddetti positivisti, il quale deduce il contenuto del concetto di “scienza” da una qualche definizione per lo più formatasi nella pratica delle scienze naturali, e da qui sentenzia a quali occupazioni 331 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

intellettuali spetti il nome e il rango di scienza. In tal modo, gli uni, movendo da un concetto arbitrario del sapere, con miope sussiego hanno contestato il rango di scienza alla storiografia quale è stata coltivata da grandi maestri, e gli altri hanno creduto di dover trasformare in conoscenza della realtà di fatto scienze che a loro fondamento hanno degli imperativi e neppure lontanamente degli enunciati su una realtà effettiva. L’insieme dei fatti spirituali che cadono sotto questo concetto di scienza, si suol dividere in due membri, l’un dei quali viene designato col nome di scienza della natura, mentre l’altro – ed è cosa abbastanza strana – non ha alcuna designazione universalmente riconosciuta. Io mi attengo all’uso linguistico di quei pensatori che qualificano questa seconda metà del globus intellectualis “scienze dello spirito”. […] Voglio dire, il motivo da cui proviene l’uso comune di delimitare queste scienze come un’unità staccata dalle scienze della natura, si radica a fondo nella totalità della stessa autocoscienza umana. In questa autocoscienza, ancor prima di cominciare a studiare l’origine di ciò che sia spirituale, l’uomo trova una sovranità del volere, una responsabilità degli atti, una capacità di sottomettere tutto al pensiero e di opporsi a tutto entro la libertà della sua persona, con cui appunto egli viene a scindersi da tutta la natura. In questa natura egli si trova realmente come un imperium in imperio, per usare un’espressione di Spinoza. E dato che per lui esiste solo quello che è un fatto della sua coscienza, ecco che ogni valore, ogni scopo del vivere si colloca in questo mondo spirituale che agisce in lui in modo autonomo, ogni fine delle sue azioni sta nel produrre fatti spirituali. Così dal regno della natura egli scinde un regno della storia in cui, nel bel mezzo della concatenazione d’una necessità oggettiva che è natura, in innumerevoli punti di questo tutto balena la libertà; e qui gli atti del volere, in netto contrasto col decorso meccanico dei mutamenti naturali, che nel suo primo avvio contiene già tutto quanto vi sarà in seguito, con un loro dispendio di energia, coi loro sacrifici, di cui l’individuo ha presente il significato giust’appunto nella propria esperienza, creano veramente qualcosa, introducono uno svolgimento nella singola persona e nell’umanità. (W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 16-19) 332 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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L’uomo è un essere storico Il mondo storico sussiste sempre, e l’individuo non lo considera soltanto dall’esterno, ma è intrecciato in esso; né è possibile scindere questa relazione. Resterebbe soltanto la condizione inafferrabile dalla quale insieme al dato deriverebbero, astrattamente dal corso storico, le condizioni necessarie di questo corso in ogni tempo; problema insolubile al pari di quello della possibilità della conoscenza, prima o indipendentemente dal conoscere stesso. Noi siamo esseri storici prima di considerare la storia, e soltanto perché siamo quelli diveniamo questi. Tutte le scienze dello spirito poggiano sullo studio della storia trascorsa fino al presene, in quanto questo è il limite di ciò che rientra nella nostra esperienza sull’oggetto che l’umanità costituisce. Quello che può venir immediatamente vissuto, inteso e tratto fuori dal passato nella coscienza, viene qui penetrato: in tutto questo noi cerchiamo l’uomo, e anche la psicologia è soltanto una ricerca dell’uomo in ciò che viene immediatamente vissuto e inteso, nelle espressioni e nelle azioni che da lui derivano. Perciò ho designato il compito fondamentale di ogni riflessione sulle scienze delle spirito come una critica della ragione storica: occorre che la ragione storica risolva il compito rimasto fuori dell’ambito visuale della critica della ragione di Kant, il cui problema è stato determinato in base alla conclusione aristotelica, secondo cui la conoscenza avviene nel giudizio. Noi dobbiamo uscire dall’aria pura e raffinata della critica della ragione kantiana per soddisfare alla natura del tutto differente degli oggetti storici. Qui si presentano le questioni seguenti: io ho esperienza immediata delle mie situazioni e sono intrecciato nelle azioni reciproche della società come punto di incrocio dei suoi diversi sistemi, i quali procedono dalla stessa natura che io vivo immediatamente in me e intendo negli altri. La lingua in cui penso è sorta nel tempo, i miei concetti sono sorti in esso: io sono, fino alla profondità non più penetrabile del mio io, un essere storico. In tal modo si presenta il primo importante momento per la soluzione del problema conoscitivo della storia: la prima condizione per la possibilità della conoscenza storica sta nel fatto che io stesso sono un essere storico, e che colui che indaga la storia è il medesimo che fa la storia. Così sono possibili giudizi storici sintetici e universalmente validi. 333 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

Ma i principi della conoscenza storica non si lasciano elevare a principi astratti, che esprimano delle equivalenze, poiché, in conformità alla natura del loro oggetto, debbono riposare su rapporti fondati nell’Erleben. Nell’Erleben vi è la totalità del nostro essere, che riproduciamo poi nell’intendere: e qui è dato il principio della reciproca affinità tra gli individui. L’uomo si conosce soltanto nella storia, non mediante l’introspezione. In fondo noi lo cerchiamo tutto nella storia, anzi noi vi cerchiamo anche l’elemento umano quale si manifesta nella religione, ecc.: noi vogliamo sapere cosa esso sia. Se vi fosse una scienza dell’uomo, questa sarebbe un’antropologia capace di intendere la totalità degli Erlebnisse secondo la loro connessione strutturale. L’uomo singolo realizza sempre una sola possibilità del suo sviluppo, che potrebbe sempre assumere un’altra direzione in base all’orientamento del suo volere. L’uomo in genere esiste per noi solo sotto la condizione di certe possibilità che egli ha realizzato. […] L’orizzonte si allarga. Infatti, anche quando lo storico ha dinanzi a sé un materiale limitato, mille fili lo conducono avanti sempre più nell’illimitatezza di tutti i ricordi del genere umano. La storiografia comincia quando si procede alla rappresentazione partendo dal presente e dalla situazione del proprio stato, che vive ancora saldamente nella memoria dell’umanità presente; ciò costituisce un ricordo ancora in senso proprio. Oppure vengono stesi degli annali in cui si registra, procedendo negli altri, ciò che è accaduto. Col procedere della storia, lo sguardo si allarga al di là del proprio stato, e una sezione sempre più vasta del passato entra nell’ambito della memoria: di tutto ciò è rimasta l’espressione dopo che la vita stessa è trascorsa, sia sotto forma di espressione diretta, con la quale degli uomini hanno manifestato ciò che sono stati, sia sotto forma di narrazioni relative ad azioni e a situazioni di individui, di comunità e di stati. E lo storico sta in mezzo a tutti questi resti di cose passate, e di manifestazioni racchiuse in fatti, parole, suoni, immagini, da parte di uomini che non sono più. Come deve egli evocarli? Tutto il suo lavoro diretto a tal fine poggia sull’interpretazione dei resti che si sono conservati. (W. Dilthey, Nuovi studi sulle scienze dello spirito, in Critica della ragione storica, a cura di P. Rossi, Einaudi, Torino 1982, pp. 372-383)

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Max Weber: il metodo della ricerca scientifica Per la scienza esatta della natura le “leggi” sono tanto più importanti e fornite di valore quanto più esse sono universalmente valide; per la conoscenza dei fenomeni storici nella loro base concreta le leggi più generali, in quanto sono le più vuote di contenuto, sono invece di regola anche le più prive di valore. Poiché quanto più estesa è la validità di un concetto di specie, cioè il suo ambito, tanto più esso ci distoglie dalla realtà concreta; per racchiudere l’elemento comune di quanti più fenomeni, esso deve essere infatti il più possibile astratto, e perciò povero di contenuto. La conoscenza del generale non è mai per noi, nelle scienze della cultura, fornita di valore per se stessa. Da quanto si è detto finora risulta pertanto che è priva di senso una trattazione “oggettiva” dei processi culturali, per la quale debba valere come scopo ideale del lavoro scientifico la riduzione di ciò che è empirico a “leggi”. Essa non è priva di senso, come sovente si è ritenuto, perché i processi culturali o anche i processi spirituali si comportino “oggettivamente” in maniera meno legale, bensì per i motivi seguenti: 1) perché la conoscenza delle leggi sociali non è conoscenza della realtà sociale, ma è conoscenza soltanto di uno dei diversi strumenti di cui il nostro pensiero ha bisogno a tale scopo; 2) perché non si può concepire una conoscenza di processi culturali se non sul fondamento del significato che ha per noi la realtà della vita, sempre individualmente atteggiata, in determinate relazioni particolari. In quale senso e in quali relazioni ciò avvenga, non ci è svelato da nessuna legge, poiché ciò è deciso dalle idee di valore in base alle quali noi consideriamo nel caso singolo la “cultura”. La “cultura” è una sezione finita dall’infinità priva di senso del divenire del mondo, alla quale è attribuito senso e significato dal punto di vista dell’uomo. Essa è tale anche per gli uomini che si contrappongono ad una cultura concreta come ad un mortale nemico, e che aspirano ad un “ritorno alla natura”. […] È questo fatto puramente logico-formale che si tiene presene allorché qui si parla della connessione logicamente necessaria di tutti gli individui storici con “idee di valore”. Presupposto trascendentale di ogni scienza della cultura non è già che noi riteniamo fornita di valore una determinata, o anche in genere una qualsiasi “cultura”, ma che noi siamo esseri culturali, dotati della capacità e della vo335 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

lontà di assumere consapevolmente posizione nei confronti del mondo e di attribuirgli un senso. Quale poi sarà questo senso, ciò ci condurrà a valutare nella vita determinati fenomeni della coesistenza umana in base ad esso, e ad assumere nei loro confronti una posizione (positiva o negativa) che abbia un significato. Quale che sia il contenuto di tale presa di posizione, questi fenomeni hanno per noi un significato culturale, e su questo significato soltanto poggia il loro interesse scientifico. […] Ogni conoscenza della realtà culturale è sempre una conoscenza da particolari punti di vista. Quando noi esigiamo dallo storico e dal ricercatore sociale, come elementare presupposto, che egli possa distinguere ciò che è importante da ciò che non lo è, e che egli disponga dei “punti di vista” indispensabili per questa distinzione, ciò vuol semplicemente dire che egli deve imparare a riferire i processi della realtà – consapevolmente o inconsapevolmente – a “valori culturali” universali, e quindi a porre in luce le connessioni che sono per noi significative. Sebbene sempre ricorra l’opinione che sia possibile “assumere dalla materia stessa” quei punti di vista, ciò deriva dall’illusione ingenua dello specialista il quale non riflette che egli ha dapprima isolato, in virtù delle idee di valore con cui si è inconsapevolmente accostato alla materia, un ristretto elemento di una assoluta infinità come quello che solo riguarda per la sua trattazione. […] Certo senza le idee di valore del ricercatore non vi sarebbe nessun principio per la scelta della materia, e nessuna conoscenza fornita di senso del reale nella sua individualità; e come senza la fede del ricercatore nel significato di qualche contenuto culturale risulta senz’altro privo di senso ogni lavoro di conoscenza della realtà individuale, così la direzione della sua fede personale, cioè la rifrazione dei valori nello specchio della sua anima, indicherà la direzione anche al suo lavoro. Ed i valori a cui il genio scientifico riferisce gli oggetti della sua ricerca potranno determinare la “concezione” di un’intera epoca, potranno cioè essere decisivi non solo per stabilire ciò che nei fenomeni è “fornito di valore”, ma anche per stabilire ciò che è significativo o privo di significato, ciò che è “importante” e ciò che è “senza importanza”. (M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1967, pp. 95-98)

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L’utilità della scienza per la vita Cari compagni di studi, voi venite alle lezioni con simili pretese sule nostre capacità di farvi da guida, senza aver prima riflettuto che su cento professori almeno novantanove non solo non sono campioni nel gioco della vita, ma nemmeno pretendono né potrebbero pretendere di essere delle “guide” nelle diverse vicende di cui la vita si compone. Pensateci. Il valore di un uomo non dipende affatto dalla sua capacità di guidare gli altri. […] Alla fine vi chiederete: stando così le cose, che cosa può offrire di positivo la scienza alla “vita” pratica e personale? Siamo tornati così alla questione della scienza come “professione”. Anzitutto, la scienza offre naturalmente delle conoscenze sulla tecnica per dominare la vita con la ragione, tanto le cose esterne quanto l’agire umano. […] In secondo luogo la scienza ha da offrire […] i metodi e gli utensili del pensiero e il relativo addestramento. […] Ma nemmeno questo esaurisce l’utilità della scienza. Noi siamo infatti in grado di aiutarvi a ottenere un terzo risultato: la chiarezza. A patto, naturalmente, di possederla noi stessi. Se è così, possiamo a nostra volta chiarirvi quali diverse possibili posizioni si possono assumere in pratica di fronte allo specifico problema valoriale che è di volta in volta in questione (per comodità vi prego di pensare all’esempio dei fenomeni sociali). Per esperienza la scienza sa che, se si opta per una determinata posizione, allora bisogna utilizzare determinati mezzi per poterla praticamente realizzare. E può accadere che tali mezzi siano di per sé siffatti che voi ritenete di doverli rifiutare. Si dovrà allora scegliere tra il fine e i mezzi ad esso indispensabili. Il fine “giustifica” questi mezzi o no? L’insegnante può porvi di fronte all’ineluttabilità di tale scelta, ma se vuol restare insegnante anziché demagogo più di così non può fare. Naturalmente può anche dirvi: se vi proponete di ottenere quel determinato scopo dovete mettere in conto anche quelle determinate conseguenze che esso per esperienza comporta. Di nuovo la stessa situazione. Comunque si tratta pur sempre di problemi che anche qualsiasi tecnico si può trovare ad affrontare. Anch’egli in moltissimi casi deve decidere secondo il principio del male minore o del meglio relativo. La differenza è che per lui di solito la cosa principale è già data: il fine. Per noi invece non è la stessa cosa, non 337 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

appena abbiamo a che fare con problemi che sono veramente “ultimi”. Ed è solo a questo punto che giungiamo al supremo servigio che la scienza in quanto tale può offrire in funzione della chiarezza, toccando nello stesso tempo i confini della scienza: noi possiamo (e dobbiamo) anche dirvi che quella determinata posizione pratica deriva quanto al suo senso con intima coerenza, e quindi con onestà intellettuale, da quella determinata concezione fondamentale del mondo (che sia una o molteplici non importa) e non da altre. Metaforicamente parlando: se vi decidete per questa particolare posizione voi servite questo dio e offendete quell’altro, perché restando fedeli a voi stessi non potrete che giungere a queste e quest’altre intrinseche supreme conseguenze logiche. Questo, almeno in linea di principio, può essere fatto. È quanto cercano di fare la filosofia e le discussioni di principio fondamentalmente filosofiche delle altre discipline. Ciò che noi possiamo fare, dunque, una volta compreso il nostro compito, è di costringere o quanto meno aiutare il singolo a rendersi conto del senso ultimo del suo agire. Non mi sembra roba da poco, nemmeno per la vita puramente personale. Anche in questo caso son tentato di dire che un insegnante che abbia successo in tale compito si pone al servizio di forze “morali” quali il dovere, la chiarezza e il senso di responsabilità, e credo che ne sarà tanto più capace quanto più scrupolosamente eviterà di imporre o suggerire all’ascoltatore una presa di posizione particolare. In ogni caso, quanto vi sto dicendo si basa su una circostanza fondamentale: che la vita, nella misura in cui sussiste autonomamente e viene compresa senza fare riferimento ad altro, conosce soltanto l’eterna lotta degli dèi tra loro, vale a dire, fuor di metafora, l’insanabilità e quindi indecidibilità della lotta tra i diversi possibili atteggiamenti fondamentali verso la vita, e di conseguenza la necessità di decidere tra di essi. (M. Weber, La scienza come professione, Bompiani, Milano 2008, pp. 117-123)

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Pragmatismo: Charles Sanders Peirce; William James; John Dewey

Soprattutto, bisogna considerare che più salutare di qualsiasi credenza particolare è l’integrità della credenza; e che evitare di indagare le fondamenta di una credenza per il timore che esse possano dimostrarsi marce è immorale e svantaggioso. La persona che confessa che esiste la verità, la quale si distingue dall’errore semplicemente per il fatto che se agiamo in base ad essa ci porta al punto cui miriamo e non fuori strada, e che, sebbene convinta di questo, non osa conoscere la verità, e cerca di evitarla, si trova davvero in condizioni di spirito pietose. Peirce

Caratteri generali del pragmatismo Il pragmatismo afferma il carattere e il valore essenzialmente pratico della conoscenza umana. Esso è convinto che la conoscenza, la ragione, il pensiero dell’uomo sia il principale e il più potente strumento (mezzo, espediente), non per arrivare a verità definitive e salvifiche, bensì per indirizzare efficacemente l’“azione” (dal greco “pragma”) e la “condotta” degl’esseri umani. Una conoscenza logicamente corretta, non illusoria, una conoscenza reale e positiva della realtà è l’unico mezzo per rea339 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

lizzare in modo razionale i vari fini a cui l’uomo tende nella sua esperienza terrena. Una corretta conoscenza è lo strumento indispensabile per permettere agli uomini di sopravvivere in un mondo che è divenire. In un mondo dove la vita e la morte appaiono impegnati in un perenne conflitto senza senso, in un continuo, quanto casuale, alternarsi vicendevolmente, in una meccanica quanto perpetua successione, anzi, si potrebbe dire, in perfetta successione. Il pragmatismo, ponendo la “prassi” umana, ossia i bisogni, la volontà e l’azione dell’uomo alla base della conoscenza, rifiuta categoricamente ogni concezione metafisico-epistemica, ogni concezione che, in nome di una presupposta assolutezza e trascendentalità, non facesse chiaro e diretto riferimento alla particolare e concreta condotta umana. Esistenza e condotta dell’uomo che s’immergono nel flusso storico della vita, nel regno della relatività, del continuo progresso, dell’evoluzione incessante. Ciò comporta la presa di coscienza d’intendere ogni successo conoscitivo, come può essere la stessa teoria pragmatista, come soggetta ad una probabile smentita o ad un eventuale perfezionamento. Nonostante ciò, la necessità di pervenire ad un sapere filosofico nuovo, ad un sapere finalmente “pratico”, attento alle conseguenze e ai risultati effettivi che possono sorgere da ogni conoscenza, capace di comprendere l’importanza principe di ribadire incessantemente l’adamantina connessione, fondamentale e insopprimibile, tra il conoscere e l’agire dell’uomo, tra il pensiero e la vita, tra la mente umana e la realtà sensibile tutta, è dettato anche e soprattutto dalla necessità di fornire una corretta interpretazione dell’esistenza umana, individuale nonché sociale, affinché sia così possibile favorire all’umanità intera uno sviluppo finalmente razionale. Evidenziando l’essenziale praticità dell’essere umano, ma legando ad essa, in modo indissolubile, la conoscenza razionale, ne viene che il pragmatismo ha quale suo primo compito quello di fornire all’uomo un approccio conoscitivo della realtà scevro da ogni pastoia metafisica, da 340 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Pragmatismo: Charles Sanders Peirce; William James; John Dewey

ogni residuo idealistico, da ogni interpretazione ideologica del mondo. A questo risultato muove il pensiero di Peirce, considerato l’iniziatore e il fondatore del pragmatismo, intendendo anzitutto operare, attraverso una approfondita e complessa analisi dei processi logici, una sorta di pulizia rigenerativa, assolutamente necessaria per fondare quella “filosofia purificata” quale intende essere il pragmatismo. L’opera di Peirce, affrontando i metodi logico-conoscitivi, ossia i “principi direttivi del ragionamento” attraverso cui l’uomo perviene alle cosiddette “credenze” (certezze) o “opinioni” razionali, come egli stesso afferma, “servirà a mostrare che quasi ogni proposizione della ontologia metafisica è chiacchiera insensata – essendo ogni parola definita da altre e queste da altre ancora, senza che si approdi mai ad un concetto reale – oppure mera assurdità; sicché, fatta piazza pulita di tanta robaccia, ciò che della filosofia rimane è una serie di problemi suscettibili di indagine mediante i metodi di osservazione propri delle vere scienze; si potrà in tal modo accertarne la verità senza incappare in quella sequela interminabile di equivoci e dispute che ha fatto della più alta delle scienze [la logica] un puro passatempo per intelletti oziosi, una sorta di sfida agli scacchi, ozioso piacere il suo fine e pedissequa lettura il suo metodo”. Charles Sanders Peirce: vita e opere Charles Sanders Peirce nasce a Cambridge il 10 settembre 1839. Studia per due anni ad Harvard; dal 1864 al 1884, tiene corsi di logica presso la Johns Hopkins University di Baltimora, il Lowell Institute di Boston e presso l’Università di Harvard. Dal 1891, ricevuta una piccola eredità, si ritirò a Milford dove visse fino agli ultimi giorni della sua vita. Muore a Milford, 19 aprile 1914. Tra i suoi scritti, si ricordano: Il fissarsi della credenza e Come render chiare le nostre idee (1877-1878). 341 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

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Il dubbio e la ricerca Data la basilare importanza che la conoscenza possiede per l’esperienza pratica dell’uomo, uno dei grandi esponenti del pragmatismo quali Peirce, intende occuparsi di come e in che modo l’essere umano perviene alle proprie certezze, ai punti fermi, alle opinioni “fissate” e (ritenute) incrollabili. Peirce dedica la sua ricerca ai processi e ai metodi mediante i quali il pensiero logico-razionale dell’uomo approda alle cosiddette “credenze”, e si sforza di indicare quale tra i vari “metodi” conoscitivi può essere affermato come il più corretto ed efficace rispetto ai fini essenzialmente pratici e attivi dell’uomo. Per Peirce, “il pragmatismo in sé non è una teoria metafisica né un tentativo di determinare una qualche verità delle cose”, ma è “solo un metodo” per pervenire, come detto, ad una corretta e razionale conoscenza della realtà sensibile e dei suoi elementi. È opportuno pervenire a delle “credenze” quanto più possibili razionali perché esse sono “abiti” (“regole d’azione”) che determinano le nostre azioni, la nostra vita pratica, la nostra concreta ed effettiva condotta nel mondo. Nell’importante saggio Il fissarsi della credenza1, Peirce ci presenta i (quattro) possibili modi attraverso cui gli uomini arrivano a possedere indubitabilmente le proprie conoscenze, a “fissare” dunque le loro “credenze”. Anzitutto, la “credenza” è da considerarsi ciò che per definizione si oppone in modo radicale al “dubbio”. E infatti, se da un lato la credenza “è uno stato di calma e di soddisfazione che non desideriamo evitare o mutare per credere in qualche altra cosa”, (e quindi è qualcosa di ben fissato, stabile, sicuro); dall’altro lato il “dubbio”, esattamente al contrario di quanto appena detto, “è uno stato di

1   Le citazioni di questo saggio sono tratte da: C. S. Peirce, Il fissarsi della credenza, in Scritti scelti, UTET, Torino 2008.

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Pragmatismo: Charles Sanders Peirce; William James; John Dewey

irrequietezza e insoddisfazione contro il quale lottiamo per liberarcene e passare nello stato della credenza”. Come avviene questo passaggio dal’irrequietezza alla calma, dall’insoddisfazione claustrofobica alla stasi appagante, ossia dal “dubbio” alla “credenza”? Per rispondere a tale domanda bisogna precisare che il “dubbio”, a differenza di quanto si possa comunemente pensare, incarna una funzione positiva, in quanto “ci stimola all’azione”. Azione stimolata che si traduce nella “distruzione” del “dubbio” stesso, affinché si possa pervenire ad una chiara e stabile conoscenza. L’irrequietezza del dubbio ci stimola a ricercare la calma della conoscenza, che si ottiene distruggendo il dubbio stesso: “l’irritazione del dubbio causa una lotta per ottenere uno stato di credenza. Devo chiamare questa lotta ricerca”(192). La lotta per la conoscenza, la “ricerca” delle “credenze” inizia dunque dal dubbio “reale e vivente”, “e termina con la cessazione del dubbio”, così che l’esito (il fine) di questa lotta mentale si manifesta come lo “stabilirsi di un’opinione”. L’esito della “ricerca” è lo stabilirsi d’una credenza ferma (statica, calma, soddisfacente) la quale in nessun modo necessita d’una convalida esterna (extralogica, metafisica,divina, ecc.) che debba garantire o convalidare ad essa il valore di una verità assoluta, definitiva, incontrovertibile, e trascendente l’individuo: “tutto ciò che si può sostenere è che noi andiamo in cerca di una credenza che dobbiamo pensare sia vera. Ma di ciascuna delle nostre credenze pensiamo che sia vera, e il dir questo, infatti, è una semplice tautologia”. I metodi (erronei) di fissare le credenze Peirce si domanda: “se lo stabilirsi dell’opinione è il solo oggetto della ricerca e se la credenza ha la natura di un abito, perché non dovremmo raggiungere il fine desiderato semplicemente dando a una questione una qualsiasi 343 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

risposta immaginaria e reiterandola costantemente a noi stessi, soffermandoci su tutto ciò che può condurre a tale credenza e imparando a distoglierci con odio e disprezzo da tutto ciò che può disturbarla?”. In questo atteggiamento, si badi assolutamente irrazionale, consiste il primo e più rozzo metodo individuato da Peirce attraverso cui l’uomo fissa (erroneamente) le sue credenze (considerate come vere), denominato il “metodo della tenacia”, e metaforicamente associato all’atteggiamento dello struzzo che “nasconde la testa nella sabbia all’avvicinarsi di un pericolo”. Si comporta come lo struzzo chi, in teoria, pur bruciato dalle fiamme, “continuasse a credere risolutamente che il fuoco non lo brucia”. Il tenace è colui che continuerebbe, imperterrito, a tenere la testa sotto la sabbia, colui che si lascerebbe bruciare da capo a piedi pur di non ammettere che la propria credenza (il fuoco non mi brucia!) è erronea, che è irrazionale. Non ammetterebbe mai, tant’è tenace, che la propria credenza si scontra contro ciò che agli occhi di tutti gli altri appare come una falsità assoluta. Appare, infatti, evidente a tutti la falsità di chi afferma che il fuoco a lui non lo brucia, quantunque egli stesso stia inequivocabilmente bruciando. Nonostante la tenacia teorica, che in certe occasioni può ritornare utile o quantomeno efficace per difendere le proprie convinzioni personali, questo metodo è “in pratica incapace di mantenere le sue posizioni”. Ciò che confuta e riduce a zero tanta tenacia è l’“impulso sociale”. Quest’ultimo va visto come una specie di inclinazione irrefrenabile, un atteggiamento insopprimibile, come “un impulso troppo forte per essere soppresso senza pericolo di distruggere la specie umana”. L’“impulso sociale” si traduce nel fatto che l’uomo, in quanto essere sociale, non può fare a meno di volere che quanto egli crede sia creduto e riconosciuto come valido anche da tutti gli altri uomini (dall’intera “comunità” dice Peirce). Ciò si scontra, in modo inevitabile, con la situazione dello “struzzo” tenace; abbiamo infatti visto come tutti gli altri uomini 344 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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la pensino “differentemente” da lui. Il primo metodo consente, quindi, di fissare delle credenze ritenute valide soltanto dall’individuo singolo, ma non dall’intera comunità. L’individuo singolo in questione, in tal modo, fallisce l’approdo alla “calma” ricercata e alla “soddisfazione” conoscitiva, perché non riesce mai a soddisfare in modo adeguato il proprio “impulso sociale”, che lo porta, lo spinge e lo preme a non accontentarsi mai di pure e semplici credenze da “eremiti” (ossia meramente personali, private, isolate). Al che Peirce allarga il tiro, e alla volontà di conoscenza dell’individuo singolo sostituisce quella dello “Stato”, cercando di comprendere cosa comporterebbe una eventuale situazione nella quale l’istituzione statale, in modo autoritario e dispotico, sia nelle condizioni “d’imporre all’attenzione del popolo dottrine corrette, di ripeterle perpetuamente e d’insegnarle alla gioventù, e che tale istituzione abbia nello stesso tempo la forza d’impedire che le dottrine contrarie siano insegnate, sostenute od espresse”. Subito precisa Peirce che tale metodo non è un qualcosa di virtuale, ma si è concretamente realizzato nel corso della storia. E precisamente si è realizzato “dovunque vi era un’aristocrazia o una corporazione o qualsiasi associazione di una classe di uomini”(sia politica che religiosa), interessate a fissare nelle menti del popolo, i cui membri vengono ridotti a “schiavi intellettuali”, esclusivamente le loro “proposizioni” universali (norme, principi, leggi, dogmi, ecc.). “La crudeltà accompagna sempre questo sistema; e quando esso è sviluppato coerentemente, le crudeltà diventano atrocità della specie più orribile agli occhi di ogni uomo razionale”. Questo secondo metodo, utilizzato storicamente dalle cosiddette “fedi organizzate” (sia politiche che religiose) prende il nome di “metodo dell’autorità”, e si presenta dal punto di vista “mentale e morale” assai superiore rispetto a quello della “tenacia” individuale, soprattutto per i maggiori risultati pratici conseguiti. Anche tali “fedi organizzate”, falliscono il loro intento d’essere accettate da tutti in modo 345 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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universale e senza eccezioni di sorta. Il metodo autoritario delle “fedi organizzate” fallisce perché, nei “fatti”, a guardale da vicino “troviamo che nessuno dei loro credi è rimasto sempre lo stesso”. Questo perché “anche negli stati più infestati da preti, ci saranno individui che si sono sollevati al di sopra di quella condizione” eminentemente irrazionale (non giustificata), autoritaria e repressiva nei confronti della libera appropriazione di credenze da parte di un individuo quanto di quella di un intero popolo. Constatato l’ennesimo fallimento, Peirce passa ad illustrare il terzo metodo, denominato “dell’a priori”, caratterizzante il metodo delle cosiddette metafisiche filosofiche. Quest’ultime credono di superare l’inefficacia conoscitiva dei primi due metodi, l’uno basato su mere convinzioni arbitrarie e volontaristiche e l’altro su meri interessi di potere, affermando di possedere delle vere credenze perfettamente autenticate dal loro essere “d’accordo con la ragione”: “questa è l’espressione adatta; essa non indica ciò che è d’accordo con l’esperienza, ma ciò che ci troviamo inclinati a credere”. Così, secondo questo paventato “accordo con la ragione”, Platone (427-347 a.C.) è stato incline a credere che “le distanze delle sfere celesti l’una dall’altra siano proporzionali alle differenti lunghezze delle corde le quali producono accordi armoniosi”. Keplero (1571-1630) invece, anch’egli convinto ad accordarsi soltanto con la “ragione”, afferma che “le sfere celesti siano proporzionali alle sfere scritte e circoscritte di solidi regolari diversi”. Mentre la dottrina utilitaristica di Bentham(1748-1832), sempre in base a quell’accordo, afferma che “l’uomo agisce soltanto egoisticamente, cioè in base alla considerazione che agire in una certa maniera gli procurerà maggior piacere che agire in un’altra maniera”. Entrambe queste credenze non poggiano su “nessun fatto” dell’esperienza, dice Peirce, ossia l’esperienza non conferma tali credenze. La realtà empirica non conferma nessun tipo di “corde” né “accordi armoniosi”, né “sfere scritte e circoscritte”, tantomeno la 346 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Pragmatismo: Charles Sanders Peirce; William James; John Dewey

realtà ha a che fare col “maggior piacere”, eppure, ognuna di esse “è largamente accettata come la sola teoria ragionevole”. Che ciascuna di queste tre dottrine metafisiche, ma il loro numero potrebbe aumentare a cifre considerevoli, tra loro assolutamente contrapposte ed eterogenee (quella di Keplero materialistica, e quella di Platone spiritualistica), si presenti come l’unica credenza davvero razionale, rappresenta, in modo manifesto, l’ennesimo fallimento. Il metodo dell’“a priori” è condannato a tale fallimento dal preciso fatto che “esso fa della ricerca qualcosa di simile allo sviluppo del gusto; ma il gusto, sfortunatamente, è sempre questione più o meno di moda, e di conseguenza i metafisici non sono mai giunti a un accordo stabile, ma il pendolo ha sempre oscillato avanti e indietro tra un filosofia più materialistica e una più spiritualistica”. Il metodo scientifico L’indagine di Peirce non si arena su un nulla di fatto, non si incaglia nella considerazione negativa sui tre metodi gnoseologici analizzati, bensì intende fornirci il metodo adatto per arrivare a fissare le nostre credenze in un modo finalmente stabile. E soprattutto, a differenza dell’illusione metafisica che riduceva il paventato “accordo con la ragione” ad una mera questione di “gusto” temporaneo, in un modo realmente razionale perché fondato unicamente sull’esperienza, sulla realtà, sui “fatti” della realtà sensibile. È a questo punto che si inserisce il “metodo scientifico” proposto da Peirce: “Per soddisfare i nostri dubbi […] è necessario che sia trovato un metodo in virtù del quale le nostre credenze possano essere causate non da fattori umani ma da qualche uniformità esterna, da qualcosa su cui il nostro pensiero non ha effetto”. Tale “uniformità esterna” deve essere non più qualcosa creduta unicamente da un singolo individuo, o da una precisa associazione (reli347 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

giosa, politica) o da alcuni (e quindi non da altri) pensatori metafisici, bensì “deve essere qualche cosa che agisce, o può agire, su ogni uomo”. “Il metodo deve essere tale che la conclusione ultima di ogni uomo sia la stessa. Tale è il metodo della scienza”. L’“ipotesi fondamentale” del “metodo scientifico”, viene da Peirce così espressa: “vi sono cose reali i cui caratteri sono completamente indipendenti dalle opinioni che noi ci formiamo intorno a essi; queste realtà colpiscono i nostri sensi secondo leggi regolari; e per quanto le nostre sensazioni siano diverse come diverse sono le nostre relazioni con gli oggetti, utilizzando le leggi della percezione, noi possiamo accertare col ragionamento come le cose realmente sono e ogni uomo, se ha esperienza sufficiente e ragiona abbastanza su di essa, sarà condotto a un’unica conclusione vera”. Come ogni cosa del mondo, anche il “metodo scientifico” non rappresenta una verità assoluta e incontrovertibile, non è una verità ultima inviataci da Dio o ricavata dalla potenza infinita della mente umana, bensì è reputato valido perché, posto a confronto con l’esperienza concreta, “ha avuto splendidi trionfi proprio come via per fissare opinioni”. L’“ipotesi fondamentale” sulla quale si basa tale metodo – “vi sono cose reali i cui caratteri sono completamente indipendenti dalle opinioni che noi ci formiamo intorno a essi”, ossia vi è la “realtà” esterna – è affermata come indubitabile, perché nessun uomo, nella sua vita pratica, si sognerebbe di mettere in dubbio l’esistenza della “realtà” (mondo, natura, universo, ecc.). Il “dubbio” viene distrutto perché il “metodo scientifico” si affida esclusivamente alla “realtà” (sensibile, naturale, concreta). Quest’ultima è ciò che in nessun modo può essere negato, contrastato e quindi contraddetto da determinate “proposizioni” umane. Il metodo scientifico, dunque, non si basa su credenze personali, né su dogmi e leggi infondati, né tantomeno su una presunta e sempre variante “ragione” metafisica. Nel metodo scientifico la verifica o la prova di una “credenza”, sa348 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Pragmatismo: Charles Sanders Peirce; William James; John Dewey

rà affidata all’immediato riscontro di questa con la realtà. Qualunque “proposizione” per essere valida deve conformarsi unicamente con la realtà fisica, ossia con ciò che è “unica” e comune a tutti, e quindi indubitabile. Seppur la realtà empirica dovesse confutare una determinata “credenza” (opinione, proposizione), in nessun modo tale confutazione intacca o confuta a sua volta il “metodo scientifico” stesso: “Se l’indagine non prova che vi sono cose reali, neppure conduce alla cosa contraria; ma il metodo e la concezione sulla quale esso è fondato rimangono sempre in armonia. Nessun dubbio sul metodo sorge perciò necessariamente dalla pratica di esso come accade per gli altri”. Se l’uomo “desidera”, secondo il dettato del pragmatismo, “che le sue opinioni coincidano coi fatti”, deve comprendere, anzitutto, che i suddetti tre metodi non permettono affatto quanto si desidera. E “dopo tali considerazioni, egli deve fare la sua scelta, una scelta che è molto più dell’adozione di un’opinione intellettuale, una scelta che è una delle decisioni direttive della sua vita, alla quale, una volta fatta, egli è impegnato ad aderire”. Come rendere chiare le nostre idee L’unico metodo valido per fissare le credenze è quello scientifico. Tale metodo consiste principalmente nel formulare “ipotesi” e nel sottoporle al controllo e alla conferma sulla base delle loro conseguenze pratiche, dei loro risultati concreti, dei loro esiti effettivi. In un altro fondamentale saggio, Come rendere chiare le nostre idee2, Peirce intende approfondire il “significato” delle “credenze” e in che modo tale significato può giungere a possedere quella

2   Le citazioni di questo saggio sono tratte da: C.S. Peirce, Come rendere chiare le nostre idee, in Scritti scelti, cit.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

“chiarezza” e “distinzione” necessaria al fine di non confonderlo con le diverse espressioni che esso può assumere. “È ora tempo di formulare il metodo per raggiungere una chiarezza più perfetta di pensiero”. Secondo Peirce, un concetto (una “concezione”, definizione, credenza) si riduce ai suoi “concepibili effetti sperimentali”. Effetti sperimentali, questi, che si riducono, a loro volta, ad “azioni possibili”, ad azioni cioè effettuabili nel momento in cui, nel futuro (prossimo o lontano), si presenterà l’occasione. Per “azione”, si badi, si deve intendere ciò che si riferisce esclusivamente a quel che colpisce i “sensi”: “la nostra azione si riferisce esclusivamente a ciò che tocca i nostri sensi”. Ma andiamo per ordine. Come detto, la funzione del pensiero è quella di produrre credenze : “Abbiamo visto che l’azione del pensiero è stimolata dall’irritazione del dubbio, e cessa quando la credenza è raggiunta; di modo che produrre la credenza è la sola funzione del pensiero”; “Il pensiero in azione ha come unico motivo possibile il raggiungimento del pensiero in riposo; e tutto ciò che non si riferisce alla credenza non fa parte del pensiero stesso”. La credenza, dal canto suo, ha tre proprietà: “1) è qualcosa di cui ci rendiamo conto; 2) acquieta l’irritazione del dubbio; 3) implica lo stabilirsi nella nostra natura di una regola d’azione, o per dirla in breve, di un abito”. Ciò che produce una credenza “è una regola per l’azione”. Lo stesso pensiero è “essenzialmente un’azione”, ossia è azione mentale che ci fornisce le regole essenziali per la nostra azione pratica (e volontaria), affinché essa sia condotta nel modo più adeguato e concreto possibile nell’esperienza empirica. “L’esito finale del pensare è l’esercizio della volizione”; “l’intera funzione del pensiero è di fornire abiti d’azione”. Da ciò ne segue che una determinata “credenza” farà sorgere in me un determinato (e non un altro) modo d’agire, un determinato “abito d’azione” appunto. Una determinata credenza, dunque, produce determinate regole 350 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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(pratiche) grazie alle quali posso indirizzare la mia azione in modo corretto, realizzando così quel fine che mi ero proposto all’inizio della mia attività pensante. In base a quanto detto, comprendiamo che :“Per determinare il significato di una cosa non dobbiamo far altro, dunque, che determinare quali abiti essa produce, giacché quello che una cosa significa è semplicemente l’abito implicato da essa. L’identità di un abito dipende da come esso ci porterà ad agire, non solamente nelle circostanze che probabilmente sorgeranno, ma anche in quelle, per improbabili che siano, che possono sorgere. Dipende, in altre parole, da quando e da come ci porterà ad agire. Per ciò che riguarda il quando, ogni stimolo d’azione è derivato dalla percezione; e per ciò che riguarda il come, lo scopo dell’azione è produrre qualche risultato sensibile. Così dobbiamo scendere al tangibile e al pratico, per trovare la radice di ogni vera distinzione di pensiero per sottile che sia; e non vi è distinzione di significato, per fine che sia, che possa consistere in altro che in una possibile differenza pratica”. La regola scientifica (logica, razionale) per ottenere la chiarezza di un’idea, prescrive la considerazione degli effetti pratici che l’oggetto dell’idea può avere. Chiediamoci, ad esempio, che significato, che “concezione” ha dire “che una cosa è dura”. Ebbene, l’“intera concezione di questa qualità”, ossia il significato della qualità della “durezza”, come di qualsiasi altra, sta negli effetti concepiti, nei risultati che con la mia azione pratica su tale “cosa dura” riesco a ricavare. In effetti, “non vi è assolutamente nessuna differenza fra una cosa dura e una cosa molle finché esse non vengono messe alla prova”, ossia finché non realizzo mediante l’azione dei miei sensi, in questo caso col “tatto”, che quella determinata cosa è nei fatti dura e quindi non molla. Se possediamo il significato di ciò che è duro, se sappiamo quali sono gli effetti pratici che scaturiscono da una “cosa 351 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

dura”, e se ciò lo sappiamo grazie alla nostra azione pratica, possediamo allora, con chiarezza, una determinata e reale “credenza”. Questa credenza, così ricavata, fungerà da “abito”, cioè da regola d’azione per ogni mia futura occasione nella quale avrò a che fare con qualsiasi altra cosa che possiede la qualità della durezza, o in ogni occasione nella quale dovrò distinguere correttamente cosa è molle da cosa è duro. Questo evidenziare l’importanza che detiene l’azione di verifica, l’operazione pratica confermante ogni nostro significato, porta a concludere che non esistono verità date una volta per tutte, infallibili e definitive. Il carattere di fallibilità è sempre evidenziato a dovere nell’opera di Peirce come dall’intera scienza moderna, ed è proprio il bisogno di sottoporre ogni cosa e ogni ipotesi alla verifica sperimentale che implica l’impossibilità di possedere delle verità assolutamente stabili. Nel successo e nell’insuccesso dell’agire, in cui consiste la verifica sperimentale, consiste la verità o la falsità delle ipotesi. Tale verifica non intende pervenire, perché impossibilitata a farlo, all’accertamento di un ordine necessario (inevitabile, immutabile) della realtà, al quale l’azione dell’uomo non debba far altro che adeguarsi. Tutto ciò che accade nella realtà non è sottoposto a nessuna necessità, a nessun ordine predeterminato, a nessun corso già tracciato. Tutto nella realtà accade per caso, o meglio, tutto ciò che accade in essa è caso. Le leggi scientifiche, dunque, esprimono soltanto le uniformità e le regolarità che di fatto si producono nell’accadimento casuale del mondo. Prende così piede nel sapere scientifico l’utilizzo sperimentale del cosiddetto “calcolo delle probabilità”3 che, per la razionali-

  “Utilizziamo frequentemente il termine “probabilità” quando ci riferiamo a situazioni incerte, a fenomeni che possono o non possono verificarsi, ma nel linguaggio comune il concetto di probabilità è per lo più 3

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Pragmatismo: Charles Sanders Peirce; William James; John Dewey

tà scientifica moderna, rappresenta l’unico strumento col quale l’uomo può tentare di rendere razionale e intellegibile il caos dell’accadimento casuale del mondo. William James: vita e opere William James nasce a New York l’11 gennaio 1842. Nel 1869 si laurea in medicina e successivamente prosegue i suoi studi di psicologia da autodidatta. Nel 1885 diventa professore di filosofia alla Harvard University e cinque anni dopo fu professore di psicologia presso la stessa università; nello stesso anno, nel 1890, pubblica uno dei suoi scritti principali, Principi di psicologia. Tra gli altri, degni di nota sono La volontà di credere (1897) e Pragmatismo, pubblicato nel 1907 quando James aveva ormai deciso di ritirarsi definitivamente dall’insegnamento. Muore a Chocorua (Stati Uniti) il 26 agosto 1910. L’empirismo radicale William James fa sua l’importante lezione pragmatista di Peirce. Se quest’ultimo intese occuparsi in special modo di questioni logiche e di linguaggio, al fine di ricercare un

generico. Tale concetto è associato a quello d’evento aleatorio, intendendo distinguere, in questo modo, gli eventi certi, che si verificano sicuramente, da tutti quegli eventi il cui verificarsi dipende esclusivamente dal caso, detti appunto eventi aleatori o casuali. Gli eventi aleatori sono, essenzialmente, eventi incerti e possibili. Nell’ambito degli eventi aleatori, si possono distinguere eventi che hanno maggiori possibilità di verificarsi rispetto ad altri. Il calcolo delle probabilità cerca di formulare delle valutazioni numeriche della possibilità di verificarsi di tali eventi detti “aleatori” o “casuali”. Bisogna però dire che, come non esiste un’unica definizione di probabilità, così non esiste un unico modo di valutare la probabilità di un evento aleatorio”. Denise Perrone.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

metodo altamente scientifico capace di fornirci i significati veri delle cose, così da poter poi agire nel modo più razionale possibile nella realtà; con James, invece, ci troviamo di fronte ad una interpretazione che, pur prendendo le mosse dal pragmatismo di Peirce, virò verso argomentazioni filosofiche concernenti tematiche morali e religiose. Per James il pragmatismo “è soltanto un metodo”, ossia è un ben determinato atteggiamento di ricerca che si propone di “togliere lo sguardo dalle cose prime, dai principi, dalle ‘categorie’, dalle pretese necessità”, per “guardare invece alle cose ultime, ai risultati, alle conseguenze, ai fatti”. D’accordo con Peirce, anche per James il pragmatismo è un metodo di ricerca, un criterio razionale, una norma conoscitiva per ottenere la maggiore chiarezza possibile in merito alle “idee” che noi abbiamo delle cose, e consiste nel “considerare quali concepibili effetti pratici essa [l’idea] possa implicare, quali sensazioni dobbiamo aspettarci e quali reazioni dobbiamo preparare. La nostra conoscenza di questi effetti, sia immediata o remota, è allora tutta la concezione che abbiamo dell’oggetto in quanto essa abbia un significato positivo”. Secondo James “le idee (le quali sono parti della nostra esperienza) diventano vere nella misura in cui ci aiutano a ottenere una soddisfacente relazione con le altre parti della nostra esperienza, a riassumerle per mezzo di schemi concettuali. […] Un’idea è vera fin quando ci consente di andare avanti e portarci da una parte a un’altra della nostra esperienza, legando le cose in modo soddisfacente, operando con sicurezza, semplificando, economizzando la fatica”. Appare scontata la critica di James rivolta a Kant, il quale, con la sua metafisica della ragione pura, aveva rinchiuso il pensiero umano ad operare in una sorta di mondo a sé, tutto suo e solo suo, indipendente, autonomo, in una cornice-gabbia intellettuale, senza contatti (legami) pratici con la realtà esterna. In tale gabbia, le operazioni della mente erano impossibilitate a non far altro che in354 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Pragmatismo: Charles Sanders Peirce; William James; John Dewey

serire, connettere ed elevare in una struttura ideale i dati sensibili ricavati dall’esperienza empirica. Con Kant la conoscenza umana è caratterizzata dalla totale assenza di partecipazione fattiva col mondo sensibile, che resta caratterizzato dalla più estrema inconoscibilità ed enigmaticità. Secondo Kant, io non conosco mai il mondo com’è in realtà, come è in sé stesso. A causa della mia struttura conoscitiva, sono limitato a gestire al chiuso del mio pensiero i contenuti mentali ricevuti passivamente dal mondo esterno. È la realtà esterna che entra in me, nelle “forme” a propri del mio intelletto, e mai il contrario. Presupponendo ciò, in cosa potrà mai esprimersi la mia vita se non in un mondo puramente mentale, costituito da categorie logiche, da concetti precisissimi, da intuizioni pure, da imperativi categorici e via dicendo? Con Kant il distacco del pensiero umano e della filosofia dalla realtà empirica, la sterilità del pensiero di farsi regola di azione pratica, di farsi “significato di natura pratico”, l’erezione di un muro incrollabile tra significato mentale e fatto sensibile, e quindi tra pensiero e azione, è sancito nel modo più rigoroso possibile. Al che James si e ci domanda: “Quale serietà può esserci nel dibattere intorno a proposizioni filosofiche che non produrranno mai un’apprezzabile differenza nelle nostre azioni? E cosa importa quali proposizioni siano dette vere o false, se tutte sono praticamente insignificanti?”. Detto questo, occorre notare una certa distanza di James da Peirce. Se Peirce, partendo dalla tesi che ogni procedimento d’indagine mette capo alla determinazione di una credenza, s’impegnò a scoprire i metodi capaci di fornire all’uomo delle credenze il più possibile vere; per James, invece, ciò che verifica se una credenza è vera, è se essa risulta “utile” all’azione pratica dell’uomo, e nient’altro. In questo senso James presenta la sua filosofia come “empirismo radicale”. Questo empirismo radicale si differenzia da quello di Hume, che considerava i fatti dell’esperienza empirica come le 355 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

uniche cose conosciute in modo chiaro e incontrovertibile dalla mente umana, la quale, allora, non doveva fare altro che riferirsi a questi per pervenire a delle credenze vere. Per James la configurazione dei fatti empirici (la realtà sensibile), pur essendo “l’unica verità indefettibilmente certa”, non è posseduta dall’uomo in modo chiaro e indiscutibile, bensì essi si presentano immersi in un caos indifferenziato, appaiono come molteplicità disordinata e senza senso. Caso, indifferenza e molteplicità della realtà, che solo mediante l’intervento razionale e l’elaborazione mentale dell’uomo può essere inquadrata e interpretata con dei contorni fissi e come caratterizzata da significati, cose e fatti tra loro distinti e differenziati. Affermando ciò James intende rifiutare, in modo categorico, ogni concezione epistemico-metafisica che pretenda affermare una unità assoluta che raccolga in sé tutto il molteplice dell’universo. La realtà, immediatamente, non si presenta mai come unità organizzata, come unità razionale, come unità, sintesi e conciliazione degli opposti. La realtà non si presenta mai con una altra maschera se non con quella del caos assoluto e del disordine totale. Tragedia o eternità Per James la filosofia, come anche la scienza, deve essere indirizzata unicamente alla realizzazione di ciò che permette all’azione umana di esprimersi e manifestarsi in modo adeguato. Deve evitare di perdersi in speculazioni tanto astratte quanto sterili ai fini della vita pratica e tangibile dell’uomo, al quale interessano esclusivamente i risultati ultimi, gli esiti finali, le realizzazioni effettive. “La prova ultima del significato di ciò che è vero è la condotta che ci detta o ci ispira”. Il pensiero in generale, sia esso scientifico o filosofico o religioso, non ha e non deve avere altro fine se non quello 356 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Pragmatismo: Charles Sanders Peirce; William James; John Dewey

di servire all’azione dell’uomo nel mondo, ed è in base a tale tesi fondamentale che James intende trattare i vari problemi morali e religiosi. Perché “il reale significato di qualsiasi proposizione filosofica può essere sempre ricondotto a qualche conseguenza particolare nella nostra esperienza pratica futura, sia essa attiva o passiva; poiché essenziale è che l’esperienza sia pratica e non che sia attiva”. Il fatto che la credenza religiosa, ossia la “fede”, si basi su ipotesi nient’affatto dimostrabili facendo ricorso all’esperienza empirica né tanto meno ricorrendo a spiegazioni razionali, non toglie che essa, da sempre, detiene un ruolo fondamentale e decisivo per l’esistenza umana. Per questo motivo è degna d’essere approfondita se non addirittura difesa dalle pretese materialistiche di ridurre tutta la realtà del mondo ad un alternarsi incessante di “evoluzione e dissoluzione”, di “materia e moto”. Qui nello specifico il riferimento è alla concezione filosofica di Spencer, il quale concludeva le sue teorie affermando la necessità di riconoscere esclusivamente la Materia quale autentica potenza divina, reggitrice inconoscibile e creatrice misteriosa dell’intero universo. Ma, come è facile aspettarsi, James si domanda quale conseguenza pratica comporta credere che l’universo sia tutto in mano alla materia. Egli risponde che, esattamente come il materialismo teorizza la dissoluzione inevitabile d’ogni elemento dell’universo perché soggetto all’evoluzione incessante, così chi crede che il mondo è solo materia non può che avere sempre d’avanti a sé che la “tragedia”, la dissoluzione totale del mondo stesso, dopo la quale “la morte stessa e l’amore più forte della morte saranno come se mai fossero esistiti”. “Questa rovina ultima, questa tragedia condivide l’essenza del materialismo scientifico di oggi”. E di rimbalzo, allora, c’è da chiedersi quale conseguenza “pratica ed emotiva” comporta avere “fede” in Dio: “La nozione di Dio, per quanto inferiore in chiarezza alle correnti nozioni matematiche di filosofia meccanicista, possiede almeno una superiorità di natura pratica, quella di 357 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

garantire un ordine ideale permanente. Un mondo in cui sia Dio a dire l’ultima parola può in verità bruciare o congelare, ma noi continueremo a pensare a lui come a un custode di vecchi ideali, capace di realizzarli altrove; là dove Dio è, la tragedia non può che essere provvisoria e parziale, rovina e dissoluzione non possono rappresentare la fine assoluta. L’esigenza di un ordine morale eterno è tra le più profonde nel nostro animo”. Il rischio della fede È necessario notare che la “difesa” del sentimento religioso condotta da James, si contrappone in modo netto ad ogni interpretazione dogmatica caratterizzante certa teologia e metafisica le quali, perdendosi “in capziose speculazioni astratte sugli attributi metafisici di Dio”, non comprendono affatto che il vero significato della “fede” in Dio risiede nei “diversi accenti pratici ed emotivi, nella correzione delle nostre abitudini concrete di speranza e aspettativa e nelle delicate conseguenze che queste differenze comportano”. Il fatto reale e concreto che gli uomini credono in Dio, e quindi che essi credono nell’affermazione “di un ordine morale eterno e alla libertà della speranza”, agli occhi del pragmatismo jamesiano, rientra e deve rientrare pienamente in “un serio dibattito filosofico”. Questo interesse filosofico che James manifesta per quel “fine ultimo” che è Dio, non viene per niente scalfito o quantomeno infastidito da chi, come i positivisti in generale, lo tacciava come pura e semplice “insanità” mentale. A questa offesa James controbatte che è “l’assoluto, l’ultimo, … il vero oggetto della speculazione filosofica; ogni mente superiore ne è attratta”. La religione non ha nulla a che fare con l’elenco degli attributi divini stilato nel corso dei secoli dalla teologia dogmatica o dalla metafisica filosofica, non ha a che fare con nozioni complicate, concetti astratti, cavilli terminologici, 358 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Pragmatismo: Charles Sanders Peirce; William James; John Dewey

dogmi impenetrabili, leggi indiscutibili, ecc. Esattamene al contrario di ciò, per James “la religione è una questione pratica vitale”, che fa sorgere una “massa di esperienze religiose concrete che, legandosi al sentire e all’agire, si rinnovano nell’esistenza di umili individui in saecula saeculorum. Se volete sapere a quali esperienze mi riferisco, ebbene sono conversazioni con l’invisibile, voci e visioni, risposte a preghiere, mutamenti di stati d’animo, liberazione da stati di timore, offerte d’aiuto, garanzie di sostegno, tutto ciò che accade ogniqualvolta un uomo si atteggia internamente in un dato momento”. Le esperienze religiose però, come tutte le esperienze umane, “condividono l’universale propensione all’illusione e all’errore”, ed è a questo punto che il singolo individuo è chiamato direttamente in causa. Al singolo e solo ad egli è infatti demandata la scelta di credere o non credere in Dio. Il fatto che la “fede” di un individuo, la quale oltre ad essere legittima è soprattutto “insopprimibile”, si basi su una credenza indimostrabile empiricamente e razionalmente, implica che l’individuo stesso deve assumere su di sé tutto il rischio derivante da tale situazione. L’individuo deve assumersi il rischio di andare incontro all’errore, alla smentita, all’illusione, all’irrealizzabile. Già Pascal (1623-1662), a suo tempo, aveva affermato che credere in Dio è una vera e propria scommessa, aperta al rischio della vittoria quanto della sconfitta. Allo stesso modo James si appella a tale interpretazione (della scelta) della fede vista come scommessa e rischio aperto a qualunque esito. Se l’individuo punta tutto su Dio e perde, diceva Pascal, allora egli perde un bene infinito (mantenendosi il mondo, che è un bene finito). Se punta tutto sul mondo e perde, invece, egli vince quel bene infinito che è Dio, che è la luce infinita e l’essenza eterna che resta dopo aver abbandonato la dimensione temporale del mondo. Ora, non assumersi il rischio della “fede”, e quindi non assumersi il rischio di andare incontro all’errore, significa sempre fare 359 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

una scelta e assumersi comunque un rischio. Chi non crede in Dio, sceglie di correre il rischio di non credere. Anche questo rischio – il rischio di non credere –, è aperto, allo stesso modo del suo opposto (cioè del rischio di credere), all’illusione e all’errore. Che l’individuo debba scegliere da sé quale rischio correre, se credere o non credere, se avere fede o meno, si presenta, allora, come un fatto inevitabile che caratterizza l’intera realtà umana. Anche in campo morale la questione si presenta con i caratteri della scelta e dell’inevitabilità del rischio. L’uomo fa parte d’un “universo pluralistico”, d’un universo cioè in cui la molteplicità e l’indipendenza degli esseri e delle coscienze rende possibile la libertà. Ma proprio la libertà dell’uomo fa sì che esso sia sempre libero di scegliere se vuol far del bene o del male (al mondo, agli uomini, a sé stesso, ecc.). L’uomo è liberò di rischiare puntando sul bene o sul male, così come è libero di avere una visione ottimistica o pessimistica dell’esistenza, tragica o salvifica, tenebrosa o speranzosa, ecc. La scelta morale è aperta anch’essa alla possibilità dell’errore e dell’illusione, è aperta a ciò che James definisce i “può essere” (positivi o negativi) dell’esistenza. Pur essendo una questione personale la scelta che l’uomo compie a riguardo della sua condotta morale, pur essendo questo universo umano composto da singole parti indipendenti le une dalle altre, come un insieme di molteplicità (di particolarità), James non nasconde affatto che la stabilità e l’ordine di ogni società umana, dipende necessariamente dalla collaborazione volenterosa e armoniosa di tutti i suoi membri. “Un organismo sociale qualunque, piccolo o grande, è quello che è perché ciascun membro fa il suo dovere nella fiducia che gli altri membri simultaneamente faranno il loro. Dovunque un risultato desiderato è ottenuto colla cooperazione di molte persone indipendenti, la sua esistenza di fatto è una pura conseguenza della antecedente reciproca fiducia di quelli immediatamente interessati”. 360 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Pragmatismo: Charles Sanders Peirce; William James; John Dewey

Il reale progresso (spirituale, sociale, scientifico, ecc.) dell’umanità deve essere pertanto il frutto della cooperazione degli sforzi di tutti gli individui: “L’universo progressista, è concepito secondo un’analogia sociale, come una molteplicità, un pluralismo di forze indipendenti; esso riuscirà esattamente nella misura in cui il più gran numero delle sue stesse forze lavoreranno al suo successo. Se nessuna d’esse vi lavora, esso fallirà; se ciascuna farà del suo meglio, esso riuscirà. Così i suoi destini sono sospesi a un se o piuttosto a una serie di se”. John Dewey: vita e opere John Dewey nasce a Burlington (Stati Uniti) il 20 ottobre 1859. Studia filosofia all’università del Vermont e alla Jhons Hopkins University (Baltimora); laureatosi nel 1884, dedicò gran parte della sua vita all’insegnamento universitario, tenendo lezioni nelle università del Michigan e del Minnesota, poi in quella di Chicago e di New York. Tra le sue opere, degne di nota sono gli Studi sulla teoria logica (1903), portati a compimento unitamente ad altri, che segnarono la nascita della Scuola di Chicago che ebbe una grande influenza negli Stati uniti; Il mio credo pedagogico (1897); Democrazia ed educazione (1916); Esperienza e natura (1925); Logica, teoria dell’indagine (1938); I problemi dell’uomo (1946). Muore a New York, l’1 giugno 1952. La minaccia dell’esistenza Nel pensiero di John Dewey ritroviamo ribaditi tutti i presupposti basilari del pragmatismo di Peirce e di James. Anche per Dewey l’uomo ha a che fare unicamente con la realtà naturale; l’azione umana ha la sua base e si realiz361 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

za unicamente nell’esperienza empirica; e la filosofia ha da indagare nient’altro che il mondo sensibile senza ricercare regni metafisici o ideali. Il mondo non si presenta sottoposto ad un rigido meccanismo, non è bloccato, una volta per tutte, in una data forma, in un aspetto immutabile. Esso si presenta, al contrario, come continua emergenza di forme sempre nuove, come incessante creazione e manifestazione di eventi e fenomeni sempre inediti ed originali, sempre diversi, sempre altri. Il mondo appare come un teatro vivente nel quale corpi e forze, ovvero i suoi protagonisti, appaiono in perpetuo mutamento. Il ritmo del mondo, il suo tempo, la sua storia non segue una cadenza uniforme regolata fin dal principio dei giorni da chissà chi o cosa, non esegue uno spartito eterno che detta (ordina) i battere e i levare, le pause e gli accenti, le fughe e i silenzi agli esseri umani e naturali insieme. Bensì è un tempo-ritmo imprevedibile, aperto alle variazioni, alle differenze, ai controtempi, agli improvvisi, all’esplosioni quanto all’implosioni: il tempo del mondo non è inquadrabile in rigide strutture (teologiche o metafisiche), non è in nessun modo controllabile. Al positivismo in generale, interessato esclusivamente a rintracciare le cause e la genesi dei fatti naturali e umani, Dewey rimprovera il fatto di non aver preso in seria considerazione che la genesi di un evento non ne determina né esaurisce il valore o la sua funzione. All’empirismo tradizionale Dewey contesta il fatto d’aver considerato l’“esperienza”, ossia la vita o il vissuto in generale, come purificata da tutti gli elementi di disordine e di errore, di caos e illusione, di orrore e menzogna, e di averla così ridotta a stati di coscienza assai semplici, lineari, esatti, chiari e distinti. Ebbene, per Dewey l’esperienza non è esclusivamente costituita da stati limpidi e ordinati, da conoscenze esatte e distinte, ma include anche “i sogni, la pazzia, la malattia, la morte, la guerra, la confusione, l’ambiguità, la menzogna e l’errore; include i sistemi trascendentali co362 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Pragmatismo: Charles Sanders Peirce; William James; John Dewey

me gli empirici; la magia e la superstizione come la scienza”. È un errore considerare la vita solo sotto i suoi aspetti edulcorati, razionali, nobili e onorevoli. Così facendo si trascura tutto ciò che di “sfavorevole, precario, incerto, irrazionale, odioso” presenta quella stessa vita. Quest’ultima è dunque da considerare come un “organismo” composto da entrambi quegli aspetti o elementi (ordine e disordine), come se questi fossero le parti costituenti quell’organismo multi-particolare che è la vita, la quale, allora, potrà essere indagata correttamente solo a patto di considerarla come unità indissolubile delle sue parti. La filosofia di Dewey viene solitamente definita come “naturalismo” per il suo riferimento costante e radicale alla dimensione empirica dell’esistenza umana, all’azione e alla vita concreta dell’uomo, a ciò che di reale noi “abbiamo” e “siamo”. Questo “naturalismo” si scontra contro ogni forma di “razionalismo” che pretenda di ridurre l’esperienza umana a processo gnoseologico intento a pervenire a delle conoscenze razionali. Non tutto dell’esperienza è conoscenza, non tutto rientra in un’operazione mentale che ha il compito di eliminare il dubbio e l’errore per far posto alla verità chiara e distinta. La nostra stessa vita non è fatta solo di ciò che conosciamo e possediamo intellettualmente, ma anche di ciò che appartiene alla nostra tangibile esistenza: “Un uomo può dubitare se egli ha il morbillo, perché il morbillo è un termine intellettuale, una classificazione, ma egli non può dubitare di ciò che empiricamente ha – non, come si dice, perché è immediatamente certo di esso, ma perché non è materia di conoscenza, non è un affare intellettuale affatto, non è affare di verità o falsità, di certezza o di dubbio, ma solo di esistenza”. Sotto accusa, dunque, è messa ogni filosofia convinta che si possa pervenire ad un sapere stabile e definitivo riguardante la realtà, dimenticando e ignorando del tutto che essa non può essere considerata separatamente dal suo carattere diveniente, “temporale”, mutante, precario, 363 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

instabile, mai definitivo. Le filosofie, ossia tutte le metafisiche e le varie interpretazioni teologiche, che esaltano l’immutabilità, l’ordine, la necessità, la razionalità, e quindi la perfezione incontrovertibile della realtà, hanno il demerito di soffocare e impedire l’agire responsabile dell’essere umano. Presumendo di garantirgli metafisicamente un ordine e una razionalità indefettibile, queste filosofie presentano tale ordine e razionalità come un qualcosa di già dato, di definitivo, di eterno. La qual cosa implica che non è affatto necessario e decisivo che l’uomo si impegni fattivamente, che si responsabilizzi attivamente al fine di costruire da sé, con le proprie mani e con la propria mente, con la sua azione e il suo pensiero, una realtà ordinata e razionale, nella quale vivere. Dire che la realtà è essenzialmente “temporale”, che essa è divenire, che è fluida, aperta, instabile, articolata, multidirezionale, significa affermare che nessun evento è sottratto alla minaccia della distruzione, che nessun evento è sottratto alla dissoluzione, alla fine inevitabile, al tramonto insopprimibile. A nessuna cosa è garantita una sussistenza e uno sviluppo eterno. Prende piede, dunque, una visione dell’esistenza nient’affatto facile e serena. L’uomo è costretto a vivere in un mondo che si presenta ostile, problematico, pieno di rischi, di insidie, di difficoltà e pericoli spesso mortali. “L’uomo si trova a vivere in un mondo aleatorio; la sua esistenza implica, per dirla crudamente, un azzardo. Il mondo è la scienza del rischio; è incerto, instabile, terribilmente instabile”. La realtà, oltre che “temporale”, è “interazionale”: gli eventi del mondo (umano e naturale) nascono e si costituiscono in stretta relazione gli uni con gl’altri, sono irrelati tra loro intrinsecamente. Ogni evento della realtà nasce insieme o grazie o dopo ad un altro, ma non in base ad una forza o mente esterna che dal di fuori di essi diriga tali operazioni e connessioni, bensì perché la costituzione degli eventi (e quindi della realtà stessa) possiede questa 364 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Pragmatismo: Charles Sanders Peirce; William James; John Dewey

precisa caratteristica, questo preciso modo di manifestarsi (sorgere, costituirsi). Ciò che Dewey intende affermare è soprattutto il carattere “interazionale” che esiste tra l’uomo e l’ambiente, tra l’individuo e la natura, tra l’umanità e il mondo. Tra questi fattori (uomo e ambiente) vi è una relazione (interazione) dinamica, che fa sì che l’uomo è ciò che è solo nella e grazie alla sua relazione col mondo e viceversa. Non vi sono due entità autonome, incomunicabili e contrapposte l’una all’altra. Non v’è il mondo naturale da una parte e quello umano dall’altra, perché per quanto minacciosa e caotica la natura si presenti, ciò non significa che i rimedi che l’uomo crea e adopera contro di essa siano creati e adoperati in una dimensione altra rispetto al mondo sensibile. L’uomo vive e agisce nel mondo, avanza e costruisce la propria vita in esso, a stretto contatto con esso. Non esiste la natura senza uomo né l’uomo senza questa. Egli è immerso nella natura, nel mondo, nella realtà, e tuttavia è capace e destinato a modificare e dare un significato a questa natura, a questo mondo, a questa realtà. Nulla è dato immediatamente, in quanto tutto è costruito nel tempo, nel corso del quale ogni cosa appare come continuamente diveniente. Ogni cosa è costruita nel tempo e in una sorta di spazio comune e omogeneo: ogni cosa si trova legata all’altra come in un tutto organico e multiforme, dov’è impossibile scindere la materia del mondo dallo spirito dell’uomo, l’oggetto dal soggetto, la cultura dalla natura, il negativo dal positivo, l’essere dal non essere. L’intelligenza quale unica difesa per la sopravvivenza Per Dewey è comunque innegabile che la realtà umana, a differenza del mondo esterno (natura), è caratterizzata da una certa razionalità, da un ordine logico, da una conoscenza ordinata delle cose e ordinante le cose. Viene allora 365 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

da chiedersi in che modo e grazie a cosa l’uomo, a dispetto del disordine e del caos della realtà empirica, sia riuscito e riesce a costruirsi un mondo a suo modo razionale, ordinato, sensato e significante. Ebbene, ciò che rende possibile la creazione del senso e dell’ordine, e quindi ciò che rende possibile all’uomo di vivere e agire in un mondo ordinato e sensato, è esclusivamente la sua “intelligenza”. Secondo Dewey l’intelligenza umana è emersa e si è affermata per scopi operativi e pratici. Tali scopi si traducono nel riordinare le situazioni precarie e instabili della realtà esterna al fine di “costruire” una nuova situazione dotata di caratteristiche più favorevoli (meno caotiche, meno instabili, meno insensate), in modo da poter vivere in un mondo dotato di maggiori possibilità e spazi (materiali e spirituali) per l’azione concreta dell’uomo. L’intelligenza, il pensiero, la ragione è dunque lo “strumento” principe mediante il quale l’uomo, nel corso della storia, ha costruito, passo dopo passo, il mondo nel quale vive, rendendolo sempre migliore, sempre più efficiente e funzionale alle richieste e ai bisogni umani. Per tale concezione Dewey conia il nome di “strumentalismo”, e tutto il suo pensiero poggia su questa interpretazione strumentalista della mente umana. Egli è fermamente convinto che la coscienza e l’intelligenza sono le forme più alte e raffinate di comportamento capace di assicurare all’uomo la realizzazione dei suoi bisogni come dei suoi desideri, capace di proteggerlo dalle insidie del mondo esterno, dalle minacce della realtà circostante, e capace di consentirgli uno sviluppo organico, armonioso e unitario della sua vita. L’operazione fondamentale dell’intelligenza è quella di reagire ad una situazione difficile e pericolosa che ci si staglia di fronte nella realtà empirica. L’intelligenza reagisce alle difficoltà e ai pericoli del mondo esterno selezionando i vari aspetti minacciosi di un’eventuale “situazione limite” e, allo stesso tempo, selezionando gli aspetti che possono consentire in modo opportuno di porvi rimedio. 366 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Pragmatismo: Charles Sanders Peirce; William James; John Dewey

Poniamo di trovarci in una situazione assai difficile e pericolosa, per esempio nel bel mezzo di un incendio estivo di proporzioni notevoli. L’incendio, dopo aver bruciato l’intera vallata dalla parte destra, con la sua furia distruttrice e impietosa coinvolge anche la nostra casa con noi dentro. La nostra intelligenza – ovviamente se ci affidiamo ad essa e non ci lasciamo prendere dal panico che non rende possibile nessuna operazione (mentale o fisica che sia) – ci rende subito coscienti della pericolosità che le numerose bombole di gas situate a pianoterra rappresentano data la situazione rovente. Allo stesso tempo ci prospetta la possibilità di abbandonare la casa, uscendo dalla botola posta in soffitta, in modo da cercare, una volta sul tetto, una via possibile per abbandonare la casa – ovviamente scegliendo di andare dalla parte sinistra (altra informazione intelligente, visto che a destra le fiamme imperversano senza sosta) –, prima che le fiamme, incontrando le suddette bombole, facciano saltare in aria sì la nostra casa, ma non con noi dentro. Usando l’intelligenza abbiamo evitato la morte, abbiamo superato la situazione difficile, e, portando in salvo la nostra pelle, abbiamo in un certo senso costruito o quanto meno garantito e assicurato la nostra sussistenza (sopravvivenza) fisica. Certo Dewey non usa questo esempio per spiegare la sua teoria strumentalista, ma ciò non toglie che esso può essere utile per farci comprendere quanto l’intendere la nostra intelligenza come dotata e caratterizzata da tale operatività pratica, costruttiva e previdente, capace di garantirci una sussistenza fisica in un mondo che si presenta sempre come minaccioso e ostile, sconfessa in massimo modo ogni concezione (filosofica e scientifica) che consideri l’esperienza come un insieme di “dati in sé”, ossia come un insieme di “dati puri” che non possono essere in nessun modo interessati dalle operazioni strumentali della nostra intelligenza. 367 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

La nostra intelligenza è quello strumento capace di utilizzare in modo razionale certi “mezzi” per pervenire a determinati “fini”: essa è “indagine” e “ricerca” dei mezzi adatti necessari per pervenire a determinati risultati e fini. La conoscenza incarna un preciso processo di “indagine”, il quale ha per proprio fine il miglior adattamento possibile all’ambiente circostante. La conoscenza (il “pensiero riflessivo”) ha dunque un carattere pratico, ed è una vera conoscenza quella che ci permette di realizzare con successo il fine principale della nostra esistenza, che è quello di risolvere alla meglio e con i “mezzi” più adatti i vari problemi, le minacce, i “disturbi”, i conflitti e le difficoltà posti sia dall’ambiente umano-sociale che da quello naturale-materiale. Così Dewey: “la funzione del pensiero riflessivo è quella di trasformare una situazione nella quale si abbiano esperienze caratterizzate da oscurità, dubbio, conflitto, comunque insomma disturbate, in una situazione che sia chiara, coerente, ordinata, armoniosa”. La razionalità scientifica, col suo metodo sperimentale, non fa che approfondire e perfezionare questo carattere operativo della mente umana che appartiene a tutti gli esseri umani, ossia, “la scienza, nel senso specializzato, è un’elaborazione di operazioni quotidiane, anche se questa elaborazione assume spesso un carattere molto tecnico”. La scienza, dunque, “ha il suo necessario punto di partenza negli oggetti qualitativi, nei processi e negli strumenti del senso comune, che è il mondo dell’uso e delle fruizioni e delle sofferenze concrete”, ma poi “pian piano, mediante processi più o meno tortuosi e inizialmente privi di una linea direttiva, si formano e vengono trasmessi determinati procedimenti e strumenti tecnici. Si vengono raccogliendo informazioni sulle cose, sulle loro proprietà e comportamenti, indipendentemente da ogni particolare applicazione immediata. Ci si allontana sempre più dalle originarie situazioni d’uso e di funzioni immediate”. La scienza, secondo Dewey, pur meritando il plauso per i suoi risultati teo368 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Pragmatismo: Charles Sanders Peirce; William James; John Dewey

rici e tecnici, non deve perdersi in perfezionamenti sterili e risultati non sostanziali, in ricerche estremamente specializzate e poco inerenti alla realtà. La scienza, in breve, non deve allontanarsi dal fornire quei risultati eminentemente pratici che da lei, come da ogni “idea”, come da ogni conoscenza, sono richiesti. Le idee, siano esse logiche o scientifiche, sono sempre in funzione di problemi reali – che siano questi dei problemi materiali, o culturali, o spirituali, o artistici, questo poco importa, in quanto sempre di problemi reali e vitali si tratta. Soprattutto, la scienza, come ogni altra forma di sapere, non deve mai dimenticare che, secondo il dettato del pragmatismo, è sempre e solo la pratica a decidere il valore di una idea, è sempre e solo dalle sue conseguenze effettive rivelabili nel futuro che una determinata conoscenza merita il nome di vera conoscenza.

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PAGINE ANTOLOGICHE

Caratteri generali del pragmatismo Il pragmatismo è la forma che ha assunto, nella filosofia contemporanea, la tradizione classica dell’empirismo inglese. La via seguita dall’empirismo classico consisteva nello spiegare la validità di una conoscenza riportando la conoscenza stessa alle condizioni empiriche che l’hanno determinata; e di avviare perciò un’analisi dell’esperienza diretta a rintracciare queste condizioni. Per Locke come per Hume, per Hume come per Stuart Mill, una proposizione può ritenersi vera e, in generale, un qualsiasi prodotto dell’attività umana può ritenersi valido, soltanto se gli elementi da cui risulta sono rintracciabili nell’esperienza e sono connessi secondo un ordine che è quello stesso dell’esperienza. E l’esperienza è in questo contesto una progressiva accumulazione e registrazione di dati nonché l’organizzazione o la sistemazione di essi. Con ciò l’esperienza cui l’empirismo classico faceva riferimento era, sostanzialmente, l’esperienza passata: costituiva un patrimonio concluso che si può inventariare e sistemare in modo esauriente e definitivo. Per il pragmatismo, l’esperienza è sostanzialmente apertura verso il futuro: l’aspetto anticipatorio e progettante la caratterizza in modo primario. L’analisi dell’esperienza non è pertanto l’inventario di un patrimonio accumulato ma la previsione o l’anticipazione degli sviluppi o dell’utilizzazione possibile di questo patrimonio. Da questo punto di vista una “verità” è tale non perché confrontabile con i dati accumulati dall’esperienza passata ma perché suscettibile di un uso qualsiasi nell’esperienza futura. La previsione di quest’uso, la determinazione 371 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

dei suoi limiti, delle sue condizioni e dei suoi effetti, costituisce il significato della verità stessa. In questo senso, la tesi fondamentale del pragmatismo è che ogni verità è una regola d’azione, una norma per la condotta futura: intendendosi per “azione” e per “condotta futura” ogni specie o forma di attività sia conoscitiva che pratica, sia emotiva che estetica. (N. Abbagnano, Storia della filosofia, volume 5, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2006, pp. 327-328) Il clima pragmatistico della filosofia contemporanea Col pragmatismo (dalla parola greca prágma, “azione”) giunge a maturazione un atteggiamento largamente presente nel pensiero filosofico della seconda metà del XIX secolo: l’affermazione del carattere essenzialmente pratico della conoscenza. Sin dalla sua nascita la filosofia presenta se stessa come la salvezza autentica dell’uomo, perché essa sola è in grado di conoscere la verità, il vero senso del mondo. Ponendosi come epistéme, la filosofia ritiene che la propria efficacia pratica, la propria capacità di guidare la vita dell’uomo, dipenda dalla propria potenza conoscitiva. Nella filosofia contemporanea, invece, si fa sempre più largo la convinzione che la cosiddetta potenza conoscitiva del pensiero filosofico sia soltanto un grande strumento, un espediente particolarmente complesso e raffinato, col quale l’uomo tenta di trovare un rimedio contro la minaccia del divenire. L’epistéme, e tutti gli atteggiamenti pratici e conoscitivi che attorno a essa si raccolgono, non ha svelato la verità del mondo, ma la sua pretesa di conoscere la verità ha consentito a un certo tipo di umanità di sopravvivere. Questo tema è presente con forza particolare in Nietzsche (che al termine epistéme preferisce il termine “morale”). Ma già Marx aveva rivelato che il pensiero filosofico, come ideologia e sovrastruttura, non mostra la verità del mondo, ma è determinato dall’azione, cioè dal bisogno pratico delle classi dominanti di rafforzare e far sopravvivere il loro dominio con una rappresentazione del mondo che assegni a tale dominio una funzione insostituibile. Non solo, ma anche l’approfondimento del significato della scienza moderna conduce a una situazione analoga: alla interpretazione tradizionale, che attribuisce alla scienza 372 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Pragmatismo: Charles Sanders Peirce; William James; John Dewey: pagine antologiche

moderna la capacità di conoscere strutture definitive, vere e incontrovertibili delle realtà naturale […], subentra la consapevolezza che nemmeno le scienze naturali e matematiche possono avere le caratteristiche dell’epistéme e che dunque esse sono strumenti di trasformazione del mondo, i più potenti di cui l’uomo abbia mai disposto. Anche i concetti scientifici hanno cioè una forma pratica, ossia non hanno il compito di svelare la verità dell’universo. (E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo, III volume (la filosofia contemporanea), BUR, Milano 2007, pp. 243-244) Charles Sanders Peirce: dubbio e ricerca L’oggetto del ragionamento è di trovare, a partire dalla considerazione di ciò che già conosciamo, qualcosa che non conosciamo. Di conseguenza il ragionamento è buono se è tale da darci una conclusione vera a partire da premesse vere, altrimenti non lo è. Così, la questione della validità è soltanto una questione di fatto e non di pensiero. Se A è la premessa e B la conclusione, la questione è se i fatti sono realmente correlati in modo che se A è, B è. Se è così, l’inferenza è valida; se non è così, non lo è. […] Senza dubbio, noi siamo per lo più animali logici, ma non lo siamo mai perfettamente. La maggior parte di noi, per esempio, è per natura più ottimista e fiduciosa di quanto la logica giustificherebbe. Sembra che noi siamo costituiti in modo tale che, nell’assenza di ogni fatto su cui basarci, siamo felici e soddisfatti di noi stessi; così che l’effetto dell’esperienza è di controbilanciare continuamente le nostre speranze e aspirazioni. […] Là dove la speranza non è controllata dall’esperienza, il nostro ottimismo è probabilmente stravagante. […] Ciò che ci determina a trarre da date premesse un’inferenza piuttosto che un’altra, è un abito della mente, sia esso costituzionale o acquisito. L’abito è buono o non è buono, a seconda se produce o non produce conclusioni vere da vere premesse; e l’inferenza è considerata come valida o no, senza riferimento alla verità o alla falsità specialmente della sua conclusione, a seconda se l’abito il quale la determina è tale da produrre o no, in generale, conclusioni vere. […] Generalmente noi sappiamo quando desideriamo porre una do373 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

manda e quando desideriamo pronunciare un giudizio, perché vi è una differenza fra la sensazione di dubitare e quella di credere. Ma ciò non è tutto quello che distingue il dubbio dalla credenza. Vi è una differenza pratica. Le nostre credenze dirigono i nostri desideri e formano le nostre azioni. Gli Assassini, o seguaci del Vecchio della Montagna, si precipitavano verso la morte al minimo comando di lui, perché credevano che l’obbedienza al Vecchio avrebbe loro assicurato eterna felicità. Se avessero dubitato di questo, non avrebbero agito come agivano. Lo stesso accade per ogni credenza, in conformità col suo grado. Il sentimento di credere è un’indicazione più o meno sicura dello stabilirsi, nella nostra natura, di qualche abito che determinerà le nostre azioni. Il dubbio non ha mai questo effetto. […] Il dubbio è uno stato di irrequietezza e insoddisfazione contro il quale lottiamo per liberarcene e passare nello stato della credenza; mentre quest’ultimo è uno stato di calma e di soddisfazione che non desideriamo evitare o mutare per credere in qualche altra cosa. Al contrario, noi ci aggrappiamo tenacemente non soltanto a credere, ma a credere proprio ciò che crediamo. Così, sia il dubbio che la credenza hanno effetti positivi su di noi, per quanto si tratti di effetti assai diversi. La credenza non ci fa agire immediatamente ma ci pone in condizione di comportarci in una certa maniera, quando l’occasione sorge. Il dubbio non ha nessun effetto di questa sorta, ma ci stimola all’azione finché esso è distrutto. […] L’irritazione del dubbio causa una lotta per ottenere uno stato di credenza. Devo chiamare questa lotta ricerca, per quanto si debba ammettere che qualche volta questa designazione non è molto adatta. L’irritazione del dubbio è il solo motivo immediato della lotta per raggiungere la credenza. Certamente la cosa migliore per noi è che le nostre credenze siano tali da poter guidare veramente le nostre azioni e così soddisfare i nostri desideri; e questa riflessione ci farà rigettare ogni credenza che non sembri formata in vista di assicurarci questo risultato. Ma questo avverrà solo mediante la creazione di un dubbio al posto di una tale credenza. Col dubbio perciò la lotta comincia, e termina con la cessazione del dubbio. Quindi il solo oggetto della ricerca è lo stabilirsi di un’opinione. Possiamo immaginare che questo non ci basti e che noi cerchiamo non solo un’opinione, ma un’opinione vera. […] 374 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Pragmatismo: Charles Sanders Peirce; William James; John Dewey: pagine antologiche

Ed è chiaro che niente fuori della sfera della nostra conoscenza può essere un nostro oggetto, perché ciò che non colpisce la mente non può essere la causa di uno sforzo mentale. Tutto ciò che si può sostenere è che noi andiamo in cerca di una credenza che dobbiamo pensare che sia vera. Ma di ciascuna delle nostre credenze pensiamo che sia vera, e il dir questo, infatti, è una semplice tautologia. (C. S. Peirce, Il fissarsi della credenza, in Scritti scelti, a cura di G. Maddalena, UTET, Torino 2008, pp. 188-189, 191-192) Il metodo scientifico Per soddisfare i nostri dubbi è necessario che sia trovato un metodo in virtù del quale le nostre credenze possano essere causate non da fattori umani ma da qualche uniformità esterna, da qualcosa su cui il nostro pensiero non ha effetto. Alcuni mistici immaginano di possedere tale metodo sotto forma di una privata ispirazione dall’alto. Ma questa è solo una forma del metodo della tenacia nel quale la concezione della verità come qualcosa di pubblico non si è ancora sviluppata. L’uniformità esterna non sarebbe esterna, nel nostro senso, se la sua influenza fosse ristretta a un solo individuo. Deve essere qualche cosa che agisce, o può agire, su ogni uomo. E per quanto queste azioni siano necessariamente diverse così come lo sono le concezione individuali, il metodo, tuttavia, dev’essere tale che la conclusione ultima di ogni uomo sia la stessa. Tale è il metodo della scienza. La sua ipotesi fondamentale, espressa in linguaggio familiare, è questa: vi sono cose reali i cui caratteri sono completamente indipendenti dalle opinioni che noi ci formiamo intorno a essi; queste realtà colpiscono i nostri sensi secondo leggi regolari; e per quanto le nostre sensazioni siano diverse come diverse sono le nostre relazioni con gli oggetti, utilizzando le leggi della percezione, noi possiamo accertare col ragionamento come le cose realmente sono e ogni uomo, se ha esperienza sufficiente e ragiona abbastanza su di essa, sarà condotto a un’unica conclusione vera. La nuova concezione qui implicita è quella della realtà. Si può domandare come io so che vi siano realtà. Se quest’ipotesi è l’unico sostegno del mio metodo di ricerca, il mio metodo di ricerca non dev’essere adoperato per sostenere la mia ipotesi. 375 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

La risposta è questa: 1)  Se l’indagine non prova che vi sono cose reali, neppure conduce alla conclusione contraria; ma il metodo e la concezione sulla quale esso è fondato rimangono sempre in armonia. Nessun dubbio sul metodo sorge perciò necessariamente dalla pratica di esso come invece accade per gli altri. 2)  Il sentimento che dà origine a un metodo per fissare credenze è l’insoddisfazione prodotta da due proposizioni contrastanti. Ma qui vi è già la vaga concessione che vi è un’unica cosa alla quale una proposizione deve conformarsi. Nessuno può quindi realmente dubitare che vi siano realtà; o, se dubita, il dubbio non sarà fonte di insoddisfazione. L’ipotesi pertanto è quella che ogni mente ammette. Perciò l’impulso sociale non mi porta a dubitare di essa. 3)  Ognuno usa il metodo scientifico rispetto a moltissime cose e cessa di usarlo solo quando non sa come applicarlo. 4)  L’esperienza del metodo non mi ha condotto a dubitare di esso, anzi l’indagine scientifica ha avuto splendidi trionfi proprio come via per fissare opinioni. Questi trionfi spiegano perché io non dubiti del metodo e dell’ipotesi che esso presuppone; e non avendo dubbi, e non credendo che ne abbiano altre persone che io possa influenzare, sarebbe per me una chiacchiera inutile dir di più su questo argomento. Se qualcuno ha un dubbio vivente su di esso, ci pensi sopra. […] È vero che anche gli altri metodi hanno i loro meriti: una chiara coscienza logica ci costa fatica – proprio come qualsiasi altra virtù, come tutto ciò che teniamo caro. Ma non dovremmo desiderare che le cose stessero diversamente. Lo spirito del metodo logico di un uomo dovrebbe essere amato e riverito come la sua sposa, che egli ha scelta fra tutte. Non occorre che egli condanni le altre; al contrario, può rispettarle profondamente, e così facendo egli rispetta di più la propria. Ma essa è colei che egli ha scelto e sa di aver avuto ragione facendo quella scelta. E avendola fatta, egli lavorerà e lotterà per lei, e non si lamenterà se ci sono colpi da incassare, sperando che ve ne siano altrettanti da restituire, e si sforzerà di essere il degno paladino e campione di colei dai cui splendori egli trae la sua ispirazione e il suo coraggio. (C. S. Peirce, Il fissarsi della credenza, in Scritti scelti, cit., pp. 199-200, 203) 376 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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A che serve pensare? Il pensiero è un filo di melodia che corre attraverso la successione delle nostre sensazioni. Possiamo aggiungere che come un pezzo di musica può essere scritto in varie parti, ognuna avente il suo motivo, così diversi sistemi di rapporti di successione sussistono allo stesso tempo fra le stesse sensazioni. Questi differenti sistemi si distinguono perché hanno differenti motivi, idee, o funzioni. Il pensiero è solo uno di tali sistemi, giacché il suo unico motivo, idea e funzione è di produrre la credenza, e tutto ciò che non si riferisce a quello scopo appartiene ad un altro sistema di relazioni. L’azione del pensiero può incidentalmente avere altri risultati. Per esempio, può servire per divertirci, e non è raro di trovare persone che hanno pervertito il pensiero per divertimento al punto che sembrano irritate dal pensare che le questioni che si deliziano a dibattere possano essere finalmente risolte; e una scoperta positiva che toglie un argomento favorito dall’arena dei dibattiti letterari è salutata con malcelato disappunto. Questa disposizione è un’autentica débauche del pensiero. Ma l’anima e il significato del pensiero, astratti dagli altri elementi che li accompagnano, sebbene possano essere volontariamente frustrati, non potranno mai dirigersi se non verso la produzione della credenza. Il pensiero in azione ha come unico motivo possibile il raggiungimento del pensiero in riposo; e tutto ciò che non si riferisce alla credenza non fa parte del pensiero stesso. Che cosa, dunque, è la credenza? È la mezza cadenza che chiude una frase musicale nella sinfonia della nostra vita intellettuale. Abbiamo visto che ha tre proprietà: 1) è qualcosa di cui ci rendiamo conto; 2) acquieta l’irritazione del dubbio; 3) implica lo stabilirsi nella nostra natura di una regola d’azione, o, per dirla in breve, di un abito. Mentre acquieta l’irritazione del dubbio, che è il motivo per pensare, il pensiero si rilassa, e si ferma in riposo per un momento quando la credenza è raggiunta. Ma dal momento che la credenza è una regola per l’azione, l’applicazione della quale implica ulteriori dubbi e pensieri, nello stesso tempo in cui essa è un punto d’arrivo, è anche un punto di partenza per il pensiero. Ed è per questo che mi sono permesso di chiamarla pensiero in riposo, sebbene il pensiero sia essenzialmente un’azione. L’esito finale del pensare è 377 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

l’esercizio della volizione, e di questo il pensiero non fa più parte; ma la credenza è solo uno stadio dell’azione mentale, un effetto del pensiero sulla nostra natura, il quale effetto influenzerà il futuro pensare. L’essenza della credenza è lo stabilirsi di un abito e differenti credenze si distinguono per i differenti modi d’azione che fanno sorgere. Se le credenze non differiscono in questo rispetto, se acquietano lo stesso dubbio producendo la stessa regola d’azione, allora mere differenze nella maniera di percepirle non ne fanno credenze differenti, non più che il suonare una stessa melodia in diverse chiavi ne faccia diverse melodie. […] L’intera funzione del pensiero è di produrre abiti d’azione; e qualunque cosa connessa con un pensiero ma non pertinente al suo scopo è un’aggiunta a esso ma non parte di esso. Se vi è un’unità fra le nostre sensazioni che non si riferisce al come ci comporteremo in una data occasione – per esempio quando ascoltiamo un pezzo di musica – ebbene, questo non si chiama pensare. Per sviluppare il significato di una cosa non dobbiamo far altro, dunque, che determinare quali abiti essa produce, giacché quello che una cosa significa è semplicemente l’abito implicato da essa. L’identità di un abito dipende dal come esso ci porterà ad agire, non solamente nelle circostanze che probabilmente sorgeranno, ma anche in quelle, per improbabili che siano, che possono sorgere. Dipende, in altre parole, da quando e da come ci porterà ad agire. Per ciò che riguarda il quando, ogni stimolo di azione è derivato dalla percezione; e per ciò che riguarda il come, lo scopo dell’azione è produrre qualche risultato sensibile. Così dobbiamo scendere al tangibile e al pratico, per trovare la radice di ogni vera distinzione di pensiero per sottile che sia; e non vi è distinzione di significato, per fine che sia, che possa consistere in altro che in una possibile differenza pratica. […] Appare, dunque, che la regola per raggiungere il grado di chiarezza d’apprensione è come segue: considerare quali effetti, che possono concepibilmente avere portate pratiche, noi pensiamo che l’oggetto della nostra concezione abbia. Allora la concezione di questi effetti è l’intera nostra concezione dell’oggetto. (C. S. Peirce, Come rendere chiare le nostre idee, in Scritti scelti, cit., pp. 211-215)

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William James: la vita ha il valore che decidiamo di dargli Sembra a me che la questione se valga la pena di vivere è soggetta a condizioni logicamente assai simili a queste. Dipende, in realtà, da voi che vivete. Se voi vi arrendete alla visione tragica e coronate il triste edificio col vostro suicidio, avete in realtà fatto un quadro totalmente nero. Il pessimismo completato dal vostro atto, è fuor di dubbio vero, per tutto il vostro mondo in lungo e in largo. […] Ma supponete, d’altro lato, che invece di dar adito alla visione tragica voi vi aggrappiate alla certezza che questo mondo non è l’ultimatum. […] Supponete, per quanto infittiscano su di voi i mali, che la vostra indomabile individualità dimostri di saperli combattere, e che voi troviate una gioia più meravigliosa di quella che possa dare qualsiasi piacere passivo nel credere sempre ad un tutto più vasto. Non avete voi così dato valore alla vita? Che sorta di roba sarebbe mai la vita, con le vostre energie pronte ad una lotta con essa, se portasse soltanto buon tempo e non desse campo a queste vostre più alte facoltà? Ricordatevi, vi prego, che ottimismo e pessimismo sono definizioni del mondo, e che le nostre proprie reazioni su di esso, per quanto piccole di volume, sono parti integranti del tutto e contribuiscono necessariamente a determinare la definizione. […] La vita è degna di essere vissuta, possiamo dire, perché essa è quale noi la facciamo, dal punto di vista morale; e noi siamo decisi a farla un successo da quel punto di vista, per quel che è nelle nostre possibilità. Ora, in questa descrizione delle fedi che producono la loro verificazione, io ho ammesso che la nostra fede in un ordine invisibile è ciò che ispira quegli sforzi e quella sopportazione che rendono buono questo ordine visibile per uomini morali. La nostra fede nella bontà del mondo visibile (bontà significando ora adeguatezza al successo della vita morale e religiosa) ha verificato se stessa basandosi sulla nostra fede nel mondo invisibile. Ma la nostra fede nel mondo invisibile verificherà similmente se stessa? Chi sa? Una volta ancora è il caso del può-essere; ed una volta ancora i può essere sono l’essenza della situazione. Confesso che non vedo perché proprio l’esistenza di un mondo invisibile non possa dipendere in parte dalla personale risposta che ciascuno di noi darà all’esigenza 379 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

religiosa. Dio stesso, insomma, può ricevere forza vitale ed aumento della sua stessa esistenza dalla nostra fede. Per conto mio, non so che cosa possano significare il sudore e il sangue e la tragicità di questa vita, se non qualcosa di questo genere. Se questa vita non è una vera lotta, nella quale colla vittoria qualcosa si conquista per l’eternità all’universo, essa non è che una rappresentazione teatrale, dalla quale uno può allontanarsi a piacere. Ma si sente che è una vera lotta – come se ci fosse qualcosa di realmente selvaggio nell’universo che noi, con tutte le nostre idealità e la nostra fede operante, dobbiamo redimere; e prima di tutto redimere i nostri cuori dall’ateismo e dalla paura. Per un universo di questo genere, mezzo barbaro e mezzo redento, è adattata la nostra natura. […] Queste, dunque, sono le mie ultime parole a voi: Non temete la vita. Credete che vale la pena di vivere, e la vostra fede contribuirà a creare il fatto. La “prova scientifica” che avete ragione non può essere evidente prima che il giorno del giudizio (o in genere un piano di esistenza che questa espressione serve a simboleggiare) sia giunto. […] Il problema di avere convinzioni morali o non averne è deciso dalla nostra volontà. Sono le nostre preferenze morali vere o false, oppure sono esse soltanto fenomeni biologici anormali, che fanno le cose buone o cattive per noi, mentre in se stesse sono indifferenti? Come può decidere il vostro puro intelletto? Se il vostro cuore non aspira ad un mondo di realtà morale, la vostra testa certamente non vi farà mai credere in esso. Lo scetticismo mefistofelico, infatti, soddisferà i capricci della testa assai meglio di quanto possa fare un rigoroso idealismo. […] Ci sono dunque dei casi in cui un fatto non può neppure avvenire senza che esista una fede preliminare nella sua venuta. E quando la fede in un fatto può contribuire a creare il fatto, sarebbe una logica insana quella che sostenesse che la fede che precorre l’evidenza scientifica è “la più bassa specie di immoralità” in cui possa cadere un essere pensante. E tuttavia tale è la logica colla quale i nostri assolutisti scientifici pretendono di regolare le nostre vite! (W. James, La volontà di credere, Principato, Milano 1970, pp. 65-67 e 38-41)

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John Dewey e le tante facce dell’esperienza L’esperienza è qualcosa di completamente diverso dalla “coscienza”, che è ciò che appare qualitativamente e focalmente a un particolare momento. L’uomo comune non ha bisogno che gli si ricordi che l’ignoranza è uno dei principali aspetti dell’esperienza; e che tali sono le abitudini alle quali ci abbandoniamo senza coscienza, tanto esse agiscono in modo abile e sicuro. Tuttavia l’ignoranza, l’abitudine, il radicarsi fatale nel passato, sono proprio le cose che il sedicente empirismo, con la sua riduzione dell’esperienza a stati di coscienza, nega all’esperienza. È importante per una teoria dell’esperienza sapere che in certe circostanze l’uomo ha in pregio ciò che è distinto e chiaramente evidente. Ma non è meno importante sapere che in altre circostanze fiorisce ciò che è crepuscolare, vago, oscuro e misterioso. Che crimini intellettuali siano stati commessi in nome del subcosciente, non è una ragione per rifiutarsi di ammettere che ciò che non è esplicitamente presente costituisce una parte assai più vasta dell’esperienza di quel campo della coscienza al quale i pensatori sono stati così devoti. Quando la malattia o la religione o l’amore o la conoscenza stessa vengono esperimentate, sono coinvolte forze e conseguenze potenziali che non sono direttamente presenti né direttamente implicate. Esse sono “nella” esperienza così veramente come sono presenti malesseri ed esaltazioni. Considerando la parte che l’anticipazione e la memoria della morte ha giocato nella vita umana, dalla religione alle compagnie d’assicurazione, che cosa può dirsi di una teoria che definisce l’esperienza in modo tale da farne logicamente seguire che la morte non è mai materia d’esperienza? L’esperienza non è una corrente, anche se la corrente dei sentimenti e delle idee che scorre alla sua superficie è la parte che i filosofi amano attraversare. L’esperienza include le sponde durature della costituzione naturale e delle abitudini acquisite, oltre che la corrente. Il momento fuggevole è sostenuto da un’atmosfera che non sfugge, anche quando più vibra. Quando diciamo che l’esperienza è un punto di accesso alla spiegazione del mondo nel quale viviamo, intendiamo per esperienza qualcosa che sia vasta, profonda, e piena almeno quanto tutta la storia su questa terra; una storia la quale (poiché la storia non accade nel vuo381 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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to) include la terra e i correlati fisici dell’uomo. Quando assimiliamo l’esperienza alla storia piuttosto che alla fisiologia delle sensazioni, indichiamo che la storia denota insieme le condizioni oggettive, le forze, gli eventi, e la registrazione e la valutazione di questi eventi fatte dall’uomo. L’esperienza denota tutto ciò che è esperimento, tutto ciò che si subisce e si prova, ed anche i processi dello sperimentare. Com’è proprio della storia aver significati detti soggettivi e oggettivi, così è dell’esperienza. Come ha detto William James, essa è un fatto “a doppia faccia”. Senza il sole, la luna, le stelle, le montagne e i fiumi, le foreste e le miniere, il suolo, la pioggia e il vento, la storia non ci sarebbe. Queste cose non sono condizioni esterne della storia e dell’esperienza; fanno integralmente parte di esse. Ma dall’altro lato senza gli atteggiamenti e gli interessi umani, senza la registrazione e l’interpretazione, queste cose non sarebbero storia. Per la filosofia, l’esperienza è un metodo, non un contenuto oggettivo particolare. Ed essa rivela anche quella specie di metodo di cui la filosofia ha bisogno. L’esperienza include i sogni, la pazzia, la malattia, la morte, il lavoro, la guerra, la confusione, l’ambiguità, la menzogna e l’errore; include i sistemi trascendentali come gli empirici; la magia e la superstizione come la scienza. Include quell’inclinazione che impedisce d’imparare dall’esperienza, come l’abilità che trae partito dai suoi più deboli cenni. Questo fatto condanna senz’altro ogni filosofia che professa di essere empirica e tuttavia ci assicura che alcuni speciali contenuti oggettivi sono esperienza e altri non lo sono. Quando gli svariati costituenti del vasto universo, ciò che è sfavorevole, precario, incerto, irrazionale, odioso, riceverà la stessa attenzione che è accordata a ciò che è nobile, onorevole e vero, allora la filosofia potrà forse fare a meno del concetto di esperienza. Ma in attesa di questo giorno, abbiamo bisogno di una parola prudenziale e direttiva, come esperienza, per ricordare a noi stessi che il mondo che è vissuto, sofferto e goduto tanto quanto è logicamente pensato, ha l’ultima parola in tutte le ricerche e congetture umane. (J. Dewey, Esperienza e natura, Paravia, Torino 1967, pp. 4-7)

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Friedrich Nietzsche

Noi, aeronauti dello spirito! – Tutti questi temerari uccelli che volano là in lontananza, in estrema lontananza, – di sicuro! a un certo punto non potranno più andar oltre e si appollaieranno sull’albero di una nave o su un piccolo scoglio – e grati per giunta di questo misero rifugio! Ma a chi sarebbe lecito trarne la conclusione che dinanzi a loro non c’è più nessuna immensa, libera via, che essi sono volati tanto lontano quanto si può volare! Tutti i nostri grandi maestri e precursori hanno finito per arrestarsi, e non è il gesto più nobile e leggiadro quello con cui la stanchezza si arresta: anche a me e a te accadrà così! Ma cosa importa di me e di te! Altri uccelli voleranno oltre! Questa nostra consapevolezza e fiducia spicca il volo con essi facendo a gara nel volare in alto, sale a picco sul nostro capo e oltre la sua impotenza, lassù in alto, e di là guarda nella lontananza, antivede stormi d’uccelli molto più possenti di quel che siamo noi, che aneleranno quel che noi anelammo, in quella direzione dove tutto è ancora mare, mare, mare! – E dove vogliamo dunque arrivare? Al di là del mare?Dove ci trascina questa potente brama, che per noi è più forte di qualsiasi altro desiderio? Perché proprio in questa dire383 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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zione, laggiù dove fino ad oggi sono tramontati tutti i soli dell’umanità? Si dirà forse un giorno di noi che, volgendo la prua a occidente, anche noi speravamo di raggiungere le Indie, - ma che nostro destino fu quello di naufragare nell’infinito? Oppure, fratelli miei? Oppure? – Nietzsche

F. W. Nietzsche: vita e opere Friedrich Wilhelm Nietzsche nasce a Röcken, villaggio della Prussia meridionale nei pressi di Lipsia, il 15 ottobre 1844. Studia lettere classiche e religione, legge Goethe, Hölderlin e Byron. Frequenta il ginnasio e nel 1864 si iscrive alla facoltà di teologia dell’Università di Bonn; l’anno dopo si trasferisce alla Università di Lipsia, per seguire le lezioni del suo professore di filologia classica. Studia Platone, Emerson e Schopenhauer. Nell’ottobre del 1867 comincia il servizio militare, ma l’anno seguente un grave infortunio allo sterno lo costringe a tornare a Lipsia, dove l’Università lo premia per un saggio sulle fonti di Diogene Laerzio e lo assume come insegnante privato. Nel 1869 ottiene la cattedra di lingua e letteratura greca presso l’Università di Basilea. In quegli anni conosce e frequenta Richard Wagner, con il quale collabora per la stesura dell’autobiografia di quest’ultimo. Allo scoppio della guerra franco-prussiana ottiene l’esonero dall’insegnamento per apportare il suo aiuto come infermiere addetto al trasporto dei feriti; dopo solo una settimana sul campo di guerra si ammala di difterite; dopo essere stato curato, viene rimandato a casa. Nel 1878 decide di abbandonare l’insegnamento per dedicarsi a tempo pieno alla sua attività filosofica. Nel 1888 si trasferisce a Torino, città che amò molto. Probabilmente a causa dell’eccessivo sforzo mentale o forse a causa di una malattia venerea, nel 1889 ebbe la prima crisi di follia in 384 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Friedrich Nietzsche

pubblico. A seguito di numerose altre crisi di follia, sulla cui natura non si riuscì a trovare una spiegazione univoca, fu ricoverato dapprima in una clinica psichiatrica di Basilea per poi essere trasferito a Naumburg, curato dalla madre e dalle sorelle. Portato successivamente nella sua casa di Weimar, vi morì il 25 agosto 1900. Tra le numerose opere, ricordiamo: La nascita della tragedia (1872); Considerazioni inattuali (1873); Umano, troppo umano (1878); Aurora (1881); La gaia scienza (1882); Al di là del bene e del male (1885); Genealogia della morale (1887); Così parlò Zarathustra (1883-1884); Crepuscolo degli idoli (1888); L’anticristo (1888); Frammenti postumi. Il prodigio della coscienza Il pensiero di Nietzsche rappresenta un momento decisivo nel mondo filosofico contemporaneo. La maggior parte dei filosofi contemporanei ha sentito forte la necessità di confrontare il proprio pensiero con quello nicciano, ben consci della ricchezza in esso racchiusa sia per quanto riguarda i risultati critici, che per le nuove interpretazioni riguardanti la vita dell’uomo e il suo modo di esistere nel mondo. Racchiudere in poche pagine l’intero pensiero di qualsiasi filosofo, è spesso operazione altamente difficile, avventata e praticamente impossibile. Ciò vale in special modo per l’opera di Nietzsche, nella quale determinati temi e teorie vengono sottoposti, senza posa, a continue verifiche, a spostamenti di rotta, a ribaltamenti di prospettiva, a improvvisi ritorni di fiamma o a ripensamenti definitivi. Ma ciò non significa che non si possa tracciare, come faremo di seguito e come del resto abbiamo fatto con tutti i filosofi trattati in quest’opera, almeno un quadro generale, nel quale inserire ed evidenziare i momenti, i tratti e le nozioni maggiormente determinanti, che caratterizzano il polie385 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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drico e sfaccettato pensiero di Nietzsche, lasciando poi al lettore l’autentico piacere d’approfondire personalmente la vastità di esso. Non sbagliamo affermando che la “Verità” e il “Senso” del mondo, dell’esistenza, della storia, della civiltà, della morale, dell’arte, della religione, e quindi la verità e il senso della vita presa nel suo insieme, nella sua totalità di espressioni e manifestazioni, vengono dal nostro filosofo sottoposti ad una indagine serrata, lucida e radicale, eseguita con inedita energia, serietà e convinzione incrollabile. In Nietzsche non troviamo mai una analisi fredda, tradizionale, accademica, mai un’esposizione che faccia sfoggio d’una retorica effimera o d’una dotta erudizione compiaciuta e fine a se stessa, in fondo sempre sterile e priva d’ogni pregnanza reale. Non troviamo mai una descrizione caratterizzata da una fantomatica linearità pedissequamente ricercata, da una consequenzialità logicamente ineccepibile, quasi si trattasse di esporre il proprio pensiero sotto forma d’equazione matematica. Il vasto utilizzo della forma aforistica e delle metafore, le invenzioni di ineccepibili chiose condensate in appena un paio di riga a volte, il grande impiego di uno stile personalissimo, che spesso e volentieri strizza l’occhio alla composizione letteraria e poetica, così come la presa di coscienza d’essere un pensatore assolutamente “inattuale” rispetto alla convinzioni e agli interessi filosofici dei suoi contemporanei, fanno di Nietzsche, e della sua corposa opera, un evento assolutamente originale, eclettico ed eccentrico assieme, assolutamente inimitabile, e, soprattutto, decisamente antisistematico. A Nietzsche poco importa presentare un sistema filosofico capace di fornire all’umanità, o più modestamente al mondo filosofico, una verità ultima da inserire nel lungo elenco del sapere epistemico, nel lungo e non poco cangiante elenco delle verità (ritenute) assolute, definitive e quindi immutabili. Al contrario, quel che spinge il nostro filosofo a intraprendere la sua opera di indagine, è più l’in386 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Friedrich Nietzsche

tenzione intima d’analizzare in che modo e perché l’uomo, nel corso della sua lunga e tortuosa storia, sia arrivato a tenere in gran considerazione determinate verità e non altre o nessuna; perché determinati valori, visioni del mondo, teorie metafisiche, posizioni filosofiche, convinzioni storiche, determinati comportamenti morali e interpretazioni religiose. In cosa ha creduto l’uomo, a chi ha affidato la sua salvezza sia essa ultraterrena o semplicemente terrena, davanti a chi si è inginocchiato e umiliato in tutti questi secoli, perché si è ridotto a dire di no alla vita, per quale scopo ultimo ha sacrificato l’esito delle sue azioni come dell’intera sua esistenza? Soprattutto, in che maniera l’uomo è riuscito a sopravvivere, a conservarsi, a resistere in un mondo nel quale la sorda sofferenza, il dissidio imperituro, la lotta continua, l’oscillazione catatonica, incessante e inevitabile tra le vita e la morte, appaiono come i suoi tratti più essenziali ed evidenti: quale rimedio ha trovato l’uomo per sopportare l’orrore, il terrore, l’angoscia e la nausea mortale del divenire, del mondo, della vita? A queste domande fondamentali e decisive Nietzsche intende dare la “sua” risposta. Su questi problemi centrali e basilari intende dare la sua personalissima interpretazione critica, ben conscio che le sue “considerazioni inattuali”, le sue martellate gnoseologiche e le sue potenti illuminazioni filosofiche, un giorno saranno associate “al ricordo di qualcosa di prodigioso, a una crisi come non ve ne furono mai sulla terra, alla più profonda collisione della coscienza”. L’apollineo e il dionisiaco: il sogno e l’ebbrezza Solitamente si suole dividere la prolifica produzione nicciana in tre fasi: la fase giovanile, nella quale troviamo una costante attenzione a temi riguardanti l’arte; una fase centrale, caratterizzata dall’approfondita critica della “morale” (termine che racchiude, come vedremo, tantis387 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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simi temi e aspetti dell’esistenza umana); e la fase della maturità, caratterizzata dalle teorie dell’“eterno ritorno dell’identico” e del “superuomo”. La fase giovanile si apre con un’opera molto affascinate e di innegabile importanza per l’intera produzione di Nietzsche. Essa è La nascita della tragedia1, nella quale si sente tutta l’influenza che la lettura dell’opera fondamentale dell’“educatore” Schopenhauer, autore de Il mondo come volontà e rappresentazione, tra l’altro spesso citato, aveva esercitato sul nostro filosofo. Ne La nascita della tragedia traspare, inoltre, il grande interesse per l’arte del mondo greco, che la conoscenza personale del grande compositore tedesco, Richard Wagner (al quale è dedicata l’opera in questione), contribuì ad alimentare. In questo primo periodo di riflessioni, Nietzsche è “convinto dell’arte come del più alto compito e della vera e propria attività metafisica di questa vita”; arte che, come la vita culturale-spirituale dell’uomo stesso, è generata “attraverso una continua lotta” dei suoi due “sessi”, dei suoi elementi formanti per quanto contrapposti l’uno all’altro: l’“apollineo” e il “dionisiaco”. I nomi “apollineo” e “dionisiaco”, sono presi a prestito da Nietzsche dal mondo degli dèi olimpici dell’antica Grecia, dove troviamo il dio Apollo e il dio Dioniso, divinità artistiche che, come avviene nelle religioni mitiche-politeiste, detengono pari importanza, ossia esistono nel vasto e beato regno degli dèi olimpici “l’uno accanto all’altro”, da pari a pari. Apollo è il dio dell’arte plastica (scultura, architettura) mentre Dioniso è quello della musica (arte non figurativa). Lo sviluppo dell’arte ellenica e di conseguenza della “cultura” e dello spirito umano, per Nietzsche è dato

1   Le citazioni di quest’opera sono tratte da: F. W. Nietzsche, La nascita della tragedia, in Opere 1870/1881, Newton Compton, Roma 2008.

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dall’“aperto dissidio” e dall’antagonismo reciproco di questi due “impulsi così diversi”, di queste due tendenze insopprimibili, di questi due istinti irrefrenabili, di queste due “forze” naturali, che sono appunto l’apollineo e il dionisiaco, i quali, “eccitandosi reciprocamente”, danno vita a “sempre nuove e potenti creazioni per perpetuare in queste” proprio la loro lotta caparbia quanto incessante, e quindi per perpetuare l’arte, la cultura e la vita stessa dell’uomo. Questi due impulsi, l’apollineo e il dionisiaco, formano due mondi artistici tra loro nettamente separati ed eterogenei, ossia il mondo del “sogno” per quanto riguarda l’impulso apollineo e quello dell’“ebbrezza” per l’impulso dionisiaco. Il sogno, come ogni individuo sperimenta da sé, crea la “bella parvenza”, la bellezza surreale, le cosiddette immagini “da sogno”, realtà perfette e serene, immagini “piacevoli e amiche”, ordinate e misurate, armoniose, pacifiche e quiete. Queste sono esattamente le varie “forme di conoscenza dell’apparenza” che nascono dal sogno, sono le immagini fantastiche e illusorie (come ogni “apparenza”) che prendono vita nella nostra mente e che l’arista apollineo rappresenta nelle sue opere plastiche (statue, bassorilievi, templi, ecc.), caratterizzate da forme armoniose, misurate nella composizione, piacevoli allo sguardo, ecc. Tutt’altra cosa è ciò che nasce dagli stati dionisiaci, ossia da quei momenti di ebbrezza – nati dall’“orrore”, dal “rapimento estatico”, dall’“influsso delle bevande narcotiche”, dal “portentoso avvicinarsi della primavera” – nei quali l’uomo “svanisce” la propria soggettività perdendosi in un “totale oblio di sé”. Nelle manifestazioni dionisiache, negl’incantesimi d’ebbrezza esaltata e esaltante, oltre a rinsaldarsi “il legame fra uomo e uomo”, avviene che “anche la natura estraniata, nemica e soggiogata, celebra nuovamente la sua festa di conciliazione con il proprio figlio perduto, l’uomo”. Se l’impulso apollineo, dunque, permette all’uomo 389 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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l’“apparenza” (l’illusione) di mondi armoniosi e pacati, lo scatenamento dionisiaco, invece, permette all’uomo di riconciliarsi con la natura originaria e autentica, di perdere la propria soggettività (identità), di alienarsi da sé per ritornare finalmente a far parte di quell’“uno originario eterno”. Unità originaria e misteriosa (inconoscibile), dove non v’è nessuna individualità, nessun limite o delimitazione, dove non c’è spazio e né tempo, dove ogni essere è fuso all’altro, dove tutti gli esseri non sono che una sola cosa. Ma, soprattutto, dove regna sovrano il caos indifferenziato, l’assenza d’ogni ragione o senso, essendo ogni cosa inserita nel flusso diveniente e incessante nel quale ogni vita è sempre anche morte. Flusso caotico e terribile, questo, che, in quanto originario, è l’esistenza stessa. L’uomo dionisiaco, per Nietzsche, una volta immersosi in questo caos originario e una volta obliatosi, ha finalmente “disimparato il camminare e il parlare ed è sulla via di volarsene in cielo danzando. Nei suoi gesti parla l’incantesimo. Come ora gli animali parlano e la terra dà latte e miele, così anche in lui risuona qualcosa di soprannaturale: egli si sente come dio e cammina così estasiato e sollevato, come in sogno vide camminare gli dèi. L’uomo non è più un artista, è divenuto opera d’arte”. Il suicidio della tragedia Tornando a trattare più specificatamente dell’arte greca, Nietzsche contesta la tradizionale interpretazione classicistica che vuole il mondo ellenico caratterizzato da opere d’arte e da una “cultura” che possono essere riferite, in termini nicciani, all’impulso apollineo e ai suoi risultati “da sogno”. È vero che la maggior parte di ciò che a noi è rimasto dell’età ellenica sono statue, architetture, vasi, incisioni e reperti del mondo sereno, ordinato e misurato degli dèi olimpici; ma, si chiede Nietzsche, “quale fu 390 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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l’immenso bisogno dal quale scaturì una così splendente società di esseri olimpici?”. Ebbene, è sbagliato credere che l’equilibrio, la pace e la serenità coi quali vengono caratterizzati gli dèi nelle opere d’arte dei greci, coincidano esattamente coi caratteri della vita del popolo greco stesso. Così non è. Il popolo greco conosceva bene ciò che la stessa saggezza popolare greca aveva messo in bocca al “Sileno”, il “compagno di Dioniso”, il quale al re Mida, che gli chiedeva “quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo”, rispondeva, con ben poca serenità, queste non belle parole: “Stirpe misera ed effimera, figlia del caso e della fatica, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non udire? La cosa migliore è per te totalmente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la seconda cosa migliore per te è – morire presto”. L’uomo greco, secondo Nietzsche, “conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza”. Conobbe e sentì fino in fondo la sofferenza, la miseria, la caducità, la contraddittorietà (la vita che è sempre morte) e la precarietà (oscillazione tra l’essere e il non essere: divenire) della propria esistenza, come di ogni esistenza in generale. Di fronte a tale terribile consapevolezza, l’uomo greco, “soprattutto per poter vivere”, per evitare di suicidarsi nauseato da quanto visto e conosciuto (seguendo il monito del “morire presto” del Sileno) e quindi “per la più profonda necessità”, dovette dare vita “alla splendida nascita onirica degli dèi olimpici”. Per non morire, per continuare a vivere, per sopportare l’esistenza, noi creature della volontà inconoscibile del mondo, noi creature del divenire misterioso e terrificante, creiamo gli dèi, creiamo l’ordine e la gloria. Ma, in verità, non siamo noi a volere ciò, bensì è “l’avida volontà [che] trova sempre un mezzo per mantenere in vita e per costringere a vivere ancora, con un’illusione diffusa sulle cose, le sue creature”. Come dallo spineto nascono le rose, così dalla soffe391 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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renza esperita nell’esistenza terrena nasce la pace rappresentata dagli dèi olimpici, dal terrore la gioia, il sogno dall’incubo, dal dissidio la pace, la necessità dal caso, l’armonia dal caos, il razionale dall’irrazionale. E ciò “per poter vivere”, per poter garantire alla propria miserabile, instabile e breve vita una sorta di ordine, un senso, uno scopo, una ragione immortale, una eternità che ci permetta di considerarci appunto eterni, e non miseri corpi nati un giorno dalla polvere e che alla polvere un giorno ritorneranno. Una eternità sperata e artisticamente (illusoriamente) creata questa, che si incarna in modo esatto nella “gloria superiore” rappresentata dagli dèi olimpici i quali, in base alla teodicea ellenica, vivono la stessa vita vissuta dagli uomini, ma senza il peso e l’angoscia della morte incombente e dissolvente. L’arte è dunque, come dice Nietzsche, il “completamento e il perfezionamento dell’esistenza che induce a continuare a vivere”, in quanto il mondo è tollerabile solo come “fenomeno estetico”. Chiarito questo tema fondamentale, andiamo oltre. Nella “tragedia attica” di Eschilo e di Sofocle, Nietzsche rintraccia la perfetta sintesi dell’impulso apollineo e di quello dionisiaco. La tragedia greca per Nietzsche nasce dall’antico coro tragico, e più specificatamente dal coro dei Satiri, nel quale i coreuti rappresentano esseri metà uomini e metà animali (capre) impegnati in una processione sacra quanto esaltata (ebbra), fatta di danze e canti scatenati. In origine la processione sacra del coro dei Satiri, dalla quale nasce la tragedia vera e propria, veniva imbandita in onore del dio Dioniso per essere da questo aiutati a ritornare, perdendo la propria soggettività, in quell’uno originario e misterioso che è la natura. In questo stato di esaltazione, una volta obliatosi nell’eterno fluire del mondo, accade al coro “il fenomeno drammatico originario”. Questo consiste nel “vedere se stessi trasformati davanti a sé e agire poi come se si fosse davvero entrati in un altro corpo, in un altro carattere” (nel corpo e nel carattere 392 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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del Satiro in questo caso), che sarà poi esattamente ciò che gli attori tragici rappresentano nella tragedia classica, attori che si trasformano in “un altro carattere” e in un’altra entità (umana, semiumana, divina) dando vita così al personaggio di volta in volta interpretato (rivissuto, rivisitato). La tragedia attica, dunque, sarebbe nata da questa precisa ed originaria esperienza irrazionale, caotica, dionisiaca, vissuta dal coro dei Satiri. Una volta portata alla luce in che modo è nata la tragedia greca, Nietzsche si chiede come e perché la tragedia attica ad un certo punto sia morta. Ebbene, essa non è morta per morte naturale, bensì per “suicidio”(in un modo cioè tipicamente “tragico”), e il responsabile di questo suicidio è da rintracciare in un autore tragico stesso (ecco perché si tratta di suicidio), il famoso Euripide. Egli ha consumato, in modo definitivo, la tragedia portando “lo spettatore sulla scena”, riducendo la tragedia ad una rappresentazione della “vita quotidiana”, della “mediocrità cittadina”. Euripide ha ridotto la tragedia ad una rappresentazione senza più orrore e serietà, senza più elevazioni estatiche, senza più ebbrezze e misteri dionisiaci, senza più tormenti inspiegabili e ingiustizie inconcepibili, senza più tragedia appunto. Trasformò l’autentica tragedia – nata, conviene sottolineare, da un evento altamente irrazionale, qual’è quello dell’annullamento “gioioso” della propria ragione (coscienza-“io” individuale) per immergersi nell’abisso caotico dell’esistenza, annullamento e immersione in origine messo in atto dal coro dei Satiri – in un susseguirsi di vicende, razionalmente concatenate e comprensibili, di stampo sostanzialmente realistico. La ridusse a qualcosa di piatto, di freddo, di banale, in una parola, a qualcosa di umano e troppo umano. In tal modo diede vita alla “nuova commedia attica”, col suo “incessante trionfo dell’astuzia e della furberia”. Questo perché Euripide, secondo Nietzsche, si ispira alla filosofia di Socrate, ossia si ispira a colui che inau393 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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gura nella cultura greca una visione razionale del mondo e delle vicende umane. Visione razionale che ha al suo principio una considerazione assolutamente ottimistica dell’esistenza, ben lontana dal possedere quei caratteri caotici (dionisiaci, irrazionali, incoscienti, ecc.), terribili, dolorosi e pessimistici che rappresentano, invece, le radici della tragedia greca e della visione tragica del mondo. Euripide, dunque, non fa che “togliere dalla tragedia quell’elemento dionisiaco originario e onnipotente […] per ricostruirla pura e nuova su un’arte, un costume e una concezione del mondo non dionisiaci”, che poi non è altro che la concezione strettamente razionale di Socrate, secondo il quale “tutto deve essere ragionevole per essere bello” (“socratismo estetico”), teoria, questa, derivata da quella sua altra affermante che “solo colui che sa è virtuoso” (socratismo morale). In conclusione, “si tengano presenti solo le conseguenze delle proposizioni socratiche: ‘Virtù è sapere; si pecca solo per ignoranza; il virtuoso è felice’: in queste tre forme fondamentali dell’ottimismo sta la morte della tragedia”; e ancora: “La dialettica ottimistica con la frusta dei suoi sillogismi [logici, razionali] scaccia la musica dalla tragedia: cioè distrugge l’essenza della tragedia, che si lascia interpretare unicamente come una manifestazione e raffigurazione di stati dionisiaci, come la simbolizzazione visibile della musica, come il mondo di sogno di un’ebbrezza dionisiaca”. Dall’arte alla scienza Nella seconda fase della produzione filosofica – in opere quali Umano, troppo umano; Aurora, e Gaia scienza –, Nietzsche, pur continuando a mantenere una visione tragica e problematica dell’esistenza, non pone più al centro delle sue speculazioni l’arte, o la cosiddetta “metafisica 394 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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d’artista”. L’arte non è più considerata come forza altamente rivoluzionaria capace di far uscire, una volta per tutte, l’uomo dalla sua fiacchezza vitale e di salvarlo dalla sua pericolosa decadenza. Non è l’arte ciò che può farci accettare la vita, sempre e comunque, nonostante tutte le sofferenze atroci e la perpetua mancanza di senso che la vita stessa ci pone sempre di fronte agli occhi. Il nuovo compito che Nietzsche si pone, accantonate le sue indagini estetiche, è precisamente il “rischiaramento e la progressiva, virile educazione dell’umanità”, e ciò non può essere fatto utilizzando l’energia trasfigurante dell’arte, in quanto in essa, ora, il nostro filosofo rintraccia esclusivamente il “compito di far ridiventare bambina l’umanità; questa è la sua gloria e il suo limite”. In questa nuova fase Nietzsche intende affidarsi unicamente alla “scienza”, ai lumi della conoscenza, all’indagine razionale della civiltà umana nella sua interezza, abbandonando i mondi mitici dell’arte, caratterizzati da emozioni e passioni violente, da stati d’animo in continuo mutamento, da irruenze e irragionevolezze infantili, da simboli artificiali e illusori che coprono la verità delle cose, da dimensioni fantastiche e sognanti nei quali dèi e demoni la fanno da padrone. Tutte cose, queste, che stridono con la “dedizione scientifica al vero in ogni forma, per spoglia che possa apparire”. Ricerca del vero alla quale ora Nietzsche intende interessarsi con tutti i suoi sforzi e con la massima lucidità e maturità possibile. Va qui precisato, che la “scienza” non è vista da Nietzsche come ciò che può fornire all’uomo una conoscenza obbiettiva del reale (come invece credeva il positivismo). La scienza non può condurci oltre l’“apparenza”, non è in grado di eliminare o risolvere il mistero del mondo e l’enigma della vita, non può pervenire ad una verità definitiva. Essa è apprezzata per la grande capacità di fornire all’uomo nuovi e più maturi atteggiamenti spirituali, i quali possono portare alla costruzione di una civiltà 395 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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finalmente meno violenta, meno disordinata, meno passionale, in una parola, meno infantile. La scienza sbaglia se, confidando ciecamente nella sua funzione veritativa, crede di poter eliminare dal mondo umano l’“errore” e la “fantasia”, perché è l’uomo stesso colui che, nel corso dei secoli, si costruisce e si rappresenta il mondo unicamente e necessariamente tramite l’“errore” e la “fantasia”. Infatti, “ciò che noi ora chiamiamo il mondo, è il risultato di una quantità di errori e fantasie che sono sorti a poco a poco nell’evoluzione complessiva degli esseri organici […]. Da questo mondo della rappresentazione la severa scienza può in realtà liberarci solo in piccola misura – e del resto non è affatto una cosa da augurarsi – in quanto essa non può essenzialmente infrangere il potere di antichissime abitudini della sensazione”. La scienza, dunque, può solo “gradatamente e progressivamente rischiarare la storia della nascita di quel mondo come rappresentazione: e sollevarci, almeno per qualche momento, al di sopra dell’intero processo”. Allo stesso modo dell’arte, anche la scienza intende renderci “tollerabile la consapevolezza della ineluttabilità dell’errore su cui vita e conoscenza si fondano, riconoscendo che esso è l’unica fonte della bellezza e ricchezza dell’esistenza”, ed in questo senso l’arte e la scienza possono ancora essere considerate come alleate: “alla scienza tocca sia la conoscenza metodica del mondo della rappresentazione, sia la conoscenza del processo attraverso cui questo mondo si costituisce (e dunque la consapevolezza dell’errore); all’arte tocca il compito di mantenere in vita l’eroe e il giullare che sono in noi, aiutando la scienza a sopportare la consapevolezza dell’errore necessario”2.

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  G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 45.

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Il falso rimedio della morale Nelle opere del periodo di mezzo che abbiamo citato (ma non solo in quelle), Nietzsche intende investigare scientificamente i cosiddetti “pregiudizi morali” o più semplicemente la “morale” tout court, dove per “morale” dobbiamo intendere “l’assoggettamento della vita a valori pretesi trascendenti, che hanno invece la loro radice nella vita stessa”3. L’uomo, nel corso della storia, per proteggersi dal caos e dall’irrazionalità del divenire, ha costruito per sé dei ripari, delle difese e dei rimedi per rendere più sopportabile e meno atroce il suo dolore, il suo orrore e la sua paura di fronte a tale situazione minacciosa (caotica e irrazionale). Questi rimedi si incarnano in determinate “verità” che, per sfuggire all’annientamento inevitabile che coinvolge ogni cosa del mondo terreno, vengono trasferite fantasticamente in una sorta di mondo trascendente, altro, lontano, assolutamente distinto da quello umano e naturale. Questo altro mondo è il mondo metafisico (trascendente, che sta oltre la realtà fisica) delle verità immutabili, definitive, eterne. È il mondo fantastico che in nessun modo è coinvolto dalla potenza corruttrice e annientante del divenire, ed è a questo mondo che l’uomo del “gregge” affida la sua salvezza e la propria vita. La vera vita non è quella che appare caotica e irrazionale nel mondo terreno, ma la vita che appartiene all’altro mondo, al mondo trascendente delle verità eterne e immodificabili, immuni da ogni corrosione, dissoluzione e annullamento. La vera vita non è ciò che appare nel mondo terreno, non è la nostra vita, non è dolore e caos. La vita appare come dolore e caos, ma, in verità, oltre questa apparenza, non è così. In verità appartiene al mondo eterno delle verità permanenti e indistruttibili.

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  Ibidem, p. 48.

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In questo modo l’uomo, costruendosi un altro mondo per sentirsi riparato e sottratto alla furia annientante del divenire, riesce a sopportare il peso e la fatica della vita, riesce a porre in qualche modo rimedio a questo peso e a questa fatica lacerante. Ma, dice Nietzsche, “il rimedio è stato peggiore del male”, perché “ogni forma definitiva, permanente, immutabile tende ad irrigidire e a negare la continua innovazione e il continuo differenziarsi del divenire”4. È solo in questa continua innovazione e in questo continuo differenziarsi che l’essere umano, come ogni altro essere, vive in modo autentico la propria precaria e debole esistenza terrena. Immaginiamo d’essere potenti automobili, per costituzione costrette, incessantemente, ad avere il pedale dell’acceleratore sempre pigiato al massimo, a cambiare quotidianamente strade e percorsi, a innovare di continuo i propri tragitti e a differenziare senza sosta i propri traguardi da un momento all’altro, senza possibilità di una sosta definitiva. Ebbene, poniamo il caso che, ormai appesantiti e stremati da questo perenne vagare senza mai giungere ad una meta precisa e stabile, decidiamo di costruire un gran masso di cemento armato, pesante svariate tonnellate. A tale masso decidiamo di agganciare con una possente e indistruttibile catena quell’automobile che noi stessi siamo, in modo da poter, in qualche modo, porre rimedio alla nostra accelerazione incessante e faticosa. Ma poiché siamo delle automobili per natura impossibilitate a fermarsi, quel masso inamovibile e permanente, seppur costruito per rimediare al nostro vagare insensato e senza mete, non potrà mai arrestare l’attività del nostro motore. Quest’ultimo si trova quindi ad essere impedito e sottoposto ad una forza opprimente, che spinge nella direzione contraria e

4   E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo, vol. III (la filosofia contemporanea), BUR, Milano 2007, p. 154.

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opposta a quella naturale: il macigno pesantissimo da noi stessi costruito ci condanna, inevitabilmente, a fondere il nostro motore, a spegnere la nostra attività naturale, ad andare in avaria, a cessare ogni tipo di attività, accelerazione e movimento. Se al posto del masso poniamo il mondo della “morale”, ossia il mondo delle verità metafisiche e immutabili, e se al posto delle automobili poniamo la vita dell’uomo, l’esempio proposto ci sarà d’aiuto per comprendere quale nocività e pericolosità mortale rappresentano quelle verità-zavorre metefisiche per l’attività sempre innovativa e mutante dell’essere umano. Creando da sé quei rimedi, quelle verità ritenute eterne, quei “pregiudizi morali”, l’uomo si è come legato ad un masso, si è come strozzato da sé, si è autosfinito, è andato in panne da sé, ha detto di no alla propria vita. Per (tentare di) sfuggire al dolore e alla fatica dell’esistenza, l’uomo ha pensato bene di impiccarsi una volta per tutte, così da non poter più neanche sentire quel dolore e quella fatica dal quale in origine intendeva (illusoriamente) proteggersi: “il rimedio è stato peggiore del male”. Dio è morto Il più grande macigno, la più grande zavorra e la più possente catena che l’uomo ha costruito per difendersi dal caos del divenire incessante, è senz’ombra di dubbio il “Dio” della metafisica e della teologia. Nietzsche, allora, avendo come suo compito essenziale quello di liberare e riaffermare il libero e inarrestabile flusso dell’esistenza umana, da rendere libera e virilmente affermante nonostante tutta l’irrazionalità e il dolore che essa comporta, sente il bisogno impellente di gridare a tutto il mondo (filosofico e non) che “Dio è morto”. Solo frantumando il macigno più possente che immobilizza e fa avariare l’esistenza umana, solo spezzando quel guinzaglio-catena 399 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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che strozza la potenza sempre cangiante e l’attività libera dell’uomo, solo dichiarando la necessità di considerare il Dio immobilizzante e immutabile come finalmente morto, solo ciò, permetterà all’essere umano di riappropriarsi della sua autentica vita e del suo autentico posto nel mondo terreno. Nietzsche scopre che “tutte le grandi costruzioni del sapere tradizionale, dai principi della metafisica, dell’arte e della morale ai ‘valori’ della società e alle norme della condotta degli individui e dei gruppi umani, consentono di rendere sopportabile la vita, cioè sono gli strumenti fondamentali con cui l’uomo ha tentato di raggiungere il piacere e di fuggire il dolore. Strumenti [storici e relativi] che hanno consentito all’uomo di sopravvivere, ma che sono stati fatti passare come verità [assolute ed eterne]. Menzogne e illusioni utili alla sopravvivenza, errori vitali mascherati da verità”5. Ogni “verità” dell’uomo è “maschera” e “menzogna”, ogni valore tradizionale è “illusione” e “fantasia”. E se ogni interpretazione sociale e indicazione morale, sorta nel corso della storia, è nata dall’esigenza umana di sopravvivere, se non è stata dettata che dall’esigenza o abitudine di “raggiungere il piacere e fuggire il dolore” – più che di “esigenza” e “abitudine” sarebbe più corretto parlare d’“impulso primordiale” o d’“istinto di conservazione”, che si traduce appunto nell’“intenzione di procurasi il piacere e di evitare il dolore” – è allora sbagliato considerare la storia come manifestazione progressiva dei più alti valori e ideali e contenuti dell’uomo. La storia umana non è caratterizzata e generata dall’amore dell’uomo per l’uomo, dall’altruismo, dalla fraternità, dall’amore per il bene, dalla sincerità, dai grandi valori sociali, da azioni e sentimenti morali, dalla compassione umanitaria, dall’amore per la giustizia e la virtù, dal-

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  Ibidem, p. 154.

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la onestà, dall’amore per la verità e per tutto ciò che è alto e nobile e puro. Essa è stata generata unicamente da quell’istinto di conservazione e sopravvivenza che contraddistingue perfettamente ogni essere umano come ogni altro essere vivente, istinto, che fa dell’uomo un essere “umano, troppo umano” e nient’altro che umano. La genesi e la distruzione degli errori capitali La morale “è il termine che per Nietzsche indica quella parte del ‘mondo’ che comprende gli errori capitali della ‘razza umana’ – gli errori della metafisica, della religione, dell’arte”6. Anche la costruzione del complesso mondo della “morale” rientra in quegli errori vitali che si sono dimostrati utili all’uomo per conservare la propria vita in un mondo essenzialmente caotico e irrazionale. Al che il nostro filosofo si impegna a ricostruire la “genesi” storica di tali errori e a capire in che modo essi siano riusciti ad imporsi stabilmente all’interno della civiltà umana. Ebbene, “all’interno della civiltà consolidata, azioni e sentimenti appaiono e sono vissuti come ‘morali’ perché si è prodotta una forma decisiva di dimenticanza, che fa perdere di vista come tali azioni e sentimenti fossero prodotti nella società originaria per ‘utilità comune’; sì che in seguito furono prodotti dalle generazioni successive per altri motivi (paura, rispetto per chi li raccomandava o esigeva, abitudine, ecc.), che vivono sovrapposti al motivo originario: l’utilità . È divenuta dunque ‘morale’ l’azione di cui è stato dimenticato che il suo principale motivo era stato la sua utilità per un certo gruppo sociale”7. Questa dimenticanza fondamentale, che sta alla base e

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  Ibidem, p. 158.   Ibidem, p. 159.

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che rappresenta quindi la “genesi” della “morale”, fa sì di non scorgere in una presunta azione morale, per esempio in Valerio che decide di dare la propria vita per il prossimo, quanto in essa, in verità, altro non si nasconda che un interesse o un utile personale, o di un determinato gruppo sociale, nel caso per esempio di una guerra patriottica. Un utile personale può essere, seguendo il nostro esempio, il riconoscimento altrui dell’alto valore (etico e morale) e del grande coraggio che solitamente viene riconosciuto a chi è pronto a morire, per difendere un perfetto sconosciuto. Valerio, seppur ben conscio e convinto d’eseguire una delle più belle e nobili azioni che vi siano, ben convinto e conscio di agire non per proprio interesse ma anzi sacrificando in prima persona la propria vita per il disinteressato amore del prossimo (chiunque esso sia), in verità, “inconsciamente” (ossia senza rendersene conto), decide di portare avanti la sua azione “umanitaria” solo perché ciò gli torna utile per soddisfare, in questo caso specifico, la propria vanità e il proprio orgoglio personale. Oltre a questa dimenticanza fondamentale, alla base della morale vi è la convinzione che l’individuo umano (il “soggetto”), abbia sempre una perfetta conoscenza di se stesso (del suo “io”, della sua coscienza, del suo “mondo interiore”) e dei motivi che lo spingono ad agire. Per Nietzsche, il mondo interiore è, esattamente come il mondo esterno (la natura), “il regno dell’incerto, del mutevole, di ciò che è capace di trasformarsi, che ha molti significati”, ossia esso non è mai quel “mondo semplice, uguale a se stesso, prevedibile, fisso” che i filosofi credevano invece che fosse. L’io, la coscienza, il mondo interiore del soggetto umano, non appare a Nietzsche con quei caratteri di immutabilità e semplicità a cui “i filosofi, come eredi del bisogno del gregge e delle angosce del gruppo, hanno finora tributato i più alti onori”. La coscienza dell’uomo, in realtà, è un qualcosa di assai complesso e mai uguale a se stesso, d’imprevedibile, di confuso, d’instabile. Se ci interroghia402 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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mo seriamente sulle nostre azioni, sul senso, sullo scopo e sui motivi che ci spingono a fare ciò che effettivamente facciamo, non riusciamo mai, in realtà, a pervenire ad una unica ed esauriente risposta. Noi possiamo arrivare e solitamente arriviamo a dare una “interpretazione” univoca, semplice e chiaramente schematizzata riguardante le nostre azioni e i motivi che ci spingono ad agire, ma ciò non significa che quella nostra interpretazione combaci o rispecchi perfettamente ciò che nel nostro mondo interno realmente accade. In esso senza posa combattono per il “potere” (ossia per realizzarsi all’esterno, effettivamente) i nostri istinti più oscuri, misteriosi e inconoscibili. Così che in un batter d’occhi crollano d’avanti a noi tutte quelle nozioni e strutture filosofiche che racchiudevano in sé elementi di stabilità, di permanenza e di unificazione: il “soggetto” inteso quale “autore” dell’attività psichica, l’“io” (la coscienza), l’“essere”, l’“unità”, l’“essenza”, la “permanenza”, l’“evidenza”, il “fatto”, per finire con Dio il quale incarna la forma suprema di “sostanza”. Perché allora l’uomo sente il bisogno di dare sempre alle sue azioni una ragione, una stabilità conoscitiva, una schematizzazione univoca; perché sente il bisogno di pervenire ad una perfetta e sempre più completa conoscenza dei motivi causanti una determinata azione? Perché il soggetto conoscente è guidato da una “legge generale”, che possiamo considerare come un impulso o un istinto o un bisogno insopprimibile, che preme e spinge l’essere umano (ma tale legge vale anche per gli “esseri inferiori”) a conoscere ogni cosa come “sostanza”, ossia come oggetto sempre identico a sé, stabile, univoco, determinato, chiuso in sé, come oggetto che esiste di per sé e che rimane sempre uguale e immutabile. La legge generale della conoscenza è dunque “il bisogno di conoscere sostanze attorno alle quali possa unificarsi e organizzarsi il mondo caotico e imprevedibile del divenire. In questo bisogno si esprime appunto il bisogno di essere rassicurati ai fini della conservazione 403 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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del proprio essere”8. Anche il fatto che noi conosciamo delle “sostanze” è un menzogna, un altro errore e l’ennesima illusione che ci creiamo per continuare a vivere e per sopportare il peso e la fatica d’un mondo che è, in tutto e per tutto, doloroso e annientante divenire. Il superuomo e l’eterno ritorno Nell’ultimo periodo del pensiero nicciano, dopo la fase che possiamo definire come “fase decostruttiva”, in opere come Così parlò Zarathustra o La volontà di potenza, troviamo una fase costruttiva, nella quale confluiscono alcuni dei risultati teorici che hanno segnato, in modo indelebile, il corso della filosofia contemporanea. Come visto, il mondo della “morale”, seppur nato dall’intento di difenderci dal dolore dell’esistenza, imbriglia e soffoca la vita umana, la misconosce e gli “dice di no”. Questo “dire di no” alla vita è il “nichilismo”. Il nichilismo, agli occhi di Nietzsche, è ciò che caratterizza l’intera civiltà europea, la quale, a partire da Socrate, ha inteso cancellare dall’esistenza quegli aspetti feroci, irrazionali e terribili che pur l’appartengono in modo essenziale. Il nichilismo giunge al suo culmine col cristianesimo, che con la sua fede nell’aldilà celeste, in un mondo altro e trascendente, pacifico e beato, rappresenta chiaramente il disgusto nichilistico per il mondo dell’al di qua, ossia per il mondo e per la vita terrena. Il nichilismo porta, come sua conseguenza, la totale caduta dei “valori”: il mondo non ha più nessuna importanza, nessun interesse, nessun valore appunto, venendo così spregiato e guardato col più nero disgusto, odio e risentimento. È in questo quadro nel quale il nichilismo la fa da padro-

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  Ibidem, p. 161.

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ne, che irrompe la figura profetica e sorprendente di Zarathustra, figura emblematica dell’ultimo pensiero nicciano. Egli annuncia agli uomini la morte di Dio, incita l’uomo a ritornare alla terra, a rientrare nel corpo e a godere senza limiti di esso, ad abbandonare ogni senso di colpa, ogni timore, ogni soggezione, ogni disgusto. Ma soprattutto Zarathustra annuncia che per eliminare dalla faccia del mondo la febbre nichilistica, spregiante e negatrice la vita terrena, è necessario “superare” e oltrepassare definitivamente l’uomo, il piccolo e il debole uomo. Bisogna far “tramontare” l’uomo e tutte le sue costruzioni metafisiche e morali, essenzialmente opprimenti e nichilistiche, per salutare finalmente l’avvento del “superuomo”, che è colui il quale darà vita ad una esistenza più alta, pienamente vissuta e finalmente felice. Il superuomo rappresenta, quindi, quel nuovo tipo di uomo e di umanità che nasce dal superamento del nichilismo, dove questa nuova nascita è da vedersi come un salto, un balzo, una “mutazione” radicale rispetto al passato, nei confronti del quale non è possibile alcun compromesso di sorta. Se il nichilismo si traduce nel “dire di no” alla vita, il superuomo, esattamente all’opposto, dice ad essa un convinto ed incrollabile “sì”, e questo “sì” alla vita è dato nel modo più completo e totale possibile. Il superuomo “dice di sì” all’insicurezza, all’inquietudine, all’’incertezza e alla temerarietà, al caos e all’irrazionalità dell’esistenza. Non indietreggia e non cerca di proteggersi dalla furia del flusso eterno del divenire, bensì lo accetta incondizionatamente, ne esalta persino il suo potere annientante, così come non ricusa affatto di fronte agli aspetti più terribili, più oscuri e più aspri che la vita ci riserva. Questo perché il superuomo, che è l’“uomo dal grande cuore” e lo “spirito creatore”, non intende fuggire o costruirsi falsi rimedi in altri mondi fantastici. Ha compreso perfettamente che la vera vita è orrore e dolore, e che dire incondizionatamente di sì alla vita significa accettare e amare con gioia proprio 405 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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questo orrore e questo dolore. E se gli uomini del “gregge” si sono lasciati piegare e soffocare e indebolire dalle loro paure, dai loro timori e dalle difficoltà del mondo, allora il superuomo, per superare tutto ciò, fonderà la propria vita sulla “potenza”, o meglio, sperimenterà la propria esistenza unicamente sulla sua “volontà di potenza”. Il superuomo vuole con forza e audacia creare da sé un nuovo “senso della terra”, ben conscio di quanto non solo la terra, ma l’intero universo, siano privi d’alcun senso, salvo quello che l’uomo via via intende dar loro. Dare un “senso alla terra” significa imporre il dominio del “mio” senso a questa terra stessa: è questione di potenza, di tenacia e intrepidezza. È come se si trattasse d’entrare all’interno della furia violenta e inquietante d’un ciclone, e in quello scombussolamento, in quel turbine vorticoso e travolgente imporre la nostra presenza, la nostra volontà, la nostra esistenza, facendo addirittura di quel ciclone e di quel vortice caotico qualcosa che per me ha senso, qualcosa che sottostà a i miei comandi, ai miei desideri di potenza e alla potenza del mio desiderare. Questo nuovo senso della terra, allora, sarà incentrato sulla potenza dell’uomo, sulla sua capacità di affermarsi e affermare la propria vita contro ogni mortificazione e soggezione derivante da valori e visioni del mondo nichilistiche, disperate e pessimistiche, e contro gli assalti e le minacce che il mondo stesso ci presenta. La più grande manifestazione della “volontà di potenza” del superuomo, nella fattispecie consiste nell’affermare con gioia l’“eterno ritorno dell’identico”, ossia nell’affermare che tutte le cose e tutti gli eventi del mondo ritornano infinite volte nell’ordine e nel modo esatto in cui si presentano. Il superuomo, quest’“uomo redentore”, questo “uomo dell’avvenire”, vuole con tutta la sua potenza questo eterno ritorno, vuole che ogni evento – sia esso la gioia più grande o la disperazione più straziante –, facciano nuovamente ed eternamente la loro ricomparsa nel mondo. Vuole “questa ultima eter406 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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na sanzione, questo suggello”: che la sua vita non scompaia nel nulla assoluto, ma che si ripeta ancora una volta, e poi una seconda e una terza e innumerevoli altre volte, e così all’infinito, senza fine. Il superuomo vuole talmente una vita potente e pienamente vissuta, che non intende arrendersi alla morte e all’annientamento assoluto, che non intende tornare alla polvere, che non intende scomparire. Egli non vuole fare della sua esistenza qualcosa che, una volta spentasi, rimanga immobilizzata in un passato immobile e distante, incapace di partecipare al flusso perenne del mondo, al flusso delle nascite e delle distruzioni infinite. Il superuomo nega la morte volendo con potenza che il suo stesso spegnersi e morire ritornino infinite volte. Il superuomo vuole essere il mondo, vuole essere egli stesso divenire, flusso infinito, scorrere incessante, interminabile, insopprimibile: è questa la più alta affermazione dell’amore per la vita, vita amata con potenza nonostante tutta la sua fatica, il suo orrore e la sua miseria. Ma è anche il grido “del grande disprezzo” contro tutto ciò che tenti di soffocare e appesantire la vita, che gioiosa gira nel perpetuo movimento circolare e infinito del tempo. Volersi potenti, essere potenti significa accettare per intero la vita, accettarla senza condizioni, al punto di esclamare: sì, la rivoglio! La rivoglio esattamente così com’è stata, non voglio cambiarle niente, voglio che di essa nulla vada perduto, che nulla di essa – l’aurora più vivace come il più luttuoso tramonto –, sia spregiato o dimenticato o negato. La voglio eternamente identica a sé e la voglio eternamente ritornante! Il superuomo affermando l’“eterno ritorno” – affermando cioè un tempo circolare nel quale ogni presente è sempre un passato che è ritornato e dove questo passato, a sua volta, sarà il futuro di quel presente –, attesta in modo definitivo e radicale la totale mancanza di senso della vita, di linearità, di scopo, di direzione. Attesta, quindi, la totale mancanza di una verità assoluta e di un fine universale. 407 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Affermando ciò distrugge, in un colpo solo, ogni possibilità di incatenare, di immobilizzare e soffocare la potente vitalità e l’indomabile attività del nuovo uomo, dell’uomo che ha superato l’uomo, dell’uomo affermativo, dell’uomo solare, del superuomo di Nietzsche.

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PAGINE ANTOLOGICHE

L’essenza del tragico Il tragico non può onestamente essere fatto derivare dall’essenza dell’arte, qual è comunemente intesa secondo l’unica categoria della apparenza e della bellezza; solo muovendo dallo spirito della musica comprendiamo la gioia per l’annientamento dell’individuo. Poiché nei singoli esempi di un tale annientamento ci si mostra chiaro solo l’eterno fenomeno dell’arte dionisiaca, che esprime la volontà nella sua onnipotenza per così dire dietro il principium individuationis, l’eternità della vita al di là di ogni apparenza e nonostante ogni annientamento. La gioia metafisica per il tragico è una traduzione della sapienza dionisiaca istintiva e inconscia nel linguaggio dell’immagine: l’eroe, la più alta apparenza della volontà, viene con nostra gioia negato, poiché egli è solo apparenza e la eterna vita della volontà non viene toccata dal suo annientamento. “Noi crediamo alla vita eterna”, così grida la tragedia; mentre la musica è l’idea immediata di questa vita. Un fine completamente diverso ha l’arte dello scultore: qui Apollo supera il dolore dell’individuo con la luminosa glorificazione dell’eternità dell’apparenza, qui la bellezza vince sul dolore insito nella vita, il dolore viene, in un certo senso, cancellato dai tratti della natura. Nell’arte dionisiaca e nel suo simbolismo tragico ci parla la stessa natura, con la sua vera e schietta voce: “Siate come sono io! Nel continuo mutare delle apparenze, la madre primigenia, eternamente creatrice, che eternamente costringe all’esistenza, che eternamente si appaga di questo mutare dell’apparenza!” Anche l’arte dionisiaca vuole persuaderci dell’eterno piacere dell’esistenza: solo che dobbiamo cercare questo piacere non nelle apparenze, 409 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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bensì dietro le apparenze. Dobbiamo riconoscere come tutto ciò che nasce debba essere pronto ad un trapasso colmo di dolore, siamo costretti a guardare in faccia gli orrori dell’esistenza individuale – eppure non dobbiamo irrigidirci: una consolazione metafisica ci strappa momentaneamente dal meccanismo delle forme mutevoli. Per brevi attimi siamo realmente l’essere primigenio stesso e ne sentiamo l’indomita brama e piacere di esistere; la lotta, il tormento, l’annientamento delle apparenze ci appaiono ora necessari per la sovrabbondanza delle innumerevoli forme di esistenza che si urtano e si accavallano nella vita, per l’eccedente fecondità della volontà del mondo; noi veniamo trapassati dal furioso pungolo di questi tormenti nello stesso momento in cui siamo per così dire divenuti una sola cosa con l’incommensurabile piacere originario dell’esistenza, e in cui presentiamo, in estasi dionisiaca, l’indistruttibilità e l’eternità di questo piacere. Nonostante la paura e la compassione noi viviamo felicemente, non come individui, ma come quell’unico vivente, col cui piacere generativo siamo fusi. […] Qui ci occupiamo del problema di stabilire se la potenza, per la cui azione contraria la tragedia si infranse, avrà in ogni tempo abbastanza forza per impedire il risveglio artistico della tragedia e della concezione tragica del mondo. Se la tragedia antica fu spinta fuori del suo binario dall’impulso dialettico verso il sapere e l’ottimismo della scienza, si potrebbe arguire da questo fatto un’eterna lotta tra la concezione teoretica del mondo e quella tragica; e solo dopo che lo spirito della scienza fosse condotto fino ai suoi limiti e la sua pretesa di universale validità distrutta dalla dimostrazione di quei limiti, si potrebbe sperare in una rinascita della tragedia. […] In questa contrapposizione intendo per spirito della scienza quella fede, apparsa per la prima volta con la persona di Socrate, nella intellettuale penetrabilità della natura e nella forza universalmente risanatrice del sapere. […] La caratteristica più importante [della cultura tragica] è che essa, al posto della scienza, eleva a meta suprema la sapienza che, non ingannata dalle seducenti divagazioni delle scienze, si volge con sguardo fermo all’immagine totale del mondo, tentando di afferrare in essa, con simpatetico sentimento d’amore, l’eterna sofferenza come propria sofferenza. Immaginiamo una generazione che cresca con questa intrepidezza di sguardo, con questo eroico impeto verso l’immenso, im410 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Friedrich Nietzsche: pagine antologiche

maginiamo il passo ardito di questi uccisori di draghi, la superba temerarietà con cui volgono le spalle a tutte le debolezze dottrinali di quell’ottimismo, per “vivere risolutamente” in tutto e per tutto: non sarebbe forse necessario che l’uomo tragico di questa civiltà aspirasse, nella sua autoeducazione alla serietà e al terrore, ad un’arte nuova, la tragedia, ed esclamasse con Faust: “E non dovrei, con la più smaniosa violenza / trarre in vita l’unica tra le forme?”. (F. W. Nietzsche, La nascita della tragedia, in Opere 1870/1881, Newton Compton, Roma 2008, pp. 162-164, 167-168) La messa in crisi definitiva del soggetto, dell’azione e del prossimo Il cosiddetto “io”. – Il linguaggio e i pregiudizi sui quali il linguaggio è costruito, sono per noi, in diversi modi, di ostacolo nello scandagliare i processi interiori e gli istinti: ad esempio per il fatto che esistono propriamente parole solo per i grandi superlativi di questi processi e istinti –; ora però noi siamo abituati, laddove ci mancano le parole, a non osservare più con precisione; anzi, una volta si concludeva istintivamente che dove cessa il regno delle parole, là cessa anche quello dell’esistenza. Ira, odio, amore, compassione, brama, cognizione, gioia, dolore, – questi sono tutti nomi per stati estremi: i grandi intermedi più attenuati e addirittura quelli inferiori, che sono continuamente in gioco, ci sfuggono, eppure sono proprio questi ad intessere la tela del nostro carattere e del nostro destino. Quelle manifestazioni estreme – e perfino il più moderato piacere o dispiacere da noi conosciuto nel mangiare una vivanda, nell’udire un suono, è forse pur sempre, se rettamente valutato, una manifestazione estrema – assai spesso lacerano la tela e sono allora violente eccezioni, conseguenti, per lo più, a stati d’accumulo: – e come possono, come tali, trarre in errore l’osservatore! Non certo meno di quanto ingannino l’uomo che agisce. Noi tutti non siamo ciò che sembriamo essere, secondo gli stati per i quali soltanto abbiamo coscienza e parole, – e di conseguenza lode e biasimo – ; in base a queste più grossolane manifestazioni, che sono le sole a divenire a noi note, ci misconosciamo, traiamo una conclusione da un materiale in cui le eccezioni preponderano sulle regole, ci sbagliamo 411 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

nel leggere in questa apparentemente assai chiara scrittura alfabetica del nostro Sé. La nostra opinione circa noi stessi, che abbiamo trovato per questa falsa strada, il cosiddetto “io”, lavora però, d’ora innanzi, sul nostro carattere e sul nostro destino. (F. W. Nietzsche, Aurora, in Opere 1870/1881, cit., pag. 950-951, n° 115) Lo sconosciuto mondo del “soggetto”. – Ciò che per gli uomini rimane così difficile da comprendere è l’ignoranza di se stessi, dai tempi più antichi fino ad oggi! Non solo è in relazione al bene e al male, ma in relazione a qualcosa di molto più essenziale! Tuttora continua a vivere la primordiale illusione che si sappia, si sappia in maniera del tutto precisa, come, in ogni caso, giunga ad effettuarsi l’umano agire. Non solo “Dio che scruta nel cuore”, non solo l’agente che riflette sulla sua azione, – no, pure qualsiasi altro non dubita di capire ciò che è essenziale nel processo dell’azione altrui. “Io so che cosa voglio, che cosa ho fatto, io sono libero e responsabile di ciò, ritengo responsabili gli altri, posso chiamare per nome tutte le possibilità etiche e tutti i movimenti interiori che si danno prima di un’azione; voi potete agire come volete – io in questo comprendo me e voi tutti!” – Così una volta pensava ognuno e così quasi tutti pensano ancor oggi. […] Le azioni non sono mai quel che ci appaiono! Noi abbiamo penato tanto per imparare che le cose esteriori non sono quel che ci appaiono, – orsù dunque! Con il mondo interiore le cose stanno allo stesso modo! Le azioni morali sono in verità “qualcosa d’altro”, – di più non possiamo dire: e tutte le azioni sono quanto all’essenza ignote. Comune credenza era ed è invece il contrario: contro di noi abbiamo il più antico realismo; fino ad ora pensava l’umanità: “un’azione è quel che ci appare”. […] (F. W. Nietzsche, Aurora, in Opere 1870/1881, cit., pag. 951-952, n° 116) Chi è dunque il prossimo? – Che cosa comprendiamo mai del nostro prossimo, riguardo alle sue delimitazioni, a ciò, voglio dire, con cui quasi si inscrive e si imprime su di noi e in noi? Noi non comprendiamo niente di esso, tranne le trasformazioni in noi di cui egli è causa, - il nostro sapere di lui somiglia ad uno spazio cui sia stata data una forma concava. Ad esso attribuiamo le sensazioni che le sue azioni provocano in noi, e così gli conferiamo una falsa, opposta positività. Lo plasmiamo 412 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Friedrich Nietzsche: pagine antologiche

secondo la conoscenza che abbiamo di noi e ne facciamo un satellite del nostro sistema: e quando esso ci fa luce o si oscura, e noi siamo la causa ultima di entrambi i fatti, – allora crediamo il contrario! Un mondo di fantasmi, quello in cui viviamo! Un mondo stravolto, rovesciato, vuoto, e tuttavia sognato come pieno e diritto! (F. W. Nietzsche, Aurora, in Opere 1870/1881, cit., pag. 952-953, n° 118) L’errore svelato della morale e la sua contropartita Il presunto conflitto dei motivi. – Si parla di “conflitto dei motivi”, ma con ciò si indica un conflitto, che non è quello dei motivi. Vale a dire: alla nostra coscienza riflettente si presenta, di fronte ad un’azione, una serie di conseguenze di diverse azioni, che pensiamo di poter compiere tutte quante e, così, poniamo queste conseguenze a confronto. Crediamo di esser decisi ad un’azione, quando abbiamo stabilito che le sue conseguenze saranno prevalentemente quelle favorevoli; prima di giungere a questa conclusione del nostro ponderare, spesso ci tormentiamo, onestamente, a causa della gran difficoltà di indovinare le conseguenze, di vederle in tutta la loro forza e proprio tutte, senza alcun errore di omissione: per cui il conto deve oltracciò venire ancora diviso per il caso. Anzi, per dire la difficoltà maggiore: tutte le conseguenze che, singolarmente prese, è così difficile stabilire, debbono ora equilibrarsi reciprocamente su un’unica bilancia; e assai spesso per questa casistica del vantaggio ci manca unitamente ai pesi anche la bilancia, a causa, questo, della qualitativa diversità di tutte le possibili conseguenze. Ma posto che si venisse in chiaro anche su questo, e che il caso ci avesse posto sulla bilancia conseguenze che si possono reciprocamente bilanciare: adesso in effetti avremmo nel quadro delle conoscenze di una determinata azione un motivo per compiere proprio questa azione, - sì! un motivo! Ma nell’attimo in cui finalmente agiamo, veniamo abbastanza spesso determinati da un genere di motivi diverso da quello di cui si è qui parlato, quello cioè del “quadro delle conseguenze”. Allora agisce l’abituale giuoco delle nostre forze, o una piccola spinta da parte di una persona che temiamo o stimiamo o amiamo, oppure la comodità che preferisce fare quanto gli sta a portata di mano, 413 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

o l’eccitazione della fantasia, provocata dal minimo occasionale evento nell’attimo decisivo; agisce qualcosa di corporeo, che appare in modo del tutto imprevedibile, agisce l’umore, il balzo di una qualche passione, che in modo del tutto casuale è pronta a scattare: in breve, agiscono dei motivi che in parte non conosciamo affatto, in parte conosciamo assai male e che mai in precedenza possiamo mettere in conto nel loro reciproco rapporto. Può darsi che anche tra di loro abbia luogo un conflitto, uno spingere avanti e indietro, un compensarsi e un tracollare dei loro pesi – e questo sarebbe il vero e proprio “conflitto dei motivi”: – qualcosa per noi di completamente invisibile e inconscio. […] Ho certo esperienza di quel che alla fine faccio, – ma quale motivo, con tutto ciò, abbia propriamente vinto, questo non lo so. Noi però siamo ben abituati a non calcolare questi processi inconsci e a immaginarci la preparazione di un atto solo in quanto è cosciente: e così scambiamo il conflitto dei motivi con il confronto di possibili conseguenze di azioni differenti, – una confusione tra le più ricche di conseguenze e tra le più fatali per lo sviluppo della morale! (F. W. Nietzsche, Aurora, in Opere 1870/1881, cit., pag. 956-957, n° 129) Sguardo nella lontananza. – Se, come si è ben definito, le sole azioni morali sono quelle che sono state compiute per amore altrui e unicamente per amore altrui, allora non esistono azioni morali! Se – come suona un’altra definizione – le sole azioni morali sono quelle compiute nella libertà di volere, parimenti non esistono azioni morali! – E che cos’è dunque ciò che si chiama così e che in ogni caso esiste ed esige di essere spiegato? Sono le conseguenze di alcuni errori intellettuali. – E supposto che ci si liberasse di tali errori, che ne sarebbe delle “azioni morali”? […] Proprio queste azioni morali saranno, d’ora in poi, compiute meno di frequente, poiché d’ora in poi saranno stimate meno? Inevitabilmente! […] Ma la nostra contropartita è nel fatto che noi restituiamo agli uomini un animo sereno per quelle azioni denigrate come egoistiche e ripristiniamo il valore di queste stesse, – sottraiamo loro la cattiva coscienza! E poiché finora queste erano di gran lunga le più frequenti e lo saranno per tutto il tempo futuro, noi togliamo all’intero quadro delle azioni e della vita la sua apparenza di malvagità. Questo è un risultato assai grande! Quando l’uomo non si 414 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Friedrich Nietzsche: pagine antologiche

ritiene più malvagio, cessa di esserlo! (F. W. Nietzsche, Aurora, in Opere 1870/1881, cit., pag. 968, n° 148) L’innocenza del godimento di sé Irresponsabilità e innocenza. – La totale irresponsabilità dell’uomo rispetto alle sue azioni e al suo essere è la goccia più amara che chi vuole conoscere deve inghiottire, se nella responsabilità e nel dovere era avvezzo a vedere la patente di nobiltà della propria umanità. Tutte le sue valutazioni, le sue preferenze e avversioni perdono in tal modo ogni valore e son divenute false: il suo più profondo sentimento che egli tributava a chi soffriva, all’eroe, si rivolgeva a un errore; egli non può più lodare né biasimare, in quanto non ha senso lodare o biasimare la natura e la necessità. Come egli ama, ma non loda, la buona opera d’arte in quanto essa non può nulla per se stessa, come si pone davanti a una pianta, così deve porsi davanti alle azioni degli uomini e alle sue proprie. In esse può ammirare la forza, la bellezza, la pienezza, ma non può trovarvi dei meriti: il processo chimico e la lotta degli elementi, lo strazio del malato che anela di guarire, sono tanto poco dei meriti quanto poco lo sono quelle lotte dello spirito e quegli stati di emergenza in cui si vien trascinati qua e là da motivi diversi, sino a che finalmente ci si decide per il più potente di essi – si fa per dire (ma, in verità, sino a che il motivo più potente decide di noi). Ma tutti questi motivi, con qualsiasi nome altisonante vogliamo chiamarli, sono cresciuti dalle stesse radici nelle quali crediamo si annidino i cattivi veleni; tra azioni buone e azioni cattive non c’è differenza di genere, ma tutt’al più di grado. Azioni buone sono cattive azioni sublimate; azioni cattive sono buone azioni inasprite e corrotte. L’unico desiderio dell’individuo, quello del godimento di sé (e insieme la paura di restarne privo), si soddisfa in tutte le circostanze, l’uomo può agire come vuole, cioè come deve: sia in atti di vanità, vendetta, piacere, utilità, malvagità, astuzia, sia in atti di dedizione, compassione, conoscenza. La maggiore o minore capacità di giudizio stabilisce in quale direzione ciascuno si farà trasportare da questo desiderio; ogni società, ogni individuo ha sempre presente una gerarchia dei beni, in base alla quale determina le 415 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

sue azioni e giudica quelle altrui. Ma questo criterio cambia continuamente, molte azioni vengon dette cattive mentre sono solo stupide, in quanto il grado di intelligenza che le ha scelte era molto basso. Anzi, in un certo senso, ancor oggi tutte le azioni sono stupide, perché il grado di intelligenza attualmente raggiungibile verrà sicuramente superato: e allora, a guardare indietro, tutto il nostro agire e giudicare apparirà come limitato e avventato, come limitato e avventato appare oggi a noi l’agire e il giudicare di popolazioni arretrate e selvagge. Rendersi conto di tutto ciò può esser molto doloroso, ma poi c’è una consolazione: questi dolori sono le doglie del parto. La farfalla vuol rompere il suo involucro, vi dà strappi, lo lacera: allora l’abbaglia e la turba la luce sconosciuta, il regno della libertà. In uomini capaci di quella tristezza – quanto pochi saranno! – viene fatto questo primo esperimento: se l’umanità possa trasformarsi da morale in saggia. Il sole di un nuovo evangelo getta il suo primo raggio sulla più alta vetta dell’anima di quei singoli: là le nebbie si addensano più fitte che mai, e l’uno accanto all’altro stanno il più chiaro splendore e il più cupo crepuscolo. Tutto è necessità – questo dice la nuova conoscenza; ed essa stessa è necessità. Tutto è innocenza: e la conoscenza è la via per comprendere questa innocenza. Se piacere, egoismo, vanità sono necessari per produrre i fenomeni morali e la loro massima fioritura, il senso della verità e della giustizia della conoscenza, l’errore e lo smarrimento della fantasia erano l’unico mezzo con cui l’umanità poteva lentamente sollevarsi a questo grado di illuminazione e liberazione di sé: chi potrebbe disprezzare questi mezzi? Chi potrebbe esser triste, se scorge la meta cui conducono quelle vie? Nel regno della morale tutto è divenuto, mutevole, fluttuante, tutto è nel fiume, è vero: ma tutto è anche nella corrente, verso una meta. In noi può ben continuare a operare l’abitudine ereditaria a valutare, ad amare, a odiare erroneamente, ma sotto l’influsso di una sempre maggiore conoscenza essa si indebolirà: un’abitudine nuova, a comprendere, a non amare, non odiare, a guardare dall’alto si radica a poco a poco in noi sullo stesso terreno, e tra qualche millennio sarà forse tanto potente da dare all’umanità la forza di produrre l’uomo saggio e innocente (consapevole della sua innocenza) con la stessa regolarità con cui oggi produce l’uomo non saggio, non giusto, consapevole della propria colpa – ovvero il necessario preludio di quello, non il suo con416 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Friedrich Nietzsche: pagine antologiche

trario. (F. W. Nietzsche, Umano, troppo umano, in Opere 1870/1881, cit., pag. 562-563, n° 107) La morte di Dio e l’eterno ritorno dell’identico L’uomo folle. Non avete sentito parlare di quell’uomo folle che, nel chiarore del mattino, accendeva la sua lampada, andava al mercato e gridava incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. Poiché molti di coloro che si trovavano là non credevano in Dio, suscitò una gran risata. “Si è forse perduto?”, disse uno. “Ha smarrito la strada, come un bimbo?”, disse un altro. “O forse si è nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?”. E così gridavano e ridevano insieme. Il folle balzò in mezzo a loro e li trafisse con lo sguardo. “Dov’è andato Dio?”, gridò. “Ve lo dico io. L’abbiamo ucciso noi, – voi e io! Noi tutti siamo i suoi assassini. Ma come abbiamo fatto? Come siamo riusciti a bere tutto il mare, fino all’ultima goccia? Chi ci ha dato la spugna per cancellare tutto l’orizzonte? Che cosa abbiamo fatto, quando abbiamo svincolato questa terra dal suo sole? Ma in che direzione si muove, adesso? In che direzione ci muoviamo noi? Lontano da ogni sole? Non precipitiamo sempre più? E all’indietro, di lato, in avanti, da ogni parte? Esistono ancora un sotto e un sopra? Non vaghiamo attraverso un nulla infinito? Non avvertiamo l’alito dello spazio vuoto? Non fa più freddo? Non scende di continuo la notte, sempre più notte? Non occorre accendere la lampada anche al mattino? Non sentiamo il frastuono dei becchini che stanno seppellendo Dio? Non sentiamo ancora l’odore della putrefazione divina – anche gli dèi si putrefanno? Non è troppo grande per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo divenire dèi noi stessi, per essere degni di lei? Non c’è mai stata azione più grande – e chi nasce dopo di noi appartiene, in virtù di questa azione, a una storia più elevata di quanto non sia stata la storia fino ad oggi!”. A questo punto il folle tacque e riprese a osservare i suoi ascoltatori: anch’essi tacevano, guardandolo estraniati. Infine egli gettò per terra la sua lampada, che andò in mille pezzi e si spense. “Sono venuto troppo presto”, disse poi, “non è ancora l’ora. Questo evento enorme è ancora per strada, in cammino, – non è ancora giunto alle orecchie degli uomini. Lampo e tuono han417 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

no bisogno di tempo, la luce degli astri ha bisogno di tempo, le azioni hanno bisogno di tempo, anche dopo essere state compiute, per essere viste e udite. Questa azione è ancora più lontana degli astri più lontani, – eppure sono stati loro a compierla!”. Si dice anche che il folle, quello stesso giorno, sia penetrato in diverse chiese e vi abbia intonato il suo Requiem aeternam deo. A chi lo conduceva fuori e cercava di farlo parlare, rispondeva sempre: “Che cosa sono ormai queste chiese, se non le tombe e i monumenti funebri di Dio?”. (F. W. Nietzsche, La gaia scienza, in Opere 1882/1895, Newton Compton, Roma 2008, pag. 121-122, n° 125) Il peso più grande. Che cosa accadrebbe se un giorno o una notte nella più solitaria delle tue solitudini si insinuasse un demone e ti dicesse: “Questa vita che vivi adesso e che hai vissuto, dovrai viverla ancora innumerevoli volte; e non ci sarà niente di nuovo, in essa, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro e tutto quello che in essa c’è di indicibilmente piccolo e grande deve tornare, e tutto nella stessa sequenza e successione – persino questo ragno e questo chiaro di luna tra gli alberi, e persino questo istante e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene girata di continuo –, e tu con essa, infimo granello di polvere!”. Non ti getteresti a terra e digrigneresti i denti e malediresti il demone che parla così? O hai già vissuto un attimo di immensità in cui gli risponderesti: “Tu sei un dio, e mai ho udito parole più divine!”. Se quel pensiero si impadronisse di te, come sei adesso, ti trasformerebbe, forse stritolandoti; la domanda “vuoi che tutto ciò accada ancora una volta, innumerevoli volte?” sarebbe il più grande peso mai gravato sul tuo agire! Oppure, quanto dovresti essere ben disposto nei confronti di te stesso e della vita, per non desiderare nient’altro che quest’ultima, eterna conferma, questo sigillo? (F. W. Nietzsche, La gaia scienza, in Opere 1882/1895, cit., pag. 171, n° 341) Il vangelo di Zarathustra, ovvero l’annunzio del superuomo «Io vi annunzio il superuomo. L’uomo va superato. Che avete fatto voi per superarlo? Tutti gli esseri crearono finora qualche cosa che sor418 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Friedrich Nietzsche: pagine antologiche

passa loro stessi: e voi volete essere il riflusso di questa grande marea, e tornare piuttosto al bruto che superare l’uomo? Che cos’è la scimmia per l’uomo? Una derisione o una dolorosa vergogna. E questo appunto deve essere l’uomo per il superuomo: una derisione o una dolorosa vergogna. Voi avete percorso la strada che porta dal verme all’uomo, ma molto c’è ancora in voi del verme. Una volta eravate scimmie, e ancor adesso l’uomo è più scimmia di tutte le scimmie. Ma anche il più saggio, fra di voi, non è che un essere in conflitto, un ibrido di pianta e di fantasma. Ma forse che vi dico di divenir piante o fantasmi? Ecco, io vi insegno il superuomo! Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: il superuomo sia il senso della terra! Vi scongiuro, fratelli miei, restate fedeli alla terra, e non credete a coloro che vi parlano di speranze soprannaturali. Sono avvelenatori, lo sappiano o no. Sono spregiatori della vita, moribondi, avvelenati essi stessi; la terra ne è stanca: se ne vadano dunque! L’oltraggio a Dio era una volta il maggior delitto: ma Dio è morto e morirono con lui anche questi bestemmiatori. Oggi oltraggiare la terra è quanto vi sia di più terribile, e stimare le viscere dell’imperscrutabile più che il senso della terra! Una volta l’anima guardava con disprezzo il corpo: e quel disprezzo era una volta il più alto ideale: lo voleva magro, odioso, affamato. Pensava, in tal modo, di sfuggire a lui e alla terra. Oh, quest’anima era anch’essa magra, odiosa, affamata: e la crudeltà sua gioia suprema. Ma voi pure, fratelli miei, ditemi: che cosa vi rivela il vostro corpo intorno all’anima vostra? Non è forse la vostra anima miseria e sozzura, e compassionevole soddisfazione di sé? Un fiume fangoso è l’uomo. Bisogna essere un mare per poter accogliere un tal fiume senza divenire impuro. Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è questo mare, e in esso può inabissarsi il vostro grande disprezzo. Che di più sublime potrebbe toccarvi? Ecco l’ora del maggior disprezzo, l’ora in cui vi ripugnerà non solo la vostra felicità, ma anche la vostra ragione e la vostra virtù. L’ora in cui direte: “Che importa la mia felicità! Essa è povertà e sozzura e misera soddisfazione di sé. Ma la mia felicità doveva giustificare la stessa vita!”. L’ora in cui direte: “Che importa la mia ragione! Brama essa la scienza come il leone il nutrimento? Essa è povertà e sozzura e miserabile soddisfazione di sé!”. L’ora in cui direte: “Che importa la mia vir419 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

tù. Non mi ha ancora fatto fare follie. Come sono stanco del mio bene e del mio male! Tutto ciò è miseria e sozzura e misera soddisfazione di sé!”. L’ora in cui direte: “Che importa la mia pietà? La pietà non è forse la croce su cui inchiodano colui che ama gli uomini? Ma la mia pietà non è crocefissione”. Avete già parlato così? Avete già gridato così? Ah se vi avessi già udito gridare così! Non il vostro peccato, ma la vostra moderazione grida contro il cielo, la vostra avarizia nello stesso peccato! Dov’è il fulmine che vi lambisca con la lingua? Dov’è la follia che si sarebbe dovuto inocularvi? Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è questo fulmine, è questa follia!» (F. W. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Mursia, Milano 1965, pp. 19-21) «L’uomo è una fune tesa tra il bruto e il superuomo; una fune sopra l’abisso. Un pericoloso andare di là, un pericoloso essere in cammino, un pericoloso guardare indietro, un pericoloso rabbrividire e arrestarsi. Ciò ch’è grande nell’uomo è d’essere un ponte e non uno scopo: ciò che si può amare nell’uomo è il suo essere un passaggio e un tramonto. Amo quelli che non sanno vivere che per sparire, poiché son coloro appunto che vanno al di là. Io amo i grandi disprezzatori perché sono i grandi veneratori, e frecce del desiderio verso l’opposta riva. Amo coloro che non cercano dietro alle stelle una ragione per tramontare ed offrirsi in sacrificio: ma coloro che si sacrificano alla terra, perché la terra appartenga un giorno al superuomo. Amo colui che vive per conoscere, e che vuol conoscere affinché un giorno sorga il superuomo. E in tal modo egli vuol il proprio tramonto. […] Amo tutti coloro che sono come gocce pesanti, cadenti una per una dalla fosca nube sospesa sugli uomini: annunziano che viene il fulmine, e periranno come annunciatori. Ecco, io sono un annunciatore del fulmine e una pesante goccia della nube: ma questo fulmine si chiamerà superuomo». (F. W. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., pp. 21-22)

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Henri Bergson

L’umanità geme, semischiacciata dal peso del progresso compiuto. Non sa abbastanza che il suo avvenire dipende da lei. A lei di vedere prima di tutto se vuole continuare a vivere; a lei di domandarsi poi se vuole soltanto vivere, o fornire anche lo sforzo perché si compia, anche sul nostro pianeta refrattario, la funzione essenziale dell’universo, che è una macchina destinata a creare delle divinità. Bergson

Caratteri generali dello spiritualismo Lo spiritualismo, sviluppatosi nell’Europa otto-novecentesca, si presenta come corrente filosofica motivata a reagire in modo deciso alle tesi del positivismo scientifico (o “scientismo positivistico”). I filosofi “spiritualisti” accusano il positivismo scientifico di aver ridotto, nelle loro speculazioni teoriche, l’essere umano a essere naturale, l’uomo a natura, lo spirito (la coscienza, il pensiero) a materia. Ogni aspetto umano viene trattato dal positivismo scientifico come un “fatto”, di cui occorre trovare, tramite analisi ed esperimenti specifici, le “leggi” che lo determinano. Ogni specificità umana – società, economia, storia, ecc. – viene analizzata scientificamente, allo stesso modo in cui 421 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

vengono analizzate le specificità della natura. In tal modo non ha più senso distinguere tra specificità umane e naturali, anzi, non ha più senso parlare di specificità: tutto è “fatto” (atteggiamento riduzionistico), tutto è analizzabile scientificamente (monismo scientifico). L’astronomia, la fisica e la biologia, le cosiddette “scienze naturali”, usano gli stessi metodi “positivi” – ossia razionali, logico-matematici, strettamente “discorsivi” – delle “scienze umane”, quali la sociologia, l’economia, la storiografia, ecc. Tra un pianeta nello spazio e un popolo dell’Africa orientale, non esistono differenze tali da non poter utilizzare identici procedimenti conoscitivi e sperimentali, per determinare quali “leggi costanti” condizionano e causano quei “fatti” tra loro simili. Il positivismo considera il metodo della scienza come l’unico adatto a fornire reali conoscenze e (quanto più) sicure previsioni, entrambe indispensabili all’essere umano per la sua concreta azione nel mondo. Il procedimento scientifico consiste, essenzialmente, sull’osservazione diretta (in laboratorio), sulle prove sperimentali e sul calcolo delle probabilità che portano, come risultato, all’argomentazione razionale (leggi e assiomi logico-matematici). Ciò che lo spiritualismo rifiuta in modo netto, non è la scienza in quanto scienza (che è sempre “scienza dei fatti”), ma è il carattere assolutistico di essa, che pretende di ridurre ogni forma di conoscenza ad una conoscenza oggettivistica, analitica, puramente discorsiva e intellettuale. Chi intende procedere in questo modo, chi intende avvalersi esclusivamente di una comprensione scientifica del mondo e dell’uomo, non può non negare, per esempio, ogni realtà alla libertà della persona umana, all’interiorità della coscienza, alla trascendenza divina, ecc. Ciò che così si nega sono i “valori” e l’esperienze vitali che in nessun modo rientrano e possono rientrare nei “fatti” che la scienza prende in esame, e che il positivismo, di conseguenza, afferma come i soli esistenti. L’esperienza artistica, i valori 422 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Henri Bergson

morali, le credenze religiose, e tutto ciò che concorre a formare il cosiddetto “mondo dello spirito”, non può essere in nessun modo ridotto a materiale d’osservazione scientifica. Questo il positivismo lo sa bene, al punto che nega ogni validità conoscitiva e ogni pregnanza reale alle manifestazioni dello spirito umano. La stessa filosofia, per il positivismo, deve intraprendere unicamente un’osservazione analitica per pervenire ad una comprensione oggettiva e sicura dei “fatti” di quell’unica realtà, che è la realtà empirica. È sul ruolo specifico della filosofia e della sua indipendenza rispetto alla scienza, che molti filosofi spiritualisti pongono l’accento. La filosofia si distingue dalla scienza per le questioni che tratta, per i procedimenti gnoseologici, per i risultati ottenuti. Soprattutto in merito allo studio dell’uomo, spiritualismo e scienza vengono a trovarsi in aperta opposizione. Per lo spiritualismo l’uomo è interiorità e libertà, coscienza e riflessione, e a questi aspetti la filosofia deve fare riferimento per le sue indagini speculative. La scienza, al contrario, considera l’uomo, come ogni altra cosa della realtà, soggetto alla necessità, condizionato da mille fattori e cause naturali, fattori e cause esterne che condizionano in tutto e per tutto la stessa vita mentale dell’essere umano. Se il positivismo pone come unico metodo conoscitivo l’osservazione diretta di “fatti” esterni e il ragionamento razionale, lo spiritualismo, invece, afferma l’importanza di uno strumento di indagine sconosciuto al positivismo e inadoperabile dalle scienze: l’ascolto dell’interiorità (“esperienza interna”), l’ascolto dell’anima che ritorna a se stessa, l’ascolto della voce della coscienza. Oltre l’assolutismo scientifico, lo spiritualismo nega ogni concezione idealistica che pretenda di affermare la coscienza umana come infinita, onnipotente e divina. L’uomo è “finito”, è mortale, ed ha oltre di sé ciò che lo trascende, ossia Dio, l’unico e il vero Assoluto. Contro il positivismo scientifico, che riduce l’uomo a 423 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

“fatto”, e contro ogni concezione filosofica che identifica l’uomo (il finito) a Dio (l’Infinito), lo spiritualismo afferma che l’uomo è spirito, coscienza, vita interiore. E lo spirito non è solo ciò “che non è mai cosa o oggetto, e che sussiste unicamente in forza del suo stesso esercizio, ma, quali che siano le condizioni che suppone, esso è sempre libera iniziativa e primo cominciamento di se stesso”. L’uomo, che è spirito, “si crea da sé in ogni istante”, e creando liberamente se stesso, “produce anche, non le cose, ma il senso delle cose”. Henri Bergson: vita e opere Henri Louis Bergson nasce a Parigi il 18 ottobre 1859. Nel 1868 inizia a frequentare il liceo Fontane; nel 1877, quando ancora compiva gli studi liceali, vinse un premio per la risoluzione di un problema matematico; la sua soluzione fu pubblicata l’anno seguente negli Annales de Mathématiques. L’anno dopo si iscrive alla École Normale Supérieure; una volta diplomatosi, nel 1881 riceve un incarico come insegnante prima presso il liceo di Angers (Francia), poi al liceo Blaise Pascal di Clermont-Ferrand e poi, nel 1889, a Parigi presso il liceo Henri-Quatre; è in quest’ultimo anno che pubblica il suo primo scritto, il Saggio sui dati immediati della coscienza. Nel 1898 Bergson diventa Maître de conférences presso l’Ecole Normale Supérieure; due anni dopo, ottenuto il titolo superiore di professore, accetta la cattedra di filosofia greca al Collège de France. Nel 1907 pubblica quella che sarebbe stata considerata la sua opera principale, l’Evoluzione creatrice, contributo originale sulla teoria dell’evoluzione. Nel 1908 va a Londra, dove conosce William James, che rimase particolarmente colpito dal giovane filosofo francese. Nel 1911 si tenne in Italia, a Bologna, il Quarto Con424 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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gresso Internazionale di Filosofia durante il quale Bergson tenne un discorso su L’Intuition philosophique. Nel 1927, quando ormai aveva deciso di abbandonare l’insegnamento per dedicarsi completamente ai suoi studi, vinse il Premio Nobel per la letteratura. Nel 1932 pubblica uno degli ultimi suoi scritti, Le due fonti della morale e della religione, a seguito del quale Bergson si accostò sempre più al cattolicesimo. Muore ad Auteuil (Francia), il 4 gennaio 1941. Il sapere scientifico Henri Bergson – la cui filosofia rientra a gran titolo nella corrente filosofica dello spiritualismo, di cui fu tra l’altro è il più noto esponente – non intende negare il ruolo e l’importanza della scienza, né le sue conquiste teoriche e pratiche, ma sente forte il bisogno di ridimensionare e di raffrenare gli entusiasmi sproporzionati delle menti positivistiche. Entusiasmo eccessivo e in fondo ingiustificato, questo, tradottosi in affermazioni assolutistiche riguardanti l’efficacia esclusiva del metodo scientifico. Basti qui l’affermazione dello scienziato Du Bois-Reymond, che lo stesso Bergson riporta in una sua opera, per capire a quali toni assolutistici ed esaltati si riferisce il nostro filosofo: “Si può immaginare che la conoscenza della natura arrivi a un punto in cui il processo universale del mondo sarebbe rappresentato da una formula matematica unica, da un solo immenso sistema di equazioni differenziali simultanee, da cui si potrebbero ricavare, per ogni momento, la posizione, la direzione e la velocità di ogni atomo del mondo”. La “ragione calcolante”, ovvero la scienza, non deve essere considerata come ciò che è capace di comprendere tutta la realtà, la totalità del mondo. La scienza, una volta uscita dalla sua pretesa di porsi come unico sapere capace di comprendere ogni realtà (naturale e umana), deve porsi 425 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

in un dialogo costruttivo con la filosofia, per chiarire i limiti e le competenze sia dell’una che dell’altra disciplina. Sarebbe un grave errore considerare la realtà nella sua totalità esclusivamente in termini “geometrici” o “spazializzati”, che sono i termini tramite cui la scienza perviene alle sue formulazioni teoriche. Così facendo si ridurrebbe la realtà a ciò che è caratterizzata esclusivamente da elementi “estesi”, solidi, isolati e immutabili. L’indagine scientifica procede analiticamente: preso in esame un determinato “fatto”, lo scompone, lo differenzia, lo divide in frammenti, in segmenti, in parti isolate e immobili, affinché si possa osservare e analizzare più facilmente il “fatto” in questione. Tale procedimento di scomposizione è un qualcosa di artificiale, che ha a che fare con corpi inerti, con la “materia bruta”, ed è riferendosi ad essi che la scienza perviene alle sue leggi razionali ed esatte. I concetti intellettuali, le “categorie” logiche, le “leggi” della scienza, fungono da “schemi precostituiti e ritenuti definitivi” entro i quali vengono, di volta in volta, inseriti e catalogati aspetti ed elementi della realtà. Poiché gli schemi concettuali della scienza e le sue “verità”, sono derivate da osservazioni praticate su materiali inerti scomposti artificialmente, ciò che la scienza è impossibilitata a comprendere è l’“esistenza”, la “vita” concreta, il movimento reale, l’evoluzione dell’essere umano. Bergson, sia chiaro, non commette l’ingenuo errore di cancellare definitivamente dal quadro dei saperi l’apporto della scienza, riducendo a sua volta la vita e l’intera realtà ad una questione esclusivamente spirituale. Non si può negare l’esistenza della materia, dei corpi, della natura, se si vuole svolgere un discorso critico e costruttivo riferito alla totalità della realtà, come intende essere il discorso filosofico di Bergson. “Il grosso errore delle dottrine spiritualistiche è stato quello di credere che con l’isolare la vita spirituale da tutto il resto, col sospenderla il più alto possibile sopra la terra, la ponessero con ciò al riparo da ogni attentato”. Nelle sue 426 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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opere c’è sempre un pregnante riferimento a teorie biologiche, a ricerche anatomiche, ai processi di trasformazione, studiati dai vari campi della scienza, ed è confrontandosi con le nozioni scientifiche, che egli viene ad esporre il contenuto della sua originale visione spiritualistica. Delle speculazioni scientifiche, Bergson accetta la “teoria dell’evoluzione”, che nega ogni fissità, rigidità e immutabilità della specie (naturale e umana). Di questa teoria rifiuta le deviazioni arbitrarie, che hanno indotto alcuni teorici e scienziati ad interpretare in senso meccanicistico l’evoluzione (che è innovazione continua e progresso incessante). Per la visione meccanicistica, la vita e le sue varie forme (animali, vegetali, umane, ecc.) hanno origine da un processo di associazione (aggregazione) di parti preesistenti. In tal modo, per Bergson, si ripresenta, celatosi sotto un nuovo nome, il cosiddetto “finalismo” della tradizione, che afferma l’esistenza di un fine (intenzione, scopo) preesistente alla vita delle specie naturali: “Anche qui, come nell’ipotesi meccanicistica, si suppone che tutto è dato”. Per il finalismo della tradizione, le molteplicità e i caratteri delle specie, le varie forme di vita naturali, sono il risultato di un piano intenzionale esistente prima delle stesse specie naturali, sono il prodotto di un disegno preesistente alla stessa vita delle varie forme che la natura di volta in volta presenta. Sia il meccanicismo che il finalismo, considerano l’innovazione delle specie come ciò che è subìto dall’esterno delle specie stesse. Da una parte, vi sono parti che si aggregano in modo meccanico e causale (dove la causa è sempre esterna), dall’altra, le forme di vita naturali non fanno che adempiere ed eseguire passivamente un progetto o un fine a loro esterno. Nell’uno come nell’altro caso, si tratta di qualcosa (le parti e il progetto) che preesiste alle specie stesse, così che entrambe le concezioni – meccanicismo e finalismo –, non fanno che allontanarsi dal palpito vero e autentico della vita e dell’esistere. Vita che non conosce preesistenze o meccanismi di nessun 427 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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tipo, ma che, al contrario, è caratterizzata dall’incessante novità, dalla libertà più assoluta, dalla creazione continua, dalla progressione, in una parola, dalla “durata” che è la vita stessa. “Parlare di un fine significa pensare a un modello preesistente che deve semplicemente realizzarsi. Significa dunque supporre, in definitiva, che tutto è dato, che il futuro potrebbe essere letto nel presente. Significa credere che la vita, nel suo movimento e nella sua totalità, procede come la nostra intelligenza, la quale è soltanto una prospettiva immobile e frammentaria sulla vita stessa, che per natura si pone sempre fuori del tempo. La vita invece progredisce e dura”. La vita interiore è continuo mutamento, è “durata” In importanti opere come il Saggio sui dati immediati della coscienza e Materia e memoria, Bergson si dedica ad approfondire decisive questioni “psicologiche”, pervenendo a nozioni fondamentali che caratterizzeranno la sua intera produzione filosofica. Ne L’evoluzione creatrice1, pubblicato alcuni anni dopo rispetto alle suddette opere, il nostro filosofo allarga le precedenti speculazioni, strettamente psicologiche, per riferirsi alla dimensione del vivente nella sua totalità (umana, naturale, inorganica). Nelle prime pagine di quest’opera egli sintetizza, in modo molto chiaro, i risultati teorici a cui era pervenuto nella sua precedente produzione filosofica. Ebbene, ci dice Bergson, se io pongo una certa attenzione ai dati immediati della mia coscienza, se pongo attenzione al vissuto della mia interiorità, “constato che in me si succedono stati diversi”, infatti, “sensazioni, sentimen-

1   Le citazioni di quest’opera sono tratte da: H. Bergson, L’evoluzione creatrice, Raffaello Cortina, Milano 2002.

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ti, volizioni, rappresentazioni, sono tutti cambiamenti che si avvicendano nella mia esistenza e che di volta in volta la colorano. Io muto dunque continuamente”. Queste sensazioni, sentimenti e volizioni, non sono però degli stati che rappresentano dei “blocchi” a sé stanti, indipendenti da ogni altro stato successivo, bensì sono “stati d’animo” che continuano a modificarsi in ogni istante, che cambiano ininterrottamente, che durano senza mai bloccarsi, immobilizzarsi e irrigidirsi. Il senso comune, come anche la scienza, è abituato a pensare che noi passiamo da uno stato d’animo all’altro come si passa da un gradino di una scala ad un altro, come se non ci fosse continuazione o transizione di sorta tra lo stato passato e quello attuale, come se uno stato (tristezza) fosse interrotto e spodestato da un altro (allegria). In realtà, “il mio stato d’animo, procedendo sulla via del tempo, si riempie in continuazione della durata che in esso si raccoglie; cresce, per così dire, su se stesso come una palla di neve”. Dobbiamo pensare la nostra vita interiore, come un piccolo fiocco di neve che una volta incontrato il manto nevoso, dall’inizio dei giorni fino all’ultimo, si trova a rotolare incessantemente su un piano inclinato, su un “dolce pendio”. Durante il rotolare – che rappresenta la vita concreta, il tempo reale –, esso aumenta sempre più, cresce su se stesso: da piccolo fiocco si fa piccola palla, da pallina a palla più grossa, e così aumentando e stratificandosi sempre più, fino alla fine della corsa-vita. L’esistenza reale della nostra “vita psicologica” non è né il suo essere stata fiocco o il suo essere stata pallina, ma è il suo durare, è la sua “durata”. Questa è dunque da intendere come un unico “stato” che varia, che cresce e che si modifica continuamente, come un medesimo “sfondo” sul quale si stagliano sempre nuove impressioni, dolori, paure, gioie. Stati interni, questi, che “non sono elementi distinti, ma si prolungano gli uni negli altri in un incessante fluire”. La nostra esistenza psicologica, nella sua totalità, è una 429 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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“massa fluida”, è “un fluire di sfumature fuggevoli che si sovrappongono le une alle altre”, è “continuità in svolgimento”. Sbaglia chi afferma che nella nostra vita psichica degli stati “netti” e “solidi” subentrano gli uni al posto degl’altri, come se fossero delle perle di una collana che si affiancano rimanendo l’una isolata, distinta e indipendente dall’altra. Chi intende così la vita psichica, sbaglierà una seconda volta, in quanto si troverebbe costretto ad affermare l’esistenza di un “sostrato”, di un “io amorfo, indifferente, immutabile, sul quale sfilerebbero o si intreccerebbero gli stati psicologici che aveva promosso a entità indipendenti”. In realtà questo “sostrato” immutabile, quest’io indifferente e impassibile che funge da sintesi di stati separati non esiste, perché il nostro vero io è “durata”, è “evoluzione”, è divenire, continuo svolgimento, incessante crescita e stratificazione del passato nel momento attuale (sempre variante): “un io che non cambia non dura”. Il nostro tempo reale, la nostra “durata concreta”, è “il progresso continuo del passato che rode il futuro e che aumenta a mano a mano che avanza. E dato che si accresce incessantemente, il passato si conserva indefinitamente”. Il passato si conserva indefinitamente nella nostra “memoria”, si conserva da sé, automaticamente, “ci segue, tutto intero, in ogni istante”. È vero che non tutto del nostro passato ci torna alla mente, qualcosa di esso resta inconscio, irrecuperabile, in quanto il nostro “meccanismo cerebrale” fa entrare nella nostra coscienza “solo ciò che serve a chiarire la situazione presente, ad assecondare l’azione che si sta preparando, a prestare insomma un lavoro utile”. Eppure è innegabile che il nostro “carattere” è “la condensazione della storia che abbiamo vissuto da quando siamo nati”: “è con tutto il nostro passato, compresa l’inclinazione originaria del nostro animo, che desideriamo, vogliamo, agiamo”. È con tutto il nostro passato che manifestiamo il nostro carattere, la nostra personalità attuale, sempre in crescita e in movimento. 430 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Dire che nella nostra personalità è custodito tutto il nostro passato, significa che nessuna esperienza passata può essere rivissuta, proprio perché noi siamo “durata” che “si trasforma continuamente”, trasformando di continuo anche il nostro passato, indistinguibile e indivisibile da ciò che noi attualmente siamo e da ciò che in futuro saremo. La nostra storia è allora “irreversibile”, non è possibile riviverla in nessun modo: “il fondo stesso della nostra esistenza cosciente è memoria, ossia prolungamento del passato nel presente, cioè, insomma, durata agente e irreversibile. Il ragionamento può certo mostrarci che quanto più prendiamo le distanze dagli oggetti delimitati dal senso comune e dai sistemi della scienza, tanto più ci ritroviamo ad avere a che fare con una realtà che cambia completamente nel suo assetto interiore, come se una memoria che accumula passato rendesse impossibile un farvi ritorno, un movimento a ritroso”. Bergson, negando l’immutabile persistenza del passato psichico, rientra a gran titolo all’interno della tendenza fondamentale della filosofia contemporanea, intenta a negare ogni realtà e ogni tipo di verità che voglia imporsi come immutabile, immobile, definitiva e incontrovertibile. Il nostro passato ci segue sempre, noi siamo il nostro passato, e con esso mutiamo di continuo. Diveniamo sempre altro da ciò che siamo, al punto che non possiamo mai distinguere o isolare il nostro passato da noi stessi, essendo noi “esseri coscienti” un tutt’uno con esso, essendo un tutto organico in perpetuo movimento in avanti, una palla che fin dal primo giorno rotola portando con sé o conservando in sé ciò che è stato, e trasformando e prolungando di continuo questo “ciò che è stato” (passato) in ciò che è (presente) e, successivamente, in ciò che sarà (futuro). Del nostro passato non possiamo riviverne neanche un frammento, perché questo frammento appartiene a quell’unica “massa fluida”, a quel flusso ininterrotto, a quel rotolare stratificante che è la nostra vita interiore, nella quale nulla 431 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

può essere preso come distinto e isolato, come “frammento” appunto. “Così la nostra personalità nasce, si sviluppa, matura in continuazione. Ciascuno dei suoi momenti è qualcosa di nuovo che va ad aggiungersi a quanto c’era prima. Anzi: non è solo qualcosa di nuovo, ma anche di imprevedibile”. La nostra storia è “in fieri”, è storia che si costruisce momento dopo momento, stato dopo stato, dove niente può essere previsto riferendosi allo stato precedente, perché ogni nostro stato è “semplice” e “indivisibile”, ed è impossibile prevedere come questi stati semplici e indivisibili si organizzino effettivamente, è impossibile prevedere come la nostra vita si svolgerà concretamente. Ogni momento della nostra vita è “un momento originale di una storia altrettanto originale”. Ogni momento della nostra vita non è determinato da nulla di preesistente, da nessun meccanismo e da nessun progetto intenzionale (finalismo) a noi esterno, siamo solo noi gli artefici e i creatori dei momenti della nostra vita, sempre originale e unica. Novità, imprevedibilità, creazione dal nulla, trasformazione incessante, sono i caratteri del “divenire”, così che per Bergson l’esistere dell’essere cosciente, la vita dell’uomo, non è altro che questo divenire inarrestabile: “per un essere cosciente, esistere significa cambiare, cambiare significa maturarsi, maturarsi significa creare indefinitamente se stessi”. Il tempo della scienza e il tempo della filosofia Bergson sostiene che alla scienza sfugge, e non può non sfuggirle, il “tempo” dell’esperienza concreta, della vita reale, dell’esistenza autentica. Per la scienza, il tempo consiste in una serie di istanti posti uno accanto all’altro, così come una retta geometrica non è che un successione ordinata di punti che si susseguono uno all’altro. I punti e gli istanti sono come le perle solide e distinte della collana già incontrata, ossia sono elementi fermi, statici, immutabili. 432 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Affermare che il tempo è composto da elementi statici giustapposti in una successione ordinata, per Bergson significa negare l’autenticità effettiva e reale del tempo, significa postulare un tempo artificiale e astratto, un tempo falsificato e costruito ad oc (per facilitare l’analisi scientifica), un tempo che non corrisponde alla realtà. La scienza ha a che fare nelle sue osservazioni e teorie con un “tempo spazializzato”, con un tempo geometrico, che corrisponde al tempo dell’orologio, dove nel quadrante si esegue meccanicamente la successione ordinata delle lancette che “saltano” da tacca a tacca, da istante a istante, da immobile a immobile. Nel tempo spazializzato della scienza, nel quadrante dell’orologio, ogni istante è separato dall’altro, ogni tacca è esterna all’altra, eppure ogni istante è perfettamente uguale all’altro, ogni tacca è esattamente come l’altra. È questo un tempo meramente quantitativo, un tempo che misura, che calcola, che quantifica appunto. Un tempo nel quale un istante si sussegue semplicemente all’altro, senza che ci possa essere una differenza qualitativa tra l’uno e l’altro, un’intensità maggiore, un’importanza rilevante, una qualità significativa e originale. Il tempo spazializzato e quantitativo della scienza, è un tempo “reversibile”, in quanto durante un esperimento scientifico possiamo sempre ritornare indietro, che sia al punto di partenza per ripetere quante volte vogliamo uno stesso esperimento, o che sia per ripetere solo una piccola porzione (o fase) di quest’ultimo. Questo tempo spazializzato, quantitativo e reversibile vale per “tutti quei fatti cha appartengono a un sistema [scientifico] in cui elementi considerati immutabili vengono semplicemente affiancati; in cui si producono soltanto cambiamenti di posizione; in cui immaginare che le cose riprendano il posto di prima non è un’assurdità teorica; in cui, di conseguenza, lo stesso fenomeno, nella sua totalità o perlomeno nei suoi elementi, può ripetersi”. Il tempo utilizzato negli esperimenti scientifici è sempre e soltanto il tempo spazializzato e calcolante e reversibi433 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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le, che si stia analizzando un qualsiasi oggetto o un essere vivente. Per la scienza, dunque, il tempo “ha esattamente la stessa realtà per un essere vivente e per una clessidra: l’ampolla superiore si svuota mentre quella inferiore si riempie, ma, ribaltandola, le cose tornano come prima”. Pensando e agendo in questo modo, la scienza si lascia sfuggire quanto di “irriducibile e irreversibile” vi sia nella realtà, così che “per rappresentarsi questa irriducibilità e irreversibilità, bisogna liberarsi dalle abitudini scientifiche, bisogna fare violenza allo spirito, risalire la china naturale dell’intelligenza. E questo è, precisamente, il ruolo della filosofia”. Il tempo reale a cui deve fare riferimento il sapere filosofico, per Bergson, è il tempo dello spirito, che è “durata”, e “durata significa invenzione, creazione di forme, elaborazione continua dell’assolutamente nuovo”. La durata è “maturazione” e creazione incessante di nuove qualità, nuovi sensi, nuove tendenze, nuove realtà. Soprattutto il tempo dello spirito è un tempo che non è mai compiuto, mai “perfetto”, mai già dato, non può essere rinchiuso in un quadrante d’orologio o in un grafico geometrico: è un tempo mai interamente realizzato, “e sempre in via di realizzazione”. Questo tempo appartiene all’“essere vivente”, “come l’universo nel suo insieme, come ogni essere cosciente preso di per sé ”, perché l’universo, al pari dell’uomo, è un organismo vivente, e “l’organismo che vive è qualcosa che dura. Tutto il suo passato si prolunga interamente nel suo presente, e ci rimane, attivo e attuale”. Il tempo dello spirito è un flusso irreversibile nel quale “il passato incalza il presente e ne fa scaturire una forma nuova, incommensurabile rispetto a quanto la precedeva”. Ogni momento è sempre diverso da quello precedente, nessun istante ha mai lo stesso valore del precedente, mai l’elemento presente é simile a quello passato, così che ogni “situazione” è unica nel suo genere e assolutamente irripetibile. Questo significa che il tempo dello spirito è un tem434 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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po imprevedibile, perché “del futuro si può prevedere solo ciò che somiglia al passato, o ciò che si può ricomporre con elementi simili a quelli del passato”. L’utilità dell’intelligenza per la vita Bergson, affermando l’originalità e l’imprevedibilità dell’esistenza spirituale, e allargando il concetto di variazione e creazione continua a tutto l’universo, viene a scontrarsi contro il fatto che “la nostra intelligenza insorge contro l’idea di un’originalità e imprevedibilità assolute delle forme”. Per il nostro filosofo la cosa non potrebbe essere diversamente, in quanto l’intelligenza umana risponde ad una funzione che non riguarda aspetti eminentemente “teorici”, che non si lascia andare ad una speculazione “disinteressata” (o contemplativa, come intende essere la filosofia di Bergson), ma, all’opposto, risponde ad una funzione strettamente “pratica”. “La nostra intelligenza, per come è stata modellata dall’evoluzione della vita, ha la funzione essenziale di chiarire il nostro comportamento, di preparare la nostra azione sulle cose, di prevedere, in una data situazione, gli eventi favorevoli o sfavorevoli che potrebbero seguirne”. Rispettando la sua funzione pragmatica, l’intelligenza isola “ciò che somiglia a quanto le è già noto; cerca l’identico per poter applicare il suo principio: ‘l’identico produce l’identico’”. Così facendo, l’intelligenza uccide ogni originalità e imprevedibilità della vita, uccide la “durata” reale dell’esistenza in genere, riconducendo ogni istante e fenomeno presente a ciò che è già stato nel passato, mentre, per quanto riguarda il futuro, non prevederà altro che quanto è oggi si ripeterà, nello stesso identico modo, anche domani. Tale concezione riguarda sia il cosiddetto “senso comune” che la razionalità scientifica, la quale porta que435 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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sta comune procedura intellettuale al più alto grado possibile di esattezza e precisione, “ma non ne altera il carattere essenziale” (negazione della “durata”). La scienza, perfezionando la funzione pratica dell’intelligenza, ossia perfezionando la sua capacità di immobilizzare astrattamente elementi e fenomeni per poter garantire una migliore riuscita all’azione umana, “può operare solo su ciò che ritiene possa ripetersi, ossia su ciò che si sottrae, per ipotesi, all’azione della durata”. La scienza, che si affida al potere risolutivo e pratico dell’intelligenza, tratta ciò che si presenta come “storia continua”, come “durata” – che è compenetrazione e prolungamento continuo del passato nel presente, è massa fluida di elementi semplici e non isolabili l’uno dall’altro, è flusso continuo e indivisibile – , come ciò che, di fatto, si scompone in stati successivi, isolati e indipendenti, eppur identici gli uni agli altri. Del nostro essere una palla di neve, che rotola su un dolce pendio, la scienza, per poterci indagare e analizzare utilizzando quello strumento pratico che è l’intelligenza, non può far altro che fermare e bloccare tale nostro movimento incessante. Solo dopo aver immobilizzato il nostro durare, può rappresentarsi la nostra storia dando ad essa, per esempio, la forma geometrica di una circonferenza. Uno scienziato, prendendo in esame la mia storia, osservando questa circonferenza geometrica che è la mia storia (ridotta a “fatto” immobile), affidandosi al potere conoscitivo e pragmatico dell’intelligenza, inizierà a dividere tale sfera in quattro punti precisi, venendosi così a trovare con quattro curve spezzate, con quattro segmenti ben determinati e indipendenti l’uno dall’altro. Nel primo segmento osserverà la mia infanzia, nel secondo la mia giovinezza, nel terzo la mia maturità e nel quarto la mia vecchiaia. Ogni singolo segmento verrà poi a sua volta diviso in segmenti sempre più piccoli e tutti della stessa misura, fino ad arrivare ad una serie di punti (che rappresentano gli “stati” 436 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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della mia vita) isolati gli uni dagli altri e posti gli uni accanto agli altri, in modo da rappresentare una successione ordinata e lineare. In sede sperimentale poi si ingegnerà ad accostare un frammento del primo segmento magari con uno del quarto o viceversa, giustapporrà un istante della mia giovinezza con uno della mia maturità o viceversa, venendo così a costruire artificialmente un senso che in realtà la mia vita non possedeva e non possiede. Senza ombra di dubbio lo scienziato in questione, procedendo in tal modo nella sua indagine sperimentale, sarà in grado di fornirci delle conoscenze, che potranno anche esserci in qualche modo utili per apprendere alcuni aspetti e “segmenti” della nostra vita, ma non si può negare che nella sua indagine la nostra vita (il nostro rotolare), è stata bloccata, spazializzata geometricamente, spezzata e ridotta in frammenti, assemblata e rivoluzionata artificialmente: della nostra vita lo scienziato ha reso morta la nostra essenza temporale, il nostro essere un fluido vissuto spirituale, una storia che è “durata”, che è un tutto unico e indivisibile. “L’intelligenza dunque, concentrata su ciò che si ripete e preoccupata unicamente di unire l’identico all’identico, si distoglie dalla visione del tempo. Prova repulsione per ciò che è fluido e solidifica tutto ciò che tocca. Noi non pensiamo il tempo reale. Ma lo viviamo, perché la vita eccede l’intelligenza. Avvertiamo la nostra evoluzione e l’evoluzione di tutte le cose nella pura durata: questo sentimento disegna, intorno alla rappresentazione intellettuale propriamente detta, una frangia incerta che si perde nella notte”. Istinto, intelligenza e intuizione Altro importante aspetto caratterizzante il pensiero di Bergson, è la distinzione tra le due attività psichiche che riguardano gli esseri viventi, ovvero l’“istinto” e l’“intelligenza”. Bergson paragona il movimento evolutivo (o “movi437 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

mento originario”) della vita all’esplosione di una granata, per sottolineare l’impossibilità di considerare la vita come se “descrivesse una traiettoria unica, paragonabile a quella di una palla sparata da un cannone”. Esplodendo come una granata, e frammentandosi in “altri frammenti destinati ad esplodere ancora”, la vita si divide in individui e specie a causa della “resistenza che la vita incontra da parte della materia grezza, e la forza esplosiva – dovuta a un instabile equilibrio di tendenze – che la vita porta in sé”. La vita, essendo “tendenza”, si sviluppa “a raggiera, creando, per il solo fatto di accrescersi, le direzioni divergenti verso le quali si distribuirà il suo slancio”. Ciò che vi è di comune in queste “direzioni divergenti”, è il fatto di essere originate dal quel medesimo “slancio vitale”, che è il movimento generale della vita stessa, impulso vitale che crea “forme sempre nuove lungo linee divergenti”. “Questo movimento costituisce l’unità del mondo organico, unità feconda, di una ricchezza infinita, superiore a quanto qualsiasi intelligenza potrebbe sognare, perché l’intelligenza è soltanto uno dei suoi aspetti o delle sue espressioni”. Questo unico “slancio originario” che interessa ogni forma di vita, va visto come una sorta di “spinta interiore che porterebbe la vita, attraverso forme via via più complesse, verso destini sempre più alti”. La vita, nel suo progredire, si divide in forme, in manifestazioni, in specie viventi, diverse tra loro, che possiedono un’origine comune – la qual cosa non evita, però, l’antagonismo, l’incompatibilità e la disarmonia tra le distinte specie. Una divergenza esemplificativa originata dal medesimo “impulso” originario, è quella esistente tra il regno vegetale e quello animale. Il primo caratterizzato da immobilità e fissità, il secondo da mobilità e attività, situazioni e attitudini vitali che influenzeranno il ruolo della “coscienza” all’interno di questi due regni eterogenei. E infatti, “il vegetale fabbrica direttamente le sostanze organiche servendosi delle sostanze minerali: quest’attitudine lo dispensa in 438 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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generale dal muoversi e, di conseguenza, dal sentire. Gli animali, obbligati ad andare alla ricerca del nutrimento, si sono evoluti nel senso dell’attività di locomozione e, di conseguenza, nel senso di una coscienza sempre più ampia, sempre più distinta”. La vita animale non si è sviluppata in un’unica direzione, bensì si è ramificata dividendosi sostanzialmente in due grandi specie, quella degli “artropodi” e quella dei “vertebrati”. La migliore espressione dell’evoluzione riguardante il mondo degli artropodi è rappresentata dagli insetti, e in special modo dagli “imenotteri” (api e formiche), mentre quella dei vertebrati è rappresentata dall’essere umano. “Se ora si osserva che da nessuna parte l’istinto si è sviluppato quanto nel mondo degli insetti, e che in nessun gruppo di insetti esso appare così meraviglioso come negli imenotteri, si potrà dire che l’intera evoluzione del regno animale, fatta eccezione per i regressi verso la vita vegetativa, si è compiuta lungo due vie divergenti, di cui l’una conduceva all’istinto e l’altra all’intelligenza”. Se l’evoluzione degli artropodi porta a forme sempre più perfette di istinto, quella della dei vertebrati porta a forme sempre più perfette di intelligenza, anche se una certa “frangia d’intelligenza” accompagna sempre l’istinto, così come un “alone d’istinto” resta sempre attorno all’intelligenza: istinto e intelligenza “si accompagnano perché si completano, e si completano solo perché sono differenti”. Questa compresenza, questo contrapporsi e completarsi reciproco di istinto e intelligenza, è rilevabile nel modo più esemplare nell’uomo, che rappresenta il punto massimo dello sviluppo dell’intelligenza. Al che possiamo rintracciare nella vita vegetativa, nella vita istintiva e nella vita razionale le “tre direzioni divergenti di un’attività che, crescendo, si è suddivisa”, dove la differenza tra una regno e l’altro non è d’intensità, né di grado, “ma di natura”. Secondo Bergson, la vita pone essenzialmente dei problemi di ordine pratico, delle questioni strettamente ma439 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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teriali e concrete come quelle riguardanti la sopravvivenza fisica, così che tutti gli esseri viventi, nel corso della loro esistenza, si trovano a dover rintracciare e adoperare gli “strumenti” più adatti per compiere le loro azioni vitali nel mondo. Lo stesso essere umano è essenzialmente caratterizzato dal fatto di adoperare e fabbricare strumenti, utensili, armi, e via dicendo: “Se potessimo spogliarci di ogni orgoglio, se, per definire la nostra specie, ci attenessimo rigorosamente a ciò che la storia e la preistoria ci presentano come la caratteristica costante dell’uomo e dell’intelligenza, forse non diremmo Homo sapiens, ma Homo faber”. Se l’istinto è “la facoltà di utilizzare e anche di costruire strumenti organici”, l’intelligenza è invece “la facoltà di fabbricare e di impiegare strumenti inorganici”. L’istinto è la capacità innata di adoperare o costruire uno strumento naturale (strumento organico); l’intelligenza, invece, è la capacità di applicare e fabbricare strumenti artificiali (inorganici), o meglio, “l’intelligenza […] è la facoltà di fabbricare oggetti artificiali e in particolare utensili atti a produrre altri utensili, e di variarne indefinitamente la fabbricazione”. Se da un lato l’istinto ha il vantaggio di trovare “a portata di mano lo strumento adeguato”, dall’altro ha l’inconveniente di conservare “una struttura pressoché invariabile”: “l’istinto è dunque necessariamente specializzato, non essendo altro che l’utilizzazione di un determinato strumento per un determinato fine”. L’intelligenza, dal canto suo, pur fabbricando strumenti imperfetti, ottenuti solo a prezzo di uno sforzo e spesso difficili da maneggiare, ha però il vantaggio di fabbricare strumenti che possono assumere una forma qualsiasi, che possono servire a qualsiasi uso – esattamente al contrario della specializzazione appena incontrata riferita all’istinto –, e, soprattutto, capaci di “eliminare ogni nuova difficoltà che si presenti all’essere vivente e conferirgli una quantità illimitata di poteri”. 440 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Henri Bergson

Eppure, con tutti i poteri che l’intelligenza può fornirci e tutti i risultati specifici a cui l’istinto può farci arrivare con successo, entrambi non sono capaci di introdurci “all’interno della vita”, la qual cosa è possibile esclusivamente affidandoci all’“intuizione”, che è “istinto divenuto disinteressato, cosciente di sé, capace di riflettere sul proprio oggetto e di ampliarlo indefinitamente”. L’intuizione è “la visione dello spirito da parte dello spirito”, è l’intelligenza che torna consapevolmente all’istinto, per ottenere una visione unitaria della vita, una visione organica che va dal semplice al complesso, dalla sorgente alla foce, senza tralasciare nulla dal suo sguardo onnicomprensivo. Tale sguardo intuitivo è immediato come l’istinto e consapevole come l’intelligenza. L’intuizione è, per Bergson, l’organo della “metafisica”, lo “strumento” psichico adatto per conoscere la realtà come essa è veramente, ossia come slancio vitale, evoluzione creatrice, divenire assoluto, “durata”. Il termine “metafisica” sta qui a indicare quel sapere filosofico, basato sul processo reale dell’intuizione, che si è liberato dai bisogni quotidiani del senso comune, dall’urgenza e dalle costrizioni dell’azione pratica, così come dall’analisi scientifica basata esclusivamente sull’intelligenza, e dall’osservazione immobile e immobilizzante che deriva da quest’ultima: la metafisica è “la scienza che si propone di superare la barriera dei simboli costruiti dall’intelletto”. L’intuizione penetra concretamente nella vita reale, e procedendo attraverso la “simpatia” ci trasporta “nell’interno di un oggetto per coincidere con ciò che tale oggetto ha di unico”, unicità che non può essere espressa e compresa utilizzando i simboli costruiti dall’intelletto. L’intuizione metafisica, afferma Bergson, “giunge in possesso di un filo: dovrà essa stessa vedere se questo filo sale fino in cielo o se si ferma a qualche distanza dalla terra. Nel primo caso l’esperienza metafisica si collegherà a quella dei grandi mistici: ed io posso costatare, per mio conto, che questa è la verità. Nel secondo caso le esperienze metafisiche resteranno isola441 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

te le une dalle altre, senza tuttavia contrastare fra loro. In ogni caso, la filosofia ci avrà sollevati al di sopra della condizione umana”. Morale aperta e religione dinamica Nell’ultima sua opera, Le due fonti della morale e della religione, Bergson intende occuparsi del tema della creatività morale e religiosa dell’uomo, continuando a servirsi della sua fondamentale contrapposizione, teorica e pratica, tra “mobilità” e “staticità”. L’essere umano, a differenza delle altre specie viventi costrette a ripetere comportamenti sempre identici, si distingue per la sua “attività creatrice”, che si manifesta principalmente nell’arte, nella filosofia, nella morale e nella religione. Riferendosi alle norme morali delle società umane, Bergson afferma che due sono le fonti dalle quali esse sorgono: la “pressione sociale” e lo “slancio d’amore”. Le norme morali generate dalla pressione sociale, corrispondono a società nelle quali l’individuo non fa che adeguarsi e conformarsi passivamente alle regole di una data società, esaltandone del resto gli ideali. L’individuo è obbligato a seguire determinate norme morali già stabilite, immutabili, statiche, in modo che questo si abitui alle abitudini di una determinata società – sia essa la nazione, la famiglia, il club, ecc – che appare allora come una “società chiusa”, immodificabile e definitiva. Oltre alla morale dell’obbligazione e dell’abitudine, Bergson individua una “morale assoluta” relativa alla “società aperta”, e cita a mo’ d’esempio esplicativo la morale del cristianesimo, dei saggi dell’antica Grecia e dei profeti d’Israele. Gesù, Socrate e altri grandi eroi, nel loro personale slancio d’amore, sono stati creatori di valori morali universali, sono coloro che hanno superato i valori tradizionali del gruppo e della società d’appartenenza per riferirsi all’intera umanità, per aprirsi indistintamente al cuore di 442 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Henri Bergson

ogni singolo individuo. Questa morale aperta, dinamica e rivolta all’intera umanità, ha come proprio contenuto essenziale l’amore per tutti gli uomini, e non può essere insegnata o appresa. La possiedono soltanto i grandi mistici, i rivelatori, i seguaci e i fedeli di tali personaggi eletti, che hanno saputo alzarsi al di sopra del senso comune, che hanno saputo liberarsi dalle angustie claustrofobiche delle loro società, per portare un nuovo messaggio capace di donare a tutti gli uomini la possibilità di liberarsi da ogni chiusura, morale e sociale, affinché ci si possa finalmente amare tutti come fratelli appartenenti ad un’unica grande famiglia umana. Per quanto riguarda la religione, Bergson distingue la “religione statica” dalla “religione dinamica”. La religione statica (o “religione primitiva”) è caratterizzata da elementi mitici, dogmatici, superstiziosi nonché fantastici, e nasce per scopi eminentemente vitali. Nello specifico, essa sorge come rimedio, o meglio, come “precauzione contro il pericolo, che si corre allorché si comincia a pensare, a pensare soltanto a sé”, sorge quindi per frenare l’egoismo antisociale che Bergson individua come ciò che è prodotto dall’intelligenza (dal “pensare” appunto). L’intelligenza, inoltre, fa sì che l’uomo si renda conto della sua situazione mortale, della precarietà e dell’imprevedibilità angosciante del futuro; così che l’uomo primitivo, creando la religione “naturale” (primitiva, statica), trova conforto a tale angoscia e disperazione, opponendo ad esse la positiva speranza rappresentata dall’immortalità celeste e la fiducia di essere protetti da una forza onnipotente (o entità soprannaturale). Oltre a questa forma di religione, per Bergson ne esiste un’altra, la religione dinamica, che riesce a superare le condizioni obbliganti dell’intelligenza, che come abbiamo visto caratterizzano la religione statica. In questa religione dinamica i dogmi, che rappresentano gli aspetti immobili e le credenze immutabili della religione statica, vengono considerati per ciò che realmente sono, ossia co443 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

me cristallizzazioni, come immobilizzazioni che vanno appunto superate immettendole nello slancio vitale che è la vita, inarrestabile e mai definitiva. Solo il “misticismo” è capace di far ciò, solo esso è capace di entrare in contatto e di coincidere parzialmente con Dio, che è lo “sforzo creatore che la vita manifesta”. L’amore mistico, l’amore della religione dinamica, è allora ciò che coincide con l’amore di Dio per Dio stesso, perché “Dio è amore e oggetto di amore: qui è tutto il misticismo”. Bergson cita, come rappresentanti dell’amore mistico, san Paolo, san Francesco d’Assisi, santa Teresa, santa Caterina da Siena e Giovanna d’Arco, i quali incarnano concretamente quell’amore totale per Dio che coincide con l’amore altrettanto totale e incondizionato per l’umanità intera. È dai geni mistici, infine, che possiamo ricavare la testimonianza dell’esistenza di Dio, esistenza comprovata dal fatto che tutti i mistici, siano orientali od occidentali, cristiani o meno, si rivolgono ed entrano in contatto con quell’unico Essere divino, dispensatore d’amore per l’individuo, per l’umanità, per l’intero creato.

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PAGINE ANTOLOGICHE

La nostra esistenza, come ogni esistenza, si crea in continuazione L’esistenza di cui siamo più certi e che conosciamo meglio è incontestabilmente la nostra. […] Anzitutto io constato che in me si succedono stati diversi. […] Sensazioni, sentimenti, volizioni, rappresentazioni, sono tutti cambiamenti che si avvicendano nella mia esistenza e che di volta in volta la colorano. Io muto dunque continuamente. Ma non è tutto, perché il cambiamento è ben più radicale di quanto a prima vista non appaia. Io parlo infatti di ciascuno dei miei stati come se costituisse un blocco. Certo, ammetto di cambiare, ma è come se il cambiamento si risolvesse nel passaggio da uno stato allo stato successivo: tendo a credere che ogni stato, preso di per sé, rimanga tale e quale per tutto il tempo del suo prodursi. Un leggero sforzo di attenzione potrebbe tuttavia rivelarmi che ogni affezione, rappresentazione, volizione continua a modificarsi in ogni istante; se uno stato d’animo cessasse di variare, la sua durata cesserebbe di scorrere. […] L’apparente discontinuità della vita psicologica deriva dunque dal fatto che la nostra attenzione la coglie attraverso una serie di atti discontinui: dove non c’è che un dolce pendio noi crediamo di scorgere, seguendo la linea spezzata dei nostri atti di attenzione, i gradini di una scala. Se è vero che la nostra vita psicologica è piena di imprevisti, che ci capitano mille incidenti, i quali sembrano del tutto avulsi da ciò che li precede e senza alcun collegamento con ciò che li segue, resta che la discontinuità delle loro apparizioni si staglia sulla continuità di uno sfondo, sul quale essi si disegnano e in cui trovano gli intervalli che li separano: sono i colpi di timpano che di quando in quando esplodo445 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

no nella sinfonia. La nostra attenzione si fissa su questi ultimi perché la attraggono di più, ma ognuno di essi si produce dalla massa fluida della nostra esistenza psicologica nella sua totalità. Ciascuno di essi è solo il punto più illuminato di una zona mobile che comprende tutto ciò che sentiamo, pensiamo, vogliamo, insomma tutto ciò che siamo in un determinato momento. Questa zona, nella sua totalità, costituisce in realtà il nostro stato. Ed è possibile affermare che, così definiti, gli stati non sono elementi distinti, ma si prolungano gli uni negli altri in un incessante fluire. […] Se la nostra esistenza fosse composta da stati separati, di cui un “io” impassibile dovesse fare la sintesi, per noi non ci sarebbe durata. Giacché un io che non cambia non dura, così come non dura uno stato psicologico che resti identico a se stesso sino a che non sia sostituito dallo stato successivo. E allora, per quanto questi stati possano essere allineati l’uno accanto all’altro sull’“io” che li sostiene, questi elementi solidi infilati sul solido non saranno mai in grado di produrre una durata che scorre. In realtà, così facendo si ottiene un’imitazione artificiosa della vita interiore, un equivalente statico che si presterà meglio alle esigenze della logica e del linguaggio, appunto perché ne avremo eliminato il tempo reale. Ma quanto alla vita psicologica, che scorre sotto i simboli che la ricoprono, non è difficile vedere come sia il tempo a costituirne il tessuto stesso. […] Così la nostra personalità nasce, si sviluppa, matura in continuazione. Ciascuno dei suoi momenti è qualcosa di nuovo che va ad aggiungersi a quanto c’era prima. Anzi: non solo è qualcosa di nuovo, ma anche di imprevedibile. […] È questo il caso di ciascuno dei nostri stati, considerato come momento di una storia in fieri: è semplice, e non può essere già stato percepito, in quanto concentra nella sua indivisibilità tutto il percepito, con in più l’apporto del presente. È un momento originale di una storia altrettanto originale. Una volta finito, un ritratto può essere spiegato attraverso la fisionomia del modello, la natura dell’artista, i colori sparsi sulla tavolozza; ma nessuno, pur conoscendo gli elementi che servono a spiegarlo, nemmeno l’artista, avrebbe potuto prevedere esattamente come sarebbe venuto, giacché prefigurare un ritratto equivale a produrlo prima che sia prodotto, ipotesi assurda che cade da sé. Lo stesso vale per i momenti della nostra vita, di cui siamo gli artefici. Ognuno di essi è 446 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Henri Bergson: pagine antologiche

una specie di creazione. E così come il talento del pittore si forma o si deforma – e comunque si modifica sotto l’influsso delle opere che produce –, allo stesso modo ciascuno dei nostri stati, nel momento stesso in cui si verifica in noi, modifica la nostra persona, in quanto è la nuova forma che abbiamo appena assunto. Si ha dunque ragione di dire che ciò che facciamo dipende da ciò che siamo; ma bisogna aggiungere che, in una certa misura, siamo ciò che facciamo e ci creiamo in continuazione. (H. Bergson, L’evoluzione creatrice, Raffaello Cortina, Milano 2002, pp. 7-9, 11-12) L’impossibilità di ridurre la “durata” in termini geometrici e matematici Appartiene all’essenza stessa della durata e del movimento, quali si offrono alla nostra coscienza, d’essere continuamente in via di formazione: pertanto l’algebra potrà esprimere in risultati acquisiti ad un certo momento della durata e le posizioni assunte da un certo mobile nello spazio, ma non la durata ed il movimento in se stessi. E sarà inutile aumentare, con l’ipotesi di intervalli piccolissimi, il numero delle simultaneità e delle posizioni considerate: inutile sarà pure, per indicare la possibilità di accrescere indefinitamente il numero di tali intervalli di durata, sostituire la nozione di differenza con quella di differenziale: sempre la matematica si porrà all’estremo dell’intervallo, per quanto piccolo lo concepisca. L’intervallo in se stesso, la durata, il movimento, in una parola, rimangono necessariamente fuori dell’equazione. La verità è che durata e movimento sono sintesi mentali, e non cose: il mobile occupa a volta a volta i punti d’una linea, ma con questa linea il movimento non ha nulla in comune; le posizioni occupate dal mobile variano in relazione ai diversi momenti della durata, ed esso, anzi, crea momenti distinti per il fatto stesso che occupa posizioni differenti; ma la durata propriamente detta non ha momenti identici, né momenti esteriori gli uni agli altri, essendo essenzialmente eterogenea rispetto a se medesima, indistinta, e senza analogia con il numero. Risulta da questa analisi che solo lo spazio è omogeneo, che le cose situate nello spazio costituiscono una molteplicità distinta, e che ogni molteplicità distinta si ottiene con uno sviluppo nello spazio. Risulta pure che 447 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

nello spazio non vi è durata e neppure successione, nel senso in cui la coscienza prende queste parole: ognuno degli stati del mondo esterno chiamati successivi esiste da solo, e la loro molteplicità non ha realtà che per una coscienza capace dapprima di conservarli, poi di giustapporli, rendendoli l’uno esteriore all’altro. Se essa li conserva, ciò accade perché questi diversi stati del mondo esterno dan luogo a fatti di coscienza che si compenetrano, che s’organizzano insensibilmente insieme, e legano il passato al presente per effetto di questa stessa solidarietà. Se li rende esteriori gli uni agli altri, lo fa perché, ponendo mente, in seguito, alla loro distinzione radicale (l’uno era venuto meno quando l’altro appariva), li percepisce sotto forma di molteplicità distinta: ciò che equivale ad allinearli insieme nello spazio, in cui ognuno di essi esisteva separatamente. Lo spazio adoperato per quest’uso è precisamente ciò che si chiama tempo omogeneo. Ma un’altra conclusione emerge da questa analisi: ed è che la molteplicità degli stati di coscienza, considerata nella sua originale purezza, non presenta nessuna rassomiglianza con la molteplicità distinta che costituisce un numero: è, dicevamo, una molteplicità qualitativa. In breve, pare che si debbano ammettere due specie di molteplicità, due sensi possibili della parola “distinguere”, due concezioni, l’una qualitativa e l’altra quantitativa della differenza tra l’identico e l’altro: a volte questa molteplicità, questa distinzione, questa eterogeneità, non contengono il numero che in potenza, come direbbe Aristotele; la coscienza opera una discriminazione qualitativa senza alcun pensiero di contare le qualità, o semplicemente di farne una pluralità; e allora vi è molteplicità senza quantità. Altre volte, invece, si tratta d’una molteplicità di termini che si possono contare; ma allora si pensa alla possibilità di renderli l’uno esteriore all’altro: si sviluppano i termini nello spazio. Sfortunatamente noi siamo così abituati a chiarire l’uno con l’altro i due significati della parola, a percepirli, anzi, l’uno nell’altro, che proviamo un’incredibile difficoltà a distinguerli o, quanto meno, ad esprimere questa distinzione con il linguaggio. Così, abbiamo detto che più stati di coscienza s’organizzano tra loro, si compenetrano, s’arricchiscono sempre più, e che potrebbero pertanto, ad un io che ignorasse lo spazio, dare il senso della pura durata; ma ecco che, adoperando le parole “più”, “parecchi”, abbiamo già isolato questi stati l’uno dall’al448 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Henri Bergson: pagine antologiche

tro, li abbiamo giustapposti, tradendo così, con la stessa espressione a cui eravamo costretti a ricorrere, l’abitudine profondamente radicata di sviluppare il tempo nello spazio. Proprio dall’immagine di questo sviluppo una volta eseguito non possiamo non prendere a prestito i termini destinati a rendere lo stato d’una coscienza quale sarebbe senza di esso: questi termini sono dunque viziati da un difetto originale, e la rappresentazione d’una molteplicità senza rapporto con il numero o con lo spazio, sebbene chiara per un pensiero che rientri in se stesso e s’astragga, non si riesce a tradurre nel linguaggio del senso comune. (H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, Paravia, Torino 1951, pp. 100-104) L’errore del meccanicismo e del finalismo L’errore del finalismo radicale, come del resto quello del meccanicismo radicale, è di estendere troppo oltre l’applicazione di alcuni concetti connaturati alla nostra intelligenza. Originariamente, noi pensiamo esclusivamente per agire. La nostra intelligenza si è formata nel crogiolo dell’azione. La speculazione è un lusso, mentre l’azione è una necessità. Ora, per agire, noi incominciamo con il proporci un fine; facciamo un piano e poi passiamo ai dettagli del meccanismo che lo realizzerà. Quest’ultima operazione è possibile solo se sappiamo su cosa possiamo contare. È necessario aver ricavato dalla natura quelle similitudini che ci permettono di fare delle anticipazioni su ciò che accadrà. È dunque necessario aver applicato, consciamente o inconsciamente, la legge di causalità. Del resto, quanto meglio si precisa nella nostra mente l’idea della causalità efficiente, tanto più la causalità efficiente prende la forma di una causalità meccanica. A sua volta, quest’ultima relazione risulta tanto più matematica quanto più esprime una rigorosa necessità. Perciò non dobbiamo far altro che seguire l’inclinazione del nostro spirito per diventare matematici. D’altronde, però, questa matematica naturale è soltanto il supporto inconsapevole della nostra consapevole abitudine di concatenare a identiche cause identici effetti; e lo scopo normale di questa abitudine è quello di guidare azioni ispirate da intenzioni o, il che è lo stesso, di dirigere movimenti concertati in 449 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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vista dell’esecuzione di un modello: noi siamo nati artigiani, così come siamo nati geometri, anzi, siamo geometri solo perché siamo artigiani. Quindi l’intelligenza umana, in quanto plasmata secondo le esigenze dell’azione umana, procede nel contempo per intenzione e per calcolo, coordinando i mezzi a un fine e rappresentandosi i meccanismi in forme sempre più geometriche. Sia che si immagini la natura come un’immensa macchina regolata da leggi matematiche, sia che vi si riconosca la realizzazione di un piano, in entrambi i casi non si fa altro che seguire fino in fondo due tendenze dello spirito che sono tra loro complementari, originate dalle medesime necessità vitali. Per questo il finalismo radicale è, per la maggior parte dei suoi aspetti, molto vicino al meccanicismo radicale. Entrambe le dottrine si rifiutano di vedere nel corso delle cose, o anche semplicemente nello sviluppo della vita, un’imprevedibile creazione di forme. Il meccanicismo considera solo l’aspetto di similitudine o di ripetizione della realtà. È dunque governato dalla legge secondo cui nella natura esisterebbe soltanto l’identico che riproduce l’identico. Quanto più si afferma la geometria che vi è implicata, tanto meno esso può ammettere che qualcosa si crei, fosse anche soltanto la forma. In quanto geometri, noi respingiamo dunque l’imprevedibile. Certo, potremmo accettarlo in quanto artisti, giacché l’arte vive di creazione e implica una fede latente nella spontaneità della natura. Ma l’arte disinteressata è un lusso, come lo è la pura speculazione. Ben prima di essere artisti, noi siamo artigiani. E ogni fabbricazione, per quanto rudimentale, vive di similitudini e di ripetizioni, come la geometria naturale che le fa da supporto. Essa lavora su modelli che si propone di riprodurre. E quando inventa, procede o si immagina di procedere attraverso una nuova disposizione di elementi già noti. Il suo principio è che “occorre l’identico per ottenere l’identico”. Insomma, l’applicazione rigorosa del principio di finalità, come l’applicazione del principio di causalità meccanica, conduce alla conclusione che “tutto è dato”. I due principi dicono la stessa cosa in due linguaggi diversi perché rispondono al medesimo bisogno. Per questo essi concordano anche nel fare tabula rasa del tempo. La durata reale è quella che morde le cose e vi lascia l’impronta dei denti. Se tutto è nel tempo, tutto cambia interiormente, e la stessa realtà concreta non si ripete mai. La ripetizione è dunque possibile soltanto 450 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Henri Bergson: pagine antologiche

in astratto: ciò che si ripete è qualche singolo aspetto che i nostri sensi e la nostra intelligenza hanno isolato nella realtà, appunto perché la nostra azione, in vista della quale si protendono tutti gli sforzi della nostra intelligenza, può verificarsi soltanto in un contesto di ripetizioni. […] Appena usciamo dagli schemi entro i quali il meccanicismo e il finalismo radicali racchiudono il nostro pensiero, la realtà ci appare come un’interrotta fonte di novità; e queste, prima ancora di essersi prodotte per dare vita al presente, vengono già risospinte nel passato: in questo preciso istante esse cadono sotto lo sguardo dell’intelligenza, i cui occhi sono perennemente rivolti all’indietro. (H. Bergson, L’evoluzione creatrice, cit., pp. 41-44) Per una nuova metafisica Vi è una realtà esterna, e tuttavia data immediatamente al nostro spirito. Il senso comune ha ragione, su questo punto, contro l’idealismo e il realismo dei filosofi. Questa realtà è mobilità. Non esistono cose fatte, ma solo cose che si fanno; non stati che si conservano, ma solo stati che mutano. La quiete non è mai che apparente o, piuttosto, relativa. La coscienza che abbiamo della nostra propria persona, nel suo continuo scorrere, ci introduce all’interno della realtà sul cui modello dobbiamo rappresentarci le altre. Ogni realtà, dunque, è una tendenza, se si conviene di chiamar tendenza un mutamento di direzione allo stato nascente. Il nostro spirito, che cerca punti d’appoggio solidi, ha come principale funzione, nel corso ordinario della vita, di rappresentarsi stati e cose. Esso prende, di quando in quando, vedute quasi istantanee sulla mobilità indivisa del reale. E ottiene, così, sensazioni e idee, sostituendo al continuo il discontinuo, alla mobilità la stabilità, alla tendenza in via di mutamento i punti fissi che segnano una direzione del mutamento e della tendenza. Questa sostituzione è necessaria al senso comune, al linguaggio, alla vita pratica e perfino, in una certa misura che cercheremo di determinare, alla scienza positiva. La nostra intelligenza, quando segue la sua china naturale, procede per percezioni solide da un lato, e per concezioni stabili dall’altro: parte dall’immo451 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

bile e non concepisce e non esprime il movimento se non in funzione dell’immobilità; si installa in concetti già fatti e si sforza di prendervi, come in una rete, qualcosa della realtà che passa. Non certo allo scopo di ottenere una conoscenza interiore e metafisica del reale: ma semplicemente di servirsene, dato che ogni concetto (come, d’altronde, ogni sensazione) è una domanda pratica che la nostra attività pone al reale, e a cui il reale risponderà, come si conviene in affari, con un sì o con un no. Ma con ciò essa si lascia sfuggire ciò che, del reale, è l’essenza medesima. Le difficoltà inerenti alla metafisica, le antinomie che essa solleva e le contraddizioni in cui cade, la divisione in scuole antagoniste e le opposizioni irriducibili tra sistemi, provengono, in gran parte, dall’applicare alla conoscenza disinteressata del reale i procedimenti di cui di solito ci serviamo per uno scopo di pratica utilità; provengono principalmente dal fatto di collocarci nell’immobile per cercar poi di aspettare al varco il movimento, invece di ricollocarci nel movente per attraversare con lui le posizioni immobili; provengono dalla pretesa di ricostruire la realtà, che è tendenza e, quindi, mobilità, con precetti e concetti che hanno la funzione di immobilizzarla. Per mezzo di fermate, per quanto numerose, non si farà mai della mobilità; mentre, se ci si dà la mobilità, si potrà trarne col pensiero quante fermate si vorrà. In altri termini, è comprensibile che concetti fissi possano dal nostro pensiero essere estratti dalla realtà mobile; ma non v’è alcun mezzo per ricostruire con la fissità dei concetti la mobilità del reale. E tuttavia il dogmatismo, in quanto costruttore di sistemi, ha sempre tentato questa ricostruzione. Esso doveva fallire. […] Ma dall’impossibilità in cui ci troviamo di ricostruire la realtà vivente con concetti rigidi e già fatti non segue che non possiamo coglierla in qualche altra maniera. Le dimostrazioni che si son date della relatività della nostra conoscenza son dunque inficiate di un vizio originario: come il dogmatismo che esse attaccano, suppongono che ogni conoscenza debba necessariamente partire da concetti con contorni fissati per afferrare con essi la realtà che scorre. Ma la verità è che il nostro spirito può seguire il cammino inverso. Può installarsi nella realtà mobile, adottarne la direzione continuamente mutevole, coglierla, insomma, intuitivamente. Per questo occorre 452 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Henri Bergson: pagine antologiche

che si faccia violenza, e inverta il senso dell’operare con cui pensa di solito, e rovesci o, piuttosto, rifonda senza tregua le sue categorie. Esso metterà capo, così, a concetti fluidi, capaci di seguire la realtà in tutte le sue pieghe e di adottare il movimento stesso della vita interna delle cose. Solo così si costituirà una filosofia progressiva, libera dalle dispute che si scatenano tra le scuole, capace di risolvere naturalmente i problemi per essersi liberata dei termini artificiosi che si eran scelti per porli. Filosofare consiste nell’invertire la direzione abituale del lavoro del pensiero. […] Scienza e metafisica s’incontrano, dunque, nell’intuizione: una filosofia veramente intuitiva realizzerebbe l’unione tanto desiderata della metafisica e della scienza. (H. Bergson, Introduzione alla metafisica, Laterza, Bari-Roma 1987, pp. 81-84 e 87-88) Lo slancio d’amore mistico A qualunque filosofia si aderisca, si è costretti a riconoscere che l’uomo è un essere vivente; che l’evoluzione della vita, nelle sue due linee principali, si è compiuta nella direzione della vita sociale; che l’associazione è la forma più generale dell’attività vivente poiché la vita è organizzazione, e che da allora in poi si passa per transizioni insensibili dai rapporti fra cellule di un organismo a quelli fra individui nella società. […] La vita avrebbe d’altronde potuto fermarsi a quel punto, e non fare niente di più che costituire delle società chiuse, i cui membri fossero stati legati gli uni agli altri da strette obbligazioni. Composte di esseri intelligenti, queste società avrebbero presentato una variabilità che non si trova nelle società animali, rette dall’istinto; ma la variazione non sarebbe arrivata fino ad incoraggiare il sogno di una trasformazione radicale; l’umanità non si sarebbe modificata al punto che una società unica, abbracciando tutti gli uomini, apparisse come possibile. Di fatto questa non esiste ancora e non esisterà forse mai: dando all’uomo la conformazione morale che gli occorrerebbe per vivere in gruppo, la natura ha probabilmente fatto per la specie tutto ciò che poteva. Ma allo stesso modo che si sono trovati degli uomini di genio per allargare i confini dell’intelligenza, e che è stato concesso per questo ad alcuni individui, di tanto in tanto, molto più di quanto non fos453 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

se stato possibile dare tutto d’un colpo alla specie; così sono sorte delle anime privilegiate che si sentivano imparentate con tutte le anime e che invece di restare nei limiti del gruppo e di tenersi alla solidarietà stabilita dalla natura, si portavano verso l’umanità in generale in uno slancio d’amore. L’apparizione di ciascuna di esse era come la creazione di una nuova specie composta di un individuo unico, la spinta vitale che mette capo di tanto in tanto ad un uomo determinato, a un risultato che non avrebbe potuto essere ottenuto d’un colpo per l’insieme della umanità. Ognuna di esse segnava così un certo punto raggiunto dall’evoluzione della vita; ed ognuna di esse manifestava sotto una forma originale un amore che sembra essere l’essenza stessa dello sforzo creatore. L’emozione creatrice che sollevava queste anime privilegiate, e che era un traboccamento di vitalità, si è sparsa intorno ad esse: entusiaste, esse irraggiavano un entusiasmo che non si è mai completamente estinto e che può sempre ritrovare la sua fiamma. Oggi, quando noi resuscitiamo col pensiero questi grandi uomini di bene, quando li sentiamo parlare e li guardiamo fare, sentiamo che ci comunicano parte del loro ardore e che ci trascinano nel loro movimento; non è più una coercizione più o meno attenuata, è una più o meno irresistibile attrattiva. […] “Pressione sociale” e “slancio di amore” non sono che due manifestazioni complementari della vita, normalmente applicata a conservare all’ingrosso la forma sociale che fu caratteristica della specie umana fin dall’origine, ma eccezionalmente capace di trasfigurarla grazie a individui di cui ognuno rappresenta, come avrebbe fatto l’apparizione di una nuova specie, uno sforzo di evoluzione creatrice. […] Due vie si aprono all’educatore. Una è quella dell’ammaestramento, nel senso più elevato della parola; l’altra è quella del misticismo, qui al contrario nel suo significato più moderno. Col primo metodo si inculca una morale fatta di abitudini impersonali; col secondo si ottiene l’imitazione di una persona ed anche una unione spirituale, una coincidenza più o meno completa con essa. […] I veri mistici si aprono semplicemente all’onda che li invade. Sicuri di se stessi, perché sentono di avere dentro qualcosa di migliore della propria persona, si rivelano grandi uomini di azione: cosa di cui si sorprendono quelli pei quali il misticismo non è che visione, trasporto, estasi. Quello che essi hanno lasciato scorrere 454 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Henri Bergson: pagine antologiche

dentro è un flusso discendente dall’alto, che attraverso la loro persona tende a guadagnare gli altri uomini. Il bisogno di spandere intorno ciò che hanno ricevuto essi lo sentono come uno slancio di amore: amore a cui ciascuno di loro imprime il marchio della propria personalità; amore che è quindi in ciascuno una emozione completamente nuova, capace di portare la vita umana su di un altro tono; amore il quale fa sì che ciascuno di essi è amato per se stesso, onde avviene che per opera sua e per amor suo altri uomini lasceranno che la loro anima si apra all’amore dell’umanità; amore il quale potrà egualmente trasmettere per il tramite di un’altra persona legatasi a loro o alla loro memoria sopravvissuta, e che ha modellato la propria vita sulla loro. (H. Bergson, Le due fonti della morale e della religione, in Opere, UTET, Torino 1971, pp. 319-323, 325-326) La religione dinamica creerà un’umanità divina La religione statica affeziona l’uomo alla vita, e, di conseguenza, l’individuo alla società, raccontandogli delle storie simili a quelle con cui si culla un fanciullo. Senza dubbio, non sono storie come le altre. Derivate dalla funzione fabulatrice per necessità e non per semplice piacere, imitano la realtà percepita al punto da prolungarsi in azioni: le altre creazioni dell’immaginazione hanno la stessa tendenza, ma non esigono che noi ci abbandoniamo ad essa; esse possono restare allo stato di idee; quelle invece sono idee-motrici. Sono lo stesso delle favole, che spiriti critici possono, in realtà, accettare sovente, come abbiamo visto, ma che in verità dovrebbero rifiutare. Il principio attivo, instabile, la cui unica fermata in un punto estremo si è manifestata nell’umanità, esige certamente da tutte le specie create che esse si aggrappino alla vita. Ma se questo principio dà tutte le specie globalmente, come un albero che spinga in tutte le direzioni dei rami terminanti in gemme, è il depositarsi, nella materia, di una energia liberamente creatrice, è l’uomo o qualche altro essere del medesimo significato – non diciamo della stessa forma – che è la ragion d’essere di tutto lo sviluppo. […] La vita è […] più desiderabile per l’uomo che per le altre specie, perché queste la subiscono come un effetto prodotto, nel suo passaggio, 455 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

dall’energia creatrice, mentre per l’uomo è il successo stesso, sia pure incompleto e precario, di questo sforzo. Perché allora l’uomo non può ritrovare la fiducia che gli manca, o che la riflessione ha potuto scuotere, risalendo, per riprendere lo slancio, nella direzione da cui lo slancio stesso era venuto? Non è con l’intelligenza o, in ogni caso, con la sola intelligenza che potrebbe farlo; questa andrebbe piuttosto in senso inverso; ha una destinazione speciale, e quando si eleva nelle sue speculazioni, ci fa tutt’al più concepire delle possibilità, ma non tocca una realtà. Ma sappiamo che intorno all’intelligenza è rimasta una frangia di intuizione, vaga ed evanescente. Non si potrebbe fissarla, intensificarla e soprattutto completarla in azione, dato che è divenuta pura visione solo per un indebolimento del suo principio e, se ci si può esprimere così, per una astrazione praticata su se stessa? Un’anima capace e degna di questo sforzo non si domanda neppure se il principio con cui si mantiene in contatto sia la causa trascendente di tutte le cose o se non ne sia la delegazione terrena. Le basta sentire di essere penetrata, senza che la sua personalità venga assorbita, da un essere che è infinitamente più potente di lei, come il ferro dal fuoco che l’arrossa. Il suo attaccamento alla vita sarebbe ormai la sua inseparabilità da questo principio, gioia nella gioia, amore di ciò che non è se non amore. Alla società si dà in seguito, ma ad una società che è, in tal caso, l’umanità intera, amata nell’amore di ciò che ne è il principio. […] Poiché famiglia, patria, umanità appaiono come dei cerchi sempre più ampi, si è pensato che l’uomo dovesse amare naturalmente l’umanità come si ama la propria patria e la propria famiglia, mentre in realtà il raggruppamento familiare e quello sociale sono i soli che siano stati voluti dalla natura, i soli a cui corrispondano degli istinti, e gli istinti sociali porterebbero le società a lottare le une contro le altre piuttosto che ad unirsi per costituirsi effettivamente in umanità. […] Molto diverso è l’amore mistico dell’umanità. Esso non è il proseguimento di un istinto, non deriva da un’idea; non appartiene né al sensibile né al razionale, ma è implicitamente l’uno e l’altro, ed è effettivamente molto di più. Infatti un simile amore è la radice stessa della sensibilità e della ragione, come di tutte le altre cose. Si identifica con l’amore di Dio per la sua opera, amore che ha creato ogni cosa, ed è in grado di rivelare, a chi sappia interrogarlo, il mistero della creazione. È composto di una essenza 456 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Henri Bergson: pagine antologiche

più metafisica che morale. Vorrebbe, con l’aiuto di Dio, perfezionare la creazione della specie umana e fare dell’umanità quello che sarebbe potuto essere subito se avesse potuto costituirsi definitivamente, senza l’aiuto dell’uomo. O, per adoperare parole che dicono la stessa cosa in un linguaggio diverso: la sua direzione è la stessa dello slancio vitale; è questo stesso slancio, comunicato integralmente a degli uomini privilegiati che vorrebbero imprimerlo all’umanità intiera e, per una contraddizione realizzata, trasformare in uno sforzo creatore una cosa creata, quale è una specie, e trasformare in movimento ciò che è, per definizione, un arresto. […] Si tratta, per i grandi mistici, di trasformare radicalmente l’umanità, cominciando con il dare l’esempio. Lo scopo non sarà raggiunto se non si attui alla fine ciò che doveva teoricamente esistere in origine, una umanità divina. (Bergson, Ibidem, pp.461-463, 489-490, 495)

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Benedetto Croce

Un sistema è una casa che, subito dopo costruita e adornata, ha bisogno (soggetta com’è all’azione corroditrice degli elementi) di un lavorìo, più o meno energico ma assiduo, di manutenzione, e che a un certo momento non giova più restaurare e puntellare, e bisogna gettare a terra e ricostruire dalle fondamenta. Ma con siffatta differenza capitale: che, nell’opera del pensiero, la casa perpetuamente nuova è sostenuta perpetuamente dall’antica, la quale, quasi per opera magica, perdura in essa. Come si sa, gli ignari di codesta magia, gli intelletti superficiali o ingenui, se ne spaventano; tanto che uno dei loro noiosi ritornelli contro la filosofia è che essa disfaccia di continuo l’opera sua, e che un filosofo contraddica l’altro: come se l’uomo non facesse e disfacesse e rifacesse sempre le sue case, e l’architetto seguente non fosse il contraddittore dell’architetto precedente; e come se da questo fare e disfare e rifare delle case, e da questo contraddirsi degli architetti, si potesse trarre la conclusione, che è inutile costruire case! Croce 459 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il neoidealismo italiano Il pensiero di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile rappresentano la vetta speculativa dell’idealismo italiano. La filosofia hegeliana trovò grossi e importanti sostenitori nell’Italia otto-novecentesca, e fu l’Univeristà di Napoli il centro nel quale confluirono i contributi filosofici di Augusto Verra (1813-1885) e Bertrando Spaventa (1817-1883), considerati principali protagonisti della diffusione in Italia delle opere del filosofo tedesco. Oltre ad essere stati i principali diffusori in Italia dell’hegelismo, Verra e Spaventa intesero approfondire e verificare personalmente il discorso hegeliano, evidenziandone le crepe e le incongruenze, le difficoltà intrinseche e gli errori concettuali. Da questo intenso studio nacque la forte esigenza di apportare alcune modifiche e correzioni di non poco conto al sistema di Hegel. Ciò, in modo inevitabile, diede avvio ad un pensiero che, pur mantenendosi nell’area dell’idealismo hegeliano, presentava una precisa peculiarità e importanza. Gli stessi Croce e Gentile, seguendo le orme dei due filosofi, sentirono il bisogno di dare vita ad una potente riforma del pensiero hegeliano. Come per Hegel, anche per Croce e Gentile è lo spirito il vero e unico protagonista della storia. Lo spirito determina l’uomo come tutta la realtà, essendo la realtà stessa nient’altro che spirito. La coscienza (il pensiero, lo spirito, l’Io) è tutta la realtà. Nulla esiste al di là di essa, ogni cosa della realtà è coscienza e nient’altro che coscienza. Ogni realtà dipende dalla coscienza. Ogni realtà appartiene alla coscienza. La coscienza produce la realtà. Croce e Gentile accettano tale concezione assolutistica, ma avvertono una mancanza, una fondamentale mancanza. Nell’idealismo hegeliano avvertono l’assenza di una rigorosa trattazione su ciò che riguarda l’“ora”, l’“adesso”, l’“attuale”, il “contemporaneo”. Se è la coscienza che produce la realtà – si domandano i due filosofi italiani – , se 460 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Benedetto Croce

è lo spirito che produce ogni realtà e tutta la realtà, come è possibile pensare che esso non faccia ciò in ogni istante, in ogni attimo, adesso e ancora dopo e in ogni momento? La coscienza, nel neoidealismo di Croce e Gentile, inizia a muoversi in modo concreto, a farsi e ad essere tempo attuale, flusso sempre cangiante, contemporaneità in eterno sviluppo e trasformazione: la coscienza si fa storia vivente, si fa “divenire” totale. Non può esistere una coscienza in generale, una coscienza immutabile, che stia fuori del tempo, che non sia calata concretamente nella storia. Non può esistere una coscienza che, in quanto assoluta, non sia l’essenza e la condizione fondamentale d’ogni storicità, che sia chiusa a esplicare le sue funzioni e operazioni – che sono quelle di produrre se stessa e, all’interno di sé, la realtà – in una realtà diversa da quella che noi qui, ora, attualmente viviamo. Affermare ciò fa cadere il presupposto dell’intero idealismo e la coscienza quale produttrice di tutta la realtà. Produrre la totalità della realtà, significa produrre la realtà che noi attualmente viviamo e quella di un istante dopo e di quell’altro ancora e così senza mai arrestarsi. La coscienza, dunque, per il neoidealismo di Croce e Gentile, è “attuale”: non esiste nulla al di là dell’attualità della coscienza, che è sempre diveniente. Le stesse funzioni e operazioni della coscienza non possono non essere coinvolte in questo flusso infinito e cangiante. Benedetto Croce: vita e opere Benedetto Croce nasce a Pescasseroli (L’Aquila) il 25 febbraio 1866. Nel 1883 perde i genitori e la sorella durante il terremoto di Casamicciola; ancora minorenne, viene dunque affidato alla tutela dello zio Silvio Spaventa (fratello del filosofo Bertrando Spaventa) grazie al quale si ritrova a frequentare il circolo culturale di importanti intellettuali e politici. 461 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Iscritto presso l’Università di Napoli alla facoltà di Giurisprudenza, a causa della passione per la filosofia, non concluse mai gli studi. Si interessò al marxismo e, dallo studio di questo, fu spinto ad approfondire il pensiero hegeliano che inizialmente non aveva riscosso in lui grande entusiasmo. Nel 1903 fonda la rivista La critica assieme all’amico Giovanni Gentile, con il quale avrebbe rotto i legami nel 1924 per contrasti ideologici e politici: a seguito del delitto Matteotti, Croce prese infatti definitivamente le distanze dal fascismo cui invece Gentile mostrava di aderire con sempre maggiore convinzione. In risposta al Manifesto degli intellettuali fascisti del 1925, Croce pubblicava infatti il Manifesto degli intellettuali antifascisti e quando furono varate le leggi razziali Croce si dichiarò fortemente contrario. Nel 1910 fu nominato senatore e dal 1920 al 1921 fu ministro della Pubblica Istruzione; nel 1944 fu Ministro senza portafoglio; nel 1946 fondò l’Istituto Italiano per gli Studi Storici con sede a Napoli. Nel 1949 fu colpito da un ictus cerebrale che lo paralizzò parzialmente; morì a Napoli il 20 novembre 1952. Tra gli scritti più significativi, si ricordano: Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel (1906); Logica come scienza del concetto puro (1909); Filosofia della pratica (1909); Breviario di estetica (1913); Teoria e storia della storiografia (1917); La storia come pensiero e come azione (1938). La scoperta del “nesso dei distinti” L’attenzione giovanile di Croce non si diresse inizialmente all’opera hegeliana, vista con un certo sospetto, a causa d’una complessità terminologica e concettuale che rasentava il limite dell’incomprensibilità. Scartato Hegel, preferì approfondire il marxismo, anch’esso svalutato dal nostro filosofo, il quale, pur apprezzando la teoria del cosiddetto 462 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Benedetto Croce

“materialismo storico” per l’accento posto sul “concreto”, sugli aspetti economici e produttivi e sulla “storia reale” dell’uomo, non accettò di considerala, contro Marx, come una verità rigorosa e definitiva. L’innegabile importanza di Marx, fu quella di riavvicinare Croce ad Hegel, pienamente rivalutato e preso come punto di riferimento teorico. Dopo alcuni anni di profonde meditazioni, preso atto dei “tanti arbitri e artifici” che il pensiero di Hegel presentava, Croce apporta radicali modifiche al sistema hegeliano. Ad Hegel viene riconosciuto il grande merito d’aver compreso in modo perfetto la dimensione e la struttura della meditazione filosofica. La dimensione della filosofia è il “concetto”, e non il sentimento, o l’intuizione, o altre conoscenze immediate. È “universale”, e non semplice generalità come invece accade per il sapere delle scienze naturali. Il sapere filosofico è soprattutto “concreto”, in quanto coglie la realtà nella sua autentica essenza. La coglie così come essa è, nella sua forma e nei suoi contenuti reali, ne coglie il “succo” e il “sangue”, tutti i suoi aspetti e tutta la sua ricchezza, nulla escluso. Ad Hegel viene contestata la sua “dialettica degli opposti”, vista come l’errore basilare dal quale scaturirono, di conseguenza, tutti i successivi errori del filosofo tedesco. L’intero sistema hegeliano poggia sul presupposto che la realtà sia costituita da una serie di “opposti”, che la realtà sia fatta unicamente di (termini, concetti) opposti. La “dialettica” della realtà, lo svolgimento reale di quel tutto che è lo spirito, è inteso da Hegel come movimento infinito che procede attraverso due termini opposti – tesi e antitesi, idea e natura, gioia e dolore, bello e brutto, positivo e negativo, vita e morte, soggetto e oggetto, ecc. Il movimento incessante e onnicomprensivo dello spirito, fa sì che si possa sempre superare l’opposizione di questi due termini (tesi e antitesi) e integrarli in un terzo termine, la “sintesi” dello Spirito. Croce contesta la dialettica degli opposti hegeliana, per 463 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

il suo carattere “totalitario”. La realtà, per Croce, non è interamente costituita da termini (o concetti) che si oppongono di continuo tra loro. Essa non presenta unicamente il conflitto aperto tra la tesi e l’antitesi, tra il vero e il falso, tra l’essere e il nulla, tra il bene e il male, e via dicendo. Non si può ridurre la totalità della realtà ad una lotta di opposti, così come non si può ridurre la capacità onnipotente dello spirito ad una sintesi capace di identificare e unire esclusivamente termini opposti. La realtà indubbiamente presenta degli “opposti”, ma essa è costituita altresì da dei “distinti”, e sono questi “distinti” ciò che Hegel ha disconosciuto, considerandoli come se fossero della stessa specie degli opposti. È ben vero che la vita è l’opposto della morte, che il bene è l’opposto del male, che il vero è l’opposto del falso; ma come possiamo affermare che il vero è l’opposto del bello o che il vero è l’opposto del bene? Come è possibile affermare, d’altro canto, che la “fantasia” è identica all’“intelletto”, o che il “bello” è identico alla “bene”? Non ha senso contrapporre questi termini tra loro. Non ha senso identificarli e sintetizzarli, perché i termini “fantasia” e “intelletto”, o altri come “arte” ed “economia”, sono rigorosamente “distinti”, e non si può né opporli che identificarli o sintetizzarli. Le quattro forme dello spirito Una volta svelato l’errore della dialettica hegeliana, e precisato l’importanza dei “distinti”, Croce è in grado di formulare la “teoria delle quattro forme dello spirito”. Croce anzitutto distingue, riferendosi allo spirito, due momenti “distinti”: un momento “teoretico” (conoscitivo) e un momento “pratico” (attivo). Lo spirito, dunque, è pensiero e azione, conoscenza e volontà. Ognuno di questi due insiemi dello spirito - l’insieme del momento teoretico e quello del momento pratico - contiene in sé due sottoinsiemi: 464 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Benedetto Croce

A) al momento teoretico appartengono: 1) la conoscenza dell’individuale, che è l’“arte”, alla quale appartiene il concetto del “bello”; 2) la conoscenza dell’universale, che è la “filosofia”, alla quale appartiene il concetto del “vero” ; B) al momento pratico appartengono: 1) la volizione dell’individuale, che è l’“economia”, alla quale appartiene il concetto dell’“utile”; 2) la volizione dell’universale, che è l’“etica”, alla quale appartiene il concetto del “bene”(o del buono). In questi quattro momenti (o gradi) dello spirito, Croce fa rientrare tutte le espressioni e manifestazioni della realtà, nulla escluso. Tutto ciò che appartiene alla realtà può, di fatto, essere ricondotto ad uno dei quattro momenti. Seguendo tale asserto, Croce riconduce la religione al momento dell’“arte” facendone una questione mitico-poetica, e anche al momento dell’“etica” per la sua implicanza morale. Così come la scienza è ricondotta al momento, pratico e individuale, dell’“economia”, negandogli, quindi, ogni validità teoretica e conoscitiva. I quattro concetti fondamentali – bello, vero, utile, bene – sono le “forme” universali e concrete nelle quali lo spirito si sviluppa (si svolge) infinitamente. Queste quattro “forme” sono i “distinti” a cui lo spirito si riferisce di continuo, essendo il suo un movimento circolare e insopprimibile. Lo sviluppo concreto (storico) e universale (totale) dello spirito, va dunque inteso come un passaggio continuo e circolare che progredisce dalla prima all’ultima di queste quattro forme (o gradi) – dal bello al vero, dal vero all’utile, dall’utile al buono per ritornare al bello e ricominciare a girare, sempre così, all’infinito. Lo spirito si svolge sempre in questo modo, in questo circolo infinito formato da quattro gradi distinti, aumentando sempre il proprio contenuto ideale e reale, ossia conservando in sé i contenuti di tutti i passaggi precedenti. La “storia eterna” dello spirito è un circolo, in cui nessuno dei suoi quattro momenti è mai un cominciamento assoluto, perché tutti hanno l’uguale fun465 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

zione di far sviluppare incessantemente il Tutto che è lo spirito. Le quattro forme sono sì distinte tra loro, ma si implicano reciprocamente, e sono talmente inseparabili che l’una non può essere senza l’altra. Il bene non può esistere senza il vero (la verità), così come la vita del nostro cuore implica necessariamente il sangue e l’ossigeno (dove “sangue” e “ossigeno” sono, indubbiamente, distinti tra loro eppur connessi reciprocamente). L’“opposizione”, quale ruolo gioca nella teoria dei distinti? L’opposizione avviene esclusivamente all’interno di ciascuno dei quattro “distinti” dello spirito, e mai tra questi. Nell’arte esiste l’opposizione del bello al brutto; in filosofia del vero al falso; in economia l’utile al dannoso; nell’etica il bene al male. Non vi è, invece, mai opposizione tra queste quattro “forme”, che vanno considerate assolutamente distinte le une dall’altre. L’arte non è opposta alla filosofia, è distinta da essa: il bello è distinto dal vero ma non è il suo opposto. (È così per tutti le rimanenti forme e i loro contenuti). La sintesi delle opposizioni, che è l’attività essenziale dello spirito, avviene all’interno di ciascuna di queste quattro forme, e mai tra le forme stesse. Ci sarà la sintesi del bello e del brutto, del vero e del falso, ma mai quella dell’arte e dell’economia, della filosofia e dell’etica. Lo spirito va allora inteso come “nesso dei distinti”, come connessione incessante dei quattro distinti momenti. I distinti, connessi in una unità perfetta, progrediscono gl’uni negl’altri nel movimento infinito del divenire, che è la coscienza stessa. In questo moto circolare lo spirito teoretico diviene sempre spirito pratico, il pensiero in azione, le idee in storia. Dalla contemplazione teoretica si passa alla produzione pratica di ciò che lo spirito ha contemplato, creando una nuova realtà che, a sua volta, passerà alla contemplazione di ciò che essa è, e quindi, di nuovo, allo spirito teoretico, poi questo ancora a quello e così all’infinito. Queste le basi e le novità teoriche di Croce, che nel cor466 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Benedetto Croce

so della sua vasta opera approfondirà i contenuti e i concetti dei quattro “distinti” dello spirito, dedicandosi appunto a trattazioni d’estetica (del bello, della conoscenza individuale), di logica (del vero, della conoscenza universale), d’economia (dell’utile, della volizione individuale), e, per finire, di etica (del bene, della volizione universale). Cosa l’arte non è L’interpretazione estetica di Benedetto Croce sortì grande interesse nel mondo filosofico e culturale dell’epoca. Ancora oggi nel mondo dell’arte e della critica ci si divide spesso tra crociani e non crociani (se non proprio anti-crociani). Come primo compito, Croce intende definire concettualmente cos’è l’“arte” e cosa essa non è. Coerente con la sua impostazione dei “distinti”, Croce sentì la necessità di distinguere l’arte da tutto ciò che essa non è. Nel Breviario di estetica1 il nostro filosofo afferma che “l’arte è ciò che tutti sanno che cosa sia”. Non sta al filosofo scoprire “la natura dell’arte”, quasi che essa fosse un che di misterioso e ignoto ai più. L’arte è a tutti nota perché è espressione (è un grado) dell’unico spirito che pensa e agisce nell’uomo, e che muove e produce l’intera realtà. Essendo già noto a tutti gli uomini cosa l’arte sia, al filosofo non spetta altro che presentare tale conoscenza (“intimo contenuto”) con maggior “chiarezza”, “intensità” e “ricchezza” possibile. Bisogna in primo luogo guardarsi dall’errore di “fisicizzare l’arte”, perché l’arte non è affatto un “fatto fisico”. Essa non è, ad esempio, “certi determinati colori o rapporti di colori, certe determinate forme di corpi, certi determinati suoni o rapporti di suoni”. Ridurre il giudizio estetico –

1   Le citazioni di quest’opera sono tratte da: B. Croce, Breviario di estetica * Aesthetica in nuce, Adelphi, Milano 2007.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

che valuta se un’opera d’arte è bella o brutta esteticamente – basandosi su speculazioni circa i “rapporti geometrici e numerici determinabili nelle figure e nei suoni”, significa disconoscere la vera natura dell’estetica e dell’arte. Affermare che l’arte sia un fatto fisico, implica che noi contemplatori e studiosi dell’arte, per valutare un’opera poetica, dovremmo metterci a contare quante parole compongono una certa poesia, dovremmo dividerla in sillabe e lettere, così come con un statua dovremmo darci da fare a misurarla e pesarla. Concepire in questo modo l’arte significa allontanarsi dall’essenza reale dell’arte stessa. In secondo luogo, l’arte “non può essere un atto utilitario”, perché “l’arte non ha nulla da vedere con l’utile, e col piacere e col dolore, in quanto tali”. Ridurre l’arte ad un atto utilitario, sarebbe come dire che una poesia ci dà piacere allo stesso modo di come ci dà piacere una “bevuta d’acqua” fresca in una giornata afosa, una passeggiata primaverile, la firma per un sofferto contratto di lavoro, e simili. Per Croce l’arte, a differenza di certa “estetica edonistica”, non deve suscitare piacere, sia esso “il piacere dei sensi superiori, il piacere del gioco, la coscienza della propria forma, l’erotismo”, così come non ha nulla a che fare con l’utile, con la soddisfazione dei bisogni conoscitivi e morali, ecc. In terzo luogo, l’arte non è un “atto morale; vale a dire quella forma di atto pratico che, pure congiungendosi necessariamente con l’utile e col piacere e dolore, non è immediatamente utilitaria ed edonistica e si muove in una sfera spirituale superiore”. Un’opera d’arte non può essere valutata moralmente, non si può dire che essa sia buona o cattiva, lodevole o riprovevole. Niente dell’arte – per esempio la Francesca di Dante o la Cordelia di Shakespeare –, può essere giudicato immorale, incivile, fuorilegge, disonesto, eticamente pericoloso, eretico o satanico. All’arte non appartiene il fine di “indirizzare al bene, d’ispirare l’aborrimento dal male, di correggere e migliorare i costumi”. Da468 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Benedetto Croce

gli artisti non si può e non si deve pretendere di contribuire “all’educazione civile delle plebi, al rafforzamento dello spirito nazionale o bellicoso di un popolo, alla diffusione degli ideali di vita modesta e laboriosa”, quasi che l’artista fosse uno “strumento didascalico” per il miglioramento morale dell’uomo in generale e delle società civili in particolare, o la “cortigiana” a “servigio della santa chiesa o della morale”. Tutto questo rientra in ciò che l’arte “non può fare” e, quindi, in ciò che non gli appartiene affatto. Infine – “e questa è forse la più importante delle negazioni generali” – l’arte non è “conoscenza concettuale” (o intellegibile), non è “filosofia” (o vita teoretica), non è conoscenza universale (che interessa tutto il reale), non ha a che fare con il vero e il falso (che è il campo specifico della filosofia), bensì è paragonabile “al sogno (al sogno, e non già al sonno) della vita teoretica, rispetto al quale la filosofia sarebbe veglia”. Così che “chiunque, innanzi ad un’opera d’arte, domanda se ciò che l’artista ha espresso sia metafisicamente e storicamente vero o falso, muove una domanda senza significato, ed entra nell’errore analogo a quello di chi vuol tradurre innanzi al tribunale della moralità le aeree immagini della fantasia”. Cosa è l’arte “Alla domanda: “Che cosa è l’arte?” si potrebbe rispondere celiando (ma non sarebbe una celia sciocca): che l’arte è ciò che tutti sanno che cosa sia”. Così apre Croce il suo Breviario, e poco dopo aggiunge: “L’arte è visione o intuizione”. L’arte è fantasma , fantasia, immaginazione, figurazione, rappresentazione, contemplazione. L’azione dell’artista è quella di produrre “un’immagine o fantasma”, aprire spiragli, dar vita a visioni, creare mondi immaginifici. “Colui che gusta l’arte” – l’amante dell’arte –, è colui che am-mira la visione dell’artista, che vede anch’esso dal469 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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la breccia e dalla crepa fantastica che l’artista ha aperto intuitivamente nel tessuto stesso del reale. All’arte “manca il pensiero”, essa è autonoma rispetto all’intelletto riflettente, il suo è si un carattere “teorico” ma è “alogico”. Lo spirito scientifico e quello matematico sono i suoi nemici e la sua morte, così come la storia e la religione. L’arte è conoscenza intuitiva, visione immediata (e non conoscenza riflettente), intuizione individuale, soggettiva, personale. Non è “concetto logico” ma “fantasma” e “visione”, è sì conoscenza ma non è pensiero intellettuale, è intuizione immediata e mai riflessione razionale: “l’arte è opera della fantasia”, che crea un mondo di “pure immagini”, “prive di valore filosofico, storico, religioso o scientifico, prive perfino di valore morale e edonistico”. L’arte non è nemmeno per la vita: l’arte è per l’arte, e per nient’altro. È essa un gioco inutile, un passatempo passeggero, un mero sognare ad occhi aperti, un fanciullesco e inconcludente fantasticare ozioso? Niente affatto! Se fosse un gioco o un passatempo si ridurrebbe ad essere conseguenza e soddisfazione di un bisogno edonistico e utilitario. Se fosse un semplice fantasticare implicherebbe che l’intuizione artistica fosse produzione di “un ammasso di immagini incoerente”, e quindi prive di ogni rilevanza estetica. La fantasia all’opera dell’artista non è passiva immaginazione incoerente e caotica, ma produzione attiva di una “pura immagine”, di una immagine coerente, compatta, piena e organica. Il contenuto dell’arte è lo “stato d’animo” dell’artista, è il suo “sentimento” (la sua “liricità”). Il linguaggio dell’arte è universale, arriva a tutti e riguarda tutti gli uomini, proprio perché “il sentimento o lo stato d’animo non è un particolare contenuto, ma è l’universo guardato sub specie intuitionis”. L’arte è intuizione, e “l’intuizione è veramente tale perché rappresenta un sentimento, e solo da esso e sopra di esso sorge”. La somma opera d’arte, l’opera d’arte che possiede maggiore valore estetico, è quella nel470 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Benedetto Croce

la quale compare e si manifesta la perfetta unità, concreta e viva e inscindibile, della “forma” e del “contenuto”, dove la “forma” è l’“immagine” e il “sentimento” il “contenuto”. “L’arte è una vera sintesi a priori [: immediata] estetica, di sentimento e immagine nell’intuizione, della quale si può ripetere che il sentimento senza l’immagine è cieco, e l’immagine senza il sentimento è vuota”. Vi è arte quando vi è questa perfetta sintesi di forma e contenuto. Nell’arte “il contenuto [il sentimento] è formato [nell’immagine] e la forma [l’immagine] è riempita [dal sentimento ], e il sentimento è sentimento figurato e la figura è figura sentita”. Non è possibile, nell’arte, distaccare l’intuizione dall’“espressione”, ossia “l’immagine dalla traduzione fisica dell’immagine”. I suoni di una sinfonia non esistono senza l’immagine intuita dal musicista: i suoni e l’immagine nascono assieme. Così come le linee e i colori di un quadro non esistono senza l’immagine del paesaggio, apparsa spontaneamente nella fantasia del pittore. L’arte ci presenta sempre e soltanto “intuizioni espresse”, immagini immediate formulate in metri e parole e ritmi (nella poesia), fantasie musicali concretizzate in suoni e melodie e armonie, immaginazioni pittoriche espresse in colori e linee e ombre e prospettive. Non si può pensare che le immagini, le fantasie e le intuizioni degli artisti esistano indipendentemente dal loro esprimersi e manifestarsi. Le dualità di interno ed esterno, fantasia e tecnica, forma e contenuto, non esistono nell’arte. Esse si fondono perfettamente in quell’organismo compatto e coerente che l’arte essenzialmente è: intuizione espressa, immagine formata, fantasia realizzata. Grandi artisti che non sanno esprimere ciò che sentono, non sono affatto impotenti a creare o altro ancora: essi non sono affatto grandi artisti. In questo senso dobbiamo intendere la connessione esistente, agli occhi di Croce, tra l’arte e il “linguaggio”. Quest’ultimo non è da Croce considerato come appartenente al mondo della logica, come ciò che è nato per dare 471 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

il significato logico alle cose. Il linguaggio, al contrario, è di “natura fantastica o metaforica”, legata più alla poesia che alla logica. Se l’arte è intuizione, e l’intuizione è espressione, allora l’arte, non essendo che intuizione espressa, è linguaggio, inteso in tutta la sua estensione, non ristretto al “cosiddetto linguaggio articolato” (letteratura, poesia), ma anche linguaggio mimico (danza, teatro), tonico (musica), grafico (pittura, scultura, architettura). Ne segue, da un lato, che ogni uomo è un artista, perché ogni uomo è capace di esprimersi, perché ogni uomo è calato nel linguaggio; e dall’altro, che l’artista è un uomo come tutti gli altri. Se così non fosse, nota Croce, le creazioni artistiche non potrebbero essere minimamente recepite dagli “spettatori”. Uno è lo spirito, uno è il sentimento, una è l’opera spontanea della fantasia. Una è l’espressione, uno è il linguaggio, dove questo linguaggio non è che “immagine significante”, immagine che è “segno a sé stessa”, immagine “colorita, sonante, cantante”. Una è l’arte: non si può accettare l’accademismo della cosiddetta “distinzione dei generi” o delle arti, dove, ad esempio, la commedia è distinta alla tragedia, la satira al poema cavalleresco; dove ci si scervella a giudicare la scultura superiore alla pittura, il dramma alla lirica, o il contrario. Questi inutili rompicapi “muovono a rivolta il senso artistico e poetico, il quale ama ciascun opera in sé, per quello che essa è, come una creatura viva, individua e incomparabile, e sa che ogni opera ha la sua individua legge e il suo pieno e insostituibile valore”. La filosofia come storicismo assoluto Grande interesse, e non poche polemiche, suscitò la posizione crociana sul compito della filosofia. Essendo lo spirito produttore dell’intera realtà, dell’intera storia del 472 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Benedetto Croce

mondo, il “giudizio” della filosofia – che, al contrario della conoscenza artistica (intuizione individuale), è conoscenza “intellettuale” e “universale” –, coincide con il “giudizio storico”. Fare filosofia significa indagare e rivivere la storia, perché questa non è che la storia dello spirito stesso, la storia della realtà infinita e onniproducente dello spirito. Il giudizio filosofico su ogni epoca storica, rende quest’ultima “attuale”, il suo “significato” diventa “presente”, pronto a rispondere ai bisogni della “situazione presente”, della vita “contemporanea”. La storia, per Croce – contrario ad ogni mondo (presupposto) immutabile ed estraneo al flusso del divenire – non è data dall’esterno, non è un corpo inerte e muto che appartiene alla notte dei tempi e alle polveri dei musei, “ma vive in noi”, parla ancora e sempre attraverso noi, e parlando c’insegna a vivere, a progredire, a migliorarci. L’uomo è un “microcosmo”, in sé, nel suo spirito, nella sua mente, nel suo pensiero rivive tutta la storia del mondo: l’uomo è un “compendio della storia universale”. Nell’uomo vive e rivive eternamente quel tempo passato che è la storia. In quel presente, che è l’uomo stesso, vive, e rivive in eterno, l’eternità dello spirito, che è storia totale (passato + presente + futuro = flusso infinito, circolo insopprimibile). Lo spirito, l’“universale concreto”, si realizza nella storia, essendo la realtà ciò che si sviluppa mediante il pensiero e l’azione – pensiero e azione che formano, appunto, l’unità indissolubile che è lo spirito. Se la filosofia vuole essere ciò che veramente è – ossia conoscenza della totalità del reale, conoscenza vera di quel “vero” che è il reale –, non può non essere che “storia”, giudizio storico, “storicismo assoluto”: solo la storia “è la vera conoscenza del reale”, perché la storia “è tutta la conoscenza”. È importante non confondere ciò che Croce intende quando parla di “giudizio filosofico” in merito alla storia. Sarebbe errato, secondo il nostro filosofo, ridurre la meditazione filosofica ad una corte giudiziaria o ad 473 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

una giuria esaminatrice che dovrebbe sancire la lode o il biasimo a determinati eventi o protagonisti storici. Sancire lode e biasimo non solo non spetta al filosofo, ma non ha senso in nessun caso. Lodare o biasimare determinati avvenimenti o personaggi storici, è decisamente inutile, in quanto questi si sono svolti e comportati in modo giusto o ingiusto esclusivamente nel momento storico in cui tali fatti avvennero o in cui tali individui vissero. In nessun modo il nostro giudizio può influire su ciò che è già accaduto, o tanto meno infastidire o inorgoglire chi è toccato dal nostro giudizio di valore. Se la filosofia deve essere il tribunale della storia, è un tribunale che non condanna, che non disprezza, così come non loda e né assolve alcunché, è sopra le parti, è neutrale. La filosofia, infatti, non giudica ma conosce e comprende la storia, comprende la storia concreta dello spirito che è il reale stesso in tutta la sua estensione temporale. Conoscendo la storia, l’uomo, in quanto figlio del passato, potrà riscattarsi da ciò che lo ha preceduto, potrà alleggerirsi e liberarsi del passato. La conoscenza della storia assolve dunque ad una funzione catartica, ad una funzione purificatrice e risanatrice, capace di comprendere le azioni dei nostri predecessori, capace di affrancarci dal nostro passato e capace, soprattutto, di stimolarci all’azione, alla vita, alla nostra storia “attuale”. Per scrivere concretamente e di prima persona la storia, bisogna che l’uomo sappia esattamente cosa sta scritto nella storia, cosa essa ha da raccontarci, quale significato ha portato alla luce, qual è il senso che corre attraverso le sue tante e profonde pagine. La storia è libertà infinita, è spirito Il senso della storia, per Croce, è la “libertà”. La storia è storia della libertà. Affermare che la storia è “storia della libertà”, non è una affermazione originale di Croce, in quan474 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Benedetto Croce

to già presente in Hegel. Per Hegel la libertà è un processo progressivo, un processo che interessa la storia del mondo, un mondo nel quale la libertà prima nasce, poi man mano cresce fino a diventare “adulta” e restare così “salda in questa raggiunta età definitiva”. La libertà, quindi, nasce, cresce e si ferma alla cima dell’età adulta. Per Hegel tale progressione è riscontrabile nella storia umana: nel mondo orientale la libertà muove i suoi primi e timidi passi, e infatti in tale mondo è “uno solo libero” (il re, il despota, l’imperatore); nel mondo classico, la libertà cresce rispetto al mondo orientale, e infatti troviamo “alcuni liberi” (signori, aristocrazia); nel mondo germanico, infine, la libertà raggiunge la sua piena e definitiva maturità che si traduce nel “tutti liberi”(in quanto garantiti dallo Stato). In base a tale tripartizione, Hegel afferma che la “storia è finita”: la storia, in quanto sviluppo della libertà, ha raggiunto il suo culmine nello Stato germanico. Nello Stato germanico, la libertà dell’uomo, la storia umana, si è pienamente realizzata. Non così per Croce. Affermare che la storia è storia della libertà non significa “assegnare alla storia il tema del formarsi di una libertà che prima non era e un giorno sarà”, ma significa “affermare la libertà come l’eterna formatrice della storia, soggetto stesso di ogni storia”. Il soggetto della storia è la libertà stessa, libertà che non conosce e non può conoscere punti definitivi, stati pienamente realizzati e pertanto conclusi. Questo perché la libertà, che si realizza e realizza la storia, non è altro che spirito. Spirito che è appunto eterna (mai definitiva) azione trasformatrice, eterna forza attiva e onniproducente, libera da ogni condizione e limite, da ogni nascita e arrivo conclusivo, da ogni inizio e fine. Libera di creare ciò che intende creare, libera di creare attimo dopo attimo, ieri oggi domani e per sempre, ciò che di volta in volta crea. Nella storia ciò che noi osserviamo e comprendiamo è l’esplicarsi e l’attuarsi della libertà, dello spirito, dell’universale concreto, così come la storia dell’uomo non è altro che un tendere infinito alla libertà: 475 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

la libertà è “per un verso, il principio esplicativo del corso storico e, per l’altro, l’ideale morale dell’umanità”. Si potrebbe obbiettare che la libertà ha “ormai disertato il mondo, che il suo ideale sia tramontato sull’orizzonte della storia, con un tramonto senza promessa di aurora”. Affermare morta la libertà, per Croce, è un assurdo, perché “asserire morta la libertà vale lo stesso che asserire morta la vita”, essendo proprio la libertà l’“intima molla” della vita, la “legge stessa della vita”. È vero che analizzando il passato storico ci imbattiamo in “oppressioni”, “invasioni barbariche”, “depredazioni”, “tirannie profane ed ecclesiastiche”, “guerre tra i popoli e nei popoli”, “persecuzioni”, “esilî e patiboli”, tutte cose, queste, che contrastano col dire che la storia è il regno della libertà. È anche vero, però, che tutto questo “male” è sempre stato e sarà sempre “uno stimolo” per il bene, per fare e realizzare il bene, così come il positivo è positivo soltanto perché si oppone e nega il negativo. Il “pensiero direttivo” della storia è “sempre il bene”, ciò che in essa “opera” è sempre la libertà, e i succitati esempi storici, che sembrerebbero negare il dominio della libertà, ne sono invece una conferma. Ad ogni disfatta segue sempre una resurrezione, ad ogni oppressione una liberazione, ad ogni guerra una pace: ogni opposizione si unifica sempre in quella grande sintesi universale e concreta che è lo spirito, che è storia. La storia, in quanto opera dello spirito (che è libertà assoluta), non poteva non svolgersi così come essa effettivamente si è svolta, con tutte le sue guerre e i suoi orrori, con tutte le sue paci e le sue meraviglie, perché la storia è vita, è movimento, alternanza di bene e male, di luce e buio, alternanza incessante degli opposti. La storia è vita, “vita pericolosa e combattente”, che non può, in nessun modo, apparire diversamente da come essa nel corso dei secoli si è presentata e si presenterà, apparendo sempre in tutta la sua infinita e indomabile libertà. 476 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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PAGINE ANTOLOGICHE

La riforma di Benedetto Croce: la teoria dei “distinti” Il concetto filosofico […], in quanto concretezza, non esclude, anzi include in sé le distinzioni: è l’universale in sé distinto, e risultante da quelle distinzioni. Come i concetti empirici si distinguono in classi e sottoclassi, così quello filosofico ha le sue forme particolari, ma non ne è l’aggregato meccanico, sibbene l’organismo, in cui ogni forma si congiunge intimamente con le altre e col tutto. Per esempio, la fantasia e l’intelletto sono concetti filosofici particolari, rispetto a quello di spirito o attività spirituale; ma non sono fuori o sotto dello spirito, anzi sono lo spirito stesso in quelle forme particolari; né poi l’uno è separato dall’altro, come due entità chiuse ciascuna in se stessa ed estranee tra loro, ma l’uno passa nell’altro; onde la fantasia, come volgarmente si dice, quantunque distinta dall’intelletto, è il fondamento dell’intelletto, indispensabile a questo. Senonché, il nostro pensiero, nell’indagare la realtà, si trova innanzi non solamente i concetti distinti, ma insieme gli opposti i quali non possono essere senz’altro identificati coi primi, né considerati come casi speciali di quelli, quasi una sorta di distinti. Altra è la categoria logica della distinzione, altra la categoria dell’opposizione. Due concetti distinti si congiungono, come si è detto, tra loro, pur nella loro distinzione; due concetti opposti sembrano escludersi: dove entra l’uno, sparisce totalmente l’altro. Un concetto distinto è presupposto e vive nell’altro, che gli segue nell’ordine ideale: un concetto opposto è ucciso dal suo opposto: per esso vale il detto: mors tua, vita mea. Esempi di concetti distinti sono quelli già recati della fantasia e dell’intelletto, e 477 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

gli altri, che potrebbero aggiungersi, del diritto, della moralità, o simili. Ma gli esempi dei concetti opposti si traggono da quelle tante coppie di parole, onde è pieno il nostro linguaggio, e che non costituiscono, certamente, coppie pacifiche e amichevoli. Sono i contrasti del vero e del falso, del bene e del male, del bello e del brutto, del valore e del disvalore, della gioia e del dolore, dell’attività e della passività, del positivo e del negativo, della vita e della morte, dell’essere e del nulla: e via enumerando. Non è possibile confondere tra loro le due serie, quella dei distinti e quella degli opposti: tanto sono spiccatamente diverse. […] Se il pensiero ingenuo dà la speranza e l’indizio della conciliabilità tra l’unità e l’opposizione, un’altra forma di produzione spirituale, della quale tutti hanno esperienza, ne porge come il modello approssimativo. Il filosofo ha accanto a sé il poeta. E anche il poeta cerca il vero; anche il poeta ha sete di realtà; anch’esso, come il filosofo, ripugna alle astrazioni arbitrarie, perché tende al vivo e al concreto: aborre anch’esso le mute smanie dei mistici e dei sentimentali, perché quel ch’egli sente dice, e fa sonare all’orecchio in belle parole, limpide ed argentine. Ma il poeta non è condannato all’inconseguibile: questa realtà, che è dilaniata da opposizioni, egli la contempla e la rende, vibrante di opposizioni, eppure una e indivisa. Non potrà il filosofo fare il medesimo? Non è la filosofia conoscimento, come la poesia? Perché al concetto filosofico, analogo in tutto all’espressione estetica, dovrà mancare questa perfezione che ha l’altra, questa potenza di risolvere e rappresentare l’unità nell’opposizione? Certo, la filosofia è conoscimento dell’universale, e perciò pensiero; e la poesia, conoscimento dell’individuale, e perciò intuizione e fantasia. Ma perché l’universale filosofico non potrà, come l’espressione estetica, essere insieme diverso e uno, discorde e concorde, discreto e continuo, preciso e mobile? Perché, nel salire che fa la mente dalla contemplazione del singolo a quella del tutto, la realtà dovrebbe perdere il suo carattere proprio? Non è l’Uno così vivo in noi come il singolo? Ed ecco Hegel manda il suo grido di giubilo, il grido dello scopritore, l’eureka, il suo principio di risoluzione del problema degli opposti: principio semplicissimo e tanto ovvio da meritare di essere messo con quelli, per l’appunto, che si simboleggiano nell’uovo di Colombo. Gli opposti non sono illusione, e non è illusione l’unità. Gli opposti sono opposti tra loro, ma non sono op478 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Benedetto Croce: pagine antologiche

posti verso l’unità, giacché l’unità vera e concreta non è altro che unità, o sintesi, di opposti: non è immobilità, è movimento; non è stazionarietà, ma svolgimento. Il concetto filosofico è universale concreto; e perciò pensamento della realtà come, tutt’insieme, unita e divisa. Solo così la verità filosofica risponde alla verità poetica; e il palpito del pensiero al palpito delle cose. (B. Croce, Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, Laterza, Bari 1907, pp. 8-15) Aspetti centrali dell’estetica crociana Alla domanda: “Che cosa è l’arte?” si potrebbe rispondere celiando (ma non sarebbe una celia sciocca): che l’arte è ciò che tutti sanno che cosa sia. E, veramente, se in qualche modo non si sapesse che cosa essa è, non si potrebbe neppure muovere quella domanda, perché ogni domanda importa una certa notizia della cosa di cui si domanda, designata nella domanda, e perciò qualificata e conosciuta. […] L’arte è visione o intuizione. L’artista produce un’immagine o fantasma; e colui che gusta l’arte volge l’occhio al punto che l’artista gli ha additato, guarda per lo spiraglio che colui gli ha aperto e riproduce in sé quell’immagine. “Intuizione”, “visione”, “contemplazione”, “immaginazione”, “fantasia”, “figurazione”, “rappresentazione”, e via dicendo, sono parole che ritornano di continuo quasi sinonimi nel discorrere intorno all’arte, e che tutte sollevano la nostra mente al medesimo concetto o alla medesima sfera di concetti, indizio di universale consenso. […] L’intuizione è veramente artistica, è veramente intuizione, e non caotico ammasso d’immagini, solo quando ha un principio vitale che l’animi facendo tutt’uno con lei; ma qual è questo principio? […] Ciò che dà coerenza e unità all’intuizione è il sentimento: l’intuizione è veramente tale perché rappresenta un sentimento, e solo da esso e sopra di esso può sorgere. Non l’idea, ma il sentimento è quel che conferisce all’arte l’aerea leggerezza del simbolo: un’aspirazione chiusa nel giro di una rappresentazione, ecco l’arte; e in essa l’aspirazione sta solo per la rappresentazione e la rappresentazione solo per l’aspirazione. […] Ciò che ammiriamo nelle genuine opere d’arte è la perfetta forma fantastica, che vi assume uno stato d’animo; e codesto chiamiamo vita, unità, compattezza, pienezza dell’opera d’ar479 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

te. Ciò che ci dispiace, nelle false e imperfette, è il contrasto non unificato di più e diversi stati d’animo, la loro stratificazione o il loro miscuglio o il loro procedere traballante, che riceve un’unità apparente dall’arbitrio dell’autore, il quale si giova a tal fine di uno schema o di un’idea astratta o di una commozione di affetti extraestetica. […] Identificare linguaggio e poesia a noi appare, quanto ineluttabile, altrettanto agevole, avendo stabilito il concetto dell’arte come intuizione e dell’intuizione come espressione, e perciò implicitamente la identità di essa col linguaggio: sempre, beninteso, che il linguaggio venga concepito in tutta la sua estensione (senza arbitrariamente restringerlo al cosiddetto linguaggio articolato ed arbitrariamente escluderne il tonico, il mimico, il grafico), e in tutta la sua intensione, cioè preso nella sua realtà che è l’atto stesso del parlare (senza falsificarlo nelle astrazioni delle grammatiche e dei vocabolari, e senza immaginare stoltamente che l’uomo parli col vocabolario e con la grammatica). L’uomo parla a ogni istante come il poeta, perché come il poeta esprime le sue impressioni e i suoi sentimenti nella forma che si dice di conversazione o familiare, e che non è separata per nessun abisso dalle altre forme che si dicono prosastiche, prosastico-poetiche, narrative, epiche, dialogate, drammatiche, liriche, meliche, cantate, e via enumerando. […] Se la poesia fosse una lingua a parte, un “linguaggio degli dèi”, gli uomini non la intenderebbero, e, se essa li eleva, li eleva non sopra, ma in sé stessi: la vera democrazia e la vera aristocrazia, anche in questo caso, coincidono. […] Poiché ogni opera d’arte esprime uno stato d’animo, e lo stato d’animo è individuale e sempre nuovo, l’intuizione importa infinite intuizioni, che è impossibile ridurre in un casellario di generi. […] E poiché, d’altra parte, l’individualità dell’intuizione importa l’individualità dell’espressione, e una pittura è distinta da un’altra pittura non meno che da una poesia, […] è infondata qualsiasi teoria della divisione delle arti. Il genere o la classe è, in questo caso, uno solo, l’arte stessa o l’intuizione, laddove le singole opere d’arte sono poi infinite: tutte originali, ciascuna intraducibile nell’altra (poiché tradurre, tradurre con artistica vena, è creare una nuova opera d’arte), ciascuna indomita dall’intelletto. […] Né l’artista che produce l’arte, né lo spettatore che la contempla, hanno bisogno d’altro che […] della universale attività artistica, che si è contratta e concentrata tutta nella rappresentazione di un singolo stato d’animo. […] Nella storia […] si trova il 480 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Benedetto Croce: pagine antologiche

legame di tutte le opere d’arte o di tutte le intuizioni, perché nella storia esse appaiono organicamente connesse, come tappe successive e necessarie dello svolgimento dello spirito, note ciascuna dell’eterno poema, che armonizza in sé tutti i singoli poemi. (B. Croce, Breviario di estetica, Adelphi, Milano 2007, pp. 15, 22, 42, 44-45, 65-66, 70-71, 74) L’arte è espressione Un’altra distinzione non meno fallace (e alla quale anche si sogliono trasportare i vocaboli “contenuto” e “forma”) distacca l’intuizione dall’espressione, l’immagine dalla traduzione fisica dell’immagine, e pone da un lato fantasmi di sentimenti, immagini di uomini, di animali, di paesaggi, di azioni, di avventure, e via discorrendo; e dall’altro, suoni, toni, linee, colori, e via discorrendo; e queste cose chiama l’esterno dell’arte, e quelle l’interno: le une arte propriamente detta, e le altre tecnica. Distinguere interno ed esterno è cosa agevole, almeno a parole, specialmente quando non s’indaghino pel sottile le ragioni e il modo della distinzione, e quando la distinzione si butti poi lì senza richiederle alcun servigio; tanto che, col non pensarci mai, essa può perfino sembrare indubitabile al pensiero. Ma la cosa va diversamente quando, come in ogni distinzione, dal distinguere si passa a porre la relazione e ad unificare. […] In qual modo qualcosa di esterno, e di estraneo all’interno, può congiungersi all’interno ed esprimerlo? un suono o un colore esprimere un’immagine senza suono e senza colore, un corpo l’incorporeo? in qual modo in uno stesso atto possono concorrere la spontaneità della fantasia e la riflessione, anzi l’azione tecnica? Distinta l’intuizione dall’espressione, e fatta l’una di natura diversa dall’altra, non c’è ingegnosità di termini medi che riesca a saldarle l’una all’altra. […] E sembra che non ci sia altro scampo che rifugiarsi nell’ipotesi di un mistero, il quale, secondo i gusti ora poetici ora matematici, si atteggerà come quello di un misterioso matrimonio o di un misterioso parallelismo psicofisico: il primo, che è a sua volta un parallelismo fintamente superato; il secondo, che è un matrimonio celebrato nel lontano dei secoli o nel buio dell’inconoscibile. Ma, prima di ricorrere al mistero (che è un rifugio pel quale si ha sempre tempo), bisogna cercare se i due elementi 481 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

siano stati legittimamente distinti, e se sussista e sia concepibile una intuizione, priva d’espressione. Può darsi che la cosa sia altrettanto insussistente e inconcepibile quanto un’anima senza corpo; della quale, a dir vero, si è assai parlato nelle filosofie non meno che nelle religioni, ma averne parlato non vuol dire averla sperimentata e concepita. In realtà noi non conosciamo altro che intuizioni espresse: un pensiero non è per noi pensiero se non quando sia formulabile in parole, una fantasia musicale se non quando si concreti in suoni, un’immaginazione pittorica se non quando sia colorita. Non diciamo che le parole debbano essere di necessità declamate a voce alta, e la musica debba essere eseguita, e la pittura fissata sopra una tela o una tavola; ma è certo che, quando un pensiero è veramente pensiero, quando è giunto alla maturità di pensiero, per tutto il nostro organismo corrono le parole, sollecitando i muscoli della nostra bocca e risonando internamente al nostro orecchio: quando una musica è veramente musica, gorgheggia nella gola o freme sulle dita, che scorrono su ideali tastiere; quando un’immagine pittorica è pittoricamente reale, siamo pregni di linfe che sono colori, e c’è caso che, ove le materie coloranti non fossero a nostra disposizione, coloreremmo spontaneamente gli oggetti circostanti per una sorta d’irradiazione , come si racconta di certi isterici e di certi santi che con l’immaginazione si effigiavano le stimmate sulle mani e sui piedi! Prima che si formi questo stato espressivo dello spirito, il pensiero, la fantasia musicale, l’immagine pittorica, non già che esistessero senza espressioni, non esistevano punto. Credere alla preesistenza è da persona semplice, se è semplicità dar fede a quei poeti, pittori o musicisti impotenti, che hanno sempre la testa piena di creazioni poetiche, pittoriche e musicali, e solamente non riescono a tradurle in forma esterna, o perché, dicono, sono insofferenti dell’espressione, o perché la tecnica non è cotanto progredita da offrire alla loro espressione mezzi bastevoli: offriva tanti secoli fa, mezzi bastevoli a Omero, a Fidia o ad Apelle, ma non li offre a loro, che portano, a sentirli, un arte più grande nel loro vasto capo! […] Quanto è inconcepibile un’immagine priva di espressione, altrettanto è concepibile, anzi logicamente necessaria, un’immagine che sia insieme espressione; cioè che sia realmente immagine. Se si tolgono a una poesia il suo metro, il suo ritmo e le sue parole, non rimane, come alcuni opinano, di là da tutto ciò, il pensiero poetico: non rimane nulla. La poesia è nata come quel482 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Benedetto Croce: pagine antologiche

le parole, quel ritmo e quel metro. L’espressione non si potrebbe neppure paragonare all’epidermide di un organismo, salvo che non si dica, che tutto l’organismo, in ogni sua cellula e in ogni cellula di cellula, è insieme epidermide. (B. Croce, Breviario di estetica, cit., pp. 55-59) Il giudizio storico e la libertà della storia Solo il giudizio storico, che libera lo spirito dalla stretta del passato e, puro qual è e superiore alle parti in contrasto, guardingo contro i loro impeti ed i loro allettamenti e le loro insidie, mantiene la sua neutralità, ed attende unicamente a fornire la luce che gli si chiede, sol esso rende possibile il formarsi del pratico proposito e apre la via allo svolgersi dell’azione e, col processo dell’azione, alle opposizioni tra le quali questa si deve travagliare, di bene contro male, di utile contro dannoso, di bello contro brutto, di vero contro falso, del valore, insomma, contro il disvalore. Risuonano allora legittimamente, nel campo loro proprio, le accettazioni e le ripulse, le lodi e i biasimi, che si chiamano e non sono giudizi, e che, poiché non sono tali, si è sentito il bisogno, in filosofia, di definire come giudizi non di quel che una cosa è e il cui valore coincide coll’esser suo, ma di quel che vale senz’altro nella sua contrapposizione a cose che non valgono, e di battezzarli perciò “giudizi di valore”, laddove in questo caso si sarebbero dovuti chiamare semplicemente e meramente “espressioni affettive”. Tra le quali espressioni ve n’ha anche di materia storica che si formano con l’innalzare i personaggi e le azioni del passato a simboli di quel che si ama o si odia nel presente, a simboli di libertà e di tirannia, di generosa bontà e di egoismo, di santità e di diabolica perfidia, di forza e di fiacchezza, di alta intelligenza e di stupidità: donde l’amore per Socrate e per Gesù, l’ammirazione per Alessandro e per Napoleone, il ribrezzo verso Giuda, l’odio contro un Alessandro VI e un Filippo II, e il vario disputare parteggiando per Cesare o per Pompeo. Sono sentimenti affatto naturali che, se anche nei nostri libri storici vengono raffrenati e temperati dal dovere dell’unità logica e del buon gusto letterario, coloriscono pur sempre in qualche modo le nostre parole, senza che perciò possiamo farci colpa di aver lasciato scorgere qualcosa del nostro animo impossi483 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

bile a nascondere, e del quale c’è da arrossire solo quando c’è da arrossire per la bassezza dei suoi amori e per l’indegnità delle sue avversioni. Ma non sono giudizi storici, e tanto meno il fine della storiografia, quale l’immaginavano gli storici tribunalizi, i tacitiani di maniera, gli agostiniani senza l’animo di Agostino. Necessari nel campo dell’azione, inevitabili nel suono delle parole di chi sempre, parlando o scrivendo, all’azione prepara e si prepara, sono incomportabili con la logica della storiografia, che non ammette né opere né uomini tutto puri o tutto impuri, e respinge tale questione come insolubile perché peccante nel fondamento. Del resto, qual uomo a cui non sia straniero il pudore, ascolta mai il giudizio di bontà sulla persona sua o sull’azione da lui compiuta senza provarne, sull’istante, rimorso, senza sentirsi in colpa di lasciar offendere a quel modo la santità del vero, senza che le labbra gli si muovano alla negazione e alla protesta? Che se si ricerca il perché della così inutile, eppure, a quanto sembra, così gradevole traslazione di tali “giudizi di valore” dalle cose del presente, dove essi adempiono l’ufficio loro, alla rappresentazione del passato, dove non solo fanno ingombro ma distolgono dall’oggetto dell’indagine, si avrebbe forse luogo a considerare quanto la vanitosa debolezza, rifuggendo dai pericoli delle lotte pratiche e dagli sforzi che costano, si piaccia nel celare sé a se stessa col vibrare grandi colpi di parole a coloro che non possono ribatterli perché stanno chiusi negli ipogei del passato. […] Che la storia sia storia della libertà, è un famoso detto dello Hegel ripetuto un po’ a orecchio e divulgato in tutta Europa dal Cousin, dal Michelet, e da altri scrittori francesi, ma che nello Hegel e nei suoi ripetitori ha il significato, che abbiamo criticato di sopra, di una storia del primo nascere della libertà, del suo crescere, del suo farsi adulta e stare salda in questa raggiunta età definitiva, incapace di ulteriori sviluppi (mondo orientale, mondo classico, mondo germanico = uno solo libero, alcuni liberi, tutti liberi). Con diversa intenzione e diverso contenuto quel detto è qui pronunziato, non per assegnare alla storia il tema del formarsi di una libertà che prima non era e un giorno sarà, ma per affermare la libertà come l’eterna formatrice della storia, soggetto stesso di ogni storia. Come tale, essa è, per un verso, il principio esplicativo del corso storico e, per l’altro, l’ideale morale dell’umanità. 484 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Benedetto Croce: pagine antologiche

Niente di più frequente che udire ai giorni nostri l’annunzio giubilante o l’ammissione rassegnata o la lamentazione disperata che la libertà abbia ormai disertato il mondo, che il suo ideale sia tramontato sull’orizzonte della storia, con un tramonto senza promessa di aurora. Coloro che così parlano scrivono e stampano, meritano il perdono motivato con le parole di Gesù: perché non sanno quel che dicono. Se lo sapessero, se riflettessero, si accorgerebbero che asserire morta la libertà vale lo stesso che asserire morta la vita, spezzata la sua intima molla. E, per ciò che s’attiene all’ideale, proverebbero grande imbarazzo all’invito di enunciare l’ideale che si è sostituito, o potrebbe mai sostituirsi, a quello della libertà; e anche qui si avvedrebbero che non ve n’ha alcun altro che lo pareggi, nessun altro che faccia battere il cuore dell’uomo nella sua qualità di uomo, nessun altro che meglio risponda alla legge stessa della vita, che è storia e le deve perciò corrispondere un ideale nel quale la libertà sia accettata e rispettata e messa in condizione di produrre opere sempre più alte. Certo, nell’opporre alle legioni dei diversamente pensanti o diversamente favellanti queste proposizioni apodittiche si è ben consapevoli che esse sono proprio di quelle che possono far sorridere e muovere a scherni verso il filosofo, il quale par che caschi sul mondo come un uomo dell’altro mondo, ignaro di ciò che la realtà è, cieco e sordo alle sue dure fattezze e alla sua voce e ai suoi gridi. Anche senza soffermarsi sugli avvenimenti e sulle condizioni contemporanee onde in molti paesi gli ordini liberali, che furono il grande acquisto del secolo decimonono e sembrarono acquisto in perpetuo, sono crollati e in molti altri s’allarga il desiderio di questo crollo, la storia tutta mostra, con brevi intervalli d’inquieta, malsicura e disordinata libertà con rari lampeggiamenti di una felicità piuttosto intravista che mai posseduta, un accavallarsi di oppressioni, d’invasioni barbariche, di depredazioni, di tirannie profane ed ecclesiastiche, di guerre tra i popoli e nei popoli, di persecuzioni, esilî e di patiboli. E, con questa vista innanzi agli occhi, il detto che la storia è storia della libertà suona come un’ironia o, asserito sul serio, come una balordaggine. Senonché la filosofia non sta al mondo per lasciarsi sopraffare dalla realtà quale si configura nelle immaginazioni percosse e smarrite, ma per interpretarla, sgombrando le immaginazioni. Così, indagando e interpretando, essa, la quale ben sa come l’uomo che rende schiavo 485 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

l’altro uomo sveglia nell’altro la coscienza di sé e lo avviva alla libertà, vede serenamente succedere a periodi di maggiore altri di minore libertà, perché quanto più stabilito e indisputato è un ordinamento liberale, tanto più decade ad abitudine, e, scemando nell’abitudine la vigile coscienza di se stesso e la prontezza della difesa, si dà luogo ad un vichiano ricorso di ciò che si credeva che non sarebbe mai riapparso al mondo, e che a sua volta aprirà un nuovo corso. Vede, per esempio, le democrazie e le repubbliche, come quelle della Grecia nel IV secolo o di Roma nel I, in cui la libertà rimaneva nelle forme istituzionali ma non più nell’anima e nel costume, perdere anche quelle forme come colui che non ha saputo aiutarsi e che invano si è cercato di raddrizzare con buoni consigli viene abbandonato all’aspra correzione che la vita farà di lui. Vede l’Italia, esausta e disfatta, dai barbari deposta nella tomba con la sua pomposa veste d’imperatrice, risorgere, come dice il poeta, agile marinaia nelle sue repubbliche del Tirreno e dell’Adriatico. […] (La filosofia vede) Questa, e tante altre cose simili a queste, e ne conclude che se la storia non è punto un idillio, non è neppure una “tragedia di orrori”, ma è un dramma in cui tutte le azioni, tutti i personaggi, tutti i componenti del coro sono, nel senso aristotelico, “mediocri”, colpevoli-incolpevoli, misti di bene e di male, e tuttavia il pensiero direttivo è in essa sempre il bene, a cui il male finisce per servire da stimolo, l’opera è della libertà che sempre si sforza di ristabilire, e sempre ristabilisce, le condizioni sociali e politiche di una più intensa libertà. Chi desideri in breve persuadersi che la libertà non può vivere diversamente da come è vissuta e vivrà sempre nella storia, di vita pericolosa e combattente, pensi per un istante a un mondo di libertà senza contrasti, senza minacce e senza oppressioni di nessuna sorta; e subito se ne ritrarrà inorridito come dall’immagine, peggio che della morte, della noia infinita. Ciò posto, che cosa sono le angosce per la perduta libertà, le invocazioni, le deserte speranze, le parole di amore e di furore che escono dal petto degli uomini in certi momenti e in certe età della storia? È stato già detto di sopra in un caso analogo: non verità filosofiche né verità storiche, ma neppure errori o sogni: sono moti della coscienza morale, storia che si fa. (B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1943, pp. 35-37, 46-50) 486 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Giovanni Gentile

Dentro all’umanità empirica ogni uomo possiede un’umanità profonda, che è alla base di tutto il suo essere, e d’ogni essere che egli possa distinguere da sé. Quella umanità per cui egli ha coscienza di sé, e pensa e parla e vuole; e pensando pensa se stesso e il resto; e a grado a grado si forma un mondo, che sempre più arricchisce di particolari e sempre più si sforza di concepire come un tutto armonico, come un organismo di parti che si richiamano reciprocamente, legate da un’interna unità. […]Questa umanità profonda è quella che alla prima non scorgiamo né negli altri, né in noi: ma è pur quella per cui è pur possibile che uno cerchi l’altro, e gli rivolga la parola, e gli porga la mano. È pur quella che quando una verità ci illumini la mente, e un sentimento s’impadronisca di noi e ci commuova e c’ispiri, la nostra lingua è, al dire del poeta italiano, come per se stessa mossa; e non sappiamo non parlare e l’anima nostra si espande, e dice, e canta; e ancorché nessuno di fatto ci ascolti, si può dire che una folla invisibile sia intorno a noi ad ascoltare: viventi, morti, non nati, una folla anonima di giudici che non hanno volto, ma pensano e sentono come noi, e sono propriamente in noi, anzi, propriamente, sono noi stessi; e ci ascoltano, perché siamo noi che parlando ci ascoltiamo. Gentile 487 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Giovanni Gentile: vita e opere Giovanni Gentile nasce a Castelvetrano (Trapani) il 30 maggio 1875. Ottenuta la maturità presso il Liceo Ximenes a Trapani, nel 1895 vince il concorso per la Scuola Normale Superiore di Pisa, iscrivendosi così alla facoltà di Lettere e Filosofia. Durante gli studi universitari conosce Benedetto Croce, al quale sarebbe rimasto legato a lungo; con lui, infatti, avrebbe fondato nel 1903 la rivista La critica. Laureatosi nel 1897, segue un corso di perfezionamento a Firenze, a seguito del quale diventa professore di Filosofia prima presso il Liceo Mario Pagano a Campobasso, poi presso il Liceo Vittorio Emanuele di Napoli. L’insegnamento nelle scuole superiori gli avrebbe schiuso le porte per una brillante carriera universitaria: dal 1906 al 1914 ottiene infatti la cattedra di Storia della filosofia presso l’Università di Palermo, per poi insegnare Filosofia teoretica all’Università di Pisa ed infine diventare Professore ordinario di Storia della filosofia e di Filosofia teoretica presso l’Università di Roma. Nel 1920 fonda il Giornale critico della filosofia italiana. Nel 1922, all’instaurarsi del regime fascista, viene nominato ministro della pubblica istruzione; durante il suo mandato (durato due anni a seguito dei quali decise volontariamente di dimettersi) si iscrive al partito fascista e nel 1925 pubblica il Manifesto degli intellettuali fascisti, scritto che avrebbe comportato la rottura definitiva con Benedetto Croce. Nel corso del ventennio fascista ricoprì numerose cariche culturali e politiche: fu infatti chiamato a presiedere la Commissione dei Quindici per la riforma della Costituzione italiana; fu direttore scientifico nonché vicepresidente dell’Enciclopedia italiana dell’Istituto Treccani; nel 1930 viene nominato vicepresidente dell’Università Bocconi; due anni dopo diventa direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa. L’adesione al regime fascista gli costarono la vita: fu infatti ucciso davanti a casa a Firenze il 15 aprile 1944 da par488 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Giovanni Gentile

te di un gruppo partigiano fiorentino appartenente ai GAP (Gruppi di Azione Patriottica). Tra i suoi numerosi scritti, ricordiamo: La riforma della dialettica hegeliana (1913; 1923); La teoria generale dello spirito come atto puro (1916); Sistema di logica come teoria del conoscere (1917-1922). I primi passi verso l’idealismo assoluto Con il pensiero di Giovanni Gentile, la filosofia idealistica (o idealismo), inaugurata da Kant e formulata estesamente da Hegel, raggiunge la sua espressione più radicale. Gentile presenta la sua filosofia come “filosofia attualistica” (o “attualismo”, o “spiritualismo assoluto”), sviluppatosi parallelamente alla “filosofia dello spirito” di Benedetto Croce. Alleato di Croce nella “lotta contro le tendenze positivistiche, naturalistiche e razionalistiche del pensiero e della cultura”, la filosofia di Gentile, rispetto al pensiero crociano, presenta distinzioni e “divergenze” di “principi” e di “conseguenze”. Inizialmente, Gentile si interessa a studi di critica letteraria, in cui esprime contenuti teorici che ritorneranno, in tutta la loro forza espressiva, nel periodo più strettamente filosofico. Per Gentile – e risentiamo in sottofondo la teoria estetica di Croce –, l’opera d’arte è “un tutto unico in sé”, è un tutto unico di “forma bella” (espressione) e contenuto. L’opera d’arte è un tutto unico, è un “uno”, nel quale non è il contenuto a venir prima della forma o viceversa, “ma contenuto e forma insieme nello spirito; non essendovi contenuto senza forma, né forma senza contenuto, come non c’è nessuna forma e nessun contenuto senza lo spirito, che insieme li produce ambedue in una unità perfetta”. L’opera d’arte è unità perfetta di contenuto e forma prodotta dallo spirito. Lo spirito è perfetta produzione di unità: l’atto, l’attività, la funzione dello spirito è produzione di unità perfetta, perché lo spirito stesso è unità perfetta. Fin 489 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

qui Gentile non la pensa molto diversamente da Croce; la concordanza viene meno sulla relazione tra arte e filosofia. Croce, coerente con la “teoria dei distinti”, esclude ogni identificazione e relazione tra le autonome sfere categoriali dell’arte e della filosofia, mentre Gentile, intento a difendere l’“unità dello spirito”, afferma che “non c’è filosofia senza arte; ma non c’è neppure arte senza filosofia. La quale filosofia che è nell’arte, se acquista, come è sua natura, coscienza di sé e si concentra in sé medesima, supera la forma artistica, non distruggendola, anzi potenziandola per adeguarla a sé, cioè per conquistare in se stessa la coerenza di cui ha cominciato a sentire il bisogno”. Agli studi letterari-estetici seguirono approfonditi studi storici, nei quali, al pari di Croce, Gentile rifiuta ogni accostamento della storia al concetto di scienza, e, di conseguenza, nega ogni scientificità al lavoro storiografico. In questo periodo Gentile si dedica allo studio di Marx, e si interessa al concetto marxiano di “prassi”, interpretato sotto un’ottica hegeliana. Nella “prassi” marxiana egli riscontra una notevole somiglianza con un asserto fondamentale dell’idealismo, che afferma l’intimo nesso di fare e conoscere (di attività e pensiero), ossia afferma una “mente” non più semplice e passiva contemplatrice, ma produttrice del mondo storico, della realtà, della vita. La realtà non è un “dato”, non è un già fatto, bensì è un “prodotto”, è una conseguenza di un processo produttivo, di una produzione incessante nella quale soggetto e oggetto, uomo e materia, mente e natura sono “l’uno all’altro inscindibilmente legati, per modo che la loro realtà effettiva risulti dal loro rapporto nell’organismo”. Ciò che produce questa unità organica e inscindibile di soggetto e oggetto è la “conoscenza” umana (il pensiero, lo spirito, la coscienza, la mente), che è appunto “una produzione continua, un fare incessante, una prassi originaria”: la realtà “è una produzione soggettiva dell’uomo”. In questo come nei successivi studi del Gentile, nonostante le tematiche tra loro differenti, traspare un’esigen490 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Giovanni Gentile

za di pervenire sempre al fondo delle questioni, all’origine, alla base, al fondamento primo e quindi unico. Traspare, cioè, un interesse costante ed esplicito a ciò che è “causa e ragione della indefinita realtà, che ci circonda”. Per Gentile, facendo sua la lezione hegeliana, “il pensiero e l’essere sono identici, e la realtà è la realtà del pensiero”: la causa e la ragione della indefinita realtà (l’“essere”, il mondo) che ci circonda è il pensiero, la mente, lo spirito, l’idea. La radice di ogni realtà è la mente, la “realtà è mentalità, cioè il sapere che ha in sé trasfigurato tutto il reale”. Lo spirito umano si attua e si manifesta creando ciò che ha in sé. Il pensiero umano crea ogni realtà, perché ogni realtà non è altro che il suo “in sé”, perché la mente umana è la vera soggettività creatrice di ogni reale concreto. Il valore attivo e creativo della mente umana, è affermato a gran voce nelle appassionate parole che l’alunno Gentile scrisse al suo maestro Donato Jaia: “E fu una gran festa nel mio spirito quel giorno, che Ella ci parlò di certa mente non mia, né tua, né di Tizio, né di Caio, né di alcun individuo particolare, ma pur mente di tutti, e però mia, tua, di Tizio, di Caio e di ogni individuo, e ci fece vedere o cominciare a vedere che potenza meravigliosa, che forza onnipotente, che energia divina fosse insita in cotesta mente”. È questa potenza meravigliosa, questa forza onnipotente, questa energia divina della mente umana, della “mente di tutti” gli uomini, che sarà descritta e teorizzata nell’idealismo assoluto di Gentile. L’immanenza assoluta Il “metodo” proposto dall’idealismo attualistico di Gentile “si potrebbe definire ‘metodo della immanenza assoluta’”. L’“immanenza” è l’opposto della “trascendenza” – dove per “immanente” si intende ciò che fa parte della sostanza di una cosa e che non sussiste fuori di essa; per “trascen491 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

dente” ciò che supera e sta oltre una determinata sostanza. Trasferiamo questi termini e queste nozioni al “pensiero” umano riferito alla realtà. Se affermiamo che la realtà trascende il pensiero umano, affermiamo che la realtà è qualcosa che supera e sta oltre il pensiero umano, è da esso indipendente, esiste cioè indipendentemente dalla mente che la pensa. Poniamo d’essere col nostro cane su un colle montuoso ad osservare un tramonto estivo. Se affermo che il tramonto (la realtà) mi trascende (cioè che sta oltre il mio “io”), significa che, anche senza di me, quel tramonto esisterebbe esattamente e nello stesso modo di come io lo sto attualmente osservando (percependo, pensando). Il tramonto è indipendente da me, dalla mia attuale presenza mentale: la natura, il mondo, la realtà è ciò che trascende il mio pensiero. Essa è oggettiva, estranea al soggetto, la realtà è così come è indifferentemente da come e da quando il pensiero di volta in volta, di atto in atto, la pensa. Questo non è altro che l’atteggiamento filosofico del “realismo”, per il quale il pensiero umano, in definitiva, è niente, perché ha tutta la realtà al di fuori di sé, perché tutta la realtà trascende, in modo assoluto e incontrovertibile, il pensiero umano. Al realismo filosofico si oppose la filosofia kantiana, la quale afferma, moderatamente, che anche il pensiero è qualche cosa, che, anzi, è solo grazie al pensiero che l’uomo riesce a scorgere i “fenomeni” della realtà. Quest’ultima è da Kant considerata come realtà assolutamente inconoscibile al pensiero umano, come “cosa in sé” impenetrabile. Pensiero umano che è in grado di costruirsi i propri (soggettivi) “fenomeni” intellettuali, le proprie rappresentazioni ideali, i propri tramonti mentali, non riuscendo mai, però, a conoscere la realtà come essa è realmente in sé stessa (come “cosa in sé”). La realtà, quindi, resta ancora qualcosa di isolato e indipendente dal pensiero umano (dall’idea umana). In Kant, infatti, la realtà è ancora ciò che trascende il pensiero umano, il quale si limita ad unificare il mol492 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Giovanni Gentile

teplice empirico derivante dalla misteriosa e inconoscibile realtà/cosa in sé. Con l’avvento di Hegel anche il limite della “cosa in sé” kantiana, e quindi della trascendenza e inconoscibilità della realtà in riferimento al pensiero, viene a cadere. Il pensiero, da Hegel, viene visto come unico protagonista dell’intera realtà, come ciò che non ha niente oltre di sé, fuori di sé e sopra di sé. Con Hegel, dunque, per la prima volta nella filosofia, viene affermata in modo categorico l’immanenza del pensiero umano. Oltre alla “realtà” del realismo filosofico, è il Dio della religione ciò che, nella filosofia teologica, si pone come “trascendenza” irraggiungibile, come ciò che, in nessun modo, rientra all’interno del dominio e dell’attività del pensiero umano. Dio è l’estraneo per eccellenza, la trascendenza assoluta, ciò che si presenta come il più distante, distinto, slegato e separato dallo spirito umano. A tal proposito, è bene precisare che Gentile, seppur ben convinto dell’immanenza assoluta del pensiero, non intende presentare il suo pensiero come un pensiero ateo, che non tenga conto di Dio e di ciò che rappresenta per l’uomo. Così facendo sancirebbe definitivamente l’alterità trascendente dell’essere divino rispetto a quello umano. Chiuderebbe in modo irresolubile ogni contatto tra l’uomo e il divino, assegnando ad entrambi un posto particolare e ben distinto l’uno dall’altro: il mondo del pensiero e il mondo del divino. Se Gentile affermasse questo dualismo e questa duplicità di mondi, vedrebbe crollare all’istante la sua teoria dell’immanenza assoluta della mente. Gentile, da filosofo acuto, non incappa in questo palese errore. In lui è forte il sentimento di risolvere il problema della trascendenza divina, per pervenire ad una religione immanente, ad una religione dove Dio, in un rapporto profondo e indissolubile, è intimamente legato all’uomo, dove lo spirito umano sarà spirito divino e lo spirito divino sarà spirito umano. Soltanto una religione così intesa, potrà essere 493 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

“assorbita nella filosofia” – filosofia che per Gentile detiene la “sovranità assoluta” su tutte le altre forme dello spirito. Del cattolicesimo, visto come “la religione più perfetta” rispetto alle altre forme religiose, Gentile intende scovare gli elementi erroneamente considerati come trascendenti, “ma non per annullarlo, bensì per inverarlo e veramente conservarlo”1 all’interno del suo sistema dell’immanenza assoluta. Così Gentile: “Non c’è una religione della filosofia se non come religione essa stessa assorbita nella filosofia, ossia filosofia che, superando la religione, ne conservi, com’è necessario, l’essenziale ed eterno”. La riforma della dialettica hegeliana Nella concezione filosofica di Gentile, il pensiero umano è ciò in cui si esaurisce tutta la realtà. Tutta la realtà è contenuta e prodotta dall’idea umana. Tutta la realtà è immanente alla mente dell’uomo: l’immanenza è assoluta. Ne segue che tutta la vita si svolge e si esaurisce all’interno del pensiero. Per fare e per essere ciò, il pensiero deve poter non lasciare mai nulla fuori di sé, mai nulla che si possa porre come non-pensiero. Mai nulla che si possa porre come “oggetto” (antagonista) isolato e impenetrabile da quel “soggetto” (protagonista) che è il pensiero. Se è il pensiero ciò che contiene e produce ogni realtà, questo pensiero non può avere a che fare con nessun “oggetto” (non-pensiero), non può avere antagonisti, non può che essere il solo protagonista, il soggetto unico, non può che essere “soggettività assoluta”, immanenza onnipotente e onnicomprensiva. Già con Hegel, come visto, la filosofia si trova a che fare con il concetto dell’immanenza del pensiero: nulla esiste al di fuori di quella “sostanza” che è il pensiero, il pensiero è

1

  A. Lo Schiavo, Introduzione a Gentile, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 56.

494 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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tutto e tutto non è se non pensiero, il pensiero è la “totalità” e la Realtà assoluta (Dio). È esattamente da questa concezione dell’immanenza del pensiero che parte la speculazione di Gentile, che apporterà una notevole riforma rispetto ai risultati hegeliani. In special modo sotto osservazione critica è posta la “dialettica”. Gentile riferendosi all’antico idealismo del grande filosofo greco Platone, denuncia il fatto che la cosiddetta “dialettica” platonica, denominata “dialettica del pensato”, considera le “Idee” come oggetti che sono altro dal pensiero, che trascendono la mente umana. Dire che le Idee trascendono il pensiero, implica necessariamente che l’attività del pensiero (il pensare) sia condizionato da un che a lui “esterno”. Significa, cioè, che il pensiero, per attuarsi, deve riferirsi a qualcosa che non possiede in sé e che deve dunque prendere o trovare al di fuori di sé, in questo caso nel mondo metafisico delle Idee platoniche. La dialettica hegeliana invece, in quanto “dialettica del pensare”, per Gentile ha il merito di affermare che non si può pensare prescindendo dall’atto del pensare, o meglio, dall’attività stessa del pensiero che pensa. Ciò che definisce il pensiero è la sua attività, è il suo processo, il suo svolgimento e nient’altro, così come ciò che condiziona il pensiero non è altro se non ciò che egli stesso è. E il pensiero non è che libertà assoluta. Con l’apporto della dialettica hegeliana, ossia con la nuova dialettica del pensare, la storia del pensiero diventa finalmente “il processo del reale, e il processo del reale non è più concepibile se non come la storia del pensiero. L’uomo antico si sentiva malinconicamente diviso dalla realtà, da Dio: l’uomo moderno sente in sé Dio, e celebra nella potenza dello spirito la vera divinità del mondo”. Eppure lo stesso Hegel mantiene alcuni residui della dialettica del pensato di Platone. Infatti, quando Hegel afferma il ruolo fondamentale della tripartizione dialettica di logica e filosofia della natura e filosofia dello spirito, in sostanza non fa che contraddire quanto andava affermando a riguardo della pura e incondizionata attività pensante 495 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

del pensiero. Il fatto che l’idea (il pensiero, lo spirito) possa pervenire alla sua assolutezza e realizzazione – e quindi farsi idea “in sé e per sé”, Spirito assoluto appunto – soltanto dopo esser passata attraverso il momento della logica (idea in sé) e quello della natura (idea fuori di sé), fa sì che venga messa in questione la purezza e l’essere incondizionato dell’idea. Seppure siano momenti ideali, il momento della logica e della natura, nel sistema hegeliano, fungono come ciò che è anteriore all’idea assoluta, e come ciò che annulla la libertà creativa del movimento dell’idea costretta com’è a passare per quei due momenti che sono fissi, statici e immutabili. Lo stesso Croce notò questa contraddizione hegeliana, e da essa mosse per fondare la teorizzazione della sua dialettica dello Spirito, nella quale era lo stesso Spirito assoluto, visto come pensiero e azione, a muoversi liberamente (non condizionato da nulla) attraverso i suoi “distinti”, ossia attraverso i quattro gradi (o categorie) dell’arte, della filosofia, dell’economia e dell’etica. Ma, come detto, le divergenze tra Croce e Gentile non mancano, e sono proprio queste quattro categorie ciò che Gentile mette sotto accusa. Per Gentile, infatti, la categoria è una sola, ed è quella dello spirito: esso è unico e solo, è libertà creatrice e sempre imprevedibile, è “atto puro”, è ciò che non ha bisogno che di se stesso per realizzarsi, è “autoconcetto”, e in esso tutta la realtà si risolve. Non vi è assoluto se non in quell’Uno che è lo spirito. Non vi può essere un pensiero non condizionato da null’altro che da se stesso se non nell’Uno. Non vi può essere immanenza assoluta e incontrastata se non nell’Uno. Questo Uno che è il pensiero è il Tutto, è l’Io veramente primo, è Soggetto assoluto, è “unità fondamentale”. È sintesi originaria di tutti gli “opposti” che caratterizzano la realtà, come soggetto e oggetto, assoluto e relativo, arte (scienza del soggetto) e religione (coscienza dell’oggetto), verità e errore, bene e male, ecc. Questi termini opposti sono sì “logicamente distinguibili”, ma in fondo sono 496 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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“solo logicamente distinguibili”, perché in realtà appartengono e sono prodotti da quella sintesi originaria e impossibile da trascendere che è lo spirito assoluto (il Tutto). Di fronte all’Io primo e assoluto che è lo spirito, nessun non-Io può esistere o porsi come tale, nessun antagonista può trascendere e superare l’unità fondamentale e fondante del pensiero assoluto. Nello spirito, nessun termine è realmente separato dall’altro, in esso la compresenza e la simultaneità dei termini è assoluta. Nello spirito nessuna opposizione di momenti è possibile, l’“idea” non è contrapposta (come diceva Hegel) alla “natura”, la categoria dell’arte (come credeva Croce) non è distinta da quella della religione, bensì queste determinazioni “si realizzano tutte insieme nell’unità immanente dello spirito”, ossia si realizzano in quel “Tutto, di cui ognuno di noi sente nel ritmo della propria coscienza il palpito universale”. Critica della metafisica tradizionale e dell’empirismo filosofico Con Gentile, il pensiero diviene la categoria unica, sia essa logica o metafisica. Il pensiero diventa ciò che non ha nulla fuori di sé, così che il processo del pensiero viene a coincidere, anzi, è il processo stesso del reale, di tutta la realtà, nulla escluso. Ciò che nella realtà v’è di realmente concreto è solo il pensiero, da intendere come pensiero umano, appartenente a tutta l’umanità, e non come un pensiero trascendente o appartenente ad una entità divina. Ciò che vi è di concreto nella realtà è soltanto l’“attualità del pensiero”, cioè l’“attività pensante” del pensiero: “La realtà non è pensabile se non in relazione coll’attività pensante per cui è pensabile; e in relazione con la quale non è soltanto oggetto possibile, ma oggetto reale, attuale di coscienza”. La realtà non esiste se non come pensata, così che pensare che la realtà sia esterna al pensiero è contraddittorio. 497 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

Quello che Gentile tenta di ricucire, è il rapporto tra “essere” (realtà) e “pensiero” (idea), ovvero il “principio dell’identità di essere e pensiero”. Ebbene, l’“essere” non è soltanto un “possibile”, non è soltanto ciò che il pensiero può pensare, ma è l’“oggetto attuale” del pensiero, è ciò che l’attività pensante del pensiero pensa e che senza questa attività in nessun caso potrebbe essere e quindi esistere. Essendo l’“idealità del reale” il principio fondamentale dell’idealismo attualistico di Gentile, ne viene che il pensiero umano pensa tutto il pensabile, che nulla possa esistere che non sia mai stato pensato, che nulla della realtà sfugge al pensiero. Il pensiero umano non conosce limiti di tempo e di spazio, non conosce finitezze, parzialità, chiusure e impossibilità di alcun genere. Le tradizionali concezioni metafisiche ed empiriche vengono subitamente a cadere di fronte a tali affermazioni, perché esse affermano una realtà – oltremondana per la metafisica, e naturale per l’empirismo –, pre-supposta al pensiero, una realtà, cioè, che esiste prima del pensiero e indipendentemente dal pensiero e, di conseguenza, che trascende il pensiero. Per Gentile non è la natura o una realtà sopramondana che rappresenta la “condizione fondamentale d’ogni pensabilità”, come se l’uomo, per attuare il proprio pensiero (per pensare), fosse costretto a riferirsi a un che di esterno che lo mette in condizione di poter pensare quello o quell’altro “pensabile”. Andiamo con ordine. Secondo la metafisica tradizionale esiste sì un “Pensiero assoluto ed eterno” – che è quanto affermato dallo stesso Gentile –, ma questo è un pensiero che trascende le singole menti. Questa teoria metafisica, affermando una verità o una realtà pre-supposta al puro pensare, ossia una realtà che è altra dalla realtà del pensiero umano, non fa che porre una “trascendenza” che in nessun modo può essere penetrata e contenuta dallo spirito umano. Eppure questo muro impenetrabile, questo “Pensiero”, questa verità- realtà metafisica, è pur sempre 498 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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qualcosa che è pensato dal pensiero umano. Com’è possibile pensare che qualcosa sia esterno al pensiero umano quando è proprio questo stesso pensiero a pensarlo? Come è possibile che qualcosa non possa essere contenuto dal pensiero se è questo stesso pensiero che, pensandolo, non può non contenerlo in sé? Affermare che qualcosa esiste al di fuori del pensiero umano, pur essendo pensato da quel pensiero stesso (che lo pensa appunto come esistente fuori di esso), è contraddittorio e quindi assurdo. La concezione empirica (o “naturalismo”), cade nella medesima contraddizione quando afferma l’esistenza della natura materiale come esterna al pensiero umano. Anche stavolta abbiamo qualcosa che limita il pensiero, riducendolo a essere una parte che ha al di fuori di sé qualcosa d’altro, in questo caso la natura. E nel medesimo modo della “trascendenza” della metafisica tradizionale, anche la teoria empiristica si scontra contro il fatto che pensare che una gran parte della realtà (la natura) sfugga al pensiero umano, resta pur sempre un pensiero di quel pensiero umano, che pensando effettivamente tale realtà, nega in modo esplicito ogni asserto affermante che la realtà materiale sfugge al pensiero umano. Cadendo entrambe in questa contraddizione, l’interpretazione metafisica e quella empirista riguardante la realtà risultano prive d’ogni valore teorico e importanza filosofica. L’Io Trascendentale A questo punto arriviamo al nocciolo della questione e alla svolta decisiva, che permette a Gentile di superare definitivamente le contraddizioni e gli errori della filosofia tradizionale. Il fatto che la metafisica e l’empirismo affermino l’esistenza di una realtà esterna al pensiero umano, dipende, per Gentile, dal fatto che esse, quando parlano del pensiero umano, lo riferiscono al pensiero dell’“io fini499 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

to” e determinato, al pensiero del soggetto empirico. Così che si potrà pervenire all’affermazione, quale intende essere quella di Gentile, che nega ogni realtà esterna al pensiero umano, soltanto dopo che si sarà chiarito quanto il “pensiero umano”, creatore di ogni realtà, non sia riferibile all’io finito e empirico, ma ad un soggetto tutt’altro che determinato, a un “io” infinito, metafisico, e intrascendibile: l’Io trascendentale. Il soggetto del pensiero attuale è assoluto ed eterno. Non è l’io empirico ma l’Io trascendentale, che è ciò che non può essere trasceso da nulla, essendo esso a trascendere, a superare ogni contenuto parziale e finito. Il pensante (il soggetto) del pensiero attuale non è un “pensante particolare”, non è Lindo o Mimmo o Mara o chicchessia, non è “uno tra molti”, bensì è il soggetto universale, è l’Io trascendentale che pensa quel “pensiero che pensa per tutti”: è l’“Io assoluto, l’Uno come Io”. “Del pensiero trascendentale non si può chiedere quale sia la sua origine, perché tale origine sarebbe daccapo qualcosa di esterno a esso. Non si può dare una ‘spiegazione’ del pensiero trascendentale, perché esso è la fonte di ogni spiegazione e la condizione di ogni esperienza. Il pensiero trascendentale non può diventare un oggetto del pensiero, perché è il soggetto di ogni oggetto, ‘spettatore’ di ogni spettacolo. L’Io trascendentale – che, si badi, è la nostra stessa soggettività, è noi stessi – non è mai ‘atto compiuto’, cioè finito, ma ‘atto in atto’; e appunto perché non è atto compiuto, finito, oggettivato, ma atto in atto, attualità, esso è intrascendibile. Ogni tentativo di definire, cioè determinare, ridurre a contenuto finito il pensiero trascendentale è destinato a fallire, perché ‘la sua attività pensante non è quella che definiamo, ma lo stesso pensiero che definisce’”2.

2   E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo, vol. III (la filosofia contemporanea), BUR, Milano 2007, p. 213.

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Giovanni Gentile

Il pensiero trascendentale è “di là dal tempo, [è] eterno”, è eternità che comporta la scomparsa o l’annullamento di ogni molteplicità, di ogni divisione e isolamento. Questo Uno universale, trascendentale ed eterno, viene visto da Gentile come l’artefice del mondo, come Soggetto assoluto, come Dio creatore e insuperabile. È dal soggetto trascendentale, dall’Io assoluto, che scaturisce tutta la realtà, realtà che è dunque totalmente risolta “nell’attività creatrice dello spirito: dello spirito che non è un oggetto particolare, ma l’universale stesso nella sua reale concretezza”. È in Giambattista Vico (1668-1774), “grande filosofo napoletano”, che Gentile scorge una certa affinità di quanto andava affermando. Anche Vico sente forte l’esigenza di affermare l’“unità di divino e umano”, così come avverte che, al contrario di quanto Kant affermava a riguardo della “mente umana” – mente umana da Kant considerata, lo ribadiamo, come “creatrice di un mondo astratto, avente perciò esclusivamente valore pel soggetto che lo costruisce, mentre ha fuori di sé la realtà, opera di Dio” -, lo spirito umano va considerato come il “creatore di un mondo saldo, in sé perfetto, qual è il mondo delle nazioni, la civiltà, la storia”. Anche per Vico, insomma, la realtà è pensiero, è opera dell’Io trascendentale, del soggetto universale che non è “astratta universalità” ma “concreta universalità”, “soggetto che si pone per sé, e si attua raccogliendosi nella coscienza di sé”, mente assoluta che manifesta e costituisce la sua natura “attraverso il processo storico”, attraverso la vita concreta, attraverso la storia dell’umanità. Da Vico, anticipando Hegel, la “mente” è vista come Provvidenza immanente, ossia come una Provvidenza che regge e opera dentro (all’interno di) questo mondo, e che illumina, architetta e guida l’azione dell’uomo, così che la storia non consiste in altro che nel libero sviluppo di questa mente universale e divina. Da tutto ciò Gentile conclude che la mente dell’uomo, di tutti gli uomini, “non è semplice conoscere ma continua unificazione e costituzione del reale”: l’unità e l’identità di 501 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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essere e conoscere, di realtà e pensiero, di materia (natura, contenuto) e coscienza (idea, forma) è sancita definitivamente. Questa unità e identità è tale specificatamente “nella processualità eterna dello spirito creatore”3, nell’atto, nell’attività, nella funzione infinita del pensiero, e dunque nell’attualità incessante del pensare, nel pensiero che pensa, nel pensiero pensante che è sempre “atto in atto”. Il pensiero è divenire Per l’“idealismo attuale” di Gentile, “la sola realtà solida, che mi sia dato affermare, e con la quale deve perciò legarsi ogni realtà che io possa pensare, è quella stessa che pensa”. La sola realtà è il pensiero, ogni realtà è legata al pensiero, essendo la realtà nient’altro che pensiero “che pensa”, pensiero in atto, “pensiero pensante”, pensiero vivente, attualità dello spirito. L’“Io pensante”, il soggetto trascendentale, pensando, cioè in quell’atto che è il pensare, “realizza la realtà”, che è quindi “la realtà dello stesso Io”, la realizzazione di quella realtà che è l’Io trascendentale, “realtà fuori della quale non è dato da pensare nulla di indipendente e per sé stante”. Non avendo nulla fuori di sé, il pensiero attuale (l’Io pensante, la Mente), è il creatore della realtà, di ogni realtà, di ogni vita, di ogni storia, di ogni fede, di ogni filosofia. Il pensiero attuale è allora divenire, incremento incessante, libera e imprevedibile produzione, sviluppo inarrestabile, infinito movimento creatore del “concreto” e del “reale”. Che il pensiero sia divenire è l’“evidenza originaria”, è la certezza fondamentale sulla quale Gentile poggia tutto il sistema del suo idealismo assoluto: “Mirate con fermo occhio a questa vera e concreta realtà che è il pensiero in atto; e la dialetticità [cioè il divenire] del

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  A. Lo Schiavo, Introduzione a Gentile, cit., p. 68.

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reale vi apparirà evidente e certa come certo e evidente è a ciascuno di noi l’aver coscienza di ciò che pensa”. Riferendosi al pensiero, è per Gentile evidente, così come ad ogni altro essere umano (a patto che ci rifletta su), quanto esso non sia che uno sviluppo, un processo, un’attività, un pensare sempre attuale, sempre nuovo, sempre diverso, un pensiero diveniente appunto. Io so, perfettamente e indubitabilmente, che l’attività del mio pensiero consiste sempre in un continuo crear pensieri, dove ciò che era, nell’atto stesso del pensare, non è più, e dove ciò che è non più sarà nel mio nuovo atto pensante. Il pensiero è divenire, processo continuo che muove dall’essere al non essere e dal non essere all’essere, e così all’infinito, e “allora nulla di più evidente di quell’essere che non è, e di quel non essere che è, in cui la categoria del divenire consiste”. Allo sviluppo del pensiero, all’attività del pensiero, all’attuarsi inarrestabile del pensiero coincide lo sviluppo e l’incremento inarrestabile della realtà. Se così non fosse si dovrebbe affermare l’esistenza di una realtà altra dal pensiero, ossia una realtà esterna (trascendente) all’uomo che “conterrebbe già tutto in se stessa e quindi non potrebbe ricevere alcun incremento dallo sviluppo del pensiero, e dunque tale sviluppo sarebbe una mera apparenza e, in definitiva, qualcosa d’inconcepibile”4. L’affermazione dell’esistenza di una realtà esterna al pensiero, è la negazione più rigorosa di ogni divenire, è ciò che immobilizza definitivamente ogni sviluppo, è ciò che rende apparente e impensabile il divenire. L’affermazione dell’esistenza di una realtà esterna al pensiero, rappresenta l’“immutabile” più grande che la filosofia epistemica e metafisica ha posto per smentire qualunque tipo di produzione progressiva e incremento incessante riferito appunto alla realtà. L’idealismo, da Hegel a Gentile, ha superato e distrut-

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  E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo, cit., p. 213.

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to tale immutabile epistemico-filosofico, affermando che il divenire non appartiene alla realtà ma al pensiero, all’Io trascendentale. Il divenire, dunque, non deve essere inteso come ciò che interessa qualcosa di esterno all’uomo, e quindi come qualcosa di esterno al pensiero umano, ma deve essere concepito come il processo stesso del pensiero, perché “solo come pensiero il divenire è libertà, novità, imprevedibilità, creazione incessante”5. Siamo figli di un unico Spirito Se il protagonista assoluto è il soggetto trascendentale (l’Io, la Mente), e se questo protagonista assoluto, creatore d’ogni realtà e d’ogni conoscenza, è divenire (sviluppo incessante), resta da capire in che modo e a quali condizioni esso svolga la sua funzione incessante ed eterna. Ebbene, per Gentile la storia umana e del mondo è “prodotto della libertà dello spirito; il quale ha la sua logica universale, divina, provvidenziale, consistente nella legge dello stesso sviluppo spirituale”. Ogni storia è storia dello spirito (Io, Mente), ogni cosa del mondo è figlia della mente, ogni essere come ogni ente è figlio dello spirito universale, divino e provvidenziale. Nello svolgimento dello spirito tutta l’“esperienza” appartiene alla sua “interiorità”, alla sua verità, la quale “non è pur la verità dell’uomo, ma la verità di ogni cosa”. Ogni cosa rivela lo spirito, rivela il suo creatore trascendentale, ogni cosa è pensiero, ogni cosa conosciuta esiste in noi ed è parte di noi, perché “tutto è per noi, come tutto è da noi”. Tutto è per il nostro pensiero, tutto è da noi conosciuto, nulla sfugge al nostro pensiero, perché è il pensiero stesso che crea tutte le cose, che crea tutto ciò che conosciamo, tutto ciò che pensiamo.

5

  Ibidem, p. 214.

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Giovanni Gentile

Il pensiero creatore di ogni cosa e di ogni conoscenza, il soggetto onnipotente e divino, si badi, non è l’uomo singolo e particolare, non è cioè il mio o il tuo o quello di un altro uomo. Bensì, tale soggetto onnipotente, tale Io creatore “non ha plurale”, “è uno per tutti”, “ha valore assoluto ed è atto assoluto”, è “soggetto universale”, è soggetto unico che nega ogni essere particolare (me, te, e ogni altro uomo), ogni singolarità, ogni distinzione, così come nega ogni relatività, parzialità e finitezza. Questo unico soggetto pensante, è il “pensiero pensante”, l’attualità universale della Mente trascendentale, sicché tutti i molteplici soggetti pensanti, tutti gli uomini come ogni altra singola cosa, appartengono in realtà al “processo autocreativo dell’Io”, essendo creati da quell’Io universale e assoluto, da quell’“atto permanente” che è lo spirito. Lo spirito (il pensiero, la mente) non è semplicemente uno “specchio del reale” – la qual cosa comporterebbe il suo essere “cosa” che rappresenta una realtà già fatta e già data, o il suo essere “fatto” riguardante una certa e determinata realtà indipendente dallo spirito –, “ma principio vivo e attuoso, da cui tutto il reale, che è suo, dipende”. Il mondo e l’uomo, allora, rappresentano l’auto-porsi (“autoctisi” dice Gentile) dello spirito, ossia, nell’uomo e nel mondo si attua la vita e lo svolgimento eterno dello spirito trascendentale, dell’“Io reale”, del pensiero pensante. Ciò risulterà più chiaro facendo riferimento ai cosiddetti “corpi” materiali, che nella nostra esperienza tutto ci fanno pensare tranne che essi appartengano al regno del pensiero, ma a “chi ci rifletta un po’ su”, non potrà non affermare che “l’esperienza dei corpi non è se non un modo dell’esperienza del pensiero. Certi oggetti del pensiero sono corpi, certi altri sono idee, certi altri numeri; ma tutti gli oggetti del pensiero sono nel pensiero, sono pensieri”. Tutto è nel pensiero, tutto è atto spirituale, ogni cosa (oggetti, corpi, idee, esseri) si smaterializza per farsi spirito, per farsi cioè processo infinito, divenire, atto spirituale. Io che non sono Marco, e Va505 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

lerio che é differente da Dario, tutti noi uomini (come ogni altra cosa della realtà) insomma, altro non siamo che “differenze interne” di quell’unico soggetto universale e assoluto che è lo spirito, il quale è “un solo distinto, infinitamente differente da se stesso, e costantemente uno”. L’Immortalità dello spirito e l’eterna mortalità d’ogni cosa Ogni uomo e ogni cosa è distinta dall’altra perché ciò coincide con il processo stesso di quell’uno universale che è lo spirito. Processo dello spirito universale, questo, che consiste in un eterno distinguersi da se stesso pur essendo dall’eternità e per l’eternità unico, indivisibile e non moltiplicabile: “se noi vogliamo concepire davvero la molteplicità degli individui, dobbiamo attraverso di essa scorgere l’individuo unico”, l’Io trascendentale appunto. L’Io assoluto, “che è uno e in sé unifica ogni io particolare ed empirico, unifica, non distrugge”, ossia l’Io assoluto non è ciò che nega la molteplicità delle determinazioni dell’esperienza (uomini, cose, ecc.), molteplicità che, ovviamente, non è l’unità intrascendibile (“totalità unica”) dell’Io trascendentale. Ma l’Io trascendentale non nega e distrugge tale molteplicità, proprio perché la sua unità “è infinita unificazione del molteplice, com’è infinita moltiplicazione dell’uno”, “la quale unità bensì si realizza attraverso un processo, ossia attraverso differenze ma queste non sono tali da moltiplicare l’unità fondamentale, essendo differenze interne all’unità stessa, che in esse si instaura, e integra, e attua: in guisa che nessuna delle differenze sue sia dato fissare se non per astrazione dalla vita concreta del tutto unico” (che è l’Io trascendentale). La dottrina di Gentile, quindi, afferma che “il solo mondo concretamente reale e possibile è quello del soggetto unico fondante [lo spirito] che tutto assorbe e risolve in sé”: “la nostra dottrina dunque è la teoria dello spirito come atto 506 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Giovanni Gentile

che pone il suo oggetto in una molteplicità di oggetti, e insieme risolve la loro molteplicità e oggettività nell’unità dello stesso soggetto”. Tutti noi, come tutte le cose della realtà, siamo assorbiti e risolti in quel soggetto universale che è lo spirito, perché la “natura”(la realtà empirica) “non è intellegibile se non come vita dello spirito, che si moltiplica bensì, ma restando uno”. Io e te, che siamo elementi particolari ed empirici, in realtà siamo il farsi concreto dell’universale, elementi dell’attività unificatrice dello spirito, del suo infinito autocrearsi quale Uno. Uno trascendentale che, non potendo avere nulla fuori o sopra od oltre di sé, ed essendo unità e immanenza perfetta e insuperabile, è al di là del tempo e dello spazio. Anzi, il tempo e lo spazio li ha in sé, e mai il contrario, così come “non si ha più la storia fuori dell’eterno, né l’eterno fuori della storia” (risoluzione della storia temporale nella storia eterna dello spirito). La storia, per Gentile, è unicamente pensabile come “storia ideale eterna”, come storia dello spirito e dell’eternità dello spirito, della sua immanente attività, della sua incessante produzione di eventi, uomini, cose, idee, azioni, pensieri, passioni. “La storia è, – secondo Gentile –, come ogni pensiero, coscienza di sé. E perciò ogni storia è stato detto essere storia contemporanea, poiché riflette attraverso la rappresentazione di eventi e passioni passate i problemi, gl’interessi e la mentalità dello storico e del suo tempo. I così detti avanzi e documenti del passato sono elementi della cultura e cioè della vita intellettuale presente; e si ravvivano per l’interesse che li fa cercare, criticare, interpretare; e parlano e si fanno valere mediante il lavoro storiografico, che è un pensiero attuale, che non si spiega se non acquistando sempre più acuta e cauta coscienza di sé. I morti sarebbero ben morti e verrebbero cancellati dal quadro della realtà, che è la divina realtà, se non ci fossero i vivi, che ne parlano rievocandoli nel loro cuore e risuscitandoli nel vivo aere del loro stesso spirito”. Appartenendo all’Io trascendentale, essendo radicati 507 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

nella Mente eterna, “cose e uomini che, in quanto molti, son cose”, sono sì soggette al divenire incessante e alla morte naturale, ma allo stesso tempo sono “al di sopra del divenire, del tempo e della morte, e del terrore che il divenire e la morte producono”6. Così Gentile: “Se noi empiricamente ci consideriamo nel tempo, ci naturalizziamo [ossia ci consegniamo alla natura, che è il regno del perituro], e ci chiudiamo entro certi limiti (la nascita e la morte) di là dai quali non possiamo non vedere annientata la nostra personalità. Ma questa personalità, per cui entriamo nel mondo del molteplice e degli individui naturali, è radicata in una personalità superiore, e soltanto in essa è reale”. Le nostre radici affondano in quella personalità superiore che è lo spirito (pensiero trascendentale), il quale è fuori d’ogni “prima” e “dopo”, pur non essendo fuori del tempo, essendo il tempo ciò che egli stesso porta in sé e crea nella sua attualità infinita. Siamo figli perituri dello spirito immortale, siamo creazioni mortali di quell’Uno eterno e intramontabile che sta oltre questo mondo empirico e caduco; perché allora dovremmo temere la nostra morte, il nostro tramonto, se quel sole divino che è il pensiero pensante (lo spirito trascendentale) continuerà per sempre a splendere e a manifestare la sua eterna energia? “L’energia che sostiene la vita – conclude Gentile – è appunto la consapevolezza del divino e dell’eterno, per cui la morte e lo svanire di ogni cosa caduca si guarda sempre dall’alto della vita immortale”.

6

  Ibidem, p. 214.

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PAGINE ANTOLOGICHE

Origine della filosofia attualistica La filosofia attualistica storicamente si riconnette alla filosofia tedesca da Kant ad Hegel, direttamente e attraverso i seguaci, espositori e critici che i pensatori tedeschi di quel periodo ebbero in Italia durante il secolo scorso. Ma si riconnette anche alla filosofia italiana della Rinascenza (Telesio, Bruno, Campanella), al grande filosofo napoletano Giambattista Vico, e ai rinnovatori del pensiero speculativo italiano dell’età del Risorgimento nazionale: Galluppi, Rosmini e Gioberti. I primi scritti in cui comincia a delinearsi la filosofia attualistica risalgono agli ultimi anni del secolo XIX. Essa si è venuta sviluppando nei primi decenni di questo secolo parallelamente alla “filosofia dello spirito” di Benedetto Croce. La mia assidua collaborazione alla rivista che nel 1903 fu fondata dal Croce, La Critica, e che per molti anni condusse in Italia vittoriosamente una tenace lotta contro le tendenze positivistiche, naturalistiche e razionalistiche del pensiero e della cultura, e il fatto che la “filosofia dello spirito” maturò all’incirca un decennio prima, attirando fin da principio sopra di sé l’universale attenzione, fecero apparire generalmente le due filosofie molto più affini, che esse fin da principio non fossero. Ma le divergenze vennero naturalmente sempre più in luce a mano a mano che i principii delle due filosofie spiegarono le loro conseguenze. Il principio della filosofia attualistica La filosofia attualistica è così denominata dal metodo che propu509 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

gna: che si potrebbe definire “metodo della immanenza assoluta”, profondamente diversa dalla immanenza, di cui si parla in altre filosofie, antiche e moderne, e anche contemporanee. Alle quali tutte manca il concetto della soggettività irriducibile della realtà, a cui si fa immanente il principio o misura della realtà stessa. Immanentista Aristotele rispetto all’idealismo astratto di Platone, la cui idea nella filosofia aristotelica diviene forma della stessa natura: forma inscindibilmente connessa con la materia, nella sintesi del concreto individuo: dal quale l’idea, suo principio e misura, non si può separare se non per astrazione. Ma l’individuo naturale per la filosofia attualistica è esso stesso qualche cosa di trascendente: perché in concreto non è concepibile fuori di quel rapporto, in cui esso, oggetto di esperienza, è indissolubilmente congiunto col soggetto di questa, nell’atto del pensiero mediante il quale l’esperienza si realizza. Tutto il realismo fino al criticismo kantiano, rimane sul terreno di questa trascendenza. Vi rimane ogni filosofia la quale, anche se riduca tutto all’esperienza, questa intenda come qualche cosa di oggettivo, e non come l’atto dell’Io pensante in quanto pensa, realizzando la realtà dello stesso Io: una realtà fuori della quale non è dato pensare nulla di indipendente e per sé stante. Questo è il punto fermo, a cui si attacca l’idealismo attuale. La sola realtà solida, che mi sia dato affermare, e con la quale deve perciò legarsi ogni realtà che io possa pensare, è quella stessa che pensa; la quale si realizza ed è così una realtà, soltanto nell’atto che si pensa. Quindi l’immanenza di tutto il pensabile all’atto del pensare; o, tout court, all’atto; poiché di attuale, per quel che s’è detto, non c’è se non il pensare in atto; e tutto quello che si può pensare come diverso da questo atto, si attua in concreto in quanto è immanente all’atto stesso. L’atto come logo concreto L’atto pertanto di cui si parla in questa filosofia non è confondibile con l’atto (energheia) di Aristotele e della filosofia scolastica. L’atto aristotelico è anch’esso pensiero puro, ma un pensiero trascendente, presupposto dal nostro pensiero. L’atto della filosofia attualistica coincide 510 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Giovanni Gentile: pagine antologiche

appunto col nostro pensiero; e per questa filosofia, l’atto aristotelico, nella sua trascendenza, è semplicemente una astrazione, e non un atto: è logo, ma logo astratto, la cui concretezza si ha solamente nel logo concreto, che è il pensiero che attualmente si pensa. Non solo l’atto aristotelico, ma l’idea platonica, e in generale ogni realtà metafisica od empirica, che realisticamente si presupponga al pensiero, è, secondo l’attualismo, logo astratto, che ha un senso soltanto nell’attualità del logo concreto. Anche se in questo si rappresenta ed ha ragione di rappresentarsi come indipendente dal soggetto, per sé stante, cosa in sé, estranea al pensiero e condizione del pensiero, si tratta sempre di logo astratto le cui determinazioni sono sempre un prodotto dell’attività originaria dell’Io, che nel pensiero si attua come concreto logo. Ogni realismo perciò ha ragione; ma purché non pretenda di esaurire tutte le condizioni del pensare. Alle quali infatti resterà sempre da aggiungere, affinché sia superata la trascendenza e raggiunta la terra ferma dell’effettiva realtà, quella che sarà la condizione fondamentale d’ogni pensabilità, l’attività pensante. Infinità dell’Io Ma l’attività pensante, per reggere l’infinito carico e la responsabilità infinita di ogni realtà pensabile, che è pensabile solo in quanto è immanente al mondo spirituale che tale attività realizza, non va più concepita materialisticamente come attuantesi nel tempo e nello spazio. Tutto è in me, in quanto Io ho in me il tempo e lo spazio come ordini di tutto ciò che si rappresenta nell’esperienza. Lungi dunque dall’essere contenuto nello spazio e nel tempo, io contengo lo spazio e il tempo. E lungi dall’essere compreso io stesso, come volgarmente si pensa appoggiandosi a una fallace immaginazione, nella natura che è il sistema di tutto ciò che è ordinato nello spazio e nel tempo, io comprendo la natura dentro di me. E dentro di me cessa questa di essere quella natura spaziale e temporale, che è meccanismo, e si spiritualizza e si attua anch’essa nella concreta vita del pensiero.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

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Libertà dell’Io Per questa sua infinità, a cui tutto è immanente, l’Io è libero. Ed essendo libero, può volere e conoscere e scegliere sempre tra gli opposti contradittorii in cui si polarizza il mondo dello spirito, che ha valore perché si contrappone al suo opposto. Libertà non compete alla natura nella sua astrattezza; ma non compete a nessuna forma del logo astratto: né anche alla verità logica, né alla verità di fatto, né alla legge, che si rappresenta al volere con la necessità coattiva di una forza naturale: a nulla insomma che, contrapponendosi nel pensiero al soggetto che pensa il suo oggetto, lo definisce e chiude in certi termini, e fissa, e priva di quella vita che è propria dell’attuale realtà spirituale. Non è libero l’uomo in quanto si considera e raffigura come una parte della natura, un essere che occupa un certo spazio per un certo tempo, che è nato e morrà, ed è limitato in ogni senso, e nella stessa società è circondato da elementi che non sono in suo potere e agiscono sopra di lui. Ma per quanto egli si muova in quest’ordine di idee, e metta in rilievo i propri limiti, e menomi ed impoverisca le proprie possibilità ed entri in sospetto che la propria libertà non sia altro che una illusione e che egli nulla veramente possa né per dominare il mondo e neppure per conoscerlo, egli, al sommo della disperazione, non potrà non ritrovare e riaffermare nel fondo di se stesso la disconosciuta libertà, senza la quale non gli sarebbe possibile pensare quel tanto che pensa. Hoc unum scio, me nihil scire. Ma, per quanto limitato, questo sapere importa alla capacità di conoscere la verità; la quale non sarebbe tale se non si distinguesse dal falso, e non si concepisse e appercepisse in questa sua distinzione, che è opposizione. Il che non sarebbe possibile senza libertà, e cioè infinità di chi concepisce e appercepisce, giudicando quel che è vero, e questo giudizio pronunciando con autorità suprema, contro la quale non è ammissibile appello. Autorità che non potrebbe competere evidentemente a chi fosse chiuso entro determinati limiti. L’attualità dell’Io […] Il pensiero attuale è tutto; e fuori del pensiero attuale lo stesso 512 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Giovanni Gentile: pagine antologiche

Io è un’astrazione, da relegarsi nel grande armamentario delle escogitazioni metafisiche: entità puramente razionali e insussistenti. L’Io non è anima-sotanza; non è una cosa, la più nobile delle cose. Esso è tutto perché non è nulla. Sempre che sia qualche cosa, è uno spirito determinato: una personalità che si attua in un suo mondo: una poesia, un’azione, una parola, un sistema di pensiero. Ma questo mondo è reale, in quanto la poesia si sta componendo, l’azione si compie, la parola si pronunzia, il pensiero si svolge e si fa sistema. La poesia non c’era, e non ci sarà; c’è sempre in quanto si compone, o, leggendosi, si torna a comporre. Lasciata lì, cade nel nulla. La sua realtà è un presente che non tramonta mai nel passato, e non teme futuro. È eterna, di quella immanenza assoluta dell’atto spirituale, in cui non ci sono momenti successivi del tempo che non siano compresenti e simultanei. Il metodo dell’attualismo: la dialettica Tutto ciò vuol dire che l’attualità eterna (senza passato e senza futuro) dello spirito non è concepibile mediante la logica dell’identità propria della vecchia metafisica della sostanza, bensì soltanto con la dialettica. Con la dialettica, beninteso, quale può concepirla la filosofia moderna: concetto non dell’essere oggetto del pensiero ma del pensiero nella sua stessa soggettività: a rigore, non concetto, ma autoconcetto. Se il pensiero come atto è il principio dell’attualismo, il suo metodo è la dialettica. Non dialettica platonica, e neppure hegeliana: ma una dialettica nuova e più propriamente dialettica, che è una riforma della dialettica hegeliana. La quale già si contrapponeva alla platonica perché questa era una dialettica statica delle idee pensate (o, comunque, oggetto del pensiero) ed Hegel nella sua Scienza della logica considerò la dialettica invece come il movimento delle idee pensanti, o categorie con cui il pensiero pensa il suo oggetto. Dialettica del pensato, dunque, e dialettica del pensare: quella dialettica del pensare il cui problema si cominciò a porre con Fichte, ma Hegel per primo affrontò con piena coscienza della necessità di una nuova logica da contrapporre all’analitica aristotelica, ossia alla logica del platonismo come di tutta l’antica filosofia. Hegel si propose il problema, ma non lo risolse, per513 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

ché, a cominciare dalle prime categorie (essere, non essere, divenire) si lasciò sfuggire l’assoluta soggettività del pensare, e trattò la sua logica come movimento delle idee che si pensano e perciò si devono definire. Movimento assurdo, perché le idee si pensano e cioè si definiscono in quanto si chiudono nel circolo dei loro termini, e stanno ferme. Che è la ragione per cui le idee platoniche sono bensì collegate tutte tra loro, e obbligano perciò il pensiero soggettivo che voglia pensarne una, a pensare anche tutte le altre, e a muoversi perciò dall’una all’altra senza posa, ma esse stanno ferme, come lo stadio su cui corrono i ginnasti. Stanno ferme, ma sono logo astratto, che bisogna ricondurre al reale, attuale pensiero. Che è in quanto non è, e non sta mai fermo, e si muove sempre; e definisce sì, e si specchia nell’oggetto definito, ma per tornare a definire altrimenti, sempre più adeguatamente al bisogno incessante nella cui soddisfazione è il suo realizzarsi. Il pensiero è dialettico per questo suo divenire, che è, non pensata unità di essere e non essere, concetto in cui s’immedesimi il concetto dell’essere e il concetto opposto del non-essere, ma è realizzata unità dell’essere stesso del pensiero col suo reale non-essere. Noi possiamo bensì definire il concetto di questa unità; ma la nostra definizione non è un’immagine, o un duplicato logico di una realtà trascendente rispetto all’atto logico: è tutt’uno e una cosa sola con questo atto. Carattere religioso della concezione dialettica Nella dialetticità del pensiero è la risposta ai mille dubbi scettici e alle mille angosciose domande, che sorgono dall’esperienza e dai contrasti della vita: contrasti tra l’uomo e la natura, la vita e la morte, l’ideale e la realtà, il piacere e il dolore, la scienza e il mistero, il bene e il male ecc. Tutti gli antichi problemi che sono stati il tormento della coscienza religiosa come della vita morale di tutti gli uomini, le ansie della teodicea come la croce della filosofia. La concezione attualistica è una concezione spiritualistica e profondamente religiosa, quantunque la sua religiosità non possa appagare chi è abituato a concepire il divino come un astratto trascendente, o a confondere l’atto del pensiero col semplice fatto dell’esperienza. Ora una coerente concezione religiosa del mondo 514 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Giovanni Gentile: pagine antologiche

dev’essere ottimistica, senza negare il dolore e il male e l’errore; dev’essere idealistica senza sopprimere la realtà con tutti i suoi difetti; dev’essere spiritualistica senza chiudere gli occhi sulla natura e sulle ferree leggi del suo meccanismo. Ma tutte le filosofie e tutte le religioni, malgrado ogni sforzo idealistico e spiritualistico, son destinate a fallire, o per abbandonarsi a un dualismo assurdo o per rinchiudersi in un astratto e perciò insoddisfacente e quindi esso stesso assurdo monismo, se si fermano alla logica dell’identità, per cui gli opposti si escludono, e dove è l’essere non è il non-essere, e viceversa. Con la logica della identità le antinomie della vita morale e della coscienza religiosa, del mondo e dell’uomo, sono insolubili. E non c’è fede nella libertà umana, nell’umana ragione, nella potenza dell’ideale o nella grazia di Dio che possa salvare l’uomo, e insomma sorreggerlo nella sua vita, tutta pervasa, come questa è, dal pensiero, che è indagine e dubbio, e perpetua interrogazione a cui la vita è risposta. Siamo o non siamo immortali? C’è una verità per noi? E veramente c’è posto nel mondo per la virtù? E c’è un Dio che governa il tutto? E vale questa vita la pena che ci costa il viverla? Queste domande tornano sempre a sorgere e a risorgere dal fondo del cuore umano e perciò gli uomini pensano e han bisogno della filosofia, che li conforti a vivere con una qualche risposta. Ognuno che viva, se ne procura una come può. Ma una risposta logica, salda, ragionevole non è possibile se il pensiero non si ritrae dagli oggetti che a volta a volta egli pensa e salda in ferrea catena come il sistema del suo mondo e non si volge su se stesso, dove ogni realtà ha la sua radice e donde trae perciò la sua vita: dove l’essere non è già, ma viene ad essere, non essendo a principio, immediatamente: dove sapere è apprendere, e ogni volta, anche se si sappia già, apprender da capo; dove il bene non è quello che è stato fatto, e già esiste, ma quello che non s’è fatto, e perciò si fa; dove la gioia non è quella che s’è goduta, ma quella che sboccia dal suo contrario, e non s’arresta cadendo nella monotonia della noia, che stagna e genera la morte, ma si rinnova e riconquista con nuova brama e nuova fatica e perciò attraverso nuovi dolori; dove insomma lo spirito arde eterno, e nella combustione fiammeggia e sfavilla distruggendo ogni pesante scoria inerte e morta. Lì, dire essere è dire non essere: lì, sapere è ignoranza, bene è male, gioia è dolore, conquista è fatica, pace è guerra, e lo spirito è natura che si fa spirito. 515 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Attualismo e Cristianesimo Infine, è questa filosofia così radicalmente immanentistica una filosofia atea? È l’accusa più insistente a cui essa oggi è fatta segno dai pensatori cattolici e tradizionalisti, che non riescono a rendersi conto della distinzione che è nell’unità dell’atto spirituale. E sono essi i veri atei, in sede di filosofia. Perché se realmente fosse da concepire quell’assurda separazione tra l’essere divino e l’umano, ogni rapporto tra i due termini diventerebbe affatto impossibile. E io penso fermamente che quest’atteggiamento dei pensatori sia ateo perché anticristiano. Sono infatti convinto che il cristianesimo col suo domma centrale dell’Uomo-Dio abbia questo significato speculativo: che a fondamento della distinzione necessaria tra Dio e l’uomo si debba porre un’unità, la quale non può essere se non l’unità dello spirito; che sarà spirito umano in quanto spirito divino, e sarà spirito divino in quanto pure spirito umano. Chi trema e s’adombra ad accogliere nell’animo questa coscienza dell’infinita responsabilità onde l’uomo s’aggrava riconoscendo e sentendo Dio in se stesso, non è cristiano, e, – se il cristianesimo non è se non una rivelazione, cioè una più aperta coscienza che l’uomo acquista della propria natura spirituale, – non è neppure uomo. Voglio dire uomo consapevole della sua umanità. E come potrà egli sentirsi libero, e capace perciò di riconoscere e adempiere un dovere, e di apprendere una verità, e di entrare insomma nel regno dello spirito, se egli nel profondo del suo proprio essere non sente raccogliersi e pulsare la storia, l’universo, l’infinito, tutto? Potrebbe egli colle limitate forze, che in qualsiasi momento della sua esistenza egli si trova di fatto a possedere, affrontare, come egli pur fa e deve fare, il problema della vita e della morte, che gli si presenta terribile con la possanza ineluttabile delle leggi di natura? Eppure, se egli deve vivere una vita spirituale, bisogna che trionfi di questa legge, e nel mondo dell’arte come in quello della moralità, con l’azione e col pensiero, partecipi alla vita delle cose immortali, che sono divine ed eterne. E vi partecipi da sé, liberamente; poiché non c’è esterno aiuto che possa soccorrere alla spontanea capacità dello spirito, che non sia un aiuto voluto e apprezzato e perciò liberamente cercato e fatto valere. E niente insomma ci viene dall’esterno che giovi alla salute dell’anima, al vigore dell’intelligenza, alla poten516 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Giovanni Gentile: pagine antologiche

za del volere. E perciò l’attualista non nega Dio, ma insieme coi mistici e con gli spiriti più religiosi che sono stati al mondo, ripete: Est Deus in nobis. (G. Gentile, Introduzione alla filosofia, Sansoni, Firenze 1958, pp. 18-33. I sottotitoli riportati sono dello stesso Gentile) La verità eterna è l’atto puro del pensare Non c’è ricerca filosofica o scientifica, né c’è pensiero di nessuna sorta senza la fede del pensiero in se stesso, o nel proprio valore, senza il convincimento spontaneo e incrollabile di pensare la verità. […] Il fatto del pensare, e però della filosofia, quale che sia la soluzione a cui s’indirizzi, presuppone questa affermazione della verità del pensiero nel pensare quello che pensa attualmente. Il pensiero, di cui si afferma la verità per la considerazione precedente, il solo pensiero di cui si possa affermare la verità, poiché in fatti è il solo pensiero che realmente sia pensiero, non è il pensiero astratto, ma il pensiero concreto. E la difficoltà che nasconde ordinariamente alla coscienza del filosofo l’ovvia verità enunciata di sopra consiste nel cercare il pensiero nel pensiero astratto invece che nel pensiero concreto: quando, per esempio, diciamo pensiero il pensiero altrui o il pensiero nostro già pensato; ossia, in ambo i casi, non propriamente il pensiero reale, ma il solo oggetto del pensiero, nella sua astratta oggettività. Ho detto astratta oggettività; e intendo che l’oggettività attribuita in tal caso al pensiero come oggetto del nostro pensiero, non è, a sua volta, la concreta oggettività che di fatto gli si conferisce affermandolo, cioè pensandolo, ma una interpretazione inadeguata di essa per opera d’astrazione. Un pensiero altrui, pur volendolo pensare come altrui, non possiamo pensarlo se non pensandolo come pensiero, intendendolo, ossia scorgendone e riconoscendone il valore: e, in altri termini magari provvisoriamente, consentendovi e facendolo nostro. Un pensiero nostro, ma già pensato, non si ripensa se non in quanto si rivive nel pensiero attuale; e cioè solo e in quanto esso non è il pensiero d’una volta, distinto dal pensiero presente, ma lo stesso pensiero attuale, almeno provvisoriamente. Sicché pensare un pensiero (o porre il pensiero oggettivamente) è realizzarlo; ossia negarlo nella sua astratta 517 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

oggettività per affermarlo in un’oggettività concreta, che non è di là dal soggetto, poiché è in virtù dell’atto di questo. Questo bensì è un primo momento del pensare il pensiero altrui, o nostro e non più nostro (passato). Se questo momento non fosse mai superato, il pensiero altrui sarebbe soltanto nostro (per noi), e il pensiero passato sarebbe soltanto presente. Non conosceremmo se non il pensiero nostro attuale. Al primo momento ne tien dietro un altro; […] questo secondo momento, reso possibile dal primo, se annulla l’attualità del pensiero altrui, o nostro e non più nostro, l’annulla in un nuovo atto di pensiero; per cui l’oggettività nuova (la vera o effettiva oggettività) conferita a cotesto pensiero, che il nostro pensiero espelle da sé e considera pertanto come oggettivo, è realizzata in funzione del nuovo pensiero, nostro e attuale; ed è un membro organico dell’unità immanente di questo. Quello, adunque, che si dice pensiero d’altri, o nostro in passato, è in un primo momento il nostro pensiero attuale, e in un secondo momento una parte del nostro pensiero attuale: parte inscindibile dal tutto cui appartiene, e reale perciò nell’unità del tutto stesso. E però il solo pensiero concreto è il pensiero nostro attuale. E poiché il pensiero nostro non attuale non è più nostro, si può dire che il solo pensiero concreto è il pensiero assolutamente nostro (salvo a vedere a suo luogo il significato di questo Noi soggetto del nostro pensiero). E si può dire egualmente, che il solo pensiero concreto è il pensiero assolutamente attuale, poiché il pensiero non nostro non è attuale pensiero. […] Il passaggio dal primo al secondo momento è il passaggio dal pensiero alla natura. La natura, dunque, considerata nella sua concreta realtà, è il pensiero, che il pensiero comincia a pensare come altro da sé; ovvero il pensiero fissato nella sua astrattezza. […] Il pensiero assolutamente nostro, o assolutamente attuale, è vero appunto perché nostro o attuale. L’errore è del pensiero impensabile: è di ciò che altri pensa e noi non possiamo pensare, o che pensammo già noi, ma ora non riusciamo più a pensare. Quello che attualmente pensiamo, se lo pensiamo, lo pensiamo come verità. (Pensiamo bensì l’errore, come errore: ma pensando che è errore, e pensando così il vero). […] Se l’errore è il pensiero che non si può pensare, il vero è il pensie518 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Giovanni Gentile: pagine antologiche

ro che non si può non pensare: due necessità, che sono una sola necessità. […] Il pensiero intanto si pensa, in quanto si pensa necessariamente, che è come dire, in quanto pensiamo di non poter pensare altrimenti. […] E però solo accorgendomi di un errore, e però liberandomene, io conosco una verità, e cioè penso. In questo nodo vitale che lega all’errore (astratto) la verità (concreta), è la radice del pensiero, e la legge fondamentale della logica. La necessità espressa dalla vecchia logica nella legge d’identità è una necessità astratta, come astratto era il pensiero o la verità, a cui quella logica mirava, avvolgendosi in un labirinto di contraddizioni. Il principio d’identità (o di contraddizione) A=A enuncia una necessità relativa a quello che s’è detto pensiero astratto, cioè alla natura; che, per definizione, è la negazione del pensiero e non può ammettere perciò in sé legge logica di sorta. A=A è la legge dell’errore nella sua astrattezza. E però, checché si pensasse secondo tal legge, sarebbe per ciò stesso errore. Infatti non c’è pensiero che si risolva in A=A. La necessità logica è del reale o concreto processo del pensiero, il quale schematicamente potrebbe piuttosto formularsi: A= non-A. Infatti ogni atto di pensiero è negazione di un atto di pensiero: un presente in cui muore il passato; è quindi unità di questi due momenti. Togliete il presente e avrete il passato cieco (la natura astratta); togliete il passato, e avrete il presente vuoto (il pensiero astratto ossia un’altra natura). La verità non è dell’essere che è, ma dell’essere che si annulla ed annullandosi è realmente: proposizione impensabile, finché per pensiero si prende il pensiero astratto, dove l’essere, fissatosi, non può che essere; ma proposizione, viceversa, che non si può non pensare, quando per pensiero s’intende il pensiero concreto, il pensiero assolutamente attuale (onde la verità del concetto del divenire non si può cogliere se non rispetto a quel divenire vero che è il pensare, la dialettica). Il principio d’identità dev’essere sostituito non dunque da quello egualmente astratto del divenire, puro e semplice, ma dal principio della dialettica o del pensiero come attività che si pone negandosi. Principio, che non è poi l’abolizione di quello della identità, anzi il suo inveramento, poiché la dialettica non nega la verità della verità, ma la fissità della verità, e afferma quindi che la verità è sé stessa ma nel suo movimento. 519 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

La necessità dialettica del pensiero coincide con la libertà del pensiero; perché tutti i limiti sono generati dalla stessa dialettica del pensiero. Il limite del pensiero non può essere limite del pensiero se non comincia dall’essere il pensiero stesso; se, come limite, non è nella sfera stessa del pensiero. La natura – unico limite possibile del pensiero – solo astrattamente è natura, in concreto è esso il pensiero nella sua interna mediazione. Il pensiero assolutamente attuale è universale per la sua stessa necessità. […] Se il pensiero è nostro in quanto è universale, se gli altri o l’altro non sono se non in funzione di un’astrattezza, qual è il pensiero nella sua astratta oggettività, il pensiero non esce dalla nostra individualità: ma la nostra individualità, se è nostra perché intima a noi, o meglio perché intima, presente a se stessa, è universale, anzi l’universale concentrato e però fatto reale nell’Uno della coscienza. Il noi soggetto del nostro pensiero non è Io che ha di contro a sé il non-Io (altro) o altri Io (altri); e però non è l’Io empirico, quale apparisce alla osservazione psicologica: uno tra molti; ma l’Io assoluto, L’Uno come Io. […] Il vero idealismo non può essere dunque solipsista, perché ha superato la posizione del solipsismo (concetto del mondo chiuso dentro l’ipse particolare). Il pensiero nella sua attualità, o come Io universale, contiene, e però supera, non solo la spazialità della pura natura, ma anche la temporalità del puro accadere naturale. Il pensiero è, di là dal tempo, eterno. […] Per leggere un libro ci vorranno ore e ore; di cui la prima avrà fuori di sé la seconda, questa avrà fuori di sé la terza; e così via, e viceversa. Ma chi, giunto in fondo, non pensi il libro tutto insieme, tenendolo tutto presente, non intende, non pensa quel libro. E quel che è della totalità, esaurita la serie del tempo, è di ogni parte al punto corrispondente del tempo: dove che si consideri, il pensiero è quello che è, in quanto pensiero, tutto a un tratto, tutto compresente nell’istante unico. […] E però ogni atto di pensiero, in tutte le sue forme assolute, sistema filosofico, poema, intuizione lampeggiante e fugace, si realizza come qualcosa di eterno, il cui valore non è nato e non morrà. […] Nulla, insomma, trascende il pensiero. Il pensiero è assoluta immanenza. L’altera res fuori dal pensiero attuale non c’è, né attualmente né potenzialmente. (G. Gentile, L’atto del pensare come atto puro, in La riforma della dialettica hegeliana, Sansoni, Firenze 1975, pp. 183-193) 520 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Edmund Husserl

La crisi dell’esistenza europea ha solo due sbocchi: il tramonto dell’Europa, nell’estraneazione rispetto al senso razionale della propria vita, la caduta nell’ostilità allo spirito e nella barbarie, oppure la rinascita dell’Europa dallo spirito della filosofia, attraverso un eroismo della ragione capace di superare definitivamente il naturalismo. Il maggior pericolo dell’Europa è la stanchezza. Combattiamo contro questo pericolo estremo, in quanto “buoni europei”; in quella vigorosa disposizione d’animo che non teme nemmeno una lotta destinata a durare in eterno; allora dall’incendio distruttore dell’incredulità, dal fuoco soffocato della disperazione per la missione dell’Occidente, dalla cenere della grande stanchezza, rinascerà la fenice di una nuova interiorità di vita e di una nuova spiritualità, il primo annuncio di un grande e remoto futuro dell’umanità: perché soltanto lo spirito è immortale. Husserl

Edmund Husserl: vita e opere Edmund Husserl nasce a Prossnitz (oggi Prosteˇjov nella Repubblica Ceca) l’8 aprile 1859. Nel 1876, ottenuta la maturità, si iscrive all’Università di Lipsia per studiare matematica, fisica, astronomia e filo521 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

sofia; due anni dopo si trasferisce a Berlino per continuare gli studi di matematica. Nel 1883 si laurea e l’anno dopo va a Vienna dove conosce Franz Brentano, filosofo e psicologo austriaco: inizia a seguire le sue lezioni e ne rimane talmente colpito da decidere, per l’avvenire, di dedicare i suoi studi principalmente alla filosofia. Dopo aver pubblicato le Ricerche Logiche (1901), viene nominato Professore all’università di Gottinga, dove sarebbe rimasto fino al 1916 quando poi viene chiamato ad insegnare all’Università di Friburgo; è in questo periodo che pubblica una delle opere principali, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (1913). Nel 1928 fu dichiarato Professore emerito e nell’ottobre dello stesso anno gli successe il suo allievo Martin Heidegger; nell’anno seguente porta a compimento le Meditazioni cartesiane (1929, pubblicate postume) e Logica formale e trascendentale (1929). Negli anni a seguire Husserl, pur avendo abbandonato la cattedra universitaria, continuò a tenere lezioni fino a quando con la promulgazione delle leggi razziali nel 1933 si vide negare, in quanto ebreo, il diritto di insegnare. Muore a Friburgo il 26 aprile 1938. Tra le pubblicazioni postume di scritti inediti degna di rilievo è l’opera La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale La filosofia come scienza rigorosa Il pensiero di Edmund Husserl intende affermare la filosofia come scienza rigorosa, come sapere indubitabile, come verità incontrovertibile (epistéme). Per Husserl la filosofia, sin dalle sue origini, ha avanzato la pretesa di essere scienza rigorosa, ossia ha inteso porsi come “la scienza in grado di soddisfare le più elevate esigenze teoretiche e di rendere possibile, in prospettiva etico-religiosa, una vita regolata da pure norme razionali”. Nessuna filosofia antica, come 522 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Edmund Husserl

nessuna filosofia moderna, è stata capace di soddisfare tale pretesa, nonostante le rigorose riflessioni critiche affrontate, e le ricerche approfondite sul metodo speculativo adottato. Le ricerche e gli approfondimenti metodologici della filosofia moderna, hanno portato unicamente alla fondazione e alla “progressiva autonomia delle scienze rigorose della natura e dello spirito, nonché delle nuove discipline puramente matematiche”, tralasciando, di fatto, d’indagare e affermare il senso autentico dei problemi strettamente filosofici. Così che la filosofia – che nella sua intenzione storica si pone come “la più elevata e rigorosa di tutte le scienze”, e che rappresenta “l’aspirazione imperitura dell’umanità alla conoscenza pura ed assoluta”, e, unitamente a ciò, l’aspirazione al “puro e assoluto valutare e volere” – è stata ed è ancora incapace “di darsi la forma di vera scienza”. Husserl accusa, senza mezzi termini, tutte le filosofie apparse nella storia, di non avere definito concettualmente e “chiarito nel loro senso” i problemi, i metodi e le teorie che la filosofia deve fare suoi e soltanto suoi. Husserl non nega il valore teoretico e l’importanza storica delle filosofie in generale, nei confronti delle quali ingaggia dei serrati confronti teorici per meglio costruire e descrivere il suo originale pensiero, bensì afferma semplicemente che la filosofia “non è ancora una scienza, che essa come scienza non ha ancora avuto un inizio”. Anche le “scienze esatte”, ovvero le scienze naturali e la matematica, sono ancora imperfette e incomplete, in quanto hanno a che fare con un campo talmente vasto e infinito, che non permetterà mai di soddisfare l’impulso conoscitivo per un sapere stabile, definitivo e incontrovertibile. Oltre a ciò, le scienze esatte presentano “numerose lacune nel loro contenuto dottrinale già formato, rivelando qua e là residui di oscurità o imperfezioni nell’ordine sistematico delle dimostrazioni e delle teorie”. Alle scienze esatte va comunque riconosciuto il merito di possedere un contenuto (o sistema) dottrinale che, per quanto imperfetto e incompleto nei particolari, si presenta coerente e oggettivo. 523 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

Importante aspetto, quest’ultimo, che nel mondo filosofico, invece, manca del tutto. In filosofia ogni cosa è “messa in discussione, ogni presa di posizione è materia di convinzioni individuali, di interpretazioni di scuola, di ‘punti di vista’”. Simili condizioni rappresentano, in modo limpido, l’impossibilità di fondare la filosofia come scienza rigorosa, come sapere oggettivo (non individuale) e inconfutabile. Per pervenire a tale risultato, è fondamentale e indispensabile ricercare “i veri inizi”, le “formulazioni decisive dei problemi”, il “giusto metodo”, a cui si potrà pervenire dopo aver operato quella “critica della ragione che prima fra tutte rende possibile la scientificità filosofica”. La critica della ragione In merito alla critica della ragione, Husserl sente forte il bisogno di attuare una “critica radicale” nei confronti dei principi e dei metodi della “filosofia naturalistica”. Essa rappresenta, con le sue “assurde conseguenze” originate dal riferimento esclusivo al mondo empirico, la prima e più forte minaccia contro la fiducia nella possibilità di realizzare una filosofia scientifica, quale intende essere la “fenomenologia trascendentale” di Husserl (che approfondiremo più avanti). Se, come sostiene la filosofia naturalistica, le verità razionali, le proposizioni e le leggi logiche, fossero derivate dall’esperienza fisica, se fossero mere “reazioni” psichiche condizionate e causate dalla natura empirica, se avessero dunque una fondazione empirico-induttiva, esse non sarebbero altro che mere leggi empiriche che, come ogni legge empirica, presentano sempre un carattere di mera probabilità. Per Husserl, la verità logica (razionale) non ha nulla in comune con i fatti empirici: essa esiste indipendentemente dalla realtà fisica. La verità è eterna, è un’“idea”, e riguarda le “essenze” (ideali, generali, universali). “Le verità stesse, e specialmente le leggi, i fondamenti, i princìpi sono 524 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Edmund Husserl

ciò che sono, sia che noi li comprendiamo o no. Poiché la loro validità non deriva dalla nostra facoltà di comprenderli, ma noi li possiamo comprendere proprio in quanto sono validi, essi debbono essere considerati come condizioni obbiettive ideali della possibilità della conoscenza”. Con la filosofia naturalistica, è necessario porre sotto un rigido sguardo critico lo storicismo filosofico, in special modo quello di Dilthey, l’iniziatore del movimento storicistico. Lo storicismo, si presenta agli occhi di Husserl come ciò che nega in modo radicale la possibilità di fondare la filosofia come scienza rigorosa. Lo storicismo, infatti, sostiene che ogni verità umana (e di conseguenza ogni “scienza”), appartenendo all’incessante processo storico (che è uno sviluppo progressivo-evolutivo), risulta essere sempre relativa, controvertibile e dubitabile. Husserl, al quale interessano le “verità di ragione” (verità logico-ideali) e non le “verità di fatto” (verità storico-empiriche), non intende affatto convalidare le argomentazioni storicistiche di Dilthey, che afferma: “il formarsi della coscienza storica distrugge, in misura ancora più radicale dello sguardo complessivo sul conflitto dei sistemi, la credenza nella validità universale di ognuna di quelle filosofie che hanno cercato di esprimere in maniera costringente, mediante una connessione di concetti, la connessione del mondo” (ossia la verità incrollabile relativa alla totalità del mondo). Lo storicismo, preso in questa sua accezione radicale, conduce direttamente allo scetticismo assoluto, che nega, nel modo più deciso, l’esistenza di una verità capace di detenere una validità universale, o meglio, che nega l’esistenza di ogni verità incontrovertibile, qualunque essa sia (logica, naturale, morale, ecc.). Secondo Husserl, per superare l’impasse teorica rappresentata dalla deriva scettica intrapresa dallo storicismo filosofico, bisogna distinguere due diversi tipi di “validità”, tra loro opposti e autonomi. Da un lato, vi sarà ciò che “vale storicamente”, ossia vi saranno le “verità di fatto” (verità empiriche), soggettive e partico525 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

lari, oltre che sempre fluenti, divenienti e relative perché storiche; verità che ineriscono ad una determinata forma di conoscenza storico-culturale, e quindi ad una forma di conoscenza instabile, perché inserita nello sviluppo storico, nel divenire assoluto, nel cambiamento incessante. Le verità di fatto, avverte Husserl, possono essere descritte e argomentate senza problemi teorici dallo storicismo, visto il suo porsi come indagine filosofica delle varie manifestazioni spirituali apparse nella storia, ossia come indagine che non pretende pervenire ad un sapere indubitabile e definitivo. Dall’altro lato, invece, vi saranno le verità oggettive (verità razionali), che sono verità generali, assolute, universali, necessarie e incontrovertibili, e che ineriscono, in modo esclusivo, alla scienza propriamente detta. Verità logico-razionali (verità ideali), alle quali intende pervenire la “nuova scienza”, fondata in un modo finalmente rigoroso e perfetto, qual’è la fenomenologia husserliana. Affermata e compresa tale rigida distinzione, lo storicismo non può più contestare la validità oggettiva di una filosofia, come quella di Husserl, che intende fondarsi come scienza rigorosa. Questo perché “il matematico non si rivolgerà certo alla storia per ottenere insegnamenti sulla verità delle teorie matematiche; né gli verrà in mente di porre in relazione lo sviluppo storico dei concetti e dei giudizi matematici con la questione della verità. Come dovrebbe dunque lo storico avere da decidere in generale sulla validità dei sistemi filosofici dati e, soprattutto, sulla possibilità stessa di una scienza filosofica in sé valida? E cosa dovrebbe addurre per fare vacillare la credenza del filosofo nella sua idea? Chi rifiuta un sistema determinato e, ancor di più, chi rifiuta in generale la possibilità ideale di un sistema filosofico, deve addurre delle ragioni. I fatti storici concernenti lo sviluppo, compresi i fatti più generali che riguardano il tipo di sviluppo dei sistemi in genere, possono essere delle ragioni, delle buone ragioni. Ma da ragioni storiche possono essere tratte soltanto conseguenze storiche. Voler giustifi526 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Edmund Husserl

care o confutare idee tramite fatti è un’assurdità”. La critica contro il naturalismo e lo storicismo, nasce dalla convinzione, caratterizzante ogni opera di Husserl, “che i più elevati interessi della cultura umana richiedano la formazione di una filosofia rigorosamente scientifica; che, di conseguenza, se una svolta filosofica deve avere legittimità nel nostro tempo, è necessario che essa sia in ogni caso animata dall’intenzione di una rifondazione della filosofia nel senso di una scienza rigorosa”. Contro il naturalismo filosofico e la psicologia sperimentale Il naturalismo parte dal presupposto fondamentale della scienza positiva, che considera la “natura” come ciò che è “regolato da leggi naturali esatte”. Le scienze naturali (o scienze positive) si basano su tale “concezione dominante”, e su di essa “fondano un gran numero di conoscenze rigorose”. Concezione dominante e conoscenze rigorose, queste, riprese e approfondite dalla filosofia naturalistica, dal filosofo “naturalista”, che, al pari dello “specialista” delle scienze naturali, “tende a cogliere tutto come natura”, e “anzitutto [come] natura fisica”. La “rigida legalità”, la esatta costanza e prevedibilità che caratterizza i “fatti” fisici studiati dalla scienza naturale, riguarda e interessa, allo stesso modo, i cosiddetti fatti psichici, e quindi la coscienza dell’essere umano. Ne segue che la coscienza deve essere ed è considerata come ciò che è condizionata in tutto e per tutto dalla natura, come mera variabile dipendente dal mondo fisico. Il naturalismo filosofico – e in questo caso dobbiamo intendere il positivismo e il pragmatismo –, nella teoria come nella prassi, secondo Husserl, arriva a “naturalizzare” la ragione umana, a reificare lo spirito, a cosificare la coscienza, perché soffre di quel “pregiudizio” accecante che porta a donare “validità intrinseca” (verità obbiettiva) esclusivamente ai “fatti di esperienza”. Pre-giudizio, pre527 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

supposto principe, questo, della scienza naturale, che è appunto la scienza “che poggia sull’esperienza” e che non intende appoggiarsi su niente altro per fondare le sue teorie e le sue leggi. Le questioni fondamentali della filosofia – che dal lato teorico riguardano l’“essere” (la realtà, il Tutto) e da quello pratico riguardano i “valori” (etico-morali) –, non sfuggono a tale concezione delle scienze della natura, che intendono appellarsi esclusivamente all’esperienza del mondo fisico, capace di cogliere sempre e soltanto “cose”, “corpi” e “fatti” fisici (materiali). “Seguire il modello delle scienze naturali significa quasi inevitabilmente reificare la coscienza [che, per definizione, è il regno dell’immateriale, dell’esperienza ideale], col che cadiamo nell’assurdità da cui scaturisce continuamente la tendenza ad assurde formulazioni di problemi e a false direzioni di ricerca”. In special modo la “psicologia sperimentale (o “psicologia psicofisica”), rappresenta quella forma di filosofia naturalistica che, basandosi sui principi e i dettami delle scienze della natura, appare come la disciplina speculativa che è riuscita (apparentemente) ad assurgere al “rango di una scienza rigorosa”. “Essa sarebbe quella psicologia scientifica esatta così a lungo ricercata ed ora finalmente realizzata. La logica e la teoria della conoscenza, l’estetica, l’etica e la pedagogia avrebbero ottenuto grazie ad essa il loro fondamento scientifico ed anzi esse starebbero già per trasformarsi in discipline sperimentali. Inoltre la psicologia rigorosa costituirebbe evidentemente il fondamento di tutte le scienze dello spirito, nonché della metafisica”. La psicologia sperimentale rappresenta quel sapere capace di comprendere in modo rigoroso e “vincolante”, ogni cosa della realtà (naturale, spirituale, metafisica); essa, dunque, si presenta come l’“universale dottrina della realtà”. Al che Husserl obbietta: la psicologia sperimentale, come ogni psicologia finora sviluppatasi, mediante il suo approccio eminentemente naturalistico, non è in grado di fornire i “principi della logica pura”, che sono quei “principi puri” a cui 528 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Edmund Husserl

fanno riferimento le filosofie che intendono indagare e fondare le leggi (le regole, le istanze normative) indubitabili riguardanti l’essere umano, siano esse teoriche (assiologiche) o pratiche (etico-morali). Dire che una filosofia rigorosamente scientifica, in questo caso la fenomenologia di Husserl, deve avere a che fare soltanto con i princìpi “puri” della ragione, significa che essa deve avere a che fare con ciò che, in nessun modo, può essere ricavato da una realtà esistente al di fuori della ragione stessa. Appare così evidente quanto una disciplina che, come la psicologia sperimentale, si basa unicamente sull’esperienza empirica (realtà esterna), sia impossibilitata a fornire qualsiasi tipo di conoscenze “pure”, indispensabili per fondare una filosofia come scienza rigorosa. Unitamente a ciò, la psicologia sperimentale è accusata da Husserl di basarsi, come ogni scienza naturale, su un presupposto “ingenuo”. Per le scienze naturali, “la natura che intende ricercare c’è semplicemente”, è ciò che esiste indipendentemente dall’uomo e dal suo pensiero. Il mondo naturale è già dato, è ovvia “datità”, è obiettivamente presente. “Le cose ci sono”, e queste oggettività esterne, queste cose fisiche noi le “percepiamo e le descriviamo in semplici giudizi d’esperienza”. Il compito della scienza naturale non consiste in altro che nel “conoscere queste ovvie datità in modo oggettivamente valido e rigorosamente scientifico”. La stessa psicologia sperimentale ha che fare con un mondo, nello specifico il mondo psichico, che è “connesso nell’esperienza a certe cose fisiche, dette corpi”. Anche il corpo umano – a cui la psicologia fa riferimento per studiare le manifestazioni mentali (il vissuto dell’io) –, appare come ciò che è già dato in modo obbiettivo, come ciò che c’è, come ovvia “predatità”, esattamente come affermato dalle scienze della natura e dall’“atteggiamento naturale” caratterizzante il senso comune. Il compito della psicologia consiste, allora, nell’indagare in modo scientifico i vissuti della psiche umana. Vissuti, questi, che si svolgono all’interno del mondo fisico, a cui la nostra psiche è strettamente con529 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

nesso, appartenendo, la psiche, in tutto e per tutto al corpo umano, considerato come identico ai corpi naturali e sottostante alle stesse leggi a cui questi rispondono (reagiscono). Da questa indagine psicofisica, al pari dello specialista delle scienze naturali, lo psicologo scoprirà e determinerà, in modo oggettivamente valido, le leggi costanti che regolano i processi mentali dell’uomo. In breve, la scienza naturale e la psicologia sperimentale, così come ogni filosofia naturalistica, si riferiscono a qualcosa che sta fuori la coscienza dell’uomo – il corpo umano per quanto riguarda la psicologia e i corpi fisici per la scienza naturale –, si riferiscono cioè alla natura empirica, da queste discipline posta come ciò che è “in sé essente”, come “essente in sé e per sé”, come oggettiva, e obbiettivamente indubitabile. Basando ogni suo giudizio sul presupposto (ingenuo, direbbe Husserl) dell’esistenza del mondo naturale – realtà obbiettiva già da sempre data –, e collegando la psiche umana a questo mondo per studiare le reazioni che essa manifesta nel rapporto con questo, la psicologia riduce la coscienza ad esperienza naturale, la mente umana a parte della realtà empirica, l’io a materia, l’idealità logica a fatto concreto, la forma generale a contenuto particolare, lo spirito a cosa. In base a ciò, avere coscienza di qualcosa, per la psicologia sperimentale, non significa altro che fare esperienza di qualcosa appartenente al mondo fisico. Ma, obbietta Husserl, come può essere considerata scienza rigorosa un sapere che, come la psicologia sperimentale, basa le proprie conoscenze sull’“esperienza naturale”, che ogni istante si presenta alla nostra coscienza come “vaga” (instabile), “confusa” (caotica, irrazionale), sempre altra da ciò che era appena un attimo prima? “Tutto ciò che è naturale è dato, ma è dato in un certo senso solo relativamente. […] Ogni esperienza può venire confermata da nuove esperienze, ma può anche venirne sopraffatta, oppure trasformata in modificazioni dubitative. Si tratta di possibilità di principio valide sempre e per tutte le esperienze – quelle naturali”. 530 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Edmund Husserl

Come possiamo, inoltre, affermare una verità epistemica, immutabile e definitiva, se ci riferiamo alla natura (all’esperienza naturale) che, seppur (ingenuamente) presupposta come in sé essente e oggettiva, si scontra senza pietà “contro al flusso soggettivo della coscienza”, contro l’esperienza vissuta della coscienza che incarna in modo totale la dimensione reale del divenire incessante? A queste domande basilari, la psicologia sperimentale come d’altronde ogni filosofia naturalistica, non è finora riuscita a rispondere e mai vi riuscirà, perché tale domanda non può essere soddisfatta da una analisi basata esclusivamente sul mondo fisico, o meglio, sul mondo obbiettivo dei fatti naturali. Da questa impossibilità a rispondere, affiora tutta l’assurdità teoretica e l’evidente contraddizione che appartiene alle discipline filosofiche naturalistiche, che erroneamente si presentano e vengono credute come saperi caratterizzati da rigorosa razionalità e perfetta scientificità. Dopo aver portato alla luce tale impossibilità e l’impotenza di porsi come scienza rigorosa inerente all’“atteggiamento naturale” (scientifico e filosofico), Husserl può allora procedere a formulare la sua filosofia fenomenologica, che ha che fare unicamente con “quella coscienza originariamente offerente che noi contrapponiamo all’esperienza naturale, e in particolare alla riflessione psicologica, sotto il titolo di riflessione pura. Qui non ci sono riserve. Ciò che essa vede […] è ‘dato assolutamente’, in quanto se stesso, nella sua assoluta stessità, senza alcun dubbio”. L’autonomia assoluta dello spirito umano Affidarsi alle conoscenze – siano esse teoriche o pratiche  –, che ci presentano le filosofie naturalistiche, significa, per Husserl, affidarsi ad un “razionalismo erroneo”, ad un sapere relativo e inautentico. Eppure la filosofia europea non fa che tendere e aderire incondizionatamen531 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

te all’impostazione speculativa del naturalismo filosofico. Tuttavia Husserl, non scoraggiandosi affatto di fronte a tanto proselitismo adorante l’ingenuità razionale del naturalismo filosofico, sente forte il bisogno di fornire all’intera umanità una “autentica filosofia”, capace di porsi come “conoscenza universale”, come sapere assoluto e incontrovertibile. Ciò che in sostanza Husserl contesta al naturalismo filosofico, è il fatto che esso, affidandosi esclusivamente alle conoscenze derivate dall’esperienza esperita all’interno del “mondo obbiettivo”, non tiene affatto conto della “soggettività” umana, ossia della coscienza, dell’“io”, dello spirito umano. La sfera della “soggettività” umana – che in nessun caso rientra e può rientrare nel campo d’indagine delle scienze naturali e delle filosofie naturalistiche, essendo queste interessate esclusivamente a rintracciare le “obbiettività” della realtà esterna –, comprende tutto ciò che riguarda la “nostra vita vivente”, il nostro vissuto reale: la razionalità (inautentica) delle filosofie naturalistiche, dimentica “completamente il mondo circostante intuitivo, questa sfera meramente soggettiva”. Vi è dunque bisogno di una nuova filosofia, che sia capace di rispondere positivamente alla “urgente esigenza di una comprensione dello spirito”, comprensione che va affrontata in un modo completamente diverso da quello delle cosiddette “scienze dello spirito” (storicismo, evoluzionismo), anch’esse rimaste impigliate nell’“obiettivismo” empirico. Per fare ciò è necessario comprendere una volta per tutte “l’ingenuità dell’obiettivismo nato dall’atteggiamento naturale rivolto alla mondanità circostante”, ossia bisogna comprendere, e conseguentemente superare, l’ingenuità della “concezione dualistica del mondo, per cui la natura e lo spirito devono valere come realtà in uno stesso senso, per quanto causalmente connesse”. Per la razionalità naturalistica, lo spirito e la natura, il mondo umano e il mondo fisico, hanno lo stesso grado di realtà, e sono tra loro perfettamente connessi: sempre l’uno condiziona l’al532 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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tro, l’uno dipende strettamente dall’altro, ovvero l’azione e il vissuto (spirituale e fisico) dell’uomo è causato sempre e soltanto dalla realtà esterna, dal mondo fisico, dalla natura empirica. Al contrario di ciò, Husserl afferma che lo spirito, il mondo intuitivo, la vita coscienziale dell’essere umano, non può essere indagato in modo obbiettivo, ossia facendo riferimento al mondo delle obbiettività naturali. “Lo spirito e soltanto lo spirito è essente in se stesso e per se stesso; lo spirito è autonomo e soltanto in quest’autonomia può essere trattato in modo veramente razionale e in modo radicalmente scientifico”. Lo spirito è ciò che è in sé e per sé, è una sfera a sé, un mondo autonomo, un mondo ideale che presenta le sue leggi e le sue peculiarità: lo spirito è ciò che in nessun modo dipende o può essere assimilato al mondo naturale. Per indagare razionalmente lo spirito umano, non possiamo minimamente riferirci al mondo obbiettivo delle cose o dei fatti fisici, alla realtà esterna, alla natura empirica, bensì bisogna far affidamento e indagare esclusivamente il mondo dello spirito, la coscienza umana. Questo è possibile perché “lo spirito è per essenza in grado di attingere la conoscenza di se stesso, e, in quanto spirito scientifico, una auto-conoscenza scientifica”. Non facendo ricorso, in nessun modo, alla realtà esterna per conoscere lo spirito umano, la nuova filosofia che Husserl intende fondare si presenta con i caratteri di un sapere “puro”, capace di pervenire a delle conoscenze autentiche e onnilaterali (universali), riguardanti ogni aspetto umano (teorico e pratico). Conoscenze universali, queste, basate su una razionalità finalmente “ultima, reale, che è propria dell’intuizione spirituale del mondo”. “Soltanto se lo spirito recede da un atteggiamento rivolto verso l’esterno, soltanto se ritorna a sé e rimane presso di sé, esso può dar ragione di se stesso”. L’unica filosofia capace di recedere da ogni atteggiamento rivolto verso la realtà esterna (la natura), è la “fenomenologia trascendentale”, ossia quel nuovo atteggiamento epistemico e rigoro533 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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samente razionale che Husserl, essendone il suo fondatore, avrà il compito di determinare nel modo più esaustivo possibile. Egli si sforza di elaborare “un metodo reale volto a cogliere l’essenza fondamentale dello spirito nelle sue intenzionalità e a costruire su questa base un’analitica dello spirito, conseguente e capace di procedere all’infinito”. Per fare ciò il filosofo, in questo caso lo stesso Husserl, ha a sua disposizione un unico punto di partenza, che rappresenta in modo esemplare la processualità e l’atteggiamento speculativo della fenomenologia trascendentale: “il filosofo parte dal proprio io, dall’io che produce tutte le sue validità e diventa lo spettatore disinteressato di queste stesse validità. In questo atteggiamento è possibile costruire una scienza autonoma dello spirito, nella forma di una conseguente auto-comprensione e di una comprensione del mondo in quanto operazione spirituale. Lo spirito non è più spirito nella o accanto alla natura; la natura viene bensì riassorbita nella sfera dello spirito. Allora l’io non è più una cosa isolata accanto ad altre cose analoghe nel mondo già dato [il mondo empirico]”. La fenomenologia trascendentale e l’intenzionalità della coscienza La fenomenologia è un metodo di ricerca filosofica che mira ad “una conoscenza scientifica dell’essenza della coscienza, a ciò che la coscienza stessa ‘è’ in base alla sua essenza in tutte le sue forme distinguibili”. Affinché un qualsiasi “oggetto” possa venir conosciuto in modo indubitabile, è necessario preventivamente affrontare un rigoroso “studio dell’intera coscienza”. Ogni oggetto, per essere indagato e afferrato razionalmente, deve essere riferito esclusivamente alle “forme” tramite cui la nostra coscienza ci permette di conoscere qualunque oggetto. La fenomenologia, dunque, si pone come “scienza della coscienza”, come analisi razionale della sog534 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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gettività, e intende approcciarsi al suo oggetto in un modo differente dalla psicologia in generale, che ha a che fare sì con la coscienza, ma con la “‘coscienza empirica’, con la coscienza colta nell’atteggiamento empirico, intesa come qualcosa che esiste nella connessione della natura”, ponendosi dunque come “scienza naturale della coscienza”. La filosofia di Husserl, contro tale approccio naturalistico, intende fondare una “fenomenologia della coscienza”, dove quest’ultima dovrà presentarsi come “pura”, come assolutamente autonoma rispetto alla realtà esterna del mondo naturale. Husserl intende dunque indagare “in modo immanente lo psichico”, ossia il mondo della coscienza, senza appoggiarsi al mondo naturale, indagando, se così si può dire, esclusivamente dall’interno della coscienza quel mondo autonomo e vastissimo che è la coscienza stessa. Questo perché i “fatti” umani “senza una scienza sistematica della coscienza che indaghi in modo immanente lo psichico, restano privi della possibilità di una comprensione più approfondita e di una valutazione scientifica definitiva”. La psicologia viene smentita nella sua presunta scientificità, quando gli si contesta il fatto, come fa Husserl, che essa non è in grado di proporre alcuna argomentazione, rigorosamente razionale, in riferimento all’analisi della coscienza, alla “vita vivente”, (analisi) che “nessun esperimento è in grado di realizzare”. Come vi può essere, si chiede Husserl, un sapere assolutamente razionale, se nelle argomentazioni non rientra e non può rientrare l’analisi della coscienza umana, che è ciò che permette all’uomo ogni conoscenza possibile? Sapere assolutamente razionale può esserlo, invece, la fenomenologia, che intende considerare tutto ciò che è psichico, che intende, cioè, analizzare la “ricchezza sconcertante di forme differenti” della coscienza umana, al fine di pervenire ad una “fissazione definitiva del linguaggio scientifico”. Cosa, questa, impossibile per la psicologia, in quanto essa “ha trascurato di considerare in che misura lo 535 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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psichico, anziché essere rappresentazione di una natura, possegga piuttosto un’‘essenza’ propria, che deve essere indagata rigorosamente e in maniera perfettamente adeguata prima di ogni analisi psicofisica”. Husserl, dunque, dopo aver portato alla luce e compreso questi errori, mette in atto una rigorosa indagine fenomenologica, intenta ad analizzare lo “psichico” (la coscienza) nella sua “essenza”, e solo dopo ciò potrà dichiararsi certo di possedere una conoscenza, corretta e razionale, che riguarda e può riguardare ogni sfera della realtà. Dire che la fenomenologia intende indagare la coscienza nella sua essenza, significa che essa si riferisce esclusivamente ai “fenomeni” della coscienza, ai fenomeni del vissuto psichico, risultandoci così chiaro il senso che Husserl intende dare al nome della sua filosofia, che letteralmente significa, appunto, scienza (logos) dei fenomeni. Ebbene, “tutto ciò che noi chiamiamo fenomeno psichico […] è, considerato in sé e per sé, propriamente fenomeno e non natura. Un fenomeno non è dunque un’unità ‘sostanziale’, non ha ‘proprietà reali’, non conosce parti reali, mutamenti reali e causalità, intendendo questi termini nel senso della scienza naturale. Attribuire ai fenomeni una natura, ricercarne le componenti reali e i nessi causali – tutto ciò è un’assurdità, così come lo sarebbe volersi interrogare sulle proprietà, sui nessi causali ecc. dei numeri”. La filosofia di Husserl, oltre che fenomenologica, è “trascendentale”, in quanto intende affermare il carattere trascendentale della coscienza (pensiero, spirito), ossia il suo essere ciò che supera e abbraccia tutta la realtà. Questa affermazione è strettamente connessa a quella non meno importante che afferma il carattere “intenzionale” della stessa coscienza. La coscienza è trascendentale perché supera e abbraccia ogni cosa della realtà, così che ciò che la coscienza pensa (conosce, vede, percepisce, immagina) è la coscienza stessa. Ma non in quanto essa produca o divenga o si identifichi realmente a ciò che pensa, bensì 536 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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in quanto si identifica “intenzionalmente” alle cose pensate, agli “oggetti” a cui si relaziona e riferisce. La coscienza è “coscienza di”, è ciò che si riferisce intenzionalmente a qualche “oggetto”, la sua realtà consiste in ciò che essa pensa. La coscienza può percepire o immaginare o pensare una quercia come un asino volante, e, in quanto coscienza intenzionale, in quanto pensiero che pensa quella quercia o quell’asino volante, essa stessa è quell’idea-quercia o quell’idea-asino, ma non consiste realmente in quella o in quell’altro “oggetto” pensato. Le operazioni intenzionali della “soggettività” si sviluppano sempre in direzione dell’“oggetto”: il pensiero è quel pensato che pensa, la coscienza è ciò di cui essa ha di volta in volta coscienza, il percepire è direttamente relazionato a ciò che di volta in volta viene percepito. Così che nulla può trascendere e stare oltre la sfera della coscienza; ogni cosa, reale o ideale che sia, è ad essa “immanente”, ossia ogni cosa è da essa contenuta e afferrata. “Ogni senso, ogni essere immaginabile, che si dica immanente o trascendente, cade entro la cerchia della soggettività [cioè della coscienza] trascendentale”. La coscienza, dunque, non è coscienza produttrice della realtà, non crea le cose che pensa o immagina o percepisce, ma si relaziona intenzionalmente ad esse, le coglie immediatamente, nel loro senso originale, così come esse sono, in “carne e ossa” dice Husserl. La coscienza è quella “visione offerente” che lascia vedere le cose e in cui le cose si mostrano nella loro purezza, nella loro essenza autentica. La coscienza non ha come suo contenuto ciò che essa di volta in volta coglie intenzionalmente, non è la quercia o l’asino, non consiste nell’“oggetto” esperito (sempre particolare e mutante), ma è l’apparire e la manifestazione autentica di quest’ultimo, l’apparire della sua forma ideale, universale ed eterna. La coscienza è un atto intenzionale, e ciò che essa coglie non è il contenuto del suo atto, ma ciò a cui essa si relaziona intenzionalmente, pur essendo nettamente distinta da esso. Ne segue che l’atto di coscienza 537 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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non è pensabile e analizzabile che in relazione con l’oggetto conosciuto, e lo stesso oggetto non è pensabile e analizzabile che in relazione al soggetto conoscente, alla coscienza. In questo modo cadono tutti i presupposti teorici di quelle filosofie ingenue, quali l’empirismo e il positivismo e lo psicologismo, che considerano preesistenti l’oggetto e il soggetto, la realtà e la coscienza, l’io e il mondo, ossia che considerano questi come esistenti prima ancora e indipendentemente dal fatto che essi entrino in relazione-distinzione nell’atto conoscitivo (intuitivo) della coscienza. È solo nell’esperienza vissuta della soggettività, è solo nell’atto coscienziale che tale relazione-distinzione si instaura e si rende possibile: è solo in tale esperienza che appare e si manifesta un io e un mondo concreto, un soggetto e un oggetto reale, una conoscenza immediata e autentica. La visione d’essenza: l’intuizione fenomenologica Il mondo della coscienza è “un flusso assoluto”, dove ogni suo fenomeno (o vissuto psichico) ha la caratteristica di essere sempre “svanente”, di sprofondare sempre nell’oblio, nel nulla. La coscienza non ha niente a che fare con la natura, lo spazio, il tempo, la causalità e la sostanzialità – termini, questi, che appartengono a descrizioni e proprietà tipicamente empiriche – ma “al contrario possiede ‘forme’ proprie del tutto uniche”. La coscienza “è un flusso di fenomeni da entrambi i lati illimitato”, e possiede un “tempo” immanente, “senza inizio e senza fine”, un tempo eterno quindi, “un tempo che nessun cronometro può misurare”. Stando così le cose, la fenomenologia affronta la sua ricerca attendendosi puramente “al senso delle ‘esperienze’ che si danno come esperienze dello ‘psichico’, e assume e cerca di determinare lo ‘psichico’ proprio così come esso richiede di essere assunto e determinato”, ossia, ancora una volta, come mondo essenzialmente autonomo e indipendente da ogni 538 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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riferimento (temporale e spaziale) alla natura empirica. L’indagine fenomenologica intende analizzare gli oggetti dell’esperienza vissuta colti mediante l’“intuizione trascendentale”, che afferra sempre e soltanto le “essenze”, i “fenomeni” puri, le forme ideali, le tipicità e le specificità degli oggetti (dei contenuti) esperiti. La fenomenologia, affidandosi alla conoscenza intuitiva della coscienza trascendentale, coglie le generalità delle esperienze vissute, ossia coglie ciò che appare identico, essenziale e immutabile rispetto ai molteplici aspetti delle cose che si presentano ad uno sguardo comune, basato su un atteggiamento ingenuamente naturalistico (non rigorosamente scientifico, non fenomenologico). La fenomenologia non intende naturalizzare i vissuti della coscienza, non intende falsificare i fenomeni psichici considerandoli come connessi con e condizionati dal mondo naturale, bensì afferma che “si devono prendere i fenomeni così come essi si danno, vale a dire come quel fluente avere coscienza, intendere e manifestarsi, che essi sono”. Giungiamo così al “principio di tutti i principi” della fenomenologia di Husserl: “Nessuna immaginabile teoria può coglierci in errore nel principio di tutti i principi: cioè che ogni visione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà originalmente nell’intuizione (per così dire, in carne e ossa) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà”. La fenomenologia, dunque, fonda la sua scientificità speculativa affidandosi alla “visione originalmente offerente”, affidandosi cioè all’intuizione trascendentale, che ci fa cogliere le cose “in carne e ossa”, che ci offre le cose nella loro autentica “evidenza”, nella loro legittima originalità. Quest’intuizione che è la coscienza stessa, è l’infinita sorgente capace di fornirci una conoscenza immune da qualunque errore, perché coglie gli oggetti esattamente come essi si danno e nei limiti in cui si danno. Solo su essa è possibile fondare la filosofia come epistéme, come verità indubitabile, stabile, definitiva e incontrovertibile. L’intuizione della coscien539 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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za trascendentale ci offre, ci mostra, ci lascia vedere le cose della realtà, senza essere partecipe della creazione di queste; essa non crea, non produce, non altera in nessun modo la realtà; ciò che essa fa è portarci a conoscere la realtà nella suo apparire originale, nella sua evidenza autentica. Questo perché la coscienza non ha che fare con la realtà in sé stessa, con i cosiddetti “fatti”, sempre particolari e individuali, ma con i “fenomeni”, con le “essenze” generali, con le “idee” trascendentali (che stanno oltre la realtà), che ci offrono l’evidenza originaria dell’intera realtà. Dobbiamo immaginarci l’intuizione (coscienza trascendentale, visione d’essenza) teorizzata dalla fenomenologia, come lo spettatore disinteressato prima incontrato, che se ne sta sereno e sicuro fuori dal mondo, al di là della realtà empirica, in modo tale che esso, essendo per l’appunto oltre la realtà naturale, non coglie le particolarità e individualità che ineriscono alle cose empiriche, ma le loro forme universali, che appartengono esclusivamente al mondo trascendentale della coscienza intuitiva. Essendo coscienza intenzionale, questa non può non riferirsi ad un “oggetto”, ma di questo oggetto non coglie il suo aspetto empirico (fattuale, materiale, obbiettivo), ma il suo aspetto “fenomenico” (ideale, razionale, “eidetico”), il suo apparire e donarsi alla coscienza come “essenza” (da eidos), come evidenza originale. L’intuizione fenomenologica non coglie in modo indubitabile (essenziale), per esempio, l’uomo Walter o Maria Carmela o Giuseppe, ma la loro essenza, la loro forma generale, il loro “essere uomini”; così come non ci mostra “questo rosso”, ma l’“esser rosso” di quel determinato come di ogni altro rosso. In questo modo l’intuizione fenomenologica, sulla quale Husserl intende fondare la filosofia come scienza rigorosa, ci offre una conoscenza che, proprio perché è conoscenza originale della realtà, è capace di cogliere le cose “soltanto nei limiti” in cui esse si danno. L’intuizione fenomenologica, quindi, limitandosi a cogliere le cose nella loro evidenza (manifestazione) originaria e essenziale (gene540 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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rale), non può, ad esempio, cogliere la vita psichica dell’essere umano, i suoi stati di coscienza, i ricordi, le attese, i desideri e le su sofferenze. Cose, queste, che rappresentano appunto le particolarità sempre “svanenti” e instabili: ora sono, ma prima non erano, e tra poco non più saranno. Su tali particolarità, l’intuizione coscienziale, esattamente al contrario delle scienze naturali e delle filosofie naturalistiche (storicismo, pragmatismo, positivismo), non esercita la sua forza conoscitiva. Non può cogliere l’interno dell’essere umano, né quello di ogni altro essere o corpo materiale, perché esso, come l’interiorità psichica suddetta, rappresenta ciò che non “appare” in modo evidente, che non si offre nella sua originale evidenza, e che per tale motivo potrebbe essere soggetto a innumerevoli errori di conoscenza, causando errate intuizioni fenomenologiche e, di conseguenza, errate affermazioni scientifiche. L’intuizione fenomenologica, dunque, rappresenta lo strumento conoscitivo che rende possibile fondare una “nuova scienza” capace di pervenire ad una verità indubitabile (universale e necessaria). Per realizzare ciò, è necessario teorizzare e mettere in atto uno specifico atteggiamento d’indagine, capace di approcciarsi alla realtà (e di conseguenza all’analisi scientifica di essa), in maniera totalmente diversa da come ci si è finora approcciai ad essa, si tratti del senso comune, della scienza o della filosofia. Questo metodo originale, è appunto quello della fenomenologia trascendentale teorizzata da Husserl, caratterizzato dalla cosiddetta “sospensione del giudizio”, dall’“epoché”, dalla “neutralizzazione”, dal “mettere fuori azione”, dalla “messa in parentesi” dell’“atteggiamento naturale”. “Noi mettiamo fuori azione la tesi generale inerente all’essenza dell’atteggiamento naturale, mettiamo di colpo in parentesi quanto essa abbraccia sotto l’aspetto antico: dunque l’intero mondo naturale, che è costantemente ‘qui per noi’, ‘alla mano’ e che continuerà a permanere come ‘realtà’ per la coscienza, anche se a noi talenta di metterlo in parentesi”. 541 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Come mettere tra parentesi il mondo, per conoscerlo indubitabilmente La fenomenologia di Husserl intende opporsi radicalmente al “modo naturale di pensare”, ossia a quel determinato atteggiamento – riferito sia al senso comune che a quello scientifico o filosofico –, che presuppone la realtà empirica (o “realtà spazio-temporale”) come esistente indipendentemente dall’attività della coscienza, come se fosse sempre là, a portata di mano, di fronte a noi, a noi esterna. Questo presupposto naturalistico, secondo Husserl, non rappresenta affatto, a differenza di quanto solitamente si creda, una verità originale ed evidente (e quindi indubitabile) su cui si possa fondare una scienza rigorosa, bensì appare come il risultato (o stratificazione) di una lunga serie di processi della coscienza, che hanno portato alla costituzione di determinati “parametri” utili alla comprensione della realtà, considerati veri ed ovvi. Con tale “ovvio” presupposto naturalistico, l’uomo, si è sempre approcciato alla realtà e allo studio di essa credendo che la realtà esistesse indubitabilmente al di fuori della coscienza umana, e che ciò rappresentasse la verità incrollabile su cui basare ogni sapere. Ebbene, la fenomenologia trascendentale teorizzata da Husserl, ed è questo un suo aspetto centrale, ripercorrendo l’operazione dubitativa di Cartesio, intende rovesciare radicalmente questa verità comune (o “verità di fatto”). Husserl intende mettere in dubbio (“mettere tra parentesi”) l’ovvietà del presupposto naturalistico, intende, cioè, “sospendere il giudizio” (ed in ciò si traduce il termine greco epoché) su tutto quello che al “modo naturale di pensare” (all’“atteggiamento naturale”) appare come ovvio, evidente e indiscutibile. Egli “mette fuori azione” e neutralizza ogni teoria, sia scientifica che filosofica, finora apparsa: “Noi rigettiamo […] con la massima coerenza e nel senso più rigoroso tutto ciò che è naturale, nel senso evidentemente che non ci collochiamo sul terreno di alcuna esperienza (o posizione na542 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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turale), e anziché condividerla la mettiamo fuori azione”. Husserl mette in questione e sospende l’assenso sul mondo empirico, per affidarsi esclusivamente a ciò che appare come indubitabilmente evidente e vero, per affidarsi, cioè, ai “fenomeni” dati originalmente (in carne e ossa) all’interno della coscienza intuitiva, ai vissuti psichici (atti di esperienza psichica, stati di coscienza) che formano il contenuto essenziale e assolutamente vero di ogni conoscenza. Viene messo tra parentesi il mondo naturale (la realtà esterna alla coscienza), e di conseguenza tutte le teorie e le leggi che presuppongono e che si riferiscono ad esso, perché per Husserl non può esistere una verità incrollabile, e di conseguenza una scienza rigorosa, che non faccia riferimento esclusivamente alla coscienza. Coscienza che, in quanto intenzionale, si riferisce ancora e sempre al mondo naturale sul quale abbiamo applicato l’epoché fenomenologica, ma che, questa volta, lo viene a conoscere nel modo in cui esso si dà all’intuizione trascendentale della stessa coscienza, capace di cogliere il mondo sotto il suo aspetto essenziale (universale, assoluto), immediatamente evidente e originale (vero, autentico). Allontanandosi in un primo momento dal mondo obbiettivo, mettendolo in questione e negandolo nei sui aspetti “naturali”, l’analisi fenomenologica, in un secondo momento, è in grado di ritornare ad esso e di coglierlo (comprenderlo), e di conseguenza descriverlo (analizzarlo), nella sua autentica e incrollabile verità. Neutralizzando il mondo naturale, viene “purificato”, rigettato e messo tra parentesi, in primo luogo, l’io empirico, l’individuo umano, ed in tal senso comprendiamo tutto il significato della trascendentalità della coscienza fenomenologica. La coscienza trascendentale teorizzata dalla fenomenologia, la sola in grado di cogliere le cose nella loro evidenza originale e autentica, non corrisponde alla mia coscienza, o alla tua o a quella di qualche altro individuo. L’intuizione coscienziale, che è quell’atto capace di cogliere le cose così 543 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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come esse si danno, e quindi capace di coglierle nella loro verità assoluta, non è un atto dell’individuo umano, perché se così fosse, l’atto intuitivo della coscienza si svolgerebbe all’interno della realtà empirica, e sarebbe rintracciabile e spiegabile attraverso una semplice indagine naturalistica, rendendo così inutile e contraddittoria l’epoché fenomenologica, che intende superare ogni atteggiamento speculativo che faccia riferimento all’esperienza empirica. Il soggetto trascendentale “non è la persona né il soggetto empirico che nell’atteggiamento naturale designo come io ed equiparo al tu e agli altri esseri umani, apprendendolo dunque alla loro stessa stregua. Noi abbiamo appurato che un simile io naturale non esclude affatto la possibilità del dubbio e del non-essere, e che quindi non può coincidere con l’io dell’autentica evidenza”. La coscienza trascendentale, dunque, non è un oggetto (cosa, corpo) tra gli oggetti, non è una parte (una variabile) all’interno della realtà umana, bensì è l’“io originario”, eterno e infinito, che supera e contiene e unifica in sé la totalità del mondo empirico, le sue cose e i rapporti reciproci tra queste. L’“io puro” a cui fa riferimento la fenomenologia husserliana, coglie il mondo naturale, neutralizzato ma conservato, come fenomeno puro, come idea razionale, come essenza immutabile, cogliendo in tal modo anche quelle pluralità di centri di coscienza, che nel linguaggio ingenuamente naturalistico vengono ancora intesi come “l’umanità”. Nulla può sfuggire allo sguardo conoscitivo della fenomenologia, perché l’occhio attraverso il quale essa coglie la totalità della realtà, è quello della soggettività trascendentale, che, essendo al di fuori del mondo e abbracciandolo interamente, è in grado di fornirci un sapere capace di pervenire alla verità ultima e incontrovertibile riguardante ogni aspetto del mondo.

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PAGINE ANTOLOGICHE

La filosofia come scienza rigorosa Sin dai suoi primi inizi la filosofia ha avanzato la pretesa di essere scienza rigorosa e, precisamente, la scienza in grado di soddisfare le più elevate esigenze teoretiche e di rendere possibile, in prospettiva etico-religiosa, una vita regolata da pure norme razionali. Questa pretesa è stata fatta valere ora con maggiore ora con minore energia, senza essere però mai completamente abbandonata, neppure nei tempi in cui gli interessi e le capacità per la pura teoria minacciavano di venir meno o in cui le forze religiose soffocavano la libertà della ricerca teoretica. In nessuna epoca del suo sviluppo la filosofia è stata in grado di soddisfare la pretesa di essere scienza rigorosa; neppure nell’epoca moderna che, pur nella molteplicità e contrapposizione degli orientamenti filosofici, si sviluppa dal Rinascimento fino ad oggi in una direzione essenzialmente unitaria. Certo, l’ethos dominante della filosofia moderna consiste proprio in questo, che essa, invece di abbandonarsi ingenuamente all’impulso filosofico, intende costituirsi come scienza rigorosa mediante la riflessione critica, attraverso ricerche sempre più approfondite sul metodo. Ma l’unico frutto maturo di questi sforzi fu la fondazione e la progressiva autonomia delle scienze rigorose della natura e dello spirito, nonché delle nuove discipline puramente matematiche. La filosofia stessa, in quel senso particolare che solo ora viene a distinguere, continuava ad essere priva del carattere di scienza rigorosa. Già il senso di questa distinzione rimaneva senza una determinazione scientificamente sicura. Ancora oggi è controverso in quale 545 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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relazione stia la filosofia con le scienze della natura e dello spirito, se l’elemento specificatamente filosofico del suo lavoro, riferito tuttavia essenzialmente allo spirito e alla natura, richieda atteggiamenti di principio nuovi, con i quali siano dati scopi e metodi di principio peculiari, se dunque l’elemento filosofico ci introduca per così dire in una nuova dimensione, oppure se si dispieghi sullo stesso piano delle scienze empiriche della natura e della vita dello spirito. Il che mostra come il senso autentico dei problemi filosofici non sia mai stato scientificamente chiarito. Dunque la filosofia, nella sua intenzione storica la più elevata e rigorosa di tutte le scienze, essa, che rappresenta l’aspirazione imperitura dell’umanità alla conoscenza pura ed assoluta (e, cosa inseparabilmente unita a questa, al puro e assoluto valutare e volere) è incapace di darsi la forma di vera scienza. La maestra per vocazione dell’opera eterna dell’umanità non è in genere in grado di insegnare in maniera oggettivamente valida. Kant amava dire che non si può imparare la filosofia, ma solo a filosofare. Cos’è questa se non un’ammissione della non scientificità della filosofia? Fin dove arriva la scienza, la vera scienza, si può insegnare ed imparare, e ciò ovunque nello stesso senso. L’apprendimento scientifico non è mai l’accettazione passiva di una materia estranea allo spirito, esso poggia sempre sulla spontaneità, su di una riproduzione interiore delle evidenze razionali ottenute da spiriti creatori, secondo principi e conseguenze. La filosofia non si può imparare poiché non vi sono tali evidenze oggettivamente comprese e fondate, vale a dire poiché mancano ancora problemi, metodi e teorie concettualmente ben definiti e pienamente chiariti nel loro senso. Non voglio dire che la filosofia sia una scienza imperfetta, dico semplicemente che non è ancora una scienza, che essa come scienza non ha ancora avuto inizio, e valga qui quale criterio un frammento qualsiasi, sia pure piccolo, di un contenuto dottrinale teoretico oggettivamente fondato. Tutte le scienze sono imperfette, persino le tanto ammirate scienze esatte. Da un lato esse sono incomplete a causa dell’orizzonte infinito di problemi aperti che non daranno mai pace all’impulso conoscitivo; dall’altro esse presentano numerose lacune nel loro contenuto dottrinale già formato, rivelando qua e là residui di oscurità o imperfezioni nell’ordine sistematico delle dimostrazioni e delle teorie. Ma vi è 546 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Edmund Husserl: pagine antologiche

comunque un contenuto dottrinale che continuamente cresce e si ramifica in forme nuove. Nessuna persona ragionevole metterà in dubbio la verità oggettiva o la probabilità oggettivamente fondata delle stupefacenti teorie della matematica e delle scienze naturali. Nel complesso non vi è qui spazio alcuno per “opinioni”, “intuizioni” e “punti di vista” privati. Nella misura in cui, tuttavia, vi è in un ambito particolare qualcosa di analogo, la scienza in questione non è ancora divenuta scienza, ma è in via di divenirlo, ed è così che in generale viene considerata. Di genere interamente diverso dall’imperfezione di tutte le scienze che abbiamo appena descritto, è quella della filosofia. Essa non dispone semplicemente di un sistema dottrinale incompleto e imperfetto nei particolari, bensì ne è del tutto priva. Ogni cosa è qui messa in discussione, ogni presa di posizione è materia di convinzioni individuali, di interpretazioni di scuola, di “punti di vista”. Può essere che i tentativi offerti dall’intera letteratura filosofica di valore scientifico nei tempi antichi e moderni poggino su di un serio nonché enorme lavoro spirituale; anzi, può essere che preparino in misura considerevole l’istituzione futura di un sistema dottrinale scientificamente rigoroso. Ma per il momento non vi si può riconoscere nulla che possa valere quale base di una scienza filosofica, né vi è alcuna speranza di ritagliare qua e là con le forbici della critica un frammento di dottrina filosofica. […] Evidenziando con decisione la non scientificità di tutta la filosofia precedente, si solleva subito la questione se la filosofia voglia ancora in futuro mantenere lo scopo di essere scienza rigorosa, se essa possa e debba volerlo. Che cosa dovrà significare per noi la nuova “svolta”? Forse l’abbandono dell’idea di una scienza rigorosa? E quale significato dovrà avere per noi quel “sistema” che desideriamo e che ci deve illuminare come ideale nelle profondità del nostro lavoro di ricerca? Un “sistema” filosofico in senso tradizionale, quasi una Minerva, che nasca perfetta e armata dalla testa di un genio creatore per venire poi conservata nelle epoche successive accanto ad altre Minerve simili nel silenzioso museo della storia? Oppure un sistema filosofico che, dopo l’imponente lavoro preparatorio di generazioni, incominci veramente dal basso su fondamenta indubitabili e si innalzi come ogni buona costruzione in cui si pone su di una solida base, conformemente a princi547 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

pi guida, pietra dopo pietra, ciascuna solida quanto l’altra? Su tale questione devono divergere gli spiriti e le vie. (E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 3-8) L’epoché fenomenologica Riveleremo ancora una volta un punto importante. Io trovo costantemente alla mano, di fronte a me, la realtà spazio-temporale, a cui appartengo io stesso ed appartengono tutti gli altri uomini, che si trovano in essa e ad essa si riferiscono nel mio medesimo modo. La realtà, e la parola stessa lo dice, io la trovo in quanto io desto dentro una esperienza omogenea e mai interrotta, la trovo come esistente e la assumo esistente, così come essa mi si offre. Qualunque nostro dubbio o ripudio di dati del mondo naturale non modifica affatto la tesi generale dell’atteggiamento naturale. Il mondo come realtà è sempre là; può rivelarsi qua o là “diverso” da come lo presumevo, questo o quell’elemento va cancellato da esso a titolo di “apparenza”, “allucinazione” e simili; ma, nel senso della tesi generale, esso è sempre mondo esistente. Conoscerlo più comprensivamente, fedelmente e in ogni riguardo più perfettamente di quanto sappia fare la mera sapienza empirica, risolvere tutti i problemi di conoscenza scientifica che si presentano sul terreno di questa, tale è lo scopo delle scienze dell’atteggiamento naturale. Sono le scienze abitualmente “positive”, le scienze della positività naturale. Invece di permanere in questo atteggiamento, noi vogliamo mutarlo radicalmente. […] Il tentativo di dubbio universale rientra nel campo della nostra completa libertà: noi possiamo tentare di dubitare di tutto e di ogni cosa, anche se ne siamo fermamente certi in base ad una evidenza pienamente adeguata. […] Nel tentativo di dubbio, che è connesso con una tesi e, come noi presupponiamo, con una tesi certa e duratura, la neutralizzazione consiste in una modificazione dell’antitesi, e precisamente nell’introduzione del non-essere, che forma quindi la base correlativa al tentativo di dubbio. In Descartes ciò prevale al punto che il suo tentativo di dubbio universale può dirsi propriamente un tentativo di negazione universale. Noi prescindiamo da questo; non ci interessa 548 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Edmund Husserl: pagine antologiche

ogni analitica componente di quel tentativo di dubbio, e quindi nemmeno la sua analisi esatta ed esauriente. Noi ne ricaviamo soltanto il fenomeno della “messa in parentesi” che evidentemente non è legato al fenomeno del tentativo di dubbio, sebbene ne possa essere facilmente ricavato, ma che piuttosto si può presentare anche in altre connessioni non meno che da solo. Riguardo ad ogni tesi noi possiamo esercitare in piena libertà questa caratteristica ’Єποχή [epoché], una certa sospensione di giudizio, che è compatibile con l’indiscussa, o magari indiscutibile ed evidente, convinzione della verità. La tesi viene posta “fuori azione”, messa “in parentesi”, e si tramuta così nella modificazione “tesi in parentesi”, come il giudizio si tramuta in “giudizio in parentesi”. […] Al tentativo cartesiano di un dubbio universale potremmo ora sostituire l’universale ’Єποχή nel nostro nuovo e ben determinato senso. Ma a ragion veduta noi limitiamo l’universalità di questa ’Єποχή. Poiché se le concediamo tutta l’ampiezza che può avere, non rimarrebbe più alcun campo per giudizi non modificati e tanto meno per una scienza: infatti ogni tesi ed ogni giudizio potrebbero venir modificati in piena libertà ed ogni oggetto di giudizio potrebbe venir messo in parentesi. Ma noi miriamo alla scoperta di un nuovo territorio scientifico, e vogliamo conquistarlo proprio col metodo della messa in parentesi, limitato però in un certo modo. Dobbiamo indicare questa limitazione. Noi mettiamo fuori azione la tesi generale inerente all’essenza dell’atteggiamento naturale, mettiamo di colpo in parentesi quanto essa abbraccia sotto l’aspetto antico: dunque l’intero mondo naturale, che è costantemente “qui per noi”, “alla mano”, e che continuerà a permanere come “realtà” per la coscienza, anche se a noi talenta di metterlo in parentesi. Facendo questo, come è in mia piena libertà di farlo, io non nego questo mondo, quasi fossi un sofista, non revoco in dubbio il suo esserci, quasi fossi uno scettico; ma esercito in senso proprio l’’Єποχή fenomenologica, cioè: io non assumo il mondo che mi è costantemente già dato in quanto essente, come faccio, direttamente, nella vita praticonaturale ma anche nelle scienze positive, come un mondo preliminarmente essente e, in definitiva, come un mondo che non è un terreno universale d’essere per una conoscenza che procede attraverso l’espe549 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

rienza e il pensiero. Io non attuo più alcuna esperienza del reale in un senso ingenuo e diretto. Così attuo l’ ’Єποχή fenomenologica, la quale, dunque, eo ipso, mi vieta anche l’attuazione di qualsiasi giudizio, di qualsiasi presa di posizione predicativa nei confronti dell’essere e dell’essere così e di tutte le modalità d’essere dell’esistenza spazio-temporale del “reale”. Così io neutralizzo tutte le scienze riferentisi al mondo naturale e, per quanto mi sembrino solide, per quanto le ammiri, per quanto poco io pensi ad accusarle di alcun che, non ne faccio assolutamente nessun uso. Non mi approprio di nemmeno una delle loro proposizioni, anche se sono di perfetta evidenza, non ne assumo nessuna e da nessuna di esse ricavo alcun fondamento beninteso, fintanto che esse vengono concepite, come avviene appunto in queste scienze, quali verità concernenti le realtà di questo mondo. Le posso assumere soltanto dopo aver loro applicato le parentesi, in conseguenza del fatto che io ho già sottoposto alla modificazione della messa in parentesi qualunque esperienza naturale, alla quale in definitiva rimanda ogni fondazione scientifica, come a un’esperienza che manifesta l’esistenza. Vale a dire: soltanto nella modificazione di coscienza della messa in parentesi del giudizio, dunque non come quelle proposizioni che sono nella scienza, dove reclamano una validità che del resto io stesso riconosco e utilizzo. Non si deve confondere l’ ’Єποχή ora in questione con quella richiesta dal positivismo. […] Per noi non si tratta della neutralizzazione di tutti i pregiudizi che turbano la pura effettualità dell’indagine, né della costituzione di una scienza “libera da teorie”, “libera dalla metafisica”, facendo retrocedere ogni fondazione alle datità immediate della esperienza obiettiva, e nemmeno del mezzo per raggiungere tali fini, del cui valore non si fa questione. Quello che noi cerchiamo sta in tutt’altra direzione. Per noi il mondo intero, quale viene posto nell’atteggiamento naturale, quale effettivamente ci si offre del tutto “libero da giudizio” e chiaramente si annuncia nella connessione delle esperienze previa eliminazione delle apparenze, sia ora posto fuori della validità: non provato, ma anche non contestato, esso va messo in parentesi. Egualmente tutte le teorie e le scienze, per buone che siano, fondate positivisticamente o altrimenti, in quanto si riferiscono a questo mondo, soggiacciono al medesimo destino. (E. Husserl, Idee per un fenome550 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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nologia pura e per un filosofia fenomenologica, I, 30-32, Einaudi, Torino 1970, pp. 62-67) Lo scopo della fenomenologia trascendentale Sapendo che queste meditazioni mirano principalmente a fondare una nuova eidetica, il lettore si attenderà che il mondo come dato di fatto soggiaccia sì alla neutralizzazione, ma non già il mondo come eidos, e parimenti ogni altra sfera essenziale. […] Peraltro noi non seguiamo questa via, né è in questa direzione che si trova il nostro scopo, che possiamo anche indicare come la conquista di una nuova regione dell’essere finora non rilevata nella sua caratteristica, la quale, come ogni genuina regione, concerne un essere individuale, originariamente accessibile attraverso un genere di esperienza che le si coordina. Che cosa ciò significhi esattamente, lo diranno gli accertamenti posteriori. Facendo tuttavia una anticipazione, osserviamo che l’essere da noi ricercato non è altro se non ciò che per motivi essenziali può venir indicato come “puri Erlebnisse”, “pura coscienza” con i suoi “puri correlati” e d’altra parte il suo “puro io”, e quindi cominciamo con il considerare l’io, la coscienza, l’Erlebnis quali ci sono dati nell’atteggiamento naturale e quali ad essa vanno attinti nella loro purezza. Io, l’io psicologico, l’uomo reale, sono un oggetto reale, come gli altri del mondo naturale. Compio delle cogitationes, “atti di coscienza” in senso stretto e lato, e questi atti, in quanto appartengono a questo soggetto umano, sono accadimenti della medesima realtà naturale. Lo stesso si dica di tutti gli altri miei Erlebnisse puramente psichici, sulla cui mutevole corrente gli atti specifici dell’io spiccano in modo così caratteristico, passano l’uno nell’altro, si annodano in sintesi, modificandosi ininterrottamente. In un senso amplissimo, l’espressione “coscienza” abbraccia (ma vi è poco adatta) tutti gli Erlebnisse. […] Noi manteniamo dunque lo sguardo fermamente rivolto alla sfera della coscienza e all’“io” da essa inseparabile, e cerchiamo di vedere che cosa vi si trovi di immanente. Ma, prima di compiere questa peculiare sospensione fenomenologica del giudizio, sottoponiamo questa sfera ad una sistematica, anche se per nulla esauriente, anali551 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

si essenziale. Quello che assolutamente ci occorre è una certa visione complessiva dell’essenza, da attingere attraverso la pura “esperienza interna”, alla pura visione interna, della coscienza in generale, e particolarmente della coscienza in quanto per sua essenza è consapevole della realtà “naturale”. E procediamo in questi studi tanto quanto occorre per giungere alla visione a cui miravamo, cioè che la coscienza va afferrata attraverso una conseguente esperienza interna come una sfera in sé connessa, aperta-infinita e per sé conchiusa, provvista di forme proprie di “immanente” temporalità. E bisognerà mostrare, anche, come questa sfera dell’essere non cada sotto la neutralizzazione fenomenologica descritta sopra. In termini più precisi: attraverso l’attuazione della fenomenologica messa fuori gioco del mondo obbiettivo, questa sfera “immanente” dell’essere perde bensì il senso di uno stato reale di quella realtà uomo (oppure animale) che inerisce al mondo e che presuppone già il mondo. Perde il senso di vita coscienziale umana, di quella vita che chiunque può progressivamente afferrare mediante la pura “esperienza interna”. Ma non va semplicemente perduta: attraverso il mutato atteggiamento dell’ ’Єποχή [epoché], ottiene il senso di una sfera assoluta dell’essere, di una sfera assolutamente autonoma che è, in sé, quella che è, senza che si ponga alcuna domanda intorno all’essere o al non-essere del mondo e degli uomini che vivono in esso, essendo sospesa ogni presa di posizione in questo senso, una sfera, dunque, che già preliminarmente è in sé e per sé, comunque si possa rispondere alla domanda ontologica intorno al mondo e a prescindere dalla possibilità di rispondere, per buone o cattive ragioni, a questa domanda – che soltanto nell’ambito dell’ ’Єποχή va posta. Così, la sfera pura della coscienza rimane, con tutto ciò che da essa non può venir separato (e, tra l’altro, l’“io puro”), quale “residuo fenomenologico”, come una regione per principio peculiare dell’essere, che, come tale, può diventare campo di una scienza della coscienza in un senso corrispondentemente – per principio – nuovo, il campo della fenomenologia. (E. Husserl, Idee per un fenomenologia pura e per un filosofia fenomenologica, I, 33-37, cit., pp. 62-72)

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È giusto affidarci alla scienza, che riduce l’essere umano a cosa e fatto naturale? Si può seriamente parlare di una crisi delle nostre scienze in generale? Questo discorso, oggi consueto, non costituisce forse un’esagerazione? La crisi di una scienza comporta nientemeno che la sua peculiare scientificità, il modo in cui si è proposta i suoi compiti e perciò in cui ha elaborato la propria metodica, siano diventati dubbi. Ciò potrà valere per la filosofia, che attualmente minaccia di soccombere alla scepsi, all’irrazionalismo, al misticismo. Fintanto che la psicologia avanza ancora pretese filosofiche e non vuol essere una mera scienza positiva tra le altre, ciò potrà valere anche per essa. Ma come è possibile parlare in generale e seriamente di una crisi delle scienze, quindi anche delle scienze positive, della matematica pura, delle scienze naturali esatte, che noi non cesseremo mai di ammirare quali esempi di una scientificità rigorosa e destinata a continui successi? Certo esse, nello stile complessivo della loro teoresi sistematica e della loro metodica si sono dimostrate passibili di evoluzione. Esse sono riuscite recentemente a spezzare, proprio da questo punto di vista, un irrigidimento che, sotto il titolo di fisica classica, le minacciava, in quanto presunto compimento classico di uno stile che durava da secoli. Ma la lotta vittoriosa contro l’ideale della fisica classica, e la disputa ancora attuale attorno a una forma autentica, conforme al suo senso, nella costruzione della matematica pura, significa forse che la precedente fisica e la precedente matematica non fossero ancora scientifiche e che esse, per quanto ipotecate da certe oscurità o da certi abbagli, non fossero giunte, nel loro campo di lavoro, a nozioni evidenti? E queste nozioni evidenti non sono forse, per noi che siamo stati liberati da questi paraocchi, nozioni necessarie? Non ci è forse possibile comprendere in base ad esse, riadottando l’atteggiamento dei classici, come in esse si siano elaborate tutte quelle grandi scoperte che sono valide per sempre e che hanno fornito buoni motivi all’ammirazione delle passate generazioni? […] Il rigore scientifico di tutte queste discipline, l’evidenza delle loro operazioni teoretiche e dei loro successi, che ormai si sono imposti in modo vincolante e per sempre, resta fuori discussione. […] Tuttavia 553 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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può darsi che, procedendo da un altro ordine di considerazioni, cioè dalle diffuse lamentele sulla crisi della nostra cultura e sul ruolo che in questa crisi viene attribuito alle scienze, ci vengano incontro motivi che ci inducano a sottoporre a una critica seria e peraltro estremamente necessaria la scientificità di tutte le scienze, senza pertanto rinunciare al primo senso della loro scientificità, quel senso che è intaccabile data la legittimità delle sue operazioni metodiche. […] Adottiamo come punto di partenza il rivolgimento, avvenuto allo scadere del secolo scorso, nella valutazione generale delle scienze. Esso non investe la loro scientificità bensì ciò che esse, le scienze in generale, hanno significato e possono significare per l’esistenza umana. L’esclusività con cui, nella seconda metà del XIX secolo, la visione del mondo complessiva dell’uomo moderno accettò di venir determinata dalle scienze positive e con cui si lasciò abbagliare dalla “prosperity” che ne derivava, significò un allontanamento da quei problemi che sono decisivi per un’umanità autentica. Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto. Il rivolgimento dell’atteggiamento generale del pubblico fu inevitabile, specialmente dopo la guerra, e sappiamo che nella più recente generazione esso si è trasformato addirittura in uno stato d’animo ostile. Nella miseria della nostra vita – si sente dire – questa scienza non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti dell’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino: i problemi del senso o del non-senso dell’esistenza umana nel suo complesso. Questi problemi, nella loro generalità e nella loro necessità, non esigono forse, per tutti gli uomini, anche considerazioni generali e una soluzione razionalmente fondata? In definita essi concernono l’uomo nel suo comportamento di fronte al mondo circostante umano e extra-umano, l’uomo che deve liberamente scegliere, l’uomo che è libero di plasmare razionalmente se stesso e il mondo che lo circonda. Che cosa ha dire questa scienza sulla ragione e sulla non-ragione, che cosa ha da dire su noi uomini in quanto soggetti di questa libertà? Ovviamente, la mera scienza di fatti non ha nulla da dirci a questo proposito: essa astrae appunto da qualsiasi soggetto. (E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 1968, pp. 33-36) 554 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ludwig Wittgenstein

Gli uomini sono profondamente irretiti dalle confusioni filosofiche, cioè grammaticali. E liberarli presuppone che li si strappi alla straordinaria molteplicità dei vincoli nei quali sono incappati. Si deve, per così dire, riordinare l’intero loro linguaggio. – Ma questo linguaggio si è formato (è divenuto) così perché gli uomini avevano – e hanno – la tendenza a pensare così. Per questo motivo lo sradicamento funziona soltanto con coloro che vivono in una istintiva rivolta contro (insoddisfazione nei confronti del) il linguaggio. Non con quelli che, seguendo in pieno il loro istinto, vivono nel gregge che ha prodotto questo linguaggio come sua espressione propria. Wittgenstein

Ludwig Wittgenstein: vita e opere Ludwig Wittgenstein nasce a Vienna il 26 aprile 1889, da una famiglia appartenente alla borghesia austriaca. Studia al Trinity College di Cambridge, dove collabora con Bertrand Russell. Dopo aver combattuto in guerra, rientra in Austria nel 1919, cominciando ad insegnare come maestro in una scuola elementare. Nel 1921 pubblica il Tractatus logico555 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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philosophicus, al quale aveva lavorato anche durante gli anni di guerra, e che sarebbe stato l’unico scritto che Wittgenstein sarebbe riuscito a pubblicare in vita; torna a Cambridge nel 1929 per ultimare delle ricerche, ottenendo dieci anni dopo la cattedra che prima era di Gorge E. Moore (filosofo inglese le cui opere ispirarono in parte Wittgenstein). Nel corso della seconda guerra mondiale fu inserviente, per un periodo di tempo, presso un ospedale di Londra. Nel 1947 abbandona l’insegnamento. Malato di cancro, muore a Cambridge il 29 aprile 1951. Lasciò inediti numerosi scritti che furono poi pubblicati postumi, quali Ricerche filosofiche (pubblicate nel 1953); Osservazioni sui fondamenti della matematica (pubblicate nel 1956); Quaderno blu e Quaderno marrone (pubblicati nel 1958). Alla ricerca di un mondo logicamente perfetto Il pensiero di Ludwig Wittgenstein, rivolto allo studio del linguaggio, rappresenta un momento decisivo all’interno del panorama filosofico. Dopo di lui, molti altri studiosi sentirono forte il bisogno d’ingaggiare una serrata analisi sulle questioni inerenti al linguaggio, al mondo del senso logico e dei simboli significanti, ben convinti che in tale mondo si giocasse, in definitiva, il senso del sapere umano. L’originale testimonianza di Wittgenstein, si inserisce nella fervente atmosfera filosofica sviluppatasi in Inghilterra all’inizio del novecento, attorno all’università di Cambridge. Le menti di questo eterogeneo gruppo di studiosi, partivano tutte dalla necessità di commisurare e adeguare quanto più possibile la filosofia ai metodi della scienza, e di affidarsi unicamente all’esperienza empirica, per così accantonare, una volta per tutte, l’idealismo. Idealismo che aveva elevato lo Spirito e il suo movimento dialettico a protagonista assoluto della vita e, di conseguenza, della speculazione filosofica, relegando il mondo fisico a mera acci556 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ludwig Wittgenstein

dentalità, priva d’ogni reale importanza e concreta verità. Idealismo che, coerente con la teoria che il vero reale é solo il razionale (il pensiero, la coscienza), considera di conseguenza la scienza, che indaga i fatti empirici, subordinata e inferiore alla filosofia, rivolta com’è, quest’ultima, all’essenza infinita e creatrice d’ogni realtà e conoscenza, quale è lo Spirito (o Idea assoluta). All’interno di questa critica contro il sistema dell’idealismo, l’opera di Wittgenstein intende negare ogni intromissione di argomentazioni metafisiche, e di ogni teoria aprioristica, di ispirazione kantiana, all’interno del discorso filosofico, ossia ogni argomentazione e teoria che pretenda astenersi dal riferirsi all’esperienza empirica. L’esperienza empirica, il mondo dei fatti naturali indagato dalla scienza, è l’unica fonte a cui l’uomo, e in special modo il filosofo, deve rivolgere tutta la sua attenzione, se desidera comprendere la realtà e il linguaggio che l’uomo utilizza per descriverla ed esprimerla. Queste convinzioni si ispirano al cosiddetto “empiriocriticismo”, inaugurato da Richard Avenarius (1843-1896) ed Ernst Mach (18381916), i quali, intenzionati a negare ogni validità alle interpretazioni metafisiche e alle pretese di pervenire ad una verità definitiva mediante un compiuto sistema filosofico (come intendeva l’idealismo), fanno dell’“esperienza pura”, ossia del mondo dei fatti empirici, l’autentico fondamento della scienza e della filosofia. Secondo loro, tutte le teorie e le leggi che non si basano sull’esperienza immediata che l’uomo attua od osserva concretamente all’interno del mondo empirico, è costruito o presupposto in un modo essenzialmente artificiale (e quindi falso). Queste costruzioni o presupposti artificiali, non possono essere prese in considerazione da nessun serio discorso speculativo, che intende offrire l’aspetto reale e veritiero del mondo. Al pari dell’empiriocriticismo, con Wittgenstein ci troviamo di fronte a un discorso filosofico, che non pretende affatto di costruire un sistema concettuale capace di comprendere la realtà nella sua totalità, bensì, “riconoscendo 557 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

esclusivamente nelle scienze gli strumenti idonei alla acquisizione delle conoscenze, si riservava una funzione teorica circoscritta, destinata all’analisi logico-linguistica e alla chiarificazione concettuale”1. Ciò che Wittgenstein fa maggiormente sue, sono le importanti ricerche logico-matematiche condotte da Gottlob Frege (1838-1925) e Bertrand Russell (1838-1925): “io devo alle grandiose opere di Frege ed ai lavori del mio amico Bertrand Russell gran parte dello stimolo ai miei pensieri”. Questi due grandi pensatori, nelle loro complesse ricerche logico-matematiche, condotte in modo autonomo, arrivarono ad affermare la necessità di ridurre i concetti e le proposizioni elementari della matematica a quelle della logica. È fondamentale affrontare un’accurata e rigorosa indagine logica, che studi le regole mediante le quali scomporre e ridurre, in modo formalmente corretto, le proposizioni complesse (o “molecolari”) in proposizioni elementari (o “atomiche”), al fine di pervenire ad un sapere in grado di mettere in campo, nei suoi asserti fondamentali, quanto più esatte proposizioni e argomentazioni logiche. Ciò che non risponderà a tali criteri, verrà negato nel suo valore o nella sua funzione veritativa. Verrà quindi dichiarato come privo di senso, in quanto estraneo a quel rigore logico e formale che la filosofia, seguendo l’esempio della scienza, deve essere in grado di possedere e manifestare in modo concreto nel suo operare analitico. Il trattato logico-filosofico Per Wittgenstein, il linguaggio è ciò che raffigura e rappresenta la realtà. È all’interno del linguaggio, e non al-

1   A.G. Gargani, Introduzione a Wittgenstein, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 14.

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Ludwig Wittgenstein

trove, che si giocano le fondamentali questioni di senso e non-senso, di verità e falsità delle asserzioni filosofiche. È un linguaggio scorretto e privo di senso, quello usato da chi intende far passare come verità assolute le argomentazioni metafisiche, che pretendono di cogliere ciò che sta oltre la realtà fisica, oltre, cioè, quel mondo dei fatti che è l’esperienza empirica, unica fonte capace di convalidare ogni proposizione logica e ogni concetto. Non potremmo mai avere una chiara e vera conoscenza delle cose e dei fatti della realtà, se non ci si decide ad affrontare uno studio capace di chiarire, una volta per tutte, gli elementi e i contenuti del nostro linguaggio. Questo studio preliminare non è altro che l’impegno principe al quale Wittgenstein dedicò tutta la sua attenzione. L’opera fondamentale di Wittgenstein è il Tractatus logico-philosophicus2, un’opera che rappresenta una delle testimonianze più importanti e profonde della filosofia contemporanea. Lo stesso Russell, nella sua introduzione che apre il Tractatus, afferma che questo, “per ampiezza, e per portata, e per profondità”, deve essere considerato “un evento importante nel mondo filosofico”, in quanto ha il grande merito di studiare in modo rigoroso le “condizioni che dovrebbero esser soddisfatte da un linguaggio logicamente perfetto”. Wittgenstein, partendo dalle relazioni simboliche che “intercorrono tra parole e cose in ogni linguaggio”, arriva a dimostrare come “la filosofia tradizionale e le soluzioni tradizionali nascano dall’ignoranza dei principî del simbolismo e dal cattivo uso del linguaggio”. Solo mettendo fine a questa atavica ignoranza circa le basi logiche del linguaggio segnico, ci si potrà portare oltre, in modo definitivo, da tutte le teorie filosofiche che, fin qui, si son poste come detentrici indiscusse della verità, pur poggiandosi su proposizio-

2   Le citazioni di quest’opera sono tratte da: L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 2009.

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ni concettuali e asserti logici infondati. “Le proposizioni e le domande che si sono scritte su cose filosofiche sono per la maggior parte non false, ma insensate. Perciò a domande di questa specie noi non possiamo affatto rispondere, ma possiamo solo constatare la loro insensatezza. Le domande e le proposizioni dei filosofi si fondano per la maggior parte sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio. (Esse sono come la domanda, se il bene sia più o meno identico del bello). Né meraviglia che i problemi più profondi propriamente non siano problemi”. Entriamo nello specifico dell’opera. La “psicologia” si occupa di comprendere “cosa avviene nella mente quando noi usiamo il linguaggio con l’intenzione di significare qualcosa mediante esso”; l’“epistemologia” si occupa di comprendere la relazione che sussiste tra i pensieri (o parole, o enunciati) e ciò a cui essi si riferiscono (o cui essi significano); la “scienza” si occupa di comprendere in che modo si devono usare gli enunciati affinché essi comunichino la verità, piuttosto che la falsità. E alla logica, quale problema concerne? Essa si occupa di comprendere “in quale relazione deve stare un fatto (come, ad esempio, un enunciato) con un altro, per essere capace di essere un simbolo di esso”. In altri termini, se la scienza si occupa di stabilire quando una data proposizione, in questo caso una determinata legge o ipotesi scientifica, sia effettivamente vera o falsa, la logica, dal canto suo, si occupa di stabilire se una data proposizione possa (sia capace di) essere vera o falsa. “La logica tratta di ogni possibilità, e tutte le possibilità sono i suoi fatti”. La scienza ha a che fare con l’essere vero o falso delle proposizioni, la logica invece, e la differenza è sostanziale, ha a che fare con la possibilità di una determinata proposizione di essere vera o falsa, in quanto “per essere vera una proposizione deve anzitutto poter essere vera, e solo ciò concerne la logica”. In breve, l’opera wittgensteiniana si interroga sul senso delle proposizioni, “su che cosa significhi per la proposizione, per una qualsiasi proposizione, aver senso; ossia, su 560 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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che cosa significa per la proposizione poter essere vera (e poter essere falsa)”3. Così Wittgenstein: “Ogni proposizione è essenzialmente vera-falsa. Pertanto una proposizione ha due poli. […] Chiamiamo questo il senso di una proposizione”. Da ciò segue che, a differenza che nella scienza, “in filosofia non vi sono deduzioni; essa è puramente descrittiva. La parola ‘filosofia’ deve sempre designare qualcosa sopra o sotto, non già presso, le scienze naturali. La filosofia non dà immagini della realtà, e non può né confermare né infirmare le indagini scientifiche”. Il ruolo della filosofia “Il linguaggio traveste il pensiero. Lo traveste in modo tale che dalla forma esteriore dell’abito non si può inferire la forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata a ben altri fini che al fine di riconoscere la forma del corpo. Le tacite intese per la comprensione del linguaggio comune sono enormemente complicate”. Siccome il linguaggio, specie quello comune, è sempre più o meno vago, siccome oscilla sempre tra il polo verità e quello falsità, per contrastare tale tendenza è necessario fondare un “simbolismo rigoroso”. È necessario scoprire un linguaggio logicamente perfetto, capace di possedere regole di sintassi che evitino in modo rigoroso il nonsenso, mediante una simbologia atta a fornire ad ogni simbolo “un significato definito, unico, univoco”. Questo è lo scopo perseguito da Wittgenstein nel Tractatus, e al quale dovrebbe indirizzarsi ogni ricerca filosofica interessata a fornire conoscenze logicamente corrette e sensate, che altro non è che il ruolo principe e il limite esclusivo che la filosofia deve adempiere e rispettare. “Il nostro compito è solo di

3

  L. Perissinotto, Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 2008, p. 31.

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essere corretti. Cioè, dobbiamo soltanto mettere in luce e risolvere le scorrettezze della filosofia, senza costruire nuovi partiti – e professioni di fede”. Russell, nell’opera di Wittgenstein rintraccia ciò che egli stesso, nella sua importante attività logico-matematica prima che filosofica, aveva perseguito con tutte le forze: la fondazione di un “linguaggio ideale”, rigidamente logico-formale, capace di superare ogni eventuale vaghezza e nonsenso. “L’avere costruito una teoria della logica che in nessun punto sia manifestamente errata è stata un’impresa di straordinaria difficoltà e importanza. È questo un merito che rende il Tractatus di Wittgenstein un libro che nessun filosofo serio può impunemente ignorare”. Nella prefazione, Wittgenstein presenta il punto centrale dal quale prendono avvio le sue ricerche logiche riguardanti il “linguaggio segnico”, preso nella totalità delle sue applicazioni. Questo punto centrale, può essere considerato come ciò che racchiude l’intero senso di quest’opera: “Il libro tratta i problemi filosofici e mostra – credo – che la formulazione di questi problemi si fonda sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio. Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: Tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. Per il nostro filosofo, il pensiero coincide esattamente con il linguaggio. Tutto il pensabile consiste nel dicibile. Tutto ciò che si può pensare è tutto ciò che si può dire e, di conseguenza, ciò che non si può dire non si può neanche pensare. L’indicibile è l’impensabile. “Un’opera filosofica consta essenzialmente di chiarificazioni. Il risultato della filosofia sono non ‘proposizioni filosofiche’, ma il chiarificarsi di proposizioni. La filosofia deve chiarire, e delimitare nettamente, i pensieri che altrimenti sarebbero torbidi e indistinti”. Il compito assolto da Wittgenstein è quello di tracciare un limite “all’espressione dei pensieri”, e quindi alla formulazione degli enunciati linguistici. Tutto ciò che verrà a trovarsi oltre questo limite – limite, questo, che è “tracciato 562 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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nel linguaggio stesso” –, non sarà che nonsenso. “Il limite non potrà, dunque, venire tracciato che nel linguaggio, e ciò che è oltre il limite non sarà che nonsenso”. Tale lavoro di limitazione radicale tracciata all’interno del linguaggio-pensiero, fa sì che non si possa parlare del Tractatus, ad opinione dello stesso autore, di un “manuale”, di un libro di scienza. Esso è e va letto come un’opera filosofica, che non intende e non pretende porsi come “dottrina”, come sistema organico al cui interno, ricalcando appunto lo stile e le intenzioni dei manuali scientifici, si offrono l’esatte e inconfutabili conoscenze riguardanti la totalità della realtà. Bensì va inteso come una “attività” che ha come proprio scopo “il rischiaramento logico dei pensieri”. Ciò che anzitutto va chiarito, sono quei pensieri (o proposizioni) “che con la filosofia nulla ha[nno] a che fare”. In questa categoria rientrano le proposizioni metafisiche, che contengono “certi segni” (parole, proposizioni) privi di significato, che causano la formulazione di enunciati privi di alcun senso. Tali enunciati insensati, in nessun modo possono avere a che fare con la ricerca rigorosa del senso autentico delle cose, ricerca, questa, lo ribadiamo, che incarna in modo esatto, agli occhi di Wittgenstein, l’attività filosofica stessa. “Filosofare è: respingere argomentazioni sbagliate”. Il mondo “Il mondo è tutto ciò che accade”; con questa proposizione Wittgenstein apre il Tractatus. Prosegue affermando: “Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose”. “Ciò significa: il mondo non è la totalità delle cose, bensì dei fatti; così come il linguaggio non è la totalità dei nomi, bensì delle proposizioni”4. “La totalità

4

  Ibidem, p. 34.

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delle proposizioni è il linguaggio”. Un fatto è “il sussistere di uno stato di cose”, e questo “stato di cose” è “un nesso d’oggetti (entità, cose)”, che sono tra loro interconnessi “come le maglie di una catena”. Gli oggetti che connettendosi tra loro formano i fatti, che a loro volta formano gli accadimenti in cui consiste il mondo, sono oggetti “semplici” (fissi e consistenti), e tali oggetti “costituiscono la sostanza del mondo. Perciò essi non possono essere composti”. A questa riduzione dei fatti del mondo ai suoi elementi formanti, che sono nella fattispecie gli oggetti semplici, corrisponde la riduzione fondamentale approntata da Wittgenstein nei confronti degli elementi logici che formano una proposizione significante. Le proposizioni complesse (del tipo “Corrado è italiano e figlio di Giovanni”), caratterizzate da eccessiva generalità ed equivocità, vengono ridotte ai loro elementi semplici. Gli elementi semplici, cioè univoci e indecomponibili, sono i “nomi”, i quali verranno a costituire le cosiddette “proposizioni elementari” (del tipo “Corrado è italiano”; “Corrado è figlio di Giovanni”). In tal modo si sarà guadagnato in compiutezza e univocità di senso, rendendo così possibile una più esatta descrizione linguistica dei “fatti semplici” della realtà. “Il mondo è descritto completamente dall’indicazione di tutte le proposizioni elementari più la indicazione, quali di esse siano vere e quali di esse siano, invece, false”. Ritorniamo al mondo. Ciò che lo caratterizza è la sua radicale accidentalità, contingenza e casualità. Il mondo è il regno dell’imprevedibilità totale, della possibilità pura e della libertà assoluta. In esso è assente ogni necessità: nulla accade perché è inevitabile che accada, tutto può e non può accadere. “Tutto ciò che vediamo potrebbe anche essere altrimenti”. Nessun accadimento del mondo è collegato o connesso necessariamente ad un altro. “Non vi è alcuna costrizione, secondo la quale qualcosa debba avvenire poiché qualcos’altro è avvenuto”. Nel mondo, il fatto stesso che il sole sorge all’alba, potrebbe essere smentito 564 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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dal fatto contrario. “Che il sole domani sorgerà è un’ipotesi; e ciò vuol dire: Noi non sappiamo se esso sorgerà”. La ferrea necessità esiste soltanto nel mondo della logica – solo le connessioni logiche sottostanno alla necessità secondo la quale ciò che è connesso in un modo non può non essere così connesso –, non nel mondo, che è accidentalità pura, casualità totale. Nella logica, dunque, nulla è accidentale. “ [Nel mondo] Una necessita cogente, per la quale qualcosa debba avvenire poiché qualcos’altro è avvenuto, non v’è. V’è solo una necessità logica”. Il linguaggio Wittgenstein afferma che il linguaggio è una “raffigurazione dei fatti”, una “immagine” logica che rappresenta il mondo. “Per comprendere l’essenza della proposizione si pensi alla grafia geroglifica, la quale raffigura i fatti che descrive. E da essa è nata, senza perdere l’essenziale della raffigurazione, la grafia alfabetica”. Ciò che una proposizione linguistica raffigura è un “modello della realtà”. Ogni proposizione riproduce e descrive il mondo. Vi è dunque un “interno rapporto raffigurativo che intercorre tra lingua e mondo”, tra parole e realtà, tra enunciati e fatti, tra pensieri e stati di cose. Poiché l’essenza e la funzione del linguaggio è rappresentare fatti reali, ne viene che vi deve essere qualcosa di identico tra l’enunciato (l’“immagine”, le parole) e il fatto (il raffigurato, lo stato di cose). “Nell’immagine e nel raffigurato qualcosa deve essere identico, affinché quella possa essere un’immagine di questo. Ciò che l’immagine (la proposizione) deve avere in comune con la realtà, per poterla raffigurare – correttamente o falsamente – nel proprio modo, è la forma di raffigurazione propria dell’immagine”. Il rapporto che intercorre tra l’immagineenunciato e i fatti-realtà, è il loro avere una identica “forma logica”, una comune “struttura logica”. Questa identi565 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ca struttura logica, però, non può essere rappresentata, ossia non può essere detta nel linguaggio, proprio perché è ciò che vi è in comune tra l’immagine e il fatto, tra il linguaggio e il mondo. “La proposizione può rappresentare la realtà tutta, ma non può rappresentare ciò che, con la realtà, essa deve avere in comune per poterla rappresentare – la forma logica. Per poter rappresentare la forma logica, noi dovremmo poter situare noi stessi con la proposizione fuori della logica, ossia fuori del mondo” (la qual cosa è impossibile). La struttura logica, che mette in relazione il linguaggio e il mondo, e che permette al linguaggio (e quindi all’uomo) di raffigurarsi gli oggetti e i fatti del mondo, non può essere spiegata filosoficamente, non può essere tema di comprensione linguistica, ma può essere solo “mostrata” come ciò che è in comune tra il linguaggio e il mondo, tra l’enunciato significante e i fatti reali. “La proposizione non può rappresentare la forma logica; questa si rispecchia in quella. Ciò, che nel linguaggio si rispecchia, il linguaggio non lo può rappresentare. Ciò che nel linguaggio esprime sé, noi non lo possiamo esprimere mediante il linguaggio. La proposizione mostra la forma logica della realtà. L’esibisce”. Consegue che, a rigor di termini, la filosofia, intesa come analisi e chiarificazione radicale del linguaggio, può soltanto mostrare la relazione che intercorre tra un fatto e la sua immagine simbolica, tra le parole e il mondo. La filosofia, a differenza della scienza, non coglie la realtà dei fatti, non coglie il “come” della realtà, non coglie gli oggetti del mondo sotto i loro aspetti concreti. “Gli oggetti io li posso solo nominare. I segni ne sono rappresentanti. Io posso solo dirne, non dirli. Una proposizione può dire solo come una cosa è, non che cosa essa è”. La filosofia deve dunque limitarsi a cogliere il mondo nella connessione di questo con la struttura logica del linguaggio umano, ovvero a coglierlo nel suo mostrarsi come immagine logica. “Ciò che può essere mostrato non può essere detto”. 566 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Una proposizione vera, presa indipendentemente dalla realtà, e quindi una proposizione analitica “a priori” – proposizioni logiche di questo tipo sono sempre e incondizionatamente vere, e sono dette “tautologie”; quelle “contraddittorie”, all’opposto, non sono vere sotto nessuna condizione –, quale ad esempio la proposizione “Piove o non piove”, non ci fa conoscere nulla della realtà, non ci dice se fuori piove o non piove realmente, non ci porta a conoscenza di nessun concreto fatto nuovo. Così Wittgenstein: “La proposizione mostra ciò che dice; la tautologia e la contraddizione mostrano che esse non dicono nulla. La tautologia non ha condizioni di verità, poiché è incondizionatamente vera; e la contraddizione è sotto nessuna condizione vera. Tautologia e contraddizione sono prive di senso. (Come il punto onde due frecce divergono in direzione opposta). (Ad esempio, io non so nulla sul tempo se so che o piove o non piove)”. O ancora: “Tautologia e contraddizione non sono immagini della realtà. Esse non rappresentano alcuna possibile situazione. Infatti, quella ammette ogni possibile situazione; questa, nessuna. Nella tautologia le condizioni della concordanza con il mondo – le relazioni di rappresentazioni – si annullano l’una l’altra, così che essa non sta in alcuna relazione di rappresentazione con la realtà”. Le proposizioni basilari della logica, ossia le tautologie, sono sempre e sotto qualunque condizione vere, ma non stanno in nessuna relazione (concordanza) col mondo e di questo nulla possono farci conoscere: “non è affare della logica decidere se il mondo ove viviamo sia realmente così o no”. Il principio di verificazione Riferendosi alla realtà, il pensiero mi fornisce delle conoscenze, che si limitano a raffigurare lo stato di cose di cui immediatamente ho esperienza. Attraverso il pensiero, colgo il mondo empirico così come esso si presenta sot567 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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to forma di immagine logica. Oltre non posso andare. Non posso inferire, aggiungere e ricavare nulla di nuovo da ciò che vengo a conoscenza nell’esperienza empirica. Il limite del pensiero, e di conseguenza dell’espressione linguistica, consiste nel suo essere pura e semplice descrizione dei fatti. La sua unica e inoltrepassabile capacità conoscitiva si traduce nel suo essere mera “funzione descrittiva dei fatti”. Se ho avuto esperienza che stamane il sole è sorto, da ciò non posso inferirne che sorgerà anche l’indomani mattina. Di questo fatto nuovo, del sole che sorgerà anche domani, io non ne ho immediata esperienza. Chiariamo meglio questo snodo fondamentale. Posso sì affermare che il sole sorgerà anche domani, nulla me lo impedisce, così come niente ha impedito a Cartesio di affermare che siccome il mondo esiste deve esistere anche Dio, ossia di inferire l’esistenza divina dall’esistenza del mondo. Così come posso affermare che la mia anima è realmente immortale, che dopo questa vita terrena essa sarà interessata da una vita eterna e celestiale. In tutti questi casi, però, si è commesso un errore logico. In tutti questi concetti si è connesso, in modo inadeguato, gli elementi significanti, si è affermato una proposizione che, in verità, è senza senso, si è usato in maniera non corretta il linguaggio. Quanto affermato è un nonsenso perché, in base al “principio di verificazione” introdotto da Wittgenstein, una “proposizione intorno alla realtà ha senso solo se esiste la possibilità di accertare se essa è vera o è falsa, cioè solo se essa è verificabile o falsificabile dall’esperienza: se di una proposizione che intenda riferirsi alla realtà non si può e non si potrà mai stabilire se essa sia vera o falsa, questa è una proposizione solo in apparenza [è quindi una ‘pseudoproposizione’], cioè è costituita da parole che in altri contesti linguistici possono aver senso, ma che, collegate come sono in questa proposizione, non formano alcun senso. La possibilità di verificare o falsificare una proposizione che intende parlare della 568 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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realtà non è allora qualcosa che si aggiunga al senso della proposizione, al senso cioè che essa possederebbe di per se stessa: il senso di tale proposizione consiste nella possibilità di verificarla o falsificarla, confrontandola con l’esperienza. In altri termini, il senso di una proposizione è costituito dal modo in cui essa è verificata”5. Da quanto detto, appare evidente che le proposizioni della metafisica – come quella di Cartesio in merito all’esistenza divina, o quella affermante l’immortalità dell’anima – sono, nella fattispecie, tutte pseudoproposizioni, in quanto sono enunciati privi di senso logico, e privi di significato, in quanto privi di ogni riferimento ai fatti empirici. Esse, semplicemente, sono errori di linguaggio, e sollevano dei problemi filosofici che, in verità, sono assolutamente inconsistenti e inautentici, sono cioè “pseudoproblemi”. La filosofia, pertanto, deve liberarsi dal fardello rappresentato dalle proposizioni e dai problemi metafisici: le une sono insensate e insignificanti, gli altri non sono affatto problemi. Il Mistico pretende il silenzio Poiché l’unico modo per constatare quando una proposizione riferita alla realtà sia vera (oppure falsa), consiste nel confrontarla direttamente con i fatti dell’esperienza empirica, comprendiamo perché Wittgenstein affermi che “la totalità delle proposizioni vere è la scienza naturale tutta (o la totalità delle scienze naturali)”. Solo la scienza, col riferirsi diretto ed esclusivo ai fatti empirici dell’esperienza naturale, è in grado di presentare le sue proposizioni, le sue leggi simboliche, prive di qualsiasi errore logico e formale, prive di apparenze e fraintendimenti linguistici, in

5   E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo, vol. III (la filosofia contemporanea), BUR, Milano 2007, p. 320.

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una parola, prive di qualsiasi nonsenso. La scienza dice, con verità, tutto ciò che può dirsi in merito ai fatti empirici. La scienza risponde a tutte le domande che possono essere poste, e in questo è l’unico sapere che può far ciò con esattezza logica, grazie al suo riferirsi direttamente all’esperienza. Ma, si badi bene, ciò non significa che essa sia in grado di comprendere ogni cosa. Quel che la scienza non può in nessun modo argomentare, sono “i grandi problemi dell’esistenza (da dove vengo?, dove vado?, vale la pena di vivere?)”6, e tutti i problemi estetici, etici e religiosi. Questi problemi esulano dal discorso scientifico, perché non possono essere provati e risolti facendo riferimento all’esperienza naturale. “Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati. Certo, allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta”. L’unica risposta ai nostri problemi vitali, consiste nel comprendere che in essi non v’è alcuna vera domanda, e se una domanda non può porsi, non può avere neppure una risposta. I problemi esistenziali si risolvono quando si comprende che essi sono vuoti di autentiche domande, e, così compresi, finalmente svaniscono: “La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparire di esso. (Non è forse per questo che degli uomini ai quali il senso della vita divenne, dopo lunghi dubbi, chiaro, non seppero poi dire in che cosa consistesse questo senso?)”. Non bisogna pensare, però, che Wittgenstein riduca l’intera realtà a ciò che la scienza può dirci di essa. La scienza non può dire ciò che non può dirsi, così come non è in grado di rispondere a ciò che non può essere espresso sotto forma di problema (logico, formale, discorsivo). E ciò che non può dirsi, ciò che non può formularsi in proble-

6

  Ibidem, p. 321.

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ma, non per questo può essere negato, bensì va considerato come ciò che sta al di fuori della portata della scienza e della sua possibilità di comprenderlo ed esprimerlo. Bisogna considerarlo come ciò che è “più alto”, come ciò che sta “fuori del mondo”. Va considerato come l’“ineffabile”, come ciò che vi è di “Mistico” nel mondo. Il Mistico non può essere espresso in nessuna forma o tipo di linguaggio. Di fronte ad esso – similmente a come ci invita a fare Kierkegaard, filosofo apprezzato da Wittgenstein –, non resta altro che chiuderci in un profondo e rispettoso silenzio. “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. Il “secondo” Wittgenstein Una volta portato a termine il Tractatus, Wittgenstein considerava concluso il suo compito filosofico interessato alla chiarificazione del linguaggio. Coerente col suo invito a tacere quando nulla è più dicibile, decise di non dedicarsi più a complicate e complesse questioni logico-filosofiche. Presentando il suo trattato, aveva infatti affermato che: “la verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile ed irreversibile. Io ritengo, dunque, d’avere definitivamente risolto nell’essenziale i problemi”. Dopo non pochi anni, però, sentì forte il bisogno di rimettersi all’opera, e lo fece in un modo molto particolare e coraggioso, visto che diede vita ad un pensiero che metteva in discussione, senza mezzi termini, molte delle affermazioni del suo primo periodo. A questa nuova stagione filosofica risale l’opera che porta il titolo di Ricerche filosofiche7, uscita postuma, e nella quale l’autore si occupa del “concetto di significato, di comprendere, di proposizione, di logica, [de]i fondamenti della ma-

7   Le citazioni di quest’opera sono tratte da: L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 2009.

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tematica, [de]gli stati di coscienza, e altre cose ancora”. “Quattro anni fa – scrive Wittgenstein nella prefazione di quest’opera – ebbi l’occasione di rileggere il mio primo libro (il Tractatus logico-philosophicus) e di spiegare le idee che vi sono espresse. Improvvisamente mi parve che avrei dovuto pubblicare quei vecchi pensieri insieme coi nuovi, e che questi ultimi sarebbero stati messi in giusta luce soltanto dalla contrapposizione col mio vecchio modo di pensare, e sullo sfondo di esso. Riprendendo a occuparmi di nuovo di filosofia, sedici anni fa, dovetti infatti riconoscere i gravi errori che avevo commesso in quel primo libro”. Eppure le Ricerche, nonostante le sostanziali differenze e divergenze rispetto alla prima opera, sono caratterizzate dall’immutato atteggiamento e compito speculativo di fondo che Wittgenstein assegnava alla filosofia in generale e a se stesso in particolare. Atteggiamento e compito filosofico, questo, tutto rivolto a chiarire e correggere gli errori del linguaggio e, soprattutto, gli errori e le illusioni che infestano le ricerche aventi per oggetto il linguaggio. Tra il primo e il secondo Wittgenstein – definizioni, queste, che usiamo solo per comodità d’esposizione, essendo meglio, forse, considerare il lavoro del nostro filosofo come un unico grande discorso, fatto di affermazioni e smentite reciproche che danno vita ad un vero e proprio contraddittorio filosofico assai fruttuoso – ciò che resta di primaria importanza è l’attività terapeutica che deve incarnare la filosofia. L’attività filosofica deve essere vista e intrapresa non come una forma di sapere capace di spiegare o cogliere questa o quest’altra verità, o intenta a indottrinare il mondo intero con questa o quest’altra teoria. Fare filosofia significa mettere all’opera una terapia linguistica, capace di liberare da illusioni e pseudoproblemi, sia filosofici che pratico-quotidiani, causati da una scorretta considerazione e comprensione della logica del linguaggio. Queste illusioni e pseudoproblemi infettano e sfigurano il linguaggio, rendendolo malato e irriconoscibile. La filosofia, dunque, 572 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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deve curare la malattia del linguaggio per renderlo nuovamente sano, così come una terapia medica guarisce il paziente da un grave sintomo invalidante, ridonandogli la salute ordinaria. “A noi non è dato costruire alcun tipo di teoria. Nelle nostre considerazioni non può esserci nulla di ipotetico. Ogni spiegazione dev’essere messa al bando, e soltanto la descrizione deve prendere il suo posto. E questa descrizione riceve la sua luce, cioè il suo scopo, dai problemi filosofici. Questi non sono, naturalmente, problemi empirici, ma problemi che si risolvono penetrando l’operare del nostro linguaggio in modo da riconoscerlo: contro una forte tendenza a fraintenderlo. I problemi si risolvono non già producendo nuove esperienze, bensì assestando ciò che da tempo ci è noto. La filosofia è una battaglia contro l’incantamento del nostro intelletto, per mezzo del nostro linguaggio”. Lo studio del linguaggio quotidiano Analizziamo a grandi linee le Ricerche wittgensteiniane. In esse viene meno la convinzione della necessità di fondare un linguaggio “ideale”, un linguaggio logicamente perfetto costituito da proposizioni elementari, ossia da proposizioni logiche quanto più univoche e rigorosamente definite. Per Wittgenstein non è più indispensabile indicare o costituire una rigida forma di linguaggio perfettamente logico, così da poterlo presentare come ciò che, rispetto alle forme del linguaggio comune, si pone come assolutamente superiore e, di conseguenza, come il più valido per la comprensione della realtà e delle funzioni del linguaggio stesso. Per conoscere il linguaggio e i modi per utilizzarlo in modo corretto, non bisogna più partire dall’analisi delle strutture logiche, né tantomeno da quelle matematiche, bensì bisogna analizzare il linguaggio quotidiano. Questo perché è solo 573 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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nel linguaggio quotidiano, che si potranno trovare le radici di ogni nostra conoscenza. È nel linguaggio comune che troveremo i meccanismi e le strutture che fondano e interessano il linguaggio. Queste nuove convinzioni, come era ovvio aspettarsi, lo portarono a rompere in modo netto con le intenzioni di Russell e Frege, incentrate alla costituzione di un linguaggio puramente logico, assolutamente distante, se non proprio opposto, dal linguaggio quotidiano. Studiando il linguaggio comune, Wittgenstein è convinto di comprendere e chiarire i problemi umani, che coincidono, sempre, con problemi di espressione linguistica, e, quindi, con errori grammaticali. Di questi errori grammaticali, di questi virus linguistici, sia la gente comune che, soprattutto, il filosofo, non se ne rendono conto perché, paradossalmente, ci stanno sotto gli occhi ogni giorno, perché ciò che è più evidente non ci colpisce. “Gli aspetti per noi più importanti delle cose sono nascosti dalla loro semplicità e quotidianità. (Non ce ne possiamo accorgere, – perché li abbiamo sotto gli occhi.) Gli autentici fondamenti di una ricerca non dànno affatto nell’occhio a chi vi è impegnato; a meno che non sia stato colpito una volta da questo fatto. – E questo vuol dire: ciò che, una volta visto, è il più evidente, e il più forte, questo non ci colpisce”. Wittgenstein intende dedicarsi, sostanzialmente, ad una “descrizione ostensiva” del linguaggio comune, volta a cogliere le forme linguistiche così come esse si presentano nel quotidiano, abbandonando, quindi, quella rigorosa analisi logica caratterizzante l’attività filosofica del primo periodo, volta a spiegare, a scoprire e inventare proposizioni segniche sempre più perfette, sempre meno quotidiane. Questo radicale cambio di rotta è così motivato: “La filosofia si limita, appunto, a metterci tutto d’avanti, e non spiega e non deduce nulla. – Poiché tutto è lì in mostra, non c’è neanche nulla da spiegare. Ciò che è nascosto non ci interessa. ‘Filosofia’ potrebbe anche chiamarsi tutto ciò che è possibile prima di ogni nuova scoperta e invenzione”. 574 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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La prima parte delle Ricerche, conferma in maniera limpida questo cambio di tendenza, essendo dedicata, con originale acutezza, ad indagare il linguaggio infantile. In special modo, Wittgenstein indaga il modo o il meccanismo mediante il quale i bambini arrivano ad acquisire la capacità linguistica e le strutture (o schemi) generali, i cosiddetti “paradigmi”, indispensabili per cogliere il significato delle parole, delle proposizioni, delle frasi scritte e così via. “Il concetto generale di significato della parola circonda il funzionamento del linguaggio di una caligine, che rende impossibile una visione chiara. – La nebbia si dissipa quando studiamo i fenomeni del linguaggio nei modi primitivi del suo impiego, nei quali si può avere una visione chiara e completa dello scopo e del funzionamento delle parole. Tali forme primitive del linguaggio impiega il bambino quando impara a parlare”. Oltre al cosiddetto linguaggio ideale che, come visto, caratterizzava l’atmosfera intenzionale del Tractatus, ciò che viene rimesso in discussione è un altro aspetto fondamentale di quella prima opera, che occupava il nucleo più strettamente filosofico. Quel che viene messo in discussione, è la convinzione che le proposizioni linguistiche devono essere giudicate (vere o false) per la loro coincidenza (o meno) coi fatti della realtà empirica. Nel Tractatus si affermava ciò perché, coerentemente col suo progetto riduzionistico, Wittgenstein reputava possibile pervenire ad esatte proposizioni linguistiche a patto che queste fossero, in un primo momento, ridotte a “proposizioni elementari” costituite da “oggetti semplici” (quali sono i nomi), in modo così da poter confrontare queste proposizioni elementari con i “fatti” altrettanto semplici ed elementari (i fatti “atomici”) che costituiscono la sostanza della realtà empirica. Soltanto dopo tale riduzione e confronto veritativo, è possibile giungere ad una “forma generale” della proposizione – forma generale che si traduce nel: “È così e così” –, che, in modo univoco (non approssimativo, non generale), sia ca575 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

pace di riferirsi correttamente e in modo veritiero alla realtà, come provano le proposizioni scientifiche. Il secondo Wittgenstein nega tutto questo, perché vi scorge quel determinato “pregiudizio della purezza cristallina” che appartiene alla logica. Pregiudizio, questo, che “può essere eliminato soltanto facendo rotare tutte quante le nostre considerazioni”. Ritornando sui suoi passi, Wittgenstein afferma che appoggiarsi alla realtà per studiare la correttezza delle proposizioni linguistiche, può risultare sicuramente utile in qualche caso determinato, ma di tale metodologia d’indagine non bisogna farne un “dogma” assoluto, secondo il quale ogni proposizione deve essere confrontata con la realtà o da questa confermata (come vera o falsa). Non tutte le proposizioni sono “immagini”, rappresentazioni e raffigurazioni della realtà; tra queste e quella è possibile un paragone e un confronto, ma le une non coincidono sempre con quella (la realtà). Ebbene, negare ciò, come fa il secondo Wittgenstein, significa negare la base portante dell’analisi logica, basata, appunto, sulla ricerca della semplicità formale, della unità o univocità logica e degli elementi elementari del linguaggio, finalizzata ad una quanto più perfetta coincidenza di tali proposizioni, altamente logiche, con l’immagine della realtà che esse fornivano. Significa, da parte di Wittgenstein, negare gran parte del Tractatus logico-philosophicus. “Riconosciamo che ciò che chiamiamo ‘proposizione’, ‘linguaggio’, non è quell’unità formale che immaginavo, ma una famiglia di costrutti più o meno imparentati l’uno con l’altro. – Che ne è allora della logica? Qui il suo rigore sembra dissolversi.” La teoria dei “giuochi linguistici” Prende vita una nuova concezione filosofica, intenta a portare alla luce il carattere particolare, vario e plurali576 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ludwig Wittgenstein

stico del linguaggio. “Il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: Un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi”. L’affermazione del carattere particolare e molteplice del linguaggio, si scontra apertamente contro ogni affermazione che scorga in questo, illudendosi, un carattere unitario, generale, fisso o che, ancora peggio, lo concepisca come perfettamente completo e in sé compiuto. “‘Il linguaggio (o il pensiero) è qualcosa di unico nel suo genere’ – questa credenza si rivela una superstizione (non un errore!) originata, essa stessa, da illusioni grammaticali”. Wittgenstein afferma: “Chiamerò ‘giuoco linguistico’ […] tutto l’insieme costituito dal linguaggio e dalle attività di cui è intessuto”. Il linguaggio, dunque, è inteso come una pluralità di “giuochi linguistici”, come una molteplicità di attività essenzialmente libere, che non sottostanno a nessuna ferrea regola, a nessuna necessità o convenzione. “Infatti, in che modo si delimita il concetto di giuoco? Che cosa è ancora un giuoco e che cosa non lo è più? Puoi indicare i confini? No. Puoi tracciarne qualcuno, perché non ce ne sono di già tracciati”. Dire che non ci sono ferree regole linguistiche, e quindi negare l’esistenza d’ogni sorta di necessità logica – altro forte elemento di rottura rispetto a quanto affermato nel Tractatus –, non significa affatto affermare che nel linguaggio non esiste nessun tipo di regola. La libertà che caratterizza il linguaggio non è caos totale né anarchia indiscriminata, così come nel gioco del calcio non v’è nessuna regola che impone a quale potenza, minima o massima che sia, si debba calciare la palla, eppure è certamente contro le regole tirare un calcio all’avversario. Le regole che caratterizzano il linguaggio, non sono regole logico-formali, bensì le possediamo in quanto siamo stati addestrati ad esse, esattamente come “si viene addestrati ad ubbidire al 577 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

comando”. “L’insegnamento del linguaggio non è spiegazione, ma addestramento”. Le “stabili” istituzioni umane – ad esempio la famiglia, la scuola, la vita sociale, ecc. – fin da bambini, per renderci adatti a reagire correttamente alle situazioni della vita, ci costringono a sottoporci, in modo esplicito o implicito, a precisi esercizi linguistici, ad affrontare continue prove grammaticali, a sottostare a ferree regole espressive e sintattiche. Tali prove, ci addestrano e ci educano ad usare determinate regole espressive per esprimerci e per comprendere le espressioni altrui (siano esse verbali che scritte) e, di conseguenza, per agire (e reagire) correttamente nei confronti della realtà. “I bambini vengono educati a svolgere queste attività, a usare, nello svolgerle, queste parole, e a reagire in questo modo alle parole altrui”. Dire che il linguaggio, nel suo insieme, è un gioco (processo, attività), significa affermare che i giochi (i costrutti) in cui esso consiste, sono e possono essere creati, inventati e scelti indefinitamente. In base a ciò, appare dunque impossibile definire una volta per tutte “che cosa è”, o meglio, quale sia l’“essenza” del linguaggio, dove per “essenza” si deve intendere proprio ciò che vi è di unico e di fisso all’interno del linguaggio. Affermando ciò, Wittgenstein intende curare il mondo del linguaggio, e quindi il mondo umano, da un male ben preciso, che nella fattispecie si incarna nel dogma, ancora una volta appartenente al mondo dell’analisi logica, che postula ed esige come necessaria e inconfutabile l’esistenza di “una essenza che tutto abbraccia”. Il linguaggio è costituito da una vastissima molteplicità di casi o giochi particolari, ognuno diverso dall’altro, seppur, in verità, intercorra tra loro una certa somiglianza familiare che rende questi tra loro “imparentati”. I vari giochi linguistici che compongono il complesso mondo del linguaggio – al pari dei normali giochi quali i “ giuochi da scacchiera, giuochi di carte, giuochi di palla, gare sportive, e via discorrendo” –, sono tra loro in parte simili e in parte 578 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ludwig Wittgenstein

diversi. “Infatti, se li osservi [i vari giuochi linguistici], non vedrai certamente qualche cosa che sia comune a tutti, ma vedrai somiglianze, parentele, e anzi ne vedrai tutta una serie. […] Vediamo una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda. Somiglianze in grande e in piccolo”. Segni, parole, proposizioni possono e, di fatto, sono impiegati in innumerevoli modi. Una proposizione può essere impiegata (giocata), ad esempio, nella sua funzione assertiva, del tipo “Sotto il sole si suda”; oppure nella sua funzione interrogativa, del tipo “Si suda sotto il sole ?”; o ancora può essere impiegata come un ordine, del tipo “Devi sudare: vai subito sotto il sole!”, e via dicendo. Il linguaggio consiste in molteplici modi espressivi perché innumerevoli sono le “attività” e le situazioni della vita nelle quali il linguaggio è chiamato in gioco, ossia è chiamato, di volta in volta e caso per caso, ad essere parlato. Quando formulo o eseguo un comando, uso un modo di esprimermi differente da quello impiegato quando mi trovo a dover riferire un avvenimento ad un amico. A sua volta, il linguaggio impiegato per riferire un avvenimento, è diverso da quello usato per fare delle congetture personali intorno a questo. Wittgenstein, oltre a quelli appena citati, porta altri esempi per evidenziare le molteplici “attività” e situazioni concrete della vita quotidiana che determinano l’utilizzazione del linguaggio in altrettanti molteplici modi d’impiego: descrivere un oggetto in base al suo aspetto o alle sue dimensioni; costruire un oggetto in base a una descrizione (disegno); elaborare una ipotesi e metterla alla prova; rappresentare i risultati di un esperimento mediante tabelle e diagrammi; inventare una storia, e leggerla; recitare in teatro; cantare in girotondo; sciogliere indovinelli; fare una battuta; risolvere un problema di aritmetica applicata; tradurre da una lingua in un’altra; chiedere; ringraziare; imprecare; salutare; pregare. Tutti questi esempi servono per chiarire l’impossibilità 579 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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di pervenire ad una unica struttura logica del linguaggio, o ad una essenza generale, profonda e nascosta, che racchiuda in sé, in maniera compiuta e completa, il segreto immutabile della funzione del linguaggio. “È interessante confrontare la molteplicità degli strumenti del linguaggio e dei loro modi d’impiego, la molteplicità dei tipi di parole e di proposizioni, con quello che sulla struttura del linguaggio hanno detto i logici. (E anche l’autore del Tractaus logico-philosophicus.)” La molteplicità espressiva del linguaggio e la fine della filosofia Interrogandosi sul modo d’apprendimento del linguaggio, Wittgenstein discute il dogma della “teoria della raffigurazione”, secondo la quale noi arriviamo a dare un determinato significato ad una certa parola, ricavandolo direttamente dall’“oggetto” che la parola denomina, rappresenta e raffigura. Secondo tale teoria: ancora bambino, io, come ogni altro bambino, ho iniziato a comprende la funzione del linguaggio, quando mia madre o chi per lei, ha iniziato ad indicarmi una certa cosa comunicandomi, nello stesso tempo, che ciò che sta indicandomi si chiama “tavolo!”. Con l’andare del tempo, ripetendo questa operazione comunicativa e rendendola a me abituale, ho appreso il significato di quella parola. Tale metodo (o processo) d’apprendimento, può immaginarsi come se si fosse attaccato un cartellino, con su scritto la parola “tavolo”, al tavolo indicato. E ciò vale per ogni “oggetto” che si è imparato, di volta in volta, a denominare, sia esso un uomo, una forma, un colore, un dolore, uno stato d’animo, un numero, ecc. Orbene, tale teoria non è certamente errata, né tantomeno negabile come esistente, ma è un grave errore elevarla e incensarla come sola forma di apprendimento. È un errore, dunque, trasformarla in dogma. Questo metodo, infatti, non è altro che uno tra i tanti giochi che com580 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ludwig Wittgenstein

pongono quel molteplice e immenso campo di gioco che è il mondo del linguaggio. Chi sostiene che la “teoria della raffigurazione” sia l’unica forma di apprendimento linguistico, afferma esplicitamente che la funzione del linguaggio consiste nel denominare, sempre e soltanto, degli oggetti. Ma, si chiede Wittgenstein, a quale “oggetto” attaccherò il cartellino-parola “No!”, a quale il cartellino-parola “Via!” o “Ahi!”? E, di conseguenza, quale oggetto denomino quando impiego l’esclamazione “Aiuto!” piuttosto che “Bello!”? Siamo ancora disposti a credere che quando usiamo un linguaggio del genere stiamo denominando “oggetti”? Siamo ancora disposti a credere che il linguaggio serve sempre e soltanto per denominare “oggetti”? A meno che non si voglia incorrere in un palese errore, non possiamo affatto affermare ciò. Ci siamo così liberati di una fondamentale illusione. Il significato delle parole, dunque, non va rintracciato nell’“oggetto” che quelle parole denominano, ma nell’insieme dei loro differenti e molteplici “usi” o “funzioni”. “Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili: c’è un martello, una tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, la colla, chiavi e viti. – Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto differenti sono le funzioni delle parole. (E ci sono somiglianze qui e là.)”. Con le parole, con i segni, con le proposizioni – in una parola, con il linguaggio – facciamo innumerevoli cose, che non si limitano a denominare dei semplici oggetti, per quanto importanti essi siano. Con il linguaggio noi ci giochiamo, lo usiamo e lo impieghiamo in innumerevoli modi differenti ma tutti appartenenti, di diritto, alla grande famiglia del linguaggio. “E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte, ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati (un’immagine approssimativa potrebbe darla i mutamenti della 581 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

matematica)”. Il linguaggio, come la vita, è in continua evoluzione, è creazione diveniente e inarrestabile. “Immaginare un linguaggio significa immaginare una forma di vita”. In tal modo Wittgenstein intende, con forza, destare l’attenzione della filosofia, acché la finisca di perdersi in mondi ideali e immutabili. Che la filosofia si svegli dalla sue astruse quanto illuse speculazioni riguardanti l’ipotetica costituzione d’un linguaggio perfetto e definitivo. La filosofia ha perso di vista l’uso effettivo e concreto del linguaggio, perdendo, allo stesso tempo, la possibilità di comprendere la sua reale configurazione, e le contraddizioni e gli errori nei quali incappiamo quando impieghiamo scorrettamente, e con poca chiarezza, le parole. “Una delle fonti principali della nostra incomprensione è il fatto che non vediamo chiaramente l’uso delle nostre parole”. È necessario che la filosofia consideri il suo lavoro speculativo come descrizione quanto più chiara possibile del linguaggio quotidiano, per offrire i mezzi teorici mediante i quali superare le difficoltà linguistiche e gli errori grammaticali. Una volta che la filosofia affronterà il suo compito in questa maniera, si potrà finalmente affermare la fine di ogni reale problema e, di conseguenza, la fine di ogni sapere filosofico, anch’esso sorto, come ogni questione umana, da incomprensioni ed errori linguistici. “Non vogliamo raffinare o perfezionare in modo inaudito il sistema di regole per l’impiego delle nostre parole. La chiarezza cui aspiriamo è certo una chiarezza completa. Ma questo vuol dire soltanto che i problemi filosofici devono svanire completamente. La vera scoperta è quella che mi rende capace di smettere di filosofare quando voglio. – Quella che mette a riposo la filosofia, così che essa non è più tormentata da questioni che mettono in questione la filosofia stessa”.

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PAGINE ANTOLOGICHE

Il mondo1 Il mondo è tutto ciò che accade. – Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose. – Il mondo è determinato dai fatti e dall’essere essi tutti i fatti. – Ché la totalità dei fatti determina ciò che accade, ed anche tutto ciò che non accade. – I fatti nello spazio logico sono il mondo. – Il mondo si divide in fatti. – Qualcosa può accadere o non accadere e tutto il resto rimanere eguale. – Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose. […] – La sostanza è ciò che sussiste indipendentemente da ciò che accade. – Essa è forma e contenuto. – Spazio, tempo e colore (cromaticità) sono forme degli oggetti. – Solo se vi sono oggetti può esservi una forma fissa del mondo. – Il fisso, il sussistente e l’oggetto sono tutt’uno. – L’oggetto è il fisso, il sussistente; la configurazione è il vario, l’incostante. – La configurazione degli oggetti forma lo stato di cose. – Nello stato di cose gli oggetti sono interconnessi, come le maglie d’una catena. […] – La totalità degli stati di cose sussistenti è il mondo. – La totalità degli stati di cose sussistenti determina anche quali stati di cose non sussistono. – Il sussistere e non sussistere di stati di cose è la realtà. (Il sussistere di stati di cose lo chiamiamo anche un fatto po-

  Per questioni di economia, abbiamo omesso la numerazione decimale posta da Wittgenstein all’inizio di ogni proposizione, sostituendola con un trattino. Ben consci dell’avventatezza arbitraria operata, ci sembra opportuno rimandare all’originale versione del Tractatus logico-philosophicus, dove la numerazione suddetta, a detta dello stesso Wittgenstein, possiede un ruolo d’importanza fondamentale per la sua piena comprensione. 1

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

sitivo; il non sussistere, un fatto negativo.) – Gli stati di cose sono indipendenti l’uno dall’altro. – Dal sussistere o non sussistere d’uno stato di cose non può concludersi al sussistere o non sussistere d’un altro. – La realtà tutta è il mondo. […] L’immagine Noi ci facciamo immagini dei fatti. – L’immagine presenta la situazione nello spazio logico, il sussistere e non sussistere di stati di cose. – L’immagine è un modello della realtà. […] – L’immagine consiste nell’essere i suoi elementi in una determinata relazione l’uno con l’altro. – L’immagine è un fatto. […] – Ciò che ogni immagine, di qualunque forma essa sia, deve avere in comune con la realtà, per poterla raffigurare – correttamente o falsamente –, è la forma logica, ossia la forma della realtà. […] – Ogni immagine è anche un’immagine logica. (Invece, ad esempio, non ogni immagine è un’immagine spaziale.) – L’immagine logica può raffigurare il mondo. – […] Ciò che l’immagine rappresenta è il proprio senso. – Nella concordanza o non-concordanza del senso dell’immagine con la realtà consiste la verità o falsità dell’immagine. – Per riconoscere se l’immagine sia vera o falsa noi dobbiamo confrontarla con la realtà. – Dall’immagine soltanto non può riconoscersi se essa sia vera o falsa. – Un’immagine vera a priori non v’è. […] Il pensiero L’immagine logica dei fatti è il pensiero. – “Uno stato di cose è pensabile” vuol dire: Noi possiamo farci un’immagine di esso. – La totalità dei pensieri veri è un’immagine del mondo. – Il pensiero contiene la possibilità della situazione che esso pensa. Ciò che è pensabile è anche possibile. – Noi non possiamo pensare nulla di illogico, poiché altrimenti dovremmo pensare illogicamente. – Si diceva una volta: Dio può creare tutto, ma nulla che sia contro le leggi logiche. Infatti, d’un mondo “illogico” noi non potremmo dire quale aspetto esso avrebbe. – Qualcosa “contraddicente la logica” si può rappresentare nel linguag584 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ludwig Wittgenstein: pagine antologiche

gio non più di quanto, nella geometria, si possa rappresentare, mediante le sue coordinate, una figura contraddicente le leggi dello spazio; o dare le coordinate d’un punto inesistente. […] Il linguaggio Nel linguaggio comune avviene molto di frequente che la stessa parola designi in modo differente – dunque appartenga a simboli differenti –, o che due parole, che designano in modo differente, esteriormente siano applicate nella proposizione allo stesso modo. Così la parola “è” appare quale copula, quale segno d’eguaglianza e quale espressione dell’esistenza; “esistere”, quale verbo intransitivo, come “andare”; “identico”, quale aggettivo; noi parliamo di Qualcosa, ma anche del fatto che qualcosa avviene. (Nella proposizione “Franco è franco” – ove la prima parola è un nome di persona; l’ultima, un aggettivo – queste parole non hanno semplicemente significato differente, ma sono simboli differenti). – È così che facilmente nascono le confusioni più fondamentali (delle quali la filosofia tutta è piena). – Per evitare questi errori dobbiamo impiegare un linguaggio segnico, il quale li escluda non impiegando, in simboli differenti, lo stesso segno, e non impiegando, apparentemente nello stesso modo, segni che designano in modo differente. Un linguaggio segnico, dunque, il quale si conformi alla grammatica logica – alla sintassi logica. […] – Il pensiero è la proposizione munita di senso – La totalità delle proposizioni è il linguaggio. – L’uomo possiede la capacità di costruire linguaggi, con i quali ogni senso può esprimersi, senza sospettare come e che cosa ogni parola significhi. Così come si parla senza sapere come i singoli suoni siano prodotti. Il linguaggio comune è una parte dell’organismo umano, e non meno complicato di questo. È umanamente impossibile desumerne immediatamente la logica del linguaggio. Il linguaggio traveste il pensiero. Lo traveste in modo tale che dalla forma esteriore dell’abito non si può inferire la forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore dell’abito è formata a ben altri fini che al fine di riconoscere la forma del corpo. Le tacite intese per la comprensione del linguaggio comune sono enormemente complicate. – Le proposizioni e le domande che si sono 585 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

scritte su cose filosofiche sono per la maggior parte non false, ma insensate. Perciò a domande di questa specie noi non possiamo affatto rispondere, ma possiamo solo constatare la loro insensatezza. Le domande e le proposizioni dei filosofi si fondano per la maggior parte sul fatto che noi non comprendiamo la nostra logica del linguaggio. (Esse sono come la domanda, se il bene sia più o meno identico del bello). Né meraviglia che i problemi più profondi propriamente non siano problemi. – Tutta la filosofia è “critica del linguaggio”. […] La proposizione La proposizione è un’immagine della realtà. La proposizione è un’immagine della realtà quale noi la pensiamo. – A prima vista, la proposizione – quale, ad esempio, è stampata sulla carta – non sembra essere un’immagine della realtà della quale essa tratta. Ma, a prima vista, neppure la notazione musicale sembra essere un’immagine della musica, e neppure la nostra notazione grafica dei suoni (notazione fonetica mediante lettere dell’alfabeto) sembra essere un’immagine del nostro linguaggio fonico. Eppure questi linguaggi segnici si dimostrano immagini, anche nel senso consueto di questo termine, di ciò che rappresentano. […] – Per comprendere l’essenza della proposizione si pensi alla grafia geroglifica, la quale raffigura i fatti che descrive. E da essa è nata, senza perdere l’essenziale della raffigurazione, la grafia alfabetica. – Lo vediamo dal fatto che comprendiamo il senso del segno proposizionale senza che quel senso ci sia stato spiegato. – La proposizione è un’immagine della realtà: Infatti, io conosco la situazione da essa rappresentata se comprendo la proposizione. E la proposizione io la comprendo senza che mi si sia spiegato il senso di essa. – La proposizione mostra il suo senso. La proposizione mostra come le cose stanno, se essa è vera. E dice che le cose stanno così. – La realtà dev’essere fissata dalla proposizione sino al sì o no. All’uopo la realtà dev’essere descritta completamente dalla proposizione. La proposizione è la descrizione d’uno stato di cose. Come la descrizione descrive un oggetto secondo le proprietà esterne dell’oggetto, così la proposizione descrive la realtà secondo le proprietà interne della realtà. La proposizione costruisce un mondo con l’aiuto 586 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ludwig Wittgenstein: pagine antologiche

d’una armatura logica, e perciò dalla proposizione si può vedere come si comporta tutto ciò che è logico, se la proposizione è vera. Da una proposizione falsa si possono trarre conclusioni. […] La filosofia La totalità delle proposizioni vere è la scienza naturale tutta (o la totalità delle scienze naturali) – La filosofia non è una delle scienze naturali. (La parola “filosofia” deve significare qualcosa che sta sopra o sotto, non già presso, le scienze naturali). – Lo scopo della filosofia è il rischiaramento logico dei pensieri. La filosofia è non una dottrina, ma un’attività. – Un’opera filosofica consta essenzialmente di chiarificazioni. Il risultato della filosofia sono non “proposizioni filosofiche”, ma il chiarificarsi di proposizioni. La filosofia deve chiarire e delimitare nettamente i pensieri che altrimenti sarebbero torbidi e indistinti. – La psicologia non è più affine alla filosofia che una qualsiasi altra scienza naturale. La gnoseologia è la filosofia della psicologia. Non corrisponde forse il mio studio del linguaggio segnico a quello studio dei processi di pensiero, che i filosofi ritennero così essenziale per la filosofia della logica? Solo, essi s’irretirono per lo più in inessenziali ricerche psicologiche, e un pericolo analogo v’è anche con il mio metodo. – La teoria darwiniana non ha a che fare con la filosofia più che una qualsiasi altra ipotesi della scienza naturale. – La filosofia delimita il campo disputabile della scienza naturale. – Essa deve delimitare il pensabile e, con ciò, l’impensabile. Essa deve delimitare l’impensabile dall’interno attraverso il pensabile. – Essa significherà l’indicibile rappresentando chiaramente il dicibile. – Tutto ciò che possa essere pensato può essere pensato chiaramente. Tutto ciò che può formularsi può formularsi chiaramente. […] La logica Nostro principio è che ogni questione, che possa essere decisa dalla logica, deve potersi senz’altro decidere. (E se ci troviamo costretti a guardare il mondo per rispondere a un tale problema, questo mostra che siamo su una pista fondamentalmente errata). – L’“esperienza”, 587 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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che ci serve per la comprensione della logica, è non l’esperienza che qualcosa è così e così, ma l’esperienza che qualcosa è: Ma ciò non è un’esperienza. La logica è prima d’ogni esperienza – d’ogni esperienza che qualcosa è così. Essa è prima del Come, non del Che cosa. – E se così non fosse, come potremmo noi applicare la logica? Si potrebbe dire: Se vi fosse una logica anche se non vi fosse un mondo, come potrebbe mai esservi una logica, dato che un mondo v’è? […] – Tutte le proposizioni del nostro linguaggio comune sono di fatto, così come esse sono, in perfetto ordine logico. Quel quid semplicissimo che noi qui dobbiamo indicare è non una similitudine della verità, ma la verità stessa nella sua pienezza. (I nostri problemi sono non astratti, ma forse i più concreti che vi siano). […] – I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo. – La logica pervade il mondo; i limiti del mondo sono anche i limiti di essa. Noi non possiamo, dunque, dire nella logica: Questo e quest’altro v’è nel mondo, quello no. Infatti, ciò parrebbe presupporre che noi escludiamo certe possibilità, e questo non può essere, poiché richiederebbe che la logica trascendesse i limiti del mondo; solo così essa potrebbe contemplare questi limiti anche dall’altro lato. Ciò che noi non possiamo pensare, noi non lo possiamo pensare; né, di conseguenza, noi possiamo dire ciò che noi non possiamo pensare. […] – Le proposizioni della logica sono tautologie. – Le proposizioni della logica non dicono dunque nulla. (Esse sono le proposizioni analitiche). […] – Le proposizioni della logica descrivono l’armatura del mondo, o, piuttosto, la rappresentano. Esse non “trattano” di nulla. Esse presuppongono che i nomi abbiano significato, e che le proposizioni elementari abbiano senso: E questo è il loro nesso con il mondo. È chiaro che deve indicare qualcosa sul mondo il fatto che certi nessi di simboli – che per essenza hanno un determinato carattere – siano tautologie. In questo è il fatto decisivo. Dicemmo che nei simboli che usiamo qualcosa è arbitrario e qualcos’altro non è arbitrario. Nella logica solo quest’altro esprime. Ma ciò vuol dire: Nella logica, non siamo noi ad esprimere, con l’aiuto dei segni, ciò che vogliamo; nella logica è la natura stessa dei segni naturalmente necessari ad esprimere. Se noi conosciamo la sintassi logica d’un qualsiasi linguaggio segnico, sono già date tutte le proposizioni della logica. […] – Ecco perché in logica non possono mai esservi sorprese. […] 588 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Ludwig Wittgenstein: pagine antologiche

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Il Mistico Tutte le proposizioni sono di pari valore. – Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore. Se un valore che abbia valore v’è, esso dev’esser fuori d’ogni avvenire ed essere-così. Infatti, ogni avvenire ed essere-così è accidentale. Ciò che li rende non-accidentale non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev’essere fuori del mondo. – Né, quindi, vi possono essere proposizioni dell’etica. Le proposizioni non possono esprimere nulla di ciò che è più alto. […] – Se il volere buono o cattivo àltera il mondo, esso può alterare solo i limiti del mondo, non i fatti, non ciò che può essere espresso dal linguaggio. In breve, il mondo allora deve perciò divenire un altro mondo. Esso deve, per così dire, decrescere o crescere in toto. Il mondo del felice è un altro mondo che quello dell’infelice. – Come pure alla morte il mondo non si àltera, ma termina. – La morte non è evento della vita. La morte non si vive. Se, per eternità, s’intende non infinita durata nel tempo, ma intemporalità, vive eterno colui che vive nel presente. La nostra vita è così senza fine, come il nostro campo visivo è senza limiti. – L’immortalità temporale dell’anima dell’uomo, dunque l’eterno suo sopravvivere anche dopo la morte, non solo non è per nulla garantita, ma, a supporla, non si consegue affatto ciò che, supponendola, si è sempre perseguíto. Forse è sciolto un enigma perciò che io sopravviva in eterno? Non è forse questa vita eterna così enigmatica come la presente? La risoluzione dell’enigma della vita nello spazio e nel tempo è fuori dello spazio e del tempo. (I problemi da risolvere qui non sono problemi della scienza naturale). – Come il mondo è, è affatto indifferente per ciò che è più alto. Dio non rivela sé nel mondo. – I fatti appartengono tutti soltanto al problema, non alla risoluzione. […] – D’una risposta che non si può formulare non può formularsi neppure la domanda. L’enigma non v’è. Se una domanda può porsi, può anche avere una risposta. […] – Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati. Certo, allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta. – La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparire di 589 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

esso. (Non è forse per questo che degli uomini ai quali il senso della vita divenne, dopo lunghi dubbi, chiaro, non seppero poi dire in che cosa consistesse questo senso?) – Ma v’è dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il Mistico. – Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: Nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale – dunque, qualcosa che con la filosofia nulla ha a che fare –, e poi, ogni volta che un altro voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l’altro – egli non avrebbe la sensazione che noi gli insegniamo filosofia –, eppure esso sarebbe l’unico metodo rigorosamente corretto. – Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo essere asceso su essa). Egli deve trascendere queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo. – Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere. (L. Wittgenstein, Tractatus logicophilosophicus, Einaudi, Torino 2009, pp. 25-51, 86-97, 106-109) da Ricerche filosofiche 1. Agostino, Confessioni, I, 8: “Quando [gli adulti] nominavano qualche oggetto, e, proferendo quella voce, facevano un gesto verso qualcosa, li osservavo, e ritenevo che la cosa si chiamasse con il nome che proferivano quando volevano indicarla. Che intendessero ciò era reso manifesto dai gesti del corpo, linguaggio naturale di ogni gente: dall’espressione del volto e dal cenno degli occhi, dalle movenze del corpo e dall’accento della voce, che indica le emozioni che proviamo quando ricerchiamo, possediamo, rigettiamo o fuggiamo le cose. Così, udendo spesso le stesse parole ricorrere, al posto appropriato, in proposizioni differenti, mi rendevo conto, poco a poco, di quali cose esse fossero i segni, e, avendo insegnato alla lingua a pronunziarle, esprimevo ormai con esse la mia volontà”. In queste parole troviamo, così mi sembra, una determinata immagine della natura del linguaggio umano. E precisamente questa: Le parole del linguaggio denominano oggetti – le proposizioni sono con590 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ludwig Wittgenstein: pagine antologiche

nessioni di tali denominazioni. ― In quest’immagine del linguaggio troviamo le radici dell’idea: Ogni parola ha un significato. Questo significato è associato alla parola. È l’oggetto per il quale la parola sta. Di una differenza fra tipi di parole Agostino non parla. Chi descrive in questo modo l’apprendimento del linguaggio pensa, così credo, anzitutto a sostantivi come “tavolo”, “sedia”, “pane” e ai nomi di persona, e solo in un secondo tempo ai nomi di certe attività e proprietà; e pensa ai rimanenti tipi di parole come a qualcosa che si accomoderà. Pensa ora a quest’impiego del linguaggio: Mando uno a far la spesa. Gli do un biglietto su cui stanno i segni: “cinque mele rosse”. Quello porta il biglietto al fruttivendolo; questi apre il cassetto su cui c’è il segno “mele”; quindi cerca in una tabella la parola “rosso” e trova, in corrispondenza ad essa, un campione di colore; poi recita la successione dei numeri cardinali – supponiamo che la sappia a memoria – fino alla parola “cinque” e ad ogni numero tira fuori dal cassetto una mela che ha il colore del campione. ― Così, o pressapoco così, si opera con le parole. ― “Ma come fa a sapere dove e come deve cercare la parola ‘rosso’, e che cosa deve fare con la parola ‘cinque’?” ― Bene, suppongo che agisca nel modo che ho descritto. A un certo punto le spiegazioni hanno termine. – Ma che cos’è il significato della parola “cinque”? – Qui non si faceva parola di un tale significato; ma solo del modo in cui si usa la parola “cinque”. 2. Quel concetto filosofico di significato è al suo posto in una rappresentazione primitiva del modo e della maniera in cui funziona il linguaggio. Ma si può anche dire che sia la rappresentazione di un linguaggio più primitivo del nostro. Immaginiamo un linguaggio per il quale valga la descrizione dataci da Agostino: Questo linguaggio deve servire alla comunicazione tra un muratore, A, e un suo aiutante, B. A esegue una costruzione in muratura; ci sono mattoni, pilastri, lastre e travi. B deve porgere ad A le pietre da costruzione, e precisamente nell’ordine in cui A ne ha bisogno. A questo scopo i due si servono di un linguaggio consistente delle parole: “mattone”, “pilastro”, “lastra”, “trave”. A grida queste parole; – B gli porge il pezzo che ha imparato a portargli quando sente questo grido. ― Considera questo come un linguaggio primitivo completo. 591 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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7. Nella pratica dell’uso del linguaggio (2) una delle parti grida alcune parole e l’altra agisce conformemente ad esse; invece nell’insegnamento del linguaggio si troverà questo processo: L’allievo nomina gli oggetti. Cioè pronuncia la parola quando l’insegnante gli mostra quel pezzo. – Anzi, qui si troverà un esercizio ancora più semplice: lo scolaro ripete le parole che l’insegnante gli suggerisce. ― Entrambi questi processi somigliano al linguaggio. Possiamo anche immaginare che l’intiero processo dell’uso delle parole, descritto nel §2, sia uno di quei giuochi mediante i quali i bambini apprendono la loro lingua materna. Li chiamerò “giuochi linguistici” e talvolta parlerò di un linguaggio primitivo come di un giuoco linguistico. E si potrebbe chiamare giuoco linguistico anche il processo del nominare i pezzi, e quello consistente nella ripetizione, da parte dello scolaro, delle parole suggerite dall’insegnante. Pensa a taluni usi delle parole nel giuoco del giro-giro-tondo. Inoltre chiamerò “giuoco linguistico” anche tutto l’insieme costituito dal linguaggio e dalle attività di cui è intessuto. 27. “Denominiamo le cose, e così possiamo parlarne. Riferirci ad esse nel discorso”. – Come se con l’atto del denominare fosse già dato ciò che faremo in seguito. Come se ci fosse una sola cosa che si chiama: “parlare delle cose”. Invece, con le nostre proposizioni, facciamo le cose più diverse. Si pensi soltanto alle esclamazioni. Con le loro funzioni diversissime. ACQUA! VIA! AHI! AIUTO! BELLO! NO! Adesso sei ancora disposto a chiamare queste parole “denominazioni di oggetti”? […] 119. I risultati della filosofia sono la scoperta di un qualche schietto non-senso e di bernoccoli che l’intelletto si è fatto cozzando contro i limiti del linguaggio. Essi, i bernoccoli, ci fanno comprendere il valore di quella scoperta. 123. Un problema filosofico ha la forma: “Non mi ci raccapezzo”. 124. La filosofia non può in nessun modo intaccare l’uso effettivo del linguaggio; può, in definitiva, soltanto descriverlo. Non può nemmeno fondarlo. Lascia tutto com’è. Lascia anche la matematica com’è, 592 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ludwig Wittgenstein: pagine antologiche

e nessuna scoperta matematica può farla progredire. Un “problemachiave di logica matematica” è per noi un problema di matematica, come qualsiasi altro. 125. Non è affare della filosofia risolvere la contraddizione per mezzo di una scoperta matematica o logico-matematica; essa deve invece rendere perspicuo lo stato della matematica che ci inquieta, lo stato della matematica prima della soluzione della contraddizione. (E con ciò non si elude la difficoltà.) Il fatto fondamentale, qui, è che noi fissiamo certe regole, una tecnica per un gioco, e poi, quando seguiamo le regole, le cose non vanno come avevamo supposto. Che dunque ci impigliamo, per così dire, nelle nostre proprie regole. Questo impigliarsi nelle nostre regole è appunto ciò che vogliamo comprendere, cioè, ciò di cui vogliamo ottenere una visione chiara. Esso getta una luce sul nostro concetto di intendere. Infatti, in quei casi, le cose vanno diversamente da come avevamo inteso, previsto. Quando, per esempio, compare una contraddizione, diciamo appunto: “Io non l’ho intesa così”. Lo stato civile della contraddizione, o il suo stato nel mondo civile: questo è il problema filosofico. 130. I nostri chiari e semplici giuochi linguistici non sono studi preparatori per una futura regolamentazione del linguaggio, – non sono, per così dire, prime approssimazioni nelle quali non si tiene conto dell’attrito e della resistenza dell’aria. I giuochi linguistici sono piuttosto termini di paragone, intesi a gettar luce, attraverso somiglianze e dissomiglianze, sullo stato del nostro linguaggio. 132. Vogliamo mettere ordine nella nostra conoscenza dell’uso del linguaggio: un ordine per uno scopo determinato; uno dei molti ordini possibili; non l’ordine. A tale scopo metteremo continuamente in rilievo quelle distinzioni che le nostre comuni forme linguistiche ci fanno facilmente trascurare. Da ciò può sorgere l’apparenza che consideriamo nostro compito riformare il linguaggio. Una siffatta riforma volta a determinati scopi pratici, come il miglioramento della nostra terminologia al fine di evitare fraintendimenti nell’uso pratico, è pienamente possibile. Ma non sono questi i casi con i quali abbiamo da fare. Le con593 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

fusioni di cui ci occupiamo sorgono, per così dire, quando il linguaggio gira a vuoto, non quando è all’opera. 133. Non vogliamo raffinare o perfezionare in modo inaudito il sistema di regole per l’impiego delle nostre parole. La chiarezza cui aspiriamo è certo una chiarezza completa. Ma questo vuol dire soltanto che i problemi filosofici devono svanire completamente. La vera scoperta è quella che mi rende capace di smettere di filosofare quando voglio. – Quella che mette a riposo la filosofia, così che essa non è più tormentata da questioni che mettono in questione la filosofia stessa. – Invece si indica un metodo dando esempi, e la serie degli esempi si può interrompere. ― Vengono risolti problemi (eliminate difficoltà), non un problema. Non c’è un metodo della filosofia, ma ci sono metodi; per così dire, differenti terapie. (L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 2009)2

2   La numerazione originale riportata all’inizio di ogni proposizione, rende superfluo indicare le pagine dalle quali tali proposizioni sono tratte.

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Karl Jaspers

La via filosofica della soluzione è difficile, perché non offre nessuna concretizzazione né garanzia, perché nessuna istanza del mondo può dire su di lei un’ultima parola. Assunto nel regno filosofico, l’uomo filosofante non può seguire nessun modello, non può dipendere da nessuna autorità, non può concepire mai la verità come una dottrina, né essere debitore della sua salvezza a qualche rivelazione storicamente data. Egli deve condurre l’indagine da solo, deve prendere su di sé la propria responsabilità. Siccome nessuno l’ha assunto nel regno dello spirito filosofico, egli deve giustificare da sé la sua presenza; siccome nessuno in esso l’ha gettato e stabilito, egli non ha altro giudice se non la propria coscienza, che lo sottopone ad esame ogni qualvolta soddisfa o manca all’impegno. Eppure su questa via del filosofare c’è un entusiasmo silenzioso ed attraente. Chi ha compreso che cosa accada nella filosofia, che cosa gli uomini, pensando, vogliono raggiungere, costui è aperto per il segreto che si manifesta. Ciò che i filosofi consegnarono alla tradizione, deve essere scoperto da ciascuno personalmente e da solo, attraverso la propria attività interiore e la propria esperienza. La scoperta del segreto filosofico, però, ha luogo sempre e solo attraverso il proprio filosofare. Nessuna scoperta è comunicabile all’altro in modo identico, ma ognuno deve trovarsi da sé nel regno dello spirito. Jaspers 595 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Caratteri generali dell’esistenzialismo: uomo, mondo, possibilità L’esistenzialismo è la corrente filosofica contemporanea, che ha come proprio oggetto d’analisi l’uomo e la sua esistenza nel mondo. È il rapporto che intercorre tra uomo e mondo, ciò che l’esistenzialismo intende indagare e interpretare nella sua profonda e approfondita analisi filosofica. In che modo l’uomo si trova ad essere nel mondo? In che modo conosce, si emoziona e agisce nel mondo? In che modo l’uomo sviluppa la totalità della sua vita nell’essere del mondo circostante? Questi sono i temi e le domande basilari, sui quali i filosofi esistenzialisti, con stili e intenti particolari, pongono attenzione, al fine di giungere a chiarificazioni e risposte autentiche. L’uomo è l’essere che vive nel mondo, e in questo compie tutte le esperienze, materiali e spirituali, della sua vita. È nel mondo che l’uomo ama e odia, che si dispera e si diletta, che apprende e dimentica, che distrugge e costruisce. L’uomo si rapporta al mondo attivamente, lo abita e lo trasforma, lo conosce e lo esplora, fa sentire la sua presenza decisiva e in esso tenta di realizzare le sue possibilità esistenziali. Allo stesso tempo, il mondo si manifesta all’uomo, fa sentire la sua forza e il suo peso, determinando e condizionando l’uomo in ciò che può e non può compiere. Il mondo accoglie, al suo interno, l’esistenza dell’essere umano, offrendogli lo spazio e il tempo per vivere e agire, per giocare la propria vita, e, allo stesso tempo, delimitando, in modo netto, lo spazio e il tempo giocabile. Cade ogni visione che – vedi l’idealismo hegeliano – considera il mondo come ciò che è prodotto dall’uomo e dalla sua coscienza. Il mondo non è nell’uomo, non è prodotto dalla coscienza umana, bensì, nell’esistenzialismo, è ciò che trascende e sta fuori all’essere umano. Di conseguenza cade la pretesa di affrontare o risolvere nella coscienza dell’uomo la totalità dei problemi e degli aspetti del mondo e della vita umana. 596 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Karl Jaspers

L’esistenzialismo riscopre l’importanza filosofica dell’opera di Kierkegaard, e pone l’attenzione sulla fondamentale nozione di “possibilità”: l’esistenza umana è essenzialmente possibilità. L’uomo è aperto a innumerevoli possibilità, la propria esistenza è caratterizzata dalla totale libertà. Riscoprendo nella sua interezza la speculazione di Kierkegaard, l’esistenzialismo pone l’accento sul lato angosciante e terrificante che l’analisi kierkegaardiana, discorrendo ampiamente sulla “possibilità” del singolo individuo, aveva portato alla luce, in tutta la sua pregnante incisività. Poiché l’esistenza umana è possibilità, l’uomo vive sempre sotto la minaccia imminente e lo spavento angosciante che ogni cosa possa essere inghiottita nel nulla e dissolta per sempre. La possibilità, per il suo carattere assoluto, così come implica la possibilità che qualcosa si verifichi positivamente, implica la possibile nullificazione di qualunque elemento o aspetto esistente, in primis la nostra stessa esistenza. Oltre alla nostra esistenza, ogni progetto o aspettativa, in quanto appartiene al regno della possibilità umana, oscilla senza posa tra la riuscita e il fallimento, tra la realizzazione e la dissoluzione. Dal sentire questa totale mancanza di certezza, dal sentire il nulla che minaccia ogni cosa della nostra esistenza, sorge il sentimento vertiginoso dell’angoscia. La minaccia imminente rappresentata dalla possibilità nullificante, non è niente di concreto, non consiste in niente di afferrabile nella realtà, eppure è sentita dall’individuo come certa e ineliminabile. Il nulla radicale che ci rivela l’angoscia, è avvertito come ciò che rende ogni cosa umana incerta, vana e, in fondo, insignificante, se non proprio assurda. Nessun riparo sicuro, nessun rimedio definitivo, nessun rifugio incrollabile è a disposizione o può essere approntato. Nessun senso stabile e compiutamente positivo è in grado di acquietare l’uomo una volta per tutte. Questo perché l’esistenza umana, in quanto possibilità assoluta, in quanto oscillazione indefessa tra il positivo e il negativo, tra l’essere e il non essere, tra la vita e la morte, 597 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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non rende possibile nessuna stabilità e garanzia. E, soprattutto, nessuna risposta ultima, capace di acquietarci e salvarci dall’orrore terrificante del nulla, radice di ogni possibilità umana, di ogni esistenza. Sentirsi immersi nel nulla – dal quale ogni cosa vi è uscita, e nel quale, presto o tardi, ogni cosa dovrà inevitabilmente farvi ritorno –, fa restare senza parole risolutive, senza rimedi pacificanti, senza verità capaci di salvarci dall’angoscia e dalla disperazione. L’uomo è impotente, il nulla lo sovrasta e lo minaccia da tutte le parti, perché l’esistenza è ex-sistere, è uno stare (sistere) fuori (ex) di sé, ossia è un provenire da quell’“altro” che è il nulla, che sta prima della nostra nascita, e un riconsegnarsi all’“altro da sé” che è il nulla che ci aspetta dopo essere morti. L’esistenza, dunque, è uno stare fuori dal niente, un abitare al di fuori del nulla, sentendo, con angoscia lacerante, la continua minaccia di questo niente e di questo nulla, che lambisce senza posa il nostro passato, il nostro presente e il nostro futuro. Contro l’ottimismo hegeliano Ciò che caratterizza essenzialmente l’esistere, è la vertigine paralizzante, l’angoscia soffocante e l’orrore terrificante che investe l’uomo posto di fronte al nulla, radice di ogni possibilità, di ogni libertà, di ogni esistenza umana. Viene così alla luce il lato problematico del rapporto uomomondo, perché dire che l’esistenza umana, che si rapporta sempre col mondo, è possibilità, significa negare, con estrema decisione, ogni garanzia di successo infallibile riguardante tale rapporto. Siccome tutto è possibile, da un lato nulla vieta che l’uomo realizzi i suoi progetti e aspirazioni nel mondo, ma dall’altro nulla vieta, ed è qui che l’esistenzialismo pone l’accento, che l’uomo veda naufragare e andare incontro allo scacco definitivo ogni tentativo di realizzazione nel mondo, ogni ricerca e intenzione, ogni 598 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Karl Jaspers

agognato progetto esistenziale. In questo senso dobbiamo intendere le sottolineature dell’esistenzialismo riguardanti l’aspetto angosciante, insicuro e instabile dell’esistenza. È in questo senso, inoltre, che va intesa la messa in crisi dell’“ottimismo romantico” operata dall’esistenzialismo. Secondo la visione romantico-ottimistica, portata alle sue massime conseguenze dall’idealismo hegeliano, un principio infinito – la Ragione, lo Spirito o l’Idea assoluta – costituisce ogni aspetto del reale. Essendo il creatore di ogni cosa, la totalità dell’essere si trova dominata e sorretta da questo principio infinito, ogni cosa esistente, quindi, si trova ad essere garantita e determinata in modo infallibile da tale potenza assoluta e onnicomprensiva. In tal modo Hegel arrivava a concludere che l’uomo, in quanto massimo rappresentate della Ragione infinita, aveva in se stesso, nella coscienza, nella forza onniproducente del pensiero, quel Dio che, soltanto per immaturità speculativa, era stato posto lontano e distante nel regno dei cieli. Contro questa visione idealistica, che fa dell’uomo, in quanto coscienza, un essere essenzialmente infinito, l’esistenzialismo afferma il carattere finito e mortale dell’essere umano, il suo essere limitato nelle capacità e nei suoi poteri, nel pensare come nell’agire. L’uomo è abbandonato e “gettato nel mondo”, in una lotta incessante, in una battaglia aperta a qualunque risultato, alla vittoria come alla sconfitta, al successo gioioso come allo scacco annichilente. Il mondo può nullificare ogni possibilità e ogni progetto umano, proprio perché l’uomo non è né il produttore né il padrone del mondo. Nessun ottimismo è più possibile, una volta esperita l’instabilità e l’impotenza dell’essere umano e la finitezza dell’esistenza nel mondo. La scelta inderogabile del singolo Unitamente alla possibilità, l’esistenzialismo evidenzia l’importanza della “scelta” e della “decisione” personale. 599 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

L’uomo sceglie e decide da sé ciò che ha da essere. A nessun altro uomo, a nessun potere umano, come a nessuna potenza sovrumana, può essere derogato il compito di fare di un individuo ciò che vuole e ciò che ha da essere. L’uomo sceglie e decide da sé come essere se stesso. L’uomo non possiede affatto una “natura” immutabile, una “essenza” già data, un “modo d’essere” prestabilito, a cui adeguarsi e conformarsi passivamente. Non vi è un principio fisso, non vi è una essenza definitiva, non vi è un “esser uomo” generale, che si pone di fronte all’essere umano come il fine eterno da dover realizzare nell’esistenza terrena. L’uomo non deve divenire nulla di già stabilito e definito, non deve subire e conformarsi a nessuna “essenza” che dalla notte dei tempi si erge a modello ideale da realizzare compiutamente. L’esistenzialismo nega tutto ciò, affermando che l’esistenza dell’uomo, in quanto libertà e possibilità, è divenire, apertura indeterminata, orizzonte indefinibile. L’esistenza dell’uomo è caratterizzata dall’incessante produzione e dall’insopprimibile trasformazione di ogni aspetto esistenziale ed è, soprattutto, produzione e trasformazione incessante della propria essenza, del proprio “sé”, originale, unico, irripetibile. Non è mai un’ipotetica essenza, dai tradizionali sistemi filosofici presupposta come immutabile e definitiva, a porsi come traguardo (previsto) e fine (anticipato) da realizzare, ma è sempre l’esistenza dell’individuo, che è possibilità aperta e sviluppo libero, che crea e trasforma continuamente il proprio essere. In tal modo, l’esistenzialismo intende negare ogni sistema filosofico, che pretenda possedere una verità immutabile e inconfutabile, che la totalità degli uomini è tenuta a rispettare e attuare. Affermare l’assoluta libertà dell’essere umano, significa affermare che l’uomo è nella sua essenza divenire, perché la libertà rappresenta la forma più radicale del divenire, nemico d’ogni immutabilità. È all’interno del discorso sull’assoluta libertà di decisione e di scelta, che l’esistenzialismo introduce il concetto o 600 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Karl Jaspers

la categoria del “singolo”, altro aspetto cardine della sua filosofia. Categoria che abbiamo già incontrato in Kierkegaard e in Stirner, i quali si sono strenuamente sforzati ad affermare il singolo come il vero e solo soggetto della realtà umana. Ciò che costituisce autenticamente la realtà umana non sono gli aspetti generali che gli uomini hanno tra loro in comune, bensì è la particolarità soggettiva e l’unicità irripetibile che appartiene ad ogni singolo uomo, ad ogni individuo, ad ogni persona. Ogni uomo è una “eccezione” a sé stante, storicamente individuata, ogni singola esistenza si oppone a qualsiasi presunta e atemporale generalità umana. Ogni vita è assolutamente diversa da tutte le altre. È solo nell’individuo, preso nella sua assoluta singolarità e inconfondibile unicità, che si attua la libera scelta di essere ciò che si è, l’incondizionata decisione di essere se stesso, l’affermazione della propria autentica esistenza. È in riferimento alla categoria del singolo e alla problematica situazione dell’uomo nel mondo, che si deve intendere la grande attenzione che la maggior parte dei filosofi esistenzialisti hanno posto sull’opera di Nietzsche. È infatti Nietzsche il filosofo che, più di tutti, nella sua opera smaschera gli inganni della morale e le fantasie illusorie della metafisica propagatesi per millenni di storia. Tali inganni e illusioni sono responsabili, a detta di Nietzsche, d’aver causato quell’oblio nocivo e mortifero, che ha fatto dell’uomo un essere ormai dimentico della sua libera e inderogabile volontà, del suo essere padrone inviolabile del proprio destino e della propria vita. L’uomo contemporaneo preso di mira dal discorso nicciano – il cosiddetto “nichilista” – ha distrutto ogni valore e potenza, accasciandosi a sopravvivere sottomesso ad una miriade di entità astratte quali Dio, lo Stato, l’Umanità, il Bene, ecc. Così facendo si è ridotto, come massima conseguenza, a negare ogni valore alla propria singolare esistenza, dissolvendo la propria autenticità e unicità esistenziale nell’oceano piatto dei piccoli e deboli uomini, gli uomini contemporanei, il gregge dei nichilisti. 601 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

Da queste premesse fondamentali parte l’esistenzialismo, che proverà ad indicare quali chiarificazioni filosofiche siano necessarie affinché l’individuo recuperi il senso della sua autentica e inderogabile esistenza. Karl Jaspers: vita e opere Karl Theodor Jaspers nasce ad Oldenburg (Germania) il 23 febbraio 1883. Iscrittosi alla facoltà di giurisprudenza, ben presto si rende conto di non avere una forte propensione per gli studi giuridici e decide di iscriversi alla facoltà di medicina. Laureatosi nel 1909, comincia a lavorare ad Heidelberg come ricercatore volontario, maturando, nel corso della sua attività, l’idea di modificare l’approccio che si attuava nei confronti dei malati mentali. Nel 1913 pubblica Psicopatologia generale, scritto che gli fece guadagnare un incarico temporaneo presso l’Università di Heidelberg, mentre grazie al secondo scritto, Psicologia delle visioni del mondo (1919), ottenne la cattedra di Filosofia nel 1921. Durante il suo insegnamento universitario, pubblica Filosofia (1932), scritto uscito in tre volumi. Nel 1937 per la sua opposizione al nazismo, gli fu tolta la cattedra; da allora, Jaspers avrebbe continuato a vivere nascosto ad Heidelberg, dedicandosi alla produzione letteraria. Nel 1947 pubblica Sulla verità, anno in cui accetta di tenere delle lezioni presso l’Università di Basilea; l’anno dopo decide di trasferirsi definitivamente a Basilea, rimanendovi fino alla morte, avvenuta il 26 febbraio 1969. Dalla scienza alla filosofia Karl Jaspers, insieme a Martin Heidegger, è il filosofo che inaugura la vivace stagione dell’esistenzialismo. Ciò a cui Jaspers dà vita, é un pensiero perfettamente in linea 602 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Karl Jaspers

con quello fin qui anticipato rispetto all’essere umano e al suo rapporto con lo “stupendo e crudele” mondo, alla categoria della possibilità, così come al ruolo fondamentale della libera scelta e della decisione inderogabile del singolo. Questi elementi portanti, che caratterizzano l’esistenzialismo in generale, da Jaspers vengono osservati alla luce d’uno sguardo rivolto a ciò che sta oltre le cose umane e del mondo. Lo sguardo di Jaspers – e qui si manifesta l’essenza del suo discorso –, è sempre rivolto alla “Trascendenza”, a ciò che supera e resta lontano dall’esistenza dell’uomo, dal suo “esserci” nel mondo. Jaspers afferma, riferendosi alla sua “filosofia dell’esistenza”, che “la filosofia dell’esistenza è essenzialmente metafisica”. Essa intende rivolgersi, partendo dalla reale e concreta esistenza umana, a ciò che sta oltre (meta) la realtà fisica, a ciò che non è visibile, rintracciabile ed esplicabile nel mondo empirico. Per addentrarci nell’opera jaspersiana, riveste particolare importanza sottolineare la decisione di Jaspers d’abbandonare gli impegni scientifici, volti all’indagine delle malattie mentali (o psicopatologie), per rivolgersi esclusivamente alla speculazione filosofica. Non si tratta d’un semplice cambio d’interessi, bensì questa decisione rivela una precisa presa di posizione che Jaspers non abbandonerà mai nel corso della sua prolifica attività filosofica. Scegliendo la filosofia, Jaspers decide d’affrontare un’indagine capace di cogliere la totalità degli aspetti dell’esistenza umana. Egli intende indagare le esperienze intuitive, la realtà della natura, i “dati reali della vita”, le tradizioni sociali e religiose, le grandiose opere dei filosofi (occidentali e orientali), e quant’altro ancora sia in grado di far “emergere l’esistenza” in tutta la sua ricchezza e particolarità. Questa ricerca, che possiede una portata d’indagine vastissima, intende spingersi “sino ai limiti entro i quali si pongono i problemi a cui nessuna scienza sa dare risposta”. La filosofia è universale, “nulla esiste che non la riguardi”. “Chi filosofa s’interessa a tutto. Ma nessun uomo 603 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

può sapere ogni cosa”. Da quanto detto ricaviamo dati non trascurabili: da un lato vi è il sapere scientifico, che indaga intellettualmente le cose del mondo, ma che non è in grado di comprendere determinati “punti limiti”; dall’altro vi è la filosofia che, seppur rivolta alla totalità delle manifestazioni della vita, seppur “onnicomprensiva”, in quanto opera umana non è certo “onnisciente” (essendo l’onniscienza un attributo divino). La “filosofia dell’esistenza” che ha in mente Jaspers, fornisce importanti risposte, “ma nessuna risposta sarà l’ultima; ognuna condurrà a nuovi problemi, finché l’ultimo problema resterà invero senza risposta, ma non per questo sarà un problema vano”. Quel che la filosofia non riesce a risolvere, il problema che resta senza risposta, riguarda il fondamento di ogni cosa, riguarda cioè ciò che Jaspers chiama “Essere in sé” (o Trascendenza). Quest’ultimo, in quanto “in sé”, al pari della “cosa in sé” kantiana, rappresenta l’inconoscibile assoluto che sta a fondamento di ogni cosa, e rispetto al quale, ancora in analogia con la concezione kantiana, ogni cosa del mondo si presenta come “fenomeno” di quel “noumeno” inconoscibile e trascendente che è appunto l’Essere (in sé). “La Trascendenza è presente come l’essere vero e proprio, grazie al quale, ogni pensiero, ogni forma, ogni immagine, ogni empirica realtà possono costituirsi”. Sbaglia la scienza nel considerare il mondo come la totalità dell’Essere, perché questo, in quanto fondamento d’ogni cosa, è ciò che in nessun modo è rintracciabile nel mondo, nelle cose, negli “oggetti fenomenici”. “La sventura dell’umana esistenza comincia allorché l’oggetto della conoscenza scientifica è assunto come l’Essere in sé, e quanto non è scientificamente conoscibile è considerato come non esistente. La scienza diviene allora superstizione scientifica e questa, sotto le mentite spoglie della scienza, erige un cumulo di stoltezze sotto le quali né scienza né filosofia né fede possono più esistere”. 604 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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L’orientazione nel mondo e l’analisi dell’esserci Se la scienza si arresta di fronte a determinati “punti limiti”, la filosofia, dal canto suo, non può che tacere in merito all’“ultimo problema” riguardante l’Essere in sé, che resterà per sempre senza risposta. Quali sono i “punti limiti” di cui nessuna scienza sa dare risposta? Ebbene, sono quei punti nei quali “proviamo la stupefazione di fronte all’Essere. Là noi ci domandiamo quale sia il senso e il compito del nostro Esserci”. L’“Esserci” di cui andiamo alla ricerca del senso autentico e del compito fondamentale che gli appartiene, è la vita dell’individuo, l’esistenza della persona umana. La scienza, in quanto sapere razionale, seppur utile e indispensabile per fornirci un notevole numero di nozioni e strumenti tecnici, non è in grado di penetrare all’interno della vita dell’individuo, non è in grado di “guidarci al fondamento delle cose” umane. Per far ciò, bisogna compiere un vero e proprio “salto”, di ispirazione kierkegaardiana, in quella “diversa forma di pensiero” che è la filosofia, che, a differenza del sapere scientifico, non è “accessibile in modo identico ad ogni intelletto”, perché “costituisce quel modo di pensare che, in quanto concezione globale, diviene l’essenza stessa di chi la pratica”. La scienza è il sapere che si rivolge agli aspetti particolari del mondo, ed è “universalmente valido”, ossia è un sapere oggettivo, “chiaro e valido per tutti” , “anonimo”. La filosofia invece, in quanto “chiarificazione dell’esistenza”, mira alla globalità dell’essere, e intende porsi come sapere che fa appello alla partecipazione attiva e concreta del singolo individuo, al quale si richiede di mettere completamente in gioco la propria esistenza. “L’acqua del sapere diviene nutrimento spirituale solo quando non l’intelletto soltanto, ma l’uomo stesso si appropria, con l’attività del pensiero, di quel sapere. L’aria pura del filosofare diviene corroborante solo attraverso la realtà dell’esistenza che vive respirando in essa. […] Ogni singolo deve compiere il passo dal 605 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

discorrere su qualcosa o di qualcosa alla viva, piena partecipazione”. La scienza si interessa delle “cose” del mondo, ha a che fare con oggetti naturali e oggettivazioni intellettuali, che si traducono in proposizioni logico-matematiche, ossia in determinate “leggi” grazie alle quali è possibile attuare una radicale “matematizzazione” della realtà. Lo stesso essere umano è dalla scienza considerato come un elemento o cosa del mondo; lo stesso individuo è considerato come oggetto tra gl’innumerevoli oggetti del mondo, sottoposto, al pari di ogni cosa fisica, a determinate leggi naturali che, una volta accertate in modo oggettivo, rendono possibile anticipare e prevedere, con un certo grado di sicurezza, il modo in cui si presenteranno, nel futuro, gli eventi e le cose del mondo. La filosofia dell’esistenza, partendo inizialmente dall’“esserci” concreto, ossia dall’individuo immerso nel mondo come un oggetto tra gli oggetti, intende portarsi oltre tale situazione mondana e chiarire il senso e il compito autentico dell’esistenza dell’individuo presa nella sua totalità; esistenza, questa, sempre soggettiva, particolare, imprevedibile, eccezionale. Il compito e il senso dell’esistenza dell’individuo, Jaspers lo rintraccia nella possibilità di rivolgersi e relazionarsi autenticamente a quella Trascendenza irraggiungibile, l’Essere in sé, che sta a fondamento di ogni esistenza e del mondo. La scienza, dunque, è “orientazione nel mondo”, è un “sapere relativo alle cose del mondo”, e, in quanto tale, “deve essere distinta dall’analisi dell’esserci”, che riguarda invece il primo passo che deve compiere la filosofia intenta alla “ricerca dell’essere”: “L’orientazione nel mondo è realizzata da coloro che indagano nelle scienze, mentre l’analisi dell’esserci è un passo del filosofare nella ricerca dell’essere”. La scienza intende cogliere il mondo nei suoi aspetti universali, oggettivamente validi per ogni intelletto, ma “gli aspetti universali non colgono la totalità del mondo. Colgono ogni volta una singolarità, non la globalità. 606 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Di fronte al problema del mondo come totalità, la scienza naufraga. Per la conoscenza scientifica il mondo ci sta di fronte lacerato in tanti settori particolari, e la lacerazione si accresce quanto più pura si fa la conoscenza scientifica”. Limitandosi ad indagare “nel mondo”, la scienza non potrà che essere una “orientazione” infinita, mai compiuta, “insufficiente” e sempre parziale, in quanto infinite e particolari sono le cose e gli oggetti rintracciabili nel mondo. Essa non potrà mai risolvere, per quanto affermi il contrario, il mistero profondo del mondo preso nella sua totalità (o unità). “L’unità della vita, […] resta, qualora esista, infinitamente irraggiungibile. Le nuove conoscenze [scientifiche] non fanno che approfondire, con i loro stupefacenti risultati nel dominio del particolare, il mistero che si addensa sulla totalità”. Di fronte a questo mistero irraggiungibile, la stessa filosofia non potrà che chiudersi in quel silenzio “nel quale non già il nulla si manifesta, ma l’autentico può parlare per l’uomo attraverso la sua intima disposizione, l’esigenza, la ragione, l’amore”. Non dobbiamo concludere che Jaspers, seppur non risparmi di criticare determinati pervertimenti e abnormità tecnico-scientifiche, scagliandosi in special modo contro la bomba atomica, intenda screditare o minimizzare il ruolo della scienza. Egli afferma che “senza l’indispensabile appropriazione dell’orientazione scientifica nel mondo e senza il contributo della propria indagine, il filosofare è vuoto, perché privo di materiale. Esso deve urtare nella forma dura e vincolante dell’esserci, per avanzare verso l’essere autentico inteso come possibilità che oltrepassa il sapere. Solo chi è appassionato all’effettiva orientazione nel mondo può trovare veramente in essa l’orientazione filosofica nel mondo”. In breve, “le ricerche scientifiche, che in se stesse non sono filosofia, configurano tuttavia una situazione per la filosofia. La filosofia, che ha tutt’altre origini, si manifesta nella situazione scientifica di volta in volta data, e la comprende e insieme ne promuove l’avanzamento”. 607 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il carattere intenzionale della coscienza L’uomo è nel mondo, e in questo vi abita spendendovi la propria esistenza. Per quanto si porti avanti nelle conoscenze oggettive e negli strumenti scientifici, l’essere umano non riuscirà mai a cogliere e scoprire il mondo nella sua “totalità”, non riuscirà mai a cogliere e scoprire il suo fondamento. La possibilità della conoscenza del mondo, preso nella sua globalità, è esclusa all’essere umano. “Il mondo per la nostra conoscenza è senza fondo”, perché “una realtà inconoscibile precede la conoscibilità, e la conoscenza non la raggiunge”. Questa realtà inconoscibile che, in quanto fondamento d’ogni cosa, precede di conseguenza ogni conoscenza, è rappresentata dall’Essere in sé, a cui deve rivolgersi ogni argomentazione filosofica, che intenda chiarire il senso autentico dell’esistenza dell’individuo. L’essere umano, partendo dal suo sguardo rivolto alle cose e agli eventi del mondo, partendo dal suo “essere-nelmondo”, per cogliere la propria autenticità, per diventare autenticamente uomo, deve portarsi oltre al mondo e le sue cose e, allo stesso tempo, deve portarsi oltre sé, deve uscire da sé – essendo anche lui un oggetto tra gli oggetti del mondo –, per relazionarsi a quel mistero irraggiungibile che è l’Essere in sé, la Trascendenza. Quest’ultima, fondamento d’ogni cosa, è irraggiungibile perché è l’assolutamente “Altro”, perché non esiste nel mondo come oggetto tra gli oggetti, perché è l’“antitesi” di tutto ciò che vi è nel mondo. Ma, anzitutto, chi è l’uomo, cosa siamo noi, cosa sono “questi occhi che vedono, sanno, comprendono”? L’uomo è un essere razionale, è un essere che, mediante determinate operazioni intellettuali, perviene ad un sapere oggettivo, grazie al quale opera e crea ogni forma e aspetto della propria esistenza concreta. La coscienza umana coglie gli oggetti (gli “essenti”) che gli si stagliano di fronte nel mondo empirico, ma, allo stesso tempo, è in grado di cogliere 608 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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se stessa, ossia è in grado di cogliersi come ciò che coglie gli oggetti del mondo. L’uomo è colui che è in grado di conoscere gli “essenti” (o “enti”) del mondo, ma allo stesso tempo è colui che è in grado di riconoscersi come ciò che conosce tali essenti. L’uomo, dunque è sia coscienza che “autocoscienza”: “Siamo non solo coscienza, ma autocoscienza. Non il solo essente si fa palese, ma anche questo stesso farsi palese. Compiamo un salto: dalla coscienza intellettuale degli oggetti alla inoggettiva autocoscienza di ciò che attuiamo ed esperiamo in quella”. Jaspers fa sua la concezione fondamentale che caratterizza la fenomenologia di Husserl: l’“intenzionalità” della coscienza. La “coscienza”, l’“Io”, il “soggetto” si dirige intenzionalmente verso determinate cose, si volge e si relaziona con intenzione a determinati oggetti. “L’Io intenziona un oggetto”: la coscienza è un dirigersi intenzionale alle cose e agli “essenti” del mondo, siano questi materiali o mentali. È in base a tale relazione o rapporto intenzionale che intercorre tra l’Io e ciò che, di volta in volta, intenziona, che si spiega il fatto che, quando pensiamo o conosciamo, pensiamo e conosciamo “distintamente” determinati oggetti, si tratti di “oggetti tangibili” o di “oggetti pensati”. In base a tale rapporto, noi conosciamo l’oggetto intenzionato dalla coscienza “così come ci si dà, conferendogli l’evidenza di una figura concettuale che ci si impone nella sua nettezza”. Pensando o osservando una cosa o un dato di fatto, ciò di cui vengo a conoscenza è la forma o figura concettuale, ossia l’idea, che la coscienza mi offre di quella cosa o di quel dato di fatto. Tale figura concettuale costituisce l’“evidenza” riguardante l’oggetto intenzionato dalla coscienza. Ma l’oggetto coincide realmente con l’idea della coscienza, con l’evidenza concettuale del soggetto? “Esiste l’oggetto in sé? Noi lo intenzioniamo come l’oggetto che è e al quale perveniamo. Lo chiamiamo un alcunché, una cosa, un dato di fatto, un oggetto. Eppure esso è, così come appare, per noi. Poiché noi siamo, esso è così com’è”. L’og609 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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getto è così come mi appare, perché così appare a quella coscienza vivente che io stesso sono. “Esistiamo noi come soggetti in sé?”. Per dubitare della nostra stessa esistenza, è sempre necessario “che già esista un oggetto per noi; giacché siamo consapevoli di noi stessi solo nel momento in cui ci dirigiamo su oggetti. Nessun Io è senza un oggetto, e nessun oggetto senza Io. In altre parole: nessun oggetto senza soggetto, nessun soggetto senza oggetto”. Il rapporto tra soggetto e oggetto, tra persona e realtà, tra uomo e mondo è pertanto affermato in tutta la sua inscindibilità. L’Umgreifende: l’orizzonte infinito d’ogni orizzonte finito Indissolubilmente legato al mondo, l’uomo, per essere autenticamente se stesso, per realizzare la propria esistenza in modo compiuto, per essere realmente un uomo, deve abbandonare il mondo degli oggetti e il suo stesso essere oggetto nel mondo, ossia il suo stesso “esserci”, per affidarsi e relazionarsi esclusivamente al mistero, alla Trascendenza assoluta, all’Essere in sé. L’esigenza di rivolgersi alla Trascendenza abbandonando il mondo e i suoi oggetti, è motivata da Jaspers non mediante astratte teorie o argomentazioni religiose, bensì perché il mondo stesso, con la sua instabilità e problematicità insopprimibile, ci annuncia in modo inequivocabile quell’assolutamente Altro dal mondo che è l’Essere in sé. Il mondo nel quale esistiamo si presenta lacerato, instabile e incompiuto, e proprio tale “situazione” angosciante e terribile, nella quale naufragano ogni nostra certezza e speranza, fa sorgere la necessità di superarlo e abbandonarlo (il mondo), per dirigerci e affidarci a quell’Uno originario che, in quanto antitesi di tutto ciò che esiste, è ciò che è in sé assolutamente compiuto, insopprimibile e intramontabile. La radicale incompiutezza e precarietà della nostra esistenza, portano alla luce quell’enig610 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ma irrisolvibile che è la Trascendenza, che si rivela, in tale situazione problematica, come “cifra” impenetrabile, come linguaggio simbolico e nascosto, come scrittura indecifrabile. La Trascendenza, mediante il nostro prendere coscienza dell’insufficienza, dell’inconsistenza e dell’incompiutezza dell’esistenza, si rende parzialmente manifesta e si rivela a noi, facendosi “cifra” di una lingua incomprensibile, perché è lingua che non appartiene alla realtà, perché è verbo simbolico che, provenendo da ciò che è Altro dal mondo, sta oltre ogni nostra comprensione razionale. Altri momenti dell’esistenza nei quali la Trascendenza si rivela come “cifra”, sono le cosiddette “situazioni-limite”, cioè quelle situazioni che l’essere umano non può non subire, come la morte, la colpa, il peccato, il dolore, ecc. L’uomo, nella sua esistenza, non può non urtare, impotente, contro il muro immutabile e incomprensibile delle situazioni-limite, in quanto cifre che, rivelando la labilità e l’inconsistenza della vita umana impossibile da mutare e superare, rivelano l’assoluta compiutezza e consistenza della Trascendenza, l’assoluta pienezza dell’Essere. Ma cos’è l’Essere a cui fa riferimento Jaspers? Anzitutto non è una cosa, un ente o un oggetto determinato, non è mai un “questo”; né è un qualcosa che, in quanto da me pensato e conosciuto, mi sta di fronte e nei confronti del quale ci si possa relazionare. Tutto ciò che mi viene incontro, tutto ciò che conosco intenzionalmente nel mondo, è un modo d’essere dell’Essere, ma non è mai la totalità dell’Essere (o “essere in sé”). La materia, l’energia, lo spirito, la vita, per quanto grandi e comprensivi siano, “non è il tutto”, non è la totalità assoluta, non è l’Essere. Tutto ciò che conosco e apprendo “è l’essere che io so; non l’essere in sé”. Qualunque sapere filosofico che, al pari dell’idealismo hegeliano, (a suo dire) mostra e dimostra in modo compiuto ciò che l’Essere (il Tutto) è, identificando questo all’Idea assoluta (allo spirito, al pensiero), rende l’Essere un oggetto, lo rende oggettivamente comprensibile, lo de611 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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termina come mero oggetto conosciuto nel mondo. L’idealismo, così facendo, tradisce ciò che agli occhi di Jaspers è l’essenza dell’Essere, ossia il suo essere Trascendenza assoluta, essenza trascendente, questa, che rende impossibile, da parte dell’uomo, di comprendere compiutamente il senso totale del mondo, l’Essere in sé. “E neppure l’essere che io sono è l’essere”: nessun essere conosciuto è l’Essere. Per quanto possiamo spingerci a conoscere le cose nel mondo, non riusciamo mai a pervenire ad una conoscenza definitiva del mondo, non riusciamo, cioè, a conoscere la totalità di tutto ciò che è. Per questo motivo Jaspers, intende l’Essere, che è ciò a cui tende con forza ogni autentico sapere umano, come orizzonte che abbraccia e avvolge ogni cosa, come apertura mai conclusa, che non può mai essere racchiusa e circoscritta dalla nostra conoscenza. Ogni oggetto determinato, ogni sapere umano, ossia ogni orizzonte particolare (limitante, restringente) del mondo, si trova nell’apertura infinita dell’Essere: esso è il fondamento del tutto ed è ciò che, in quanto “orizzonte trascendente”, tutto avvolge e abbraccia, senza limiti e restrizioni. Ogni ente e orizzonte conoscitivo possibile è sempre limitato, determinato e condizionato dall’Essere, che è, per converso, orizzonte illimitato e incondizionato, spazio infinito, indeterminato e indeterminabile. In tutti gli oggetti particolari e in tutti gli oggetti conosciuti, noi sperimentiamo “ciò che l’essere non è”, in quanto esso è ciò che, “col progressivo manifestarsi di tutti i fenomeni, come tale indietreggia”. L’Essere infinito, è da Jaspers denominato “Umgreifende”, che può tradursi come “il tutto avvolgente”, come “ciò-che-abbraccia” ogni cosa. “L’Umgreifende è l’essere nella sua vera e propria essenza, perché l’essere è la totalità avvolgente da cui tutti i possibili orizzonti emergono”; “L’Umgreifende è ciò che annuncia sempre e solo se stesso; presente nell’apparire oggettivo e negli orizzonti, non si configura mai esso stesso come oggetto o come orizzonte; 612 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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anzi, in se stesso l’Umgreifende, propriamente, non ci appare, ma nell’Umgreifende ci appaiono tutte le cose”. In breve, la filosofia di Jaspers, che intende offrire la possibilità all’individuo umano di cogliere il proprio fondamento essenziale e di riconoscere ciò che egli stesso è al fine di rendere la propria esistenza autentica, è interamente volta alla ricerca dell’Essere “originario e unico”, “Trascendenza di tutte le Trascendenze”, orizzonte infinito: “Noi, oltre tutti gli enti che si trovano negli orizzonti, e oltre tutti gli orizzonti, vorremmo gettare uno sguardo sull’essere stesso, vorremmo gettare uno sguardo oltre il nostro particolare Esserci, allo scopo di sperimentare che cosa noi, propriamente siamo. Noi raggiungiamo questo scopo quando abbandoniamo il nostro mondo con tutti i suoi oggetti pensati, e sacrifichiamo tutti gli orizzonti, anche se, non appena ci imbattiamo su questa via, abbiamo l’impressione di cadere in un vuoto privo di ogni contenuto”. Dimenticato il mondo materiale, oltrepassata la realtà fisica e abbandonato questo nostro essere un mero oggetto calato nel mondo degli oggetti, ridestati dal desiderio di riscoprire ciò che propriamente siamo, finalmente “impariamo ad ascoltare ciò che è autentico, e a percepire ciò che sta alle origini”: l’Umgreifende, l’Essere in sé, la Trascendenza assoluta, l’orizzonte infinito d’ogni orizzonte finito. Il naufragio universale come cifra suprema della Trascendenza Essendo tutto “in sé”, impenetrabile e non circoscrivibile, l’Essere, nel mondo, non può “venir-pensato” né visto in tutta la sua totalità. Questo perché il mondo nel quale l’uomo pensa e vede, nel quale esiste, è sempre un mondo storico e relativo. Ciò rende impossibile ogni tentativo umano volto a comprendere quell’Essere che è invece originario e assoluto, eterno e infinito, oltre il mondo e oltre il tempo. 613 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Jaspers non trascura il fatto che, agli albori della storia umana, l’Essere – inteso correttamente come fondamento del mondo e come trascendenza assoluta, come il Tutto-avvolgente e l’assolutamente Altro –, sia stato espresso e pensato, in occidente quanto in oriente, sotto diversi nomi e raffigurazioni “solenni e infinitamente ricchi di significato”. Parmenide (VI-V secolo a.C.), filosofo dell’antica Grecia, ad esempio, lo chiama e lo pensa come “essere”; Anassimandro (VI sec. a.C.) come “apeiron”, Eraclito (VI-V sec. a.C.) come “logos”, il buddismo e l’induismo come “Nirvana”, il taoismo come “Tao”. Jaspers approfondisce ed esalta l’importanza dei filosofi e delle religioni antiche che hanno volto il loro sguardo verso l’Essere trascendente, cogliendone le “cifre” che questo ha di sé lasciato apparire nel mondo. Però, fedele alla sua concezione, non può non ribadire e sottolineare che la Trascendenza assoluta “non può essere colta in nessun pensiero, in nessuna forma, in nessuna immagine”. Scordare ciò significa obliare in modo definitivo il senso autentico dell’Essere, ed è esattamente ciò che, in tempi a noi più recenti, fa la metafisica tradizionale, quando afferma che l’Essere assoluto è Dio, spendendosi a fornire prove razionali capaci di dimostrare l’effettiva esistenza divina. Agli occhi di Jaspers, affermare ciò significa pretendere di aver compreso “in termini incontraddittori”, ossia in termini razionali e definitivi, la Trascendenza, che in tal modo si trova ad essere compresa oggettivamente così come, nel mondo, si conosce un qualsiasi oggetto o fenomeno determinato. La stessa teologia, cade nell’errore di rendere il Dio della rivelazione biblica un che di oggettivamente conosciuto e dimostrato. Nel Dio teorizzato dalla teologia e dalla metafisica tradizionale, in breve, ciò che manca è l’essenza dell’Essere, il suo esser Trascendenza assoluta, ossia ciò “che non si manifesta come si manifesta l’essere-del-mondo in determinati fenomeni; [che] si sottrae al pensiero che volesse comprenderla in termini incontraddittori a guisa di un oggetto determinato”. 614 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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La scienza moderna, dal canto suo, è da Jaspers accusata d’aver dissolto l’Essere nel mondo oggettivabile, riducendo, come visto, la realtà empirica e gli “enti” di questa a unico senso e fondamento del mondo. Così facendo la scienza dimostra di non comprendere che, in verità, il fondamento di ogni cosa, pur “venendoci incontro in ogni oggetto e in ogni orizzonte” pur “sempre indietreggia e si allontana”, rimanendo sempre nascosto, dunque, a ogni nostra conoscenza oggettiva, in quanto impossibile da vedere e cogliere nel mondo degl’enti empirici. Secondo Jaspers, per non incorrere in tali errori capitali – in quanto, ricordiamolo sempre, in questi argomenti vi è in gioco l’autenticità della nostra stessa esistenza –, possiamo parlare della Trascendenza “solo in termini negativi”, possiamo pensare e dire soltanto ciò che essa non è. A meno che non intendiamo mancare o contraffare il senso autentico dell’Essere, a meno che non vogliamo tradire o obliare in modo definitivo l’essenza della Trascendenza e, di conseguenza, il senso autentico della nostra esistenza, dobbiamo comprendere che il nostro pensiero e le nostre parole non raggiungeranno mai tale Essere trascendente. L’esistenza umana, volta a relazionarsi e a raggiungere la Trascendenza, è votata, in modo inevitabile, al “naufragio universale” e allo scacco assoluto. Ogni tentativo di afferrare la Trascendenza fallisce miseramente, ogni possibilità di relazionarsi con l’Essere è destinato a non poter mai essere realizzato. Eppure, questo naufragio universale, secondo Jaspers, rappresenta meglio di ogni altra “cifra”, il modo in cui la Trascendenza si rivela all’essere umano e quindi, di conseguenza, è ciò che accerta l’esistenza della Trascendenza stessa. “Il naufragio è il fondamento che abbraccia tutto l’essere-cifra. Vedere la cifra come realtà dell’essere è possibile solo nell’esperienza del naufragio”. La Trascendenza, fa sentire la sua presenza nel modo più chiaro possibile, proprio quando le speranze e i tentativi dell’uomo di coglierla e comprenderla falliscono e nau615 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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fragano nell’impossibilità assoluta di portare a realizzazione quanto più sperato e tentato. Di fronte a tale situazione drammatica, nella quale tutte le possibilità di raggiungere la Trascendenza naufragano nell’annientamento totale, l’uomo non può che rassegnarsi e chiudersi in un profondo silenzio. Questa rassegnazione a cui fa riferimento Jaspers, non è un passivo e vuoto abbandonarsi al corso delle cose, bensì significa sperimentare attivamente “il naufragio di tutto l’esserci”. Sperimentato il naufragio di tutto ciò che è nel mondo, si giunge finalmente a quella “pace” e si conquista “quella serenità” che accerta l’esistenza della Trascendenza, la “certezza dell’essere”. Chiude Jaspers: ”La più profonda vicinanza al mondo si ebbe solo quando si lesse la cifra nell’annientamento. L’esistenza fu in grado di aprirsi completamente al mondo quando la trasparenza di tutte le cose accolse in sé anche il loro naufragio. La vista divenne chiara, guardò a fondo, e nell’orientazione nel mondo indagò senza limiti quel che c’è e quel che c’era; era come se si sollevasse il velo dalle cose. Ora l’amore per l’esserci può realizzarsi senza posa, e il mondo diventa indicibilmente bello nella sua ricchezza fondata sulla Trascendenza; ma resta ancora, nella sua terribile drammaticità, il problema per il quale nell’esserci temporale non nasce mai una risposta definitiva e ultima che possa valere per tutti e per sempre, anche se il singolo, nella sua chiara veggenza, è capace di rassegnarsi e trovare la sua pace. […] Non nel godimento della perfezione compiuta, ma lungo la via della sofferenza, con lo sguardo fisso sul volto inesorabile dell’esserci del mondo, e nell’incondizionatezza del proprio esser se stesso nella comunicazione l’esistenza possibile può raggiungere ciò che non rientra in alcun piano e che, desiderato, diventa assurdo: sperimentare l’essere nel naufragio”.

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La filosofia è lotta non violenta per la verità 1.  Qualunque cosa la filosofia sia, essa è nel nostro mondo e deve ad esso riferirsi. Spezza gli involucri mondani e sceglie di muoversi verso l’infinito. Ma ne fa ritorno, per rintracciare nel finito l’unico terreno storico concesso. Si spinge certo in vista degli orizzonti più vasti al di là dell’essere mondano per esperire il presente nell’eterno. Ma anche la meditazione più alta acquista il suo senso quando torna a riferirsi all’esistenza dell’uomo qui e ora. La filosofia scorge i criteri massimi, il cielo stellato delle possibilità, e cerca al lume dell’apparentemente impossibile la via alla nobiltà dell’uomo nella manifestazione del suo Esserci. La filosofia si rivolge ai singoli. Fonda la libera comunità di quanti nella volontà della verità reciprocamente confidano. In tale comunità colui che filosofa vorrebbe poter entrare. Essa si dà nel mondo in ogni epoca, ma non può istituzionalizzarsi senza perdere la libertà della sua verità. Colui che filosofa non può sapere se vi appartiene. Nessuna istanza decide della sua accettazione. Egli vuol vivere nell’esercizio del pensiero, così da rendere tale accettazione possibile. 2.  Ma qual è l’atteggiamento del mondo verso la filosofia? Ci sono cattedre di filosofia nelle università. In tale sede esse sono oggi imbarazzanti. La filosofia è ancora oggetto del cortese rispetto tradizionale, ma segretamente è disprezzata. Un’opinione diffusa è questa: la filosofia non ha nulla di essenziale da dire. Né possiede alcun significato pratico. È vero che il suo nome viene pubblicamente fatto; ma non è forse come se non esistesse? La sua esistenza è quanto meno testimoniata dal fatto che verso di lei si tiene un atteggiamento difensivo. Ciò è evi617 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

dente in commenti del tipo: la filosofia è troppo complicata; io non la capisco; per me è una cosa troppo alta; è una faccenda per specialisti; non ho alcuna disposizione per la filosofia; perciò non mi riguarda. Ma dicendo così è come se si affermasse: del problema di fondo della vita non bisogna preoccuparsi; ci si può dare a uno dei tanti campi dell’attività pratica o dell’erudizione senza stare a domandarsi quale sia il suo senso; insomma, bisogna far bene il suo lavoro evitando pensieri superflui; quanto al resto, basta avere le proprie “opinioni” e non cercare altro. Tale atteggiamento di difesa conosce esasperazioni. V’è un istinto vitale imperscrutabile a se stesso che ha in odio la filosofia. “La filosofia è pericolosa” ci si dice. “Se la comprendessi, la mia vita dovrebbe cambiare. Sarei costretto a un altro atteggiamento, le cose mi apparirebbero in una luce diversa, a me sinora estranea, dovrei giudicarle in modo nuovo. Meglio non immischiarmi col modo di pensare filosofico!”. […] Per molti politici la sinistra opera loro risulta più agevole se non v’è la filosofia a ostacolarli. Più agevole manipolare masse e funzionari se non pensano e non possiedono che un’intelligenza ammaestrata. Occorre impedire che gli uomini se ne preoccupino. Per questo è auspicabile che sia noiosa. Le cattedre di filosofia ammuffiscano pure. Quante più cose inessenziali si insegnano, tanto meglio si impedisce agli uomini di essere investiti dalla forza rischiarante della filosofia. La quale si trova dunque circondata da nemici, in particolare da quelli che non ne sanno nulla. La borghese soddisfazione di sé, la vita inquadrata nelle convenzioni, l’appagarsi del benessere economico, l’apprezzamento della scienza solo per la sua fruibilità tecnica, l’illimitata volontà di potenza, lo spirito di corpo dei politici, il fanatismo degli ideologi, la volontà di affermazione letteraria di scrittori dotati, tutto questo si afferma nella non-filosofia. Chi si trova in tali situazioni non se ne accorge poiché non lo comprende. Né si avvede che la sua afilosofia è filosofia essa stessa, però stravolta, e che questa afilosofia, se portata a chiarezza, si autodissolverebbe. 3.  Il punto decisivo è questo: la filosofia vuole la verità intera, il mondo non la vuole. La filosofia è un elemento di disturbo. Ma che cosa sia verità, anche questo è il problema. La filosofia si accerta della verità nel molteplice senso dell’essere-vero nei modi della comprensività. Essa cerca il senso e il contenuto precipuo dell’unica verità, ma non li 618 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Karl Jaspers: pagine antologiche

possiede. La verità è per noi infatti non un immutabile esser-così, bensì un perenne, infinito movimento. La verità emerge nel mondo solo nella lotta. La filosofia conduce questa lotta all’estremo, ma la priva di ogni violenza. Nel rapporto con tutto ciò che è, a chi filosofa si rivela la verità lungo la via della comunicazione tra i pensanti e della chiarificazione di se stessi. Chi filosofa volge il suo sguardo agli uomini, ai singoli, ode quel che dicono e vede quel che fanno, e si lascia coinvolgere nella volontà di una comunità di destino dell’essere-uomo. 4.  Scorgere la verità è la dignità dell’uomo. Solo attraverso la verità diveniamo liberi, e solo la libertà ci rende incondizionatamente pronti alla verità. È la verità il senso ultimo per l’uomo nel mondo? È la veridicità l’istanza suprema? Noi lo crediamo. Lo crediamo perché la veridicità aperta senza riserve e che non va perduta nell’opinare coincide con l’amore. La nostra forza consiste nell’afferrare i fili conduttori che la verità ci lancia. Ma verità è soltanto la verità intera. La verità molteplice dev’essere tenuta insieme nell’Uno. Questa verità intera non la possediamo mai. La manchiamo se ci limitiamo semplicemente ad affermare, se di ciò che sappiamo facciamo l’assoluto. E altrettanto la manca ogni sistema che pretenda di inquadrare la verità globale, poiché questa per l’uomo non può esistere, e una tale illusione lo paralizza. Chi filosofa vuol vivere per la verità. Si interroga sulla sua destinazione, su quanto esperisce, sugli uomini che incontra e, sempre e soprattutto, su ciò che pensa, sente e fa egli stesso. È necessario portare a chiarezza le cose, gli uomini e se stessi. E chi filosofa non vi si sottrae, anzi vi si espone. Alla felicità nel delirio preferisce il naufragio nell’urto con la verità. Quel che è deve mostrarsi. È possibile la fiducia, ma non la certezza: nella verità estrema, dovesse anche abbatterci, si fa palese, sempre che sia realmente verità, quel che ci pone al sicuro. Inoltre il meraviglioso della filosofia è questo: se solo evitiamo ogni illusione, se laceriamo ogni velo, se penetriamo sino al cuore delle falsità e se avanziamo tenaci guardando innanzi a noi con occhi sgombri e assoggettando alla critica la nostra stessa critica, tale critica alla fine non potrà essere distruttiva. Si paleserà invece, quasi naturalmente, il fondo delle cose, che tornerà a splendere ai nostri occhi come al restauratore il quadro di Rembrandt da lui liberato dagli strati sovrapposti che lo occultava619 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

no. Ma se non si rivela? Se alla fine l’uomo scorge il volto della Gorgone e impietrisce? Ciò può accadere, non dobbiamo dimenticarlo. La filosofia sta sull’orlo di abissi, e non deve rifuggirne la vista né può eliminarli. Quale sia stato sin dal principio il problema per l’uomo, è più che mai evidente. Il sì all’Esserci è rischio grande e stupendo, essendo il luogo della realizzazione di verità, amore, ragione. Il no all’Esserci che si esprime nel suicidio è invece la realtà propria di uomini di fronte al cui segreto ammutoliamo. Non possiamo dimenticare questi limiti. […] 9.  Qual è il compito della filosofia? Essa insegna perlomeno a non farsi ingannare. Non trascura alcun fatto e alcuna possibilità. Insegna a guardare in faccia la possibile sventura. Scuote il mondo dal torpore. Ma vieta anche di considerare inevitabili sconsideratezza e sventura. Quel che avviene dipende infatti anche da noi. Se acquistasse vigore nel pensiero che elabora e riuscisse ad essere convincente per gli uomini e credibile grazie agli uomini attraverso i quali parla, la filosofia potrebbe essere un fattore di salvezza. Essa sola può trasformare il modo di pensare. Ma allora, di fronte al possibile totale naufragio, la filosofia preserverebbe la dignità dell’uomo pur nella rovina. Nella comunità di quanti sono uniti da una stessa sorte e che sia fondata sulla verità, l’uomo guarda serenamente a ciò che può accadere. Giacché nella rovina non è il nulla. Alla fine c’è solo l’uomo che naufragando ama e conserva un’inspiegabile fiducia nel fondamento delle cose. Esprimiamolo nel linguaggio delle cifre: l’origine dalla quale sono scaturiti il cosmo, la terra, la vita, l’uomo e la storia ha possibilità per noi inaccessibili. L’esperienza del naufragio consapevole può essere certa di sé. È stato un tentativo, infiniti altri ne seguiranno. Ma amore e verità, che per un certo tempo hanno avuto una parte in questo tentativo, attestano che si è trattato di qualcosa di più che un tentativo. È stata detta una parola d’eternità. Nessun pensiero adempibile, nessun sapere, nessun concretamente intelligibile, nessuna delle cifre di cui s’è parlato, basta per raggiungerla. Di là da tutte le cifre il pensiero perviene al silenzio riempito dall’insondabile fondamento. (K. Jaspers, Piccola scuola del pensiero filosofico, SE, Milano 2006, pp. 155-158, 164-165) 620 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Orientazione nel mondo e analisi dell’esserci La filosofia dell’esistenza è essenzialmente metafisica. Essa crede in quell’origine da cui nasce. Poiché l’esistenza, origine dell’autentico voler-sapere, è inconoscibile, il pensiero filosofico che vi si riferisce deve trovare in essa l’origine della propria articolazione per poter cogliere indirettamente ciò che direttamente non è raggiungibile. Il filosofare che parte dall’esistenza possibile coglie nella ricerca tutto ciò che si può pensare e sapere, per farvi emergere l’esistenza; ma il filosofare che parte dall’esistenza possibile non ha l’esistenza come sua ultima finalità; esso la oltrepassa per consentirle di dissolversi nella trascendenza. Il suo pensiero è il riverbero, non come luogo in cui cade la luce, ma come questa luce stessa che, riflettendosi, annuncia la possibilità dell’esistenza. Le direzioni di questo filosofare chiarificante non sono assolutamente arbitrarie. Per riguadagnare l’essere autentico partendo dalla mancanza di terreno è necessario che questo filosofare si articoli e, dai sentieri distinti, ritorni all’uno. Per progettare l’articolazione del filosofare nelle sue direzioni ripartiamo dal punto in cui eravamo giunti quando tre nomi dell’essere ci ricondussero nella molteplicità; questi nomi ci diedero l’impressione di cogliere l’essere non come isolato e diviso, ma come la totalità, l’originario e l’uno; la totalità dell’esserci è il mondo, la nostra originarietà è l’esistenza, l’uno è la trascendenza. Il mondo è l’esserci che mi si presenta come l’essere di volta in volta determinato degli oggetti, e che io sono in quanto esserci empirico; poiché la conoscenza del mondo è oggettiva, la cosa è presente come oggetto, mentre il mondo nella sua totalità non è né oggetto, né totalità. Dell’essere, che come tale non è oggettivo, possiedo solo una certezza chiarificatrice in una oggettivazione inadeguata. Questo essere non-oggettivo è l’esistenza se mi si presenta in quell’origine autentica che io stesso sono, è trascendenza se è l’essere nella forma oggettiva della cifra che solo l’esistenza può comprendere. Il fatto che tutto l’esserci diventi fenomeno davanti al concetto limite di essere-in-sé, il fatto che l’esistenza non possa considerarsi come essere assoluto, perché consapevole della sua relazione alla 621 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

trascendenza, sono elementi che preparano il cammino verso la ricerca dell’essere. Questa ha tre scopi che, per quanto indeterminabili, scaturiscono l’uno dall’altro; la ricerca, infatti, si volge al mondo per orientarsi, oltrepassa il mondo appellandosi a sé come esistenza possibile, e si apre alla trascendenza. Percorrendo il mondo apprende il conoscibile per poi distanziarsene e divenire così orientazione filosofica nel mondo; destandosi dal mero esserci-nel-mondo si realizza come chiarificazione dell’esistenza; infine evoca l’essere e diventa metafisica. L’essere, che per la coscienza in generale è oggettività, come mondo è ciò che non è mai compiutamente conosciuto e in cui tutto ciò che è conosciuto diventa oggetto nel senso di ciò che sta di contro, e oggettivo nel senso di universalmente valido. Nel concetto di oggettività i due significati si fondono. Il sapere che riguarda gli oggetti che ci-sono si chiama orientazione nel mondo. È solo orientazione perché, non concludendosi mai, rimane un processo infinito, è orientazione nel mondo, perché riguarda un essere determinato e quindi si realizza nel mondo. L’orientazione nel mondo, come sapere relativo alle cose del mondo, deve essere distinta dall’analisi dell’esserci. Quest’ultima, concependo l’esserci in generale come ciò che include la totalità, comprende in sé anche l’orientazione nel mondo. Il suo tentativo è quello di rappresentare in termini universali le strutture di ciò in cui si realizza non solo l’orientazione nel mondo, ma tutto ciò che per me possiede l’essere. L’orientazione nel mondo è realizzata da coloro che indagano nelle scienze, mentre l’analisi dell’esserci è un passo del filosofare nella ricerca dell’essere. […] Senza di esse non è possibile alcuna orientazione filosofica nel mondo. Senza l’indispensabile appropriazione dell’orientazione scientifica nel mondo e senza il contributo della propria indagine, il filosofare è vuoto, perché privo di materiale. Esso deve urtare nella forma dura e vincolante dell’esserci, per avanzare verso l’essere autentico inteso come possibilità che oltrepassa il sapere. Solo chi è appassionato all’effettiva orientazione nel mondo può trovare veramente in essa l’orientazione filosofica nel mondo. (K. Jasper, Filosofia, a cura di U. Galimberti, UTET, Torino 1996, pp. 140-142) 622 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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L’insufficienza insuperabile dell’esistenza umana La conoscenza reale può cogliere i suoi limiti nel fatto che essa e il suo contenuto non sono l’essere assoluto, ma solo quel certo essere che nella coscienza si rivolge ad un essere che possiede una consistenza oggettiva. Questo essere era l’essere-del-mondo. L’orientazione filosofica nel mondo ha mostrato che il mondo in sé non possiede fondamento alcuno; esso infatti si è rivelato come una realtà incompiuta che non si lascia assolutamente riconoscere come una totalità autosufficiente che ha in sé e da sé il fondamento della propria autosussistenza. Dalla coscienza di questo limite è nata la rottura che ha sollevato all’esistenza possibile e al filosofare. Ora, nella riflessione, sono stato colpito da questa antitesi che non riesco a concepire con la conoscenza, ma riesco ad afferrare come esistenza possibile; si tratta dell’antitesi dell’essere come cosa consistente e dell’essere che io sono in quanto libertà. In questa contrapposizione, il lato della cosa consistente è stato sempre oggettivo, chiaro e valido per tutti. Mentre il lato della libertà è rimasto inoggettivo e indeterminato; la liberta, senza pretendere una validità universale, ha raggiunto un valore incondizionato. Nella chiarificazione dell’esistenza, la libertà, in un pensiero specifico, si è annunciata all’appello che sollecita e risveglia. A questa chiarificazione condusse l’insoddisfazione nella pura e semplice realtà empirica del mondo per ciò che è solo universalmente valido. Ma anche in essa non è stato possibile raggiungere alcuna soddisfazione definitiva. Senza dubbio l’esistenza è in grado di comprendere se stessa nella sua libertà solo quando percepisce, nello stesso atto, ciò che è altro da essa. L’incondizionatezza, là dove è decisa, prende coscienza non solo di non aver creato se stessa come esserci, e quindi di essere come tale abbandonata, impotente, ad un naufragio sicuro, ma si rende conto che, anche come libertà, non dipende solo da se stessa. Pertanto, in un modo o nell’altro, si realizza solo in rapporto alla sua Trascendenza. A questo punto: o la Trascendenza viene negata espressamente, e allora, poiché la Trascendenza si impone incessantemente all’esistenza, come possibilità a lei connessa, questa negazione deve essere ripetuta attivamente attraverso l’affermazione di un rapporto negativo con 623 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

la Trascendenza. Oppure l’esistenza sta contro la Trascendenza per realizzarsi in lotta con essa. Oppure vuole percorrere con la Trascendenza il proprio cammino nel mondo. In ogni caso, o senza, o contro, o con la Trascendenza, quest’ultima rimane per l’esistenza possibile un problema continuamente aperto. Queste tre possibilità sono i momenti della coscienza esistenziale della Trascendenza nell’esserci-temporale. Per l’esistenza, trovare in se stessa il proprio fondamento assoluto è senz’altro la verità della sua incondizionatezza nell’esserci-temporale, ma alla fine diventa disperazione. L’esistenza è consapevole che, in uno stato di assoluta autosufficienza, dovrebbe precipitare nel vuoto. Quindi, se deve realizzarsi da sé non ha altra possibilità se non quella di rendersi conto che ciò che la conduce al compimento le proviene dal di fuori. L’esistenza non è se stessa quando le accade di venir meno a se stessa, di fronte a sé sta come se fosse stata a sé donata. Custodisce la sua possibilità solo se si sa fondata nella Trascendenza. Perde la sua apertura per il proprio divenire, se ritiene se stessa per l’essere autentico. […] Di fronte alla Trascendenza, l’esistenza possiede la coscienza autentica della finitezza. La finitezza della conoscenza umana può essere chiarita per contrasto mediante la costruzione mentale di altre possibilità; la finitezza dell’esserci consiste nel fatto che esso ha sempre qualcosa d’altro fuori di sé e, in ogni forma, altro non fa se non nascere e sparire. […] L’esistenza non può affermare di se stessa né la finitezza né l’infinitudine, né entrambe. Essa è l’insufficienza insuperabile, perché infinita, che coincide con la ricerca della Trascendenza. L’esistenza o esiste in relazione alla Trascendenza o non esiste affatto. In questa relazione essa possiede la sua insufficienza e, nell’annullamento dell’esserci temporale, il suo possibile compimento. (K. Jaspers, Metafisica, a cura di U. Galimberti, Mursia, Milano 1972, pp. 91-94) Di fronte al naufragio universale non resta che il silenzio Attraverso l’inesplicabile annullamento, tutto quello che viene raggiunto filosofando vien di nuovo messo in questione. Chi vede con 624 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Karl Jaspers: pagine antologiche

chiarezza lo stato delle cose ha l’impressione di dover guardare l’immobile oscurità del nulla. Non c’è solo l’esserci ad abbandonarci; il naufragio stesso, come essere del nulla, non è niente di più che una cifra. Se il naufragio non è altro che questo enigma, allora ogni cosa rimane impenetrabile come in una notte fonda. L’estrema minaccia dell’inesplicabile naufragio deve distruggere ogni cosa, che dietro i veli di una felicità illusoria era stata considerata, pensata e vista. Partendo da questa realtà nessuna vita è più possibile. Il pensiero trascendente che ancora si poteva intendere sembrava cogliere un essere come punto di appoggio per potervisi posare; ma anche questo è un vano pregiudizio, e la veridicità si difende contro tutti quei sogni che offrono un sapere dell’essere del tutto fantastico. Ora devono essere rifiutate tutte quelle costruzioni che vogliono abbracciare la totalità e poi finiscono col coprire con un velo la sua realtà. Eppure, senza il pensiero trascendente, non si può che vivere in una disperazione radicale per la quale non resta che il nulla. C’è ancora un’ultima questione: quale sarà la cifra ancora possibile del naufragio qualora, al di là di tutte le interpretazioni, il naufragio stesso non rivelasse il nulla, ma l’essere della Trascendenza. Si tratta di vedere se dall’oscurità può farsi luce un essere. 1. La cifra indecifrabile. – La finitezza non può essere superata se non nel naufragio stesso. Se io estinguo il tempo nella contemplazione metafisica del naufragio senza sperimentare la sua realtà, allora ritorno più decisamente nella finitezza dell’esserci. Chi invece cancella il tempo nel vero e proprio naufragio non torna indietro; inaccessibile a ciò che permane, esige dall’esserci finito di lasciare intatto l’essere della Trascendenza. Non si tratta di sapere perché c’è il mondo; forse è possibile sperimentarlo nel naufragio, ma allora non lo si può più dire. Nell’esserci, davanti all’essere in vista del naufragio, insieme al pensiero cessa anche la parola. Di fronte al silenzio che regna nell’esserci, solo il silenzio è possibile. Ma se la risposta vorrà rompere il silenzio, allora parlerà senza dire nulla. […] Solo davanti alla cifra che non si può interpretare, la fine del mondo diventa finalmente l’essere. Mentre per il sapere ogni fine è nel mondo e nel tempo, e non è mai una fine del mondo e del tempo, il silenzio, al cospetto della cifra enigmatica del naufragio universale, si trova in re625 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

lazione all’essere della Trascendenza, di fronte al quale il mondo è andato perduto. Il non-essere di tutto l’essere che ci è accessibile, il nonessere che si rivela nel naufragio, è l’essere della Trascendenza. Nessuna di queste formule dice qualcosa, ciascuna dice la stessa cosa, tutte dicono solo: essere. È come se non dicessero nulla, infatti tentano di rompere il silenzio senza poterlo rompere. 2. L’ultima cifra come risonanza di tutte le cifre. – Ciò che nelle cifre manifestava l’essere nella pienezza della sua realtà, messo in questione di fronte all’inesplicabilità del naufragio, deve volgersi indietro e vivere della sorgente dell’essere sperimentato nel silenzio, oppure inaridire. Il naufragio è il fondamento che abbraccia tutto l’essere-cifra. Vedere la cifra come realtà dell’essere è possibile solo nell’esperienza del naufragio. Partendo da qui, tutte le cifre che non sono rifiutate ricevono la loro ultima conferma. Ciò che io lascio cadere nell’annientamento, posso recuperarlo come cifra. Quando leggo le cifre, le lascio sorgere nello sguardo che è rivolta alla rovina, che solo nella cifra del mio naufragio dà la sua risonanza ad ogni cifra particolare. Mentre il non-sapere passivo è solo dolore del nulla possibile o difesa critica contro il falso sapere ontologico; nell’esperienza dell’inesplicabile il non-sapere diventa attivo nella presenza dell’essere, che deve essere intesa come il fondamento originario di ogni autentica coscienza dell’essere nell’immensa ricchezza dell’esperienza del mondo e della realizzazione dell’esistenza. L’inesplicabilità, come cifra ultima, non è più una cifra determinabile. Essa rimane aperta, di qui il suo silenzio. Essa può diventare indifferentemente il valore assoluto come il compimento definitivo. (K. Jaspers, Metafisica, cit., pp. 364-366)

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Martin Heidegger

È tempo, oramai, di perdere l’abitudine a sopravvalutare la filosofia, e di chiederle perciò troppo. Per i bisogni attuali del mondo ci vuole meno filosofia, e un pensiero più mediato: meno letteratura, e una cura maggiore delle lettere che usiamo. Il pensiero futuro non sarà più filosofia, perché esso penserà più originalmente che non la metafisica (nome che dice la stessa cosa). Ma il pensiero futuro non potrà neppure, come Hegel desiderava, rifiutare il nome di “amore della saggezza”, ed essere divenuto la sapienza stessa nella forma del sapere assoluto. Il pensiero è su la via della discesa verso la povertà della sua essenza anticipatrice. Essa raggruppa il linguaggio per dire la parola semplice. Il linguaggio è, così, il linguaggio dell’Essere come le nuvole sono le nuvole del cielo. Con la sua parola il pensiero traccia orme non apparenti nel linguaggio: meno apparenti ancora di quelle che traccia il contadino col suo lento passo attraverso il campo. Heidegger

Martin Heidegger: vita e opere Martin Heidegger nasce a Messkirch il 26 settembre 1889; studia a Friburgo, dove segue corsi di teologia sul627 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

la scorta dell’educazione fortemente cattolica impartitagli dalla famiglia. Terminati gli studi universitari a Friburgo, diventa assistente di Husserl, con il quale avrebbe cominciato un’intensa collaborazione ed al quale avrebbe dedicato lo scritto Essere e tempo (1927). Divenuto professore prima presso l’università di Marburgo, poi presso quella di Friburgo, prendendo la cattedra proprio al posto del suo maestro Husserl che, per le sue origini ebraiche, era stato costretto ad abbandonare l’insegnamento, Heidegger si dedica a tempo pieno alla carriera universitaria, tralasciando però la produzione letteraria: l’unico scritto di quel periodo, Kant e il problema della metafisica, è del 1929. Divenuto rettore dell’Università di Friburgo nel 1933, Heidegger, che aveva voluto evitare fino ad allora di far trapelare coinvolgimenti con il clima politico culturale di quel periodo, nel discorso che pronunciò in occasione della sua nomina dal titolo L’autoaffermazione dell’università tedesca lasciò però intuire una sua adesione al nazismo. Negli a seguire, dimessosi dalla carica di rettore, continua a tenere corsi, sebbene con la fine del regime fu allontanato per qualche tempo dall’insegnamento. Muore a Friburgo il 26 maggio 1976. Tra i suoi scritti più significativi si ricordano: L’essenza della verità (1943); Lettera sull’umanismo (1947); Sentieri interrotti (1950); Introduzione alla metafisica (1956); Saggi e discorsi (1954); Identità e differenza (1957); L’abbandono (1959); In cammino verso il linguaggio (1959); Nietzsche (1961). Il problema del senso dell’essere Il pensiero di Martin Heidegger si pone come approfondito discorso sull’“essere”, come “ricerca ontologica” volta a portare alla luce, nel modo più autentico possibile, il “senso dell’essere”. 628 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Martin Heidegger

“Ogni ontologia, per quanto disponga di un sistema di categorie ricco e ben connesso, rimane, in fondo, cieca e falsante rispetto al suo intento più proprio, se non ha in primo luogo sufficientemente chiarito il senso dell’essere e se non ha concepito questa chiarificazione come il suo compito fondamentale”. Pur essendo una filosofia dell’esistenza, ossia una filosofia nella quale è forte l’attenzione sull’uomo e la sua esistenza effettiva, quest’ultima è posta in stretto rapporto alla domanda sul senso dell’essere. Ogni esistenza ed esistente del mondo, rimanda e fa sorgere la domanda su ciò senza cui nessuna esistenza e esistente potrebbe esistere: l’essere. Nell’opera di Heidegger, dunque, “ciò che è cercato è la risposta al problema del senso dell’essere in generale e, prima di tutto, la possibilità di una elaborazione radicale di questo problema fondamentale di ogni ontologia”. In Essere e tempo1, Heidegger si sforza di riportare l’attenzione sull’“essere” che, dall’antichità fin allo stesso Nietzsche, è stato considerato come semplice-presenza, come mera sussistenza, come ciò che c’è ed è visibile, così come “è presente” e visibile un qualsiasi oggetto. L’essere è stato sempre considerato come ciò che è oggettivamente conoscibile, come ciò che è sotto i nostri occhi, come “forma” presente e afferrabile, ferma in sé e non diveniente. Non così per Heidegger: l’essere non è ciò che produce l’ente, non è neppure il fondamento o il principio, ma è ciò che lascia essere e vedere gli enti, è l’apertura luminosa che permette agli enti di mostrarsi. Ogni ente del mondo manifesta la luce dell’essere, ma non è mai l’essere né tantomeno la sua verità: ogni tentativo umano di oggettivare nella realtà e afferrare con l’intelletto l’essere, è votato al fallimento.

  Le citazioni di quest’opera sono tratte da: M. Heidegger, Essere e tempo, nuova edizione a cura di F. Volpi sulla versione di P. Chiodi, Longanesi, Milano 2008. 1

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

La scienza e la “tecnica”, interessati esclusivamente alle cose e agli oggetti del mondo, saranno accusati da Heidegger d’aver completamente contraffatto e obliato il senso dell’essere, portando al massimo compimento la tendenza di considerare l’essere come semplice-presenza, come oggetto conoscibile, come cosa del mondo. Contro tale oblio, il discorso heideggeriano intende affermare l’essere come ciò che “determina l’ente in quanto ente, ciò rispetto a cui l’ente, comunque sia discusso, è già sempre compreso”: l’essere non è visibile, non è afferrabile né conoscibile nel mondo, ma è ciò che “determina l’ente in quanto ente” e ciò che comprende e abbraccia ogni esistente. Il senso dell’essere è dunque rintracciabile soltanto facendo riferimento all’essere degli “enti” del mondo e alla loro esistenza in quanto determinazioni dell’essere. Esistenza degli enti, che è sempre storico-temporale, diveniente e finita. Temporalità e storicità, divenire e finitezza, assumono un ruolo centrale all’interno dell’ontologia heideggeriana: “nel fenomeno del tempo, rettamente inteso e rettamente esplicitato, si radica la problematica centrale di ogni ontologia”. Se l’essere è nel tempo, se è esistenza diveniente, allora è mancanza di fondamento assoluta, è instabilità, insussistenza e finitezza radicale. Puntando l’attenzione sul rapporto inscindibile tra essere e tempo, evidenziando cioè il carattere relativo e finito di ciò che fa sì che ogni cosa esista, Heidegger s’impone nel mondo filosofico come colui che, innestandosi nella tendenza caratteristica della maggior parte delle testimonianze filosofiche dell’età contemporanea, nega risolutamente ogni struttura o verità o entità (pretesa) immutabile e eterna. Sottolineare il carattere temporale dell’essere, implica inoltre, come vedremo, la messa in evidenza dell’essenza diveniente e mortale dell’esistenza umana.

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Martin Heidegger

La differenza ontologica, l’oblio dell’essere e la verità come “alétheia” Secondo Heidegger, per tentare di risolvere o elaborare il problema del senso dell’essere, non si può che rintracciare, anzitutto, il senso originario dell’essere dell’“ente”, a patto, si badi, di non negare la “differenza ontologica“ che intercorre tra l’essere e gli enti del mondo. “L’essere dell’ente non ‘è’ esso stesso un ente. Il primo passo innanzi filosofico nella comprensione del problema dell’essere consiste nel non ‘raccontare storie’, cioè nel non pretendere di determinare l’ente in quanto ente facendolo derivare da un altro ente, come se l’essere avesse il carattere di un ente possibile”. A differenza di quanto sostenuto dalla metafisica tradizionale, per Heidegger l’essere non è mai ciò che è comune ad ogni ente. Non si può cercare il senso dell’essere indagando semplicemente gli enti, perché l’essere è il non-ente per eccellenza, è l’“altro” dell’ente, é la sua antitesi. L’Essere è “differenza”, assoluta e ineliminabile, da ogni ente e dalla totalità degli enti. Rispetto al singolo ente, come alla totalità degli enti, l’essere è il “nulla”, da intendere come differenza massima o trascendenza assoluta rispetto all’ente. “È vero che la metafisica rappresenta l’ente nel suo essere, e pensa così anche l’essere dell’ente. Ma essa non pensa l’essere come tale, non pensa la differenza tra l’essere e l’ente. […] La metafisica non si interroga sulla verità dell’essere stesso. Perciò, essa non si chiede neppure mai in che modo l’essenza dell’uomo appartenga alla verità dell’essere. Non solo la metafisica non ha ancora posto finora questo problema, ma questo problema è inaccessibile alla metafisica in quanto metafisica. L’essere attende ancora di divenire esso stesso degno per l’uomo di essere pensato”. La metafisica tradizionale, da Platone a Nietzsche, ha inteso rintracciare il senso e la verità dell’essere indagan631 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

do gli enti del mondo. Così facendo, avverte Heidegger, si è pervertito e ridotto la “metafisica” a “fisica”, si è retrocessa la ricerca metafisica della verità dell’essere a ricerca rivolta e assorbita dalle cose del mondo fisico. In tal modo, la metafisica tradizionale ha completamente perso di vista l’essere, obliandolo del tutto, al punto tale di delegittimare l’essere stesso quale detentore della verità, per incensare in modo definitivo, come iniziò a fare Platone, la mente umana, ossia i contenuti e le idee del pensiero, a unici e indiscussi detentori d’ogni senso e verità. In base a questa concezione platonica, la filosofia successiva ha sempre più inteso la verità come una questione riguardante proposizioni e giudizi logico-concettuali, ossia come una questione essenzialmente intellettuale, umana. Affermato l’uomo quale ente fisico a cui appartiene il privilegio esclusivo di possedere la verità d’ogni cosa esistente, l’essere, agli occhi di Heidegger, si trova ad essere privato e derubato del suo carattere fondamentale. Negato il suo carattere fondamentale, è stato allora possibile, e quanto mai agevole, ridurre l’essere a ciò che è presente, a semplice oggetto e cosa del mondo, riducendo, allo stesso tempo, la verità a esattezza logico-matematica. La stessa religione cristiana, che afferma che l’essere e la verità d’ogni cosa è il Dio della rivelazione biblica, definendo questo Dio come l’“ente onnipotente”, come oggettività suprema, ha portato alle sue massime conseguenze l’errata tendenza di ridurre l’essere a ente oggettivamente esistente. L’oblio dell’essere, sostiene Heidegger, appare in tutta la sua perentoria evidenza. L’oblio dell’essere per Heidegger non ha caratterizzato la filosofia sin dalla sua origine. Egli rintraccia nei primissimi filosofi greci – Anassimandro, Parmenide ed Eraclito –, una concezione della “verità” che sposa e approfondisce. Per questi filosofi la “verità” è alétheia, ossia è dis-velamento o non-nascondimento, da intendersi come dis-velarsi dell’essere. La verità dell’essere consiste nel suo la632 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Martin Heidegger

sciar essere e apparire le cose, nel suo illuminare gli enti, nel portarli dal loro essere nascosti al loro essere nella luce dell’essere e, allo stesso tempo, nel nascondere se stesso in questo lasciar essere e illuminare gli enti. Gli enti emergono dal fondo oscuro dell’essere, che resta sempre nascosto, e in questo emergere vengono ad apparire così come sono in se stessi, nella loro verità. L’essere è l’apertura in cui ogni cosa è lasciata apparire, è ciò che fa uscire dal nascondimento gli enti del mondo, ma mai sé. L’essere è ciò che manifesta e mostra gli enti nella verità del loro apparire, ma che, in quanto fondo oscuro e nascosto, non può mai essere compreso, afferrato e oggettivato. Non essendo né il fondamento né il principio delle cose, ma solo ciò che lascia essere le cose, ogni ente del mondo, compreso quell’ente che è l’uomo, si trova ad esistere in un essere che, in quanto nulla e trascendenza (dell’ente), è mancanza di fondamento, instabilità totale, radicale finitezza. Allo stesso modo, dire che l’essere non è il fondamento delle cose del mondo, significa affermare che ogni cosa esce dal nulla e al nulla, presto o tardi, farà ritorno. Nessun rimedio ultimo, capace di salvarci dall’annullamento assoluto, è dunque presente nella filosofia heideggeriana. Il metodo fenomenologico Heidegger, convinto che “l’ontologia è possibile soltanto come fenomenologia”, fa sua la lezione di Husserl: è necessario, nell’analisi filosofica, guardare agli enti e ai fenomeni nella loro evidenza immediata, ossia a come si manifestano e appaiono, in “carne e ossa”, alla nostra conoscenza. Così Heidegger: “Il termine ‘fenomenologia’ esprime una massima che può esser formulata così: ‘Alle cose stesse!’ e ciò in contrapposto alle costruzioni slegate, ai trovamenti casuali, all’assunzione di concetti giustificati solo appa633 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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rentemente, agli pseudoproblemi che sovente si trasmettono da una generazione all’altra come ‘problemi’”. Il metodo fenomenologico è adottato da Heidegger in maniera molto originale, in quanto egli mira sì a cogliere gli enti così come essi si danno immediatamente alla coscienza, ma non per pervenire, come intendeva Husserl, a “essenze” ideali della realtà, grazie alle quali giungere ad un sapere razionalmente perfetto. Ciò che Heidegger intende analizzare mediante il metodo fenomenologico, non è la totalità degli enti della realtà circostante, ma l’uomo, “quell’ente che noi stessi siamo”, da Heidegger chiamato “Esserci”, che è un determinato ente tra gli innumerevoli enti del mondo. Il metodo fenomenologico, dunque, è utilizzato non per conoscere il mondo sotto forma d’esattezza logica, ma per pervenire ad una quanto più autentica comprensione dei fenomeni costitutivi dell’esistenza umana. Il richiamo alla lezione husserliana inoltre, fa sì che, nell’analisi delle forme possibili nelle quali l’uomo può esplicare la propria esistenza, Heidegger intenda evitare ricerche e teorie non in grado di rispettare quel carattere di “imparzialità” che deve essere perseguito, con attento scrupolo, da un serio discorso filosofico. Con tale intento, si appresta a studiare l’essere dell’uomo, l’esistenza umana, nella sua accezione più comprensiva, ossia nella sua “quotidianità” o “medietà”. “La modalità di accesso e di interpretazione [dell’Esserci] deve esser scelta in modo che questo ente possa mostrarsi da se stesso e in se stesso. E in verità l’ente [l’Esserci] dovrà mostrarsi così com’è innanzi tutto e per lo più, nella sua quotidianità media. Di essa non verranno poste in luce strutture qualsiasi e accidentali, ma quelle essenziali, cioè quelle che si mantengono ontologicamente determinanti in ogni modo di essere dell’Esserci effettivo. Con riferimento alla costituzione fondamentale della quotidianità dell’Esserci avrà quindi luogo la chiarificazione preparatoria dell’essere di questo ente”. In breve, ciò che risalta anzitutto agli occhi e ciò che per lo 634 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Martin Heidegger

più o mediamente appare nella vita di tutti i giorni, è ciò che Heidegger intende porre come punto di partenza della propria ricerca intorno al problema dell’esistenza umana, strettamente legato a quello del senso dell’essere. L’analitica esistenziale dell’Esserci “Il fatto che già sempre viviamo in una comprensione dell’essere e che, nel contempo, il senso dell’essere continua a restare avvolto nell’oscurità, attesta la necessità fondamentale di una ripetizione del problema del senso dell’‘essere’”. Grave errore è pensare, come è stato fatto nelle ontologie metafisiche precedenti, che il concetto di “essere” sia il “più generale e vuoto di tutti”; così come è errato pensare che tutti “comprendono che cosa si intende con esso”, al punto di non aver neppure bisogno di essere definito. A differenza di questa ingenua comprensione ontologica, che fa coincidere l’essere con ciò che è “semplicemente-presente”, ossia con l’oggetto o l’ente che ci appare nel mondo, Heidegger sostiene che “il concetto di ‘essere’ è anzi il più oscuro di tutti”, e merita tutta l’attenzione possibile, al fine di definirlo quanto più adeguatamente. “In quale ente si dovrà cogliere il senso dell’essere? Da quale ente prenderà le mosse l’aprimento dell’essere? Il punto di partenza è indifferente o un determinato ente possiede un primato per quanto concerne l’elaborazione del problema dell’essere? Qual’è questo ente esemplare e in che senso possiede un primato?”. Ebbene, se l’intento heideggeriano consiste nel ricercare il senso dell’essere, tale ricerca non può che partire dall’analisi dell’“Esserci” (l’uomo). Vediamo perché. All’analisi filosofica dell’Esserci, e dei vari modi in cui esso può spendere la propria esistenza nel mondo è rivolto Essere e tempo che, nonostante lo stesso Heidegger nello sviluppo del suo pensiero svolterà verso nuovi orizzonti 635 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

speculativi, è da considerarsi come opera di primaria importanza all’interno del panorama filosofico contemporaneo. Alla sua analisi sulle strutture costitutive dell’esistenza umana, Heidegger dà il nome di “analitica esistenziale”, che mira, appunto, “alla discussione di ciò che costituisce l’esistenza”. “L’ontologia fondamentale, da cui soltanto tutte le altre possono scaturire deve esser cercata nell’analitica esistenziale dell’Esserci”. Questo perché è l’uomo – l’Esserci – l’unico ente del mondo che interroga in prima persona se stesso sul problema del senso dell’essere. Nell’interrogarsi sul senso dell’essere, consiste il senso del primato dell’Esserci rispetto ad ogni altro ente “intramondano”. L’uomo è l’“ente esemplare” mediante il quale è possibile delucidare le “maniere di penetrazione nell’essere, di comprensione e di possesso concettuale del suo senso”. L’uomo è l’unico ente del mondo che possiede “quella possibilità d’essere che consiste nel porre il problema” sul senso dell’essere. In altri termini, l’uomo è l’unico ente che si pone la domanda sul senso dell’essere: interrogando se stesso, allo stesso tempo, interroga l’essere; così come, interrogando l’essere, non fa che interrogare se stesso. Ne segue che, per ricercare il senso dell’essere, dobbiamo preliminarmente analizzare “questo ente che noi stessi già sempre siamo”, ossia l’uomo, che “indichiamo col termine Esserci (Dasein)”. “La posizione esplicita e trasparente del problema dell’essere richiede una adeguata esposizione preliminare di un ente (l’Esserci) nei riguardi del suo essere”; “L’Esserci si è dunque rivelato come l’ente che, prima di ogni altro, dev’essere interrogato ontologicamente”; “Se l’interpretazione del senso dell’essere è assunta a compito, l’Esserci non solo è l’ente che deve essere interrogato primariamente, ma esso è inoltre l’ente che, nel suo essere, già sempre si rapporta a ciò a proposito del quale tale problema è posto”.

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Martin Heidegger

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Mondo, esistenza, possibilità Attestato che una seria analisi sul senso dell’essere non può che partire dall’analisi dell’Esserci, resta da chiarire ciò che caratterizza, “in linea essenziale”, le forme originarie e caratteristiche della sua esistenza o, come dice Heidegger, i suoi “esistenziali”. “All’Esserci appartiene in linea essenziale di essere in un mondo”. L’uomo è-nel-mondo. L’essere umano è colui che esiste “gettato” nel mondo; il carattere fondamentale dell’uomo è il suo “essere-nel-mondo”. L’uomo, dunque, è “l’ente che è sempre nel modo dell’essere-nel-mondo”. Il rapporto uomo-mondo è assolutamente originario e costitutivo, e in questo senso capiamo perché Heidegger bolli come artificiosa ogni distinzione tra soggetto e oggetto, tra io e ambiente circostante, tra uomo e mondo. Come per Jaspers, senza l’uomo non v’è nessun mondo, e viceversa. L’esistenza umana deve essere analizzata in riferimento al rapporto, concreto ed effettivo, tra l’uomo e il mondo. In tal modo Heidegger, segna una via analitica, rintracciata anche in Jaspers, che caratterizzerà l’approccio della filosofia esistenziale, che non scorderà mai di considerare e analizzare l’uomo in costante riferimento al suo esistere situato nel mondo. Con l’attenzione posta al rapporto uomo-mondo, cade ogni pretesa, di stampo idealistico e neokantiano, di risolvere ogni problema facendo esclusivo riferimento alla struttura di quel “mondo interno” che è la coscienza umana, alla “soggettività” del pensiero, all’esattezza logica, alle categorie concettuali. Non si gioca nella mente il senso dell’essere umano, bensì è sempre e soltanto nel mondo che si gioca il senso di questo come di ogni esistente. Il modo d’essere dell’uomo è il suo esser-ci, ossia il suo essere “gettato” sempre in una “situazione”, che è sempre una situazione storica. L’uomo, in quanto Esser-ci (Da637 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

sein), è l’essere (sein) che “ci” (das) è, è l’ente che esiste sempre in una determinata situazione. L’essenza dell’uomo è l’esistenza, che è “possibilità”, “poter-essere”. L’uomo si trova di fronte a svariate possibilità che – il possibile essendo l’antitesi del necessario – possono realizzarsi o fallire. L’uomo si rapporta al proprio essere come alla propria possibilità, egli “è” solo in quanto “può essere”, egli stesso è la propria possibilità. È importante notare che Heidegger usa il termine “essenza” o “natura” umana in modo molto originale, in quanto, rispetto al significato tradizionale, tali termini non implicano qualcosa di immutabile, predeterminato e definitivo. Dire che l’essenza dell’uomo è l’esistenza, significa negare decisamente ogni carattere immutabile e definitivo riguardante l’essere umano, proprio perché l’esistenza è possibilità, libertà, orizzonte aperto al cambiamento, allo sviluppo, al mutamento: l’esistenza è divenire. “Se l’esistenza determina l’essere dell’Esserci e se la sua essenza è costituita dal poter-essere, ne viene che l’Esserci, fintanto che esiste, potendo-essere ha sempre ancora qualcosa da essere”. Dicendo che l’uomo è “esistenza” intesa come “poter-essere”, Heidegger intende affermare che esso non è ciò che esiste così come esiste qualsiasi altro ente del mondo, sia questo un masso o un cane o altro ancora. Quella possibilità che è l’esistenza umana, è antitesi di ogni “realtà”, di ogni situazione data, ossia di ciò che è semplicemente presente. L’esistenza umana è l’antitesi di ciò “che-è”, dell’“esser-così”, della “realtà”, della “semplice presenza”, della “sussistenza”, ecc. L’esistenza dell’uomo è di continuo aperta a nuove possibilità, oltrepassa sempre ciò che si è, trascende sempre la “realtà” semplicemente presente, supera di continuo la situazione data. L’ex-sistere in cui consiste l’essere umano, va inteso appunto come uno stare (sistere) fuori (ex) dalla realtà data, come un oltrepassare e superare continuo la situazione semplicemente presente, in direzione della possibilità, che implica sempre 638 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Martin Heidegger

numerose ed eterogenee maniere d’essere, numerose ed eterogenee modalità di “progettare” la propria esistenza. “In virtù del modo di essere che è costituito da quell’esistenziale che è il progetto, l’esserci è costantemente ‘più’ di quanto di fatto sarebbe qualora lo si potesse o volesse prendere in esame nella sua sussistenza ontologica come semplice presenza”. In questo senso comprendiamo perché Heidegger afferma che l’esistenza è essenzialmente “trascendenza”: l’uomo, per propria costituzione potremmo dire, è colui che di continuo si porta avanti, che supera sempre ciò che si è, ossia è colui che pro-getta da sé la propria esistenza. Non vi è nessuna essenza immutabile e definitiva, che predetermina, regola e prestabilisce l’esistenza dell’uomo. Esistenza, che appare come ciò che è mai compiuta e conclusa, come ciò che è aperta a ogni possibilità e maniera d’esistere, come movimento diveniente e sviluppo storico. Le cose e la Cura “L’Esserci non è una semplice-presenza che, in più, possiede il requisito di potere qualcosa, ma è primariamente un esser-possibile. L’Esserci è sempre ciò che può essere e nel modo in cui è la sua possibilità”. L’uomo, in quanto essere che esiste nel mondo, in quanto apertura al possibile e in quanto libertà, è chiamato a decidere e a scegliere da sé quale possibilità esistenziale, quale progetto intende attuare o meno nel corso della sua vita. “L’Esserci è un esserpossibile consegnato a se stesso, una possibilità gettata da cima a fondo. L’Esserci è la possibilità dell’esser libero per il più proprio poter-essere”. La scelta riguardo a ciò che si vuole essere, spetta esclusivamente al singolo individuo, essendo l’esistenza ciò che “viene decisa, nel senso del possesso o del fallimento, soltanto da ogni singolo Esserci”. Nel mondo l’individuo sceglie di progettare liberamente 639 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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la propria esistenza. È questo stesso mondo a fornirgli gli “utensili”, gli “strumenti” e i “mezzi” per gli scopi e i bisogni vitali. Le cose del mondo non vanno soltanto considerate come ciò che vi è di semplicemente presente allo sguardo dell’uomo. Quest’ultimo, infatti, nei confronti delle cose del mondo, non si limita a contemplarle teoricamente in modo disinteressato, come intendeva Husserl, bensì, anzitutto (ossia originariamente), le ha a portata di mano, le ha cioè vicine e aperte ad una possibile utilizzabilità e comprensione. “Il solo guardare alle cose nel loro rispettivo ‘aspetto’, anche se acutissimo, non può scoprire l’utilizzabile. Lo sguardo che guarda alle cose solo ‘teoricamente’ è estraneo alla comprensione dell’utilizzabilità”. Il rapporto tra l’uomo e l’ambiente, tra le cose del mondo e l’Esserci, è una relazione concreta ed effettiva. Ciò che l’uomo, nella quotidianità, comprende del mondo, non è un sapere astratto e esclusivamente teoretico, non è rivolto all’“aspetto” delle cose del mondo, ma è anzitutto intento a scoprirle e comprenderle, prendendosene “cura”, come strumenti e mezzi utili a soddisfare, agevolare e realizzare la propria esistenza terrena. Il mondo è dunque l’insieme degli “utilizzabili intramondani” che stanno a disposizione dell’uomo, il quale se ne prende “cura” perché indispensabili per realizzare i suoi scopi e bisogni. “L’Esserci, ontologicamente inteso, è Cura. Poiché all’Esserci appartiene, in linea essenziale, l’essere-nel-mondo, il suo essere in rapporto al mondo è essenzialmente prendersi cura”. Prendersi cura delle cose del mondo, significa scoprire e comprendere in che modo una determinata o più cose possono essere utilizzate, cosa rendono possibile fare e cosa no, a cosa e in che modo possono essere funzionali per portare a termine e quindi a compiuta realizzazione un determinato progetto o, più in generale, quel grande progetto che è la nostra stessa esistenza. Per comprendere il significato delle cose del mondo, si devono comprendere i possibili loro usi, e come questi usi 640 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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possono accordarsi ai nostri scopi: “L’utilizzabile è scoperto come tale nella sua utilizzabilità, nella sua impiegabilità, nella sua dannosità”. Dire che le cose del mondo sono anzitutto strumenti, non significa affermare che sono tutti mezzi o utensili che adoperiamo o manipoliamo effettivamente, ma che esse si presentano fornite di un certo significato e valore rispetto alla nostra vita e ai nostri scopi. Cose del mondo, che a noi si presentano come “strumenti” sono anche il mare, la luna, il cielo stellato: cose che non possiamo utilizzare materialmente, ma che sono in aperta relazione con la nostra vita, come quando, ad esempio, un sentimento misto d’infinità e pochezza ci assale quando contempliamo l’orizzonte infinito del mare e lo confrontiamo con la nostra piccola e breve vita. Da un lato, il mondo limita l’uomo in base alla disponibilità degli utensili messi a disposizione, dall’altro, proprio grazie al suo essere l’insieme degli strumenti utilizzabili, rende possibile all’uomo di attuare la propria esistenza. A sua volta l’uomo, trasformando con la sua opera il mondo, non fa che trasformare se stesso, essendo, per definizione, l’ente che esiste, in modo concreto ed effettivo, nel mondo. “L’Esserci trova ‘se stesso’ innanzi tutto in ciò che sta facendo, in ciò di cui ha bisogno, in ciò che si aspetta, in ciò che evita, cioè nell’utilizzabile intramondano di cui innanzi tutto si prende cura”. Il con-mondo e l’aver cura degli altri Oltre ad essere-nel-mondo e a prendersi cura delle cose del mondo, ciò che costituisce essenzialmente l’Esserci è il suo “essere-con-gli altri”. Gli altri uomini, gli altri Esserci “sono quelli dai quali per lo più non ci si distingue e fra i quali, quindi, si è anche”. Pertanto non vanno considerarti come oggetti o “cose umane” semplicemente presenti, bensì essi formano, ori641 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ginariamente (“già sempre”), quel mondo nel quale io e gli altri coesistiamo: “il mondo è già sempre quello che io condivido con gli altri. Il mondo dell’Esserci è con-mondo”. Nel mondo, gli altri “non sono mai incontrati come personecosa semplicemente-presenti; noi li incontriamo ‘al lavoro’, cioè, in primo luogo, nel loro essere-nel-mondo. […] L’altro si incontra nel suo con-Esserci nel mondo”. È un esistenziale dell’Esserci, è un carattere costitutivo dell’uomo, il vivere nel mondo in aperta partecipazione e coesistenza con la vita degli altri, pur quando, pur in perfetta solitudine, ci appare esattamente il contrario: “anche l’esser solo dell’Esserci è un modo di con-essere nel mondo. L’altro può mancare soltanto in e per un con-essere. L’esser solo è un modo difettivo del con-essere, e la sua stessa possibilità è la conferma di quest’ultimo”. L’Esserci, dunque, “ha la struttura esistenziale del conessere”, ovvero è colui che esiste, da sempre, nel mondo assieme agli altri Esserci. Non essendo un “mezzo utilizzabile” ma un Esserci come io stesso sono, in merito a questo altro Esserci non si può parlare del “prendersi cura”, ma dell’“aver cura”. Ebbene, “l’essere l’uno per l’altro, l’uno contro l’altro, l’uno senza l’altro, il trascurarsi l’un l’altro, il non importare all’uno dell’altro sono modi possibili dell’aver cura. Sono proprio i modi citati per ultimi, cioè quelli della deficienza e dell’indifferenza, che caratterizzano l’essere-assieme quotidiano e medio”. L’“aver cura” degli altri, secondo Heidegger rappresenta la struttura basilare di ogni possibile rapporto tra gli uomini, e in base a ciò è possibile delineare i due atteggiamenti estremi in cui i rapporti umani possono incanalarsi. Ad un estremo, “l’aver cura può in certo modo sollevare l’altro dalla ‘cura’ sostituendosi a lui nel prendersi cura, intromettendosi al suo posto. […] L’altro risulta allora espulso dal suo posto, retrocesso, per ricevere a cose fatte e da altri, già pronto e disponibile, ciò di cui si prendeva cura, risultandone del tutto sgravato”. Sollevandolo dal642 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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la “cura” – che, si badi, “determina in linea generale l’essere dell’Esserci”, e quindi è un che di essenziale alla vita dell’Esserci – al contrario di quanto si potrebbe pensare, si trasforma l’altro in “dipendente” e “dominato”, in quanto lo si rende incapace di prendersi cura autonomamente delle cose del mondo. Per tale motivo, questo caso estremo rappresenta la forma inautentica della coesistenza fra gli Esserci. In questa inautentica relazione con gli altri, ci si limita ad un semplice “essere-assieme”, ad un mero “fare le stesse cose”, caratterizzato per lo più dal distacco e dalla diffidenza. “Un essere-assieme che trae origine dal fare le stesse cose resta per lo più non solo limitato a rapporti esterni, ma dominato dal distacco e dalla riserva. L’essere-assieme di coloro che sono impiegati nello stesso affare non si nutre sovente che di diffidenza”. All’altro estremo invece, vi è la possibilità autentica dell’“aver cura” degli altri Esserci, che, in quanto opposta a quella appena descritta, non consiste nell’“intromettersi al posto degli altri […] per sottrarre loro la cura”, ma nell’aiutare “l’altro a divenire trasparente nella propria cura e libero per essa”. Interessarsi ad aiutare l’altro a divenire libero di realizzare la propria essenza, aver cura che l’altro divenga libero di realizzare il proprio prendersi cura delle cose del mondo, rappresenta l’autentico coesistere degli Esserci, dove ognuno, liberamente, si impegna per la “medesima causa”. “L’impegnarsi in comune per la medesima causa è determinato dall’Esserci che è toccato rispettivamente nel proprio. Solo questo legame autentico rende possibile la determinazione giusta della cosa in questione e rimette l’altro alla propria libertà”. L’esistenza inautentica come dittatura del Si L’Esserci è quell’ente, storico e finito, che abita nel mondo coesistendo con altri Esserci. 643 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

Nel mondo, l’Esserci è colui che si trova in una data situazione e che, a differenza degli altri enti intramondani, col suo libero decidere e progettare, col suo “poter-essere” ciò che egli stesso sceglie e decide, si porta di continuo oltre ogni situazione data, in vista di nuove possibilità esistenziali. “Ma il poter-essere, in quanto sempre mio, è libero per l’autenticità, l’inautenticità o la loro differenza modale”. In quanto libero di progettare e decidere la propria esistenza, l’Esserci è, di conseguenza, aperto alla possibilità di vivere una esistenza autentica oppure inautentica. È quest’ultima forma di esistenza quella che si presenta anzitutto allo sguardo di Heidegger, che, come sappiamo, è rivolto a ciò che si manifesta immediatamente all’interno della vita quotidiana. Secondo Heidegger, l’uomo vive per lo più un’esistenza inautentica, in quanto si smarrisce “nella pubblicità del ‘si’”, ossia accetta passivamente l’opinione comune e fa suo ciò che il “si” impersonale, neutro e anonimo della mentalità pubblica, dice di fare o pensare. Il Si – che, in quanto pronome impersonale, è utilizzato da Heidegger per sottolineare l’impersonalità, la neutralità e l’anonimità che il termine evoca e rappresenta – dice cosa “si” deve fare, cosa “si” deve pensare, persino come “si” deve vivere e morire. Nell’esistenza inautentica, affogata nel Si, ognuno diviene uguale all’altro; gli uomini diventano interscambiabili, “si appartiene agli altri” e nessuno appartiene a sé. In quanto il singolo Esserci si dissolve immedesimandosi nel modo d’essere “degli altri”, ogni particolarità e determinatezza scemano del tutto, lasciando il posto all’irrilevanza e all’indistinzione generale: “Ognuno è gli altri, nessuno è se stesso”. Anche chi intende contestare l’opinione comune, o scandalizzarsi della “gran massa”, ormai roso dall’indifferenza dell’essere-assieme e quindi volatilizzatosi nell’oceano della neutralità del “Si”, non fa che nuotare, inconsciamente o meno, nelle acque stagne e impersonali dell’esistenza 644 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Martin Heidegger

inautentica, tutta votata a livellarsi e adeguarsi al senso comune e al modo di essere della quotidianità. “In questo stato di irrilevanza e di indistinzione il Si esercita la sua autentica dittatura. Ce la passiamo e ci divertiamo come ci si diverte; leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si vede e si giudica. Ci teniamo lontani dalla ‘gran massa’ come ci si tiene lontani, troviamo ‘scandaloso’ ciò che si trova scandaloso. Il Si, che non è un Esserci determinato ma tutti (anche se non come somma), decreta il modo di essere della quotidianità”. Smarrirsi nella “pubblicità”, che caratterizza la quotidiana esistenza inautentica, significa disperdersi nella “medietà”, significa dissolvere ogni pensiero originale ed eccezionale nel risaputo, nell’ovvio, nel comune. Ogni interpretazione del mondo e dell’Esserci viene regolata dalla “pubblicità” o “medietà” che, “insensibile ad ogni discriminazione di livello e di purezza”, “oscura tutto e spaccia ciò che risulta così dissimulato come notorio e accessibile a tutti”. Regolando l’esistenza dell’Esserci, il Si decide al posto dell’Esserci, si sostituisce ad esso, lo sottrae a se stesso, sgravandolo da ogni responsabilità, decisione e scelta. “In questo sgravamento di essere, il Si si rende accetto all’Esserci perché ne soddisfa la tendenza a prendere tutto alla leggera e a rendere le cose facili. Appunto perché il Si, mediante lo sgravamento, si rende sempre accetto a ogni singolo Esserci, mantiene e approfondisce il suo ostinato dominio”. A causa del dominio del Si, che regna incontrastato per la capacità di rendere ogni cosa leggera e facile, il singolo Esserci è ridotto a mera marionetta manovrata da quel “nessuno” che è il Si stesso, perché, rappresentando ciò che è accettato e seguito da tutti indiscriminatamente, di conseguenza risulta essere ciò che è accettato e seguito da nessun ente determinato: l’esistenza dissolta nel Si è un’esistenza assolutamente anonima, priva di ogni autentica responsabilità e decisione partecipata. 645 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

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Chiacchiera, curiosità, equivoco Nella situazione inautentica del Si, dove tutti intendono le medesime cose perché tutti pensano e comprendono nella medesima (e quindi anonima) maniera, ciò che nei rapporti umani la fa da padrona è la “chiacchiera”. Ciò che conta non è quello che si dice o si scrive, né il significato che vogliamo ricavare o dare all’oggetto delle nostre parole e frasi: l’importante è che si discorra, che si scriva, che si chiacchieri. In tal modo, si ripetono in continuazione gli stessi vuoti e inutili discorsi, si scrivono sempre le stesse piatte e sterili parole, in quanto si è convinti che “le cose stanno così perché così si dice”. La distinzione tra originalità e ripetizione viene così inghiottita dal fatto, assolutamente infondato, che è già tutto compreso, che tutto è già stato detto e scritto. Da ciò ne segue che: “La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna appropriazione preliminare della cosa da comprendere. La chiacchiera garantisce già in partenza dal pericolo di fallire in questa appropriazione. La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime dal compito di una comprensione genuina, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di inaccessibile”. L’Esserci, dunque, immerso in tale situazione inautentica, caratterizzata dalla chiacchiera infondata, si trova chiuso alla genuina comprensione della verità e privo della possibilità di pervenire ad una autenticità esistenziale. Ne segue che l’uomo non si rapporta al mondo per comprendere la verità dell’essere e di se stesso, ma si abbandona totalmente alla “curiosità”. L’Esserci, caduto preda della curiosità, è interessato solo “all’aspetto del mondo”, non intende dedicarsi a cogliere se stesso quale essere-nel-mondo, ma solo a “vedere” le cose del mondo, e a vederne sempre di nuove. L’Esserci, interessato a vedere di continuo nuove cose, vede gli utilizzabili quotidiani senza prendersi cura di comprendere ciò che vede: egli “si prende cura solamente di vedere”. 646 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Martin Heidegger

La curiosità, dunque, “cerca il nuovo esclusivamente come trampolino verso un altro nuovo. Ciò che preme a questo tipo di visione non è la comprensione o il rapporto genuino con la verità, ma unicamente le possibilità di abbandonarsi al mondo. La curiosità è perciò caratterizzata da una tipica incapacità di soffermarsi su ciò che si presenta. Essa non cerca quindi nemmeno la calma della contemplazione serena, dominata com’è dalla irrequietezza e dall’eccitazione che la spingono verso la costante novità e il cambiamento. In questa agitazione permanente la curiosità cerca di continuo la possibilità della distrazione”. La chiacchiera e la curiosità sono strettamente legate ad un terzo fenomeno caratterizzante l’esistenza inautentica e anonima: l’“equivoco”. Se grazie alla chiacchiera e alla curiosità ogni cosa è accessibile a tutti e ognuno può dire quel che vuole in merito a qualsiasi cosa, ne segue che non è più possibile decidere cosa è vero e cosa non lo è. In tal modo risulta impossibile pervenire ad una “comprensione genuina”, ad una verità autentica, e ciò che resta non è altro che l’equivocità assoluta. In tale situazione, “tutto sembra genuinamente compreso, afferrato ed espresso, ma in realtà non lo è; oppure non sembra tale, ma in fondo lo è”. In breve, la quotidiana esistenza inautentica affogata nel Si, perdendosi nella chiacchiera priva di fondamento, nella vuota curiosità e nell’equivoco che rende impossibile distinguere il vero dal falso, allontana il singolo Esserci dal fondare e progettare senza inganni, e quindi autenticamente, le proprie possibilità esistenziali. “Ma il Si non è il genere del singolo Esserci e neppure costituisce una sorta di sua qualità permanente”: il singolo individuo, che non è mai un che di “permanente” in quanto è esistenza diveniente aperta ad ogni possibilità, è sempre aperto alla comprensione di ciò che rende autentica ogni esistenza: l’“essere-per-la-morte”.

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La deiezione e il “non-ancora” Il modo d’essere del Si, l’esistenza inautentica dell’Esserci, secondo Heidegger è un esistenziale, ossia ciò che costituisce essenzialmente la vita umana nella sua quotidianità. La chiacchiera, la curiosità e l’equivoco sono “esistenziali” o “caratteri” che, rispetto all’Esserci, “contribuiscono a costituirne l’essere”: “il modo di essere quotidiano dell’apertura è caratterizzato dalla chiacchiera, dalla curiosità e dall’equivoco”. Nella connessione di questi tre esistenziali “si rivela un modo fondamentale dell’essere della quotidianità che noi chiamiamo la deiezione dell’Esserci”. Chiariamo a grandi linee quale significato assume tale termine nel discorso heideggeriano. L’Esserci è, “innanzi tutto o per lo più”, sempre “già decaduto da se stesso come autentico poter-essere e deietto nel ‘mondo’”. L’uomo, nella sua esistenza quotidiana, si trova già da sempre espulso dal suo autentico essere se stesso e questo trovarsi fuori dal proprio sé più autentico, coincide col suo originario esser “presso” il mondo, ossia col suo esser, già da sempre, caduto e smarrito nelle cose del mondo. In questo “non-esser-se-stesso” e in questo esser gettato (caduto, deietto) nel mondo, “l’Esserci è completamente stordito dal ‘mondo’ e dal con-Esserci degli altri nel Si”. Questa situazione, in quanto rappresenta la “costituzione fondamentale dell’Esserci”, dev’essere intesa come il modo d’essere quotidiano in cui l’Esserci trascorre la propria esistenza nel mondo e nella quale “si mantiene per lo più”: “la deiezione rivela una struttura ontologica essenziale e dell’Esserci stesso, struttura che ne costituisce così poco l’aspetto notturno da riempire, nella quotidianità, tutti i suoi giorni”. Nella deiezione, all’uomo è costantemente impedita la possibilità d’una esistenza autentica: egli è estraniato da sé, è come se si fosse “autoimprigionato”, e sprofonda sempre di più, come in un “gorgo”, nell’inautenticità del Si che lo stordisce con la presunzione 648 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Martin Heidegger

“tranquillizzante” che gli instilla la convinzione che “tutto va ‘nel modo migliore’ e tutte le porte sono aperte”. Pur sottolineando l’inevitabilità di essere già da sempre gettati in una esistenza inautentica, Heidegger non intende arrestare la sua ricerca ontologica, in quanto ha di mira la comprensione “originaria” dell’essere dell’Esserci, che non è realizzabile senza un’adeguata analisi e comprensione dell’esistenza umana presa nella sua possibilità di essere autentica. “Se l’interpretazione dell’essere dell’Esserci, in quanto fondamento dell’elaborazione del problema ontologico fondamentale, vuol farsi originaria, dovrà, prima di tutto, porre esistenzialmente in luce l’essere dell’Esserci nella sua possibile autenticità e totalità”. Heidegger, mosso da tale intento, inizia così una profonda “interpretazione ontologica della morte”, che lo porta a concludere anzitutto che: “nessuno può assumersi il morire di un altro”; “ogni Esserci deve assumersi sempre in proprio la morte. Nella misura in cui la morte ‘è’, essa è sempre essenzialmente la mia morte”. Presa nel suo aspetto autentico, è impossibile eludere la morte né tantomeno fuggirla come fa invece l’“interpretazione pubblica” (e quindi inautentica) del Si quando afferma, anonimamente, “che si muore”. La morte riguarda sempre e soltanto quel singolo Esserci che io sono, in quanto è ciò che a me è “più proprio”, in quanto è ciò di cui ne va della mia stessa esistenza. Quel “non-ancora” che è la morte, caratterizza essenzialmente il singolo Esserci, gli appartiene già da sempre, lo costituisce esistenzialmente: “il non-ancora è già incluso nel suo essere, e non come una determinazione accidentale, ma come suo elemento costitutivo”. La morte, in altri termini, è quel “non-ancora” che l’uomo, “in quanto è l’ente che è”, ossia in quanto esistenza diveniente e finita, “ha sempre da essere”: “l’Esserci, fintanto che è, è già sempre il suo non ancora”; l’uomo “è anche già sempre la sua fine”; “l’Esserci, in quanto gettato essere-nel-mondo, è già da sempre consegnato alla propria morte”. 649 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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L’essere-per-la-morte È opportuno precisare che Heidegger, in merito all’analisi portata avanti sul fenomeno della morte quale porta di ingresso per una comprensione autentica e totale dell’esistenza umana, non intende, essendo la sua un’analisi ontologica, indagare il “decesso” medico-biologico, ovvero la morte fisica intesa come semplice scomparire e puro cessare. Né intende dare consigli o regole edificanti su come affrontare la morte dei propri cari, né tantomeno imbastire teorie su presunte dimensioni ultraterrene. Heidegger, intende interpretare il fenomeno della morte “semplicemente come esso si radica nell’Esserci e in quanto possibilità di essere di ogni rispettivo Esserci”. In tal senso, non dobbiamo considerare il “non-ancora” o la “fine” (ossia la morte), come una semplice presenza non ancora attuatasi, ma come “un’imminenza che incombe”, come una “possibilità di essere”, come problema esistenziale che il singolo Esserci “deve sempre assumersi da sé”, visto che la morte rappresenta “la possibilità di non-poter-più-esserci”. La morte è la possibilità “assolutamente propria e incondizionata”, è cioè la possibilità estrema nella quale è messa in gioco la totalità dell’esistenza del singolo Esserci. È la possibilità “eccelsa” , il fenomeno più “eminente” e decisivo dell’intera esistenza umana, in quanto “è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’Esserci”. Essa è, quindi, l’insuperabile e l’incondizionato che caratterizzano l’intera esistenza di quell’“essere-nel-mondo” che è l’Esserci, che va dunque definito, ora, come “essere-per-la-morte”. La morte è il poter-essere più proprio dell’Esserci, è ciò con cui l’uomo è in costante rapporto e confronto durante tutta la sua esistenza. La morte, dunque, “non si può far coincidere con ciò a cui l’Essere perviene solo da ultimo col suo decesso”, al contrario rappresenta quel non-ancora estremo a cui l’intera esistenza è inevitabilmente subordinata e rivolta. 650 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Martin Heidegger

L’Esserci, essendo un “essere-per-la-fine”, già da sempre “effettivamente” muore. L’uomo è l’essere che esiste per morire, seppur nella sua esistenza quotidiana (inautentica) non tiene affatto conto di essere consegnato, già da sempre, alla propria morte. Heidegger individua nella “situazione emotiva” dell’angoscia ciò che rivela all’uomo, “nel modo più originario e penetrante”, il suo “essere-gettato” nella morte: “l’angoscia costituisce l’apertura dell’Esserci al suo esistere come esser-gettato per la propria fine”. Ciò fa della angoscia la situazione emotiva fondamentale, in quanto rivela ciò che vi è di più costitutivo e essenziale per l’Esserci, ossia il suo essere-per-la-morte (“l’essere-per-lamorte fa parte originariamente ed essenzialmente dell’es sere dell’Esserci”). “Nell’angoscia in cospetto della morte, l’Esserci è condotto davanti a se stesso in quanto rimesso alla sua possibilità insuperabile”. L’angoscia dischiude l’Esserci a ciò che di più autentico caratterizza la sua esistenza, ovvero il suo essere radicale finitezza, il suo essere un che di finito e mortale consegnato, già da sempre, al nulla. L’angoscia – che non ha nulla a che vedere con “la paura del decesso” – in quanto sentimento dell’imminenza estrema che incombe, in quanto “spaesamento” che pone l’uomo di fronte al nulla, rivela all’uomo il suo effettivo essere-per-la-morte. Questo perché essa porta l’Esserci a conoscenza di ciò che la morte ha di più caratteristico, ossia “che essa è possibile a ogni attimo” e in qualunque momento (“indeterminatezza del suo ‘quando’”). La morte, dunque, “come fine dell’Esserci, è la possibilità dell’Esserci più propria, incondizionata, certa e come tale indeterminata e insuperabile. La morte, come fine dell’Esserci, è nell’essere di questo ente per la sua fine”. L’autentica comprensione della nullità dell’esistenza Heidegger, evidenziando la morte come la “possibilità 651 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

eminente dell’Esserci stesso”, non intende affermare che l’esistere autentico è fondato sulla realizzazione concreta della morte. Se così fosse solo il suicida, col suo atto estremo, renderebbe autentica la propria esistenza. Al contrario, egli intende affermare il ruolo basilare che occupa una genuina comprensione della morte da parte del singolo Esserci: il singolo non deve fuggire o coprire la morte in quanto questa è la sua possibilità più propria. Il suicida, che col suo atto estremo cessa volontariamente di esistere, sottrae a sé stesso il proprio essere-per-la-morte, fugge la propria essenza autentica, che consiste in un esistere per la fine, in un vivere costantemente di fronte al nulla, ossia un assumere su se stessi la possibilità di tutte le possibilità rappresentata dal morire. Questo autentico assumere in se stessi la propria morte, non ha niente a che vedere col pensare costantemente alla morte, scervellandosi a calcolare quando e come avverrà, bensì si traduce nell’“anticipazione della possibilità”, ossia nel portarsi sempre più vicini e penetrare sempre più a fondo nella possibilità della nostra morte, e in questo “avvicinamento” comprenderla senza sempre meno veli, fino a coglierne il suo aspetto autentico. Chi comprende l’aspetto autentico della morte – che, in quanto possibilità estrema dell’esistenza, è la possibilità che tutte le altre possibilità divengano impossibili, ossia rappresenta la possibilità eminente che può annullare, rendendola appunto impossibile, la nostra stessa esistenza – comprende “l’impossibilità dell’esistenza in generale”, “l’incommensurabile impossibilità dell’esistenza”, la nullità d’ogni cosa, d’ogni progetto, d’ogni realizzazione e d’ogni senso. Questa “comprensione anticipante”, che comprende l’impossibilità e la nullità dell’esistenza, rende manifesto al singolo Esserci cos’è l’“esistere”, cos’è l’“essere dell’ente”, e quindi cos’è il suo stesso “essere”. L’esistere è un esistere di fronte al nulla, immersi nel nulla, consegnati (da sempre) al nulla. Esistere autenticamente, dunque, significa progettare la propria vita come comprensio652 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Martin Heidegger

ne genuina dell’essere, come apertura totale all’essere, che è nullità e finitezza assoluta. L’Esserci che ha compreso “il poter-essere più proprio ed estremo”, che ha compreso, cioè, che ogni suo progetto esistenziale, come ogni esistenza in generale, è irrealizzabile in quanto già da sempre consegnati al nulla, si apre alla possibilità dell’“esistenza autentica”, ossia può tendere ad un’esistenza compresa nella sua totalità. L’Esserci, salvatosi dal gorgo del Si “anticipandosi nella morte”, ha compreso che questa – sempre “incondizionata, insuperabile, certa e, come tale, indeterminata” – “lo reclama in quanto singolo” (ossia in quanto “se-Stesso”), che da sé deve scegliere di comprendere e decidere di assumersi la propria possibile fine e l’esistenza finita d’ogni cosa. Deve comprendere che bisogna “farsi libero per la propria morte” (“che è sempre e soltanto propria”) per aprirsi, così, alla “assoluta minaccia incombente” rappresentata dal nulla. È solo nell’angoscia che possiamo giungere a tanto, in quanto soltanto in essa “l’Esserci si trova di fronte al nulla della possibile impossibilità della propria esistenza”: “l’essere-per-la-morte è essenzialmente angoscia”. È l’angoscia che, portando alla luce la nullità dell’esistenza, ci rende capaci di sceglierci e accettarci come esseri finiti inevitabilmente consegnati al nulla, di accettarci esattamente come siamo, nel nostro essere più proprio, nel nostro essere autentico. Decisione, questa, che rende possibile liberarsi dalla “perdizione” e dispersione, opprimente e impersonale, del Si inautentico, nel quale ogni scelta e decisione personale è bandita, o meglio, nel quale ogni scelta e decisione è presa da “Nessuno”. Così Heidegger: “l’anticipazione svela all’Esserci la dispersione nel Si-stesso e, sottraendolo fino in fondo all’aver cura che si prende cura, lo pone innanzi alla possibilità di essere se stesso, in una libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del Si, effettiva, certa di se stessa e piena di angoscia: LA LIBERTÀ PER LA MORTE”. Comprendere che la morte è la possibilità eminente 653 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

dell’esistenza, comprendere che tutto è consegnato, senza possibilità di scampo, al dissolvimento, che ogni cosa è destinata ad annullarsi, che la nostra stessa esistenza è radicale e insuperabile nullità, significa liberarsi dalla tendenza ad assumere qualsiasi possibilità e qualsiasi progetto dell’esistenza come qualcosa di stabile e definitivo. Decidersi ad anticipare la propria morte, scegliere di rapportarsi, col coraggio dell’angoscia, all’estrema possibilità della propria esistenza, significa “dissolvere ogni solidificazione su posizioni esistenziali raggiunte”, significa comprendere autenticamente che ogni eventuale “situazione” della vita, che ogni possibilità esistenziale è sempre e soltanto una tra le tante ed equivalenti possibilità. Possibilità tra loro equivalenti che, come tali, sono tutte in egual modo aperte alla nullità dell’essere, o meglio, a quell’essere ch’è nulla, in quanto è ciò che rende possibile la storicità (il divenire, lo sviluppo) dell’esistenza, che è appunto un uscire dal e un ritornare nel nulla. Il singolo è chiamato ad accettare la propria finitezza, il proprio essere mortale, e a tale accettazione lo richiama quel “fenomeno originario dell’Esserci” che è la “voce della coscienza”, che rende finalmente possibile all’Esserci di risvegliarsi e di “ritrovarsi” cacciandosi fuori, una volta per tutte, dall’inautenticità del Si. Una volta svegliatosi e ritrovatosi, l’uomo non può che essere se stesso, non può che scegliersi e accettarsi come esistenza storica e temporale, mortale e finita e, allo stesso tempo, non può che accettare e “lasciar essere” la finitezza e la nullità della comunità umana a cui appartiene.

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PAGINE ANTOLOGICHE

Il problema del senso dell’essere Il problema del senso dell’essere deve esser posto. Se esso sia un problema fondamentale o il problema fondamentale, è una questione che richiede di esser chiarita in modo adeguato. […] Il cercare, in quanto cercare qualcosa, ha un suo cercato. Ogni cercare qualcosa è in qualche modo un interrogare qualcuno. Oltre al cercato, il cercare richiede l’interrogato. Quando il cercare assume i caratteri di una vera e propria ricerca, cioè un assetto specificatamente teoretico, il cercato deve essere determinato e portato a livello concettuale. Nel cercato si trova dunque, quale vero e proprio oggetto intenzionale della ricerca, il ricercato, ciò che costituisce il termine finale del cercare. Il cercare stesso, in quanto comportamento di un ente, il cercante, ha un carattere d’essere suo proprio. Un cercare può essere condotto in modo casuale o assumere il carattere della posizione esplicita di un problema. Ciò che caratterizza quest’ultima è che il cercare diviene trasparente a se stesso solo dopo che lo siano divenuti tutti i caratteri costitutivi del problema sopra elencati. Il problema del senso dell’essere deve esser posto. Siamo dunque nella necessità di discutere il problema dell’essere rispetto ai momenti strutturali suddetti. La posizione di un problema, in quanto cercare, ha bisogno di essere preliminarmente guidata da ciò che è cercato. Il senso dell’essere deve quindi esserci già disponibile in qualche modo. Come accennammo, noi ci muoviamo già sempre in una comprensione dell’essere. È da essa che sorge il problema esplicito del senso dell’essere e la tendenza alla sua determinazione concettuale. Non sappiamo 655 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

che cosa significa “essere”. Ma per il solo fatto di chiedere: “Che cosa è ‘essere’?” ci manteniamo in una comprensione dell’“è”, anche se non siamo in grado di stabilire concettualmente il significato di questo “è”. E nemmeno conosciamo l’orizzonte entro cui cogliere e fissare il senso dell’essere. Questa comprensione media e vaga dell’essere è un fatto. […] Ciò che nel problema dell’essere viene cercato non è qualcosa di completamente sconosciuto, benché sia qualcosa di innanzi tutto completamente inafferrabile. Nel problema dell’essere che stiamo per elaborare, il cercato è l’essere, ciò che determina l’ente in quanto ente, ciò rispetto a cui l’ente, comunque sia discusso, è già sempre compreso. L’essere dell’ente non “è” esso stesso un ente. Il primo passo innanzi filosofico nella comprensione del problema dell’essere consiste nel non “raccontare storie”, cioè nel non pretendere di determinare l’ente in quanto ente facendolo derivare da un altro ente, come se l’essere avesse il carattere di un ente possibile. In quanto cercato, l’essere richiede pertanto un suo particolare modo di esibizione, distinto in linea essenziale dallo scoprimento dell’ente. Di conseguenza, anche il ricercato, il senso dell’essere, richiederà un apparato concettuale suo proprio, che, di nuovo, si contrapporrà in linea essenziale ai concetti in cui l’ente ottiene la determinazione del proprio significato. Se l’essere costituisce il cercato, e se essere significa essere dell’ente, ne viene che, nel problema dell’essere, l’interrogato è l’ente stesso. L’ente, per così dire, sarà inquisito a proposito del proprio essere. […] Ma noi diamo il nome di “ente” a molte cose e in senso diverso. […] In quale ente si dovrà cogliere il senso dell’essere? […] Se il problema dell’essere deve esser posto esplicitamente e svolto nella piena trasparenza di se stesso, l’elaborazione di questo problema richiederà, in conseguenza delle delucidazioni da noi date, l’esplicazione del modo in cui si può volger lo sguardo all’essere, realizzarne la comprensione e afferrarne concettualmente il senso; e richiederà la preparazione della possibilità della scelta corretta dell’ente esemplare, nonché l’elaborazione della genuina via di accesso a questo ente. Ma volger lo sguardo, comprendere, afferrare concettualmente, scegliere, accedere a, sono comportamenti costitutivi del cercare e perciò parimenti modi di essere di un determinato ente, di quell’ente che noi stessi, i cercanti, siamo. […] 656 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Martin Heidegger: pagine antologiche

Questo ente, che noi stessi sempre siamo e che fra l’altro ha quella possibilità d’essere che consiste nel porre il problema, lo designiamo col termine Esserci [Dasein]. La posizione esplicita e trasparente del problema del senso dell’essere richiede una adeguata esposizione preliminare di un ente (L’Esserci) nei riguardi del suo essere. (M. Heidegger, Essere e tempo, nuova edizione a cura di F. Volpi sulla versione di P. Chiodi, Longanesi, Milano 2008, pp. 16-19). L’essere-con e l’aver cura degli altri La nostra analisi si è limitata finora a ciò che si incontra nel mondo come mezzo utilizzabile o quale natura semplicemente-presente, cioè all’ente con carattere difforme dall’Esserci. Questa limitazione era necessaria non solo al fine della semplicità espositiva, ma soprattutto perché il modo di essere dell’Esserci che si incontra nel mondo è diverso dall’utilizzabile e dalla semplice-presenza. Il mondo dell’Esserci rilascia dunque un ente che non solo è, in generale, diverso dai mezzi e dalle cose, ma che, conformemente al suo modo di essere (in quanto Esserci), è anch’esso “nel” mondo nel modo di essere dell’essere-nelmondo e come tale è incontrato nel mondo. Questo ente non è né un utilizzabile né una semplice-presenza, ma è così com’è l’Esserci stesso che lo rilascia: anch’esso ci è con. Se mai si volesse identificare il mondo in generale con l’ente intramondano, si dovrebbe dire che il “mondo” è anche Esserci. La caratterizzazione dell’incontro con gli altri prende così di nuovo le mosse dall’Esserci sempre proprio. Ma, in tal caso, non finirà per muovere anch’essa dalla delimitazione e dall’isolamento dell’“io”, per cercare poi un passaggio da questo soggetto isolato agli altri? Per ovviare a questo fraintendimento va tenuto presente il senso in cui qui si parla di “altri”. “Gli altri”, in questo caso, non significa coloro che restano dopo che io mi sono tolto. Gli altri sono piuttosto quelli dai quali per lo più non ci si distingue e fra i quali, quindi, si è anche. Questo anche-esser-ci con essi non ha il carattere ontologico di un esser-semplicemente-presente-“con” dentro un mondo. Il “con” è un “con” conforme all’Esserci e l’“anche” esprime l’identità di essere quale esse657 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

re-nel-mondo prendente cura e preveggente ambientalmente. “Con” e “anche” sono da intendersi esistenzialmente, non categorialmente. Sul fondamento di questo essere-nel-mondo con il carattere di “con”, il mondo è già sempre quello che io con-divido con gli altri. Il mondo dell’Esserci è con-mondo. L’in-essere è un con-essere con gli altri. L’esser-in-sé intramondano degli altri è un con-Esserci. […] L’Esserci proprio di ognuno è incontrato dagli altri come un conEsserci, solo perché l’Esserci stesso ha la struttura esistenziale del con-essere. Ma se il con-Esserci è esistenzialmente costitutivo dell’essere-nel-mondo, tanto esso quanto il commercio ambientale con l’utilizzabile intramondano, definito in precedenza come prendersi cura, devono essere interpretati a partire da quel fenomeno della cura che determina in linea generale l’essere dell’Esserci. Il carattere d’essere del prendersi cura non può però essere partecipato dal con-essere, anche se quest’ultimo è un essere-per l’ente che si incontra nel mondo né più né meno del prendersi cura. L’ente nei cui confronti l’Esserci si comporta come con-essere non ha però il modo di essere del mezzo utilizzabile, essendo esso stesso un Esserci. L’altro Esserci non è incontrato nel quadro del prendersi cura ma dell’aver cura. […] Quanto ai modi positivi dell’aver cura ci sono due possibilità estreme. L’aver cura può in certo modo sollevare l’altro dalla “cura” sostituendosi a lui nel prendersi cura, intromettendosi al suo posto. Questo aver cura assume, per conto dell’altro, ciò di cui ci si deve prendere cura. L’altro risulta allora espulso dal suo posto, retrocesso, per ricevere a cose fatte e da altri, già pronto e disponibile, ciò di cui si prendeva cura, risultandone del tutto sgravato. In questa forma di aver cura l’altro può essere trasformato in dipendente e in dominato, anche se il predominio è tacito e dissimulato per chi lo subisce. Questo aver cura, che solleva l’altro dalla “cura”, condiziona largamente l’essere-assieme e riguarda per lo più il prendersi cura degli utilizzabili. Opposta a questa è la possibilità di aver cura la quale, anziché intromettersi al posto degli altri, li presuppone nel loro poter essere esistentivo, non già per sottrarre loro la “cura”, ma per inserirli autenticamente in essa. Questa forma di aver cura, che riguarda essenzialmente la cura autentica, cioè l’esistenza dell’altro e non qualcosa di cui egli si prenda cura, aiuta l’altro a divenire trasparente nella pro658 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Martin Heidegger: pagine antologiche

pria cura e libero per essa. (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 149, 152-153) L’esistenza inautentica del Si Abbiamo mostrato in precedenza come nel mondo-ambiente immediato sia già sempre disponibile e procurato un “mondo-ambiente” pubblico. Nell’uso dei mezzi di trasporto o di comunicazione pubblici, dei servizi di informazione (i giornali), ognuno è come l’altro. Questo essere-assieme dissolve completamente il singolo Esserci nel modo di essere “degli altri”, sicché gli altri dileguano ancora di più nella loro particolarità e determinatezza. In questo stato di irrilevanza e di indistinzione il Si esercita la sua autentica dittatura. Ce la passiamo e ci divertiamo come ci si diverte; leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si vede e si giudica. Ci teniamo lontani dalla “gran massa” come ci si tiene lontani, troviamo “scandaloso” ciò che si trova scandaloso. Il Si, che non è un Esserci determinato ma tutti (anche se non come somma), decreta il modo di essere della quotidianità. Il Si ha le sue particolari maniere di essere. Quella tendenza del con-essere a cui abbiamo dato il nome di contrapposizione commisurante si fonda nel fatto che l’essere-assieme come tale procura la medietà. La medietà è un carattere esistenziale del Si. Nel Si, ne va, quanto al suo essere, essenzialmente di essa. Esso si mantiene perciò di fatto nella medietà di ciò che si conviene, di ciò che si accetta e di ciò che si rifiuta, di ciò a cui si concede credito e di ciò a cui lo si nega. Nella determinazione di ciò che è possibile o lecito tentare, la medietà sorveglia ogni eccezione che si fa innanzi. Ogni primato è silenziosamente livellato. Ogni originalità è subito dissolta nel risaputo, ogni grande impresa diviene oggetto di transazione, ogni segreto perde la sua forza. La cura della medietà rivela una nuova ed essenziale tendenza dell’Esserci: il livellamento di tutte le possibilità di essere. Contrapposizione commisurante, medietà, livellamento, in quanto modi di essere del Si, costituiscono ciò che conosciamo come “pubblicità”. Essa regola innanzi tutto ogni interpretazione del mondo e dell’Esserci, e ha sempre ragione. E ciò, non sul fondamento di un rapporto 659 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

eminente e primario all’essere delle “cose”, non perché essa disponga di un’esplicita e appropriata trasparenza dell’Esserci, ma per effetto del non approfondimento “delle cose” e dell’insensibilità a ogni discriminazione di livello e di purezza. La pubblicità oscura tutto e spaccia ciò che risulta così dissimulato come notorio e accessibile a tutti. Il Si c’è dappertutto, ma è tale da essersela già sempre squagliata quando per l’Esserci viene il momento della decisione. Tuttavia, poiché il Si ha già sempre anticipato ogni giudizio e ogni decisione, sottrae ai singoli Esserci ogni responsabilità. Il Si può per così dire permettersi che “si” faccia sempre appello a esso. Può rispondere a cuor leggero di tutto perché non è “qualcuno” che possa esser chiamato a rispondere. Il Si “c’era” sempre e tuttavia si può dire di esso che non sia mai stato “nessuno”. Nella quotidianità dell’Esserci la maggior parte delle cose è fatta da qualcuno di cui si è costretti a dire che non era nessuno. Il Si sgrava quindi ogni singolo Esserci nella sua quotidianità. Non solo. In questo sgravamento di essere, il Si si rende accetto all’Esserci perché ne soddisfa la tendenza a prendere tutto alla leggera e a rendere le cose facili. Appunto perché il Si, mediante lo sgravamento, si rende sempre accetto a ogni singolo Esserci, mantiene e approfondisce il suo ostinato dominio. Ognuno è gli altri, nessuno è se stesso. Il Si, come risposta al problema del Chi dell’Esserci quotidiano, è il nessuno a cui ogni Esserci si è già sempre abbandonato nell’indifferenza dell’essere-assieme. La “stabilità” più prossima dell’Esserci ha quindi i caratteri ontologici suddetti, cioè l’essere-assieme quotidiano e indifferente, la contrapposizione commisurante, la medietà, il livellamento, la pubblicità, lo sgravamento di essere e il rendersi accetto. Questa stabilità non significa però l’esser-presente permanente di qualcosa, ma il modo di essere dell’Esserci in quanto con-essere. Essendo in questi modi di essere, l’Esserci non ha ancora trovato, o ha perduto, il se-Stesso del proprio Esserci e quello degli altri. Il Si è nel modo della instabilità e della inautenticità. Questi modi di essere non importano però una diminuzione dell’effettività dell’Esserci, allo stesso modo che il Si, in quanto nessuno, non è un nulla. Al contrario, in questo modo di essere, l’Esserci è un ens realissimum, se la “realtà” può essere assunta come qualifica ontologica dell’Esserci. (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 158-160) 660 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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L’essere-per-la-morte Bisogna innanzi tutto chiarire una buona volta come nel fenomeno della morte si rivelino l’esistenza, l’effettività e la deiezione dell’Esserci. Abbiamo respinto come inadeguata l’interpretazione del non-ancora, e quindi dell’estremo non-ancora dell’Esserci, della sua fine, nel senso di una mancanza. E ciò perché tale interpretazione implica il capovolgimento dell’Esserci in una semplice-presenza in sé. Essere alla fine significa esistenzialmente: essere-per-la-fine. L’estremo non-ancora ha il carattere di qualcosa cui l’Esserci si rapporta. La fine incombe sull’Esserci. La morte non è affatto una semplice-presenza non ancora attuatasi, non è un mancare ultimo ridotto ad minimum, ma è, prima di tutto, un’imminenza che incombe. Ma all’Esserci, come essere-nel-mondo, incombono molte cose. Il carattere di imminenza incombente non è esclusivo della morte. Al contrario: anche questa interpretazione potrebbe far credere che la morte sia da intendere come un evento che si incontra nel mondo, minaccioso nella sua imminenza. Un temporale può incombere come imminente; la ristrutturazione d’una casa, l’arrivo d’un amico, possono essere imminenti; tutti enti, questi, che sono semplici-presenze o utilizzabili o con-esserci. L’incombere della morte non ha un essere di questo genere. Ma può incombere all’Esserci, ad esempio, anche un viaggio, una spiegazione con altri, la rinuncia a qualcosa che l’Esserci stesso può essere: possibilità d’essere, queste, che appartengono all’Esserci e che si fondano nel con-essere con gli altri. La morte è una possibilità di essere che l’Esserci stesso deve sempre assumersi da sé. Nella morte l’Esserci incombe a se stesso nel suo poter-essere più proprio. In questa possibilità ne va per l’Esserci puramente e semplicemente del suo esser-nel-mondo. La morte è per l’Esserci la possibilità di non-poter-più-esserci. Poiché in questa sua possibilità l’Esserci incombe a se stesso, esso viene completamente rimandato al suo poter-essere più proprio. In questo incombere dell’Esserci a se stesso, dileguano tutti i rapporti con gli altri Esserci. Questa possibilità assolutamente propria e incondizionata è, nel contempo, l’estrema. Nella sua qualità di poter-essere, l’Esserci non può superare 661 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

la possibilità della morte. La morte è la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’Esserci. Così la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile. Come tale è un’imminenza incombente eccelsa. La sua possibilità esistenziale si fonda nel fatto che l’Esserci è in se stesso essenzialmente aperto e lo è nel modo dell’avanti-a-sé. Questo momento della struttura della Cura ha la sua concrezione più originaria nell’essere-per-la-morte. L’essere-per-la-fine si rivela fenomenicamente come l’essere per la possibilità eccelsa dell’Esserci caratterizzata. Questa possibilità più propria, incondizionata e insuperabile, l’Esserci non se la crea però accessoriamente e occasionalmente nel corso del suo essere. Se l’Esserci esiste, è anche già gettato in questa possibilità. Innanzi tutto e per lo più l’Esserci non ha alcuna “conoscenza” esplicita o addirittura teorica di essere consegnato alla morte e che perciò essa fa parte del suo essere-nel-mondo. L’esser-gettato nella morte gli si rivela nel modo più originario e penetrante nella situazione emotiva dell’angoscia. L’angoscia davanti alla morte è angoscia “davanti” al poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile. Il davanti-a-che dell’angoscia è l’essere-nel-mondo stesso. Il per-che dell’angoscia è il poter-essere puro e semplice dell’Esserci. L’angoscia non dev’essere confusa con la paura del decesso. Essa non è affatto una tonalità emotiva di “depressione”, contingente, casuale, del singolo; in quanto situazione emotiva fondamentale dell’Esserci, essa costituisce l’apertura dell’Esserci al suo esistere come esser-gettato per la propria fine. Si fa così chiaro il concetto esistenziale del morire come esser-gettato nel poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile, e si fa più netta la differenza rispetto al semplice scomparire, al puro cessare di vivere e infine all’“esperienza vissuta” del decesso. (M. Heidegger, Essere e tempo, ci t., pp. 300-301) Il pastore dell’Essere L’Essere, dunque. Ma che cos’è l’Essere? Esso è esso stesso. Il pensiero avvenire questo dovrà imparar a sperimentare e a dire. L’“Essere”: cioè, non Dio, e non un fondamento o ragione del mondo. L’Essere è, in662 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Martin Heidegger: pagine antologiche

fatti, oltre ogni essente, ed è, tuttavia, all’uomo più vicino di ogni essente, sia questo una roccia, un animale, un’opera d’arte, una macchina, un angelo o Dio. L’Essere è ciò che ci è più vicino. E tuttavia la vicinanza resta per l’uomo lontanissima, ché l’uomo si tiene pur sempre immediatamente attaccato all’essente. Ma se il pensiero presenta l’essente come l’essente, già esso si riferisce all’essere. Eppure esso pensa in verità pur sempre soltanto l’essente come tale, e non mai propriamente l’essere come tale. Il “problema dell’essere” resta sempre per esso un problema che riguarda l’essente. E neppure il problema dell’essere è ciò che quest’espressione capziosa sembra indicare: un problema riguardante l’essere. La filosofia, anche dove, come in Descartes e Kant, si fa “critica”, segue sempre il modo di rappresentare proprio della metafisica: essa, pensando, parte dall’essente per ritornare a questo, gettando l’occhio nel passaggio all’essere, poiché è nel tralucere dell’Essere che già sta ogni partenza dall’essente e ogni ritorno a esso. […] L’uomo […] ignora soprattutto ciò che più gli è vicino, e si attiene a quel che è al di là da esso. Egli crede addirittura che sia quello il più vicino. Invece, più vicino di ciò ch’è più vicino, per il comune modo di pensare, e più lontano di quel che per esso è più lontano, è la vicinanza stessa, ossia la verità dell’essere. Questa vicinanza si realizza essenzialmente come lo stesso linguaggio. Il linguaggio non è semplicemente quel linguaggio, che noi, nel caso migliore, ci rappresentiamo come l’unità di formazione dei suoni (o della parola scritta), melodia e ritmo, e significazione. Noi pensiamo quella formazione del suono e la sua immagine scritta come il corpo della parola, la melodia e il ritmo come la sua anima, e il corrispondente significato come lo spirito del linguaggio. Pensiamo, così, il linguaggio abitualmente in corrispondenza all’essenza dell’uomo, in quanto questo viene rappresentato come animal rationale, ossia come l’unità di corpo-anima-spirito. Ma come nell’humanitas dell’homo animalis resta occultata l’ex-sistenza e con questa il rapporto della verità dell’essere all’uomo, così l’interpretazione metafisico-animale del linguaggio nasconde l’essenza storica del suo essere, per la quale il linguaggio è la casa dell’Essere, fatta dall’Essere e di esso compenetrata. Onde la sua essenza deve essere pensata in corrispondenza all’Essere, ossia come questa corrispondenza stessa, cioè come la dimora dell’essenza umana. […] 663 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il pensiero e la voce dei filosofi da Kant a Heidegger

Il sentirsi senza patria, […] dipende dall’abbandono dell’Essere dell’essente: ch’è il segno dell’oblio dell’Essere, per cui la verità dell’Essere resta non pensata. Dell’oblio dell’Essere è indizio indiretto questo: che l’uomo è sempre intento soltanto all’essente e intorno a esso si adopera. E poiché, quindi, egli non può far a meno di farsi dell’Essere una rappresentazione, l’Essere viene anche dichiarato come ciò che è più “generale”, e che perciò comprende l’essente, oppure come una creazione dell’essente infinito, o come prodotto di un soggetto finito. […] L’essenza dell’uomo, […] consiste in ciò: ch’egli è più che semplice uomo, preso questo come essere vivente razionale. Il più non va qui inteso come un’aggiunta, come se a fondamento della sua determinazione dovesse restare la sua tradizionale definizione, e si dovesse poi ampliarla con la semplice aggiunta dell’esistenziale. Il più, invece, significa: più originariamente, e però più essenzialmente. Ma, ecco, qui, il mistero: l’uomo è gettato nel mondo. Ossia: l’uomo, come esistenza gettata verso l’essere, è tanto più animal rationale, quanto meno esso è rispetto all’uomo che si comprende dal punto di vista della soggettività. L’uomo non è il padrone dell’essente. L’uomo è il pastore dell’Essere. In questo meno l’uomo non ci perde, anzi ci guadagna, poiché egli perviene alla verità dell’Essere. Egli guadagna l’essenziale povertà del pastore, la cui dignità consiste in questo: di esser chiamato dall’Essere stesso alla custodia della sua verità. Questa vocazione appartiene all’essere esistenziale, in quanto proiezione dell’Essere, in cui è radicato il suo essere gettato nel mondo. L’uomo è, nella sua essenza storica, quell’essente, il cui essere come ex-sistente consiste in questo: che egli abita nella vicinanza dell’Essere. L’uomo è il vicino dell’Essere. (M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, La Nuova Italia, Firenze 1953, pp. 103-11)

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INDICE

Introduzione..................................................................... pag.

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Immanuel Kant................................................................ Immanuel Kant: vita e opere...................................... Il mondo prima di Kant.............................................. La rivoluzione kantiana.............................................. Il limite della mente umana, ovvero la “cosa in sé” ............................................. Le intuizioni pure: lo spazio e il tempo ..................... Le categorie dell’intelletto.......................................... La ragione umana è la facoltà dell’infinito................ L’imperativo categorico...............................................

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PAGINE ANTOLOGICHE....................................... La rivoluzione kantiana........................................ Cosa si può e cosa non si può conoscere .............. La categorie, ovvero i concetti puri dell’intelletto..................................................... Le idee trascendentali della ragione.................... L’imperativo categorico ........................................

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Georg W. F. Hegel............................................................. L’idealismo, ovvero il fratricidio della “cosa in sé” kantiana .................................... Georg W. F. Hegel: vita e opere..................................

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Il pensiero non ha limiti ............................................ pag. 49 Anatomia divina del pensiero..................................... » 51 Il movimento triadico del Tutto.................................. » 55 La Logica .................................................................... » 56 Ragione versus intelletto............................................ » 58 La dialettica hegeliana............................................... » 59 La Filosofia della Natura............................................ » 65 Lo Spirito Assoluto...................................................... » 67 PAGINE ANTOLOGICHE....................................... La logica hegeliana................................................ Il momento dialettico............................................ Il processo di liberazione dello Spirito................. Lo Stato è l’ingresso di Dio nella storia del mondo......................................

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Arthur Schopenhauer....................................................... Arthur Schopenhauer: vita e opere ........................... Il padre eretico della filosofia contemporanea........... La questione della realtà del mondo esterno............. Siamo corpi di una sola Volontà................................. La Regina della sofferenza......................................... L’arte come rimedio temporaneo................................ Dall’ingiusto egoismo alla compassione amorevole................................................................ La santità perfetta......................................................

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PAGINE ANTOLOGICHE....................................... La vita è sogno?..................................................... Voler vivere senza soffrire è impossibile.............. L’arte, ovvero l’opera del genio............................. Dalla sofferenza del volere alla pace della contemplazione........................................ Ciò che resta dopo la totale negazione della Volontà.....................................................

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Ludwigh Feuerbach......................................................... pag. 115 Ludwigh Feuerbach: vita e opere............................... » 115 La verità è nella carne e nel sangue dell’uomo.......... » 116 L’unità di spirito e corpo............................................. » 120 L’essenza dell’uomo . .................................................. » 123 Come smascherare l’inganno della religione............. » 126 L’avvento della nuova èra........................................... » 129 PAGINE ANTOLOGICHE....................................... La nuova filosofia come unità razionale di pensiero e vita.............................................. La ragione, la volontà, il cuore: la nostra “essenza”........................................................... Dio è umano, nient’altro che umano.................... Onnipotente è la ragione....................................... La fede è dispotica, l’amore libertà .....................

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Max Stirner...................................................................... Max Stirner: vita e opere............................................ L’offesa blasfema......................................................... Reale e ideale, antico e moderno ............................... Il mondo si è rovesciato, ed è divenuto un manicomio......................................................... La filosofia dei fantasmi e il più grande spettro........ L’unico che io sono....................................................... L’avvento degli egoisti.................................................

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PAGINE ANTOLOGICHE....................................... Educazione e/è imposizione.................................. L’umiliazione della morale.................................... Lo Stato borghese.................................................. Io non sono “uomo”................................................ Il godimento di me stesso......................................

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Karl Marx......................................................................... Karl Marx: vita e opere . ............................................

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La fine dell’ideologia................................................... pag. 177 Alla scoperta del mondo reale.................................... » 180 Il lavoro è l’essenza dell’uomo ................................... » 183 Il materialismo storico................................................ » 186 La borghesia moderna e il suo tramonto................... » 188 La miseria del proletariato ........................................ » 191 La rivoluzione comunista............................................ » 193 La società comunista................................................... » 196 L’inevitabilità storica del comunismo........................ » 197 PAGINE ANTOLOGICHE....................................... Il materialismo storico ......................................... L’alienazione del lavoro........................................ La miseria disumana del denaro e della macchina .............................................. Perché la borghesia deve essere abbattuta . ....... Il comunismo abolisce tutte le verità eterne........

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Soren Kierkegaard........................................................... Soren Kierkegaard: vita e opere................................. Il rifiuto della speculazione astratta.......................... Il Singolo è la causa del Cristianesimo...................... È ridicolo voler arrivare a Dio con la ragione............ La fede autentica crede nell’assurdo.......................... L’angoscia dell’esistenza ............................................ L’aut-aut della vita, la scelta radicale dell’individuo.......................................................... Lo stadio della salvezza..............................................

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PAGINE ANTOLOGICHE....................................... La mia lotta per risvegliare l’uomo a Dio............. L’angoscia umana: terrore e salvezza ................. Il compito esistenziale dell’individuo etico.......... La fede è il paradosso del Singolo come Singolo ....................................................

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La condizione perché l’uomo possa amare Dio la dà Dio stesso ................................................ pag. 241

Auguste Comte.................................................................. L’avvento del positivismo scientifico.......................... Auguste Comte: vita e opere . .................................... La distruzione dell’epistéme . .................................... La previsione scientifica ............................................ La legge dei tre stadi ................................................. La classificazione delle scienze................................... La nuova scienza positiva: la fisica sociale................ La religione dell’Umanità........................................... PAGINE ANTOLOGICHE....................................... La scienza irrompe nella filosofia: il positivismo..................................................... Auguste Comte e la “grande legge” della filosofia positiva....................................... Rinunciare alla ricerca delle cause e colmare l’ultima lacuna ................................................. Sulla necessità e l’opportunità della fisica sociale................................................................ Solo l’ordine e il progresso salveranno gli uomini dal dissolvimento............................

Empirismo ed Evoluzionismo: John Stuart Mill; Herbert Spencer.................................. John Stuart Mill: vita e opere.................................... Esperienza e divenire.................................................. La critica contro la logica tradizionale . .................... Il processo fondamentale della mente e la legge dell’universo: induzione e causalità ..................... Spontaneità e libertà dell’individuo umano............... La massima felicità come unico scopo . .....................

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Herbert Spencer: vita e opere..................................... pag. 287 Evoluzione e selezione naturale ................................ » 288 L’evoluzione sociale . .................................................. » 292 PAGINE ANTOLOGICHE....................................... J.S. Mill: le previsioni della scienza non sono esatte ma approssimative................................ La sovrana libertà e l’assoluta indipendenza dell’individuo.................................................... Darwin e l’origine dell’uomo................................. La lotta universale e l’evoluzione sociale secondo Spencer................................................

Storicismo: Wilhelm Dilthey; Max Weber....................... Caratteri generali dello storicismo............................. Wilhelm Dilthey: vita e opere..................................... Le scienze dello spirito................................................ Lo spirito umano si fa storia . .................................... Comprendere la finitudine d’ogni cosa....................... Max Weber: vita e opere............................................. La “dottrina della scienza”.......................................... La scelta soggettiva dell’“oggetto” ............................. La fede del ricercatore scientifico............................... La specializzazione come unica fonte di conoscenza.......................................................... Il senso della razionalità scientifica........................... PAGINE ANTOLOGICHE....................................... Caratteri generali dello storicismo....................... Wilhelm Dilthey: l’autonomia delle scienze dello spirito....................................................... L’uomo è un essere storico.................................... Max Weber: il metodo della ricerca scientifica.... L’utilità della scienza per la vita..........................

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Pragmatismo: Charles Sanders Peirce; William James; John Dewey........................................... pag. 339 Caratteri generali del pragmatismo........................... » 339 Charles Sanders Peirce: vita e opere ........................ » 341 Il dubbio e la ricerca .................................................. » 342 I metodi (erronei) di fissare le credenze..................... » 343 Il metodo scientifico ................................................... » 347 Come rendere chiare le nostre idee............................ » 349 William James: vita e opere....................................... » 353 L’empirismo radicale ................................................. » 353 Tragedia o eternità .................................................... » 356 Il rischio della fede...................................................... » 358 John Dewey: vita e opere............................................ » 361 La minaccia dell’esistenza.......................................... » 361 L’intelligenza quale unica difesa per la sopravvivenza ............................................. » 365 PAGINE ANTOLOGICHE....................................... Caratteri generali del pragmatismo..................... Il clima pragmatistico della filosofia contemporanea................................................. Charles Sanders Peirce: dubbio e ricerca ........... Il metodo scientifico............................................... A che serve pensare?............................................. William James: la vita ha il valore che decidiamo di dargli.................................... John Dewey e le tante facce dell’esperienza .......

Friedrich Nietzsche.......................................................... F. W. Nietzsche: vita e opere...................................... Il prodigio della coscienza........................................... L’apollineo e il dionisiaco: il sogno e l’ebbrezza......... Il suicidio della tragedia............................................. Dall’arte alla scienza................................................... Il falso rimedio della morale.......................................

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Dio è morto.................................................................. pag. 399 La genesi e la distruzione degli errori capitali ......... » 401 Il superuomo e l’eterno ritorno................................... » 404 PAGINE ANTOLOGICHE....................................... L’essenza del tragico............................................. La messa in crisi definitiva del soggetto, dell’azione e del prossimo................................. L’errore svelato della morale e la sua contropartita .................................................... L’innocenza del godimento di sé .......................... La morte di Dio e l’eterno ritorno dell’identico....................................................... Il vangelo di Zarathustra, ovvero l’annunzio del superuomo...................................................

Henri Bergson................................................................... Caratteri generali dello spiritualismo....................... Henri Bergson: vita e opere........................................ Il sapere scientifico .................................................... La vita interiore è continuo mutamento, è “durata” ............................................................... Il tempo della scienza e il tempo della filosofia......... L’utilità dell’intelligenza per la vita ......................... Istinto, intelligenza e intuizione ............................... Morale aperta e religione dinamica........................... PAGINE ANTOLOGICHE....................................... La nostra esistenza, come ogni esistenza, si crea in continuazione.................................... L’impossibilità di ridurre la “durata” in termini geometrici e matematici ................ L’errore del meccanicismo e del finalismo .......... Per una nuova metafisica.....................................

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Lo slancio d’amore mistico ................................... pag. 453 La religione dinamica creerà un’umanità divina................................................................ » 455

Benedetto Croce................................................................ Il neoidealismo italiano............................................... Benedetto Croce: vita e opere .................................... La scoperta del “nesso dei distinti”............................ Le quattro forme dello spirito..................................... Cosa l’arte non è ......................................................... Cosa è l’arte................................................................. La filosofia come storicismo assoluto ........................ La storia è libertà infinita, è spirito .......................... PAGINE ANTOLOGICHE....................................... La riforma di Benedetto Croce: la teoria dei “distinti” ..................................................... Aspetti centrali dell’estetica crociana.................. L’arte è espressione............................................... Il giudizio storico e la libertà della storia............

Giovanni Gentile.............................................................. Giovanni Gentile: vita e opere.................................... I primi passi verso l’idealismo assoluto..................... L’immanenza assoluta ............................................... La riforma della dialettica hegeliana......................... Critica della metafisica tradizionale e dell’empirismo filosofico ..................................... L’Io Trascendentale..................................................... Il pensiero è divenire................................................... Siamo figli di un unico Spirito.................................... L’Immortalità dello spirito e l’eterna mortalità d’ogni cosa...............................................................

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PAGINE ANTOLOGICHE....................................... pag. 509 Origine della filosofia attualistica........................ » 509 Il principio della filosofia attualistica ................. » 509 L’atto come logo concreto ..................................... » 510 Infinità dell’Io........................................................ » 511 Libertà dell’Io ....................................................... » 512 L’attualità dell’Io .................................................. » 512 Il metodo dell’attualismo: la dialettica................. » 513 Carattere religioso della concezione dialettica.... » 514 Attualismo e Cristianesimo.................................. » 516 La verità eterna è l’atto puro del pensare . ......... » 517 Edmund Husserl.............................................................. Edmund Husserl: vita e opere.................................... La filosofia come scienza rigorosa.............................. La critica della ragione............................................... Contro il naturalismo filosofico e la psicologia sperimentale .......................................................... L’autonomia assoluta dello spirito umano . .............. La fenomenologia trascendentale e l’intenzionalità della coscienza .......................... La visione d’essenza: l’intuizione fenomenologica ...................................................... Come mettere tra parentesi il mondo, per conoscerlo indubitabilmente ..........................

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PAGINE ANTOLOGICHE....................................... La filosofia come scienza rigorosa......................... L’epoché fenomenologica....................................... Lo scopo della fenomenologia trascendentale...... È giusto affidarci alla scienza, che riduce l’essere umano a cosa e fatto naturale?...........

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Ludwig Wittgenstein........................................................ Ludwig Wittgenstein: vita e opere.............................

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Alla ricerca di un mondo logicamente perfetto . ....... pag. 556 Il trattato logico-filosofico .......................................... » 558 Il ruolo della filosofia................................................... » 561 Il mondo ...................................................................... » 563 Il linguaggio................................................................. » 565 Il principio di verificazione ........................................ » 567 Il Mistico pretende il silenzio..................................... » 569 Il “secondo” Wittgenstein . ......................................... » 571 Lo studio del linguaggio quotidiano .......................... » 573 La teoria dei “giuochi linguistici”............................... » 576 La molteplicità espressiva del linguaggio e la fine della filosofia . .......................................... » 580 PAGINE ANTOLOGICHE....................................... Il mondo................................................................. L’immagine............................................................ Il pensiero.............................................................. Il linguaggio........................................................... La proposizione...................................................... La filosofia . ........................................................... La logica................................................................. Il Mistico................................................................ da Ricerche filosofiche...........................................

Karl Jaspers..................................................................... Caratteri generali dell’esistenzialismo: uomo, mondo, possibilità ...................................... Contro l’ottimismo hegeliano...................................... La scelta inderogabile del singolo.............................. Karl Jaspers: vita e opere........................................... Dalla scienza alla filosofia.......................................... L’orientazione nel mondo e l’analisi dell’esserci........ Il carattere intenzionale della coscienza . ................. L’Umgreifende: l’orizzonte infinito d’ogni orizzonte finito.............................................

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Il naufragio universale come cifra suprema della Trascendenza ............................................... pag. 613 PAGINE ANTOLOGICHE....................................... La filosofia è lotta non violenta per la verità....... Orientazione nel mondo e analisi dell’esserci...... L’insufficienza insuperabile dell’esistenza umana .............................................................. Di fronte al naufragio universale non resta che il silenzio....................................................

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Martin Heidegger............................................................. Martin Heidegger: vita e opere ................................. Il problema del senso dell’essere................................ La differenza ontologica, l’oblio dell’essere e la verità come “alétheia”..................................... Il metodo fenomenologico............................................ L’analitica esistenziale dell’Esserci .......................... Mondo, esistenza, possibilità . ................................... Le cose e la Cura ........................................................ Il con-mondo e l’aver cura degli altri......................... L’esistenza inautentica come dittatura del Si .......... Chiacchiera, curiosità, equivoco................................. La deiezione e il “non-ancora”.................................... L’essere-per-la-morte.................................................. L’autentica comprensione della nullità dell’esistenza...........................................................

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PAGINE ANTOLOGICHE....................................... Il problema del senso dell’essere ......................... L’essere-con e l’aver cura degli altri..................... L’esistenza inautentica del Si............................... L’essere-per-la-morte............................................ Il pastore dell’Essere.............................................

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