Il Mistero Dell'anima Umana. Terza edizione [3 ed.]


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Chiesa cattolica, Filosofia
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Il Mistero Dell'anima Umana. Terza edizione [3 ed.]

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Pier Carlo Landucci

Terza edizione

EDIZIONI PRO CIVITATE CHRISTIANA

-

ASSISI

IL MISTERO DELL'ANIMA UMANA

Pier Carlo Landucci

Terza edizione

EDIZIONI PRO CIVITATE CHRISTIANA

-

ASSISI

NIHIL OBSTAT QUOMINUS IMPRIMATUR Asisii, die 10 martii 1959

Sac. Prof. Doct. HUGo CAVALIERI

IMPRIMATUR Asisii, die 20 martii 1959

*

JOsEPH

PLAcIDPUS

Evpiscopus Asisiensis

ARTI

GRAFICHE

PANETTO

& PETRELLI -

SpornETO

19509.

O.S.B.

PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

l’anma esiste,

certamente la parte principale dell’uomo. Ma, essendo spirituale, è sottratta alla facile esperienza sensibile. C’é quindi il pericolo — se esiste — di dimenticarci che ci sia e di fare, nella considerazione dell’uomo, come quel fisiologo che, studiando la circolazione del sangue, s’era dimenticato del cuore. Però 1l cuore, anche dimenticato, funziona lo stesso. Mentre l’anima, dimenticata, perde l'influsso decisivo che deve avere nell’orrventamento della vita umana. Il problema della sua esistenza è dunque fondamentale per l’uomo. E cin, per non legarsi ad alcuna sua soluzione, ne volesse prescindere, di fatto non penserebbe all’anima e quindi aderirebbe praticamente a una di tali soluzioni: alla negativa. Disinteressarsi del problema è quindi impossibile. È perciò indispensabile trovarne, con spietata imparzialita, la soluzione vera. P. C. L. Se

è

Roma, 8 maggio 1952.

PREFAZIONE ALLA TERZA EDIZIONE

L’accoglienza fatta alla prima e seconda edizione m'ha indotto a non apportare al volume modifiche di rilievo e a limtayrmi per questa terza alla revisione generale e a qualche emendamento, aggiornamento e integrazione. La novità più importante è la compilazione del copioso indice analutico, particolarmente desiderato dai lettori per la facile consultazione in tanta complessità e varietà di argomenti, di notizie, di nomi. Infatti il problema centrale del volume è stato fecondo di molti addentellati, che per amore di chiarezza e di completezza, non ho potuto trascurare. Non si poteva per es. illuminare appieno la natura dell'anima umana senza

confrontarla con quella degli animali, ecc.: così ho dovuto affrontare il problema della intelligenza degli animali; problema che nello sviluppo attuale det movimenti per la protezione e l’amore delle bestie è tanto appassionante, ma tuttavia non si trova quasi mai scientificamente trattato. Credo che i lettori abbiano pure gradito e spero seguitino a gradire le pagine sulla metempsicosi, sulla morte apparente

e

così via.

L’argomento centrale mi ha portato anche a toccare 1l problema dell’evoluzionismo. E qui ho avuto qualche critica da coloro che hanno trovato le mie deduzioni non intonate al concerto delle opinioni pri in voga. Quel capitolo si può anche saltare, non rappresentando un anello in alcun modo essenziale della catena logica dimostrativa. L'ho voluto però conservare, perché ho pensato che altri possano trovare invece interessante 1l mio non conformismo, o almeno apprezzarne la sincerità. Esso vuole essere un invito piu che altro metodologico all’imparzialità dello studio critico, rispetto alle opinioni piu largamente favorite: perché anche nella scienza purtroppo agisce talora la pressione della moda. P. C. L. Roma, 25 marzo 1959.

VOLUTTA D’ANNIENTAMENTO

O la goccia o l’oceano

À prescindere dalla soluzione affermativa o negativa che se ne voglia dare, il problema più importante d’ogni indagine umana è quello di Dio: se esista cioè o non esista l’onnipotente artefice dell’universo. Se l’infinito Creatore esiste, non può non costituire la spiegazione ultima di tutte le cose e non essere il polo di gravitazione di tutto l’universo: e 1l pensiero e la vita umana vi si debbono condizionare. Se non esiste, tutto l’atteggiamento umano sarà differente. Massima importanza dunque del problema, in linea teorica e in linea pratica: come ho spiegato altrove 1. Ma se tutto ciò è vero, sul piano obiettivo, non lo è però — almeno sempre - sul piano pratico e psicologico. Spesso cioè l'interesse per tale problema è superato da

quello dell’esistenza o meno dell’anima umana. È questo che ottiene 1l primato. Se è vero infatti che 1l problema di Dio assurge al vertice delle cose e spazia nell’infinito, esso riguarda tuttavia l’esistenza o la non esistenza d’un ente distinto dal Cfr. Esiste Dio pag. 7 ss. 1

P,

Pro Civitate Christiana, IV, ed., 1957,

proprio io e, in qualche modo, appunto perché infinito, distante. Sicché il problema stesso può acquistare, di fatto, benché a torto, un carattere astratto, d’esercitazione filosofica, di disputa teorica. E quand’anche gli si desse una soluzione affermativa e si fosse logicamente condotti a riconoscere l’obbligo conseguente della sudditanza all’Onnipotente Creatore, si potrebbe ancora essere indotti a vedere tutto su un piano vagamente teistico, poco, pochissimo impegnativo e pochissimo preoccupante agli effetti pratici dell’orientamento della vita. *

Non così del problema dell’anima. Qui si tratta direttamente di se stessi, qui è l’essere o non essere della

propria stessa realtà. Dirla esistente e profilarsi la vita eterna, il tremendo «al di là », come fatto strettissimamente e drammaticamente proprio, è tutt’uno. Davanti al problema di Dio si può restare pensosi e riverenti. Davanti al problema dell’anima si trema. È il tremore spontaneo d’ogni coscienza umana, alla soglia della vita futura. Giacché la prospettiva è scottante, ci tocca nell’intimo. Posti come siamo in continua relazione con la realtà sensibile dentro e fuori di noi, che nasce e inesorabilmente muore, portati in conseguenza ad adeguarci, secondo 1l più facile suggerimento delle cose, al ritmo passeggero dell’esistenza, la prospettiva d’un eterno domani produce un effetto urtante, disorientante. Sono nuovi smisurati riflessi della fugace giornata umana, sono responsabilità nuove e gigantesche, è una altra concezione di vita. Nell'ipotesi affermativa, se quest’anima cioè si sco10

pre esistente, sono indubbiamente felici e interminabili prospettive e immense ricchezze che si svelano. Ma, insieme, sono proibizioni e tagli scottanti, che sbarrano il cammino all’accontentamento puramente sensibile della vita, che pur riusciva, in qualche modo, ad appagare gl’immediati aneliti di felicità. Si spiega quindi un’istintiva ribellione del proprio 10 sensibile, di fronte all’affermazione dell’anima: più che di fronte alla pura affermazione di Dio. *

Quando l’Apostolo Paolo, ad Atene, fu condotto a parlare sul «colle di Marte » — Areopago in faccia all’Acropoli, all’alto consesso degli Areopagiti, poté svolgere con tutta libertà la sua orazione solenne e illuminarli su quell’Iddio che in un’ara della città era chiamato «ignoto ». Ma quando 1l discorso giunse al futuro giudizio che sarebbe stato compiuto da Gesù, risuscitato da morte, gli tolsero senz’altro la parola: « Udendo parlare di risurrezione dei morti, alcuni presero a beffarlo, altri poi dissero: ti ascolteremo sopra di ciò un’altra volta. Così Paolo si partì da loro » 1. Risurrezione ? Ciò voleva dire: anima, vita eterna. Concetti urtanti. E non fu quella per S. Paolo l’unica esperienza di tal contegno degli ascoltatori. Un’altra ancora più piccante l’ebbe, ormai in catene, a Cesarea, davanti al Procuratore della Giudea, Felice, e alla moglie Drusilla: « Ma quando prese a ragionare circa la giustizia, e la castità e il giudizio futuro, Felice, atterrito, gli disse: Per ora va pure: a suo tempo ti farò richìjamare » ?. Al solito: giudizio futuro, al di là: ipotesi sgradite. -—

1

2

Atti, 17, 32-33 Atti, 24, 25.

*

Il rilievo è di grande importanza per metterci in guardia contro le disposizioni preconcette nell’affrontare 1l problema. Bisogna avere la lealtà di riconoscere che, più o meno coscientemente, v’è un istinto ostile ad ammettere la esistenza dell’anima: un istinto radicato nel piano sensibile del nostro essere, dove si agitano gli egoismi della natura, chiusi nel ristretto orizzonte del fuggevole istante presente e nemici di ogni altra preoccupazione. L’obiettiva imparzialità della ricerca esige anche bensì che non vi sia il preconcetto inverso: che cioè per risolvere 1l problema dell’anima non si parta, a priori, da una aspirazione spiritualistica, incline ad ammetterne l’esistenza. È innegabile infatti anche la spontanea tendenza umana — più profonda dell’altra — alla perennità, la ripugnanza innata al dissolversi nel nulla. E v’è quindi 1l pericolo di fingersi un domani perenne solo per non sapersi rassegnare all’implacabile fine. Alla luce dell’esperienza risulta tuttavia che l’altro pericolo è maggiore. La preoccupazione d’un rendiconto futuro che turbi — come al Preside Felice — l’ambito programma di sfrenata libertà nel godimento presente, è più fastidiosa e sopraffà la pena di finire nel nulla. E l’innata ripugnanza a finire si traduce nello sforzo di prolungare il più possibile tale godimento presente. L’oggi sensibile si presenta infatti alla psicologia umana come qualcosa di più certo e immediatamente reale e quindi, praticamente, di più interessante del misterioso e lontano, sia pur lungo domani. La posseduta soddisfazione di oggi fa facilmente dimenticare 12

alla psicologia umana, legata sensibilmente. al presente, l’ipotetico godimento o l’oscura e lontana punizione di domani.

Via dunque ogni preconcetto. Risolvere il problema a sentimento, o negando l’anima per eliminare il fastidioso pensiero del futuro rendiconto, o affermandola per non volersi rassegnare a scomparire dalla scena della realtà, è scherzare con problemi

troppo gravi. Qui non si tratta d’un quesito puramente teorico. Qui è il problema più grave della vita. Chiudere gli orizzonti dell’esistenza umana nella goccia della vita presente, quando ci attendesse l’oceano dell’al di 1à eterno, sarebbe tragica imprevidenza. Perché se quell’al di 1à esiste, è intuitivo, anche senza approfondita considerazione, che il brevissimo passaggio terreno ne è una preparazione e che l’al di qua deve essere quindi vissuto, come la religione pretende, in funzione di esso: pena il suo totale fallimento. Il piacere che l’al di qua potrebbe arrecare, se dovesse compromettere il futuro infinito e interminabile premio e aprire anzi lunghe prospettive di dolore, sarebbe una tragica beffa. E viceversa se quell’al di 1à è irreale, se è un puro parto della fantasia o del fanatismo religioso, se niente cioè di cosciente di noi può prolungarsi oltre la morte, condizionare il passo presente a cotesto illusorio futuro sarebbe un equivoco veramente fallimentare. Giustamente, secondo S. Paolo, tali uomini illusi sarebbero i più infelici di tutti: « Infatti se i morti non risorgono... è vana la nostra fede... siamo più miserabili 1

13

gli uomini » !. Perché sarebbe compromessa la libertà presente per un inesistente futuro. Sarebbe spostato il supremo interesse dall’oggi certo al domani che mai verrà.

di

tutti

La fuga del pensiero

problema appellandosi alla difficoltà di raggiungere una soluzione certa. E si deduce tale difficoltà dalle interminabili dispute e dalla disparità delle opinioni in proposito: mentre, se ci fosse stata una soluzione sicura, tale discordanza avrebbe dovuto

tenta di svalutare

Si

1l

cessare. Il solito errore dello scetticismo, da Pirrone (IV-III sec. a. C.) in poi. La solita ingenuità di scandalizzarsi delle discordanti risposte ai quesiti più vitali dell’uomo, come quello dell’anima e quelli religiosi in genere. Ma, appunto perché vitali, tali quesiti non possono non muovere un complesso tale di interessi da poter velare artificialmente 1l giudizio, infirmarne l’imparzialità e condurre ovviamente alle più disparate opinioni. *

Del resto tale impostazione vile, rinunciataria, tale fuga dal combattimento e dalla fatica del pensiero pecca dell’incoerenza intrinseca di ogni scetticismo. È infatti una soluzione anch’essa, è un pensiero, è un prendere posizione nell’atto stesso in cui non se ne vorrebbe prendere alcuna. È una contraddizione in termini. Si afferma di non poter arrivare ad alcuna certezza nel problema dell’anima, si prende l’atteggiamento lungimirante, prudente, critico di chi conosce di non poter arrivare ad alcuna certa conclusione. E agli ansiosi si 1

14

I

Corinti, 15, 16-19.

risponde magari, posando da saggi, come Pirrone: « È morto anche Patroclo che valeva molto più di te; muori dunque anche tu senza emettere tanti sospiri e tante proteste » 1; o facendo i geniali alla Montaigne: « La morte non vi riguarda né morti, né vivi; vivi perché esistete, morti perché non esistete più »°. Ma intanto si afferma di non poter affermare, si conclude di non poter concludere, e ciò tanto nettamente da escludere addirittura di tentar di concludere. E perché ? Forse per la provata difficoltà intrinseca del problema ? Ma ciò presupporrebbe un’indagine accurata della realtà, che invece non si vuole fare. Si fermano alla soglia del problema e ne giudicano l’interno dal fatto puramente estrinseco della molteplicità di opinioni. Non solo. Trattandosi d’un problema estremamente ricco di risonanze pratiche, l’esclusione d’ogni certezza e il conseguente atteggiamento agnostico sboccano praticamente nella soluzione negativa. Infatti, ignorando se l’anima esiste, si vive come se non esistesse, si vive cioè, in pratica, in armonia a una netta soluzione, mentre si negava di volerla e poterla prendere. Dietro l’illusione di escludere ogni soluzione si nasconde, di fatto, una netta soluzione: la negativa.

L’unico ragionevole atteggiamento è quindi di affrontare il problema in pieno, visto che è impossibile, in pratica, non vivere secondo una sua soluzione. Il possibile influsso di idee preconcette e la disparità di opinioni, anziché dispensare dall'indagine, non possono 1 2:

Testimonianza di Filone (Diogene Laerzio, IX, 67). Essais, I, 19.

ragionevolmente che stimolare ad approfondirla con metodo critico più accurato e imparziale. Il viandante che, avviato a una necessaria meta, s’imbatta in un bivio che porti o alla buona strada o al precipizio, non può dispensarsi dal decidere la parte da prendere. E se il buio o altri impedimenti rendono difficile la scelta, egli non potrà non fare ogni sforzo per superare la difficoltà. Così per il cammino della vita. Con la differenza però che mentre il viandante, alle brutte, potrebbe decidere anche di fermarsi sul posto, piuttosto che correre il pericolo di cadere nel precipizio, nel cammino della vita non v’è possibilità di sosta alcuna. E al bivio della morte è ineluttabile arrivare: per trovarsi irrimediabilmente di fronte o al nulla o all’interminabile al di 1à. Un sorprendente sadismo

La soluzione negativa del problema è contrassegnata da un complesso psicologico di atteggiamenti non poco sorprendente. Nel pensiero materialista l’esistenza dell’anima umana non solo viene esclusa, ma molto spesso irrisa. Ci si vanta che non esista. Il che esce dai confini della serena obiettività. I fatti sono fatti. Se l’anima non c’è non c’è. Benissimo. Ma che ciò si affermi come un trionfo, con l’esultanza d’una felice scoperta, questo non è facilmente comprensibile, in un piano di ricerca critica imparziale. Bisogna leggere Jakob Moleschott (1822-1893), per trovare addirittura l’entusiasmo lirico per la mancanza dell’anima e per sapersi composti come tutti gli altri esseri cosmici di puri elementi chimici, in modo da essere certi di risolversi dopo la morte nella materia nu16

tritizia delle piante e degli animali, di poter diventare un bel fiore profumato dei campi, un bel frutto saporoso e così via 1,

Goderne. Ma perché ? Che questo io umano che indubbiamente primeggia nel creato, le cui particolari manifestazioni intelligenti facevano pensare, almeno a prima vista, a nobiltà molto maggiore di quel sasso, di quella pianta, di quell’animale, che questo io le cui aspirazioni — almeno, ripeto, a prima intuizione — facevano sperare la vittoria più grande sul tempo e sulla morte e il suo perennarsi nell’interminabile domani, che quest’io, a conti fatti, sì risolva invece puramente e semplicemente in materia, in polvere, come quel sasso roso dalle intemperie, come quella pianta marcita, come quella bestia diventata carogna, a essere logici e sinceri non è una scoperta piacevole. C’è da piangere, non da esultare: da piangere sulla dura realtà che dissolve il sogno, sull’illusione d’una grandezza, d’una nobiltà che non c’è. Se, analizzando un grosso brillante ereditato dagli avi e gelosamente custodito, vengo a scoprire che è un volgare pezzo di vetro, non me ne vanterò e non mi sarà certo di conforto il pensiero che esso potrà andare a far tranquillamente compagnia ai rottami di vetro della spazzatura. Sarà una ben triste scoperta per me. Perché invece l’uomo che scopre di essere tutto terra invece di cielo, fango invece di spirito, se ne vanta e ne esulta ? sk

Indubbiamente

s’io avessi scoperto la vera

natura

di quel falso diamante con un nuovo geniale processo scientifico, potrei legittimamente godere della mia ge‘

Cfr. La circolazione della vita, 1852,

Il.

nialità. Tuttavia ciò non toglierebbe la pena d'aver perduto un diamante. Lo scienziato materialista invece no, inneggia alla sua scienza e basta. Al crollo miserevole d’un sogno di grandezza non ci pensa minimamente: o meglio, vi pensa e ne gode. Ritiene d’aver scoperto che la sua personale gloria, i suoi successi, le sue ricchezze terrene, si dissolveranno con la morte completamente nel nulla, e ne gioisce; che i suoi cari genitori, 1 suoi amati defunti non vivono in una esistenza migliore, non pensano più a lui, si son dissolti in polvere materiale e ne è felice. « Una bottiglia contenente del carbonato, della ammoniaca, del cloruro di potassio, del fosfato di soda, della calce, della magnesia, del ferro, dell’acido solforico, della silice; ecco, in una maniera ideale, 1l principio vitale completo delle piante, degli animali e dell’uomo »: così, radioso e trionfante, il Moleschott !. Così tanti negatori dell’anima. Per Carlo Vogt «i pensieri stanno al cervello, come la bile al fegato e l’orina ai reni »°; e non senza ironia, ma coerentemente, predisse che « con una apposita nutrizione si potrebbero produrre a volontà uomini di stato, burocrati, teologi, ecc.» e sentenziò che «l'ingegno consumato a far costituzioni, leggi e ordinanze » gli sarebbe parso meglio speso a scoprire « salse, pappe e intingoli » Si noti 1l senso di soddisfazione che trasparisce da questa sbrigativa liquidazione del concetto di spirito, del maggiore positivista italiano, Roberto Ardigò (1828-1920): «Mi accadde una volta che, avendo una irritazione intestinale e quindi il ventre un po’ gonfio, ed essendo il mio vestito stretto in®.

1

* è

18

lc.

La fede del carbonaio e la scienza (1854). Quadri della vita delle bestie.

torno ad esso, provassi un senso intensissimo di malinconia, che io naturalmente concepivo come uno stato dell’animo... Quando a un tratto mi viene in mente di slacciarmi i calzoni intorno al ventre, che soffriva per lo stringimento. Ciò fatto il senso di malinconia diminuì e scomparve... La malinconia dunque era semplicemente una sensazione... Non l’anima, ma un bottone dei calzoni» 1. Che sia la gioia della scoperta della verità ? Il piacere di toccare, al di 1à delle fittizie apparenze, la realtà delle cose ? Ciò sarebbe legittimo. Ma non dovrebbe eliminare la penosa sorpresa di scoprire tanta miseria dove si supponeva tanta grandezza. Sembra un crudele, sadico gusto di distruzione; una sorprendente voluttà d’annientamento.

La stranezza di tale posizione risalta ancor più considerandone un altro suo tipico aspetto: un atteggiamento come di liberazione. Ma liberazione da che ? Dall’essere un qualcosa che abbia veramente valore ? Sarebbe come se, dopo scoperta la falsità di quella gemma preziosa, esultassi di essere liberato dal possederla. Ma forse qui tocchiamo la spiegazione dell’enigma. Una liberazione veramente c’è: dalla responsabilità di amministrare un grande tesoro, dal rendiconto che se ne dovrebbe dare, dalla temuta sanzione. È la suddetta posizione preconcetta che si profila. 1

Psicologia, come scienza positiva.

19

LA

BEFFA DELLE SCIMMIE:

I

diritti dell’uomo-scimmia

Il 1735 fu una data storica e rivoluzionaria per la scienza della natura, con la pubblicazione del grande quadro sintetico di tutto 1l creato: il Systema Naturae di Carlo Linneo (1707-1778). Ma se oggi il sommo naturalista ricomparisse sul teatro della scienza ufficiale, invano vi ricercherebbe 1l suo celebre aforisma della fisQuesto capitolo nasce come proseguimento logico dei rilievi psicologici dell’ultimo paragrafo precedente. Esso vuole essere anche un richiamo all’autonoma imparzialità dell’analisi critica, rispetto alle teorie che possono dirsi, in qualche modo, di moda: un richiamo a quell’imparzialità che vuol costituire il clima mentale di questo volume. Più che la tesi è l’atteggiamento mentale che qui preme. Come ho detto nella prefazione a questa edizione, quanto alla catena logica dimostrativa della nostra analisi sul problema dell’anima, questo capitolo è secondario e può essere saltato. Le opposte tesi in fondo, bene intese, possono condurre entrambe — come nel corso del capitolo faccio pure notare — alla medesima soluzione del nostro problema: benché una le sia più favorevole. Mi guardo poi dal negare senz’altro l’imparzialità critica ai difensori della opposta tesi. Essa può mancare facilmente però nei divulgatori. E non escludo che anche in alcuni grandi possa fare difetto. 1

20

sità della specie : «Noi enumeriamo tante specie, quante fin dal principio ne creò l’Ente infinito » 1. Con la pubblicazione infatti delle Considerazioni sull’organizzazione dei corpi viventi (1802) e della Filosofia zoologica (1809) di Giovanni B. Lamarck (17441829) — solo per il momento soffocate dalla potente opposizione di Giorgio Cuvier (1769-1832), culminata nel I830 — e poi del lavoro Sull’origine della specie (1859) di Carlo R. Darwin (1809-1882), la teoria dell’evoluzione della specie, o meglio, del Trasformismo — inquadrata

in una concezione evoluzionista universale (Herbert Spencer, dal 1850) — entrava trionfalmente nel pensiero scientifico moderno.

Nessuna teoria, si può dire, pur con tante successive modificazioni e diversificazioni, ha avvinto e ha entusiasmato di più il mondo degli scienziati e dei profani. Anche oggi, nonostante che il grande maestro Luigi Vialleton (1859-1929), nell’opera che costituì 1l suo testamento scientifico (1929), abbia potuto affermare che essa « è una teoria seducente a prima vista, ma che non regge all’esame »?, e Giulio Cotronei dica che « Le teorie dell’evoluzione non sono né controllabili, né confutabili »3, Giuseppe Montalenti, pur riconoscendo che «il dubbio e lo scetticismo hanno sostituito nell’animo di molti la sicurezza e l’entusiasmo dei primi evoluzioTot enumeramus species, quot ab initio creavit infinitum Ens ». 2 L’origine degli esseri viventi. L'illusione trasformista, trad. Matthey, Soc. Ed. Libraria, Milano, 1935, p. 329. 1

«

8

Tyattato di biologia

e

zoologia generale,

Roma,

Univer-

sitas, 1949, p. 521.

21

nisti »!1, positivamente ritiene che «la biologia non potrebbe fare a meno dell’evoluzione, che è la più vasta generalizzazione a cui essa sia pervenuta »?. Si tratta infatti di dare una spiegazione dello sterminato schieramento del mondo vivente, della mirabile scala ascendente dall’unica e nuda cellula contrattile — l’ameba — anzi dall’anteriore materia inanimata all’uomo. E la mente ha bisogno di spiegazioni semplici. L’intervento iniziale e successivo d’un Dio creatore sembra qualcosa di eterogeneo, d’ingombrante. Quale spiegazione invece più semplice di questa: si è

fatto tutto da sé ?

Questo è il vero evoluzionismo biologico



che, quan-

do si faccia risalire alla primordiale materia inanimata, diviene evoluzionismo cosmico — qualunque siano le spiegazioni che se ne sono date e che si cerca di darne. O per lenti passaggi, o per improvvise mutazioni — grandi (De Vries) o piccole (neomutazionismo) — la natura ma-

teriale sì sarebbe andata sempre più organizzando da sé, in grazia delle pure leggi fisico-chimiche, ossia ciecamente, senza alcun finalismo prestabilito. E risalendo tutti gradini della scala biologica sarebbe arrivata fino all’uomo. Quali fattori avranno determinato cotesto processo evolutivo ? La risposta è diversa secondo le varie scuole evoluzioniste: ambiente, selezione, mutazione cromosomica, ecc. Ma tutto vien concepito comunque nel puro quadro delle forze naturali, ossia della 1

Elementi di genetica, Bologna, Cappelli, 1939, p. 350. Questo scetticismo, specialmente a riguardo dell’evoluzionismo radicale, ma anche di ogni evoluzionismo, è particolarmente sentito da eminenti filosofi e scienziati tedeschi, come D’Acoue 1

(1935), STEINER (1937), UExKÙLL SCHÒLLGEN (1941), KUHN (1943). *

22

Enc.

Ital, II

Append.,

(1940), FRIELING

1938-1948: Evoluzione.

(1940),

materia inanimata e cieca. La foglia, come la meraviglia dell’occhio umano, come la luce del pensiero si sono lentamente formati da sé. Ed è chiaro che in tale radicale ipotesi, risolvendosi tutto nella materia, non ha più senso parlare dell’anima spirituale. Sarebbe erroneo però supporre che la mentalità evoluzionista debba sboccare necessariamente in tale concezione materialista. Esiste infatti una ben nutrita scuola evoluzionista spiritualista ! che restringe il processo evolutivo al corpo umano, non all’anima. Questa sarebbe creata da Dio e infusa in un corpo animale arrivato, per evoluzione, al proporzionato grado di perfezione. E anche quanto al corpo, l’infinita sapienza e potenza del Creatore sarebbe intervenuta opportunamente a dare via via gl’impulsi necessari per guidare e sospingere la materia nella sua perfettiva ascensione. Oppure anche senza particolari interventi lungo 1l corso della evoluzione, eccetto quello finale della creazione e infusione dell’anima umana — Iddio avrebbe creato i primi nuclei vitali, includendovi virtualmente, ossia in germe, tutte le specie che nel corso dell’evoluzione sarebbero poi — a contatto preordinato con gli elementi ambientali, ecc. — sbocciate all’esistenza. La concezione del cieco evolversi della materia con tale impostazione teista e finalista evidentemente scompare. E scompare pure l’incantesimo della formula magica: «tutto da sé ». —

Cfr. VittorRIo Marcozzi S. ]J., La vita e l’uomo, Milano, Ambrosiana, 1946, p. 162 ss.; PIERO LEONARDI, L’'evoluzione dei viventi, Brescia, Morcelliana, 1950. 1

23

Tuttavia tale ipotesi ha consentito ai suoi seguaci

spiritualisti di partecipare al fervore trasformista, perché essa permette effettivamente di concepire 1l succedersi delle specie viventi come un’evoluzione progressiva del grande albero della vita, con una vera derwazione delle specie l’una dall’altra, benché in dipendenza dalla creazione, dall’impulso iniziale, dalla virtuale polivalenza e supervalenza dei germi iniziali, dall’influsso

ambientale attualizzatore e dagli opportuni interventi progressivi del Creatore: elementi questi capaci di togliere alla dottrina trasformista la strana e contraddittoria concezione di un perfezionamento evolutivo ordinatissimo senza alcuna causa proporzionata, elevatrice e ordinatrice.

Ma non è sull’evoluzionismo biologico in sé ch’io voglio ora richiamare l’attenzione. È, ancora una volta, sull’interessante fenomeno psicologico dell’entusiasmo dei suoi aderenti e, prima di tutti, degli evoluzionisti

materialisti. V’è da riflettere cioè alla curiosa gioia di questi ultimi — grandi scienziati e grandi ingegni — all’essersi scoperti, in definitiva, vere e proprie scimmie, salvo la insignificante variante di doversi ritenere piuttosto, secondo 1l più illuminato trasformismo moderno, loro cugini, anziché figli, visto che una discendenza dalle scimmie antropomorfe viventi (gibbone, orango, scimpanzé, gorilla), dati i loro caratteri morfologici fortemente differenziati, non è ammissibile e si deve quindi risalire a forme oggi estinte, da cui sarebbero derivate loro e noi 1. 1

24

MAaRcozzI, o. c., p. 371

S.

Gioia dunque di essere vere e proprie bestie, che ragionano bensì immensamente di più, ma che non differiscono da esse per alcun elemento decisamente differenziatore, visto che di anima spirituale non v’è da parlarne. Gli spiritualisti avevano affermato che gli uomini, per lo speciale atto divino — per lo meno relativo all’anima — con cui erano stati creati, potevano ritenersi formati a nobilissima immagine e somiglianza di Dio, e comunque che costituivano una schiatta ben diversa dai primati (scimmie antropomorfe): erano cioè uomini discendenti da uomini. Ma si è scoperto invece che gli uomini discendono da bestie e non sono quindi che bestie, formati come esse di materia, più evoluta ma pura

materia. Supposto che tale pieno evoluzionismo materialista fosse veramente provato, gli uomini avrebbero dovuto tristemente rassegnarsi al fatto, restarsene confusi, a capo chino. Macché Felici Mai con tanta solennità e tanto orgoglio scientifico si è affermata una nuova ipotesi: pur essendo la più umiliante per la realtà !

!

dell’uomo.

Istintivamente l’uomo cerca di rivendicare le pro-

prie glorie di famiglia, le eventuali grandezze nobiliari, politiche, scientifiche. E quando può percorrere la linea ascendente familiare per lunghi secoli e giungere a una origine gloriosa molto antica, il vanto è ancora maggiore. Che se invece l’origine fosse disonorevole, cerca di nasconderla e di fermarsi all’inizio del nuovo ramo onorato. L’entusiasmo evoluzionista, all’opposto, ha capovolto queste leggi psicologiche e ha creato la letizia di sapere che il più antico antenato è una bestia anteriore alla stessa villosa scimmia della foresta. Si sarà evoluto, si sarà raffinato quanto si vuole, ma si tratterà pur sempre di sangue di bestia. E basta: perché, escluso 25

ogni superiore intervento, dal sangue non può certo sgorgare un’anima spirituale. Peggio poi se si risale an-

cora più indietro: alla pura materia. *

Non manca però un aspetto interessante dell’euforia evoluzionista, anche nell’ipotesi evolutiva spiritualista. In tale ipotesi l’evoluzione del corpo è guidata da Dio, e l’anima è direttamente infusa da Lui: l'istanza evoluzionista si concilia quindi col principio teista e

spiritualista. Dunque non vi sarà più ragione di andare a capo chino come gli altri. Ma di essere notevolmente umiliati tuttavia sì. Perché la divina infusione dell’anima in quella fortunata coppia di animali evoluti per trarne la prima coppia umana, non toglie, a ben riflettere, che ancora si debba dire che il sangue umano è sangue di animali. Gli animali della foresta cioè sono ancora veranostri consanguinei. Tanto mente, quanto al corpo, di vista tale da che, spiritualista, si deve ampiù punto mettere che anche nelle moderne nascite il sangue viene dai genitori, ma l’anima, non potendo essere un pezzetto della loro anima, perché spirituale e indivisibile, deve essere direttamente creata e infusa da Dio. Il processo anche attuale cicè della procreazione umana sarebbe, per riguardo all’influsso divino, quanto all’anima, perfettamente analogo a quello per cui, da due fortunate bestie sarebbe venuta fuori la prima coppia umana. La continuità somatica, fisiologica, materiale con i progenitori belluini proseguirebbe ininterrotta. Come siamo figli veramente dei nostri genitori, nonostante che, pur avendola, non possono darci l’anima, così lo siamo veramente di quegli animali, nonostante che, non avéndola, non ci abbiano dato l’anima. 1

20

Ma lasciamo andare questi rilievi psicologici, che ci interessano solo di riflesso. Han servito tuttavia utilmente per richiamare l’attenzione sulla speciale forza

avvincente dell’entusiasmo trasformista. Ricordo ancora il grandioso salone circolare evoluzionista del « Palais de la découverte » all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1939, là nella grande metropoli, dove centocinquant’anni prima erano stati proclamati i «diritti dell’uomo ». Un’enorme scritta tutto intorno alla sala inneggiava popolarmente alla grande conquista trasformista dell’intelligenza umana. I diritti, un tempo proclamati, erano dunque quelli dell’« uomo-scimmia Tale senso di trionfale conquista, di liberazione, di gloria per una presunta scoperta tanto umiliante è un fenomeno d’incoerenza psicologica. E non si spiega senza tener presente la preconcetta idea antispiritualista cui ho accennato nel capitolo precedente. Impregiudicato il problema dell’anima »

!

L’ipotesi evoluzionista tuttavia, in qualunque sua forma, non ha alcun valore decisivo per risolvere 1l problema dell’anima. Ciò va attentamente notato. La cosa è evidente quando si ammetta il trasformismo nel solo significato generico di derivazione d’ogni gradino della vita dal precedente. Infatti in tale concezione può rientrare benissimo l’ipotesi spiritualista del divino intervento finalistico e dell’infusione finale del-

l’anima. Ma non è decisivo nemmeno il trasformismo somatico, di tipo completamente autonomo, che afferma cioè la 27

evoluzione dei corpi viventi, avvenuta tutta da sé: purché resti nel suo proprio oggetto, che sono 1 corpi. Una teoria infatti che spieghi senza alcun intervento estrinseco finalistico l’ipotetica evoluzione della natura, dalle inferiori forme di vita o addirittura dalla materia inanimata all’organizzazione culminante del corpo dell’uomo, prescinde di fatto dall’intervento d’una causa esterna, Dio, per l’eventuale infusione dell’anima spirituale. Un evoluzionismo o trasformismo anche radicalmente autonomo, che voglia restare cicè sul terreno suo proprio della pura trasformazione somatica, niente potrà opporre, in base allo studio dei corpi, contro l’eventuale inserzione d’un fatto extracorporeo, ossia spirituale, nella storia evolutiva umana, se l’esistenza di un costituente spirituale risultasse dall’analisi dell’uomo vivente attuale.

‘È vero però l’inverso. Ammessa cioè, in partenza, la verità della concezione puramente materialista dell’universo, con l’esclusione di tutto l’ordine spirituale — anima, Dio — l’unica spiegazione ammissibile della scala dei viventi non può essere evidentemente che l’evoluzionismo autonomo. Esclusa infatti la esistenza di

qualunque potenza estrinseca, creatrice e normatrice della realtà e del suo dinamismo materiale, questa non può essersi determinata che per evoluzione, da sé. In altri termini: il materialismo filosofico-religioso postula l’evoluzionismo assolutamente autonomo; mentre l’evoluzionismo puramente somatico, di qualunque tipo, non postula il materialismo. Ciò pone in evidenza un’importantissima superiorità degli scienziati spiritualisti nell’imparzialità della cri28

tica dell’evoluzione. Mentre cioè la pregiudiziale materialista impone la soluzione evoluzionista, la pregiudiziale spiritualista non impone la sua esclusione. Il materialista si trova dunque di fronte a un binario obbligato, mentre lo spiritualista no. Una teoria troppo facile I biologi,

genetisti, gli antropologi, paleontologi hanno 1l diritto di protestare contro il troppo frequente sputar sentenze dei non specialisti sui loro problemi. Prima questi acquistino la loro competenza e poi par1

1

lino.

Ciò è troppo giusto, per quel che riguarda il terreno strettamente tecnico della loro scienza. Non si possono

improvvisare giudizi su questioni che richiedono studi specifici lunghi e profondi e metodi e abitudini raffinate di ricerca. Anch’io dunque lascerò ad essi soli la parola quando descriveranno le strutture cellulari, gli scambi energetici vitali, ecc., quando esporranno le modernissime esperienze genetiche, le strutture cromosomiche dei nuclei cellulari, i geni, ecc., quando inquadreranno i vari tipi umani, giudicheranno l’età degli strati terrestri, calcoleranno la cubatura dei resti fossili, gli angoli facciali, le appartenenze presumibili di quei resti a questa o a quella specie, ecc. Ma tuttociò non costituisce propriamente il problema evoluzionistico, bensì solo il materiale prezioso della relativa discussione. Questo lo prenderò di peso da loro; ma la discussione mi permetterò di farla anch’o, con la massima spregiudicata obiettività di cui sono capace. 29

Ed ecco che, volendo entrare in merito, vedo subito

un motivo obiettivo di diffidenza verso l’evoluzionismo in genere nella sua impostazione troppo facile e troppo consona al suggerimento delle immediate apparenze. È un facilismo che, in sede rigorosamente critica, deve porre subito il ricercatore sul «chi va là » contro il temibile inganno dell’illusione. Nel padiglione dell’Esposizione Internazionale di Parigi la grande scritta propagandistica, cui ho accennato sopra, diceva così: « La teoria del trasformismo, benché disorienti l'immaginazione, è l’unica che appaghi l'intelligenza ». E, nel caso, si trattava proprio dell’evoluzionismo integrale ed autonomo. Ma è vero proprio l'inverso, perché — per dir subito dell’immaginazione — essa è invece mirabilmente appagata, troppo appagata, dalla teoria evoluzionista. Si pensi a una pianta che dal seme pian piano si svolge in albero maestoso, e si trasporti l’immagine alla sterminata scala dei viventi. Cosa di più riposante ed elegante che l’estensione analogica dell’immagine della pianta a cotesta scala degli esseri; che il pensare cioè la scala degli esseri come la pianta individua, sviluppata su dalla minima alga all’uomo ? L’idea è suggerita spontaneamente — troppo spontaneamente e suggestivamente — dalla rassomiglianza delle varie specie tra loro e dalle piccole differenze tra le specie vicine, che permettono di metterle sistematicamente l’una accanto all’altra, in modo da formare una sorprendente continuità ascensionale. La somiglianza morfologica non può non invitare a pensare a una derivazione genetica: fu l’idea ispiratrice del vero fondatore del trasformismo, 1l Lamarck, sviluppata nella sua Filosofia zoologica (1809). 30

Idea tanto più spontanea se si congiunge all’osservazione della paleontologia, secondo cui tali specie compariscono sulla terra, press’a poco, nell’ordine stesso della loro successione ascendente. Idea confortata dall’embriologia, la quale permette di seguire lo sviluppo progressivo dell’individuo dalla elementarità embrionale al perfezionamento dello stato adulto; fa cioè assistere, nella breve storia dell’individuo, a un completo processo evolutivo, che richiama e sembra ricapitolare la lunga evoluzione comniuta dalla specie. Fu ciò che Ernesto Haeckel — sviluppando un pensiero già formulato da Guglielmo Harvey nel 1628 e, alquanto dopo, da Stefano Serres (1842) e da altri chiamò (1866): «legge biogenetica fondamentale ». Ossia: «la serie di forme che l’organismo individuale percorre nelle varie fasi del suo sviluppo, dalla cellula uovo fino allo stato adulto (ontogenesi), è una ripetizione breve e compendiosa della lunga serie di forme che progenitori di quel dato organismo percorsero dall’epoca della cosiddetta creazione fino al presente (filo—

1

genesi)

».

Dunque nessun disorientamento dell’immaginazione, ma anzi analogie particolarmente avvincenti: troppo spontanee e avvincenti.

Si potrebbe obiettare che se la teoria fosse realmente così facile e spontanea, come ho affermato, non si capirebbe perché si sia dovuti arrivare fino al secolo XIX per Janciarne l’idea. Veramente fin dal secolo vI a. C. la sostenne l’ionico Anassimandro. Sorvoliamo sui «principi seminali » di S. Agostino, che sembrano riferirsi più all’ontogenesi 31

che alla filogenesi. Il pensiero ritorna nel P. Atanasio Kircher gesuita (1675), che suppose tutti i viventi derivati per evoluzione da poche specie iniziali. Intorno al medesimo xv11 secolo ne affacciano qualche idea Bruno, Vanini, Bacone, Cartesio, Leibnitz. Ne parla poi, nel secolo seguente, Giorgio Buffon (1707-1788). Ma se vi fu indubbiamente fino a Darwin una forte resistenza dei naturalisti contro il trasformismo — tale che, per l’autorità del Linneo e per le violente confutazioni e opposizioni del Cuvier, il Lamarck fu messo provvisoriamente a tacere — ciò dipese, sul piano sperimentale, da quella che era sempre sembrata l’evidenza dei fatti: la fissità della specie, validamente confermata dall’argomento biologico di comune esperienza, della ordinaria infecondità dei prodotti ibridi, ottenuti cioè dall’incrocio di specie diverse benché affini (esempio del mulo, a tutti noto) tL, Sul piano teorico — a prescindere dal pensiero religioso — s’opponeva d’altra parte la difficoltà concettuale di ammettere 1l passaggio autonomo dal meno al più perfetto, senza una proporzionata causa di tale elevazione. Da questo punto di vista razionale la differenza tra lo sviluppo dell’individuo (dall’embrione allo stato adulto) e quello della specie (dai gradi infimi ai più alti) è

netta. Nell’individuo

lo sviluppo ha la sua ragione nel

proprio principio vitale, proporzionato, fin dall’inizio, alla futura maturazione. Nella specie invece non si trova la ragione del superamento di sé: essa infatti, in concreto, non potrebbe trovarsi che negli individui stessi L'opposizione della specie all’ibridazione è provata sia dalla difficoltà dell’accoppiamento, sia dall’infecondità ordinaria dei prodotti ibridi, anche cioè se vi siano eccezioni parziali (tanto più se artificiosamente ottenute). 1

32

riproducentisi, i quali, in linea di massima, non si vede perché dovrebbero avere una potenzialità vitale superiore a quella capace di condurli alla maturità adulta della propria specie.

V’era dunque una reale gravissima difficoltà d’ordine intellettuale. Teoria facile quindi per l’immaginazione e non per l’intelletto: proprio l’opposto di quanto proclamava quella iscrizione del « Palais de la découverte » di Parigi. Superata questa difficoltà intellettuale, alla meglio, per l’ascendente di Darwin, non senza l’influsso della moda e della pregiudiziale materialista del suo tempo tanto violenta e aprioristica da indurre l’ateo Haeckel perfino a delle falsificazioni sperimentali ! —, si capisce benissimo che la teoria si sia poi sempre più affermata -—

Fu accusato di ritoccare artificiosamente gli schemi e le fotografie sperimentali. Cfr. A. Brass e A. GEMELLI, Le falsificazioni di Ernesto Haeckel, Fiorentina, 1911. La sorprendente slealtà di forzare la mano alle esperienze favore dell’ipotesi trasformista fu notata anche in altri casi, a nei lavori di P. KAMMERER (finito suicida) sulla trasmiscome sione dei caratteri acquisiti. La mancanza di prove sperimentali della trasmissione ereditaria di tali caratteri ha sempre costituito infatti una difficoltà cruciale contro il trasformismo. I] MONTALENTI nei già citati Elementi di genetica (p. 65) chiama perciò tali esperienze « tristemente celebri »; e L. CUENOT in L’Hérédité des caractères acquis (Ed. du Cerf., p. 40), più esplicitamente dice: « Un giorno si è avuta la curiosità e la possibilità di osservare più da vicino un esemplare che egli esibiva in un congresso, che mostrava la realtà della trasmissione d'un carattere acquisito (un tratto di pelle colorata sulla mano di una rana): si è scoperto che questa... era semplicemente una iniezione di inchiostro di china sotto la pelle... ». 1

33

nell’insegnamento scientifico — pur seguitando ad esservi sempre valorosi scienziati contrari, come Claud Bernard (1813-1878), Luigi Pasteur (1822-1895), ecc. — e ancor più in quello di volgarizzazione, con l’incoraggiamento riposante dell’immaginazione. Troppo incoraggiante, dicevo, per non temere l’inganno delle superficiali apparenze.

Quanto sia facile — troppo facile e poco concludente cotesta apparenza esteriore, lo si vede anche partendo dall’ipotesi più favorevole all’evoluzione: supponendo cioè che il graduatorio passaggio dall’uno all’altro gradino nella scala ascendente degli esseri viventi e 1l loro trovarsi ordinatamente negli strati fossili non ammetta — come invece effettivamente ammette ed è fortemente ricordato da Luigi Vialleton! e riconosciuto oggi da tutti paleontologi — gravi e numerose eccezioni. Si supponga pure cioè che tutto vada perfettamente liscio, come si è detto sopra: che le rassomiglianze esterne di certe specie tra loro non tradiscano di fatto profonde differenze strutturali e che gli strati fossili rivelino il perfetto combaciamento della successione geologica con l’ascensione perfettiva della specie. Può tutto ciò costituire una prova che le specie superiori sono sgorgate dalle specie inferiori ? Può almeno costituirne un serio indizio, l’indizio anzi principale, come ritiene la maggior parte degli evoluzionisti ? È verissimo che nell’ipotesi trasformista — di qua-



1

!

L’origine degli esseri viventi, o.c.

LEONARDI, 34

L’evoluzione :lei viventi,

Oo.c.,

Vedasi anche Piero p. 120

Ss.

lunque tipo, completamente autonomo o no le cose sarebbero dovute andare proprio così. Ma è pur verissimo che, anche nell’ipotesi estremamente fissista e creazionista — tutte le specie create direttamente da Dio — le cose si sarebbero dovute svolgere nell’identica maniera. Supposto infatti che l’universo fosse sgorgato dall’azione creativa e ordinativa dell’onnipotente e sapientissimo Iddio, questi avrebbe pur dovuto creare una varietà di esseri, i quali, appunto per essere vari, avrebbero costituito una scala di perfezioni. Data la sua munificenza, la scala avrebbe dovuto essere molto fitta, in modo da potersi porre nella classificazione a poca distanza l’una dall’altra le specie successive, come l’attuale esperienza cosmica ci rivela. Inoltre un intuitivo principio di armonia ed economia costruttiva avrebbe dovuto suggerire un opportuno adattamento di tutte le specie viventi all’ambiente in cui avrebbero dovuto vivere. Ed essendo questo costituito dalla terra, con le sue acque e la sua atmosfera, era naturale che, per ragione di tale ambiente comune, tutti i viventi venissero a rassomigliare tra loro nelle loro funzioni fondamentali, di nutrizione, respirazione, riproduzione, ecc., inquadrandosi (come è naturale, in una sapiente economia costruttiva) in pochi vasti schemi basilari entro cui potessero rientrare le particolari differenziazioni. Non solo. Dovendo la vita essere creata sulla terra e trovandosi questa avviata in un processo di progressivo assestamento geofisico, era naturale che le varie specie viventi avessero dovuto essere create con caratteri progressivamente adatti ai successivi stadi della evoluzione geologica, fino ad arrivare alle ultime forme attuali più delicate e perfette. -—

“”

I

Questo per ciò che riguarda la rassomiglianza delle specie tra loro e il succedersi di esse negli strati geologici. Ma qualcosa di molto simile si può dire per le rassomiglianze evolutive dell’individuo e delle specie, ossia per la rassomiglianza tra lo sviluppo dell’embrione di un animale superiore (dal semplice al complesso) e 1 gradi successivi delle varie specie, per la rassomiglianza cioè tra l’ontogenesi e la filogenesi. Anche qui bisognerebbe notare che, di fatto, la suddetta rassomiglianza affermata dalla legge biogenetica fondamentale è più apparente che reale, sia dal punto di vista anatomico che funzionale. Le celebri apparenze branchiali dell’embrione umano, per esempio, che dovrebbero costituire una ricapitolazione atavica del primitivo stato di pesce, sono archi viscerali, non

branchie. Ma, prescindendo anche completamente dal divario tra la realtà e le presunte rassomiglianze, queste si spiegano pure nell’ipotesi fissista. Lo sviluppo embrionale dal semplice al complesso è infatti l’unico modo concepibile della formazione dell’individuo umano nel seno materno. Doveva esservi per forza una elementarità iniziale, visto che il punto di partenza è addirittura l’elementarissima cellula uovo. Prima doveva formarsi l’abbozzo e poi, per successivo perfezionamento, la struttura finale. Ed è chiaro che, per il loro carattere elementare di abbozzo, gli embrioni di individui di specie diversa non possono non essere fondamentalmente uguali, e quelli di specie superiori non rassomigliare alla elementarità di individui maturi di specie inferiori. Non fa meraviglia, per esempio, che alle 24.000 specie tra uccelli e pesci teleostei (ossia a scheletro osseo) corri36

spondano due soli tipi fondamentali di organizzazione embrionale. Sono cioè rassomiglianze di abbozzi e non di forme mature, rassomiglianze che in una bene impostata economia creatrice del vivente non potevano mancare. È nota la netta affermazione del fondatore dell’embriologia comparata, e uno dei primi formulatori della « legge biogenetica fondamentale », Carlo Ernesto von Baer (1828): « L’embrione di una forma superiore non rassomiglia mai a un altro animale, ma solamente all’embrione del medesimo ». Se pertanto tali suggestive e graduali rassomiglianze nella scala dei viventi e nei rispettivi sviluppi embrionali rientrano nel quadro ipotetico tanto del trasformismo che del fissismo o creazionismo, ben poco di veramente positivo si può trarre, dalle somiglianze stesse, a favore del trasformismo.

In favore dell’ipotesi evoluzionista — piena e autonoma — sembrerebbero però militare due motivi, uno di natura particolare e uno di orientamento genciale. L’argomento particolare è costituito dai celebri organi rudimentali, che nell'ipotesi del cieco conato evolutivo si spiegano bene come residui atavici e anomalie d’una trasformazione non completamente riuscita, mentre sembrano incomprensibili errori in un’ipotetica azione creativa. Ma è noto oggi quanto bisogna andar cauti nell’affermare la rudimentalità di certi organi, per non meritare il giudizio che rudimentale sia soltanto la nostra ancora ristretta conoscenza fisiologica. Basta riflettere che all’epoca dei grandi entusiasmi per 37

il trasformismo, appena cinquant’anni fa, R. Wiedersheim elencava (1902) nell’organismo umano ben 17 organi in decadenza e 107 completamente rudimentali, tra cui erano enumerate l’appendice, il coccige, l’ipofisi, la tiroide e addirittura tutte le glandole a secrezione interna Si ritenevano cioè inutili quegli organi che sono divenuti l’oggetto di una nuova scienza me!

dica: l’Endocrinologia.

Vi possono essere poi degli organi veramente rudi-

mentali, cioè attualmente sprovvisti di funzione, eppure inquadrabili benissimo nell’ipotesi creativa, come residui embrionali, e similmente organi comparsi nell’embrione e poi spariti. Una sapiente economia semplificatrice non può non partire nella costruzione dell’individuo da schemi tipici, che possono essere comprensivi di tutti i futuri abbozzi e di tutte le definitive differenziazioni specifiche e sessuali a cui tali schemi sono ordinati. È ovvio quindi che, dopo tale sviluppo, qualche parte, giustificata dalla razionale e lungimirante impostazione del piano costruttivo, possa restare inoperosa o essere sparita. Così si spiegano — e non come residui atavici — le mammelle rudimentali dei maschi. Così germi dei denti del feto di balena e degli incisivi superiori di alcuni ruminanti, poco felicemente interpretati da Darwin come residui atavici, per il fatto che non escono mai fuori. Luigi Vialleton osserva invece che tali germi dentari dei mammiferi sono molto grossi rispetto alle parti che li contengono e possono avere una importante funzione nella formazione delle ossa delle mascelle che vi si appoggiano e vi si modellano 1. 1

1

38

O.c., p. 142.

Così si spiega il fatto che nello stadio precartilagineo la mano degli uccelli presenti cinque raggi invece dei tre che poi resteranno a sostenere l’ala. Che sia un rudimento di un antenato a cinque raggi ? Di fatto invece cotesti raggi embrionali diverranno sostenitori soltanto in seguito e i due estremi che spariranno hanno probabilmente nell’embrione la funzione di mantenere nel mezzo, durante il periodo di formazione, i tre che

resteranno 1, Del resto il creazionismo non esclude, come vedremo, una qualche elasticità evolutiva entro limiti ristretti, la quale potrebbe essere sufficiente a spiegare qualche effettivo rudimento, se vi fosse.

L’altro motivo, di natura generale, è questo: se 1 facili argomenti suddetti, tratti dall’immediato suggerimento della Sistematica, della Paleontologia e della Embriologia, lasciano, in definitiva, impregiudicata la questione, conviene tuttavia preferire l’ipotesi evoluzionista perché più semplice e naturale. L’illustre P. Marcozzi, riferendosi all’evoluzionismo finalista e teistico, così esprime tale principio: «nella spiegazione dei fenomeni, è buon metodo filosofico e scientifico non ricorrere alla Causa Prima fino a tanto che è possibile la spiegazione con le cause seconde. Se quindi, all’esame dei fatti, risulta che l’evoluzionismo teistico è anche solo probabile, ci sembra che debba avere la preferenza sull’ipotesi della creazione immediata della specie»?, Infatti l’intervento estrinseco e supercosmico ' *

O.c., p. 115. O.c., p. 167. 39

costituisce nel quadro ipotetico una complicazione, che non deve ammettersi se non è provata. La presunzione sta e deve star sempre per la spiegazione più naturale

e semplice.

Benissimo !. Perché si tratti però di una « presunzione » solidamente fondata, la spiegazione più naturale, oltre essere realmente più semplice e non essere contraddetta da fatti sperimentali (il che, vedremo, non è), dovrebbe avere delle basi positive, che sembrano invece mancare. Negli argomenti precedenti infatti non si vede alcun nesso probante veramente positivo tra rassomiglianze, successione e discendenza. Che dire di chi affermasse che un’automobile grande derivi da una automobile più piccola e questa da una motocicletta e questa da una bicicletta, per il fatto che messe l’una accan-

to all’altra presentano una graduazione ascendente di perfezione; o che messi tanti uomini in fila, secondo l’ordine d’altezza, ne risulti la discendenza del più alto dal più basso; o che dalla graduale scala dei corpi chimici (Tavola di Mendeleiev) segua la loro derivazione in tale ordine ? Similmente chi vuol dedurre dai graduali ritrovamenti fossili che le specie degli strati superiori sono derivate da quelle degli strati più antichi, non è molto dissimile da chi osservando in un museo una serie di scheletri ordinati con criterio progressivo ne deducesse senz’altro che appartengono a individui derivati l’uno dall’altro. E chi dalla semplificazione strutturale dell’embrione umano inferisce la derivazione dell’uomo dalle specie inferiori è come chi considerando che ogni uomo deve Benché, a rigore, si dovrebbe distinguere l’ordine pratico dal teorico. ’

40

passare attraverso all’iniziale stato di bimbo ne deduca che un giorno la specie umana aveva gl’individui maturi non più sviluppati dei bimbi, ecc.

Ma quanto alla maggior semplicità della soluzione dobbiamo ancor più intrinsecamente chiederci: l’ipotesi evoluzionista di tipo completamente autonomo costituisce veramente, rispetto al creazionismo, una soluzione più semplice perché svincolata dalla necessità del ricorso all’intervento del Creatore ? E quella di tipo finalista costituisce almeno una semplificazione, in quanto escluda il ripetuto influsso divino propriamente

creativo

?

Lo si ritiene, in genere, ma v’è molto da dubitarne. Vediamolo prima per l’evoluzionismo integrale e autonomo e poi per quello finalistico teista.

Pochi negherebbero, per esempio, l’assurdo di questa ipotesi: che all’improvviso, da un cieco movimento d’un pugno di fango, possa sgorgare, di colpo, la meraviglia dell’occhio umano. Ma l’assurdo pare agli evoluzionisti che sparisca, a prolungare sconfinatamente, a partire dai primi conati cosmici di vita, 1l processo trasformativo della materia. Non voglio ora affrontare su un piano generale 1] problema se l'impossibilità di quell’improvviso autonomo sgorgare dell’occhio umano dal fango sia assoluta o equivalga soltanto a un’estrema improbabilità. Vi 41

tornerò in seguito 1 e mi ci sono già fermato nel citato studio sull’esistenza di Dio. Là ho messo in confronto l’interpretazione puramente statistica di tale evento, in base cioè alle pure leggi meccaniche della probabilità, con l’interpretazione metafisica e ho mostrato la verità di quest’ultima e il carattere metafisico e quindi asso‘luto dell’impossibilità dell’evento ?. Il problema particolare su cui dobbiamo ora riflettere è invece se la pretesa necessità dell’intervento creatore — assoluta o no che sia — diminuisca al crescere del lungo tempo passato evolutivo; se cioè al crescere di questo tempo l’impossibilità dello sbocciar da sé di tale mirabile organismo divenga minore. È facile la risposta negativa. In qualunque modo infatti la difficoltà o impossibilità dell’evento si concepisca, essa deriva dalle caratteristiche del risultato finale — nel caso: la meraviglia dell’occhio umano — e dal fatto che quel complesso di trasformazioni, lunghe o brevi che siano, debbono adeguarsi alla sua perfezione, precontenere cioè virtualmente tale perfezione. Se guardando pertanto quel pugno di fango io vedo la sproporzione che c’è tra la sua pura realtà fisico chimica e la superiore perfezione dell’organo visivo, e sono quindi indotto a escludere che lì, davanti a me, una sua qualsiasi convulsione naturale mi faccia assistere alla sua trasformazione in tale capolavoro vivente, ho escluso perciò stesso la possibilità di tale passaggio attraverso una sia pur lunghissima evoluzione. Questa infatti rientrerebbe complessivamente in una di quelle qualsiasi convulsioni puramente naturali di cui avevo intuito la sproporzione con l’effetto. Se la difficoltà sta p. 101 : Cfr. p. 1!

42

Sss.

102

s.; Esiste Dio’,

o. c., p. 76 ss.

nell’ordinarsi così mirabilmente di quella cieca materia, in modo da formare questo occhio umano, qualsiasi lento processo formativo lascerà immutata tale difficoltà. Anzi il più lungo processo, interessando un più vasto complesso di elementi disordinati e disordinanti, accrescerà, sotto tale riguardo, la difficoltà di ottenere il mirabile e ordinato effetto 1, L’illusione della diminuita difficoltà, con l’allontanare nei tempi remoti e remotissimi l’inizio del processo evolutivo, deriva suggestivamente e illusoriamente dal perdersi in tal modo la visione del salto brusco tra l’informe e ciò che risulta meravigliosamente formato. Ma, di fatto, il salto resta, anche se prolungato sconfinatamente nei tempi: e, insieme al salto, la difficoltà. Per questa sfera di ferro il salto in alto di un metro è tanto impossibile lungo la verticale che su un piano inclinato lungo quanto si vuole. Astrattamente parlando — a prescindere cioè dagli attriti — il lavoro per superare il dislivello è uguale, qualunque sia la diminuzione di pendenza, dovuta all’allungamento del piano. E considerando gli attriti il lavoro è maggiore. O, similmente, sarebbe puerile illusione quella di chi pensasse che dando un colpo di scalpello ogni secolo a quel blocco di marmo diminuisca la difficoltà di trarne la statua: anzi, per la continuità difficile a conservarsi, aumenterebbe. I matematici si appellano alla pura concezione statistica e alla probabilità matematica dell’evento, la cui realizzazione dipende appunto dal sufficiente tempo. Ma altrove ho fatto notare (cfr. Esiste Dio ?, p. 79) che quando l’evento avverrà si deve essere prodotta quella determinata convulsione della materia, ossia quel determinato impulso capace di sbocciare in quel mirabile effetto. Si deve essere cioè determinato un impulso adeguato all’effetto, indipendentemente dal fatto che sia successo subito o dopo molte prove, impulso sgorgato identicamente — sia subito che dopo molte prove — dalla cieca materia informe, valendo quindi tutt’intera la difficoltà che si aveva ad ammettere l’avverarsi dell’evento lì subito, davanti a noi. Il calcolo statistico prevede nell’insieme l’avverarsi dei casi, ma nasconde in ognuno di essi la colleganza fisica tra causa ed effetto che, di fatto, deve aversi quando l’effetto verrà, impli!

43

L’evoluzionismo autonomo quindi si ritrova logicamente davanti alla necessità di riproporre l'intervento superiore ed estrinseco per il primo impulso precontenente virtualmente tutto il processo perfettivo evolutivo. *

Ed eccoci ora all’evoluzionismo finalistico e teista. Esso risolve perfettamente 1l problema razionale della cando, in qualunque momento avvenga, la medesima esigenza d’una causa proporzionata. Ogni combinazione prevista come possibile dopo tanti tentativi dalla matematica statistica poteva avvenire subito: come la prima che è avvenuta, che era anch’essa tra le possibili e, benché non potesse prevedersi, è avvenuta subito. Sicché ogni momento in cui l’effetto avvenga si ripresenta la medesima #sica difficoltà. V’è poi una ragione decisiva particolare, per escludere che il prolungarsi evolutivo costituisca — secondo l’interpretazione statistica — un tale moltiplicarsi dei tentativi che, adeguandosi sempre più al grado di probabilità d’una magnifica combinazione ordinata, riesca finalmente a farla casualmente sgorgare. E la ragione è che il problema può porsi in termini statistici tutt’al più per l’organizzazione del primo nucleo vivente; ma per l’organizzazione dei viventi superiori attuali siamo in un piano essenzialmente estraneo al calcolo statistico. Il progresso evolutivo infatti riguarda la materia già vivente e organizzata, ossia già vincolata nella direzione vitale — qualunque sia la spiegazione che se ne voglia dare — e sottratta quindi ormai alla acausalità postulata dal calcolo statistico. Quanto alle acasuali inversioni di direzione, supposte — arbitrariamente — da alcune teorie decadenti della fisica moderna (cfr. LUIGI BOLTZMANN (1844-1906), Lezioni sulla teoria dei gas, Il, p. 251; LanpuccI, Esiste Dio ?, p. 100 s.), potrebbero tutt’al più far ricominciare il cammino evolutivo, ma il progresso ascensionale dovrebbe nuovamente incamminarsi nella unidirezionalità vitale, che è fuori del calcolo puramente

statistico.

44

proporzione tra causa ed effetto affermando la necessità della causa prima ordinatrice, la quale avrebbe dato

ai primi viventi, o solo inizialmente — germi, geni ? — o anche con interventi durante il cammino evolutivo (oltre quello finale e certo per l’infusione dell’anima umana) la capacità dei finali sviluppi. Ma contemporaneamente afferma la discendenza delle specie superiori dalle inferiori, presumendo che tale ipotesi costituisca un criterio semplificatore nella spiegazione cosmica, e debba quindi preferirsi, in base al canone d’indagine scientifica sopra ricordato. Quanto all’ipotesi degli interventi durante il processo evolutivo, essa ricondurrebbe agli influssi estrinseci della Causa Prima come il fissismo e creazionismo. Di vera semplificazione non si potrebbe più parlare. Carlo Darwin giustamente diceva: « La mia teoria perderebbe per me ogni valore se occorressero miracolose aggiunte in qualsiasi punto della discendenza »!. Restiamo dunque alle seminali capacità, nascoste nei viventi primordiali e sbocciate poi nel capolavoro dell’uomo. Si è di fronte a un’ipotesi non certo impossibile, ma ancora tutt’altro che semplificatrice. Gli elementi in giuoco sono sostanzialmente quelli del creazionismo. Vi è la materia da una parte e il Sommo Ordinatocre dall’altra. In più vi è quella specie di meccanismo a sorpresa per cui tesori futur', virtualmente racchiusi nei miseri viventi iniziali, piano piano o a piccoli o a grandi salti, sbocciano all’esistenza. Ora tutto questo — oltre togliere una vera ascensionalità evolutiva di perfezione (perché attualizza ciò che già c’era, come un germe quando diventa l’individuo maturo) — crea, anziché una sem1

Vie et correspondance de Ch. Darwin, 1888, ris, p. 44. 1

tr.

VARIGNY,

Pa45

plificazione, una complicazione. Implica cioè la complicazione maggiore di questi viventi primordiali, per così dire, a scrigno, contenenti e trasmettitori di tutti i tesori dei futuri viventi superiori. Scrigno complicato e strano e, sotto certi aspetti, male scelto, come un cofano rozzo, troppo rozzo, debole e inadatto, racchiudente diamanti preziosi. Sembrerebbe quasi che la causa prima avesse detto: voglio far tutto al principio per non pensarci più. E avrebbe creato apposta il meccanismo complicatissimo di quelle seminalità future. Perché supporre l’atto creativo e ordinativo solo all’inizio e non poi ? E perché supporlo così complicato ? Se infatti è complicato il ripetuto intervento supposto

dai creazionisti, più complicato sembra — e artificioso — un unico intervento, capace di concentrare e nascondere tutti gli interventi ulteriori 1.

Ma allora — per concludere — se l’ipotesi trasformista, in ogni sua forma, non presenta un vero carattere semplificatore della spiegazione cosmica, la ragione fondamentale di preferenza sul creazionismo, come spiegazione delle armonie e rassomiglianze sopra considerate, viene a mancare. Ovvero, si accetti pure tale ipotesi: ma gli interventi estrinseci sono necessari lo stesso. 1 Gli evoluzionisti teisti sanno inoltre che è metafisicamente necessario per le creature, dopo l’atto creativo di Dio, il permanente divino atto conservativo, che è un vero proseguimento dell’atto creativo — « conservatio metaphysica est continua creatio » — perché non ricadano nel nulla. Che difficoltà allora ad ammettere anche il successivo intervento per le varie specie?

46

Fatiche inefficaci Questo titolo non vuole davvero svalutare i dottissimi sforzi dei paleontologi e degli antropologi per trovare l’anello di congiunzione tra le scimmie antropoidi —

o meglio i loro

antenati fossili



e l’uomo, né quello

degli embriologi per produrre sperimentalmente trasformazioni di specie: sforzi che sono le due grandi direttive di marcia del movimento scientifico trasformista. Han dato e daranno certamente risultati utilissimi alla scienza in sé. Voglio solo dire che sono sforzi poco efficaci agli effetti del consolidamento o meno dell’ipotesi trasformista. Tipico è 1l caso del famoso anello di congiunzione, la cui scoperta — secondo la comune opinione — dovrebbe risolvere la questione. Infatti — diceva nel 1914 Giuseppe Sergi — «le prove dimostrative dell’evoluzione ci dovrebbero venire dalla paleontologia, ma allo stato presente della scienza essa non le dà »!. Bisognerebbe dunque che le desse: e l’anello di congiunzione sarebbe la più importante.

Da quanto abbiamo visto sopra, non pare che vi sia da condividere troppo tale fiducia nella paleontologia, per risolvere il problema evoluzionista. Ma, più in particolare, è facile vedere l’inefficacia della ricerca del suddetto anello. Primo rilievo. Supponiamo di trovare a terra un mucchio di pezzi di catena e di anelli di diversa forma e diL’evoluzione organica 1914, p. 18. 1

e le

origini umane, Torino, Bocca, 47

mensione, a uno dei quali sia attaccato un secchiello. Lì vicino si trova un altro anello simile a quello. Che diremmo di chi scoprendo nel mucchio un altro anello che sembra adatto a congiungere quei due, ne deducesse che tutti quei pezzi di catena facevano parte di un’unica catena a cui era appeso il secchiello ? Gli risponderemmo che, come ha trovato la congiunzione di quegli ultimi due anelli, così deve trovare e provare la congiunzione degli altri. Fissarsi sulla famosa congiunzione scimmia uomo, quando vi sono innumerevoli altre congiunzioni da provare, è un nascondere la ben più vasta

complessità del problema. L’osservazione è particolarmente importante per l’evoluzionismo totale, per il quale la catena evolutiva o è tutta unita dall’ameba all’uomo — e anzi, ancor prima — o non c’è. E in questo senso il lavoro della paleontologia diventa sempre più difficile, per l’antagonista sviluppo dell’anatomia comparata, che approfondendo l’analisi delle strutture viventi e della loro funzionalità tende sempre più a dividerle in tipi ben separati, che moltiplicano e amplificano salti che dovrebbero essere colmati dalla paleontologia, cosa che essa è ben lontana oggi dal fare: senza dir niente delle cruciali inversioni di ordine dei reperti paleontologici, rispetto a varie presunte derivazioni trasformiste. « In realtà l’evoluzione paleontologica — conclude 1l Vialleton — non si presenta punto come dovrebbe essere, se si effettuasse secondo i principi del trasformismo. Invece di alberi genealogici, nei quali si dovrebbero sempre facilmente collegare al tronco i rami successivamente formati, non si trovano che grafici in forma di cespugli, di cui tutti i ramoscelli, mal collegati o non collegati alla loro base, sono terminali, mentre la origine dei nuovi cespugli deve essere cercata in nuove 1

48

forme nascoste alla base dei precedenti e con essi sono molto enigmatici » 1.

1

cui legami

*

Secondo e decisivo rilievo. Trovando un anello intermedio a quei due ultimi, per quale ragione esso verrebbe a provare l’ipotesi del passaggio evolutivo dall’uno all’altro ? O si esige una completa continuità di transizione tra scimmia e uomo, e non basterà allora un anello, ma ce ne vorranno parecchi. O, fondandosi sulle moderne teorie mutazioniste, si ammetterà la possibilità di salti, e allora la congiunzione già ci sarebbe e la 1 O.c., p. 325. Al momento presente tre sono i fatti che infirmano l’apporto della paleontologia all’ipotesi evoluzionista: 1) La comparsa improvvisa di vasti gruppi, senza cioè la preparazione o la transizione di forme inferiori. In tale modo esplosivo compaiono infatti: quasi tutti gl’invertebrati (nel periodo Algonkiano) e varie classi e ordini di mammiferi (nel Cenozoico). Per gl’intervertebrati s’è dovuto ricorrere all'ipotesi stiracchiata della distruzione tellurica dei precedenti organismi più semplici (in epoca di temperature e pressioni più alte): ipotesi controbattuta dal KuUHN (1943). Per i mammiferi si è a gran fatica trovato qualche residuo fossile ipoteticamente intermedio. 2) La persistenza da centinaia di milioni di anni di molte forme viventi, come per es., tra gli Artropodi, gli Scorpioni, quasi immutati dall’antichissimo periodo Cambriano a oggi, tra i pesci la famiglia dei Celacantidi (fossili del Triassico), di cui nel 1938 e 1952 sono stati pescati due esemplari, ecc. Al quale fatto indiscutibile si è dovuto dare la non troppo coerente risposta che non tutti gli organismi rientrano nel medesimo ritmo di evoluzione. 3) L’inversione nell’ordine di comparsa di alcuni gruppi, comparendo cioè prima le forme più complesse e poi le meno. Così, per es., avviene per le classi degli Echinodermi e per quelle dei Molluschi. Al che il trasformismo non può rispondere che sperando negli sviluppi degli studi geologici e paleontologici per spiegare il mistero.

49

ricerca dell’anello intermedio sarebbe inutile. Si raccorcerebbe il salto, è vero, ma ciò non appare necessario nel quadro ancora quantitativamente incerto della ipotesi mutazionista. Comunque, uno o molti anelli si trovino, resterà ancora da provare che essi abbiano costituito forme evolutive di passaggio e non piuttosto forme estinte — come tante altre forme estinte — più o meno fisse come le altre, espressione di una più ricca e minuta varietà nella scala degli esseri.

Terzo rilievo. Riguarda il concetto stesso di anello intermedio. Facile è l’equivoco di considerarlo in base al solo elemento somatico, che è poi l’unico che può essere direttamente rivelato dai fossili. Il fatto di questa sola possibilità di considerazione snerva fondamentalmente 1l valore d’una simile ricerca. La specie veramente media tra l’uomo, dotato d’intelligenza — a prescindere se essa dipenda o no dall’anima — e la scimmia che ne è sprovvista (come vedremo, in seguito, studiando gli animali), dovrebbe essere quella d’un essere che fosse per tale riguardo a mezza strada, con vita intermedia tra la sensitiva e la intellettiva, che avesse cioè dei barlumi di vera intelligenza, di vero psichismo razionale. Tale aspetto d’intermedianità è essenziale nell’impostazione evoluzionista totale, secondo cui il fatto

intellettuale non può costituire un salto netto, ma una progressiva variazione delle facoltà sensitive animali, come per gli altri fatti somatici. Ma non è estraneo neanche — si badi bene — all’evoluzionismo spiritualista, che pur facendo dipendere l’intelligenza dal fatto essenzialmente nuovo dell’anima, deve riconoscere la sua dipen50

denza estrinseca dal corpo nel funzionamento. Per riguardo a questo funzionamento, la progressività dalla pura attività sensitiva a quella completamente intellettiva, dovrebbe essere, nell’evoluzione della specie, anche ammessa l’infusione dell’anima, non solo ammissibile ma presumibile, come nell’individuo si esperimenta dalla prima infanzia all’età matura. Quello che avviene per l’individuo dovrebbe avvenire, in un coerente quadro evoluzionista, quanto alla funzionalità dell’intelligenza, per la specie: 1 « preominidi » dovrebbero avere soltanto vita sensitiva, gli «ominidi» o primitivissimi uomini, già forniti di anima intelligente, dovrebbero manifestare solo i primi albori del funzionamento razionale e del linguaggio articolato. Come appurare pertanto, con la paleontologia, se quel reperto fossile, quella forma somaticamente intermedia a quelle conosciute, quella cubatura e forma cranica intermedia, per esempio, non appartenga o a una pura scimmia di specie finora ignota e scomparsa o a un uomo verissimo, non con barlumi, ma con piena intelligenza, di razza finora conosciuta ? La conoscenza delle razze umane viventi non autorizza infatti l’esclusione, a priori, di altre razze, verissimamente umane, scomparse. Il vero anello intermedio — a psichismo intermedio — mancherebbe nuovamente. Vi ritornerò in seguito (p. 312 ss.), dopo aver parlato degli animali. È ciò che è successo, in fondo, per i celebri fossili di Giava. Il Pitecantropo di Eugenio Dubois (1891) è veramente quello che il nome significa: Scimmia-Uomo ? Tutt’e tre le ipotesi possibili ebbero tra gli scienziati validi sostenitori: chi lo ritenne pura scimmia (con caratteri più umani delle altre), chi vero anello di congiunzione scimmia-uomo, chi vero primitivo uomo. E non deve far meraviglia questa divisione di dotti paSI

reri, se sì pensa che la seconda ipotesi era fondata sulla supposta appartenenza al medesimo individuo d’una calotta cranica prevalentemente scimmiesca e di un femore certamente umano, trovato a dieci metri di distanza, nel che consistette tutta la scoperta paleontologica del Dubois. Le scoperte successive, fatte nella medesima zona, fino al 1939, di sole porzioni di calotte, hanno lasciati i dubbi presso a poco al punto di prima 1. Così per i più recenti fossili cinesi. Il Snantropo (1929) è una vera forma umana inferiore, un ominide ? Le opinioni degli antropologi sono in questo caso meno divise. Generalmente lo si ritiene vera forma umana, vero ominide, soprattutto per la capacità cranica più vicina alle medie minime umane che alle massime scimmiesche. Tuttavia i caratteri pitecoidi sono tali che Pietro M. Boule (1937) e R. Vaufrey (1932, 1938) sono di parere contrario ?: sì tratterebbe solo di scimmie antropomorfe superiori, senza cioè albori di psichismo umano. E quindi non costituirebbero anello intermedio. Non v’è altra decisione d’appello per risolvere la disputa che riferirsi a manufatti e indizi dell’uso del fuoco, che rivelerebbero albori di vita psichica superiore, ossia razionale. Ma a chi attribuirli ? L’incertezza sullo psichismo umano e quindi sul vero carattere di anello della forma fossile scoperta, rimane. *

Fatica non più fruttuosa ai nostri intenti è quella degli embriologi e degli studiosi delle variazioni cromoPer un completo riassunto della questione cfr.: PIEro Note paleontologiche sul Pitecantropo, Pont. Acc. Scient., Commentationes, 1943, VII, p. 423-522. ’ BouLtr, Le Sinanthrope, L’Anthrop., 47, 1937; VAUFREY, 1!

LEONARDI,

l’Anthrop.,

52a

AI

42,

1932; 48, 1938.

somiche e genetiche, che hanno prodotto sperimentalmente effettive piccole variazioni di specie, cioè casi di microevoluzione. Qui non siamo più in una questione di fatto : se cioè la trasformazione naturale della specie sia avvenuta o meno; ma in una questione di modo : come cioè tale trasformismo possa essersi determinato, quali ne possano essere stati 1 fattori determinanti. Per comprendere l’impressione fatta da queste esperienze e la speranza riposta in esse dai trasformisti, bisogna riflettere al fallimento degli ipotetici fattori del trasformismo avanzati dalle diverse scuole. Qualunque sia infatti la realtà e l’entità delle trasformazioni determinate nei singoli individui dall’adattamento all’ambiente e dal bisogno, dall’uso e dal disuso degli organi (La-

marck e Neolamarckismo), dalla selezione naturale e sessuale e dalla lotta per l’esistenza (Darwin), si tratta sempre di modificazioni somatiche dell’individuo, non trasmissibili, non inseribili cioè nel patrimonio ereditario della specie e quindi non capaci di determinare una trasformazione specifica. Si ritiene infatti oggi provata in biologia la non ereditarietà di tali adattamenti acquisiti, l’incapacità cioè naturale delle modificazioni somatiche di diventare modificazioni germinali. Mutilazioni, deformazioni praticate anche per molte generazioni, non sono trasmissibili. Le donne cinesi, che hanno l’antichissimo uso di deformare piedi, nascono sempre col piede normale. Ho già accennato alle tristemente celebri esperienze del Kammerer, con cui qucesti falsamente pretese dimostrare tale trasmissibilità. « Tutti gli esperimenti finora condotti — dice l’evoluzionista Vittorio Marcozzi — su materiale perfettamente omogeneo e ben conosciuto, sotto l’aspet1

93

to genetico, mostrano che i caratteri acquisiti non si ereditano » 1. Le variazioni sperimentali genetiche toccano invece proprio il germe ?, sono trasmissibili, e danno solido fondamento alla spiegazione mutazionista dell’evoluzione (Ugo de Vries, 1901), in scala ridotta. Ecco il fattore trasformativo che ha molto riacceso la fiducia deli trasformisti, aggiungendovi qualche elemento darwiniano per orientare e accumulare ascensionalmente tali mutazioni ?. *

Ma in realtà tali esperienze lasciano impregiudicato il problema. Anche nell’ipotesi creazionista infatti, per10O.c., p. 150. Indipendentemente dall’esperienza, del resto, l’assenza di tale trasmissione in senso evolutivo è quasi intuitiva. L’ambiente — se potesse influire ereditariamente — se

sfavorevole dovrebbe indebolire la specie, se favorevole irroe quindi fissarla. Il bisogno se non soddisfatto dovrebbe impoverire la specie, se soddisfatto già l’organo c’è: se la giraffa avesse allungato il collo per il continuo sforzo di arrivare ai cibi, prima come li coglieva ? e non cogliendoli come avrebbe avuto le energie per tale sviluppo ? Il disuso può atrofizzare, ma l’uso solo irrobustire quello che già c’è e fissarlo. La selezione eliminando i tarati non può che consolidare la purezza della specie. 2 Tali esperienze si fondano sulla scoperta, nei nuclei delle cellule in attività riproduttiva, dei filamenti detti cromosomi le cui singole parti (geni) nelle cellule germinali presiedono allo sviluppo di determinati caratteri dell’individuo nascente (mutabili quindi al mutare di esse). Le mutazioni ereditarie sono state ottenute secondo tre modi: mutazioni geniche (dei geni), cromosomiche (della compagine cromos.), cariotipiche (del numero dei cromos). A queste possibilità d’influsso pare si debba anche aggiungere quella relativa a particelle che esisterebbero nel plasma, dette genoidi o plasmogeni. ° Cfr. GIUSEPPE MONTALENTI, voce citata della Enc. Ital., II Append.; PIERO LEONARDI, L’evoluzione dei viventi, o0.C.

bustirla

94

ché mai le specie dovrebbero essere assolutamente immutabili ? A ben riflettere, ciò sarebbe un fatto più sorprendente delle micromutazioni esperimentate. La superiorità della vita rispetto ai corpi inanimati è proprio

contrassegnata dall’adattabilità all’ambiente, dalla plasticità delle sue forme. Se questa è una caratteristica dell'individuo, perché non lo dovrebbe essere anche della specie ? Come l’azione ambientale può influire, in qualche misura, sulle qualità dell’individuo, non si vede come un’azione che riesca a spingersi sufficientemente in profondità e a toccare gli elementi germinali, non possa modificare, un poco, le qualità specifiche. Ma come una modificazione troppo forte dell’individuo lo uccide, così una modificazione troppo grande degli elementi germinali ucciderebbe la specie. Questa è la previsione più ragionevole che si può trarre dalle nuove esperienze: le quali non giustificano quindi la speranza di passare dalle micromutazioni alle grandi mutazioni postulate dal trasformismo. Il fatto anzi che le variazioni acquisite siano risultate all’esperienza non ereditarie e che per ottenere questa ereditarietà, ossia una modificazione della specie, si sia dovuto agire così in profondità nelle cellnle germinali, come fanno i genetisti, e che con tutto ciò si siano ottenute soltanto delle micromutazioni, è una conferma della resistenza della specie alla variazione, della sua intima tendenza cioè a mantenersi fissa nella posizione d’equilibrio che le compete. In linea quindi tanto presuntiva quanto sperimentale, mentre le piccole variazioni ereditarie rientrano nell’intervallo di elasticità dell’equilibrio specifico, le grandi sono da escludersi in virtù proprio di tale equilibrio, sotto pena della rovina della specie. Così se con55

sidero una sbarra d’acciaio, sono certo che, per effetto della sua elasticità, essa potrà flettersi e modificare la forma in vari modi, ma sono parimenti sicuro che tale modificazione non potrà superare un certo limite, oltre il quale avverrebbe la rottura. Gli evoluzionisti che pensano a un accumularsi lento e progressivo di tali piccole mutazioni, così da arrivare pian piano a mutazioni enormi, sono come coloro che pensassero piano piano di poter flettere quella sbarra di ferro oltre qualunque limite.

Ma poi la fiducia evoluzionista suscitata dalle felici

esperienze genetiche è poco fondata per vari altri motivi. Quelle possibili azioni penetranti nel germe, come possono influire nel perfezionamento della specie, così lo possono nella sua regressione; anzi, essendo azioni violente, c’è da pensare che influiscano piuttosto nel secondo modo, determinando nei caratteri specifici, regressione, impoverimento, stati patologici. E infatti anche le mutazioni spontanee oggi effettivamente constatate — oltre essere di piccola entità e prive di orientamento — sono circa nel go % dei casi regressive e le poche progressive debbono manifestarsi in entrambi i genitori per influire sulla prole. Per lo più inoltre sono recessive, cioè rimangono a lungo allo stato latente e, data la maggior facilità di riproduzione delle forme normali, possono manifestarsi difficilmente 1. Anche se poi i piccoli perfezionamenti sperimentali ottenuti in laboratorio si potessero in avvenire otteHérédité et Racisme, Paris, Gallimard 1939: N. W., Mutabilità sperimentale in genetica. Milano, Hoepli 1939. 1

JEAN ROSTAND,

TIMOFEEF-REssovsKI

56

nere tutti in senso aperto e progressivo, ciò dipenderebbe dal finalistico modo con cui sarebbero state condotte le esperienze. Tutt’altro sarebbe il caso dello spontaneo processo evolutivo naturale. Nonostante che l’esperienza abbia dimostrato 1il determinarsi effettivo, in piccola scala, di spontanee mutazioni, il più grande mistero regna sulla loro causa naturale. Le radiazioni cosmiche vanno escluse perché troppo deboli. Si è pensato a speciali fluttuazioni termiche degli elettroni di questo o quel gene. Ma per quale causa? Non si sa. Comunque è certo che si tratterebbe di cause cieche, prive cioè del finalismo delle esperienze di laboratorio. La differenza è radicale. Gli evoluzionisti spiritualisti si possono coerentemente appellare al finalismo impresso come virtù intrinseca !, nel germe, dal Creatore. Ma con tale ipotesi l’autonomia avvincente dell’evoluzionismo crolla. E 1l ripiego ha qualcosa di artificioso e di complicato come ho già notato sopra. A prescindere dall’azione creatrice, è un pensiero che corrisponde alla ipotesi di CARLO W. NAGELI (1884), secondo cui lo sviluppo dell’individuo come quello della specie è dovuto a 1

cause insite cioè predeterminate nell’idioplasma (o plasma germinale), che creano quindi una legge intrinseca di progresso delle specie. Ipotesi ripresa da DANIELE Rosa (1918) nella sua Ologenesi, cioè evoluzione globale (da éAoc, tutto). Essa distrugge in fondo il vero evoluzionismo, perché suppone già tutto predeterminato nel mistero del prodigioso e virtualmente complicatissimo germe iniziale. Non è vero evoluzionismo, come per l'individuo (cui la specie viene assimilata), non si chiama evoluzione il passaggio dal germe allo stato adulto. La soluzione spiritualista e teista gli toglie tuttavia l’assurdo di spiegar tutto lo sviluppo con cause meccaniche, appellandosi alla fonte creatrice del prodigioso germe iniziale. Non toglie però la gratuità e artificiosità della soluzione.

7

evolutiva dei gruppi famiglie, ordini, classi, maggiori animali e vegetali Umberto D’Ancona conclude: « La base speritipi mentale e la documentazione di una tale possibilità ci mancano ancora completamente » 1. Né sembra, da quanto si è detto, che tale base sperimentale possa attendersi dalla genetica dell’avvenire. A riguardo della comparsa —



*

Un ultimo rilievo, di natura biologica, su queste che abbiamo chiamate fatiche inefficaci.

L’ipotetica catena evolutiva non può fermarsi alla ameba: deve passare al di 1à, attaccarsi alla materia inanimata. Anche se tutti gli anelli della catena risultassero spontaneamente collegati, ciò non costituirebbe alcun fatto decisivo a pro della evoluzione antispiritualista e per l’esclusione d’un intervento estracosmico, se non fosse anche provato 1l passaggio spontaneo dalla materia inanmmata alla materia vivente. Il valore dell’evoluzionismo pienamente autonomo e quindi materialista — come il Monismo meccanico dell’Haeckel — si commensura tutto a quel punto lì, alla probabilità o meno di quel cruciale passaggio. Ma qui le speranze dei biologi e degli sperimentatori evoluzionisti calano molto di tono. Torneremo in seguito sull’argomento, riflettendo in genere al mistero della vita. Incontreremo anche gli altri passaggi cru-

ciali: del senso e dell’intelligenza. Agli evoluzionisti finalisti teisti poi, che per tali passaggi ammettono l’intervento diretto del Creatore, vien ’

Lezioni di Biologia

1944, p. 229. 33

e

Zoologia

generale,

Padova, Cedam,

fatto di domandare perché più semplicemente

e coeren-

temente non l’ammettono anche negli altri importanti passaggi intermedi. Certo da tale ammissione anche la loro ipotesi viene a impoverire di organicità e di giustificazione.

L’istantanea dell’Universo A conclusione d’ogni discussione sull’ipotesi trasformista si suol sempre ripetere che la decisione sicura sulla realtà del fatto 0 meno — a prescindere dalla spiegazione del fatto — non potrebbe venire che dalla sua constatazione diretta. E questa non c’è, ed è impossibile ci sia. Non si può infatti tornare indietro, riproducendo le medesime condizioni ambientali in cui nacquero le specie. E niente ci può dire l’osservazione della natura di oggi, perché, anche supponendo che l’evoluzione stia proseguendo il suo corso, esso è così lento che non può essere sperimentalmente apprezzabile. Quando l’unità di misura del tempo è di milioni di anni, un’epoca sto-

rica è trascurabile per rilevare un’apprezzabile trasformazione. In tale supposizione dell’attuale proseguimento della evoluzione — la più probabile, trattandosi d’una legge di natura — data la sua lentezza, relativamente al breve possibile periodo della presente osservazione, noi coglieremmo la natura come fermata nelle posizioni attualmente raggiunte, come fissata cioè in un’istantanea. Quello che è l’attimo di un’istantanea nella fotografia di un breve movimento ordinario è l’epoca storica nello studio sperimentale del lentissimo movimento evolutivo. Abbiamo anzi varie istantanee, nessuna delle quali può rendere il movimento in quanto tale. Sono le istantanee fissate negli strati geologici e rivelate dali S9

fossili; e poi quella dell’epoca storica presente, che diventerà uno strato geologico nell’avvenire. Il movimento inesorabilmente ci sfugge: e col mo-

vimento la prova.

*

Lo scetticismo di quest’ultima conclusione pecca però di superficialità. L’esperienza desiderata è invece là davanti agli occhi e non ci se ne accorge. È falso infatti che, se il processo evolutivo è un fatto reale, non se ne possa avere diretta esperienza, non potendosene constatare il movimento. Un’istantanea che fissi tutta la scala vivente in evoluzione, quale si vede oggi o è fissata negli strati geologici, può costituirne invece — a ben riflettere — un’ottima prova

sperimentale.

Qualche esempio chiarirà la cosa. Supponiamo che in una corsa ciclistica si prenda l’istantanea di tutta la colonna in movimento, al momento in cui 1l primo taglia 11 traguardo. Nella fotografia tutti 1 corridori appariranno fermi, ma dal modo come risulteranno scaglionati lungo il percorso, dietro al primo, ci si accorgerà che sono stati colti in volata. Se si vedessero invece tutti in gruppo al traguardo si direbbe che stavano fermi e in posa per la fotografia. Un altro esempio ancor più calzante. Consideriamo una grande officina moderna, a ciclo completo di lavorazione. Percorrendo i singoli reparti, si potrà seguire la trasformazione progressiva del materiale. Supponiamo che sia una fabbrica di

automobili. Si vedranno entrare da un capo della fabbrica le longarine grezze, nei reparti successivi le vedremo ridotte in telaio, poi ecco aggiunte le ruote, ecco montata la carrozzeria, ecco il motore, ecco l’automobile completa. Nel primo padiglione era entrato il ferro 60

informe; dall'ultimo esce la macchina perfetta. Suona la sirena di mezzogiorno e s’interrompe il lavoro in tutti reparti. Ciò che un visitatore vedrebbe in una visita all’officina in quel momento è come un’istantanea del processo di fabbricazione: vedrebbe il pezzo grezzo all’inizio, lo chàssis più avanti, ecc. e l’automobile completa nell’ultimo capannone. Il che rivelerebbe chiaramente che si tratta d’una fabbrica in cui il materiale grezzo iniziale viene pian piano trasformato in auto. Se invece si vedesse in tutti quei saloni il materiale giunto, per così dire, al traguardo di trasformazione, cioè si vedessero tutte e sole automobili complete, si direbbe che non è una fabbrica, ma una esposizione di automobili. Se poi si vedessero nella prima sezione biciclette complete, nella seguente motociclette, anch’esse pronte per la vendita, poi delle «topolino », poi macchine più potenti e infine alcune magnifiche « fuori serie », non si penserebbe certo che si tratti d’una fabbrica trasformatrice di biciclette in automobili, ma di un’esposizione generale di automezzi, fabbricati altrove. Ciò che caratterizza infatti un’officina di trasformazione, ossia di costruzione, è di vedere solo al termine la macchina completa, secondo tutta la propria perfezione: e precedentemente tutta una serie progressiva di strutture, via via più complesse, ma tutte rudimentali, rispetto alla struttura finale, una serie cioè di abbozzi, via via avvicinantisi al traguardo della perfezione ultima. In una esposizione multipla di macchine invece le vedrei tutte arrivate ai rispettivi traguardi di perfezione. Consideriamo ora l’istantanea della grande corsa evolutiva cosmica, o della grande fabbrica del mondo. Se la materia vivente fosse ingranata nel supposto movimento evolutivo, tale istantanea la dovrebbe coglie1

61

re come quei corridori in volata, o come il materiale di quell’officina di lavorazione non tutto giunto alle forme perfette. Alcuni viventi dovrebbero apparire specie perfette, altre specie rudimentali: veri abbozzi, rispetto alle specie perfette. Si ammetta pure che invece di un traguardo ve ne fossero molti, invece di un sol tipo di fabbricazione molti tipi. Ma l’istantanea dovrebbe presentare sempre cotesto fenomeno, e nel modo più generale: insieme alle specie ben compiute dovrebbero esservi tante serie di stati rudimentali rispetto a coteste specie d’arrivo. Ora questo in natura manca invece completamente. V’è bensì una lunghissima scala di esseri che vanno dai minimi unicellulari all’uomo. Ma sono tutte #perfezioni : gradi diversi di perfezioni. Gli abbozzi di transizione mancano del tutto. Tanto è meravigliosamente perfetta, nel suo grado, una zanzara, quanto, nel grado più alto, l’uomo. Gli organi rudimentali



a prescindere dalla spiega-

zione biologica sopra accennata — non hanno niente a che vedere con gli stati rudimentali suddetti, 1 quali dovrebbero riguardare tutto l’essenziale equilibrio del vivente, non qualche isolata sua parte, e do-

vrebbero costituire un fenomeno non sporadico, ma

comune. Anziché specie perfette e specie rudimentali avviate a diventar perfette, non vi sono dunque, in natura, che le prime: cicli di lavoro tutti perfettamente terminati e compiuti, oggetti terminati e messi 1à bell’e fatti dal loro costruttore. Non corridori distanziati nella fatica della corsa, ma tutti al traguardo; non longaroni, telai, ecc., ma biciclette, motociclette, ecc. Cioè non movimento, ma sosta; non officina, ma sale di esposizione. 62

*

L’universo attuale è quindi, sotto tale riguardo, una palpitante testimonianza contro l’evoluzione. E contro qualsiasi evoluzione, non esclusa quella spiritualista. In quest’ultima infatti il supposto concorso estrinseco d’un creatore non potrebbe escludere il progressivo passaggio dalle specie rudimentali a quelle perfette, e l’istantanea di tale trasformazione dovrebbe avere i caratteri suddetti. Non è sottratta a tale legge nemmeno l’evoluzione a salti mutazionistici. Sarebbe una corsa a salti di canguro o una fabbrica a stampi preordinati, ma si dovrebbero pur presentare gli stadi rudimentali prima del traguardo della specie perfetta. *

'

Le moderne esperienze genetiche mutazioniste, tutte fondate sulle variazioni cromosomiche e dei geni, potrebbero prospettare a qualcuno, è vero, la possibilità di mutazioni progressive da perfezione completa a perfezione maggiore completa, senza stati intermedi di rudimentalità. Se quel gene presiede a quella perfezione, l’altro a quell’altra, la loro combinazione a quel complesso perfetto, ecc., si può pensare che le loro particolari modifiche possano corrispondere a comparse di nuove specie perfette e ascendenti. Ma ciò implicherebbe un perfetto finalismo regolatore di quelle mutazioni, oltre la giustificazione di ognuna nelle «seminali capacità », ossia in quelle strutture primordiali a scrigno, di cui già considerammo l’artificiosità ! e che, come dissi allora, equivarrebbero, in so1

Cfr. p. 46. 63

stanza, a un annullamento dell’evoluzione, come vera ascensionalità di perfezione 1. In ciascuno di quei geni già vi sarebbe stata racchiusa, benché virtualmente, tutta la perfezione della specie, che a suo tempo se ne sarebbe sprigionata. Sarebbe stato un fatto del tutto analogo a quello del germe che si svolge in individuo maturo: fatto non propriamente evolutivo, ma attualizzatore di ciò che era virtualmente precontenuto nel-

l’ovocellula. Lo scrigno primordiale si presenterebbe come un razzo multiplo, e il progresso nella scala vivente, come un’esplosione successiva — finalisticamente regolata — dei singoli razzi colorati precontenuti in esso. Nei geni dell’iniziale cellula vivente vi sarebbe stata

nascosta virtualmente tutta la scala differenziata del mondo vivente. Non dunque vera evoluzione. *

Un'ultima scappatoia sarebbe d’interpretare l’istantanea attuale come l’arrivo a forma perfetta, l’arrivo al traguardo di tutte le ramificate variazioni specifiche. Vedrei cioè biciclette, motociclette, automobili, ecc., Gli organismi semplici, come i batteri, dovrebbero essere concepiti allora come regressione. H. Gaussen sostiene tale carattere regressivo del processo evolutivo, appellandosi alle perdite di vari organi, spesso dimostrata dalla Paleontologia, (come, per es., 1 denti perduti dai primi uccelli) e si meraviglia che si possa ancora parlare della celebre « progressione dall’ameba all'uomo ». Egli pensa piuttosto che « l’essere iniziale che potrebbe non essere che una cellula totipotente, abbia potuto dare i diversi filoni, per separazione dei geni », concezione che richiama proprio quella dello scrigno primordiale o del razzo multiplo di cui qui parlo (Cfr.: GAUSSEN, Le sens de l’évolution, in Scientia, XIT, 1951). 1

64

perché in quell’officina si fabbricavano tutte quante e, per ciascun tipo, al momento dell’arresto la fabbricazione era arrivata al termine. Ma ciò presupporrebbe un sincronismo evolutivo dei singoli rami privo di qualsiasi fondamento. Chi pensasse che, anche escluso quel sincronismo, tutti però finalmente sarebbero pur dovuti arrivare al termine, deve supporre artificiosamente e arbitrariamente che il movimento evolutivo sia universalmente terminato. Ma ciò tuttavia non sarebbe sufficiente, perché le rudimentalità transitorie sarebbero pur dovute comparire negli strati fossili, corrispondenti certamente al tempo dell’evoluzione.

Sarà difficile che uno spregiudicato lettore non concluda a questo punto che la discendenza umana scimmiesca è, per lo meno, poco sicura. Indizi principali —

gradualità di forme, successioni fossili, evoluzione em-

brionale, organi rudimentali, mutazioni sperimentali inconcludenti: ipotetici fattori — specialmente le variazioni genetiche — inefficaci; esperienza attuale contraria: questi i fondamentali bilanci. Non voglio trarre conseguenze categoriche da questi bilanci, per rispetto dell’opinione contraria di illustri autori. Tanto più che agli effetti del nostro problema principale, che è l’esistenza dell’anima, si tratta d’un fatto — come abbiamo detto — non essenziale; benché sia d’importante orientamento. Però è innegabile che il gioco della scimmia — se tale è — è riuscito bene. $’è approfittata della sua esterna rassomiglianza con l’uomo, per spacciarsi per suo ante—

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nato. Una bella beffa Benché a dir vero, la colpa dell’inganno sia degli autori di libri e fogli di volgarizzazione scientifica che seguitano a presentare l’evoluzione come pacifica e ormai sicura conquista scientifica. Uno degli scopi di questo capitolo era proprio quello di richiamare 1l lettore — contro la superficialità di certe volgarizzazioni — a un più rigoroso senso critico: giacché ne abbiamo il massimo bisogno per risolvere limpidamente il nostro problema. !

*

Quanto alla non essenzialità della disputa evoluzionista per la nostra ricerca, basta ricordare che l’evoluzionismo riguarda, per sé, l’origine del corpo umano e non inferisce quindi direttamente sulla realtà o meno dell’altro eventuale costituente umano: lo spirito. Nell'ipotesi totalmente negativa però, se si ritiene cioè falso ogni trasformismo della specie, si presenta inevitabile 11 creazionismo. Se sì respinge poi solo l’evoluzionismo pieno e autonomo e si accetta quello finalistico, s’impongono ugualmente gli interventi estrinseci virtualizzanti e attualizzanti finalisticamente. Crolla quindi subito la pregiudiziale cosmica materialista; la realtà dello Spirito Creatore s’impone; e anche la realtà spirituale, intrinsecamente e specificamente distintiva dell’uomo, facilmente s’intravede all’orizzonte. Si deve tenere presente tuttavia che come vedemdi l’evoluzionismo logica, anche mo - a rigore pieno e autonomo reclama un’estrinseca causa del primo impulso, sia pure solo meccanicisticamente inteso, e quindi ancora una ragione virtuale di tutta l’evoluzione, riproponendo quindi (pur non volendolo) lo Spirito Creatore, capace d’infondere tale sapientissimo primo impulso. —

66

RICCHEZZA

DELL’INVISIBILE

La pregiudiziale sensibilista À scorrere la storia della filosofia materialista, dall’antico Democrito (v sec. a. C.) ai grandi materialisti del secolo scorso, colpisce la ferma e quasi sprezzante sicurezza dell’affermazione materialista, dell’esclusione cioè d’ogni verità estranea all’esperienza sensibile, o per lo meno alla sensibile immaginazione. Democrito sembra che abbia visti e toccati i suoi atomi immutabili ed eterni in cui risolve tutta la realtà cosmica. Essi erano indubbiamente oggetto della più facile immaginazione. Per 1l divulgatore popolare del materialismo, Ludovico Biichner (1824-1899), è solo vero quello che si può vedere, immaginare, misurare, pesare 1. Quanto al resto, se c’è, merita la noncuranza del più completo agnosticismo. Per il Moleschott l’argomento è semplicissimo: « S’io faccio l’analisi chimica del corpo umano, vi trovo del carbonato, dell’ammoniaca, del cloruro di potassio, del fosfato di soda, della calce, della magnesia, del ferro, dell’acido solforico, della silice, e niente d’anima e di spirito. Dunque, nell’uomo l’anima non esiste per niente »?, e materia (Francoforte 1855): una specie di codice del materialismo ottocentesco. Nel 1904 aveva ragdivulgativo la edizione 21? e aveva avuto molte traduzioni. giunto 1

z

Cfr. Forza O.c.

67

Per quanto molta evoluzione si sia compiuta dopo nel pensiero filosofico, tale mentalità tuttavia trova nella spontanea inclinazione sensibile umana un sempre rinnovato alimento, così da essere, in qualche modo, sempre di attualità. E mentre la grande corrente idealista — da Berkeley a Hegel a Gentile — nella sua artificiosa e difficile teoretizzazione, si mantenne sempre ristretta al mondo dei filosofi di professione e dei dotti, la corrente materialista trovò, trova e conserva facile credito nelle masse: tanto più oggi nella sua inquadratura sociale marxista, leninista, staliniana, propagata dal comunismo. D’altra parte anche l’esistenzialismo moderno, nelle sue disorganiche tendenze sensiste, non manca di valorizzare molti aspetti di tale pensiero.

Ciò che particolarmente sorprende nell’epoca anche

aurea del materialismo è 1l dogmatismo di tale concezione e l’assenza di alcun tentativo di prova; e, nella massa dei seguaci, la pochissima pretensione di averla. E tutto ciò in stridente contrasto con il rivendicato rigore del « metodo sperimentale ». Ma è una sorpresa facilmente chiarita, riflettendo al motivo più psicologico che razionale della affermazione di tale dottrina: che è la spontanea inclinazione umana a chiudere lo scibile entro l’orizzonte dei sensi. Anche le varie correnti filosofiche sensiste (Locke, Condillac), e fenomeniste (Hume) ne sono un riflesso. Il motivo psicologico si spiega: perché il primo contatto dell’uomo con la realtà avviene attraverso i sensi. La conoscenza umana ha inizio dal mondo sensibile. 68

una ricapitolazione di questa legge del pensiero nello svolgimento stesso dell’individuo: il bambino, prima dell’uso di ragione, già sorride alla luce e ai colori e ha i gusti sensibili. L’uomo poi, allo svegliarsi da un sogno o da un'allucinazione, si stropiccia e sgrana gli occhi, tocca sé stesso e gli oggetti che trova attorno, come per assicurarsi di essere tornato alla coscienza e al contatto della realtà. Quando san Giovanni volle presentare ai destinatari della sua prima lettera dei motivi di certezza sull’autenticità della sua testimonianza cristiana, s’appellò all’esperienza sensibile. Non aveva sognato, non aveva creduto a un fantasma: « Quello che abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che abbiamo osservato e toccato con le nostre mani... lo annunziamo anche a voi...»1, E così san Pietro nella sua seconda lettera: « Non è dando retta ad argute favole che vi abbiamo esposto la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo: ma per essere stati spettatori della grandezza di lui... »?. Niente di più naturale quindi che il bisogno umano dell’intermediario dei sensi per l'iniziale presa di contatto con la realtà crei una spontanea diffidenza per ciò che non è sensibile, non si tocca, non si vede. V’è

Nel secolo scorso tra i clinici oppositori di Luigi Pasteur (1822-1895) e il pubblico che li seguiva, v’era chi, davanti alle emozionanti affermazioni del grande maestro, davanti alla sua pretesa che in quell’oggetto infettato vi fossero tanti microbi, che in quella fiala d’ac-

1] 2

IT

Giovanni 1, 1-3. Pietyo 1, 16. 69

qua apparentemente pura brulicasse una moltitudine di viventi patogeni, opponeva sarcasticamente e con alto tono di sufficienza e di sfida, questa schiacciante prova dei fatti: « Ecco la fiala guardatela contro luce: dove stanno i microbi ? ». Eppure non sarebbe stato difficile d’immaginare che, come esistono gli esseri visibili a occhio nudo, potessero esservene altri così piccoli da non essere veduti e toccati. Ma tale ipotesi cozzava talmente contro l’inveterata abitudine di rilevare la presenza delle cose materiali con la visione e il fatto diretto, da non far credere all’esistenza di quei minimi, dato che non erano sensibilmente raggiungibili. Ancor oggi la gente, pur sapendo benissimo che esistono tante cose visibili soltanto al microscopio, quando le scopre dietro l’apparecchio, quando in quell’oggettino liscio e spoglio vede rivelarsi un mondo di nascoste strutture, difficilmente può trattenere il moto di meraviglia e un: «incredibile » sgorga dal cuore. A considerare gli argomenti contro il movimento della terra di Claudio Tolomeo (11 sec. d. C.) c’è da restare oggi disorientati. Ma a mettersi nella mentalità del dottissimo ricapitolatore della scienza astronomica di diciotto secoli fa, tutto appare comprensibilissimo e frutto proprio della tendenza sensibilista nella affermazione della realtà. Era un fermarsi al sensibile, proprio secondo il responso del più immediato e superficiale senso comune. Erano appelli a esperienze mentali ingenue, fondate sulla presunta evidenza dei fatti sensibili. Tale apparente evidenza era ben più convincente della misteriosa gravitazione universale e delle leggi meccaniche allora ignote. «Se la terra — dice Tolomeo nell’Almagesto per negare il moto traslatorio terrestre — si muovesse di un moto che fosse comune agli al!

!

70

tri gravi, è chiaro che li precederebbe tutti quanti: sospinta dallo stesso eccesso della sua grandezza, si lascerebbe dietro, portati solo dall’aria, gli animali e tutti i

corpi più o meno gravi... Ma basta concepire supposizioni simili, perché appaiano ridicole al primo venuto ». Non è che l’appello alla nota esperienza sensibile di corpi pesanti e leggeri fatti cadere insieme nell’aria. Ugualmente ridicola è per Tolomeo la rotazione terrestre. Non sono evidentemente assurde le conseguenze ? Egli osserva infatti — alla luce delle medesime apparenti intuizioni sensibili — che si assisterebbe a una fuga generale da occidente a oriente di tutte le cose — nuvole, proiettili, uccelli — non legate alla superficie terrestre. Quando nelle Ipotesi sui pianeti egli riflette ai supposti poli di rotazione delle sfere celesti, gli si affacciano immediatamente questi po’ po’ di problemi: « Ammettendo che i poli siano semplici punti, veniamo ad attaccare dei corpi a ciò che non ha corpo: delle cose dotate di forza e grandezza a ciò che non ha grandezza, cioè a nulla. Li considereremo dunque corpi analoghi a cavicchi di legno o a bottoni ?... Anche qui ci troviamo in imbarazzo ». Sfido io S’attribuisce spesso la resistenza della scienza antica davanti alle innovazioni galileiane, alla metafisica dell’epoca. Ma questa e la scienza contemporanea erano ancorate proprio a questa pregiudiziale sensibilista, spinta fino alla diffidenza più ostinata per gli apparecchi sperimentali che si frapponevano al diretto contatto delle cose con i sensi. Solo così si spiega l’enorme difficoltà incontrata, per esempio, dalle lenti a entrare nel dominio scientifico e pratico 1. Quando nel 1609 Gali!

Cfr. Vasco Idea, 1943. 1

RoncHi,

Galileo

e

il cannocchiale,

Udine, 71

leo perfezionò il cannocchiale e lo rivolse al cielo, traendone le prime sensazionali scoperte, erano ben tre secoli che erano note le lenti e diciannove anni che il rudimentale cannocchiale era vissuto, per così dire, ignorato e inconsiderato, quasi come un giocarello, disprezzato unanimemente dalla scienza. Che sicurezza potevano dare le visioni « magiche » mediante le lenti ? Come garantire che non si trattasse di un effetto delle lenti, piuttosto che di una realtà obiettiva ? Sicché in nome del realismo scientifico ci furono i dotti che si rifiutarono di guardare in quel « tubo illusorio » e altri che non vollero credere a quello che vi si vedeva (certo ancora in modo rudimentale e confuso). Fu solo dopo un anno di aperta opposizione della scienza, dopo le prime sensazionali scoperte delle accidentalità della luna, di nuove stelle fisse e di quattro satelliti di Giove, che per primo Giovanni Keplero (1571-1630), vedendo anch’egli in un cannocchiale di Galileo 1 satelliti di Giove, gli scrisse, convinto: « Vicisti Galilaee ». Ma non pochi seguitarono ancora a guardare a occhio nudo in sù, ]là dove sarebbero dovute essere le altre stelle fisse e le altre novità, e a dire, scuotendo, con commiserazione, la saggia testa: « Dove sono ? ». !

sk

Figuriamoci quando, invece d’un esserino materiale

o di un astro immensamente distante, scopribili, in definitiva, dai sensi stessi, con l’aiuto di strumenti, si tratti

d’un preteso elemento spirituale, come l’anima umana,

sensibilmente inafferrabile Il preconcetto sensibilista sbarrerà il passo: e sarà per molti, psicologicamente, il grande argomento risolutivo. !

72

«L’anima — esclameranno con senso di lungimirante e sorridente perspicacia — l’hai mai vista ? l’hai mai toccata ? Che ne è restato di quel tale dopo la morte ? Smettiamola con le fantasie e i sogni dell’impalpabile spiritualità !». Si ricordino le suddette parole del Moleschott. !

Pregiudiziale ben diversa da quella considerata in principio, della paura morale che esista l’« al di là»; ma che s’aggiunge ad essa e la sostiene. Due prevenzioni perfettamente solidali, benché con diverso fondamento: di natura psicologica morale quella vista all’inizio, di natura psicologica conoscitiva quella vista adesso. La pregiudiziale misurabilista Curioso l’apporto arrecato alla predetta mentalità

sensibilista da una fondamentale impostazione teoretica della fisica moderna: apporto, o forse meglio, filiazione. È affermato cioè il principio della insigni ficanza d’una grandezza fisica non misurabile. In tanto cioè una grandezza fisica ha un significato in quanto è misurabile. La misurabilità è un aspetto del sensibile controllo. Questo quindi delimiterebbe l’orizzonte della

realtà fisica.

La pregiudiziale naturalmente non susciterebbe alcuna obiezione se fosse interpretata in senso puramente pratico, nel senso cioè che ciò che non può essere misurato non può entrare nei calcoli fisici, 11 cui oggetto sono appunto le misure quantitative. E così effettivamente è intesa nel pensiero scientifico contemporaneo più equilibrato e ponderato. 73

Ma non mancano i fisici inclini agli sconfinamenti

e alle avventure filosofiche, seguiti da larga schiera di

volgarizzatori scientifici, che danno alla pregiudiziale un valore cosmologico e filosofico, accostandosi, più o meno consapevolmente, al « fenomenismo » humiano !. È, in fondo, la solita ripugnanza all’ultrasensibile, anzi — più concretamente — all’ultramisurabile, a ciò che non può vedersi, toccarsi, misurarsi.

Ha cominciato Alberto Einstein con la celebre sua ° della così detta « relatività ristretta », tutta fondata sulla ardimentosa quanto arbitraria — e, sotto certi aspetti, ingenua — nozione di «simultaneità »: nozione che sgorga proprio dalla pregiudiziale suddetta. Non sarà male che si riiniziale giustificazione teoretica

È la molteplice corrente « fenomenista » che va da Pro(v s. a. C.) a DAVIDE HumE (1711-1776) e oltre. 2 Niente c'è da obiettare evidentemente circa il saggio inquadramento unitario matematico dei fenomeni cosmici, sviluppato da EINSTEIN, e divenuto uno dei più utili strumenti di calcolo della fisica teorica e pratica, per la felice scelta degli elementi convenzionali. Arbitraria e alquanto ingenua è invece l’interpretazione cosmologica, che almeno alcuni ne danno. Come chi affermasse l’esistenza di corpi immaginari, perché nel calcolo è stato introdotto = V-1. Ma applicato tale strumento matematico einsteiniano al calcolo fisico, è divenuto uno dei più preziosi strumenti di ricerca, che ha permesso di facilitare le meravigliose scoperte atomiche nucleari. Esso ha servito infatti — pur nella sua convenzionalità — come utile ponte di passaggio tra le esperienze di partenza del tipo MICHELSON e MoRLEY (pur con le note riserve da farsi alla loro interpretazione) a tutte le esperienze della radioattività. Benché si tenda oggi a modificare tutta la concezione einsteiniana, 1

TAGORA

ij

74

cordiì il suo processo logico, su cui regna talora, anche

tra dotti, qualche Se fisicamente

confusione.

una realtà non misurabile non ha sen-

so, nemmeno una simultaneità che non sia sperimentalmente determinabile ha alcun significato. Ora, dato che il segnale di simultaneità più veloce che sì possa prendere è la luce, è opportuno ricorrere ad essa per misurarla. Ma siccome, pur avendo essa una enorme velocità 1, non l’ha infinita — e non costituisce quindi una trasmissione istantanea — per avere l’indi-

cazione esatta della simultaneità occorrerà tener conto di tale velocità della luce, la quale, essendo affidata all’etere spaziale, dovrebbe presumibilmente comporsi con la velocità rispetto all’etere dei punti da sincronizzare. I punti stessi pertanto, col loro movimento reciproco, potranno trovarsi rispettivamente o ad andare l’uno incontro al raggio luminoso di segnalazione inviato dall’altro o ad allontanarsene, modificando il tempo dell’arrivo della segnalazione stessa. Invece le accurate esperienze compiute con uno speciale interferometro alla fine del secolo scorso da Alberto Michelson e Williams Morley non riuscirono a scoprire alcun « vento di etere » (ossia movimento della sorgente luminosa rispetto all’etere) e quindi alcuna diversità di tempo nella trasmissione luminosa, qualunque fosse il movimento relativo traslatorio del sistema di riferimento rispetto alla sorgente di segnalazione. Era naturale pensare che qualche misterioso fenomeno complementare venisse a impedire il rilievo sperimentale di tale diversità, come ritennero infatti numerosi scienziati ?. Circa 299.792 km/s. (secondo la media delle nuove esperienze fatte dal 1950 al 1954). 2 LORENZ, MORLEY, MILLER, RIGHI, HEDRICK, ecc. Tali esperienze sono state poi oggetto di controversia. FRANCESCO 1

79

Ma Einstein pensò di tagliar corto alle interminabili discussioni sollevate dalla esperienza fallita, con criteri che ricordano un po’ la parabola della volpe e dell’uva acerba. Era inutile affannarsi nella ricerca del modo di determinare la perfetta simultaneità degli eventi. Quella simultaneità di vecchio stampo, quel sincronismo inafferrabile non ha fisicamente alcun senso: appunto perché non misurabile non costituisce alcuna realtà. La reale simultaneità, anziché concepirsi secondo l’intuitivo concetto classico, andrà intesa come quella che ri-

sulta esattamente dalle segnalazioni luminose suddette, secondo i risultati misurati nelle esperienze di Michelson, postulando quindi l’invarianza assoluta di tali segnalazioni nel vuoto per tutti sistemi in movimento relativo uniforme. Non si deve andare cioè alla ricerca di misteriosi fenomeni compensatori che spieghino la mancata constatazione sperimentale della diversa velocità relativa della luce, rispetto a tali sistemi. La preoccupazione di tali ricerche viene dissolta e assorbita nell’affermazione assoluta che cotesta velocità è immutabile per uno qualunque di tali sistemi di movimento. Ma perché è immutabile ? Ecco: perché la velocità della luce è un assoluto e la simultaneità è quella che deriva da cotesta postulata assolutezza. Era un «assoluto » di contenuto stranamente arbitrario e, si direbbe, contraddittorio. Lo si affermava infatti in base al puro fatto negativo del fallimento di ardue e tanto discusse esperienze e a costo del crollo del primordiale e intuitivo concetto classico di simulta1

SEVERI già nel 1924 affermò che esse non erano idonee a scoprire il supposto « vento di etere » e che il risultato negativo non aveva quindi alcun valore decisivo. Nel 1949 il Congresso Mondiale dei fisici, a Como, confermò il pensiero del Severi. 76

neità, che corrisponde in fondo a quello elementarissimo di coesistenza (tanto certo come dire che in questo momento io esisto, insieme a tutte le parti del mio corpo). Si veniva poi ad attribuire un’assolutezza di tipo matematico a una entità fisica, incapace, come tutte le grandezze fisiche sperimentali, di averla. Non solo: mentre si affermava, si negava, ammettendone la variazione nei mezzi materiali e in presenza di masse gravitazionali, come è detto nella « relatività generale ». Non parliamo delle logiche stranissime conseguenze fisiche a tutti note: la dilatazione del tempo in funzione della velocità relativa e il suo sfasamento in funzione della posizione, la contrazione longitudinale dei corpi in funzione della velocità relativa (estesa all’intrinseca metrica spaziale), l’insuperabilità della velocità della luce; e, quanto alla dinamica, due diverse masse d’inerzia, il loro accrescimento in funzione della velocità, la mutua convertibilità della massa (intesa radicalmente come materia) e dell’energia, ecc. 1. Tutte affermazioni che suscitano difficoltà concettuali enormi evidentemente, su cui non è qui il luogo 1 Le affermate conferme sperimentali, a prescindere dalla loro contestabilità, non hanno valore probativo della obiettività fisica di questa concezione. La loro traduzione in termini fisici, infatti, ha il medesimo valore convenzionale della concezione di partenza. Non sono in discussione evidentemente i fatti sperimentali, ma la loro interpretazione cosmologica. Mutando la convenzionalità originaria della nozione di simultaneità, tutti questi fatti sperimentali trasformerebbero il loro significato cosmologico, le materializzazioni di energia si interpreterebbero diversamente, ecc. È essenziale distinguere nella fisica einsteiniana il valore euristico — di fecondissima ricerca — della sintesi e della convenzionalità matematica, dalla interpretazione cosmologica. È la dimenticanza di questa distinzione che crea in molti studiosi grande confusione.

77

di addentrarci, tanto più che il pensiero scientifico ha già subito da allora a oggi una profonda trasformazione !. Ma il fatto resta storicamente molto interessante come espressione della suggestione del fisicamente sensibile e misurabile : giacché tutto deriva da quella convenzionale definizione di « simultaneità », nata dalla esigenza del « misurabile ».

Tutto

è

stato accettato

e

digerito da un largo stuolo

di studiosi, per il vantaggio di ridurre la realtà fisica a sole entità esattamente misurabili.

La stessa mentalità affiora nell’«indeterminismo » di Werner Heisenberg, riguardante le determinazioni dinamico spaziali dei corpuscoli materiali. Quanto più s’investe un corpuscolo con un’azione energetica — per esempio la luce — capace di individuarne la posizione, e tanto più se ne modifica lo stato cinetico. Quanto più se ne lascia immutato lo stato cinetico e tanto meno Il 4 aprile 1955, due settimane prima della morte, EINdichiarava «ingiustificata » la « tentazione di dichiarare a priori come concettualmente necessario il principio della relatività generale » e aggiungeva: «Siamo molto lontani dal possedere una base concettuale della fisica alla quale poterci in qualche modo affidare » (Prefazione a Cinquant'anni di relatività, Firenze, 1955). Nel marzo 1956 ai 4000 partecipanti del congresso di New York della Società di Fisica Americana, il fisico nucleare ]. R. OPPENHEIMER, costruttore della bomba atomica, proclamò l’urgenza d’un cambiamento radicale della fisica teorica, per adeguarla alle nuovissime scoperte subatomiche. Nel giugno dello stesso anno a Lindau, sul lago di Costanza, al congresso dei Premi Nobel, anche il grande fisico W. HEISENBERG affermò per lo stesso motivo la necessità d’un rinnovamento fondamentale della fisica teorica. 1

STEIN

78

se ne può riconoscere la posizione. Ecco dunque che i fattori dinamico spaziali hanno una tale intrinseca complementarità che impediscono la loro precisa determinazione (e precisamente si calcola che il prodotto delle due incertezze circa la «quantità di moto » e la posizione non può mai scendere sotto la «costante » di

Planck). Ora — secondo la solita pregiudiziale — ciò che non è misurabile non ha fisicamente significato. Cotesta impossibilità radicale di precisazione di tali fattori fisici del microcosmo induce quindi a escludere la determinata realta dei fattori stessi e la stessa deterministica colleganza tra causa ed effetto nella fisica corpuscolare. *

È interessante notare come tale suggestione sensibilista e misurabilista sia tanto forte da indurre a illusioni e a incoerenze patenti. In entrambe le concezioni suddette — einsteiniana e heisenbergiana — mentre si

nega valore obiettivo a determinate grandezze fisiche, perché irraggiungibili con l’esatta misura, si postula poi la loro obiettività per ciò stesso che se ne afferma la irraggiungibilità. Non può aver senso infatti di parlare di una cosa irraggiungibile se non la si pensa esistente. Non ha senso parlare d’indeterminabilità fisica della simultaneità nell’intuitivo senso classico, se tale simultaneità classica sperimentalmente indeterminabile non si concepisce come un qualcosa di obiettivo alla cui misura ci si possa avvicinare, pur senza poterla esattamente raggiungere, per mancanza di trasmissioni

istantanee. Parimenti non ha senso affermare l'impossibilità

di determinazione

sperimentale del doppio parametro

79

spaziale ed energetico dei corpuscoli materiali se non si pensi di fatto a una loro realtà obiettiva, a cui ci si possa avvicinare, pur senza raggiungerla. A riguardo dell’« indeterminismo heisenbergiano» K. Sapper giustamente si domanda: « Non è certo che alla base di tale affermazione v’è la rappresentazione di un luogo e di un impulso reali del corpuscolo, con 1 quali 1l luogo e l’impulso osservati non coincidono esattamente ? Se

non si tiene conto della realtà obiettiva, la relazione di imprecisione diviene una proposizione semplicemente sprovvista di senso... Cosa è che viene turbato (reso impreciso) dall’atto dell’osservazione: la natura reale tal quale esiste indipendentemente da noi, o la natura osservata ? La risposta a questa questione è fuori dubbio. Essendo la natura osservata 1l prodotto dell’osservazione, sarebbe assurdo dire che il risultato della osservazione, pur essendo consecutivo all’atto dell’osservazione, è turbato da quest’ultimo. Sono invece i processi obiettivi che possono ben essere (nel microcosmo) turbati dalla nostra osservazione. Dicendo dunque che le nostre osservazioni divengono per questa ragione imprecise, non si ha certamente in vista che il rapporto tra le nostre osservazioni e la natura obiettiva » 1.

Dove poi sembra di scoprire qualche punta d’ingenuità è nel veder presentato il principio dell’insignificanza fisica delle grandezze non misurabili, come suggerito dalle muove osservazioni circa la non misurabilità di certe entità fisiche, nei predetti fenomeni di tra1

80

Il problema della conoscenza nella fisica, Scientia, XII, 1949.

smissione e corpuscolari. Ma invece è una vecchissima e generalissima constatazione, oltre che dell’ordine corpuscolare anche dell’ordine macroscopico, che mai le grandezze fisiche possono essere — in senso assoluto — esattamente misurate e che sempre il contatto con lo strumento di misura le deforma. L’esattezza assoluta è propria infatti soltanto dell’ordine astratto geometrico e mai può aversi nell’ordine fisico. Per misurare la lunghezza di questo corpo vi sovrapporrò l’unità di misura, in modo che i rispettivi estremi coincidano. Ma questa coincidenza non potrà essere mai perfetta, né, d’altra parte potrà essere

perfetta la valutazione. E anche una certa deformazione

degli oggetti avverrà — benché trascurabile nell’ordine macroscopico — o per l’azione stessa della luce sul corpo guardato e appositamente illuminato, o per effetto d’un calibro tra cui si stringano gli estremi del corpo, o per qualsiasi altro contatto fisico che non può mai avvenire senza una sua pur minima azione deformante. Ed è impossibile concepire una misura senza qualche contatto fisico o dei sensi umani immediatamente o degli strumenti di misura. Sicché, in definitiva, sarebbero tutte entità fisicamente insignificanti, perché tutte irraggiungibili — assodalla esatta misura. Jutamente parlando —

*

È vero che in questi esempi della fisica la pregiudiziale sensibilista si riferisce all’aspetto puramente fisico della realtà, in quanto materiale. Ma è un riflesso non trascurabile della mentalità e tendenza cui ho accennato all’inizio del capitolo e che bisogna tener presente per non cadere in soluzioni pre81

concette del nostro problema: la tendenza umana cioè ad affermare nel campo conoscitivo soltanto ciò che si vede e si tocca o direttamente o mediante lo strumento di misura. A noi non interessa qui la verità o meno delle predette teorie fisiche, su cui ci siamo fermati solo occasionalmente. Esse, per sé, sono estranee evidentemente al nostro problema. Ciò che a noi interessa è soltanto che la mentalità sensibilista che ne può sgorgare non sia arbitrariamente estesa al nostro quesito. Ed è alla sfera diretta di tale quesito che bisogna ora tornare. I più vasti orizzonti E facile vedere positivamente come la pregiudiziale sensibilista sia sprovvista di qualsiasi razionale giustificazione. Dico: la pregiudiziale, ossia la preconcetta esclusione della realtà supermateriale e supersensibile. Niente voglio affermare per ora circa l’esistenza di fatto di questa trascendente realtà. Perché mai infatti 11 mondo dovrebbe ridursi a ciò che immediatamente o mediatamente si vede e sì tocca ? Forse perché 1l primo contatto con la realtà cosmica

è di senso ? Che ciò possa creare l’abitudine alla considerazione prevalente di tale panorama della realtà e una certa inerzia psicologica e difficoltà ad ammettere più vasti orizzonti, è spiegabilissimo. Ma che con un pochino di riflessione non si riesca a spazzar via l’esclusivismo di tale ristretta visione, se si vuole essere veramente

imparziali — non vinti cioè dal timore di trovare, in fondo a quei più vasti orizzonti, quel famoso preoccupante al di là — non si può ammettere.

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È verissimo che i primi contatti cosmici umani sono di senso: è un fatto sperimentale. Ma sono di senso, perché sono contatti con le cose sensibili. Ora che i sensi testimonino delle cose sensibili è ovvio. Ma come possono testimoniare — sia negativamente che affermativamente — di ciò che fosse insensibile ? È evidente che se la loro potenza conoscitiva è adeguata al mondo sensibile, è assolutamente inadeguata per l’eventuale mondo insensibile. Sicché se, per ipotesi, questo esistesse, niente potrebbero dire contro di esso. Il fondarsi quindi sull’esperienza sensibile per gettare 1l discredito quasi sarcastico o per lo meno compassionevole — come certi più caldi esponenti del positivismo materialista — non dico sull’affermazione dell’esistenza di fatto del mondo sovrasensibile, ma perfino sulla ricerca critica della sua possibile esistenza, è un sorprendente circolo vizioso. È un giurare sul risultato negativo della ricerca prima di iniziarla. Si prendono infatti gli strumenti — i sensi — capaci solo di rivelare gli oggetti sensibili e si domanda ad essi la prova che non esiste l’ultrasensibile. « Essi non vedono — si dice — che oggetti sensibili ». Sfido Giacché non sono capaci di altro Si può con un elettroscopio misurare la temperatura o con un termometro la carica elettrica ? Si può con le pinze afferrare un raggio di luce ? Come pretendere, con lo strumento del sensibile, misurare l’eventuale !

!

insensibile

?

Eppure, ecco la logica di un grande uomo di stato: Giorgio Clemenceau. È R. Benjamin, che narra: «- Il vostro paradiso... Il vostro paradiso, se

esistesse...

83

Una pausa: non osa ancora proseguire; è tutto compassione: ciò che sta per dirmi è definitivo. — Se il vostro paradiso esistesse, mio povero amico... dove il il Punta bastone contro cielo, gli astronomi hanno scoperto tante cose: » 1. — Vi giuro che lo si sarebbe visto Vi si può affiancare benissimo la logica, non meno sbrigativa, del grande fisico Einstein: « Da un punto di vista obiettivo, preoccuparsi del senso o del fine della nostra esistenza e di quella delle altre creature mi è sempre parso assolutamente vuoto di significato ». E ancora: « Non voglio e non posso figurarmi un individuo che sopravviva alla sua morte corporale » 2. In altri termini: È roba che non si vede e non si tocca: dunque sono vani sogni. !

Quando il materialista pensa allo spirito: « Che potrebbe mai essere ? — si domanda — Non una pietra evidentemente; qualcosa di molto più leggero, di impalpabile, di aereo — «spirito » (dal latino: «spiritus ») originariamente vuol dire infatti: soffio - Ma nemmeno questo, perché sarebbe ancora materia ». Tolto anche tale vento leggero, gli resta davanti alla mente 1l nulla. O meglio, gli resta il nulla davanti all’immagi-

nazione. Qui è l’equivoco fondamentale: di mantenere la linea di tale indagine fondamentale tutta sul piano dell’immaginazione, ossia sul piano dei sensi. Per ammet-

R. BENJAMIN, Clemenceau dans la retraite, p. 175-176. A. EINSTEIN, Come 10 vedo il mondo, trad. Valori, Miclano, 1954. 1!

2

84

tere la possibilità dello spirito, in questa specie di ricerca mentale, lo si vorrebbe poter immaginare; ma se si

potesse immaginare, non sarebbe più soprasensibile e quindi spirito. Siamo nel pieno circolo vizioso sopra considerato. Una nuvoletta, un’aura leggera possono essere utili analogie, per far riposare l’immaginazione in una figura e aiutar la mente a pensare. Ma la riflessione mentale deve facilmente far comprendere che non si tratta che di una lontana analogia. Se lo spirito esiste, non è certamente sulla linea di una progressiva rarefazione materiale che si potrà trovare, ma su una linea tutta diversa e specificamente più alta. È chiaro che sulla linea materiale, quando la supposta rarefazione arrivasse fino all’eliminazione totale della materia, non resterebbe che il nulla. Sarebbe una linea che finisce nel nulla. Tutt’altra cosa è evidentemente per la ipotetica linea tutta superiore alla realtà materiale e immaginabile, quale la realtà spirituale. E lo sforzo per immaginarsela è vano e illusorio.

L’esperienza dei sensi anzi, oltre a non creare alcuna ragionevole difficoltà contro la possibile esistenza di una realtà soprasensibile, si direbbe quasi che la suggerisce con un ragionamento induttivo. Le moderne scoperte scientifiche infatti hanno sconfinatamente allargato l’orizzonte della realtà cosmica. Ora, benché ciò sia avvenuto nel piano della realtà sensibile, costituisce ugualmente un’esemplare lezione alla istintiva e miope tendenza di ridurre la realtà a quello 85

che immediatamente si vede, e un monito a guardare ad essa con l’aspettativa di possibili ricchezze nuove e maggiori. Non poteva essere messo davvero più in chiaro dalla scienza moderna che la visione :mmediata della realtà sensibile abbraccia un minimo spiraglio del mondo; che i sensi, cioè, non sono che una piccolissima feritoia, aperta sull’immenso orizzonte delle cose. Tutta la bellissima varietà dei colori, apprezzata dall’occhio, occupa appena l’intervallo tra 0,4 e 0,8 micron di lunghezza d’onda, nell’amplissimo campo delle oscillazioni eteree che solcano gli spazi. Basta pensare che al di sopra della massima lunghezza d’onda percepita dall’occhio, cioè oltre l’ultimo rosso visibile (0,8 micron), vi sono le radiazioni di Rubens e tutto 1l campo dell’infrarosso ossia del « calore raggiante », fino a 300 micron, poi le « ultracorte » di decine di migliaia di micron, ossia di centimetri, poi tutta la serie di onde più lunghe, fino alle massime onde radio di qualche chilometro. Dall’altra parte, al disotto delle minime lunghezze d’onda visibili, ossia dell’ultimo violetto percepibile (0,4 micron), v’è tutto il campo delle « ultraviolette », da qualche decimo a qualche millesimo di micron (rispettivamente raggi di Schumann, di Lymann, di Millikan, di Holweck), poi i raggi X (di Rontgen) di decimillesimi di micron, poi ancora al di sotto i raggi Y originati dalle disgregazioni atomiche e gli « ultragamma» o «raggi cosmici » che provengono da ogni zona del cielo e scendono fino alla inverosimile piccolezza d’onda del decimilionesimo di micron e oltre (pur ritenendosi prevalentemente di natura corpuscolare). Di fronte a tutta cotesta sterminata scala di radiazioni, fino a poco tempo fa quasi completamente sconosciute, 86

cosa è il piccolo campo delle radiazioni visibili — cioè della luce — esteso per soli 3 o 4 decimi di millesimo di millimetro ? *

Quanto ai corpi, due ferree porte ne sottraggono inesorabilmente all’esperienza immediata dei sensi una sterminata parte: la porta della piccolezza e quella della lontananza. Le distanze tra due punti, vicine e inferiori al mezzo decimo di millimetro, non sono più distinguibili dall’occhio normale, e le strutture inferiori a queste dimensioni si celano quindi inviolabilmente dietro il manto della loro piccolezza. Solo 1l microscopio saprà penetrarne il segreto e svelare ai sensi un nuovo intimo mondo impensato. Si era giunti al massimo ingrandimento praticamente utile del microscopio ottico (a comuni lenti) di 3000 diametri, capace di distinguere minimi intervalli utili di 2 decimi di micron (sotto i quali la luce visibile non consente ulteriori rilievi). Ma quante profondità sconosciute ancora Poi col microscopio elettronico si è saliti alla potenza utile d’ingrandimento di oltre 100.000 diametri. Infine con il microscopio protonico si è giunti a ingrandimenti di milioni. Quanto al semplice rilievo di particelle senza contorni, viste come puntini scintillanti, si era già arrivati, con gli ordinari ultramicroscopi ottici, a illuminazione trasversa, a scoprirne fino a pochi millesimi di micron. Ed ecco quella realtà viva che eravamo abituati a vedere omogenea, compatta o vuota, trasformarsi in prodigiosi reticolati di cellule e le cellule in complicatissime strutture, ecc. l’aria o la polvere informe brulicare di microrganismi: batteri, virus, ultravirus (che scendono fino al centesimo di micron). 1

!

87

Il telescopio a sua volta supererà l’abisso della distanza per centinaia e centinaia di milioni di anni luce e 1à dove era il cielo vuoto svelerà miliardi di stelle. Il mondo dei corpi direttamente visibili è davvero un minimo spiraglio della realtà dimensiva.

Ma al di 1là e sotto il mondo microscopico e ultramicroscopico c’è tutto il mondo corpuscolare dell’inti-

ma struttura atomica, assolutamente invisibile e inimmaginabile, postulato ipoteticamente per spiegare 1 fenomeni chimici e radiativi. Anche se gli elementi atomici e nucleari sembrano oggi misurati e contati, non bisogna dimenticare che resta ancora in pieno 1l mistero della loro intima realtà materiale ed energetica. Francesco Severi non manca di rilevarlo pensosamente: « Un mistero in qualche misura impenetrabile resta e resterà sempre nell’esame delle questioni fondamentali dell’Universo fisico... La camera di Wilson è stata suggestivamente chiamata una finestra aperta nel mondo atomico; però nella realtà ciò che vediamo in quella camera non sono né elettroni né protoni, ma qualcosa che è in relazione con essi. Vediamo cioè le ombre e non le cose »!. Il mistero è tale che la stessa individualità obiettiva di questi minimi è oggi messa in dubbio ?. Co1

Materia

III-IV, 1947.

e

causalità



Eneygia

e

indeterminazione, Scientia,

2 Per la fisica « quantistica » recente l’ultimo fenomeno elementare subatomico è il moto di un « corpuscolo » associato a un'«onda », l'intensità della quale significa la probabilità di esistenza del corpuscolo in quel punto e in quell’istante. Il carattere essenzialmente simbolico di tale concezione ha suscitato il dubbio sull’effettiva esistenza di tali particelle come at-

88

munque è certo che i modelli atomici successivamente proposti (atomo di G. G. Thomson, di Rutherford, di Bohr, di Sommerfeld) non sono che schemi utili di lavoro e un modo di fissare l’immaginazione su ciò che, di fatto, è inimmaginabile.

È chiaro dunque che il mondo dell’immediatamente sensibile è la minima e più superficiale parte della realtà. E gran parte, anzi la maggior parte della restante realtà materiale, immensamente grande e immensamente piccola, scoperta o prevista con gli strumenti, resta al di fuori della vera e propria immaginabilità. Si fa presto infatti a dire: un milione di anni luce, o un milionesimo di micron. Ma nessuno può certo pretendere di saperselo chiaramente immaginare.

Poi c’è tutto il mistero ben più grande del mondo energetico. Chi mai potrà comprendere con l’immaginazione cosa sia, per esempio, l’elettricità e la forza di gravità ? Se ne vedono e se ne misurano gli effetti. Ma sono entità in sé inimmaginabili; anzi — intimamente parlando — nemmeno intellettualmente comprensibili. L’idea di una corrente che scorre lungo i conduttori e tutte le altuali individualità fisiche e ha fatto prospettare l'ipotesi che si tratti piuttosto di misteriosi «stati fisici » della corrispondente porzione del cronotopo «spazio tempo ». (Cfr. FEpERIcO

Causalità e determinismo nella filosofia della scienza, Roma, Atlantica, 1945, p. 104 ss.). ENRIQUES,

e

nella storia $9

tre concezioni della elettricità statica, non sono che schemi utili di lavoro, per far riposare in qualche modo l’immaginazione. Ma cosa siano tali entità materiali, in sé, nessuno lo sa. Ancor peggio è per le forze gravitazionali. E ancor molto peggio per le forze e interazioni tra le particelle dei nuclei atomici (neutroni, protoni e mesoni) non paragonabili a quelle elettriche e gravitazionali. Eppure si tratta dei fenomeni più universali e comuni della materia. Ecco un pezzo metallico, identico per peso e per tutte le altre proprietà fisico chimiche agli altri metalli della stessa specie. Lo tocco, stando sopra un isolante, e lo sento freddo e inerte come gli altri metalli. Ma esso è un polo dello spinterometro di una macchina elettrostatica. Gli avvicino l’altro polo e ne esce una scintilla, se ne sprigiona il fuoco. Oggi l’elettrodo di una macchina elettrostatica di tipo R. J. van der Graaff (1933), può trovarsi a oltre 5 milioni di Volt. Ma a guardare quel metallo niente si vede. Ecco una colonnina alternata di piastrine metalliche, intercalata di straccetti acidulati. Niente di speciale nel suo aspetto esterno. Ma da tale apparecchio, davanti al pubblico attonito di Parigi, nel 18011! Alessandro Volta fece sprigionare il fuoco della scintilla. Ecco due nuvole. Forma, colore, proprietà fisico chimiche precisamente come le altre. A un tratto è una gigantesca scarica. Il fuoco schiantante che esce dall’acqua Prima del fenomeno, in tutti questi casi, l’energia elettrica c’era e i sensi non ne avevano alcun sentore. !

}

La scoperta essenziale era già stata compiuta però dal vari anni prima.

VOLTA

90

E anche quando gli effetti la rivelano, chi se la può adeguatamente immaginare ? Così, e tanto più, per la forza di gravità, per le energie radiattive e corpuscolari. *

Dunque: orizzonti immensamente più vasti di quelli suggeriti dall’immediata esperienza dei sensi. Orizzonti addirittura impensabili, prima delle scoperte scientifiche moderne: e, anche dopo tali scoperte, inimmaginabili. Scommetto che molti lettori crederanno di vedervi una conferma del materialismo, o per lo meno nessuna indicazione a favore dell’ipotesi spiritualista. Questo orizzonte della realtà cosmica, che continuamente si allarga, non risulta intatti tutto materiale ? Ma bisogna ricordare che qui non si tratta per ora di provare l’esistenza dell’anima spirituale, ma soltanto di neutralizzare la pregiudiziale contraria, derivante dalla spontanea inclinazione sensibilista della conoscenza umana: l’inclinazione cioè a ridurre il reale a ciò che si tocca, si vede, a ciò che si proporziona alla portata dei sensi, o, per lo meno, dell’immaginazione. E allora si rifletta bene. Se i sensi e la stessa iImmaginazione si sono dimostrati inadeguati a comprendere ed esaurire la realtà cosmica nel piano stesso materiale di loro competenza, se essi non ci autorizzano a stabilire nessun confine limitato a priori della stessa realtà cosmica materiale, se essi cioè non possono creare alcuna pregiudiziale contro l’allargamento dell’orizzonte della realtà al di 1à dell’immediata loro esperienza o intuizione, come possono crearla contro l’ipotetico allargamento dell’orizzonte cosmico, in un piano superiore all’ordine materiale e quindi estraneo e superiore alla loro indagine ? 91

Se non possono dire: «impossibile !» 1à dove ci vedono, tanto meno potranno dirlo 1à dove non ci vedono.

Eppure una osservazione così elementare il genio di un Clemenceau non l’aveva capita. E neanche quello di un Einstein. Questo e non altro si voleva ora chiarire. Infirmare il preconcetto sensibilistico: e nulla più. Dopo questo chiarimento si potrà affrontare il problema dell’anima con più imparzialità. *

È vero che la realtà sensibile non immediatamente attingibile dai sensi risulta però provata sensibilmente dai suoi effetti (scariche elettriche, spostamento degli indici degli strumenti di misura, ecc.). Ma chi può escludere a priori che ciò possa avvenire anche per l’ipotetica realtà spirituale, cioè che anch’essa possa essere manifestata da effetti sensibilmente controllabili ? Quello che qui importa notare per eliminare la pregiudiziale sensibilista è che nell’un caso e nell’altro la cosa in sé non è attinta immediatamente dai sensi. E come ciò non pregiudica l’esistenza della realtà ultrasensibile materiale, così non può pregiudicare quella della realtà ultrasensibile spirituale. *

Indubbiamente tra i due casi v’è una profonda differenza, inquanto per l’estensione dell’orizzonte della realtà nel piano della materia, l’incognita sta solo nell’allargamento e non nell’esistenza del piano stesso materiale, ben noto ai sensi. Per la realtà spirituale invece l’incognita riguarda l’esistenza stessa d’un piano superiore, totalmente nuovo. Molto più facile sembra quindi ammettere la possibile estensione della realtà nel piano già 92

noto che in un piano totalmente diverso. E a qualcuno potrà sembrare anche di aver diritto di esigere qualche previo positivo indizio dell’esistenza di tale realtà superiore per affrontarne, con fondata fiducia, la ricerca. Debbo insistere però che, a ogni modo, resta provata ormai, da quanto abbiamo detto, l’infondatezza della pregiudiziale sensibilista. La maggiore o minore facilità nell’ammettere un’estensione ulteriore del reale non incide sul fatto della sua possibilità. Se si pensa poi agli enormi valori cosmici e umani collegati con l’eventuale esistenza dello spirito, l’incoraggiamento ad affrontare la ricerca, per chiunque abbia senso di responsabilità, non può mancare. Son valori tanto grandi che giustificherebbero tale indagine anche nell'ipotesi che non vi fosse alcun previo e positivo indizio incoraggiante, e si trattasse solo di pura possibilita. *

Ma immediati indizi positivi di non trascurabile valore, in realtà vi sono. Lo stesso fatto, benché estrinseco, dell’opinione affermativa di tante nobilissime anime — insieme alla maggioranza dell’umanità, che aderisce a un qualunque credo religioso — ne costituisce uno di alto valore, capace per lo meno di neutralizzare il facilismo di certe negazioni materialiste e la tentazione accidiosa dell’agno-

sticismo apriorista. E si noti quale particolare valore abbia, nel contrapposto delle due dottrine, l’affermazione spiritualista di tanta parte dell’umanità, anche dottissima, come autorità estrinseca. Basta riflettere che mentre l’affermazione materialista può essere influenzata dai fattori psicologici sopra considerati, ten93

denti a evadere dai vincoli morali e a riposare con l’immaginazione nel solo mondo corporeo, l’affermazione spiritualista suppone un rimontamento e un superamento di cotesti naturali fattori inclinanti alla negazione e implica, in conseguenza, una presumibile maggiore imparzialita. Uno speciale valore ha, a tal riguardo, la solenne testimonianza di Gesù Cristo. Nel punto dell’indagine critica in cui ci troviamo, anteriore alla dimostrazione della realtà spirituale, dobbiamo prescindere dalla sua figura di inviato di Dio e considerarlo soltanto, come ammettono anche i miscredenti, quale sapiente e amabile Maestro di una noblilissima dottrina. Anche da questo solo punto di vista non può non impressionare la sicurezza con cui, per esempio, egli afferma: « Non temete coloro che uccidono 1l corpo, ma che non possono uccidere l’anima; temete piuttosto colui che può e anima e corpo mandare in perdizione alla geenna » 1. *

A ben riflettere poi, la stessa espansione imprevista della realtà nel piano materiale costituisce un argomento positivo indiretto dell’esistenza di realtà cosmiche superiori tutt’altro che trascurabile. Dove infatti è grande varietà e scala di perfezioni e la ricerca intima del cosmo materiale approda a sempre più meravigliose scoperte strutturali ed energetiche, dove in una parola, dietro al velo delle immediate apparenze, si scoprono sempre nuove e impensate ricchezze, perché esse dovrebbero restare tutte — orizzontalmente — nel medesimo piano materiale e non estendersi anche — verticalmente — in un piano supermateriale ? 1

94

Matteo, 10, 28.

Chi aprendo la porta chiusa d’una sala si trova inaspettatamente davanti a preziosissime collezioni, e così in altra e altra sala, sarà spontaneamente portato a domandarsi se non vi siano altre collezioni ancor più preziose nei piani superiori di quel palazzo. È la ricchezza stessa della raccolta cosmica materiale che inclina la mente a questa eventualità. Non può non sembrare strano cioè che tutte le ricchezze cosmiche siano ammassate e livellate nell’unico piano della materialità. *

Ma dobbiamo ora vedere se agli argomenti indiretti dell’esistenza cosmica di piani di realtà superiori alla pura materia non si aggiungano — come effettivamente si aggiungono — delle precise prove dirette. È questo senza ancora dir niente della effettiva e specifica esistenza dell’anima spirituale, ma solo per giustificarne la fi-

duciosa ricerca e prepararle la strada. Dobbiamo cioè vedere se vi sono prove dirette sperimentali del superamento effettivo del puro piano della materialità nella natura: se cioè nel palazzo sorprendente della realtà cosmica, oltre le file interminabili dei saloni delle cose materiali, vi siano sicuramente — per dirette prove — altri piani di cose genericamente superiori ossia supermateriali : senza ancor dire se vi si troverà anche la realtà propriamente detta spirituale. Se la risposta sarà affermativa — e anche se risultasse solo positivamente probabile — lo sviluppo fiducioso dell’indagine verso le vette dello spirito — in senso verticale — non sarà meno fondato dello sviluppo della ricerca scientifica — in senso orizzontale — nel piano puramente materiale. Non si tratterà solo d’indizi incoraggianti, ma di fatti concreti. 95

SUPERMATERIALITA NEL COSMO

L’esperienza dell’ordine L’esistenza dell’ordine cosmico è un fatto sperimentale, sempre meglio rivelato dal progresso scientifico. La sua spiegazione può accendere dispute, il fatto no. Chi tenta di negarlo, appellandosi a tante deficienze che si trovano nella natura — terremoti, malattie, ecc. confonde il fatto dell’ordine con l’infrangibilità e la massima perfezione possibile di esso, che nessuno vuole affermare. I due occhi dell’uomo sono un capolavoro, ma ciò non toglie che se la natura gliene avesse dato un terzo, per esempio, nella nuca, gli avrebbe fatto un ottimo servizio se non altro per evitare incresciosi investimenti. Le malattie che possono colpire il corpo umano non tolgono lo splendore della sua costituzione, come guasti d’un orologio non tolgono che esso sia formato da un ordine mirabile di parti. Ordine nelle leggi fisiche, chimiche, vitali, metereologiche, astronomiche. Ordine che raggiunge il suo apice nell’organismo vivente delle specie superiori. —

1

*

Chi ne dubita guardi un dito della sua mano e, anche considerandolo grossolanamente, dica se non è un

capolavoro quel suo mobile impostarsi col resto della 96

mano, quella sua articolazione in tre parti mobilissime, così adatte a renderlo prensile, quella sua sensibilità tattile, quell’unghia che ne difende e rafforza

l’estremità, ecc. Rifletta al capolavoro dell’occhio. Perfetta trasparenza — superiore ai migliori cristalli — dei molteplici mezzi rifrangenti (la « cornea » esterna, incastonata nella sclerotica a guisa di vetro d’orologio, unica sorprendente eccezione di trasparenza nella opacità generale del rivestimento cutaneo del corpo umano, l’« umore acqueo », la «lente cristallina » e l’« umore vitreo ») con qualità ottiche capaci di rifrangere e condurre proprio in fondo al globo oculare cioè sulla sensibile retina i raggi penetrati nel foro pupillare (e solo quelli, in grazia del rivestimento opaco impenetrabile di tutto il resto dell’occhio): perfetta macchina fotografica, anzi cinematografica, a colori. Immensa superiorità rispetto a qualsiasi altro meccanismo artificiale del genere: pellicola sempre automaticamente rinnovata; automatica messa a fuoco dell’obiettivo per modificazione di curvatura del cristallino: autodiaframmazione col mobile iride; perenne e perfetta ripulitura, per lavaggio lacrimale, a ogni battito di ciglia; astuccio osseo robustissimo; difesa delle ciglia e delle sopracciglia, a perfetta e sigillata (con la cispa) chiusura nel sonno; perfetta mobilità in tutti i sensi entro l’orbita (senza perdervi mai la centralità in grazia di opportune coppie di muscoli motori, uno dei quali passante dentro una puleggia antagonista); visione stereoscopica per effetto del doppio occhio. Rifletta in particolare alla mirabile complessità della retina per avere l’evidenza di trovarsi davanti a un incredibile capolavoro. E poi mediti che tutto questo si è formato nella buia inconsapevolezza del seno materno. 97

Il citologo consideri la complessità d’una sola cellula, i « cromosomi » del nucleo, i « geni», ecc. E ognuno rifletta alla solidarietà generale della natura, a servizio della vita: pensi per esempio al nostro corpo, formato di terra e aria trasformati in composti di carbonio dalle piante, mediante la « funzione clorofilliana » al contatto del sole — senza la quale cesserebbe la vita sulla terra — e poi elevati al superiore stato di latte e carne nutritizia dagli animali erbivori, ecc. 1.

Tutte queste cose sono di elementare esperienza.

Esse dimostrano che 1l cosmo non è un ammasso di pietre, ma una specie di meccanismo, anzi, specialmente in certi suoi elementi, un perfettissimo meccanismo. Limitiamoci, per ora, a riflettere al fatto, considerato così, genericamente. Il punto da mettere a fuoco è questo: quale contenuto reale si trova in un complesso di parti tra loro ordinate, ossia in un meccanismo ? la sua realtà si esaurisce tutta nella realtà delle singole parti, o vi si aggiunge la concreta realtà dell’ordine, in quanto tale ? Se la realtà del meccanismo, ossia del complesso ordinato, si risolvesse puramente in quella delle sue parti, vorrebbe dire che l’ordine non aggiungerebbe nulla di reale alla materia delle parti stesse. Ma se ciò fosse vero, dovrebbe essere realmente la stessa cosa o di metterle in quell’ordine o di buttarle 1à alla rinfusa: giacché una realtà non è modificata dall’aggiunta d’un nulla. Smonto 1

Dio 98

?,

Ho sviluppato questi concetti nel cap. o.c.

Il

e

III di Esiste

tutte le rotelle di quest’orologio. Se l’ordine che esse avevano nell’orologio montato non avesse implicato veramente alcun di più, rispetto alla materialità delle singole parti, quel mucchietto di rotelle o l’orologio montato dovrebbero essere realmente la stessa cosa. Separo chimicamente i componenti materiali di quella cellula, determinandone, come è ovvio, la disorganizzazione e la morte. Se l’ordine anteriore della cellula viva (a prescindere dall’anima vivificante, postulata dal vitalismo) non aggiungeva realmente niente ai suoi materiali componenti, cellula viva o cellula morta, dovrebbero essere realmente la stessa cosa. Se si rifiutano ovviamente simili equiparazioni, non resta che l’altra soluzione: l’ordine aggiunge una realtà nuova alla realtà materiale delle parti: la realtà dell’ordine, in quanto tale. Alla quantità materiale e alle qualità fisico chimiche delle singole parti l’ordine aggiunge un’entità, una perfezione nuova. E se questa si aggiunge alla pura materialità del meccanismo, vuol dire che essa trascende la materia e non può risolversi in essa. Un’equiparazione c’è effettivamente tra 11 complesso di parti ordinato e disordinato: ma solo nella pura materialità degli elementi, perfettamente indifferenti, in sé, a venire ordinati o no. E questa indifferenza nasce appunto dal fatto che l’ordine è estraneo alla materialità delle parti e la trascende. è sparpaglio

*

Tale ordine esprime la razionalità delle cose, è come un pensiero incarnato in esse. Esso ci richiama perciò spontaneamente alla sua proporzionata causa intelligente, cioè all’estrinseco ordinatore. È per questo iti99

nerario infatti che ho iniziato il cammino della ricerca di Dio, in altro lavoro 1. Ma qui non interessa propriamente tale ricerca. Non dimentichiamo il punto logico in cui ci troviamo nel nostro studio. Volevamo scoprire delle indicazioni sìicure — o almeno fortemente probabili — che la ricchezza cosmica si svolga anche in piani superiori a quelli puramente materiali, così da vincere la pregiudiziale sensibilista e permetterci di affrontare con fiducia la ricerca dell’anima spirituale. Di più non pretendevamo, per ora. E risulta effettivamente provato da quanto sopra che la realtà cosmica, in quanto ordinata, dice qualcosa di più della pura materia. Esiste cioè nel mondo un piano di realtà — qualunque esso sia — effettivamente superiore alla pura materia. Ma — ripeto — anche se dalle considerazioni precedenti, appena abbozzate, l’esistenza di tal piano superiore sembrasse a taluno non provato, ma solo probabile, basterebbe tale probabilità per giustificare la nostra ulteriore fiduciosa indagine. s%

Se poi si rigettassero

tali considerazioni

e si volesse

negare perfino tale probabilità, resterei alquanto interdetto quanto alla capacità speculativa dei contraddittori. M’immagino la loro obiezione: Che c’è, in quelle strutture cosmiche, di immaterialità ? C’è un ordine, è vero, ma un ordine materiale. Ma con ciò seguitano a confondere abbastanza superficialmente le parti ordinate dall’ordine delle parti. Certo 1

100

Esiste Dio

?,

o.c.

se le parti sono materiali, anche l’ordine sarà materiale; ma solo nel senso che riguarda appunto parti materiali. Si dovrà dire però immateriale propriamente in quanto

ordine, non potendo sgorgare dalla materia e rientrare in essa ciò per cui essa è indifferente. Insomma: come le parti sono materiali in sé, così l’ordine è immateriale in sé. S’io guardo una partita a scacchi, vedo continuamente oggetti materiali che si muovono in sempre nuovi ordini. Questi ordini sgorgano dall’intelligenza di chi li muove, mentre le pedine dalla materia di cui sono formate. Che diremmo di chi, considerando che si tratta di parti tutte materiali, negasse l’intelligenza di quei movimenti ? Sarebbero dunque movimenti che sgorgano dal legno di cui 1 pezzi sono formati ? *

Poi c’è l’altra classica obiezione, che ho già precedentemente toccato (p. 42), che assimila i raggruppamenti ordinati a quelli disordinati, in quanto gli uni e gli altri non sarebbero che diverse combinazioni di elementi. Essi avrebbero bensì diversa probabilità di sgorgare dal caso, ma tuttavia ne avrebbero tutti la possibilità, dopo un numero di tentativi proporzionato alle probabilità rispettive. Nonostante l’accenno già fatto e benché abbia trattato a lungo la questione nell’altro studio su Dio, non è inutile riflettere ulteriormente un po’ sugli equivoci e la soluzione della obiezione. Certo, per poterci intendere, dobbiamo essere d’accordo sull’elementare principio di causalità e sul determinismo fisico, che resteranno sempre 1l fondamento della scienza. Non intendo qui divagare in una disputa 101

filosofica. Mi limiterò a far notare che i negatori del principio di causalità si regolano nelle iniziative pratiche come se vi credessero nel modo classico, che è poi quello corrispondente al buon senso. Ognuno di essi infatti, come tutti gli uomini, scienziati o no, agisce per ottenere degli effetti e agisce più fortemente per ottenerne maggiori. Cosa li spinge a ciò, se non la convinzione che esista una proporzione tra causa ed effetto ? E siccome la ricerca che noi facciamo ha riflessi strettamente pratici, è giusto servirsi per essa di quella medesima convinzione praticamente ammessa, anche a prescindere dalle ben più precise e rigorose motivazioni teoriche che non sarebbe difficile addurre 1, Quanto al principio d’indeterminazione di Heisenberg, ho già mostrato sopra che, anziché infirmare il principio di causalità nell’ordine corpuscolare, lo presuppone, per dare un significato alla indeterminazione stessa. A

Ciò premesso, apparirà subito l’equivoco dell’obiezione, appena si osservi che l’equivalenza formale matematica di quelle combinazioni non è che un velo artificioso che nasconde la reale proporzione di causa e

d’effetto nel determinarsi concreto di ognuna di esse. Il cosiddetto «caso» non è che l’ignoranza della causa determinante, la quale però ogni volta c’è e si proporziona all’effetto. Il lancio casuale d’un mucchio di palline, che sbatacchiando qua e là si fermeranno poi in una determinata configurazione, esprime, di fatto, una rigorosa proporzione di questa con il complesso degli urti e impulsi che l’hanno prodotta. !

102

Cfr. Esiste Dio?, o.c., p. 81 ss.

Dal punto di vista fisico è dunque falso parlare di combinazioni tutte uguali. Anzi sono tutte disuguali: e proporzionate ognuna agli impulsi complessivi che l'hanno determinata. Alla combinazione ordinata della macchina cosmica deve corrispondere quindi un #proporzionato complessivo impulso: e dicendo complessivo s’intende tutta la eventuale catena evolutiva che l’ha preceduta, di qualunque lunghezza essa sia. E se si nota il fatto di questo presente ordine, di questa razionalità, di questo « di più » rispetto alla materia, tale supermaterialità deve ritrovarsi in tutto il complesso impulsivo ed evolutivo. sk

Il calcolo di probabilità, condotto con metodo puramente statistico - dal punto di vista cioè del puro caso — esclude a priori la razionalità e unidirezionalità iniziali, indispensabili per condurre, dopo qualsiasi numero di tentativi, a una combinazione ordinata come quella cosmica. Esso s! limita a calcolare la maggiore o minore probabilita della realizzazione d’un evento, a seconda del numero di condizioni da realizzare, presupponendole però sempre disordinate, tali cioè da corrispondere a cause impulsive pure disordinate. Anche in questa ipotesi pertanto il determinismo causale è affermato nella precisa previsione di quella determinata probabilità. Ma per lo stesso determinismo, escluso l’ordine nella causa complessiva, è escluso anche nell’effetto. La statistica previsione del numero dei tentativi necessari per ottenere una prestabilita combinazione qualsiasi — disordinata — presuppone appunto la causalità dell’impulso determinante irrazionale il quale, per ciò stesso, non avendo preferenze, non può escluderne 103

più o meno presto, a seconda dei vincoli non potrà non sbocciare in quella prestabilita. Ma quando questa avverrà, corrisponderà determinatamente a tutto il complesso impulsivo che l’ha preceduta, a cui si proporzionerà: e se in esso era escluso l’ordine, questo nella combinazione risultante non vi sarà. Nel caso poi di effetti vitali, già vedemmo la impossibile loro risoluzione in termini puramente statistici per l’unidirezionalità evolutiva del vivente (p. 44, n.). La presunta equiparazione quindi tra le combinazioni ordinate e disordinate, nel senso di farle indifferentemente derivare dai medesimi impulsi disordinati, è completamente illusoria. E il «di più » dell’ordine rimane. alcuna e, a lungo andare





Il fenomeno della vita Restringendo ora il campo, guardiamo al fatto sperimentale della vita. È in essa che l’ordine cosmico, davanti a cui abbiamo sostato nel paragrafo precedente, raggiunge le sue più alte espressioni. Sicché rilievi precedenti valgono in modo tutto speciale per essa. Ma v’è da aggiungere una fondamentale osserva1

zione.

La vita, nel propagarsi, rinnova continuamente, a partire dal germe, la sua perfezione. Nel risalire all’impulso che spieghi l’attuale perfezione dell’individuo maturo bisogna quindi, immediatamente parlando, fermarsi al suo concepimento, ossia alla cellula germinale. Sarà quella minima materia che imprimerà alla massa talora enorme della futura pianta, o del futuro animale, la mirabile organizzazione dell’individuo adul104

to. A volerne ricercare l’ultima spiegazione cosmica si dovrà. naturalmente risalire poi ancor più indietro: all’impulso ordinatore di quella stessa capacità germinale 1, Ma, come dicevo, dal punto di vista immediato, è in quel germe tutta la ragione del futuro individuo. Nel germe cioè non v’è solo la passività d’un ordine ricevuto — come delle rotelle giustaposte d’un meccanismo — ma l’attiva capacità d’imprimere tale ordine. La razionalità e supermaterialità dell’ordine è incarnata nel vivente in modo attivo immanente (cioè: «in» — « manens »: «che resta dentro », non solo come princicipio intrinseco, ma come termine dell’attività che è ancora il vivente stesso), a differenza dell’attività transeunte, che «transit », passa dall’agente al paziente. Nel vivente cioè vi sono due superamenti, rispetto alla pura realtà materiale. In quanto ordinato, in genere, esso si differenzia e supera la pura materia, per la medesima ragione per cui questa macchina, questo orologio, si differenziano dai vari pezzi «in sé » considerati, aggiungendovi l’ordine. In quanto poi vivente, si differenzia anche dalla macchina, perché la razionalità del suo ordine erompe attivamente e finalisticamente da esso, in modo da attingere e farne partecipe la materia circostante, prendendola, muovendola e incorporandola — ecco l’immanenza vitale — in tale ordine stesso, in sé e in altri individui, rispettivamente con la nutrizione e assimilazione e la generazione. Ed è un'attività così diversa da quella della materia e della macchina, La questione mi porterebbe fuori campo. Per accennarla dirò che l’ordinare suppone l’effettiva conoscenza dell’ordine e quindi un ordinatore intelligente. Il principio vitale del germe quindi, in quanto incosciente, non può essere la ragione ultima dell’organizzazione del vivente. Il principio vitale immanente inconscio postula la sorgente estrinseca cosciente. 1

105

da capovolgere addirittura la comune direzione dei processi puramente fisico chimici o meccanici: giacché, mentre questi degradano verso forme più stabili e meno complesse e non superano meccanicamente l’ambiente che in virtù di più forti strutture, essa parte dalla più labile struttura (la delicatissima cellula germinale, che basta un soffio d’aria e una luce più forte a distruggere) e muove la materia verso forme più alte, complesse e instabili, stabilizzandosi infine nell’adulto in un equilibrio continuamente fluente di nuova materia (non facendo un terzo « quid » con essa, come nelle reazioni chimiche, ma trasformandola in sé). Nel vivente l’affermazione d’una realtà supermateriale, d’un «di più » rispetto alla pura materia, è quindi doppiamente e fortemente sottolineata dalla sua manifestazione attiva. Tenendo conto anzi di tale particolare e immediata sua concretizzazione, come principio attivo immanente, cotesta realtà supermateriale — che, appunto perché superiore (ossia non risolubile nella pura realtà materiale fisico chimica) già può dirsi un qualcosa d’immateriale — vien spontaneo di chiamarla « anima», in quanto principio di vita; «vegetativa» in quanto riguarda 1l più generale fenomeno della vita (caratterizzata dalla nutrizione, assimilazione e generazione) comune anche alle piante.

Non è in sostanza che la moderna tesi biologica vitalista: dalla « forza supermeccanica » di Luigi Dumas (1765-1813) all’« entelechia » di Giovanni Driesch (18671941) — che vi arrivò come vinto dall’evidenza dei fatti, dopo essere passato traverso il completo materialismo dell’Haeckel suo maestro al « principio psi-—

106

chico

»

o

«

tori?, ecc.

vitale

»

di Ralph S. Lillie1 e Beppino Diser-

Curiosa è solo in taluni di tali biologi la ripugnanza alla parola di aristotelica memoria: «anima vegetativa ». Mentre non dicono, in fondo, che ia stessa cosa.

Ma più curiosa è l’illusione degli antivitalisti che credono con la loro eguiparazione del vivente a una pura macchina di ridurre tutto alla sola materia. Certo una volta eliminato — infondatamente, come pare, anche solo dai suddetti accenni — il principio vitale immanente, il vivente sarà ridotto a una pura macchina materiale. Ma, anche in tale ipotesi, un conto è dire materia e un conto è dire macchina materiale. In questa resterà sempre il primo e più generale elemento di differenziazione sopra considerato, e cioè 1l fatto super-materiale dell’ordine. Anche se avranno risolto il vivente in un puro complesso di parti materiali, dovranno riconoscergli assai meno probabilità di ridursi al cieco effetto

delle sole forze fisico chimiche, di quest’orologio, di questa macchina da scrivere, ecc., che sono immensamente

meno complesse del vivente. L’indagine degli antivitalisti si risolve tutta nella analisi del processo evolutivo e conservativo dell’individuo, a cominciare dal germe, e in una serie di ipotesi e di tentativi per spiegarlo, in funzione del solo dinamismo fisico chimico. Ma prescindano un momento da tutto questo. Guardino al risultato: alla perfezione fi1 General Biology and Phylosophy of Organism, Chicago (111), The Univ. of Chicago Press, 1945. 2 Il libyo della vita, Milano, Mondadori, 1947.

107

nale del vivente, in sé e nella sua capacità germinale. E vedano se essa non sia una struttura più razionalmente e meravigliosamente complessa di ogni conosciuta complicatissima macchina artificiale. L’esclusione che gli antivitalisti fanno dell’anima vegetativa non toglie in-

fatti le meravigliose caratteristiche sopra ricordate della vita (che inducono i vitalisti a postulare l’anima vegetativa stessa): ed esse, in sé considerate, come indiscutibili fatti sperimentali, rendono questa supposta macchina immensamente più perfetta delle altre macchine artificiali. La sua maggiore supermaterialità si presenta

quindi evidente. Vogliono equiparare 1l vivente a una macchina ? Benissimo: ma proprio per questo non lo possono ridurre alla sola e cieca realtà materiale 1. È veramente piccante che il vivente, proprio a causa della sua autonomia genetica e funzionale, che pur costituisce il suo più sorprendente aspetto di superiorità rispetto alla materia e a ogni altro meccanismo artificiale, venga risolto nella pura cieca materia, mettendolo così al disotto di qualsiasi macchina artificiale, che nessuno pensa di spiegare con la pura materia.

considerare poi la poca consistenza di alcune delle più comuni obiezioni contro il vitalismo, vien fatto di vedervi l’influsso della solita idea preconcetta. A

Il Prof. CoOrrapo GiInr, fa la

solita obiezione: « nella natura, una tra le... combinazioni possibili degli elementi organici doveva pure avverarsi, e quella che si è avverata dando luogo alla cellula organica era possibile come qualunque altra » !

(Analysis, n. 4, 1946, p. 84). A prescindere

108

dall’impossibilità

mostruose sperimentalmente ottenute da germi vitali, con determinati interventi. Non v’è dunque si dice — finalismo interno, ma pura cecità fisico chimica delle forze in gioco. Così per es., «se un lombrico viene tagliato in due metà, il pezzo posteriore sviluppa una testa con quattro o cinque segmenti, ma poiché non si rigenera l’apparato genitale, l’animale non si può riprodurre. Se il verme vien tagliato a un livello più vicino all’estremità caudale, questa nella porzione anteriore sviluppa una coda che continua ad aggiungere nuovi segmenti, ma questo pezzo a due code dopo un po’ di tempo muore perché incapace di nutrirsi. Risultati analoghi si ottengono quando si isola un piccolo pezzo all’estremità caudale di una Planaria: questo pezzo rigenera una seconda coda alla sua estremità inferiore. Se si isola l’estremità anteriore della testa di una Planaria, la superficie posteriore del pezzo tagliato rigenera una testa. I pezzi a due teste sono destinati a morire, perché non si forma alcuna bocca 1. Ebbene ? Si resta meravigliati a leggere le conseguenze antifinalistiche che ne vuol trarre il Morgan. Da quando in qua le difficoltà di funzionamento, in circostanze anormali, possono dimostrare l’errore di costruzione d’un qualunque meccanismo artificiale ? Così per viventi. Mentre i regolari funzionamenti del vivente dimostrano l’esistenza del suo immanente e sapiente finalismo, i funzionamenti errati suddetti dimostrano solSi oppongono le irregolarità -—

1

teorica — che ho sopra considerato, a riguardo dell'ordine in genere — dovrebbe egli dire se in pratica crede veramente che il semplicissimo meccanismo, per es. di una penna stilografica trovata per strada si possa essere fatto da sé. 1 THoMmas HUNT MORGAN, Embriologia e genetica, trad. Olivo, (dall’originale del 1934), Torino, Einaudi, 1950, p. 202. 109

tanto che il finalismo stesso è dipendente da certe necessarie e normali condizioni. Caso mai la grossolanità di tali soluzioni anomali costituisce una indicazione che il principio finalistico immanente non è uno spiritello intelligente, un principio direttivo cosciente — 1l quale, per saper trasformare in organismo vivente la materia, dovrebbe essere intelligentissimo, mentre per fare quei grossolani errori dovrebbe essere stupidissimo — ma un principio che, pur essendo supermateriale, è capace di regolare lo svolgimento della vita soltanto come cieca e deterministica applicazione d’un programma impressogli da un esterno 1ntelligente artefice: programma preparato a funzionare bene soltanto in un quadro di previste normali condizioni. Un controesempio di facile esperienza può chiarire

la cosa. Si sa che 1l senso dell’equilibrio nell’uomo è in correlazione ai «canali semicircolari », situati nell’« orecchio interno ». In caso di lesione di tali organi dell’udito si può avere un andamento barcollante, e cadere. Se ne vorrà forse dedurre una minore ammirazione per il perfetto meccanismo equilibratore in condizioni normali ? Risulterà tuttavia provato che tale equili-

brio non deriva direttamente da attività cosciente, ma da funzione puramente organica e istintiva. Pretendere che l’anima vegetativa perché esista veramente debba essere capace di superare tutte le difficoltà e tutte le situazioni anormali, sarebbe un confonderla con un genio onnipotente, o meglio con la bacchetta magica del prestigiatore, o con una specie di miracolo permanente. *

Un’obiezione ancor più comune al vitalismo si suole trarre dalla constatazione che i fenomeni e i bilanci ener110

getici vitali si svolgono tutti congiuntamente ad attività secrezionali, enzimatiche, ecc. e secondo le pure leggi fisico chimiche della materia. Ma non si capisce perché, ammesso un principio vitale supermateriale e immanente, non dovrebbe essere così. Se il suo compito è di regolare dall’interno e finalisticamente l’accrescimento e la trasformazione materiale del vivente, è chiaro che esso deve lasciare gli scambi e i bilanci energetici di tale regolazione sottoposti alle leggi fisiche della materia del corpo vivente. Mentre non sarebbe così se, anziché trattarsi d’un principio supermateriale puramente regolatore, fosse una energia materiale aggiunta alle altre, o anziché immanente, fosse estrinseco al vivente: poiché allora, invece di regolare le reazioni della materia vivente, opererebbe direttamente e si aggiungerebbe ad essa, modificandone le equazioni energetiche (nel quale solo caso 1l principio vitale risulterebbe energeticamente sperimentabile). Cosa vuol dire infatti: regolare vitalmente e quindi con finalismo immanente — gli scambi energetici ? La mente, è vero — legata alla fantasia — è spontaneamente indotta a pensare a interventi sul piano puramente materiale, a impulsi cinetici dati da una forza come le altre a questa o a quella parte, a questa o a quella molecola, ecc. E in tal modo i bilanci energetici non verrebbero solo regolati, ma modificati. Ma allora 1l principio vitale non sarebbe più un qualcosa di supermateriale e di immanente. Esso costituirebbe invece una misteriosa e fittizia energia materiale estrinseca e nello stesso piano delle altre. E si cadrebbe in un circolo vizioso. Si tratterebbe cioè ancora di un elemento materiale, indifferente all’ordine, e si dovrebbe nuovamente chiedere la ragione intrinseca dei suoi interventi ordinati. Che se poi si volesse pensare a un elemento superma—

111

teriale bensì, ma operante con impulsi aggiunti alle energie della materia del vivente, sarebbe ancora un qualcosa di estrinseco al corpo vivente, e la realtà del vivente sarebbe spezzata in due, contro l’intuitiva nozione di unità e d’immanenza della vita. Secondo tale nozione non è il principio vitale da sé che opera, ma gli organi del vivente, da esso ammati (senza modificare le loro equazioni energetiche) e che da esso ricevono una superiore unità funzionale, regolatrice degli scambi energetici. Tutto questo non dico evidentemente con la pretesa di esaurire, in così rapide battute, problemi tanto difficili, ma solo per mostrare che la concezione vitalista più esigente — d’impronta aristotelico tomista — non contrasta in alcun modo all’interpretazione puramente meccanica dei bilanci energetici della materia vivente. *

Non manca anche l’obiezione — un po’ umiliante — tratta dai tentativi — che meglio si dovrebbero chiamare giocherelli — della generazione spontanea della vita,

fatti da alcuni scienziati.

Si comprende benissimo che la pregiudiziale mate-

rialista cozzi fatalmente contro il grande scoglio del passaggio dalla materia inanimata al primo vivente. E si comprende anche che non si rassegni ad arrendersi davanti a tutte le clamorose sconfitte sperimentali moderne circa la « generazione spontanea ». Al tempo di Aristotele (IV sec. a. C.), quando la scienza della natura era semplicetta, si credeva che i vermi sgorgassero da sostanze inorganiche, le anguille dal fango, ecc. S. Tommaso d’Aquino e tutto il Medio Evo seguitarono a ritenere che gli animali inferiori nascessero dalle sostanze 112

putrefatte

Shakespeare nell’Enrico IV fa trovare a un suo personaggio l’origine di certi insetti nella segatura. Errori comprensibilissimi. Erano uomini positivi, di osservazione, che stavano a ciò che la realtà, vista dai loro sensi, sembrava dire. Ma finalmente Francesco Redi (1668), osservando che le mosche non nascono dalla carne putrefatta, ma dalle loro uova ivi deposte, faceva crollare la supposta generazione spontanea degli insetti, Lazzaro Spallanzani (1748) l’escludeva pure per gl’infusori, e Luigi Pasteur (1861) ne dimostrava la falsità anche per i minimi batteri. Le sostanze organiche sterilizzate che servirono al Pasteur sono conservate ancora incorrotte al Museo di Parigi. Chi può osare oggi prudentemente, dopo tali solenni lezioni negative dell’esperienza, credere agli apparenti e incertissimi esperimenti di generazione spontanea dei minimissimi ultravirus (da 250 a 8 millesimi di micron) di cui, oltre tutto, è incerto anche lo stesso carattere di viventi ? Ma se la generazione spontanea fosse avvenuta in ambienti diversi da quelli possibili in laboratorio ? Per es., in fondo ai mari ? Fece colpo nel 1868 la scoperta fatta da Tommaso Huxley, scandagliando alle profondità dai 4 agli 8.000 metri, d’una sostanza colloidale, gelatinosa, trasparente, con lenti e proteiformi movimenti, ch’egli interpretò come il primo passaggio spontaneo della materia inanimata alla forma vivente e che in onore del suo grande collega materialista tedesco, chiamò: Bathybius Haeckelii. Ma fece poi anche colpo l’ostinazione dell’Haeckel, il quale, anche quando In omaggio al principio di proporzione tra causa ed effetto !,

1

s’affermava però una misteriosa dipendenza da influssi istrumentali delle sfere celesti. La coerenza filosofica era quindi mantenuta (cfr. Summa Theologica, I, 70, 3, ad 3).

113

fu chiaramente dimostrato ! e riconosciuto dallo stesso Huxley che era stato erroneamente confuso con sostanza vivente un modesto e inorganico precipitato colloidale di solfato di calcio (prodotto dall’alcool aggiunto all’acqua marina per conservare il materiale), seguitò a insistervi e a tesservi sopra un vero romanzo scientifico. sk

Ma dovevo parlare più propriamente di alcuni

«

gio-

di generazione spontanea. Ecco, per es., quelli compiuti nel 1910-1912 da S. Leduc?. Egli con un po’ di gelatina, solfato di rame e zucchero, impastò una specie di seme e, messolo in una soluzione di gelatina e ferrocianuro di potassio, ne vide uscire radici, foglie e fronde come in una vera piantina. La vita dunque era stata prodotta in laboratorio in alcune delle sue fondamentali proprietà che sono la forma, la nutrizione, l’accrescimento Ma ci voleva tanto a capire che tutto era dovuto a un semplicissimo effetto di osmosi progressiva e di pura incorporazione della soluzione, senza alcuna trasformazione e assimilazione di sostanza e mantenendosi la perfetta omogeneità di tutta la massa, così da aversi un qualcosa che rassomigliava alla vita quanto l’ombra di una pianta rassomiglia alla pianta stessa ? Tutto considerato quindi, e nonostante le sue non abbandonate speranze per l’avvenire, l’Accademico Filippo Bottazzi (1867-1941) poteva concludere che: « fino a oggi cherelli

»

!

nessun documento storico o prova sperimentale può allegarsi della generazione spontanea della materia vivente %». 1Ciò fu provato da WvYVILLE THOMSON e dagli altri zoologi della storica spedizione oceanografica di profondità del Challenger (1872-1876) e pienamente confermato in seguito. ’ Cfr. Théorie physico-chimique de la vie, Paris, Poinot, 1910. ° Trattato di fisiologia, Milano, Vallardi, v. I, 1937, p. 253. 114

Nuovamente mi preoccupa il fatto che il lettore un po’ disorientato dalla difficoltà di alcuni di questi concetti e bramoso di ulteriori chiarimenti, che non ho dato e non ho voluto dare per non dilungarmi troppo, pensi che sia con tale grado di approfondimento che intendo condurre l’indagine sul mistero dell’anima umana. Tutt’altro. Torno a ripetere che la questione or ora trattata e tutte quelle toccate prima e che toccheremo in questo capitolo non rientrano direttamente nel nostro rigoroso studio, ma ne costituiscono soltanto una necessaria premessa, che bisogna tenere presente. Il loro scopo è soltanto di eliminare con osservazioni di comune esperienza varie facce della preconcetta posizione materialista che, escludendo a priori la possibilità d’ogni realtà extramateriale, mpedisce l’imparzialità critica nell’analisi del problema. Si trattava solo di voler convincersi dell’esistenza — anche solo probabile — di più vasti orizzonti della realtà cosmica.

Passiamo perciò, sempre a tale scopo, ad altre indicazioni di comune esperienza, anche più significative di quelle fino ad ora considerate. L’esperienza dei sensi Il fenomeno della sensazione ha il vantaggio, rispetto a quello della pura vita vegetativa, di poter essere in qualche modo penetrato nell’intimo dalla nostra esperienza cosciente. La vita, nel suo primo e più generale aspetto — vegetativo: comune alle piante — s’esperimenta bensì in noi stessi, ma sempre come un fenomeno visto, per così dire, dal di fuori, mediante le sue manifestazioni obiettive. La sensazione — che caratterizza la vita ani115

male, in quanto tale — si percepisce invece dall’interno, per esperienza diretta soggettiva. È ancora un contatto con la materia, una combinazione con essa, come è combinazione la reazione chimica, come è combinazione l’assimilazione nutritiva. Ma si guardi alle nette differenze, che sono come gra-

dini ascensionali sempre più svincolati dalla materia. La congiunzione chimica di sostanze inanimate produce il composto a spese d’entrambi i corpi venuti in contatto, di cui dissolve — almeno dal punto di vista macroscopico, che qui consideriamo — le individualità rispettive, per sostituirle con quella del composto stesso. La congiunzione del vivente con la materia d’alimentazione e d’assimilazione — pur con tutte le reazioni chimiche che l’accompagnano — conserva l’individualità di quello, distruggendo a suo vantaggio l’individualità del corpo assimilato. La sensazione sì appropria anche essa l’oggetto, ma solo «intenzionalmente », non « fisicamente », cioè solo per conoscenza — ovviamente primordiale, rispetto a quella superiore dell’intelligenza — senza modificare la realtà fisica né del senziente, né dell’oggetto sentito (salvo le temporanee e superficiali modificazioni del contatto con gli organi dei sensi e del dinamismo fisiologico della sensazione). È per tale invarianza fisica che la sensazione può successivamente e senza limite appropriarsi tutti gli oggetti materiali che riescono a venire a contatto con gli organi sensori. Per completare questa vastità di possesso vi sono anche sensi interni, come, per es., l’immaginazione, capace di conservare e riprodurre gli oggetti già sentiti. E perché siano possessi vitalmente utili vi sono le corrispondenti attrattive e repulsioni sensibili verso gli oggetti stessi e le capacità meccaniche motrici dell’animale per avvicinarvisi o allontanarsene fisicamente. 116

*

Indipendentemente dalla spiegazione che se ne voglia dare, è evidente in questi modi diversi di contatto con le cose una progressività di smaterializzazione e di universalizzazione e quindi di supermaterialità. L’incontro tra le due materie comporta infatti un sempre più ridotto processo di trasformazione fisica reciproca. Nel primo caso si trasformano entrambi, nel secondo soltanto la materia esterna incorporata, nel terzo caso nessuna delle due. E corrispondentemente v’è un allargamento di orizzonte: nel primo caso è un incontro solo, nel secondo è con tutti i corpi che il vivente sia capace di assorbire, nel terzo è con un numero illimitato. Il mio occhio può appropriarsi quel sassolino, quella montagna e tutte le stelle del cielo. La supermaterialità del vivente non consiste nel fatto che esso non incorpori realmente l’esterna materia. Nella nutrizione la incorpora. La supermaterialità consiste nel fatto d’incorporarla, dominandola, superandola, piegandola al mantenimento della propria individualità e obbligandola a risalire, contro la sua tendenza naturale degradante, fino alla propria superiore forma organizzata. Nella sensazione poi v’è un grado nettamente superiore. La materia sentita resta tutta fuori, è tutta, per così dire, respinta e superata come fisica entità. Solo la sua forma sensibile viene come assorbita e percepita nell’operazione sensoria. Ma v’è di più. La conoscenza sensitiva supera la stessa molteplicità materiale dei contatti dei vari sensi esterni — pur lasciandoli obiettivamente molteplici, come sono — con un altro atto sensorio interno di percezione confrontatrice e unificatrice delle sensazioni esterne — caldo, freddo, piacevole, spiacevole — capace di dirigere, in modo concreto e unitario, la scelta sensibile dell’individuo. 117

*

Appare quindi semplicetta l’istanza materialistica tendente a risolvere anche il fenomeno della sensazione in un puro complesso di reazioni fisico chimiche, trasmissioni elettrico nervose, ecc. Tale complesso di reazioni non potrà non esservi, giacché la sensazione presuppone un contatto fisico dei corpi con gli organi sensori del corpo vivente, per il quale debbono pur valere — come per la vita vegetativa — i bilanci energetici secondo le pure leggi fisiche. Ma tutto ciò non costituirà ancora la sensazione. Certo quando l’occhio vede, l’immagine dell’oggetto si sarà riprodotta nella retina, come in una perfetta « camera oscura » di macchina fotografica, e 1 nervi ottici che vi fanno capo saranno stati proporzionatamente eccitati, ecc. Ma ciò non è ancora la sensazione: come è testimoniato in modo perentorio dalla coscienza. Ciò costituisce un processo puramente passivo e preparatorio, ben diverso dall’atto del sentire. Si metta invece della retina una lastra fotografica. L’immagine dell’oggetto vi si imprimerà ugualmente. Sì dirà che la macchina fotografica ha sentito l’oggetto ? Chiunque lo dicesse sarebbe perfettamente convinto di usare una metafora. « Non bisogna cioè confondere — osserva ovviamente Cesare Ranzoli — la sensazione col funzionamento dei nervi e dei centri nervosi che ne sono la condizione: il primo è un fatto psicologico, il secondo un fatto fisiologico »1, E il rilievo vale qualunque sia il valore critico che si attribuisca alla conoscenza sensitiva, per la valutazione della realtà esterna. Fosse pure la sensazione, 1

Dizionario di scienze filosofiche, Milano, Hoepli, III ed,.,

1926, p. 1003. 118

— contro la più ovvia intuizione umana Emanuele Kant, « una percezione che si riferisce solamente al soggetto come modificazione del suo stato » 1, o, secondo il neokantiano Filippo Masci (1844-1922), «uno stato di coscienza correlativo alla eccitazione di una fibra nervosa afferente prodotta da uno stimolo ad essa esterno sulla sua terminazione, la quale eccitazione si propaghi fino ai centri sensitivi della corteccia cerebrale »?, sarebbe sempre un fatto distinto e irriduttibile alle pure modificazioni fisiologiche degli organi dei sensi. Quando M. Guglielmo Wund (1832-1920) lo chiama: « quello stato della nostra coscienza che non può essere scomposto in parti più semplici » 3, esprime, in fondo, tale irriducibilità agli altri fenomeni puramente materiali. Quel quid che, in qualunque modo s’intenda, costituisce la materia, viene a ripresentarsi nel fenomeno della sensazione, in un modo di essere totalmente spoglio dalla sua consistenza fisica, smaterializzato.

come pretende

-—

%*

Ora come può un tale processo derivare dalla stessa pura materia ? Come può la materia stessa smaterializzarsi, ossia negare se stessa, o, se sì preferisce, superare

se stessa ?

Non potendo pertanto la pura materia compiere tale sensoria smaterializzazione, vi deve essere nel senziente un principio superiore ad essa che regola 1l sorprendente fenomeno e che potrà giustamente chiamarsi « principio sensitivo » o «anima sensitiva ». 1 2 3

Kritik der reinen Vernunfi, ed. Kehrbach, 278. Psicologia, 1904, p. 29. Grundriss der Psych., 1896, p. 45. 119

E sarà un principio irriducibile e superiore alla materia — e quindi immateriale — più del semplice principio vitale — anima vegetativa — quanto l’attività sensitiva supera, nel distanziarsi dal piano fisico chimico della materia, l’attività puramente vegetativa. Gli orizzonti della realtà cosmica sono dunque ulteriormente allargati, al di 1à dei confini puramente materiali. sk

Nessuno può appellarsi qui a una supermaterialità

di tipo puramente energetico, in base all’ipotesi della trasformazione della materia in energia, postulata dalla fisica relativistica. Anche tale energia rientrerebbe infatti perfettamente nell’ordine quantitativo e quindi materiale: sa-

rebbe ancora tanta corrispondente energia. Mentre qui, nella sensazione propriamente detta — non in ciò che la precede — tale proporzione è radicalmente superata. Identicamente io mi approprio — vedo — il sasso e la montagna. Il superamento materiale della sensazione nasce inoltre interamente dal contatto macroscopico con le cose, indipendentemente dalla loro intima struttura. *%

Nemmeno, agli effetti del nostro ragionamento, avrebbe valore obiettare che tale fenomeno sensorio potrebbe sgorgare da una « forza psichica » più alta delle

altre, ma anch’essa puramente materiale: « La sensazione dice Giuseppe Sergi (1841-1936) — è un fenomeno che si produce quando la forza psichica è provocata ad agire dalla forza esteriore della natura, in un mo—

120

do che le è proprio, con una manifestazione comune e

costante » 1, Chi ha meditato l’intima portata della smaterializzazione sensoria, difficilmente potrà attribuirla ancora a una forza puramente materiale, benché più alta. Ma se anche ciò ammettesse, resterebbe tuttavia provato 1l fatto dell’esistenza di tale realtà diversa e più alta delle comuni realtà fisico chimiche inanimate e insensibili.

L’allargamento d’orizzonte, rispetto alla ristretta visione materialistica di ciò che soltanto si vede e si tocca, si avrebbe lo stesso. Vi sarebbe una realtà che si afferma nascere dalla materia, ma che in sé non si risolve nei comuni fenomeni fisico chimici. Vi sarebbe il fenomeno «senso » che non si risolve in ciò che è visto immediatamente dai sensi. Il fondamento e l’incoraggiamento per guardare al di la, fino a una pessibile realtà perfino spirituale, si avrebbe lo stesso. Lo scopo di questa nostra previa analisi sarebbe ugualmente raggiunto. Tale scopo anzi sarebbe raggiunto anche se quell’allargamento dell’orizzonte della realtà fosse risultato, dai nostri rilievi, soltanto come probabile. La luce del pensiero

Simpatico lo smemorato che cercava l’asino mentre gli stava in groppa. A me è successo di cercare gli occhiali che avevo sul naso. Stiamo ragionando di realtà cosmiche superiori alla materia, ne stiamo ricercando le sperimentali manife1

La psychol. physiol.,, tr. franc. 1888, p.

17. 121

stazioni, al solo scopo generico (in questo capitolo) di constatare che il cosmo non si riduce alla pura realtà fisico chimica (paghi anche di una constazione soltanto probabile) e di poter quindi fiduciosamente e imparzialmente affrontare in pieno — tra poco — il problema dell’esistenza o meno dell’anima spirituale. Abbiamo visto tali manifestazioni, prima nell’ordine cosmico in generale, e poi nei due gradini particolari della vita vegetativa e sensitiva. Ma la più significativa e più alta manifestazione è il fenomeno del pensiero: di quel pensiero di cui ci serviamo appunto per fare questi rai gionamenti.

Nel primo gradino di vita — vita vegetativa — la materia è apparsa, in limitata quantità, incorporata dal vivente, ossia elevata al suo piano di esistenza, superiore a quello materiale fisico chimico; nel secondo — vita

sensitiva — è apparsa ulteriormente smaterializzata e in tal modo posseduta successivamente, senza limiti. Era da attendersi un altro grado, in cui fosse pure posseduta senza limiti, ma contemporaneamente. È ciò che avviene nel fenomeno del pensiero, dell’idea. Considero, per es., l’idea di « pietra ». La smaterializzazione successiva vista nei gradini precedenti qui raggiunge la pienezza. La concreta individualità di questa o quella porzione di materia viene completamente trascesa. Ecco questa pietra. Il senso la vede e si ferma lì. Si può volgere poi a un’altra; ma allora non vede più la prima. La prima pietra è tale perché è costituita da quella materia lì; la seconda è tale perché costituita da quell’altra. Il senso le vede successivamente, secondo la loro rispettiva individualità, La sua smaterializza122

zione non arriva a superare quella concreta individualità. Ed ecco invece la mente assurgere al concetto : «la pietra », che corrisponde a tutte le pietre e tutte le abbraccia, astraendo da questa o quella concretezza ma-

teriale.

E col pensiero c’è il ragionamento, in cui le idee si congiungono, s’intrecciano, si concatenano tra loro e producono altre idee. Mentre tutto il mondo materiale esterno di cui penso, di cui giudico, di cui parlo, resta completamente indifferente a tutto questo rimescolio ideale. Sono dunque al di fuori e al di sopra della materia, in un piano di completa smaterializzazione.

Poi v’è tutto il mondo dei concetti e dei ragionamenti di cose e su cose che, in sé, non hanno alcun contenuto materiale. Cosa c’è di materiale nei concetti di amore, di onore, di giustizia, di virtù ? Non importa quale possa essere la loro genesi e se siano legittimi o no, veritieri o illusori. Ciò che importa è che esistono di fatto come fenomeno del pensiero, e costituiscono quindi, come tali, una realtà cosmica totalmente immateriale. Del resto, che non siano un nulla — sempre a prescindere dal loro valore obiettivo — è dimostrato dal fatto che infiammano i cuori. Eppure non contengono materia, 123

i E se il pensiero sgorgasse tuttavia dal cervello materiale, come una qualsiasi altra secrezione organica ? Viene spontanea la risposta negativa, in base al medesimo rilievo già fatto per i sensi e che qui vale a ben più forte ragione: come può la materia smaterializzare se stessa, negare il proprio modo di essere, tanto più in un modo ora così totale ? Ma non insistiamo ora su tale risposta, che dovremo meglio studiare in seguito. Supponiamo che la causa del pensiero sia una tale secrezione. Il fatto del pensiero resterebbe però innegabile. E innegabili sarebbero le caratteristiche immateriali di esso rispetto al modo di essere della materia nella sua concreta esistenza fuori del pensiero. Il fenomeno del pensiero costituirebbe quindi a — dalla di realtà un piano prescindere sua spiegazione cosmica superiore non solo al comune piano materiale, ma anche al comune ordine sensibile. Nuova conferma dell’allargamento d’orizzonte della realtà, a] di 1à della pura materialità e della pura sensibilità, in qualsiasi modo la si voglia concepire. La ricerca in tale piano sopramateriale e soprasensibile, per cercare l’eventuale esistenza dello spirito, è quindi incoraggiata e giustificata dai fatti positivi. Ora siamo in grado di affrontarla, senza l’inciampo della pregiudiziale materialista e sensibilista, con vera imparzialità. Lo faremo prima con argomenti per assurdo, di tipo morale e poi con argomenti diretti, di tipo fisico e me—-

tafisico.

124

ASSURDO DELLA MORTE

La morte

?

È

impossibile

Nego nel cosmo, in cui è l’uomo, la possibilità della

morte.

Dico che la conclamata sua inesorabilità è assurda e non può essere quindi, a conti fatti, che un’illusione. Prescindo dall’esistenza o meno di un Dio. Parto da un presupposto che è una constatazione sperimentale: che cioè nell’universo è bellezza, è ordine, è verità, e non manca anche bontà e gioia. Tutto ciò sembra negato, capovolto dalle bufere,

dalle catastrofi telluriche, dalla malattia, dall’errore, da tanta malvagità, da tante cause di dolore. Ma son fatti temporanei, sono la privazione del bene che effettivamente c’è. È una privazione che mette anzi il bene in rilievo maggiore. Si parla del brutto tempo perché c’è il buono. Si soffre del dolore perché si conosce la gioia. Vedo che nell’universo è armonia di cose, è consistenza di vita, è fecondità costruttrice. V’è la consìistenza della materia, lo sprigionarsi della vita, l’operosità dell’uomo. *

Che nel quadro dell’ordine e della fecondità cosmica vi sia anche l’incidente e il difetto, è pure un fatto, 1l quale però si comprende benissimo. Perché se 1l cosmo 125

è mirabile, è però limitato e quindi defettibile nella sua perfezione. Mi esalta la bellezza e il profumo del giglio.

E i suoi pregi restano, benché abbia il difetto di annerirsi quando è premuto. Non si può ammettere invece che in cotesto medesimo quadro di ordine si nasconda un essenziale e universale contenuto d’inganno, di beffa, di tradimento. lo non ho argomenti capaci di convincere il pessimista che si ostini ad ammettere tale essenziale perversione cosmica; come non ne ho per convincere lo scettico che si ostini a non credere alla potenza investigatrice della ragione. Posso però fargli notare che la sua convinzione contraddice all’indiscutibile bellezza che è nel mondo, alla bontà che è nel cuore di tanti uomini, alla bellezza e alla bontà che è nel suo stesso cuore e che egli afferma nell’atto medesimo in cui si lamenta di non trovarla intorno a sé. Come allo scettico posso far notare ch’egli contraddice alla sua negazione di ogni certezza con la certezza della sua stessa negazione. *

Ora si ammetta la morte. Nessuna difficoltà che essa vi sia per le piante e per animali incoscienti (di cui riparlerò a lungo più avangli ti) la cui traiettoria vitale sì perenna, in qualche modo, nell’uomo che è all’apice della scala cosmica, di cui sono a diretto o indiretto servizio. Non si può parlare quindi per essi, in senso pieno, di morte dissolvitrice. Essi hanno nell’uomo a cui servono una specie di sopravvivenza. Ma se nell’uomo stesso, creatura superiore del cosmo — come risulta anche nell’ipotesi evoluzionista — cadesse davvero la falce della morte, la bellezza e la fe126

condità cosmica si risolverebbero tragicamente nel nulla; alla base della realtà vi sarebbe, in definitiva, il supremo inganno dell’annullamento. Abituati come siamo a vedere tante cose che finiscono, non è facile rendersi subito conto della tragedia e della beffa che sono racchiusi in questa parola: annullamento ; ovvero, riferendosi al tempo che passa, nella inesorabile parola: fine. Eppure si rifletta. Che conta nel momento della fine tutto 1l tempo passato, anche il più attivamente e felicemente trascorso ? Non c’è più, non esiste più. Se il tempo della vita fosse stato lungo e 1l lavoro compiuto abbondante e felice e godimenti e le ricchezze accumulate grandissimi, la morte non servirebbe che a rendere 1l crollo dissolvitore più tragico e penoso. Invano si lavora anni e anni per costruire una guglia, riuscendo a portarla a grandissima altezza, se un bel giorno tutto, dalla base, radicalmente crolla. Tanto maggiore sarà il disastro quanto maggiore era l’altezza raggiunta. Gioie provate, ricchezze accumulate, popolarità, gloria. Che se ne farà colui che non esisterà più ? Ciò che finisce, ciò che non sarà più equivale perfettamente — nel momento della fine — a ciò che non è mas: stato perché in quel momento di morte o che sia stato o che non sia stato è perfettamente lo stesso. 1

:

*

Non possiamo evidentemente gionamento secondo la illusoria ma secondo la obiettiva realtà. Si sa quanti uomini vivono riguardo; ma la realtà cosmica è amico ingegnere materialista mi

nostro ravisione degli uomini,

regolare

1l

nell’illusione a questo quella che è. Un mio diceva, quasi agoniz127

zando: sono lieto di avere almeno vissuto fino a vedere l’esito della grande guerra. Ma che se ne sarebbe fatto di tale conoscenza quando, poche ore dopo, morendo, avrebbe cessato di esistere ? Il « Tigre » della vittoria francese nella prima guerra mondiale, Giorgio Clemenceau (1841-1929), che già sopra ho ricordato, sì consolava della morte equiparandola al sonno: « Un sonno senza sogni, ossia uno stato d’incoscienza che non si può definire se non in forma di negazione; ecco tutto quello che possiamo sapere della morte. Non c’è niente da temere. Assenza di dolori, assenza di piaceri. Per spaventarsi di una tale condizione di esistenza, bisogna aver perduto ogni traccia di equilibrio e di giudizio, perché ne facciamo esperienza, non senza soddisfazione, alla fine di ogni giornata. Compiuta la fatica quotidiana, non ricorriamo forse al sonno riparatore ? Che di più ? Che di meglio ?... Che di peggio di aver perduto il sonno ? Perché lamentarsi dunque di un ritmo che per noi è tanto prezioso ?°»1, Oppure l’equiparava al termine d’un banchetto: « Lasciare la vita come si esce da un banchetto. La parola è giusta e pregna di una sana filosofia delle cose. La vita è un banchetto... Perché lagnarsi che la cerimonia finisca troppo presto, in seguito all’esaurimento delle facoltà sensitive, e cercare con tutti mezzi, come i romani della decadenza, di eternare 11 festino ? »?. C’era solo la... piccola differenza che intercorre tra la temporanea incoscienza del sonno o la momentanea interruzione del festino e la perenne distruzione del nulla Là i valori restavano tutti, qui irrimediabilmente si dissolvevano. V’era il grossolano equi1

!

1

GIORGIO CLEMENCEAU,

p. 479-481. 2

128

Tui.

Au soir de la pensée, 1926, v. Il,

voco che fosse ancora lui a compiere il « più lungo riposo» o la « più lunga siesta », mentre invece egli non sarebbe più esistito. E andava farneticando perfino con queste piacevolezze: « Non vi nasconderò che forse la felicità si trova nel regno vegetale... ma alla fine opterei per lo stato minerale, se esso non fosse minacciato dalla prima catastrofe del suolo. In questo caso rivolgerel 1 miei desideri verso lo stato atomico » 1. Non era da meno Alberto Einstein che si consolava, alla prospettiva della morte, dicendo che la vita era una meravigliosa avventura, che valeva la pena di es-

sere vissuta. Quest’artificioso e illusorio modo di tranquilizzarsi di fronte al crollo annullatore della morte non fa che risaltare la lacrimevole beffa della realtà: se la morte davvero ci fosse.

Abituati al modo di esprimersi e di pensare comune, tentati di trovare una perennità di frutti e di sopravvivenza nell’umanità complessivamente considerata come «specie umana ». Ma è una soluzione anch’essa tipicamente illusoria. Intanto è questione di tempo. Nel quadro dell’evoluzione cosmica e in particolare dell’evoluzione terrestre non v’è alcun serio fondamento per pensare che la vita duri sempre, e tanto meno la vita umana. Come ha cominciato, così dovrà finire. E allora, morto l’ultimo uomo, il ghigno macabro del nulla sarebbe 1l risultato di tutto. Con nessunissima differenza — in quel momensi è forse

!

].

MARTET, Le

silence de M.

Clemenceau, pag. 54. 1290

che ciò avvenga dopo miliardi di anni o dopo un solo giorno. Poi v’è in tale soluzione un fondamentale equivoco. La storia umana non si attua nell’umanità astrattamente presa, ma in quanto concretamente formata dai singoli individui, e le risonanze cosmiche degli eventi è nei singoli individui che debbono essere considerate. L’umanità soffre quando soffrono i singoli individui, gode quando essi godono, ecc. Va bene: dalle scoperte di Tizio, per esempio, hanno tratto vantaggio tutti gli uomini che verranno dopo. Ma a lui, morto e annullato, non ne importerà più niente. Gli altri ne godranno, ma poi morendo annulleranno tale godimento, e così via. Per ogni uomo con la morte è l’universo intero che viene distrutto.

to



Né si può pensare alla perennità del cosmo, preso in sé, indipendentemente dagli uomini. L’ordine cosmico postula che, in qualche modo, le creature inferiori siano subordinate alle superiori e in definitiva all’uomo che è al vertice della realtà vivente, come meglio vedremo in seguito. La beffa dell’annullamento sarebbe tanto più grave in quanto avverrebbe al vertice.

Ma la situazione dell’uomo nell’ipotesi della morte

acquista i colori della più intensa e fosca tragedia per qualcosa di ben più grave del solo obiettivo annullamento per lui d’ogni fruttificazione della vita e di ogni ricchezza cosmica. V’è anche nell’uomo — e solo per lui la soggettiva consapevolezza del tempo che finisce: —



130



che inesorabilmente finisce. V’è la capacità di superarlo, il tempo, di concepire e di aspirare irresistibilmente alla perennità e di vedere spietatamente stroncata tale

aspirazione. Chi sì sente di equiparare la vita umana a un grande penitenziario di condannati a morte ? Poco importa che non si tratti di una sentenza pronunciata in un preannunziato momento da un tribunale umano. Anzi molto peggio, perché ciò implica l’ansia tremenda di non avere alcun indizio del momento e del modo preciso della sentenza e dell’esecuzione e di subire l’agonia di un’attesa che a ogni momento può trasformarsi in tragedia. Tale sarebbe la situazione dell’uomo che non vuole illudersi come Clemenceau e Einstein se ci fosse la morte. Rinchiuso nella gabbia del tempo, capace di guardare al di 1à delle sbarre del breve oggi della sua vita gli orizzonti interminabili del domani solo per sentire maggiormente la pena di non poterli raggiungere, egli, incapace di chiedere a chicchessia patrocinio e perdono, starebbe disperatamente ad attendere la sua miserrima —



«

esecuzione

».

Piena giustificazione dell’« angoscia stenzialista.

»

di timbro esi-

Non si confonda questa aspirazione a perennarsi con il semplice istinto di conservazione d’ogni vivente. Anche l’animale reagisce alla morte. Non si può dire però

che esso voglia vivere sempre, perché non sa cosa significhi questa parola: «sempre ». Esso si limita a difendere, ogni istante, il suo momento presente. Non è 1l prigioniero del tempo, che mira invano, oltre le sbarre, 131

l’interminabile domani. Esso vede solo l’oggi. Anzi non lo vede: lo sente, con la semplice compiacenza del senso. Quella visione superatrice del tempo e protesa verso il domani, che inesorabilmente gli sarà tolto, è il tormento solo dell’uomo. Neanche si pensi di giustificare nel quadro della bontà e dell’ordine cosmico tale capacità umana di superamento concettuale del tempo presente e di aspirazione eterna, come un segreto naturale per stimolare l’uomo alla propria conservazione, più e meglio degli

animali inferiori. Ciò significherebbe infatti che proprio alla radice della realtà cosmica e delle sue forze conservatrici v’è l'illusione e l’inganno più crudele. *

Chi del cosmo ha una visione equilibratamente

otti-

fondata sul fatto sperimentale del suo ordine — deve respingere, come assurda, tale idea. (Chi ammetta poi l’esistenza di un Dio verace e benefico, a forziori deve respingerla). La morte dell’uomo è dunque veramente troppo crudele, per non essere assurda, impossibile. mista



Spero che il lettore non penserà ch’io stia vaneggiando, ostinandomi contro l’evidenza dei fatti, contro la legge universale più certa del mondo: la morte. La logica non s’infrange. Altre cose vedremo nei paragrafi seguenti che rincareranno la dose. Ma è già chia132

ro che affermare l’esistenza della morte umana è affermare la radicale menzogna e perversione del cosmo. E contraddicendo ciò alla bellezza del suo incontestabile ordine, va esclusa la morte. Vuol dire che quella che sembra morte — morte dissolvitrice, annullatrice — non è morte. È disfacimento del corpo umano, non annullamento dell’uomo. Vi deve il principale: che ne essere cioè un elemento umano spiega 1l pensiero e ne caratterizza la personalità — quello che già s’era librato al disopra del tempo e aveva guardato e aspirato all’interminabile domani, il quale non si annulla mai, ossia è realmente immortale ; un elemento che, dopo il disfacimento del corpo, si liberi dai ceppi del tempo e s’immerga nell’eternità, per ritrovare al di là del tempo terreno, perennati e sublimati, tutti i valori che la morte corporale aveva sembrato annullare: l’anima spirituale. Per l’anima realmente l’uomo è immortale. -—

*

tratta

d’un argomento assoluto ? Bisogna vedere cosa s'intende per assoluto. Non c’è indubbiamente il tipo di certezza dei fatti fisici e metafisici, che affronteremo nei capitoli seguenti !. Gli argomenti di questo capitolo sono di tipo morale e non Si dirà che non si

L'argomento può essere svolto, sotto certi aspetti, anche su un piano metafisico, cercando il fondamento adeguato della aspirazione umana alla sopravvivenza come fenomeno cosmico di ogni uomo e considerando l'impossibilità d’un errore intrinseco, non di questo o di quell’uomo, ma della natura umana essenzialmente intesa. Ma sarebbe una trattazione sottile e per molti forse non chiara. Qualcosa di simile e di. perfettamente chiaro vedremo invece considerando il fenomeno dell’idea. 1

133

possono condurre quindi che alla certezza morale, cioè a un genere di certezza analogo a quello con cui si giu-

dicano tante convenienti o sconvenienti situazioni umane. Ma non si può negare che anche tale certezza può dare, in determinati casi, piena sicurezza. Il giudicare, per esempio, impossibile che una ben conosciuta onesta persona abbia potuto commettere un colossale misfatto, è una certezza soltanto morale, che in certi casi può essere praticamente assoluta. Così — abbiamo detto — ripugna che questo cosmo, ben fatto, racchiuda un così colossale e crudele inganno. Del resto, se per qualcuno l’argomento riuscisse a creare soltanto una convinzione di sola probabilità circa l’esistenza dell’anima immortale, sarà già un notevole passo avanti nella soluzione del mistero, che nei capitoli seguenti verrà penetrata fino all’assoluta certezza. E già nei successivi paragrafi di questo stesso capitolo tale convinzione verrà molto corroborata.

tuttavia un elemento innegabilmente assoluto anche in questo argomento. Ed è la suddetta alternaV’è

tiva: O va negata la morte — in senso materialistico: come morte di annullamento — o si deve ammettere che la realtà cosmica è radicalmente crudele e menzognera. Può essere che qualche coscienza incline al pessimismo non riesca a vedere la sicura ripugnanza di questa seconda alternativa e voglia preferirla alla prima. Ma circa l’esistenza dell’alternativa stessa non vi può essere incertezza. La negazione pertanto dell’anima immortale, fatta da coloro che accettano la seconda possibilità, non può 134

non combaciare con una visione tetra, crudele, disperante del mondo e della vita. Il gesto ripetutamente suicida del maestro del positivismo italiano Roberto Ardigò (1828-1920) ne sembrerebbe la più logica conseguenza. Perché faticare e soflrire per il nulla ? Giacché tutto, infine, diverrà nulla Fu certo un atteggiamento assai più coerente di quello di Clemenceau, che si ostinò a vivere quasi novant’anni, inneggiando alla bellezza del nulla verso cui si avviava: « Il nulla è superiore al paradiso... Il nulla è una perfezione. Col nulla si accemoda tutto »1!; e, prossimo a morte, cinicamente, respingendo tutti: « Non ho bisogno di nessuno per accettare l’incoerenza del mondo !... Quando muore un coniglio nel fondo del bosco, suonano forse le campane ? Nel ccsmo, la morte di Clemenceau non sarà più commovente »?. Similmente l’idolatrato commediografo Sacha Guitry, che nei vaneggiamenti di morte (1957) si confortava così: « mera viglioso pubblico, debbo tutto a te »; «attenzione a entrare sulla scena al momento giusto ». Così l’ateo Gaetano Salvemini, che si raccomandò euforicamente di far sapere quanto è gioioso — gioia del nulla ? Perché allora non si suicidò ? — il morire (1957). !

La beffa degli affetti umani

Per un’incisiva conferma dell’assurdo di tale morte basta uscire dalla suddetta generica considerazione della attività umana e dei suoi frutti, e scendere a qualche più particolare analisi. 1

è

]. MARTET, Le silence de M. Clemenceau, p. 52. Clemenceau dans la retraite, p. 228. RENÉ BENJAMIN,

Cominciamo dagli affetti, ossia dall’elemento propulsore dell’operare umano. Sono le passioni e i corrispondenti affetti che muovono l’uomo. In essi si toccano le più intime vibrazioni del cuore, le sorgenti più profonde delle gioie e delle iniziative umane, le ricchezze morali più nobili e più vere. Ogni dolore e ogni privazione sono sopportati volentieri quando è appagato il cuore. Le disillusioni degli affetti costituiscono il più grande umano dolore. Amore alla famiglia, alla patria, alla scienza, alla popolarità, alle ricchezze, alla libertà, ecc. Sono i grandi sentimenti dell’uomo.

padre che lavora per la sposa, per figli. Farà qualunque sacrificio per essi. Quale letizia poter lasciare ai figlioli una bella professione e una bella eredità che li renda felici Ho visto sorridere di grande conforto, pur nell’agonia di morte, chi poteva lasciare ai figli un cospicuo possedimento, bene avviato e sicuro: «Non mi dispiace di morire... basta che vi sappia felici... 10 rivivrò nel vostro ricordo... non mi dimenticate mai... guardate spesso quel bel ritratto che vi ho lasciato... parlate di me ai vostri figli». E intorno al letto del morente 1l singhiozzo irreprimibile della risposta. Talora sono eroismi supremi. È una madre che dà la vita per figli, lieta: « perché siano felici ». E buoni figli sS'’impongono l’adempimento di coteste paterne volontà come sacro dovere, adornano di sculture la tomba del padre amato, ne espongono al centro della parete l’effige, ne conservano con commozione e riconoscenza gli oggetti personali. Ecco

1l

1

!

1

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136

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Ma tutto ciò, che ironia se c’è la morte, cioè se la morte è veramente morte, è annullamento vero, senza

una spirituale, perenne sopravvivenza Nel padre che pensa di perennarsi nei figli e nei figli dei figli non è che illusorio appagamento dell’istintivo anelito a evadere dalle sbarre del tempo e a immergersi nell’eternità. Si ammetta la morte, distruggitrice di tutto l’essere umano. Cosa ti può importare, o padre, di lasciar domani felici i tuoi figli, se fra te e la loro felicità in quel domani non vi è più alcun nesso, essendo totalmente distrutta la tua esistenza di padre e di uomo ? Non ti sei soltanto allontanato, non sei soltanto sparito dal loro sguardo sensibile, ma ti sei completamente annullato come uomo, sei stato completamente scompaginato e dissolto nella polvere di quei composti materiali di cui eri esclusivamente costituito, e sei stato già forse assorbito da quella pianta o da quell’animale. Tra te e la polvere delle sostanze materiali di cui eri composto non v’è più alcuna differenza. Il passato ormai tramontato non esiste più. Oggi esiste solo questa realtà. Quella polvere gode della felicità dei tuoi figli ? Ne ha goduto precedentemente ? E perché vuoi goderne tu che sel ormai identico ad essa; che sei stato anzi sempre, sostanzialmente, identico ad essa ? Tu parli della morte compiendo il medesimo errore di Clemenceau che, senza accorgersene, sottintendeva 11 proseguimento di quella personalità propria, di cui negava la sopravvivenza. Ma invece essa è completamente distrutta e tu, come polvere, sei diventato completamente estraneo ai tuoi !

137

assolutamente più nulla: come a quella terra non importa assolutamente nulla di loro. figli e non te ne deve importare *

Non mi rispondere che tu non pensi minimamente di godere dopo, ma godi ora del dopo dei figli. Perché proprio qui sta il tragico inganno. Quel « dopo » ti può interessare in quanto abbia una qualche relazione — diretta o indiretta, anche minima con te: ossia — essendo un « dopo » che riguarda 1 figli — in quanto tu possa mantenere un legame coi figli. Ma invece tu ti dissolvi come persona umana, anzi addirittura come vivente. Viene quindi a mancare per tale legame uno dei due termini, e il legame stesso è reso assolutamente impossibile. Fra il tuo presente, il tuo passato e il tuo futuro, finché sei in vita, c’è il legame di continuità della tua persona — fatto sperimentale, benché inesplicabile, nell’ipotesi materialista —; ma dopo la morte essa sarà distrutta e tu avrai perso ogni relazione sia col passato che col futuro, e l’avrai persa in modo totale e assoluto. È solo per tale legame che in vita si può rigcdere delle consolazioni passate e pregustare quelle future. Tolto che esso sia, 1l conforto a distanza non può avere che -—

una consistenza puramente fantastica e illusoria. È illusoria quindi anche la tua gioia attuale di pensare che domani figli penseranno a te, quando in quel domani non ne potrai avere alcun piacere, né diretto né indiretto, né mediato, né immediato, per il semplice fatto che non esisterai più. 1

L’unica conseguenza veramente

logica e terribile della prospettiva della morte annullatrice non è che il 133

dispetto e la disperazione per la vecchiezza e la morte stessa che s’avvicina e l’invidia livida di vedere i propri figli prendere il loro posto nel teatro fugace del-

l’esistenza. La ferocia di Erode il Grande (sotto il cui regno giudeo nacque Gesù) che vicino a morire pare facesse dispettosamente rinchiudere nell’ippodromo molti insigni giudei, con l’ordine di trucidarli subito dopo il suo trapasso, non manca di una reale, benché tremenda spiegazione psicologica.

meno grottesca è, in tale ipotesi, la reciproca deli figli per la memoria del padre, l’onore al 11 monumento sepolcrale, la riconoscenza suo ritratto, 1 11 beni ereditati, rispetto delle sue ultime volontà, per ecc. Grottesca per l’illusione che tutto ciò suppone e alimenta, di essere ancora in qualche modo in relazione con lui. Essi hanno l’impressione di offenderlo, altrimenti: offenderne la memoria, cioè lui. Ma si può offendere una persona, non un muro, un sasso, un po’ di terra: ed egli non è ormai né più né meno di questo. A lui non importerà proprio niente di quello che i figli faranno, per 1l semplice fatto che non esiste più. E se per tale ragione a lui non importa, non deve importare nemmeno a loro. Additeranno il suo ritratto e oseranno dire: questo è nostro padre. Sarebbe come dire, guardando quel mucchio di sassi: questo è nostro padre. Insisteranno: era così. Benissimo. E ciò avrebbe ancora indubbiamente valore se col passato di lui restasse un essenziale elemento personale di continuità: ossia un’anima che ebbe



venerazione

|

1359

così stretta relazione con quel corpo. Dopo il totale annullamento invece cotesto riferimento all’antica fisionomia umana sa di macabra commedia. Direbbe nessuno, indicando la giacca che un tempo indossò 1l babbo: questo è mio padre? Ma almeno la giacca sarebbe un qualcosa che resta del passato; mentre quella fisionomia, assolutamente, no: è diventata un pugno di fango.

Solennemente eleveranno sopra quell’urna suntuosi monumenti e davanti incideranno la storia di quell’uomo ormai dissoltosi come un fantasma e vi porranno l’effige, estranea completamente al contenuto. Scrivano fuori invece chiaramente e obiettivamente: « Qui sono racchiuse alcune sostanze chimiche che un tempo compirono il curioso fenomeno di organizzarsi in forma d’uomo, di generare altri uomini, quali siamo noi, e di parlare. Essendo ora divenute, per 1l loro stato di corruzione, nauseabonde, son qui ben sigillate perché non diano disgusto a nessuno. I figli han pensato bene di farlo loro, non essendovi altri che se ne sarebbero interessati ». Benché ciò costituirebbe ancora un qualche residuo di illusori pregiudizi. La soluzione più coerente sarebbe stata di buttar tutto in una fogna, come la carogna di un animale, e non pensarci più. Se ci si vuole ostinare a credere all’annullamento di morte, a negare cioè l’anima immortale, tali sono le logiche conseguenze: o cotesta vergogna di sentimenti o la più grottesca illusione. Questo è l’universo: perversione e menzogna, al posto dei più intimi e nobili sentimenti dell’uomo. E ciò senza ombra di pessimismo. Non è che la più evidente realtà: ove non si ammetta la sopravvivenza dell’anima. 140

Non parliamo nemmeno di quella commedia che sarebbe 1l sentimento patrio. L’ironia di un soldato che dà la vita per il suo paese: e che la dà eroicamente! Poi gli si conferirà la medaglia «alla memoria » e se ne inciderà il nome nel monumento ai caduti. La cerimonia si svolgerà magari col tono ancor più drammatico ed espressivo dell’appello al nome; e il pubblico fieramente risponderà per lui: « presente! ». Un brivido di cuori. Gli occhi degli antichi commozione scuoterà compagni si inumidiranno. Ma non capisci, soldato mio, che se non hai l’anima, finito te è finito tutto? Quindi dammi retta: quando vedi 1l pericolo, fuggi lontano. Che te ne importa della sacra terra del tuo paese? e del tuo popolo? Prima di tutto non è sacra per niente, perché non si tratta che degli ordinari composti chimici: tanto la terra che 1 suoi abitanti. E poi vale molto di più la terra vivente e senziente che sei tu e il piacere che frattanto puoi provare. Annullarsi per la patria e per gli altri: ma questo è il colmo! E chi te lo può mai imporre? E quale compenso adeguato te ne potrà mai essere dato? Un’invasione, la schiavitù dello straniero, altre sciagure simili della patria non sono annullamento, non sono totale distruzione. Ma la morte in guerra per te è annullamento. Ascolta quel furbo di Ernesto Renan, (1823-1892): « Mio povero amico, godi del mondo come è fatto... Colui che si fa uccidere per qualsiasi ragione è l’imbecille per eccellenza » 1. Quando poi si darà la medaglia alla tua memoria è una tragica farsa che si compirà. Si darà la medaglia al nulla! E perché, come al solito, non obiettino che prima 1

1

yames philosophiques. L’eau

de

Jouvence (1888). 141

esistevi, bisogna ricordare che allora sarà precisamente come se tu non fossi mai esistito. L’apice del grottesco è poi quell’appello al tuo nome e la solenne risposta di qualcuno in tua vece. Mi fa pensare alle gherminelle scolastiche in cui qualcuno risponde all’appello per uno che non c’è. Ma lì almeno si risponde per uno che esiste. Qui si fa l’appello del nulla, in rappresentanza di tale nulla si risponde, e tutti stanno a capo chino commossi e riverenti davanti al nulla. Talora si fa anzi un minuto di silenzio: a pensare al nulla.

E che dire della ambizione di passare alla storia, delle lapidi alla memoria degli scienziati, dei solenni

centenari ? Si ricordino pure le loro scoperte: sarà utile per viventi. Se si vuol sottolineare che 1l proprio paese è un clima favorevole alla nascita di quei pederosi cervelli, si canti pure la gloria del proprio paese. Ma a che pro rifare la stceria dello scomparso e inneggiare a lui che non esiste più ? È una bell’ironia iniziare l’esistenza eterna del marmo, al posto di quella dissolta della carne viva: una esistenza di pietra, quando la vera esistenza è completamente finita E così per tanti altri sentimenti e attacchi del cuore umano. Se l’anima non c’è, è un’illusione, è una beffa. 1

!

deli 142

Insistono che le celebrazioni si fanno più per motivo vivi che per gloria del defunto.

Con certe mentalità lo credo benissimo. Ma ciò significa confessare il più organizzato inganno. Ed è interessante e impressionante notare infatti l’intensificarsi di tali commemorazioni proprio in quegli ambienti e in quei paesi in cui, per la netta pregiudiziale materialista, l’inganno è indiscutibile: l’inganno di sostituire la negata sopravvivenza vera con una sopravvivenza pura-

mente fittizia. Nel grande affresco absidale ! del Pantheon di Parigi è la famosa cavalcata della gloria, che vuole esprimere nel suo ritmo ascensionale l’apoteosi dei grandi luminari ed eroi francesi. Nella cripta fu deposto — come reliquia — in un vaso prezioso il cuore di Leone Gambetta (1838-1882), trasportatovi nel 1920 con gran pompa. Vi sono venerate le tombe dei più celebri rappresentanti della miscredenza ottocentesca, come un Emilio Zola (1840-1902) e un Giovanni Jaurès (1859-1914). Il sarcastico sorriso di Voltaire (1694-1778) è perennato nella statua in bronzo eretta nella cripta stessa, accanto alla sua tomba. E questa è dedicata nientemeno, con solennissime lettere in bronzo, tanto per creare un richiamo di divina perennità e grandezza, senza nominare Iddio a cui nessuno credeva, ai fantastici diaz Man di pagana memoria, a cui ugualmente nessuno credeva: « Aux manes de Voltaire. L’Assemblée Nationale a déle crété 30 may 1791 qu’il avoit mérité les honneurs dus aux grands hommes ». Anche Gian Giacomo KRousseau (1712-1778) è ivi perennato molto dinamicamente, perché un bassorilievo del frontone della tomba la rappresenta socchiusa, tanto da dar passaggio alla mano del « Grande » che impugna una face con cui seguita a illuminare il mondo. Lì non si capisce bene perché, una 1

È del

pittore Enoarno

DETATLLE

(1848-1912). 143

volta che usciva la sua mano, non fosse uscito addirittura tutto intero: ma sono particolari secondari... Se vogliamo tornare un momento a Clemenceau, ecco che mentre egli — a suo dire — morendo si annullava, come « un coniglio che muore nel fondo del bosco », in compenso il suo nome veniva perennato e inciso — insieme a quelli di Poincaré e Foch sui muri di tutti i municipi e di tutte le scuole di Francia. Tutte proclamazioni imperiture, tutto un perennarsi di vuote parole, a gloria di chi si ritiene risolto nel nulla! Nei paesi attualmente dominati dal materialismo comunista più radicale sì parla continuamente dell’eterna riconoscenza del popolo ai soldati e ai pionieri caduti per esso, ai capi morti e viventi, e — oltre agli innumerevoli monumenti — le strade, le piazze, le città intere hanno cambiato di nome per perennarne la memoria. —

Un inganno. Ma anche un segno che questo protendersi «al di là » del tempo è una specie di necessità per dare consistenza ai più fondamentali sentimenti umani. Quindi, nuovamente: o il cosmo è davvero essenzialmente permeato d’inganno e di beffa, o quest’« al di 1à » esiste. Ma può mai ammettersi questo inganno cosmico così enorme ed essenziale

?

E allora l’anima immortale esiste. L’ironia della virtù

Siccome la virtù è ordine e l’ordine è un bene, è presumibile che, se tutti la seguissero, il benessere sociale

complessivamente aumenterebbe e, in definitiva, tornerebbe a vantaggio di tutti. 144

Però tale complessivo miglioramento non sarebbe immediato, né riguarderebbe tutti gli aspetti della vita. Presumibilmente esso non potrebbe aversi che come effetto di rinunzie immediate, talora anche notevolissime, specialmente di alcuni. È questa infatti la legge degli organismi perfetti, ma limitati, che non possono realizzare la prosperità del tutto che a costo del sacrificio di qualche sua parte. Così, per esempio, in un organismo umano anche sanissimo l’utile sviluppo culturale richiederà, per l’onere dello studio, un qualche sacrificio dei polmoni e dei muscoli, ecc. Nell’organismo sociale il provvido moltiplicarsi, per esempio, dell’assistenza sanitaria imporrà un più impegnativo e faticoso lavoro al personale addetto, l’accrescersi delle esigenze scolastiche imporrà maggiori oneri agli insegnanti e agli alunni, e così via. L’adempimento delle virtù sociali, anche nella migliore ipotesi che fossero attuate da tutti, si presenta quindi condizionato alla legge immediata del sacrificio. Non è che un’estensione, al piano sociale, di cotesta stessa legge ben nota per le virtù personali. Ma, di fatto, tale ipotesi è ben lontana dal realizzarsi. L’esperienza insegna che esiste una massa d'individui ben lontana dall’adempimento della virtù, che si preoccupa soltanto del proprio immediato tornaconto, mirando egoisticamente a ottenerlo, a costo di qualsiasi inganno, violenza e sopraffazione. Che sarà quindi di quei poveretti che non intendono imitarne i sistemi? Al sacrificio già insito nell’esercizio delle virtù — anche se fossero praticate da tutti — si aggiungerà quello derivante dalle altrui sopraffazioni, di cui diverranno talora facili vittime. Come impedirlo ? Nell'ipotesi della morte dissolvitrice è possibile impedirlo ? Possono essere efficacemente 145

confusi e condannati i sopraffattori, incoraggiati e ricompensati gli oppressi ? E, prima di tutto, possono i cattivi essere convinti di cattiveria ?

Per rispondere e giudicare gli egoisti e 1 sopraffattori, per valutare e additare il bene e il male morale non basta ascoltare l’istintiva voce di condanna della coscienza. Bisogna vedere su quali fondamenti obiettivi e quindi reali essa si fonda. La regola morale riguarda la vita privata e pubblica nella realtà: deve avere quindi dei fondamenti reali. Se questi mancassero, potrei temere che la voce della coscienza fosse un inganno. E se fosse un inganno dovrei trascurarla: anzi, come intrusa, dovrei soffocarla, con sdegno. Si neghi ora, per ipotesi, l’anima e la vita futura. Si riduca tutto all’effimero trascorrere della vita terrena. Dopo la morte, 1l nulla. Frattanto, finché si vive, due sentimenti dominatori: piacere e dolore; e due movimenti corrispondenti: attrattiva e ripulsa. Ogni piacere oggi perduto — perduto cioè nella vita terrena — è irricuperabile, mancando ogni possibile compensazione nella negata vita futura (come ogni dolore è un irrimediabile passivo). Perché dunque si dovrebbe perdere? A pro di chi? A vantaggio di che? Per riguardo a cosa ? A pro degli altri no, perché essi sono pura materia organizzata come è ognuno di noi e si ridurranno domani a un puro mucchio di polvere come noi: sicché siamo perfettamente alla pari e non v’è alcuna ragione di sacrificare noi per loro. Per il bene sociale ? Ma la società è fatta d’individui e torna l’argomento di prima della preferenza per il bene proprio: il quale, immediatamente parlando, è il piacere. Tutto va dunque subordinato al 146

piacere proprio. Per riguardo alla legge morale? Ma dove sta questo principio astratto, chi l’ha messa que-

sta legge ?

Perché sacrificarsi per tale principio astratto? Forse perché si presenta alla coscienza con la voce imperiosa e assoluta del dovere? Ma, mancando l’anima, cotesta imperiosa voce è priva di adeguato fondamento oggettivo, essendo la persona ridotta alla mutabilissima materia, e non può interpretarsi che come illusione o, comunque, come una cosa molto meno sicura del concreto immediato godimento. Né, senza sopravvivenza, è ammissibile quale fondamento estrinseco il legislatore divino: chi non crede allo spirito umano non crede in Dio. E a ogni modo non sarebbe un Dio temibile, mancando la vita futura per la sanzione. Poi, perché sacrificarsi, mentre tanti altri non lo fanno? Ci vuole tutta la buona e ingenua volontà di Emanuele Kant (1724-1804) per contentarsi dell’imperativo categorico del «dovere» — come elemento « a priori » della moralità — e darne in questo modo la prima solenne formulazione: « Agisci in modo che la massima della tua azione possa sempre valere al tempo stesso come principio universale di condotta » 1. Ma perché mai, mentre tanti altri non fanno così e 10, a farlo, ci rimetto ? I più logici diranno: finito me, finito tutto. La mia legge morale non sarà quindi che quella del mio comodo e del mio piacere, qualunque sia il danno degli altri, i quali so bene che tenteranno di fare lo stesso verso di me. Che i posteri mi maledicano o mi benedicano, che me ne importerà quando sarò annullato? E quindi, anche ora, che parlino bene o male di me, che me ne im1

Fondazione della metafisica dei costumi, cap. 2, par. 6. 147

porta? E che gli altri soffrano che me ne importa, visto

che se non soffrono loro debbo soffrire o godere meno io? L’unico freno al mio egoismo non potrà essere che la reazione altrui e la sanzione delle leggi positive della società in cui mi trovo. Cercherò di eluderle: e tutto

sarà sistemato.

È vero che questa impostazione di vita impedisce un conforto e un piacere più alto: quello che ognuno esperimenta nel fare il bene, nel seguire la voce della coscienza. Ma per sentirlo veramente bisogna essere convinti che tale voce non sia un'illusione. E bisogna non aver preso l’abitudine di ascoltare e seguire invece la voce più palpabile, immediata e sicura del tornaconto e del sensibile piacere. S. Paolo non dubitò un istante di proclamare la stoltezza e l’infelicità di coloro che si sacrificano in terra per un ideale ultraterreno, che fosse illusorio: « Infatti se 1 morti non risorgono... se noi non abbiamo speranza in Cristo altro che in questa vita, siamo i più miserabili di tutti gli uomini... E noi pure, perché ci esponiamo a pericoli ogni momento?... Mangiamo e beviamo, ché domani moriremo » 1. Federico Nietzsche (1844-1900) cinicamente, ma coerentemente, accettò in pieno quest’ultima soluzione, proclamando la grandezza del « superuomo », che ha il pieno « senso della terra » e vive l’intensità « dionisiaca » delle proprie passioni, senza alcun freno di morale e di religione, sospinto da indomita « volontà di potenza », schiacciando senza pietà i più deboli, che vi si oppon-

I] 148

Corinti, 15. 16-32.

gono: «A nulla di ciò che esiste si può rinunciare, di nulla si può fare a meno; gli aspetti della vita negati dai cristiani... stanno infinitamente più in alto, nella gerarchia dei valori, di quelli che l’istinto di decadenza può approvare, stimare buoni... Chi non solo intende il significato della parola dionisiaco, ma anche vi ritrova sé stesso, non ha bisogno che gli confutino... il cristianesimo...: egli (ne) sente all’odore la putrefazione » 1. « Mi si è compreso? Dioniso contro il Crocifisso »?. «Esiste una vecchia follia che si chiama bene e male. Non devi

rubare! Non devi uccidere! Tali parole si chiamavano sante una volta; si chinavan dinanzi ad esse le ginocchia e la testa, e si levavan le scarpe. Ma 10 vi chiedo:...

Non è forse nella stessa vita, rubare e uccidere ? » 3. Il marxismo bolscevico ripete una versione classista del « pieno senso della terra » nietzscheano, e del rifiuto di ogni mortificazione virtuosa, in vista d’un «al di là », înneggiando al « paradiso in terra ». Ecco il Bezboshnik * dell’ottobre 1937: « Così Dio non esiste più... Lenin e Stalin sono discesi sulla terra e tutti hanno cominciato a vivere nella felicità ». E Leone Trotzki (1879-1940) — in ciò bolscevicamente ortodosso —: «La fondiglia di tutte le confessioni religiose può dirci a suo talento delle storie sul paradiso di un altro mondo; noi dichiariamo di voler creare per la razza umana un paradiso reale su questa terra » Come già Nicola Lenin (1870-1924): il Bolscevismo « pre®.

Ecce Homo 1888), c. III. 1

2 3



Come si diventa ciò che si

è

Ivi, a chiusura del libro. Così parlò Zarathustra, cap. delle antiche

(Autobiografia, e

delle nuove

tavole. +

è

Il Senza-Dio. La vie intellectuelle, Paris, ott. 1928. 149

para l’operaio alla vera lotta per una migliore condizione terrestre e lo libera dalla fede nella vita futura » !. E così tutta la tradizione e la logica marxista, fino a Oggl.

*

Ecco due cani addosso a un osso. Ognuno vi s’avventa sopra e cerca di strapparlo all’altro. Perché non dovrebbero farlo? La concretissima realtà presenta l’osso come un piacere — la cui attrattiva è l’unico stimolo alla loro iniziativa — e l’altro pretendente come un ostacolo a tale piacere. Dunque un morso all’altro per cacciarlo e un morso all’osso per prenderlo. E v’è nel cane l’impossibilità di fare un ragionamento, essendo fissato dal senso all’immediato oggetto che l’appaga. Per l’uomo, che sa domani di annullarsi, sorge prati-

camente, nonostante la capacità astrattiva e ragionatrice, l’identico fissamento al momento presente, al piacere presente. E il ragionamento gli servirà anzi a fissarvisi più risolutamente, comprendendo bene che una vita che finisce vale quanto i singoli istanti che finiscono: guai a perdere la loro offerta di piacere! Perciò: « Homo homini lupus »?: l’uomo è un lupo per l’altro uomo.

Si suol dare alla vigilia dell’esecuzione capitale un bel pranzo al condannato. Sta per finire la vita: almeno goda in quel momento. Chi ammette la morte annullatrice deve considerarsi come un condannato a morte a cui non resta che attingere più che può, nella breve giornata dell’esistenza, alla mensa della vita, strappando la porzione a chiunque altro gliela contenda. !

Della religione.

*

PLAUTO,

del filosofo 150

Asinaria, atto II, sc.

TommMAso

4, v. 88.

HorBEs (1558-1679).

Fu il motto anche

*

V’è una sensibilità particolare della coscienza umana

per la lealtà, per la fedeltà alla parola data. Ma perché gli uomini, animati dalle predette convinzioni, dovrebbero servirsi della parola per dire la verità e dovrebbero sentirsi impegnati a mantenere le promesse fatte? Se non vi saranno coercitivamente obbligati, essi troveranno logico di dire la verità e di prestar fede alla parola data soltanto nel caso che torni loro comodo. Se ne serviranno anzi per ingannare il più abilmente possibile, a tutto loro vantaggio: nei contatti sociali, nella professione, nel commercio, nella politica. *

E così deve essere anche degli organismi sociali e politici, regolati dalla concezione materialista. I

trattati

?

Pezzi di carta!

La sopraffazione, la lotta violenta ed egemonica di classe (marxismo), o di razza (nazismo), l’odio ideologico e politico contro gli avversari ? Forme normali della dialettica storica. Ecco N. I. Bucharin: « La violenza è cosa sacra » 1: «odio di classe... l’amore cristiano che si rivolge a tutti, persino al nemico, è il peggiore nemico del comunismo »?. A. V. Lunaciarski (1875-1933): « Dobbiamo imparare a odiare, con questo mezzo arriElena Iswolski: « La veremo a conquistare il mondo crudeltà del Bolscevismo non è collera e non è frutto »®%.

Documenti della rivoluzione (russa), Milano, Ed. Avanti, 1920, II, p. 21. 2 Pravda, 30 marzo 1934. Quattro anni dopo ne faceva l’esperienza, giustiziato come trotzkista. 3 Citato nella Revue des deux Mondes, 1 gennaio 1937 da Bivort de la Saudée. 1

151

di passione: è la crudeltà fredda, impersonale, della macchina, della sedia elettrica, per esempio » 1.

La menzogna ? Arma legittimissima quando serve ai propri fini. Del resto, in linea generale, non avrà senso il concetto del « mezzo illecito » per chi non riconosce per il suo operare alcuna legge superiore — alla luce dell’anima eterna e di Dio — e varrà sempre il machiavellico principio che il fine giustifica mezzi. Ecco E. Preobraceski: « Ciò che serve alla lotta delle classi, perfino la menzogna, il tradimento, l’impurità, assolutamente tutto, diviene all’istante santo e sublime »?. 1

tutti gli uomini seguiranno coscienza è un fatto speLa della voce questi principi. rimentale che non può non influire nel comportamento pratico di molti. Essa è sostenuta dalle dottrine spiritualiste e religiose ancora molto diffuse nel mondo. Avverrà dunque di essi ciò che giàsopra ho accennato. Saranno destinati a subire durissime sopraffazioni. Se non avranno doti veramente eccezionali per imporsi, o talora anche avendole, resteranno sacrificati nella carriera. Nella vita soffriranno di più, godranno di meno. Ricchezze, onori, comodità agli ambiziosi, egoisti, cattivi. Povertà e dimenticanza ai più umili, onesti, Ma naturalmente non

generosi.

Quanto poi alle persone consacrate a ideali religiosi umanitari altissimi, come Sacerdoti, Missionari, Suore di Carità, ecc. che consumano la loro vita a totale bene-

e

L’Homme 1936 en Russie Soviétique, citato da Parodi, Il Bolscevismo, Milano, Alfieri, 1943, p. 19. ° In: MANACORDA, Il Bolscevismo, Firenze, Sansoni, 1940, ’

p. 94, 114. 152

ficio altrui, esse saranno sottoposte a privazioni di ogni

genere, a persecuzioni, carcere, esecuzioni capitali. Le vicende contemporanee insegnano. *

Ironia della virtù! Strumento di sopraffazione e di e di rinunzie, sofferenze e sconfitte per chi la segue. Tale la spaventosa situazione della vita umana, di fronte all’ipotesi della morte annullatrice. Che 1il quadro della situazione non sia talora, anche nel mondo materialista, così tetro, lo si deve all’incoerenza dei suoi seguaci e allo spirito cristiano che permea, quasi inconsapevolmente, tanti settori del costume civile. Ma la portata dell’ipotesi della morte — della morte totalmente annullatrice — la sì deve vedere nel quadro della piena coerenza. Che è quella suddetta.

vittoria per chi l’irride

*

Ci si rifiuta di credere che la realtà cosmica, pur così ordinata e bella in tante sue naturali manifestazioni, possa abbrutirsi fino alla logica giustificazione della più

violenta perversione umana? Ci si rifiuta di ammettere che quel cosmo che riposa nella profonda serenità della notte stellata, che sorride all’aurora, che vibra fulgente al meriggio, che rosseggia al bacio del tramonto, quel cosmo dal cui seno si sprigiona il profumo del giglio e lo splendore della rosa, l’occhio incantato del bimbo e la mano operosa della mamma, il cuore generoso e 1l cervello pensante, ci si rifiuta di ammettere che cotesto mirabile ordine, proprio all’apice della sua manifesta153

zione, che sono le relazioni umane, crolli nella crudeltà dell’umano egoismo, dell’odio e della sopraffazione e si contamini nelle tenebre dell’inganno ? Allora bisogna proclamare l’assurdo della morte, la impossibilità cioè dell’annullamento umano, la realtà dell’«al di 1à ».

Bisogna ammettere l’esistenza e la sopravvivenza dell’anima umana, ossia quella vita futura, dove i bilanci morali sconvolti dalla malvagità umana saranno conchiusi e riparati, il vizio e la sopraffazione saranno puniti, le prove sofferte e le virtù saranno premiate, dove cioè l’ordine sarà pienamente reintegrato e impreziosito — rispetto all’ordine puramente materiale — dai valori della prova subìta e del merito: mentre d’altra parte, durante la prova terrena, il vizio e la virtù, nella visione della vita eterna e della sanzione, acquisteranno consapevolezza e rispettivamente freno e incoraggiamento.

154

IMMATERIALITA

E

SPIRITUALITA

Al di sopra della materia

Prima di affrontare, dopo i precedenti argomenti per assurdo » — di tipo morale — gli argomenti decisivi « diretti » — di tipo fisico e metafisico — della nostra indagine bisogna accuratamente precisare il concetto di spirito, ossia l’oggetto della nostra indagine stessa. Salvo qualche accenno, qua e 1à, finora si è lasciato infatti in discreta penombra il contenuto essenziale di tale concetto e specialmente la distinzione fondamentale tra 1:mmaterialità e spiritualità. Ma ora che la nostra ricerca sta per raggiungere le prove più rigorose, la precisazione è indispensabile 1, Si trattava, innanzi tutto, di spezzare gli arbitrari confini in cui eravamo tentati di chiudere la realtà cosmica, 1 confini della sola materialità. Nel capitolo precedente questo superamento di confini si è prospettato, in forma dilemmatica, come netta prospettiva dell’« al di là» e quindi dell’anima immortale. Bisogna ora ben chiarire che cotesta realtà immortale — che per contrapposizione alla materia si chiama «

A tale scopo sarà necessaria qualche distinzione e analisi filosofica, che potrebbero riuscire fuori dell’abitudine mentale di qualche lettore e un po’ faticose. Tali lettori potrebbero allora sorvolare su questo capitolo, essendo sostanzialmente sufficiente la valutazione intuitiva dei concetti che diremo. 1

155

spirito se veramente esiste, implica qualcosa di più che il puro fatto dell’immaterialità. O meglio, l’immaterialità può essere intesa come un generico superamento della materia di cui la spiritualità esprime uno speciale grado: 1l più alto. Può concepirsi cioè un’anima immateriale, di grado inferiore, che non sia spirituale. —

*

Questo fatto, che sembra creare una complicazione nella complicazione e rendere ancora più arruffato il nostro problema, non deve sorprendere. A prima vista — è vero — la cosa desta meraviglia. Non basta dunque il gradino dell’immaterialità? Ne dobbiamo ammettere anche un altro? O meglio, vi sarà nel dominio stesso dell’immaterialità una diversità di gradi? La risposta non può non essere affermativa e, a ben riflettere, non solo non deve sorprendere, ma dovrebbe anzi altamente sorprendere il contrario. Immaterialità (cioè: non materialità) o supermaterialità (cioè: sopra, oltre la materialità) significa infatti negazione e superamento del confine delle realtà puramente fisico chimiche, ossia materiali. Ora, se veramente la realtà cosmica si estende al di 1à di tale confine, perché tale « oltre confine » dovrebbe essere di un tipo solo ? Si sa quanto vasta sia la scala delle perfezioni cosmiche, entro i confini del mondo sensibile. Perché tale scala non dovrebbe moltiplicare 1 suoi gradini anche al di 1à? Trattandosi d’un proseguimento della scala cosmica in un ordine di realtà più alto e più nobile, limitato inferiormente dalla materialità, ma privo di limite superiormente, sì è anzi indotti a pensare a una sua possibile 156

estensione, progressivamente ascendente, assai più vasta di quella stessa nota dell’ordine materiale. Si può pensare cioè che al di là della pura materia e della pura energia materiale avvenga un qualcosa di simile a ciò che avviene al di qua, per esempio, nel campo della visibilità. AI di fuori del minimo settore visibile delle lunghezze d’onda, si è oggi scoperto il campo immensamente più vasto delle altre reali radiazioni. Così, appena superati limiti dell’ordine materiale, è prevedibile che ci attenda una varietà ed estensione della realtà cosmica supermateriale, immensamente più vasta della materiale. Per coloro poi che credono all’esistenza di Dio non v’è dubbio in proposito, perché l’apice della realtà immateriale è addirittura la trascendente e infinita essenza divina. 1

Immaterialità

e

semplicità

Qualunque sia tuttavia la varietà dell’ordine cosmico immateriale, una qualità comune deve evidentemente caratterizzarlo, fin dal primo gradino: quella della così detta semplicita, intesa in contrapposto alla composizione di parti quantitative !. Nella filosofia aristotelico-tomista la moltiplicazione degli individui della stessa specie o delle parti quantitative del me1

desimo individuo si spiega metafisicamente con la complementarità dei due comprincipi essenziali uno potenziale (ragione della divisione) e uno attuale (ragione dell’unità), che hanno i celebri nomi di: « materia prima» e «forma sostanziale ». Sicché nelle sostanze in cui manchi la composizione quantitativa, manca anche questa composizione di parti metafisiche: ossia la semplicità fisica si congiunge ed è radicata nella semplicità metafisica. Ma sono concetti di difficile astrazione, che richiedono molta meditazione per essere penetrati e non confusi con i suggerimenti immediati della fantasia. :

157

Per materia infatti s’intende tutto ciò che rientra nell’ordine fisico chimico — compresa anche l’energia, evidentemente — ed è quindi quantitativamente misu-

rabile.

-

Dire ordine materiale o quantitativo è la stessa cosa. Ora dove è quantità è divisibilità (almeno concettuale). In ogni minimo di materia posso sempre o segnare o almeno pensare un punto intermedio tra le due parti in cui essa ne risulta divisa. Ciò anche nella vecchia e tramontata concezione degli atomi indivisibili di Leucippo (v s. a. C.) e di Democrito (v-1vs.a. C.). Ciò anche nei corpuscoli atomici e nucleari di moderna concezione, appena si attribuisca loro una qualunque individualità materiale, ossia una anche minima massa ed estensione. Così anche per l’energia materiale (nella quale v’è chi pensa di poter risolvere la stessa materia). Anch’essa è quantitativamente misurabile e divisibile,

almeno concettualmente. La corpuscolarità dell’energia radiattiva 1, secondo la teoria dei « quanti », crea una considerazione analoga a quella degli atomi materiali di antica memoria. Vi sì può sempre pensare una parte e un’altra parte della sua quantità. E sarebbe ingenuo supporre che tale divisibilità non abbia significato perché non sperimentabile, come è ingenuo affermare (salvo a titolo puramente convenzionale) che fisicamente non esiste ciò che non è misurabile, come si è osservato a suo tempo. Ove pertanto manchi la quantità materiale, è tolta la possibilità e concepibilità stessa di qualunque com1

È comune l’equivoco di estendere tale ipotesi della discon-

tinuità a tutta l’energia, mentre riguarda solo le radiazioni e l'ordine corpuscolare. L’energia cinetica macroscopica è un fatto realissimo e certamente continuo per la continuità dello spazio e

del tempo.

158

posizione e divisione di parti fisiche 1, Siamo cioè imme-diatamente nel campo delle entità, che giustamente si possono dire «semplici », per indicare l’esclusione di qualunque composizione quantitativa. La parola va intesa infatti nel senso stesso del comune linguaggio con cui si esclude la molteplicità di parti o ingredienti di una certa cosa, come per esempio quando si dice foglio semplice anziché doppio (etimologicamente « semplice » viene da sem, «uno», e dal tema di plectere, «intrecciare», e di plicare, «piegare», come ciò che ha «una sola falda»).

Il primo incontro con la realtà immateriale

lo fa-

cemmo guardando genericamente l’ordine dell’universo, che ci sembrò non poter sgorgare dalla materia, in quanto tale. Però ciò non ci condusse ad affermare l’esistenza di alcuna entità unitaria, comune e immanente ai corpi stessi ordinati. Il fatto dell’ordine cioè, solo meccanicamente inteso come giustaposizione razionale degli elementi cosmici, a volerne cercare un principio unitario, non può che richiamarci a un’intelligenza ordinatrice esterna, come l’abile congiunzione delle parti di un ingranaggio richiama al suo artefice. L’ordine così prospettato si presentò cioè con un carattere di passività, rispetto agli elementi ordinati, come ricevuto puramente dal di fuori, dove soltanto poteva cercarsi 1l principio immateriale e quindi semplice che ne era la causa. Fu invece riflettendo, in particolare, all’ordine del vivente che c’imbattemmo per la prima volta in un principio attivo, immanente al corpo vivente stesso, capace 1!

E anche metafisiche, nel senso accennato nella n.

1,

p. 157. 150

di dare ragione immediata del vitale svolgimento di esso: principio immateriale ossia superiore alla materia, perché dalla materia — indifferente all’ordine — non può sgorgare tale capacità di ordine: anima del vivente, in quanto vivente, anima vegetativa. Poi incontrammo un principio immateriale più alto: ragione della vita sensitiva. Poi trovammo il fenomeno, ancora superiore, della vita intellettiva, che dovrà pure avere 1l suo adeguato

principio.

Tutto questo, anche per chi lo ammetta solo in linea

ipotetica, permette di chiarire 1l concetto di « semplicità quantitativa» in relazione da un lato alla «immaterialità » e dall’altro alla «spiritualità ».

Fermandoci al primo gradino suddetto di principio immateriale, al principio attivo cioè che eleva la materia al meraviglioso finalismo dell’organizzazione vivente, è certo che, se esso esiste, essendo al di sopra della materia, deve essere «semplice », ossia quantitativamente indivisibile e quindi anche quantitativamente inesteso. E ciò per la ragione suddetta che la divisibilità è la caratteristica della quantità materiale e può esservi soltanto in ciò che è materia; mentre tale principio è animatore della materia, ma non è materia : è animatore anzi, precisamente, perché la supera !. Secondo la sottile metafisica aristotelico tomista anche il comprincipio metafisico attualizzatore di ogni essenza corporea inanimata — « forma sostanziale » (cfr. n. 1 di p. 157) — è, per sé, semplice, perché mentre esso è principio attuale e unificatore dell’essenza corporea, la potenzialità e divisibilità, caratteristica della materia, è tutta radicata nell’altro complementare principio metafisico: la cosiddetta « materia prima»; ma non !

160

Ed è chiaro anche che la sua entità, benché affermata dall’intelligenza, non potrà essere ricostruita dal-

l'immaginazione, per l’incapacità di questa di fissarsi in ciò che non è materialmente esteso.

Ma qui sorge la più tipica difficoltà concettuale. Come può un principio inesteso — perché quantitativamente semplice, cioè indivisibile — essere immanente e animare il vivente che è materialmente esteso ? La difficoltà nasce dal considerare l’influsso di tal principio alla stregua di una qualunque energia materiale che agisce sulla materia e dal dimenticare che si tratta invece di una entità superiore, che trascende cotesto ordine energetico fisico chimico. Chiaro inganno della fantasia. Ciò che trascende la dimensionalità quantitativa non ripugna che agisca nel piano inferiore quantitativo, senza far combaciare, per così dire, quantità a quantità,

estensione a estensione. Un lontano paragone si può prendere dal piano stesso quantitativo. Il potenziale di un conduttore elettrico con tante derivazioni, determina l’erogazione di corrente in tutti i conduttori che si dipartono dalla intera sua lunghezza, trovandosi, come potenziale, tutto in tutti 1 punti del conduttore: ma da ciò non segue che si possa parlare di un potenziale lungo quanto il conduttore, essendo il potenziale semplice in quanto al di sopra della materia inanimata, essendo anzi proporzionata ad essa, come suo principio perfettivo. Nel caso dell’anima vitale invece, di cui noi parliamo, v’è il fatto nuovo della « supermaterialità » della funzione vitale stessa, per cui essa si presenta come principio attualizzatore d’una perfezione superiore alla pura quantità e divisibilità fisico chimica. è

161

una grandezza quantitativa senza dubbio, ma eterogenea alla dimensione estensiva, e non divisibile, come potenziale, al dividersi della lunghezza. Così — per la sua eterogeneità e superiorità ben più radicale — l’anima vivente non si può dire lunga e larga quanto gli organi animati, pur trovandosi in ogni organo esteso, come principio vitale di tutto l'individuo. Ma veniamo ora alla distinzione che più ci preme.

Semplicità

e

spiritualità

L’immaterialità di tal principio vitale e la conseguente sua semplicità ci autorizzano forse a chiamarlo senz'altro spirituale ? Tutto sta nel chiarire cosa s'intende per spirituale. Il concetto nasce per completa opposizione a materiale, o meglio, per negazione e superamento totale delle caratteristiche essenziali della materia, a noi sperimentalmente note. Esclude quindi, innanzi tutto, l’estensione e la divisibilità quantitativa, il che conduce alla nozione suddetta di semplicità. Esclude poi anche ogni corruttibilità di morte, caratteristica della materia, il

che conduce all’incorruttibile sopravvivenza. Questo secondo punto merita particolare attenzione. Per opposizione alla corruttibilità dei corpi materiali, lo spirito — se c’è — si pensa incapace di morte, superiore

alla morte e destinato quindi — se era posseduto da un vivente corporeo — a vivere nell’« al di là ». Esso si concepisce cioè come incorruttibile e come fornito d’una sussistenza o esistenza propria, superiore e autonoma, rispetto a quella del corpo vivente, e capace quindi di seguitare a esistere anche senza di lui, cioè anche dopo la sua distruzione. 162

Il quesito si traduce quindi in questi termini: il superamento della morte, ossia tale incorruttibilità, sussistenza o autonomia di esistenza — e quindi la vera spiritualità — può essere senz’altro conseguenza dell’assenza di parti materiali decomponibili, disgregabili, ossia della « semplicità quantitativa » ? Se così fosse si dovrebbe affermare la sopravvivenza anche del principio vitale delle piante !. Si avrebbe, per tale riguardo, un’identità con l’anima umana, ritenuta dagli spiritualisti immortale. Conseguenza che, a prima intuizione, soddisfa assai poco. Nel capitolo precedente infatti si è vista la morale necessità d’una sopravvivenza umana — dell’anima umana — a causa della coscienza e della moralità degli atti umani. Ma che significato potrebbe mai avere una sopravvivenza per l’incosciente anima delle piante?

In realtà la sola

semplicità » non può essere ragione di sopravvivenza al disfacimento del vivente corporeo. Essa implica senza dubbio l’indisgregabilità e incorruttibilità, in sé, per mancanza di parti disgregabili, ma non implica da sola quel sussistere, ossia quella piena autonomia nell’essere, rispetto al vivente stesso, che è condizione di tale sopravvivenza, condizione cioè perché al crollo del vivente non segua anche il crollo dell’elemento animatore. «

Anzi, secondo la metafisica aristotelica tomistica, se così fosse, si dovrebbe affermare anche della « forma sostanziale » di qualsiasi corpo (Cfr. n. 1, p. 160). 1

163

Il principio vitale supermateriale e quindi «semplice » può benissimo essere incorruttibile, ossia indisgregabile, in sé — perché semplice — eppure condizionato nell’esistere all’esistenza del vivente in quanto tale; dipendente cioè nell’esistere dal perdurare della sufficiente struttura organica del corpo vivente: così da finire al disgregamento di tale struttura. Come una statua può essere resistentissima, ma crollare al crollo del piedistallo. Come il potenziale di quel conduttore, pur non essendo suscettibile di divisione dimensiva come il conduttore stesso, suppone però, per esistere, l’esistenza di esso. S’intende, sono paragoni sempre lontani, come è lontano il piano della pura realtà fisico chimica dal piano della vita. Occorreranno dunque per la sopravvivenza e la vera spiritualità del principio vitale due condizioni: la semplicità che escluda una qualsiasi disgregabilità propria in parti, e la sussistenza o autonomia nell’essere, che ne assicuri l’indipendenza dalla disgregabilità della struttura organica del vivente. Con ciò vengono escluse infatti le uniche due concepibili cause di morte: o per disfacimento proprio o per disfacimento del soggetto di inesione. Se pertanto la semplicità sgorga senz’altro da qualsiasi grado anche minimo d’immaterialità, non così la sussistenza. Per questa occorrerà uno speciale e più alto grado d’immaterialità. Quale ne sarà 1l segno ? Quale sarà cioè il segno sicuro di tale indipendenza nell’essere e della corrispondente sopravvivenza ? È facile intuirlo. Sarà il fatto d’una proporzionata indipendente attività o operazione. È un principio di ele164

mentare buon senso. L’operazione si proporziona all’essere dell’operante. Dalla operazione giudicherò dunque l’operante, come dalla tela giudico il pittore, dalla costruzione il costruttore, ecc. e

Ora è evidente che nel vivente vegetativo questo segno manca del tutto 1. L’anima vegetativa esaurisce infatti la sua funzione esclusivamente nel rendere capace quella materia di organizzarsi vitalmente. È naturale quindi che, essendo tutta la sua operazione risolta nell’organizzazione vitale, anche 1l suo essere sia dipendente dall’essere del vivente e cessi con esso ?. Ciò non sarebbe vero se immaginassimo tale principio animatore come uno spiritello preesistente alla cellula germinale, che agisca con impulsi estrinseci sugli elementi materiali. Ma allora verrebbero modificati bilanci energetici fisico chimici vitali, contro l’esperienza, l’attività vitale perderebbe la caratteristica dell’immanenza, e si confonderebbe l’azione dell’anima immateriale con quella di qualunque altra energia materiale. Sono invece le parti, fin dall’inizio organizzate, 1

Quanto ai corpi inanimati, il comprincipio metafisico attualizzatore — di cui ho accennato in n. 1, p. 157 — ha tanto poca autonomia di operazione, da essere principio non della propria operazione, ma dell’operazione del corpo. Sicché non è tale principio che esiste, ma il corpo da esso attuato, nel puro piano materiale, (essenzialmente corruttibile, a causa del com1

principio potenziale). 2 Sarebbe vano appellarsi a eventuali operazioni superiori ignote. La sopravvivenza non si presume, ma va bensì provata. E non in base a ipotesi fantastiche, ma a fatti di sicura esperienza. 165

che agiscono — non direttamente l’anima vegetativa — per l’elevazione data loro dall’anima vegetativa stessa.

Questa si proporziona quindi a tale piano d’organizzazione vitale e perdurerà quanto l’organizzazione vitale stessa. In altri termini: se nel vivente materiale l’anima non produce altra operazione che quella degli organi vitali, in quanto tali, vuol dire che anche la sua esistenza segue quella degli organi stessi. Essa trascende bensì la materia fisico chimica del vivente — e perciò è realmente immateriale — ma non l’organizzazione vitale di essa, a cui si adegua, partecipandone la durata: e perciò non è spirituale. Per sopravvivere alla morte del vivente essa dovrebbe invece trascenderne — nell’essere e nell’operazione — la materia sotto qualsiasi suo aspetto, non soltanto cioè quanto alla materialità informe — fisico chimica — ma anche quanto alla materialità comunque organizzata. Allora sì, Ja sua immaterialità sarebbe autonoma nell’essere, rispetto al soggetto comunque organizzato, e sopravviverebbe quindi al suo disfacimento. Sarebbe anima semplice e immortale, sarebbe spirito. Per concludere. L’immaterialità dell’anima vegetativa costituisce soltanto il primo gradino d’immaterialità, ossia di distanziamento dalla materia: il distanziamento cioè dalla quantità dimensiva e dalle pure operazioni fisico chimiche. Solo un’immaterialità e un distanziamento totali potrebbero renderla spirito. Sensazione e spiritualità Che pensare dell’organizzazione sensoria

do gradino cioè d’organizzazione, animali, in quanto senzienti? 166

del seconcaratteristico degli ?

Qui l’operazione del principio vitale è più alta, e il principio stesso quindi deve essere più alto, ossia più distanziato dalla materia, se è vero l’ovvio concetto che l’entità si proporziona all’operazione: più alto quanto

Ja sensazione supera la

vita puramente vegetativa.

Ma non siamo ancora nell’immaterialità completa di operazione e nell’autonomia conseguente dell’essere, che diano diritto di pensare a una sopravvivenza

e a

una spiritualità.

Col misterioso fenomeno della sensazione l’animale

riesce ad appropriarsi la materia circostante, senza alcun incorporamento fisico di essa, spogliandola cioè in qualche modo della sua materialità: ma non spogliandola del tutto, non svincolandosi del tutto dalla materialità stessa. La sensazione infatti non può cogliere che successivamente questo e quel corpo, individualizzato e concretizzato da questa e quella determinata materia. Vede quel determinato colore lì, di quel corpo lì, sente quel determinato sapore di quel determinato corpo che tocca la lingua. E anche quando ricorda, è sempre in quel modo concreto che l’antica sensazione viene rivissuta. In seguito, a proposito degli animali, ritorneremo sulla questione. La comprenderemo meglio, facendo il confronto con l’anima umana, quando avreino parlato di questa. V’è insomma nella sensazione il superamento della materia disorganizzata — cioè del piano puramente quantitativo, fisico chimico — e quindi la semplicità. V’è inoltre il superamento della stessa organizzazione puramente vegetativa, di quella organizzazione cioè capace d’incorporare altri corpi, materialmente. Siamo all’organizzazione sensoria, capace d’incorporare immaterialmente. Ma l’incorporazione sensoria resta tuttavia legata alla materiale individualità di questo e di quello. 167

Operazione totalmente immateriale non c’è.

Secondo gradino d’immaterialità ; ma non ancora esistenza autonoma e quindi spiritualità. *

Passiamo ora a vedere se il totale distanziamento dalla materia vi sia per l’anima umana: o meglio, se nell’uomo si trovi un’entità con operazioni totalmente immateriali, che ne rivelino cioè la spiritualità. Siamo evidentemente arrivati al punto culminante della nostra ricerca, ai capitoli decisivi. In fondo tutto quello che abbiam detto finora non è stato che una preparazione. E alcune affermazioni per la rapidità della prova non hanno nemmeno potuto essere approfondite. Nel capitolo precedente l’affermazione dell’anima è stata fatta in pieno. Ma con argomenti di carattere morale. Ora 11 medesimo risultato dobbiamo ottenerlo con una serie di argomenti diretti, di carattere sperimentale e di rigorosa causalità, di tipo cioè fisico e metafisico.

168

RIVELAZIONE SPERIMENTALE

DELLO SPIRITO UMANO

La causa rivelata dagli effetti

Nessun equivoco vi può essere ormai sul significato della sperimentalità di cui parlo. Non sperimentalità diretta evidentemente perché, se lo spirito c’è, è invisibile e irraggiungibile dagli strumenti materiali di misura. Ma sperimentalità indiretta, deducendo cioè la causa dagli effetti. È questo del resto il modo comune di sperimentazione degli stessi corpi materiali. Gli strumenti di misura e ogni altro sensibile rilievo non attingono direttamente l’essenza della cosa, ma ne rilevano una manifestazione. L’elettricità non si vede, ma viene rivelata dai suoi effetti 1. Che esista, almeno in linea di massima e con fondata probabilità, il piano della realtà supermateriale, molte precedenti considerazioni ce lo hanno mostrato. Per vedere ora se esista realmente l’anima umana — come entità propriamente spirituale con un criterio analogo ai suddetti rilievi della fisica, cioè mediante gli —

L’unica differenza con l’esperimentazione indiretta per l’anima è che, mentre per i fenomeni materiali il legame tra causa ed effetti è tutto materiale e misurabile con apparecchi materiali, per i fenomeni spirituali tale legame trascende il piano materiale e non ammette la diretta misurabilità con tali apparecchi. 1

169

effetti, bisogna vedere se si noti nell’uomo il fatto di fenomeni operativi totalmente immateriali, tali cioè che rivelino non solo l’immateriale semplicità del principio da cui promanano, ma anche l’autonomia dell’essere, la sussistenza e quindi la perennità. Se ripeteremo qui alcune cose dette nel capitolo sull’assurdo della morte, si badi bene però alla differenza di argomentazione. Là si trattava di deduzioni imponenti, ma mantenute nei limiti della sicurezza morale; e inoltre alcuni concetti, come quelli di sopravvivenza, di spirito, ecc. non erano stati ancora chiariti, con l’analisi che ne abbiamo or ora fatto. Qui si tratta invece di arrivare a certezze assolute; fondate sulla metafisica proporzione tra causa ed effetto, tra entità e sua rivelatrice operazione.

L’obiezione materialistica pecca, a questo riguardo, del solito equivoco, col quale si tenta di spiegare l’ordine presente e 1 fenomeni cosmici più alti con la cieca evoluzione, purché sufficientemente lunga. Ma — come già notammo — breve o lunga che essa sia stata, non potranno mai le inadeguate azioni fisiche precedenti produrre un effetto a cui tutto il complesso resti sproporzionato: così come aggiungendo l’uno sull’altro tanti pezzi di ferro, per quanto tempo voglio, non otterrò mai un pezzo d’oro. Se pertanto scopriamo nel pensiero dell’uomo delle manifestazioni totalmente sproporzionate alla materia, è ingenuo pensare che, piano piano, questa sia arrivata alla capacità di compierle, perché nessun eventuale allungamento di tempo potrà aver portato la materia a superare sé stessa. 170

Quando tuttavia questo superamento di se stessa riguardasse soltanto il suo ordinarsi da un punto di vista puramente meccanicistico, potrebbe sorgere la celebre ipotesi che il fatto possa spiegarsi come lo sgorgare di una qualsiasi altra combinazione casuale. Avemmo già occasione di affrontare e confutare tale ipotesi 1. Ma non c’è dubbio che la confutazione ci obbligò allora a qualche fastidiosa sottigliezza. Qui invece il problema è molto più semplice e l’obiezione si ‘può nettamente scavalcare. Non è più infatti alla complessità di un qualche organismo che si deve guardare, con la possibilità che si affacci quell’illusione che esso possa essere sgorgato da sé, per cieca combinazione dei suoi vari componenti materiali, ossia per giustaposizione fortunata dei suoi vari pezzi. Qui — se la totale immaterialità è provata — si tratta di nuovi valori di qualità, privi assolutamente di parti. Che senso avrebbe pertanto il ricorso alla casuale combinazione di parti, quando si tratti di un effetto — il pensiero — totalmente estraneo alle parti quantitative ? La certezza dell’argomentazione acquista quindi un valore molto più evidentemente assoluto. Non si tratta cioè di convincerci che rimestando a caso quei pezzetti di ferro venga fuori un orologio — cosa difficiletta vero ? ma che venga fuori dell’oro. E tuttavia il paragone è ancora inadeguato, restando esso sempre nel piano della materia, in cui si sa effettivamente oggi realizzare — non certo col semplice rimestamento — la trasmutazione degli elementi; mentre nel nostro caso si tratta della totale sproporzione qualitativa tra materia e pensiero. —

1

p. 101

Ss.

171

L’idea, voce dello spirito Guardo all’uomo come a un fenomeno cosmico qualunque. L’analisi della sua organicità vitale m’addita — abbiamo visto — un principio vegetativo che la spieghi: superiore alla pura materia. L’analisi della sua capacità sensoria mi conduce a un principio ancora più alto, capace di spiegare il mistero dell’elevazione della materia all’organizzazione dei sensi e il mistero della sensazione. Ma è un principio ancora non completamente autonomo nel suo essere dalla materia, come non lo è la sua operazione, e incapace quindi di sopravvivere ad essa. Non può dirsi spirito. Ora faccio un’altra considerazione, che da sola ci condurrà a risolvere il nostro fondamentale quesito. Si badi bene: da sola. Anche cioè se le considerazioni precedenti non ci avessero condotti ad affermare l’esistenza di quel principio, di quell’entità immateriale giustamente chiamata anima vegetativa e sensitiva. E con una assolutezza di deduzione nettamente più alta quanto più netta e qualitativamente decisiva è la sproporzione e 1l distacco che notereno tra il fenomeno intellettivo e la materia. Le considerazioni precedenti avrebbero potuto in fondo essere anche omesse. Esse avevano solo lo scopo di preparare la nostra mente alla migliore comprensione della considerazione che stiamo per fare e a inquadrarla nella restante realtà cosmica. *k

Guardo dunque ancora all’uomo e vedo che egli è capace di esprimere delle idee. L'idea, il concetto. Ecco il fenomeno nuovo e più alto del cosmo. 172

Riassumiamo e integriamo accuratamente l’analisi già fattane, così da eliminare ogni minimo dubbio sulle deduzioni conclusive che ne trarremo. È un’analisi che godrà non solo della sicurezza dei fatti obiettivamente studiati nella fisica, ma del controllo immediato della coscienza di ognuno. Non c’interessa ora sapere se l’idea per nascere debba partire dal senso e se e quanto sia necessario l’aiuto della fantasia e dello stesso organo cerebrale. Lo vedremo opportunamente in seguito. Quello che ora importa è l’analisi del risultato dell’operazione intellettiva umana, l’analisi cioè del « concetto », in sé. Ecco, di fronte a me, un oggetto materiale, un campanile. Siamo due cose l’una di fronte all’altra. Finché 10 non lo guardo, non c’è tra noi comunicazione alcuna. Alzo lo sguardo su di lui e mi metto in comunicazione con esso. La sua linea, il suo colore s’imprimono nella retina del mio occhio e si sprigiona in me l’atto della visione. Il campanile è stato, in qualche modo, incorporato in me. Non nel senso di essermi divorato la sua materia, tanto è vero che è ancora là, davanti a me, ma nel senso che la sua figura è stata da me sensorialmente percepita ed è tanto veramente entrata dentro di me che, anche dopo essermi allontanato dal luogo, la posso ricordare, ricreare nella fantasia. Questo modo di incorporarmi il campanile ha richiesto indubbiamente un duplice superamento della materia: sia rispetto alla combinazione chimica, sia rispetto alla nutrizione vitale. Infatti, come materia, esso è restato tutto 1à. Ma il superamento non è stato totale. Infatti se esso era a guglia, in mattoni, ecc., io l’ho e lo ricordo proprio così a guglia e in mattoni, ecc. La mia retina e il senso visivo ha percepito, benché immaterialmente, quel solo campanile materiale lì, concretizzato cioè da quella de173

terminata materia lì, come era posta e configurata in quel punto dello spazio e del tempo. Potrò poi trovarmi

di fronte a un altro campanile di forma diversa, e il mio occhio se lo approprierà nella medesima maniera, e potrò — successivamente o affiancati — richiamarmi alla memoria sensitiva l’uno e l’altro percependone benissimo le differenze. Il senso non è capace di fare altro. *

Ora ecco un’altra mia potenza entrare in gioco, ecco intervenire l’operazione intellettiva. Visto 1l primo campanile, 10 sono capace di prescindere, di spogliarlo dai suoi elementi concretizzatori, dall’essere lì o 1à, dall’avere quella o quell’altra forma esterna, dall’essere di mattoni o d’altro materiale, e di astrarre — « abs » « trahere »: trarre fuori — l’idea: campanile. Sicché quando vedo il secondo, in luogo, forma, materia diversa, ugualmente dico: campanile. E così quanti altri sì vuole, tutti li esprimo con la medesima idea. Mentre la sensazione era diversa nei singoli casi, il concetto, l’idea è unica. Mentre la sensazione vedeva quel campanile, l’idea vede 1l campanile: ovunque sia o possa essere, con un carattere cioè di universalità. La sensazione stava ancora alla scorza della realtà, alla forma sensibile in quanto tale. Essendo ancora legata a quella determinata materia, non c’era altra via per appropriarsene — senza incorporarla — che limitarsi a possederla mediante cotesti elementi esteriori. L’intellezione, l’idea, invece, astraendo completamente da quella determinata materia, ne può penetrare e possedere l’intima essenza. È un vero nuovo modo di essere del campanile nella penetrante e completa visione del pensiero.

174

Non si equivochi su tale intellettiva astrazione. Ognuno basta che interroghi la propria esperienza. L’idea include bensì la nozione di materialità, in quanto vede che si tratta di un oggetto materiale. Ma non resta vincolata a quella materia. Può scendere fino alle minime note esterne, di forma, colore, ecc., ma in modo da prescindere dall’essere in quel luogo lì. Comprende anche perfettamente cotesta individuazione locale, ma per riflessione concettuale, come concretizzazione dell’idea universale. È anzi in facoltà dell’intelletto di assurgere ad astrazioni sempre più ampiamente universalizzatrici. Astraendo soltanto da quel determinato luogo e tempo, nasce l’idea di un qualsiasi campanile fatto così; astraendo da quella determinata forma e da quei materiali, sorge il concetto generico di campanile ; astraendo anche dalla struttura di campanile, si ha l’idea di cosa materiale ; astraendo anche dalla materialità, nasce l’idea primordiale di cosa o ente reale. sk

Qui ai lettori amanti di filosofia affioreranno alla mente le acri dispute circa l’obiettività e 11 modo di tale

processo astrattivo della mente umana. Cotesta idea esprime veramente la realtà obiettiva delle cose? Come può essere obiettiva una riproduzione delle cose materiali fatta dalla mente, smaterializzandole in tale maniera ? Come dimostrare la fedeltà di tale riproduzione ? Verrebbe abbastanza spontaneo di rispondere che il modo diverso di essere della cosa nella realtà e nell’intelletto non ne compromette l’identità, così come, nell’ordine sensibile, il mio diverso modo di essere nello specchio in cui mi guardo non compromette la esatta 175

riproduzione del mio sembiante. E che chiedere alla mente umana di provare — con la sua operazione — l’obiettività della sua operazione sembra un circolo vizioso. Come son certo di esistere io, così sono certo che esiste il mondo, come realtà distinta dàl mio 10, concepita dal mio pensiero e precedente al mio pensiero: mi pare di non poter trovare una certezza maggiore di questa certezza, a cui possa appellarmi per maggior sicurezza. *

Ma fortunatamente, per il problema essenziale che ci interessa, questa celebre disputa gnoseologica non ha

imp rtanza. Poco importa infatti come l’idea universale che ho, di campanile, corrisponda alla realtà particolare del campanile. Quello che interessa è di constatare il fenomeno dello sprigionarsi dal mio composto umano, posto a contatto con le cose materiali (10 davanti al campanile), dell’idea con la quale — qualunque sia l’obiettività del processo astrattivo le cose sono riprodotte senza alcuna loro concreta materialità e con un carattere conseguentemente universale. Ed è chiaro ormai, dopo quanto precede, 1l carattere totalmente smaterializzatore di tale fenomeno. Basta considerarlo all’apice dei successivi gradini di superamento della materia già visti. Sono quattro modi di essere dei corpi, tutti oggetto della comune diretta esperienza. C’è il corpo nel suo nativo stato amorfo e inanimato, fuori di me; c’è la sua elevazione, per assimilazione nel mio organismo vivente, possedendolo cioè con tutta la sua materia, ma nobilitata all’organizzazione vitale del mio corpo; c’è la sua presenza in me sensoria senza —

176

alcuna materia, ma con la sua concretezza individua:

c’è infine la sua presenza in me, come spogliato anche da tale concretezza e universalizzato, nell’intellezione. In

quest’ultimo modo di essere lo spogliamento e l’indipendenza dalla materialità è totale. L’operazione da cui nasce tale modo di essere della materia nell’intelletto, ossia il fenomeno dell’intellezione, è quindi totalmente immateriale. E allora crolla assolutamente l’ipotesi che il pensiero possa essere un essudato del cervello, o una pura reazione chimica. Con esigenza tanto più radicale quanto più radicale e quanto più totale è la smaterializzazione possiamo ripetere: la materia non può negare e superare se stessa. Un fenomeno totalmente smaterializzante non può nascere, per assoluta esigenza di proporzione tra causa ed effetto, che da un principio totalmente immateriale, indipendente cioè nell’operare e nell’essere — senza che vi contrasti, come vedremo a suo tempo, l’astrumentalita del cervello — dalla materia. Tale totale indipendenza significa cioè, secondo quanto abbiamo visto nel precedente capitolo, non solo mancanza di parti quantitative disgregabili — « semplicità» — ma anche «sussistenza », ossia indipendenza nell’essere dal disfacimento di morte del corpo. E quindi: immortalità. Tale principio è dunque spirito immortale. L’«

al di



»

prova se stesso

Intendo l’idea dell’«al di là»: l’idea proprio di ciò

che è in discussione, che è l’esistenza e la

sopravvidell’anima. venza Sembra uno scherzo, ma è vero: l’«al di là » eterno basta pensarlo perché esista. «

»

177

Tale idea si risolve in fondo in quella del tempo a cui si toglie il termine finale. Ogni tempo sperimentale è sempre questo o quello, è sempre costituito da intervalli determinati e finiti. Facendo astrazione dal determinato inizio e dal determinato fine, astraendo cioè da ogni determinata e particolare misura, l’idea di tempo diventa universale e applicabile a tutti gl’intervalli temporali, lunghi o brevi che siano, e quindi anche all’eventuale «al di 1à »

interminabile. Questo concetto suppone quindi l’idea universale di tempo come puro fluire, a prescindere cioè da qualsiasi misura. Ma quest'idea, in quanto unmversale, non può certo sgorgare dai particolari intervalli temporali dei fenomeni materiali. Essa suppone quindi il potere universalizzatore — totalmente immateriale — dell’intelligenza e quindi l’anima spirituale e immortale, capace di tale pensiero. *

Chi mi obiettasse che con questo modo di ragionare verrei a dar valore a qualunque stranezza che sbocci nel cervello umano, non avrebbe capito nulla dell’argomento, 1l quale non è che un’applicazione particolare di quello visto nel paragrafo precedente. Non tema dunque che per il fatto che è stata pensata la pietra filosofale io pretenda di dedurne che essa esiste veramente. Potrei dedurne tuttavia davvero che esiste l’anima spirituale, perché anche la stranezza di tale pietra sarebbe pure un’idea. E l’idea, abbiamo visto, è la voce dello spirito ideatore. 178

Nel caso dell’«al di 1là» c’è solo la gustosa coincidenza che trattasi d’un’idea che dimostra se stessa. Se l’uomo che la pensa — anche solo per respingerla — fosse davvero un mucchietto di composti chimici, comunque accozzati insieme, la sua operazione cerebrale si proporzionerebbe a cotesta realtà del proprio essere, puramente materiale, legata alla concretezza di quel luogo e di quel tempo. Mai esso potrebbe superare se stesso, trascendere la propria concretezza spazio temporale ed elevarsi al

concetto dell’interminabile domani. E non lo potrebbe nemmeno, per lo stesso motivo di sproporzione con la propria realtà, se lo si considerasse qualcosa di più del semplice mucchietto di materia, in quanto elevato dai principi vitali e sensori. Infatti questi sarebbero pur sempre legati alla concretezza del qui: e dell’ora.

credere che vi dell’idea di pelà » interminaNel qual caso il mucchietto di elementi materiali che compongono l’uomo si potrebbe pensare non più radicalmente impari allo sbocciare di quel concetto. È evidente l’equivoco. Innanzitutto il mucchio di materia costituente il composto umano, che dovrebbe presentare tale perennità, ne è invece radicalmente privo, a causa del « metabolismo » o «ricambio materiale », per cui per il processo di assimilazione e disassimilazione esso si rinnova tutto in breve periodo di tempo (ogni giorno assimiliamo circa 3 kg. di nuova so-

Attenti, nel caso particolare, a non sia una proporzione fra la trascendenza rennità — questo concetto dell’«al di bile — e l’indistruttibilità della materia.

179

stanza e ne perdiamo altrettanti) ed è quindi in noi un perenne fluire !, Proprio l’opposto della perennità. In seguito ritorneremo sul fatto. Ma anche se vi restasse immutabilmente, ciò non modificherebbe l’intrinseco riferimento della materia, in quanto tale, alla determinata concretezza di luogo e di tempo. In ogni momento infatti essa è qui e ora, ha cioè sempre una puntualizzazione spazio-temporale; e con tale puntualizzazione avviene ogni suo fenomeno fisicoechimico. Non sto a ripetere a tale riguardo quanto accennai circa il malinteso indeterminismo heisenbergiano ?. Per potersi sollevare al piano dell’«al di là », la materia dovrebbe nell’istante presente attuare, nell’essere e nell’azione, l’istante futuro: il che è assurdo. Solo l’operazione del pensiero è capace di protendersi all’avvenire, con l’idea del domani. Ed essa non può sgorgare dalla materia, tutta le-

gata all’oggi.

È bene nuovamente notare che la forza assoluta di queste considerazioni sta nella visione integrale del fe1 Secondo C. Franke, nel corpo umano vi sono oltre 22.000 miliardi di cellule mobili e 4.000 miliardi di cellule fisse. Secondo Moleschott e Buchner in 7 anni esse si rinnovano tutte o con la loro completa sostituzione o con il rinnovamento del loro protoplasma. Secondo Ona (1924) muoiono ogni giorno 500 miliardi di globuli rossi (quanti ne contengono 100 cm sangue) e altrettanti sono ricostruiti (ALBERTO STEFANELLI, in Enc. Catt., voce: Morte). Ma i moderni studi sul ciclo della materia del vivente, mediante gli isotopi radiattivi, hanno dimostrato la continua trasformazione, anche per la nuova utilizzazione della materia interna del vivente. Secondo Aebersold in un solo anno il corpo umano si rinnoverebbe per il 98 ©/.

di

2

180

cfr. p. 73 ss.

nomeno del pensiero, scuotendo la miopia delle facili ed esteriori rassomiglianze con gli altri fenomeni materiali. È inutile dire: come una glandola secerne un umore, così il cervello può secernere il pensiero, tanto è vero che esso è indispensabile per pensare; e a tale mirabile capacità potrà essere giunto per lenta evoluzione. Vedremo meglio in seguito la funzione istrumentale del cervello. Ciò che basta ora è la facilissima contrapposizione dell’ipotesi materialista, presa in blocco, al risultato finale. Si vuol considerare il composto umano come un mucchio di elementi materiali elaborati da lunghissima evoluzione ? Benissimo. Ma si tratta di materia. Ebbene, mai dalla materia, puntualizzata nel singolo spazio tempo, sarà potuta nascere la capacità di superare la sua concretezza ed elevarsi alla universalizzazione e all’idea del futuro. Per chi vede chiaro che il più non può venire dal meno, ciò appare fuori discussione. «

Gli spiritualisti s’illudono ? Dunque l’anima c’è »

Entriamo nel campo spiritualista. Non fanno che

parlare dell’anima spirituale. Passiamo dalla parte materialista. Anch’essi non fanno che parlarne, per negarla: « Gli spiritualisti sono degli illusi: non esiste che la materia ». Così, per difenderla o per negarla, l’idea dello spirito è nella mente di tutti. E sono familiari a tutti gli uomini una serie di concetti completamente estranei a ogni materialità: concetti di verità e di falsità, di bello e di brutto; i concetti morali di amore e di odio, di bontà e di vizio, di onore e di disonore, ecc. 1

181

Prescindiamo ora completamente da chi abbia ragione o torto, se siano idee giuste o false, consistenti

o illusorie.

Quello che dobbiamo notare è che si tratta di un qualcosa completamente estraneo alla materialità, sbocciato dal pensiero umano. Ne risulta allora, come nel caso precedente, che vi deve essere nell’uomo il propor-

zionato principio immateriale, l’adeguata sorgente: principio che, essendo totalmente immateriale, deve essere appunto l’anima spirituale. Indipendentemente cioè dalla obiettività o meno di tali idee, quello che conta è che sono idee di contenuto interamente spirituale. Ed essendo quindi entità totalmente spirituali, rivelano l’anima spirituale. Prima avevamo visto la totale immaterialità delle idee di enti corporei — l’idea di campanile — in quanto assurte a un contenuto universale per astrazione. Era in tale universalità la loro spiritualità, qualunque fosse 1l loro valore obiettivo. Ora consideriamo 1l fenomeno «idea » ancor più significativo e più radicalmente spirituale, in quanto che 1l suo oggetto stesso è totalmente spirituale; come nei concetti suddetti. Tanto più chiara è allora la rivelazione dello spirito «ideatore ». Se fossero idee sbagliate, nascerebbero da un spirito che s’nganna. Ma da uno spirito che c’è. Sio vedo un fumo, deduco la presenza del fuoco, sia esso benefico o no. Così l’idea delle cose spirituali. Qualunque sia la sua relazione con la realtà, sia essa cioè benefica o dannosa alla verità e alla vita, essa rivela la sua sorgente spirituale. Avendo un contenuto completamente estraneo alla materia, non può nascere dalla materia. 182

Sicché

quando il materialista sS’accanisce contro l'illusione dello spirito, ne formula il concetto e implicitamente e inconsapevolmente ne afferma la realtà. Se egli fosse, come pretende, un mucchietto di composti puramente materiali, mai quell’idea sarebbe sgorgata dal suo cervello. E così tutte le altre idee morali, anche se egli le irride.

È anche indifferente, per l’argomento, quale sia il processo generativo di tali idee, se positivo o negativo. Certo l’idea di spirito è tratta per negazione astrattiva dalla materialità, avvenendo il primo contatto conoscitivo umano con la materia. Nuovamente: ciò che preme è il risultato finale. Tale processo stesso generativo di astrazione smaterializzatrice sottolinea tuttavia 11 dinamismo generatore antimateriale, impossibile a sgorgare dalla materia. La ribellione: testimonianza dell’io e dello

spirito

Il pensiero spirituale e religioso, dopo tanti secoli di Cristianesimo, si presenta, in qualche modo, come conformità e ossequio a una tradizione. In contrapposto, l’anticonformismo e lo spirito di ribellione presenta una delle sue più tipiche espressioni, tra l’altro, nel giacobinismo anticlericale, violento, materialista. Là si trovano le cosiddette « personalità ribelli » nella ribellione fortissime. Sarà ben difficile trovare, per esempio, personalità di cotesto tipo, più forti di un Clemenceau, di un Lenin, di un Hitler, d’uno Stalin. 183

Il primo il « Tigre » — ancor giovane fece il giuramento: « primo, di essere sempre ribelle; secondo, di avere sempre il diavolo in corpo »!. E fu un atteggiamento mai smentito, che gli alimentò nel cuore una specie di furore materialista. Fu il furore che ebbe del resto contro tutti coloro che gli contrastavano il passo: e l’idea spiritualista contrastava a tutta la sua concezione e formazione. Le ribellioni e violenze leniniane, hitleriane, staliniane, ecc. sono, sotto altri aspetti, ancora più note. Furono personalità potentissime. Fu la forza e l’affermazione, per dir così, sottolineata, dell’«10», espressa nella violenta contrapposizione del proprio pensiero e delle proprie iniziative, contro chiunque vi si op-—

ponesse. Non che non vi siano personalità anche più forti e potenti nel campo spirituale e religioso. Ma vogliamo soffermarci un poco sulle prime, precisamente in quanto ostili all’affermazione spiritualista, per trarne un’insospettata prova dell’esistenza dello spirito, per il solo e innegabile fatto della forte loro affermazione dell’«io ». Vi possiamo associare anche personalità estrema-

mente ribelli nel campo puramente artistico e lettera-

rio. È vero che l’arte è tutta una potente affermazione dell’«10 ». Ma è interessante vedere come lo sia anche e più — posto che si possa chiamare ancora arte: certo fu letteratura — nelle sue espressioni più ribelli a ogni canone. Lasciando andare 1il quadro generale della ben nota esasperata antistoricità e originalità del « Futurismo », da F.T. Marinetti (1876-1944) in poi, basta riflettere alla breve apparizione di una forma che costituisce forse il più radicale esempio di rivolta letteraria 1

184

BENJAMIN,

0.C., p.

163.

e psicologica che si ricordi: il « Dadaismo » del romeno francese Tristano Tzara (n. 1896) e dei suoi amici. Ecco

il programma del movimento volutamente nominato

dal bisillabo «da-da », inespressivo e puerile: antiletteratura, antimusica, antipittura, ribellione contro la assurda esistenza moderna, in modo da recitare la parte dei perfetti imbecilli, ribellione contro ogni regola grammaticale, sintattica, ortografica, ecc., libera e caotica espressione dei sentimenti, senza alcun freno di forma, di logica e di morale. Tzara si vantava di comporre i suoi poemi con parole ritagliate da giornali e affiancate a caso. Luigi Aragon pubblicò la poesia « Suicidio » formata dalle 24 lettere dell’alfabeto messe semplicemente in fila, nel proprio ordine, e basta. Molti di costoro poi verso 1il 1g22 sfociarono nel « Surrealismo », ancora ribelle a ogni forma riflessa e ad ogni coercizione logica artistica e morale, per esprimere il pensiero puro dell’incosciente, ossia — con mentalità freudiana — del più vero e del più intimo «io ». Ed ecco dunque, pur in tanta furia demolitrice, anzi proprio per quella, la consolidata affermazione della personalità e dell’10.

Riflettiamo ora sopra tale coscienza e affermazione del proprio io. Di quell’«io » di cui abbiamo una permanente esperienza, concretizzata nel sentimento della propria personalità. Qui, anziché un fatto di universalità, è un fatto di estrema concretezza e di stabilità, che svela ugualmente un contenuto totalmente immateriale. Si tratta di spiegare come può sorgere dal composto umano il sentimento della permanenza del proprio «io », di essere cioè sempre, col volgere degli anni, la mede185

sima persona. Dovrà pur esservi un « quid » permanente che sia la proporzionata causa di tale sentimento d’individualità costante. Prendo al solito il sentimento dell’«io» come un dato di fatto, come un «fenomeno», d’innegabile esperienza psicologica. Anche se, per ipotesi, fosse una illusione, come ritiene Davide Hume, andrebbe pur spiegata tale illusione, tale sentimento di permanenza. Se si trattasse di una statua marmorea, avremmo un elemento di permanenza ovvio nel blocco di marmo che la costituisce. Ma nella statua vivente uomo, non v’è alcun componente materiale fisso, giacché, per 11 metabolismo già sopra accennato, tutti i componenti organici sono in continuo flusso. Vi sono bensì le cellule nervose che non muoiono come le altre, e restano permanentemente per tutta la vita; ma è una permanenza di struttura, non della materia che le costituisce, che fluisce anche essa nei processi del loro ricambio vitale. Dal punto di vista del materiale costituente, l’uomo è dunque come l’acqua di un fiume che non è mai quella. Nell'ipotesi pertanto che tutto 1l composto umano si riduca esclusivamente a cotesti puri costituenti materiali o anche a un’immaterialità vegetativa o sensoria legata ad essi, lo sprigionarsi da tale mucchietto di materia fluente del più radicato sentimento umano di permanenza, che è quella del proprio «io », è inesplicabile, per mancanza di una causa proporzionata. Se il fiume dicesse: «10 », sarebbe una pura metafora, giacché egli non è mai identico a se stesso. Gli argini e il percorso topografico restano; ma quello non è il fiume nel suo elemento essenziale che è l’acqua in continua mutazione: acqua sempre nuova che prende il posto dell’acqua vecchia. « Io » potrebbe dirlo con proprietà 186

solo uno stagno. Così il fiume degli ingredienti del corpo umano. Materialmente restano solo gli argini della forma esterna entro cui scorre e passa continuamente la materia. È con questa materia passa tutta la realtà materiale dell’individuo e il permanente «io » non può

avere nella materia alcun fondamento.

Non ci sarebbe altro che spiegarlo con la lenta continuità e progressività del processo di ricambio, sicché ogni istante resta la maggioranza degli ingredienti dell’istante precedente e seguente, e nuovi elementi assimilati si aggiungono continuamente alla « maggioranza » che trovano e si associano ad essa. Si avrebbe una permanenza di tipo morale come in una Nazione, che è sempre quella, benché muoiano e si rinnovino continuamente i suoi membri. Ma quando si parla dell’«io » nazionale non si fa che una personificazione metaforica, mentre 1l sentimento del proprio «io » è tutt’altro che metaforico. Si può dire che in via normale — a prescindere da anomalie psichiche, o da artificiosità filosofiche — di nessuna cosa si è così sicuri come del proprio essere, ben distinto dal resto delle cose e sempre identico a se stesso, senza troppo preoccuparsi della distinzione kantiana tra l’«io noumenico o puro » e l’«io fenomenico o empirico »; né lo si consideri come una semplice collezione e successione di sensazioni e fatti psicologici, come vogliono gli empiristi (Hume, Stuart Mill, Taine), ma come un qualcosa che sta prima e al di sotto di essi; né come il confuso «io assoluto » hegeliano, ma come 1l concretissimo e particolare proprio «io ». 1

187

E allora c’è poco da concludere con quel concetto del lento ricambio materiale e della permanente maggioranza. Si tratterebbe sempre del cambiamento completo, in pochi giorni, di tutta la materia propria: e quel sentimento di permanenza sarebbe falso. Ma anche un tale supposto sentimento falso e illusorio — considerato come entità sperimentale — deve conservare una proporzione entitativa con le cause che l’hanno determinato. Ora il mucchietto degli ingredienti umani tutti fluenti sono essenzialmente sproporzionati a tale effetto d'identità. Che sorgesse l'illusione di un «io » rosso, giallo, quadrato, ecc., sarebbe un restare nel piano della realtà materiale. Qui invece dal non essere piu della materia ormai fluita, sboccerebbe stranamente l’idea del suo essere sempre sì avrebbe cioè nettamente un effetto superiore alla causa. ;

La causa proporzionata non si vede che possa essere se non un qualcosa realmente permanente e quindi indipendente totalmente dalla materia che passa: l’anima spirituale e immortale. E si presenta perciò questa elegante deduzione: l’«io» umano, e quindi l’anima che ne è il principio, perdureranno dopo la vita terrena perché perdurano durante la vita terrena.

Legge morale e spirito

Ancora un fenomeno di certissima esperienza individuale. E ancora un fatto d’immaterialità e universalità, rivelatore dello spirito. 188

È il fenomeno della legge morale : la voce che parla e batte alla coscienza di ognuno, all’io morale di ognuno. E bisogna proprio dire: di ognuno. Sono dispute senza fine. Contrasti violenti tra visione religiosa e irreligiosa della vita, tra modestia e licenziosità del costume. Ma ognuno si appella, in definitiva, a una concezione, a una legge morale, a una risposta di coscienza. Voltaire scrive !: « Vi sono mille differenze, in mille circostanze, nella interpretazione della legge morale; ma il fondo rimane sempre uguale, ed è l’idea del giusto e dell’ingiusto ». Il libertino che irride alla castimonia ama chiamarla insincerità, menzogna convenzionale; e, ciò dicendo, prende 1] tono di chi vuol seguire la legge morale del vero. Oppure la dirà impossibile a conservare, ma così egli tradisce ancora la preoccupazione di crearsi un alibi e quindi di rientrare in qualche modo nella legge morale. Anche briganti. Il bandito Salvatore Giuliano, ucciso a Castelvetrano (1950) dopo sette anni di continui delitti, diceva di «tener molto all’onore ». 1

Trovatemi il più cupo romanziere « realista », pieno di asfissiante pessimismo, che non si atteggi a moralizzatore col suo « verismo ». Trovatemi il più plateale scrittore d’immondezze che, unito al coro dei teorici della assoluta libertà della narrativa, non presenti la sua pornografia come un servizio reso alla morale, nell’intento di suscitare nel lettore — come sogliono dire, per aggiungere il danno alla beffe — l’orrore del male. 1}

Nel Filosofo ignorante. 180

Onorato de Balzac (1799-1850), il vertiginoso scrittore dei 97 volumi della « Commedia umana », ritenuto il fondatore del romanzo realista, mentre deforma la realtà presentando quasi sempre il solo aspetto basso ed egoista del cuore umano, cinicamente descritto senza luce elevatrice alcuna, il narratore, serrato nel più soffocante pessimismo (che non riesce a dischiudersi efficacemente e pienamente nemmeno nell’ultimo volume 1 che tentava di portare un po’ di luce nel torbido mondo dei suoi 5000 personaggi), pretendeva però di scrivere a servizio dei più luminosi ideali religiosi, sociali e politici dei suoi tempi: « Io scrivo alla luce di due verità eterne: la religione e la monarchia » ®. Andrea Gide (1869-1951) difficilmente potrà essere superato per le orgiastiche descrizioni del vizio e l’acre sfacciataggine della sua vergognosa inversione sessuale. Il male morale prodotto dalla sua lettura è tale, secondo Paolo Claudel, da darne questo tremendo giudizio: « André Gide è un avvelenatore. Quante lettere ho ricevuto da giovani traviati E all’inizio del loro cammino verso il male trovo sempre Gide »3%. Eppure il volume delle sue vergognose confessioni, rinnegatrici di ogni mortificazione cristiana, è moralisticamente intitolato con le parole evangeliche più tipicamente espressive del virtuoso rinnegamento di sé: Se la semente non muore *. Il crollo della sua sensibilità e virilità, sotto il giogo tirannico della passione pederasta, lo chiama «libera!

Il rovescio della storia contemporanea (1846). Anche in Eugenia Grandet (1833), la nobile e dolce protagonista pessimisticamente viene fatta abbandonare da tutti e lasciata 1

solitaria. ° Prefazione generale alla Commedia umana. ’ Carteggio Claudel-Gide, Milano, Garzanti, 1950. ‘ Cfr. Giovanni, 12, 24.

190

zione »; il rinunciare vilmente al combattimento dei sensi e l’abbandonarsi senza più alcun freno al loro richiamo lo chiama — da buon discepolo del Nietzsche —

affermazione della « personalità » e «intrepidezza »; la morbosità e il lenocinio delle sue particolareggiate descrizioni, insieme alla sfacciataggine e al fittizio sforzo e al continuo sofisma per giustificarle e per giustificarsi, «sincerità » e «coraggio ». E sempre egli conserva un atteggiamento moralista di difensore della verità e del bene. In risposta a Claudel sdegnato: « Quanto al male che secondo voi fanno i miei libri, non posso crederlo da quando conosco il numero di quelli che si sentono soffocati, come me, dalla menzogna dei costumi... L’ipocrisia mi è odiosa... »1, E il premio Nobel — che non per niente fu istituito per premiare « benefattori dell’umanità » — venne nel 1947 a premiare nei suoi scritti soprattutto la loro intima « umanità Più sistematicamente e radicalmente ispirato al positivismo materialista fu il ciclo di romanzi di Emilio Zola (1840-1902), che corrisponde per la sua epoca del Secondo Impero a quello che Balzac aveva creato per 1l proprio tempo: sono 20 volumi dei «Rougon-Macquart ». Eccone l’ispirazione, da lui spiegata nella prefazione: « Voglio spiegare come una famiglia si comporta in una società, allargandosi... L’eredità ha le sue leggi, come la gravità. 1 Rougon-Macquart sono fisiologicamente la lenta successione di accidenti nervosi e sanguigni che si manifestano in una razza in seguito a una prima lesione organica e che, secondo gli ambienti, determina tutte le manifestazioni umane, naturali, istintive, cui prodotti prendono i nomi convenzionali di virtù o di 1

»

!

1

1

1

Carteggio, O.c. 191

-

È inutile dire che il « verismo » pornografico di certe pagine non ebbe limite. F. M. Dostoievskij, che era entusiasta di Balzac, ebbe invece di Zola questa disgustosa impressione: «ho preso Zola; e, figurati: posso a malapena leggere una tale laidezza. E da noi gridano che Zola è una celebrità, un astro del realismo » !. Eppure anch’egli si atteggia a moralista, vuol descrivere ambienti e caratteri per fare amare la vita sana, contro la corruzione e l’arrivismo politico Benedetto Croce si preoccupa di sottolinearlo: « l’anima dello Zola... seriamente pensosa e fortemente accorata della miseria e della corruttela, sì faceva a osservarle e scoprirle tutte, stracciando ogni velo, come un medico che vuole assodare la realtà e misurare la gravità di un malanno, per prepararne un rimedio »? (Quale rimedio ? Spargendo il pus anche negli organi sani ? Ma, è la velleità dell’intenzione che bisogna notare). Alberto Moravia batte, con freddo realismo, la medesima strada: e protesta la medesima funzione moralizzatrice della sua artistica pornografia.

vizi...

».

1!

Le affermazioni moraliste si intensificano nel campo filosofico. Anche quando Nietszche ha osato scagliarsi contro la morale evangelica, s’è affrettato però a mettersi sul piano morale, chiamando abbiezione la mortificazione e il perdono, ed elevatezza morale l’accontentamento degli ' *

192

Dizionario letterario delle opere, Bompiani, VI, 396. Dizionario letterario delle opere, Bompiani, VI, 397.

istinti inferiori

e la sopraffazione del prossimo. Ed ecco,

nel suo furore antireligioso, un Gaetano Salvemini, a « difendere la dignità umana »: « Se morirò avendo distrutto nel cuore di un Italiano la fede nella Chiesa Cattolica, se avrò educato un solo Italiano a vedere nella Chiesa Cattolica la pervertitrice sistematica della dignità umana, non sarò vissuto invano» (Il Mondo, 9 aprile 1957). Tutti i sistemi filosofici, anteriori o posteriori al Cristianesimo, hanno proposto — più o meno esplicitamente, non importa con quale coerenza — una dottrina morale. Tutti i movimenti politici e sociali, ribelli allo spiritualismo cristiano, hanno imbandierato i diritti della coscienza e della morale. Alla rivoluzione francese il sangue è stato sparso in nome dei «diritti dell’uomo ». L’estremo materialismo marxista per compiere il furto della legittima proprietà s’è appellato al principio morale che probisce 1l furto chiamando la proprietà furto. Il razzismo s'è appoggiato alla morale del « superuomo » e della « superrazza ». Il materialismo comunista sfoggia un profondo contenuto mistico avvenirista e classista e impernia la sua tattica di inganno e di violenza, sulla « verità », 11 « dovere », la «critica e autocritica », le confessioni di « coscienza », pubbliche e davanti al giudice, le condanne punitive e riparatrici di «colpe » commesse, di «doveri » trasgrediti, di «errori» compiuti, la «rieducazione », ecc.; ogni violazione della parola data sul campo privato e internazionale è accompagnata da una « giustificazione formale », evidentemente fittizia, contraddittoria rispetto alle precedenti giustificazioni, ma in sé impeccabile. Tutti i movimenti anarchici hanno dichiarato di scagliarsi contro l’immoralità delle sopraffattrici strutture sociali e politiche. 193 13

*

È tale urto tra le più disparate anzi opposte concezioni morali che dà impressionante risalto all’universalità del fenomeno umano di un appello alla responsabilità di coscienza e alla norma morale. L’uomo sente di dover rispondere in qualche modo della sua condotta, di fronte a un criterio di bene o di male, che sovrasta e fronteggia l’azione particolare che compie e a cui non è lecito trasgredire. Da tale fenomeno e dal carattere assoluto con cui cotesta norma di azione, o legge morale — in qualunque modo si intenda — si presenta alla coscienza, c’è chi deduce l’esistenza del divino legislatore, solo capace di imprimere nella natura umana mutabilissima tale sentimento assoluto. Ma questo ci condurrebbe fuori argomento. Il nostro rilievo vuol essere ora di più elementare e immediata evidenza. Si supponga pure che quel criterio morale nasca per artificioso pregiudizio umano, sia frutto di semplice abitudine, o altro. Si spieghi cioè come si vuole la genesi del fenomeno. Esso resta tuttavia con i suoi caratteri di norma che s'impone alla propria coscienza. E se anche qualcuno negasse di avere tale esperienza, mi basterebbe che fosse affermata — come è indubitato — da molti altri, dalla grande maggioranza. Siamo cioè di fronte a un altro caso tipico e sperimentale d’idea unmuversale, che prorompe dalla natura umana: l’idea morale da cui seguono le nozioni di bene, di male, di bontà, di cattiveria, ecc. *

Veramente il fenomeno è duplice. Esso, oltre che consistere in questo presentarsi dell’idea di fronte alla coscienza, implica anche il presentarsi della coscienza, 194

ossia del proprio sempre identico io davanti all'idea. Ma del secondo fatto, cioè di cotesto sentirsi immutabilmente «io », si è già parlato nel paragrafo precedente. Analizziamo ora il fatto dell’idea morale. Mentre tale sentimento del proprio identico «io », pur essendo certo — e rivelatore dell’immateriale suo principio — implica delle oscurità che possono accendere le dispute ed esigere ulteriori approfondimenti, l’universalità dell’idea morale e delle nozioni di bene, di male, ecc. è invece cosa alquanto ovvia. La deduzione al solito è semplice: essendo esse prive di qualunque contenuto e vincolo materiale, non è comprensibile 1l loro sbocciare dal composto umano senza ammettervi l’esistenza d’una proporzionata sorgente totalmente immateriale: l’anima spirituale. Non è che la facile applicazione del ragionamento, già fatto più volte nel corso di questo capitolo, e che ripeteremo ancora: il fenomeno totalmente immateriale reclama

la sorgente totalmente immateriale e quindi spirituale.

Il fenomeno dello sbocciare nell’uomo dell’idea morale implica però, ad analizzarlo meglio, tre particolari aspetti incalzanti, ognuno rivelatore della sua sorgente: l’anima spirituale. Innanzi tutto v’è il fatto del carattere universale dell’idea morale; poi il fatto che essa non è astratta dalla realtà corporea, ma ha un contenuto intrinsecamente spirituale, come abbiamo visto nel paragrafo precedente. In terzo luogo v’è il fatto più caratteristico di questa specie di idee, che va ora sottolineato: il presentarsi cioè l’idea morale di fronte alla natura umana come una norma che le si 1mpone. 195

Ora è chiaro, quanto al primo fatto, che la materia, fissata all’individuale concreto, non può essere fonte di universalità. Quanto al secondo fatto, è pur chiaro che ciò che è legato alle parti quantitative non può sprigionare un’idea spirituale, essendone questa totalmente estranea. Quanto al terzo, ciò che è legato al fatto materiale non può uscir fuori del fatto stesso e porsi (indipendentemente da qualunque condizione spazio temporale del soggetto) con l’atto di coscienza, davanti a sé stesso. La rivelazione spirituale è tre volte affermata. La parola e l’anima

Parola e pensiero sono indissolubili. Quando il pensiero si esprime e si comunica, si ha la parola, anzi, come osserva Benedetto Croce !, la proposizione, perché la comunicazione del pensiero avviene sempre o con una affermazione o con una negazione. E quando non c’è la comunicazione v’è ancora la nascosta parola interna, mentale, come espressione del pensiero a se stesso. Perciò Aristotele chiamò le parole « passionum animae signa »: «segni dei concetti dell’anima » ?. In questo senso la parola rivela l’anima spirituale come la rivela il pensiero, l’idea. Si parla anche del cosiddetto linguaggio degli animali. E se si intendesse il linguaggio nel senso generalissimo di qualunque espressione e comunicazione, anche solo di sensazioni, non vi sarebbe niente da obiettare. Sulla questione tornerò in seguito, non potendosi in un 1

Estetica come scienza dell’espressione

Pari, VI ed., 1928, p. 158. 2 Sull’interpretazione, I,

196

1.

e

linguistica generale,

libro sul mistero dell’anima non toccare con una certa cura 1l caso degli animali. Ma è evidente, fin d’ora, che se si attribuisse loro un vero e proprio linguaggio come espressione di «idee », allora si dovrebbe attribuir loro anche l’anima ideatrice, l’anima spirituale. Sia pure un parlare -rozzo o rozzissimo. Se è vero parlare, vi sono vere idee e quindi vera intelligenza anche se rozza e quindi spirito. Ed evidentemente non vi può essere termine medio tra l’esistenza o la non esistenza dell’anima spirituale, tra l’esistenza cioè o la non esistenza di un principio del tutto immateriale. Sotto questo aspetto dunque il fenomeno della parola non è una nuova prova dell’esistenza dell’anima, rientrando nel fenomeno dell’idea di cui è espressione. —

Tale capacità espressiva tuttavia e tutto 1l fenomeno comunicativo del linguaggio serve a confermare e a chiarire l’esistenza e le caratteristiche dell’idea — già note per esperienza interiore — ossia la sua universalità e

spiritualità.

Il linguaggio infatti è una filosofia del reale — qualunque ne sia il valore obiettivo — che suppone l’universalità dei concetti. La più semplice proposizione in cui mediante un « è » si congiunge un predicato con un soggetto richiede l’universalità delle idee. Ciò è chiaro nelle proposizioni generali, come: « l’uomo è socievole ». Vi si suppone l’idea di uomo e di socievolezza. Ma anche nelle particolari: « Antonio è forte». Vi si suppone l’idea di quell’uomo particolare e di forza. L’« è » suppone l’idea delle due cose di cui la mente vede e afferma la congiunzione. 197

Particolarmente suggestiva è la conferma che il linguaggio dà della capacità astrattiva della mente umana, da cui deriva il suo potere universalizzatore, tipica espressione della sua spiritualità. È la conferma che viene dall’esistenza, in tutte le lingue, delle parole astratte e concrete. Il termine concreto esprime direttamente l’idea della cosa reale. Uomo, buono, bianco, grave, indicano direttamente ciò che è uomo, ciò che è buono, ciò che è bianco, ciò che è pesante. Il corrispondente termine astratto esprime invece ciò che rende quelle cose tali, prescindendo dalle cose stesse, ossia dal soggetto: umanità, bontà, bianchezza, gravità. Nell’ordine reale non esiste, per es., la bianchezza — come qualità, senza soggetto — ma esistono le cose bianche. Il termine astratto è frutto quindi d’una elaborazione della mente sulle cose pensate, per comprenderne e astrarne le qualità essenziali che le rendono quello che sono

1.

È mediante questo potere umano astrattivo — rivelato dalle parole « astratte » che si può compiere la anatomia della realtà e creare la speculazione scientifica. —

Ho preso qui come altrove il concetto di astrazione nel senso comune e intuitivo. Niente ha a che vedere questo senso evidentemente con l’astrazione hegeliana. Per HEGEL astratto è il singolo, in quanto tale, oggetto della determinata e concretissima percezione — questo, qui, ora — ina considerato a sé, non cioè incluso nel movimento dialettico: e quindi irreale. È concreto invece ciò che è reale, in quanto inserito nella dialettica dello spirito, come creatore di sé e dei suoi modi, che sono le cose. Siamo in un piano completamente estraneo alle nostre considerazioni. 1!

198

La riflessione e lo studio si potranno rivolgere cioè, parte per parte, alle singole qualità: alla « bianchezza », alla « dolcezza », ecc. Se il pensiero fosse legato alla materia come una reazione chimica, non avrebbe contatto che con la realtà materiale concreta e il risultato della reazione sarebbe necessariamente concreto. Il processo astrattivo e le parole che lo rivelano sarebbero impossibili. Tanto assolutamente impossibili quanto l’ipotesi, per es., che combinando idrogeno e ossigeno non si ottenga l’acqua nella sua fisica concretezza, ma la «limpidezza » dell’acqua, il suo «potere solvente», ecc., senza soggetto !

%*

La parola poi in quanto articolata e quindi convenzionale merita un altro momento di attenzione. L’espressione del sentimento e del pensiero umano avviene anche con la mimica, con il riso, il pianto, ecc. I segni e gesti mimici possono avere anch’essi talora dei valori espressivi convenzionali. Ma in molti altri casi, come sempre nel riso, pianto, grido di gioia o di dolore, ecc. corrispondono a un movimento spontaneo e fisso della natura umana. E alcuni hanno delle somiglianze strettissime con i corrispondenti segni degli animali, per es., il grido di dolore. In tali casi l’effetto comunicativo ad altri del sentimento proprio potrebbe spiegarsi con automatica associazione del segno con la cosa, per l’istintiva loro colleganza, senza necessità di ragionamento. Così il grido concitato della chioccia, dinanzi al pericolo o al cibo, che fa accorrere a sé pulcini sbandati. E vi saranno, come negli animali, diversità corrispondenti alle diverse emozioni; ma sempre reazioni puramente istintive, Così, come osserva Carlo 1

1

199

Darwin e tutti conoscono per esperienza, nel cane vi è «il latrato smanioso, come per la caccia; quello della collera; il grido e l’ululo della disperazione quando viene chiuso; quello della gioia, quando si avvia a passeggio col padrone; e quello ben distinto di domanda supplichevole, quando desidera che gli sì apra una porta o una finestra »!1, Anche la voce dell’uomo ha tonalità caratteristiche secondo le varie emozioni. *

Ma nella parola, in quanto articolata, c’è il fatto com-

pletamente nuovo della sua convenzionalità e arbitrarietà. Tanto è vero che v’è una immensa moltitudine di linguaggi. Qui la spontaneità naturale non ha più senso. Un qualche suo influsso potrebbe vedersi soltanto nelle poche espressioni onomatopeiwche — da bvoua: nome, e 7noitw: fare — che imitano cioè col suono la cosa designata (pur restando ancora arbitrario il modo dell’imitazione), come, in italiano: fischio, strepito, gorgoglio; in arabo: sirsir (grillo), ecc. Per 1l resto la natura deve dare solo la capacità dell’articolazione. La scelta dei suoni resta una convenzione arbitraria, la cui tabella indicatrice è il vocabolario. Sarà una arbitrarietà determinatasi in seguito a un certo processo storico evolutivo e condizionata da un complesso di elementi ambientali, studiati dalla linguistica, ma il fatto fondamentale della convenzionalità rimane. Oggi basterebbe intenderci e potremmo chiamare benissimo il frutto della vite acqua, e il limpido dono della sorgente vino: faremmo allora delle magnifiche sbornie d’acqua e dei refrigeranti bagni di vino. L’origine dell’uomo e la scelta in rapporto al sesso, Milano, Barion, 1926, p. 38. 1

200

Ora la convenzionalità toglie, tra la parola e la cosa, la deterministica colleganza di materia — o di senso (sempre legato a materia) — a materia. Sicché restando nel piano puramente materiale sensorio, il fenomeno della comunicazione tra persona e persona non potrebbe aver luogo. In tale ipotesi materialista infatti vi sarebbe un’invincibile interruzione della catena trasmissoria. Questa catena può così enuclearsi: cosa, pensiero di Tizio sulla cosa, sua espressione con la parola, ascolto dell’espressione da parte di Caio, comprensione della cosa da parte di Caio. La parola è il ponte di congiunzione tra 1l pensiero di Tizio e il pensiero di Caio. Ma nell’ipotesi materialista tale ponte è senza arcata e la comunicazione non si può avere. Il contatto tra la parola di Tizio e Caio non potrebbe concepirsi che o chimico fisico o sensorio. Ora la parola articolata non è nel suo contenuto fisico che un treno di onde sonore completamente eterogeneo — data la convenzionalità del linguaggio — alla cosa significata, incapace quindi di riprodurre né fisicamente, né sensoriamente una similitudine della cosa. Caio quindi non potrebbe mettersi a contatto col pensiero di Tizio e con la cosa da lui pensata. E l’impossibilità è assoluta, come è assoluta l’eterogeneità tra lo strumento convenzionale usato e la cosa significata. Appena invece s’introduce l’idea, spiritualmente concepita, il ponte si salda. Al di sopra dell’azione fisica e sensoria della parola c’è la riflessione e comprensione intellettiva del significato del segno convenzionale linguistico. Ciò è al di sopra del piano fisico e sensorio, ossia totalmente al di sopra della materia, ossia nel piano dello spirito, 201

Si potrebbe appellare a un’automatica associazione

fantastica. L’eterogeneo suono delle parole susciterebbe abitudinari fantasmi associati delle cose alle quali esse si riferiscono e così, restando nella sfera puramente sensoria, il ponte sarebbe ugualmente varcato. Ma tale ipotesi, oltre essere esclusa dalla struttura logica del linguaggio, suppone appunto, in un primo tempo almeno, la comprensione del segno convenzionale: e torna completamente la necessità della riflessione e dell’idea. Basta riflettere, del resto, alla personale esperienza di ognuno. Ciò che si produce all’ascolto d’una nuova espressione d’un linguaggio ignoto, non è una reazione di tipo fisico e sensorio, ma di ragionativa e concettuale comprensione. Il fenomeno della parola come comumcazione è quindi un altro argomento certo della spiritualità del pensiero. Quel supposto mucchietto di materia che fosse Tizio non riuscirebbe mai a comunicare, mediante la parola convenzionale, col mucchietto di materia che fosse Caio. Ma se in Tizio è uno spirito, egli saprà formulare un linguaggio, e se in Caio è uno spirito, lo saprà com-

prendere.

La varietà convenzionale della parola è messa ancor più in risalto — per contrasto dall’identità delle leggi logiche del pensiero in tutti gli uomini, condizione indispensabile per la trasmissione delle idee. Il che identifica pure necessariamente la struttura logica di ogni —

linguaggio.

202

Strana identità nella molteplicità degli individui

umani, così diversi per stirpe, temperamenti, gusti sensibili, espressioni convenzionali. Identità che è un altro riflesso dell’esistenza d’un principio superiore alla mutabilità materiale e sensoria degli uomini, capace di elevarsi all’immutabilità dell’idea, conquistatrice della realtà. Ma tocchiamo così specificamente un altro fenomeno rivelatore dello spirito che è il potere ragionativo dell’uomo, di cui 1l linguaggio è una generica espressione. Sarà l’oggetto del seguente paragrafo.

Prima di terminare questo punto, non deve sfuggirci però l’inserzione nel quadro dell’ordine cosmuco del fatto della parola, come capacità di comunicazione reclamata dall’esistenza dell’anima spirituale e pensante. Se, posta la parola, è svelata l’anima, si può anche dire, infatti, che supposta l’anima pensante, è reclamata la parola. Senza di essa nell’uomo sociale sarebbe impossibile la comunicazione dell’attività interiore più alta e specificamente umana. Potrebbe comunicare con gli altri in quanto materiale e in quanto senziente, ma non in quanto intelligente. Il che ripugna. Quando vedremo in che modo lo spirito umano, pur essendo totalmente immateriale, inizia il processo conoscitivo dai sensi e utilizza il corpo anche per ragionare, comprenderemo meglio inoltre l’armonia ordinatissima per cui questa comunicazione conveniva che fosse fatta con un mezzo insieme materiale e spirituale: la parola, materiale come segno, spirituale come concetto significato, 203

È inutile aggiungere che quanto alle varie teorie evoluzioniste per spiegare l’automatica origine del linguaggio, noi possiamo completamente disinteressarcene. A noi basta il fatto del punto d’arrivo di quell’eventuale processo evolutivo. Tale fatto rivela delle idee e quindi il principio spirituale che ne è la sorgente. Le ali dello spirito

Il potere astrattivo e universalizzatore dello spirito umano non può essere compreso nella sua piena capacità superatrice della materia ed elaboratrice delle idee, che considerandone la forza ragionativa. Sono le ali di cui si serve per ascendere alle vette delle speculazioni filoso-

fiche e scientifiche. Si rifletta alle gigantesche costruzioni dei grandi sistemi filosofici. Prescindiamo se siano veri o falsi, quanto veri e quanto falsi. Il meccanismo logico potrebbe anche talora funzionar male, come può accadere, in certi casi, anche a una macchina perfezionatissima, senza che cessi però di essere — in considerazione del funzionamento normale — un capolavoro. Anche nel caso della mente umana, indipendentemente dall'infortunio possibile dell’errore, è alla sua prodigiosa capacità deduttiva che bisogna guardare. Si consideri, per esempio, la vasta unità concettuale della filosofia aristotelica tomistica, cui preferisco riferirmi — senza entrare in meritc — per il valore e il raffinamento delle sue tesi dovuti alla sua antichità e per il suo più facile inquadramento nell’intuizione comune e nel buon senso. 204

Si pensi che una sola idea è la ricchissima fonte di

tutta quella metafisica !:

l’idea di «ente », ossia di « cosa », di « ciò che è ». Ente il cielo, la terra, il cosmo tutto, un sassolino, la mente che lo pensa e il pensiero della mente, ecc. Massima universalità di concetto perché riferibile a tutto. Massima espressione della capacità astrattiva e universalizzatrice della mente umana, che già considerammo. E segno decisivo di totale immaterialità, come pure vedemmo, considerando l’universalità delle idee.

Non è qui il caso di esporre la sottile deduzione, alla luce di questa idea madre, di tutti gli altri concetti e principi della metafisica e della logica tomista: i concetti di potenza e di atto, di essenza ed essere, di materia e forma, di sostanza e accidente, di moto, di causalità, ecc. Ciò che preme rilevare è che in tutti — a prescindere dalla loro giustezza — è una rivelazione di spirito. Enunciamone uno dei più elementari: «il tutto è maggiore della parte ». Cioè prendo questa pietra, che considero entitativamente come un tutto; ne stacco una parte: ho qualcosa di meno di prima. Principio tanto elementare da sembrare perfino sciocco di fermarvisi sopra. Eppure rivelatore dello spirito. L’affermazione dice ben altro che il fatto che quella pietra lì pesa più di un suo pezzo. Se si riducesse a ciò, lo si potrebbe dire soltanto nei singoli casi dopo 1l controllo della bilancia. Cosa è invece che lo fa intuire, con certezza, in tutti i possibili casi ? Solo il concetto universale del 1

cfr.:

FRANCESCO OLGIATI,

I

fondamenti della filosofia clas-

sica, Milano, Vita e pensiero, 1950.

205

che trascende tutti 1 particolari « tutti » materiali dell’universo, come il concetto di « ente » trascende tutti i particolari « enti » ossia tutte le particolari cose. Universalità che indica indipendenza totale dalla concretezza singola della materia e del senso e svela lo «

tutto

»,

spirito. Si pensi al celebre «principio di causalità » su cui si è tanto discusso e che, almeno in pratica, tutti debbono porre e pongono alla base di ogni ricerca scientifica, per potere dagli effetti risalire alle cause. Falso o vero che sia, è impossibile che nasca da ciò che è chiuso nella materia. Dalla materia sì potrebbe avere soltanto la concreta colleganza e la pura successione di quel fatto con quell’altro, restando cioè nel piano della singola concretezza e del dato sensibile: e ogni volta dovrebbe essere ripetuta la constatazione. Mai dall’uomo supposto soltanto materiale e sensorio sarebbe potuta sgorgare la universalità del principio e la distinzione tra « successione » e «causalità «, tra « precedere » e « produrre », fondati nella metafisica evidenza che ogni cosa deve avere la sua « ragione sufficiente » il suo « perché ». Vuole Davide Hume che il principio sia illusorio perché supera il responso della sensazione, capace solo di vedere una successione ? Vuole Emanuele Kant che sia una forma «a priori»? Non c’interessa. Ciò riguarda la sua verità o meno, la sua obiettività, anzi il significato stesso di obiettività. Ma il principio formulato dalla mente umana resta con un contenuto superiore alla concretezza materiale e sensoria, come superamento quindi totale della materia. La trascendenza di tali idee, oltre il puro referto sensibile, non può essere quindi che frutto dello spirito. D’uno spirito magari che s’inganna, ma che c’è. Anzi l’obiezione di Hume circa la impossibilità del205

l'esperienza sensibile di vedere alcunché oltre la purà successione, sottolinea la trascendenza della nozione di causalità, rispetto al puro piano della concretezza materiale e sensoria.

Ma i principi sono strumenti delle ascensioni argomentative. Si sosti un momento davanti a queste, davanti al prodigio del ragionamento, sia filosofico, sia scientifico. Sia quello che si vuole il valore che gli attribuiscono 1 filosofi di qualunque scuola. Se ne consideri solo il modo di sgorgare dalla mente e la sua completa autonomia dalla materia. Questa è l’alternativa fondamentale, davanti al fenomeno del ragionamento: è uno speciale meccanismo materiale in funzione (a cui si ridurrebbe anche il senso) o è una attività che trascende completamente la materia ed è quindi spirituale ? C’è o non c’è differenza essenziale tra una mente pensante e una moderna macchina calcolatrice ? Si possono supporre meccanismi materiali l’uno e l’altro, in modo da ridurre la loro differenza solo al fatto che la macchina calcolatrice è fatta di acciaio e la macchina umana pensante di materia molle

?

Ora basterebbe riflettere che il ragionamento si serve, per funzionare, degli ingranaggi delle idee e dei principi logici e filosofici, di cui abbiamo già visto la spirituale trascendenza, per potere senz'altro escludere l’interpretazione materiale del fenomeno. Non è che l’argomento precedente, benché esaltato e illuminato dalla più imponente trascendenza delle idee contemplate nel loro dinamico ingranamento. 207

Ma prescindiamo un momento dalle idee in sé e guardiamo solo al funzionamento del meccanismo deduttivo: a quel processo, a quel fenomeno per cui, a un certo punto, dopo lo sforzo riflessivo, dopo la valutazione degli argomenti, dopo incertezze e oscurità, a un tratto un raggio di evidenza illumina la mente e una

almeno creduta tale — appare. Nel caso in cui il fatto e il concetto di partenza si ammetta, per ipotesi, già spirituale, è troppo ovvio che l’elaborazione deduttiva non potrebbe non essere anche essa spirituale. Il meccanismo deve proporzionarsi al materiale di elaborazione. Ma si consideri invece 1l caso più sfavorevole, in cui dati di partenza siano sensibili e quindi materiali, come sempre quando si tratta, per esempio, degli studi fisici. Si applicano principi logici e scientifici, sì svolgono calcoli e si arriva alla formulazione di una nuova legge fisica, confermata dall’esperienza o alla scoperta di un nuovo corpo chimico o di una nuova entità fisica, astronomica o biologica. Mi riferisco al caso di una deduzione — sì badi bene — non di una semplice diretta scoperta sperimentale; o meglio, mi riferisco a una scoperta anche sperimentale, ma compiuta dietro il filo pilota del ragionamento. Così, per esempio, Urano fu scoperto direttamente per caso nel 1871 da Guglielmo Herschell (che lo descrisse dapprima come una cometa). Nettuno invece fu previsto con il calcolo dagli astronomi Urbano Leverrier e Giovanni C. Adams (indipendentemente l’uno dall’altro), in base alle leggi gravitazionali, per spiegare le perturbazioni dell’orbita di Urano, e fu effettivamente scoperto al telescopio da Giovanni G. Galle nel 1846, in seguito all’indicazione fornitagli dal Levernuova verità



1

1

1

208

rier. Oggi poi siamo spettatori dei più clamorosi esempi di grandi scoperte compiute dietro il filo conduttore della più alta speculazione scientifica, nel campo della fisica nucleare.

Può essere un fatto materiale quel processo logico e scientifico che sboccia, a un tratto, nel fulgore d’una nuova scoperta ? In tale ipotesi la conoscenza del fatto o del principio fisico che stanno all’inizio del processo scientifico deduttivo non dovrebbero concepirsi che come una reazione fisico chimica e un’impressione sensoria d’un qualche settore materiale cosmico sul mucchietto di materia che sarebbe la vera essenza umana dello scienziato indagatore. La scoperta, ossia la nuova conoscenza d’arrivo, non potrebbe essere che un incontro del medesimo tipo di tale mucchietto di materia umana con un altro elemento materiale cosmico (quello che costituisce l’oggetto della scoperta). Tra l’uno e l’altro fatto vi sarebbe il ponte di congiunzione di tutta l’operazione deduttiva, la quale anch’essa non potrebbe concepirsi che in termini di pure reazioni fisico chimiche sensorie, in cui si risolverebbe l’essenza del ragionamento. Benissimo. Ma purtroppo in tale ipotesi si tratterebbe d’un ponte crollato, o meglio inesistente. Infatti il processo elaborativo e deduttivo avviene nel cervello del ricercatore - riflessioni cosmologiche, analisi, raccostamenti, deduzioni logiche, calcoli matematici senza alcun contatto cosmico, senza cioè che 1l cosmo possa avere influito con le sue reazioni fisico chimiche sensorie — pensieri — in lui. Posto pertanto che il fatto conoscitivo si risolva in tali contatti reattivi con la ma-—

209 14

teria da conoscere, la perdita del contatto significa la perdita della conoscenza e della sintonia col cosmo ed è quindi impossibile che al termine di tale processo deduttivo si ritrovi tale sintonia, nella finale scoperta scientifica. Si faccia bene attenzione alla forza del rilievo, nonostante la sua quasi sconcertante semplicità. I legami obiettivi che legano il primo fenomeno a quello scoperto, dovrebbero essere stati in qualche modo percorsi dal

ricercatore, perché potesse passare effettivamente dal primo al secondo e avrebbero dovuto quindi riflettersi in sede conoscitiva nella sua mente. Ma ciò, nell’ipotesi materialista, non è concepibile che per contatto fisico. Mancando questo, quell’obiettivo legame cosmico non può avere in alcun modo influito nella ricerca, e non può avere quindi costituito alcun ponte di congiunzione con la nuova scoperta. È vero che anche il cervello pensante sarebbe una porzione di materia cosmica, e che 1l processo deduttivo, concepito come puro concatenamento di attività materiali del cervello stesso, sarebbe collegato al cosmo per mezzo di esso e delle sue proprietà fisiche che sono quelle del resto della materia. Ma questo è un elegante sofisma, che nasconde, sotto falsa apparenza, la più bella conferma del nostro rilievo. Dal punto di vista materialista il legame tra il pensiero e la cosa pensata avverrebbe infatti per contatto materiale con il corpo di cui viene a conoscenza, riducendosi la conoscenza stessa, in definitiva, a una reazione fisico chimica sensoria a cotesto contatto. Ma nel processo deduttorio invece le attività materiali corrispondenti, in cui si dovrebbe risolvere la conoscenza stessa, restano tutte nell’ambito del cervello, restando legate esclusivamente alla sua struttura. I risultati logici dovrebbero quindi 210

riflettere i legami interni delle strutture cerebrali, non quelli esterni del cosmo studiato, e il loro combaciamento finale con questo sarebbe impossibile. Tanto il cervello quanto il cosmo sono bensì materiali, ma questa identità di natura non toglie che le strutture e proprietà particolari del cervello siano diverse da quelle dei corpi cosmici e delle proprietà cosmiche da studiare. Ora dovrebbero essere proprio queste ultime a riflettersi nel processo deduttivo mentale, per fargli percorrere il ponte di congiunzione dal fenomeno di partenza a quello di arrivo: mentre invece in tale processo non possono riflettersi che le proprietà particolari del cervello, che sono di natura completamente disparata da quelle in esame.

C’è chi penserà forse alle moderne macchine calcolatrici — meccaniche o elettroniche — che con i loro rotismi — o complessi elettronici — producono 1] perfetto

risultato. Ma anche tale esempio è a conferma del nostro rilievo. In esse il processo operativo riflette perfettamente la colleganza obiettiva delle grandezze matematiche da calcolare. Le varie parti sono infatti giustaposte proprio in vista delle operazioni da fare e le idee, cioè i numeri iniziali vengono inseriti con adeguati spostamenti, in modo da creare tutto il complesso prestabilito per il risultato. La macchina è quindi guidata, in quei soli movimenti prestabiliti, dall’intelligenza del costruttore, il quale l’ha creata con un complesso di parti appositamente preparato a tradurre il legame che intercorre tra i numeri iniziali e i risultati delle prestabilite operazioni. La materia molle del cervello invece manca — nell’ipotesi materialista — di cotesta apposita 211

-

preparata organizzazione. E qualunque fosse la sua fe-

lice conformazione, non potrebbe corrispondere a nessuna particolare esterna colleganza cosmica di fenomeni, anche solo per il fatto che deve servire alla comprensione di tutti. Questa funzione argomentativa ed euristica della mente umana non si spiega quindi che superando lo schema materialista e supponendo l’immaterialità completa dello strumento logico. Supponendo cioè l’esistenza del principio totalmente immateriale, cioè spirituale, capace di elevarsi al piano universale delle :dee e delle leggi della natura, valide sempre e guida obiettiva nel passaggio dai fatti fisici noti alle nuove scoperte. %*

lettore

idealista proverà un certo disagio — e lo avrà già provato anche in vari paragrafi precedenti vedendo toccare in questo paragrafo 1l celebre punto del potere logico della mente umana, con mentalità estranea all’impostazione hegeliana. Ma v’è un perché. L’istanza idealista, oltre essere oggi in notevole ribasso nella grande famiglia dei filosofi e degli studiosi in genere, rappresenta sempre una posizione di specialisti e un tentativo estraneo, per la sua artificiosità — e astrusità — al buon senso speculativo seguito dalla grande massa degli studiosi. L’opposizione fondamentale e duratura allo spiritualismo avverrà quindi sempre, su un più ordinario piano speculativo, nelle forme positiviste e materialiste che abbiamo toccate. Tuttavia in questo momento possiamo accogliere molto utilmente, agli effetti della nostra prova, il penUn

-—

212

siero hegeliano, come saggio del potere argomentativo della mente umana (le ali della mente di cui si parla in questo paragrafo). È ben difficile infatti che altri possano superare, dal punto di vista formale, il tentativo di Hegel, nello sforzo compiuto di ricavare tutto il sapere e tutte le cognizioni da un unico principio. V’è perfino un innegabile valore estetico nell’unità rigorosa della sua celebre Fenomenologia dello spirito (1807), che Benedetto Croce volle associare alla Metafisica di Aristotele, alla Somma teologica di S. Tommaso D’Aquino e alla Scienza nuova di Giambattista Vico, come opere sgorgate da animi non solo di pensatori, ma di poeti. Peccato che tutta la costruzione dell’Hegel, estremamente unitaria, poggi però su affermazioni assolute arbitrarie; sicché non si sa se fosse impenitente pessimismo e antagonismo personale o, piuttosto, realtà, che spinse Arturo Schopenhauer (1788-1860) a definirla «una Lolla di sapone »!, bella, iridescente, ma inconsistente. E peccato che la clamorosa affermazione hegeliana dello spirito — come quella poi di Giovanni Gentile (1875-1944) — si dissolva nella confusa e artificiosa concezione della realtà tutta ridotta al pensiero, rendendone impossibile l’obiettiva distinzione dalla materia, secondo la sicura intuizione comune. Ma, a prescindere dalla fondatezza della costruzione hegeliana, essa costituisce tuttavia uno dei più cospicui esempi della capacità speculativa umana, che rivela quindi, per vari motivi suddetti, l’anima spirituale che ne è la nel senso comune e nostro del termine sorgente. ®

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1 2

Cfr. Dizionario letterario delle Opere, o.c. Cfr. Teoria generale dello spirito come atto puro (1916). 213

I decifratori del cosmo

È oggi difficilmente negabile una discreta montatura nell’apoteosi in genere della scienza e in particolare di certi geni scientifici e nella posa di superuomini di certi scopritori. V’è la ingenua loro attribuzione d’una potenza quasì divinamente creativa nelle scoperte del loro genio. E peggio quando con la grandezza della scienza si misura la grandezza dell’uomo (che deve invece essere principalmente misurata dalla virtù) e quando il prestigio scientifico viene ad avvalorare arbitrariamente iniziative degli scienziati fuori del campo delle loro comcieli oggi non racconpetenze. Per Augusto Comte tano altra gloria che quella di Keplero e di Newton. Per G. Wundt (1832-1920) il legislatore del mondo è lo scienziato 1, Tra i ritratti dei seicento immortali scolpiti nel portico d’una chiesa protestante di New York verso 1l 1925 un solo personaggio vivente fu rappresentato tra filosofi, santi e grandi uomini, benemeriti del progresso umano: Einstein; e Shaw lo includeva, con Pitagora, Aristotele, Tolomeo, Copernico, Galileo, Keplero, Newton, tra « facitori » di mondi. Ma cosa vuol dire scoprire ? Trovare ciò che prima già c’era, ma era nascosto. La scoperta delle leggi fisiche che reggono l’universo, delle forze prodigiose e prima ignorate della natura, della struttura e delle funzioni complicatissime del vivente, che hanno smisuratamente allargato l’orizzonte cosmico davanti all’occhio attonito dell’umanità, non è evidentemente che la rivelazione degli splendori prima sconosciuti della natura. Questi già c’erano come c’era l’America quando 1

1

!

214

Cfr. A. ZaccHr, Dio, Roma,

Ferrari, 1925, v. II, p. 164.

Colombo la scoprì. L’ammirazione deve quindi andare

soprattutto a cotesto grandioso ordine della natura.

Anzi a molti sembrerà logico di innalzarsi fino alla sublime ‘intelligenza dell’Artefice di tante meraviglie 1. Come al termine di un’aspra ascensione, all’aprirsi davanti allo sguardo del nuovo panorama, delle imponenti catene e delle immense valli, ci si sente tanto piccoli al confronto di tanta grandezza, così lo scienziato scopritore dovrebbe sentire — come infatti molti sentono — ancor più viva la pochezza propria davanti al cosmo sconfinato e ai nuovi sempre più vasti orizzonti, ed essere indotto a inchinarsi davanti alla svelata grandezza del Creatore. In una luminosa conferenza sull’origine dell’universo, tenuta dal Prof. Giuseppe Armellini (1877-1958) allo « Studium Christi » di Roma, egli ricordò e fece proprie le parole scritte da Giovanni Keplero (1571-1630) nella Armoma del mondo: «Ti ringrazio, Signore, perché... mi hai fatto astronomo, dandomi così la gioia di scrutare, ammirare, contemplare la grande opera delle tue mani »?.

Tanto più che la scoperta non è, propriamente parlando, una spiegazione. Lascia cioè ancora nascosta la cosa principale: l’ultimo perché, estrinseco e intrinseco. Chi per la prima volta vedesse un orologio dovrebbe essere ben giustamente meravigliato del misterioso suo regolare movimento. Lo smonta, lo analizza bene e riesce a comprendere perfettamente la mutua relazione 1 2

Cfr. il g.c. lavoro: Esiste Dio ?. Dall’Osservatore Romano del 16-1-52. 215

degli ingranaggi e il segreto del suo movimento. Egli direbbe di avere scoperto il segreto dell’orologio: ed effettivamente sarebbe riuscito a rispondere al più immediato e urgente interrogativo circa il mistero intrinseco del suo funzionamento. Ma evidentemente resterebbe ancora il « perché » estrinseco, ultimo e più importante: in che maniera cioè e per opera di chi si sono potuti formare e così ben disporre quegli ingranaggi. Nel caso dei fenomeni naturali invece sono anche le spiegazioni intrinseche più immediate che sfuggono. Giustamente, per es., l’embriologo si deve entusiasmare delle modernissime scoperte della citologia e della genetica e del sorprendente condizionamento degli sviluppi embrionali, per opera delle strutture « cromosomiche » e dei loro « geni ». La scienza ha dunque squarciato un velo che copriva un meraviglioso mistero; ma ciò facendo si è imbattuta in un altro velo ancora più misterioso: come cioè possano quei minimi elementi compiere una così profonda e decisiva azione condizionatrice dello sviluppo vitale. Sarebbe come chi, ignaro di elettricità, restasse stupefatto a vedere accendere di colpo un grande impianto di luce. Poi s’accorge che ciò dipende da un piccolo bottone posto nella parete. Benissimo. Ma dovrà ancora scoprire come quel pulsante possa determinare il sorprendente fenomeno. E quando avrà scoperto che esso è un interruttore elettrico, si troverà di fronte al

più importante problema, ancora non chiarito dalla scienza: cosa sia la corrente elettrica. G. Tiercy dell’Osservatorio di Ginevra, dopo una molteplice esemplificazione — di cui riporto l’ultimo fatto — osserva: « S’è scoperto recentemente il processo di sviluppo delle uova di riccio e degli stessi giovani ricci: ecco una storia appassionante, come del resto tutte le storie della biologia. Ma qui bisogna ripetere la 216

nostra questione: perché le cose avvengono come sono ? E ancor qui la questione non riceve risposta. Nessuna delle questioni poste in tal modo nell’immenso dominio della biologia la riceve... La conclusione di queste constatazioni e di queste riflessioni è che in nessuna parte l’uomo di scienza ha trovato la chiave dei fenomeni: ovunque egli cozza con enigmi fondamentali, in fisica, in astronomia, in biologia, in psicologia e in pedagogia. Egli ha trovato tante relazioni tra le misure che egli ha fatto: ma gli è ovunque impossibile di dare la spiegazione ultima ! dei fatti osservati. .. Da ciò — aggiunge decisamente il Tiercy, cercando il perché estrinseco — sembra che l’uomo di scienza non possa fare altrimenti che affrontare la questione religiosa » ?.

state osservate

Né molto diversamente si deve dire degli inventori, che si distinguono dagli scopritori nel senso che creano artificiosamente cose non esistenti in natura. Essi infatti non fanno in definitiva che utilizzare le forze sco-

perte nella natura. Tutto questo, senza nulla detrarre all’ammirazione che si deve alla scienza, mette molta acqua sul fuoco dell’apoteosi comtiana, o meglio rimette le cose al loro posto. Non solo lo scienziato non esaurisce il mistero della natura, in. quanto vi sono sempre altre cose da ! Traduco con la parola « ultima » l’espressione concettualmente equivalente, dello scrittore.

«

première

»

Réformation et transformation progressives des interprétations scientifigques des fails, et questions restées sans réponse, Scientia, VII, 2

1951.

217

scoprire, ma anche in quanto le cose stesse scoperte più son penetrate e più misterioso presentano l'intimo perché: e — quanto alla causa ultima — tanto più postulano la causa estrinseca suprema. Anziché creatore delle meraviglie della natura, lo scienziato si presenta come il lettore e il decifratore — alquanto superficiale — di coteste meraviglie. scrive, Il libro della natura, cioè, lo scienziato non — lo — alla legge. meglio ma

lo

*

Ma ecco che sotto questo preciso aspetto ritorna in pieno la vera grandezza dello scienziato: la grandezza di saper compiere — sia pure nei suddetti Jimiti — quella decifrazione. Quando uno legge un libro vuol dire che ha imparato quella lingua. Quando ne capisce 1l contenuto vuol dire che la sua mente ha un certo adeguamento alla mente dell’autore. Chi riesce a capire una difficile trattazione matematica vuol dire che arriva in qualche modo al livello del matematico che l’ha scritta. Chi sa penetrare criticamente la bellezza di un poema vuol dire che riesce a salire al piano artistico del poeta. Siamo ora al punto a cui mirava questo paragrafo. Gli scienziati, in quanto decifratori del poema della natura, per ciò stesso si pongono al piano della sua meravigliosa razionalità — per chi non respinge l’idea del creatore dirò: al piano di chi lo ha scritto — si pongono cioè sul piano dell’idea, dell’intellettualità e quindi

della spiritualità. A chi nella natura riconosce l’esistenza di una realtà superiore alla materialità degli elementi e vi vede l’intelligenza di un meraviglioso ordine, apparirà la du218

plice contemporanea conseguenza: l’esistenza d’un sublime spirito ordinatore della natura stessa e l’esistenza in sé stesso d’un principio proporzionatamente superiore alla materia e capace di leggere il grande libro cosmico: l’anima spirituale. Tanto richiede uno spirito ordinatore la razionalità dell’ordine cosmico, quanto uno spirito comprenditore la lettura di tale razionalità. E anche la proporzione tra i due spiriti è ora chiarita. Quella dello scienziato sarà una lettura che inesorabilmente dovrà fermarsi davanti agli intrinseci « perché ». Più oltre, fino in fondo, non potrà andare. Vi potrebbe andare soltanto avendo la stessa mente dell’autore del poema della natura, la quale evidentemente l’uomo non ha. S’intende che tale lettura, anche solo limitandosi agli immediati « perché », senza poter avanzare nella profondità del reale, costituisce tuttavia una vera rivelazione dell’essenza delle cose. È una lettura cioè che sboccia in «idee ».

L’argomento quindi — come, più o meno, tutti precedenti — finisce per tornare fondamentalmente a quello iniziale di questo capitolo. Qui si è voluto solo richiamare una delle più clamorose occasioni umane di trarre dalle cose materiali le immateriali idee. Ho voluto far riflettere alla strana ironia di tanta opposizione allo spirito, da parte di non pochi scienziati, in nome di quella scienza che è invece uno dei più grandiosi monumenti e delle più luminose rivelazioni della intelligenza e dello spirito umano. 1

210

L'ESPERIENZA DELLA LIBERTA E

LO

SPIRITO

La reazione volitiva

Il capitolo precedente ha fatto sempre leva, sotto vari aspetti, sul fenomeno umano della conoscenza. Essa costituisce una decisiva prova sperimentale dell’esistenza nell’uomo dell’anima spirituale e immortale. Ma l’esperienza d’ognuno ci pone davanti a un secondo fenomeno fondamentale umano, a una seconda capacità, che con la prima presiede alle più alte relazioni umane col mondo esterno. È la capacità volitiva, che muove alle iniziative, all’azione. Con la conoscenza vedo e giudico la cosa e l’opera da farsi. Con la volontà la perseguo e la compio, o la respingo e mi astengo. Entriamo così nel secondo aspetto fondamentale della realtà umana, anzi della realtà vivente e, più in generale ancora, della realtà cosmica, che avevamo lasciato in disparte, fino ad ora, in tutto l’itinerario percorso. Si tratta di vedere se anche da esso possiamo trarre una prova certa dell’esistenza dell’anima. sk

È, nel quadro delle mutue relazioni cosmiche, l’aspetto complementare e integrativo delle relazioni di contatto materiale o conoscitivo, che abbiamo finora

considerato. 220

In ogni relazione cosmica infatti le cose debbono prima essere poste, in qualche modo, in contatto e poi reagire tra loro. Così per i corpi inanimati. Ecco avvicinati due corpi a diverso potenziale: ne seguirà l’azione della scintilla. Ecco mescolate due sostanze: ne seguirà la reazione chimica. Così per i viventi, in proporzione del loro triplice modo di contatto. Nella vita vegetativa è la sostanza nutritiva posta a contatto per ingestione e poi incorporata per reazione assimilativa. Nella vita sensitiva è l’oggetto messo in contatto col senziente nel più alto piano della sensazione: e la reazione conseguente è l’attrattiva o la ripulsione sensibile, a cui seguirà il movimento fisico per raggiungere o fuggire l’oggetto. Il cane annusa 1l buon boccone e corre a prenderlo. Il bambino, prima dell’uso di ragione, sente 1l piacevole dolce sulla lingua e tende le mani per prenderne dell’altro. Non c’è da confondere evidentemente questo impulso attrattivo o repulsivo con il piacere o 1l dolore della sensazione. Questi costituiscono la sensazione in sé, mentre quegli impulsi ne sono la conseguenza. Un conto è che il cane senta qui un piacevole odore di arrosto e un conto è che sì lanci a divorarlo. Con la sensazione la cosa è come assorbita sensoriamente nel senziente. Con la conseguente attrattiva è invece 1l senziente che va verso la cosa, nella sua esterna realtà materiale e concreta. Ed è naturale che, come la sensazione non può riselversi in termini puramente fisico chimici, così tale reazione alla sensazione stessa resti nel medesimo grado d’immaterialità. Essa infatti non si proporziona all’a221

zione meccanica dell’oggetto e nemmeno alla azione — energeticamente minima — degli organi di senso, ma alla sensazione più o meno intensa di piacere o di disgusto, in quanto tale, che, come abbiamo visto, è irrisolvibile in termini di pura materialità. *

Nella vita intellettiva al contatto intellettivo con la cosa corrisponde la reazione volitiva. Anche qui il fatto di tale corrispondenza sarebbe sufficiente a porre l’impulso volitivo nel medesimo piano spirituale dell’intellezione. Prospettando le cose in questi termini, la spiritualità della volizione si presenterebbe cioè come logica deduzione della già provata spiritualità dell’intellezione. Non costituirebbe quindi alcuna nuova prova della

spiritualità dell’anima, ma una conseguenza della sua già dimostrata spiritualità. Ma possiamo invertire la considerazione. Possiamo cioè prendere la volizione come fenomeno sperimentale da studiare a parte, e vedere se esso, in sé considerato, presenti delle caratteristiche che ne rivelino l’immate-

rialità completa

e quindi la spiritualità:

in modo da costituire un’altra sperimentale rivelazione dell’anima spirituale, indipendente dall’altra. Il fatto caratteristico c’è: la libertà umana, che ora passeremo a studiare. Il fenomeno del volere Guai a entrare in disputa filosofica sul celebre argomento della libertà umana, ossia del cosiddetto « libero arbitrio », su cui — da quando Aristotele l’affermò 222

chiaramente



la discussione non ha avuto più fine Na!

turalmente il determinismo materialista la nega. Per Tommaso Hobbes (1588-1679) tutto si riduce al moto

necessariamente determinato di particelle materiali: « perciò la libertà non conviene alla volontà dell’uomo più che non convenga a quella dei bruti »!. Sembra di trovarsi davanti a uno di quei punti in cui le discussioni filosofiche corrono il rischio d’oscurare anziché illuminare l’orizzonte della verità. Forse perché si chiede loro troppo: di spiegare cioè in un modo capace d’essere intuito dall’immaginazione, l’intimo processo delle nostre libere decisioni. Mentre è chiaro che, se si tratta di spirito, è impossibile seguirne l’intima operazione con l’immaginazione, legata come essa è al determinismo dell’ordine quantitativo materiale. Ma restiamo al fatto. Non permettiamo che la disputa filosofica e le eventuali oscurità teoretiche infirmino ciò che è sperimentalmente chiaro. e

tratta

del fatto sperimentale che ha come campo d’indagine la nostra personale coscienza, cioè il campo della più sicura esperienza e riflessione conoscitiva: il fatto del nostro volere. Innanzitutto: sono certo che in alcuni momenti voglio una cosa e in altri momenti non la voglio. Fin qui nessuna difficoltà. Ora bisogna interrogare la nostra personale esperienza quanto al modo di tale volizione. L’esperienza mi presenta pertanto quattro maniere diverse di operazione personale, che permettono di diQui si

1

De corpore (1655). XXV, 12. 223

stinguere nettamente la maniera corrispondente all’impulso volitivo. Potrà essere difficile spiegare forse la diversità, ma non ci può essere dubbio sul fatto di tale diversità. Primo. Sono trascinato via violentemente da alcuni malviventi. Di fatto li seguo. Ma sento benissimo che ciò avviene contro la mia volontà. Sono obbligato a fare quei passi. Li debbo fare per forza. Sono trascinato come un qualsiasi altro corpo materiale, per necessità fisica. Secondo. Prendo del cibo e lo inghiottisco. Mentre era in bocca sentivo del gusto. Poi niente. Ma il mio stomaco ha cominciato, insensibilmente, da sé, 1 movimenti peristaltici necessari per la digestione. Essi non sono stati imposti da alcuna forza estrinseca, ma tuttavia sono avvenuti indipendentemente dal mio senso e dalla mia volontà. Si è svolto un processo insensibile, come nella nutrizione della pianta. Terzo. Sono digiuno da lungo tempo. Vedo lì una appetitosa pietanza. Sento una gran « voglia » - si noti 1l femminile, filologicamente opportunissimo, per non la volontà, con il « voglio » di prencon equivocare derla. Ma non essendo roba mia, mi vinco e non la prendo. Quella propensione, quell’attrattiva per il cibo l’ho esperimentata indubbiamente, ma come fatto invincibile, non dipendente da me. Io non l’ho voluta. È sorta sensibilmente, da sé, come sarebbe sorta in qualsiasi animale. Quarto. Sono ammalato. Mi occorre una medicina particolarmente disgustosa. Ne comprendo l’utilità e la prendo. Istintivamente mi ripugna. Ma, « contro voglia», la prendo lo stesso. L’ho voluta. È un atto partito da me. (Come è partito da me, nel terzo caso, il volere non prendere la pietanza: benché si trattasse di -—

224

un volere negativo, mentre qui, nel quarto casò, è positivo). Io vedo benissimo una profonda differenza nei vari casi, qualunque sia la spiegazione filosofica che ne voglia dare. Il primo impulso operativo non dipende in alcun modo da me, ma viene dall’esterno. I movimenti del secondo caso sono partiti indubbiamente dal mio corpo, ma solo in quanto vivo. La terza attrattiva è partita dal mio corpo, in quanto senziente, con una sensibilità indipendente dal mio volere. Si tratta cioè ancora di fenomeni subiti — non dipendenti da alcuna mia iniziativa — che mi sento assolutamente incapace di evitare, di cui sento di non avere alcuna responsabilità. La quaita decisione sento chiaramente che è venuta da me — non certo dalla sensibilità del corpo, che anzi vi ripugnava -. da me cioè in quanto volente. Tutto ciò è un fatto sperimentale, innegabile 1. Si tratta d’interpretare ora cosa vuol dire quel « da me». Il confronto tra quattro impulsi — fisico, fisiologico, sensorio, volitivo - ci permette subito di allinearli secondo una progressività di distacco e di indipendenza dalla materia e secondo la corrispondente progressiva padronanza e iniziativa personale dell’azione. 1

Il che è già sufficiente per giudicare la superficialità dell’aforisma del superficialissimo Schopenhauer: « È certo che un uomo può fare ciò che vuole, ma non può volere che ciò che vuole ». Secondo Einstein invece esso esprime una grande sapienza, a cui si appoggia per sentenziare in modo altrettanto sbrigativo e superficiale: « Non credo affatto alla libertà dell’uomo nel senso filosofico della parola. Ciascuno agisce non soltanto sotto l’impulso di un imperativo esteriore, ma anche secondo una necessità interiore. L’aforisma di Schopenhauer: c È certo, ecc. ” mi ha vivamente impressionato fin dalla giovinezza » (Come io vedo il mondo, O.c.). 1

225 16

La prima azione segue le leggi puramente fisiche della forza bruta, ossia della materia. Come un masso si sposta sotto un impulso dinamico, così io sotto la forza di quei malviventi. Tutto il mio essere fisico subisce l’azione. Tanto la mia sensibilità quanto il mio «io» vi si oppongono. La seconda segue le leggi puramente fisiologiche della vita. La mia sensibilità e il mio «io » non vi si oppongono, ma ne sono estranei. Tuttavia il fenomeno comincia a diventare mio, in quanto avviene secondo le leggi fisiologiche del mio corpo. Il terzo 1impulso segue la legge dei sensi, superiore a quella fisiologica, ed è un po’ più mio, in quanto che 10 sento: ma non posso non sentire ed è ancora una impulso subito. Il quarto impulso lo sento completamente mio. Sono 10 che lo determino, che voglio. Non sono trascinato da forze esterne che non vi sono; non da un naturale funzionamento fisiologico perché l’oggetto è ancora fuori di me; non dai sensi perché essi sono in contrasto. Sotto questo ultimo aspetto anzi, 1l terzo e il quarto caso si identificano, perché nel terzo contro l’attrattiva dicevo: #0 ; nel quarto contro la ripugnanza dico: sì. Sostiamo un momento su quest’ultimo rilievo. Già sì profilano

conseguenze decisive.

Contro ai sensi può andare solo lo spirito Cosa potrà mai azione o la suscita, tanto è vero che al clinazione dei sensi

essere quell’«io », che proibisce la superiore all’ordine fisico e sensorio, trascinamento dal di fuori e all’insi oppone ? Evitiamo ancora per un momento di entrare, in modo più strettamente specifico, nel fatto della libertà, di cui parleremo tra poco. E disinteressiamoci quindi, 226.

per ora, della celebre obiezione: ch'io voglio o non voòglio per un motivo e che questo motivo mi toglie la libertà e mi determina necessariamente all’azione. Sostiamo un poco sul solo fatto di cotesta superiorità che, pur essendo collegata con la libertà, possiamo considerare a parte. Sopra all’ordine fisico e sensorio non è concepibile che lo spirito, la volontà spirituale, l’anima spirituale, che vuole. La rivelazione di questa è già compiuta. Anche cioè se, per ipotesi provvisoria, quell’obiezione contro la libertà fosse valida, anche se il « motivo » obbligasse il mio gesto, obbligasse il mio volere, questo supererebbe la sfera dei sensi e quindi totalmente la sfera della materia: e si avrebbe lo spirito. Si direbbe che lo spirito non è libero, ma ugualmente la sua esistenza, sarebbe rivelata dalla superiorità sperimentale della mia decisione, rispetto alla materia e al senso. Vedemmo a suo tempo delle immaterialità che non sono spiritualità: che hanno cioè ancora un condizionamento di esistenza nella materia. Il caso più alto lo trovammo nella sensazione, la quale non è spirituale perché conserva un essenziale riferimento alla concretezza individua materiale. Ma qui tutto il piano sensorio è superato: e superato in quel modo inequivocabile indicato dall’opposizione e dalla vittoria. Dunque siamo in piena autonomia dalla sfera della materia: siamo nella sfera dello spirito. La forza dell’argomento è tutta in quest’ultimo fatto. Mentre la ripugnanza per quella medicina — piano sensorio — vincolata alla concretezza materiale di quel bicchiere che mi viene porto, è cioè determinata concretamente proprio da quella medicina lì presente, il gesto volitivo di prenderla è così poco determinato dalle sue qualità sensibili che agisce contro la loro impres227

sione. Segno evidente che non nasce dai sensi e che li supera.

E questo non nel piano stesso del senso, come sarebbe, per esempio, se avessi spalmato l’orlo del bicchiere con un così gustoso nettare da vincere con la sua attrattiva la ripugnanza sensoria, il che non ho fatto; ma in un piano superiore a ogni altra attrattiva sensibile — perché, di fatto, nessun’altra vi è — per la sola idea astratta della mia salute. &

Potrebbe pure essere che la mortificazione dei sensi fosse compiuta per bassi ideali, per smania di gloria, di ricchezza e di dominio, anzi perfino — come per esempio nel prendere una medicina, nel sottoporsi a una necessaria operazione, ecc. — in previsione di una futura maggiore soddisfazione sensuale. Ma ciò riguarderebbe i motivi della decisione, non la decisione in sé, di cui la sorgente immediata, opponendosi sul momento al senso, non può essere il senso, ma deve superarlo. La lingua non potrà mai andare contro se stessa, dire cioè che ciò che le piace non le piace o viceversa; il tatto non potrà mai andare contro il tatto, ecc. E ciò che piace sempre attirerà e ciò che disgusta sempre ripugnerà. L’attrazione di un senso potrebbe bensì superare la ripugnanza di un altro e giustificare il sacrificio di quello. Ma tirando i bilanci avremmo sempre che il piano della sensualità in tal modo sarebbe accontentato. Il sacrificio contro tutto questo piano è invece impossibile che nasca dal piano stesso. Deve avere un’origine superiore. Sicché tutto ciò che nella vita umana significa parziale o totale sacrificio del corpo, per qualunque motivo 228

e sotto qualunque aspetto si elegga, si

traduce in precisa testimonianza dello spirito. Lo scienziato che si consuma negli studi, il soldato che si sacrifica per la patria, la madre che soffre per il figlio, tutto il dramma stupefacente della penitenza cristiana nei culmini raggiunti dai grandi santi, come pure le sofferenze affrontate per bassi ideali: tutto, in quanto sia immediato rinnegamento dei sensi, supera il senso e rivela lo spirito. Solo lo spirito è libero Ma passiamo ora dal solo fatto della superiorità al fatto specifico della liberta della violazione.

Si tratta di progredire nell’analisi dell’atto volitivo, riflettendo al significato di quel sentirlo proprio. È un’esperienza personale che si accentua nella sfera morale, qualunque sia la concezione che si abbia della morale stessa. Nessuno si sente moralmente responsabile d’un dolor di denti o dell’appetito che sente o di qualsiasi altra sensazione non provocata, ma puramente subita. Ma ognuno si sente invece responsabile del proprio volere. Questo appartiene al proprio 10 morale, il resto no. Ed è un’appartenenza che si concepisce come padronanza, dominio: ossia dipendenza dalla propria decisione, così da poter compiere o non compiere l’atto. Non posso impedire di sentire appetito, ma posso prendere o non prendere cibo. È il fenomeno della libertà. Così certo quanto la suddetta constatazione di coscienza. L’oscuramento comincia quando se ne vuol dare la spiegazione. Ma, qualunque essa sia, 1l fatto resta. 220

Né è il caso di domandarsi quando psicologicamente si realizzino le condizioni della piena libertà e responsabilità umana. Basta che essa comparisca, in certi casi almeno, come nei banali esempi accennati, indiscutibilmente: basta, per affermare che tale libertà essenzialmente c’è, e trarne le conseguenze che vedremo. Quando l’accusato dichiara, a discolpa, che nell’impeto della passione non fu più padrone di sé, mostra di conoscere benissimo che in altri casi avrebbe potuto essere padrone di sé. E la differenza è che nel primo caso l’atto sfugge al proprio controllo e non può non essere posto, mentre negli altri può essere posto o non posto. -

L’obiezione che la decisione dipende ed è quindi de-

terminata dal « motivo

»

rientra nell’oscurità della spie-

gazione del fatto, che non autorizza minimamente a dubitare del fatto stesso, testimoniato dalla coscienza e chiarito dal suddetto confronto con le altre specie di

attività. Tuttavia non

trovare nascosta nell’obiezione stessa la confusione tra atto libero e atto cieco, è difficile

come cicè se la libertà dell’atto dovesse escludere la sua razionale giustificazione, ossia la sua motivazione. Ed è nascosta anche l’altra confusione di voler concepire ogni influsso — come questo del motivo della decisione — secondo il determinismo di causa ed effetto, sug-

gerito dall’intuizione della fantasia, legata al mondo materiale. Mentre invece vedremo nel seguente paragrafo che è proprio la razionalità la motivazione dell’atto che lo rende libero, e che l’assimilazione delle decisioni volitive alla causalità materiale è illusione fantastica. 230

Qualunque sia, comunque, la spiegazione del fatto, la coscienza ha l’evidenza di essere libera nel momento della decisione. Ora ciò è impossibile nell’ordine materiale, retto dalla ferrea legge del determinismo. Avemmo occasione sopra di toccare il problema dell’indeterminismo heisenbergiano ! mostrando come esso non sia che l’espressione della pratica e teoretica impossibilità di precisare parametri dinamico spaziali dei corpuscoli, in sé però, ossia obiettivamente, determinatissimi. Notammo anzi come la stessa genesi del concetto d’indeterminazione presuppone 1l concetto della la determinatissima realtà fisica. A meno che si metta in dubbio la obiettiva esistenza individua dei corpuscoli atomici come alcuni scienziati hanno insinuato. Nella quale ultima ipotesi vi sarebbe sempre però l’obiettività della materia e della energia complessivamente considerate come un «continuo ». A ogni modo anche chi dubiti del determinismo corpuscolare, lo ritrova indiscutibilmente nell’ordine della realtà visibile macroscopica. Ora, per confrontare le attività materiali con quelle volitive è proprio l’ordine macroscopico che propriamente interessa. Il piano delle attività volitive infatti non riguarda elementarità di minime situazioni e impulsività corpuscolari, ma chiare e vaste decisioni, esternamente controllabili, così da rientrare e proporzionarsi all’ordine macroscopico. 1

2°,

1

2

Cfr. p. 78. ss. Cir. p. 88. 231

Non è difficile pertanto convincersi perché l’azione materiale debba essere necessariamente determinata, come l’esperienza conferma. Ciò deriva dalla caratteristica della materia di essere legata alla propria individua concretezza spazio temporale, sia nella sua esistenza corporale che nella sua energia e attività. Quel mucchio di materia è quello che è, in quel punto dello spazio e del tempo, ossia in quel luogo e in quel momento, e con quelle proprietà ed energie e quindi con quella tendenza all’azione e quella direzione operativa. Metto, in queste condizioni, quei reagenti insieme: ed essi, secondo la loro concreta realtà, reagiranno nella propria naturale direzione. Per aspettare a reagire dovrebbero non essere quello che sono (con la proprietà cioè di reagire, messi a contatto), e per reagire diversamente dovrebbero non avere la direzione operativa che hanno. In un altro luogo e in altro tempo potrebbero essersi modificati nelle proprietà o venire a contatto con altri reagenti e produrre quindi altra reazione. Ma in quel punto e in quel momento, supposte realizzate le condizioni reattive, reagiranno subito e nel loro de-

terminato modo. Qualsiasi attesa o modificazione d’attività mancherebbe di qualsiasi ragione fisica, di qual-

siasi proporzionata causa e sarebbe quindi impossibile. Insomma la materia, nell’azione, è determinata-

mente vincolata e proporzionata alla causalità della sua complessiva concretezza corporeo energetica di quel punto e momento. Per essere molteplice e varia la sua azione, la materia dovrebbe trascendere la sua concretezza, averla molteplice, essere cioè anche quello che non è, il che è assurdo. 232

Visto pertanto che il determinismo dell’azione dipende dalla concretezza individua della materia, esso costituirà la caratteristica di qualsiasi essere che sia in qualunque modo legato e condizionato a tale concretezza stessa, come sono anche senzienti. Per tutti cotesti esseri la padronanza e la libertà del proprio atto è impossibile. 1

*

Di fronte pertanto al fatto sperimentale della libertà del volere umano, una conseguenza s’impone. Vuol dire che quell’atto volitivo, quell’io umano da cui promana e di cui si constata la libertà, trascende la suddetta concretezza materiale. Vuol dire cioè che nell’uomo v’è un misterioso potere operativo superiore e indipendente totalmente dalla materia: un potere spirituale che svela l’anima spirituale. *

E giustamente ho detto « misterioso », perché ogni spiegazione intrinseca e ricerca della causa dell’atto libero volitivo sarà sempre oscurata — per la tendenza a ridurre tutto in termini materialmente immaginabili dall’ingannevole assimilazione alle analoghe relazioni tra causa ed effetto valevoli nel piano del determinismo materiale. Quella scintilla è scoccata perché quel determinato potenziale l’ha prodotta. Quell’atto volitivo è scoccato perché quel motivo l’ha prodotto: e la libertà sembra sparita. Ma invece è proprio tale piano delle relazioni materiali che va superato e quella assimilazione che va —

esclusa.

233

Non va escluso evidentemente il principio universalissimo di causalità, la necessità metafisica cioè che d’ogni cosa vi sia la ragione proporzionata. Ma appunto perché deve essere « ragione proporzionata » essa deve

adeguarsi all’effetto. La causa dell’atto libero sarà quindi specificamente diversa dalla causa dell’atto obbligato.Eccola: l’anima spirituale, la sua potenza volitiva. E, appunto perché libera, lo sgorgare dell’atto da essa non potrà essere ridotto in termini materialmente e quindi deterministicamente immaginabili.

Libertà, gloria dell’intelligenza Se non possono non esservi delle zone di oscurità

nell’intimo sprigionarsi dell’atto libero, vi sono tuttavia degli aspetti chiari del suo funzionamento, come il fatto fondamentale della colleganza tra l’intelligenza e la volontà. La libertà si presenta come il fiore prezioso che sboccia dal nobile terreno dell’intelligenza. Si tratta di due fatti fondamentali ben distinti ed entrambi sperimentali: intendere e volere. Fatti che rivelano entrambi, da punti di vista diversi, l’esistenza dello spirito umano: come abbiamo visto nei due distinti itinerari di ricerca che abbiamo percorso. Ma sono tuttavia fatti interdipendenti. E la loro mutua colleganza costituisce un’importante chiarificazione, che dobbiamo analizzare. Essa costituisce anche un collaudo della giustezza dei due itinerari percorsi nella ricerca dello spirito umano. È come quando nell’analizzare le ruote d’un meccanismo si ha una riprova della loro reale appartenenza ad esso nel fatto che, mettendovele, ingranano bene insieme. 234

Ho già accennato ai « motivi » della deliberazione di volontà, come auna difficoltà contro la libertà stessa. Non è difficile invece vedere che essi costituiscono lo strumento indispensabile dell’atto libero. Intanto è evidente che il movimento volitivo, per non essere legato a un’unica concreta soluzione, cioè per attuarsi in modo libero, deve svolgersi in un piano di molteplicità, ossia di universalità. È della materia la. concretizzazione nel singolo: è dello spirito la universalità. Ma l'atto volitivo, in quanto inserito nell’ordine esecutivo pratico, non può non terminare al singolare concreto. O voglio questo o voglio quello. Mentre infatti la conoscenza assorbe, per così dire, l’oggetto in sé, la volontà sospinge verso l’oggetto esterno come è nella realtà e quindi nella sua singolare concretezza. Come potrà pertanto la volontà porsi in previa relazione a « questo o quello », ossia elevarsi nel piano della universalità e quindi della libera scelta, se il suo movimento tende al concreto ? Ciò non potrà avvenire che per mezzo dei concetti, delle idee, che per intima loro essenza sono universali: e non solo concetti, ma valutazioni, ragionamenti, motivi pro e contro. Ora tutto questo è un fatto di conoscenza e appartiene all’intelligenza. Ecco dunque la volontà che ha bisogno dell’intelligenza. E viceversa ecco l’intelligenza che ha bisogno della volontà, per determinare il movimento pratico verso l’oggetto conosciuto e concreto. L’interdipendenza funzionale è quindi loro essenziale, |

239

La volontà, per sé, è cieca. L'’intelligenza è contemplatrice e ragionatrice; ma, quanto alla conquista concreta dell’oggetto, è immobile. Esse quindi si integrano a vicenda. L’intelligenza sarà l’occhio della volontà e la volontà le gambe dell’intelligenza. L’intelligenza sarà l’universalizzatrice della volontà e la volontà la concretizzatrice dell’intelligenza. O meglio — risalendo al principio spirituale di tali attività — l’anima con l’intelligenza vedrà, con la volontà opererà; col potere conoscitivo si eleverà alla visione universale delle cose, con l’impulso volitivo le conquisterà nella loro singolare concretezza. Un uomo e quindi un’anima con la sola intelligenza è un assurdo. All’universalità della conoscenza non corrisponderebbe un’adeguata capacità motrice. Il contatto concettuale con le cose resterebbe sterile, giacché esse non potrebbero concretamente essere raggiunte. E un uomo con la sola libera potenza volitiva è pure un assurdo, perché la capacità di scelta non potrebbe esercitarsi verso nessun concreto oggetto, adeguatamente proposto. Mancherebbe 1l contatto intellettuale con le cose, capace di eccitarne l’azione. I due casi corrisponderebbero rispettivamente a un uomo senza gambe o a un uomo cieco. %*

Il confronto col puro piano sensorio può ancor meglio chiarire. Là v’è sensazione e impulso sensitivo. Qui intellezione e impulso volitivo. Là alla sensazione vincolata al singolare concreto corrisponde la proporzionata attrazione o ripulsione unidirezionale e neces236

sarta verso il concreto stesso. Qui alla conoscenza intellettiva universalizzatrice corrisponde la decisione libera. Tale universalità infatti non è capace di creare la

unidirezionalità impulsiva verso il concreto. Non vi sarà quindi un impulso automaticamente e quindi necessariamente conseguente. Esso non può quindi derivare che da un’altra facoltà che ne abbia il dominio e ne sia responsabile, da una decisione libera, dall’atto libero del volere. Tornando al già visto esempio della medicina, niente nel piano sensorio può contrastare alla ripugnanza dei sensi e impedire il movimento necessario di fuga. Perché tale necessità venga superata — e, tolta la necessità, c'è la libertà — e si compia la mortificazione dei sensi, bisogna che ciò si presenti come un bene per il soggetto, per l’individuo tutto, come mezzo per la sanità da riconquistare. Bisogna cioè che l’anima possa mettersi a contatto con l’oggetto, non visto nella sola concretezza materiale di oggetto disgustoso ma in relazione all’utilità del fine, lo veda cioè alla luce dell’idea e del ragionamento, che solo l’intelligenza universalizzatrice può fare. Allora solo sarà in grado di emettere la decisione 77bera circa il compimento di quella mortificazione o no. e

Terminati così gli argomenti della esistenza dell’anima spirituale, sorgono i complessi problemi della sua natura, del modo di operare, delle relazioni col corpo, dell’origine, ecc. Tutti argomenti indispensabili per chiarire completamente il suo mistero e per toccare gli aspetti più vitali e pratici del grande problema. Saranno l’oggetto dei prossimi capitoli. 237

SPIRITO

E

CORPO

Il sipario del sonno

Tutti sentono la forza inebriante della parola « spirito». Il materialista la riterrà una illusione, ma una

illusione — in fondo — affascinante: una chimera, innalzata al vertice del sublime. Ripensando però a quanto dicemmo circa le vaste possibilità crescenti di perfezione, al di là dei confini della materia, agli sconfinati orizzonti cioè della realtà immateriale, avremo saggi motivi per moderare le troppo alte valutazioni dello spirito umano. Come al di là della pura materia, prima delle entità spirituali e immortali vi sono gradini di realtà cosmiche non totalmente superiori alla materia e quindi non propriamente spirituali, e non immortali, così al di 1à del primo confine dello spirito, nella regione cioè delle entità propriamente spirituali, esse potranno distendersi in una vastissima scala. Il presentarsi pertanto l’uomo composto anche di corpo suggerisce che la sua anima, benché realmente spirituale, si trovi in un gradino modesto di spiritualità. Non deve fare quindi meraviglia, anzi deve sembrare naturale che nell’uomo le attività spirituali, pur essendo essenzialmente indipendenti dalla materia, siano congiunte e intrecciate a quelle fisiologiche e sensorie. 238

Su questa linea di considerazione potremo arrivare a scoprire con precisione il grado della spiritualità umana e distinguerlo da un « angelismo » che non è per nien-

te umano.

Ma il guaio è che tale intreccio delle attività spirituali e corporee sembra così stretto da annullare addirittura quell’autonomia operativa dalla materia, su cui abbiamo fatto fulcro per provare la sussistenza e immor-

talità dell’anima spirituale.

Chi sa quante volte questa classica obiezione — nonostante la mia promessa di affrontarla in seguito — avrà vibrato nel cuore del lettore !

Pella autonomia dell’intellezione

e

dell’atto volitivo,

che una piccola lesione della massa cerebrale rende

impossibili Anzi, non occorre nemmeno una lesione. Basta il fenomeno banale del sonno. Annullata ogni conoscenza, ogni autocoscienza salvo i saltuari barlumi del sogno — ogni volizione, ogni responsabilità. Eccolo 1à quel grande scienziato addormentato e quel pensoso filosofo che russa. Un mantice respiratorio, una pompa sanguigna circolatoria. Non è più nemmeno un animale sensibile. Non è restata che l’attività vegetativa. Se l’anima spirituale e intelligente veramente esistesse dovrebbe avere almeno coscienza di sé. E, a ogni modo, esistere senza attività e senza coscienza è come non esistere. Dopo morte sarà la stessa cosa. Anche se lo spirito sopravvivesse, resterebbe come in un sonno senza fine e l’interminabile « al di là » non avrebbe alcun valore: non farebbe che corrispondere all’annullamento !

-—

239

operativo del sonno, secondo l’esperienza d ognunò. Sarebbe un’immortalità equivalente al nulla. Clemenceau aveva dunque ragione. è

à



3

e

}

.

*

L’osservazione è estremamente interessante ed esige un’accurata chiarificazione. Ma a voler precisare i termini della difficoltà, si scopre, ancor prima di affrontare in pieno il problema, un immediato capovolgimento della situazione, ossia un vero immediato apporto alla tesi spiritualista. Dietro il sipario del sonno si ritrova lo spirito. *

Si pensi alla morte. Ciò che la rende impressionante è quell’esperienza

tremenda della cessazione completa d’ogni visibile attività razionale, sensoria e vitale. Se l’intellezione è prova dello spirito, la sua così radicale cessazione sembra effettivamente essere prova della cessazione di esso, ossia — anche se c’era — della sua morte o, almeno, della fine della sua attività. È questa, in fondo, la difficoltà psicologica più comune contro la sopravvivenza dell’anima. Si potrà bensì rispondere che l’« al di là », appunto per essere tale, non può manifestarsi nell’«al di qua». Da questa cessazione di attività nella presente vita niente si può quindi dedurre contro l’altra vita. Ma psicologicamente si seguita a trovare nel fatto un’innegabile difficoltà. Ciò che più non si vede agire si è spontaneamente portati a pensarlo finito. Si è portati cioè a pensare l’anima intellettiva finita, come la benzina di un motore che non si muove più. 240

Ma ecco ora invece il sonno a darci la prova sperimentale che lo sparire visibilmente delle fondamentali attività umane non significa la loro sospensione definitiva e tanto meno la fine del loro principio animatore. Esse infatti dopo il sonno ricompariscono in pieno. Sarebbe come se quel motore a un certo punto ricominciasse a funzionare: vuol dire che non ne aveva perso la possibilità e che la benzina non era finita. Poco importa che uguale ricomparsa di attività non si constati dopo la distruzione di morte. Non è la diversa durata del tempo — poche ore o molte — né le diverse circostanze della visibile sospensione che possono modificare 11 fatto. Resta cioè provato che il principio delle attività spirituali umane può sussistere e riprendere le attività stesse anche dopo averne constatata una loro sensibile scomparsa. E quindi come può sussistere e ricominciare ad agire nel caso temporaneo del sonno — visto che poi, infatti, tali attività ricompaiono — così può sussistere e riprendere le attività anche dopo la morte. Tale importante rilievo non è svalutato dal fatto che mentre nel sonno non v’è alcuna distruzione dell’organismo, nella morte v’è 1l suo disfacimento. Ciò che interessa è infatti la constatazione che un qualcosa resta pur

scomparendone temporaneamente la manifestazione. È trattandosi, in particolare, dell’anima spirituale, contrassegnata in vita dalle manifestazioni intellettuali, emananti da un principio autonomo dal corpo, tanto è affermare che perdura nascosta dietro l’irrazionalità del dormiente quanto dietro la decomposizione del cadavere. (Non sarebbe lo stesso invece per il principio senziente dell’animale bruto che, se può restare dietro il sipario del dormiente e ricominciar poi a funzionare, 241

non può restare dietro la dissoluzione del cadavere, venendo a mancare il soggetto della sensazione, che sono proprio gli organi distrutti con la morte). Piuttosto sorgerà il quesito del modo di riprendere le attività, che nel caso del sonno corrisponde a una completa riattivazione del corpo, mentre ciò non può avvenire dopo la corruzione di morte. Ma su questo altro problema ci fermeremo nelle pagine seguenti.

Dal fatto sperimentale del sonno risulta analogamente infirmata l’obiezione — contro l’autonoma esi-

stenza dell’anima spirituale — tratta dalla dipendenza della facoltà ragionatrice dalla sanità della sostanza cerebrale, tale che una piccola alterazione di questa può determinare la completa idiozia. Niente d’impossibile infatti che dietro 1l sipario dell’idiozia permanga integro il principio spirituale e razionale, se pure dietro l’addormentamento esso perdura. Se cioè la superficialissima modificazione fisiologico nervosa del sonno è capace di mettere completamente fuori esercizio la facoltà razionale, pur senza eliminarne in alcun modo la presenza — perché dopo ricomincerà a funzionare in pieno —, non deve far meraviglia che la più profonda modificazione fisiologica d’un morbo ne spenga l’attività per tutta la vita, pur seguitando a restare presente. Il corpo a servizio dell’anima L’obiezione contro l’asserita autonomia dell’anima

dalla materia — e quindi contro la sua natura spirituale che dall’indipendenza nell’essere e nell’operare è rive242

lata



nasce dal confondere autonomia con separazione.

Si pensa cioè che, mancando la separazione ed essendovi anzi una solidarietà operativa tra anima e corpo, venga

a mancare l’autonomia. Tale equivoco dipende dalla errata per quanto spontanea idea che si è indotti a farsi della presenza autonoma dell’anima nel corpo, dietro 1 suggerimenti più dell’immaginazione che del-

l’intelligenza. È un’idea facilmente suggerita dalla stessa asserita disparità dell’anima col corpo. Questo infatti è materiale. Quella non solo è immateriale in sé, ma indipendente totalmente nel suo essere e quindi nel suo operare dalla materia. Che ci può essere di comune tra essi? E allora sS’immagina il corpo umano organico e sensitivo, costituito già completamente nel suo essere, e dentro ad esso, in un modo misterioso, come nella propria casa, o nel proprio carcere, racchiusa l’anima spirituale. E s’immagina l’attività di questa, compiuta per intrinconto proprio, in modo del tutto indipendente secamente ed estrinsecamente dal corpo: come ognuno di noi lavora nella propria stanza, indipendentemente dalle mura di essa. —



Ora si rifletta alle strane conseguenze di questa concezione alquanto ingenua e come essa contrasti all’immediato suggerimento della coscienza e quindi alla presumibile realtà. In tale ipotesi, supposta tolta l’anima quale separato principio spirituale intelligente e volente, dovrebbe restare il corpo animale dell’ex uomo perfettamente vivente e senziente: come, allontanatosi uno dalla sua stanza, questa resta con tutte le sue qualità. La coscienza, unificatrice di tutta la propria realtà, 243

quell’«io » che ognuno attribuisce a tutto il proprio essere, sarebbero una madornale illusione. Ognuno di noi non sarebbe uno, ma sarebbero due: il corpo e l’anima in esso inclusa. Non si dovrebbe dire: « mi sono bruciato », ma: «il mio corpo si è bruciato ». Non si dovrebbe dire: «io sento », ma: «il mio corpo sente ». E reciprocamente non si dovrebbe dire: «10 penso », ma: «la mia anima pensa », ecc. L’anima dovrebbe mettersi da sé a immediato contatto col mondo corporeo, e 1 corpi sarebbero in due a vederli: l’anima e 1 sensi. Due sovrapposte cognizioni. E davvero la perdita di conoscenza nel sonno sarebbe inspiegabile perché, mentre la visione sensoria sarebbe sospesa, quella dell’anima dovrebbe continuare. L’uomo sarebbe uno strano e quasi mostruoso connubio di due esseri disparatissimi e antecedentemente completi, appiccicati tra loro. Come un meccanismo con gl’ingranaggi ibridamente fatti di latta e d’oro, di vetro e d’acciaio. E poi chi li terrebbe uniti insieme? Visto che l’anima sarebbe un qualcosa di sopraggiunto al corpo animale dell’uomo, perché non se ne vola via, anziché aspettare la morte del corpo per liberarsi del carcere in cui sta racchiusa ? Infine dove starebbe rannicchiata quest’anima? Perché non bisogna dimenticare che, essendo essa spirituale e quindi estranea all’ordine dimensivo, non si può pensare che occupi, da sola, come una nuvoletta, un determinato spazio. Anzi ciò non è pensabile nemmeno per l’anima puramente sensitiva delle bestie o per l’anima puramente vegetativa delle piante, in quanto anche esse sono — come vedemmo — semplici. Tanto meno quando si tratta dell’anima spirituale. Che possa operare nello spazio, ossia nel corpo da lei eventualmente ani244

mato, sì, perché l’operazione è localizzata dall’oggetto in cui si compie, ma che vi stia come in un recipiente qua e 1à, è un’illusione che nasce dal non sapersi figurar niente che non sia spazialmente localizzato. È l’illusione di Renato Descartes (1596-1650), che tentò di togliere l’imbarazzo della scelta della localizzazione, assegnando come posticino dell’anima umana l’Epifisi o Ghiandola pineale. E pare che se ne ritenesse sommamen-

te sicuro: « Mi sembra di aver trovato evidentemente quale sia la parte del corpo nella quale l’anima esercita immediatamente le sue funzioni... »1, Per concludere, tale concezione creerebbe una natura umana ibrida, congiunzione forzata di due elementi eterogenei, in modo che l’elemento inferiore non ne riceva alcuna intrinseca nobilitazione e il superiore ne resti prigioniero e sacrificato. E proprio la creatura più nobile del cosmo sarebbe la meno armonica nei suoi componenti fondamentali.

Non è difficile ora vedere come, abbandonando questa artificiosa e ingenua concezione, l’obiezione contro l’autonomia dello spirito umano si dissolve. La soluzione ragionevole dovrà partire dal presupposto, suggerito dalla esperienza cosmica generale e dalla sperimentale realtà umana, che la natura dell’uomo sia armonicamente costituita. Tale meraviglioso ordine lo si constata, oltre che nel cosmo in genere, nel corpo Le passioni dell’anima (Parigi, 1649), I, 31 ss. Quando chiamava la fisica e metafisica cartesiana «un ro» manzo non aveva tutti i torti. Peccato che a quello ne sostituisse un altro molto più fantastico. 1

VOLTAIRE

245

umano in particolare, nel modo con cui sono congiunte tra loro le sue parti. Per spontanea induzione si deve supporre che tale unitaria armonica congiunzione Vi sia anche tra le due parti essenziali: spirito e materia. Ci dovremo attendere cioè che — contrariamente alla concezione ingenua sopra descritta — il dualismo materia spirito assurga a una unità tale che da un lato nobiliti intrinsecamente il corpo con il permeante sostegno dell’anima spirituale e dall’altro ponga il corpo a servizio di essa, senza togliere l’intrinseca, totale autonomia di esistenza e di operazione.

Essendo infatti l’uomo un abitatore dell’ordine cosmico materiale e dovendosi trovare continuamente a contatto con la materia, è naturale che 1l compito di cotesto contatto Immediato sia assolto dal suo corpo, che si trova appunto o totalmente — come composto fisico chimico o parzialmente — come organizzato e sensorio — in tale ordine. L’armonica progressività delle successive sfere del meccanismo conoscitivo umano richiederà pertanto che vi sia una certa proporzione di elevazione tra il salto « materia — senso» e il salto «senso intelligenza ». Come, cioè, perché sbocci la conoscenza sensoria è necessario l’eccitante contatto dei corpi, così perché sbocci l’idea sarà necessario l’eccitante contatto della sensa—



zione, dell’immagine sensibile. È naturale cioè che, come l’attività sensoria è condizionata al previo contatto con i corpi (visivo, tattile, ecc.), così l’attività spirituale, universalizzatrice, sia condizionata alla previa attività sensoria, e che mancando questa l’intellezione non sia possibile, È cio che in-

246

fatti si esperimenta. L’intellezione ha bisogno delle

impressioni sensorie ricevute dal di fuori e raccolte dall’immaginazione per compiersi. E se gli organi sensori esterni e interni sono inadeguati (bambini), inerti (dormienti) o malati (dementi), essa non può aver luogo. Si tratta di un doppio processo elevatore, con il quale soltanto si realizza una stretta unitaria collaborazione delle parti del composto umano e — in armonia alla gerarchia dei valori — si pone il corpo a servizio dell’anima. Mentre il senso eleva il contatto fisico chimico al piano sensorio, l’intelligenza eleva il contatto sensorio al piano concettuale. Il senso porge all’anima la realtà esterna già elevata al primo gradino della conoscenza che è quello sensorio; e l’anima, per così dire, s’inchina a prendervela e la solleva alla conoscenza razionale, cioè alla conoscenza piena.

Questo sistema di successive elevazioni s’inquadra mirabilmente nella tipica legge della solidarietà cosmica!. Così avviene anche nell’ordine « ontologico », ossia della realtà obiettiva, in sé considerata. Le piante trasformano sali della terra elevandoli al piano organico e vegetativo; in tale stato li offrono agli animali, i quali li elevano a loro volta e offrono i loro più alti prodotti all’uomo. Analogamente nell’ordine « conoscitivo » vi sono i passaggi e le offerte secondo cotesti tre gradini: corpo, senso, intelligenza. Anche le più sublimi «idee », i più sublimi concetti metafisici hanno cotesta genesi, in quanto dal corpo percepito la mente astrae l’idea di «cosa», di « ente ». 1

1

C{r,

Esiste Dio’, o.c., cap. ILL, 247

Che nessuno si smarrisca qui nella selva delle questioni metafisiche, psicologiche e gnoseologiche circa il modo e il valore obiettivo di cotesti contatti. Sono questioni interessantissime, ma estranee al nostro argomento. A noi preme solo rilevare il fatto sperimentale di tali contatti e di tali operazioni elevanti, sensorie e intellettuali, in quanto svelano e permettono di analizzare la speciale coesistenza e congiunzione del principio materiale e del principio spirituale dell’uomo.

Tale dipendenza dello spirito umano — nel suo conoscere -- dal servizio del corpo, può forse infirmare la sua indipendenza intrinseca dal corpo stesso nella sua operazione e quindi nel suo essere (che all’operazione si proporziona) ? In questo consiste propriamente l’obiezione contro l’autonomia e quindi la sopravvivenza dell’anima: contro l’esistenza cioè dell’anima spirituale e

immortale. Tl confronto tra due processi elevatori del senso e dell’intelligenza chiarisce fatti e dissolve l’obiezione. L’elevazione sensoria, come vedemmo, benché immateriale, non si stacca completamente dalla materia, di cui conserva la concretezza individua: e perciò si compie non in un fittizio principio sensitivo staccato dalla materia, ma nell’organo di senso. E quindi, distrutto questo con la morte, sia l’operazione che tutto il principio sensorio — in quanto privo di autonoma sussistenza sparisce. L’elevazione intellettuale invece, raggiungendo con i « concetti » un piano totalmente immateriale, esige una facoltà intellettiva totalmente staccata dalla materia e quindi intrinsecamente indipendente 1

1



248

da essa e perciò spirituale: benché gli organi corporei del senso gli siano estrinsecamente necessari, per porgerle — in idoneo stato di elevazione — il mondo corporeo da comprendere. Distrutto pertanto il corpo, verrà a mancare all’anima intellettiva soltanto il dispositivo estrinseco prestabilito per porgerle in tal modo il mondo corporeo. Sospenderà quindi l’operazione dell’elevazione conoscitiva, ma nel suo essere spirituale non sarà toccata: come una macchina sospende il lavoro quando è finito il materiale in cui incideva, ma resta perfettamente integra nel suo essere. È in fondo un ragionamento elementare. Si tratta di distinguere l’indipendenza intrinseca dall’estrinseca, la macchina operante dal rifornimento di materiale: di distinguere cioè l’intelletto operante e l’operazione intellettiva intrinsecamente del tutto autonomi dalla materia, dal rifornimento estrinseco del materiale sensorio, legato invece agli organi corporei e quindi non autonomo. *

In un quadro ancora più completo il confronto chiarificatore tra la sensazione e l’intellezione si presenta con un’analogia fondamentale, in vita, e una discrepanza essenziale, in morte. Il che non fa che ripetere in altri termini ciò che abbiamo visto finora. Per la sensazione è necessario un contatto e un’impressione meccanica del mondo corporeo con gli organi sensori: senza di che mancherebbe la sensazione, ma gli organi senzienti resterebbero quello che sono. Similmente per l’intellezione è necessario un contatto più alto del mondo sensorio con l’anima: senza di che mancherebbe l’intellezione, pur restando intatta l’anima e la sua intelligenza. 249

Per la sensazione però gli organi di senso, oltre essere il mezzo del contatto con i corpi e quindi della sensazione, sono anche la sede della sensazione: sicché, distrutto il corpo senziente con la morte, la capacità sensoria è radicalmente distrutta e il principio sensorio — anima sensitiva — così legato al corpo, risulta conseguentemente scomparso. Per l’intellezione invece se 1l mezzo — estrinseco — del contatto e quindi dell’operazione è la sensazione, la sede è l’intelletto stesso, sicché, distrutto il corpo e i sensi, 1l principio intellettivo rimane capace, nel nuovo stato di esistenza, di riprendere l’attività in altra maniera, come vedremo.

Un ultimo conclusivo paragone. Per trasformare quel colore nel capolavoro d’un artista, occorre a questo un pennello, che gli permetta di elevarlo dai grumi della tavolozza alla luminosa distribuzione della tela. Chi direbbe che distruggendo lo stru-

mento



1l

pennello

Così non è

l’«idea



è

distrutto l’artista?

distrutta la potenza sprigionatrice del-

la potenza

«ideatrice » — quando sia distrutto lo strumento sensorio, benché questo sia indispensabile — nell’ordinaria esistenza terrena — per compiere l’ideazione. »



L’anima vivificatrice del corpo La collaborazione suddetta tra il corpo e l’anima, per l’attività intellettiva, costituisce già un imponente aspetto dell’unità del composto umano, pur nella disparatissima congiunzione di materia e di spirito. Alcuni fondamentali aspetti però di spiacevole dua250

lismo — contrastanti al suggerimento spontaneo del proprio unitario «io » — restano. Si tratta di una collaborazione tra anima e corpo per la conoscenza intellettiva, solo in senso ascendente. Il corpo è a servizio operativo dell’anima. Mà non si ha in senso discendente, un influsso dell’anima intellettiva per la vita del corpo, capace di creare una vera unità vivente umana. Il corpo e l’anima si presentano cioè ancora come due cose reciprocamente indipendenti, quanto al proprio essere. Cioè, mentre da una parte l’esistenza dell’anima, in grazia della sua spiritualità, è indipendente dalla conservazione organica del corpo, dall’altra anche la compagine di questo fisica, vegetativa e sensoria — appare indipendente dall’esistenza dell’anima razionale, la quale non farebbe che aggiungere al vivente la razionalità. E allora, tolta ipoteticamente l’anima spirituale, dovrebbe cessare la razionalità, ma non la uvitalita animale dell’uomo. L’anima sembrerebbe cioè ancora un qualcosa di sopraggiunto al perfetto corpo umano vivente e senziente. E la suddetta collaborazione del corpo con l’anima intellettiva, nel piano operativo, mancherebbe dell’unitario fondamento nel piano dell’essere. Infatti non se ne esce: se il corpo vivente umano ha una esistenza indipendente dall’anima spirituale, questa vi si aggiunge come un qualcosa di estraneo, chiuso dentro un recipiente. L’approfondimento della questione non si può fare con argomenti e controlli anche sperimentali così chiari come i precedenti, e richiederebbe in certi punti delle sottili analisi metafisiche in cui non sarebbe qui opportuno addentrarsi. Tuttavia potremo raggiungere lo stesso una notevole sicurezza e arrivare a una sorprendente e suggestiva visione dell’unità effettiva del composto umano, -—

251

Se lo spirito

infatti, per la sua trascendenza totale

dalla materia, esiste indipendentemente dal corpo — così da sopravvivere al suo disfacimento — non è detto che, viceversa, il corpo umano vivente e senziente possa esistere indipendentemente da esso. Il sentimento unitario del proprio io — così contrastante a ogni stridente dualismo del composto umano —

già costituisce un argomento contrario non trascurabile. Tale sentimento unitario sarebbe un’illusione ? Ma un’illusione che incide così profondamente nella propria valutazione non si vede come sarebbe conciliabile con la perfezione, nel resto evidente, dell’individuo umano.

Inoltre l’intuizione comune — che nella ricerca della verità non può essere leggermente trascurata, essendo in qualche modo radicata nell’esperienza e nel buon senso di tutti — rifugge dal pensare che, sottratta l’anima razionale, l’uomo potrebbe restare tranquillamente in piedi, vivendo non più nel piano umano, ma in quello puramente animale: anzi attribuisce la morte proprio al suo distacco. Tale intuizione cioè ritiene che la vita resti finché la disgregazione fisica del corpo — per malattia o vecchiaia — non superi il limite compatibile con la presenza dell’anima spirituale. Superato tale limite si ha il distacco dell’anima e solo allora la morte. Con ciò s’intende affermare non solo l’impossibilità del permanere dell’anima intellettiva, dopo quel disfacimento fisico, ma anche viceversa l’impossibilità di evitare il disfacimento fisico al distaccarsi dell’anima. 252

E il fatto sperimentale su cui si appoggia tale intuizione comune è una ovvia e universale constatazione: la fondamentale coincidenza cioè della morte con la

visibile perdita dell’attività intellettuale. Se si prescinde infatti dagli ultimi momenti dell’agonia in cui già la conoscenza umana sembra perduta, in sostanza coincidono disfacimento fisico e crollo della vita vegetativa, sensitiva e intellettiva. La colleganza reciproca dell’integrità corporale e di tutte le forme di vita con la presenza dell’anima spirituale si presenta quindi spontanea. Come spiegare tale reciproca colleganza ? L’ipotesi più semplice è questa: che l’anima spirituale sia non solo 1l principio dell’attività intellettiva, ma anche delle attività inferiori del senso e della vita. In altri termini: che, anziché aversi nel medesimo individuo umano tre principi ossia tre anime distinte, per l’organizzazione vivente, per la conoscenza sensitiva e per la conoscenza intellettiva — anima vegetativa, sensitiva, intellettiva — se ne abbia uno solo, il più alto — — l’anima intellettiva — che riassuma in sé, oltre la processi tolto le inferiori. funzioni Sicché, quello, pria, tutte tutto. Nell’uomo cioè, che è insieme soggetto pensante, senziente e vegetante, ciò che lo rende pensante lo renda anche senziente e vegetante. Certo l’ipotesi — classica nella filosofia tomista — è ardita e pare, a prima vista, contraddittoria. Sembrerebbe come dire che un pezzo d’oro possa essere contemporaneamente ferro e stagno. Eppure è l’unica soluzione che armonizza completamente col sentimento unitario del proprio 10 umano, corpo compreso. La disparità essenziale dei due elementi, materia e spirito, si risolve così in una meravigliosa collaborazione unitiva. L’ibridismo di quella 253

specie di corpo recipiente, a sé stante, con l’anima spirituale contenutavi o incarceratavi viene tolto del tutto. E si ha l’unità d’uno spirito, autonomo bensì nel suo essere e nella sua attività specifica, ma anche vivir ficatore del corpo; e d’un corpo che fino alla morte reciprocamente serve allo spirito come strumento del suo contatto e della sua conoscenza del mondo materiale. *

Ma è possibile? Che dire di quella apparente contraddizione: di un’entità totalmente immateriale così intimamente unita al corpo? Se si riesce a dissolvere cotesta apparente difficoltà, l’ipotesi dell’unica anima dell’uomo — e non tre: vegetativa, sensitiva e intellettiva —, semplificando il problema dell’unità del composto umano, acquista, anche solo per tale semplificazione, un nuovo netto titolo di preferenza, inquadrandosi meglio di ogni altra nell’economia generale della natura, la quale rifugge da inutili complicazioni e tende al massimo effetto con 1 minimi mezzi !. Il più sarebbe inutile e quindi contrario alla sapienza dell’ordine naturale. Senza pretendere certo di esaurire il problema che per noi, in fondo, non ha importanza essenziale, e conQuesto principio del risparmio ha delle manifestazioni assai notorie nella meccanica dove porta nomi più o meno equivalenti: « principio della minima azione » (MAUPERTUIS-EULERO), « principio del minimo sforzo di GAuss », « principio di HaAMILTON », « principio della direttissima di HErTtzZ ». Perché un grave cade lungo la verticale ? Perché è la linea più breve per avvicinarsi al baricentro, cioè in un certo senso quella del magS1or risparmio; e se dovesse rotolare sopra una superficie sferica, per la stessa ragione seguirebbe una « geodetica » che è la linea più breve su di essa (Cfr. FEDERICO ENRIQUES, Causalità, ecc., 0.c., p. 34). 1

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tentandoci soltanto di qualche sicuro orientamento,

la questione può porsi cioè in questi termini: se l’ipotesi di tale unità profonda non ripugna ed è possibile, per ciò stesso è presumibilmente vera. Proprio perché costituisce la soluzione più semplice e più efficace, sia per spiegare la coscienza unitaria di ognuno, sia per spiegare la predetta intuitiva reciproca colleganza. Ora, che non vi sia contraddizione e che sia possibile è certo. Non si tratta di essere oro e ferro contemporaneamente, non sì tratta cioè di essere insieme spirito e materia. La sostanza spirituale dell’anima resta quella che è. È la sua capacità attualizzatrice e perfettiva che si estende alle qualità inferiori del corpo vivente, assorbendo in sé e quindi rendendo inutile la funzione dei principi inferiori vegetativo e sensitivo. Chi può il più può anche il meno. Chi fa 11 generale può fare anche 1l soldato. E anche questo va inteso bene: alla luce della stessa personale esperienza. Non si dice che l’anima spirituale possa adempiere la funzione organizzatrice del corpo vivente, in quanto cosciente, quasi impiegando in tale attività la propria intelligenza, perché allora ce ne dovremmo accorgere: mentre lo sviluppo fisiologico resta completamente incosciente. Ma si afferma che tale funzione inferiore la può compiere in quanto immateriale. Noi abbiamo visto bensì che la sua immaterialità è più alta del semplice principio vitale e sensorio, che pure sono immateriali. Ora che difficoltà c’è ad ammettere che un principio immateriale, di perfezione superiore, possa adempiere le funzioni di principi, anch'essi immateriali (come sono l’anima vegetativa e sensitiva), di perfezione inferiore? La difficoltà ci sarebbe ad ammettere l'inverso, che cioè un principio inferiore potesse attuare una funzione 255

superiore. Con cento lire non posso comprare ciò che vale mille, ma l’inverso lo posso fare. Il soldato non potrà fare il generale, ma il generale potrà fare il soldato. sk

Si ricordi che i tre gradi di attività vegetativa, sensitiva e intellettiva si distinguono proprio per 1l loro progressivo distanziamento dalla materia. E in tutti e tre i casi l’attività si compie con un processo elevatore della

materia, mettendovisi a contatto in un piano inferiore e portandola al superiore: dall’inorganicità della materia nutritizia all’organicità della materia assimilata, dal contatto materiale alla sensazione, dal fantasma sensibile all’intellezione. Niente di impossibile dunque che il principio attivo superiore — l’anima intellettiva — essendo più in alto, possa abbassarsi fino in fondo e compiere tutt’e tre le elevazioni: fare cioè quello che nella pianta fa il puro principio vegetativo, nell’animale il principio sensitivo, oltre conservare l’attività propria intellettiva. Con la differenza che, mentre dove è la sola anima vegetativa e sensitiva, priva di sussistenza — cioè di autonomia di esistenza rispetto al soggetto — alla distruzione del soggetto deve seguire la sparizione non solo della funzione dell’anima, ma dell’anima stessa, quando le funzioni inferiori sono esercitate dal sussistente e autonomo principio spirituale, alla dissoluzione del corpo e delle funzioni vitali e sensorie esso perdura indistruttibile. sk

Contro la impossibilità che l’anima spirituale totalmente immateriale possa assorbire in sé le funzioni dei principi immateriali inferiori, v’è infine l’eloquente te256

stimonianza di altri fatti proporzionatamente simili, di cui il primo è quello dell’anima vegetativa, cioè del principio animatore delle piante. Nella rapida analisi della vita che facemmo a suo tempo, mentre dovemmo affermare nettamente la supermaterialità del principio vitale, dovemmo però escludere che fosse una specie di spiritello a sé stante, che agisse per estrinseco apporto energetico sulla materia inorganica, perché in tal caso, invece di essere un elemento ordinatore e regolatore della strutturazione e dei bilanci energetici del corpo animato, non sarebbe che un’altra sorgente energetica addizionatrice di nuova energia a quella fisico chimica — contro quanto appare dalla esperienza —, e l’immanenza unitaria dell’attività vitale verrebbe a mancare. Dovemmo concepirlo quindi come un elemento permeante — per così dire ! — tutta la La parola è molto impropria, perché può far pensare, per es., all’acqua che penetra tra 1 pori, il che rappresenterebbe ancora un qualcosa di estrinseco alla cosa permeata. A volere approfondire il concetto, alla luce della sottile metafisica tomista, già altrove accennata (n. 1, p. 157), bisogna riflettere che a presupporre una materia del vivente già con una qualunque propria attuazione sul piano inorganico, antecedentemente e di fronte al principio animatore, questo non potrebbe non risolversi in un agente estrinseco, in qualsiasi modo lo si pensi intimo alla materia stessa. L’estrinsecità non può essere eliminata che contrapponendo al principio vitale la pura potenzialità della « materia prima » e concependo il principio stesso come « forma sostanziale » unica del vivente, attualizzatrice quindi di tutta la realtà del corpo vivente, non solo come vivente, ma anche come corpo fisico. Con questa ardita e coerente concezione l’unità del composto vivente è completa e la capacità riassuntiva delle funzioni fisico-chimiche inferiori, da parte del principio superiore vitale, apparisce in luce piena. È evidente allora che, nel caso dell’uomo, l’anima spirituale, riassumendo le funzioni anche del principio vegetativo, 1

257

realtà corporea del vivente, in modo da attualizzarla ed elevarla all’organicità vitale, a cominciare dal germe, e da regolarne gli scambi energetici, senza aggiungersi estrinsecamente ad essa: mentre vi si aggiungerebbe se trovasse già la realtà fisico chimica del vivente attualizzata senza di lei. Ecco dunque un esempio tipico di un principio immateriale che assorbisce le proprietà materiali inferiori, ossia le proprietà fisico chimiche del corpo, dominandone i più intimi scambi energetici, pur senza affiancarsi ad essi, ma restandone superiore 1. Un altro esempio si ha nell’anima sensitiva, ancora più distante dalla materia, e che pur deve tanto assorbire le funzioni inferiori fisiche e vegetative da portare la materia a organizzarsi negli organi senzienti e a divenire con essa, mediante tali organi, un unico soggetto senziente: perché non è l’anima sensitiva a sé, ma gli va concepita come attualizzatrice anche di tutta la realtà fisico chimica del corpo. Sicché essa va concepita come vera forma

sostanziale del corpo. È per ragione di questo carattere di « forma sostanziale » che la parola esatta, secondo la terminologia metafisica suddetta, dovrebbe essere non permeare, ma informare il corpo, cioè esserne « forma », nel significato filosofico tomista del termine. In una meravigliosa visione unitaria l’anima spirituale si presenta quindi come ragione formale di tutta la perfezione umana: corporea, vivente, senziente e intelligente. 1 Esso non costituisce una guida estrinseca della organizzazione e dell’attività vitale, a partire dalla pura materia inanimata, perché mai l’anima vegetativa agisce da sola su di essa, ma sempre come permeante il vivente, fin dalla primissima strutturazione del germe (attualizzandone ed elevandone la fisica realtà). Non è infatti l’anima vegetativa a sé stante che produce attività vitali, ma sono gli organi, a cagione di essa, viventi, a cominciare appunto dalla prima strutturazione del germe. 258

organi senzienti che sentono. Altrimenti la sensazione non avrebbe quel carattere vincolato alla concretezza materiale che ha. Morti apparenti e residui vitali Ho parlato sopra della coincidenza tra la perdita del-

l’umano pensiero e la morte (a prescindere, s’intende, dalla transitoria agonia). Nel quadro unitario suddetto la spiegazione del fatto è ovvia. Le funzioni intellettive sono cessate per 1l distacco dal corpo della loro sorgente, l’anima spirituale; e riassumendo questa tutte le funzioni inferiori, è naturale che contemporaneamente cessi ogni movimento di vita. Tale coincidenza dovrebbe anzi essere ovviamente assoluta. Allontanatasi l’unica sorgente di vita, ogni attività anche puramente vegetativa sembra che dovrebbe istantaneamente sparire. Ma sperimentalmente 1l fatto non avviene in modo così netto, per due opposti ordini di eccezioni o limitazioni, che è bene prendere in breve considerazione, per trarne utili chiarimenti. Una discordanza si ha nelle cosiddette « morti apparenti ». L’altra si ha, dopo la morte, nei « residui » vitali inferiori.

Dal punto di vista corporale la morte è caratterizzata dalla cessazione delle funzioni fisiologiche a cui seguirà, dopo un certo numero di ore, la decomposizione cadaverica. Si sa che questa cessazione delle funzioni vitali non è istantanea, né contemporanea; ma quando sono definitivamente cessate le funzioni fondamentali 259

respiratoria e circolatoria, la morte è avvenuta. Ora nei casi di morte apparente (come nella catalessi, nelle folgorazioni, negli annegamenti, nella narcosi cloroformica, in certi neonati, ecc.) non solo la sensibilità, ma coteste stesse funzioni fondamentali sembrano cessate. Ed ecco che una causa puramente accidentale, la respirazione artificiale, una iniezione di adrenalina o il massaggio del cuore, riaccende la palpitazione e fa rinascere la vita. Il grosso pubblico dice: «È risuscitato ». Di fatto tali funzioni fondamentali non erano veramente cessate, ma solo ridotte a un minimo, non percettibile esteriormente. L’una o l’altra potrebbe tuttavia essere anche cessata totalmente. Passata la crisi tutto ritornerà al ritmo normale di vita. Cosa era successo, nel frattempo, dell’anima ? Nessuna difficoltà nella risposta. Essa era restata regolarmente al suo posto, con una riduzione al minimo delle sue funzioni vitali organiche. Non si può parlare infatti evidentemente di suo allontanamento parziale perché, non avendo parti, o c’è tutta o non c’è. Essa ha proseguito a compiere tutta la funzione vivificatrice compatibile con la residua capacità funzionale dell’organismo ammalato: come la molla sana d’un orologio non può far compiere alle sue rotelle consunte che residui movimenti di cui esse sono capaci. Ed è evidente che il momento preciso del distacco non dipenderà dall’anima, ma dal corpo. Essendo presente al corpo come suo principio vivificatore, essa cesserà di esserlo quando la disgregazione organica sarà arrivata a un punto ormai incompatibile con una sua anche minima, ma specifica vivificazione. (Ho detto «specifica », perché l’anima di cui parliamo è l’anima spiri!

1

260

tuale, fatta per vivificare il corpo animale dell’uomo, non di un’animale inferiore) 1, L’anima abbandonerà il corpo quando sarà abbandonata da esso, al termine di quella progressiva usura del corpo stesso, che è la legge della materia e quindi anche della vita corporale terrena. Dal punto di vista pratico, se la determinazione di quell’esatto momento è impossibile, si acquista la morale sicurezza del distacco dell’anima e quindi della vera morte introducendo un largo margine d’attesa, capace di togliere ogni dubbio, secondo la scienza medica e le prescrizioni di legge ?. Si capisce che tale vivificazione e tale presenza dell’anima possa durare a lungo, anche cioè quando la vita sia scesa a proporzioni rudimentali per una specie di legge di inerzia o di conservazione della vita stessa, opposta alla morte. Come nel mondo fisico vi sono gli stati, per es., di soprafusione, al disotto della temperatura normale di solidificazione, così si può concepire nel mondo vivente la sopravvivenza, al disotto delle normali condizioni organiche. Ed è naturale che la prima a cadere sia l’attività sensoria e l’ultima quella più semplice, puramente vegetativa. L’anima spirituale, in quanto riassuntiva delle funzioni inferiori, resterà presente fino a che potrà restare qualcuna di queste, cessata la quale cessa l’ultimo titolo giustificativo della sua presenza. 2 Anche nei casi difficili è però segno certo, per es., l’iniezione di fluoresceina, che provoca una colorazione gialla nel morto apparente e niente invece nel morto vero, per assenza totale di circolazione sanguigna. È pure sicuro il metodo di Balthazard, cioè l’iniezione intramuscolare sul pettorale di 10 cc. di etere solforico: sul morto apparente questo viene presto assorbito, mentre nel vero morto scaturisce fuori immediatamente, dopo l’estrazione dell’ago. È anche risolutivo l’esame elettrocardiografico. In Italia il limite minimo di seppellimento è di 24 ore e nella morte improvvisa di 48. L'importanza pratica del provvedimento è ovvia per non correre il rischio di seppellire dei vivi, come risulta talora certamente accaduto. 1

261

Un po’ più complessa è la questione inversa, delle vitalità residue, dopo la morte certa dell’individuo e quindi il distacco certo dell’anima. È nota la ulteriore crescita delle unghie e dei peli nel sepolcro: fenomeno che rientra in quello più generale della sopravvivenza per qualche tempo di tessuti cellulari nel cadavere, come fu dimostrato fin dal 1897 dal Tirelli. È noto anche il

perdurare per qualche tempo dell’eccitabilità muscolare nel cadavere e dell’eccitabilità anche di organi staccati dal corpo umano. Sambuc narra interessanti esperienze di autopsia dello stesso cuore umano !. Tutti avranno visto la coda staccata dalla lucertola e le gambe staccate da certi insetti che seguitano a muoversi. Ma poi basta ricordare la sopravvivenza e prolificità dei tessuti staccati dall’organismo vivente (o anche, ancor vivi, prelevati dal cadavere) e coltivati «in vitro » (nutriti e lavati per asportarne prodotti del rifiuto), secondo la tecnica perfezionata da Alessio Carrel (1873-1944), e la lunga conservazione ottenuta da quest’ultimo perfino di alcuni organi vitali interi. Quanto ai tessuti coltivati «in vitro » con regolare e talora anche più intensa prolificità cellulare, la sopravvivenza potrebbe essere considerata teoricamente indefinita, tanto che si è introdotta l’espressione (non esatta, come dirò, ma per l’insieme ammissibile) di «immortalità somatica ». Ora, come è possibile tutto questo se il principio vivificatore è scomparso per la morte dell’individuo? Si capisce infatti che vi sia un latente residuo di attività, 1

l’urono eseguite in Cocincina, dove le autopsie per ragione del clima debbono essere compiute rapidamente dopo la morte, a differenza di quello che è permesso fare da noi. !

202

finché il principio attivo resta, come nelle morti apparenti, ma non si capisce che resti una qualunque attività quando ne è sparita la sorgente. Si capisce che l’orologio stia fermo o quasi, pur essendovi ancora la molla, ma non si capisce che si muova nemmeno un poco, quando la molla non c’è più. %*

È curiosa la confusione concettuale che crea questo problema, in sé tanto semplice.

Per chiarirlo bisogna abbandonare un momento il caso dell’uomo e pensare a una vita animale qualsiasi. Il fenomeno delle vitalità residue non si presenta infatti nell’uomo in quanto uomo, ma in quanto animale. È bene anche precisare che alcuni dei pretesi fenomeni di sopravvivenza possono rientrare solo apparentemente nei fatti vitali e costituire invece dei riflessi cinetici di pure reazioni fisico chimiche. Ma altri, come per esempio le colture «in vitro », sono fuori questione. Per fissar l’attenzione possiamo riferirci, per esempio, alle culture di cellule di embrione di pollo, che, con metodi del Carrel, furono controllate durante una prolificazione trentennale senza accennare ad esaurirsi. Non dobbiamo insistere però troppo sul nome di «immortalità somatica », che sembra quasi far concorrenza all’immortalità dell’anima, come se anche 1l « soma », ossia il corpo, fosse immortale. L’immortalità suppone la permanenza del soggetto, ma le cellule della cultura invece, mentre prolificano, muoiono continuamente, sicché né conservano individualità propria, né partecipano a quella del soggetto da cui furono ormai separate. Esse perdurano come una famiglia da cui nascono i figli e 1

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figli dei figli.

263

Ma torniamo in argomento.

Tutta la difficoltà nasce

dal solito equivoco di concepire il principio vitale come estrinseco al corpo e operante energeticamente e finalisticamente dal di fuori sulla materia, proprio come nell’esempio suddetto della molla dell’orologio, che invece non ha che un lontano valore di analogia. Sì capisce che, secondo tale concezione, ciò che viene staccato dal soggetto, perdendo contatto con quel principio operante, dovrebbe automaticamente perdere ogni movimento di vita. Ovvero, partitosi tale principio operante dal soggetto, tutte le sue parti anche minime dovrebbero cadere nell’inerzia di morte: e farlo istantaneamente. Ma secondo un’osservazione già precedentemente fatta, la realtà è un’altra. Non è il principio a sé stante che opera, ma la materia permeata — «informata » — da tale principio e da esso elevata alla funzionalità di organismo vivente. Non è tale principio o anima vegetativa che, immediatamente, si pone a contatto con la materia esterna, assorbendola e trasformandola nel corpo vivente, ma è il corpo vivente stesso che, elevato dall’anima alla capacità di appropriarsi la materia esterna, la porta mediante la nutrizione e assimilazione al proprio livello di perfezione organica. E questo fin dal principio. In nessun momento l’anima vegetativa opera estrinsecamente sulla materia, ossia da sola, ma sempre — immanentemente — in essa. La cellula uovo che si svilupperà poi nell’organismo adulto, in virtù del principio vitale che la informa è, fin dall’inizio, perfettamente organizzata, in vista di tale futuro sviluppo. Ed essa deriva dai genitori, ecc. Per chi è convinto del piano nettamente superiore della vita, rispetto alla pura realtà fisico chimica, è chiaro che come agente estrinseco organizzatore della 264

materia vivente non può concepirsi che il divino Crea-

tore, artefice sia della materia inorganica, sia della elevazione vitale della materia organizzata: artefice estrinseco dell’anima vegetativa idonea a produrre immanentemente tale elevazione. Ed è anche chiaro che il grado di elevazione organica della materia vivente sarà diverso, secondo la perfezione della specie: e ad esso si proporzionerà, fin dall’iniz10, il principio vitale elevatore. Sicché a organizzazione vitale superiore corrisponderà principio elevatore superiore, a organizzazione inferiore principio inferiore, a organizzazione distrutta principio distrutto. *

Quando avvenga pertanto un processo di disfacimento del vivente, verso la morte, non v’è ragione perché la distruzione dell’organizzazione vitale avvenga di colpo. Essa potrà invece avvenire progressivamente, per gradi. Niente di più naturale allora che nella vitalità, che ad essa si proporziona, segua l’abbassamento di livello, passando, prima dell’annullamento, a progressivi piani più elementari. Quel principio vitale cioè che, pur essendo immateriale, è così legato alla materia da proporzionarsi all’elevazione organica conferitale e da dissolversi al crollo dell’organizzazione, potrà lasciarle — mediante inferiori principi vitali — una vitalità proporzionata anche nei gradi intermedi, prima della annullatrice dissoluzione. È proprio il caso dei residui movimenti vitali in un animale in disgregazione o in una porzione di tessuto separata dalla più alta unità del tutto. 265

Non vorrei però che cotesti proporzionati principi vitali inferiori si concepissero come parti di quello iniziale o impoverimento di: esso. Di « parte » non si può parlare perché sì tratta di principi «semplici», ossia senza composizione. È nemmeno di impoverimento del medesimo soggetto. Perduta infatti la superiore organizzazione, il corrispondente principio vitale non c’è più !. E poi la porzione di cellule separata dal vivente integro non può certo essersi portata via il principio vitale di esso, comunque impoverito. Sono comparsi invece i nuovi principi vitali proporzionati alle inferiori organizzazioni. Né è difficile intenderne il processo formativo, venendo incontro a una domanda che non manca di qualche ingenuità. Cosa è dunque e donde viene quel principio vitale residuo, se non è una parte di quello del vivente integro, né quello stesso impoverito ? ?. Esso non è che 1l principio attualizzatore di quella residua elevazione vitale della materia. È non può derivare quindi che da ciò che ha prodotto tale elevazione vitale, ossia dal principio vitale originario. Ma non nel senso che questo, considerato a sé, abbia generato 1l principio vitale inferiore, ma nel senso che il vivente iniziale Dal punto di vista tomista vi è anche un’impossibilità metafisica a tale impoverimento, perché esso corrisponderebbe a una trasformazione sostanziale del principio vitale, in sé considerato ma questo come principio semplice, attualizzatore del vivente, manca, in sé, della potenzialità alla trasformazione, che trovasi invece nell’essenza corporea vivente (in virtù del comprincipio potenziale). ° La domanda tradisce l’equivoco di concepire il principio vitale come a sé stante nell’essere e nell’operare, anziché principio attualizzatore del vivente. !

;

266

da esso animato ha prodotto — qual residuo - il vivente inferiore (animato dal principio vitale inferiore). L’attività residua o la porzione di materia staccata manterranno l’organicità e la vitalità derivanti dall’avere appartenuto all’individuo integro. La potenza vitale di questo consisteva appunto nell’appropriarsi la materia inorganica ed elevarla alla propria immanente organicità: staccatasene una parte, gli resterà la vitalità proporzionata all’elevazione residua, e quindi il principio vitale corrispondente. Il processo è chiarito dal caso in cui questa elevazione resti alla totale altezza iniziale. Allora la parte staccata riavrebbe 1l medesimo principio vitale dell’individuo di partenza. È ciò che avviene infatti nella cellula detta germinale, perché capace di riprodurre l’individuo completo; o nei monconi di animali inferiori amputati, capaci di riprodurre l’intero individuo. Quanto alla trasmissione dell’attività vitale non v’è alcuna differenza concettuale infatti tra il caso dell’uomo e quello del tessuto cellulare somatico staccato artificialmente e coltivato «in vitro ». Nell’uno e nell’altro caso la vitalità della materia staccata deriva dalla vitalità dell’individuo d’origine. *

È facile ora passare ai residuati vitali dell’uomo, dopo la partenza dell’anima. Dato che nell’uomo — secondo la suddetta concezione unitaria — lo spirito riassume in sé tutte le funzioni vitali inferiori, queste debbono concepirsi attuate secondo tutte le caratteristiche suddette dall’animalità (pur con l’alto grado specifico dell’animalità che compete al corpo umano). Il distacco dell’anima umana avverrà quindi appena la disgregazione organica sia arrivata a un punto 207

incompatibile con la perfezione essenziale dell’animalità umana. Ma l’organizzazione vitale seguirà allora 1l naturale processo di abbassamento di livello che le permetterà ancora di conservare i proporzionati residui vitali. È vero che, a differenza degli animali irrazionali, il principio animatore è, per l’uomo, lo stesso spirito a sé stante, cioè essenzialmente autonomo dalla materia e dall’organizzazione vitale. Ma in quanto anmatore del corpo, esso riassume in sé tutte le funzioni immanenti e il modo di essere nel corpo dell’anima vegetativa, e nel corpo stesso quindi alla dipartita dell’anima, tutto deve avvenire come se fosse sparita l’amma puramente vegetativa.

L’allontanamento dello spirito equivale nel caso dell’uomo al disgregamento e alla dissoluzione della sua vitalità corporea. Ma non essendo, anche in tal caso, 1l disgregamento totale, potranno perdurare le vitalità corrispondenti alle organizzazioni vitali inferiori. L’uomo non è vivo perché l’anima è viva, ma perché è vivo 1l suo corpo, per l’anima che ne ha innalzato la materia a tale vitale livello. Come principio spirituale, a sé stante, l’anima è quello che è, secondo 1l grado della sua spiritualità; come potenza animatrice del corpo, corrisponde al livello della vitalità corporea umana. Accesa e alimentata nella materia la fiamma di tale vita, essa può ritirarsi senza che ne segua lo spengimento totale, ma solo il suo oscuramento nei piani vitali inferiori. Questo proseguimento di più fioca luce non potrà durare molto, s'intende, perché quella materia era stabilmente organizzata per la luce piena del precedente equilibrio vitale superiore. A meno che artificialmente non le si crei un nuovo equilibrio inferiore, come è nelle colture «in vitro ». 268

Una strana tesi spiritualista Si sa quanto è facile, nel cozzo di posizioni antago— per il dinamismo stesso del contrasto — che le due

niste

parti opposte arrivino agli estremi. Come i materialisti saranno portati a distruggere ogni anche minima affer-

mazione spirituale, così gli spiritualisti è da supporre che tendano a respingere 1l più lontano possibile la materia. È noto anche che nello schieramento spiritualista tiene un posto d’avanguardia 1l cristianesimo, e nel cristianesimo, 1l cattolicesimo. Ed ecco infatti l’ascetica cattolica animare lo stuolo dei suoi santi alla penitenza, alla mortificazione del corpo e all’esaltazione dello spirito, in contrapposto alle passioni inferiori e alla materia. È mentre 1l corpo è considerato nelle sue relazioni con 1l disfacimento del sepolcro, lo spirito è contemplato nelle sue relazioni con l’eternità e con Dio. Chi si sarebbe mai aspettato quindi che, a un certo punto, dal celeste florilegio delle tesi spiritualiste cattoliche, spuntasse 1l fiore carnicino del dogma della risurrezione dei corpi ? Eppure tra le solenni affermazioni del « Credo » cattolico c’è proprio questa: « Credo nella risurrezione della carne ». E, come se fosse fatto apposta per sottolineare la stonatura stridente, la solenne professione di fede prosegue riprospettando subito quella eternità, che sembrerebbe in insanabile contrasto con la corruttibile carne: «e nella vita eterna ». Ciò non è che la eco della promessa di Gesù stesso a chi l’avrebbe seguito e si sarebbe cibato dell’Eucaristia: « Io lo risusciterò nell’ultimo giorno »1. Ma non si tratta di quella carne tanto spesso additata come nemica dello spirito ? « Vedo nelle mie mem1

Giovanni 6, 54. 269

bra un’altra legge, che è in lotta contro la legge della mia ragione e mi fa schiavo della legge del peccato, che sta nelle mie membra »!, Non è quella carne da mortificare, da crocifiggere ? « Percuoto il mio corpo e lo tengo schiavo »?. Non è quella carne colpita dallo staffile dei grandi penitenti cristiani e che di fatto finisce putrefatta nel sepolcro, polverizzata, dispersa ? e

Ma appunto per la stranezza e l’apparente contraddizione con lo spiritualismo, questa affermazione presenta

un tipico sapore di obiettività che torna a onore del corpo di dottrine da cui promana. Resta infatti difficile capire come sarebbe potuta nascere da una invenzione religiosa spiritualista di marca puramente umana, tutta aprioristicamente preoccupata di sottolineare la spiritualità. Avrebbe anche stonato fortemente in una concezione filosofica del composto umano grossolanamente dualista: un corpo vivente e uno spirito ficcatovi dentro ed estraneo alle sue attività. Ma quadra invece benissimo con la reale congiunzione dell’anima umana col corpo, vista in questo capitolo. L’uomo, pur avendo questa mirabile fiamma di spirito eterno in sé, l’ha come in simbiosi con la materia, quale altro essenziale componente umano e quale strumento della sua attività e — nel piano morale — del suo merito. In questa simbiosi, mentre il corpo è a servizio dell’anima, tutta la perfezione di esso sgorga dall’anima, la quale per operare, come opera, non in modo estrinseco ma intimo, immanente — pur conservando la propria superiore autonomia, pervade, informa il corpo stesso, ele—

| ’

270)

XKomani I

7, 23.

Corinti, 9, 27.

vandolo alla nobile realtà fisica, fisiologica e sensoria

di corpo umano.

Essa, librantesi, per la sua spiritualità, nel superiore piano dell’«interminabile », è la regina del composto umano, che infonderà finalmente l’immortalità anche al suo corpo. Sicché tutto l’io umano anima e corpo già fin dalla terra proteso sulle ali della intelligenza e della volontà verso l’eterno, nell’« al di 1à » si ritroverà completo. La legge della mortificazione corporale avrà solo lo scopo di mantenere il corpo a servizio dell’anima, sul piano morale, per giungere all’immortalità felice.

lettore non fraintenda. Sarebbe puerile pretendere di dimostrare con la ragione, in modo certo, la risurrezione che un giorno dovrà avvenire del corpo, per ricongiungersi all’anima immortale. Quanto all’esperienza, essa ci mostra soltanto corpi disfatti nel sepolcro e, col passare degli anni, polverizzati e spariti completamente, spesso ossa comprese. Ma si vuol dire che questa affermazione, strana in una religione che si proclama rivelata e, in particolar modo, vindice dello spirito, armonizza in modo suggestivo con la visione unitaria del composto umano sopra descritta. E indubbiamente, nel quadro di una impostazione ordinata della realtà cosmica, tale armonia costituisce un non trascurabile indizio della verità del fatto. Per i credenti — s'intende — la prova assoluta è data dalla divina rivelazione. Naturalmente, per il credente che raccolga l’affermazione stessa dalla bocca del Divino Redentore, cade ogni obiezione d’indole pratica, quanto alla ricostituzione d’un corpo ormai polverizzato e disperso e con suoi Che

1]

1

1

271

residui passati a far parte di altri viventi. La difficoltà sarà per costui immediatamente risolta, con il ricorso all’atto onnipotente dell’intervento divino. Dal punto di vista religioso non è che elementare coerenza !. *

È anche evidente che il corpo così miracolosamente risuscitato e ricostituito e trasportato nel nuovo piano di esistenza che è quello dell’anima eterna non potrà essere concepito con le caratteristiche corruttibili della vita terrena. Se no ricomincerebbe come prima il ciclo, e l’anima vivrebbe ancora nell’« al di qua » e non nell’« al di 1à ». Tale tesi religiosa, pur parlando veramente del proprio corpo, lo intende alquanto trasformato, in qualche modo elevato al piano dell’anima e reso quindi incorruttibile e immortale e adornato inoltre, in armonia alla elevazione soprannaturale dell’anima, di speciali doti soprannaturali. Ecco infatti S. Paolo: « Bisogna dunque che questo corpo corruttibile si rivesta dell’incorruttibilità, e che questo corpo mortale si rivesta del. l'immortalità » ?. « Così è nel risorgere il corpo dei morti. Si semina corruttibile, risorge incorruttibile; si semina «Che importa la dispersione dei nostri avanzi attraverso al mondo e lo scambio che si è fatto delle nostre molecole con vari corpi ? La risurrezione non è una sorpresa per Colui che la deve fare. Decretandola, Egli ha dato la parola alla sua Provvidenza per conservarne gli elementi (o, all’occorrenza, integrarli. — N. dell’A.). L’occhio suo vigile li segue, la sua onnipotenza protegge 1il più piccolo degli atomi nelle sue secolari peregrinazioni, come segue e protegge i grandi astri nelle gigantesche loro rivoluzioni »: LACORDAIRE (1802-1861), Dogma 1

Cattolico, conf. 101 (1889). 2

272

I Corinti,

15, 53.

nella debolezza, risorge pieno di forze; si semina corpo animale, risorge corpo spirituale » 1. S’intende, per miracoloso intervento divino. *

E nel frattempo ? Finché l’anima resta staccata dal corpo ? Se prescindiamo dalla suddetta tesi religiosa spiritualista, la quale esorbita dal piano di questa nostra indagine, puramente razionale, e se anche prescindiamo dal suddetto argomento razionale di convenienza e armonia di piano cosmico, a favore della tesi stessa, la separazione dal corpo dovrebbe essere la condizione perenne dell’anima nell’«al di là». Anche ammessa poi la tesi della risurrezione del corpo, questa avverrebbe solo alla fine dell’umanità e nel frattempo la condizione dell’anima sarebbe di separazione. Il problema di questo stato dell’anima acquista quindi — qualunque ipotesi fatta circa la risurrezione dei corpi — una grande importanza. Se «di qua » il corpo era necessario all’anima come strumento per pensare, per esercitare la sua attività spirituale, senza corpo resterà addormentata e inerte ? Viene spontaneo rispondere che in tale stato di libertà essa goda d’un nuovo modo immediato di conoscenza. Ma sulla questione torneremo appositamente in seguito, quando cercheremo di gettare 1l nostro sguardo al di 1à del tempo, nel mistero dell’interminabile futura esistenza.

Spiritualità

e

angelismo

Il pensiero cattolico, tipicamente spiritualista, propone anche, come verità rivelata, l’esistenza di un’altra categoria di creature, la cui considerazione — anche a

1]

Corinti, 15, 42-44. 273

prescindere dalla certezza o meno del fatto — è molto utile per chiarire il concetto di anima umana. Sono gli Angeli !, puri spiriti, superiori all’uomo e inferiori a Dio. È chiaro che l’indagine diretta circa la loro esistenza è impossibile. L’esperienza diretta può solo attingere la materia e non lo spirito. L’anima umana è sperimentalmente rivelata non in sé, ma nei suoi effetti, di cui siamo direttamente testimoni e coscienti. Non così gli Angeli, i cui eventuali interventi rientrerebbero nel campo dei fatti miracolosi, estranei a questo libro, oppure di taluni fatti spiritici (Angeli cattivi) ? troppo oscuri perché possano rientrare nel prestabilito criterio di queste pagine, di chiara argomentazione. Tuttavia, anche indipendentemente dalla affermata rivelazione cristiana, con un fondato processo estensivo della realtà conosciuta, qualcosa si può dire circa la loro esistenza. Una volta provato che la realtà non si esaurisce entro i limiti dell’ordine materiale, perché oltre tali limiti ci dovrebbe essere soltanto il primo gradino dello spirito, quale è l’anima umana ? È un quesito che già toccammo all’inizio di questo capitolo. Essa non costituisce, è vero, il primo gradino della immaterialità, ge!

Parola che etimologicamente significa: inviato, messagcosiddetti in vista del loro ufficio.

gero (di Dio):

° La causa dei fenomeni «spiritici » è oscura. Vari fenomeni « medianici » possono avere buone spiegazioni o nel trucco O in misteriose energie, emanazioni e trasmissioni fisico nervose umane. Quelli poi che non si possano spiegare senza interventi ultraterreni, non potendosi attribuire — secondo il pensiero cattolico — alle anime dei defunti, separate ormai per sempre dalla terra (in forza del loro stato e per divino volere), né agli Angeli buoni, data la banalità e gli effetti dannosi (ideologici e psichici) delle sedute spiritiche, non possono attribuirsi che al demonio.

2714

nericamente considerata — perché viene dopo il piano ‘vitale e sensorio — ma è tuttavia il primo come immaterialità totale, e quindi come spirito. Come è possibile che il mondo dello spirito si fermi proprio lì, alla striscia di confine ? Oppure che debba farsi 11 salto secco tra tale unico caso di spirito animatore del corpo e — se lo si vuole ammettere — lo spirito infinito e purissimo, Dio ? La stessa vasta distribuzione di perfezioni nel mondo sensibile suggerisce che qualcosa di simile debba aversi anche nel mondo superiore ai sensi. È un processo estensivo simile a quello fruttuosamente seguito nelle ricerche fisico chimiche, come quando, considerando le lacune della tavola di Mendelejev, si è postulata l’esistenza degli elementi mancanti, che poi effettivamente sono stati scoperti; o come quando, svelatasi l’esistenza di onde al di 1à del campo visibile, si sono poi trovate sperimentalmente, in un campo sempre più vasto. *

Ora il primo gradino che ovviamente si presenta, oltre la spiritualità dell’anima umana, autonoma bensì dalla materia, nel suo essere e nella sua operazione, ma congiunta ad essa nell’unità del composto umano (come vivificatrice del suo corpo) e bisognosa di lui per mettersi a contatto intellettivo con le cose, è quello di esseri spirituali privi di qualsiasi diretta congiunzione alla materia. Questi sono appunto i puri spiriti, ossia gli Angeli, affermati dalla rivelazione cristiana. È innegabile quindi che, dopo la scoperta dello spirito umano, una realtà cosmica senza puri spiriti si presenta come monca. Solo accettando cotesta tesi religiosa si colma tale lacuna. 275

Il medesimo processo estensivo anzi suggerisce qualcosa di più, e cioè che non vi sia un solo gradino angelico sopra il gradino dello spirito umano, ma che in questo regno dei puri spiriti vi sia un’immensa scala di specie, ossia di perfezioni sempre più alte (scala d'una estensione maggiore di quella del regno materiale, in proporzione alla maggiore ricchezza del mondo dello spirito), al cui apice c’è l’infinito Dio: il che viene effettivamente affermato dalla tesi religiosa suddetta 1.

Ma, a prescindere dalla realtà di questo mondo angelico, anche la sola sua ipotetica considerazione è utile

per mettere in risalto per contrasto i limiti della spiritualità umana e non confonderla con quella angelica. La concezione dell’anima spirituale rinchiusa nel corpo umano già vivo, come in un recipiente, o che magari per renderlo vivo e sensibile opera sulla sua materia estrinsecamente, corrisponde all’idea d’un Angelo rinchiuso dentro il corpo, non della vera anima dell’uomo, vivificatrice del corpo e bisognosa, in terra, per ragionare, del suo servizio sensorio, come abbiamo visto. La dipendenza dell’attività razionale umana dal corpo, anziché costituire una difficoltà contro la spiritualità dell’anima umana, ne costituisce l’indice distintivo dalla spiritualità pura dell’Angelo. Essa delinea i limiti d’una spiritualità proporzionata e sapientemente dosata per la creatura uomo, posta — per la congiunzione di anima e di corpo — al punto di confine tra il regno della materia e il regno dello spirito. !

276

Cfr. S. Tommaso, Summa Theologica, I, 50,

art. 3-4.

Non gli manca che la parola Si fa presto a irridere all’antica adorazione egiziana d’un bove e a restare stupefatti di fronte a tanta

stupidità

!

« Api » in egiziano significa: «il corridore ». Neanche fosse stato una gazzella! Era Dio profetico, assimilato al sole, figlio del Dio Fta (Ptah). Dava i responsi battendo lo zoccolo e prendendo o rifiutando il cibo, tutti segni che venivano interpretati dai sacerdoti. Un esemplare vivente veniva nutrito a Menfi (non lontano dall’attuale Cairo) nell’apposito tempio detto « Apieum »: e doveva essere un toro nero, ma bianco nel ventre, nelle zampe e nel fiocco della coda e con una mac-

chia triangolare bianca in fronte. La sua morte era lutto del paese e la mummia veniva sepolta solennemente in un sacro reparto della necropoli (scoperto dall’egittologo Augusto Mariette nel 1851), venendo allora identificato con Osiride o, al variare dei gusti, con Serapide. La tomba diventava mèta di pellegrinaggi. Entro settanta giorni i sacerdoti dovevano trovare un altro esemplare con quei contrassegni — cosa non facile evidentemente — che veniva poi scortato solennemente fino a Menfi e installato — mai parola più... esatta — nel suo tempio. Fortunato animale Si fa presto — dicevo — a ironizzare. Ma si deve riconoscere una certa potenza suggestiva nell’aspetto del !

2717

bove, che spiega lo sprigionarsi della superstizione. Si provi a fissare quella testa enorme che lentamente si muove e quegli occhioni che s’inchiodano a mirarci, come in atto di profonda e misteriosa riflessione, e restano così, senza un sussulto, solenni, mentre l’ampio alito delle umide nari sembra il fremito d’una nascosta potenza, resa sonora a un tratto dal grave e pastoso muggito. Anche Carducci ne fu preso: T’amo, o pio bove; e mite un sentimento di vigore e di pace al cor m’infondi, o che solenne come un monumento

tu guardi

1

campi liberi

e

fecondi,...

Il culto degli animali, tanto frequente nelle religioni

pagane, è la massima espressione della superiore valutazione che l’uomo tende a dare agli animali, capace di colpire i popoli semplici, fino alla trasfigurazione sacra, Essa deriva dalla tendenza antropomorfica ad attribuire loro una intelligenza di tipo umano e dal fascino stesso della loro vitale potenza e della loro saggezza — gli animali nel quadro normale del loro istinto non sbagliano mai — congiunta al loro misterioso silenzio 1, E non è stato solo 1l bue (ancor oggi sacro nella civile India) ad attirare 1l culto degli uomini. Si pensi, anche attualmente, al gaviale del Gange. Non è mancata a Bubasti (nell’antico Egitto) la dea gatta Bastet, e così via. È la stessa suggestione, in fondo, che ha reso sacri e fatto adorare piante, fiumi, montagne (il Gange, il m. Fusijama del Giappone, ecc.) e ancor più universalmente le grandi forze della natura e gli astri del cielo; suggestione che però verso gli animali acquista risonanze psicologiche più spontanee per l’apparente loro misteriosa intelligenza. Invece di risalire al creatore di tante meraviglie, si compie l’errore di fermarsi ad esse, che pur riflettono naturalmente il divino splendore. 1

278

Perché non adorare invece un uomo ? Eccetto per le religioni che ammettono le reincarnazioni, ciò è meno spontaneo. L’uomo infatti ragiona, e si vedono i frutti della sua intelligenza nelle sue imperfette costruzioni. Esso non sa fabbricare come una pianta il frutto prezioso, non è capace di dare alle campagne la fertilità che sa loro dare il Gange con le sue inondazioni, non ha l’istinto e la forza di certi animali. Sicché sono essi che vanno adorati, non lui. se

Oggi, nel nostro mondo civile, in ben altre forme, la suggestione dell’animale resta ed è fondata nella opinione alquanto diffusa che abbia intelligenza. Benché, poverino, non sappia esprimersi e resti quindi un sacrificato. Si è ben lontani dalle amplificazioni superstiziose divinizzatrici, si riconosce senz'altro che possiede un’intelligenza inferiore, ma si ritiene comunque che abbia intelligenza. Si ammirano gli occhi, la fisica mobilità e il guaire espressivo del cane si dice « Che bestia intelligente ». Si è colpiti davanti alle scintillanti pupille del gatto e alle sue astuzie feline per catturare la mobile preda. Ecco il padrone che viene ed egli che gli va incontro, inalberando il vessillo della coda, tutto vibrante con i suoi stropicciamenti e le sue fusa: « Non gli manca che la parola ». Avevo un neonato passerotto, messo in un cestino della mia camera. Appena entravo, a un verso che facevo come di rudimentale cinguettio, rispondeva pigolando e spalancava il becco per ricevere dalle mie dita minuzzoli di cibo come se l’imboccasse la passerotta madre. Poi cominciò il piccolo volo nella stanza; ma per rimetterlo a posto bastava il mio verso e mi rivolava sul dito. Un giorno fu tentato d’ardimento e si ec

!

1

279

lanciò dalla. finestra del quarto piano, che dava.su un giardino privato. Fu poi visto più volte ritentare la scalata fino alla finestra, ma era troppo alta per lui. Passarono varie ore. Appena me ne accorsi scesi sicuro nel giardino, senza sapere dove egli fosse e rifeci il solito verso. Eccolo sbucare da un cespuglio e rivolarmi sul dito: « Che passerotto intelligente !» E gli insetti ? Parlino: gli apicultori. Provatevi a domandare l’opinione d’una Miss inglese sul suo amatissimo cane. Non mancano i monumenti da esse innalzati alla loro intelligente memoria. E c’è chi ha lasciato loro l’eredità. Tutti sanno l’entusiasmo popolare suscitato nel 1958 dal cane Fido, il quale, avendo seguitato, in un paese del Mugello, ad.andare giornalmente, per quindici anni, ad attendere invano alla corriera l’arrivo del padrone, ormai morto (per puro istinto di abitudine e per le feste che gli facevano e bocconcini che gli davano), ha meritato un monumento con la scritta: «a Fido — esempio di fedeltà »; e l'hanno pure fotografato col muso che guarda la scritta. Hanno dato medaglie d’oro a pappagalli salvatori. Hanno fatto l’albero di Natale per i passeri, non senza discorsi di omaggio; ecc. Non parliamo degli zoofili in genere e di tutti gli amatori di cani in particolare, che fanno i loro congressi, istituiscono rifugi per randagi, incoraggiano in tutti i modi le società protettrici degli animali — ormai, dopo la prima, fondata in Inghilterra nel 1824 pullulanti in tutto il mondo !, con colossali bilanci finanziari —. Né sono da meno gli amatori dei gatti e i fabbricatori di gattili modernissimi. 1

1

In Italia la prima nacque a Torino nel 1871. Oggi essa divenuta Ente Nazionale per la Protezione degli Animali (ENPA), con il mensile L’idea Zoofila, con ispettorati regionali, 800 guardie zoofile volontarie, 23 ricoveri, 43 ambulatori. !

è

280

Tutte iniziative, che assorbiscono centinaia di milioni

per essere inconsapevoli e ormai inutili, veri parassiti dell’umanità. La vera giustificazione è questa: la convinzione che gli animali abbiano una qualche vera coscienza e intelligenza. Vi sono poi gli sperimentatori scientifici che ci presentano le scimmie riflessive dell’isola di Teneriffa, studiate dal Kohler !, l’ammaestratissimo cane di Manheim e il cavallo calcolatore di Elberfeld ? che sanno ragionare. E non mancano entomologi di grido — come Maurizio Thomas — che non riescono a spiegare il sapiente comportamento degli insetti senza concepirlo in modo umano, sia pur ridotto. « L’interpretazione antropomorfica è la sola che possa dare una soddisfacente spiegazione delle successioni di atti di cui si parla »3. Lo stesso Thomas afferma che «da tempi immemorabili, la comune dei mortali, compresi gli eruditi, s’è dimostrata antropomorfista a riguardo delle bestie, cioè ha tradotto in linguaggio corrispondente alla propria psicologia gli atti degli animali, i sentimenti che li animano, ecc. » +, L’intelligence des singes supérieurs, Paris, Alcan, 1927. Cfr.: Marcozzi, o.c., p. 65 Ss. 3 Anthyopomorphisme et finalisme en Psychologie animale, Scientia, ottobre 1948, p. 186; cfr. Scientia, agosto 1948, aprile 1950. Il THomas fino dal 1932 ha definito l'istinto: «la conoscenza ereditaria d’un piano di vita specifico »: piano «intelligentemente » adattato alle impreviste circostanze (Cfr. Scientia, marzo 1952: p. 94). 1 Scientia, agosto 1948, p. 145.Il] Thomas sembra però avere poi ammesso qualche differenza specifica tra istinto e intelligenza, criticando il Condillac, che considerava l'istinto come «un grado inferiore dell’intelligenza ». Egli modifica anche la definizione dell’istinto animale, chiamandolo: «la conoscenza ereditaria, per lo meno virtuale, del piano di vita specifico » (cfr. Scientia, settembre 1956, p. 272-273). 1

2

281

Occorre soffermarci un poco su questo problema, perché esso tocca, più di quello che possa sembrare, il nostro studio. È nel confronto con la conoscenza animale che si comprenderà meglio cosa sia l’intelligenza

l’anima umana. Elevare gli animali all’intelligenza umana è abbassare gli uomini al piano soltanto animale e negare intelligenza e spirito a entrambi.

e

Conseguenze gravissime

È sorprendente la leggerezza con cui il pubblico,

anche dotto, parla dell’intelligenza degli animali. Si vede in questo un aspetto inverso, benché forse inconsapevole, di quella strana voluttà distruggitrice della trascendente nobiltà umana di chi esalta la di-

scendenza umana dalla scimmia. Sì minimizza bensì questa equiparazione degli animali all'uomo — e quindi dell’uomo agli animali — sul punto essenziale dell’intelligenza, rifugiandosi nella distinzione quantitativa, attribuendo cioè agli animali solo un po’ d’intelligenza e magari chiamandola, come il Thomas, «intelligenza pratica », in quanto «non ha per compito che di realizzare praticamente il piano particolare di vita, di risolvere le difficoltà che questa realizzazione può casualmente incontrare, ed è incapace di far uscire l’animale dal suo dominio di attività ereditaria » 1. Ma è proprio qui che urge una chiarificazione. Il problema dell’esistenza o meno della capacità propriamente intellettiva, non è quantitativo, ma qualitativo. Quando dall’esperienza dell’intellezione umana siamo passati !

282

Scientia, aprile 1950, p. 106.

a dedurre l’esistenza dell’anima spirituale e quindi immortale, non si è fatta alcuna questione di grado intellettivo, ma semplicemente d’intellezione, in quan-

to tale.

Certo l'intelligenza potrà essere più o meno vasta e profonda. Sono tanto diverse le intelligenze umane Per chi poi accetta la tesi religiosa dell’esistenza degli Angeli vi sono i loro modi più alti d’intellezione, secondo la vasta scala ascendente della loro perfezione. Ma qualunque sia la forza e il modo dell’intellezione, se è intellezione, siamo senz’altro nel piano dell’operazione universalizzatrice, in sé completamente autonoma dalla materia e quindi spirituale: siamo quindi nel piano dell’anima spirituale e immortale. Qualunque sia la lu!

minosità del concetto, dell’idea, se questa è veramente tale, c’è intellezione; se non è tale, sarà senso, ma non intellezione: non c’è via di mezzo. Appena superata la concretezza materiale della sensazione c’è l’universalità dell’intellezione. E — ripeto — se c’è intellezione, c’è spirito e immortalità. Chi dunque afferma una qualche vera intelligenza — anche se minima — negli animali, afferma senz'altro la spiritualità e immortalità della loro anima.

E tengano ben presenti le conseguenze. Perché quando c’è l’anima spirituale c’è la libertà, c’è l’«io » morale e la corrispondente personalità. Il bambino che muore prima dell’uso di ragione ha tuttavia la dignità d’uomo e viene onorato e difeso dalla legge come uomo. Il corto di mente, il minorato, 1l folle, è tuttavia ugualmente persona razionale, persona umana. 2583

il

livello anche minimo della Qualunque fosse quindi loro intelligenza, sarebbero creature razionali e morali anche le bestie. Quanto alla responsabilità soggettiva dei propri atti, essa sarebbe proporzionata indubbiamente al loro grado di coscienza e di libertà. La libertà infatti segue l’intellezione, e finché questa è insufficiente non può esercitarsi. Ma, nell’ipotesi che si tratti di vera intelligenza personale, come negare che essa (con la conseguente responsabilità) sia notevole in certi animali che si dicono più intelligenti ? Comunque, anche senza cotesto sufficiente uso di ragione, sarebbero equiparabili a bambini o minorati perpetui, che pur sono « persone » e soggetti di diritto. Nella selva dell’assurdo

Passando agli aspetti pratici, a supporre negli animali tale vera intelligenza si presenta tale una selva di assurde conseguenze che, se anche riuscisse difficile spiegare altrimenti 1l loro comportamento, sarebbero sufficienti a escludere l’ipotesi. Il mondo dello spirito risulterebbe infatti macchiato della più grave vergogna. La specie più intelli-

uomo —, approfittandosi della sua maggior perspicacia, proseguirebbe a tenere schiave, a sfruttare e a sterminare un immenso numero di altre specie di viventi, anch’essi intelligenti e forniti quindi come lui di spirito immortale, tenendoli fuori legge per la vita e per la morte, rei soltanto di essere meno intelligenti e incapaci di comunicare i propri sentimenti e il proprio dolore. La religione cristiana, notoriamente tanto elevata nella spiritualità dei suoi principi, banditrice della carità vicendevole, del soccorso dei miseri e del perdono dei nemici, ammonitrice suprema dell’esistenza e delle

gente

284



responsabilità dell’« al di 1à », sarebbe completamente cieca su tale punto essenziale e responsabile di tale colossale ingiustizia. E ciò in modo positivo, perché è fatto comando nei suoi libri sacri di dominare gli animali, di ucciderli e di servirsene come nutrimento Gli unici uomini onesti sarebbero i vegetariani perfetti. E sarebbe tempo che dopo la proclamazione dei diritti dell’uomo si compisse un’altra rivoluzione — ma questa volta fatta proprio come si deve: non in tono minore, come fanno le Società protettrici degli animali — per proclamare i diritti e l’emancipazione degli animali. 1!.

E poi a quali animali fermarsi



Perché solo ai prin-

cipali, ai più vicini all’uomo perché — sia pure ancor più ridotta, ma sempre vera intelligenza — non in tutti ? E quindi perché non in tutti l’anima ‘immortale, con tutte le giuridiche e morali conseguenze ? Perché, in particolare, data l’enorme abilità che dimostrano e secondo 1l parere esplicito di certi entomologi, non anche e anzi specialmente negli insetti, non esclusi cosiddetti nocivi ? E allora sarebbe una inaudita sopraffazione anche la distruzione di questi. Si chiamano insetti nocivi. Ma essi non fanno che vivere secondo le loro esigenze naturali. La zanzara è magnificamente fatta per succhiare il sangue animale e umano: premuroso gesto della trepida madre per portare a maturazione le uova. Quel ?

Se in questi è intelligenza,

1

Basta ricordare la visione di S. Pietro di tutti gli animali messi a sua disposizione e della voce celeste che gli disse: « Via, su, Pietro, uccidi e mangia » (Atti, 10, 13). (Cfr. Genesi, 9, 2-3). 1

285

suo stiletto inguainato è veramente un capolavoro. E quell’altra bestiolina che colpa ha se è fatta apposta per popolare i letti dei dormienti e rendere più combattiva la vita di certe caserme ? Se noi li chiamiamo insetti nocivi, essi avrebbero tutto il diritto reciprocamente di chiamare noi uomini animali nocivi. Nella lotta sarebbe soltanto per la legge del più forte che vinciamo noi, macchiandoci del più violento genocidio t. Se fossimo onesti si dovrebbero invece trattare al più come i pazzi o come i malati contagiosi, che si rinchiudono, facendo loro il minor danno possibile, perché a loro volta non rechino danno. Come si sono voluti organizzare dunque i rifugi dei cani randagi e dei gatti abbandonati, si dovrebbero organizzare dei rifugi, ossia in pratica degli allevamenti — ben chiusi si intende, ma con tutto il confort moderno loro utile — di zanzare, mosche, ecc. E insieme ai canili, gattili, ecc. dovremmo avere gli zanzarili, i moschili, i pulcili, e così via.

«

C’è chi potrebbe forse pensare che questo argomento per assurdo » proverebbe troppo se fosse vero e non

può quindi avere valore. Infatti sembra che ne deriverebbe la condanna del trattamento che si suol fare agli animali, anche supposti privi d’intelligenza. Il loro impiego o la loro distruzione da parte dell’uomo verrebbe cioè ancora per analoghi motivi a costituire una soprafCon questo termine la « Convenzione per la messa al bando del Genocidio » e la « Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo » dell’Ass. Gen. dell’O.N.U., il e 10 dicembre 1948 chia1

9g

marono le distruzioni etniche in massa. Ma perché non pensarono anche agli animali ?

286

fazione di creature innocenti e un dolore inferto crudelmente a esseri sensibili come noi. Ma la differenza, nelle due ipotesi, è essenziale. Intanto, se non si vuol capovolgere tutta la mentalità giuridica del mondo civile, solo la razionalità rende una creatura soggetto di diritto e chi la sacrifichi colpevole di sopraffazione. Si può dire sopraffatto soltanto chi capisce di esserlo — o in atto o in radice — e quindi chi è intelligente. Nessuno dice di sopraffare una seggiola perché se ne serve per il fuoco. Non si può parlare poi di creature innocenti, nel senso morale del termine, perché solo la razionalità crea la libertà e responsabilità morale e la colpevolezza o innocenza: a meno che si usi la parola in senso metaforico, come quando si dice: « Vino traditore o vino

innocente...

».

Quanto poi al dolore, bisogna prima di tutto riflettere all’enorme sua diversità, secondo che sia coscientemente percepito o no. Solo la coscienza del dolore rende questo veramente capito e sofferto. Perfino tra gli uomini nessuno osa paragonare il pianto irrazionale del neonato con quello dell’adulto: tanto è vero che mentre il vagito lascia quasi indifferenti, 11 pianto dell’adulto può muovere alle lacrime. Negli animali pertanto, supposti senza intelligenza, questa riflessione sulla propria sofferenza sensibile e la conseguente sofferenza morale del dolore capito manca assolutamente: cioè manca loro l’aspetto del dolore più intimo e più vero. Il cane affamato e randagio sente sì il morso della fame e s’affanna a cerca cibo, ma non sa riflettere sul suo stato, 287

far trafiggenti confronti, rimpiangere il passato, preoccuparsi dell’avvenire e dire: « Come sono disgraziato quanto gli altri stanno meglio di me ». Quel dolore comunque — benché cieco, irriflesso, ridotto solo alla materiale sensibilità — c’è indubbiamente. Ma quando è prodotto dalla caccia e dalle esperienze scientifiche e dal bisogno dell’uomo, rientra nella più generale legge di vita, per cui molti animali inferiori servono di nutrimento ai superiori. Legge crudele ? Punizione di chi non ha colpa ? Di punizione, essendo gli animali fuori dell’ordine morale, non v’è nemmeno da parlarne. Essi non hanno colpe, non perché non ne hanno volute commettere, non per buona volontà, ma per mancanza di volontà. Né può parlarsi di crudeltà rientrando tale utilizzazione degli animali nell’ordinato e sapiente quadro della solidarietà cosmica 1. In tale solidarietà gli animali nascono e, ordinatamente parlando, non possono nascervi per niente. In un precedente capitolo trovammo un sicuro orientamento per l’affermazione dell’«al di là», nella ripugnanza ad ammettere che l’attività umana e cosmica possa finire nel nulla, come finirebbe effettivamente se !

!

Nel pensiero cristiano ciò s’inquadra nella legge generale del sacrificio, dopo il peccato originale. Prima la miracolosa 1

preservazione da ogni dolore dei progenitori era forse estesa, per riflesso, anche agli animali (miracolosamente). Alcuni studiosi interpretano infatti Genesi 1, 29-30; 9,2-3 nel senso che, prima, per divino prodigio, tutti si cibassero di vegetali. Questa solidarietà con la sorte degli uomini ha una inversa conferma nel diluvio punitivo che li distrusse tutti (Cfr. Genesi 0, 13.17). La norma divina poi fu chiara, a riguardo di « tutte le bestie »: «sono in vostra balia. Tutto ciò che ha moto e vita sarà cibo per voi; io ve lo do tutto, come già i verdi erbaggi » (Genesi, 9, 2-3).

288

niente sopravvivesse: perché ciò che finisce — vedemmo — annulla il passato e sbocca quindi, in definitiva, nel nulla. Ma supposto che le bestie non abbiano lo spirito e terminino nell’« al di qua », esse finirebbero appunto nel nulla, rappresentando un’inutilità cosmica. Perché non si abbia tale ripugnante inutilità è necessario quindi che esse direttamente o indirettamente si ricolleghino con la perennità umana, servendo all’uomo in tutti i modi realmente utili, come nel lavoro, nel fabbricargli la carne e le pellicce, nei preziosi esperimenti di laboratorio (compresa l’importantissima vivisezione), inserendosi in tal modo anch’esse nella grande legge della perennità 1. Così quell’impiego utile della loro vita, che esse per mancanza di conoscenza non possono eleggere, il cosmo l’impone loro. Si può parlare di sacrificio ingiusto, perché non compensato, come per l’uomo, dall’eventuale premio della vita futura ° Un tale premio suppone 1l merito, di cui gli animali sono incapaci. Ma non manca tuttavia una vera compensazione a tale possibile loro sacrificio, nel limitato quadro della vita presente a cui si commensurano i loro istinti e la loro sensibilità. E l’hanno proprio in dipendenza della sensibilità stessa, che è la ragione e il campo del loro possibile dolore. Tale sensibilità infatti (con la rispettiva attrattiva al piacere e ripugnanza alla sofferenza) è il segreto prezioso che li stimola alla 1 Nella solidarietà della vita cosmica bisogna guardare naturalmente all’utilità d’insieme, in vista cioè di quei soggetti che finalmente saranno utilizzati dall’uomo. Certo l’uomo non utilizzerà direttamente i microscopici animali costituenti il Plancton dei mari, ma essi servono di nutrimento ai pesciolini, che serviranno ai pesci più grossi e questi all'uomo. E così in mille altri casi.

289 19

propria conservazione e che dona loro il gusto (senza previsioni e preoccupazioni future di cui sono incapaci) della vita, del cibo, del riposo, ecc. dati loro per un certo tempo dal cosmo o dall’uomo gratuitamente e senza alcun loro merito. Merita forse o soffre il vorace suino nel pacifico tempo dell’ingrasso ? Senza colpa il dolore e senza merito 1l piacere:

ecco il pareggio. Tale concezione, naturalmente, ponendo come giustificazione del dolore animale — quando non sia evitabile — la sola utilità cosmica e umana, crea, per ciò stesso, un limite ordinato al diritto umano di servirsi delle be-

stie, e giustifica i provvedimenti legislativi protezionistici contro l’eventuale crudeltà e abuso nel loro impiego, crudeltà che non può non essere, oltre tutto, uno spontaneo riflesso di cattivo cuore in chi la compie 1. L’equivoco antropomorfista Le eccessive tendenze filobestiali, le sopravalutazioni degli atteggiamenti e della comprensione degli animali si spiegano facilmente con la tendenza umana È in questo senso che possono utilmente operare le « Società per la protezione degli animali». È invece riprovevole che si alimentino le pagliacciate di innalzare monumenti e dare medaglie agli animali, o si spendano per il loro inutile mantenimento somme enormi, mentre ovunque vi sono tanti poveri bisognosi. È aver cuore per le bestie e crudeltà per gli uomini. Per questo e per l’equivoco antropomorfista e la confusione di idee che ciò produce nel popolo, si cade in una vera immoralità. Il cane o il gatto randagi, se non più ricercati da nessuno, non più utili a niente, e anzi dannosi, debbono logicamente — senza dolore — essere eliminati dall’esistenza. È un oltraggio all’umanità che nei ricoveri dei bisognosi vi siano tante strettezze e sì sprechino denari e premure per le bestie. 1

200)

antropomorfizzatrice delle cose e specialmente dei viventi con cui si viene a contatto. Si è così abituati cioè all’esperienza del proprio mondo personale interno, che si tende a interpretare nel medesimo modo gli analoghi atteggiamenti esterni degli animali e perfino delle cose. Con la differenza che, mentre per le altre cose tale interpretazione ha un consapevole carattere puramente metaforico, per gli animali tende facilmente a presentarsi sotto un aspetto reale. Nel piano metaforico è tale spontanea tendenza che alimenta le più feconde immagini poetiche e la fioritura delle favole. Sono del linguaggio comune le espressioni: salice piangente, sorriso della rosa in fiore, umile violetta, purissimo giglio, ecc. Al Vittoriale di Gardone vidi una specie di edicola che Gabriele d’Annunzio (18631938) aveva fatto costruire come «ex voto » di riparazione per la morte di una pianta, tagliata per necessità architettonica. Anche le imponenti montagne si personificano, e si parlerà della vetta più alta che sfida le altre vette o che guarda con disprezzo la valle. Davide immagina l’invidia dei più alti monti verso 1l piccolo Sion, da Dio prescelto per 1l suo tempio: « Perché guardate biechi, o monti, o creste, il monte da Dio preferito a sua dimora ?»!. Lucia, fuggente, così parla: « Addio, monti sorgenti dalle acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendio, come branchi di pecore pascenti; addio !2». Nei primitivi la metafora si trasforma in af1

2

Salmo 68 [67], 17. A. MANZONI, 1 promessi sposi, cap. VIII. 201

fermazioni reali, fino alle suddette divinizzazioni delle piante, dei fiumi, delle montagne, delle bestie. *

Riguardo agli animali, è facile comprendere come cotesto processo umanizzatore possa acquistare, con particolare facilità, contenuto reale. V’è infatti alla base dell’analogia con l’uomo un fattore di effettiva identità di comportamento nelle relazioni d’ambiente. Tanto i sensi quanto la volontà — nonostante il diverso modo di quest’ultima, dovuto alla libertà — sono attratti o respinti dalle cose, e nelle manifestazioni esterne di avvicinamento o di allontanamento, di piacere o di ripugnanza, sono uguali. È molto facile pertanto attribuire alle manifestazioni puramente sensibili animali un valore di riflesso cosciente, quale si avrebbe in noi, in analoghe condizioni. Il figlioletto, al ritorno del babbo a casa, dà un grido di gioia e sorridendo gli si butta con le braccia al collo. Anche il cane, visto 1l padrone, guaisce, si dimena a festa e gli si butta con le zampe addosso. Il babbo risponde con un bel bacio al figlio e una bella carezza al cane. E qualcuno commenta: « Ti vuol bene come un figlio ». Un giorno poi il figlio dispettoso, all’arrivo del babbo, non lo saluta. Il cane invece gli corre incontro alla medesima maniera. E qualcuno dice: « Son più fidate le bestie dei cristiani ». Non pochi penseranno ad affetto e fedeltà di tipo umano. Non per niente sì chiama 1l cane solennemente: l’amico dell’uomo. Né mancano persone che, sfiduciate dell’amicizia umana, si segregano da tutti e si contornano di cani, gatti, canarini, ecc.: che sono « veramente fidati ». 202

Ora tutto ciò è enormemente illusorio, perché tra l’omaggio del cane e quello del figlio c’è l’enorme differenza che corre tra il piano del senso e quello dell’intelletto. Basta infatti supporre che il cane sappia dalla vista e dall’odorato identificare quella cosa mobile che è il padrone, e associarne la figura — per puro raccostamento fantastico — a quella del cibo, della dimora e delle carezze, che sono fonti di gaudio sensibile, perché se ne spieghino i segni di compiacimento, dettati da puro cieco istinto di benessere. Basta questa supposizione per rendere l’altra interpretazione antropomorfica almeno profondamente dubbia e arbitraria. Ma questo dubbio lo trasformeremo presto in positiva e sicura esclusione. Del resto il fatto stesso di quella immutabile fedeltà è una conferma della fissità del puro istinto e dell’assenza di qualsiasi ragionamento. Come potrà restare adirata la bestia, se non ragiona ? Potrà solo, dopo averne buscate, avvicinarsi tremante, con la coda tra le gambe, per paura puramente istintiva di riceverne delle altre. È il gesto dell’istinto di conservazione, congiunto all’altro istinto di dipendenza dal padrone. Ma l’impenitente tendenza antropomorfica vi vedrà invece il gesto del reo pentito che va a chiedere umilmente perdono. Ecco il cane noncurante del pericolo che si getta contro l’assalitore del padrone e in tale gesto trova la morte: « Bravo !». E una lacrima di riconoscenza spunterà sugli occhi dei familiari. Ma la bestia non sapeva cosa fosse generosità, coraggio e fedeltà. Essa non aveva capito che l’assalitore era armato e l’avrebbe colpito a morte. Non ha fatto che seguire il cieco istinto belluino, connesso a quello di compiacenza per il proprio benessere, e s’è scagliato contro ciò che gli si presentava in 293

contrasto col proprio piacere sensibile: con la medesima furia come si sarebbe scagliato contro chi gli avesse rubato l’osso o contro l’aborrito gatto. Se l’assalitore fosse stato capace di gettargli tempestivamente in bocca un succulento boccone, invece di gettarglisi contro, l’avrebbe festeggiato come il padrone. Bisogna vedere, per divertirsi, i festeggiamenti, le carezze — i baci — al cavallo favorito, vincitore del galoppo, e leggere la concitata descrizione del cronista che ne descrive l’« eroico » sforzo finale che lo condusse a vittoria. Mentre esso non ha compiuto proprio nessun eroismo, ma ha semplicemente seguito l’istinto della corsa — come il cane che si precipita dietro il sasso lanciato — eccitato dagli stimoli del fantino, e l’istinto di evasione dalle trafitture degli sproni o dalle scudisciate. Quando tornava a casa il padrone di quel famoso cane del Mugello, questo — Fido — gli andava giornalmente incontro, all’arrivo della corriera. Ma un brutto giorno il padrone morì e Fido non lo vide scendere dalla corriera. Il giorno dopo alla stessa ora vi tornò invano; e così seguitò a fare per molti anni. «Quanta fedeltà !» «Sperava sempre di rivedere l’amato padrone»: e gli han fatto quel ridicolo monumento, accennato sopra. Non era evidentemente invece che la forza dell’abitudine, alimentata dalle carezze e dai bocconcini che gli davano, perché quel gesto non poteva non attirare l’attenzione e la benevolenza di quel pubblico. E non si sono vergognati di inneggiare alla sua fedeltà (virtù morale) con quelle solenni parole — si noti: non «simbolo »; ma «esempio di fedeltà » — che forse mai sono state incise sui monumenti dei più generosi uomini. Mentre, ad essere obiettivi, avrebbero dovuto scrivere, caso mai: «

esempio di stupidità

294

».

Non per questo si può dire egoista la bestia, perché

l’egoismo rientra nell’ordine morale, di cui essa è incapace. È semplicemente una speciale macchina sensibile che funziona a meraviglia, rispondendo agli stimoli, pro e contro, della tastiera cieca degli istinti. La leggenda dell’asino di Buridano ! è teoricamente verissima. Davanti a due ciuffl di fieno identici, ugualmente attraenti, egli non potrebbe muoversi e morirebbe di fame. Sa-

rebbero stati toccati due bottoni diametrali della tastiera dei suoi impulsi e questi si eliderebbero, mancandogli la capacità di fare il ragionamento che gli conveniva di prenderne uno qualunque. Per l’uomo quindi ciò non avverrebbe. Se non avviene nemmeno, in pratica, per l’asino, è perché manca l’identità degli impulsi opposti, in quanto che, andando un momento l’occhio verso uno dei due cibi, per la fame dimenticherebbe l’altro e gli si precipiterebbe sopra. Non deve far meraviglia d’altra parte che negli animali domestici come il cane, cosmicamente destinati a stare utilmente vicini all’uomo, la provvida natura Nelle opere di GIOVANNI BURIDANO (prima metà del sec. essa però non si trova. Corrisponde tuttavia al suo modo di intendere la libertà di scelta anche nell’uomo; mentre l’esempio vale per gli animali mossi dalla tastiera obbligata dei sensi, non per l’uomo capace di ragionamento. Tale erronea estensione all’uomo la fa anche DANTE: 1

xXIV)

Intra due cibi, distanti e moventi d’un modo, prima si moria di fame, che liber’uomo l’un recasse ai denti; (Paradiso, 4, 1-3) Al posto dell’uomo si metta un animale irrazionale e la terzina è giustissima. 295

abbia deposto istinti e atteggiamenti particolarmente adatti a metterli in relazione con l’uomo. Così fa la natura con tutti gli animali, predisponendo i loro istinti e le loro caratteristiche agli ambienti in cui sono destinati a vivere. E non c’è dubbio che il cane e l’uomo si intendano l’un l’altro: ma traverso il gesto sensibile, che mette in comunicazione 1l piano volitivo umano con quello sensitivo dell’animale. La tendenza antropomorfica fa dimenticare all’uomo che è il gesto, la voce, ecc. materialmente intesi, non la sua idea e volontà che l’animale segue. Indubbiamente una tale macchina a tastiera sensoè ria piacevole a manovrarsi e l’uomo può benissimo godere e divertirsi a tenerla con sé. La può anche amare. Ma come il corridore ama la sua macchina e quasi le parla, e il capitano la sua nave: benché non abbiano molta speranza di essere compresi.

Intelligenza

e

istinto

«istinto » animale e come può cioè senza intelligenza, se produce ef-

Ma cosa è poi questo

essere

«

cieco

»,

Non si tratta soltanto d’una semplice attrattiva repulsione, ma di un complesso di iniziative finissime e, quel che più conta, variabili nelle diverse circostanze. Tutto quel complesso di atti esteriori e coordinati, con i quali l’animale soddisfa agli svariati bisogni della sua vita di relazione con l’ambiente, come possono nascere da un impulso cieco ? Questa è la difficoltà di non pochi studiosi, che li induce — come Maurizio Thomas, almeno del primo tempo ! —, quando fetti tanto intelligenti

?

o

Cfr. Les principaux facteurs de la Psycologie animale, Scientia, aprile 1950; L’instinct, Scientia, marzo 1952. Così in molti altri numeri, come: settembre 1956, giugno 1958, luglio 1958. 1

Cfr. n. 3,4 di p. 281. 296

non negano ogni elemento supermateriale, ad attribuire agli animali intelligenza. Ma invece niente di più naturale del fatto che l’istinto animale, pur essendo cieco, possa essere artefice di meravigliose operazioni. V’è un parallelo significativo e chiarificatore tra il piano della vita vegetativa e quello della vita sensitiva. Capisce forse la cellula germinale il proprio meraviglioso moltiplicarsi in tutte le parti dell’organismo adulto vivente ? Lo capisce forse 1l seme della pianta ? La risposta negativa appare evidente: ed è una risposta che sì può dire anche sperimentale, perché noi pure abbiamo la nostra vita vegetativa e siamo testimoni del fatto che il cuore batte da sé, senza alcun atto cosciente, lo stomaco funziona senza alcuna iniziativa riflessa, ecc. Eppure l’opera compiuta è sapientissima. E con quale adattabilita alla varietà delle circostanze Tanto che, se la cellula fosse cosciente, dovrebbe essere immensamente più intelligente della più alta intelligenza umana, assolutamente incapace di fabbricare artificialmente 1] prodigio della materia animata. Ecco perché, dovendosi escludere da una parte che tale prodigio della vita sia effetto di pure forze fisico chimiche, e dovendosi d’altra parte escludere una intelligenza regolatrice della vita vegetativa intrinseca alla pianta, si è indotti a trovare tale intelligenza nella causa estrinseca — il Creatore e ordinatore del cosmo dell’organizzazione viil vente e a concepire principio autonomo della vita della pianta come immanente principio incosciente che 1infonde virtualmente alla pianta il piano organizzativo dell’intelligenza estrinseca ordinatrice. Ma, a prescindere comunque dall’esistenza di questa causa estrinseca ordinatrice, l’esistenza di tale principio intrinseco e incosciente della vita vegetativa è !

-—

297

tanto certa quanto è certa l’organizzazione vitale stessa, la sua autonomia e la sua inconsapevolezza, per l’esperienza personale che abbiamo della nostra vita vegetativa. LI

Così è da attendersi nel piano sensitivo. Come nel

piano vegetativo sono regolate le relazioni della materia vivente con quella esterna a vantaggio del soggetto vivente, così nel piano sensitivo sono regolate le relazioni della materia sensibile con l’esterno a vantaggio del soggetto senziente. E per questo non basteranno evidentemente le pure risposte attrattive e repulsive alle sensazioni, disarticolate nei vari sensi esterni, ma occorrerà una ulteriore capacità sensoria di sintesi, di coordinazione, di adattamento e di iniziativa, che raggiungerà 1l suo vertice nelle più raffinate forme dell’ustinto animale. Ma, dal punto di vista della razionalità, come cieco resta il principio vegetativo (anima vegetativa), così resterà il principio sensorio (anima sensitiva). E gli apparenti ragionamenti animali si potranno tutti ridurre ad associazioni fantastiche, tempestivamente suscitate dagli istinti sensori. sk

Ciò che sembra esorbitare dalle possibilità delle pure associazioni fantastiche è la varietà di certe soluzioni e di certi atteggiamenti, che sembrano addirittura invenzioni, come quando le scimmie del Kohler ! sovrappongono due casse e prendono il bastone per staccare il frutto posto troppo in alto. Ma questa plastica va!

208

Cfr. p. 281.

rietà delle soluzioni istintive esorbita tanto poco il piano

normale delle loro funzioni, che anzi ne esprime un aspetto essenziale — nonostante l’entità maggiore minore della loro manifestazione — dovendo regolare gli scambi mobili dell’animale con il tanto variabile ambiente. E, al solito, perché non sembri incompatibile tutto ciò con la loro mancanza di razionalità, si ripensi alla complessa varietà di soluzioni della vita vegetativa. Quante modificazioni qualitative e quantitative, al variare delle condizioni ambientali Un esempio, dei più semplici: per regolare la funzione clorofilliana, in relazione al variabile grado di intensità solare, si constata che 1 cloroplasti, nei quali tale funzione si compie, si spostano nelle cellule della foglia, frontalmente o tangenzialmente ai raggi solari, in modo da raccogliere più o meno calore, secondo il bisogno. E le industrie dell’esile fusticino sgorgante dal seme sotterrato e capovolto per superare gli ostacoli e uscire verticalmente alla luce ? E l’abilità analoga delle radici per penetrare nel buon terreno ? La botanica è piena di meravigliosi esempi di adattamento.

o

!

Del resto

tutto

il problema dell’esistenza dell’istinto

cieco animale ha la conferma

diretta della nostra per-

sonale esperienza, anche proprio sul preciso piano della vita sensitiva. Quante tendenze noi abbiamo e quanti movimenti noi compiamo senza alcun ragionamento Il profondissimo istinto della conservazione, per esempio, non deriva certo da un ragionamento. Così l’istinto del !

299

pudore, sapientemente difensivo dei disordini morali: e le ostentate violazioni moderne dei suoi dettami e i vani ragionamenti per giustificarle ne sono una indiretta conferma, dimostrando quale sforzo teoretico e pratico si debba fare per ucciderne la voce. Quanto ai movimenti istintivi, basterebbe pensare a quelli che si fanno per non cadere, o per difendersi nel cadere. Col calcolo si potrebbe dimostrare che sono stati istantaneamente risolti in circostanze svariatissime complicatissimi problemi di meccanica razionale. Guai se si fosse dovuto aspettare a farne il calcolo per provvedere Così gli animali: il gatto, per esempio, buttato comunque dall’alto, arriva sempre a terra sulle quattro zampe. E si spiega anche perché taluni istinti della nostra animalità siano meno acuti e pronti di quelli corrispondenti delle bestie: perché in noi v’è l’altro mezzo, il ragionamento, che può sostenerci nelle necessità, mentre nelle bestie tutto è ridotto all’impulso istintivo. Anche le iniziative delle bestie che sembrano invenzioni si possono spiegare senza ragionamento, per analogia ad esperienze umane. È noto come nella sfera intellettiva talora l’idea arrida di colpo, senza alcun esplicito ragionamento, come frutto d’un lento accumulo di riflessioni e un allenamento quasi subcosciente, saltando tutta la catena logica cosciente che vi avrebbe condotto, che solo dopo si riesce a percorrere. È questa la storia di molte invenzioni scientifiche. Non v’è quindi da sorprendersi che qualcosa di simile avvenga proporzionatamente nella sfera puramente fantastica e sensibile dell’istinto animale, e che sotto lo stimolo del bisogno un’immagine capace di risolvere una situazione affiori nella bestia, senza alcuna catena intermedia di associazioni fantastiche abituali. !

300

%

In queste ultime considerazioni abbiam visto più che prove positive della mancanza d’intelligenza delle bestie, la possibilità di spiegare il loro comportamento senza di essa. Una buona metodologia già porterebbe alla conseguenza di escluderla di fatto, non essendovi ragione di ricorrere, nella spiegazione dei fenomeni naturali, a supposizioni superiori a quelle strettamente

necessarie per la spiegazione stessa. Inoltre precedentemente considerammo gli assurdi morali che deriverebbero dall’ipotesi dell’intelligenza animale, già sufficienti per escludere, di fatto, l’ipotesi stessa. Ma è ora tempo di passare a prove positive più dirette e più strettamente legate all’esperienza.

Troppo abili per essere intelligenti È evidente che il problema investe tutto il regno delle bestie, non esclusi gli insetti. Anzi, tra gli scienziati, sono proprio alcuni entomologi che ritengono di poter trarre dalle loro esperienze entomologiche la prova che tali animali hanno una qualche vera intelligenza. È chiaro infatti che, quanto più abile è l’iniziativa del cosiddetto istinto, e tanto più sembra valere l’istanza in favore della sua natura intelligente. Ora è certo che le forme più sottili e meravigliose d'istinto si trovano in alcune specie d’insetti. Si dovrebbe quindi dedurre che essi sono gli animali più intelligenti: più del cane, degli altri animali domestici e delle scimmie, anzi, sotto molti aspetti, più dell’uomo.

Troppa grazia Sarebbero proprio troppo intelligenti per esserlo davvero. L’unica deduzione logica è !

301

questa: che un istinto così perfetto e acuto, appunto perché tanto meraviglioso, non può che essere cieco. Un istinto cioè così abile non può significare autonomia d’indagine e intelligenza propria nella risoluzione di tanto ardui problemi, ma soluzione completamente ricevuta dalla natura — in definitiva: dal Creatore — nello scrigno chiuso -dell’istinto. È come a scuola, quando il ragazzo ha fatto il compito troppo bene. Il Professore capisce che non l’ha fatto lui. *

Ad approfondire, per esempio, lo studio delle formiche e delle api, sì resta sbalorditi, non solo per le abilità particolari, ma per la socialità che le lega insieme, con precise e sapientissime distribuzioni di compiti, corrispondenti alle rispettive conformazioni anatomiche. Si conoscono perfino le api ventilatrici che si pongono all’apertura del nido a vibrar fortemente le ali per il cambiamento d’aria. La mirabile costruzione delle file di cellette regolari, dell’ape mellifica, ai due lati del foglio divisorio, perfettamente esagonali e affiancate e contrapposte, in modo da non perdere il minimo spazio e da costituire una struttura solidissima, risolve il problema matematico del minor impiego di materiale per 1l maggiore spazio disponibile e per la maggior resistenLe za!, api tagliatrici sono capaci di costruire denPotendo essere il fondo di varia profondità e quindi con angoli di diverso valore, si è scoperto che anche a riguardo di tale fondo, l’angolo scelto delle api è proprio quello della minor superfice col massimo volume: e ciò con calcolo matematico assai difficile. Si notò solo lo scarto di qualche primo. Ma a riguardo di tale scarto si è poi scoperto che si trattava d’un lieve errore di calcolo e che le api avevano ragione (Scientia, luglio, !

1955, p. 218).

302

tro i fusti cavi, tanti successivi ditali (ognuno riempito di polline col suo uovo e separato dal seguente) con un numero proporzionato di porzioni di foglia, tagliate

opportunamente a contorno ovale o circolare secondo le funzioni di parete o di fondo che avranno, incurvan-

dole e aggiustandole così bene l’una accanto all’altra da costituire un bel cilindro chiuso (così la Megachile centuncularis che produce quei tagli caratteristici nelle foglie delle rose). Le api muratrici (come la Chalicodoma muraria) costruiscono dei veri e propri manufatti, con ben dosato calcestruzzo, impastato con la saliva, a modo di cellette affiancate ed ermeticamente murate, dopo la riempitura del nettare e dell’uovo. Ma la massima attività muraria animale è costituita dai nidi delle termiti (formiche bianche) che possono innalzarsi da terra fino a 7 metri, fabbricati con terra cementata con una speciale loro saliva, così da presentare all’esterno una durezza lapidea. Vengono innalzati prima torri e pilastri che costituiscono una specie di scheletro definitivo, che viene poi «riempito negli spazi rimasti. E così è creata la città di quei milioni di animalucci molli, variamente conformati, perfettamente organizzata nell’interno, secondo la triplice casta: riproduttrice (la regina, che ininterrottamente emette un uovo ogni uno o due secondi), lavo-

ratrice

e guerriera. Ottimo meccanico, matematico e tagliatore è tra i coleotteri, il nero punteruolo o rinchite della betulla (Rhynchites betulae), che prepara alle larve un magistrale nido con la foglia della betulla. Fa prima un taglio a destra, a forma circa di S, fino a intaccare appena la nervatura mediana. Poi passa dal margine opposto e fa un altro taglio un po’ più ottuso, che termina sulla costola mediana a piccola distanza dall’altro taglio. Que303

sto secondo taglio ha sempre un andamento obliquo rispetto al primo e il primo sta sempre in una data relazione con la sinuosità del margine foliare, come stanno tra loro le linee geometriche dette « evolvente » ed «evoluta », il che corrisponde poi meccanicamente al più adatto accartocciamento della foglia. Anche questa operazione dell’accartocciamento è fatta direttamente dal rinchite, il quale prima avvolge la metà destra della foglia e poi vi avvolge sopra la sinistra, ottenendo quel caratteristico involto a sigaro, che ha fatto chiamare anche questi animaletti, sigarai. Le larve, presto sprigionate dalle uova, rosicchiando in tutte le direzioni la foglia accartocciata, ma ancora viva (in grazia della conservata comunicazione della nervatura centrale), ne accelerano il completo essiccamento, che la farà finalmente cadere a terra, dove le larve trovano facile via per impuparsi. Tutto calcolato Gli sfegidi, detti anche vespe assassine, dovrebbero invece essere chiamate vespe paralizzatrici, perché hanno l’abilità non di uccidere, ma di paralizzare il bruco o altro insetto su cui deporranno l’uovo, preparando così alla larva, in fondo al nido ben chiuso, un comodo e abbondante cibo di carne fresca. Lo sfegide di Linguadoca riesce a paralizzare e trascinare alla tana la grossa efippigera della vite e a tale scopo non solo la saetta nei gangli nervosi !, ma ne attanaglia e comprime (senza ferirlo) il cervello, per completarne la pa!

Contro l'affermazione di qualche entomologo frettoloso, dimostra che ciò non è dovuto casualmente alla posizione dell’attaccante e ai punti penetrabili del corpo della vittima, ma a una vera scelta dei punti corrispondenti ai gangli (cfr. L’instinct, Scientia, marzo 1952). !

M. THomas

304

ralisi e sceglie sempre l’efippigera femmina come cibo più lauto per le uova che contiene. Le belle tele di ragno dei nostri giardini, per esempio dell’epeira diademata, sono un capolavoro di architettura, a tendersi in perfetto piano non su tre soli punti stabili (perché tre punti determinerebbero necessariamente un piano) ma su tanti appoggi disparati irregolari e anche mobili. Prima essa tende e irrobustisce la travatura o ponte orizzontale, poi dal centro fa cadere un altro filo principale, poi altri fili per traverso, come intelaiatura di sostegno, poi dal centro i vari raggi, infine tutta la spirale o poligonale di congiunzione tra raggio e raggio, ecc. Nessun artigiano saprebbe fare, con fili di seta, altrettanto. Il costruttore ragno sa inoltre variare chimicamente e accortamente il suo materiale, perché mentre tesse quasi tutta la spirale con filo viscoso, per catturare la preda, fa l’ultimo tratto di centro, che sarà il suo posto di agguato, in filo secco, come pure la grande intelaiatura 1. *

E poi bisogna riflettere che più meravigliosi istinti degli insetti riguardano la difesa delle uova e quindi la conservazione della specie. Ora questo è un fatto tipico per la cui spiegazione ogni ipotetico antropomorfismo è condannato inesorabilmente a cadere. Nell’uomo infatti ciò che i genitori fanno per 1 figli, benché nasca pure da inclinazione innata, è in qualche modo ricompensato. Essi saranno il sostegno dei vecchi genitori. Ma per gli insetti e per tutti gli animali, questo assolutamente mai. Anzi spesso la madre, o per allonta1

1

20

Cfr. M. THOMAS, |l.c.

namento o per morte, neanche conoscerà la prole. Quelle premure, quella fatica non sono giustificate quindi da nessun immediato gusto sensorio e da nessun proprio interesse. Si pensi alla fatica dell’ape muraria a costruire, a riempire di cibo e a sigillare ermeticamente l’urna delle uova di cui essa non vedrà mai la schiusa. Essa comincia il lavoro appena compare, in primavera, e lo prosegue accanitamente spesso fino a luglio avanzato: consumando così quasi tutta la sua vita, che termina in autunno, per la prole che non conoscerà mai, perché nascerà nella successiva primavera. E anche gli insetti o altri animali che vedranno la prole, non fanno che crearsi senza alcun compenso, per la vita di domani, dei temibili concorrenti. Eppure bisogna vedere la cura delle formiche per le loro uova! Appena scoperchiato un nido, anziché fuggire, eccole precipitarsi da ogni lato, afferrare in gran fretta uova, larve e ninfe e portarle via, all’ombra e al sicuro; e le operaie sono anche normalmente in continua faccenda, a separare uova e larve di diversa grandezza, a spostarle di posto secondo la temperatura e l’umidità notturna e giornaliera, ecc. Lasciando un momento gl’insetti, una facile riflessione ciascuno la può fare sulle galline. Si sa che esse si rubano a vicenda il cibo e, per tal riguardo, sono piuttosto antagoniste tra loro. Ma ecco a un tratto un capovolgimento delle loro abitudini. Ne prendo una per chioccia, le metto sotto le uova, ed eccola, per più di 20 giorni a far penitenza, accovacciata lì sopra, essa, che prima non poteva stare un momento ferma ed era sempre in giro a cercar cibo. Poi verrà la schiusa e quegli esserini che, appena grandi, l’abbandoneranno tutti e le faranno concorrenza, divengono l’oggetto delle ce306

lebrìi sue cure materne. La infastidiranno in

tutti i

modi, ficcandosi sotto di lei, tra le ali, montandole sopra e ovunque; ed essa ad accoglierli sempre, a scaldarli, a ricercarli. Anziché rubarlo, li inviterà al cibo col caratteristico verso, spezzando loro i bocconi e lasciando 1 più molli e adatti a loro. E si sa che schiamazzo e che ardimento, che stendere trepidante di ali, all’avvicinarsi di un nemico: allevando così chi le toglierà il

cibo domani. E allora perché lo fanno ? Per il puro e disinteressato amore della specie e della sua conservazione ? Ma cosa mai dovrebbe importar loro ? A meno che si ammetta che esse siano capaci di elevarsi a una visione ancor più astratta, ideale e di risonanza cosmica di quella di cui sia capace l’uomo stesso. Il che è troppo per poter esser vero. E allora mente di tutto ciò, nessuna comprensione del fine, puro istinto cieco, a esecuzione della misteriosa e sapientissima legge della natura. *

Questo «troppo», da cui si deduce logicamente il « niente » viene anche nettamente sottolineato e accresciuto immensamente da un altro prodigio: l’immediata e automatica esplosione dell’istinto stesso. L’uomo ha bisogno dell’insegnamento, della scuola; l’animale, l’insetto no. Il ragnetto non vede lavorare la madre che muore in autunno, dopo aver deposto al sicuro il sacchetto delle uova che schiuderanno in pPrimavera. Arrivato il momento, ognuno sceglie 1l suo cespuglio, e affronta la costruzione con abilità consumata, in pieno. L’ape muratrice non ha visto la madre lavorare nel proprio nido, scegliere quel luogo, quel materiale opportuno, ecc. 307

Anche dopo la scuola, per l’artiere, l’ingegnere, il medico, occorre, prima dell’esercizio della professione, un certo tirocinio; per l’insetto no. Subito comincia con

abilità consumata.

Questo è segno tipico di abilità di natura e non di individuale ingegno. Siamo nel medesimo piano delle funzioni fisiologiche, del battito del cuore o dell’automatismo locomotore delle membra, che si sprigionano al momento opportuno, da sé, senza alcuna riflessione, per cieca e meravigliosamente impressa capacità vitale.

Troppo incapaci, per essere intelligenti Il « troppo » suddetto viene messo in nuova e positiva evidenza dalle contrarie manifestazioni di evidente incapacità. Esse dimostrano il concretizzamento del meraviglioso istinto animale in un punto solo e basta, segno che è un’impronta di natura e non effetto d’intelligenza: così come nelle funzioni fisiologiche v’è un modo determinato dalla natura e basta. Intanto, se sono animali superiori, si guardino bene negli occhi. La differenza con l’occhio umano è netta. Sono occhi scintillanti, ma di vetro. Acuti, ma a raccogliere la luce sensibile esterna, non a riflettere una luce interiore. Ecco perché nell’animale è « muso » ciò che nell’uomo è « volto ». « Imago animi vultus » — diceva Cicerone ! —: «1l volto è il riflesso dell’anima ». sk

La mancanza della mimica espressiva del volto e dei gesti e specialmente della parola razionale è poi decisiva. 1

308

De oratore,

1.

III,

c. 59,

$

221.

Il mutismo animale non si spiega solo attribuendolo a impotenza fisiologica. Prima di tutto — come osserva Vittorio Marcozzi S. J. — il fatto oggi non è più ammissibile: « Autori diversi, come Bautan (1913), Rabaud (1931), R. M. Jarkes e B. W. Learned (1925) e altri, hanno dimostrato che la conformazione anatomica degli organi vocali dell’uomo non presenta, rispetto a quella delle scimmie antropomorfe, diversità particolari notevoli, e vi sono nella fonetica dello scimpanzè tanti elementi del linguaggio umano che non si può attribuire a difetti dello strumento l’assenza della funzione verbale » 1, Poi, quanto agli animali domestici, pur così idonei a star vicini all’uomo, che parla, sarebbero delle creature mostruose, riuscite male ? Come gli uomini quando nascono muti ? Ciò contrasterebbe in modo inammissibile con l’evidente perfezione della loro costituzione e con la sapiente acutezza dei loro specifici istinti. Del resto anche con i muti, appunto perché intelligenti, si riesce a mettersi in vera comunicazione razionale. Con gli animali no. Per valutare a sufficienza la portata dell’osservazione bisogna ricordare ciò che vedemmo a riguardo della parola umana. La parola non è un di più per la creatura razionale, ma una sua capacità indispensabile, nel quadro almeno del buon ordine cosmico. Se esiste il mondo del pensiero, non è ordinatamente concepibile che agli individui che ne sono partecipi manchi il mezzo proporzionato di comunicarlo, mezzo che è appunto il linguaggio articolato. Se tale comunicazione l’hanno i sensi, benché ristretti per loro natura alla concretezza materiale dei singoli, a ben più forte 1

O.c., p. 66.

ragione deve averla il pensiero, che spazia nell’orizzonte della universalità. Il pensiero che vede e non può esprimersi, nel suo stesso piano razionale, renderebbe il soggetto pensante come chiuso e incatenato nella più tormentosa prigione o come minorato dalla più tragica

amputazione.

e

È stato studiato bensì il cosiddetto linguaggio delle bestie. Ma guai a confondere un qualsiasi modo di mettersi in comunicazione con gli esseri sensibili, con 1l linguaggio articolato. Si capisce benissimo che una impressione sensibile del medesimo tipo determini nell’uomo e nell’animale rassomigliante manifestazione esterna: ima si avrà 1l grido, per es., non il linguaggio articolato, quale è propriamente la parola; si avrà cioè un riflesso proporzionato al senso, non al concetto. Ed è facile spiegare tutti fenomeni di ammaestramento con pure associazioni di fantasmi, che riescono a far compiere al1

l’animale ciò che l’uomo vuole. Comunque sarebbe sempre un linguaggio così rudimentale da essere mal conciliabile con la restante vita istintiva sviluppatissima dell’animale, specialmente di quelli destinati a vivere vicini all’uomo. te

L’altro ancor più generale aspetto della stupidità animale è 1l fissismo delle loro abitudini e dei loro istinti. Quelli domestici fanno qualche eccezione, ma sempre in un quadro limitatissimo e spiegabile con le associazioni fantastiche dei soliti ammaestramenti. Quanto agli altri è nota la perfetta immutabilità del loro costume, la fissità delle loro fondamentali iniziative, anche 310

quando, in certi casi, sono completamente inutili o anzi dannose. I tanto industriosi castori, per es., costruiscono la diga per deviare l’acqua anche quando si trovano in un vasca di acqua ferma. Certi ragni, toccati, hanno l’accortezza di lasciarsi cadere giù nel cespuglio. Chi lo vede più ? Furbo ? Metto sotto il cappello e invece di perdersi nel cespuglio vi cade dentro: lo prendo comodamente e lo rimetto a posto. Lo ritocco: identica caduta e rimessa a posto. Così per chissà quante volte Stolto Non ti sei dunque accorto che il tuo stratagemma serve solo a farti cadere nelle mie mani ? È vero che anche tra gli uomini si nota il fissismo del mondo selvaggio. Ma al contatto del mondo civile anche 1à avviene 1l progresso. Comunque nei selvaggi è tutto grossolano. Ma negli animali invece — se il loro istinto fosse intelligenza — come v’è grande finezza di istinto così dovrebbe esservi d'intelligenza. Sicché 1l progresso dovrebbe essere tanto rapido, da essere visibile in poche generazioni, anzi anche nei singoli individui. Per concludere: se il comportamento degli animali dipendesse da personale riflessione, essi sarebbero contemporaneamente troppo intelligenti e troppo stupidi. Non sono invece né l’uno né l’altro, perché fuori del piano intellettivo e al di sotto di esso. Come una pianta non si può dire né intelligente, né stupida. !

!

L’evoluzionismo in imbarazzo Se così è, la specie uomo risulta nettamente fuori rango e sopra rango rispetto a tutta la restante scala animale: e questo per il fenomeno più alto della realtà che è il pensiero. Ed è colpo netto per l’evoluzionismo materialista. 311

L’anello veramente intermedio, per saldare la catena tra gli animali e l’uomo è impossibile. Per ammetterlo bisognerebbe o negare all’uomo l’intelligenza o riconoscerla anche agli animali, per mantenerli in genetica continuità con esso. Una ipotesi che supponga la cieca progressività evolutiva fino alla specie uomo, a riguardo del corpo — come già notammo nel capitolo sul trasformismo — deve ammetterla necessariamente anche a riguardo della razionalità, che dal punto di vista puramente sperimentale è la caratteristica culminante dell’uomo e il massimo fenomeno cosmico. Tale razionalità dovrebbe manifestarsi gradualmente, come luce che si accende sempre più, fino a brillare al massimo nell’uomo. Ma, al contrario, essa è una qualità nettamente nuova, posta su un piano intrinsecamente eterogeneo e superiore a quello animale. Sicché i primati, che costituiscono un anello tanto vicino all’uomo per riguardo al corpo, ne risultano invece immensamente e insuperabilmente distanti per riguardo alla caratteristica più im-

portante, all’intelletto. Tale netta eterogeneità tra il piano intellettivo e non intellettivo rende impossibile l’esistenza d’un vero gradino intermedio.

Non resterebbe evidentemente che ricorrere all’ipotesi mutazionista anche per tale elemento. L’intelligenza si sarebbe a un tratto accesa, come con lo sfregamento si accende uno zolfanello. Affermazione però arbitraria. E, per chi ha ben compreso la disparità essenziale tra il piano fisico sensorio 312

e il piano

intellettuale, impossibile: come chi dicesse che aumentando l’intensità del verde si ottiene il rosso. Per le mutazioni somatiche si poteva addurre la falsariga delle rassomiglianze e delle microtrasformazioni sperimentali dell’embriologia. Ma per la conoscenza si dovrebbe necessariamente postulare il netto salto tra due piani specificamente ed enormemente diversi di conoscenza: il piano sensorio e il piano intellettivo. Cosa impossibile.

Gli evoluzionisti spiritualisti, con la loro mista teoria, risolvono gli inconvenienti. S’appellano allo Spirito Creatore, che avrebbe infuso l’anima spirituale nel corpo animale evolutosi nel modo più idoneo, dandogli

magari qualche ritocco opportuno, perché l'idoneità

fosse perfetta.

Ipotesi evidentemente ammissibile, supposta l’esistenza del Creatore. Però vale la pena di riflettere un momento al motivo generale che giustificherebbe, secondo gli evoluzionisti spiritualisti, questo modo di procedere dell’Onnipotente. Utilizzandosi per la creazione dell’uomo il corpo antecedentemente evoluto dei bruti, verrebbe rispettato un principio generale che presiede alla economia del creato: un principio di facilità, di naturalezza, di minor complicazione, di minor sforzo. Ciò che poteva essere ottenuto dall’evoluzione finalistica del cosmo materiale, ossia dall’azione delle cause seconde, non v’è ragione che non sia stato immediatamente compiuto con atto divino. Tale dunque la più conveniente formazione del corpo dell’uomo. Ma già notammo, innanzi tutto, parlando del trasformismo, che una finalistica 313

evoluzione, capace di giungere, secondo il prestabilito programma, alla perfezione del corpo umano è, in fondo, cosa più ardua e complicata dell’atto creativo diretto. A ciò poi si deve aggiungere la enormità del fatto nuovo, che ora solo siamo in grado di ben valutare: la infusione dell’anima spirituale. Si rifletta infatti cosa significa congiungere uno spirito a un corpo, in modo da creare quell’intima unità « uomo » che sopra abbiamo considerato, tale cioè che il corpo sia animato dallo spirito, senza che questo perda la sua essenziale autonomia di esistenza, e che lo spirito si serva del corpo nella superiore specie di conoscenza, di tipo razionale, pur restando essa essen-

zialmente spirituale. Una congiunzione tanto intima

di due cose tanto disparate è cosa così prodigiosa che

sembra superare immensamente tutta la precedente realtà corporea evoluzionisticamente ottenuta. E allora non è illecito chiedersi se un così potente colpo del pollice creatore, per l’infusione dell’anima spirituale, determinando 1l « più » non possa avere coerentemente prodotto immediatamente anche il meno cioè — almeno nel caso dell’uomo ! — creato senz’altro la nuova specie in anima spirituale e corpo ?. Supposto anche che, per il resto dei viventi, l’evoluzione abbia avuto luogo, un intervento totale di Dio nella formazione dell’uomo si presenterebbe come utile sottolineamento del supremo evento cosmico della comparsa della creatura razionale sulla terra. Se l’evoluzione finalistica avesse già portato gli animali, quanto al corpo, alla forma umana, il divino gesto totalmente creativo avrebbe avuto valore riassuntivo dell’evoluzione stessa, giustificato dall’importanza dell’evento: come 1

Genesi sembra suggerire. * Benché ciò non sia imposto dalla descrizione del Genesi 1,27; 2,7.21-22 (libro sacro e ispirato per gli evoluzionisti cattolici), certo vi armonizza più spontaneamente. il

314

Nella tesi spiritualistica cristiana, d’altra parte, della risurrezione finale dei corpi, un intervento diretto di Dio per la ricostituzione del corpo umano dalla polvere cosmica in cui si era ridisciolto, appare inevitabile, non solo essendo allora terminato il processo evolutivo, ma dovendosi riprodurre quel determinato corpo per ogni anima. Niente di sorprendente quindi — sempre nel quadro di tale spiritualità — che ciò possa essere avvenuto anche all’inizio della specie umana. Le favole della metempsicosi

Questo distacco tra uomini e animali, sul punto della conoscenza, colpisce alla radice la dottrina della « metempsicosi » — puerta trasferimento, èv dentro, duyy: anima — o «reincarnazione », secondo cui l’anima umana, dopo la morte del corpo, trasmigrerebbe ossia sì reincarnerebbe successivamente in altri esseri, di tutti tipi, non solo umani, ma animali, vegetali e minerali, secondo la legge del Karma — « azione » — per cui ognuno va, ascendendo o discendendo, per premio o castigo, nello stato derivante dalle azioni compiute nello stato precedente, fino al raggiungimento finale della liberazione e pace infinita. È inutile dire quanto labile sia il fondamento d’una dottrina che ha per base le fantasie delle antiche religioni dell’India — dove seguita a fiorire — e dell’Egitto — da dove entrò in Magna Grecia, per opera di Pitagora, dal quale, a sua volta, la derivò Platone —; che fu insegnata dai Druidi della Gallia e da quasi tutte le religioni misteriosofiche nate dalle mitologie orientali e dal neoplatonismo greco; che ripullulò in occidente, nel xvII s. per opera di Ordini cavallereschi ermetici :

:

1

315

come i « Rosacroce »; che fu riesumata in Francia nel secolo scorso, ed è propagata oggi specialmente dalle Società Teosofiche e Spiritiche. Quanto ai fondamenti critici moderni della dottrina, si sa quali sono: le affermazioni di Elena Petrovna Blavatsky (183I1891) fondatrice nel 1875 della « Società teosofica », la quale si appella al « Libro di Dzyan », misterioso poema — ignoto a tutti gli orientalisti — contenente la religione universale dell’antico mondo preistorico, « manoscritto di foglie di palma, reso impermeabile all’ac1 qua, al fuoco, all’aria da un ignoto processo » — speriamo di scoprirlo presto — e le incontrollabili rivelazioni dei « medium » delle sedute spiritiche. !

%*

Ma, lasciando andare

tutto ciò, basta riflettere che

il motivo delle reincarnazioni è concepito fondamentalmente come espiazione delle colpe o premio delle virtù,

quindi tutto su un piano di responsabilità morale. Ora — e a forziori gli esseri inferiori —, essendo prive di conoscenza razionale e quindi di libera volontà, sono estranee alla responsabilità morale e al merito e incapaci quindi tanto di espiazione e di purificazione quanto di premio (nel suo significato e valore morale). e

le bestie

sk

Neanche le reincarnazioni in altri uomini possono avere però 1l minimo valore espiatorio, per una ragione non meno radicale della precedente. L’espiazione supLa dottrina segreta, Nuova York 1888-1897; col pomposo sottotitolo: Sintesi di scienza, religione e filosofia. ’

316

pone la coscienza della colpa commessa e del proprio perdurante «io ». Al condannato si legge la sentenza, che porta la motivazione. E ciò è necessario perché la condanna si presenti come « pena » e non come una qualsiasi disgrazia. Se egli, dopo il misfatto, fosse impazzito e quindi reso incapace di attuale responsabilità morale, non si riterrebbe nemmeno più capace di pena punitiva ed espiatoria e solo per difesa sociale si rinchiuderebbe nel manicomio criminale. Il babbo che vuol punire la mancanza del figlio, prima gli nomina la colpa commessa. Ora la coscienza del precedente colpevole «io » manca totalmente non solo negli animali, per 1l suddetto motivo che non hanno l’uso di ragione, ma anche negli uomini in cui l’anima si fosse reincarnata, per il semplicissimo fatto sperimentale che nessuno ricorda una precedente esistenza. Evidentemente non si può addurre, in contrario, la vaga coscienza d’una vita passata che dicono di sentire alcune poche persone psichicamente anormali o astratte nei sonni ipnotici o medianici, o vittime di fissazioni. Intanto la responsabilità morale non potrebbe fondarsi su un ricordo vago — come tali persone stesse affermano di avere — ma sostanzialmente ben preciso. Poi, oltre a essere affermazioni incontrollabili, sono fuori di quelle condizioni normali e di quella universalità di casi che dovrebbe aversi se il fatto fosse vero. Tra tante anime che ha avuto l’umanità chi sa quante dovrebbero essersi reincarnate Non basta evidentemente che si presenti, per esempio, un Pitagora (v1 s. a. C.) a dichiararci di essere già vissuto 6 secoli prima, in veste di Euforbo, valoroso guerriero troiano; e tanto meno che Annie Besant (18471933), massima propagatrice moderna della Teosofia, ci dia l’elenco delle sue ultime incarnazioni, come Ipa!

317

zia in Egitto e Giordano Bruno in Italia, ovvero presenti il giovane indiano Krishnamurti — che, per verità, appena fattosi grande, la smentì — come una reincarnazione del Messia. Pure fantastiche affermazioni, senza la minima prova. Qualcuno potrebbe insistere che, anche senza la coscienza delle passate esistenze, sapendosi ogg: che domani ci reincarneremo in modo più o meno felice secondo

l’attuale nostra condotta, saremo indotti ugualmente a vivere bene e potremo accettare in anticipo, come premio, quello che domani ci sarà dato. Ma se è vero che si può lavorare e godere in anticipo d’un premio futuro, lo è però a condizione che siamo no: a goderlo. E per essere noi bisegna mantenere la personalità. Quell’io di domani, moralmente staccato dal mio io di oggi, è come un’altra persona. Sarebbe dunque come sacrificarsi oggi per un premio che dopo morte godrà un’altra incognita creatura: contro ogni principio di giustizia retributiva. Oppure come riparare oggi per le sconosciute colpe di un’altra sconosciuta creatura passata, il che è contro ogni principio di giustizia punitrice e riparatrice 1,

Da un punto di vista ancor più generale, in fondo a queste favole metempsichiche v’è, più o meno apertamente, la solita erronea concezione dell’anima incarcerata nel corpo, come in un suo completamente separato recipiente. Un’anima così concepita è facile pensare Il concetto cristiano di riparazione per gli altri è fondato nell’obiettivo legame del Corpo Mistico e non toglie il premio personale dell’atto meritorio compiuto a bene altrui. 1

318

che esca da un recipiente ed entri in un altro, ossia che lasci un vestito corporeo e ne prenda un altro. Ma se invece la si concepisce, secondo la unitaria e coerente visione che abbiamo sopra analizzato, come principio informatore e attualizzatore di tutta la propria realtà umana, cioè, oltre che dell’autonoma razionalità, anche di tutta la propria realtà fisica, vitale e sensoria, allora questo suo sfilarsi da un corpo ed entrare in un altro si presenta alquanto grossolano e grot-

tesco: anzi impossibile. Tra questa anima e questo corpo intercede un’intima e indissociabile relazione, un’intima solidarietà di sviluppo dal concepimento germinale in poi, una unità di vita che li rende partecipi del medesimo totale «10 » (su cui si fonda appunto la coerente dottrina cristiana della finale ricongiunzione dell’anima al rispettivo corpo risuscitato). È vero che il principio di questo «10 » è l’anima spirituale, ma tuttavia ne partecipa anche 1l corpo: e la sua sostituzione in un’altra esistenza terrena con un altro corpo creerebbe un’altra realtà priva di unitaria coerenza. Sicché, e per i fondamenti positivi completamente arbitrari e per l’incoerenza morale e fisica, si può davvero parlare delle favole della metempsicosi. E si sa quindi cosa pensare della Teosofia, che ne è la moderna e nostrana banditrice alle anime — talora anche colte — amanti delle avventure misteriosofiche. Di serio e d’imponente non restano che i nomi. Quelli sì. « Metempsicosi », che per la già vista etimologia greca — ueta - èv- buy) — significa «cambiamento di animazione, passaggio da un corpo a un altro », è innegabilmente parola di effetto. E « Teosofia» che da: $e6g: Dio, cogla: sapienza — significa nientemeno: « Scienza di Dio », non lo è meno. -—

319

LA

NASCITA DELL'ANIMA

L’inizio della

«

senza fine

»

Quest’anima umana, spirituale e quindi incapace di distruzione, è anche senza inizio ? E, altrimenti, donde viene ? Questo è il nuovo problema. Chi volesse dedurre senz'altro dall’assenza di fine l’assenza anche di inizio sarebbe come chi, mirando una robustissima costruzione, capace di sfidare 1 secoli, deducesse dalla sua stabilità futura che fosse sempre eststita e non avesse avuto bisogno del costruttore. Con ciò non voglio negare che tale deduzione abbia qualche aspetto suggestivo, trattandosi nel caso dell’anima della speciale indistruttibilità che compete allo spirito, privo come è di parti disgregabili e fornito di esistenza autonoma. Se per tali caratteristiche esso trascende ogni possibilità di morte nel tempo futuro, perché — sì potrebbe pensare — non potrebbe simmetricamente trascendere anche ogni possibilità di nascita nel tempo passato ? Perché cioè, se sarà sempre domani, non è stato sempre anche ieri ? Perché, se è al di sopra delle mutabilità essenziali, non supera sia la mutabilità di morire che quella di nascere ? E infatti Platone (x-Iv s. a. C.) suppose le anime preesistenti ; e così Origene (185-254) e tutti i platonici e origenisti e tutti i seguaci della metempsicosi. Aver320

roè (1126-1198) non solo ritenne eterno l'intelletto umàno, sia come fine che come inizio, ma ritenne perfino inconciliabile con l’immaterialità dello spirito il suo moltiplicarsi nei singoli uomini e sostenne la curiosa tesi della unicità dell’eterno intelletto umano per tutta la specie umana. Concezioni errate, ma che non vanno confuse con l’indipendenza dal Creatore, potendosi pensare ad anime preesistenti emanate o create da Dio.

Alla radice di queste dottrine si scorge subito la mancanza della visione unitaria umana suddetta e la divisione dell’uomo in due componenti eterogenei, separati l’uno dall’altro. Se prima infatti l’anima esisteva per conto proprio nel superiore piano della sua realtà spirituale, l’inclusione nel corpo non può concepirsi che come un suo artificioso imprigionamento. Prima era come uno spirito angelico, dopo viene a legarsi alla corruttibilità del corpo umano. Platone infatti concepì la cosa come una punizione. E Averroè concepì l’intelletto unico umano come l’ultima delle entità intellettuali — Angeli — sussistenti per conto proprio, al di sopra della materia corruttibile. Ammessa invece la concezione unitaria umana, sopra coerentemente affermata, e cioè l’essenziale riferimento dell’anima a quel corpo umano da essa animato,

questa preesistenza apparisce contraria alla natura stessa dell’anima e quindi inammissibile. Sia pure per lontana analogia, sarebbe come dire che un braccio o una mano sono preesistiti al corpo umano vivente con cui sono destinati a fare un tutt'uno. 321 21

*

Della non preesistenza dell’anima umana v’è anche

una prova sperimentale fondata sulla testimonianza della propria coscienza e precisamente sull’assenza di qualsiasi ricordo di quella presunta anteriore esistenza. Quest’anima pensante infatti è il principio che dà la coscienza sperimentale della propria personalità, ossia del proprio «io » e della propria continuità di esistenza: continuità che dipende appunto dalla incorruttibilità e indistruttibilità dello spirito stesso. Ora, se lo spirito è capace d’infondere tale coscienza di permanenza mentre è animatore del corpo corruttibile, tanto più avrebbe dovuto esserlo nella presunta sua antecedente esistenza. Se un capo, uno scienziato, un generale, animatori rispettivamente di un movimento sociale, culturale, militare, sono capaci d’infondervi la loro personalità, è evidente che prima debbono averla essi stessi. E si noti che il paragone, nell'ipotesi della preesistenza, è particolarmente aderente, riferendosi a uno spirito concepito indipendentemente dal corpo e destinato poi a presiederne le funzioni nel modo dualistico ed estrinseco sopra ricordato. Ora la personalità implica precisamente la coscienza di sé e quindi il ricordo della propria continuità. Implica cioè che, insieme con la continuità obiettiva, vi sia una qualche continuità soggettiva. Ma invece questa manca completamente per 1l nessun ricordo di quella presunta esistenza. Non si può quindi più parlare di personalità !, O almeno si tratterebbe di una personalità infatti quel curioso ipotetico intelletto unico tale una teoria più contrastante con la coscienza sperimentale di ognuno. 1

Per

per tutti

AVvERROoÈ

gli uomini è, in sé, impersonale. Sicché sia per unicità, sia per tale impersonalità, sarebbe difficile trovare

322

spezzata. Tuttavia dire spezzata è troppo poco, perché la esistenza passata, proprio nel suo aspetto emergente dell’« 10 » cosciente, sarebbe annullata e sarebbe quindi priva di giustificazione alcuna. Ed è inutile pensare a una sua funzione in quanto determinante dell’attuale esistenza, secondo la legge del « Karma », perché vedemmo che a tale legge manca il fondamento essenziale della coscienza del passato. Se si pensasse poi a una impossibilità di ricordo perché prima di essere congiunta al corpo non poteva pensare (contro quanto diremo, in seguito, dell’anima dopo la morte), ciò significherebbe una ancor più radicale mancanza di giustificazione cosmica della sua preesistenza. Non si può obiettare che anche 1l tempo precedente all’uso di ragione non sì ricorda, eppure l’anima esisteva. L’«io » in tale periodo c’era, per così dire, in radice. L’anima, come principio anche dello sviluppo vegetativo umano, doveva necessariamente permeare — «informare »— il corpo, ancor prima dell’uso di ragione, proprio per presiedere a quel suo sviluppo che lo avrebbe reso 1doneo a servire poi all’anima stessa di strumento del pensiero. L’unità del corpo in sviluppo, prima e dopo l’uso di ragione, è un riflesso di cotesta unità personale. Tanto è vero che, quando la coscienza si apre, ognuno parla del suo corpo anche riferendosi ai primi giorni di esistenza. Nessuno parla invece del suo «io » precedente a questa vita terrena, di cui manca qualsiasi attuale ricordo e obiettivo addentellato. Così non si può dire invece dell’anima dopo la morte e il distacco dal corpo. Di tale stato nessuno può dire in terra di aver fatto l’esperienza. Nessuno può quindi affermare che, dopo la morte, l’anima perda la coscienza del perseverante «io ». Vedremo anzi positivamente in 323

seguito perché e come in tale condizione - transitoria, supposta la risurrezione dei corpi — proseguirà la vita psichica e la coscienza del proprio «10 ».

Sicché, a voler evitare ipotesi complicate e puramente fantastiche e a restare invece alla più coerente e semplice concezione dell’unità umana e alla comune esperienza di coscienza, l’anima ha avuto inizio, e l’ha avuto in relazione al corpo che avrebbe animato.

L’embrione e l’uomo Se si esclude la preesistenza dell’anima umana, ciò

significa che essa comincia a esistere quando comincia a esistere il corpo umano che è nata ad animare. Questa affermazione è di facile comprensione. Ma appena cominciamo a precisarla, diventa difficile. Quando è che l’embrione — per dire con parola generica ciò che sì può anche distinguere in uovo, embrione e feto — può dirsi uomo ? Ciò equivale a chiedere: In qual momento l’anima avrà cominciato a esistere e sarà stata infusa in quel corpo vivente ? Esclusa la preesistenza, non v’è più ragione infatti di ammetterla

neanche minima. E la nascita e infusione dell’anima razionale dovrà corrispondere istantaneamente al prodursi della natura « uomo ». Se si pensa quante questioni morali e giuridiche siano connesse con questo costituirsi della realtà « uomo », quali responsabilità mediche per la gestazione, ecc. si capisce la gravità del quesito.

324

Per essere bene orientati in questo delicato problema, bisogna tenere presente la concezione unitaria del composto umano, per cui l’anima spirituale riassume in sé tutte le funzioni perfettive del corpo umano, in quanto così costituito, animato e sensibile, costituendone 1l totale principio informatore e animatore. La presenza dell’anima quindi non dovrà attendere le manifestazioni razionali del fanciullo e nemmeno lo sviluppo delle sue manifestazioni psichiche e sensorie inferiori, avendo già un compito da svolgere per il puro sviluppo vegetativo dello specifico corpo umano. Sarebbe quindi errato, per esempio, di porre la sua venuta nel corpo nel momento in cui risultano possibili almeno le prime manifestazioni psichiche, per l’avvenuta mrielimzzazione — ossia avvenuto rivestimento di mielina — delle fibre nervose, capace di permettere loro la conduzione nervosa indispensabile per la percezione del mondo sensibile. Questo processo differenziativo completo del sistema nervoso avviene infatti dopo la nascita del bambino e prosegue parecchi mesi dopo, e nessuno vorrà certo pensare che in tutto quel tempo non si abbia ancora una vera persona umana, con una vera anima umana. L’anima umana vi era di certo, perché già da tempo quello era vero corpo umano, che l’anima era chiamata ad animare. Ma dire «corpo umano », anche dal solo punto di vista vegetativo, non significa dire: « qualunque corpo vivente ». Una porzione di pelle asportata dalla mia persona — « espianto » — e fatta artificialmente soprav1!

Sostanza lipoide fosforata bianca brillante, che avvolge le fibre nervose. 1

325

vivere a parte, non la chiamo più « mio corpo »?. Essa vive ormai, come residuato della vita del mio corpo, in un piano di vita vegetativa inferiore. Analogamente vedemmo che, dopo la morte, possono restare nel cadavere dei residuati inferiori di vita. Come pertanto vi sono dei residuati della vita organica superiore umana, vi potrebbero essere anche all’inizio del concepimento delle forme vegetative primordiali, inferiori alla vitalità propriamente umana. Come dopo morte, allontanatasi ormai l’anima, la vitalità del corpo, prima di spengersi totalmente, può scendere per una serie di residuati vitali subumani, così prima della venuta dell’anima razionale e quindi della vita specificamente umana, l’uovo fecondato potrebbe salire per una serie di gradini di vita primordiale, preumani. Da qui 1l problema di sapere in quale momento 1l graduale evolversi dei caratteri specifici fisiologici e morfologici dell’em-

brione abbia raggiunto 1l gradino della specificità umana, così da presentarsi 1doneo a essere informato dall’anima.

E si noti che non si tratta di grado puramente di dignità, per così dire, ma di vera e propria idoneità o non idoneità a essere animato dall’anima umana. Infatti per l’esercizio della sua funzione animatrice immanente, occorre all’anima la proporzionata organizzazione corporea. Come abbiamo visto a suo tempo, il principio vitale non opera come artefice esterno che sposta e ordina 1] materiale della costruzione, ma come elemento ed elevatore della mapermeatore — «informatore » —

’ La richiamerei così solo dopo il trapianto in altra. parte del mio corpo (per es. per risanare un’ustione) dopo cioè la sua rinnovata inserzione nel mio dinamismo ed equilibrio vitale,

326

teria all’organizzazione

attività vitale suppone

e

attività vitale. Sicché ogni

gli organi per compierla: compresa l’attività ed evoluzione embrionale. Non potrà quindi aversi un processo evolutivo embrionale guidato dall’anima umana e quindi specificamente umano, se non dal momento in cui l’organizzazione del fecondato avrà un grado proporzionato a tale linea evolutiva stessa. Solo in tale momento l’anima umana potrà diventare animatrice dell’embrione.

Secondo la teoria genetica « preformista » sorta verso la fine del s. xvII, nel germe sarebbe contenuto, in miniatura, l’organismo adulto, con tutti 1 minimi particolari: questo sarebbe cioè microscopicamente #preformato. È divertente vedere il disegno di qualche autore preformista dello spermatozoo umano: vi si vede in testa un completo omino rannicchiato. Marcello Malpighi (1628-1694) credette di scorgere nell’uovo di pulcino un organismo microscopico. In tale ipotesi è chiaro che la specificità umana dell’embrione e la presenza dell’anima sarebbero senz’altro da concepirsi fin dal

primo istante. Ma l’ingenua ipotesi fu abbattuta dalle osservazioni di Federico Wolff (1774): e ormai è certo che nell’uovo non c’è vero e proprio organismo (pur avendosi la complessa eterogeneità vitale della struttura cellulare). Si pensò tuttavia che vi fosse una determinata anisotropia strutturale e si passò alla teoria delle prelocalizzazioni germinali di Guglielmo His (1874), ossia della preesistenza, fin dai primissimi stadi di sviluppo, di zone e 327

sostanze dell’uovo, predeterminate — a mosaico — per la formazione delle future singole parti dell’embrione. Ma le esperienze più recenti dello sviluppo di due o più embrioni dalle parti divise di un unico uovo, dimostrando, almeno per certe specie animali e nei primissimi stadi, la totipotenzialità del germe, hanno infirmato anche tali iniziali prelocalizzazioni. L’embriologia moderna si è quindi nuovamente orientata verso l’antica concezione di Aristotile e S. Tommaso, della successiva differenziazione organica — o epigenesi (cioè: « nato dopo ») — del nuovo individuo, a partire dall’indeterminatezza strutturale del germe, solo virtualmente precontenente l'individuo. Questa più antica e più moderna concezione, affermando la progressività del processo organizzativo, pone evidentemente in pieno 1l problema del momento dell’animazione con l’anima razionale e quindi della specificità umana dell’embrione.

Senza pretendere pertanto di risolvere il problema in modo assoluto, non mancano dati scientifici di si-

curo orientamento. Si rifletta infatti alla scoperta dei « cromosomi » dell’uovo fecondato e allo svolgimento dei vari stadi embrionali. I cromosomi racchiudono tutto il patrimonio ereditario dell’organismo che (dopo una serie quanto sì vuole lunga di trasformazioni) ne deriverà, ed esprimono fin dall'inizio (in eventuale tenace resistenza alle antagoniste modificazioni prodotte dall’ambiente) la tendenza, per così dire, irresistibile, a divenire quel determinato essere specifico e individuo, 328

Le progressive differenziazioni organizzatrici risultano mirabilmente legate tra loro e nettamente orientate, fin dall’inizio, verso il termine finale. Questo apparisce appunto come precontenuto virtualmente nel germe, ossia in virtu, ossia per le sue capacità attive. Perciò l’ipotesi più plausibile che si affaccia è che la specificità vi sia fin dal principio, e che fin dall'inizio l’embrione umano sia animato dall’anima razionale, trovando già nell’uovo fecondato e nei suoi cromosomi una strutturazione capace, in radice, di permettere l’inserzione attiva dell’anima 1,

Spirito umano

e

spirito divino

Comunque, subito o no, certo molto presto, insieme al concepimento del corpo nasce l’anima spirituale, lo spirito umano. È impossibile ora eludere una grave domanda: donde essa viene ? Non si tratta evidentemente di banale curiosità. Solo scoprendone l’origine, 1l mistero dell’anima sarà spiegato; la sua natura, la sua posizione cosmica, la sua responsabilità saranno comprese. Quando si pone tale domanda per 1l corpo umano, la risposta può essere duplice, secondo che si cerchi la causa immediata, o — risalendo tutta la catena dei « perDal punto di vista morale, sì deve prescindere dalla certezza o meno dell’ipotesi. Anche se questa immediata animazione umana del germe non vi fosse, essa si presenta come fatto possibile — anzi, nel caso, almeno seriamente probabile — e una azione contro l’embrione umano, in qualunque stadio del suo sviluppo, implica la responsabilità ipotetica di un vero omicidio. La morale cattolica è quindi perfettamente coerente quando, pur senza entrare in merito al valore obiettivo dell’ipotesi, condanna gravemente tali azioni, 1

029

ché

» —

si voglia arrivare alla causa ultima. La causa

immediata del corpo sono evidentemente i genitori. Ma per i genitori si può porre la stessa domanda e chiedersi quindi la causa dell’esistenza di tutto il genere umano. Ma quando si pone il quesito per l’anima, la catena dei «perché » risulta immediatamente bloccata e la luce della soluzione si presenta subito d’una intensità abbagliante. Prima non c’era. Da sé non può essere venuta, perché dal niente non viene niente. Spontaneamente si pensa ai genitori. E allora tre ipotesi si presentano: che essa nasca dal germe come il corpo !, che venga direttamente dall’anima dei genitori come parte staccatasene, che sia prodotta dall’anima dei genitori senza però alcuna divisione, come una fiamma accende un’altra fiamma ?. L’eliminatoria è facile. La prima ipotesi ripugna nettamente, data la natura spirituale dell’anima umana. Il germe corporeo non può evidentemente produrre ciò che è totalmente incorporeo. Potrà svilupparsi nel piano vegetativo sensorio, ancora legato alla materia, come 11 corpo materno da cui deriva, ma non, essenzialmente, superarlo. 1

Tale è l’ipotesi di TERTULLIANO (11-I111 S.), affermata nel nota col nome di « traducianismo ex

De anima, 19,27; ipotesi semine corporeo ».

Questo è 1l « traducianismo ex semine spirituali », che nemmeno S. Agostino osò escludere del tutto, preoccupato della spiegazione del fatto dommatico della trasmissione del peccato originale, come macchia ereditaria dell’anima (che si può invece spiegare come « peccato di natura » che si trasmette con la natura di cui è parte essenziale e mezzo generativo il corpo). Cfr. Epist. 190, n. 14.15: PL 33, 861, 862; 166 cap. 8, n. 26; 2

PL

330

33,

731-732.

La seconda ipotesi ripugna non meno nettamente,

data la caratteristica essenziale dell’anima di essere « semplice » ossia senza parti; e di essere principio co-

sciente di un «io » che non si divide. Non resta quindi che la terza. Ma qui l’analisi deve essere molto ponderata e ben lontana dall’accontentarsi della semplicistica metafora della fiamma che accende l’altra fiamma.

Se tale paragone può avere un valore è di inculcare

la proporzione che si richiede tra causa ed effetto (come per il determinarsi del fenomeno materiale della fiamma in un corpo che prima non bruciava). Ma chi ne deducesse che analogamente e proporzionatamente l’anima spirituale dei genitori potrebbe far sprigionare l’anima spirituale del germe, non si accorgerebbe dell’essenziale diversità dei due processi. Nel caso della fiamma materiale è una qualità nuova che si determina nel soggetto corporeo. Era legno spento: poi s’incendia e brucia. Il soggetto c’era e resta, nel nuovo stato fisico. Il risultato non è la fiamma, astrattamente considerata, ma la fiamma di quel legno, ossia

quel legno incendiato. Nel caso dello sprigionarsi dell’anima invece è tutto il soggetto, a sé stante, che verrebbe prodotto, essendo lo spirito autonomo, nell’esistere, dalla materia da esso animata. Sarebbe vera e propria creazione dal mente di quell’entità nuova: l’anima del figlio. E si noti la differenza con l’anima puramente sensitiva d’un animale irrazionale. Il paragone della fiam-

ma allora vale, perché nel concepimento dell’animale 331

bruto v’è appunto un soggetto preesistente, che viene arricchito d’una qualità nuova, per proporzionato influsso della causa agente. Si tratta infatti d’una elevazione di preesistente materia al piano della vitalità e sensorietà per opera d’un agente che già vi si trovava. Nel caso dello spirito invece non si tratta di sollevare la materia al suo livello, ma di produrre una entità che totalmente la superi. È il fatto nuovo della vera e propria creazione.

Parola grandiosa di cui tanto si abusa I giornali illustrati sono pieni delle ultime « creazioni » della moda: ma non si tratta — anche se con molta economia di materia prima — che di preesistente stoffa ritagliata e aggeggiata in qualche nuova maniera. Ci si inchina davanti alle «creazioni » dell’arte: ma l'ispirazione artistica non è un qualcosa che sussista per suo conto, bensì l’idea che sboccia nella preesistente mente dell’artista, o meglio, l’immagine nella sua fantasia e che sarà tradotta nella nuova forma del preesistente marmo, ecc. Sì parla della « creazione » di enti, movimenti sociali, politici, ecc., ma non sono invece che « organizzazioni » di cose organizzabili; di « creazioni » dell’industria e della scienza, ma quella materia e quelle energie già c'erano; di «creazione » di materia o di energia, ma caso mai non si tratta che di trasformazione reciproca. Qualunque attività fisica o umana opera sempre su soggetti preesistenti, determinandovi una trasformazione, ossia un cambiamento di essere ; non produce mai il primo essere delle cose. Solo quando venisse prodotto questo primo essere si avrebbe vera creazione. !

332

E tale è la produzione dell'anima umana, in quanto non è trasformazione di un soggetto preesistente, ma passaggio totale dal niente alla cosa immateriale e sussistente, che si chiama spirito.

Ora proprio dal confronto con le altre attività puramente trasformatrici cosmiche e umane s’intuisce che la produzione dal mente, ossia tale vera creazione, trascende tutte le possibilità degli enti finiti, ossia di tutta la realtà cosmica: e quindi pure tutte le possibilità — anche spirituali — dei genitori (o di un ipotetico Angelo). | La vecchia affermazione scientifica e del buon senso che « niente si crea e niente si distrugge » è la retta espressione di tale intuizione.

Il passaggio infatti dal niente a una cosa — a volere aggiungere un breve chiarimento metafisico di cotesta intuizione — è un salto di potenza assolutamente infimtia, e quindi nessuna energia cosmica può produrlo, perché tutte le forze ed energie cosmiche sono finite. Non è un salto di potenza infinito nel senso che la cosa prodotta sia entitativamente infinita, ma nel senso che è valicato l’abisso che intercorre tra il nulla e l’essere. È dicendo il puro fatto primordiale dell’esi« essere » s'intende stere, non il fatto di esistere in questo o quel modo. Ciò che produce 1l « modo » di esistere opera su un soggetto che già esisteva; chi invece produce il primordiale « essere » della cosa presuppone il nulla. Ora, mentre ciò che produce il « modo » basta che sia proporzionato a tale modo — come la fiamma, proporzionata al « modo » 333

del legno incendiato — ciò che produce il primo « essere » deve essere proporzionato all’essere, in quanto tale. Ma l’essere in quanto tale è riferibile ad ogni realtà. Chi è capace di produrlo deve essere quindi capace di elevare al piano dell’esistenza qualsiasi cosa. Cioè chi può creare una cosa le può creare tutte: il che significa che deve

avere una potenza infimia 1. Ma una potenza infinita suppone un essere di perfezione infinita: e questo si chiama Dio.

Il concetto è sottile e va meditato con molta attenzione essere pienamente compreso (cfr. Esiste Dio ?, o.c. p. 153 per ss.). La realtà delle cose si può concepire come su un piano — il piano dell’essere — che si libra sopra l’abisso del nulla. Ciò che manca a ogni operatore finito è la scala per superare l’abisso e arrivare a quel piano, a portare cioè le cose dal nulla al piano dell’esistenza. Chi dal nulla producesse anche una minima cosa — ossia la creasse — già avrebbe la scala per arrivare a quel piano dell’essere, e potrebbe quindi portarvi qualsiasi altra cosa. Più analiticamente. Sì pensi, per es., al costruttore di una automobile. Per sé, come ne ha fabbricato una, ne può fabbricare quante altre vuole. Da che dipenderà, in pratica, la limitazione del numero ? Dal materiale a disposizione e dall’energia necessaria per lavorarlo e vincerne la durezza. Ma ll’atto creativo in cuisi produce il primo essere della cosa materia v'è preesistente da trasformare e quindi non vi può non essere limitazione né per mancanza di materiale, né per resistenza meccanica da vincere che consumino energia. Che non vi sia consumo di energia si comprende anche riflettendo che l’azione creativa, non avendo materia su cui appoggiare, non può nascere da soggetto materiale, ma da uno spirito creatore, e lo spirito non consuma energia. Sicché chi può creare una cosa ne può creare senza limite. Deve quindi avere onnipotenza e infinità. Non si può nemmeno dire che vi possa essere una limitazione di qualità. Perché, cosa vuol dire un essere più perfetto ? E, nel piano dell’essere, come aggiungere essere a essere. Quel “di più » di perfezione è un di più di essere, un altro pezzetto di essere, per così esprimerci. Ma siccome la capacità del crea*

1

n:

334

L'analisi, dunque, mentre esclude la possibilità che l’anima umana nasca dai genitori, esclude anche che possa nascere dall’operazione d’un qualunque altro essere spirituale — ossia da un Angelo — perché anch’esso finito. Si arriva quindi necessariamente a Dio.

Non è qui il luogo di risolvere in termini completi problema di Dio. Ma il risultato ottenuto da queste poche battute è già grande. Di fronte al fatto della comparsa, a un tratto, dell’anima umana del figlio, insieme al corpo, s'impone il quesito della sua origine. Essendo spirito, non può sgorgare dalla materia. Essendo semplice, non può essere una parte dell’anima dei genitori. Essendo a sé stante e quindi creata dal nulla, non può essere effetto di alcuna potenza spirituale finita (anima dei genitori, Angeli). Deve essere quindi effetto — diritto e immediato — dello spirito infinito: Dio. Spirito umano che postula lo spirito divino 1. 1l

è proprio di raggiungere l’essere, come ha prodotto il primo pezzo, così potrà produrre il secondo. È in fondo una moltiplicazione — senza limiti — di essere, come nel caso precedente. Tanto è aggiungere essere ad essere, moltiplicando la medesima cosa, quanto aggiungere essere su essere moltiplicandone la p.rfezione. 1 Per i sostenitori della preesistenza dell’anima, s’imporrebbe lo stesso la necessità metafisica della sua creazione, per il fatto della sua limitatezza. Ogni cosa deve avere la propria ragione di essere o in sé o fuori di sé. Il rosso di quella pietra o è una proprietà della sua natura o le è stato dato dal di fuori. Così per l’esistere dell’anima: o deve aver la ragione nella sua

tore

335

de

V’è chi non s’è convinto dell’analisi un po’ sottile dell’infinità dell’atto creativo ? Ne prescinda pure. Ci

sarà facile, per altra via, di giungere ugualmente a provare almeno il necessario intervento di un artefice sommo, intervento più volte affiorato nel corso di queste pagine. Esso risulta infatti nettamente postulato dalla sola considerazione della funzionalità meravigliosa dell’anima, sia in quanto razionale che in quanto riassuntiva delle funzioni vegetative, sensitive e fisiche. Quello che può chiamarsi il prodigio della sua funzione vegetativa, come abbiamo già visto è, in sostanza, triplice. Il primo è la capacità di regolare il complicatissimo dinamismo dell’organismo vivente. Ma ciò sarebbe relativamente molto più semplice se si fosse trattato di un principio superiore capace di aggiungere le sue energie all’equilibrio fisico della materia stessa, agendo come il carburante di una macchina, sia pure più meravigliosa di ogni altra. Il secondo prodigio è invece che 1l principio vegetativo, pur separando tanto essenza o deve averla al di fuori (nel Creatore). Nella prima ipotesi essa esisterebbe per necessità di natura; inoltre essendole l’« esistere » essenziale, essa dovrebbe attuarlo in tutta la estensione del termine (perché ciò che è essenziale si attua tutto, come, per es. la proprietà del triangolo di avere la somma degli angoli uguale a un angolo piatto, essendogli essenziale, non può essere attuata per metà), cioè secondo tutto il piano dell’essere e dovrebbe avere quindi un’attualità di perfezione e di operazione (intellezione, volizione) infinita contro l’evidente esperienza. Dunque tale prima ipotesi è impossibile e non resta che la seconda: la ragione del suo esistere deve trovarsi al di fuori di lei: essa cioè deve essere un effetto di creazione. Ma è un delicato argomento metafisico che non può certo venire esaurito in una nota. Altrove l’ho più accuratamente trattato (Cfr. Esiste Dio ? o.c.). :

336

la materia da elevarla al meraviglioso ordine dell’organizzazione del corpo vivente, la permea, la «informa » — fino al più intimo contenuto fisico — in modo che le funzioni vitali non sono compiute da esso, a solo, ma dagli organi della materia così «informata»: e ciò nonostante che tale materia resti, nei suoi scambi energetici, puramente materia. Non si tratta dunque di vita inclusa e incarcerata nella non vita, ma di un principio che dà la vita alla non vita. Il terzo prodigio è che questo principio organizzatore compie la sua attività senza alcuna consapevolezza, come risulta dalla chiara esperienza di ognuno. Organizzazione e attività immanente intelligentissima e principio animatore cieco Vuol dire che quella consapevolezza che il principio non ha, deve trovarsi in un ideatore e artefice esterno. Esclusi i genitori che esperimentano anch’essi la medesima inconsapevolezza rispetto al meraviglioso ordine fisiologico dei figli, non c’è che da risalire a una sapientissima intelligenza ordinatrice. Mentre cioè l’immanenza e l’autonomia sperimentale del dinamismo vitale reclamano che il principio animatore sia in lu, la cecità sperimentale di esso reclama che l’intelligenza ordinatrice sia fuori di lui. E questa intelligenza deve essere stata così immensa da aver prodotto tutti e tre i prodigi suddetti, e cioè non solo da ideare il meraviglioso piano organizzativo del corpo vivente, ma anche da imprimerlo in tale cieco principio vitale permeatore della materia. Il medesimo e anzi tanto più alto appello alla prodigiosa mente ordinatrice esterna balza poi similmente dalla funzione sensitiva dell’anima. E anche qui v’è la moltiplicata abilità non solo per la organizzazione e attività sensoria — tanto superiore alle pure leggi fisico chimiche della materia e alla stessa semplice vita vegetativa — ma per averne incorporata, per così dire, l’idea !

337 22

nel principio immanente

e sensorio, il quale non sente

per conto suo, indipendentemente dalla materia, ma rende la materia senziente, mediante gli organi da esso informati (tanto è vero che la sensazione resta legata alla materia, sia per l’oggetto, sia per la localizzazione negli organi, come risulta dalla personale esperienza). Quanto alla funzione razionale, essa, come rivelatrice della spiritualità dell’anima, costituisce il fonda-

mento della sopra dimostrata necessità della sua creazione dal nulla. Ma a prescindere anche qui da tale dimostrazione, essa costituisce un ultimo e ancor più suggestivo appello al necessario intervento di un esterno sapientissimo artefice. E ciò in base al suo mirabile 1ngranarsi con la materia, sia per riassumere le funzioni inferiori suddette, sia per servirsene per la stessa attività essenzialmente immateriale dell’intellezione. Anche nell’ipotesi quindi che le anime fossero preesistite, basterebbe il fatto sperimentale di questo ingranamento di due cose tanto disparate per rivelare la necessità di un intervento esterno di sconfinata sapienza e potenza nella nascita d’ogni nuova creatura umana.

In base a queste sole nuove riflessioni (prescindendo cioè dalla precedente considerazione del necessario atto creativo) vi sono motivi per identificare tale sublime intelligenza ordinatrice con l’infinito Iddio ? Il prodigio delle suddette funzionalità effettivamente lo postula. Esse infatti dimostrano un tale dominio di cotesto artefice esterno sulla materia e sullo spirito, che solo nell’onnipotenza di un creatore divino sono concepibili.

338

Quel far permeare la materia dall’anima vivente fino alla più intima sua realtà fisica, vitale e sensoria, rendendola reciprocamente capace di servire all’anima stessa come strumento della autonoma e meravigliosa

attività intellettuale, implica effettivamente quel profondo dominio sulla materia e sull’anima, che solo in chi le abbia idoneamente plasmate fino al più intimo loro essere, nel loro totale creatore può spiegarsi 1. +

Davanti alla culla

Ed ora sostiamo un momento davanti a un neonato,

a un nuovo «io » umano, sbocciato in terra. Pochi mesi prima è avvenuto il concepimento. Un concorso umano ha dato il via al meraviglioso svolgersi d’un nuovo organismo. Il ritmo fisiologico e sensorio della vita dei genitori s’è riversato in un’altra unità vivente. Se tutto si riducesse lì, non ci sarebbe altro da domandare, immediatamente parlando. Il principio vitale e sensorio dei genitori è proporzionato all’effetto del nuovo ritmo vitale e sensorio dei figli. Ma c’è il pensiero. E quindi lo spirito. Questo i genitori non glielo possono aver dato. Nella concezione filosofica aristotelica tomistica per cui l’anima umana è « forma sostanziale » del corpo (come notammo), si ha indubbiamente la più soddisfacente spiegazione di come possa l’anima spirituale essere dominatrice della stessa realtà fisica del corpo e vitalmente regolatrice dei suoi scambi energetici, e si ha la più alta e completa visione dell’unità del composto umano. E ne risulta sottolineata in modo decisivo la dipendenza di questo — materia e spirito — dal sapientissimo artefice, come dal totale loro creatore: il quale non può essere quindi che Dio. 1

339

Niente dimostrano in contrario le rassomiglianze che s’incontrano sovente tra le qualità intellettuali e spirituali dei genitori e dei figli. Basta non dimenticare che per l’esercizio delle capacità intellettuali l’anima deve servirsi come strumento del corpo e che il corpo è sede delle passioni sensibili, che premono nella psicologia e nella volontà. Le strutture somatiche trasmesse dai genitori ai figli possono quindi avere il loro spirituale influsso, pur non essendo essi in alcun modo gli autori della loro anima. La conseguenza è d’impressionante gravità. Senza un contemporaneo superiore intervento l’azione dei genitori non avrebbe prodotto un altro uomo. Dei viventi sì, degli uomini no. Occorre che all’azione dei genitori sul piano sensorio se ne associ un’altra più alta sul piano spirituale. Bisogna che nel prodotto del concepimento sia infusa l’anima spirituale. Creata dunque, in quel momento da Dio ? Prescindendo dall’istante preciso, di cui sopra abbiamo parlato, non v’è altra possibilità. L’abbiamo visto. Non v’è che la creazione dal nulla: che può compiere solo l’infinito Dio. E solo la sua onnipotenza può essere stata inoltre capace d’infonderla così nell’embrione da produrre la mirabile unità: l’uomo.

Su ogni culla aleggia il mistero di questa ineffabile azione umana e divina. Quando al bambino curioso si spiega che quei nuovi vagiti che echeggiano nella casa sono d’un fratellino che è calato dal cielo, sì pensa di dire una favola e si afferma invece una profonda verità. Sarebbe in qualche modo una verità anche per riguardo a quel solo nuovo corpi340

cino palpitante, che è frutto del potere vitale donato dall’artefice cosmico alla creatura. I genitori c’entrano tanto poco nel compiere quel capolavoro che non sanno minimamente come l’abbiamo compiuto. Ma per riguardo all’anima è verità ben più immediata e assoluta. L’anima ne riceve un inconfondibile sigillo divino. E il mistero del matrimonio e i diritti della fecondità si ammantano di luci e responsabilità divine. La presuntuosa sicurezza di chi tutto spiega perché tutto crede di vedere, è l’ingenuo livellamento d’un mistero spirituale e divino al piano puramente animale. È chiudere l’orizzonte immenso dello spirito nel pugno della mano. Ma neanche la vita puramente animale entra in quella mano.

341

RESPONSABILITA

COSMICA

L’assurdo del nulla Quell’uscire dalle mani dell’artefice divino ed essere destinata ad animare un corpo, inserisce l’anima umana nella realtà materiale cosmica e nel grande problema del suo fine. La generica considerazione cosmica che abbiamo fatto in principio del libro va rivista ora alla luce del divino Creatore. Il mistero dell’anima sarà visto nei suoi aspetti pratici: che sono altissimi e drammatici. Non si può uscire dalle mani sapientissime dell’artefice sommo senza sentir vibrare il grande quesito del « perché », ossia dello scopo di quel divino atto. È della sapienza operare per un fine: per un proporzionato fine. È della stoltezza agire senza un perché. E quando si tratta del supremo artefice dell’universo e della sua infinitamente sapiente operazione, questa, con infallibile certezza, deve avere l’adeguata ragione. *

Questa ragione non può essere il nulla. Operare per nulla equivale a operare senza un fine. Ma ciò che prima o poi si annulla, è nulla. Già lo meditammo. Ciò che totalmente finisce è inutile che sia

1l

342

cominciato. E dicendo «totalmente » va inteso con la esclusione di qualsiasi influsso reale in qualcosa che

resti. Ciò acquista un risalto tutto speciale di fronte all’eterno e sempre presente Iddio. È impossibile che Egli compia opere destinate a finire. Fu una considerazione di questo tipo, benché inquadrata solo genericamente nell’ordine cosmico, che, a suo tempo, ci aprì la prospettiva dell’« al di 1à ».

Ora qualunque operazione ed effetto cosmico materiale ha questo carattere. Essendo legata alla fugacissima concretezza dell’istante presente, finisce e si annulla. È vero che, in base alla colleganza fisica dei fenomeni materiali, ogni istante che muore è legato al nuovo istante che segue. Ma col continuo esaurirsi del concreto presente si avrebbe, di fatto, una catena di annullamenti e quindi, in definitiva, di nullita. Come tante bolle di sapone che continuamente esplodono e si annullano, sempre seguite da altre. Gioco indegno di Dio. Non possono essere 1l fine della divina creazione. Non può Iddio eterno essere l’artefice d’una catena di nullità. Si potrebbe pensare, come giustificazione stabile, alla materia cosmica che resta, supposta effetto anche essa dell’atto creativo di Dio 1. Ma essa è solo elemento passivo rispetto alle ordinate attività cosmiche e non può essere l’oggetto giustificativo dell’attività dell’artefice sommo nell’atto creativo e ordinatore. 1

Cfr. Esiste Dio

?,

o.c., cap. X: Il mistero della materia. 343

Proprio la materia anzi, legando i fenomeni alla concretezza dell’istante presente, è, in radice, il motivo del loro sistematico annullamento. Resteranno, è vero, gli effetti materiali di quei fenomeni, viventi o no; ma essendo strutture materiali, sono destinati inesorabilmente, prima o poi, alla disgregazione. Ciò è evidente per i viventi, ma lo è anche per qualsiasi costruzione materiale. La realtà puramente corporea potrà restare, come disgregato materiale da costruzione, ma la costruzione crollerà: e come tale quindi si annullerà.

Nell’ipotesi della sola esistenza della materia, la divina opera mancherebbe dunque di adeguata giustificazione. Ma è l’anima umana, in quanto spirituale e capace di proiettarsi nell’eternità, che la fornisce. Il cosmo materiale, come opera divina, apparisce quindi come condizionato all’anima, all’uomo, e per ciò stesso come gravitante intorno a lui, come a servizio di lui. Per l’uomo, che ha 1 piedi sulla terra e l’anima che si proietta nell’etermita, il cosmo ha un effetto che non si annulla, che resta: e ha quindi uno scopo.

Il ritorno al Creatore Ma vi è un motivo ancora più diretto ed essenziale che svela tale condizionamento del cosmo materiale

all'uomo. Va posta questa domanda: È concepibile una creazione che resti poi completamente estranea al Creatore, che cioè, uscita dalle mani dell’Onnipotente, se ne resti 344

fuori da lui per sempre ? che non torni, in qualche modo a lui ? che non risponda alla sua parola creativa ? In linea di massima sembra senz’altro di dover rispondere di no. Perché sarebbe una creazione che sfugge alle mani del supremo artefice, che avrebbe uno scopo fuori del divino artefice: il che ripugna alla infinita supremazia di lui. Bisogna tener presente che lo scopo di un’opera è un qualcosa da cui l’operatore dipende, a cui l’operatore si condiziona. Se il fine della creazione fosse dunque fuori del Creatore, questi verrebbe a condizionarsi a qualcosa fuori di lui, il che metafisicamente ripugna al suo infinito primato. Il fine deve dunque identificarsi con Dio. Le cose sono fatte cioè per tornare a lui. Dio sorgente della realtà cosmica, deve costituire anche il polo di attrazione e di ritorno di tale realtà, sgorgata da lui. Ora in che modo 1l creato può tornare a lui ? Due sono le maniere con cui un’opera può rispondere e tornare all’artefice: glorificandolo ed essendogli utile. Ma per l’artefice divino non si può parlare di minima utilità, essendo assolutamente infinito e quindi non bisognoso di nulla. Non resta quindi che la rivelazione gloriosa della sua grandezza e della sua bontà: della sua grandezza con lo splendore dell’opera, della sua bontà col suo carattere benefico: così da attirare l’altrui ammirazione amorosa e il congiunto e coerente ossequio operoso. È il fine cosmico del creato. Senza alcun vantaggio per Iddio (che non può averne) e quindi ad esclusivo vantaggio della creatura. Ora nell’ipotesi d’una creazione risolta nel puro cosmo materiale, cotesta conoscenza glorificatrice mancherebbe del tutto. Davanti a Dio creatore vi sarebbe un cosmo completamente inconsapevole del prodigio compiutosi col suo sgorgare dal nulla; un cosmo inconsa345

pevole della divina sorgente e quindi della stessa propria realtà. Il cosmo sarebbe una realtà cieca. Sublimemente nobile per la eccelsa grandezza della sorgente da cui promana, esso l’ignorerebbe e si ignorerebbe completamente. Alla benefica operosità della intelligenza

creatrice il mondo non darebbe alcuna risposta. La luce divina moltiplicando gli esseri cosmici avrebbe moltiplicato le tenebre: moltiplicando le note dell’essere non raccoglierebbe che l’eco del totale silenzio. *

È vero che le cose sarebbero pur sempre l’obiettivo riflesso della sua infinita grandezza e della sua beneficenza: vi sarebbe cioè in un certo senso la risposta data dal linguaggio muto, ma concreto, della realtà. Tutto ciò nasconderebbe però, dietro elegante metafora, 1l nulla. A che pro tale cosiddetta « risposta obiettiva » ? A chi sarebbe fatta ? Chi dovrebbe raccoglierla ? Non Dio, ben più altamente consapevole della propria grandezza, nella infinita conoscenza di sé. A meno che, con gretto antropomorfismo, si pensi al Creatore come all’artista che, fatta l’opera, si ferma poi con compiacenza a contemplarla: cosa assurda nel Creatore infinitamente beato in sé stesso. Non le cose cieche e ignare. Sarebbe un meraviglioso spettacolo per nessuno. Inutile completamente. Potrebbe chiudersi per fallimento il grande teatro del mondo. In particolare poi nessuna manifestazione di vera bontà benefica. Una creatura radicalmente inconsapevole non si può dire propriamente beneficata. Posso dire beneficato il sasso perché ha quella sua robustezza ? O, per lo meno, sarebbe una beneficenza senza scopo. 346

Torna quindi la necessità d’un abitatore intelligente del cosmo che sia capace di leggere nel creato la grandezza e la beneficenza di Dio: l’uomo, fornito di anima intelligente. La sua presenza risolve anche in modo più completo 1l problema della utilità del cosmo (visto che non può parlarsi di utilità di Dio). Ripugna alla sapienza dell’artefice che compia un’opera senza utilità di alcuno. Il mondo come »iwelatore di Dio è già supremamente utile e, mediante l’uomo, torna in tal modo a Dio. Ma un complesso di cose direttamente utilizzabili dovrebbero, oltre dare spettacolo di sé, avere un’utilità d’impiego diretta che rientri in qualche modo nella suddetta finalità ultima divina. È l’impiego fattone dall’uomo, per le necessità della sua vita.

Suprema sintesi della realtà Si giunge così a un’affermazione che fa tremare,

alla più grande sintesi cosmica umano divina, alla più vasta visione della realtà nel suo finalistico significato: e alla più alta glorificazione dello stesso uomo. Ma, prima, un rilievo. È davvero sorprendente che ricercatori cosmici pretendano di fare la sintesi della realtà, prescindendo dal fenomeno cosmico più impressionante e più certo quale è il pensiero e l’anima pensante e dalla fonte suprema della realtà che è Dio. Non si spiega che con la psicosi antispiritualista su cui riflettemmo in principio. Siccome toccano direttamente o indirettamente il solo mondo materiale, riducono 1] reale a quello. E credono di fare chi sa quale allargamento d’orizzonte se arrivano a sintesi del tipo della relatività generalizzata di Einstein, tentando magari d’includervi il misterioso e generalissimo fenomeno della gravita1

347

zione, mentre del cosmo lasciano la parte principale. Probabilmente se un bue sapesse ragionare farebbe la sintesi dell’universo sulla base della sola erba con cui sta a contatto. Ed è una psicosi veramente invincibile per cui nemmeno sentono la coerenza scientifica anche solo di dubitare dell’esistenza dello spirito umano e di Dio e quindi di non poterne puramente prescindere in una sintesi del reale. All’opposto, l’introduzione di tali elementi della realtà viene respinta sistematicamente came deformatrice della grande visione scientifica. Ma almeno non parlino di creazione. Niente affatto. L’affermano. Si pongono così esplicitamente di fronte al Creatore e lo negano. Se prospettano la possibilità di materializzazione di radiazioni, come James Jeanst, allora, va bene, non si tratta di creazione dal niente, cioè di vera creazione. Ma P. Jordan ?, per esempio, non esita a supporre la formazione di nuove stelle, per pacchetti di neutroni che spontaneamente entrano nel cosmo. Nessuno però è stato forse più clamoroso di Federico Hoyle, matematico dell’Università di Cambridge. Bastino alcune delle sue amene affermazioni, trasmesse con strabiliante successo recentemente dalla radio inglese e raccolte in volume. Dopo aver parlato della sempre nuova materia creata, che deve rimpiazzare quella che si dilegua progressivamente per la supposta espansione cosmica, così prosegue: « di tanto in tanto la gen-

te domanda donde venga la materia creata. Ebbene, essa non viene da nessuna parte. La materia semplicemente appare... A un momento gli atomi che compongono la materia non esistono e poi esistono. Questo può 1

°

348

L'universo misterioso, Treves, III ed., 1934, p. 198. Die Herkunft der Sterne, Stuttgart, 1947.

sembrare un’idea bizzarra, e concedo che sia tale... »1. E così spiega 1l suo pensiero altrove: « L’idea della creazione continua è tanto più seducente, quando si considera (in confronto a) l’unico atto creativo nel lontano passato: poiché contrasta con lo spirito della ricerca scientifica attribuire effetti osservabili a cause che la scienza non conosce; e questo è proprio ciò che la creazione nel passato in sé comporta »?. Lasciamo andare l'incredibile ingenuità e contraddizione di respingere scientificamente la creazione iniziale e ammettere la continua: mentre — come osserva Herbert Dingle, presidente della Royal Astronomical Society « questa ci esime dal postulare un solo miracolo iniziale, ma a condizione che ne ammettiamo una serie continua » 3. Quello che colpisce è l’ostinato pregiudizio di escludere Dio dalla sintesi cosmica. Con l’effetto di sognare un universo sul cui frontone non c’è che da scrivere la frase attribuita a Descartes: « Mundus est fabula ». —

!

Tornando a noi e inserendo imparzialmente nella sintesi i fattori principali della realtà che sono l’anima e il Creatore, il cosmo si presenta strettamente legato alla realtà umana. Una creazione cosmica senza l’uomo risulta in contrasto con la sapienza finalista del creatore e quindi assurda. Nell’unitario piano creativo — in cui può benissimo entrare qualunque sterminata serie di periodi evoThe Nature of the Universe, Oxford, 1950, p. 105. Model for the Expanding Universe, in Monthly Notices of the Royal Astr. Soc., London 1948, v. 108, n. 5. s Discorso tenuto a Birmingham il 22 nov. 1949, pubblicato dalla British Ass. for the advanc. of Science nel 1950. 1

2

A New

349

lutivi — il cosmo materiale non può concepirsi dunque se non preparato a servizio dell’uomo, perché dalla sua visione e dal suo impiego egli possa e sappia innalzare mente, cuore e opere al supremo Datore: e riportare così il creato a Dio, realizzando il fine della creazione stessa (a esclusivo vantaggio dell’uomo come vedremo). L’anima umana è cioè investita della tremenda e sublime responsabilità cosmica di giustificare l’universo intero materiale e di attuare la finalità ultima delle cose. In lei eterna, l’evoluzione cosmica supera il tempo che muore e s’eterna. In lei pensante, il cosmo diviene consapevole riflesso del creatore e gloriosa sua rivelazione. In lei amante, diviene dono che impegna alla riconoscenza e all’amore: e prelude — come vedremo — all’eterno dono. In lei operante, diviene strumento per l’adempimento del divino volere.

È un ritorno logicamente obbligato alla visione antropocentrica dell’universo. L’uomo vi compare veramente come re e come fine prossimo di tutte le cose. Il fine ultimo dell’uomo e delle cose, traverso l’uomo: Dio. Inaspettata ricapitolazione di un pensiero medioevale, quando la terra si pensava ferma, al centro dell'universo, con i cieli incorruttibili che giravano maestosamente — servizievoli — intorno a lei e al suo abitatore. Era la scienza del tempo. Visione cosmica ristretta: ma giustamente gravitante intorno all’uomo. Essendo la dimora più piccola, l’uomo sembrava più grande: ma in realtà non lo era perché, rispetto a oggi, ne era più piccolo il regno. Oggi che la terra si è rivelata un minuscolo corpuscolo nella sconfinata distesa dei corpi celesti, trascinata nel vortice degli sterminati movimenti 350

stellari, e che l’uomo davvero fisicamente scompare, insieme con la terra stessa, davanti alle distanze stellari di centinaia e centinaia di milioni di anni luce, la sua dimora è immensamente più grande e il suo regno più vasto. E la sintesi cosmica, che si accentra in lui, è più imponente. Ecco oggi la terra, corpuscolo cosmico da dove si aprono in tutti sensi profondi e sconfinati orizzonti stellari: è un altro e ben più grandioso modo di tornare anche spazialmente al centro dell’universo. Eccola impastata di strutture materiali più complesse e ricche che altrove (come rivela l’astrofisica), capaci più dell’altra materia celeste di ascendere alla vita e divenire il corpo umano: altra centralizzazione qualitativa rispetto al resto del cosmo; valori ben più preziosi delle grandezze dimensive, come un diamante è più prezioso di una montagna. Eccola, nella sua piccolezza, osservatorio di tutto l’universo, mediante i telescopi che frugano i cieli e la luce del pensiero umano che supera istantaneamente lo spazio e il tempo, e quanto più li trova grandi tanto più dimostra la propria superiorità e potenza e scopre più imponenti riflessi del Creatore: centralizzazione spirituale. Geocentrismo e antropocentrismo ben più vero e più imponente di quello medioevale. 1

Nessuna ipotetica evoluzione cosmica attenua questa umana divina visione cosmica, anzi l’accresce. Parta essa dall’enorme atomo iniziale di moderne teorie o dalla nebulosa iniziale, sia quanto si vuole lunga la serie delle trasformazioni. Come si è già provato ed è facilmente intuibile, s'impone ugualmente, ed anzi 351

di più, in tutta quella serie di trasformazioni l'intervento finalistico del Creatore e resta ugualmente 1l fatto sperimentale e culminante del pensiero: sicché resta il condizionamento del creato all’uomo: e in un quadro, sotto certi riguardi, di più imponente grandezza. Gli sconfinati ma finiti ! tempi e movimenti passati non si presentano che come grandiosa preparazione al definitivo sbocciare della vita umana e all’accendersi del pensiero, per perennarsi in lui. In Esiste Dio ? ho dimostrato l’impossibilità d'un movimento e di un tempo passato infinito (p. 88 ss.). La questione è stata sviluppata in una pubblica disputa nel Divus Thomas di Piacenza nel 1949-50 e conclusa nel primo n. del 1951. Ma anche nell'ipotesi contraria la finalizzazione di cui qui si parla, resterebbe: si dovrebbe allora parlare di una « preparazione » e catena passata di « trasformazioni, di durata infinita ». 1

RISVEGLIO

IL GRANDE

La conquista eterna Qualunque sia l’interpretazione che si voglia dare della sostanza e della genesi dell’ordine morale, qualunque siano le valutazioni concrete del bene e del male, la voce della coscienza e l’idea di virtù e di vizio sono fatti d’esperienza. E la discordanza tra ciò che si ritiene virtù e ciò che ne dovrebbe costituire il premio è, sulla terra, un altro fatto d’esperienza. Il che costituisce una così grave disarmonia nell’ordine cosmico da suggerire un «al di là» di riparazione (cfr. p. 154). Ma dopo la scoperta dell’anima immortale e la richiamata certezza dell’esistenza del Creatore, 1l fatto acquista una ben più precisa delineazione. Del resto, anche indipendentemente da quella postulata riparazione, vedevamo or ora l’inammissibilità, di fronte al Creatore, di un tempo terreno che non sia in funzione dell’eternità. È l’anima umana che, servendosi del cosmo, è destinata a raggiungerla. *

Guardiamo poi in sé la natura umana. Quell’ingranamento d’uno spirito immortale con un corpo mortale è un fatto alquanto sorprendente: e quasi saremmo tentati di dirlo inspiegabile. Dal punto di vista perituro 353 23

terreno sembra inammissibile la presenza d’uno spirito eterno. Dal punto di vista eterno sembra inspiegabile la sua unione col corpo mortale. C’è un certo innegabile ibridismo: non propriamente nell’unione dell’elemento superiore anima con l’elemento inferiore corpo; ma nell’unione del’incorruttibile anima col corruttibile corpo. È ovvio dedurre, innanzi tutto, che si tratta di uno stato provvisorio. Ciò che il fatto della morte conferma. Ma quel’è lo scopo

?

Ed ecco che tutti gli aspetti

antinomici si risolvono con il concetto di prova. Poi, lasciate le spoglie mortali, l’anima s’immergerà nell’eterno: Non v’accorgete voi, che noi siam vermi nati a formar l’angelica farfalla, che vola alla giustizia senza schermi ?

(Purgatorio X, 124-26) D’eternità è capace perché spirituale, di premio è capace perché libera. Niente di più conveniente che lo stato definitivo della creatura libera sia il frutto meritorio del suo atto libero. È la libertà che manifestandosi, ossia esercitandosi, conquista il suo seggio. È la libertà che si esercita nel combattimento, nella prova terrena. L’eternità cioè andrà voluta, meritata, conquistata.

Qui però, se non si precisano i termini, si minaccia di cadere nel più imperdonabile errore. Nel credere cioè che l’alternativa sia tra il perennarsi e l’annullarsi. Evi354

dentemente l’anima invece, in quanto spirito, è esserizialmente — e indipendentemente da merito o demerito — eterna: e non può quindi non perennarsi. Non si può parlare dunque, propriamente, di libera scelta della sopravvivenza. Questa ci sarà necessariamente per la natura dello spirito. E tale necessità rende pietosa e svuota di ogni consistenza la facile tentata evasione davanti alla maestà della morte, d’un Clemenceau, d’un Montaigne, ecc., che vedemmo a suo tempo. È la precisazione di questo fatto che schiude la visione più drammatica dell’umano periodo terreno. La prova cioè non può riguardare 1l sopravvivere, ma il modo di sopravvivere. Se vogliamo chiamare, sia pure con parola un po’ impropria, qualunque modo di sopravvivere come « eternità », si dovrà dire che la libertà è chiamata a conquistare e meritare quel « modo » di eternità che vuole. E la decisione evidentemente non potrà dipendere che da un giudizio del supremo Creatore e Signore — Signore perché Creatore — che cansisterà, in fondo, nel constatare imparzialmente dove sarà arrivata l’anima nel libero cammino della vita terrena. Sarà arrivata alla vita felice o infelice ? E quanto felice o infelice ? Sarà il famoso pareggiamento dei conti lasciati aperti nella vita terrena. Non era del tutto errato tuttavia parlare di « conquista dell’eternità ». Nel concetto di questa infatti, in antitesi con l’annullamento e la perdita di tutto nella morte, è inclusa l’idea di arricchimento vitale e di bene, quale solo può aversi in un sopravvivere felice. Un sopravvivere di condanna è visto intuitivamente come espressione tanto poco feconda di vita, da ritenersi non 355

solo una morte, ma peggio assai della morte: non una conquista, ma una suprema sconfitta. Sarà più preciso parlare di combattimento morale per la felice o infelice sopravvivenza.

L’alternativa suprema Che il momento decisivo sia 1l punto di morte appare

chiaro, anche a prescindere completamente dallo spiritualismo cattolico, che categoricamente lo afferma. È proprio quello il momento, infatti, in cui si scioglie il connubio tra il mortale e l’immortale, tra 1l corruttibile e l’incorruttibile dell’uomo: quel connubio di cui abbiamo visto la giustificazione proprio nella « prova ». Sicché, cessato quel connubio, deve essere cessata la prova e raggiunta la meta. Anche le favole della metempsicosi, di cui sappiamo cosa pensare, sentono 1l bisogno, volendo prolungare la prova, di postulare le loro celebri e assurde reincarnazioni, cioè il permanere dell’anima a contatto del corpo corruttibile. Considerato anche in sé stesso, del resto, il concetto « di prova » suppone un «termine ». Anche ad allungarla quanto si vuole, se prova è, deve terminare. E il risultato — si noti bene — deve essere, a priori, buono o cattivo, trattandosi di libera creatura, capace cioè di bene e di male, di virtù e di vizio. La difficoltà quindi che si può presentare, a prima

vista, per la sproporzione tra una prova temporanea e la sanzione eterna, è completamente fittizia, dato il carattere inevitabilmente temporaneo di qualsiasi prova. Tanto più anzi è infondata l’obiezione quando in gioco è l’eternità. Di fronte a questa infatti, qualunque ipotetico allungamento di prova (destinato però necessa356

riamente ad avere termine) non può modificare la quantitativa sproporzione. Sarebbe ingenuo cioè dire: dovendosi decidere per l’eternità, è troppo breve il periodo della vita umana terrena. Moltiplicando il periodo per cento e per mille, avremmo sempre alla fine una durata trascurabile rispetto all’eternità infinita, e l’allungamento sarebbe quindi inutile. In altri termini, se la sproporzione di durata tra il periodo di prova e l’eternità costituisse una consistente obiezione, tale obiezione resterebbe qualunque fosse l’allungamento del periodo stesso. In realtà la difficoltà poggia sulla sopravalutazione dell’elemento quantitativo della durata. Ciò può essere vero talora — non sempre: una rapida chiusura di circuito può determinare per es., un enorme scambio energetico — nel piano materiale, ma nel piano umano morale vi sono ben altri valori. Il pensiero e la coscienza morale trascendono 1l ristretto presente e si librano e si proporzionano, fin dalla terra, sul piano universale ed eterno. La legge morale è dalla coscienza sentita come superiore al tempo ed eterna: e come tale è seguita o infranta. *

Particolare difficoltà presenta indubbiamente l’eventualità della sanzione di condanna e della conseguente eternità infelice, eventualità che, dal punto di vista puramente logico che ora seguiamo, non si può certamente escludere (corrispondendo a una delle alternative: il fallimento della prova), anche indipendentemente dall’affermazione della spiritualità cattolica. Ma sono difficoltà sentimentali, non razionali: del che un segno è dato subito dal presentarsi esse per l’ipo357

tesi della condanna e non per quella del premio; mentre le due evenienze sgorgano, con pari coerenza, dal concetto di prova. L’inganno consiste essenzialmente nel riferirsi al modo umano di punire le colpe, rispetto al quale sembra assolutamente sproporzionata e crudele la punizione eterna. Ma è un’irragionevole equiparazione che si pone tra le sanzioni umane del periodo di prova e quella cosmico divina del suo termine, equiparazione a cui si è sospinti dalla difficoltà istintiva di astrarre dalle terrene esperienze. Le sanzioni terrene infatti rientrano nello svolgimento stesso della prova, dal punto di vista giuridico, sia vendicativo che coercitivo e correttivo; quella eterna invece la chiude. Le prime si sentenziano su uomini capaci ancora di qualsiasi risurrezione morale; l’altra quando il loro periodo evolutivo morale è definitivamente conchiuso. Le prime sono comminate da uomini, soggetti personalmente alle medesime possibilità di colpa; l’altra dall’impeccabile Iddio. Ma soprattutto le prime, per necessità di cose, non possono influire che sulle condizioni di vita terrena e ne debbono quindi mantenere la limitata misura; mentre l’altra decide delle condizioni eterne e ne partecipa necessariamente l’enormità. La risonanza diversa cioè delle rispettive sanzioni segue ovviamente la diversità delle condizioni.

Quanti casi simili si hanno anche nella vita terrena Ecco, per es., un cinque dato all’alunno durante l’anno scolastico che è facilmente rimediato, perché egli si trova ancora nel periodo di prova: ecco il medesimo punto dato alla fine dell’anno, che implica il grave effetto della ripetizione del corso. Non si vede pertanto nel caso dell’anima — razionalmente parlando — perché, se la prova ha raggiunto il suo termine, dato che si apre !

358

davanti l’eternità, non debba influire — secondo come la prova è riuscita: bene o male — per tutta l’eternità. Il che facendo — bisogna accuratamente aggiungere — non si fa d’altra parte che riportarsi al piano di quelle dimensioni e di quei valori eterni e assoluti rispetto ai quali la coscienza umana sente, almeno implicitamente, la responsabilità morale. e

Tra 1 motivi più tipici che creano la difficoltà sentimentale contro l’eventualità dell’eterna pena (e che rientra nella suddetta erronea assimilazione della punizione dell’anima con le punizioni terrene) è l’illusoria supposizione che il condannato si trovi incatenato nel mare dei suoi dolori, tutto vibrante dai singhiozzi del pentimento, le mani invano protese a chiedere pietà. Questo, sì, ripugnerebbe al buon senso e alla giustizia. Ma è una scena che può avvenire in un ergastolo terreno, non — chiamiamolo così — nell’ergastolo infernale. Ciò significherebbe infatti né più né meno che un prolungamento della prova morale, non potendo non essere meritorio di perdono, di fronte alla infinita bontà di Dio — ben più che di fronte agli uomini — il pianto del cuore pentito. Ma invece, al di 1à, tale prova è finita. E l’anima quindi — per ragioni che sfuggono alla nostra attuale esperienza — non può più pentirsi: vedrà l’errore, lo maledirà, ma non potrà volgersi a pentimento. Il pensiero cattolico attribuisce il fatto — nel quadro più vasto dell’ordine soprannaturale cui tra poco accenneremo - alla meritata e ormai definitiva sottrazione della divina grazia, indispensabile per 1l salutare pentimento. Non è qui il luogo di entrare propriamente in merito, ma, qualunque sia la spiegazione, 1l fatto sgorga necessariamente dalla presupposta fine del periodo di « prova ». 359

*

V’è una simmetria

perfetta tra

lo

stato di premio

e

lo stato di condanna. Più grandi entrambi di ogni terrena letizia o dolore: e con la caratteristica della immutabilità. Come terminata la prova non è più possibile ai premiati di compiere il male (se no la prova proseguirebbe e l’eternità felice non sarebbe mai sicuramente posseduta), così non è più possibile ai condannati di compiere un bene riparatore e risanatore, come sarebbe l’atto del pentimento. Entrambi gli stati pongono immutabilmente le anime in quel modo di eternità che liberamente hanno raggiunto. Il che, a riflettervi bene, è una scoperta logica, insieme grandiosa e tremenda.

Circa la suddetta ripugnanza all’ipotesi dell’eterna pena, si può infine utilmente riflettere all’insegnamento di Gesù, anche prescindendo, per restare nel campo

d'indagine puramente razionale, dalla sua natura e autorità divina. Nessun avversario del Cristianesimo nega a Gesù, considerandolo anche come puro uomo, immensa sapienza, bontà e mitezza. Eppure dalla sua bocca con impressionante insistenza è stata prospettata agli uomini la tremenda possibilità della dannazione eterna 1. Vuol dire che egli non vi trovava ripugnanza al suo dolce insegnamento di giustizia, di carità e di perdono. Cfr. tra i molti passi evangelici: 10, 28; 13, 42; 22, 13; 23, 33; 25, 30. 42 SS.; Luca, 12, 5; 16, 23-26. !

360

Matteo, 5, 22.30; 18, 8; 41.46; Marco, 3, 29; 9,

La visione delle due opposte soluzioni non deve far dimenticare poi tutta la gamma dei diversi gradi. La prova potrà essere superata più o meno bene. E il fallimento potrà essere più o meno grave. Ognuno può conquistare quindi un’eternità più o meno felice o subirne una più o meno penosa. Solo così può concepirsi 1l pareggiamento dei conti. E ciò pur restando netta l’alternativa: o stato di premio (bilanci in attivo: più o meno) o stato di condanna (bilanci in passivo: più o meno).

Istante fugace eternizzato Per comprendere completamente quel famoso « pareggiamento dei conti » bisogna riflettere alla precisa portata del concetto di vita terrena come « prova ». Una volta trovata nella relazione con l’interminabile « domani » la giustificazione del corruttibile e temporaneo « presente » e dell’ibrida congiunzione del mortale con l’immortale, non si vede alcun motivo di sottrarre a tale relazione e finalità eterna alcun sia pur minimo episodio umano: purché sia veramente umano, nel senso di creare una responsabilità di coscienza. Così la suprema sintesi cosmica — corporea, umana, divina — si presenta intera. Ciò che nell'uomo muore e sulla terra si annulla non ha altro fine e non è da Dio voluto che per ciò che è eterno: eterno per l’uomo medesimo. In tal senso si può dire che non v’è alcun istante terreno che muoia. Nel capitolo quinto dicemmo assurda la morte. In realtà nessun istante terreno muore se 361

si proietta come vittoria o sconfitta — e come più o meno grande vittoria e sconfitta — nell’eternità. Ovvero: muore sulla terra, s’incide e si perennizza nell’eternità.

E l’uomo compare, mercé l’anima immortale, l’artefice della sua interminabile vita, il costruttore, pietra per pietra, della reggia o del carcere perenne. L’istante presente (l’unico che è sempre in nostro possesso: il cui fluire costituisce il tempo) ! e tutta la vita terrena sono, in vista di tale risultato eterno, eternizzati. Anzi, mirando al risultato del lavoro, anziché dire che l’uomo in terra lavora per l’eternità, si deve dire che lavora nella eternità.

Il solito vizio antropomorfico di giudicare a modo umano terreno ciò che è tanto diverso dall’uomo, suggerisce a questo riguardo una comunissima obiezione. La risonanza eterna e quindi la sanzione di cui si parla non hanno evidentemente senso se non formulati dalla onnipotente intelligenza divina. Viene fatto quindi di pensare al gretto spettacolo di Creatore un onnipotente, il quale, invece di restare alla altezza della sua maestà infinita, si preoccupa degli omuncoli della terra e, come un pedante censore, annota le loro miseriole, fino alla minima bugia e alla piccola impazienza, rimuginando dentro di sé: « Poi me la pagherai !». Tutt’al più si capirebbe il suo interesse soltanto per i grandi avvenimenti umani e sociali. Strano che l’obiezione trovi la più larga eco proprio La vita terrena si può simboleggiare come una sfera che rotola nel piano del tempo, poggiandosi sempre per il solo punto dell’« istante presente ». !

362

tra

gli uomini almeno praticamente materialisti, e li renda tanto trepidi di salvare con essa la grandezza di Dio che affermano indegnamente rimpiccolita dalla concezione suddetta. Che non c’entri per niente l’interesse di sottrarsi all’enorme responsabilità umana che ne deriverebbe ? È tanto comodo pensare a un Dio che, per non rimpicciolirsi, non si cura delle colpe umane !

*

Ma è proprio l’ultima battuta dell’obiezione che svela l’equivoco. È vero esattamente l’inverso. Un Dio che si interessasse solo dei « maggiori avvenimenti umani », allora, sì, sarebbe piccolo e gretto. Sarebbe infatti simile alle

povere personalità umane — tutte limitate, anche se massimamente dotate — che a tutto non possono pensare, e possono tener quindi dietro soltanto alle cose più importanti. Ma di fronte a Dio questa distinzione è irrisoria. Il supporre che i maggiori eventi umani possano avere, a differenza dei fatti umani minori, un’intrinseca e speciale proporzione alla sua grandezza, è dimenticare che, rispetto all’infinita perfezione divina, ogni altra cosa, grande o piccola che sia, è come un nulla. Sarebbe l’ingenuità di chi sale su un monte per essere più vicino al sole.

Ancor più ingenuo è preoccuparsi del come 1l Creatore possa tener dietro a tante cose. L’infinità della sua visione dominatrice non può concepirsi che come presenziale a tutte le cose, grandi e minime, nessuna eccettuata, senza alcuna divisione e alcuna fatica, con la piena penetrazione di ognuna, come se essa fosse la sola esistente: appunto perché visione perfettissima e infinita. Logicamente dunque si deve o escludere ogni visione 363

interesse di Dio per il cosmo e per l’uomo o, ammesso tale interesse per qualche cosa, estenderlo a tutto, an-

e

che alle minime cose.

Basta allora anche il solo fatto del divino interesse per la natura umana, provato, alla nascita di ognuno, dal suo intervento per crearne l’anima, per affermarlo in tutto 1l resto. Ma non è difficile sfiorare anche la ragione intrinseca generale per cui Dio non solo s’interessa di fatto anche delle minime cose, ma non può non farlo. Essa sgorga dalla nozione (sulla cui giustificazione, già precedentemente toccata, non possiamo addentrarci) di Dio come un universale creatore e ordinatore cosmico. Ne segrandi e piccole, purché costigue che tutte le cose tuiscano un qualcosa, una qualche realtà sono sgorgate da lui come causa prima. Anzi si potrebbe dimostrare che l’opera divina creatrice di tutte le cose non può non proseguire attualmente come attività perennemente conservatrice di esse 1, Dio quindi opera permanentemente in tutte le cose e, come artefice saggio, deve avere in ogni istante per ogni cosa operata un fine ultimo (quel « fine cosmico » sopra considerato) e un programma particolare di lavoro o realizzazione (che ne concretizza 1l fine prossimo o immediato). Ciò per ogni ente, anche minimo, in quanto uscito dalla sua azione creatrice e conservatrice. Solo l’artefice stolto infatti compie un lavoro senza uno scopo e un programma e poi se ne dimentica. Solo il bambino fa le casine di carta o di rena e poi le abbandona là, per passare ad altro gioco. Ma mentre l’artefice umano non può prevedere e seguire minimi particolari, Dio, infinito, è presente a —



1

1

364

Cfr. Esiste Dio

2,

o0.c.,

p. 172

ss.

tutti e lo è in ogni istante perché in ogni istante opera sulle creature; sicché ogni istante di esistenza giunge alle creature come nuovo dono, sempre impreziosito da un divino programma, da un divino volere. E sì ricordi che la creazione di un minimo granello di polvere — vera creazione, dal niente assoluto — richiede la potenza infinita di Dio come la creazione di tutta la materia cosmica, implicando il superamento dell’abisso infinito che intercorre tra il nulla e la cosa. Sicché, ammessa l’azione creatrice e conservatrice di Dio, ogni briciolo del cosmo implica la mobilitazione dell’onnipotenza di Dio e del suo volere. Con ciò non si viene a escludere evidentemente la reale operosità delle cose stesse e 1l loro sgorgare l’una dall’altra. Ma — a prescindere da altri rilievi metafisici che ci porterebbero fuori campo — da Dio sgorga cotesta realtà e operosità cosmica, ossia l’essere e il potere stesso operante delle cose. *

Ed ora un’osservazione decisiva circa quel gretto «me la pagherai !», attribuito a Dio.

:

Posto che tutte le cose dipendano dal Creatore e rientrino quindi nel suo sapiente piano cosmico, posto cioè che esse siano state create per il suddetto « fine cosmico » della divina gloria, da realizzarsi da ognuna secondo un particolare divino programma, può Iddio tollerare l’infrazione di tale sua volontà ? Per rispondere rettamente, tutto sta nell’evitare il solito ingenuo antropomorfismo e nel non confondere questa divina volontà di portata cosmica con la volubile volontà umana terrena. Quella divina volontà è il motiwo della divina creazione stessa e della divina conservazione delle cose, è 365

il perché dell’onnipotente azione dell’artefice sommo: azione che determina il trascendente e assoluto domi-

nio di Dio sulle cose stesse, in quanto intimamente debitrici di tutto il loro essere a lui.

L’impossibilità della infrazione risulta evidente allora, sia da parte di Dio che della creatura. Da parte di Dio in quanto fonte e fondamento dell’ordine e del bene cosmico. L’infrazione alla sua volontà è infatti violazione del fine della sua azione creatrice e dell’ordine e del bene cosmico: cosa che la divina onnipotenza, sapienza e bontà non può permettere. Da parte della creatura in quanto, dipendendo completamente da Dio, nel suo essere, non ha alcun titolo per sottrarsi ad essa. *

è

E infatti nelle creature irrazionali tale divina volontà inclusa inflessibilmente nel determinismo delle leggi

fisico chimiche e sensorie.

Nelle creature libere deve essere volontariamente seguita, creando così lo splendore cosmico del merito morale di tale libero adempimento. Ma appunto per la libertà, tale adempimento può non realizzarsi. Nell’ipotesi pertanto della colpevole ribellione al divino volere, l’ordine violato dovrà essere reintegrato mediante la sanzione di pena.

Questa non può quindi non estendersi propriamente anche alle minime infrazioni, non potendo il Creatore tollerare ed essere complice del disordine e del male cosmico, grande o piccolo che sia. *

È evidente che a ciò non può opporsi il verissimo concetto della bontà e misericordia di Dio. Non si può trovare certo nella storia delle religioni uno sviluppo 366

maggiore di tale concetto che nel Cristianesimo. È una misericordia giunta fino al punto inaudito dell’incarnazione del «Figlio di Dio», della sua immolazione salvifica sulla croce e dell’istituzione di mezzi tanto facili perché ognuno possa attingere a quei meriti salvifici del Redentore, quali sono i sacramenti, le indulgenze, ecc. Eppure tutto questo non è che la conferma dell’inflessibile legge della sanzione, reintegratrice dell’ordine cosmico e divino violato. C’è infatti chi ha subìto la sanzione e ha compiuto la più preziosa riparazione al posto dell’uomo: lo stesso divino Redentore. E vi sono tanti facili mezzi a disposizione dell’uomo stesso per attingere a quei divini meriti. Dalla legge della sanzione riparatrice in un modo o in un altro non si può uscire. 3%

Sicché effettivamente ogni istante umano si proietterà nell’interminabile «al di 1là » come approvazione o condanna, secondo la conformità o difformità al divino volere. S’intende, in quanto appreso dalla coscienza. La sanzione immediata V’è un riflesso della fiducia nell’« al di 1à

»

nell’espres-

Nessuno usa sione popolare: «il sonno della morte la medesima espressione davanti alla carogna di un cane. Dopo il sonno ci si risveglia. Son parole che preludono a questo risveglio. Possono però indurre anche in equivoco. Il sonno è un fatto di esperienza comune. Si sa che in quel periodo si perde coscienza e conoscenza. I rigurgiti delle tendenze ed esperienze quotidiane nel sogno, per il modo istintivo e deforme come avvengono, confermano — con».

367

tro la sopravalutazione del subcosciente della psicanalisi freudiana !, quasi che rivelasse il vero «io» — l’assenza di ragionamento e di responsabilità e l’addormentamento dell’« io ». E poi vi sono anche i lunghi periodi senza alcun sogno. Ciò si spiega facilmente, nonostante l’indipendenza essenziale dell’anima pensante dalla materia, con 1l bisogno estrinseco dello strumento del corpo per ragionare, strumento che nel sonno cessa di essere idoneo. Quando è poi che riprenderà il ragionamento ? Quando 1l corpo si leverà. Il « sonno di morte » può far pensare allora a qualcosa di simile. Non è un annullamento, d’accordo, l’anima resta: ma addormentata e d’un sonno ben lungo che terminerà quando il corpo — per chi crede alla risurrezione finale — risorgerà. L’anima infatti sembra impossibile che ragioni perché le manca il sussidio adatto per ragiogrande rinare. La grande decisione dell’« al di là », sveglio nel luogo del premio o della condanna, avverrà quindi per tutti gli uomini insieme, alla fine dei tempi. 11]

x

Niente di assolutamente assurdo in questa ipotesi, al lume della pura ragione. E a ogni modo quel lunghissimo aspettare, posto che a un certo punto dovesse aver termine, si ridurrebbe sempre a un baleno rispetto all’infinita eternità. Ma — a prescindere anche completamente dalla affermazione contraria del pensiero cattolico — appare una ipotesi assai poco convincente. Per lo meno, nel quadro Dal fondatore Sigismondo Freud (1856-1939). Nell’istintività del subcosciente affiorante nei sogni si vuol vedere il profondo e vero «io », mentre proprio lo scatenamento disordinato di esso ne dimostra l’addormentamento e l’assenza come vero 1

«io» egemonico e razionale.

368

dell’ordine che ammiriano nella natura umana, costituirebbe una forte e non presumibile anomalia. Niente di inutile infatti vediamo nel dinamismo vitale dell’uomo. Il sonno ordinario non è una sospensione oziosa dello psichismo umano, ma ha una sua precisa funzione, a vantaggio del corpo e quindi dello stesso uomo, una funzione cioè di difesa contro il logorio del lavoro e di ricupero delle energie, mediante il massimo riposo compatibile col proseguimento della vita. Si ha un rilassamento completo dei muscoli e un rallentamento anche dei battiti del cuore e degli atti respiratori (benché con ispirazioni più profonde) e una diminuzione generale dell’attività nervosa. È naturale quindi che avvenga anche la perdita della conoscenza, per il riposo del sistema cerebrale e nervoso, che serve all’anima per il ragionamento. Tale perdita di conoscenza rientra pure felicemente nel segreto naturale per rendere obbligatorio il riposo di tutto il corpo. Se infatti non avvenisse l’addormentamento anche delle facoltà conoscitive, sarebbe ben duro interrompere le attività quotidiane: e quando la spossatezza fisica lo imponesse, si dovrebbe soffrire il tormento dell’inerzia. Ne sa qualcosa chi soffre d’insonnia! La perdita della conoscenza nel sonno rientra cioè nella soave economia con cui la natura provvede normalmente alla propria conservazione (armonizzando su questo punto la fisiologia del composto umano col periodico sopravvenire della notte). Se nell’uomo non restasse addormentata anche l’anima, pur avendo il suo corpo il medesimo bisogno di riposo degli animali irrazionali, egli si troverebbe rispetto a questi in condizioni di grande inferiorità per il sacrificio psichico che dovrebbe subire. Ma tutto questo manca completamente nel cosiddetto « sonno di morte ». Manca cioè con l’ipotetico sonno del369 24

l’anima qualsiasi legame di utilità per il corpo ormai condannato al disfacimento. Sarebbe un impoverimento dell’attività psichica, senza alcun giovamento compensatore per il corpo e quindi per il « tutto » umano. Sarebbe praticamente come un periodo di vera morte, giacché la vita senza attività è come non vita. Proprio cioè quando l’anima, avendo terminato insieme al corpo il periodo mortale della vita umana, s’affaccia all’interminabile «al di là », lo comincerebbe divenendo come morta davvero. Tutte cose poco plausibili. *

E non è difficile comprendere come possa avvenire invece proprio il contrario. È un problema che era già affiorato nelle pagine precedenti e che ora finalmente passiamo a risolvere. Non bisogna dimenticare infatti che l’ingranamento dell’anima col corpo, anche per 1l ragionamento, non deriva da alcuna materialità dell’anima, ma dal bisogno del sussidio dei sensi, per attingere la realtà materiale con cui l’uomo si trova immediatamente a contatto e trarne le idee. Ed è ponendosi così in attività intellettiva che l’anima, traverso la coscienza di tale attività, acquista la coscienza di sé stessa. Ora è naturale che questo ingranamento ci sia finché essa si trova congiunta al corpo, permeandone la materia in modo da riassumere in sé tutte le funzioni vitali e perfettive inferiori. Ma terminate queste funzioni e questo ingranamento con la morte del corpo, è naturale che l’anima, nel nuovo modo di esistere soltanto come spirito, riacquisti immediatamente coscienza del proprio «io » e possa far rifiorire le idee, senza bisogno del sussidio dei fantasmi come quando era nel corpo e a contatto dei corpi. 370

Essendo infatti spirito intelligente, non può per sua natura non pensare. La difficoltà teorica relativa, an-

ziché essere come l’anima possa pensare anche senza corpo, sta piuttosto nel fatto inverso: come cioè durante 1l periodo terreno non possa pensare senza il corpo. Ma la difficoltà così presentata è del medesimo ordine di quella essenziale della mirabile congiunzione di materia e spirito per formare l’unità della natura umana. Posto per l’uomo il fatto di tale mirabile unione — di cui non mancammo di scoprire la possibile spiegazione — non fa meraviglia che essa comporti anche, per essere più completa, il condizionamento della conoscenza alle attività sensorie del corpo. Sciolta, almeno provvisoriamente, tale unione, cotesto condizionamento non ha più ragione di essere 1, *

In tale fondata supposizione dunque

— che per la re— è l’anima cattolica certezza per con la morte ligione nessunissimo sonno, ma risveglio decisivo e supremo. Crollato 11 corpo, su quel letto di morte è lo sprigionarsi immediato della nuova coscienza di sé e della propria indipendente luminosità intellettuale, è il rifiorire del mondo d’idee conquistato nel tempo terreno e il vibrare nuovo di luci infusele dal Creatore presente. La drammatica visione della costruzione eterna, fabbricata con i valori morali del tempo terreno e sigillata dall’immutabile sanzione, sarà immediata. L’errore tragico — se c’è stato — lampante. La vittoria trionfante. Lì, in quell’istante in cui l’anima si stacca dal corpo e le cure degli astanti si concentrano su di esso, s’aprono per lei i nuovi orizzonti dell’«al di là » eterno.

Pensose riflessioni di S. Tommaso D'’AQuUuINO si possono leggere a questo riguardo nella Summa Theologica, 1, 89. 1

371

IL DRAMMA

UMANO

Il passaggio fulmineo Ora possiamo valutare il dramma umano essenziale. Deriva dalla ricchezza immortale che l’uomo porta e dai valori mortali che egli tocca, dalla dimora immortale che l’aspetta e dai mezzi di costruzione poveri e mortali di cui immediatamente dispone per costruirsela. Se si confronta il tempo dell’esistenza terrena con l’interminabile domani, è praticamente come un passaggio fulmineo, un breve momento che decide l’eterno. Quando una macchina procede lentamente, un distratto sbandamento ha poche conseguenze. Ma se la macchina divora la via, un minimo scarto significa il

disastro. Il brevissimo passaggio terreno divora fulmineamente — per così dire — l’eterna esistenza, in quanto. la determina, la crea. Lo sbandamento dell’errata 1impostazione terrena è quindi come un minimo scarto di risonanza disastrosamente infinita. È segnata la sorte per il corridore che sbaglia. Consapevole delle conseguenze, tutta l’attenzione è posta a non sbandare. Per l’uomo lanciato nel passaggio terreno, a ben più forte ragione tutta l’attenzione deve essere concentrata nell’impedire ogni deviazione — di così vasta risonanza eterna — e nel superare trionfalmente la prova. 372

*

Nella difficoltà pratica di mantenere tale logico atlteggiamento si delinea la tragedia umana. È la difficoltà di dover guardare in alto e all’eterno, mentre si è immersi nelle cose inferiori e che passano. Nel prospettarsela e nel volerla superare è il vero senso pratico della vita. L’ipnosi sensibilista Vale la pena di prospettare il fatto, sfrondandolo da ogni amplificazione parenetica. Sono due gli aspetti più gravi di tale dramma o di tale tragedia che dir si voglia. Ciò che in principio abbiamo detto della suggestione del sensibile è 1l primo e intacca 1l potere conoscitivo che è 1l presupposto di tutto. L’uomo apre gli occhi alla verità, l’ama e la cerca ansiosamente: e vede i corpi. È capace di universalizzare, di ragionare, ma per lo stesso ragionamento deve servirsi, come strumento, dei fantasmi e quindi ancora dei corpi. È con lo spirito che capisce i corpi, eppure 1 corpi velano lo spirito. L’ascensione logica verso l’autore dell’ordine, verso l’affermazione dello spirito è faticosa, mentre 1 corpi sono lì, fa-

cilmente comprensibili dalle due facoltà insieme: fantasia e intelligenza. Mentre per la comprensione dei corpi la fantasia — che sempre spontaneamente accompagna il pensiero — è di aiuto e di riposo, per la comprensione dello spirito è di ostacolo. Mentre con il presente che passa, con la realtà che muore, il contatto è immediato, con l’interminabile, incorruttibile e felice domani il contatto va faticosamente conquistato. Eppure se l’uomo non arriva a quel contatto, la finalità cosmica della sua esistenza è fallita: egli non conosce 373

la sua sorgente, non conosce la propria realtà, corre la fulminea strada senza guardare alla meta. È cieco. È suicida. I romantici dei problemi misteriosofici, i metempsichici, gli spiritisti pensano di reagire a tale inganno e a tale cecità e di affermare lo spirito nelle loro sedute e nei loro colloqui emozionanti. E non si accorgono di arenarsi proprio nel fondo, istintivamente gradito alla conoscenza umana, che è l’immediata esperienza sensoria ed emozione psichica: tanto più gradita quanto crea l'illusione di contemplare l’«al di là », senza timore delle responsabilità eterne. E cadono in un maggiore inganno, seguendo suggestioni cieche, fenomeni oscuri, fantasie senza razionale controllo, interpretazioni errate 1, Il secondo fondamentale aspetto del dramma intacca il potere morale: e lo possiamo cogliere facilmente prendendo le mosse da una curiosa constatazione. Il rilevarla non fa eccezione allo speciale carattere critico di questo studio, estraneo all’impostazione morale dei problemi, propriamente detta. È una pura constatazione sperimentale. Ecco il rilievo. Qualunque sia la base filosofica e morale che si segue, si mantiene in genere un severo atteggiamento verso il furto, la violenza, la slealtà, ecc. Se si cade in coteste mancanze se ne sente vergogna e, per lo meno, si ha piacere di non essere notati, di farla franca. Quando si tratta invece dei disordini dei sensi — disordini, secondo la intuitiva estimazione — il metro cambia e tutto viene valutato con enorme condiscen1

374

Cfr. la

nota a p. 274.

denza. Se uno è colto in menzogna — anche non dannosa c’è 1l caso che diventi rosso di confusione, ma se'è accusato di gola, di crapula, ci farà una risata sopra. L’ubriachezza non si approverà, evidentemente; tuttavia sarà commentata anch’essa con qualche battuta di spirito, dando la colpa alla troppa vicinanza delle osterie e risolvendo tutto in definitiva con lo scherzo. Come mai questa disparità di trattamento per ciò che tuttavia si riconosce come disordine umano ? Ma il rilievo non finisce qui. A occhio e croce i disordini di senso più gravi sono quelli sessuali. Essi infatti incidono nelle manifestazioni vitali più importanti quali la propagazione della vita, e nei più alti vincoli di affetto, e hanno più forti caratteristiche invadenti e tiranniche. Ora ecco che, quanto all’estimazione, avviene tutto l’inverso di quello che si sarebbe dovuto attendere. Più grande è il disordine e meno importanza gli si dà. Si può scherzare anche sull’ubriachezza, ma fino a un certo punto, finché cioè non sia estrema e abituale. Ma quanto all’altro tasto più delicato, nei medesimi circoli mondani è un brioso vanto ad averle commesse grosse. Non si approva, in genere, del tutto. I teorici della vita voluttuosa — alla Nietzsche e alla Gide — non mancano, ma in fondo sono relativamente rari. Quando s’intavola in proposito un discorso serio si finisce per condannare certi disordini, o almeno per non approvarli del tutto. Ma in pratica è l’incoraggiamento scherzoso vicendevole o una tale indulgenza di valutazione da costituire una specie di incoraggiamento. Si sa regolarmente che quegli uomini di stato e quel capi politici hanno l’amante, tradiscono la sposa, e tutti tacciono, compresi gli avversari politici. Ma se invece avessero toccato un soldo della pubblica amministrazione, guai I giovani se non le hanno fatte grosse le —

!

375

inventano in conversazione, ma nessuno dirà mai di aver rubato cento lire. Le radio nazionali hanno i loro canzonieri tutti fatti di strofe amorose a carattere morbosamente passionale, con voci e suoni artificiosamente vibranti d’emozioni di alcova. Fatto sorprendente, perché se sono così preferiti nelle trasmissioni di divertimento fatte per tutti, dovrebbe significare che costituiscono una produzione che piace a tutti: mentre si sarebbero dovuti ritenere utili soltanto per gl’impotenti, bisognosi di farmaco eccitante delle oneste funzioni virili; mentre non possono servire che ad anticipare ed esasperare l’erotismo giovanile e a incoraggiare in tutti le avventure sessuali, qualunque siano i legami dei già giurati affetti. Nessuno si vergogna di farsi vedere incantato davanti a una figura licenziosa, o leggendo, o davanti allo schermo o al teatro, dimostrando interesse evidentemente non per una creatura umana, ma per la sola sua animalità, con impulsi perfettamente analoghi a quelli d’un cagnolino per la cagnetta. Quest’ultima espressione anzi l’ho sentita pronunciare ad alta voce in treno a riguardo di un professionista distinto, lì presente, che ha annuito con una bella risata di contentezza. Nei passeggi, nei balli, nei ritrovi, le donne fanno a gara a esibire la loro persona fisica, come se proclamassero: guardate che bell’animale che io sono. Nelle feste per l’elezione delle reginette e tanto più negli organizzatissimi concorsi di bellezza si compie un’analisi materiale dei soggetti analoga a quella dei mercati bovini: ed esse ne sono contente. Tipico è anche il rivestimento di questa roba con i termini più elevati. La meretrice sarà chiamata con la nobilissima parola: amica; la passione puramente animalesca col sacro nome: amore; il disonoramento di 376

una giovane con la gentile espressione: avventura galante; la morbosità nudista col luminoso termine:

sincerità; la licenziosità del tratto con l’evangelico: semplicità 1. Tale curioso fenomeno di svalutazione del disordisensuale ne e sessuale non può avere che due spiegazioni: o si tratta effettivamente di disordini di secondaria importanza, e sarebbero allora atteggiamenti coerenti; o si tratta di un disordine tanto grave che si ha paura di confessarlo a sé stessi, e rappresenterebbe allora quella stessa suggestione o psicosi sensibilista, di cui si è parlato in principio sul piano concettuale, vista ora sotto l’aspetto pratico del costume: il giogo pratico del senso. Analizziamo il fenomeno nel seguente paragrafo. Il dramma essenziale Complicato e arduo è indubbiamente l’approfondimento teoretico del concetto di disordine morale. Ma non è difficile fissare sostanzialmente le idee, restando nel piano della comune estimazione. Disordine dice qualcosa fuori di posto, che guasta 1l funzionamento normale — ordinato — dell’insieme. Sarà più o meno grave secondo l’importanza degli elementi spostati: come nel corpo umano una slogatura sarà più o meno grave secondo che riguarda un dito, la mano, il braccio, ecc. Ora, tra i componenti l’individuo umano gli elementi coesistenti principali sono il corpo sensitivo e l’anima spirituale. Il prodigio umano, come abbiam detto, è proprio in questo unitario binomio materia spirito, nello spirito che « informa » il corpo e nel corpo che serve allo spirito. 1

Cfr.

LanpuccI, Nel vortice, Coletti, Roma, 1946. 377

Spezziamo l’armonia tra questi due elementi, sconvolgiamo la loro coordinazione e gerarchia e avremo il disordine umano più essenziale e specifico 1, in quanto incide nella unione dei due elementi che caratterizzano la natura umana.

Ecco allora il dramma umano. Come mantenere l’ar-

monia gerarchica tra cotesti due elementi, tanto diversamente sollecitati dall’ambiente ? Recherà sorpresa, eppure l’affermazione fondamentale cristiana del «peccato originale » — non bene intesa — ha diminuito in non pochi l’adeguata visione di tale dramma, la visione cioè della sua essenzialità. Il pensare alla ribellione delle passioni sensuali e alla conseguente lotta per vincerle, come puro frutto del peccato originale, fa dimenticare il regime di lotta intrinseco essenzialmente alla natura umana; lotta che, prima del peccato originale, solo per un superiore e gratuito dono di Dio ? (che si aggiungeva al dono soprannaturale della Dire: « più essenziale e specifico » non significa dire: principale. La principalità per essere definita richiederebbe l’analisi di vari complessi aspetti della realtà, che non avrebbero qui utilità. È intuibile, a ogni modo, che vi possono essere disordini assai maggiori (si pensi, per es., dal punto di vista cristiano, ai peccati diretti contro Dio, all’odio, all’omicidio, ecc.). Si vuol dire solo: ciò che corrisponde ai più essenziali e specifici componenti dell’uomo. Si possono applicare in proposito le parole di S. Paolo: « Ogni altro peccato, che l’uomo commette, sta fuori del corpo; ma il fornicatore pecca contro il proprio corpo » (1 Corinti 6, 18). ° Quello che i teologi cattolici chiamano il «dono d’integrità ». Esso toglieva la ribellione delle passioni, l’ignoranza, le sofferenze e la morte. Era un dono preternaturale. Esso era collegato, 1

378

grazia) non c’era. Il peccato originale cioè, secondo la dottrina cattolica, non ha fatto sostanzialmente a tale riguardo che scoronare la natura umana di un privilegio miracoloso e lasciarla nelle sue condizioni naturali (salvo, oggi, l’aggravamento pratico dell’ambiente corrotto e delle cattive ataviche abitudini). Secondo queste condizioni naturali, v’è nel binomio carne-spirito, senso-intelligenza, l’unione di ciò che tende ciecamente al proprio gradito oggetto immediato (senso) con ciò che vede e tende alla prosperità del tutto, nel quadro del fine cosmico (intelletto, volontà). L’identificazione delle due tendenze in innumerevoli casi è impossibile, donde la lotta tra loro. Per esempio, in un diabetico: 1l dolce attira la gola e ripugna alla volontà; in un coniugato: quella ragazza piace, ma la retta volontà proibisce di avvicinarla. Da questa lotta, considerata come un dato di esperienza, abbiamo anzi, a suo tempo, dedotto un argomento per l’esistenza dello spirito umano.

Le istanze ottimiste

alla Rousseau — circa la spontanea bontà della natura umana, e qualsiasi impostazione del problema morale che pretenda di non voler in alcun modo contrariare la natura, non dimenticano solo 1l peccato originale, ma — anche indipendentemente da esso questa fonte radicale di lotta della natura umana stessa. —



per divino volere, al mantenimento dello stato soprannaturale di giustizia originale, consistente nel possesso del dono soprannaturale della grazia. Perduto questo col peccato originale, cadde anche l’altro. E ora anche riacquistando la grazia col battesimo e i sacramenti, l’altro non si riacquista più. 379

Pretendere di poter seguire la natura evitando tale contrasto, è in certi casi tanto contraddittorio quanto volersi far condurre da due cavalli che tirano in senso opposto. I gaudenti che dicono di seguire la natura, la seguono realmente: ma secondo una parte sola, quella inferiore, dei sensi, non importando loro niente della prosperità superiore del loro essere e non volendo minimamente riconoscere la legge più alta di vita e il corrispondente rendiconto dell’« al di 1à ».

Si presenta chiara allora la

gravità della situazione

umana, perché nei casi di contrasto non potrà mantenersi l’unità del binomio umano senza che uno dei due elementi domini l’altro. E, se non si avrà il dominio della anima sul corpo (con il conseguente inquadramento di questo nel fine cosmico), sì avrà il dominio del corpo sull’anima e quindi il capovolgimento dell’uomo. Nel quale secondo caso l’unità umana sarà nuovamente realizzata ma con l’abbassamento della persona al piano animale, anzi — avvenendo ciò con lo schiacciamento dell’anima — al piano subanimale.

Questo avverrà, in piccolo, anche per un leggero disordine dei sensi, per es., di gola. Ma quando si tratta della massima attività sensoria che è quella sessuale, in cui il più intimo dinamismo somatico e psichico è mobilitato dalla natura a servizio della vita, la rottura dell’unità umana e il capovolgimento dei valori di questo tipo è massimo. 380

Qui proprio si potrebbe anche accettare l’istanza materialista e naturalista. Vogliono seguire puramente la natura, il corpo ? Bene. Ma siano di parola. Si dovranno accorgere che la complementarità fisico psichica ses-

suale mira evidentemente alla vita e all’unità familiare difenditrice della vita: e che il piacere congiunto è solo un invito a realizzare tale scopo. Staccare il piacere dal fine è violentare nell’intimo e materia e natura. Le disastrose risonanze individuali e sociali ne sono la ovvia risposta: le malattie del corpo, la depressione psichica, la gioia familiare dissolta, l’infezione sociale antiprolifica e 11 decadimento nazionale. RI

La spiegazione del curioso fenomeno di svalutazione del disordine sensuale non può essere quindi che la seconda di quelle due, proposte nel precedente paragrafo: non può derivare cioè dalla poca importanza dei fatti, ma dall’oscuramento interessato di coscienza. Ed è spiegazione di tragedia. La natura umana si presenta sconvolta in innumerevoli coscienze, in un suo equilibrio essenziale. E la progressiva indifferenza per questo dramma — che non può che accelerare sempre più il processo di dissoluzione — non può interpretarsi che come pauroso fenomeno di progressivo accecamento volontario individuale e pubblico, sotto lo st'molo interessato delle tendenze inferiori. I diritti dell’anima e tutti i valori dell’« al di là » ne restano compromessi. Sulla strada di cotesto interessato accecamento non si può avanzare senza allontanarsi sempre più dalla luce superiore dello spirito. Ecco perché questo secondo aspetto del dramma umano e del giogo sensista — sul terreno pratico — viene a 381

.

èssere un corroborante del primo — sul terreno teorico — come, reciprocamente, il primo, staccando teoretica;

-

.

|

è

mente lo sguardo dall’anima,

.

è

è

un incentivo al secondo.

*

è il dramma dell’anima, per trovarsi così ingracol nata corpo, nel periodo di vita mortale. E ingranata in modo, non solo da non togliere all’animalità corporale i suoi istinti, ma anzi, in un certo senso, da accrescerli: perché l’intelligenza, ripiegandosi sui sensi, riesce a disarticolarne la funzione, a isolarne 1l piacere, a teoretizzare e inasprire il vizio, il che il puro animale non può certo fare. Dramma che, alla luce dell’armonia cosmico divina, non può avere altra finalità che impreziosire il merito della prova e aumentare il premio della vittoria. Ma che, per molti — per 1 vinti — diventa rovinosa tragedia.

Tale

*

Sia nel piano teorico della conoscenza, sia nel piano

pratico morale or ora considerato, l’aggancio sopraf-

fattore della realtà sensibile sul pensiero e sul cuore uma-

no nasce in definitiva dall’immediatezza delle reazioni dei sensi e della psicologia umana al contatto della realtà materiale in cui siamo continuamente immersi, in contrapposto alle talora faticose riflessività delle reazioni spirituali di fronte all’invisibile realtà spirituale. La psicologia umana tende perciò a polarizzare la sua attenzione e la sua soddisfazione verso le più immediate realtà sensibili. L’occhio e il cuore tendono a spen-

restante ben più vasta e ricca realtà. È la tragica ipnosi prodotta dalla realtà sensibile. L’ipnosi dei sensi: contro cui bisogna continuamente reagire.

gersìi alla

382

IL DRAMMA DIVINÒ

Beatrice Arrivato nel Limbo, prima di penetrare nel Paradiso, Dante viene lasciato da Virgilio e incontrato da Beatrice: Sovra candido vel cinta d’oliva donna m’apparve, sotto verde manto vestita del color di fiamma viva ». (Purgatorio, XXX, 31-33) Nel regno beato soprannaturale la filosofia

sapienla teoOccorreva za umana non poteva più guidarlo. logia, la rivelazione, la sapienza divina. Si aprivano gli orizzonti della fede. Con la pura riflessione razionale siamo giunti alla netta affermazione dell’anima immortale e dell’eternità di premio o di pena sentenziata dal Creatore. L’analisi non ci può condurre oltre. Sotto tanti aspetti il mistero dell’« al di là » e dell’anima che vi deve andare, resta. Il velo di quell’ulteriore mistero non lo può alzare che la rivelazione divina, di cui solo di passaggio abbiamo già sfiorato alcune tesi, come quella della risurrezione dei corpi. —



383

%

Benché non si possa qui sviluppare questo ulteriore studio, un punto va sottolineato subito, in sede di metodo. Non si tratta, con la rivelazione, di inserire l’irrazionale nel razionale; o anche, se si vuole, il superrazionale nel razionale. Supposta infatti la dimostrazione logica del « piano della verità » che poggia sul «triangolo » base: Dio, Gesù Cristo, Chiesa Cattolica, l’adesione all’insegnamento di questa rientra, indirettamente, nella piena razionalità. Se infatti con la ragione si prova che Dio esiste (come abbiamo anche confermato nelle precedenti pagine), che Gesù è Dio rivelatore e che la Chiesa Cattolica è, per divina istituzione, l’infallibile depositaria della rivelazione, la ragione ha 1l diritto e il dovere di accogliere la luce rivelata della teologia che la Chiesa insegna. Qui tale dimostrazione, per fare ancora un rapido passo avanti nello scoprimento dell’anima, dobbiamo presupporla 1. Chi non vi aderisse può dunque omettere le poche pagine che seguono, benché — a leggerle — vi potrebbe trovare un'’utilità, se non altro d’informazione. Tanto più che, anche prescindendo dalla dimostrazione del « triangolo » della verità, lo stesso armonico ingranamento delle verità superiori rivelate con quanto l'indagine razionale ci ha dimostrato può costituire già un valido incoraggiamento e una importante conferma di tale dimostrazione e di tale fede. *

Non vi possono essere pregiudiziali in contrario. Anzi chi ha seguito il nostro itinerario logico, dovrebbe essere quasi in attesa di un ulteriore allarga1

384

Cfr. la seconda

parte di Esiste Dio

?,

o.c.

mento dell’orizzonte della verità e ritenere improbabile che la indagine debba fermarsi alle sole posizioni raggiunte. Niente innanzitutto si può obiettare, dal punto di vista critico, contro le nuove scoperte, che — guidati da Beatrice — potremo fare, per il fatto che esse risultino impervie alla diretta deduzione razionale. È bensì naturale che l’uomo, posto al confine dei due mondi, materiale e spirituale, possa affacciarsi oltre il limite dei sensi, innalzare il suo sguardo deduttivo alla scala superiore degli esseri, e arrivare fino al vertice: l'infinito Dio. Ma, essendo la sua intelligenza finita, è impossibile che possa tutto esaurire e tanto meno dedurre da sé i misteri dell’intima natura e dell’opera di Dio, essendo essa infinita. Per questo occorrerà, per così dire, un raggio della stessa infinita mente divina, mediante appunto una sua rivelazione. Ma anche con questa è da attendersi che non sia interamente tolta l’oscurità del mistero. È ovvio infatti che, riguardando esso l'infinito, non possa essere penetrato nella sua intrinseca pienezza dalla mente finita. Abbiamo così tre modi ascensionali di conoscenza, perfettamente proporzionati alla rispettiva realtà cosmica. Il mondo sensibile è l’oggetto della diretta esperienza. Il mondo spirituale è l’oggetto della indiretta esperienza, ossia della deduzione razionale. Il mondo divino è oggetto sia della deduzione che della rivelazione : della deduzione per ciò che si proporziona alla finitezza della mente umana (come sono l’esistenza e tutti gli attributi divini deducibili dagli effetti cosmici); della rivelazione per ciò che si proporziona alla infinità divina (come il mistero intimo della sua essenza e del mondo soprannaturale). 385 25

Niente di più verosimile pertanto che, come vi sono realtà che superano la diretta esperienza, ma si possono dedurre con la ragione, così ve ne siano altre che non si possono nemmeno dedurre direttamente con la ragione, ma solo conoscere con la rivelazione: come vi sono cioè realtà che superano la conoscenza diretta dei sensi, così ve ne siano altre che superano quella diretta della ragione: quelle precisamente che superano la sua finitezza. Sicché queste ultime, anziché creare difficoltà, sono quasi da attendersi quali completamento delle altre due. *

l’attesa dello sconfinato mondo della rivelazione — in forme imprevedibili, ma certo superiori a quanto la mente possa direttamente scoprire — nasce proprio dalla conoscenza di questo mondo sensibile e ultrasensibile direttamente scoperto, per due caratteristiche che esso svela nell’economia della creazione. La prima è un’impronta di munificenza nell’opera del Creatore. Basta pensare alla sterminata varietà degli esseri cosmici, dai cieli alla terra inanimata e animata: tutti direttamente o indirettamente a servizio dell’uomo, come abbiamo visto parlando del grande fine cosmico. È una munificenza assolutamente priva di qualsiasi interesse del Creatore medesimo, e quindi puramente e sconfinatamente benefica: cosa aliena dalle consuetudini umane e rivelatrice di una delle più impressionanti caratteristiche di cotesta stessa munificenza. Anche un padre tenerissimo gode (e quindi in qualche modo ci guadagna) nel sacrificarsi per il figlio: e sa poi di essere dal buon figliolo, a suo tempo, ricompensato. Ma l’onnipotente artefice dell’universo, in quanto essere infinitamente perfetto, non può essere ulteriormente perfetMa, ancor più positivamente,

386

tibile e non può avere bisogno di alcunché, non può avvantaggiarsi di niente. Perciò la sua opera creatrice e conservatrice è assolutamente tutta a beneficio degli altri. Ecco perché la stessa finalità cosmica, per cui le cose — mediante l’uomo — debbono tornare a lui, conoscendolo, amandolo e servendolo, non può essere che esclusivamente a vantaggio loro. Alla domanda: perché Dio ha creato il mondo ? non c’è che da rispondere: per effondere il bene intorno a sé (nel quale programma 1l male da Dio non voluto, ma permesso, non può concepirsi che come prova o occasione di merito per i buoni, capace di far scaturire un bene maggiore). E all’ulteriore domanda: perché ha voluto effondere 1l bene attorno a sé ? si può così solo rispondere: perché egli è benefico, è fatto così e ha voluto così. Nel modo più assoluto dunque non sono le cose che hanno attirato la sua benevolenza creatrice, ma la sua benevolenza che ba creato le cose. La seconda impronta caratteristica è 1l piano di progressiva elevazione degli esseri. Tanto per incominciare, è dal nulla che egli ha elevato gli esseri all’esistenza: benché in questo senso la parola elevazione abbia un significato improprio, perché 1] nulla è nulla e non può quindi essere elevato. Ma si consideri poi il piano inferiore dell’essere: la materia. È di essa che il Creatore si è servito per costruire tutta la scala cosmica: elevandola al piano della vita e poi del senso e poi di strumento dello stesso pensiero. *

In tale sorprendente quadro del divino operare viene spontanea pertanto la ipotesi che, al di 1à degli orizzonti direttamente raggiungibili dall’indagine razionale, vi sia qualcosa di ancor più sorprendente nell’opera co387

smica divina: e proprio nella linea delle suddette ca-

ratteristiche. Nella munificente e disinteressatissima linea dell’e/ffusione benefica di Dio nel cosmo v’è già l’impressionante fatto d’un essere infinitamente perfetto che si china, operoso e gratuitamente benefico, sulle povere creature. È possibile che la ragione umana che ha dedotto tutto ciò abbia esaurito tutto il mistero di cotesto chinarsi di Dio sul mondo ? Fatti arditi da tale naturale scoperta e pensando che in Dio — infinito — sono da attendersi piuttosto i vertici che le mezze misure, si osa avanzare l’ipotesi della massima espressione di tale inchinarsi, che sarebbe lo scendere proprio, in rassomiglianza di natura, nel mondo umano, a impreziosire suoi doni con la sua visibile presenza e magari col suo sacrificio. Ed ecco infatti la rivelazione dell’incarnazione di Dio e della sua morte — nella natura umana assunta — per la salvezza degli uomini. Ecco Gesù. 1

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Nella linea poi della progressiva elevazione della materia, sorge spontanea la domanda se debba proprio essersi fermata al piano dell’uomo naturale, che posto come è al confine dei due regni della materia stessa e dello spirito (mentre gli Angeli sono puri spiriti), li congiunge bensì mirabilmente insieme e in qualche modo riassume tutto 1l cosmo, ma resta tuttavia a infinita distanza dalle altezze di Dio. Vien fatto di prospettarsi una ulteriore ascesa di tutto il cosmo — così riassunto nell’uomo verso Dio, così da superare in qualche modo quella infinita distanza e in qualche modo toccare Dio. Ciò non con un arricchimento ulteriore nel piano naturale, ma staccandosene, per dir così, perpendicolarmente e superando tutta la natura per assimilarsi a Dio. È l’ascesa soprannaturale: effettivamente rivelata. —

388

Il prezzo dell’anima Siamo evidentemente nella linea avanzata dell’incredibile, cioè dell’assolutamente superiore alle ristrette possibilità e visioni umane: come deve sempre essere - dicevamo — quando si toccano le possibilità e i segreti intimi dell’infinito Iddio. Non solo un Dio benefico, ma incarnato e morto per gli uomini: Gesù crocifisso per l’umana salvezza, Gesù Salvatore Salvezza vuol dire superamento per l’anima della grande prova terrena e conquista del felice « al di 1à ». Ecco il dramma dell’anima — già precedentemente considerato sul piano naturale — che sul piano soprannaturale diventa ora il fulgente dramma di Dio, la tragedia di Dio: d’un Dio che s’incarna e come incarnato muore, per rendere l’anima vittoriosa e felice. La vittoria, ossia l’adempimento della missione cosmica e del divino volere, consisteranno nel credere e amorosamente aderire all’Uomo Dio Gesù implicitamente, per quelli che non ne hanno potuto avere conoscenza — e nel raccogliere le grazie sostenitrici della virtù da lui meritate — per tutti gli uomini — con la sua passione e morte. Sicché l’« al di 1à » è indissolubilmente congiunto all’olocausto infinitamente meritorio del divino mediatore. Il domani felice sarà di coloro che hanno volenterosamente raccolto i frutti di tale divino sacrificio, l’infelice di coloro che li hanno sperperati. L’anima e la vita sono così svelati nel loro sconfinato valore: che è divino valore. L’alternativa di ogni istante — quell’istante che si eternizza nel suo valore morale, come titolo di premio o di condanna futura — non è più soltanto di attuare o infrangere il divino volere, non è più soltanto di corrispondere o meno alla divina grazia sostenitrice !



389

dell’anima per dire «sì» a quel volere, ma è di raccogliere o far cadere invano il sangue di Cristo, fonte meritoria di tutte coteste grazie.

La sublime grandezza del fatto apparisce ancora più impressionante se si fa un’ulteriore riflessione e si corregge un facile equivoco. L’eguivoco è che tale olocausto trovi la sua ovvia giustificazione nel gran numero degli uomini da salvare. Ciò si potrebbe solo pensare dimenticando di quale olocausto parla la rivelazione cristiana, che è l’olocausto del Creatore stesso dell’universo, chinatosi sulla creatura umana fino a incarnarsi e a morire per essa: un olocausto cioè infinito. Ora, anche a prescindere dalle previsioni probabili della fisica circa la degradazione evolutiva cosmica, nel quadro dottrinale cattolico che in questa nostra considerazione è presupposto, 1l termine dell’umanità è cosa sicura. Il numero degli uomini perciò, anche se grandissimo, non sarà mai infinito. Cotesto grande numero perciò, essendo finito, non potrà mai coin quanto numero — un titolo adeguato delstituire l’anfinito olocausto. Bisogna pensare quindi che non sia il numero, ma la qualità, l’anima cioè in quanto tale — ogni singola anima — che si adegui a tale divino intervento. Se un’anima in sé non avesse misteriosamente giustificato, in qualche modo, tale infinito prezzo di riscatto, nemmeno miliardi e miliardi lo avrebbero potuto. Anche dunque un’anima sola Così appare la stupefacente proporzione tra l’anima l'infinito Dio: tra il dramma umano e l’amoumana roso e tragico dramma divino, —

!

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390

FULGORI

E

TENEBRE

Nella divina luce L’altro mistero di sconfinata elevazione armonizza perfettamente col precedente. La stessa infinita munificenza dell’immolazione divina fa pensare a effetti proporzionatamente prodigiosi. Un più profondo inchinarsi della divina bontà misericordiosa verso la creatura non poteva concepirsi. Ma essendo un inchinarsi per elevare, al massimo inchinarsi doveva corrispondere, nella beneficata creatura, la massima elevazione. Quell’« al di là» felice conquistato all’uomo dal sangue di Cristo — prezzo di divino valore — era da attendersi che si chiamasse con una parola abbagliante: Paradiso. Le proporzioni col livello umano naturale sono infinitamente superate dalla soprannaturale elevazione, valicatrice delle sconfinate distanze dello spirito fino

al seno di Dio.

il ritorno a Dio della mente il finalismo cosmico, 1l contatto cosecondo umana, sciente cioè con Dio, non avrebbe potuto avvenire che estrinsecamente, per razionale deduzione e conquista di conoscenza, di amore e di opere. L’«al di 1là » interminabile e felice non poteva vincere l’impossibilità del finito di immergersi nell’infinito.

Naturalmente parlando,

391

L’elevazione soprannaturale ha vinto questa 1mpos-

sibilità. La futura eterna vita umana sarà la partecipazione della stessa eterna vita divina. L’anima — un giorno raggiunta dal corpo — si troverà direttamente penetrata dall’intimo fulgore della luce di Dio e inebriata della stessa sua beatitudine. Ecco l’ineffabile meta del pellegrinaggio terreno, l’opera prodigiosa della grazia. La materia non può da sé elevarsi al piano della vita. Ma l’anima ve la solleva. La vita umana sarebbe assurdo pensare che potesse sollevarsi al piano della vita divina. Ma la grazia soprannaturale, in qualche modo, ve la eleva.

È evidente l’impossibilità di concepire ora intrinsecamente il Paradiso. È la medesima impossibilità per cui non possiamo penetrare ora l’essenza infinita di Dio. Tale impossibilità spiega la puerile concezione che a volte può sfiorare la mente, d’una vita paradisiaca a lungo andare monotona, accidiosa, e noiosa. Federico Hoyle, di cui già cogliemmo la disinvolta logica non esita a dire: « Nella loro ansietà di evitare l’idea che la morte sia la fine completa delle loro esistenze, (i cristiani) mi suggeriscono ciò che per me è un'alternativa ugualmente orribile. Se mi fosse lasciata la scelta quanto tempo 10 desiderereì vivere con il mio presente corredo fisico e mentale, preferirei un’età molto maggiore di settant'anni, però dubito se sarebbe saggio di risolvermi per più di trecento anni. Già mi sono reso conto della mia ristrettezza di mente e penso che trecento anni sia+

1

392

Cfr. p. 348 s.

no già abbastanza lunghi a sopportarla. Ma ciò che i cristiani mi offrono è un’eternità di speranza frustrata. Mi sorprende 1l fatto strano che i cristiani abbiano così poco da dire intorno al modo con cui si figurano di pas-

sare l’eternità... ». Invece nessuna vita più intensa di quella in Dio, dove non ci sono potenzialità, capacità e aspirazioni insaziate, ma v'è attualità pura e perfezione e appagamento infinito e dove l’eternità è come tutta raccolta in un unico profondissimo istante di luce e di amore. Il Paradiso sarà per l’anima beata una ineffabile partecipazione di tale infinito e interminabile istante. :R

Una sola impossibilità — felicissima l’anima vi troverà: di poter perdere tale beatitudine ormai conquistata per sempre, essendo finita la prova. Ed è facile comprenderne la ragione intrinseca. La prova suppone l’esercizio della libertà, che è fonte del merito. Ma la libertà, ossia il dominio dell’atto volitivo, può aversi verso questa o quella cosa, cioè verso questo o quel bene, non verso il « bene » genericamente considerato. È una facile constatazione d’esperienza. Anche quando uno si sacrifica, lo fa sempre per qualcosa — una persona, un’ideale — che gli piace. La tendenza al « bene » in genere è tendenza legata alla natura e l’anima non ne è libera: come rispettivamente 1l senso non è libero di sentire o non sentire l’attrattiva all’oggetto particolare che lo appaga. Ora il possesso di Dio è la concretizzazione di tale generico bene, essendo Dio bene infinito che assomma e trascende ogni altro bene. Appunto cioè perché infinito ne appagherà tutta la naturale tendenza, senza lasciare alcun margine per l’elezione di altri beni, —

‘303

Felice impossibilità che è come il prezioso sigillo di

tale infinita beatitudine. Non vi sarà scelta tra bene e bene, perché si possederà tutto 1l bene.

Nelle tenebre Già vedemmo la tremenda alternativa dell’interminabile domani felice o infelice. Anche a questo riguardo la rivelazione cristiana sviluppa e accresce la realtà razionalmente nota, ma in un modo così coerente e così armonizzante con le altre verità rivelate da essere in qualche modo prevedibile. Benché si tratti in questo caso di paurosissima previsione.

La prospettiva della felicità beata, d’intensità 1immensamente superiore a quella umanamente concepibile Paradiso suggerisce facilmente una contrapposta e proporzionata inimmaginabile intensità della sofferenza punitiva. La rivelazione coglie infatti dalle divine labbra di Gesù la fulminante parola: Inferno. Già l’eternità, anche sul piano naturale, sì era presentata alla nostra analisi con caratteri immensamente superiori alla esperienza terrestre. Sarebbe stato però sempre 1l piano della natura. Ma ora si presenta un’intensità sconfinatamente maggiore dell’immaginabile, nella gioia e nel dolore, perché corrispondente alla superiorità del piano soprannaturale in cui è stata portata la vita dell’uomo — piano meritoriamente accolto o colpevolmente calpestato — e perché il prezzo dei proporzionati aiuti soprannaturali raccolti o respinti — è stato l'infinito olocausto del Divin Redentore. La posta in gioco è troppo alta perché l’alternativa di vittoria o sconfitta non sia proporzionatamente enorme. —





394

Il dramma dell’anima acquista la vibrazione inten-

sa di gaudio divino o diabolico dolore, insieme al corpo

che un giorno la seguirà. E la tragedia della possibile sconfitta acquista il triplice orrore di tanta beatitudine perduta, di tanto dolore acquistato, di tanto amore, di tanto dolore divino e di tante grazie respinte.

Quanto all’interminabilità, la rivelazione non aggiunge, per sé, niente a quello che con la pura analisi razionale avevamo scoperto. Ma è l’intensità — di gioia e di dolore — che la rivelazione modifica nella proporzione nuova della soprannaturalità. La simmetria delle due sorti opposte è meravigliosa e spaventosa, anche a riguardo dell’impossibilità d’interrompere e cambiare lo stato raggiunto. Quell’immutabilità che risultò dalla nostra indagine razionale, in conseguenza del fatto che è finito il tempo di prova, si presenta ora con uno speciale chiarissimo fondamento. L’adesione indistruttibile all’amorosa e beata sorte, dovuta allo splendore beatifico della divina essenza, ha il suo riscontro nell’opposta adesione indistruttibile alla disperata e maledetta sorte, dovuta alla completa assenza della liberatrice luce e grazia divina.

Vi sono tenebre e tenebre. V’è l’oscurità della notte: ed è vera, rispetto al giorno; eppure vi sono le stelle, e 1l cielo non è mai completamente oscuro. Se fosse tolta assolutamente ogni luce, allora, sì, ove fossse perduto 11 difficile sentiero, non si ritroverebbe più. 395

La vita soprannaturale descritta dalla rivelazione cristiana, per il fatto stesso di essere superiore alla natura, non può conservarsi che col proporzionato aiuto della grazia e col divino legame dell’amore, della carità: luce di grazia e di amore Donata inesauribilmente nell’« al di qua » nel tempo della prova, tale luce, se colpevolmente respinta, nell’« al di 1à » non è più donata. Neanche un raggio ne penetra più in quel regno. E il ritrovamento del sentiero del pentimento è impossibile. Né v’è una luce inferiore che possa sostituirla. Il dannato, privato irrimediabilmente del divino amore, è incatenato al suo odio, che è quanto dire alle tenebre in cui è immerso. Tanto che, mentre ne subisce l’atroce tormento ed è a contatto con la fiamma spietata, non vuole uscirne: perché ciò significherebbe ritrovare 1l divino amore e la grazia che dovrebbe venirgli dall’alto, ma che ormai, essendo finita la prova, non gli sarà mai più data. Anziché ritrovare il sentiero del pentimento, egli resta nell’abisso della bestemmia e della disperazione. Questo 11 balenante delineamento dell'inferno, nella rivelazione di Gesù! Come prima abbiamo visto la sconfinata luce della sua rivelazione paradisiaca.

Sono dottrine di fede religiosa, che presuppongono la

dimostrazione previa della verità cristiana. Ma comunque, chi ha scoperto anche già soltanto con la pura analisi razionale della realtà cosmica l’esistenza dell’anima spirituale e anche solo intravista quella dello spirito creatore, chi ha scoperto l’« al di là » interminabile e anche solo intravista al divina sanzione, —

396



considerando che tali dottrine sono affermate dalla più evoluta religione della verità e dell’amore e si ritrovano, con insistenza, sulle labbra di Gesù, non può leggermente alzare le spalle: né alla rivelazione di luce, né alla rivelazione di tenebre. Deve logicamente restare pensoso: molto pensoso. Perché la noncuranza non può mutare la verità delle cose: se così è.

La noncuranza potrebbe proprio significare quel disprezzo della divina luce di grazia, capace di far perdere la luce paradisiaca e condurre alle tenebre eterne.

307

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Immanenza soprannaturale Le precedenti considerazioni sulla meta possono ren-

dere più chiara l’altezza e l’importanza del cammino che vi conduce: ossia la soprannaturalità del terreno periodo di prova. Potremo ora terminare il volume con gli aspetti più pratici del problema.

La meta paradisiaca, partecipazione alla vita divina, è il coronamento della vita soprannaturale. Ma la vita è immanente al vivente e si svolge con lui. Analogamente la vita soprannaturale, rivelata dal Cristianesimo. Non può pensarsi il Paradiso come un premio trascendente e divino a una creatura, meritevole bensì, ma per una prova puramente umana. A tale creatura potrà essere corona il Limbo, dove si pensa infatti che vadano le anime che senza colpa — bambini morti prima del battesimo non hanno avuto la possibilità di incontrarsi con la grazia. Il Paradiso deve essere la corona divina d’una vita divina, il frutto soprannaturale celeste della soprannaturale pianta terrena. Questa vita divina cioè deve già svolgersi nell’anima durante il tempo della prova. Svolgersi, accrescersi, più o meno rapida e fiorente, o anche perdersi. 1



SS

Il divino olocausto di Gesù è la fonte meritoria del Paradiso, in quanto è fonte meritoria della vita divina dell’anima in terra: che fruttificherà nel Paradiso. È la fonte meritoria cioè della grazia, che è il principio di tale vita soprannaturale o divina. Analizzando meglio i dati della rivelazione, l’analogia con la vita naturale si ritrova — con mirabile armonia — in pieno. Come 1l principio della vita naturale è l’anima, così nell’anima, 1l principio della vita soprannaturale, ossia della vitale divinizzazione, è la grazia santi ficante. Come le potenze operanti della vita naturale dell’anima sono l'intelletto e la volontà, così per le operazioni divine dell’anima vi sono le virtu infuse (teologiche: fede, speranza carità; e morali) elevatrici appunto dell'intelletto e della volontà. Il quadro sembrerebbe completo, ma non lo è; ed è qui che apparisce il suggestivo realismo della dottrina rivelata e dei preziosi suoi chiarimenti teologici. Per un dono speciale del Creatore, come vedemmo, l’antagonismo anima-corpo mortale non esisteva prima del peccato originale. Ma questo, oltre far perdere all’anima la vita soprannaturale in cui era stata creata, le tolse quel dono speciale e la lasciò nel suo inevitabile regime di lotta. La vita soprannaturale è ridonata all’anima, con la grazia santificante; ma non le è ridonato quell’iniziale pacifico dominio dei sensi: come l’esperienza dimostra. Ciò rende più meritorio il periodo terreno di prova, ma indubbiamente anche più difficile. La sublimazione divina dell’anima con la grazia santificante e con le corrispondenti virtù infuse, non elimina questo substrato cro399

nicamente debole, derivante dal dualismo anima-corpoò. E la condizione è tale da prevedere, prima o poi, il cedimento colpevole dell’anima, davanti alle più irruenti passioni, e la sconfitta 1. Nella rivelazione cristiana, che è tutto un programma di salvezza e santità, il fatto assume evidentemente una importanza essenziale. Il tocco di Dio Qui compare l’aspetto più commovente del chinarsi misericordioso di Dio sull’anima. Più commovente e più intimo perché non riguarda un’elevazione soltanto iniziale dell’anima, ma l’intervento attivo di Dio nello spirito umano nei singoli momenti del bisogno, il tocco sostenitore di Dio perché la creatura non crolli. Sono le buone ispirazioni soprannaturali, le spinte salutari all’animo barcollante, che non mancheranno mai

se saranno impetrate.

E appunto perché vengono come atti particolari, nel bisogno, si chiamano «grazie attuali » Questo intervento divino, essendo aggiunto in modo passeggero alle forze proprie dell’anima ed essendole estrinseco, sembra a pr'ma vista contrastare con l’interiorità e immanenza della vita soprannaturale. Ma, a considerarlo bene, ne esprime invece l’aspetto più suggestivo.

.

Ciò fu esplicitamente definito nel Conc. II di ORANGE (529), can. 10; e nel TRIDENTINO sess. VI (1547), can. 22. 1

Queste di cui parlo, che aggiungono la loro forza alle potenze soprannaturalizzate dell’anima, non vanno confuse con quelle costantemente richieste, per es., per il principio metafisico del passaggio dalla potenza all’atto, che non aggiungono alcuna forza alle potenze dell’anima, ma solo le fanno passare all’esercizio del potere che già hanno. °

400

Innanzi tutto si tratta di un intervento diretto di Dio, occasionale, bensì, ma organicamente previsto, come sostegno, nel momento del bisogno. Perciò nell’organismo soprannaturale dell’anima, oltre la grazia santificante e le virtù infuse suddette, vi sono pure delle stabili e adatte disposizioni — i doni dello Spirito Santo — che la rendono idonea ad accogliere, al momento opportuno, coteste divine ispirazioni. Si possono molto bene rassomigliare alle vele aggiunte a una nave a elica. Il funzionamento del motore quale potenza stabile e intrinseca rappresenta l’esercizio delle virtù infuse. Le vele, capaci di raccogliere il soffio eventuale del vento favorevole, rappresentano tali doni dello Spirito Santo. Il vento che tempestivamente vi soffia e che aggiunge la sua spinta alla spinta dell’elica, rappresenta le suddette ispirazioni. Ora è vero che tale intervento saltuario, provenendo direttamente da Dio e non dalle intrinseche forze dell’anima, è un qualcosa di estrinseco. Ma ecco in quale altro senso l’immanenza acquista il suo apetto più commovente. Dove è questo Dio che soffia, per così dire, nelle vele dell’anima, con le sue ispirazioni ? La rivelazione cristiana dice una parola che disorienta per la sua grandezza: questo Dio è nell’aniina stessa, 1 come nel suo tabernacolo, nel suo tempio Ora la visione è completa: è folgorante di grandezza divina. La vita soprannaturale dell’anima, la sua elevazione agli orizzonti divini, mediante l’infusione della grazia, quella sua specie di divinazione che un giorno la renderà degna e capace di partecipare alla stessa eterna !

1

Cfr. Giovanni 14, 23; I Corinti, 6, 19;

11

Corinti, 6, 16. 401

26

beatitudine di Dio, è contrassegnata, fin dal periodo terreno, dalla ineffabile presenza di lui. Presenza attiva, di prezioso e indispensabile sostegno. *

Di fronte ad affermazioni così grandiose bisognerà avere la saggezza di non voler capire troppo, per non cadere nella disgrazia di non capire niente. Non è un risultato di pura analisi razionale, ma un segreto della

rivelazione divina. Riguardando lo spirito, tale segreto non potrà essere afferrato dall’immaginazione che in maniera lontanamente analogica; e riguardando l’infinito Dio, non potrà nemmeno essere chiar'to completamente dall’umana finita intelligenza. Il modo resterà, per noi, in terra, sempre un mistero; il fatto è certo, in quanto rivelato, per chi crede nel Cristianesimo come religione divina. Per chi crede in questa rivelazione è tanto naturale incontrarsi col mistero quanto riconoscere che la finitezza umana non può abbracciare e comsegreti dell’infinità divina. La sorpresa e prendere l’assurdo si avrebbe a non incontrarsi col mistero. Certo non si penserà a una localizzazione di Dio nell’anima, come di un oggetto materiale in uno scrigno, trattandosi dell'infinito spirito che dimora nello spirito umano. Nemmeno si potrà pensare a un permeare l’anima, come l’anima permea e informa il corpo e lo rende vivente, perché ciò rende l’anima — nel piano vegetativo — un qualcosa che si proporziona alla materia come « comprincipio » del vivente, mentre nel piano propriamente umano la rende 1l principio del « totale » io. Il divino spirito invece trascende infinitamente l’anima umana e la trova già elevata soprannaturalmente dalla grazia, 1

402

offrendole soltanto nelle necessità i suddetti aiuti. Ma è proprio per questa differenza che, mentre l’individuo umano non può dire esattamente: « io sono il tempio dell’anima », l’anima invece (e con essa l’individuo umano) può dire: «io sono il tempio di Dio », possedendolo realmente come natura e dimora già antecedentemente completa. E, mentre l’atto vitale (del corpo in quanto in-

formato dall’anima) non può dirsi l’atto dell'anima, ma del corpo vivificato dall’anima, cotesto tocco corroborante di Dio ospite può e deve dirsi atto di Dio, presentando quindi l’infinita nobiltà del suo aiuto diretto. Anima paradiso Un raccostamento brilla ora spontaneo, troppo bello perché, nonostante la fugacità di questi rilievi, si possa

omettere. L’eterna beatitudine non è anch’essa 1l possesso di Dio ? Trovarsi a diretto contatto con l'infinito divino splendore ed essere penetrati dalla divina beatitudine è possederlo. Un corpo possiede qualcosa tenendolo o ingerendolo. Uno spirito prendendolo col pensiero e godendolo con la volontà: il che nel Paradiso avverrà, rispetto a Dio proprio in sé considerato — « faccia a faccia »1, « quale egli è »? — costituendone il beatificante possesso.

L’anima soprannaturalizzata dalla grazia è, secondo la rivelazione, tempio di questo stesso Dio, lo possiede quindi proprio nella misteriosa immediatezza della sua presenza, ed è quindi già un Paradiso: un Paradiso in

1] 2?

Cornti,

Giovanni,

13, 12. 3, 2

1,

403 20*

boccio, che sboccerà un giorno; un Paradiso nascosto, che si svelerà un giorno. Oggi non è beatificante perché nascosto, domani lo sarà perché svelato: come se in uno scrigno prezioso ci fosse già una gemma, che poi, ad aprirlo, apparirà in tutto 1l suo splendore.

Ma il Paradiso, in quanto premio, deve necessaria-

mente avere una gradazione. Nella grande visione dantesca le anime beate hanno tutte la loro distinta sede, felice ciascuna di trovarsi nel posto meritato. Così risponde a Dante Piccarda Frate, la nostra volontà quieta virtù di carità, che fa volerne sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta. (Paradiso, III, 70-72)

tratterà dunque

di un possesso di Dio, completo Dio non si divide: o si possiede o non per tutti, perché Si

si possiede; ma più o meno luminoso,

penetrante

e bea-

tificante. Il che potrebbe anche esprimersi, benché con qualche improprietà, come possesso maggiore o minore

di Dio t. Ma ciò deve essere deciso in terra, durante il periodo di prova. Tale misura di Paradiso deve quindi corrispondere esattamente alla misura della più o meno penetrante presenza dell’ospite divino nell’anima terrena. Nel pasLa teologia cattolica sintetizza questo fatto con due parole scultoree: « totus, sed non totaliter ». 1

404

saggio all’« al di là » si aprirà lo scrigno dell’anima e si svelerà beatificante la perla preziosa con la grandezza già in terra raggiunta. Quando la perla è nello scrigno vivo del crostaceo che la produce in fondo al mare, può sempre più accrescersi, ma tirata fuori, resta quella che è. Così la perla del Paradiso potrà accrescersi finché è posseduta nascosta nel mare della vita terrena; ma poi, quando, usciti da tale mare — nell’«al di 1à» —, sarà svelata, resterà eternamente quella che è. Enormi responsabilità di gaudio eterno, che impreziosiscono e fanno vibrare la vita.

Pasta poi riflettere che tale divina presenza nell’anima terrena dipende dalla sua elevazione soprannaturale prodotta dalla grazia per intuire che essa (ossia

il Paradiso nascosto) si proporzionerà alla grazia stessa

(grazia santificante). Si ha così la più suggestiva visione della crescita della vita e dell’organismo soprannaturale. Crescita di grazia infusa, aumento di livello soprannaturale o di divinizzazione e aumento di divina presenza, ossia di Paradiso nascosto. Il che — a differenza della vita naturale — può avvenire senza limiti. Tutti i sacramenti ricevuti dopo il battesimo aumentano la grazia santificante, infusa per la prima volta nel battesimo (ed eventualmente riconquistata con la confessione) e così tutte le preghiere e le opere meritorie ?. Sono tanti continui aumenti del Paradiso nascosto di oggi e svelato di domani. 1

Si discute se queste

producano subito l’aumento

o solo

quando abbiano suscitato un maggior fervore di carità. 405

È appena necessario richiamare anche — in perfetta simmetria — l’altra alternativa tremenda. Essa completa il quadro drammatico della responsabilità terrena dell’anima: quadro fulgente di luce e balenante di tenebre. Tenebre che fanno risaltare quella luce. Come l’anima può essere di qua Paradiso nascosto, così può essere Inferno nascosto. Come il Paradiso, di là, diventerà beatitudine, così l’Inferno diventerà tormento. E come di qua il Paradiso può crescere senza limiti, così l’Inferno per le moltiplicate mortali sconfitte. Ossia, nei due casi: o il possesso più intimo ed elevante di Dio o la schiavitù più penetrante e opprimente di Satana. Questa l’alternativa sublime e tremenda prospettata dalla rivelazione, per l’anima umana, nel periodo di prova e poi nella mèta. La dottrina cristiana del Purgatorio non costituisce propriamente una terza possibilità, perchè esso non è che l’anticamera del già meritato Paradiso per il cui ingresso è solo necessaria una finale perfetta purificazione. È il ritocco dell’opera luminosa, già sostanzialmente riuscita.

Questi fugaci accenni completivi del mistero dell’anima alla luce della rivelazione cristiana, possono indubbiamente aver creato un senso di stordimento e disagio negli impreparati lettori, che pur mi abbiano seguito volentieri nell’analisi puramente razionale dell’anima nel piano naturale. Restino allora a quella. Ma non si disinteressino di quest’altra più grandiosa visione, che si riallaccia tanto armonicamente a quella. Cerchino di approfondirla, fa406

cendovi l’occhio pian piano, in modo da evitare l’abbarbagliamento di troppo improvvisa luce. E la prima preparazione resti proprio la verità cosmica naturale da cui siamo partiti, all’apice della quale troveranno 1l prodigio dello spirito umano e poi dello spirito divino. Basta riempirsi veramente della luce di questa scoperta per diventare idonei a fissarsi in luce maggiore.

È la materia, appena guardata attentamente, che svela lo spirito: lo spirito finito e lo spirito infinito. Ed è lo spirito che accende la realtà d’intensa luce. fiducioso alla ricerca L’occhio allora si volge di più grandi splendori. E il cuore verso la felicità infinita. —



407

INDICE ANALITICO embrionali, 37; mancanti invece nelle forme mature della scala dei viventi, 62. ACQUISITI (caratteri), 33, 53s., 55-57, 313.

ABBOZZI:

ACROPOLI,

11.

G. C., 208. AFFETTI umani, beffa se l’anima non esiste, 136-144. AGOSTINO (S.) (principi seminali), 31, 330.

ApDAams

ALBERI

48s.

genealogici nella paleontologia,

AL

DI LÀ, problema fondamentale, 10, 13s., 15, 16; ostilità ad ammetterlo, 10ss., 19, 67ss., 83s., 108, 115,

347, 380-382; la sua idea prova che esso esiste, 178 (cfr. Eterna vita). ANASSIMANDRO, 31. ANGELI, 273ss., 321. ANGELISMO, 239, 321. ANIMA:

vegetativa (piante), immateriale 106s., 120, 122, 160; non principio cosciente, 110; postula l’estrinseco principio cosciente, 105, 337; semplice, inestesa, 160, 161s., 244; im-

manente, permeante il corpo (forma sostanziale), 105, 112, 257s.; assorbisce le inferiori funzioni fisico-chimiche, 258; non modifica bilanci energetici, 110, 258; opera mediante gli organi, 112, 326s., 336s.; non sussistente e immortale, i

165-166.

sensitiva (animali), più immateriale della vegetativa, 119s., 122, 160, 167s., ma non totalmente non avendo operazioni autonome, 168, 236s.; opera mediante gli organi (dipendenza intrinseca), 248, 250, 258s., 337s.; assorbisce le inferiori funzioni vegetative e fisiche (come forma sostanziale), 258s.; postula l’artefice estrinseco, 337; cessa con la corruzione degli organi, 250. intellettiva (uomo): Problema fondamentale, 5, 10, 13s., 15, 16; estraneo al dibattito evoluzionista, 27s., 66, 204. Preconcetto sensibilista, 11, 12s., 19, 67ss., 83s., 92, 108, 115, 347, 380, 381, 382; preconcetto misurabilista, 7381, 115; motivo psicologico intellettuale, 68s., 373s., 382; motivo psicologico morale, 11, 12s., 19, 380382; infondatezza del preconcetto, 82ss., 85-95.

Esistenza : 1) Prova per assurdo : assurdo dell’annullamento di morte 125-135; beffa degli affetti umani, 136-144; crollo di ogni virtù, 144154, 353, 355, 361. 2) Prova diretta ? dal fenomeno della intellezione : carattere sperimentale e assoluto, risalendo dagli effetti alla causa, 169s., 171: a) Idea, come totaimente smaterializzata, 122-124, 160, 172177; b) idea dell’al di 1à eterno, 178-180; c) idea delle cose spirituali,

109

181-183; d) affermazione dell’« io », ribelle, 183-185, 185-188, 195; e) legge morale, come idea iminateriale, 195, come posta e concepita di fronte, 195s.; f) linguaggio, come espressione di idee, 196s., come contenente parole astratte 198s., come convenzionale comunicazione, 199-202; indissolubile col-

anche

leganza reciproca tra anima pensante e parola, 203; g) università dei principi logici e capacità ragionativa e deduttiva, 202-203, 204-213; sottolineamento della prova nell’erroneo pensiero hegeliano, 213; h) trionfo della scienza, capace di decifrare la’ razionalità del creato, 218s. 3) Altra prova diretta : dal fenomeno della volizione : come capacità di superamento e opposizione all’ordine fisico e sensorio, 226-229; come libero arbitrio, 229-233; reciproca colleganza tra libertà e capacità intellettiva, 234-237. Essenza: spirituale (cioè: semplice, sussistente: cfr. Spiritualità) per la totale immaterialità, 177, 178, 182, 188, 195, 199, 201, 212, 218s., 228s., 233; forma sostanziale, come unica

anima spirituale intellettiva, sensitiva, vegetativa 253-258, per avere la necessaria unità del composto corpo spirito, per le attività spirituali, 238s., 243-245, 245-248, per le attività sensitive vegetative, 250-253, per le attività fisico chimiche, 257-258; conservando piena autonomia intrinseca dalla materia: prova del sonno, 240-242; dipendenza di pura estrinseca strumentalità, 248-250; incorruttibile e quindi immortale, perché semplice e sussistente, 164. Nascita : non preesistita, 321-324; non dai genitori, 329ss.; creata da Dio: prova metafisica, 331-335, prova fisica, 336-339; animatrice del410)

l’embrione fin dall'inizio, 324-329; responsabilità morale, 329. Distacco : 252, 267s8.; conoscenza senza il corpo, 273, 367-371; immediata sanzione, 371. ANIMALI: Istinto : creduti intelligenti, 279ss.; problema qualitativo, 282s.; assurde conseguenze, 283-286; equivoco antropomorfista, 290ss. Nessuna intelligenza, 301ss.: troppo abili, 301ss., senza parola, 196s., 200, 309, 310, senza progresso, 310s; quindi non soggetti di diritto, 287. Natura dell’istinto, 296301; meravigliosi esempi, 302-307. Linguaggio, 196s., 200. Dolore, 287-290. Protezione (Società per la),

7, 280, 290. Culto, 277-278. ANTROPOCENTRISMO cosmico, 350s. « API » (bue), 277. APPETIZIONE: sensitiva, 221s; non libe-

ra, 237; volitiva (cfr. Libero arbitrio). Dadaismo).

ARAGON L., 185 (cfr. ARDIGÒ R., 18, 135. AREOPAGO, 11. ARISTOTELE,

107, 112, 196, 213, 214,

222, 328. ARISTOTELICA filosofia, 157, 160,

204ss.,

257, 339. ARMELLINI G., 214. ASTRAZIONE,

attività specifica dell’in-

telletto, 198. AVERROE,

321, 322.

BACONE F., 32. BAER C. E. von, 37. BALTHAZARD V., 261. BALZAC O., 190, 191, 192. BATHYBIUS HAECKELIl, 113. BEATRICE, 383. BENJAMIN R., 83. BERKELEY G., 68. BESANT A., 317 (cfr.

Teosofia).

BIOGENETICA (legge), 31, 37. BLAVATSKI E. P., 316 (cfr. Teosofia). BOTTAZZI F., 114,

BouLF M., 52.

BovE (poesia al), 278.

ACQUISITI, 33, 53s.,

55-57,

CARDUCCI G., 278. TARREL A., 262. CASO, è ignoranza, non

mancanza della causa determinante, 101, 102 (cfr. Combinazioni). CAUSALITÀ (principio di), 101s., 170; valevole anche nel libero arbitrio, 234. La sua idea postula lo spirito ideatore, 206.

CELACANTIDI, 49. CELLULA: 98; germinale, 106. CERVELLO (istrumentalità del),

177, 248-250. CITOLOGIA, 216. CLAUDEL P., 190, 191. CLEMENCEAU G., 83s., 92, 128s., 131, 135, 137, 144, 183s., 240, 355. 242,

e

disordinate,

101-104, 108, 171. COMTE A., 214. 193. CONCETTO,

odio

e

sopraffazione, 151,

(cfr. Idea).

E. B. de, 68, 281. N., 214. CoRPI (principi metafisici dei), 160, 165, 257s, 339. CORPUSCOLI, 88s., 158, 231.

59,

DADAISMO, 185. D’ANCONA U., 58. DANNAZIONE ETERNA:

naturale, 357361; rivelata, 395-398 (cfr. Inferno). D'ANNUNZIO G., 291. DARWIN C. R., 21, 32, 33, 38, 45, 53. DEMOCRITO, 67, 158. DESCARTES R., 32, 245, 349. DETAILLE E., 143. DINGLE H., 349. Dio: massimo problema, 9s.; postulato dall’ordine cosmico, 100, 215, dall’ordine immanente del vivente, 105, 337, e del senziente, 337; permanentemente operante, 364; benefico, 132, munifico, 386s., elevante, 387; all’apice della realtà spirituale,

157.

B., 107.

dell’anima, 252, 267s.; Conoscenza senza il corpo, 273, 367immediata sanzione, 371. 371; DOLORE degli animali, 287-290. DoNnI dello Spirito Santo, 402. DiIstTACcCO

42-44,

COMUNISMO:

35, 39, 46, 54s., 66; prova sperimentale, 60-65. CROCE B., 192, 196, 213. CROMOSOMI, 54, 98, 216, 328. CUENOT L., 33. CULLA (davanti alla), 339. CUVIER G., 21, 32.

DISERTORI

CLOROFILLIANA (funzione), 98. COLTURE IN VITRO, 263, 268.

ordinate

(Hovyle),

CREAZIONISMO,

313.

COMBINAZIONI

creatore

348s., 393s.

BUE «API», 277. BUFFON G., 32. BURIDANO G., 295. CARATTERI

senza

CREAZIONE

BRUNO G., 32. BUCHARIN N. I., 151. BUCHNER L., 67, 180.

DOSTOIEVSKIJ F. M., DRIES G., 106.

191.

DuBols E., 51.

CONDILLAC COPERNICO

DuUMA

L., 106.

157,

Cosmo, a servizio dell’uomo per tornare a Dio, 344-347, 349-352. (cfr. Supermaterialità nel cosmo). CREAZIONE (economia della): due impronte: munificenza, elevazione, 386s; conseguenti superiori attese, 387ss.

A., 74ss., 84, 92, 129, 131, 214, 225, 347; suo testamento scientifico, 78; avversari, 78. ELETTROSTATICA (macchina), 90. EINSTEIN

31, 216; sviluppo eimbrionale, 36s., 40s.; falsificazioni di Haeckel, 33.

EMBRIOLOGIA,

EMPIRISTI,

187.

411

ENERGIA, misteriosa, 89s.; corpuscoiare e continua, 158. EPIiFISI (Ghiandola pineale), pretesa

sede dell’anima, 245.

ERODE IL GRANDE, 139. ESISTENZIALISMO, 68. ETERNA vita, 10s., 13, 15, 16; felice o

infelice, 13, 355ss., 360s., 395; da conquistare, 354 (cfr. Al di là, Felicità eterna, Dannazione eterna). EULERO (principio di), 254. di moda, 8, 20ss.; EvoLUZIONISMO: 31s; stranamente euforico, 24-26, 282: biologico, 22, cosmico, 22, 126; materialista, 22s., 24, 28s., spiritualista o finalista, 23, 26, 28s., 44ss., 58s., 63, 66, 313-15; virtualità seminali, 45s., 57; evoluzione regressiva, 64. Critica: non pregiudica il

dell’esistenza dell’anima, soluzione obbligata per il materialismo, libera per lo spiritualismo, 28s.; rassomiglianze, 30-36; organi rudimentali, 37-39, apparente facilità, 29ss., 39ss., 315316; presunti fattori determinanti 53ss. (cfr. Genetica ed Embriologia); mutazioni (cfr. Mutazionismo); anelli di congiunzione, 47ss., 312ss. Prova sperimentale antievoluzionista: mancanza di abbozzi nella scala cosmica dei viventi, 60-65. problema

27s.,

66,

204;

FELICE (Preside), 11, 12. FELICITÀ ETERNA, naturale, 355, 360s.;

soprannaturale (Paradiso), 392, 394s., 395, 399; da conquistare, 354-356. FENOMENISMO, 68. FINE che giustifica i mezzi (machiavellico), 152. FINE PROSSIMO del cosmo, l’uomo, 347, 350s. FINE ULTIMO del cosmo e dell’uormno: assurdo della morte di annullamento, nell’uomo, 125-135; uguale assurdo nel cosmo, la cui creazione è giustificata solo dall’anima uma412

na, che

lo

riferisce all’eternità, 342-

344, 353; le creature debbono tornare a Dio glorificandolo, 345, e il cosino vi torna mediante l’uomo, 344-347; tale ritorno a Dio è a esclusivo vantaggio dell’uomo, 345, 347, 350, 387; per la sua felicità eterna, da conquistare, 354-356 (cfr. Felicità eterna). FocH F., 144. FORMA SOSTANZIALE,, 157, 160 165, 257, 266, 339. FRANKE C., 180. FREUD S., 185, 368. FuUTURISMO, 184. GALILEO G., 71s., 214. GALLE G. G., 208. GAuUss C. F., 254. GENERAZIONE SPONTANEA, 58, 112-114. GENETICA, 53, 54, 56, 57, 63, 216, 327s.

GENI, 54, 98, 216. GENOCIDIO, 286.

proclamatore della realtà spirituale, 94; massima effusione di Dio, 388; Salvatore, 388, 399; per ognuno,

GESÙ,

390s.

GENTILE

G., 68, 213.

GEOCENTRISMO, 351. GHIANDOLA PINEALE,

(cfr. Epifisi).

GIDE A., 190, 375. GINI C., 108s. GIOVANNI (S.), 69. GIULIANO S. (bandito), 189. GIUSTIZIA DIVINA, 365ss. GRAAFF R. J. van, 90. GRAZIA SANTIFICANTE, 400. GRAZIE ATTUALI, 401. GUITRY S$., 135.

E., 31, 58, 106, 113; falsificazioni, 33. HAMILTON (principio di), 254. HAECKEL

HARVEY G., 31. HEGEL C., 68, 198, 213.

W., principio d'indeterminazione, 78s., 102, 180, 231. Contro Einstein, 78,

HEISENBERG

HERSCHELL G., 208. HERTZ (principio di), 254.

His G., 327. HITLER A., 183. HoBBES T., 150, 223. HOyLE F., 348s., 393s. HumE D., 68, 74, 186, 187, 206. HUXLEY T., 113, 114. della vita, 105, 112, 257s.; modifica i bilanci energetici,

IMMANENZA

non

110, 258.

diversi gradi, 156; (cfr. Supermaterialità). IMMORTALITÀ, postulata per l’anima dall’assurdo della morte annullatrice, 133; conseguenza della incorruttibilità (cfr. Incorruttibità). IMPARZIALITÀ d’indagine, 12s., 20 (cfr. Anima intellettiva, problema fondamentale, pregiudiziale sensibilista). INABITAZIONE della Trinità nell’anima, IMMATERIALITÀ:

semplicità,

157

40 3ss.

INCARNAZIONE, 388. INCORRUTTIBILITÀ, derivante plicità e sussistenza, 164.

da sem-

(principio di) (cfr. Heisenberg). INFERNO, 395-398; nascosto in vita e diverso per ognuno, 407 (cfr. Dannazione eterna). INFUSIONE dell’anima, fin dall’inizio, 324-329; responsabilità morale, 329. INTEGRITÀ (dono di), 378. INTELLEZIONE: rivelatrice dell’esistenza dell’anima spirituale (cfr. Anima intellettiva: esistenza, 2); mediante i sensi, in terra, come strumenti estrinseci, 203, 248-250; senza i sensi, dopo il distacco, 273, 367-371. 10 », sottolineato dalle personalità ribelli, 183-185; prova dell’esistenza dell’anima, 185-188, 195. «To» hegeliano, 187. IPNOSI SENSIBILISTA, derivante da legge psicologica, 68s. 373s., 392. INDETERMINAZIONE

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