Il mio cinema. Conversazioni con Philip French 8880120085, 9788880120087

Le Mani 1994brossura, 13,5x21, 290 ppVolume nuovo ancora nel cellophane editoriale  Per ogni problema, domanda, foto o n

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Italian Pages 290 [292] Year 1994

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Il mio cinema. Conversazioni con Philip French
 8880120085, 9788880120087

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Louis Malle

Il mio cinema

conversazioni a cura di Philip French

Edizione originale: Malle on Malle, edited by Philip French, Faber and Faber, Ltd. London 1992

Traduzione italiana di Annalisa Spotti 1 Edizione 1994

© 1994 Le Mani ■ Microart’s Edizioni, via dei Fieschi 1 16036 Recco - Genova tei. 0185 - 720512

ISBN-88-8012-008-5

Indice

pag.

7

I. Parigi e gli anni di formazione

»

15

II. Tempo passato, tempo presente

>

63

III. Scene della vita di provincia

»

97

IV. L’esperienza americana

»

135

V. Il ritorno

»

195

VI. Il danno

»

231

Epilogo

»

241

Filmografia

»

245

Bibliografia

»

277

Introduzione

271

Ringraziamenti

Indice dei nomi e dei film

»

279

Introduzione

Louis Malle ha festeggiato il suo sessantesimo complean­ no nel 1992, poco dopo aver concluso la postproduzione di // danno, il suo trentesimo lungometraggio, e trentasei anni dopo aver vinto insieme a Jacques Cousteau, come coregista di // mondo del silenzio, la Palma d’oro a Cannes e un Oscar a Hollywood, per il miglior documentario. Malie è nato il 30 ottobre 1932 a Thumeries, una citta­ dina a sud di Lille, in una triste area industriale della Fran­ cia settentrionale, vicino alla frontiera con il Belgio, che fa pensare a quel Lancashire meridionale, tra Liverpool e Man­ chester, punteggiato di città minerarie, dove trascorsi la mia infanzia. Thumeries deve la sua esistenza a un’unica fabbrica, una delle più importanti d’Europa nel suo genere. Vi si produ­ ce lo zucchero tramite la lavorazione delle barbabietole col­ tivate nella regione, che si vedono accatastate dappertutto in enormi pile. A fianco dell’unica banca della città c’è un solo ristorante chiamato, assai opportunamente, «La Sucrière». Il fumo che esce dalla fabbrica significa prosperità. L’im­ presa apparteneva alla famiglia Béghin. Fran^oise, la madre di Louis Malie, era una Béghin e Pierre, il marito, un alsa­ ziano ex ufficiale di marina, dirigeva la fabbrica, accanto alla quale c’era la grande casa dove furono allevati, nel rispetto del più rigido cattolicesimo, i quattro figli (Louis era il ter­ zo) e le tre figlie, affidati in tenera età a istitutori privati. Non c’è nulla che contraddistingua Thumeries: malgra­ do i suoi mille anni di esistenza, essa non vanta alcun titolo 7

// mio cinema

di gloria, tranne il fatto di essere la sede delle raffinerie Béghin e la città natale di Louis Malie. Se ci si arriva, può esse­ re solo per affari o per caso, e per visitarla tutta ci vuole ben poco tempo. Gli appassionati di cinema che vi si reca­ no saranno felici di constatare che la strada principale è stata ribattezzata, dopo la seconda guerra mondiale, con il no­ me del grande statista socialista Léon Blum (1872-1950), che fu per tre volte primo ministro, e ricorderanno allora le pa­ role pronunciate dalla madre di Julien Quentin, in Arrive­ derci ragazzi, che riprendono quasi letteralmente quelle del­ la cattolicissima madre di Malie: «Sapete, non ho niente con­ tro gli ebrei. Tutt’altro. A parte questo Leon Blum, sia chia­ ro. Meriterebbe di essere impiccato». Nel 1940, all'inizio dell'occupazione, la famiglia di Mal­ ie si stabilì a Parigi, dove Louis e i suoi fratelli vennero man­ dati a scuola dai gesuiti, prima di entrare nel collegio dei carmelitani a Fontainebleau. Malle non ha ancora fatto un film ambientato nel paesaggio della sua infanzia, ma in II ladro di Parigi il protagonista, un ladro gentiluomo dell'e­ tà vittoriana, svaligia le case della vanitosa alta borghesia belga, proprio dall’altra parte della frontiera. Più tardi Mal­ ie seguì i corsi di Scienze politiche alla Sorbona, e quelli di cinema all’IDHEC, l’Institut des Hautes Études Cinématographiques. Al termine del primo anno all’IDHEC venne as­ sunto dal comandante Cousteau, e dopo tre anni a bordo della «Calypso» la sua carriera di cineasta si poteva dire av­ viata. Un breve incontro con Jacques Tati, e poi la collaborazione con Robert Bresson, precederanno il suo debutto nella fiction, che avvenne con Ascensore per il patibolo. Anticipava così quei critici cinematografici, divenuti poi registi, che costituirono lo zoccolo duro della Nouvelie Va­ gue (termine coniato dalla rivista «L’Express»), ma egli non ebbe mai un atteggiamento critico verso i registi della ge­ nerazione precedente che, secondo un’abitudine allora in voga, venivano considerati i rappresentanti del «cinema di papà». Poiché Henri Decaè, il suo capo operatore, aveva la­ vorato ai primi film di Claude Chabrol e di Francois Truf­ faut, venne associato, sia dalla critica sia dalla cronaca mon­ dana, a questi ultimi. 1 collaboratori dei «Cahiers du ciné8

introduzione

ma» lo salutarono come uno di loro, e Truffaut fece l’elo­ gio di Les amants e Zazie nel metrò. Ma, al contrario di Go­ dard o Truffaut, i suoi film non attiravano la massiccia at­ tenzione della critica, e si vedeva in lui un tradizionalista più che un iconoclasta. A dire il vero, le frequenti contro­ versie sollevate dai suoi film hanno a che fare più con il sog­ getto che con il modo di trattarlo; sarebbe quindi più giu­ sto vedere in questo artigiano meticoloso un innovatore del­ la tradizione più che un suo acritico seguace. Tra i cineasti della sua generazione, molti si sono per­ duti per strada, e spesso assai in fretta. Tra il 1959 e il 1963, settanta registi francesi girarono il loro primo film, ma la maggior parte di essi si fermò a questo punto. In un artico­ lo intitolato Nouuelle Vague or Jeune Cinéma («Sight and Sound», inverno 1964-1965), il critico Gilles Jacob scrive­ va profeticamente: «Tra questo germogliare di talenti nuo­ vi e disuguali si è prodotta una selezione naturale, e oggi è possibile fare una specie di bilancio: un regista di statura internazionale, Resnais, che lascerà certamente il suo no­ me nella storia; un altro, Godard, esasperante e incline all’autocompiacimento, ma che possiede uno stile e un uni­ verso propri ed è forse il più dotato della giovane genera­ zione; altri sette — Astruc, Demy, Franju, Malie, Marker, Truffaut, Varda — che non hanno probabilmente ancora espresso tutte le loro potenzialità; e infine registi che rap­ presentano ancora degli interrogativi —Jessua, Rozier, Sautet, Enrico, eccetera — perché, quale che sia il talento del­ l’autore, il primo film è obbligatoriamente, se non autobio­ grafico, almeno estremamente personale, quasi una con­ fessione». Oggi possiamo constatare che Louis Malie ha conosciu­ to pochi fallimenti clamorosi. Fin dall’esordio ha saputo am­ ministrare piuttosto bene la sua carriera; anche se la varietà dei suoi soggetti e l’assenza di uno stile omogeneo hanno spesso sconcertato i critici, la sua opera possiede una rara coerenza, di cui egli stesso non era inizialmente consape­ vole. A questo proposito, si impongono tre riflessioni. In primo luogo, dopo // mondo del silenzio e Ascenso­ re per il patibolo, Malie ha seguito un duplice percorso, o 9

Il mìo cinema

piuttosto ha mescolato due generi, il cinema di fiction e il documentario. Una peculiarità, questa, che risalterà solo nel 1970, al momento dell’uscita dell’originalissima serie di L’In­ dia fantasma. In secondo luogo, Ascensore per il patibolo contiene, seppure in forma embrionale, la maggior parte delle tema­ tiche e delle preoccupazioni che saranno trattate in modo più approfondito in seguito: un disprezzo venato di attra­ zione per l’ipocrisia della classe borghese, il jazz, il suici­ dio, il mondo degli adulti visto da una gioventù permeata di una pericolosa innocenza, uno sfondo politico sul quale si evolvono i protagonisti e che si riflette nel loro compor­ tamento, individui prigionieri del loro destino, il potere di­ struttivo della passione carnale, l’arte di cogliere una de­ terminata società nell’esatto momento in cui sta cambian­ do, il bisogno di disorientare e sconcertare, il rifiuto di da­ re direttamente un giudizio morale. Uno dei pochi elemen­ ti che mancano in quel film è l’anticlericalismo. Infine, nel 1958 Louis Malie ha rilevato la Nouvelles Éditions de Films, società fondata da Jean Thuiller, per pro­ durre il film di Bresson Un condannato a morte è fuggito, poi Ascensore per il patibolo e Les Amants. Questa piccola società, con sede a Parigi in rue du Louvre, ha coprodotto la maggior parte dei film di Malie. Egli ebbe all’inizio come socio uno dei suoi fratelli maggiori e fu con la NEF che suo fratello Vincent debuttò nel cinema a dodici anni come as­ sistente in // ladro di Parigi. Vincent divenne in seguito produttore; lavorò con Marco Ferreri in La grande abbuf­ fata e con Robert Bresson in Lancillotto e Ginevra, collaborando nel contempo a numerosi film diretti dal fratello. Vi sono solo tre film di cui Louis Malie non fu totalmente responsabile: Vita privata, l’episodio {William Wilson), rea­ lizzato per Tre passi nel delirio e Crackers. Riconoscere quindi nella sua opera una progressione e un’evoluzione continua costituisce un omaggio alla carriera di un uomo che è stato artefice del suo destino in un modo che non si riscontra spesso nel cinema. Di conseguenza, risulta logica l’articolazione di questo libro, che in sei capitoli ne segue cronologicamente il percorso. io

Inlroilttziofie

Dopo // mondo del silenzio, Malie tornò a Parigi, città che ha un ruolo fondamentale nei suoi primi cinque film di fiction, a parte Les Amanis e Vita privata, nei quali l’a­ zione non vi si svolge totalmente. Questo capitolo della sua vita si concluse con Fuoco fatuo, il suo primo capolavoro, momento culminante del periodo giovanile. Poi, fino alla fine degli anni sessanta, egli si dedicò a costosi film in co­ stume, a colori e in cinemascope, interpretati da grandi star. Improvvisamente partì per l'india, subcontinente che pos­ siede una cultura, un passato e un presente diversi dai nostri. Dopo due anni trascorsi in gran parte a montare il ma­ teriale filmato in India, Malie realizzò tre film sulla vita di provincia, due dei quali ambientati in un passato recente e il terzo, Luna nera, in un futuro prossimo, in corso di disgregazione. Attraversò poi l’Atlantico e visse i dieci anni successivi in America, dove realizzò cinque film di fiction e due documentari. Uno solo dei suoi film venne girato sotto l'egida di un grande studio, e soltanto Pretty Baby si svol­ ge nel passato. A eccezione di La mia cena con André, una conversazione tra intellettuali, questi film lo trasportarono in un contesto sociale — quello dei colletti blu e degli emar­ ginati — che egli conosceva poco per esperienza personale e che non aveva quasi mai trattato prima di allora. Farà an­ che delle variazioni su vari generi americani, come il film di gangster, Ybold-up e il film sociale in stile Warner Bros. Nei suoi documentari francesi, non aveva mai descritto le questioni sociali di base da lui esposte in Alla ricerca della felicità e in God's Country, i cui stessi titoli illustrano bene alcune delle preoccupazioni degli americani. Dopo dieci anni trascorsi negli USA, ritornò in Europa e a soggetti ispirati a quel suo passato personale temporaneamente accantonato. Naturalmente, la sua vita privata ha avuto a volte riper­ cussioni sulla sua vita professionale. Di conseguenza, ben­ ché questo libro non sia né una biografia né un'autobiogra­ fìa, sarà bene fornire alcune informazioni, in modo da chia­ rire certi suoi pensieri. La prima moglie di Louis Malie fu Anne-Marie Deschodt, alla quale egli rimase molto legato fino alla fine degli anni 11

// mio cinema

Cinquanta, prima che lei sposasse un americano e andasse a vivere a New York (la moglie di Alain, l’eroe di Fuoco fa­ tuo, lo lascia per stabilirsi a New York). Si ritrovarono nel 1964, e dopo il divorzio di Anne-Marie si risposarono in Mes­ sico durante le riprese di Viva Maria. Si separarono tre an­ ni dopo, senza aver avuto tìgli. Nel 1971 nacque il primo figlio, Manuel Cuotemoc, dal nome del nipote di Montezu­ ma, l’ultimo imperatore azteco. La madre era 1’attrice tede­ sca Gila von Weitershausen che interpretò il ruolo della pro­ stituta scelta, in Soffio al cuore, dai fratelli di Laurent per la sua iniziazione sessuale. Cuotemoc trascorse l’infanzia a Monaco e studiò alla Brown University, nel Rhode Island. Malle ebbe poi una figlia, Justine, nata nel 1974; la madre è l’attrice canadese Alexandra Stewart, che recitò in Fuoco fatuo e Luna nera. Justine fu allevata a Parigi. Nel 1980 Malie sposò fattrice americana Candice Bergen. La loro figlia Cioè nacque a New York nel 1985. Alla fine dei titoli di testa di Arrivederci ragazzi, nel momento in cui gli allievi entrano a scuola, appare sullo schermo questa dedica: «a Cuotemoc, Justine e Cioè». Fu il sindaco di Lugagnac, un borgo dell’altopiano cal­ careo di Limogne, a sud del Lot e a est di Cahors, nel sudest della Francia, a sposare Louis Malle e Candice Bergen. Verso la metà degli anni sessanta, Malie aveva comprato in quella regione una grande casa di campagna isolata e quasi in rovina. Le parti più antiche risalgono al XV secolo, ma molti interventi posteriori le conferiscono una curiosa at­ mosfera surreale. Vi sono delle scale di pietra, di larghezza diversa, che si incurvano e attorcigliano. Le stanze danno su altre stanze, alcune maestose, altre quasi monacali. La stra­ na impressione di déjà-vu che prova il visitatore si spiega con il fatto che vi venne girato Luna nera. Anche le ripre­ se di Cognome e nome: Lacombe Lucien vennero effettua­ te nei dintorni, e Milou a maggio in un castello vicino, a Le Gers. Negli ultimi venticinque anni, Malie ha scritto qui quasi tutte le sue sceneggiature, ed è molto legato a questo posto. Ha in progetto di girare un documentario sui cerca­ tori di tartufi della zona. E in questa casa che abbiamo regi­ strato la maggior parte delle nostre conversazioni, perciò 12

/ntroduzio ne

quando Malle dice «questa parte della Francia» e «qui» si ri­ ferisce a questo luogo e a volte proprio a questa casa. Dopo aver lasciato l’IDHEC per lavorare con Cousteau, il cinema fu l’occupazione esclusiva di Malie, che tuttavia si è sempre mantenuto in stretto contatto con la realtà at­ traverso i suoi documentari, acquisendo una conoscenza an­ cora più approfondita dei suoi soggetti a partire dal momen­ to in cui cominciò a tenere egli stesso in mano la macchina da presa. Non ha realizzato tutti i suoi progetti e non è sod­ disfatto di tutti i suoi film. Ma nella maggior parte dei casi ha abbandonato o rinviato certe iniziative di sua volontà. Non prova alcuna amarezza, cosa rara per un cineasta, e il suo entusiasmo per la vita, come per il cinema, è rimasto inalterato. Come dice all’inizio di God’s Country: «Che bello riprendere il cammino, girare un film e farsi degli amici». È un uomo affabile, che si fa de.gli amici lavorando, e che ama lavorare con amici, come sta a dimostrare il perdurare negli anni della sua collaborazione con diversi professioni­ sti, da un lato della macchina da presa come dall’altro. Non ama solo fare cinema, gli piace anche vederlo. Qualche an­ no fa era uscito dalla visione di Andrei Roublev di Tarkov­ skij in un tale stato di eccitazione che era tornato a vederlo la sera stessa, dopo avere convinto la gente con cui doveva cenare ad accontentarsi di un panino e ad accompagnarlo. Pochi cineasti conoscono come lui i film realizzati dalla gio­ vane generazione di entrambe Le sponde dell’Atlantico. Spero di essere riuscito a restituire il piacere che ho avuto nel parlare con Louis Malie. È un interlocutore gradevole, cortese, e, nonostante il forte accento, parla meglio lui l’in­ glese di molti colleghi inglesi. Tutti coloro che lo hanno sen­ tito alla radio, alla televisione o in pubblico potranno im­ maginare le sue intonazioni e, forse, indovinare persino in quali momenti agita il sigaro in aria o tira pensosamente dalla sua pipa.

Philip French, marzo 1992

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I - Parigi e gli anni di formazione

P.F. -1 suoi personaggi, in parte autobiografici, di Sof­ fio al cuore e Arrivederci ragazzi sono adolescenti molto più interessati alla letteratura e al jazz che non al cinema. E un fatto che riflette quelli che furono i suoi orientamenti quando aveva la loro età? L.M. - No: in realtà le mie grandi passioni erano tre. Una era la musica. Tra i quattordici e i sedici anni passai molto in fretta da Beethoven a Louis Armstrong e Charlie Parker. E poi la letteratura, naturalmente. Era accaduto che, come per il personaggio di Soffio al cuore, la mia vita venisse in­ terrotta per quasi due anni da un soffio al cuore. Così, fui tolto dal collegio e studiai a casa. Non mi fu permesso di praticare sport che richiedessero sforzi eccessivi o cose si­ mili, perciò lessi moltissimo. I personaggi di Arrivederci ragazzi e Soffio al cuore provengono da quel periodo del­ la mia vita, quando ero totalmente immerso nella letteratu­ ra. Leggevo di tutto... perfino Nietzsche, all’età di quattor­ dici anni. Era ridicolo! La mia passione per il cinema co­ minciò un po’ più tardi. A quell’epoca, a Parigi, andavo al cineclub e ricordo che scoprii, per esempio, La regola del gioco, o quel film che credo abbia determinato la mia deci­ sione di fare il regista, Les demières vacances di Roger Leenhardt1. Dovevo avere quindici o sedici anni, era subi­ to dopo la guerra. Dev’essere stato il primo film francese a prefigurare ciò che sarebbe diventata la Nouvelle Vague. Mi sentivo molto vicino alla sensibilità di Leenhardt e a quel 15

fi mia cinema

film incentrato su una famiglia borghese, con tutti gli intri­ ghi che si creano durante le vacanze. Lo vidi solo un paio di volte e non fu mai un vero e proprio punto di riferimen­ to, ma penso che Les dernières vacances abbia suscitato in me un vivo desiderio, quasi un bisogno di fare dei film. Mi piacerebbe che venisse ridistribuito; fu un’opera importan­ tissima, non solo per me, ma per tutti quelli che fecero poi parte della Nouvelle Vague.

P.F. - Godard fece recitare Roger Leenhardt in Una don­ na sposata, vero? L.M. - Sì. Leenhardt era molto ammirato, e anche se ha fatto soltanto un altro film di fiction, in compenso realizzò dei grandi, meravigliosi cortometraggi che lo resero famoso.

P.F. - Che cosa pensavano del cinema i suoi genitori e il suo ambiente familiare? Lo prendevano sul serio, al pari delle altre arti? L.M. - Non ricordo di avere discusso di cinema con i miei genitori. Con i miei due fratelli, invece, sì. Avevano sei e tre anni più di me. Bernard, il secondo, mi ha sempre in­ fluenzato molto: mi diceva cosa bisognava e cosa non bi­ sognava leggere, cosa vedere e cosa non vedere. Parlava­ mo spesso del futuro: come me, voleva fare lo scrittore, ma una volta mi disse: «Sei un tipo attivo, non potrai mai fare lo scrittore. Dovresti fare il regista». 1 miei genitori erano colti, ma non erano appassionati di cinema. Per mia madre, il film bello per eccellenza avrebbe potuto essere Monsieur Vincent2; era una donna estremamente religiosa. Non ci proibiva di andare al cinema, ma fu veramente scioccata quando le comunicai la mia intenzione di diventare regi­ sta. Veniva dall’ambiente molto tradizionalista dell’alta bor­ ghesia, e pensava che sarei stato io a dirigere un giorno l’a­ zienda di famiglia. Non so perché avesse scelto proprio me... forse perché i risultati scolastici dei miei fratelli non erano molto brillanti... si erano fatti espellere da diversi istituti. Mia madre aveva deciso che sarei andato a una scuola d’èli16

Parigi e gii anni di formazione

te, al Politecnico, per esempio, come mio nonno, e che poi avrei lavorato nell'azienda di famiglia. Non avevo ancora quattordici anni quando le dissi che volevo fare dei film: ne fu totalmente inorridita. P.F. - Esisteva una sala cinematografica, a Thumeries? Frequentava la gente del posto?

L.M. - Mi pare che ci fosse un cinema parrocchiale... le proiezioni erano organizzate dalla parrocchia... ma non so­ no certo che ci fosse un vero e proprio cinematografo, per­ ché Thumeries è vicinissima a Lille, e quando andavamo al cinema andavamo a Lille. In realtà, dopo il 1940, non vissi più a Thumeries; non avevo ancora compiuto otto anni quando ci trasferimmo a Parigi, e nel corso degli altri anni scolastici vissi a Parigi o a Fontainebleau; tornavo a Thu­ meries solo per le vacanze. P.F. - Lei, che è cresciuto sotto l’occupazione, si rende­ va conto di venire privato del cinema popolare hollywoo­ diano, e di vedere solo film francesi di un unico genere, mol­ to particolare e molto limitato? L.M. - Certo, ricordo di averne visto molti. Del resto, fu una delle epoche d’oro del cinema francese. C’erano an­ che i film tedeschi, compresi quelli di propaganda. Ricor­ do perfettamente di aver visto II barone di Mi'incbbauseri*’ nel '43 o ’44, sugli Champs Élysées. Non posso dire che i film americani mi mancassero, perché di questo cinema si ignorava quasi 1’esistenza. Prima della guerra, ero ancora piccolo. Avevo visto Biancaneve a Lille, forse nel 1938. Poi venne la guerra e non circolarono più film americani, ma ricordo perfettamente la loro esplosione nel dopoguerra. Non vidi Quarto potere quando uscì: probabilmente ero in collegio; lo vidi in un cineclub quando era già diventato un classico. Durante il regime di Vichy vedevamo moltissimi documentari e credo che i nostri genitori ci incoraggiasse­ ro ad andarli a vedere perché erano istruttivi. C’era un ci­ nema sugli Champs Élysées che proiettava soltanto quel ti­ po di pellicole. Me ne ricordo bene: fu dopo lo sbarco in 17

// min cinema

Normandia. Un giorno, un amico della mia stessa età mi dis­ se: «Devono essere stati quei film a darti il gusto del docu­ mentario». E io: «Allora deve essere successo a livello in­ conscio — risposi — perché, a dire il vero, l’unica cosa che ricordo è che alcuni erano mortalmente noiosi».

P.F. - Quando andò a Parigi nel 1940, provò un senso di sollievo ne) lasciare Thumeries? Nelle sue opere, da Les Amants ad Atlantic City e Alamo Bay, c’è sempre della gente che scappa dalla vita opprimente delle piccole città. L.M. - Quando i miei genitori decisero che saremmo stati meglio a Parigi, ci trasferimmo nell’appartamento dei miei nonni, che era immenso-, ma eravamo in tanti, e quindi ci si stava stretti. A Parigi provammo comunque un gran sen­ so di libertà. Naturalmente, i miei fratelli maggiori me ne indicarono subito la via. Siamo sempre stati molto ribelli. Per due anni andai a scuola dai gesuiti, a circa quindici mi­ nuti di strada da dove abitavamo. Mio padre restò a Thu­ meries a dirigere la fabbrica di famiglia, nella zone interdi­ te. Dato che il nord della Francia era una ricca area indu­ striale, i tedeschi avevano deciso di annettersela, al pari dell’Alsazia-Lorena. Mia madre, che risiedeva a Parigi con noi, aveva bisogno di uno speciale permesso per recarsi a Thumeries da mio padre. Dopo il 1942 divenne un po’ più facile, e ricordo di aver trascorso la mia prima vacanza a Thumeries proprio in quell’anno. Prima di allora, non po­ tevamo andarci. 11 fatto che durante quei quattro anni mio padre non fos­ se con noi fu per me di enorme importanza, come per i miei fratelli. Oggi, ci vogliono due ore di autostrada per andare a Thumeries, ma allora era una vera avventura. A Parigi, pra­ ticamente orfani di padre, eravamo molto liberi. Quando andavo dai gesuiti... avevo nove o dieci anni... ci facevano uscire al pomeriggio per vendere cartoline del maresciallo Pétain, nei negozi o nelle strade, allo scopo di raccogliere denaro per la Croce Rossa. Un episodio a cui allude l’inizio di Soffio al cuore... Era un incarico che mi piaceva molto, perché si usciva alle tre del pomeriggio. 18

Parigi e gli anni di formazione

P.F. - Dopo la guerra si iscrisse a Scienze politiche, e poi all’lDHEC; cosa contava di più per lei? Gli studi universita­ ri o la scuola di cinema? L.M. - Dato che i miei genitori erano inflessibilmente con­ trari alla mia vocazione cinematografica, giungemmo a un compromesso. Mi ero diplomato con un anno d’anticipo... non avevo ancora diciassette anni. Mi iscrissero a un corso di preparazione alle Grandes Écoles. Quando vieni ammes­ so a quel genere di scuola, sei a posto per tutta la vita, per­ ché entri a fare parte dc\Vestablishment. Feci in modo di essere bocciato; a un esame consegnai i fogli in bianco, ero terrorizzato dall’idea di venire accettato contro la mia vo­ lontà. Riuscii a iscrivermi a Scienze politiche, che volevo frequentare perché mi interessava molto la storia. Dopo il primo anno, fui ammesso all’lDHEC... non so come... ma avevo l’abilità di farmi accettare ovunque senza meritarlo veramente. Dissi ai miei genitori: «È una cosa seria, fa parte dell’università di Parigi. Se siete d’accordo, finirò Scienze politiche e nello stesso tempo seguirò i corsi della scuola di cinematografìa». Acconsentirono. Frequentai un altro an­ no l’università, e poi abbandonai. Ma dopo un anno passa­ to all’lDHEC, mi resi conto che non stavo imparando nien­ te. Vi rimasi fino a metà del successivo, poi venni assunto da Cousteau4. Avevo vent’anni.

P.F. - Cosa rimproverava all’insegnamento dell’IDHEC? L.M. - Era molto teorico, come accade nella maggior par­ te delle scuole di cinema. A mio parere, le scuole di cinema servono soltanto per due cose. La prima: vedere quanti più film è possibile, cercare di imparare la storia del cinema, comprendere il processo creativo degli autori che ammiri, e studiare le loro opere. La seconda: lo studio pratico, cioè avere la possibilità di lavorare con una macchina da presa o di montare. La scuola era totalmente priva di mezzi. La parte storica era ottima: eravamo sempre alla Cinémathèque. Ma i professori che insegnavano l’aspetto teorico del­ la regia erano per lo più mediocri, e ben presto mi resi con19

// mìo cinema

to che quei corsi non servivano a niente. Ecco perché non finii. P.F. - Tuttavia girò un film, non è vero?

L.M. - Sì, di cinque minuti; ogni studente ne realizzava uno di questa durata. All’IDHEC c’erano così pochi mezzi che si montava in negativo... e alla fine, quando si era mon­ tato, se ne faceva una copia.

P.F. - Qual era il soggetto? L.M. - Risentiva molto delle prime opere di Beckett e Io­ nesco; si stava affermando il Teatro dell’Assurdo, senza pe­ rò avere ancora ottenuto né riconoscimenti, né successo. Ero all’IDHEC quando venne allestito per la prima volta Aspettando Godot in un piccolo teatro della rive gauche-, non venne accolto bene. Ricordo anche le prime opere di Ionesco, La lezione e gli altri suoi atti unici. Ero molto amico degli attori e registi che lavoravano con lui. Girai il mio film con due attori che recitavano in La cantatrice calva. Il film parlava di persone che in una stanza aspettano qualcuno che non arriva mai; credo che sia stato girato due o tre mesi pri­ ma che fosse messo in scena per la prima volta Aspettando Godot. Quell’idea doveva essere nell’aria. P.F. - Molti dei suoi coetanei si sono fatti conoscere co­ me critici di riviste cinematografiche. È ancora in contatto con qualcuno dei suoi compagni dellìDHEC? L.M. - In quel periodo, la mia generazione era in grande fermento; anche se i «Cahiers du Cinéma» erano appena al­ l’inizio, e gente come Truffaut e Rivette non aveva ancora scritto quasi nulla. Conobbi Claude Chabrol quando lavo­ rava all'ufficio stampa della Paramount. Ma all’IDHEC ave­ vo conosciuto Alain Cavalier5, Michel Mitrani6, Philippe Co­ lin c Pierre Geoffroy, che divenne un grande scenografo. La maggior parie dei miei compagni di studi finì per fare regia televisiva. Conoscevo anche Jacques Demy, che gira­ va dei cortometraggi. Non era stato ammesso all’IDHEC. 20

Parigi e gii anni di formazione

P.F. - Quali furono le referenze presentate a Cousteau per convincerlo ad assumerla sulla Calypso?

L.M. - Sapevo nuotare! Semplicemente. La troupe di Cou­ steau si riduceva a una persona, Jacques Ertaud, che in se­ guito raccomandai a Bresson per una parte in Un condan­ nato a morte è fuggito. Stava per sposarsi e Cousteau era preoccupato. Aveva ingaggiato altri due operatori, ma non penso che avesse troppa fiducia in loro. Andò dal direttore dell’IDHEC e gli chiese: «Ha qualche studente al quale inte­ ressi lavorare durante l’estate?». Per una qualsiasi ragione, ero stato nominato capoclasse, quindi fui il primo a venir­ lo a sapere. Allora mi dissi: «Ci vado io». Poi, per scrupolo di coscienza, verificai se la cosa interessasse ai miei compa­ gni, ma nessuno di loro amava troppo i documentari. Vo­ levano lavorare con Renoir, Bresson, Jacques Becker7. Così, dissi al direttore: «Credo di essere l’unico». Forzai un po’ la mano alla fortuna. Poi incontrai Cousteau. Non avevo nes­ suna esperienza professionale, ma sostenni di sapere qual­ cosa di montaggio e fotografia... il che era vero, dato che avevo girato molti film con la 8 mm di mio padre. Certo avevo più pratica dei miei compagni dell’IDHEC; a loro im­ portava solo fare i registi, nient’altro. Non si interessavano alla cinepresa o alla tecnica. Così andai a Marsiglia per imbarcarmi sulla «Calypso», imparai a immergermi e a fare riprese subacquee. Alla fine dell’estate Cousteau, resosi conto che il suo tecnico princi­ pale stava sul serio per sposarsi, e che gli altri non erano molto competenti, mi chiese di restare. Non avevo ancora compiuto ventun anni, e si trattò di una decisione impor­ tante, dato che sarei dovuto tornare all’IDHEC. Accettai, e allora lui mi disse: «Bene, ti occuperai della regia, della fo­ tografìa e del montaggio». Non sapevo fare nulla... o quasi. Era una responsabilità enorme. Fortunatamente, durante quel primo anno ebbi modo di fare esperienza svolgendo un lavoro di routine. Poi cominciammo a lavorare a II mon­ do del silenzio. Devo dire che dal momento in cui misi piede sulla «Calypso» e andammo in Grecia, fui davvero conten­ to di avere accettato. Innanzitutto, perché ritenevo che fosse 21

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una splendida occasione per cominciare a fare cinema, im­ parando sul campo. E poi mi interessava veramente quel genere di vita, quel genere di cinema. P.F. - Il fatto di avere osservato i fondali dell’oceano In­ diano, del Mediterraneo e del mar Rosso cambiò la sua con­ cezione della vita, dell’universo o il suo modo di vedere? Quando uscì, Il mondo del silenzio suscitò considerevoli attenzioni, persino sul piano ontologico: Eric Rohmer e An­ dré Bazin dissero che inaugurava nuovi orizzonti. Ebbe quel­ l’impressione mentre ci stava lavorando?

L.M. - Fu un’esperienza straordinaria. Non credevo ai miei occhi ed ero orgoglioso di farne parte. Mi sentivo molto vicino a ciò che dovettero provare i primi astronauti. Ma pur ammirando moltissimo Cousteau per le sue innovazio­ ni tecnologiche, per aver portato un nuovo mondo subac­ queo dinanzi agli occhi del pubblico cinematografico, per la sua intelligenza, la creatività e per il senso dell’umorismo... davvero, l’ammiravo... al tempo stesso non ero d’accordo con lui su moke cose. Quando si è giovani, si è molto rigi­ di riguardo a ciò che si crede sia giusto; io ero molto in­ fluenzato dallo stile austero di Bresson, e sicuramente lo so­ no ancora adesso. Ricordo di avere avuto con Cousteau una discussione sulla musica durante il montaggio. Gli avevo det­ to: «Lei non sta cercando di fare un documentario, ma uno spettacolo. Non è come avrebbe dovuto essere, sta diven­ tando roba alla Walt Disney». Allora, Walt Disney stava fa­ cendo documentari del tipo «vita vissuta», con un montag­ gio coincidente con la musica, allo scopo di piacere al grande pubblico. Adesso, quando penso fino a che punto ero in­ transigente allora, muoio dal ridere. Ma ero anche estremamente consapevole che c’era qualcosa di unico in ciò che stavamo facendo. In un certo senso, si è sempre il primo spettatore dei propri film, e io ero sbalordito da ciò che sta­ vamo filmando. Dovevamo inventarci le regole... non c’e­ rano riferimenti, era tutto assolutamente nuovo. Per defi­ nizione, dato che eravamo sott’acqua, la macchina da pre­ sa aveva fluidità e mobilità: era possibile fare cose che, sul­ 22

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la terraferma, sarebbero state incredibilmente complicate, che avrebbero richiesto un insieme di movimenti, gru e car­ rellate, mentre laggiù era un gioco da ragazzi, poiché face­ va parte dei movimenti di immersione. Ciò che disappro­ vavo in Cousteau era la sua propensione allo spettacolo con­ venzionale. Avrei preferito che il film conservasse maggior­ mente il suo carattere unico, diverso dagli altri. P.F. - Ha parlato dei suoi disaccordi con Cousteau. Quello che lei disapprovava è ciò che rende ora superato il film: Hna messa in scena fasulla e dialoghi teatralizzati, che forse srcombinano alla perfezione con le vere immagini, ma che mettono in questione l’autenticità di ciò che viene mostrato.

L.M. - Esatto. P.F. - Ad esempio, a un certo punto un sommozzatore è in grave pericolo, ma'Ta scena viene tagliata per mostrare ciò che accade sul ponte. È chiaro che si tratta di un mon­ taggio a effetto.

L.M. - Cousteau aveva realizzato meravigliosi cortome­ traggi subacquei, che ai festival avevano vinto premi di ogni genere. Per esempio, Autour d'un récij\ un reportage sulla vita sottomarina in una barriera corallina. Ma II mondo del silenzio era molto più ambizioso. Secondo me, avrebbe do­ vuto restare assolutamente autentico, senza ricorrere a quelle tecniche che oggi potremmo definire «documentario dram­ matico». Ricordo una scena in cui un subacqueo, colpito da ebbrezza da profondità, sviene sott’acqua. In sede di montaggio, Cousteau sentì il bisogno di esasperarla e volle anche darne una spiegazione. Era molto didattico. Io gli davo il mio parere, ma mi era sempre assolutamente chiaro che si trattava di un film di Cousteau. P.F. - Questa frase del comriicnto: «una sala cinemato­ grafica a trecento metri sotto il livello del mare», è sua o di Cousteau? 23

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L.M. ■ Proprio non ricordo. Ciò che sorprende in Cou­ steau — e me ne accorsi quasi quarantanni fa — è il suo debole per la fiction. L’estate scorsa discussi con lui un pro­ getto che stavamo pensando di realizzare insieme. Era in­ cline a orientarsi verso la fiction e diceva: «In tutti questi anni hai fatto fiction, potresti aiutarmi». Risposi che adesso non mi interessava fare della fiction con lui. Fummo anco­ ra una volta in disaccordo. Era la replica della vecchia di­ scussione: lui era in cerca di un modo che gli consentisse di andare oltre il documentario, io credo invece che i miei lavori siano documentari puri, cinétna direct spinto all’e­ stremo, mentre Cousteau è sempre stato tentato dalla fic­ tion, e anche i suoi film per la televisione contengono im­ magini favolose, ma non mi piace il suo modo di teatralizzarle. P.F. - Una scena mostra un cane che abbaia sul ponte a una aragosta viva, e si potrebbe pensare che sia un’imma­ gine caratteristica del suo humour. È una scena che aveva filmato e che volle tenere?

L.M. - Non credo proprio che sia mia. In quel periodo la mia concezione della regia era molto bressoniana, molto austera, e prendevo le cose sul serio. Ma Cousteau era sem­ pre alla ricerca del tocco di umanità. Era finanziato dalla «Na­ tional Geographic Society», che, sia nella rivista sia nei film prodotti, privilegiava sempre l’aspetto «umano». Ricordo la scena in cui, nel bel mezzo dell’oceano Indiano, l’equipag­ gio massacra degli squali, dopo rincontro con le balene. C’e­ ra un balenottero ferito, e quegli enormi squali arrivarono all’improvviso e cominciarono a divorarlo. Fu una reazio­ ne istintiva dei marinai, condizionati dal loro odio atavico per gli squali. Ma nel film la cosa venne decisamente esa­ sperata.

P.F. - Il mondo del silenzio venne presentato a Cannes nel 1956; il film era in competizione e lei veniva citato nei titoli di testa come regista insieme con questo «eroe nazio­ nale». Deve essere stata un’esperienza straordinaria. 24

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L.M. - Avevo ventitré anni ed ero a Cannes. Cousteau rimase per pochi giorni e disse: «Perché non resti a guarda­ re cosa succede?». Ovviamente, per me era straordinario sco­ prire il mondo del cinema, che ignoravo, dato che ero sta­ to per anni un operatore subacqueo e quando ero a Parigi facevo semplicemente il montatore. Improvvisamente en­ trai in contatto con produttori e attori. Rimasi dieci giorni, poi tornai a Parigi, perché Jacques Tati mi chiese di fare l'aiu­ to operatore in Mìo zio. Alla fine non se ne fece nulla, e anche se la cosa compare spesso nel mio curriculum vitae non feci mai l'operatore per Tati. Tornato a Parigi, ricevet­ ti un’inaspettata telefonata da Cannes: «Ha vinto la Palma d'oro e non c’è nessuno a ritirare il premio». Fu una sor­ presa assoluta. Era pomeriggio, ma allora i voli non erano così frequenti come adesso. Non ricordo nemmeno chi an­ dò sul palcoscenico a ricevere il premio. Scoprimmo poi che ci furono delle divergenze tra i membri della giuria e che non riuscirono ad arrivare a una decisione. Avrebbe do­ vuto vincere uno dei primi film di Bergman, Sorrisi di una notte d'estate. Alla fine riuscirono a mettersi d’accordo, e premiarono 11 mondo del silenzio. Così, ovviamente, mol­ ta attenzione fu puntata su di noi, e il film ebbe un buon succèsso.

La cosa non mi coinvolse particolarmente, perché pro­ prio all’indomani di Cannes cominciai a lavorare con Bres­ son. Po imi i proposero di spostarmi negli Stati Uniti, dove mi recai per la prima volta, a filmare un transatlantico ita­ liano, l’«Andrea Doria»8, che era appena naufragato al lar­ go di Nantucket. Fu dunque un’estate ricca di impegni, ma stavo già pensando di sfruttare il colpo di fortuna di // mon­ do del silenzio per cercare di fare il mio primo film di fic­ tion. NeH’autunno-inverno del 1956 avevo scritto una sce­ neggiatura autobiografica... una storia d’amore ambientata alla Sorbona. L’avevo proposta ai produttori, ma venne re­ spinta ovunque... la Nouvelle Vague non era ancora nata. Due anni dopo l’avrebbero accettata immediatamente, per­ ché era di moda, ma in quel momento chi non aveva mai fatto della fiction e voleva girare un’opera personale non aveva alcuna possibilità di ottenere un finanziamento.

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Poi, nella primavera del 1957, il mio amico Alain Cava­ lier acquistò all’edicola di una stazione un libro intitolato Ascenseurpour l'écbafaud. Giudicando la trama interessan­ te, me lo segnalò come possibile punto di partenza per un film noir. Il «poliziesco» era un genere da sempre popolare in Francia. Andai da Jean Thillier, che aveva prodotto Un condannato a morte è fuggito di Bresson, e gli dissi: «Leg­ ga questo libro: forse potrei farne un adattamento». Era un buon thriller, dall'atmosfera molto coinvolgente. E lui: «Sì, a patto di trovare gli attori e di venderlo a un distributore». Decisi di lavorare con Roger Nimier9, un romanziere che ammiravo. P.F. - Ricordo che un romanzo di Nimier, Le bussard bleu, venne pubblicato in inglese e mi impressionò moltis­ simo. Ma era uno scrittore di destra, vero? L.M. - Sì, ma questo divenne più evidente in seguito, in particolare al tempo della guerra d’Algeria, quando gli in­ tellettuali dovettero schierarsi. Fu molte cose differenti, Ni­ mier. Era uno scrittore dallo stile magnifico, un critico let­ terario, un polemista, e in questo era straordinario. Reagi­ va alla sinistra del dopoguerra che aveva preso il potere in Francia, sa, i discepoli di Sartre e Camus. 1 suoi romanzi, benché più leggeri e divertenti, erano piuttosto nello stile di Stendhal. Ho riletto di recente Le bussard bleu, è uno splendido libro. Nimier occupava uh ruolo di primissimo piano alla Gallimard, dove era consulente editoriale. Lesse Ascenseur e lo ritenne stupido. Replicai che la trama era buo­ na. Egli disse: «Va bene, ma ripartiamo da zero». Fin dall’i­ nizio, reinventammo letteralmente quello che la gente ri­ corda oggi del film... il personaggio di Jeanne Moreau. Nel libro era quasi una comparsa. Se ci si pensa, non è realmente necessaria alla trama: si limita a vagare per Parigi alla ricer­ ca dell’amante. Spesso la gente dice che ho scoperto Jean­ ne Moreau, ma non è vero, già allora era una star, anche se in film di serie B, ed era anche riconosciuta come la mi­ gliore attrice di teatro della sua generazione. Era stata alla Comedic Francai.se; aveva lavorato con Gerard Philipe. Ma 26

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nel cinema non aveva mai sfondato, eccetto che nei poli­ zieschi con Jean Gabin, dove non le venivano assegnati ruoli particolarmente interessanti. Ma, sotto il profilo commer­ ciale, era sulla cresta dell’onda. Del resto, fu il distributore a insistere perché facesse assolutamente parte del cast.

P.F. - Il suo film aiutò la Moreau a delineare quel perso­ naggio emblematico che poi avrebbe definito negli anni ses­ santa, con Jules e Jim e La notte. L.M. - Certo. Di colpo si scoprì che, potenzialmente, era una grande star cinematografica. Fino a quel momento si diceva che, pur essendo una grande attrice, e molto sexy, non era fotogenica. Avevo con me un grande operatore, Henri Decaé1", che conoscevo dai primi film di Melville1 come Bob il baro, e che, al pari di tutti quelli della Nouvelle Vague, ammiravo moltissimo. Fu Decaé a fare da mae­ stro a me, Chabrol, Truffaut e molti altri. Ma fui io il primo della mia generazione a lavorare con lui. -Quando iniziam­ mo a girare con Jeanne Moreau, le prime scene si svolgeva­ no per strada, sugli Champs Élysées. La macchina da presa era su una automobilina da bambini, e Jeannie Moreau non era illuminata... era un film in bianco e nero, ovviamente; avevamo scelto quella nuova pellicola rapida, la Tri-X, che secondo i registi seri aveva una grana troppo grossa. Ripren­ demmo Jeanne Moreau con diverse lunghe carrellate e ov­ viamente, quando il film fu terminato, inserimmo la splen­ dida musica di Miles Davis12, con sotto la voce di lei, la sua voce interiore. Jeanne Moreau era illuminata soltanto dalle luci delle vetrine degli Champs Élysées, cosa che non si era mai fatta prima. Gli operatori volevano sempre che fosse molto truccata e la illuminavano molto, perché si pensava che il suo volto non fosse fotogenico. Durante la prima settimana, ci fu una sommossa tra i tec­ nici del laboratorio, dopo la visione dei giornalieri. Anda­ rono dal produttore e gli dissero: «Non deve permettere che Malie e Decaé distruggano Jeanne Moreau». Erano inorridi­ ti. Ma quando uscì Ascensore per il patibolo, emersero di colpo le qualità peculiari dell’attrice: poteva apparire piut­ 27

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tosto brutta e, dieci secondi dopo, girando il viso, diventa­ re incredibilmente bella. Ma era se stessa. La cosa venne con­ fermata da Les Amants, che girai quasi subito dopo. Così contribuii a farne una star, ma lei aveva già partecipato a sette od otto film. P.F. - A parte i rischi connessi alle innovazioni della fo­ tografìa, la struttura narrativa fu impostata in modo incre­ dibilmente audace. È come per La fiamma del peccato, dove Fred Me Murray e Barbara Stanwyck non si incontrano mai. Vediamo i due amanti un attimo prima del delitto... e si ha l’impressione che siano insieme. Poi la macchina da presa indietreggia e si vede lui in ufficio, e lei in una cabina tele­ fonica. Non si incontrano mai e vengono riuniti solo dal­ l’ultimo secondo del film, nella fotografìa che costituisce la prova definitiva della loro colpevolezza. Non temeva che potesse dispiacere al pubblico? Oppure proprio in questo modo contava di creare un’atmosfera di grande tensione?

L.M. - Come dicevo, nel libro il personaggio interpreta­ to da Jeanne Moreau non era importante, era solo la mo­ glie dell’uomo che veniva assassinato nella scena iniziale. Il libro, come il film, racconta la storia di un uomo che com­ pie un delitto perfetto e rimane stupidamente bloccato in un ascensore, di due ragazzi che rubano la sua macchina, vanno in un motel fuori Parigi, e commettono un omici­ dio... tutto sembra provare che quell’uomo sia l’autore del secondo delitto, e invece... era questa l’astuzia, il trucco del libro. Nella sceneggiatura allargammo la trama per introdurvi la storia d’amore. Non volevamo che il film ruotasse unica­ mente intorno a due delitti. Poiché era qualcun altro a com­ mettere un omicidio con la sua macchina e la sua pistola, pensammo che il film sarebbe stato molto più interessante se subito dopo il delitto il protagonista avesse avuto un ap­ puntamento con una donna. Lei lo cerca ovunque, ma non si incontrano mai. Francamente non pensavamo che fosse tanto azzardato. Ricordo che esitammo molto, mentre lavoravamo alla sceneggiatura, prima di decidere se a un certo punto farli /

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incontrare. Decidemmo di no, ma alla fine c’è quella sce­ na, una delle migliori del film, in cui lei viene arrestata. Il fotografo sta sviluppando le foto, e lei si vede insieme a lui, tra le sue braccia, negli ingrandimenti ancora in acqua, e in questo modo vengono riuniti. Ma non sono mai insie­ me. Ci sembrava molto romantico.

P.F. - Buona parte dei temi, delle situazioni e dei perso­ naggi dei suoi lavori successivi sono già presenti in questo film. L’uso della musica jazz, la violenza casuale (il delitto del motel anticipa Atlantic City), il destino cui sono sotto­ messe le persone, la sua maniera di utilizzare uno sfondo politico (la guerra di Algeria), la travagliata esistenza dei pro­ tagonisti, il suicidio... queste cose le sembrano evidenti? È sorpreso di avere fatto un film coù personale, mentre ciò che aveva in mente era forse un thriller freddò e distaccato? L.M. - Quando realizzai Ascensore per il patibolo scelsi deliberatamente di partire da un libro che era un thriller, consapevole di fare qualcosa che sarebbe stato venduto al­ l’industria cinematografica come un film di serie B. Natu­ ralmente, ero molto ambizioso, e il fatto di lavorare con Ro­ ger Nimier, anziché con gli sceneggiatori che mi erano stati raccomandati, rivelava tutte le speranze che riponevo nel film. Ma se avessi potuto... e tre anni dopo ci sarei proba­ bilmente riuscito... avrei preferito fare qualcosa di più au­ tobiografico. Adesso, quando rivedo il film, mi rendo con­ to che riuscii — poiché esisteva una trama, che però era solo una specie di ossatura — a introdurre certi temi che, senza dubbio a livello inconscio, erano per me così importanti da ricomparire in seguito nel mio lavoro. Ma volevo anche fare un buon thriller. Il buffo è che ero davvero diviso tra l’enorme ammirazione per Bresson e la tentazione di fare un film alla Hitchcock. Così, in Ascensore c’è qualcosa del­ l'uno e dell’altro. In molte scene, specialmente all’interno dell’ascensore, cercai di emulare Bresson.

P.F. - La fuga dall’ascensore è simile a quella dalla pri­ gione di Un condannato a morte.

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L.M. - Sì, completamente. Ma era del tutto voluto. Al tem­ po stesso imitavo Hitchcock nel tentativo di fare, forse con un po’ di ironia, un thriller che funzionasse bene. La suspen­ se, i colpi di scena... chiaramente, dal punto di vista stilisti­ co, a parte il fatto che era il mio primo lavoro e quindi pie­ no di goffaggini, ero più vicino a Bresson. Così mi trovavo in mezzo ai due. Oltrettutto, volevo ritrarre la nuova gene­ razione... attraverso i personaggi dei ragazzi (quei ragazzi di periferia che allora erano chiamati blousons noirs per­ ché indossavano tutti giubbotti di pelle nera), e descrivere una nuova Parigi, andando oltre la Parigi di René Clair nar­ rata tradizionalmente dai film francesi. E volli anche mo­ strare uno dei primi edifici moderni di Parigi. Inventai un motel... ce n’era solo uno in Francia e non era vicino a Pa­ rigi, e così dovemmo girare in Normandia. Non mostrai una Parigi del futuro, ma in fin dei conti una città moderna, un mondo già disumanizzato. Non ero consapevole, con Ascen­ sore per il patibolo, di fare qualcosa di personale; lo consi­ deravo piuttosto un esercizio. Fu lo stesso con Zazie. Allo­ ra, non presentii affatto che c’era nel tema di Zazie un aspet­ to che sarebbe diventato fondamentale nei miei film suc­ cessivi: il bambino cui si rivela corruzione mentre scopre il mondo degli adulti. Era l’universo di Queneau, ovviamen­ te, e lo avevo ripreso senza sapere che fosse anche il mio. P.F. - Torniamo a Bresson. Che intenzioni aveva lei? Pen­ sava di aver svolto metà del suo apprendistato girando do­ cumentari, e aveva quindi voglia di lavorare con un regista di fiction? L.M. - Non ho mai voluto veramente fare l’aiuto regista. Con Cousteau avevo cominciato come tecnico, operatore, montatore e tecnico del suono. L’idea di tornare a Parigi per seguire la carriera di aiuto regista non mi sorrideva. La­ vorai con Bresson soltanto perché lo ammiravo moltissimo. Lo mettevo su un piedistallo, molto più in alto di qualsiasi altro regista francese. Ammiravo molto Renoir, ma in quel periodo Renoir non era in Francia. Ebbi la fortuna di cono­ 30

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scere Bresson grazie a un amico; Il mondo del silenzio gli era piaciuto ed era incuriosito da quel giovane che ero io. Mi propose di lavorare con lui: una cosa straordinaria. Non credo che avrei lavorato con René Clement15. Non dò un giudizio di merito, è solo che ammiravo Bresson ed ero con­ vinto che il suo fosse runico modo di fare film. Poi cam­ biai opinione, ma all’epoca ero piuttosto rigido al riguardo. P.F. - Qual era il suo ruolo in Un condannato a morte è fuggito?

L.M. - Suppongo che Bresson mi trovasse interessante perché provenivo da un ambiente completamente diverso, quello dei documentari. Quando cominciai a lavorare per lui, stava finendo la revisione delh sceneggiatura e stava fa­ cendo dei provini, quindi lavora con lui al casting. Mi mi­ se subito in contatto con l’uomo sulle cui esperienze di guer­ ra si basava il film. Si chiamava Devigny, un eroe della Re­ sistenza. Bresson mi disse di andare da Devigny e di occu­ parmi di tutti gli accessori e i dettagli. Voleva che fosse tut­ to assolutamente autentico; riteneva che questo l’avrebbe aiutato moltissimo. Il film fu girato in studio, salvo un paio di settimane a Lione, nelle carceri. Ma tutto il resto — la cella, i corridoi — venne ricostruito. Ero responsabile del­ l’autenticità dell’ambientazione. Lavorai su quello in pre­ produzione e durante le prime settimane di riprese, che ven­ nero girate in cella. Poi Cousteau mi propose di andare in America per un film sull’«Andrea Doria»; così dissi a Bresson che avrei ac­ cettato, perché Cousteau aveva bisogno di me e anche per­ ché, francamente, la cosa mi entusiasmava. Ritenevo di es­ sere stato molto utile a Bresson prima dell’inizio delle ri­ prese. Inoltre i suoi metodi di preparazione e di scelta de­ gli attori erano per me affascinanti e molto istruttivi. Ma quando cominciò a girare... ed ecco perché non ho mai vo­ luto essere aiuto regista... mi resi conto che in realtà non si impara molto da un regista. Il processo di realizzazione di un film è così misterioso, specialmente quando si tratta di qualcuno come Bresson. Era così riservato sul suo mo31

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do di procedere... dopo venticinque riprese, a un certo pun­ to, mi rendevo conto che era soddisfatto, ma mi era diffìci­ le capire perché lo fosse. Quando gli comunicai che sarei partito, lui mi disse: «Bene, non ti tratterrò, fa’ quello che pensi di dover fare. Non sono mai stato un aiuto regista e secondo me non si impara molto in questo modo. Quindi, fa’ a modo tuo». Sono sempre rimasto in buoni rapporti con lui. Un condannato a morte èfuggito fu l’inizio del suo pe­ riodo più grande. Nei dieci anni seguenti fece Pickpocket, Au hasard Balthasar, Mouchette e tutti gli altri suoi grandi film. Quando lo incontrai aveva girato soltanto... e ovvia­ mente erano anch’esse grandi opere... La conversa di Bel­ fort, Il diario di un curato di campagna e Perfidia. Ai miei occhi era il più grande.

P.F. - Un condannato a morte fu il primo film in cui egli ricorse a un cast interamente formato da non professioni­ sti. Fu qualcosa che incoraggiò anche lei, in seguito, a usa­ re dei dilettanti per i ruoli principali, e imparò da lui il mo­ do in cui farli recitare?

L.M. - Quando cominciai il mio primo film, Ascensore, mi sentivo preparato dal punto di vista tecnico, ma con un enorme vuoto nella mia formazione... il rapporto con gli attori. Non avevo alcuna esperienza in proposito: avevo fil­ mato pesci per quattro anni! Non volevo correre rischi, e quindi il cast di Ascensore fu costituito, a parte la figura della ragazza, interamente da professionisti, e con Les Amants fu lo stesso. Zazie fu il primo film in cui assegnai a una ra­ gazzina il ruolo di protagonista. Ovviamente non avrei mai preso un’attrice. Ero sempre stato influenzato dalle teorie di Bresson secondo cui non si dovevano usare attori pro­ fessionisti, anche se non fui mai rigoroso quanto lui in pro­ posito. Mi resi conto abbastanza in fretta, eoo. Zazie, di quan­ to fosse straordinario far recitare insieme professionisti e dilettanti: da allora ho sempre continuato più o meno in que­ sto modo. Quando girai Ascensore ero mortalmente spaventato da­ 32

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gli attori proprio perché non avevo avuto alcuna esperien­ za nel rapporto con loro: e se non ci fosse stata Jeanne Mo­ reau, che mi fu di enorme aiuto nei due primi film che girai con lei... Ero talmente sprovveduto, così ignorante di quel genere di situazioni... quando si è terrorizzati, e giovani, si tende ad essere autoritari, probabilmente per evitare di es­ sere sopraffatti. E quando rivedo i miei primi film, noto al­ cuni enormi difetti non solo a livello di direzione, ma a volte anche di casting. Ma è così che si impara. Fin dal mio pri­ mo film ero probabilmente, tra tutti i registi della mia ge­ nerazione, eccettuato Alain Resnais, quello più preparato tecnicamente; al tempo stesso, però, dovevo apprendere tutto il resto. Mi ci vollero parecchi film per imparare a co­ noscere gli attori. Mi sono interessato sempre più a questo aspetto della regia, e dal momento che i miei collaboratori sapevano che ero tecnicamente adeguato, potevo concen­ trarmi totalmente a dirigere gli attori di fronte alla macchi­ na da presa.

P.F. - Un ultimo, importante aspetto di Ascensore per il patibolo -, la musica di Miles Davis. AII3 fine degli anni cin­ quanta divenne molto frequente l'inserimento di brani di musica jazz — Duke Ellington compose la colonna sonora di Anatomia di un delitto di Preminger, e il Modem Jazz Quartet musicò Strategia di una rapina di Robert Wise —, ma nel 1957 era ancora insolito; non ricordo un solo film che usasse il jazz in questo modo. Come mai, e quando, le venne l’idea, e come riuscì a convincere Davis a collaborate? L.M. - Beh, si trattò anche in questo caso di un incontro che risale agli inizi della mia carriera. 11 primo fu Cousteau, il secondo Miles Davis. Come ho detto, ero pazzo per il jazz, e a quel tempo ascoltavo molto Davis che era al suo apice creativo. Mentre stavo girando il film, non avrei mai spera­ to che Davis componesse una musica per me, ma nella ca­ mera della ragazza, in un angolo, avevamo messo ben in evi­ denza la copertina di un album di Miles Davis. Poi, per una strana coincidenza, mentre stavo montando ed ero sul punto di scegliere la musica, Miles Davis giunse a Parigi. Era ve33

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nuto da solo, senza i suoi musicisti, per suonare in un club per un periodo di circa tre settimane. Gli saltai letteralmen­ te adosso. Boris Vian14, che conoscevo e che era anche trombettista, mi aiutò molto.

P.F. - Vian è anche l’autore del libro che l’eroe di Soffio al cuore legge di nascosto, Sputerò sulle vostre tombe. L.M. - Sì, devo molto a Vian. Dunque, gli telefonai. Era direttore della sezione di musica jazz della Philips, con la quale, credo, Davis era sotto contratto per l’Europa. Com­ binò un incontro. Davis era riluttante perché a Parigi suo­ nava con dei bravi musicisti, che però non erano quelli con cui era solito incidere dischi. Riuscii a convincerlo. Gli mo­ strai il film due volte, soltanto due. Ci accordammo sulle sequenze che secondo noi avevano bisogno di un sottofon­ do. Approfittando di una sera in cui non suonava al club, affittammo uno studio di registrazione a Parigi sugli Champs Élysées, e cominciammo a lavorare, molto lentamente, co­ me fanno i musicisti jazz. Iniziammo verso le dieci o le un­ dici di sera e andammo avanti fino alle otto del mattino: in una notte l’intera partitura fu registrata, e penso che que­ sto fatto la renda molto particolare. È una delle pochissime colonne sonore improvvisate; credo che Davis non abbia avuto tempo di preparare nulla, lo facevo scorrere le se­ quenze che andavano musicate e lui cominciava a provare con i suoi musicisti. La musica è sempre presente in Ascensore, ma nei com­ plesso non dura molto, neanche diciotto minuti, che è po­ co. Ciò che Miles Davis riuscì a fare fu eccezionale, il film si trasformò. Ricordo benissimo com’era senza la musica, ma quando attaccammo il missaggio finale e aggiungemmo la musica, sembrò subito decollare. Non era la solita musi­ ca da film che enfatizza o intensifica l’emozione implicita nelle immagini o nel resto della colonna sonora. Era un con­ trappunto, era qualcosa di elegiaco... di distaccato, in qual­ che modo. Creava un’atmosfera. Ricordo la prima scena; la tromba di Davis le dava un tono che aggiungeva un’altra dimensione alle prime immagini. Sono convinto che senza 34

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la musica di Davis il film non avrebbe avuto quel successo di critica e di pubblico. In seguito cercai di lavorare ancora con lui, ma era diventato estremamente esigente: voleva un’intera orchestra, venti musicisti, con arrangiamenti. Avrebbe potuto essere molto interessante, ma si sarebbe do­ vuti andare tutti a New York, e questo, allora, non era alla portata di un budget francese. P.F. - Con Les Amants, sembra che lei abbia tentato di rovesciare tutto quanto rispetto ad Ascensore. Stilisticamen­ te, il film è illuminato in modo classico, ci sono riprese lun­ ghe, composizioni elaborate, fatte tuttavia dallo stesso ope­ ratore. Si passa dal jazz al Brahms del Sestetto n. 1. Capo­ volse anche la situazione dell’eroina: il personaggio di Jeanne Moreau si comporta in modo simile — è un’adultera, lascia il marito — ma viene ricompensata dalla prospettiva di una possibile felicità. È anche un film molto passionale, sensuale, erotico, mentre l’altro era molto freddo.

L.M. - In parte dipese dall’accoglienza così favorevole che venne riservata a Ascensore-, per esempio, i critici francesi^ mi assegnarono il premio Louis-Delluc, il che costituì una sorpresa assoluta per me. Potevo quindi fare tutto ciò che avevo voglia di fare. Allora decisi di buttarmi in qualcosa di più personale, di più vicino a me. Volevo anche continuare a lavorare con Jeanne Moreau. Avevo trovato un racconto del diciottesimo secolo di Vivant-Denon15, un contemporaneo di Choderlos de Laclos, che divenne scrittore per ca­ so. In seguito andò in Egitto con Bonaparte e fu uno dei fon­ datori della scuola francese di egittologia. C’è una sala al Lou­ vre dedicata a lui. È uno dei tanti racconti libertini scritti pri­ ma della rivoluzione francese. Ma con una differenza. E la storia di una donna sposata, una contessa che conduce una vita piuttosto cinica e annoiata in-un castello di provincia. Una notte, vive l’esperienza del colpo di fulmine. È un rac­ conto molto romantico, molto in anticipo sul suo tempo, si intitola Point de lendemain, «Nessun domani». Portai il testo, circa trenta pagine, a Louise de Vilmorin16. Volevo lavorare con lei perché mi piacevano i suoi 35

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romanzi e anche perché consideravo meraviglioso I gioiel­ li di Madame de..., il film che Max Ophiils trasse da un suo racconto. Eravamo alla prima di Ascensore. Le diedi il libro — una splendida piccola edizione dell’epoca, che mi aveva regalato mio fratello. Le chiesi di leggerlo, e di dirmi poi se le sarebbe piaciuto farne un adattamento moderno.

P.F. - Era una donna molto distinta, una gran signora, vero? Il suo comportamento per entrare in contatto con lei, quando era un regista giovanissimo, fu quindi molto simile a quello avuto con Miles Davis. L.M. - Sì, solo che conobbi Louise de Vilmorin tramite Jeanne Moreau. Cominciammo a lavorare insieme in modo incredibilmente rapido, verso la fine di gennaio, e in mag­ gio iniziai le riprese. Oggi parrebbe impossibile. Ma ero mol­ to ansioso di mettermi di nuovo alla prova, sul mio stesso terreno. Se questa storia mi aveva interessato tanto, era an­ che perché mi ricordava uno scandalo accaduto nella mia cerchia familiare. Una persona con cui ero in stretto con­ tatto aveva lasciato marito e figli per un giovane che aveva incontrato, proprio come accade nel libro. Una passione istantanea, con un epilogo non molto felice. Non posso di­ re che si trattasse di qualcosa di autobiografico, ma me ne sentivo coinvolto. Naturalmente, ciò che avevo in mente era una denuncia dell’ipocrisia della classe borghese e del modo in cui ci si aspettava che le donne fossero buone mogli e madri, limitandosi a questo e basta. Lavorai con Louise e la spinsi a scrivere cose che non sono sicuro condividesse veramente. Non era nelle mie in­ tenzioni fare un film che potesse essere considerato eroti­ co o scandaloso. Eppure è ciò che finì per accadere. Ma era fondamentale capire perché questa donna avesse deciso di cambiare completamente la sua vita, in che modo avesse scoperto, una notte, qualcosa di cui non supponeva nean­ che f esistenza: il lato fìsico dell’amore, il sesso. Ed è qual­ cosa che accade per caso. Come succede spesso nei miei primi lavori, l’approccio stilistico era in forte contrasto ri­ spetto al film precedente. Non ero completamente soddi­ 36

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sfatto di Ascensore e, in un certo senso, mentre facevo Les Amants, sentivo di essere molto più me stesso. Per raccon­ tare la storia, scelsi i campi lunghi. Il montaggio è alquanto ridotto; allora era di moda fare così, del resto: Hitchcock aveva fatto Nodo alla gola con una serie di inquadrature di dieci minuti, e ne fummo tutti molto impressionati. Era anche il momento in cui Alexandre Astruc*7 parlava della caméra-stylo. In un certo senso, stavo cercando di trovare il mio stile. Ecco come realizzai Les Amants. Più tardi mi accorsi che, curiosamente, Ascensore mi era forse più vicino di Les Amants. Les Amants era un film terribilmente sincero. Ero sincero nella scelta del soggetto e nel modo in cui criticavo proprio il mio ambiente sociale; sentivo molto il tema e i personaggi, ma finii per esprimermi in uno stile che non credo fosse realmente mio. Me ne resi conto in fase di mon­ taggio. Cera qualcosa in quelle lunghe inquadrature... quan­ do si fanno scorrere le scene avanti e indietro in sala di mon­ taggio si ammette che si vorrebbe tagliare dieci secondi qui, aggiungerne quindici là. Non si è padroni del ritmo. Ho fi­ nito per acquisire una sorta di scrittura, un modo di scrive­ re film con la macchina da presa che penso sia molto più sottile, duttile e meno schematico. In II danno, per esem­ pio, ho fatto delle inquadrature molto lunghe, ma sono in­ frammezzate da una serie di piani brevi. Les Amants fu presentato a Venezia, e divenne imme­ diatamente un enorme successo internazionale, ma anche un grandissimo scandalo: allora pensai che quel successo fosse dovuto a una serie di ragioni sbagliate. Sapevo che sarei stato in grado di continuare a fare quel tipo di film per tutta la vita ottenendone molto successo, ma in realtà non era quello che cercavo. Eppure fu un film importante per me. Ascensore venne accolto benissimo, ma Les Amants fu fenomenale. Venne proiettato in tutto il mondo, e ovun­ que faceva scandalo; diversi stati americani si rivolsero alla Corte Suprema per fare vietare il film. Così, a soli ventisei anni ero diventato un regista di fama internazionale, balza­ to all’improvviso alla ribalta. Non credo di avere mai avuto tanto successo in seguito. Non me l’aspettavo assolutamente. 37

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Ci volle tempo per riprendermi. Talvolta mi dicevo che il successo di Les Amants non era meritato. Nei sei mesi suc­ cessivi, mi nascosi; andai alla ricerca di esterni per un film che non girai mai; quando ero a Parigi, non uscivo di casa. Sono sempre stato molto criticato per Les Amants, forse in­ giustamente. Ancora oggi suscita reazioni di ogni tipo: per alcuni è il più datato dei miei primi film, altri lo adorano. Se regge, è grazie alla sincerità che vi misi.

P.F. - La recitazione di Jeanne Moreau è raffinata e straor­ dinariamente modulata. L.M. -11 film meritava di essere fatto, anche solo per lei. P.F. - Durante la prima ora è una sorta di commedia so­ ciale, poi, il tono diviene lirico e romantico per più di un terzo del film. Aveva pensato già dall’inizio a questa scan­ sione, oppure venne decisa durante le riprese e il montaggio?

L.M. - Di sicuro avvenne nel corso delle riprese. Dato che Louise de Vilmorin non amava quella parte del film, fi­ nì con l’essere in buona parte improvvisata; in realtà non era stata scritta. Credo che ci fossero letteralmente un paio di pagine nella sceneggiatura. C’erano due aspetti, due par­ ti, nel film, e oggi, se dovessi rifarlo, saprei amalgamarle me­ glio. Ma avevo poca esperienza. La prima metà è una com­ media di costume, una satira del modo di vita dell’aristo­ crazia francese alla fine degli anni cinquanta; la seconda è quasi un omaggio al pittore romantico Caspar David Frie­ drich. Mi sforzai di comunicare lo stesso punto di vista, sul piano visivo: molto lirico, molto romantico. Grazie a Brahms, quella seconda parte decolla e diviene qualcosa di comple­ tamente diverso dalla prima. Il finale mi piace perché lei, con il suo nuovo amante, si ferma a prendere un caffè, e c’è in questo qualcosa di veramente pessimistico. Penso sia a causa della voce fuori campo... lei dice che non è certa che funzionerà, ma che sarebbe comunque andata fino in fondo. Mi pareva che fosse positivo, mi piaceva. Anche og­ gi sarebbe molto vicino al mio modo di vedere. 38

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P.F. - È la scena in cui lei continua a guardarsi allo spec­ chio, per verificare se è tutto a posto, come aveva fatto po­ co prima, in una scena fondamentale, quando ha quasi un incidente stradale mentre si sta guardando nello specchiet­ to retrovisore. Ci sono alcuni riferimenti a un film di cui ha parlato poco fa, La regola del gioco, e Gaston Modot18 ha un ruolo simile a quello che interpretava nel film di Re­ noir. In un certo senso, quel ragazzo fa ciò che non riusci­ va a fare il giovane aviatore di Renoir; non si sottomette alle «regole del gioco», eppure sembra vincere. L.M. - Allora, non mi sarei mai azzardato a usare come modello La regola del gtoco. Devo dire che il cast di Les Amants era molto migliore di quello di Ascensore. Avevo già fatto dei progressi. C’erano alcuni personaggi di con­ torno molto buoni, e Gaston Modot fu meraviglioso; senza dubbio, era presente perché aveva recitato in La regola del gioco e, a mio parere, per tutti noi, per la mia generazione di registi francesi, quel film era il capolavoro assoluto.

P.F. - Qual è il significato del quadro su cui scorrono i titoli di testa del film? L.M. - Si chiama La Carte du tendre ed è qualcosa di mol­ to importante nella letteratura francese, e pensavo che riu­ scisse a rendere l'atmosfera. Cera una scuola di scrittrici nella prima metà del diciassettesimo secolo... prima che Luigi XIV salisse al trono... Molière se ne fece beffe in Le prezio­ se ridicole-, la più famosa tra loro era Madame de Scudéry, che teneva un salotto letterario. Tutti i loro scritti verteva­ no sull'amore, su ciò che lo precede, su ciò che viene do­ po, tutte le varianti. La Carte du tendre è quindi simile a una carta geografica, ma i nomi dei paesi sono Passione, Ge­ losia, Rimorso, i fiumi e le strade vanno da Passione a Ge­ losia. è una rappresentazione bizzarra di tutte le varianti sul tema dell’amore. Così pensai che sarebbe stato molto ap­ propriato avere questa Carte du tendre dietro i titoli di testa.

P.F. - Dopo Les Amants, un radicale cambio di velocità: 39

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Zazie nel metrò. Che cosa l’attrasse nel romanzo di Ray­ mond Queneau19? L.M. - Inizialmente, la difficoltà. Il libro era appena uscito, e credo fu il primo, e probabilmente l’unico, di Queneau a diventare un best-seller. Era divertentissimo, fu un roman­ zo di cui parlarono tutti quanti. Un produttore aveva op­ zionale il libro, il film doveva girarlo René Clément, ma sup­ pongo che ben presto si resero conto che non era fattibile. Tutti mi consigliavano di lasciar perdere quel libro, e di non pensare di poterne mai fare la riduzione cinematografica. Ma a me piaceva enormemente. P.F. - Era considerato un libro impossibile a tradursi in modo soddisfacente in altre lingue, figuriamoci poi farne un film... L.M. - Ricordo di aver detto in un’intervista che mi ci sarebbero voluti almeno dieci anni per diventare un buon regista. Dopo i primi due film mi ero reso conto che si trat­ tava di un mestiere molto più complicato di quanto la gen­ te, me compreso, non pensasse. Pensavo che la scommes­ sa insita nel fatto di adattare Zazie per lo schermo mi desse la possibilità di esplorare il linguaggio cinematografico. Era un libro brillante, un inventario di tutte le tecniche lettera­ rie compresi, naturalmente, parecchi pastiches. Era come giocare con la letteratura; mi ero detto che sarebbe stato altrettanto interessante tentare di fare lo stesso con il lin­ guaggio cinematografico. Domandai al mio amico Jean-Paui Rappeneau20 di aiutarmi ad adattarlo, la mia casa di produ­ zione acquistò i diritti e cominciammo a lavorare alla sce­ neggiatura. Ci volle molto più tempo di quanto non mi aspet­ tassi. Allora, ero abituato a lavorare molto rapidamente. Ma Zazie ci diede del filo da torcere perché volevamo ottenere qualcosa di equivalente a ciò che Queneau aveva fatto con la letteratura. Andai avanti a tal punto in questa direzione che una quantità di cose in Zazie sono visibili a malapena; in un certo senso era troppo complicato. Molte scene sono girate alla velocità di otto, e qualche volta do­ no

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dici fotogrammi al secondo, ma non si nota perché gli atto­ ri recitano al rallentatore. Per Philippe Noiret, un magnifi­ co attore di teatro (era al suo secondo film: prima aveva fatto solo La pointe courte con Agnès Varda) fu facile, ma molto più diffìcile fu per la ragazzina, che non si era mai trovata davanti a una macchina da presa. Quando funziona, e non sempre funziona, si ha l’impressione che tutto scorra a una velocità normale, ma s^dlo sfondo accadono delle cose a una velocità tre volte>tfpferiore a quella con cui dovrebbe­ ro accadere. È esilarante, la pesantezza in accelerazione. Ho fatto anche sperimemazioni di cui non si accorse mai nessuno. Per esempio, nell/scena in cui la ragazzina e Trouscallion sono seduti a tav^a a mangiare cozze, la ripresa su di lei e il controcampo su di lui hanno lo stesso sfondo. Tec­ nicamente, fu qualcosa di incredibilmente complicato; e, una volta terminato il montaggio, pareva quasi normale, a parte l’anomalia dello sfondo identico. Credevo che la gente se ne accorgesse e scoppiasse a ridere. Ma nessuno notò niente: è naturale, nessuno guarda mai lo sfondo. Ciò che accadeva tra i due personaggi era abbastanza divertente da monopolizzare l’attenzione dello spettatore. Ma mi ero re­ so conto che funzionava benissimo, e quindi lo rifeci an­ che qualche altra volta, quando ritenevo che lo sfondo non fosse interessante. Uno dei primi lavori di Queneau si chia­ mava Esercizi di stile: ecco cosa stavo facendo, un eserci­ zio di stile volto ad approfondire le mie conoscenze di que­ sto mezzo espressivo, il cinema. Ma c’era anche qualcos’altro, ovviamente. Con Zazie sco­ prii probabilmente quelli che sarebbero stati i temi princi­ pali dei miei successivi film come Cognome e nome: Lacombe Lucien, Soffio al cuore, Arrivederci ragazzi, e ovviamente anche Pretty Baby. Sono film incentrati su un bambino o un adolescente che scopre l’ipocrisia e la corruzione del mon­ do degli adulti. Oggi questo mi sembra ovvio, ma non sono certo di averlo saputo, allora. La fine di Zazie ricalca esatta­ mente quella del libro. Fin dall’inizio, appena arriva a Pari­ gi, Zazie vuole vedere la metropolitana, «il metrò, il metrò», ma la metropolitana è in sciopero. Al termine della matti­ 41

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nata finisce lo sciopero, ma quando lei sale nei metrò per andare alla stazione a incontrare la madre che ha trascorso i due giorni con l’amante, dorme ancora. Partono; lei è al finestrino, e la madre le domanda: «Allora, Zazie, cos’hai fatto in questi due giorni?», e Zazie risponde: «Sono cresciu­ ta». È l'ultima riga del libro. Del resto, la ripresi in Milou, per la ragazzina... è un’autocitazione, in un certo senso. P.F. - Non si ha mai la sensazione che la ragazzina possa suscitare un interesse sul piano sessuale, tranne forse per Trouscallion. È perché i tempi sono cambiati? All’epoca le fu possibile farne una specie di terribile Shirley Temple tra­ sformata in malizioso demonietto. L.M. - Oh, si potrebbe anche dire che si trattava di una sorta di anti-Shirley Tempie. Ho visto recentemente qual­ che film con la Tempie perché mia figlia, che ha sei anni, ne va pazza. La Tempie è sempre adorabile, mentre Zazie è una ragazzina inquieta che dice parolacce e si ribella a tutto ciò che le viene ordinato di fare. Terrorizza gli adulti, il che è divertentissimo. Ma il mondo che scopre è caotico, privo di ordine e significato, ogni personaggio subisce delle tra­ sformazioni. Così ogni volta che crede di aver capito cosa sta succedendo, subentra qualcos’altro, e lei si accorge che è cambiato tutto. Chi d’altronde non l’ha sperimentato? È un fatto che osservo tutti i giorni, il mondo non è mai quello che credevo fosse. Ciò che è assolutamente centrale in Za­ zie e che continuo non solo a scoprire, ma a introdurre sem­ pre più nei miei film, è il fatto che la gente, in particolare gli adulti, fanno sempre il contrario di quello che dicono. Sono le menzogne fondamentali della nostra vita. Natural­ mente, in Zazie la cosa è del tutto comica, è la molla che fa avanzare la commedia... lo zio e tutti gli altri le mentono di continuo. Zazie non riesce mai a ottenere una risposta sincera. In un certo senso, il film che trassi dal libro, e che con­ sideravo come un semplice esercizio, si rivelò incredibil­ mente personale: vi scoprii quelli che dovevano essere i miei temi e le mie ossessioni fondamentali. Evidentemente, nel­ •2

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la sua particolare forma, Zazie va molto lontano. Esagerai un po', insomma! La terza parte del film non è all'altezza del resto, perché a un certo punto la macchina si inceppa. Secondo me reg­ ge bene per un’ora, poi, poco prima della fine, diventa con­ fuso. A mio parere, è la sua debolezza principale. Sono pe­ rò felice di avere avuto il coraggio di farlo. Fu un fallimen­ to colossale, come sa: la gente non se ne ricorda, perché è diventato una sorta di cult-movie. Di tutti i miei film di quel periodo, è l’unico che si svolge interamente a Parigi, e per alcuni è quasi un punto di riferimento. Ebbe critiche soprendentemente positive. 11 lancio fece un sacco di scal­ pore; la prima settimana battemmo tutti i record di incas­ so. Poi, praticamente, più niente. Il pubblico era sconcer­ tato, non sapeva come reagire: a parte Parigi, fu un disastro. P.F. - È forse l’unica volta in cui lei si è occupato di un ambiente tradizionale del cinema francese: la Parigi di Re­ né Clair. A vederlo adesso, si può dire che Zazie ebbe co­ munque un’influenza enorme. È realizzato nel modo che più tardi, a metà degli anni sessanta, fu definito lo stile swin­ ging London, e in questo senso ritengo che il film abbia forse avuto un’influenza negativa su gente come Dick Lester21 o persino il Karel Reisz di Morgan matto da legare. La Nouvelle Vague si divertiva con tagli e riprese accelerate, in mo­ do da dare l’impressione di un’energia straripante. Non ave­ va nulla a che fare con una qualsiasi critica sociale, ed era piuttosto un’apologià della società dei consumi.

L.M. - Mi pare che ci vollero due o tre anni prima che il suo influsso cominciasse a farsi sentire. Quando vidi i primi film di Dick Lester, pensai che avesse visto Zazie. Ma ades­ so non ne sono così sicuro. Quello stile era di moda, e fun­ zionava magnificamente con i giovani, ecco tutto. Qualche anno più tardi i giovani divennero consumatori, comincia­ rono a comprare dischi, ad andare al cinema... Così, lo sti­ le di Zazie si trovò a essere di moda, e parve corrisponde­ re allo spirito pop. Ma, come ho detto, quando uscì Zazie ebbe successo solo tra gli appassionati di cinema c i critici. 43

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Era troppo in anticipo, persino oggi è eccessivo. Non ave­ vo preso alcuna precauzione, volli deliberatamente corre­ re dei grossi rischi. Ritenevo che fosse necessario, per me, andare il più lontano possibile in svariate direzioni, e poi tornare sui miei passi tentando di trarne il miglior partito possibile per i miei film futuri.

P.F. - È allora che le sembrò giunto il momento di pas­ sare al colore? Era il soggetto che le sembrava esigerlo? L.M. - Volevo lavorare con il colore fin dall’inizio, lo tro­ vavo più stimolante del bianco e nero, benché adesso pro­ vi un po’ di nostalgia per il bianco e nero, è così bello... ed è diventato quasi impossibile usarlo per ragioni commer­ ciali. A dire il vero, volevo fare Les Amants a colori, ma non avevo abbastanza denaro a disposizione, e il distributore era inflessibilmente contrario; in Francia, il colore era proprio agli inizi. Così rinunciai, c girai in bianco e nero. Voglio ag­ giungere un’altra cosa a proposito di Les Amants: fu girato in cinemascope: non si trattava solo di formato, di dimen­ sione, ma anche di stile: era elegante, ma molto estetizzan­ te, in un senso che non mi piaceva. Non ho mai più lavora­ to in quel formato, eccetto che per Viva Maria. Tornando a Zazie, dal punto di vista stilistico è l'esatto contrario di Les Amants. Benché sia un film unico nella mia opera, da­ to che non ho mai tentato di ripetere le esperienze-limite di Zazie — penso che mi sia servito molto ed è un film al quale sono affezionato. Vi era qualcosa di così avventuro­ so, in esso, di così impetuoso e così giovane... ed è ancora oggi un film molto stimolante da vedere. P.F. - A proposito del triennio 1959-61... mi chiedo fi­ no a che punto lei fosse consapevole di fare parte di un mo­ vimento più vasto. Ho letto recentemente un’intervista a Truffaut del I960, in cui egli rievocava i violenti attacchi portati dalla stampa alla Nouvelle Vague, proprio ad opera di coloro che l’avevano inventata, quei giornalisti che vi ave­ vano messo tutti insieme, e parlando dei leader del movi­ mento citava Chabrol, Godard, lei e se stesso. Un recente 44

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di Claude Beylie, Les Maitres du cinema fran^ais, la collo­ ca in un gruppo che precede la Novelle Vague, che egli definisce «la Transazione», e comprende Resnais, Astruc, Melville e una dozzina di altri. Che cosa ne pensa, retrospet­ tivamente? L.M. - Si dà il caso che io fui il^rimo della mia genera­ zione a fare fiction. Poco prima di Chabrol, un anno prima di Truffaut e, credo, due anni prima di Godard... ma seguim­ mo tutti in rapida successione. Quando girai Ascensore, al­ la fine del 1957, non c’era nulla di paragonabile alla Nouvelle Vague, esistevano solo le vecchie strutture dell’indu­ stria cinematografica francese, ed era diffìcilissimo per un giovane cineasta farsi strada. Poi, all’improvviso, quattro, cinque, sei registi realizzarono il loro primo film. Quello che spesso si dimentica di dire, parlando della Nouvelle Vague — e della ragione che fece sì che la si prendesse tanto sul serio — fu che il primo film di ognuno di noi (e persino i nostri due primi film) furono enormi successi commerciali. Improvvisamente, i produttori si accorsero che quei gio­ vani, con un quarto dei costi di un Clement o di un Bec­ ker, facevano film che funzionavano bene. Così venimmo lanciati dal giorno alla notte, e ogni produttore parigino vo­ leva fare film con noi. Non durò molto, perché ben presto gli incassi al botteghino divennero disastrosi, non tanto per Truffaut, quanto per Chabrol, per Godard e per me con Za­ zie, come abbiamo dette. Personalmente, a partire da Les Amants cominciai a produrmi da solo i miei film. Sentivo che avrei avuto maggiore libertà, e poi i produttori non mi piacevano. Avevo quindi la mia casa di produzione, come Truffaut. Poi, non ebbi più a che fare con loro se non un paio di volte, per esempio per il film successivo a Zazie, Vita privata-, ma fu più che altro un caso. Non entrai mai a far parte del gruppo dei «Cahiers du Cinema»; erano molto legati, erano tutti amici, si erano aiu­ tati l’un l’altro a fare prima i loro cortometraggi e poi i pri­ mi film; c’era tra di essi un rapporto di amicizia veramente saldo. Non ho mai fatto parte di quel gruppo, ma li cono­ scevo, ed eravamo, penso, molto consapevoli del fatto che 45

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ciò che avevamo in comune era il folle amore per il cine­ ma. Volevamo reagire a quella che era diventata una routi­ ne nel cinema francese di allora, e alcuni di noi arrivarono perfino a mostrarsi molto ingiusti nei confronti del cinema degli anni cinquanta; c’erano grandissimi registi, in Fran­ cia. Non parlo solo di Bresson; ma c’era Becker; Clouzot era un regista brillante; Autant-Lara realizzò grandi film. E gli ultimi due furono letteralmente trascinati nel fango dai «Cahiers du Cinéma». Alcuni di noi dovettero pazientare. Il primo film di Eric Rohmer, Il segno del leone, fu un disa­ stro commerciale. Gli ci vollero parecchi anni prima di gi­ rare La Collezionista nel 1967. Poi fece un film all’anno. Ma quelli di noi che ebbero successo al botteghino voleva­ no fare fuori la vecchia generazione, il che era ingiusto. Era come un cambio della guardia, in un certo senso. Non cre­ do che sia mai successo né prima né dopo, nella storia del cinema, che un gruppo di registi con un’età media di venti­ cinque anni si impadronisse di colpo del potere. E fu rigorosamente un movimento di registi, con una nuo­ va sensibilità. In un certo senso, eravamo figli di quella nuo­ va pellicola Kodak, la Tri-X, dato che fu di colpo possibile fare riprese per strada, in interni veri, con pochissima luce, cioè con una troupe ridotta, budget limitati, e quindi libertà di lavorare in modo molto più aderente alla realtà rispetto al­ la vecchia generazione. La Nouvelle Vague fti un ritorno a ciò che era sempre stato una dominante nel cinema francese: il realismo. Il paradosso fu che in quegli anni giravo molto in studio. Gran parte di Ascensore, Les Amants e Zazie fu gira­ ta in studio. Ma costituivo un’eccezione. Un’altra differenza è che i rappresentanti della generazione precedente erano di­ ventati registi per caso. René Clair aveva cominciato come scrittore e continuò a scrivere per tutta la vita. Bresson era pittore e sosteneva di non aver mai visto un film. Noi ci lan­ ciammo nel cinema perché il cinema per noi era il solo ed unico mezzo espressivo: è una grossa differenza, a mio giu­ dizio. Il nostro punto di riferimento era il grande cinema del passato; c’era una comune ammirazione per Bresson e Renoir, e ovviamente per i grandi registi di Hollywood degli anni tren­ ta, quaranta e cinquanta... l’epoca d’oro di Hollywood. 46

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P.F. - Benché foste estremisti in fatto di arte, e provvisti di una coscienza storica, non c’era tra voi molto interesse per la politica. Nacquero del resto moltissimi equivoci al riguardo. In Inghilterra, la maggior parte della gente è con­ vinta che Truffaut fosse di sinistra, cosa che non era affatto vera. E così Rohmer.

L.M. - Oh, Truffaut era sentimentalmente di sinistra. Ma penso che, di tutti noi, fosse quello che si interessava me­ no di politica. Ricordo che nel maggio del 1968 si rifiutò di farsi coinvolgere. A me la politica interessava moltissi­ mo, e credo che alcuni dei miei film esprimano una visio­ ne critica di alcuni aspetti della società francese — film pe­ raltro molto diversi, come Les Amants e Zazie. Ma non ho mai fatto un film politico nel vero senso della parola. Dal­ l’epoca in cui, alla fine degli anni cinquanta, la guerra d’Al­ geria giunse all’apice, fino a quando i francesi non si ritira­ rono nel 1962, ero radicalmente contrario al conflitto e mol­ to partecipe, ma non tentai di trasferire questo impegno nel mio lavoro. Sono sempre stato convinto che il cinema mi­ litante è, quasi per definizione, votato alla mediocrità. Ci sono alcune prestigiose eccezioni — potrei menzionare Ejzenstejn — perché si ebbero periodi nella storia in cui i re­ gisti furono totalmente integrati al movimento rivoluziona­ rio. Mi sembra che nel momento in cui si cerchi di convin­ cere o dimostrare, si fa necessariamente qualcosa di artisti­ camente semplicistico. Nel mio lavoro degli anni seguenti, pur affrontando temi politici, come in Cognome e nome: Lacombe Lucien, ho sempre cercato di evidenziare le con­ traddizioni e le complessità — l’opacità — di una situazio­ ne politica, piuttosto che schierarmi, semplificare, allo scopo di dare una dimostrazione. P.F. - Per quanto riguarda Vita privata, sappiamo dove si colloca nella cronologia dei suoi lavori... ma come le è venuta l’idea? È in parte un film biografico sulla Bardot, ma si può pensare che lei vi abbia messo anche un po’ della sua vita. 47

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L.M. - No, non sentivo di avere molte affinità con que­ sto film. Vita privata è uno dei pochi film che non sono nati da una mia idea. Zazie è tratto da un libro, ma fu mia la scelta di farne un film; provavo una fortissima attrazione e un senso di profonda affinità con quel libro, e di Fuoco fatuo potrei dire lo stesso. Invece, nel caso di Vita priva­ ta, il progetto del film mi giunse dall’esterno. Zazie era uscito da circa due mesi ed era un fiasco co­ lossale. Non me la presi, perché me l’aspettavo. Fu allora che un produttore, Christine Gouze-Rénal, mi propose di fare un film con la Bardot, o meglio, per la Bardot. L’idea era di fare un remake di Private Lives di Noel Coward con la sceneggiatura di Henri Jeanson22. Questi era un ottimo sceneggiatore, ma non credo che fossimo sulla stessa lun­ ghezza d’onda, e non avevo voglia di lavorare con lui. Pro­ posi anche di lasciar perdere. D’un tratto pensai che pote­ va essere interessante cercare di ricreare nel film l’evolu­ zione di quel fenomeno sociale che era divenuto la Bardot, un oggetto sessuale che si era trasformato anche in oggetto di scandalo. A modo suo, era una pioniera del movimento femminista. Non faceva politica, ma aveva deciso di vivere la sua vita come un uomo, di comportarsi come gli uomini, da tutti i punti di vista. P.F. - La conosceva?

L.M. - Un po’. Naturalmente, tutti quanti mi dissero di starne lontano, di non fare un film con lei, perché mi sarei cacciato nei guai. Aveva fama di essere insopportabile, go­ deva di una pessima reputazione. Era sulle pagine scandali­ stiche tutte le settimane: una vera ossessione per i francesi di entrambi i sessi. Molte donne la detestavano, moki uo­ mini la disprezzavano... anche se ovviamente ne erano at­ tratti. P.F. - Simone de Beauvoir scrisse un articolo su di lei.

L.M. - Sì, è molto interessante. Non la conosceva e ne fece un’eroina del femminismo. Collocava la Bardot su un 48

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piedistallo, come simbolo della rivoluzione femminista. Il pezzo non fu mai tradotto in francese, dato che la Beauvoir lo vendette a un prezzo molto alto a «Playboy», e credo che non fosse molto tranquilla, quindi non permise di pubbli­ carlo. P.F. - In inglese si intitolava Brigitte Bardot and thè Lo­ lita Syndrome. L.M. - Ricordo di averne tradotto alcuni paragrafi alla Bardot. Lei si era messa a ridere, e diceva: «Non ha nulla a che fare con me». Ma in realtà era una descrizione piuttosto pre­ cisa di ciò che lei rappresentava allora... oggetto di scanda­ lo e di controversie, Giovanna d’Arco per qualcuno, putta­ na per i più. Prima di scrivere la sceneggiatura con Jean-Paul Rappeneau, parlammo a lungo con lei e attingemmo qua e là dai particolari della sua vita, in modo che rispecchiasse abbastanza da vicino la realtà. Le attribuimmo origini so­ ciali diverse. La sceneggiatura risultò più diffìcile di quanto mi aspettassi. Ma avevamo un programma preciso di inizio e termine delle riprese, perché la Bardot aveva altri impe­ gni. Così, quando cominciammo a girare, non eravamo ve­ ramente pronti, e la sceneggiatura non era ancora termina­ ta. Jean-Paul la finiva mentre io stavo già girando, ci vede­ vamo di notte. Dato che giravo più o meno seguendo l'or­ dine cronologico, era possibile farlo, anche se estremamente rischioso. Non avevo quasi tempo per il casting, e i ruoli secondari risultarono piuttosto deboli. Ero disperato, infelice. La Bardot era diffìcile. Avevo ac­ cettato di prendere Marcello Mastroianni, anche se non ero convinto che fosse la scelta giusta. Marcello è un grande at­ tore, ma quella non era una parte adatta a lui, e lo sapeva. Cercò di ritirarsi una settimana prima dell’inizio; del resto, lo feci anch’io. Lui e la Bardot non si intendevano su nien­ te. Nel film erano previste scene d’amore lirico tra due at­ tori che a malapena si rivolgevano la parola e sul set si com­ portavano come due estranei. Dissi loro: «Non credo di es­ sere un regista abbastanza bravo da farlo funzionare, e da far credere che queste due persone siano follemente inna­ 49

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morate l’uno dell’altra sullo schermo, quando si detestano nella vita reale». Oggi penso che avrei potuto anche cavar­ mela, ma forse a patto di mettere alla porta uno dei due! Poi andammo tutti in Italia, a Spoleto, per l’ultima parte delle riprese. Allora dissi: «Oh!, adesso basta, divertiamoci un po’». E fu così che tutti cominciarono a rilassarsi. L’ulti­ ma parte è più improvvisata, ed io ero molto più sciolto nel lavoro. Ero un esordiente, non completamente a mio agio con questo mezzo d’espressione, ma fu la prima volta in cui filmai senza trovarmi in uno stato di tensione. Mi dice­ vo che non avevo nulla da perdere, e che comunque era ormai troppo tardi: e fu allora che le cose cominciarono a ingranare; le mie riprese diventavano organiche, sensuali. Mi sentii di colpo meglio e anche la sceneggiatura funzio­ nò di più. Per me fu un grande passo in avanti. Ho rievoca­ to molte volte dentro di me la fine delle riprese di Vita pri­ vata per tentare di ritrovare questo stato di grazia. Natural­ mente, dipendeva dal fatto che non mi facevo alcuna illu­ sione riguardo al film. Oggi, quando si vede il film, penso che si possa dire che l’inizio va bene, regge fino al momen­ to in cui lei non diventa una star. Regge anche il finale, a Spoleto. Un critico tedesco mi ha detto di recente di averci visto un tono alla Douglas Sirk. Funziona a un livello in cui il lirismo ha ben poco a che fare con la realtà. P.F. - Non è più in programmazione da molto tempo, è diffìcile riuscire a vederlo. È un peccato che qualcuno ab­ bia il potere, per indifferenza, magari, di impedire l’acces­ so a una sua opera. L.M. - Il film fu finanziato al cento per cento da uno stu­ dio di Hollywood, la MGM; sono loro i proprietari dei di­ ritti; è entrato dunque in una specie di cimitero, probabil­ mente non lo considerano abbastanza commerciale da me­ ritare di essere rimesso in distribuzione. Non ho nulla da dire in proposito. Non credo che esista in video. Quando uscì negli Stati Uniti, la MGM pensò che fosse troppo lun­ go per il pubblico americano, e ne tagliarono venti minu­ ti... i migliori, naturalmente, quelli finali. Ero così furioso 5()

Parigi e gli anni di formazione

che tentai di citarli in giudizio, ma ben presto rinunciai per­ ché il mio avvocato mi disse che avrei perduto in partenza e che, comunque, ci sarebbero voluti anni. La legge ameri­ cana conferisce tutti i diritti ai proprietari e nessuno agli autori.

P.F. - Deve essere stata una grande liberazione il momen­ to in cui si lasciò Vita privata dietro le spalle per comin­ ciare Fuoco fatuo, che secondo un parere quasi unanime è uno dei suoi film migliori, un film quasi perfetto. Ne è orgoglioso? L.M. - Assolutamente. Vita privata fu il primo dei mici film ad avere cattive recensioni: non si ottiene mai un con­ senso unanime, ma Ascensore, Les Amants e Zazie erano stati accolti molto bene. Vita privata fu demolito da molti critici. Ero disorientato, era stata un’esperienza disgraziata, e decisi di prendermi un anno sabbatico. Cominciai allora a interessarmi a ciò che stava succedendo in Algeria. Era il mio primo ritorno al documentario. Eravamo nel 1962, an­ no in cui la Francia rinunciava all'Algeria. Vi andai due vol­ te, trascorrendovi complessivamente quattro mesi. Girai in 16 mm. Non ero soddisfatto di quello che avevo girato e non montai mai il materiale, ma sentivo il bisogno di rituf­ farmi nel mondo reale. Quell’anno, filmai anche il Tour de France. Con una mac­ china da presa e insieme ad altri due operatori seguii il Tour, girando una grande quantità di pellicola. Poi misi tempora­ neamente da parte il materiale e tornai in Algeria. E a que­ sto punto cominciai a pensare a Fuoco fatuo. Alla fine, tre anni dopo, decisi di montare il film sul Tour. Realizzai un primo montaggio di quarantacinque minuti; mi pareva trop­ po lungo, e che sarebbe stato difficile farlo uscire così, per cui finii col farne un cortometraggio. Quindi per me il 1962 fu anche l’anno del ritorno al documentario. Vive le Tour fu un’esperienza bellissima, avevo nuovamente fra le mani una macchina da presa, e mi ci divertivo davvero molto.

P.F. - La bicicletta e il ciclismo hanno per lei qualcosa 51

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di eccitante e liberatorio. In effetti, sullo sfondo di Soffio al cuore, e all’inizio di Cognome e nome: Lacombe Lucien e Milou i personaggi principali vanno in bicicletta. L.M. - Ho fatto io stesso molto ciclismo, da sempre, e il Tour de France fa parte della mia infanzia. In Soffio al cuore (e questo è un elemento direttamente autobiografi­ co), alla fine, quando si trova alla stazione termale con la madre, Laurent torna nella stanza per ascoltare le notizie del Tour alla radio, e cade addormentato. Il Tour mi ha sem­ pre affascinato. Così nel 1962 decisi di seguirlo in moto con una macchina da presa. È un evento molto curioso, non solo come sport, ma anche come fenomeno sociale. L’intera Francia si ferma per tre settimane e oggi specialmente, con la televisione, è diventato un affare di enormi proporzioni. Girando Vive le Tour fui colpito dalla violenza, dalla soffe­ renza... probabilmente è lo sport più duro che ci sia. Così filmai gli incidenti, le cadute, gli sforzi incredibili dei corri­ dori quando scalano le montagne, e la fatica che si stampa sui loro volti. E anche l’atmosfera da circo che circonda il Tour, il lato commerciale, la folla... è incredibile. Parlai an­ che del fatto che i corridori si drogavano, in quegli anni. Si drogano anche adesso, ma prendono prodotti diversi. So­ no molto orgoglioso del mio cortometraggio e da allora ho pensato molte volte di seguire ancora il Tour de France. Nell’autunno del 1962 tornai a Parigi, dopo l’Algeria, e cominciai a scrivere una sceneggiatura su un giovane che si suicida. Fu il primo passo verso un nuovo film di fiction. La genesi di Fuoco fatuo è complicata, ma interessante, per­ ché rivela chiaramente il mio modo di lavorare. Avevo let­ to il libro molti anni prima. Era nella biblioteca dei miei ge­ nitori, insieme ad altre opere dell’autore. Drieu La Rochelle2^ aveva scritto Fuoco fatuo negli anni trenta, e du­ rante la guerra era stato collaborazionista. Nel dopoguerra, quand’ero studente, non lo leggeva più nessuno. Ma io mi interessavo in egual misura al fascista Drieu come ad Ara­ gon, che era comunista, e quindi di moda; del resto erano ottimi amici. A ogni modo, quando iniziai il mio progetto 52

Parigi e gli anni di formazione

non pensavo né a Drieu né a Fuoco fatuo. Un mio amico si era suicidato in circostanze che, in certo senso, erano mol­ to simili a quelle del libro. Drieu aveva scritto il suo romanzo ispirandosi a uno dei suoi migliori amici, il surrealista Jac­ ques Rigaut, che parlava sempre dell’idea di suicidarsi. Co­ me sempre succede in questi casi, nessuno gli credeva più, finché un giorno egli si uccise. Drieu era distrutto dal sen­ so di colpa: quando qualcuno che ti è vicino muore o si uccide, pensi sempre che avresti potuto fare qualcosa per impedirlo. Ecco perché scrisse quel libro, che è una trascri­ zione estremamente precisa degli ultimi giorni di Jacques Rigaut. Nel 1945 si uccise anche Drieu. Un mio amico, come ho detto, si uccise in circostanze analoghe: disse che partiva per un viaggio (era giornalista), salutò tutti quanti, e fu poi trovato nella sua stanza parec­ chi giorni dopo... si era sparato un colpo in bocca. Comin­ ciai a scrivere una variazione su questo tema: era la storia di una lunga notte parigina. Era ambientato nel 1962, al tem­ po deil’OAS24, il movimento di estrema destra nato in Al­ geria. Mettevano bombe ovunque a Parigi, in quell’inver­ no. Per poco non assassinarono André Malraux. Era dun­ que questo lo sfondo della mia sceneggiatura. Il personag­ gio centrale era alcolizzato, e all’alba, al termine di una lun­ ga notte, si suicidava. Scrissi un lungo svolgimento, ma non mi piaceva molto. Un amico mi parlò allora di Fuoco fa­ tuo, che aveva appena letto, e io dissi: «Oh, Fuoco fatuo. Sì, ricordo». Lo rilessi e in pochi giorni decisi, a torto o a ragione, che avrei fatto meglio a lasciar perdere la mia sto­ ria e adottare il libro di Drieu La Rochelle. Da allora le cose andarono molto in fretta. Feci io stes­ so l’adattamento. Fino ad allora avevo sempre lavorato con gli sceneggiatori. Decisi di prendere Maurice Ronet25, e co­ minciai a girare. In un certo senso, stavo cercando di na­ scondermi dietro Drieu La Rochelle, Jacques Rigaut e quel­ la storia che non era mia. Ma in realtà lo era; mi sentivo molto coinvolto in essa. Avevo appena compiuto trent’anni, e quel­ lo è sempre un momento diffìcile. Pensavo al fatto che la mia giovinezza era finita, come Alain Leroy, il personaggio del libro e della sceneggiatura. Ero io Alain Leroy. 53

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All’inizio mi ero chiesto se non sarebbe stato opportu­ no ambientare il film nel periodo in cui era stato scritto il libro, gli anni trenta, poi mi decisi per il presente, il 1962. Ma l’adattamento era molto fedele al libro, perché nel ro­ manzo c’era tutto ciò che volevo esprimere allora. Lo girai in bianco e nero. Avevamo un budget limitatissimo. P.F. - Un ritorno al bianco e nero fortemente contrasta­ to di Ascensore.

L.M. - Sì. Sa cosa accadde? In realtà avevamo iniziato a girare a colori, ma quando vidi i giornalieri dei primi due giorni di riprese non ne fui soddisfatto. Mi pareva che il co­ lore distogliesse troppo l’attenzione. Così decidemmo di punto in bianco di passare al bianco e nero. Girammo di nuovo le prime due giornate, ed ero contentissimo, perché è sempre bene rifarle. E poi continuammo in bianco e nero. Le riprese furono traumatiche: il soggetto era estrememente deprimente. Lavoravo con una troupe molto ridot­ ta. Venne tutto girato in ambienti reali. E l’intero film era incentrato sul protagonista, Maurice Ronet. Ricordo quando andai a trovarlo, stava girando un film a Madrid. Gli dissi: «Maurice, ti darò la parte». Ci teneva mol­ tissimo ad averla perché era un grande ruolo e, per ragioni personali, si sentiva molto vicino al personaggio. E poi gli dissi: «Ma devi perdere venti chili in due mesi, perché sei troppo grasso. Non hai l’aria di uno che è appena uscito da una cura disintossicante». Anche Maurice beveva, proprio come il personaggio, con la differenza, però, che non se ne preoccupava molto. Lo costrinsi quindi a perdere venti chili, e lui ci riuscì. Quando cominciammo a girare, il suo volto era emaciato ed esausto, un volto perfetto per la par­ te. Si può senz’altro dire che fu la migliore interpretazione di tutta la sua carriera. C’era un rapporto molto profondo tra lui e il personaggio; fu incredibilmente commovente. Temevo che Maurice addolcisse troppo il personaggio. Continuavo a pensare al mio amico, che era molto sgarba­ to e odiava tutto ciò che era sentimentale, al pari di colui che aveva ispirato il libro, Jacques Rigaut. Continuai a lot­ 54

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tare con lui perché rendesse più dura la sua interpretazio­ ne. Fu la prima volta che riuscii realmente a controllare l’in­ terpretazione di un attore. Sapevo ormai come fare per riu­ scirvi durante le riprese, e anche nel montaggio, in modo da affinare e dominare una interpretazione. Fu forse il pri­ mo film di cui ero veramente padrone. Mi ci erano voluti quattro film per cercare, trovare e imparare. Dal punto di vista dello stile, fu con Fuoco fatuo che trovai ciò che mi pareva giusto per me, la forma migliore per esprimere quello che avevo in mente. È molto austero e la macchina da pre­ sa è discreta. Avevo una sceneggiatura forte. Eravamo pre­ parati alla perfezione, perciò mi sentivo abbastanza sicuro per sperimentare e improvvisare. Il risultato fu un film che, secondo me, aveva due qualità che mancavano alle mie ope­ re precedenti. Primo, era completamente personale, deli­ beratamente personale, incredibilmente vicino a me; secon­ do, fu a partire da quel momento che cominciai a domina­ re il mezzo espressivo. Il film fu accolto molto bene, e la gente che aveva seguito il mio percorso si accorse che ave­ vo raggiunto un punto in cui ero davvero me stesso. Fuo­ co fatuo fu il primo film di cui ero totalmente soddisfatto. P.F. - C’è in questo film un senso di disgusto per la so­ cietà, o per un particolare strato della società, come pure un terribile disgusto di sé che conduce, in un certo senso, a vedere la morte come un processo purificatore, quasi una forma di salvezza. Eppure quest’idea è in contraddizione con l’idea cattolica, che le dovette essere inculcata nell’in­ fanzia, secondo cui il suicidio è un peccato mortale. L.M. - Quando presi il diploma, ricordo di aver riporta­ to uno dei voti più alti in filosofìa. L’argomento che ci era stato proposto era la frase iniziale di uno dei più famosi li­ bri di Camus, Il mito di Sisifo: «11 solo problema filosofico veramente serio è il suicidio». Ecco come ottenni il mio di­ ploma: ero entusiasta di quel libro e lo conoscevo quasi a memoria. Con Fuoco fatuo avevo la sensazione di confron­ tarmi con un argomento che evitavo da anni: il mio ambiente e la rigida educazione cattolica che avevo ricevuto. In real-

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tà ero stato espulso dal collegio (quello di Arrivederci ra­ gazzi), dopo due anni, perché i gesuiti trovarono degli ap­ punti in cui avevo scritto che odiavo Dio. Era puerile, ma a partire dai quattordici o quindici anni cominciai a ribel­ larmi, e pareva che non avrei mai smesso. Era sicuramente qualcosa di positivo, ma che dovevo superare per arrivare a un punto in cui poter dire: «Ecco, questa è fatta, me ne sono liberato, andiamo avanti!». Fuoco fatuo fu per me una catarsi. D’altro lato, il film non affronta effettivamente il pro­ blema del suicidio in termini di peccato o di colpa. E un film esistenziale, che si limita a osservare semplicemente il comportamento di qualcuno che, in un certo senso, è si­ mile a certi altri personaggi dei miei film... Sebbene abbia quasi trent’anni, il protagonista è rimasto un adolescente. Si potrebbe dire che la ragione principale del suo suicidio sta semplicemente nel rifiuto di diventare adulto. Quando esce dalla clinica, dopo la cura, va a Parigi a trovare i suoi amici, e finisce per ricominciare a bere. Va dall’uno all’al­ tro, e tutti gli dicono: «Guardami, sto cercando di diventa­ re adulto, quell’epoca è passata, non puoi più vivere così, devi diventare serio, devi cambiare». Non che non possa farlo, ma ha stabilito che non gli interessa. È quindi quasi come se il suicidio fosse l’unico modo di uscirne, l’unica soluzione: suicidandosi sa, in virtù di uno strano ragiona­ mento, che la sua morte dirà ai suoi amici che i loro tentati­ vi sono votati al fallimento. È un film molto pessimistico e cupo, ma per me fu una liberazione. Mi diede la possibilità di passare ad altro. Al tem­ po stesso, come regista, fu quello il momento in cui sentii di essere in grado di esprimere cose che avevo tentato di affrontare in precedenza, ma con minor successo. Dato che avevo scritto io stesso la sceneggiatura, sentivo di esserne totalmente responsabile, che era veramente un’opera mia, che ero debitore nei confronti di tutti quelli che facevano parte di questa catena, da Jacques Rigaut a Drieu La Rochelle, al mio amico, a Maurice Ronet e a me stesso. Le avevo dato vita nella forma di un film, e non mi preoccupava minima­ mente ciò che il pubblico avrebbe potuto pensare. Ricor­ 56

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do di aver dichiarato che, pur sapendo che il film doveva uscire, avrei preferito tenerlo per me e non mostrarlo al pub­ blico, perché l’avevo fatto soprattutto per me. Sia la forza del film, sia un certo stato di grazia nel modo di girarlo pro­ vengono da questo. Fu anche la mia prima collaborazione con la montatrice Suzanne Baron. Continuai a lavorare con lei fino alla fine degli anni settanta e anche nei miei film ame­ ricani. Mi aiutò a scoprire le infinite possibilità del montag­ gio... come poter raffinare il materiale delle riprese dando­ gli un ritmo, migliorando le prove degli attori e puntando all’essenziale. Un’altra cosa che scoprii grazie a Fuoco fatuo.

P.F. - C’è una fotografìa di lei e Maurice Ronet al festi­ val di Venezia per Fuoco fatuo, in cui sembrate due fratel­ li. È per questa somiglianza fisica che lei quasi si identificò con lui nel film?

L.M. - Eravamo molto vicini, molto intimi. Lui era stato il protagonista di Ascensore per il patibolo, e da allora era­ vamo rimasti ottimi amici. Era un periodo della mia vita in cui vivevo di notte. Scrivevo o montavo fino alle due o al­ le tre del mattino, e poi andavo in un locale. Bevevo. E per tutti quegli anni Maurice aveva vissuto allo stesso modo. La mia collaborazione con lui nella realizzazione del film fu di gran lunga la più stretta che abbia mai avuto con qual­ siasi altro attore o attrice. C’è una scena in cui egli si veste nella sua stanza in clinica, e nell’armadio ogni cosa era mia. Avevo messo tutta la mia roba in alcune valigie e le avevo portate sul set. Camicie, vestiti, cravatte, tutto, persino la pistola era mia. Ero quasi risentito che fosse lui a recitare la parte. Ma allo stesso tempo sapevo che lo avrebbe fatto bene, anche se ero molto duro con lui. Continuava a dir­ mi: «Louis, lasciami recitare». Sì, c’era una strana osmosi tra noi. Poi, per diverse ragioni, ci perdemmo di vista. Ma in quel periodo eravamo incredibilmente vicini.

P.F. - Guardando i suoi film parigini e in particolare Ascensore, Les Amants e Fuoco fatuo si possono notare al57

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curii aspetti simili a ciò che, in quello stesso periodo, faceva Antonioni. Lei ha usato l’espressione «esistenziale», che si po­ trebbe attribuire anche ai film di Antonioni. Jeanne Moreau, dopo aver lavorato con lei, recitò in La notte. Mi ha improv­ visamente colpito, rivedendo Fuoco fatuo, il fatto che, così come la ragazza di L'avventura scompare su un’isola dopo essersi probabilmente suicidata, ed essersi lasciata dietro una copia di Tenera è la notte di Scott Fitzgerald, così l’ultima cosa che fa Ronet in Fuoco fatuo è leggere II grande Gat­ sby dello stesso autore. Retrospettivamente, trova che quel film di Antonioni somigli in qualche modo al suo?

L.M. - Incontrai Antonioni a Parigi, pochi mesi dopo l’a­ scensore Mi disse che era stato affascinato dalle scene in cui Jeanne Moreau passeggia sugli Champs Élysées, dal suo modo di camminare, da come muoveva i fianchi. Continuò a parlarmene a lungo. P.F. - Era qualcosa che anticipava la famosa passeggiata tipica dei film di Antonioni?

L.M. - Esattamente. Ma credo che allora avesse già gira­ to L'avventura. P.F. - No. Girò quel film diversi anni dopo. L'avventu­ ra uscì nel I960. Tre anni dopo Ascensore. L.M. - Allora è ancora più interessante. Credevo che l’a­ vesse già girato. Quando andammo a Venezia con Fuoco fatuo, gli italiani ne furono entusiasti. Vincemmo il premio speciale della giuria, e il film era in perfetta sintonia con la sensibilità di molti registi italiani dell’epoca. Poi, come al solito, partii in un’altra direzione. Le ripre­ se di Fuoco fatuo erano state così deprimenti... Nel bel mez­ zo di esse, una domenica pomeriggio in cui ero solo nel mio appartamento, a Parigi, mi dissi che il film successivo sa­ rebbe stato molto spettacolare, avventuroso, e si sarebbe svolto in un paese esotico, sarebbe stato una commedia, in cinemascope e a colori. Fu allora che scrissi le prime due 58

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pagine di Viva Maria. Ebbi la bizzarra idea di mettere in­ sieme Brigitte Bardot e Jeanne Moreau. Non sapevo che sta­ vo per cacciarmi nei guai.

1. Roger Leenhardt (1903-85): illustre critico francese c regista di nu­ merosi brevi documentari (dedicati soprattutto a figure di artisti e scrittori). I suoi unici due film di fiction sono Les dernières vacances ( 1948) e Le Rendez-vous de minuto ( 1962). Compare come attore in Una donna sposata (\964) di Jean-Luc Godard, ed è stato defini­ to da Claude Beylic «il padre spirituale della Nouvelle Vague*. 2. Monsieur Vincent (1947): film agiografico (scritto in collaborazione con Jean Anouilh e diretto da Maurice Cloche) sulla vita di San Vin­ cenzo Paoli, interpretato da Pierre Fresnay. Finanziato con fondi rac­ colti nelle parrocchie di tutta la Francia (e certamente anche con il contributo della signora Malie), vinse l’Oscar come miglior film straniero. 3. Le avventure del Barone di Mtincbbausen (1943): film fantastico di Josef von Baky (scritto sotto pseudonimo da Erich Kastner), fu un'i­ dea personale di Josef Goebbels per celebrare il venticinquesimo an­ niversario deirUFA di Berlino; fu una delle produzioni più costose del cinema del Terzo Reich. 4. Jacques-Yves Cousteau (1910): ufficiale di marina e oceanografo di fama mondiale, al quale si deve la messa a punto di alcune apparec­ chiature subacquee come lo scafandro autonomo. Capitano della nave-ricerca «Calypso» a partire dal 1951, realizzò documentari mol­ to apprezzati dal pubblico, e scrisse libri di successo. 5. Alain Cavalier (1931): regista francese. Fu assistente di Malie, che pro­ dusse il suo primo film Le combat dans Vile (1962). Da allora girò una mezza dozzina di film, vincendo il premio della giuria a Cannes nel 1986 con Thérèse, scritto in collaborazione con la figlia Camille de Casabianca. 6. Michel Mitrani (1930): regista francese che ha lavorato principalmente per la televisione. Per il cinema realizzò La Cavale ( 1971 ) e Les Guiebets du Louvre (1974). 7. Jacques Becker (1906-60): per lungo tempo aiuto regista di Jean Re­ noir, fu tra i pochi vecchi registi a venire apprezzati dalla Nouvelle Vague. Diresse il primo dei suoi tredici lungometraggi durante l'oc­ cupazione e negli anni ’50 girò Le sedicenni (1949), Casco d'oro (1952), GnsW(1953). Suo figlio Jean ha diretto film polizieschi, e un altro figlio, Étienne, fu operatore di Malie in India.

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8. Il 25 luglio 1956 il transatlantico italiano «Andrea Doria*, nel corso del suo viaggio inaugurale, affondò al largo di Nantucket in seguito a una collisione con la nave di linea svedese «Stockholm*. Nel nau­ fragio persero la vita cinquantun persone. 9. Roger Nimier (1902-64): romanziere e polemista francese autore dei romanzi Le bussarci bleu (1950), Les épées (1949), Enfants tristes (1957), come di saggi quali Le Grand d'Espagne. Fu anche direttore di collana alla Gallimard e scrisse dialoghi e sceneggiature cinemato­ grafiche. Morì in un incidente stradale. 10. Henri Decaé (1915-87): uno dei più grandi operatori francesi, lavorò regolarmente con Melville e tenne a battesimo le prime prove di Malie, Claude Chabrol e Francois Truffaut. Come l’altro grande operatore della Nouvelle Vague, Raoul Coutard, utilizzò macchine da presa leg­ gere e pellicole rapide. 11 .Jean-Pierre Melville (1917-73): ufficiale delle «Forces fran^aises libres», produsse da sé i propri film nei suoi studi, e fu un grande ammirato­ re del cinema poliziesco hollywoodiano. 1 suoi film, in particolare Bob il baro, prepararono la strada alla Nouvelle Vague. E il regista intervistato da Jean Seberg in Fino all 'ultimo respiro di Jean-Luc Godard. 12. Miles Davis (1926-91): celebre trombettista di jazz moderno, origi­ nario dellìllinois. Studiò piano e composizione alla Julliard School of Music di New York con Dizzy Gillespie e Charlie Parker. Compo­ se la musica per il documentario Jack Johnson (1970), ma Ascensore per il patibolo fu l’unico film di fiction di cui scrisse la colonna so­ nora. 13. René Clément (1914): prima di Operazione Apfelkem (1964) e La bella e la bestia (con Cocteau), fu regista di documentari. Realizzò anche Giochi proibiti (1951), Delitto in pieno sole (1959) e una coproduzione franco-inglese, Les Félins (1954). 14. Boris Vian (1920-59): romanziere, drammaturgo, poeta, traduttore (di Raymond Chandler, Strindberg, Brendan Behan) e trombettista jazz. Dopo aver studiato ingegneria, lavorò per l’ufficio nazionale Pesi e Misure c fu una figura preminente dei circoli della rive gauche. Col­ laboratore a «Les temps modernes», fece la satira di Sartre nel vio­ lento romanzo La schiuma dei giorni (1947). Con lo pseudonimo di Vernon Sullivan, scrisse Sputerò sulle vostre tombe (1947), un li­ bro che fece scandalo. Come il Laurent di Soffio al cuore, soffriva di insufficienza cardiaca, e morì d’infarto, nel cinema in cui era an­ dato a vedere il Him vietato tratto da questo romanzo. 15. Dominique Vivant, barone di Denon (1747-1825): diplomatico, arti­ sta. scrittore e archeologo. Favorito alla corte di Luigi XV e Luigi XVI, prestò servizio all’estero in Svezia e in Italia e lavorò come pittore e incisore. Le sue proprietà furono conHscate sotto la Rivoluzione, ma sua moglie fu salvata durante il periodo del Terrore dall’amico Jacques-Louis David. In seguito accompagnò Napoleone Bonaparte

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Parigi e gli anni di formazione nella campagna d'Egitto e al suo ritorno divenne direttore generale dei musei. Point de lendemain è la sua unica opera narrativa. 16. Louise de Vilmorin (1902-69): scrittrice e poetessa francese, frequentò gli ambienti dell'alta società (il suo secondo marito era il Conte Paul Palffy e fu l'ultima compagna di André Malraux). Diversi suoi libri vennero adattati per il cinema, e il più importante è ! gioielli di Ma­ dame de... di Max Ophuls (1953). 17. Alexandre Astrae (1923): critico, documentarista e regista indipen­ dente. In un saggio del 1948 su «L’Écran fran^ais» usò per primo l'e­ spressione «caméra-stylo» per avanzare l'idea di un cinema che di­ venti un mezzo di scrittura flessibile come il linguaggio scritto. 18. Gaston Modot ( 1887-1970): attore francese, pittore e amico di Picas­ so e Modigliani; nel corso dei suoi cinquant'anni di eccezionale car­ riera cinematografica lavorò in L'Àge d'or di Bunuel (1930) e La re­ gola del gioco di Renoir (1939), dove faceva il guardiacaccia. La vo­ lubile moglie del guardiacaccia era interpretata da Paulette Dubost. che fu anche la madre del protagonista di Milou a maggio. 19. Raymond Queneau (1903-76): romanziere d'avanguardia, matemati­ co, filosofo e redattore dell'«Enciclopedia Plèiade». Tra i primi a fare parte del movimento surrealista, continuò la tradizione di Alfred Jarry fondando il «Collège de pataphysiquc», a cui furono iscritti Boris Vian e Louis Malle. I suoi romanzi sono ricchi di invenzioni linguisti­ che e giochi verbali nello stile di Joyce: l’inizio di Zazie nel metrò (1959), il suo libro più popolare, è comprensibile solo se viene letto ad alta voce. Lavorò alla sceneggiatura di due film eccezionali, Les Félins di Clement e Vittoria amara di Nicholas Ray (1957), e inter­ pretò Clemenceau in Landra di Chabrol (1963). 20. Jean-Paul Rappeneau (1932): sceneggiatore e collaboratore di Malie, diresse soltanto quattro film dopo il notevole debutto segnato da L'ar­ mata sul sofà ( 1966), un'audace commedia ambientata all'epoca del­ l’occupazione. Il suo Cirano di Bergerac (1990) gli ha meritato un posto di primo piano tra i registi francesi. 21. Richard Lester ( 1932): dopo aver lavorato alla TV americana, collaborò con i Goons (dirigendo The Running, Jumping and Standing Still Film), e contribuì a creare lo stile «swinging London» con i film dei Beatles Tutti per uno ( 1 $>64) e Aiuto! ( 1965). Da allora alterna biz­ zarri film di scarso valore, come Petulia (1968), a grandi operazioni impersonali come la serie di Superman. 22. Henri Jeanson (1900-70): dopo essere stato attore e critico cinema­ tografico, divenne uno dei più prolifici sceneggiatori francesi. Lavo­ rò con la maggior parte dei grandi registi dell’epoca classica, com­ presi Julien Duvivier per II Bandito della Casbab (1936) e Marcel Car­ nè per Albergo Nord (1938). Diresse solamente un film, Panarne (1950). Come critico fu tra i primi antagonisti del gruppo dei «Cahiers du Cinèma».

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Il mio cinema

23. Pierre-Eugène Drieu La Rochelle (1893-1945): la sua esperienza nelle trincee, durante la prima guerra mondiale, fu un trauma, e la sua suc­ cessiva carriera di romanziere, poeta e saggista riflette le posizioni che egli assunse tra le due guerre nei confronti del cattolicesimo, del pacifismo, del comuniSmo e del fascismo, così come le incertezze ricorrenti circa la propria sessualità. Durante la seconda guerra mon­ diale, ambiguo simpatizzante del nazismo, diresse la «Nouvelle revue fran^aise», tentando di intervenire a favore di coloro che venivano perseguitati per motivi razziali o politici. Si suicidò nell'aprile del 1945. Fuoco fatuo fu pubblicato nel 1931 24. OAS: iniziali di «Organisation de l’Armée Secrète», fondata nel 1961 in seguito al fallimento della rivolta dei generali contro De Gaulle, nel tentativo di mantenere il possesso francese dell'Algeria. Violen­ temente attiva in Francia c in Nord Africa per circa diciotto mesi, scomparve quando l'Algeria ottenne l’indipendenza. 25. Maurice Ronet (1927-83): figlio di un attore e di un’attrice, interpre­ tò, prima di Ascensore per il patibolo e Fuoco fatuo, romantici ruoli di attor giovane sulla scena e sullo schermo. Come il personaggio di Fuoco fatuo, il suo ruolo più bello, era alcolizzato. Divenne, per un certo periodo, la star di numerose coproduzioni internazionali, e diresse egli stesso due film, Le Voleur de Tibidabo (1965) e Barileby (1978). La sua ultima interpretazione importante fti quella del ca­ pobanda in La spiata di Bob Swaim (1982).

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Il - Tempo passato, tempo presente

P.F. - Per la maggior parte del pubblico Viva Maria è un film divertente. E stato divertente anche girarlo?

L.M. - No, per niente. Fu una montatura dei media fran­ cesi. Ho sempre girato i miei film in modo assolutamente discreto. Di solito la stampa non è presente durante le ri­ prese. Cerco di non parlarne con nessuno finché non è ter­ minato il film. Quando raggiunsi il set, il primo giorno del­ le riprese, c’erano addirittura settanta giornalisti, non solo francesi, ma anche americani e italiani... era ridicolo. Nei mesi precedenti l’inizio delle riprese, si erano inventati la storia della rivalità tra la Moreau e la Bardot: i giornali rac­ contavano che si odiavano, il che era totalmente falso. Pre­ sentarono il film come un duello tra le due attrici. «Chi avrà la meglio?». Ovviamente, ciò che si proponeva il film era tutt’altro. Era un film sull’amicizia... su un certo genere di rivalità, è vero, ma basato sull’amicizia. Tutto quel battage creò quindi un’atmosfera quasi intollerabile, le riprese fini­ rono per diventare faticosissime. Ho già sperimentato di­ verse volte che quando si ha un grande budget a disposi­ zione, si ha meno libertà perché, alla fine, ci si rende conto che, per quanto grande sia il budget, non è mai sufficiente. Se un film come Fuoco fatuo superava il costo preventiva­ to, non era importante, perché si trattava di un film poco costoso. Ma con Viva Maria girammo in una quantità di luoghi diversi, sparsi per tutto il Messico, la troupe era im­ mensa e i problemi logistici colossali. Jeanne e Brigitte si 63

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ammalavano a turno. Dovevamo costantemente aggiorna­ re il calendario delle riprese. Però scrivere la sceneggiatura con Jean-Claude Carrière1 fu divertentissimo. P.F. - Come entrò in contatto con lui? All’epoca non era particolarmente famoso.

L.M. - Aveva lavorato con Pierre Étaix2 e aveva appena finito di scrivere con Bunuel II diario di una cameriera. Beh, ammiravo molto Bunuel: lo conobbi in Messico men­ tre stavo facendo i sopralluoghi per il film. Dato che mi era piaciuto il suo lavoro per II diario, andai a trovare Carrière e gli chiesi di aiutarmi a scrivere una sinopsi. Ma non girai Viva Maria subito dopo Fuoco fatuo-, avevo bisogno di un po’ di respiro. Così andai dal produttore di «Cinq colonnes à la une> (un ottimo programma d’informazione della tele­ visione francese), Pierre Lazareff, che era anche il direttore di «France Soir», e gli dissi: «Mi piacerebbe fare qualcosa per lei*, e lui accettò. Un esempio tipico del modo bizzarro in cui lavoro. Gli dissi: «Andrò in Vietnam». Era il momen­ to in cui la guerra americana in Vietnam cominciava a farsi seria. Giunsi, guarda caso, a Saigon due giorni dopo l’as­ sassinio del primo ministro Diem. Fu come se, improvvisa­ mente, ci fosse una macchina da presa ogni metro quadra­ to: l’intera stampa mondiale aveva fatto capo a Saigon. Rimasi una settimana con la mia troupe televisiva, e mi accorsi di non essere adatto a fare il reporter. Così portai tutti quanti al confine con la Thailandia, dove non stava ac­ cadendo nulla, a parte il fatto che si trattava del retroscena della guerra del Vietnam. Decisi di fare un film di venti mi­ nuti su un paese dove non stava accadendo nulla e del qua­ le non si parlava sui giornali. Improvvisai completamente, cercando di cogliere alcuni aspetti della Thailandia. Anche se dal punto di vista giornalistico era del tutto privo d’inte­ resse, volevo mostrare che qualsiasi cosa poteva essere in­ teressante. Quindi fu in parte una dimostrazione, e in parte una ricerca personale che finì per essermi d’aiuto più tardi, quando andai in India. Inoltre, avevo accettato di mettere in scena un’opera per 64

mondo del silenzio (1956): il subacqueo osserva un abitatore degi abissi; sopra, I । .ipitano Cousteau (a destra) si prepara per un'immersione.

Soffio a! cuore (1971): Laurent (Benoìt Ferrcux) si confessa sotto io sguardo mor­ boso del professore (Michel Lonsdale); sopra, Benoìt impara a fumare il sigaro sot­ to l’occhio critico del regista.

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Gian Carlo Menotti, al Festival di Spoleto. Quando girai Vi­ ta privata in quella città, avevo conosciuto Menotti, che mi disse: «Deve ritornare a fare qualcosa per noi». Mi piace la musica, per cui gli risposi: «Perché no?». Mi chiese se mi sarebbe piaciuto II cavaliere della rosa. Così andai a Spo­ leto per circa due mesi, e diressi // cavaliere della rosa. Al­ lora avevo come assistente Volker Schlòndorff-\ che mi fu utilissimo perché è un’opera in tedesco, lingua che praticamente non parlo. Con me c’era anche Jean-Claude Carriè­ re; così provavo con i cantanti e contemporaneamente la­ voravo al testo di Viva Maria, cosa che potrebbe spiegare il carattere un po’ teatrale del film.

P.F. - È interessante il fatto che il film sia stato comincia­ to in Italia, dato che anticipa in qualche modo la moda del western all'italiana, che sarebbe esplosa un paio d’anni dopo. L.M. - Non ci avevo pensato. Divertente.

P.F. - La trama di Viva Maria è molto simile a quella uti­ lizzata alcuni anni dopo da Sergio Leone per il suo ultimo western, Giù la testai, che narra di un esperto di esplosi­ vi dell'IRA che indottrina un messicano durante la rivolu­ zione. Un personaggio simile a quello della Bardot rispetto a Jeanne Moreau. Aveva un modello? Aveva mostrato a JeanClaude Carrière certi film? Vengono in mente alcuni western, come II diavolo in calzoncini rosa? di George Cukor, che possiede un po’ la stessa qualità visiva e l’idea di una com­ pagnia teatrale in tournée attraverso il West. L.M. - Come molti altri della mia generazione, ero un grande appassionato del cinema americano di quei perio­ do, gli anni quaranta e cinquanta. Ovviamente, il western era un genere che adoravamo. La mia idea era quella di met­ tere due donne in una situazione in cui normalmente nei film di Hollywood si trovano sempre due uomini, due ami­ ci. Il miglior esempio di ciò è Vera CruzP. E quando ne par­ lai per la prima volta con Carrière, gli chiesi: «Si ricorda di Vera Cruz?», e lui: «Naturalmente». 65

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P.F. - Uno dei film preferiti di Sergio Leone, che nel 1961 fu assistente di Aldrich. Avevano anche lavorato insieme a Sodoma e Gomorra. L.M. - Pensammo che potesse essere divertente mettere la Bardot e la Moreau nella stessa situazione di Cooper e Lan­ caster in Vera Cruz e trarre un pastiche da quel genere di film, che si basa sull’amicizia. Quello fu il nostro punto di partenza. Ci rendevamo entrambi conto dell’importanza che avevano avuto, nella nostra infanzia, quelle grandi riviste d’inizio secolo, raccolte in volumi, «Le Monde Illustre» e «Le Journal des voyages». Ce n’erano a dozzine, nel solaio di casa mia. Ne ho conservato ancora alcune, a dire il vero. Avevano delle bellissime riproduzioni. C erano, per esem­ pio, dei racconti su certi ragazzi perduti in Amazzonia, con grandi illustrazioni di bambini nella giungla circondati da animali feroci di ogni sorta. Quelle immagini avevano nu­ trito le nostre fantasie infantili, e così ci rituffammo in quei libri per trarne ispirazione. I problemi che sorsero durante le riprese di Viva Maria derivavano da questo: cercavo di combinare un’evocazio­ ne di fantasie infantili con un pastiche del film d’avventura tradizionale. E, in fin dei conti, non è sorprendente che sia diventato un grande film in cinemascope. Mi feci prendere la mano, e questo pastiche di film d'avventura divenne alla fine un vero film d’avventura, perdendo in tal modo un po’ del suo mordente. Alcune cose del film sono molto diver­ tenti: in un certo senso, vi si trovano certi aspetti di Zazie, le stesse gag assurde; il nostro obiettivo non fu mai quello di fare qualcosa di realistico... ma piuttosto una proiezione dell’immaginazione. Idealmente, speravo che lo spettatore lo guardasse con la stessa meraviglia che provavo io quan­ do, da bambino, leggevo quei libri. Ma il film prese un’al­ tra direzione; fluttuava tra due generi, cercava di essere trop­ pe cose insieme. Come ho detto, disponevo di un grande budget, un grande budget francese, ma ritengo che per rea­ lizzare questo genere di film occorra ancora più denaro, e soprattutto più tempo. Alla fine, dovetti andare in fretta per­ ché c erano problemi di logistica, a parte moltissimi altri 66

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impicci... non solo con le star, ma anche con il governo mes­ sicano.

P.F. - Trovo che i «numeri» musicali funzionino molto bene. Le due attrici legano meravigliosamente sulla scena, e capita spesso che le coppie del music-hall si detestino nella vita reale. Ha introdotto delle variazioni comiche su due temi che ritornano nei suoi film più seri: uno è che la Bardot viene ingaggiata come partner dalla Moreau perché è stata testi­ mone del suicidio di colei che l’accompagnava nel suo «nu­ mero»... si sarà inquietato, pensando al modo in cui la gen­ te avrebbe potuto recepire la cosa. E l’altro è l’anticlericalismo presente in quella che per lei è sicuramente la parte più seria del film, verso la fine, e che si esprime attraverso delle gag... per esempio, quando il dittatore viene rimesso al potere grazie all’intervento della Chiesa, che non tollera la concorrenza che le fanno le donne; o ancora, quando si riaprono i vecchi sotterranei dell'inquisizione e si scopre che gli strumenti di tortura non funzionano più. Secondo me la sequenza della tortura è troppo lunga.

L.M. - Sì, certe gag sono molto esili, ma ho rivisto di re­ cente il film e, dopo tanti anni, mi ha divertito molto... più di quanto non pensassi. Fu uno strepitoso successo com­ merciale; salvo in America, dove fu un fiasco. Nei paesi so­ cialisti, il film venne accolto incredibilmente bene. Lo pre­ sero per una metafora dello stalinismo. Fassbinder mi rac­ contò che gli studenti dell’università di Berlino erano en­ tusiasti del film. Era l’epoca dei movimenti studenteschi estremisti, e si videro nelle eroine due diversi approcci alla rivoluzione. La Bardot è l’azione, la lotta armata, il terrori­ smo. L’altra, la Moreau, cerca di raggiungere i suoi scopi per vie legali, di cambiare la società senza fare ricorso alla violenza. Ma in termini di evoluzione del mio lavoro, Viva Maria rappresentava piuttosto un regresso rispetto a Fuoco fatuo, a causa di tutte le circostanze sfavorevoli che le ho raccon­ tato. Non ero del tutto padrone della situazione, e quando bisognava finire assolutamente una scena, ero costretto a 67

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semplificare certe cose. Ogni giorno io e Henri Decaé arri­ vavamo per primi sul set, studiavamo il cielo, che rimane­ va disperatamente azzurro, e quella luce accecante era un problema per le ragazze. L’ideale sarebbe stato poter girare la mattina presto e a fine pomeriggio, ma si finiva sempre la scena principale quando il sole era allo zenith, quindi si doveva di continuo ricorrere a compromessi. A dire il ve­ ro, mi divertii molto di più a fare la sceneggiatura che non a girare il film. Quando lo stavamo scrivendo, avevo gran­ di ambizioni. Quello che stavo cercando di fare era più sor­ prendente di quanto non appaia nel film finito. Viva Maria è uno dei film che vorrei poter rifare, per­ ché so che avrebbe potuto essere decisamente migliore. Per esempio, c’è una cosa che non funziona in parte a causa del copione, e in parte a causa del cast. Pensavo fosse mol­ to divertente trasformare George Hamilton in una specie di Gesù Cristo. Ma l’aspetto umoristico non venne colto, e non critico gli spettatori per questo. Presero il personag­ gio molto sul serio. Era un terreno pericoloso: si trattava di una commedia, ma era facile non recepirla come tale. C’è una scena, per esempio, in cui Jeanne Moreau declama (il suo personaggio è molto gigionesco) ai contadini messica­ ni la famosa tirata del Giulio Cesare-. «Romani, concittadi­ ni, amici». L’humour non venne colto. E posso prendermela solo con me stesso, perché era qualcosa di molto più di­ vertente nel copione che nel film. Il pubblico non capiva, o prendeva la cosa sul serio. È il pericolo del pastiche, un genere molto rischioso. Eppure, a guardarlo oggi, Viva Ma­ ria ha dei bei momenti. E divertente, pieno di invenzioni, e le due attrici sono eccellenti. Mi piacerebbe molto che ve­ nisse riproposto al pubblico. P.F. - L’umorismo del film è costantemente feroce e sur­ reale. Con tutta probabilità avrà trovato Carrière in perfet­ ta sintonia con lei.

L.M. - Oh, sì, completamente. Come sa, ho avuto un po’ lo stesso problema con Milou, sebbene quest’ultimo fun­ zioni meglio. Molti l’hanno preso molto più sul serio di quan68

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to non avrebbero dovuto. Era un film deliberatamente non realistico... le riapparizioni della nonna morta, per esempio.

P.F. - In Viva Maria c’è un suicidio; un lanciatore di col­ telli trafigge il ragazzo, e alla fine il vescovo decapitato con­ tinua a camminare tenendosi la testa mozza tra le mani. Era provocazione deliberata, immagino, oltre che qualcosa di macabro. L.M. - Non solo ho rivisto il film, ma ho riletto la sce­ neggiatura. Se dovessi rifarlo, avrei bisogno di un budget più cospicuo o, meglio ancora, lo farei su scala più ridotta, proprio per l’umorismo feroce di certe gag. Prima delle ri­ prese, quando le due attrici e i loro agenti divennero mol­ to esigenti e temevo di dover rinunciare a entrambe o quanto meno a una delle due, persi la pazienza e proposi alla Uni­ ted Artists, che finanziava il film, di farlo in inglese, con Ju­ lie Christie e Sarah Miles. Erano due splendide, giovani at­ trici, e non erano ancora delle star. Secondo me, avrebbe funzionato meglio, ma il direttore della United Artists non volle saperne. P.F. - Sovrintese alla versione americana, o lasciò che fossero altri a occuparsene? L.M. - Gli americani credevano che sarebbe stato un gros­ so successo commerciale negli Stati Uniti, e avevano deci­ so di doppiarlo. Il film uscì in inglese con un doppiaggio mediocre. Dovevo supervisionare l'operazione, ma ero as­ solutamente scontento delle voci... specialmente di quella dell’attrice che doppiava la Bardot... ma non potei farci nien­ te. In America fu un fiasco completo. Avevano annunciato in lungo e in largo che sarebbe stata presente lei, la sexsymbol degli anni sessanta; ci fu quasi una sommossa fuori dalla sala. Tutta quella gazzarra non aiutò il film. Per fortu­ na, andò molto bene nel resto del mondo. Quando ripen­ so a Viva Maria, mi accorgo che, ancora una volta, non avevo saputo resistere alla tentazione di lanciare una sfida: ero l’unico che potesse fare recitare la Bardot e la Moreau 69

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nello stesso film facendolo funzionare. Non rifarei mai una cosa simile. Mi piacciono molto entrambe, ma la loro pre­ senza trasformò il film in qualcosa d’altro.

P.F. - Fu per caso che passò da Viva Maria a lì ladro di Parigi, oppure c’è un legame tra i due film? L.M. - Avevo un contratto con la United Artists per due film e, dopo Viva Maria, avevo voglia di cambiare strada. A causa di tutto il bailamme che aveva circondato il film, volevo passare rapidamente a qualcos’altro. Allora, mi con­ cessi un po’ di tempo libero a New York, e immaginavo di lavorare su un soggetto americano, poi decisi che era giun­ to il momento di occuparmi di un mio vecchio progetto, l’adattamento di Le Voleur, un romanzo che era stato pub­ blicato, passando pressoché inosservato, all’inizio del se­ colo. Era stato riscoperto da André Breton e dai surrealisti negli anni venti, ed era stato ripubblicato negli anni cinquan­ ta. Lo avevo letto e ne ero rimasto affascinato. Il personag­ gio principale assomiglia molto all’autore, Georges Darien, che ebbe una vita misteriosa. Era strettamente legato al mo­ vimento anarchico, che ebbe un ruolo importantissimo in Francia all’inizio del secolo. Gli anarchici volevano mette­ re in crisi l’ordine borghese con azioni terroristiche, per esempio avevano messo una bomba alla Camera dei depu­ tati. Allo scopo di raccogliere denaro per la loro causa, molti erano diventati ladri professionisti, e Georges Darien fu di certo uno di loro. Questo spiegherebbe perché il libro è così ben documentato sulle tecniche di furto con scasso... e tra l’altro sui diversi modi di aprire una cassaforte. L’eroe del romanzo, Georges Randal, proviene da una famiglia agiata. All’inizio della storia, i suoi genitori sono già morti, e lui è orfano; abita dallo zio, insieme alla cugina che crescendo diventa una ragazza molto carina. Si innamorano l’uno del­ l’altra. Lo zio ruba a Randal tutto il denaro che ha ereditato dai genitori; si impadronisce dei suoi soldi con diversi stra­ tagemmi. Così, quando Randal compie i ventun anni e re­ clama il suo denaro, lo zio gli comunica in modo molto ci­ nico che non c’è più niente. Randal chiede la mano della cugina, che gli viene rifiutata perché è povero. La cugina è 70

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fidanzata a un aristocratico un po’ imbecille... per lo zio si tratta di una promozione sociale. Randal ruba tutti i gioielli che appartengono alla famiglia del fidanzato. Così è quasi per caso, per un desiderio di giustizia e di vendetta, che di­ venta un ladro. Mi piace enormemente il modo in cui vie­ ne presentato il personaggio del protagonista, l'ironia delle prime scene del libro.

P.F. - Ci sono nel romanzo due classici temi della lette­ ratura del diciannovesimo secolo, la perdita dell’eredità e il ladro gentiluomo...

L.M. - Il ladro gentiluomo... esatto. Del resto, benché il libro avesse destato poca attenzione quando fu pubblica­ to, sono in molti a credere che il personaggio e il romanzo abbiano influenzato autori come Maurice Leblanc, il crea­ tore di Arsenio Lupin, e Hornung, il «padre» di A. J. Raffle. Questo giovane, un dandy appartenente a una famiglia molto ricca, diventa un ladro professionista. È qualcosa che lo di­ verte, ma poi, a poco a poco, non può più farne a meno. Sia nel libro, sia nel film c’è il classico confronto con un altro famoso ladro, appena scappato dall’isola del Diavolo. Nel film il personaggio è interpretato da Charles Denner, che cerca di persuadere Randal a unirsi al movimento di cui fa parte, a rendere politiche le sue azioni. Randal rifiuta. È una scena splendida, direttamente tratta dal libro. Darien sapeva benissimo di cosa stava parlando; di certo si tratta­ va di qualcosa di autobiografico. Randal spiega che ruba per ragioni personali. Per lui è una sorta di piacere solitario, quasi sessuale. E, come per don Giovanni, la sua esistenza è una ricerca implacabile, senza fine. Descrive il momento in cui viola la cassaforte quasi come se si trattasse di un orgasmo. È un romanzo enorme, quasi cinquecento pagine, e fu molto difficile trarne una sceneggiatura. Il ladro di Parigi è l’ultimo libro che ho adattato. Da quel momento in poi, tutte le mie sceneggiature sono originali. Beh, fino all’ulti­ mo che ho fatto adesso, Il danno. La collaborazione con Jean-Claude mi fu preziosa; ha una conoscenza impressio71

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name dei surrealisti e della letteratura del diciannovesimo secolo, e nutrivamo la stessa ammirazione per il libro. Inol­ tre, avevo delle ragioni personali. Rileggendo il libro, mi ero identificato con Georges Randal. Dopo dieci anni di regia, vedevo in quel libro una metafora di ciò che era successo a me. Non potevo fare a meno di paragonare il ladro Randal con il regista Malie. Provenivamo entrambi dal medesimo ambiente convenzionale e agiato, con il quale avevamo rot­ to, attraverso la rabbia, la ribellione, il desiderio di vendetta e distruzione. Naturalmente, poi, segue un’avventurosa vita romantica, piena di donne, successo, denaro. La società che si è rifiutata ti acclama e tu ti ritrovi al punto di partenza. L’ironia del libro è che alla fine Randal ha tutto. Si è vendi­ cato; sposa la cugina; vive nella casa dello zio; recupera il denaro che gli era stato rubato, oltre a quello che ha rubato agli altri. In una delle ultime scene, la cugina gli dice: «Ma non hai più bisogno di rubare», e lui risponde: «Tu non ca­ pisci!». Deve continuare a farlo, pur sapendo che finirà per farsi prendere. In modo pessimistico e disperato, vuole es­ sere fedele alla sua giovinezza, è preso in trappola, è intossi­ cato, deve continuare. Costruimmo il film come un grande flashback. Nella scena iniziale, si vede Randal che forza la porta di una casa. Si mette a rompere delle vetrine per rac­ cattare gli oggetti preziosi e poi, mentre inizia a raccontare la sua storia, fa a pezzi uno splendido scrittoio del diciotte­ simo secolo con un piede di porco. La prima battuta è tratta direttamente dal libro: «Faccio uno sporco mestiere, ma ho una scusa: lo faccio in modo sporco». È una scena molto for­ te, quella in cui frantuma quel prezioso mobile di palissan­ dro, che si rompe... rrrrrrgh... una cosa quasi insopportabi­ le. Degli amici mi dissero che avevano dovuto chiudere gli occhi, come se fosse stato mostrato loro qualcuno che vie­ ne sgozzato. È una serie di flash- back, con alcuni ritorni al presente, al saccheggio sistematico della casa. È come una notte d’amore, di sesso violento e dissoluto... e nel mentre egli riempie la sacca di preziosi o taglia con un rasoio, in mo­ do brutale, i quadri, lasciando solo la cornice, e alla fine vie­ ne l’alba, in quella cittadina fuori Parigi, e lui si porta via il bottino e sale sul treno... in lui c’è qualcosa di disperato. 72

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P.F. - Fu il contratto con la United Artists a costringerla a prendere un attore di fama internazionale della statura di Jean-Paul Beimondo? L.M. - In realtà, andò in modo opposto. Appena dissi loro che volevo Beimondo, mi lasciarono in pace fino alla fine del film. Io e Carrière pensavamo che fosse una parte per­ fetta per Beimondo, che all’epoca era al culmine della sua carriera, la star cinematografica francese numero uno. Mi interessava far recitare Beimondo in un contro-ruolo, in modo opposto all’immagine cinematografica che gli ave­ va dato Fino all'ultimo respiro... e soprattutto i film suc­ cessivi, come Un avventuriero a Tahiti. In effetti il padre di Beimondo era uno scultore accademico; Paul aveva rice­ vuto un’educazione molto borghese. Così gli dissi: «Forse potrebbe essere interessante per te, a questo punto, recitare qualcosa che non hai mai interpretato, un dandy». Non so se avesse letto il libro, ma l’idea gli piacque. Così ritornai alla United e dissi: «Ecco. Voglio fare un film da un libro af­ fascinante, Le Voleur, e lo farò con Beimondo». Ed eboi carta bianca: ci diedero assoluta libertà. Avevamo un budget co­ spicuo e, a differenza di Viva Maria, tutto il denaro è sullo schermo. Di tutti i miei film, // ladro di Parigi è il più son­ tuoso. C’erano parecchie ambientazioni diverse, dato che Randal rubava in molte case, e io volevo mostrare che la bor­ ghesia di quel periodo, come durante gli anni ottanta, osten­ tava la sua ricchezza: le pareti erano coperte di dipinti, e le case stipate di oggetti d’arte. Dal punto di vista visivo, era una metafora volta a mostrare che egli voleva distruggere que­ sta ricchezza ma, comportandosi così, veniva allo stesso tem­ po recuperato, dato che diventava ricco a sua volta. Alla fi­ ne, nella casa londinese dove abita prima di tornare dalla cu­ gina, egli è diventato un ostaggio della sua ricchezza.

P.F. - Dato che era un film storico, il pubblico borghese si sentiva meno minacciato personalmente di quanto sarebbe accaduto se Randal fosse stato un ladro contemporaneo, che avrebbe potuto irrompere nelle loro case per razziare i lo­ ro beni. 73

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L.M. - Sì, forse. Ma la storia era datata con precisione. Nel libro, c’erano molti aspetti politici, e nel film ricordo che compariva quel politico corrotto che va in Normandia per presiedere un banchetto nella sua circoscrizione, e fa un aggressivo discorso di destra. Molti ritennero troppo am­ polloso, troppo caricaturale questo discorso, ma in realtà era tratto direttamente, parola per parola, da quello di un politico del tempo. Se ne avessi fatto una storia contempo­ ranea, avrei dovuto sopprimere il personaggio dell’anarchico interpretato da Charles Denner, e le folli riflessioni dello zio sulla ricchezza, il denaro e la proprietà. C’è una spaventosa battuta all’inizio, quando Randal è piccolo e si mangia le unghie; lo zio gli dice: «Non rosicchiarti le unghie. La tua unghia è tua proprietà, e tu non devi toccare la tua proprietà. Se proprio devi mangiarti le unghie, rosicchia quelle degli altri». Darien era terribilmente violento e acuto. Il ladro di Parigi non fu accolto molto bene, e persino oggi la gente non lo ritiene uno dei miei film più importan­ ti... ma per me non è diverso da Fuoco fatuo, e continuo a considerarlo un’opera molto personale. Ma dato che è un film storico, e forse anche perché venne realizzato con tanta cura, molti critici lo considerarono soltanto un film in co­ stume. Ma il tono feroce del libro è presente molto spesso, per esempio nella scena della morte dello zio. Come ha detto lei, trattandosi di un film storico, le persone si sentirono meno minacciate di quanto desiderassi. Jean-Louis Bory, il critico dell’«Observateur», al quale piacevano i miei film, ne fece una critica negativa. 11 titolo della recensione era «Malie ha messo la bombetta alla sua cinepresa». Penso che questo film venne troppo tardi. Uscì un anno prima del mag­ gio 1968, la gente voleva film militanti. All’epoca, tutta l’in­ tellighenzia era di sinistra. Tengo profondamente a II ladro di Parigi. Ha segnato la fine del primo periodo della mia carriera cinematografi­ ca. Ciò che feci in seguito è una conseguenza del mio smar­ rimento personale. Accettai allora di fare un episodio del film in tre parti tratto dai Racconti straordinari di Edgar Allan Poe, con Fellini e Vadim. La mia vita privata era allo­ ra un caos, e volevo tornarmene a Parigi. Temevo, come 74

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Randal, di poter essere recuperato. Avevo voglia di pren­ dere il largo. P.F. - Un’ultima cosa a proposito di II ladro di Parigi. L’elemento anticlericale presente nel film era anche nel romanzo?

L.M. - Oh, sì, sicuramente. 11 romanzo era molto anti­ clericale. Uno dei personaggi cruciali del libro è un prete dal nome molto comico, l'abate La Margelle. Viene presen­ tato come un amico della famiglia del fidanzato della cugi­ na. Poi, a poco a poco, si capisce che è lui stesso un ladro, e non solo un ladro, ma anche un ricettatore. 1 ladri gli por­ tano il bottino e lui lo rivende. È un personaggio straordi­ nario, lucido, cinico e commovente. Nell’ultima scena, la­ scia capire che invierà alle missioni tutto il denaro rubato e che sta pensando di ritirarsi in un monastero; ha una splen­ dida conversazione con Randal, durante la quale parlano dei loro sogni.

P.F. - Da come lo descrive, sembra quasi che lei abbia della simpatia per lui, che lo ammiri. L.M. - Oh sì, è proprio così! Amo molti personaggi del libro, non solo quello centrale, anche altri. La cosa miglio­ re è la splendida galleria di personaggi femminili. Dovem­ mo eliminarne alcuni, date le enormi dimensioni del libro. Finimmo per conservarne sei: donne di mondo, ladre, bor­ ghesi che aiutano i ladri perché hanno bisogno del denaro che i mariti non vogliono dargli. C’è anche la moglie di un banchiere belga che si innamora di Randal, cerca di farlo parlare e finisce prostituta di alto bordo. La parte era inter­ pretata da Marie Dubois, che fu semplicemente meravigliosa. Una delle cose di cui sono orgogliosissimo in II ladro di Parigi è che, probabilmente fino a Milou a maggio, fu il miglior cast che riuscii a mettere insieme. C’erano molti meravigliosi attori di contorno. Da questo punto di vista il film è quasi perfetto. Era la prima volta che dedicavo la maggior parte della preproduzione alla formazione del ca75

il mio cinema

sting; conoscevo bene gli attori, mi piacevano, sapevo co­ me fare a sceglierli. È una delle cose più difficili per un re­ gista, non solo il fatto di dirigerli, ma sceglierli... credo che determini almeno il cinquanta per cento del risultato fina­ le. Quando il cast è sbagliato, sono guai seri. Ma che gioia quando si è fatta la scelta giusta, quando si vedono degli attori che lavorano bene insieme. P.F. - Dipende forse dal fatto che sanno perché sono stati scelti? Bresson, da quanto ho capito, non spiega agli attori perché li ha scelti... ha le sue ragioni personali. Dal modo in cui li dirige, essi risultano non disumanizzati, ma quasi oggetti. Quando si ha l’attore giusto nel ruolo giusto, si può senza dubbio consentirgli di prendere l’iniziativa e fare ad­ dirittura in modo che dia il suo contributo alla sceneggiatura. L.M. - Sì. Devo dire che questo è un punto su cui non sono più d’accordo con Bresson o Hitchcock, i miei anti­ chi maestri. Appartengono a una scuola che comprende mol­ ti registi meno dotati di Bresson o di Hitchcock, la quale considera gli attori come oggetti, indipendentemente dalla loro professionalità. Bresson li chiama i suoi soggetti, i suoi modelli: «Assumi questa posizione, alza il braccio destro. Un po’ di più. Bene! Ora non muoverti». Ricordo che una volta ebbi una discussione con lui e gli dissi: «Non credo che per lei siano dei soggetti, sono degli oggetti». Lui ave­ va protestato: «No, no, è come per un pittore. Loro sono i miei soggetti. Sono ciò che filmo». Mi aveva fatto pensare a Cocteau. Avevano una sensibilità simile, per molti aspet­ ti. E anche la stessa voce. Qualche anno fa, in un programma radiofonico france­ se, ascoltai una conversazione con Darius Milhaud, che ri­ saliva agli anni cinquanta, e mi accorsi che il modo di par­ lare di Milhaud era molto simile a quello di Bresson e dei suoi personaggi. All’improvviso capii che dipendeva da una certa intonazione, o forse da una assenza di intonazione... un modo atono, articolato di parlare in francese. Credo che fosse tipico di intellettuali e artisti degli anni venti. A Bresson 76

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doveva essere rimasto nell’orecchio, come se fosse quello il modo normale di parlare. Alla fine delle riprese di Un con­ dannato a morte aveva passato serate intere in sala di regi­ strazione, con Francois Leterrier, il suo soggetto principa­ le. Bresson ha sempre fatto molta post-sincronizzazione per riuscire a ottenere un’intonazione perfetta e, in questo ca­ so, aveva costretto Leterrier a ripetere la stessa battuta per circa tre ore di fronte al microfono. Gliela fece provare fin­ ché non trovò il tono giusto. Per noi la cosa era assolutamente misteriosa e vagamente ossessiva. Nel mio rapporto di collaborazione con gli attori pro­ fessionisti e non, ho cercato di farli partecipare sempre più al mio lavoro. Con II ladro di Parigi compresi che, dopo tutto, erano i miei interpreti a stare di fronte alla macchina da presa, non io. Dal momento in cui dico «Motore» e «Azio­ ne», sono da soli di fronte alla macchina da presa, mentre noi, i tecnici, siamo dall’altra parte, al buio. E giusto amar­ li, aiutarli. Credo che fare l’attore di film sia un mestiere estremamente rischioso; c’è il momento della verità, quan­ do si trovano di fronte a quello che, curiosamente, si chia­ ma «obiettivo»... È terrificante. Mi è capitato un paio di volte di sentirmi chiedere da qualche amico di recitare in un suo film, e questo mi ha dato la possibilità di capire tutto il sen­ so di spasimo e di solitudine che si prova quando si è là. Devi perciò sceglierli bene, lavorare con loro, prepararli, aiutarli il più possibile, dirgli esattamente quello che vuoi, ma a un certo punto sono loro a dover prendere in mano la situazione e assumersi la responsabilità del loro perso­ naggio. È questo il modo in cui cerco sempre più di lavora­ re. Sebbene negli anni settanta abbia cominciato a fare al­ cuni film, — per esempio, Cognome e nome: Lacombe Lu­ cien — con attori che, per la maggior parte, non avevano mai visto prima una macchina da presa, ho continuato a la­ vorare in questo modo. Per me, il metodo di Bresson è trop­ po autocratico. Non sono il genere di regista che impone tirannicamente la sua visione delle cose. P.F. - Così più è sicuro di sé, meno è tirannico e dispo­ tico. 77

// mio cinema

L.M. - Esatto. Come le ho detto riguardo a Ascensore o a Les Amants, quando non ero sicuro di me stesso, spadro­ neggiavo con tutti. Ma mi resi conto molto in fretta che gli attori hanno bisogno di tutto l’aiuto possibile. C’è una sce­ na in Les Amants, uno dei grandi momenti di Jeanne Mo­ reau, in cui le viene la ridarella. Arriva in ritardo a casa, in campagna, dove il marito e ramante la stanno aspettando; è una situazione molto imbarazzante. E lei comincia a ride­ re, non può più smettere. Va di sopra a cambiarsi e rico­ mincia a ridere. Quella lunga ripresa nella sua camera, du­ rante la quale lei deve ridere, poi cercare di smettere, e poi ricominciare, era naturalmente molto diffìcile per un’attri­ ce. Così dovemmo ripeterla parecchie volte. Non ero sod­ disfatto. A un certo punto, nel bel mezzo di una ripresa, lei si ferma e dice: «Insomma, credete che sia facile ridere quan­ do vedo voi due dietro la macchina da presa che mi guar­ date con quell’espressione sinistra?». 1 due erano Alain Ca­ valier e io. Con 11 ladro di Parigi avevo per la prima volta un cast quasi perfetto, e lasciai agli attori la totale direzione dei lo­ ro personaggi. Volevo che fossero contenti e responsabili. P.F. - In Europa, durante gli anni sessanta, erano di mo­ da i film a episodi, soprattutto coproduzioni internaziona­ li, tre o quattro storie realizzate da registi diversi. Quasi tutti i grandi registi parteciparono almeno una volta a questo ti­ po di progetti. Lei ebbe sicuramente parecchie proposte del genere, dagli anni sessanta in avanti. Come mai, nel 1967, finì per accettare l’invito a girare un episodio di Tre passi nel delirio?

L.M. - Se ne facevano molti, in Francia e in Italia, di questi films à sketches-, erano realizzati da cinque o sei registi, ognu­ no dei quali girava un episodio di quindici o venti minuti. Avevo sempre rifiutato, sebbene a volte l’idea mi piacesse. Sono piuttosto lento e diffìcilmente riesco a girare più di un film ogni due anni. Mi piace anche concedermi un in­ tervallo tra un film e l’altro, e mi sembrava che, se mi fossi imbarcato in una di quelle produzioni, mi sarei sentito molto 78

Tempo passato, tempo presente

frustrato dal fatto di avere solo una parte di un film che non sarebbe stato veramente mio. Avevo l’impressione, giusta o sbagliata che fosse, che ci avrei messo lo stesso tempo occorrente per un lungometraggio, e che quindi non ne va­ lesse la pena. Deve anche sapere che questi film a episodi sono un affare per i produttori: si riuniscono alcuni registi famosi, con le loro star al seguito. Ognuno lavora una setti­ mana o due: non è molto caro. Naturalmente, i produttori presentavano la cosa come una sorta di esercizio, e ti asse­ gnavano un budget ridicolmente basso. Godard e Truffaut ne fecero alcuni. Mi sembrava che questo genere di pro­ getti non fosse adatto al mio modo di lavorare. Ma durante II ladro di Parigi attraversai un periodo di crisi nella mia vita dal punto di vista sia personale, sia pro­ fessionale. Un giorno, mentre stavamo girando negli studi di Saint-Maurice e stavo impostando una carrellata con Henri Decaè (fu il mio ultimo lavoro con lui, e devo riconoscere che la sua fotografia in questo film è praticamente perfet­ ta), gli dissi: «Ti ricordi, Henri... non so più quanti anni fa, forse otto, nel 1958, su questo stesso palco e quasi in que­ sto stesso punto, stavamo mettendo i binari per una carrel­ lata di Les Amants». E lui: «Buon Dio, hai ragione, era pro­ prio questo palco, è vero». «Vedi, dopo tutti questi anni, eccoci tornati al punto di partenza». Avevo i brividi. Ero come il mio personaggio, Randal, cominciavo a ripetermi. E cosa mi avrebbe riservato il futuro? Diventare un regista affermato, fare un film dopo l’altro. Decisi che dovevo mandare tutto al diavolo, rimettere tutto in discussione. Non volevo continuare a fare un film ogni diciotto mesi o due anni. Non volevo cadere nella rou­ tine. In un certo senso reagii in modo troppo impulsivo, ma era una sensazione molto forte. E lo è ancora oggi. Quan­ do Alain Delon mi telefonò per chiedermi: «Vuole parteci­ pare a questo film in tre episodi?», all’inizio rifiutai. Sapevo che Vadim ne avrebbe fatto uno con Jane Fonda. La cosa non mi piaceva troppo: ero amico di Vadim, ma non lo am­ miravo. Ma il terzo episodio doveva farlo Orson Welles. E poi sentivo di dover lasciare in fretta Parigi. Così accettai. Mi venne data carta bianca, a condizione di prendere lo 79

// mio cinema

spunto da un racconto di Poe. Rilessi Poe, e trovai la storia di William Wilson. Il produttore principale era italiano, co­ me la maggior parte dei finanziamenti. Così dissi: «Bene, farò William Wilson con Alain Delon, ma voglio farlo in Italia». E poi tutto avvenne molto in fretta. Finii per passare metà del 1967 in Italia. Come per Vita privata o Crackers... fu qualcosa che mi venne commissionata, che non era mia... un film del produttore... salvo il fatto che, in questo caso, si trattava soltanto della terza parte di un film.

P.F. - Comunque è una storia magnifica. L.M. • Sì, è una storia splendida. Ma ero in uno strano stato d’animo, cupo, cupissimo, da suicidio. Ebbi delle dif­ ficoltà enormi con Delon, uno degli attori più sgradevoli che conosca... il più sgradevole, probabilmente. P.F. - Di che genere furono queste difficoltà?

L.M. - Ha sempre avuto questa reputazione. Come mol­ ti altri attori, soprattutto americani, essenzialmente Delon detesta essere diretto. Dopo poco tempo è diventato il pro­ duttore di se stesso e ha cominciato a spadroneggiare su tutti. Avevo anche dei dubbi circa la sua sincerità e il suo talen­ to. Così cominciammo a litigare e tutto divenne molto dif­ fìcile. Ero irritabile, mi sentivo molto a disagio. Continua­ vo a chiedermi: «Ma cosa sto facendo qui?» Ovviamente, non avrei mai dovuto accettare di lavorare in queste con­ dizioni, anche se la storia del doppio che stava alla base di William Wilson mi piaceva. Quando uscì il film, un amico, un analista, mi disse: «Sei in un momento di cambiamento, un periodo di dubbi, hai seri problemi di identità, è natura­ le che abbia finito per trattare la storia di un uomo con un doppio». Ma di certo, quando scelsi la storia, non ne ero minimamente consapevole. Non mi piacque molto fare quel film. Ero contento di trovarmi in Italia. Un grandissimo aiuto mi venne dall’ope­ ratore Tonino Delli Colli, che più tardi lavorò con me in Cognome e nome: Lacombe Lucien e che, con Decaé, Sven 80

Tempo passato, tempo presente

Nykvist c negli ultimi tempi Renato Berta, è uno degli ope­ ratori che hanno avuto un ruolo veramente importante nel mio lavoro. È un operatore straordinario, che purtroppo non ottiene il riconoscimento che merita.

P.F. - Lei presentò il racconto di Poe nella forma di una confessione resa da un protestante a un prete cattolico. Era un modo di conservare un po’ il senso dell’originale atmo­ sfera inglese e dell’idea nordica del Doppelganger, tema pre­ sente particolarmente nella letteratura scozzese, tedesca e russa?

L.M. - Scrissi l’adattamento con un americano, Clement Biddle Wood e, per la versione francese, con Daniel Bou­ langer. Cercammo di mantenere al personaggio la sua pe­ culiarità di uomo nordico. Per ragioni di produzione si do­ veva girare in Italia, dove del resto si svolge una parte della storia di Poe. Scegliemmo Bergamo, una città molto auste­ ra dell’Italia settentrionale, per rimanere il più possibile fe­ deli al mondo del racconto.

P.F. - Presumibilmente la trasposizione della partita a car­ te tra Wilson e un aristocratico inglese nella partita tra Alain Delon e Brigitte Bardot fu l’esito di esigenze di produzio­ ne, volte a conferire alla storia un risvolto sessuale.

L.M. - Naturalmente, dovevamo avere due star, non im­ portava quali! Io volevo Florinda Bolkan, che era bellissi­ ma, molto enigmatica e allora non aveva ancora fatto cine­ ma. Ma era sconosciuta, e i produttori non ne vollero sape­ re. Una volta cominciate le riprese, vennero da me e mi do­ mandarono: «Cosa ne direbbe della Bardot?». Sapevo che la Bardot era lontana, in crociera da qualche parte, ed ero talmente convinto che non sarebbe stata disponibile che dis­ si: «Sicuro, perché no?». Ma aveva litigato con il suo fidan­ zato, era rientrata a Parigi, e disse: «Oh! Mi piacerebbe la­ vorare ancora con Louis e Alain Delon». Così fui incastra­ to... Le misi una parrucca nera, ma non risolveva niente. Quel cast era spaventoso, imperdonabile. Nonostante tut81

// mio cinema

to, la scelta di Delon funzionò... dato che la stizza che ave­ va nei miei confronti tornava utile al personaggio... e io fe­ ci in modo di farla durare per tutto il tempo delle riprese!

P.F. - In William Wilson c’è anche una delle sue preoc­ cupazioni più ricorrenti: il suicidio. In questo caso, nei ter­ mini di una proposizione filosofica. Un lato di Wilson di­ strugge l’altro, sebbene lei lo abbia reso meno ambiguo di quanto non sia nel racconto di Poe. L.M. - Tutto fu molto meno ambiguo di quanto avrei vo­ luto. La sceneggiatura non era elaborata, e la regia assai ap­ prossimativa. Per fortuna, oltre a lavorare con un operato­ re superbo, incontrai anche un grande montatore italiano, Franco Arcalli, che aveva collaborato con Bertolucci (morì subito dopo aver montato Novecento). Era anche scrittore. Avevo girato troppo, come di solito accade quando non si è soddisfatti di ciò che si sta facendo, e vissi momenti piut­ tosto difficili, ma estremamente creativi, durante il montag­ gio con Arcalli. Imparai molto da lui. Aveva capito che, a causa del soggetto e della durata di appena quarantacinque minuti, il film doveva essere inquietante, sempre in movi­ mento. Spezzammo le scene, e del film mi è rimasto soprat­ tutto questo.

P.F. - Chiunque abbia visto William Wilson sarà stato colpito dal trattamento che egli subisce a scuola... un ini­ zio che anticipa le sequenze del collegio di Soffio al cuore, e soprattutto di Arrivederci ragazzi: quel modo di sorve­ gliare gli allievi, il loro abbigliamento, il loro comportamento nel cortile dove giocano in inverno e ciò che fanno nel dor­ mitorio. Trasse spunto dalle sue esperienze di collegiale? L.M. - Esatto. Fu la parte delle riprese in cui mi sentii più a mio agio, su un terreno familiare. Fu facile per me im­ maginare queste scene, e le improvvisai utilizzando ricordi personali. 1 litigi tra ragazzi e la rigida disciplina... era qual­ cosa che non avevo ancora affrontato; era la prima volta che mi occupavo della mia infanzia. Ho rivisto di recente 82

Tempa passalo, tempo presente

il film alla televisione americana, che di tanto in tanto lo trasmette a tarda notte. Avevo acceso verso Tuna, proprio mentre stava finendo l’episodio di Vadim; ho rivisto il mio e quello di Fellini, e ho capito che, inconsciamente, avevo messo molto più di me nel film di quanto non mi fossi reso conto allora. C’è in questo Wilson che attraversa una crisi profonda qualcosa che riecheggia il personaggio di Fuoco fatuo... ma in modo eccessivamente teatrale, cosa che cor­ rispondeva al mio stato d’animo di quel momento. Nell’autunno del 1967 il Ministero degli Esteri francese mi chiese di andare in India a presentare una serie di otto film, incluso Fuoco fatuo, più o meno rappresentativi del nuovo cinema francese. Accettai. Così andai a Delhi, Cal­ cutta, Madras e Bombay a presentare quei film. Avrei do­ vuto fermarmi due settimane, e finii per restarci due mesi. L'India mi sbalordiva. Era il mio primo viaggio in quel pae­ se, ma mi ero sempre interessato all’induismo. Sapevo che l’india mi avrebbe colpito, ma fu un impatto molto più vio­ lento di quanto pensassi. Dopo quei due mesi, mi resi con­ to che, benché sia impossibile per uno straniero capire l’in­ dia... è troppo impenetrabile... nc ero così affascinato che dovevo ritornarci con una cinepresa. Così, alla fine del 1967, rientrai in Francia, e nel giro di poche settimane raccolsi il denaro di cui avevo bisógno, cioè quasi niente, e tornai laggiù con due amici, un operatore e un tecnico del suono. Avevo in mente di cominciare da Calcutta, guardarmi in­ torno e poi girare. Nessun piano, nessuna sceneggiatura, nes­ sun impianto luci, nessun contratto relativo alla distri­ buzione.

P.F. - Tra il suo primo viaggio in India, per presentare quei film, e il suo ritorno laggiù con la troupe, fece molti preparativi? Aveva preso dei contatti, si era documentato, aveva un’idea di che cosa sarebbe risultato da quell’espe­ rienza? Certamente avrà dovuto chiedere spesso l'autoriz­ zazione per girare... si dice che gli indiani possono essere piuttosto diffìcili.

L.M. - La burocrazia indiana è sempre stata un incubo, 83

Il tn in cinema

è estremamente sospettosa nei confronti degli stranieri. Quando ci andai la prima volta, ero in missione ufficiale. Avevo una macchina da presa, ma praticamente non la toc­ cai. Guardavo, ascoltavo, annusavo. La presentazione di quei film francesi era il pretesto ideale; mi dava la possibilità di conoscere della gente... per esempio passai molto tempo con Satyajit Ray. Mi portò nel suo studio, a Calcutta, e mi mostrò diversi suoi film che non erano usciti in Francia. In­ contrai anche un certo numero di intellettuali e artisti occi­ dentalizzati e, da buon francese, tentai di capire la cultura e le religioni indiane in termini razionali. Nel giro di poche settimane, però, mi resi conto di come ciò fosse stupido. Gli indiani hanno un approccio radicalmente diverso alle cose... Nei confronti della morte, per esempio, hanno un atteggiamento opposto a quello della nostra tradizione giudaico-cristiana. In quel periodo di crisi in cui mi trova­ vo, mentre stavo tentando di rimettere in discussione tutto ciò che avevo dato fino ad allora per scontato, l’india era la perfetta tabula rasa, era proprio come partire da zero. Così decisi di immergermi nell'india, l'india vera, non quella occidentalizzata, di vedere cosa sarebbe successo, e di far­ lo con una macchina da presa. Fu come un lavaggio del cer­ vello. Al mio ritorno dissi: «Dopo sei mesi in India, non sei neanche più sicuro che due più due fa quattro». Tutto, in India, il modo di vivere, i rapporti umani, le strutture fami­ liari, i bisogni spirituali, è così lontano da quello che in Oc­ cidente ci sembra normale, che un viaggio del genere co­ stituisce una provocazione costante per la mente e il cuo­ re. Così, invece di sprecare il mio tempo cercando di capi­ re, mi limitai ad andare in giro per il paese e a lasciare che le cose venissero a me. Il culmine del nostro viaggio furo­ no i due mesi trascorsi nell’india meridionale. Nessuno, né a Parigi né a Delhi, sapeva dove fossimo. Avevamo un fur­ gone e un autista che parlava le cinque lingue che si devo­ no conoscere nell’india meridionale per non perdersi. Do­ po Madras cominciammo a vagabondare di tempio in tem­ pio, di villaggio in villaggio. A poco a poco, acquisimmo una diversa nozione del tempo. Per la prima volta in vita mia avevo trovato una sorta di pace, cominciavo a lasciar­ 84

Tempo passato, tempo presente

mi andare. Mi sentivo incredibilmente bene in quell'ambien­ te così nuovo e diverso per me. C’era qualcosa nel rappor­ to degli indiani con la natura che aveva una coerenza e un’autenticità talmente grandi... sapevo ovviamente che non c’era modo di diventare indiano o indù... è ridicolo. An­ che se in quegli anni molti occidentali stavano cercando di farlo. P.F. - È molto scettico nei confronti degli occidentali che hanno cercato di fare quell’esperienza. All’inizio del suo viag­ gio, lei incontrò due francesi, che più tardi rivide, e che a causa della loro ingenuità erano diventati cinici relitti uma­ ni. In seguito compaiono diverse persone colpite meno du­ ramente, che sono però presentate in maniera oggettiva ma un po’ scettica, per il modo in cui si sono convertite all’in­ dia scegliendo un ashram piuttosto comodo. Non si sono veramente fuse con la cultura locale. Si può pensare che, molto più tardi, nella sua opera abbia voluto trasformare le prime figure nei due figli dei fiori, superstiti della cultura degli anni sessanta, che arrivano ad Atlantic City. L.M. - Sì. In realtà questa evocazione ironica fu un’idea di John Guare. Propose di trasformare quei due personaggi in una sorta di citazione del mio passato cinematografico. Sapevo che non sarei mai appartenuto all'india, ma come osservatore ne ero affascinato. Era una continua ridiscus­ sione della gran quantità di luoghi comuni che avevo ac­ cettato fin dall’infanzia.

P.F. - Anche dei pregiudizi che aveva riguardo al docu­ mentario. La principale differenza tra ciò che aveva fatto con Cousteau in II mondo del silenzio, che è di dieci o do­ dici anni prima, e questo, è il mutamento sia dell'attrezza­ tura di cui disponeva, sia della concezione di ciò che è un documentario nella prospettiva del cinema vérité, il modo di presentarlo, il rapporto tra il regista, il suo soggetto, le persone che osserva. La serie India fantasma comin­ cia proprio con una riflessione sul documentario, La Ca­ mera impossible. 85

Il mio cinema

L.M. - Nel corso dei miei primi due mesi in India ero so­ lo, avevo con me una 16 mm; ma girai pochissimo. E non avevo suono. La seconda volta ci tornai con una troupe ri­ dotta, eravamo tre in tutto, Etienne Becker, il figlio di Jac­ ques Becker, uno specialista in questo tipo di cinéma di­ rect, e Jean-Claude Laureux, un giovane tecnico del suono che da allora ha continuato a lavorare con me fino a II dan­ no. È anche uno dei miei migliori amici. Durante quei quat­ tro mesi di riprese, non mi preoccupai minimamente di quel­ lo che avrei fatto di tutto quel materiale. Pensavo vagamente che la cosa migliore sarebbe stata quella di trarne un lun­ gometraggio di un’ora e mezzo sul «mio viaggio in India». Ma me ne dimenticai molto presto; continuavamo sempli­ cemente a filmare quando sembrava necessario, piacevole o interessante. Quando giravo, non mi chiedevo mai a co­ sa avrebbe dato luogo, dove fosse il legame con ciò che ave­ vo fatto ieri. No, riprendevamo semplicemente a caso. Quando parlai del mio progetto con Étienne e JeanClaude, dissi loro: «Voglio immergermi nell’india, essere là, e poi filmare». Prima di andare a Calcutta, ci fermammo circa due settimane in un villaggio a circa 100 miglia a nord di Delhi. Pensavo fosse importante cominciare in un villaggio, perché rappresenta ancora la struttura sociale fondamenta­ le dell’india. Dopo un paio di giorni, Étienne si ribellò: «Non capisco cosa vuoi, Louis. Non posso lavorare in questo mo­ do. Dimmi quello che vuoi». Risposi che non lo sapevo. E allora cominciammo a girare delle scene nel villaggio, in­ torno ai pozzi. Ci eravamo resi conto che i pozzi definiva­ no il sistema delle caste, nel senso che le donne di una stes­ sa casta o di una sotto-casta andavano sempre agli stessi poz­ zi... scoprii gli invisibili confini del sistema sociale indiano. Un giorno Étienne mi disse: «Mi stanno guardando tut­ ti, non va, dì loro di non guardarmi». E io: «Perché dovrei dire loro di non guardarci, dal momento che siamo degli intrusi? Innanzitutto, non parlo la loro lingua, e solo po­ chissimi di loro parlano un po’ di inglese. Li disturbiamo. Non sanno cosa stiamo facendo, quindi è perfettamente nor­ male che ci osservino. Dire loro di non guardarci è già un inizio di messa in scena». È quello che mi irrita sempre nei 86

Tempo passato, tempo presente

documentari dove i registi sbarcano da qualche parte e co­ minciano a dire alle persone di fare come se non ci fosse­ ro. È la fondamentale mistificazione della maggior parte dei documentari, questa ingenua «messa in scena», l'inizio del­ la distorsione della verità. Ben presto mi accorsi che quegli sguardi rivolti alla macchina da presa erano insieme inquie­ tanti e veri, e che non avremmo mai dovuto fingere di non essere degli intrusi, e così continuammo a lavorare in quel modo. Poi, andammo a Calcutta, e filmare a Calcutta fu diffìci­ lissimo. Giravamo per strada, e ci capitava di essere arre­ stati anche due volte al giorno, dato che ci prendevano per spie pakistane! C’era molta tensione a Calcutta per la situa­ zione dello stato confinante, l’attuale Bangladesh, che allo­ ra era il Pakistan orientale. Gli incidenti alla frontiera ren­ devano la gente molto sospettosa, per cui ci trovavamo sem­ pre nei guai. Oppure i membri della classe borghese veni­ vano da noi e ci dicevano: «Filmate per strada, naturalmen­ te, siete occidentali e dell’india volete riprendere soltanto la povertà». Se si gira per le strade di Calcutta, si trova ogni mattina della gente morta durante la notte, sdraiata per terra. 1 primi giorni andavamo in giro a piedi con le macchine da presa, e impiegammo un po’ prima di trovare — non so come dire — l’innocenza sufficiente per vedere semplicemente la realtà così com’era, senza cercare di deformarla, interpretarla, limitandoci a essere là e a filmarla. A poco a poco divenne un modo di vivere. I miei due compagni co­ minciarono a prenderci gusto. Non sto dicendo che era di­ venuto un metodo, perché non vi fu mai nulla di sistemati­ co. Si entrava nei templi, si filmava oppure non si filmava, qualche volta ci veniva impedito e quindi non se ne faceva niente. Oppure si capitava in una festa religiosa, e qualcosa ci faceva venire voglia di filmarla. Qualche volta si girava una quantità di pellicola in poche ore, e poi non si faceva più niente per giorni e giorni. Era improvvisazione totale. Eravamo una sorta di testimoni, ma non pretendemmo mai di fare parte di quella realtà e neppure di capirla minima­ mente. Ben presto ci sentimmo splendidamente; era vera­ mente qualcosa di incredibile andare in giro per quel pae­ 87

// mìo cinema

se. Avremmo potuto continuare a filmare per sempre. Non c’era nessuna ragione per smettere. Ma a un certo punto... era l’inizio della stagione calda ed eravamo fisicamente a pezzi, decidemmo di tornare. Non ero granché sicuro di voler tornare in Francia. Do­ po la partenza dei miei compagni, rimasi ancora una setti­ mana, poi tornai in Francia per guardare quello che aveva­ mo girato, non avevo visto ancora nulla, faceva parte an­ che questo dell’esperienza. Avevamo girato circa una tren­ tina di ore di pellicola. Volevo guardarle e poi tornare in India. Ma quando rientrai nel mio paese, era l’inizio del mag­ gio 1968. L’intera Francia era in sciopero, compresi i labo­ ratori cinematografici, e dovetti aspettare settimane e setti­ mane prima di poter cominciare a guardare le bobine insie­ me a Suzanne Baron, la mia montatrice. Ci ritrovammo in luglio. E non sapevamo che cosa farne. Suzanne mi propo­ se di cominciare a mettere insieme tutta la parte girata a Cal­ cutta. L’avevamo girato in tre settimane, le immagini erano molto unitarie. Così montammo il materiale per farne un documentario-lungometraggio. L’avevamo girato in 16 mm, poi ingrandito a 35; fu distribuito nelle sale nel 1969. Per quanto riguarda il resto del metraggio, ritenevo che, se volevo essere veramente onesto, doveva essere mostra­ to tutto quello che avevo girato. Tagliarne una parte, per una ragione o per l’altra, avrebbe significato attenersi alle regole convenzionali del montaggio e tentare di costruire artificialmente un ritmo che non era quello conosciuto nel corso dell’esperienza in India. Naturalmente, delle trenta ore, dieci o quindici erano ripetizioni, cose che avevamo comin­ ciato a filmare e poi abbandonato, o materiale privo di qual­ siasi interesse. Lo selezionammo, ne scegliemmo circa me­ tà e cominciammo da quello. Dopo aver terminato Calcut­ ta, che durava un’ora e quaranta, decidemmo di fare una serie, ovviamente per la televisione, perché per il cinema il filmato era troppo lungo. Cercammo vagamente di strut­ turarlo in una serie di sei parti, che alla fine divennero set­ te. Avevo stipulato un accordo con la televisione francese, e la lunghezza standard a quell'epoca era un po' meno di un'ora, cinquantadue minuti o giti di lì. Delle trenta ore di 88

Tempo passalo, tempo presente

bobina finii quindi per montarne più di otto, cioè nella pro­ porzione di tre a uno, il che è piuttosto insolito per un do­ cumentario, dove tab’olta il rapporto è di cento a uno o al massimo di dieci a uno. Credevo anche che una parte dell'esperienza consistes­ se nel ripetere grosso modo il nostro itinerario: non quello geografico, s’intende, altrimenti sarebbe stato un semplice documentario di viaggio, ma l’itinerario delle nostre emo­ zioni. Nel commento, tornai spesso sul fatto che non ave­ vo compreso nulla dell’india. Ogni volta che pensavo di aver capito qualcosa, veniva fuori che mi sbagliavo. Per esem­ pio, un giorno riprendemmo una cerimonia religiosa in un piccolo tempio vicino a un villaggio, al termine della quale i fedeli avevano offerto denaro e cibo ai mendicanti. Ma suc­ cessivamente, parlando con loro, avevo scoperto che quelli non erano mendicanti, bensì brahmini. Appartenevano al­ la classe sociale più elevata, la casta dei sacerdoti, che nel contesto indiano è piuttosto benestante. Ma il rituale pre­ scriveva di offrire loro denaro e cibo. Noi occidentali ave­ vamo creduto di filmare dei mendicanti, e si trattava di tutt’altro. È un esempio tipico di quello che ci accadeva sem­ pre in India: pensavamo di riprendere la realtà, ma dietro questa ce n’era un’altra. Il vero era sempre più complicato e più tortuoso. Così, non ho mai avuto la pretesa di dire: «Ecco otto ore sull’india. Vi spiegherò tutto». Ho fatto esat­ tamente l’opposto. P.F. - Nel primo film lei pone due premesse, una impli­ cita, l’altra diretta. Una è che non si è quasi interessato al retaggio britannico, sebbene, quando se ne occupa, lo fac­ cia in termini molto critici. L’altra è che, dopo aver presen­ tato all’inizio degli intellettuali indiani molto colti, lei re­ spinge l’idea dell’india quale può essere trasmessa dagli in­ diani occidentalizzati. È stata una decisione deliberata o è qualcosa che emerge dal modo in cui lei ha presentato il materiale? L.M. - È stata una decisione consapevole, perché mi re­ si conto molto presto che c’erano due Indie diversissime 89

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fra loro. C’era l’élite: la classe media anglicizzata per defi­ nizione, gente che parla inglese, molti di loro mandano i loro figli alle scuole o nelle università inglesi. Questi india­ ni, sebbene provenissero da caste differenti, costituivano la classe dirigente, quella dei politici, dei burocrati, dei vertici dell’economia. Quello che dicevano era molto ambiguo e un po’ falso perché erano imprigionati tra due culture. Mi resi conto subito di quanto fossero a disagio. Molti di loro, non tutti per fortuna, erano aggressivi, esitanti, e a volte iro­ nizzavano su ciò che stavamo cercando di fare: «Tirerete ancora una volta fuori i soliti stereotipi. È sempre la stessa storia, quando gli occidentali vengono in India, non capi­ scono niente». Il che era vero, ma mi accorsi che per vede­ re la vera India non erano queste le persone delle quali do­ vevo occuparmi. Ecco perché all’inizio della serie, nell’introduzione al pri­ mo film, La Caméra impossible, dicevo che il 99 per cento degli indiani non parla inglese, ma il restante uno per cen­ to parla sempre per tutti gli altri. Sono loro che governano l’india, e preferii non occuparmene. Per esempio, quando intervistai dei leaders politici di Calcutta, sia comunisti, sia di destra, mi resi conto che, a forza di cercare di armoniz­ zare le loro culture, indiana e occidentale, avevano esatta­ mente lo stesso tipo di linguaggio doppio. Questo non era il linguaggio della verità. E probabilmente questa la ragio­ ne per cui ricevetti così tante critiche per quei film dagli indiani che vivevano all’estero, in Inghilterra, in Francia, in America. I film non sono mai usciti in India. Molti india­ ni della classe dirigente si risentirono per i miei film perché parlavano di un’india che non conoscevano affatto. Quan­ do i film vennero presentati al pubblico, mi crearono molti problemi. Avevo passato un mese intero a esaminare il materiale, poi rimasi un anno in sala di montaggio, praticamente fino alla fine del 1969. Mi trovavo a Parigi, andavo tutti i giorni in sala di montaggio. Fu come se fossi stato ancora in In­ dia, era una sorta di prolungamento del mio viaggio. Appe­ na guardavo le mie immagini e ricordavo cosa era succes­ so, scoprivo contraddizioni che non mi avevano neppure 90

Tempa passata, tempo presente

sfiorato. Avevo alcuni amici indiani a Parigi, ai quali mo­ stravo delle scene e loro mi davano una spiegazione. A vol­ te, ogni amico mi dava una spiegazione diversa... Com'è complicata, l’india! Approfondivo quindi la mia esperien­ za dell’india semplicemente guardando ciò che avevo gira­ to e cercando di dargli un senso. Potrei quasi dire di aver trascorso sei mesi in India, più un anno in sala di montag­ gio, quindi quasi due anni della mia vita totalmente immer­ so in quel paese. Senza contare il fatto di aver dovuto pre­ sentare i film, parlarne, ed essere coinvolto in una diatriba. È stato un momento molto importante della mia vita, e an­ cora oggi cerco di dargli un senso.

P.F. - Si ebbero reazioni a differenti livelli. Ci sono, per esempio, dei passaggi che avrebbero potuto dare luogo in seguito a controversie politiche, la decisa analisi della situa­ zione degli intoccabili, le sequenze relative al problema delle minoranze tribali e al modo in cui vengono trattate. C’è un altro passaggio del tutto personale, in cui lei esamina le sue reazioni. Ma c’è anche una terza categoria di sequenze, che rappresenta il problema principale di questo genere di film, dove lei scopre e fa vedere cose che possono essere o me­ no metaforiche o rappresentative, ma che in virtù della lo­ ro forza sono spesso le più impressionanti del film. In quest’ultima categoria c’è l’indimenticabile scena del bufalo morto, dilaniato dai cani e dagli avvoltoi, in cui lei dice: «Si tratta di una tragedia in più atti». Quando lei la filmò, la scena doveva avere un significato che riuscì a capire solo più tar­ di e che avrebbe potuto interpretare in modo diverso, ma che in quel momento era soltanto molto impressionante sul piano visivo?

L.M. - Ecco un ottimo esempio del nostro modo di lavo­ rare, di come procedevamo. Lei sa che in India non uccido­ no gli animali, vacche e bufali, perché sono sacri. Quando si percorrono le strade indiane, non è raro vedere una vac­ ca o un bufalo morti sul ciglio della strada con centinaia di avvoltoi appollaiati sopra. Dissi ai miei amici: «Una volta o l’altra, dovremo filmarlo». E così un giorno ci siamo fermati e abbiamo ripreso quello che avevamo già visto molte volte. 91

// mio cinema

P.F. - C’è una bellezza feroce in questa scena...

L.M. - Naturalmente per noi era molto impressionante. Ma quello che ci colpiva tanto non doveva probabilmente impressionare gli indiani. A noi sembra incredibilmente tra­ gico, ma per loro si tratta soltanto del ciclo della vita e del­ la morte, gli animali muoiono e gli avvoltoi li mangiano. Ogni cosa fa parte del tutto. Lo si vede in tutti gli aspetti della vita. Quindi non ha nulla di così notevole. Ma per noi era stupefacente a causa della sua bellezza feroce e tragica. O era la nostra immaginazione? Il modo in cui l’avevamo filmata? Non so. Per me, come regista, girare quei documentari fu un’e­ sperienza straordinariamente liberatoria. Il mondo del si­ lenzio era un documentario molto studiato. Non voglio di­ re costruito, perché c’erano dei veri incidenti, come la morte della balena e degli squali, ma era essenzialmente un docu­ mentario ricostruito. Quando giravo in India, scoprii l’in­ credibile libertà che consisteva nell’essere là, di fronte a qual­ cosa che suscitava la mia curiosità, e filmarla. Solo in segui­ to si cercava di capire che cosa avevamo girato. Non ave­ vamo il tempo di organizzare le riprese, di decidere prima se avremmo scelto un angolo piuttosto che un altro, né di chiederci come avremmo costruito la scena in fase di mon­ taggio... era un momento in cui lavoravo solo d’istinto, di riflesso. Uno degli aspetti interessanti del montaggio, per me, fu guardare il materiale e chiedermi: «Perché l’ho ri­ preso in questo modo?». La sola cosa che potevo fare era dire a Étienne: «Alla tua sinistra, la ragazza alla tua sinistra», per esempio, e lui la filmava... Credo che le occasioni che mi si sono offerte di affidar­ mi all’istinto abbiano giocato un ruolo decisivo nel mio la­ voro. Quando sono tornato alla fiction ho sempre cercato, più o meno deliberatamente, di ricreare quei momenti pri­ vilegiati. Ho sempre tentato di ritrovare quello stato di in­ nocenza che mi era parso così straordinario quando lavo­ ravo in India. Non sempre funziona in quel modo, natural­ mente, ma da allora ho fatto diversi film con bambini e ado­ lescenti, sforzandomi sempre di dare loro la libertà di espri92

Tempo passalo, tempo presente

mere se stessi, di lasciare loro l’iniziativa piuttosto che co­ mandarli... cercando di cogliere i momenti in cui erano spon­ tanei, in cui erano se stessi..., perché questi momenti privi­ legiati porteranno sempre sullo schermo una tonalità del tut­ to diversa. Sono riuscito a ottenerla nei documentari che girai in seguito. Ma anche nei miei film di fiction credo di essere stato enormemente influenzato da quello che avevo fatto in India. P.F. - Pur essendo dei film critici, vi è in Calcutta e nel­ la serie L'India fantasma una simpatia e un'obiettività evi­ denti. Fu sorpreso dalle reazioni ostili degli indiani occiden­ talizzati e dello stesso governo indiano?

L.M. - Le confesso che non me l’aspettavo affatto. Cal­ cutta era stato proiettato al cinema, in Francia e in altri paesi europei, persino al festival di Cannes nel 1969, senza susci­ tare reazioni particolarmente vivaci da parte della comuni­ tà indiana francese. Ci furono sì delle critiche, ma modera­ te. 1 problemi nacquero un paio di anni dopo, me ne ricor­ do precisamente perché stavo girando Soffio al cuore, quan­ do la serie venne trasmessa dalla BBC. Ero andato a Londra prima di iniziare questo film. Mi misero in una sala di regi­ strazione negli studi della BBC perché commentassi i filmati in inglese. Mi crearono molte difficoltà perché ritenevano che avessi un accento terribile, un miscuglio di inflessioni francesi e americane. Mi diressero più di quanto io non ab­ bia mai osato fare con un attore! Ci volle un’intera settima­ na, terribile! Ad ogni modo, tutto venne fatto con molta cu­ ra. Allestendo la versione inglese, apportai alcuni migliora­ menti. 11 montaggio venne affinato. Avevamo un contratto con la televisione francese, e dovemmo affrettarci a finire entro il termine previsto. La versione inglese è migliore: il sonoro è migliore; il mio commento anche. Apportai alcu­ ni cambiamenti, tenendo conto delle reazioni che il film ave­ va suscitato quando era stato trasmesso dalla televisione fran­ cese. Dunque ero piuttosto soddisfatto di me stesso. Cominciarono la serie partendo da Calcutta. Immedia­ 93

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tamente si levò un nugolo di proteste da parte della comu­ nità indiana che viveva in Inghilterra. La BBC ricevette cen­ tinaia di lettere. E poi si mosse l’Alto Commissario India­ no, di certo a causa delle violente reazioni degli indiani d’In­ ghilterra. Ne nacque un enorme problema diplomatico. Il governo indiano chiese ufficialmente alla BBC di interrom­ pere la proiezione dei film. La BBC rifiutò. Allora espulsero l’intero staff della BBC di Nuova Delhi, circa cinquanta per­ sone! Ci furono anche accesi dibattiti al parlamento india­ no. Alcuni membri dell’opposizione chiesero al governo di procedere alla mia estradizione. Era grottesco, i miei film riempirono le prime pagine dei giornali indiani per settima­ ne. Ma, come le ho detto, in India nessuno li aveva visti.

P.F. - Sembra più una farsa che precede la tragedia piut­ tosto che la classica proposizione marxiana. Somiglia alla farsa che ha preceduto la tragedia di Salman Rushdie.

L.M. - L’intolleranza fu incredibile. Quando concluse le trasmissioni di Calcutta e dei sette film dell7ncf/« fanta­ sma, la BBC mi chiese di andare a Londra. Arrivai un saba­ to pomeriggio, dopo aver lasciato il set di Soffio al cuore, completamente esausto. Mi vennero a prendere all’aeroporto per portarmi agli studi della BBC, per farmi partecipare a un dibattito, dopo che avevano trasmesso l’ultimo film, con sei indiani che mi assalirono. Un mio amico indiano di Pa­ rigi mi aveva chiamato per dirmi: «Tra la gente che parteci­ perà alla trasmissione, ci sarà una donna che probabilmen­ te sarà la più accanita. Deve sapere che è la figlia del primo ministro dello stato di Orissa, e questo primo ministro è stato appena destituito e sarà processato per corruzione». Era in­ teressante sapere che questa donna, una rappresentante del potere corrotto, mi avrebbe accusato di dare una visione deformante dell’india. Sarebbe stato facile menzionare suo padre e risponderle a quel livello; non lo feci, ma mi diede sicurezza sapere come stavano le cose. Uno di loro era in realtà dalla mia parte, e sosteneva che ciò che veniva espres­ so nei miei film era un immenso amore per l’india, un pro­ 94

Tempo passalo, tempo presente

fondo interesse e un grande rispetto. La prima cosa che secondo me si nota in quei film è la mia ammirazione per la cultura e la religione indiana, così diverse dalle nostre, e il mio domandarmi se per molti aspetti non siano migliori. Gli indiani anglicizzati mi avevano ac­ cusato di avere filmato solo mendicanti, lo risposi: «Quan­ do si filma in India, come si deve fare, bisogna cacciare i mendicanti? Sono ovunque...». C’è solo una sequenza sui mendicanti, e in quella sequenza, come ho già detto, ave­ vo scoperto che in realtà non si trattava affatto di mendi­ canti. In India molti mendicanti sono solo persone che alla fine della loro vita intraprendono questi grandi viaggi di tem­ pio in tempio, e aspettano di venire nutriti: è un fatto che fa parte della struttura sociale e della religione. Qualcun al­ tro mi aveva detto: «Non ha mostrato le grandi realizzazio­ ni dell’india moderna, come la centrale nucleare presso Bombay». Risposi che avrei voluto filmarla. In realtà quell’impianto mi incuriosiva molto, ma non riuscii a ottenere il permesso perché era segreto, e dovetti rinunciare. «Per­ ché non ha ripreso il Taj Mahal?». Replicai: «Tutti i turisti che vanno in India riprendono il Taj Mahal. Non era nel mio itinerario». Era sempre la stessa solfa. Quei film vennero poi presentati negli Stati Uniti e di­ ventarono dei cult-movies; furono trasmessi dalla televisione e nei piccoli cinema delle città universitarie. Molta gente mi disse che guardando i miei film si era a tal punto incuriosi­ ta, che andò in India. Il ministero del turismo di quel paese dovrebbe darmi una medaglia! All’epoca era al potere Indi­ ra Gandhi, e una mia amica che mi aveva aiutato a Calcut­ ta, Vijaya Mulay, una donna eccezionale, che è pedagoga e aveva fatto parte del ristretto gruppo intorno a Indira, cer­ cò di organizzare per lei una proiezione dei miei film. «So­ no certa che le piaceranno, che capirà il loro significato». Fu proprio quando cominciò la guerra del Bangladesh, e naturalmente la signora Gandhi aveva altre cose a cui pen­ sare, che non passare otto ore a guardare i miei film. Finì così. Non vennero mai mostrati in India. Sono tornato in India all’inizio degli anni ottanta, quan­ do Candice interpretava la parte di Margaret Bourke-White 95

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in Gandhi. Il giorno successivo al mio arrivo a Bombay* sulla prima pagina di uno dei giornali in lingua inglese, l’«Indian Express», c’era un articolo, «Louis Malie è tornato»... come se fossi il nemico numero uno! Era una cosa veramente stra­ na, dei giornalisti giunsero sul set di Gandhi. Fui quindi co­ stretto a parlare con loro e a dire: «Guardate, nessuna mac­ china da presa. Sono venuto solo per vedere mia moglie». Negli anni seguenti è diventato molto difficile per le trou­ pe straniere lavorare in India. Naturalmente, la reazione della classe dirigente indiana nei confronti dei miei film mi ha amareggiato. Mi sorprese, ma era prevedibile e avrei dovu­ to aspettarmelo.

l. Jean-Claude Carrière (1931): uno dei più raffinati e prolifici sceneg­ giatori degli ultimi trent'anni, lavorò con Bunuel a sette film e alla sua autobiografia. Tra le sue sceneggiature: // tamburo di latta, Un amore di Swann, L'insostenibile leggerezza dell'essere, Mahabha­ rata (per Peter Book) e Girano di Bergerac. 2. Pierre Étaix ( 1929): pittore, attore e assistente di Jacques Tati in Mio zio. Ha co-diretto cortometraggi (Rupture, Heureux anniversairé) con Jean-Claudc Carrière, che lavorò anche sui testi dei lungometraggi da lui diretti. 3. Volker Schlòndorff (1939): dopo aver studiato cinematografia in Fran­ cia, fu assistente di «Malie in Zazie, Vita privata. Fuoco fatuo e Viva Maria-, poi tornò in Germania e diresse H giovane Tórless, coprodotto dalla casa di produzione di Malie, la NEF. Collaborò a parecchi film con sua moglie, Margarethe von Trotta, e nel 1978 vinse l'Oscar con il tamburo di latta. 4. Giù la testa!(\97Vy. l'ultimo spaghetti-western di Sergio Leone. Nel 1914 in Messico un esperto di esplosivi irlandese (James Coburn) tra­ scina nella rivoluzione un bandito locale (Rod Steiger). 5. Heller in Pink Tigbts (I960): spensierato western romantico (l’uni­ co di quel genere fatto da George Cukor) con Anthony Quinn e So­ phia Loren nella parte dei direttori di una compagnia di guitti che percorre la frontiera americana negli anni '80 del secolo scorso. 6. Western sceneggiato da Robert Aldrich, nel quale Gary Cooper e Buri Lancaster sono due mercenari rivali nel periodo successivo alla guerra civile messicana. Il film fu molto ammirato da Sergio Leone.

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Ill - Scene della vita di provincia

P.F. - Negli anni settanta, dopo l’esperienza indiana, lei ha diretto tre film i cui protagonisti sono degli adolescenti che vivono nella provincia francese. Due sono ambientati nel recente passato, il terzo in un prossimo futuro. Il pri­ mo, probabilmente il suo film più controverso, è Soffio al cuore. Qual è il motivo che l'ha indotta ad ambientarlo nel 1954, l’anno della caduta di Dièn Bièn Phu1, e a scegliere Digione, città nella quale in precedenza aveva girato Les Amants? L.M. - La genesi di Soffio al cuore, come al solito, è va­ gamente misteriosa anche per me. Dopo aver finito i miei film indiani, lavorai per un certo periodo con Pierre Kast2 a un progetto il cui tema era costituito da un’utopia. Il mag­ gio 1968 non fu una vera rivoluzione, ma il suo aspetto più interessante fu quello utopistico. Erano studenti, gente per lo più giovanissima, quelli che proclamavano: «Noi rifiutia­ mo la società nella quale dobbiamo entrare, vogliamo ri­ partire da zero». Le loro speranze e i loro ideali erano fran­ camente utopistici, nel senso migliore della parola. «L’im­ maginazione al potere» era lo slogan più indovinato. Nel maggio 1968 sui muri di Parigi si vedevano un mucchio di slogan tratti direttamente dal movimento surrealista; e l’a­ spetto più interessante dei surrealisti fu quello utopistico... essi erano alla ricerca di un mondo radicalmente diverso. Io e Kast cominciammo da premesse che non erano co­ sì diverse da Orizzonte perduto. Era la storia di una picco­ 97

// mio cinema

la società insediata in una remota valle delle Ande che era riuscita a combinare il meglio della cultura indiana, prima della venuta di Pizarro, con quella della gente che era fug­ gita dall’Europa perché perseguitata per motivi religiosi. L'in­ contro di questi due gruppi, gli incus in fuga dagli spagno­ li, e gli europei diretti verso sud e che avrebbero potuto benissimo essere ugonotti... insomma, l’idea era quella di descrivere una società ideale dove per esempio non esistesse il denaro. L’intero progetto era utopistico. Sul piano dram­ matico era piuttosto debole perché, per definizione, in una società ideale c’è pochissima tensione. Ma il lavoro di ri­ cerca fu interessante: analizzare che cosa era fallito nella no­ stra società e in quale altro modo avrebbero potuto andare le cose. Ricordo di aver frequentato dei seminari con gen­ te che andava da Margaret Mead a Bruno Bettelheim e mol­ ti altri. Tra l'esperienza indiana e il maggio 1968, mi trovavo in una strana situazione. Che fare adesso? 1 miei lavori in­ diani erano stati accolti molto bene e mi ero reso conto di essere diventato un altro. L’idea di tornare a fare normali film di fiction, di trovare una storia, scriverla, girarla, non mi attraeva particolarmente. Così, per un po’, lavorai a que­ sto progetto su una società ideale. Fu come continuare la mia ricerca. Poi mi resi conto che non avrebbe funzionato: la ricostruzione di una società così perfetta sarebbe stata mol­ to ingenua e probabilmente assai noiosa. Fu allora, a causa di tutto ciò che mi era accaduto, che mi riaffiorarono al­ l’improvviso alla memoria elementi della mia infanzia. Nel­ la mia giovinezza... non che fossi stato un bambino infeli­ ce, al contrario: in realtà la mia fu un’infanzia felice, mi ri­ bellai violentemente contro il mio ambiente e la mia edu­ cazione. Avevo rimosso la mia infanzia e non me ne ero più voluto occupare, e questo spiega forse perché i miei primi film non ne parlano, come invece spesso accade in molte opere prime. Ma, dopo l’india, era riemersa. Avevo ormai superato il momento della ribellione e stavo cercando di capire che cosa mi fosse accaduto e in che modo ero di­ ventato quello che ero. Ricordare la mia infanzia non fu una scelta deliberata: fu la mia infanzia che tornò a me. 98

Scene della cita di provincia

Così giunsi a fare Soffio al cuore. Avevo lavorato per un po’ a un libro di Georges Bataille intitolato Mia madre, una storia delirante e tragica; bellissima, ma disperata. Ne scrissi una riduzione, lavorando per circa un mese nel 1970. A un certo punto mi resi conto che quella non era la mia voce, non era il mio tono. Ma non fu certo un caso che ri­ manessi affascinato da quel libro. Vi trovavo qualcosa che doveva avere a che fare con le immagini folli e fantastiche della mia infanzia. Misi da parte Mia madre — avevo scrit­ to una cinquantina di pagine — e cominciai ad annotare quello che mi era successo quando ebbi il soffio al cuore. All’improvviso ammisi a me stesso, forse per la prima vol­ ta, che il rapporto con mia madre era stato strano e molto passionale. Buttai giù, allora, in una sola settimana, una lunga scaletta, circa ottanta pagine, di quello che sarebbe diven­ tato Soffio ài cuore. La rilessi l’estate scorsa; è molto simile al film finito. Qualcosa di simile a ciò che i surrealisti chia­ mano «scrittura automatica». Naturalmente, la mia immaginazione aveva preso il so­ pravvento, nel senso che, sfortunatamente forse, le cose non erano andate in realtà come vanno nel film. 11 casuale ince­ sto che viene descritto nel film a me non è mai accaduto nella vita reale. Ma l’inizio del film rispecchia molto da vi­ cino com’ero allora: la passione per il jazz, l’amore per la letteratura, la tirannia dei miei due fratelli maggiori, il mo­ do in cui mi avevano iniziato al sesso... E quando mi venne il soffio al cuore, i dottori dissero a mia madre: «Deve por­ tarlo in una stazione termale, è la cosa migliore da farsi». Così mia madre mi ci portò, e per strane ragioni, dividem­ mo la stessa stanza. Era una donna molto religiosa, e non ci vedeva nulla di male. Non credo che le sia mai passato per la testa che fosse strano dividere la propria stanza con un figlio di tredici anni. Quindi le premesse di ciò che accade nella seconda me­ tà del film sono ispirate dalla mia esperienza; è da questo che sono partito per cominciare a fantasticare. Il film è in parte autobiografico, e in parte frutto della mia immagina­ zione. Avevo rimosso quel ricordo per molti anni, ma cer­ tamente dividere la stanza con mia madre per tre o quattro 99

// mio cinema

settimane doveva avermi profondamente turbato. Il copione mi è venuto di getto. Nella prima stesura avevo mantenuto le reazioni convenzionali all’incesto, considerato come ta­ bù, qualcosa che va condannato e represso, quindi vi ave­ vo inserito un po’ di senso di colpa. C’era una scena — l’ho persino girata e poi tagliata in sede di montaggio — dopo che è stato consumato l’incesto, in cui il ragazzo si sveglia mentre la madre è addormentata; va in bagno e pensa di suicidarsi. È a questo punto che ho interrotto il mio primo copione. Non sapevo più come andare avanti. In quel periodo Jean-Claude Carrière stava da me. Stava rivedendo una sua pièce. La sera in cui terminai la sceneg­ giatura, gliela lessi. Disse: «Ma Louis, è magnifico, devi far­ lo». Ne fui spaventato. Lo consideravo un po’ troppo per­ sonale, troppo intimo. Ma il modo in cui avevo trattato il soggetto, che caratterizzava fortemente già il primo testo, era molto incline al piano della commedia, e questo mi pia­ ceva molto. Il modo in cui la madre e il figlio giungono alla scena dell’incesto era descritto quasi come qualcosa di ine­ vitabile. Si trattava più che altro di un caso. In realtà, non vi era il minimo senso di colpa. Mi ero reso conto, leggen­ do il soggetto a Jean-Claude e discutendone con lui, che si trattava di qualcosa di molto naturale. È forse per questo motivo che l'incesto è così spaventoso ed è un tale tabù: perché per l’amore materno è così naturale trasformarsi in qualcos’altro. Capii che se volevo essere onesto con ciò che avevo scritto, dovevo comunque arrivare in fondo. Mi venne l’idea che il ragazzo si sarebbe svegliato in uno stato di gran­ de turbamento, ma che avrebbe reagito andando a letto con la ragazzina con la quale aveva flirtato nelle scene prece­ denti. Fu durante le riprese che mi venne in mente l’idea del finale. Le scene della stazione termale furono girate per ultime, e persino durante le riprese mi chiedevo in che modo finire la storia. Poi pensai che doveva finire con una risata, con la sorpresa dell’intera famiglia riunita là nel momento in cui lui esce dalla camera della ragazza con le scarpe in mano. Avrebbe avuto un’aria così buffa che tutti avrebbe­ ro cominciato a ridere e la cosa sarebbe finita con l’intera famiglia che rideva. Era molto provocatorio, ma lo ritengo 100

Scene della cita di provincia

uno splendido modo di finire la storia... come un finale so­ speso, che lascia tuttavia intuire in che modo la famiglia avrebbe accettato ciò che era successo. Rielaborando la pri­ ma stesura, feci in modo che la madre si svegliasse, parlas­ se al ragazzo cercando di non farlo sentire colpevole: «Que­ sto sarà il nostro segreto, è accaduto perché ci amiamo trop­ po. Non voglio che tu ti vergogni, né che provi dispiacere per ciò che è successo». Cercava di fargli capire che quello che era accaduto derivava solo da un eccesso di amore. Non sarebbe più capitato, ma era qualcosa che avrebbero ricor­ dato e tenuto caro. Questo discorso della madre è un mo­ mento chiave. Vi è qualcosa di profondamente vero, sin­ cero e onesto.

P.F. - La madre sembra essere più un personaggio della fine degli anni sessanta che non dei pudibondi decenni del dopoguerra. Inoltre è italiana. I suoi rapporti con il marito, molto più anziano di lei, sono piuttosto freddi; è una don­ na giovane e, nell’interpretazione di Lea Massari, sprigiona un’intensa sensualità. La scelta degli attori fu un momento importante? L.M. - Importantissimo. Sin dalla prima stesura, invece di descrivere mia madre, che era una donna interessante e di grande personalità, avevo creato un’altra persona. La mamma di Soffio al cuore non è la mia. Assomiglia a una mia amica sudamericana alla quale ero stato molto legato durante gli anni sessanta. Con il suo matrimonio, era entra­ ta a fare parte di una famiglia francese molto convenziona­ le: suo marito era splendido, ma la famiglia era l’incarna­ zione stessa del convenzionalismo borghese. Lei si ribella­ va in continuazione, come l’italiana della mia sceneggiatu­ ra, e aveva un rapporto incredibilmente passionale con il figlio. È a lei che mi sono ispirato, cambiando però molti dettagli. Era essenziale che questa donna fosse una ribelle, una persona che non avesse mai accettato i valori dell’am­ biente sociale in cui viveva. Aveva un amante e dei rappor­ ti molto intimi, molto fìsici con i suoi figli, soprattutto con il terzo. Mi vennero espressi degli stupidi commenti. Le per­ 101

il mio cinema

sone mi dicevano: «Naturalmente ha fatto della madre un’i­ taliana e non una francese perché è scandalosa». Non ave­ va senso. Fosse stata una borghese francese, l’intera storia sarebbe stata assurda. Doveva venire da fuori, essere una persona con un sistema di valori totalmente diverso. Se il film funziona, credo sia per due ragioni. In primo luogo perché ho trattato il soggetto sul piano della comme­ dia; e, in secondo luogo, perché l’incesto viene consuma­ to subito dopo il ballo del 14 luglio; tutti ballano e bevo­ no, compresa la madre. Volevo mostrare che si trattava sem­ plicemente di un caso. Il ragazzo aiuta la madre a spogliar­ si, e succede così... è il coronamento casuale della loro ap­ passionata relazione. Quando uscì il film, andai davanti a un cinema degli Champs-Élysées per ascoltare le reazioni del pubblico. Ri­ cordo due donne, chiaramente due borghesi, che usciva­ no dallo spettacolo. Avevano stampati in viso dei meravi­ gliosi sorrisi e sembravano al settimo cielo. All’improvviso una di loro disse: «Quello che abbiamo appena visto è orri­ bile». Cominciarono a discutere. «Penso sia divertente e commovente», disse l’altra. E poi: «No, no, è terribile». E divenne di colpo molto enfatica. Cercai di seguirle, ma a un certo punto si accorsero che stavo ascoltando. Penso che il film abbia permesso a molta gente di esprimersi in due lingue contrapposte; molti si erano divertiti moltissimo con il film, ma nel ripensarci dicevano: «E’ scandaloso». Que­ sto era qualcosa che mi piaceva. Una delle cose che mi è sempre piaciuto fare è costringere la gente a riconsiderare le proprie idee preconcette. L’incesto madre-figlio è l’ultimo tabù; non ne vuole par­ lare nessuno. La gente trova più facile occuparsi dell’altro grande tabù, quello della violenza dei padri sulle figlie, un tabù che è presente e quasi accettato in molte società. Con Soffio al cuore ero diventato, volente o nolente, un esper­ to in materia di incesto. Negli anni successivi, a causa di quel film, molte donne si confidarono, mi raccontarono quello che era accaduto tra loro e i loro figli, come ciò che era av­ venuto si fosse verificato in termini molto simili a quelli de­ scritti nel film. Avevo iniziato fantasticando sulle mie me­ 102

Scene delia rila di prormcia

morie di bambino e avevo finito con il fare qualcosa di scan­ daloso. Ma probabilmente nel senso buono del termine. In quel periodo di liberazione sessuale, i primi anni set­ tanta, quando non c’erano quasi più tabù, l'incesto era an­ cora considerato tale. Mi tirai addosso un sacco di proble­ mi. Realizzai il film con pochissimo denaro, sperando di ot­ tenere un anticipo sugli incassi. Avevo presentato la sceneg­ giatura e si erano impegnati a darmelo. Ma finii per non ot­ tenere un soldo, perché in quei giorni c’era la pre-censura, bisognava presentare la sceneggiatura per ottenere il nul­ laosta. Non mi proibirono di girarlo perché non potevano farlo, ma mi avvertirono che il film, una volta terminato, sarebbe stato vietato. A causa di quella lettera della censu­ ra, non ottenni il denaro del governo, e fu molto difficile trovare un distributore. Naturalmente la minaccia di cen­ sura non mi preoccupava, perché sapevo che avrei girato la scena dell’incesto in termini estremamente discreti. Alla fine, il film non fu vietato ed ebbe anche molto successo.

P.F. - Ma i moralisti e i censori avrebbero forse preferi­ to un finale tragico, in cui la madre ripudia il figlio, che al­ lora si uccide. Molta gente lo avrebbe trovato del tutto plau­ sibile e sarebbe uscita dal cinema soddisfatta. L.M. - Sì, ma sarebbe stato qualcosa di estraneo al con­ testo del film. Mi rendevo conto di quanto fosse traumati­ co per un bambino trovarsi in una situazione del genere, ma pensavo che fosse più realistico presentare un esempio particolare, in cui ciò che accade non ha su di lui un effetto terribilmente distruttivo. Uno dei meriti del film, che dipen­ de in gran parte dalla presenza di Lea Massari e di Benoit l'erreux, il ragazzo, è il fatto che essi esprimano un amore così nobile, una comprensione così grande. Per esempio, nelle scene che precedono l’incesto, il ragazzo è disperato perché la madre lo lascia per trascorrere la notte con il suo amante. Quando ritorna, ha appena rotto con lui, è scon­ volta. All’inizio il ragazzo è veramente furioso con lei, poi capisce che sta soffrendo e le esprime comprensione e com­ passione. diventa veramente un amico per la madre. Non 103

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è soltanto amore, ma il lato migliore dell’amore, quello che consiste nel dare, generosamente, da ambo le parti. È pro­ prio questa la chiave di tutto. Se non fosse stato così, il film sarebbe stato veramente diffìcile da tollerare.

P.F. - Oltre all’incesto, c’è una visione fortemente anti­ clericale del severo collegio cattolico frequentato dal ragaz­ zo. C’è la descrizione dell’insegnante più comprensivo, il prete omosessuale, interpretato con straordinaria finezza da Michel Lonsdale. L.M. - Pensi a quei preti cattolici, celibi, votati alla casti­ tà e costantemente in contatto con quella carne giovane... Ricordo di essermi dovuto confessare a un prete, nella sua stanza, in ginocchio, noi due da soli. Ma nel film il prete dice: «Lasciami guardare, che bei muscoli hai. Scommetto che non riesco a circondarti la coscia con le mani». La bat­ tuta è di Jean-Claude Carrière. È una storia che viene dal collegio cattolico che frequentò da bambino. Mi ha chiesto perché ambientai il film nel 1954. Ebbi il soffio al cuore nel 1946, mi pare, e andai in una stazione termale con mia madre all’età di tredici anni e mezzo. Cre­ do di averlo trasposto negli anni cinquanta perché non vo­ levo occuparmi direttamente del mio passato. Anche il mio ambiente era borghese, ma era differente. Dato che il per­ sonaggio della madre era del tutto diverso da mia mamma, cambiai naturalmente l’ambiente sociale e posticipai il film di sette anni. Credevo fosse giusto collocarlo nel bel mez­ zo della guerra in Indocina, all’epoca di Dièn Bièn Phu. Avrebbe fatto da contrappunto e collocato il mio personag­ gio, Laurent, in un contesto politico: per esempio, la dimo­ strazione dell’estrema destra dell’inizio. Come ho detto, quand’ero bambino, durante la guerra, ci mandavano a ven­ dere le cartoline del maresciallo Pétain; ugualmente, nella scena iniziale del film, il ragazzo e uno dei suoi amici fanno la questua per i soldati feriti in Indocina. Quelle discussio­ ni in famiglia dei fratelli di sinistra che contraddicono il pa­ dre... erano cose che facevano parte della mia infanzia. 104

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P.F. - Ma c'è anche l’idea che il disagio politico e l’in­ certezza della nazione trovino un’eco nel ragazzo. L.M. - Dièn Bièn Phu fu molto importante per me, per motivi personali. Un mio caro amico venne ucciso laggiù. Quando accadde ero in mezzo all’oceano indiano con Cou­ steau. Era mio cugino germano. Eravamo molto legati, i ri­ belli dèlia famiglia. Voleva fare l’attore, ma quando fu ar­ ruolato, si offrì come volontario paracadutista e finì a Dièn Bièn Phu, dove morì. Il fatto che fossi lontano e di essere venuto a sapere della sua morte solo alcune settimane do­ po mi ha sempre accompagnato come uno strano rimorso. Lessi molto su Dièn Bièn Phu, e a un certo punto presi an­ che in considerazione l’idea di parlarne in un film.

P.F. - Il film successivo fu ugualmente controverso, an­ che se ciò dipese da una questione di politica nazionale: l’e­ sperienza della guerra e del collaborazionismo. Cognome e nome: Lacombe Lucien fu il primo film, credo, ad analiz­ zare esplicitamente il fenomeno del collaborazionismo. In che misura ritiene che il suo film, al pari di quelli successi­ vi di altri registi sull’argomento, sia stato reso possibile dal documentario girato da Marcel Ophùls-3 nel 1971, Le Cha­ grin et la Pitie?

L.M. - Credo che i miei lavori migliori siano sempre pas­ sati attraverso un lungo processo di maturazione. Cogno­ me e nome: Lacombe Lucien risale a molto indietro nel tem­ po. Tutto cominciò quando ero in Algeria, nel 1962, e tra­ scorsi ventiquattr’ore in una fortezza in mezzo alle monta­ gne nell’Est del paese. Quel fortino era presidiato da un’u­ nità speciale, vi arrivammo un pomeriggio per trascorrervi la notte. Si era alla vigilia della fine della guerra e tutto l’e­ sercito francese stava pensando a fare le valigie e a rientra­ re in patria. Ma laggiù le cose erano diverse: si trattava di una squadra di reazionari militari di carriera, tra i quali vi erano non pochi fascisti. Ero con Volker Schlòndorff, che allora mi faceva da assistente, e Bernard Giquel, un giorna­ lista di «Paris Match». Era terribile. Cenammo alla mensa 105

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ufficiali; avevano bevuto molto, e cominciarono a raccon­ tarci — a noi, i rappresentanti dei media che, naturalmen­ te, essi ritenevano responsabili di tutto — che cosa pensa­ vano realmente della situazione politica e a dirci quanto odia­ vano De Gaulle. Erano una galleria di stereotipi: c’era il giovane ufficia­ le, un aristocratico appena uscito dalla scuola militare, che proveniva da una famiglia di militari di carriera, il sergente che aveva combattuto tutte le guerre coloniali e che odia­ va gli arabi... Quando non potemmo fare a meno di espri­ mere il nostro punto di vista cominciò a crescere la tensio­ ne. Verso le undici, decisero di organizzare una spedizione notturna. Così svegliarono tutti... credo che volessero met­ tersi in mostra per noi. Fu così assurdo, così stupido. Al­ l’improvviso, un centinaio di uomini partì in colonna al chia­ ro di luna. Quando entrarono in un piccolo villaggio, le cose si misero male. Svegliarono i contadini terrorizzandoli e pic­ chiandoli per ottenere informazioni sui guerriglieri algeri­ ni: fu una scena orribile. Dal punto di vista militare, non aveva senso. Alla fine, presero un paio di presunti sospetti, tornarono al forte e se ne andarono tutti a letto. Dividevo la stanza con un giovane ufficiale che, fino a quel momento, non aveva detto una parola. Nella vita civi­ le faceva il ragioniere e stava finendo il servizio militare in Algeria. Cominciò a raccontarmi che era quello che loro de­ finivano un O.R., «offìcier de renseignement». Aveva l’in­ carico di raccogliere informazioni. In altre parole, era un addetto alla tortura. Era perfettamente normale, un picco­ lo borghese ben educato — scriveva alla fidanzata tutti i gior­ ni — e giustificava ciò che faceva dicendo che qualcuno do­ veva pur farlo. C’era qualcosa in lui che trovai vagamente inquietante; era la prima volta che mi trovavo al cospetto della banalità del male. Sono sicuro che quell'uomo — avrà avuto treni’anni — adesso è sposato, è un buon cittadino francese, probabilmente è molto rispettato. Forse vota Le Pen, ma non ne sono del tutto sicuro. Pensai che valesse la pena di analizzare le circostanze che avevano trasforma­ to quell’uomo assolutamente comune in un torturatore. Così cominciai a prendere appunti, ma la guerra d’Algeria era 106

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troppo vicina; era diffìcile occuparsene. Rinunciai al pro­ getto. Pensai di riprenderlo dopo Soffio al cuore, nel pe­ riodo che trascorsi in Messico. Amo il Messico... mi ci sono fermato a lungo, c'è nato mio figlio. Era scoppiato un gros­ so scandalo in Messico, allora: la stampa aveva scoperto che la polizia aveva assoldato dei ragazzi delle bidonville arre­ stati per furti o piccole infrazioni. Invece di metterli in pri­ gione, aveva addestrato quei ragazzi di diciotto, dicianno­ ve anni, li aveva indottrinati e arruolati come para-poliziotti in borghese. Si infiltravano nelle manifestazioni studente­ sche per disperderli all’improvviso dall’interno, qualche vol­ ta usando i fucili, altre volte i bastoni. Avevano ucciso molti studenti. Pensavo che si trattasse di una buona variante al mio progetto iniziale. Avevo cominciato a lavorarci sopra. Poco tempo dopo, mentre eravamo insieme a pranzo, Bufìuel mi prese in giro: «Non ti permetterebbero di farlo neanche se fossi messicano. Ma per uno straniero, affron­ tare questa storia... scordatelo». Naturalmente, aveva ragione. Poi pensai per un momento di occuparmi della guerra del Vietnam, la guerra americana in Vietnam. Erano i gior­ ni dei processi al tenente Calley4, al capitano Medina e ad altri americani che avevano commesso delle atrocità sulla popolazione civile a My-Lai e altrove. Ma era una storia non mia, non stava a me farlo. Avrebbe dovuto essere un regi­ sta americano. Fu più o meno in questo periodo che il ricordo di ciò che sarebbe poi diventato Arrivederci ragazzi ricominciò a ossessionarmi. Ma allora non ero ancora pronto a occu­ parmene, era troppo presto! Tuttavia pensai che avrei po­ tuto utilizzare il 1944 come sfondo per il mio film sulla «ba­ nalità del male». Cominciai a fare ricerche sul collaborazio­ nismo, non quello di livello elevato, ma quello comune delle province, delle piccole città. Ero un po’ riluttante a trattare quel periodo perché il cinema francese se n’era occupato già abbastanza spesso. Ma quando cominciai a fare ricerche, mi accorsi che quest’aspetto dell’epoca non era mai stato veramente analizzato, a pane Le Chagrin et la Pitié di Mar­ cel Ophùls, che era appena uscito. Del resto, avevo qual­ 107

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cosa a che fare con quella uscita, dato che all’epoca io e mio fratello Vincent avevamo messo in piedi una piccola società di distribuzione. Il film di Ophuls era stato prodotto da una società sviz­ zera in coproduzione con la televisione francese, la quale decise poi di non mandarlo in onda: così lo distribuimmo al cinema. Naturalmente aveva suscitato polemiche, quan­ do venne proiettato in due sale cinematografiche di Parigi ci furono molte minacce da parte dei movimenti di destra. Il film andò molto bene, ma dovemmo mettere dei sorve­ glianti nei luoghi nei quali veniva proiettato. Dopo il film di Ophùls, pensai di essere al sicuro. Dato che Ophùls ave­ va affrontato direttamente il collaborazionismo, ora pote­ vo trattarlo in un’opera di fiction. Com’ero ingenuo. Essen­ do costituito di documenti e interviste, Le Chagrin et la Pitie aveva l’enorme forza che dava il fatto di parlare di persone e fatti reali. Nel momento in cui inventavo personaggi e si­ tuazioni — pur direttamente ispirati alla realtà — mi espo­ nevo agli attacchi. Sapevo che si trattava di un campo mi­ nato, e procedetti con molta cautela; mi documentai per mesi, intervistando vecchi collaborazionisti e gente che par­ tecipò alla Resistenza, incontrando gli storici specialisti del periodo. Alcuni di loro mi permisero di consultare i loro archivi. Andai a trovare uno storico di Tolosa che aveva un ar­ madio di ferro pieno di documenti relativi a ciò che era suc­ cesso nelle città e nei villaggi dei dintorni. Mi disse: «Non mi sarebbe consentito mostrarglieli, perché c’è una prescri­ zione». In Francia è proibito svelare i nomi di individui im­ plicati in possibili attività illegali, senza la loro autorizzazione. Alla fine mi permise di studiare quelle carte, e io riuscii a trovare molti collaborazionisti ancora vivi; quelli che non erano stati uccisi dalla Resistenza o condannati a morte do­ po la guerra. Alcuni erano scappati in Germania, e furono processati in seguito, quando la giustizia si era fatta più mo­ derata. Avevano scontato una pena di sette-dieci anni. Era gente che aveva cambiato identità e vita, ma riuscimmo a trovarne alcuni e a farli parlare. Iniziai a scrivere una sceneggiatura e ad abbozzare il per­ 108

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sonaggio di Lucien, un ragazzo di estrazione contadina che per una serie di incidenti finisce col lavorare per la Gesta­ po francese di una piccola città. Ma, a quel punto, mi bloc­ cai. Fin dall’inizio avevo immaginato che sarebbe entrato in rapporto con una famiglia di ebrei rifugiati in una soffit­ ta. Un giorno passeggiavo per le strade di Figeac, una citta­ dina nella quale girai effettivamente gli esterni del film, e udii la musica di un pianoforte provenire dall’ultimo piano della casa, una sonata molto malinconica, molto lenta, di Beethoven. Era qualcuno che stava studiando, i passaggi ve­ nivano ripetuti. Restando in ascolto, ebbi la visione di una famiglia ebrea con una ragazza molto «parigina» e mortal­ mente annoiata dal fatto di doversi nascondere. Fu a quel punto che decisi di lavorare con Patrick Modiano. Pur es­ sendo nato nel 1947, i suoi primi due romanzi si svolgeva­ no durante l’occupazione, parlavano entrambi di collabo­ razionismo, e mi erano piaciuti moltissimo. Volevo lavora­ re con lui per l’immensa curiosità che aveva per quel pe­ riodo. Egli mi aiutò tantissimo, specie per la parte del film che riguarda la famiglia ebrea. Fin dall’inizio volli filmare nella mia regione. Avevamo appena ultimato la sceneggiatura quando scoprii per caso che il personaggio centrale, o qualcuno simile a lui, era ve­ ramente esistito. Ero andato a Limogne, il villaggio più vi­ cino, e stavo parlando con il proprietario di un garage. Vo­ levo fargli alcune domande perché era stato nella Resisten­ za. Gli descrissi l’argomento della storia. Mi disse: «Oh, ma sta parlando di Hercule». Hercule era un giovane molto basso di statura, con un difetto fìsico, una spalla più alta dell’al­ tra, che aveva lavorato per la Gestapo a Cahors. All’epoca aveva diciotto anni, l’avevano mandato qui per infiltrarsi nella Resistenza e, mi creda o no, durante la guerra la casa in cui siamo adesso era stata abbandonata e i partigiani vi si erano rifugiati per alcune settimane nel gennaio 1944. Quando comprai la casa, nel 1965, c’erano dappertutto croci di Lorena, il simbolo gollista, e la presenza della Resistenza era ancora visibile. Il garagista di Limogne mi confermò che quel giovane Hercule era stato in casa mia con i partigiani, una cosa dav­ 109

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vero bizzarra! Si diede parecchio da fare, e denunciò molta gente. Per causa sua, la Gestapo e l’esercito tedesco fecero una spedizione a Figeac e deportarono un centinaio di per­ sone. Il garagista mi disse che gli stavo raccontando la sto­ ria di Hercule, eppure io non ne avevo mai sentito parlare. Alla fine Hercule venne arrestato e giustiziato subito dopo la guerra. Dopo aver fatto tutte queste ricerche ed essermi stabilito in questa regione, scoprivo che qualcuno di mol­ to simile a Lucien Lacombe era realmente esistito e aveva vissuto in casa mia! Credetti che fosse un segno dei desti­ no. Accadde qualche mese prima di cominciare le riprese.

P.F. - Aveva deciso fin dall’inizio di affidare la parte di Lucien a un attore non professionista? L.M. - Sì, fin dal primo momento. Non solo il personag­ gio doveva essere interpretato da un attore non professio­ nista, ma doveva essere qualcuno di qui, che avesse l’ac­ cento locale, un elemento fondamentale per la storia. E do­ veva essere qualcuno dello stesso ambiente sociale. Ci vol­ lero mesi per trovarlo in quell’inverno del 1973- Mentre la­ voravo con Modiano alla sceneggiatura, due assistenti era­ no impegnati a tempo pieno nella ricerca di un giovane adat­ to al ruolo. Mettemmo annunci sui giornali che descriveva­ no il personaggio. Visionammo, letteralmente, centinaia di adolescenti. I miei assistenti battevano le scuole, i club spor­ tivi, sperando in un miracolo, perché era terribilmente dif­ ficile trovare qualcuno per quella parte. Descrissi il perso­ naggio alla radio locale, precisando che doveva essere di famiglia contadina, e non uno studente dell’università di Tolosa. E il miracolo accadde. Dopo tanto tempo. Eravamo nel­ l’ufficio di «La Dépèche de Toulouse», avevamo visionato circa cinquanta ragazzi, alcuni ci erano parsi abbastanza in­ teressanti, gli avevamo fatto delle foto e chiesto di leggere delle battute. Avevamo finito, e non appena lasciato l’edifi­ cio mi venne incontro un ragazzo che mi chiese: «È lei Louis Malie?». Aveva quell’accento contadino duro, aspro. Risposi di sì. Disse: «Ero venuto a trovarla, ma sono in ritardo». Notai 1 io

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subito in lui qualcosa di unico. «Prendiamo un caffè e par­ liamo». Scoprii che era stata più che altro la madre a costrin­ gerlo a venire: lui non aveva il minimo interesse a interpre­ tare il personaggio. Si chiamava Pierre Blaise, abitava vici­ no a Moissac, a un’ora circa da Tolosa. Più parlavamo, più lo guardavo, più mi dicevo: «È lui». Lo riaccompagnai a ca­ sa in macchina e conobbi i suoi genitori. Poi, la settimana successiva, venne a trascorrere qualche giorno qui. Era un vero selvaggio, aveva diciassette anni e aveva la­ sciato la scuola a quattordici per andare a lavorare con il fratello maggiore, che faceva il taglialegna. Gli diedi da leg­ gere il copione e lui disse: «Oh, non avrei mai fatto cose del genere». Eppure, mi accorsi immediatamente che sareb­ be stato in grado di identificarsi totalmente con il personag­ gio. Gli assegnai la parte e cominciammo a lavorare. Innan­ zitutto procedetti allo stesso modo di Soffio al cuore. Lui leggeva le scene, io e Modiano ascoltavamo. Ritoccammo il copione perché quando era in difficoltà con una battuta generalmente aveva ragione lui e non noi. Mi accorsi subi­ to che conosceva il personaggio molto meglio di me. Non solo interpretava la parte, mi faceva anche da consulente tecnico per tutto ciò che riguardava la verità interiore del personaggio, le sue emozioni, il suo comportamento. Pur con una certa riluttanza, accettò di fare il film. Penso che fosse contento di guadagnare dei soldi, e mi piaceva il fatto che non volesse realmente diventare un attore. Cominciammo a girare, per qualche motivo, a metà set­ timana. Quando arrivò il week-end venne da me e disse: «Torno a casa. Non mi piace». Dissi: «Ma non puoi, Pierrot, hai firmato un contratto. Sei tu che hai la parte principale». Io e i miei assistenti dovemmo parlargli per ore prima che finisse per ripensarci. Cercai di capire che cosa fosse suc­ cesso. Era così scontroso e orgoglioso che si era risentito del fatto che la troupe, dato che aveva solo diciassette an­ ni, gli desse degli ordini. L’operatore gli diceva: «Pierrot, non muoverti», e tutti lo trattavano come un bambino. Co­ sì chiamai a raccolta tutti i tecnici principali e dissi loro: «Cominceremo lunedì, dovrete trattario come se fosse Alain De­ lon. Dimenticate che è Pierrot Blaise, un contadinotto di 111

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diciassette anni, e fate come se fosse Beimondo. Dovrete stare molto attenti. L’intero film è sulle sue spalle, lui è molto più importante di tutti noi». E da quel momento le cose an­ darono meglio. Il fatto di essere il personaggio principale del set cominciò a piacergli.

P.F. - Quello che lei descrive ha a che fare in un certo senso con l’elemento fondamentale, dal punto di vista mo­ rale e drammatico, del film. Basta poco per entrare nella Re­ sistenza o diventare collaborazionista, è il risultato di un sen­ timento di rifiuto e oltraggio. È qualcosa di molto simile al modo in cui lei descrive le reazioni di Pierrot nei confronti suoi e della troupe. L.M. - E il fatto che lui fosse così ribelle, e quasi un emar­ ginato sul piano sociale, pur facendo parte di una grande, splendida famiglia... Continuo a vedere i suoi genitori. Gli volevo molto bene. Due anni dopo il film, Pierre morì in un incidente stradale. Non aveva nessun genere di cultura tradizionale, non era mai andato al cinema. Non solo non aveva mai visto una cinepresa, ma non aveva mai visto un film in tutta la sua vita! E di certo non aveva mai letto un libro.

P.F. - Quindi ignorava totalmente cos’era successo du­ rante l’occupazione? L.M. - Sì. Dovemmo spiegargli tutto quanto. Capiva che il personaggio di Lucien era cattivo e lui stesso ne aveva pre­ so le distanze, ma lo comprendeva perfettamente. Aveva una cultura naturale. Era appassionato di caccia, parlava degli uccelli, degli uccelli in certe stagioni, del modo in cui tro­ varli, di come nascondersi per sparargli. Aveva un rappor­ to intimo con la natura non solo perché era un contadino, ma anche perché aveva trascorso due anni nei boschi. Be­ veva molto, c’era un’enorme violenza in lui. Una delle co­ se che mi angustiava in Lacombe Lucien era il fatto di sape­ re così poco del personaggio, dato che era una persona che apparteneva a un ambiente sociale opposto al mio. Abita112

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vo qui da tanto tempo, sapevo come si comportava la genie, ascoltavo le storie che mi raccontavano i vicini. Eppure era un territorio sconosciuto. Pierre Blaise mi fu molto utile. E seguii sempre il suo istinto. Lo osservavo attentamente c ca­ pivo quando era a disagio in una battuta o in una situazione. Era anche straordinariamente dotato, del resto. Quello che è diffìcile nella recitazione, per un attore di cinema, e che alcuni non imparano mai, è che se stai seduto di fronte a una macchina da presa per un primo piano e ti appoggi su un gomito invece che sull’altro, l’operatore mi guarda e io devo dire «tagliare», perché non sei sotto la luce giu­ sta. Qualche volta, per la stessa ripresa, bisogna assumere sette od otto posizioni precise; è una tecnica che si deve acquisire. Mi ero quindi preparato, e avevo chiesto a Toni­ no Delli Colli, il capooperatore, di lasciarmi un po’ di mar­ gine; avevamo organizzato i movimenti di macchina in mo­ do da concedere al cast moltissima libertà. Era necessario, dato che la maggior parte di loro non erano attori o erano attori di teatro senza alcuna esperienza cinematografica. Ma nel giro di pochi giorni Pierrot fu in grado di capire esatta­ mente quale doveva essere la sua posizione. Era per lui un fatto istintivo. Fin dai primi giornalieri notai che sullo schermo c’era in lui qualcosa di molto potente, di molto ambiguo. Pote­ va sembrare l’ultimo degli scellerati, ma nello stesso tem­ po era incredibilmente commovente, a mano a mano che scopriva il potere, il denaro e il modo di umiliare la gente che l’aveva umiliato per anni. Pierre Blaise fu talmente bra­ vo da crearmi un sacco di problemi. Molta gente credette di vedere nel film quasi un’apologià del collaborazionista, proprio perché Blaise era così commovente e conturbante che non era possibile odiarlo del tutto.

P.F. - Egli passa in effetti attraverso il processo che io trasforma prima in un mostro e poi, a poco a poco, in qual­ cosa di triste e pietoso. Alla fine lo ha visto forse come una figura tragica che giunge a una forma di espiazione che non comprende totalmente e che precede quello che, come ci viene detto alla fine, sarà la sua morte? 113

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L.M. - Come in molti miei film, non ho voluto dare giu­ dizi. Non ho voluto semplificare, limitarmi a fare il ritratto di un traditore. Ho cercato piuttosto di analizzare un per­ sonaggio complesso, in tutte le sue contraddizioni. Ma non ho cercato in alcun modo di scusarlo o giustificarlo. Il suo comportamento in molte situazioni è oggettivamente igno­ bile, e come tale viene descritto. Nel contempo volevo mo­ strare chiaramente come egli si fosse lasciato trasportare per caso in una situazione alla quale non era preparato. Non pos­ sedeva neanche gli strumenti culturali per capire cosa stes­ se succedendo. Traeva un’incredibile gratificazione dal fa­ re ciò che faceva. Non credo che fosse moralmente consa­ pevole delle sue azioni. Penso che questo sia forse il mio solo film dall’approccio in qualche modo marxista. Sa, la famosa tesi marxiana sui membri del sottoproletariato che collaborano con le forze repressive perché politicamente sprovveduti... cosa che era accaduta di frequente nel corso del ventesimo secolo. Certi algerini collaboravano con i fran­ cesi perché morivano letteralmente di fame. Lucien Lacombe fa parte di quella sotto-classe che finisce per trovare motivi di rivendicazione sociale e gratificazioni di ogni genere nella collaborazione coi tedeschi e la Gestapo. Sarebbe stato to­ talmente falso pretendere che questo ragazzo fosse in pos­ sesso degli stessi valori politici e morali degli intellettuali. Non aveva alcun senso dell’ideologia, ecco cosa voglio dire.

P.F. - Nel film, però, la forza che gli fa da contrappeso non è la Resistenza, ma il sarto ebreo che diventa la vitti­ ma, e che ha un'enorme carica di dignità e integrità. L.M. - Beh, se c’è un personaggio positivo nel film, è lui, malgrado tutte le sue contraddizioni e il fatto che alla fine si arrenda alla Gestapo, è comprensibile soltanto perché non ne può più.

P.F. - Come le è venuta l’idea di assegnare la parte a Hol­ ger Lòwenadler? L.M. - Fu un altro caso fortunato. Stavo cercando un at114

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tore tedesco o austriaco, perché il personaggio era arrivato a Parigi come rifugiato negli anni trenta ed era diventato un sarto famoso. Questo, fino all’occupazione. Per cui, do­ veva parlare con accento tedesco. Una sera ero a cena con Bibi Anderson, che mi chiese cosa stessi facendo, e quan­ do parlai del personaggio, lei mi disse: «Louis, c’è un uomo in Svezia che ha lavorato con Bergman. Ora sta recitando al Teatro Reale di Stoccolma, è uno dei nostri migliori atto­ ri di teatro, e sarebbe perfetto per questa parte». Esitavo. Bah, perché mai uno svedese? Da Stoccolma lei mi inviò poi una fotografìa e io pensai che andava bene, e che dove­ vo vederlo. In seguito scoprii che Lòwenadler era di origi­ ne austriaca. Venne a Parigi e lo scritturai immediatamente. Lo tro­ vai perfetto. Era l’unico attore di tutto il cast ad avere espe­ rienza professionale. A parte Thérèse Giehse, che interpre­ tava la nonna della famiglia ebrea e che recitò anche in Lu­ na nera. È stata una delle grandi attrici di Bertolt Brecht e aveva allestito Madre Coraggio a Zurigo. Era straordina­ riamente famosa e ammirata, allora, in Germania. Volker Schlòndorff mi aveva detto: «Devi incontrarla, è una gran­ de attrice». Ma io avevo risposto: « Volker, come faccio a proporle questo ruolo? Non deve dire neanche una battu­ ta». Ma lei accettò la parte e’ne fece qualcosa di meraviglio­ so. Era sempre in secondo piano e non aveva quasi nulla da fare. Ma divenne un personaggio importantissimo. Era interessante descrivere i tre differenti livelli di integrazio­ ne di quella famiglia ebrea. La nonna, che aveva trascorso quasi tutta la sua vita in un ghetto dell’Europa Orientale, è completamente fuori luogo nell’ambiente rurale france­ se. 11 figlio è diventato un ricco sarto parigino, ma il suo accento e i suoi atteggiamenti sono ancora quelli della Mitteleuropa. La nipote, che il figlio ha chiamato France, è in tutto e per tutto parigina. A un certo punto dice: «Non ne posso più di essere ebrea». Questa battuta mi piaceva mol­ to, ma mi creò parecchi problemi! France è la sola a ribel­ larsi continuamente al suo destino. Perché deve nascondersi, se si sente così francese e così ben integrata? Personaggi ma­ gnifici. Molto complessi, grazie a Patrick Mediano. 115

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P.F. - L’altro giorno, rivedendo Un condannato a mor­ te è fuggito, nel momento in cui il disertore francese viene chiuso nella stessa cella del tenente Fontaine, mi sono chie­ sto dove avessi già visto quell’uomo. C’è una fortissima so­ miglianza tra l’attore di Bresson e Pierre Blaise. L.M. - È un fatto inconscio. Mentre ero in cerca di un Lucien, quello che mi aveva attratto in Pierre Blaise fu si­ curamente il fatto che mi ricordasse il ragazzo del Condan­ nato a morte. Ma non me ne rendevo conto. Una sera, men­ tre montavamo Lacombe, proprio in questa casa, alla tele­ visione francese diedero quel film, ed eravamo tutti con­ tenti di rivederlo. Verso la fine, quando apparve il ragazzo, avemmo tutti la stessa reazione: la somiglianza con Pierrot era stupefacente. Nella prima scena, Lucien lavora in un ospi­ zio. Originariamente avevo l’intenzione di evocare il mio collegio e di fare di Lucien quel personaggio così impor­ tante in Arrivederci ragazzi, Joseph, lo sguattero che alla fine va dalla Gestapo. Nella mia prima sceneggiatura, Lu­ cien era questo ragazzo che lavorava nella cucina della scuo­ la: viene mandato via perché accusato di un furto, e per ven­ dicarsi va dalla Gestapo... è così che comincia a lavorare per loro. Ben presto decisi che avrei fatto meglio a iniziare con qualcos’altro, perché era un’altra storia. Sapevo che un giorno me ne sarei occupato, ma non aveva senso servirse­ ne come introduzione per questo film.

P.F. - Ha detto di aver pensato che, dopo Le Chagrin et la Pitie, sarebbe stato possibile trattare questo argomen­ to nel modo in cui desiderava. Eppure, il suo film suscitò un’incredibile ostilità, soprattutto da parte di uomini poli­ tici di primo piano, vero? L.M. - Sì. In realtà non me ne ero preoccupato mentre giravo il film; ma sapevo che certi suoi aspetti avrebbero dato fastidio. Per esempio, durante le mie ricerche ero ve­ nuto a sapere che due dei torturatori della Gestapo di Bor­ deaux erano uomini di colore, della Martinica. Era sempre la stessa storia: reclutati nell’esercito francese, si ritrovaro­ 116

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no bloccati a Bordeaux, senza più avere la possibilità di tor­ nare in Martinica. Uno di loro aveva famiglia in Francia, e tutti morivano letteralmente di fame; alla fine entrarono nella Gestapo, destinati al servizio tortura. È qualcosa di docu­ mentato, di realmente accaduto. Ora, prima di mettere un uomo di colore nella Gestapo è meglio pensarci due volte. Ne avevo discusso con Modiano e giungemmo a questa con­ clusione: bisognava inserirlo nel film, non perché fosse un fatto vero, ma perché è estremamente sconvolgente. Co­ me ricorderà, nel film, in queirinsolito gruppo eterogeneo della Gestapo francese, il nero era il più simpatico. È il miglior amico di Lacombe, dato che erano entram­ bi socialmente emarginati. È evidente che si trovava in una curiosissima situazione. Ritrovarlo tra questi fascisti aveva di certo qualcosa di ironico e provocatorio, ma il suo caso era abbastanza simile a quello di Lacombe, e ritenevo che ciò avrebbe costretto gli spettatori a porsi parecchie doman­ de. Sapevo, ovviamente, che non era, come si direbbe og­ gi, «politicamente corretto». Mi stavo mettendo nei guai, ed ero pronto ad affrontarne le conseguenze. All’inizio, il film fu accolto benissimo dalla maggior parte dei critici. Ma al­ l’improvviso accadde qualcosa. Ricordo che il critico di «Le Monde» l’aveva definito un capolavoro. Poi, quattro giorni dopo, un editoriale sullo stesso giornale diceva: attenzio­ ne, è un film pericoloso. Il film veniva completamente de­ molito. Nelle settimane successive uscì una serie di edito­ riali e di opinioni favorevoli e contrarie al film. Per setti­ mane la gente non parlò d’altro. Ne ero felice. «L’Humanité», il quotidiano comunista, mi invitò a un dibattito con uno dei suoi collaboratori originario di un villaggio vicino e che era stato nella Resistenza locale. Per me, ciò che sta­ va accadendo era affascinante. È evidente che nell’inconscio collettivo dei francesi si tratta di un periodo oscuro. Aveva dominato, per anni, la storia ufficiale, ampiamente veicolata da coloro che erano stati più coinvolti nella Resistenza, gollisti e comunisti. Per la storia ufficiale il popolo francese era insorto all’unisono contro l’invasore. C’era stato qualche traditore, che secon­ do i comunisti apparteneva inevitabilmente alla classe diri­ 117

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gente, perché era inconcepibile che qualcuno della classe operaia potesse essere stato un collaborazionista. Secondo i gollisti, i collaborazionisti furono pochi ed erano la feccia del popolo francese. Naturalmente la realtà era del tutto di­ versa, e non voglio dilungarmi oltre sull’argomento, per­ ché è troppo complesso. Ma fondamentalmente si può di­ re che il 95% dei francesi si limitò ad aspettare. Ci fu un certo numero di persone che entrò nella Resistenza, altri diventarono collaborazionisti per diverse ragioni. Mi viene in mente una storia, che mi incoraggiò a fare Cognome e nome: Lacombe Lucien, e che mi venne raccon­ tata da Jean-Pierre Melville, un grande résistant. Una volta, Melville era sul treno Bordeaux-Parigi, doveva essere il 1943, con un suo amico, anche lui della Resistenza. In quei gior­ ni i treni erano di una lentezza esasperante, si fermavano in continuazione. Nel loro scompartimento c’era un giova­ ne. Cominciarono a parlare e lui disse che era ansioso di fare qualcosa di patriottico, e che andava a raggiungere le Waffen-SS. Sarebbe andato sul fronte russo a combattere i comunisti. Era tutto entusiasta: «Voglio farlo per il mio pae­ se». Nel corso del viaggio loro riuscirono a fargli cambiare idea; entrò nella Resistenza e divenne un eroe. Gli fecero capire che la scelta di collaborare sarebbe stata un terribile errore: «Se sei un patriota, non dovresti metterti con i te­ deschi». Se vogliamo, è una storia fin troppo bella. Ma allo stesso tempo è emblematica. Nel corso delle mie ricerche avevo scoperto una famiglia in cui c’erano due fratelli: uno nella Resistenza, l’altro nella milizia, una creazione fascista di Vichy che arrestava gli ebrei e combatteva la Resistenza. Stranamente, anche il comandante Cousteau era stato nella Resistenza, mentre suo fratello Pierre-Antoine, un giornali­ sta molto famoso, era stato arrestato e condannato a morte dopo la guerra; scriveva su un settimanale intitolato «Je suis partout», su cui teneva una rubrica.

P.F. - Anche Drieu La Rochelle e Robert Brasillach, lo storico cinematografico, scrissero su questo giornale, vero? L.M. - Brasillach fu giustiziato, il fratello di Cousteau se 118

Scene della vita di provincia

la cavò per miracolo. La sua condanna a morte fu commutata5. Mentre stavo lavorando con Cousteau, a me­ tà degli anni cinquanta, suo fratello era uscito dal carcere. Era un ideologo di destra molto intransigente, il primo che avessi mai incontrato. Jacques Cousteau gli aveva salvato la vita nel 1944 — allora era ufficiale di marina, e fu deco­ rato con la medaglia della Resistenza — e aveva testimonia­ to che il fratello era a conoscenza delle sue attività, ma che non aveva mai denunciato nessuno. Mi resi quindi molto presto conto delle linee di demar­ cazione che separavano persone di uno stesso ambiente. Ed è un’assurdità sostenere che il collaborazionismo avesse qualcosa a che fare con un particolare ambiente sociale, lo appartengo all’alta borghesia, la famiglia di mia madre è del Nord, che venne occupato due volte nel giro di vent’anni. C’era tra loro un sentimento di marcata ostilità contro i te­ deschi, che venivano considerati un nemico ereditario, e non c’era alcun dubbio nella mia famiglia sul fatto che si dovesse combatterli. Sa Dio se non erano anticomunisti, e se per un po’ non ebbero stima di Pétain, convinti che avreb­ be tenuto a bada i tedeschi. Ma diversi miei cugini, più grandi di me, si unirono a De Gaulle, partirono per la Spagna e da lì per l’Africa o per Londra, per arruolarsi nell’esercito vo­ lontario francese. La mia famiglia era animata da un incrol­ labile patriottismo. Ma alcuni dei loro amici erano rimasti pétainisti fino alla fine, e credevano che per salvare la civil­ tà cristiana fosse necessario combattere innanzitutto il co­ muniSmo, piuttosto che i tedeschi. C’è una scena, in Cognome e nome: Lacombe Lucien, che tratta delle lettere di denuncia che riceveva la Gesta­ po. Uno degli storici che ho consultato mi raccontò di co­ me, in una cittadina della provincia francese, la Gestapo fos­ se fuggita abbandonando archivi che contenevano migliaia di lettere di denuncia spedite dagli abitanti della zona. De­ nunciavano il loro vicino solo perché il cane aveva morsi­ cato la loro figlia. Il corvo^ di Clouzot si basava in gran par­ te su questo fatto.

P.F. - Il corvo è un grande film. Alla fine dell’occupa­ 119

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zione Clouzot venne accusato di mostrare con compiaci­ mento la corruzione della provincia francese e a riprova di ciò venne addotto, ingiustamente, il fatto che il suo film fos­ se stato proiettato a scopi propagandistici in Germania. La gente si rese conto allora che // corvo era una descrizione allegorica della vita durante l’occupazione? L.M. - Che cosa intende dire?

P.F. - Il corvo non è ambientato in un periodo partico­ lare. Nessun film fatto durante l'occupazione mostra real­ mente l'occupazione, ma nel lavoro di Clouzot è presente questo fenomeno delle lettere di denuncia, quelle lettere calunniose firmate soltanto «11 corvo». Quando la gente lo vide, durante o subito dopo la guerra, si accorse che si trat­ tava di un film sull’occupazione? L.M. - Oh, certo. Le forze tedesche d’occupazione ave­ vano vietato di parlare della realtà se non a scopo di propa­ ganda. Fu un periodo molto brillante per il cinema france­ se; spesso i registi si occupavano in modo indiretto di ciò che succedeva allora in Francia, non potendo farlo aperta­ mente. Era impossibile. Ciò che costituisce la forza di Lacombe, e fa sì che tutte le controversie che suscitò non siano in fin dei conti altro che una serie di malintesi, è che nel descrivere i personag­ gi e gli eventi il film mette a nudo tutte le ambiguità e le contraddizioni tipiche di quel periodo. Per esempio, in que­ sta regione del Sud-ovest francese, in cui vennero vissuti sia la Resistenza sia il collaborazionismo, il film è stato ac­ cettato in pieno. Coloro che vissero quel periodo sanno che il film è assolutamente esatto e onesto riguardo a ciò che era accaduto in realtà. All’estero, venne preso per quello che era: una riflessione sulla natura del male. La polemica nacque tra gli intellettuali e i politici francesi. Quelli che at­ taccarono il film ci rimproveravano il fatto di avere inven­ tato e portato sullo schermo un personaggio complesso e ambiguo, allo scopo di dimostrare che il suo comportamento era plausibile. Secondo loro, ciò significava una giustifìca120

Scene delta tifa di provincia

zione del collaborazionismo, il che non è cerco quello che avevo cercato di fare.

P.F. - Marcel Ophùls mi disse di essere stato colpito da questa ambiguità. Ricorda se le aveva scritto, o se si era mes­ so in contatto con lei, allora? L.M. - Lo disse anche a mio fratello. Non mi sorprese. Le Chagrin et la Pitié è un film molto ideologico. Ciò che Ophùls voleva fare era una dimostrazione, esaminare co­ s’era accaduto in una cittadina di provincia, ClermontFerrand. Voleva in realtà svelare fatti che erano stati tenuti nascosti. Cercava di provare qualcosa, e di denunciare il col­ laborazionismo. Dava un giudizio morale. Per me, la dimo­ strazione era ormai cosa fatta. Volevo andare oltre. Più che giudicare, volevo esaminare un tipo di comportamento si­ curamente spregevole e difficile da capire. Dopo tutto, se la gente è colpita dall’ambiguità, non dovrebbe andare a ve­ dere i miei film. Credo che il film di Ophùls e Cognome e nome: Lacombe Lucien partano da premesse molto dif­ ferenti.

P.F. - Ancora una cosa a proposito di Lacombe Lucien. La musica. Lei aveva già usato il jazz. C’era un certo rischio, suppongo, nello scegliere musiche brillanti come quelle di Django Reinhardt c del Quintetto Hot Club de France. L.M. - Beh, ancora una volta si tratta, nel mio lavoro, di uno di quei casi in cui la musica si è imposta naturalmente. Non ricordo di avere ascoltato quel genere di musica du­ rante la guerra, ovviamente — avevo dieci o undici anni — ma più tardi, quando incominciai a interessarmi di jazz e ad ascoltare Django Reinhardt, in particolare le sue incisio­ ni d’anteguerra. Suonava, allora, con Stephane Grappelli, con il quale ho lavorato per Milou. Erano motivi gioiosi, molto «up». Grappelli andò in Inghilterra durante la guer­ ra, e Django l’aveva sostituito con un clarinettista. Era la voga del momento; quelle registrazioni del 1942-43, con il clarinetto al posto del violino di Grappelli, sono molto 121

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malinconiche, molto tristi. Pensai che sarebbe stato un sot­ tofondo musicale perfetto per il periodo. Ho utilizzato uno dei primi dischi di Grappelli e Django per i titoli, quando Lucien va in bicicletta. E’ un pezzo molto vivace, che pen­ savo potesse adattarsi magnificamente all’inizio, all’intro­ duzione: lui sta andando a casa ed è felice. Gli altri brani sono tratti da dischi incisi durante la guerra, senza Grap­ pelli. A dire il vero, è quasi impossibile che i membri della vera Gestapo ascoltassero Django! Avevo anche alcuni di­ schi di cantanti dell’epoca, una canzone molto popolare al­ lora, intitolata Mademoiselle Swing, con accompagnamen­ to jazz. Ho quindi utilizzato motivi dell’epoca, ma in presa di­ retta. Non me ne ero mai servito come musica di sottofon­ do, salvo per i titoli. Nel finale ho inserito una musica to­ talmente diversa, tratta dalle registrazioni che Jean-Claude Laureux, il mio tecnico del suono, aveva fatto in India. Quando uscì L'India fantasma, una casa discografica fran­ cese ricavò tre dischi dalle musiche che egli aveva registra­ to. Quella che avevo scelto era una musica di flauto del Ben­ gala. Stavo cercando disperatamente un contrappunto mu­ sicale per l’atmosfera impalpabile, sospesa nel tempo, del­ la scena in cui la nonna, France e Lucien si nascondono nel bosco. Non accade nulla, è routine quotidiana, a pane il fatto che per quelle donne ebree di città trovarsi là fosse sorpren­ dente, mentre Lucien è nel suo ambiente naturale. Una delle cose che mi piace veramente di Cognome e nome: Lacom­ be Lucien è questo finale aperto, completamente sospeso. Mi ricordavo della musica del suonatore di flauto a Calcut­ ta: provammo a sovrapporla alle immagini e funzionò alla perfezione. Con Cognome e nome: Lacombe Lucien era la prima vol­ ta che riunivo un cast in cui praticamente nessuno aveva la minima esperienza cinematografica. Lo stesso Holger Lòwenadler, affermato attore di teatro, era poco abituato alla macchina da presa. Questi nuovi rapporti con gli interpreti funzionarono ma­ gnificamente; dovevo cercare di spiegare cosa mi aspetta­ vo precisamente da loro, e poi lasciargli la possibilità, spe122

Scene della vita di provincia

cialmente a Pierrot Blaise, di assumere realmente il perso­ naggio e di farlo vivere. Ricordo che un giorno dovevamo girare una scena in cui Lucien, al podere, doveva uccidere una gallina. Ero un po’ a disagio nell’impostare la scena, ar­ riva lui e dice: «Non è così che io uccido le galline. Vuoi che ti faccia vedere come si fa?». Allora io: «Okay, fammi vedere, ma non ammazzarla». E mi mostrò come la avreb­ be presa per le zampe e con un colpo secco di karate l’a­ vrebbe decapitata. Al momento di girare gli dissi: «Pierrot, faremo un carrello. Tu prendi la gallina, poi torni verso tua madre e strada facendo la uccidi. Vediamo un po’ come te la cavi». Facemmo una sola ripresa. Avevo preso le mie pre­ cauzioni, nel caso che la ripresa fosse stata un disastro, ma tutto andò bene. Se si guarda attentamente il film, nel mo­ mento in cui Pierrot decapita la gallina, la testa finisce mol­ to vicino alla macchina da presa, e si può notare come l’o­ peratore abbia un lieve sussulto! Non credo che un attore professionista avrebbe mai potuto fare qualcosa di simile! Aurore Clément era spesso atterrita dalla macchina da presa e dovetti faticare molto per infonderle sicurezza. Mi accorsi che, per fare un buon lavoro, dovevo trattare ogni attore in modo diverso, dovevo capirli, conoscerli e amar­ li. Avevano personalità e problemi differenti. Era successo qualcosa, dopo che ero tornato dall’india e mi ero rimesso a fare fiction. Avevo perduto ogni tipo di rigidità e, al con­ trario di ciò che fa la maggior parte dei registi, avevo smes­ so di dirigere gli attori secondo un metodo sistematico. Quando la gente chiedeva come facessi, rispondevo: «La sola cosa che posso dire è che non ho alcun principio e alcuna idea preconcetta. Mi limito a osservarli, e basta». È una serie continua di approssimazioni, che compren­ de, qualche volta, delle bieche astuzie fino al momento in cui si dice «Azione», con la speranza che gli attori ritrovino uno stato di innocenza, come se lo stessero facendo per la prima volta e improvvisassero le battute. Alcuni attori han­ no bisogno di essere comandati, rimproverati e spronati. Ma per la maggior parte vanno trattati come oggetti di por­ cellana, perché sono spaventati a morte. Alcuni sono trop­ po tecnici; preparano il loro lavoro in modo tanto metico­ 123

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loso che senti il bisogno di turbare la loro routine. Ecco la cosa più interessante nella direzione degli attori; ti costrin­ ge a diventare un acuto osservatore del comportamento umano. Nella vita reale si hanno poche occasioni per farlo, almeno con una tale intensità. C’era un’altra cosa particolare in Cognome e nome: La­ combe Lucien. Non solo le immagini, ma anche tutto il so­ noro è stato registrato qui. Niente è stato aggiunto a ciò che venne girato. L’intera colonna sonora — tranne la musica, ovviamente — è stata registrata durante le riprese: il sincrono come l’ambiente. Non c’è nessun rumore di fondo e nes­ sun doppiaggio. Il montaggio è stato fatto nella casetta di fronte. Durante le riprese, non eravamo mai a più di un’o­ ra di distanza da qui. Vedevamo i giornalieri sulla centrali­ na di montaggio. Poi lavorai qui per due mesi insieme a Su­ zanne Baron, prima di fare il montaggio a Parigi, per vede­ re il film su grande schermo. Il fatto che tutto il sonoro sia stato eseguito sul posto, aggiunge molto alla verità del film.

P.F. - Anche il film di cui parleremo adesso, Luna nera, è stato girato nella stessa zona, e più precisamente in que­ sta casa e nei dintorni. La colonna sonora del film è stata distorta ed è talvolta volutamente asincrona, vero? L.M. - Del tutto fuori sincronia. Benché sia stato girato nello stesso ambiente, l’intento di Luna nera era del tutto diverso. Non è stato fatto in presa diretta e non avevo al­ cun tecnico del suono sul set. Avevo deciso che la colonna sonora sarebbe stata ricreata in seguito. Se mi domanda da dove proviene Luna nera, le dirò che è piuttosto compli­ cato e vagamente oscuro. All’inizio ci fu sicuramente la mia adorazione per Thérèse Giehse. Era stato così bello per me lavorare con lei nelle ultime scene di Cognome e nome: La­ combe Lucien... Le avevo detto che mi sarebbe piaciuto la­ vorare di nuovo con lei e assegnarle una parte più impor­ tante. Mi disse: «L’ho osservata. Credo che dovrebbe fare un film in cui non si parla». La giudicai un’osservazione biz­ zarra. Mi chiese di pensarci. Se ne andò. Montai Lacombe Lucien, il film uscì e ci piov­ 124

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vero addosso tutte quelle critiche. Ne avevo abbastanza e decisi di voltare pagina e fare qualcos’altro. Proprio qui. Vi­ vevo qui, in questa casa. Andavo spesso a Parigi, ma que­ sto era il posto in cui avevo scritto, girato e montato Co­ gnome e nome: Lacombe Lucien, e avevo deciso di fermar­ mi qui. Sognai Thérèse Giehse nel mio letto... non si tratta­ va di un sogno erotico, era un sogno in cui lei occupava il mio letto e rifiutava di lasciarlo. Feci anche qualche altro sogno, e così cominciai a trascriverli. Poi pensai che forse era l’occasione per fare qualcosa a cui pensavo da sempre, qualcosa di equivalente alla scrittura automatica del surrea­ lismo, trasposta però in un film. In teoria è una contraddi­ zione in termini, naturalmente: qualcosa di letteralmente ir­ realizzabile, perché se si può prendere un pezzo di carta e iniziare a scrivere quello che passa per la mente, realizzare un film significa riunire una dozzina di persone in qualche luogo e dire loro cosa bisogna fare. Bisogna organizzare, preparare, sistemare tutti quanti... è impossibile improvvi­ sare al cento per cento, a parte i documentari, naturalmen­ te. Mi dissi: «Bene, comincerò con la sceneggiatura». La sce­ neggiatura era brevissima. L’avevo sempre considerata uni­ camente come un punto di partenza. Luna nera è una combinazione di molte cose. E comun­ que testimonia la mia ammirazione e il mio interesse per Alice nel paese delle meraviglie. È d’altronde a ragion ve­ duta che affidai la parte a una ragazza inglese, Cathryn Har­ rison... una sorella di Alice con qualche anno in più. P.F. - E il titolo è in inglese, non in francese. L.M. - Sì, ma non mi chieda perché. È venuto così. Black Moon suonava molto meglio di Lune noire. Avevo quindi una ragazza inglese nel ruolo principale e Thérèse Giehse che doveva parlare un linguaggio inventalo (cosa che del resto mi diede molti problemi, ma non dovetti occuparmene durante le riprese). C’era anche la coppia incestuosa formata da fratello e sorella. Avevo scelto per questa parte Alexan­ dra Stewart, e per mesi e mesi le avevo cercato una specie di sosia maschile. In extremis scelsi Joe Dallessandro, il che 125

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fu una delle decisioni più sorprendenti che abbia mai pre­ so in vita mia in materia di casting. Avevo sperato di avere con me Terence Stamp, ma questo film gli faceva paura o forse l’inquietava, non so.

P.F. - È stata la sua interpretazione in Teorema a sugge­ rirle quest’idea? L.M. - Sì, oltre al fatto che sarebbe stato sicuramente ma­ gnifico nella parte del gemello di Alexandra. Ma la cosa non funzionò, e nel frattempo ero venuto a sapere che Joe Dallessandro era in Italia. Per me la versione originale resta quel­ la inglese. È migliore di quella francese. Al momento di ag­ giungere il suono, in postproduzione, facemmo immedia­ tamente le due versioni. Ma ho sempre pensato che la ver­ sione originale fosse quella inglese, forse a causa dei riferi­ menti a Lewis Carroll. P.F. - Nel film compaiono uccelli e animali mitologici, simbolici. Uno di essi è l’aquila, e guardando il quadro che è qui, in questa stanza, mi rendo conto all’improvviso che l’immagine di Joe Dallessandro che insegue l’aquila con la spada proviene dalla mitologia indiana. Il tasso evoca di­ verse cose, il ratto parlante fa da contraltare al topo di Le­ wis Carroll, e c’è anche un unicorno che parla. Si tratta sem­ plicemente di ricordi e associazioni di idee che provengo­ no dal suo subconscio? L.M. - Prenda l’immagine dell’aquila... deriva direttamen­ te dalla mitologia indiana, il guerriero che uccide l’aquila con la spada e la taglia in due... Mentre scrivevo, guardavo quest’immagine sopra la mia scrivania e quasi mio malgra­ do essa è entrata nella sceneggiatura, ecco tutto. Stavo pro­ vando a lavorare con i sogni e le libere associazioni. Di con­ seguenza, questo film ha finito per diventare, per alcuni aspetti, un po’ un «home movie», nel senso che è costituito da una serie di momenti visivi che si situano tutti intorno o dentro casa mia. Mi sono servito di questa casa come di un protagonista. È come se si trattasse di un microcosmo 126

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dell’universo... le stanze, le scale. È una casa curiosa, questa, ogni vano si trova a un livel­ lo leggermente diverso; per entrare in una stanza bisogna scendere o salire, ci sono dei mezzanini. Ci sono tante, tan­ tissime porte che si aprono all’esterno. Ma proprio a causa di tutte queste porte, quando si è in molti in casa, è impos­ sibile sapere dove sono le persone. Li chiamo, si grida, lo­ ro rispondono, e tu credi che si trovino da una parte della casa, mentre sono nell’altra. Questo particolare è entrato a far parte della sceneggiatura e costituiva un ottimo equi­ valente del «paese delle meraviglie» di Alice, perché era una rappresentazione molto realistica, molto diretta della topo­ grafia di questa casa. Al tempo stesso, è diventato un luogo immaginario, un luogo in cui la fantasia può vagabondare. Allora ho compreso che avrei potuto girare il film soltanto qui. Era una strana idea, naturalmente, ma non potevo fare in altro modo, perché non avrei mai potuto trovare o co­ struire una casa come questa. Non so come descrivere Luna nera, perché è uno stra­ no miscuglio, se vogliamo è una fiaba mitologica ambien­ tata nel futuro prossimo. Ci sono diversi temi; uno è la guerra civile finale, quella tra uomini e donne. Dico «guerra civile finale», perché negli ultimi anni abbiamo assistito a lotte tra gente di diversa religione, razza, credo politico. Si tratta quindi del punto di arrivo, l’ultima guerra che mette fine a tutte le guerre. Attraverso questa guerra civile, ci trovia­ mo a seguire una ragazza, lei cerca di fuggire e in mezzo a un bosco trova una casa apparentemente abbandonata. Entrandovi, penetra in un altro mondo: è al cospetto di un’anziana signora coricata sul letto, che parla una strana lingua e conversa con un enorme ratto appollaiato sul co­ modino. Passa di scoperta in scoperta... è una sorta di ini­ ziazione.

P.F. - Un’iniziazione che ha a che fare con le trasforma­ zioni dell'adolescenza, la pubertà e il fatto di diventare don­ na. Persino il titolo Luna nera potrebbe essere un’allusio­ ne al ciclo mestruale. 127

// mio cinema

L.M. - Riguarda senza dubbio le emozioni e le paure della pubertà. Benché mi sia sforzato di filmare senza analizzare cosa stavo filmando, quell’aspetto è molto chiaro. Curiosa­ mente, mentre cercavo di esprimere cose del tutto imma­ ginarie e irreali, ho finito per girare il film in modo molto realistico. Non credo che sia stata una decisione consape­ vole. Presumo che dipenda dal fatto che filmavo la casa in inverno e che il paesaggio era abbastanza strano e inquie­ tante già di per sé, tanto da non aver bisogno di rafforzare quell’effetto visivo.

P.F. - È per questo che ha chiesto a Sven Nykvist7 di col­ laborare alla fotografìa? C’è, tra i film di Bergman, un’ope­ ra che possiede quella qualità che lei si proponeva di resti­ tuire... film manifestamente allegorici o mitologici come La vergogna, per esempio, che si svolgono in una cornice apo­ calittica? L.M. - Conoscevo Sven e avevamo parlato spesso della possibilità di lavorare insieme. Mi parve l’occasione ideale per farlo. Quello che ho sempre ritenuto interessante e con­ turbante nei film di Bergman è il fatto che combinino dei personaggi, un’atmosfera e momenti che sono chiaramen­ te frutto dell’immaginazione, con una scrittura priva di ciò che in genere caratterizza lo stile del cinema fantastico... al contrario, sono fatti in modo realistico, con la fredda lu­ ce del Nord. Preparando il film con Sven, decidemmo che non ci sarebbe stato sole, soltanto nubi e una luce piatta senza fonti di illuminazione né ombre. Nelle prime tre set­ timane il tempo fu splendido, ma noi restammo sulle no­ stre posizioni, e girammo solo interni, o all’alba, prima che sorgesse il sole, oppure al crepuscolo. Non c’è nemmeno una scena del film in cui ci sia il sole. Quando spiegai a Sven che cosa stavo cercando di fare, credo che abbia capito e che si sentisse pronto. C’era qualcosa nel mio progetto che l’aveva subito interessato. P.F. - Discutendo la sceneggiatura con gli attori, disse loro fin dall'inizio che non intendeva fornire alcun sugge­ 128

Scene della Vila di provincia

rimento sulla psicologia dei personaggi, ma voleva sempli­ cemente che se ne impadronissero e facessero varie cose come in un sogno? L.M. - Li avevo preparati in questo senso. Qualsiasi mo­ tivazione psicologica era fuori luogo. Cercai di convincerli che dovevano rientrare in loro stessi, e credo che su que­ sto piano Cathryn Harrison fosse molto a suo agio. Lei è l’unico personaggio che in certo modo si ricollega a una tra­ dizione, l’adolescente che scopre tutte queste paure espresse dai suoni nelle scene iniziali. Quando è in quella minuscola vettura e travolge il tasso (soprattutto non volevamo che lo uccidesse sul serio!), lei penetra in un universo, nell’uni­ verso della sua mente. Lei allora aveva quindici anni, pres­ sappoco l’età dell’eroina, e quindi capiva il personaggio. Per gli altri fu più diffìcile. Non credo che Joe Dallessandro ab­ bia mai veramente compreso di che si trattasse. Ma la cosa non lo turbava. P.F. - Si può immaginare che la bizzarria non gli fosse estranea.

L.M. - Era preparatissimo per qualsiasi eccentricità e ri­ tengo che per lui non fosse più difficile di tutto ciò che aveva fatto con Warhol e Paul Morissey8.

P.F. - La ragazza è oggetto dello stesso genere di severe accuse rivolte ad Alice. L’unicorno l’accusa di essere una perturbatrice e una combina-guai. È una proiezione del suo senso di colpa? L.M. - Credo di sì. Questa parte è molto vicina a Lewis Carroll, nel senso che riguarda la paura che hanno i bambi­ ni di essere accusati, il loro scompiglio interiore. Ci sono tutte le ansie legate al fatto di diventare donna. L’altro aspet­ to del senso di colpa è la scoperta del senso di responsabi­ lità... che porta con sé la paura di non riuscire a diventare un adulto responsabile. È uno dei miei sogni ricorrenti... essere accusato di una quantità di cose. Di certo è qualcosa 129

Il mio cinema

che proviene dal profondo dei nostro inconscio. Ma il mo­ mento della crisi sopraggiunge in particolare prima del pas­ saggio all’età adulta.

P.F. - Il film suscitò delle reazioni da parte di psicologi o psicoanalisti dell’infanzia? L.M. - Sì, parecchie. Il film era difficilissimo, un po’ opa­ co. Sul piano commerciale, fu uno dei miei più grandi fia­ schi, ma me l’aspettavo. Si può sempre sperare in un mira­ colo, ma sapevo che era un film difficile. Ancora una volta, era uno di quei film che sentivo di dover fare, e che ho fat­ to principalmente per me stesso. Mentre lo facevo, non pen­ savo agli spettatori. In realtà non ci penso mai, ma in que­ sto caso avevo appena fatto due film che avevano riscosso un grande successo, e sentivo che questa era l’occasione per buttarmi in qualcosa che non avrebbe chiaramente avuto alcun successo commerciale. Tuttavia, come per Zazie, cre­ do di essere stato inutilmente oscuro. Credo che avrei po­ tuto raggiungere gli stessi scopi inconsci senza rendere il film così diffìcile... ed è stata in definitiva questa la causa del rifiuto da parte del pubblico. Sebbene il film sia diven­ tato in seguito una sorta di cult-movie, in molti paesi non è mai stato distribuito.

P.F. - In Gran Bretagna non è mai uscito.

L.M. - La Twentieth-Century Fox acquistò i diritti per l’America e per qualche altro paese, cosa che mi rallegrò molto, dato che mi avevano aiutato a finanziare il film. Era convenuto che la Fox l’avrebbe fatto uscire in America, ma non si preoccupò di distribuirlo in Inghilterra e in molti al­ tri posti. Un giorno mi piacerebbe rifarlo, perché è un’opera molto intima, molto importante per me. Avrei potuto conceder­ mi più tempo, e fare emergere con maggior chiarezza le mie intenzioni. A un certo momento, decisi di cominciare le ri­ prese, ma era troppo presto. Partire da una sceneggiatura breve, che tratteggiava solo a grandi linee le scene, faceva 130

Scene della vita di provincia

parte dell’esperienza; nel corso delle riprese, apportai con­ siderevoli cambiamenti, improvvisando di continuo nella speranza di poter applicare la tecnica della scrittura auto­ matica alla ripresa stessa. Un modo di lavorare estremamente difficoltoso. Mi ero trasferito in una piccola casa qui accan­ to, e arrivavo qui con Sven mezz’ora prima di tutti gli altri per cercare di spiegargli cosa avremmo girato quel giorno. Poi cominciavano ad arrivare gli altri, ma qualche volta non avevo ancora deciso niente. Durante le riprese, mi resi conto che bisognava dare agli altri delle spiegazioni sufficientemente chiare, ma spesso la scena non era chiara nemmeno per me. Quando sapevo cosa volevo, tutto andava molto meglio! Ebbi lo stesso problema nel montare il film. Come al so­ lito, avevo fatto un primo montaggio con Suzanne Baron. Ricordo che andammo a visionarlo in un cinema di Cahors e io mi resi conto che non aveva alcun senso, il che andava benissimo, se non che non solo non si capiva, ma alcuni momenti erano molto più forti di altri; alcuni passaggi era­ no inquietanti e raggiungevano lo scopo che mi ero propo­ sto, ma altri no. Così rifeci il film in sala di montaggio. Mo­ dificai l’ordine delle scene e operai dei tagli. Girai persino delle nuove scene, perché con Sven si era sempre stati d’ac­ cordo su tale eventualità. Radunai nuovamente tutti quan­ ti, a eccezione di Thérèse Giehse, e girammo delle altre sce­ ne. Mi sono quindi spinto il più lontano possibile nell’am­ bito di un tipo di produzione normale, ignorando tutte le regole, la routine e le consuetudini, chiedendo agli attori di non prendere il copione sul serio. Eppure, mi chiedevo se quella situazione di improvvisazione costante si addicesse veramente al mio carattere. In altre parole: non è difficile improvvisare nel contesto di un’opera grosso modo reali­ stica e comprensibile a tutti. Si può improvvisare un dialo­ go, per esempio una scena d’amore tra due persone, in un caffè. Si possono inventare le situazioni e le battute, l’in­ tervento del cameriere, è qualcosa che può fare chiunque. Ma questo film era così originale e misterioso che c’erano giorni in cui non avevo la minima idea di come iniziare una scena. 131

il mio cinema

Di conseguenza fu un’esperienza interessantissima. Ne ho sempre avuto una certa nostalgia. La parte che alludeva ad Alice e l’omaggio a Lewis Carroll non mi crearono parti­ colari problemi, poiché avevo dei punti di riferimento. Ma altri momenti — in particolare i passaggi mitologici, a metà strada tra fiaba e fantascienza — furono più difficili. Non credo che il cinema sia il mezzo espressivo ideale per que­ ste cose... o forse fui io a non riuscirci, non so.

P.F. - Lei ha parlato di dare un senso, ma questo film non presuppone in fin dei conti di avere un senso, in ter­ mini convenzionali. È chiaro che il tipo di riflessione che sta dietro al film ricorda il cinema d’avanguardia della fine degli anni venti, per esempio Le Cbien andalou di Dall e Bunuel, a proposito del quale entrambi dissero che, nello scriverlo, avevano sistematicamente eliminato tutto ciò che si collegasse a un pensiero cosciente e razionale. Volevano mantenere esclusivamente ciò che non aveva alcun signifi­ cato logico. L.M. - Mi pare evidente di aver seguito lo stesso meto­ do. Ricordo che quando scrivevo la sceneggiatura, appena qualcosa assomigliava vagamente a una linea narrativa la can­ cellavo. 11 fatto che Luna nera fosse un lungometraggio ren­ deva difficile ’’impresa. Ho spesso pensato, in sede di mon­ taggio... a accorciarlo. Feci persino una versione che dura­ va solo un'ora; avevo eliminato moltissime scene che non funzionavano. Luna nera è uno dei miei film meno noti. Ma insisto sempre perché figuri nella retrospettiva delle mie opere. Opaco, qualche volta goffo, è comunque il più per­ sonale dei miei film. Lo considero come uno strano viag­ gio ai limiti di quel medium espressivo che è il cinema, o forse ai miei stessi limiti.

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Scene della vita di provincia

1. Dièn Bièn Phu: il celebre assedio di questa guarnigione vicino al con­ fine con il Laos, nel Vietnam del Nord, durò cinquantasei giorni c finì nel maggio del 1954 con Tumiliante disfatta dei francesi a opera di Ho Chi-minh. Sei mesi più tardi cominciava la guerra d’Algeria. In vietnamita, Dièn Bièn Phu significa «Sede della prefettura di confine». 2. Pierre Kast (1920-84): attivista nella Resistenza e cofondatore del Cine­ club di Parigi, critico cinematografico dei «Cahiers du Cinéma» e re­ gista di documentari e film di fiction. 3. Marcel Ophùls (1927): figlio di Max Ophùls, nasce in Germania, cre­ sce in Francia e negli Stati Uniti, ritorna in Europa negli anni cinquanta. Entrato a far parte della Nouvelle Vague grazie alla sua amicizia con Truffaut, diresse un paio di film di fiction, ma si impose per una se­ rie di documentari politici, il primo dei quali fu Le Chagrin et la Pi­ tie (1971). Hótel Terminus (1988), il più importante dei suoi film re­ centi, è un documentario di quattro ore su Klaus Barbie. 4. Il tenente William L. Calley Jr. fu giudicato colpevole di assassinio dalla corte marziale dell’esercito americano per il ruolo che ebbe nello sterminio di cinquecento civili vietnamiti nel villaggio di Son My il 16 marzo 1968, giorno del tristemente noto «Massacro di My-Lai». Suo superiore era il capitano Ernest Medina. 5. Se Robert Brasillach collaborò attivamente a «Je suis partout», di cui fu a lungo redattore-capo, Drieu La Rochelle vi pubblicò solo pochis­ simi articoli. Per un preciso resoconto delle attività di Robert Brasil­ lach, Drieu La Rochelle e Pierre-Antoine Cousteau, prima e durante la guerra, si veda P. Ory, Les Collaborateurs, 1940-45, Seuil, Paris 1980. 6. // corvo di Henri-Georges Clouzot (1943), film noir che analizza le conseguenze provocate dall’invio di lettere anonime sui cittadini di una piccola città di provincia francese. A causa dei suoi riferimenti propagandistici anti-francesi (benché non sia mai stato proiettato in Germania, contrariamente a quanto sostenevano i suoi detrattori), a Clouzot, nel dopoguerra, fu impedito di lavorare in Francia fino al 1947. Nel 1951 Otto Preminger traspose // corvo in una città del Canada francese realizzando La tredicesima lettera, con Charles Boyer nel ruolo che era stato interpretato da Pierre Fresnay. 7. Sven Nykvist (1922), grande capo operatore svedese di tutti i film di Ingmar Bergman a partire dal I960. Ha lavorato anche con Polan­ ski, Malie e altri. Tra gli altri, svariati riconoscimenti, ricevette un pre­ mio Oscar per Sussurri e grida (1972) e il premio di Cannes per // sacrificio di A. Tarkovskij (1986). 8. Paul Morrissey (1939), regista americano della corrente della «under­ ground school» newyorkese e figura di rilievo della «Factory» di An­ dy Warhol. Diresse la star maschile della «Factory», Joe Dallessandro, attore-feticcio di Warhol, in film come Calore (1972) e Andy War­ hol’s Frankestein (1974).

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IV - L’esperienza americana

P.F. - Dopo Luna nera, ebbe l’impressione che una fa­ se della sua carriera si fosse conclusa, e sentì il bisogno di andare oltre, oppure altrove, ossia in America? L.M. - La mia decisione di partire per l’America fu legata a svariate ragioni. Dopo Cognome e nome: Lacombe Lucien e Luna nera, avevo la sensazione di stare diventando un regista regionale. Certo, ero felice di vivere e lavorare qui, fuori Parigi. Ma temevo di restare intrappolato. Ancora una volta, sentivo il bisogno di cambiare ambiente. Avvertivo l’esigenza di rimettere tutto quanto in discussione. Avevo sempre avuto l’intenzione di andare in America, prima o poi. Negli anni sessanta, diversi miei progetti americani an­ darono in fumo. Naturalmente, mi rendevo perfettamente conto che si trattava di un territorio sconosciuto, un terre­ no pericoloso. Conoscevo abbastanza l’industria cinemato­ grafica americana per sapere che il loro modo di fare cine­ ma era diverso dal mio... a me piace essere del tutto indi­ pendente e mantenere il controllo del mio lavoro dall’ini­ zio alla fine. Ma sentivo che, se volevo andare avanti, per un certo periodo avrei dovuto lasciare la Francia. La mia curiosità cominciava a smorzarsi. Verso la fine degli anni settanta, si era abbattuto sulla Francia un sentimento di gran­ de noia, o almeno quella era la mia sensazione.

P.F. - Lei si recò una prima volta in America nel 1956. Erano trascorsi quindi circa vent’anni. Conosceva la musi­ 135

// mìo cinema

ca, la letteratura e il cinema americani. Ma conosceva bene anche il paese? Era già stato in molti stati americani?

L.M. • Sì. L’America mi ha sempre attratto e ci ero anda­ to con vari pretesti, il più ovvio dei quali era per presenta­ re i miei film. Dopo il 1958, per la presentazione di Les Amants, ci ero tornato praticamente tutti gli anni, specie a New York, che è sempre stata e continua a essere una delle mie città preferite. Facevo in modo di visitare anche altri luoghi: la California, naturalmente, Los Angeles; ma anche il Sud-ovest e il Sud. Conoscevo dunque gli Stati Uniti. E mi rendevo perfettamente conto che era un paese difficile da capire. Dietro la facciata, che conferisce all’America un aspetto uniforme, esiste un’incredibile varietà di micro­ culture, dovute alla composizione del popolo americano, al fatto che si tratta di un paese di immigrati. È qualcosa che ho cercato di mostrare nei miei film americani, nei docu­ mentari come nella fiction. Sapevo che sarebbe stata una grande sfida, non mi facevo alcuna illusione in merito. Decisi di andare perché da tempo progettavo di girare un film tratto da un libro che avevo letto sulle origini del jazz a New Orleans. Era la storia di Storyville, il quartiere a luci rosse, e riportava molti documenti, fotografie e testi­ monianze dell’epoca. Alla fine degli anni sessanta, mentre stavo finendo // ladro di Parigi, ero stato tentato dall’idea di fare un film sugli inizi del jazz. Mi aveva sempre affasci­ nato il pianista Jelly Roll Morton. Alla fine degli anni trenta, Morton era stato completamente dimenticato, e suonava in un bar a Washington; lo riscoprì un giovane studioso di fol­ clore, Alan Lomax, che lavorava alla Biblioteca del Con­ gresso. Lomax registrò Morton che parlava e suonava il piano... una sorta di intervista con musica, insomma. Jelly Roll rac­ contò la sua versione sulla nascita del jazz, sostenendo di esserne stato l’inventore. Lomax ne aveva tratto un libro appassionante, da cui uno scrittore, Jack Gelber1, aveva de­ rivato una sceneggiatura. Ne discutemmo per un po’... si era alla fine degli anni sessanta... poi tutto si perse. Qualche tempo dopo incappai in quel libro su Storyvil136

L'esperienza americana

le, e mentre stavo preparando Luna nera, nell’estate del 1974, un amico mi mandò un volume di fotografie di Bellocq2 che erano state appena ritrovate, splendidamen­ te curato da Friendlander, il grande fotografo americano, per il Museo di Arte Moderna di New York. Non si trattava solo di fotografìe eccezionali; esse avevano uno stretto le­ game con l’altro libro, perché i soggetti delle foto di Bel­ locq erano prostitute di Storyville. Così, dopo avere finito Luna nera, misi insieme le due cose. Nel libro su Storyvil­ le c’era una storia raccontata da una donna anziana nata e cresciuta in un bordello, una prostituta bambina di nome Violet. Scrissi una sinopsi di venti pagine in cui riunii i due personaggi: Bellocq incontra Violet e si innamora sia di lei, sia della madre. Ecco quindi la premessa di ciò che sarebbe diventato Pretty Baby. Originariamente avevo visto la cosa come una continuazione di Cognome e nome: Lacombe Lucien, che avrebbe però riguardato il mercato del sesso, ossia un’altra forma di corruzione. Violet era cresciuta in un bordello e, dato che allora la prostituzione infantile era un grosso affa­ re, era naturalmente pronta a vendere, ad un certo momen­ to, la propria verginità: un evento al quale la madre l’aveva preparata. Per lei era come la Prima Comunione, il momento in cui avrebbe cominciato a vivere. Il fatto di isolare la ra­ gazzina in quell’ambiente specifico e mostrare un mondo dai valori morali del tutto diversi da quelli generalmente ac­ cettati, mi consentì di analizzare l’incredibile ipocrisia del mondo che la circondava.

P.F. - Il film è ambientato nel periodo immediatamente precedente al 1917, e finisce nel momento in cui bordelli vengono chiusi, l’America entra in guerra, New Orleans vie­ ne «ripulita» e il jazz emigra al nord. L.M. - Sì, fu certo un momento di fondamentale impor­ tanza nella storia del jazz, ma anche un punto di svolta del­ la storia americana. Il film è ambientato qualche mese pri­ ma della fine di quell’epoca. Era un progetto che mi stava molto a cuore e mi sembrò assolutamente naturale andare 137

Il mia cinema

in America. Quando oggi la gente mi domanda che cosa mi spinse a lasciare la Francia per andare a lavorare in Ameri­ ca, in tutta onestà devo rispondere che non avevo inten­ zione di stabilirmi in America, volevo solo fare quel film, e si dava il caso che fosse ambientato proprio in America. Quando andai a presentare Luna nera ai festival cinemato­ grafici, a New York e San Francisco, visitai anche Los An­ geles, e in un tempo relativamente breve conclusi un ac­ cordo per due film con la Paramount. Non avevo la mini­ ma idea riguardo a ciò che sarebbe stato l’altro film, ma sem­ brava una cosa normale. Così cominciai a lavorare a Pretty Baby agli inizi del 1976. Sapevo che ci sarebbe voluto del tempo, perché nel­ l'industria cinematografica americana le cose procedono molto lentamente. Ma mi andava bene. Non volevo fare in fretta, perché mi trovavo a lavorare in un ambiente che non mi era familiare. Così, ero psicologicamente preparato a re­ stare laggiù per due anni. Avevo firmato il contratto per due film, per cui pensavo di vedere cosa sarebbe successo con il primo, e poi avrei continuato, oppure avrei fatto il secondo da qualche altra parte. Non avevo alcun progetto per il fu­ turo; sapevo solo che sarei stato impegnato per due anni, cosa che si è puntualmente verificata. P.F. - Era soltanto la seconda volta che lavorava con una scrittrice. Pensava che fosse il soggetto a richiederlo?

L.M. - Il direttore di produzione della Paramount, Da­ vid Picker, era un mio amico. L’avevo conosciuto quando era alla United Artists, al tempo di Viva Maria e II ladro di Parigi. Mi piaceva molto. L’avvertii subito:‘«Voglio es­ sere io stesso il produttore», e lui accettò, il che era insoli­ to. Gli dissi: «Mi occorre qualcuno che lavori con me; scri­ vere la sceneggiatura in inglese da solo è fuori questione; ma ho delle idee estremamente precise riguardo al film». Data la natura della storia, era ovvio che dovesse trattarsi di una donna, e su suggerimento di Picker presi contatto con Polly Platt, che allora non aveva ancora firmato nessu­ na sceneggiatura. Era una scenografa ed era stata la moglie 138

I. 'esperienza americana

di Peter Bogdanovich, e non solo progettava le ambienta­ zioni dei suoi film, ma collaborava anche alle sceneggiatu­ re. È una donna eccezionale. Mi interessava il fatto che non facesse in realtà parte della cerchia degli sceneggiatori pro­ fessionisti di Hollywood, il genere di persone che temevo perché pensavo che avrebbero tradito quello che stavo cer­ cando di fare. Discussi con lei a lungo, rendendomi conto che ci trovavamo sulla stessa lunghezza d’onda. Facemmo una quantità di ricerche, passammo parecchio tempo a New Orleans. Poi, una volta messa a punto la struttura del film, lei cominciò a scrivere la sceneggiatura. Fu allora che cominciarono i problemi, il genere di pro­ blemi che ho sempre incontrato con gli autori americani. Loro non lavorano come facciamo noi in Francia, dove — almeno dall’epoca della Nouvelle Vague — nessuno mette in discussione il ruolo fondamentale del regista. Quando si lavora con persone come Jean-Claude Carrière, o qualsiasi altro sceneggiatore francese, lo si fa in stretta collaborazio­ ne. Non è così che si lavora in America. 11 più delle volte accade proprio il contrario. Lln produttore chiede a uno scrittore di scrivere la sceneggiatura originale, o di trarla da un libro. Per lo più il regista entra in scena dopo, e non era ovviamente questo il mio modo di lavorare. Nel caso di Pret­ ty Baby io e Polly Platt avevamo discusso per settimane, poi lei se ne andò in Arizona e tornò due mesi dopo con una sceneggiatura. Anche se mi piaceva, mi sentivo un po' tradito. Lavorammo insieme alla seconda stesura, ma con­ tinuava a essere del tutto diversa da quello che avevo in men­ te. Non saprei spiegarne esattamente la ragione. È solo che mi sentivo escluso, ecco tutto. Forse dipendeva dal fatto che per la prima volta lavoravo in inglese. E a dire il vero, è qualcosa che mi sarebbe capitato diverse volte, in segui­ to. Mi sento molto più a mio agio con le sceneggiature che ho scritto io, da solo, o in collaborazione! Poi venne il momento del casting e della preproduzio­ ne. Proprio all’ultimo, lo studio si era inquietato, renden­ dosi conto all’improvviso che l’argomento del film era de­ licato. Il personaggio centrale era una bambina-prostituta. Così passarono parecchi altri mesi prima che alla fine si de­ 139

// m/o cinema

ridessero a finanziare il film. Fu una guerra di nervi. Poi fum­ mo costretti a fare le riprese di corsa per non lasciar passa­ re la stagione invernale, durante la quale volevo girare. Eb­ bi quindi tutte le difficoltà che la maggior parte dei registi europei sperimentano nel fare il loro primo film america­ no. Per esempio, volevo a ogni costo avere Sven Nykvist, che ebbe molti problemi con il sindacato degli operatori. Una delle cose che mi esaspera, in America, è che un diret­ tore della fotografìa non può assolutamente stare alla mac­ china da presa. Sven è un operatore straordinario: lui, co­ me molti colleghi europei, è più di un direttore della foto­ grafìa; stare alla macchina da presa costituisce un prolun­ gamento del suo lavoro. Alla fine dovemmo arrenderci, e si ebbe un continuo cambio di operatori, perché non era­ vamo soddisfatti di nessuno. La troupe era piuttosto mediocre; nessuno riusciva a ca­ pire cosa stessi facendo. Io e Sven ci sentivamo isolati; liti­ gavamo continuamente con tutti. Un giorno, verso la fine delle riprese, un mio amico venne sul set e chiese a un mac­ chinista «Allora, come va?». E il macchinista: «Se proprio vuole saperlo, non ne posso più di lavorare con un artista!». Mi giudicavano puntiglioso perché procedevo lentamente, come è sempre stata mia abitudine. Facevo cinque riprese e mi rendevo conto che non funzionava. Quando vedevo che gli attori erano a disagio, spostavo la macchina da pre­ sa, e trovavo un altro modo di procedere, più semplice, più pulito, più elegante. In America ci sono troupe ecceziona­ li, ma quella non lo era; pensavano che non sapessi quello che volevo, che non fossi un vero professionista, che stes­ si solo perdendo tempo! Erano scontenti. E lo ero anch’io. Fu una vera guerra. D’altro canto, il cast era magnifico. Eb­ bi fortuna in particolare con Brooke Shields.

P.F. - Aveva mai recitato prima? Era una cover-girl mol­ to ricercata, vero? L.M. - Quando girammo Pretty Baby aveva dodici anni. Sua madre aveva cominciato a farla lavorare per i fotografi all’età di un anno. La sua era una parte molto difficile. Ave­ 140

L esperienza americana

vo molti dubbi circa il fatto di chiedere a una bambina di recitare quelle scene così conturbanti. Sentivo di avere una responsabilità morale. Lo studio temeva che ne nascesse un vespaio di polemiche, ma quando il film fu finito, si resero conto che non c’era niente di osceno o spudorato. Ma in definitiva ne furono un po’ delusi, perché, se almeno fosse stato scandaloso, avrebbe attirato il pubblico. In realtà, il film era molto austero e non vi veniva mostrato nulla. È forse proprio questa la ragione per cui turbava di più. Da questo punto di vista, non mi sono mai preoccupato troppo per la bambina, ma si trattava comunque di una parte molto dif­ fìcile per una dodicenne. Visionai molte ragazzine ma, avendo incontrato Broo­ ke Shields all'inizio, tornavo sempre a lei. Era stata esposta agli sguardi fin dalla più tenera età, essendo cover-girl- non sto dicendo che sia la stessa cosa, ma vendeva il suo corpo. Psicologicamente era abbastanza forte da padroneggiare quella parte. Inoltre c’era qualcosa, nella sua straordinaria bellezza, che nel contesto della storia risultava al contem­ po conturbante e commovente. Data la complessa situazione della sua vita familiare, era molto dura. E a causa di ciò, ave­ vo capito in fretta che c’era, nel personaggio, una vulnera­ bilità che lei non sarebbe stata in grado di esprimere, che non avrei potuto ottenere da lei. Così dovetti modificare la sceneggiatura, rinunciare a certe cose, ridurre di molto, in particolare, la storia d’amore con Bellocq. Mi spiacque tantissimo, sia chiaro, ma non avevo scelta. A parte quello, fui però molto contento di lei che, soprattutto nel modo in cui la fotografava Sven, era meravigliosa.

P.F. - Sul piano visivo, il film è assai diverso da Luna nera, e si allontana anche dall'illuminazione che Sven Nykvist aveva usato nella maggior parte dei film a colori di Bergman.

L.M. - Avevo mostrato a Sven certi dipinti di Vuillard, in particolare quelli che egli dipinse alla fine del XIX seco­ lo, nel periodo dei nabis. Quei quadri mi hanno sempre af­ 141

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fascinato. Discutemmo dell’illuminazione, e Sven fu d’ac­ cordo con me sul fatto che non dovessero esserci contro­ luci. Come nei quadri di Vuillard, la luce doveva essere mol­ to piatta. In alcuni di quei dipinti si ha l’impressione che i personaggi facciano parte del muro. La luce non getta om­ bre. Lavorammo in quel modo, litigando di continuo con il tecnico delle luci, l’uomo che posizionava le lampade sotto la direzione di Sven. Aggiungeva sempre delle luci dietro gli attori. Era diventata una vera e propria farsa; Sven gli chiedeva di continuo: «Può spegnere quella, e quella...?». E lui: «Ne è sicuro?». Non riuscivano a capire perché non dovessero esserci controluci. Tanto per fare un paragone, l’illuminazione assomigliava a quella di Cognome e nome: Lacombe Lucien, che Sven ammirava molto. Era ovviamente diversa da Luna nera, dato che il contesto visivo era diffe­ rente. Quello è stato uno degli aspetti del film su cui ho po­ tuto esercitare completamente il mio controllo. Avevamo trovato un’immensa casa a New Orleans e la trasformam­ mo in un bordello. Scegliemmo i colori delle pareti e le tap­ pezzerie, le diverse combinazioni cromatiche. Impiegam­ mo molto tempo della preproduzione a occuparci di questo. P.F. - Cosa ne dice di Keith Carradine e del modo di con­ cepire il personaggio di Bellocq? Sulla base di pochissimi dati biografici dovette inventare un personaggio che era una sorta di voyeur, un minorato sul piano dei sentimenti, ma che fondamentalmente non era perverso nel suo desiderio di sposare Violet. Aveva in mente qualcuno come ToulouseLautrec, affascinato dalla vita dei bordelli e che amava ri­ trarre prostitute?

L.M. - Quando fu riscoperto Bellocq, quando vennero ritrovate le sua lastre di vetro, nacque una controversia. Era molto diffìcile sapere a chi attribuire quelle lastre; alcuni so­ stenevano che erano dei falsi, ma io credo di no. Bellocq era veramente esistito. E a causa della sindrome di ToulouseLautrec, si fece di lui un mostro, un minorato. Svolsi delle ricerche e scoprii che non era l’unico fotografo di New Or142

L'esperienza americana

leans a dedicarsi a quel genere di attività; alle prostitute pia­ ceva essere fotografate. Così, a un certo punto, decisi di tra­ sformarlo deliberatamente in quell’essere strano, molto ti­ mido, ossessionato dal suo lavoro e affascinato dal mondo della prostituzione. Ma non un libertino... un individuo piut­ tosto austero nella sua vita privata, ma che ha la mania di fotografare quelle ragazze, soprattutto quelle giovani. Ca­ pimmo molto rapidamente che dovevamo inventarci il no­ stro Bellocq personale. 11 contesto è storico, ma il perso­ naggio è frutto della nostra immaginazione. P.F. - Dato che Pretty Baby è successivo a Luna nera, fu un parallelo consapevole quello che unisce Alice Liddell e il fotografo Dogdson — Lewis Carroll — e quello fra la ragazzina del bordello e il fotografo Bellocq?

L.M. - Assolutamente. E mi pareva altrettanto evidente che Pretty Baby fosse in certo modo una continuazione, una variante di molti temi di Cognome e nome: Lacombe Lucien. La mia ambizione era quella di fare una sorta di La­ combe Lucien americano. Avendo appena terminato Luna nera, ero ancora ossessionato, credo, dal fatto che il per­ sonaggio centrale fosse una ragazzina. Avevo quest’imma­ gine di una giovinetta che gioca in un bordello, che era un po’ simile alla casa di Luna nera, una specie di mondo im­ maginario. Dal momento che non doveva uscire, viveva in un ambiente molto limitato, ma aveva a disposizione tutto l’universo della sua immaginazione. In quella casa c’erano altri bambini, tutte femmine naturalmente, e trovavo affa­ scinante l’idea che giocassero nel bel mezzo dell’attività di un bordello. È qualcosa a cui si accenna all’inizio di Pretty Baby, ma è una dimensione che non è stata esplorata quanto avrei voluto. Una delle cose che avevo letto e che mi aveva colpito di più su quelle case erano le tremende condizioni igieni­ che... C’erano topi dappertutto. Non so perché mi attirano tanto i topi. Mi era venuta l’idea che Violet avesse un ratto come animale di compagnia. Polly la riteneva una cosa as­ surda, senza senso. Mi convinse a lasciar perdere. Forse ave­ 143

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va ragione. Dopo tutto, l’avevo già fatto in Luna nera. In generale, tuttavia, avrei voluto che il film avesse dei risvol­ ti molto più duri. Per esempio, un momento che ritenevo estremamente importante era quello in cui il bordello viene chiuso e Vio­ let si ritrova per strada; la madre si è sposata, lei andrà a vivere con Bellocq, per un po’ i due condurranno un’esitenza quasi da marito e moglie. Era molto conturbante, una prostituta dodicenne che diventa quasi una casalinga. Per diverse ragioni non ebbi in realtà la possibilità di sviluppa­ re questo aspetto della storia. È inserita nel film, e ci sono sì alcuni momenti foni, che però non raggiungono l’inten­ sità che avrei voluto. A dispetto delle polemiche, Pretty Baby fu accolto be­ ne dalla critica in America, ma non altrettanto in Francia. Fu un po’ come per II ladro di Parigi. Forse perché era un film d’epoca, e forse non ero stato capace di spiegarmi, oppure la gente non riusciva ad afferrare quello che avevo voluto dire. È un film al quale tengo molto e, ripensando­ ci, avrebbe forse potuto essere uno dei miei lavori miglio­ ri. Può essere stato uno sbaglio debuttare in America con questo film. Per Atlantic City avevo una sceneggiatura bril­ lante, una specie di thriller. Avevo molta più libertà d’azio­ ne, e riuscii a fare un film tutto sommato migliore, ma le mie ambizioni per Pretty Baby erano molto più grandi. P.F. - Un ultimo punto, prima di passare ad Atlantic Ci­ ty... Riguarda il finale di Pretty Baby, secondo me partico­ larmente riuscito, quando Bellocq viene abbandonato. Lui è un fotografo d’ arte, e nell’ultima scena, poco prima di essere assorbita nel conformismo della società di massa, la ragazza si fa fotografare da quel bifolco del suo patrigno con una comunissima Brownie, che chiunque sarebbe in grado di usare. È la sua conclusione riguardo ai rapporti tra i due personaggi?

L.M. - Adoro questo finale. L’idea della Brownie è di Polly Platt. Secondo me, era un finale perfetto; lo avevamo in mente fin dall’inizio. Quello che mi piaceva in particolare 144

L esperienza americana

in questa ripresa stridente è il suo lato ironico: il fatto che la madre, che aveva prostituito la figlia, finiva per sposare un bottegaio e diventava una perfetta borghese di perife­ ria. Far tornare la madre che si mette a insultare Bellocq per averle corrotto la figlia, che poi conduce via con sé, era qual­ cosa di molto forte e molto semplice. Ero soddisfattissimo della scena alla stazione ferroviaria. P.F. - Il suo lungometraggio successivo, il film preferito da molti suoi ammiratori, è Atlantic City. Anche qui si trat­ ta di una città descritta in un momento di radicale cambia­ mento, e in realtà il film si è rivelato quasi profetico, dato che essa è diventata un simbolo della situazione dell’Ame­ rica degli anni ottanta.

L.M. - Sì.

P.F. - Immagino che l’idea della città venga prima della sceneggiatura. Si ha l’impressione che il film si basi su di es­ sa e che non avrebbe potuto svolgersi in nessun altro luogo. L.M. - Assolutamente. Ma le devo raccontare come nac­ que il film. Dopo Pretty Baby mi occupai per un po’ di un progetto che finii per non realizzare. Ero un po’ disorienta­ to; non ero troppo sicuro di voler restare in America. Per fortuna, andai in Minnesota a girare un documentario, God's Country, un’esperienza molto positiva, estremamente in­ teressante e divertente, che mi ricondusse alle cose fonda­ mentali. Ora, per caso, mentre stavo ritornando dal Minnesota, venni contattato da alcuni produttori canadesi che cono­ scevo. Era l’epoca d’oro dei «tax shelters» in Canada: l’idea era quella di raccogliere i risparmi dei dentisti di Winnipeg che, invece di pagare le tasse, preferivano investirlo nell’in­ dustria cinematografica. Quei produttori erano disperati: era tutto pronto, avevano il denaro e avevano un libro. «Cosa volete che ci faccia?», dissi loro. Era un libro orribile... ma alla fine ne cavarono un film. «Non avrebbe un’idea, un pro­ getto?», mi chiesero. Era luglio, e dovevano spendere il de145

H mio cinema

naro prima della fine dell’anno. Così risposi: «C’è uno scrit­ tore eccellente, John Guare-\ con il quale mi piacerebbe la­ vorare. Fatemi parlare con lui». Così andai a trovare John Guare a New York. Per fortu­ na aveva appena finito una pièce e aveva tempo. Comin­ ciammo a discutere. L’inverno prima, giorno dopo giorno, immancabilmente, il «New York Times» aveva riportato no­ tizia di quello che stava accadendo ad Atlantic City, dove era stato appena legalizzato il gioco d’azzardo. Fu un fatto che suscitò un mucchio di polemiche, ci si continuava a chie­ dere se la «mala» vi si sarebbe trasferita. Erano stati appena aperti due casinò, e molti altri erano in costruzione. La con­ versazione aveva quindi ruotato intorno ad Atlantic City, e io dissi: «Perché non andiamo a vedere da vicino?». E John: «Si dà il caso che un vecchio amico dei miei genitori sia il manager del primo casinò che è stato aperto, il “Resorts In­ ternational”». Lo chiamammo, noleggiammo un’auto, e an­ dammo a trascorrere ventiquattr’ore ad Atlantic City. Cre­ do che non dormimmo affatto. Il suo amico ci portò dap­ pertutto, spiegandoci che cosa stesse succedendo, e noi po­ temmo vedere con i nostri occhi tutti i contrasti, tutte le pacchianerie. Il resto della città era letteralmente uno slum. Nel momento in cui legalizzarono il gioco d’azzardo, Atlantic City, che aveva avuto un passato glorioso negli anni venti, trenta e quaranta, era quasi diventata una città fantasma. P.F. - La si associava anche a eventi emblematici, come il concorso di Miss America, e la cartella del primo Mono­ poli. L.M. - Sì, era un luogo quasi mitico. Nel corso del tem­ po ho conosciuto parecchie persone che vi avevano trascor­ so le vacanze. Era stata una stazione turistica molto popo­ lare, ma poi era completamente decaduta. Così si poteva­ no notare contrasti sorprendenti. Avevano restaurato la pas­ seggiata, il Boardwalk, ma dopo aver percorso tre isolati ci si ritrovava in quartieri infami, abitati per lo più da gente di colore. Per non parlare dell’alienazione costituita dal fatto di costruire nuovi casinò in plastica, demolendo i vecchi 146

L esperienza americana

edifici degli anni venti. Così, durante il viaggio di ritorno a New York, cominciammo a imbastire una trama molto semplice, una specie di thriller. Ci vennero in mente il malvivente da quattro soldi che riesce per caso a realizzare i suoi sogni e l'anziana signora inchiodata a letto — ricordi, ovviamente!... — e la ragazza che viene ad Atlantic City per diventare croupier, tutti i lo­ ro sogni e le loro speranze. Volevamo combinare il vecchio e il nuovo. 11 personaggio di Lou, interpretato da Burt Lan­ caster, rappresenta la vecchia e affascinante Atlantic City. All’hippy che ha rubato della cocaina a Filadelfia, Lancaster dice: «Anche l’Atlantico, non è più lo stesso... Se l'avessi visto allora». Si cita sempre questa battuta, è una della grandi battute di John Guare. Lou rappresentava quindi il passato, e il personaggio di Susan Sarandon, che abitava nello stes­ so immobile, era evidentemente una metafora dell’Ameri­ ca stessa, della gente che veniva a Atlantic City con tutti i suoi sogni. Detesto fare generalizzazioni sull’America, ma tutto si muove così in fretta, il passato non esiste, e quelle immagi­ ni di edifici che sparivano, mentre altri stavano sorgendo, si adattavano perfettamente alla storia. L’ultima immagine, sui titoli di coda... l’enorme palla da demolizione che ab­ batte un grande edifìcio... abbiamo avuto la fortuna di gi­ rarla mentre stavano lavorando. Ero terribilmente eccitato. Ricordo di aver detto a John: «Se non funziona, tornerò co­ munque con una 16 mm a girare un documentario su Atlan­ tic City». Finii per fare un film di fiction, ma già dall’inizio non avevo il minimo dubbio sul fatto che fosse Atlantic Ci­ ty il personaggio principale. 11 vero soggetto era la città e ciò che stava accadendo... era anche un documentario sul­ l’America. Ritornai quindi dagli amici canadesi con una sinopsi. Nel frattempo, avevano preso informazioni su John Guare, e da­ to che gliel’avevano descritto come un autore d’avanguar­ dia, erano un po’ spaventati. Dissi: «Lui è la vostra sola pos­ sibilità. Altrimenti non se ne fa niente. Voglio carta bian­ ca». E devo dire che ebbero la buona grazia di accettare. Dovevo tornare qui per passare il mese di agosto con i miei 147

il mio cinema

figli. John venne con me e lavorammo alla sceneggiatura. Mi ero reso immediatamente conto che lavorare con John sarebbe stata un’esperienza eccezionale. Quello che mi piace in Atlantic City è che riguarda cose che accadono nell’A­ merica contemporanea, mentre Pretty Baby era un po’ una continuazione dei miei film francesi, nel senso che si trat­ tava del passato. Era un film d’epoca, una riflessione su qual­ cosa che non esisteva più.

P.F. - Atlantic City è un film che guarda avanti, non in­ dietro; è la città che Donald Trump contribuì a creare, e che ora si è appassita come i sogni che aveva costruito. L.M. • Sì, assolutamente. 11 film fu girato alla fine del 1979 ed era una prefigurazione del decennio successivo. Natu­ ralmente, allora non lo sospettavamo, a parte il fatto che, dopo quei due anni trascorsi in America, mi consideravo un osservatore piuttosto acuto dello scenario americano, e avevo trovato in John Guare qualcuno che aveva del suo paese — che conosceva ovviamente meglio di me — una visione estremamente originale, per quanto distorta dalla sua immaginazione: egli era soprattutto concentrato sulla cultura di massa americana e su tutti i suoi aspetti icono­ grafici. Fu una collaborazione meravigliosa. Eravamo com­ plementari, il nostro modo di vedere le cose era fondamen­ talmente lo stesso, ma da punti di vista leggermente diver­ si. Ebbi la possibilità di utilizzare la mia esperienza matura­ ta sia nel documentario sia nella fiction. L’unico vincolo al quale dovetti sottostare fu quello di scritturare un certo numero di attori canadesi, perché era inteso che dovesse essere un film canadese, e di rispettare le regole dell’industria canadese. Mi permisero di scrittura­ re Burt Lancaster e Susan Sarandon, ma le parti minori ven­ nero affidate ad attori canadesi, splendidi attori canadesi che lavoravano in America, come ad esempio Robert Joy che interpretò la parte del marito di Susan Sarandon, e Kate Reid che fece quella della tirannica compagna di Lancaster. Avevamo veramente poco tempo, ed ero proprio angu­ stiato. Ma se niente funzionò come volevo in Pretty Baby, 148

L'esperienza americana

in Atlantic City tutto filò a meraviglia. John Guare rimase con noi per quasi tutta la durata delle riprese e qualche volta, quando le scene non funzionavano bene, ebbi la possibili­ tà di rifarle. Avevamo un budget ridotto, ma ce la cavam­ mo perché avevo una troupe più piccola e più veloce. Gi­ rammo ad Atlantic City per circa cinque settimane e poi in studio a Montreal. La troupe era in parte canadese, in parte americana, in parte francese; erano tutti entusiasti e com­ petenti. Mi sentivo veramente a mio agio, padrone della si­ tuazione. Improvvisai più di quanto non sia solito fare, ma fu a causa dell’argomento e del fatto che si doveva costan­ temente adeguarsi a quello che accadeva ad Atlantic City. Per esempio, avendo scoperto che stavano per radere al suo­ lo un edificio, decidemmo di spostare il luogo della scena in modo da poter avere la demolizione del palazzo sullo sfondo. E c’è anche la scena in cui il marito di Susan Saran­ don viene assassinato in cima a uno strano parcheggio con ascensori... una costruzione aberrante, come non ne ave­ vo mai visto altrove. P.F. - Era l’ascensore per il suo patibolo, no?

L.M. - Ah, sì, naturalmente! Ci avevo portato John e gli avevo detto: «Dovrà essere ucciso qui, in cima, con l’intera città e l’oceano sullo sfondo». Avevamo deciso che l’omici­ dio sarebbe avvenuto nel corridoio dell’hotel, ma gli dissi: «Si potrebbe fare in modo che avvenga qui». Avevo l’osses­ sione che Atlantic City fosse sempre presente, e volevo gira­ re il più possibile in esterni. I canadesi non ne erano troppo contenti: avrebbero preferito che si girasse due settimane ad Atlantic City e che poi fossimo andati a Montreal per gli in­ terni. Ma riuscii a convincerli. Così andò tutto bene, salvo che non terminammo per la fine dell’anno. P.F. - Il ruolo di Burt Lancaster gli andava a pennello. Già nel suo primo film, 1 gangsters, del 1946, interpretava la parte di un malvivente da quattro soldi, il pugile votato alla morte. Quando lesse la sceneggiatura si rese subito conto di quanto il ruolo fosse adatto a lui? 149

Il mio cinema

L.M. - Devo essere sincero: all’inizio avevo pensato a Ro­ bert Mitchum. I produttori canadesi pensavano che Burt Lan­ caster fosse una star più quotata, benché nessuno dei due fosse più un attore da box-offìce. Sa come vanno le cose in America. Passano cinque anni ed è già tanto se la gente non dice: «Burt chi?». Il pubblico è così giovane che tutto cambia molto in fretta.

P.F. - Non credo che Mitchum sarebbe andato bene per questo ruolo, non sono convinto che avrebbe saputo ren­ dere quella metamorfosi di un perdente in un vincente. È troppo flemmatico, non avrebbe potuto essere come Lan­ caster così patetico all’inizio e così esuberante alla fine. L.M. - Volevo lavorare con Mrtchum perché avevo sem­ pre avuto un’immensa ammirazione per lui. Credo sia uno dei più grandi attori americani. Ammiro anche Lancaster, ma lavorare con Mitchum era sempre stato il mio sogno. A Los Angeles incontrai entrambi nello stesso giorno, ma mi resi subito conto che Lancaster sarebbe stato la persona giusta. Mitchum era interessato, ma non so fino a che pun­ to. D’altro canto, Burt aveva letto la sceneggiatura e la pri­ ma cosa che disse fu: «Una parte come questa, soprattutto alla mia età, ti capita ogni dieci anni, e soltanto se hai fortu­ na». Sapeva che era un grande ruolo e apprezzai veramente che l’avesse capito subito.

P.F. - E poi, a differenza di Mitchum, aveva anche lavo­ rato con un certo numero di registi europei, compresi Vi­ sconti e Bertolucci. L.M. - Sì. Andammo subito d’accordo, anche se Burt ave­ va sempre avuto fama di essere difficile e molti mi avevano messo in guardia sul suo conto. Ero in Francia durante le riprese di II treno, prodotto da Burt, che dopo un paio di settimane aveva licenziato Arthur Penn, un mio caro ami­ co. Ma appena la conversazione cadde su Visconti — che ammiro moltissimo e che Burt idolatra — ci trovammo su un terreno familiare e simpatizzammo immediatamente. 150

L esperienza americana

Quando cominciammo a provare in costume, l’amor pro­ prio di Lancaster subì qualche colpo, ma capiva alla perfe­ zione che il personaggio era essenzialmente un poveraccio, un fallito, e che avrebbe dovuto avere un aspetto miserabi­ le. Avrebbe di certo vinto l’Oscar quell’anno se al momen­ to del voto non si fosse saputo che Henry Fonda stava mo­ rendo. Peraltro, tutta la critica americana lo proclamò mi­ glior attore dell’anno. Ammirai forse anche di più Susan Sarandon per il mo­ do in cui rese il suo personaggio, che poneva moltissime difficoltà. La figura di Lou era perfettamente definita e la sua traiettoria chiara fino alla fine. Ma questa donna, con i suoi sogni e le sue contraddizioni, che non sapeva cosa voleva... era un ruolo diffìcile da interpretare, e lei se la ca­ vò splendidamente. P.F. - All’inizio del film, lei ha tutta la nostra simpatia, poi la perde. Lui, al contrario, è patetico, ma via via che realizza a poco a poco i suoi sogni volgari, perfino quello di diventare un killer, finisce con l’assumere una statura eroi­ ca. È sicuramente un qualcosa che c’è sempre stato nella sceneggiatura?

L.M. - Sì, sempre. L’unico vero disaccordo che ebbi con Burt fu riguardo alla scena finale, nella stanza del motel, quan­ do telefona a Kate Reid per dirle: «11 killer che cercano in televisione sono io, l’ho fatto io!». E lei dice: «Oh piantala subito e torna a casa». Dopo l’euforia della notte preceden­ te passata con Susan Sarandon, tutti sanno che lei non re­ sterà con lui. Per cui devono recitare questa scena imbaraz­ zante, scritta meravigliosamente, in cui lei dice: «Ho proprio voglia di una pizza... adoro la pizza. Vado a prenderne una», ed entrambi sanno che lei sta per andarsene; ma Burt vole­ va che il suo personaggio tenesse in pugno la situazione... che fosse lui a mandarla via. Non ero convinto che andasse bene; pensavo che il suo vero sogno fosse di farsi vedere con lei dagli amici, ora che aveva tutto quel denaro. «An­ dremo a Miami», dice lui. Ma lei pensa solo a battersela. Burt avrebbe voluto che fosse lui a decidere di lasciarla andare. 151

// mio cinema

P.F. - Ma, in quel momento, egli è ritornato al punto di partenza, perché l’ha vista rubargli il denaro, proprio co­ me all’inizio lei si fa rubare il portafogli dal marito hippy. L.M. - Sì, è un cerchio perfetto. Trovo che il modo in cui termina la scena sia molto buono. Entrambi sanno con certezza che i progetti che lui faceva la sera prima non si realizzeranno mai. E dopo che lei è andata via, lui torna da Kate Reid e le fa cambiare la cocaina rimasta con il resto del denaro. È felicissimo con la sua vecchia compagna. Quando passeggiano sul pontile, si pavoneggia, è orgoglio­ so. Sally (Susan Sarandon) partirà per l’Europa con il dena­ ro che gli ha rubato. È quindi un finale dolce-amaro e per­ fetto. Oggi, a ripensarci, mi rendo conto che era un film difficile da realizzare, perché tutti i momenti e tutti i perso­ naggi sono sempre al limite dello stereotipo e della preve­ dibilità. Ma una qualità rara nel copione di John, soprattut­ to nei dialoghi, è che ti sorprende in continuazione. Quando il film fu terminato, pensai che fosse un lavoro troppo marginale, e che forse non sarebbe mai stato distri­ buito. Ero molto preoccupato. Avevo ultimato la sonoriz­ zazione e il missaggio definitivo a Parigi, e avevo organiz­ zato una proiezione per il distributore francese. La reazio­ ne fu tiepida, e costituì un’anticipazione di ciò che ci atten­ deva, perché in Francia il film passò decisamente inosser­ vato. Ebbi critiche piuttosto caute e, perfino, vagamente condiscendenti. Ne portai poi una copia in America e la proiettai a New York per una cinquantina di persone. L’en­ tusiasmo che suscitò fu incredibile, e mi resi conto che il film sarebbe stato compreso meglio da chi conosceva il suo contesto. Poi andammo a Venezia dove venne presentato alla stampa, e ricordo che i giornalisti stranieri, non i fran­ cesi, ma gli inglesi, gli italiani e i tedeschi, ne furono entu­ siasti; alla fine vincemmo il Leone d’oro a pari merito con John Cassavetes.

P.F. - Sì, per Gloria, un altro film di gangster non con­ venzionale. Ha parlato del missaggio della colonna sonora. Sebbene Michel Legrand figuri nei titoli per la musica, tut152

L'esperienza americana

to nei film è musica diretta, un insieme molto elaborato di canzoni popolari e di jazz, compresi i dischi a 78 giri di Tom­ my Dorsey.

L.M. - Sì, lo imponeva la sceneggiatura. Mi fu di gran­ dissimo aiuto la profonda conoscenza di John della musica popolare americana. Inserimmo moltissime canzoni che ave­ va scoperto. Era il nostro punto di partenza. Andai a trova­ re Michel Legrand, perché era molto bravo e poteva scri­ vere qualsiasi genere di musica. C’era già della musica che avevamo registrato durante le riprese, ma ne volevo anco­ ra. Per esempio, quando Susan Sarandon lascia l’ospedale dopo una strana scena in cui Robert Goulet inaugura l’ala Frank Sinatra... non l’ho inventata io, esiste veramente un’ala con questo nome... e Lancaster le propone di accompagnarla a casa. Quando si fermano in un caffè, volevo una comune musica country, ma senza parole, data la conversazione tra loro due. E Michel trovò qualcosa di formidabile. Dovemmo anche fare una registrazione originale dell’a­ ria di Bellini — «Casta diva» dalla Norma — che è così im­ portante all’inizio. Durante le riprese ci servimmo di un di­ sco della Callas, ma non potemmo tenerlo, perché i diritti erano enormemente alti. Così dovemmo fare una registra­ zione con Elizabeth Hartwood, un'eccellente cantante liri­ ca inglese. 11 primo giorno, nello studio di registrazione di Londra c’era per noi la London Philarmonic al completo, e Michel voleva aggiungere diversi brani di sua composi­ zione poiché per lui era un’occasione unica, in cui poteva lavorare con una grande orchestra. Per la scena dell'ascen­ sore nel parcheggio c'era quindi un brano sinfonico stru­ mentale. Con mia grande vergogna, nel missaggio finale ta­ gliai tutto quanto perché mi resi conto che era inutile; c’e­ ra un certo numero di effetti sonori che mi sembravano mol­ to più interessanti e molto più forti della partitura. Credo che Michel ne fu deluso, ma capì.

P.F. - In questo film tutti, senza eccezione, cercano il guadagno: rubando, sfruttando gli altri a livello finanziario o sentimentale. C’è un francese, un croupier. Certamente 153

il mio cinema

ad Atlantic City ci sono dei croupier che insegnano il me­ stiere in corsi specializzati, o almeno ce n’erano all’epoca. Ma si tratta dei suo modo personale di mostrare che lei stesso e i suoi compatrioti non eravate estranei a tali attività di cor­ ruzione e sfruttamento?

L.M. - Non credo di averci pensato. Avevamo bisogno di un losco personaggio che insegnasse ai giovani croupier e, dato che il personaggio di Susan Sarandon sognava sem­ pre Montecarlo, avevamo pensato che sarebbe stato inte­ ressante... credo sia stata un’idea di John... che l’insegnan­ te croupier fosse francese, in modo che lei potesse dirgli: «Hanno un casinò davvero elegante laggiù». Alla fine lui le consiglia di prostituirsi. Le dice: «Vedi quel tipo laggiù? Non vuole altro che una bionda al fianco che gli porti fortuna». Insomma, un personaggio ripugnante. Quando si trattò di assegnare la parte mi bloccai, perché era un ruolo piccolis­ simo, ma doveva essere reso perfettamente. Cercai un at­ tore francese in America, ma non trovai nessuno. Avevo sempre pensato che sarebbe stato meraviglioso avere Mi­ chel Piccoli; così finii col chiamarlo a Parigi... non avevo mai lavorato con lui, ma eravamo amici... ed è qui che si nota tutta la signorilità di Piccoli. Mi disse: «Certo, verrò, sarò felicissimo di lavorare con te, e anche se fosse solo per tre giorni, non c’è problema». Così arrivò e fu meraviglio­ so, a parte le difficoltà che incontrò parlando in inglese con il suo forte accento... Era così diffìcile da capire! Mi ripro­ misi di affidargli un giorno un grande ruolo, cosa che finì per avverarsi con Milou a maggio.

P.F. - Prima dicevo che alcune delle persone da lei in­ contrate in India sembravano prefigurare quei due super­ stiti della contro-cultura e dell’universo hippy della non vio­ lenza, che sono il marito e la sorella di Susan Sarandon; uno assolutamente corrotto, l'altro forse troppo stupido per es­ serlo. Era consapevole di parlare di un decennio che non aveva ancora affrontato? L.M. - Sì, l’azione del film si svolgeva alla fine degli anni 154

L esperienza americana

settanta, e allora gli hippy appartenevano già al passato. Ma il personaggio di Susan Sarandon veniva da una parte re­ mota del Canada, il Saskatchewan. La sua città natale si chia­ mava Moose Jaw, «Mascella d’alce»! Non ricordo se fu John a inventarla per poi scoprire che esisteva veramente, o se già sapeva della sua esistenza! Ad ogni modo pensammo che sarebbe stato interessante darle dei trascorsi hippy. Così è diventata questa donna che vuole farcela e guadagnare de­ naro. Cerca di conformarsi alle regole della società capita­ listica, ma ha un passato. Sembrava quindi naturale che l’ex marito e la sorella fossero degli hippy... vestigia del passa­ to. La sorella, soprattutto. Naturalmente, il personaggio della sorella più giovane era molto caricaturale. La cosa più curiosa è che la ragazza che l’interpretava era una giovane attrice canadese che aveva ottenuto un certo successo in alcuni film canadesi. Aveva interpretato Ofelia l’estate precedente, ed era una grande promessa del cinema e del teatro canadese. Interpretò la par­ te con molta serietà, e appena le riprese furono terminate, andò in India, in un ashram. Non so neanche che cosa ne sia stato di lei, credo che sia ancora là. In un certo senso vi è in questo un’ironia inquietante. Mi accorsi subito che avrebbe interpretato il ruolo con molta sincerità, il che con­ tribuiva a rendere il personaggio ancora più bizzarro. Quando girammo il film, non avevamo un distributore americano e ci vollero mesi per convincere la Paramount a distribuirlo. Accettarono perché ero in buoni rapporti con loro e perché Barry Diller, che allora dirigeva la Paramount, aveva visto il film e lo adorava. Tutto il suo entourage gli ripetè che non ne avrebbe cavato una lira. Alla fine, uscì, e con loro grande sorpresa... non dico che sia stato un im­ menso successo... ma venne accolto benissimo e finì per ottenere cinque nomination all’Oscar per la migliore sce­ neggiatura, il miglior attore, la migliore attrice, il miglior film e la miglior regia. E per molti critici americani fu il miglior film dell’anno. Era il momento in cui sentivo che lavorare negli Stati Uniti sarebbe stato facile per me. Avevo appena conosciuto Candice, e ci eravamo sposati nel settembre 1980. Quell’inverno fui impegnato nella realizzazione di La 155

// mio cinema

mia cena con André. I due film uscirono nel 1981 ed en­ trambi furono accolti bene. Come sa, La mia cena con An­ dré divenne un cult-movie. Era un paradosso, perché en­ trambi i film erano, rispetto al sistema, totalmente marginali.

P.F. - Atlantic City e La mia cena con André hanno due punti in comune. Il primo è che parlano di città americane, uno di essi è un film molto newyorkese. Il secondo è che testimoniano, in maniera diversa, del suo interesse per il do­ cumentario e il teatro. Lei ha parlato poco fa dello sfondo documentaristico di Atlantic City. Per il modo in cui si pre­ senta La mia cena con André, in molti si convinsero che lei avesse proceduto come un documentarista che filma una conversazione tra due vecchi amici in un ristorante di New York: Wally Shawn nella parte di Sancho Panza e André Gre­ gory in quella di un Don Chisciotte intento a difendere l’a­ spetto mistico del teatro. Ma era una falsa impressione, per non dire altro. L.M. - Wally Shawn aveva una parte piccolissima in Atlantic City. Era un amico di John Guare e l’avevo cono­ sciuto mentre stavo lavorando con lui. Gli assegnammo quel ruolo comico del cameriere del ristorante, nella grande scena tra Lancaster e la Sarandon. Aveva solo un paio di battute, ma c’era qualcosa in Wally, aveva un’aria così strana e inte­ ressante. Quanto a André Gregory, eravamo amici da tem­ po, ed era un regista di teatro che ammiravo moltissimo. Mentre ero con lui ad Atlantic City, Wally mi disse: «Sto fi­ nendo una sceneggiatura, si intitola La mia cena con An­ dré. È una cena in cui noi due ci rivediamo dopo una lunga separazione. André ha viaggiato molto, ci ritroviamo e pen­ siamo che sarebbe interessante mettere a confronto le no­ stre esperienze negli anni settanta». Wally fa l’attore occa­ sionalmente, è soprattutto un drammaturgo. Aveva sempre considerato il suo testo come la sceneggiatura di un film; stava per finirlo e doveva mandarmelo. Naturalmente, la mia prima reazione fu: «Io, filmare due tizi che discutono in un ristorante? Ci mancava solo questa!» Ero molto scettico. Terminato il montaggio di Atlantic City, ero tornato a 156

Lesperienza americana

New York. Un giorno, nella primavera del 1980, all’inizio della mia grande passione per Candice, ricevetti la sceneg­ giatura. Allora, cosa che non mi era mai accaduta, né prima né dopo... e che rimpiango accada così di rado... subito do­ po averla letta, sentii nascermi dentro un interesse e una curiosità immensi, e mi identificai immediatamente con i due personaggi. Presi il telefono e chiamai prima Wally e poi André e dissi: «Va bene, facciamolo. Non ho ancora un’i­ dea precisa, ne dobbiamo parlare, ma mi piace moltissimo». E ci mettemmo al lavoro. Trovavo la sceneggiatura troppo lunga e terribilmente difficile da far decollare, e mi chiedevo se entrambi sareb­ bero riusciti a superare le difficoltà dei loro ruoli. Per un po’ feci l’avvocato del diavolo, e dissi: «Forse ci vorrebbe­ ro Dustin Hoffman e Robert Redford». Ne furono inorridi­ ti. 1 miei dubbi riguardavano soprattutto André, perché Wal­ ly è uno splendido caratterista. Sebbene Wally avesse un ruolo enorme nella conversazione, la parte più diffìcile era quella di André. 11 primo problema era che, pur recitando se stessi, dovevano farlo come se si trattasse di personaggi inventati. Per esempio, era necessario che André imparas­ se le sue battute. Aveva sì l’aria di improvvisare, ma era scrit­ to tutto quanto, virgole comprese, persino le sue esitazioni erano indicate nella sceneggiatura. Si trattava sì di André e delle sue esperienze così come le aveva raccontate a Wal­ ly ma, a seconda del modo in cui erano state scritte, egli era costretto a reinventare il proprio personaggio. Lo tro­ vavo estremamente interessante. Non ho mai provato così tanto con gli attori prima di girare, come con quei due. Ci vollero mesi. Ci vedevamo al pomeriggio nel mio appartamento di New York e pren­ devamo un passaggio della sceneggiatura. Dopo un po’ li filmavo con una telecamera per mostrare loro quello che secondo me andava e cosa non funzionava. Ripetevo loro che non dovevano avere in mente che si trattava di loro stessi, ma che dovevano trasformarsi in attori che recitano delle parti. Arrivai al punto di chiedere a Wally di interpre­ tare il ruolo di André e viceversa. Al contempo, incontrammo enormi difficoltà per trovare 157

Il mio cinema

il denaro... Non ce ne voleva molto, e alla fine ce la cavam­ mo tranquillamente con 400.000 dollari. La risposta era sem­ pre la stessa: «È interessantissimo, ma non è un film». L’u­ nica cosa che potevo rispondere era: «Quando sarà fatto, sarà un film». Dicevo loro: «Lasciate fare a me, dovete dar­ mi fiducia». Un film può essere qualsiasi cosa. Ma, eviden­ temente, avevano tutti paura che potesse risultare incredi­ bilmente noioso.

P.F. - Aveva citato a qualcuno gli esempi di La mia not­ te con Maud di Rohmer e La Marnati et la putain di Jean Eustache? L.M. - Oh! Certo. E, naturalmente, era un ottimo argo­ mento con gente che aveva una certa conoscenza del cine­ ma, ma la reazione dei potenziali finanziatori era decisamente negativa. Così dovemmo rimandare il progetto per un paio di volte. Nel frattempo loro andarono a Londra a rappre­ sentare il lavoro nella saletta del Royal Court Theatre. Il mio nome compariva come regista sulla locandina a lettere cu­ bitali... A dire il vero, non c’entravo gran che, dato che se ne stavano tutto il tempo seduti a un tavolo. Avevo detto loro: «Sulla scena dovrete farlo diversamente, dovrete par­ lare più forte. Credo che risulterà un po’ bizzarro, ma sarà un ottimo esercizio». Nel corso delle prove avevamo ridot­ to la sceneggiatura. Wally ero molto intransigente circa tutto ciò che aveva scritto, ma a poco a poco aveva accettato di fare qualche variazione e degli aggiustamenti. A un certo punto, sentii che eravamo pronti. Ma, colmo d’ironia, mentre l’argomento dell’opera era­ no New York e gli intellettuali newyorkesi, facemmo le ri­ prese a Richmond, in Virginia, dato che fummo costretti a lavorare, per ragioni di budget, con una troupe non sinda­ calizzata. Girammo in un enorme hotel che aveva chiuso. Trasformammo la sala da ballo in un palcoscenico: ricream­ mo l’ambientazione tipica di un ristorante newyorkese. Sul piano visivo, il mio problema era quello di trovare la giusta collocazione per i due personaggi. Dato che bisognava da­ re la sensazione che tutto si svolgesse esclusivamente tra 158

L esperienza americana

loro due, ero costretto a metterli in un angolo. Ma mi resi conto che se fossero rimasti entrambi di fronte a un muro, sarebbe stato difficile per lo spettatore guardarli per più di due ore. Il nostro scenografo, David Mitchell, ebbe l’idea di installare degli specchi. Ma di conseguenza, pur non fa­ cendo nulla di complicato, dovevo modificare leggermen­ te la posizione della macchina a ogni ripresa. E poi, natu­ ralmente, quando si gira di fronte a uno specchio e si muo­ ve la macchina da presa di qualche centimetro, bisogna ri­ posizionare tutte le luci. Alla fine, non ci si decise per gli specchi, ma per una serie di specchietti quadrati che veni­ vano spostati leggermente. Fu anche peggio; ogni volta che spostavo la macchina si dovevano riposizionare tutti gli spec­ chietti. Ma funzionava, nel senso che si vedeva in scorcio il resto della sala. Avevamo delle comparse che si vedeva­ no soltanto di riflesso. Grazie a ciò, il film è meno astratto, e lo sfondo si anima senza interferire con il dialogo. Speravo ardentemente di avere la collaborazione di Sven Nykvist, ma all’ultimo egli non venne perché il film che stava finendo era in ritardo sui tempi di produzione. Così dovet­ ti scegliere in fretta e furia un operatore con il quale non avevo mai lavorato: Jeri Sopanen. Avevamo abbastanza de­ naro per girare per un periodo di quasi tre settimane con una troupe ridotta all’essenziale. Girammo l’inizio a New York, nella metropolitana, per la scena in cui Wally va al ristorante, e c’è poi un bell’epilogo, quando torna a casa in taxi e ripensa alla serata e ai ricordi d’infanzia. Il resto, il ristorante, fu girato a Richmond. Avevo avvisato tutti quanti che avrei iniziato molto len­ tamente, e che, piuttosto che fare ulteriori prove, preferi­ vo cominciare a girare e a cercare le mie angolazioni. Vole­ vo procedere per tentativi. Mi sarebbero serviti dei carrel­ li? Volevo prima stare un po’ a vedere. Ma innanzitutto mi rendevo conto che se la cosa avesse funzionato, l’avrem­ mo saputo solo in sala di montaggio. Era chiaro. In secon­ do luogo, mi occorrevano dei campi e controcampi dei due personaggi in modo da garantirmi, in fase di montaggio, la possibilità di passare dall’uno all’altro. Le inquadrature su Wally e quelle su André... il ritmo doveva essere così flui159

Il mio cinema

do da non far notare il montaggio allo spettatore. Penso di esserci riuscito. Credo che gli spettatori lo abbiano perce­ pito come una sorta di flusso ininterrotto. Non credo che si siano accorti del montaggio. Si ha l’impressione che i per­ sonaggi siano entrambi costantemente sullo schermo. Ma è stato diffìcile ottenere questo risultato. Alla fine della pri­ ma settimana, ci ritrovammo con chilometri e chilometri di pellicola.

P.F. - Girava in piani-sequenza?

L.M. - Sì, quasi sempre. Lunghe riprese della conversa­ zione. Naturalmente c’erano degli stacchi, quando il came­ riere portava un piatto, e dovevo tenerne conto. Le bobi­ ne da 16 mm che utilizzavamo duravano dieci minuti, quindi ogni ripresa doveva avere questa durata. Con mia sorpre­ sa, a Richmond esisteva un laboratorio cinematografico; svi­ luppava il negativo e stampava i giornalieri. La prima do­ menica potei vedere i primi cinque giorni di riprese con France La Chapelle, la mia fedele segretaria di edizione. Guardammo i giornalieri dalle otto del mattino fino alle dieci di sera, e avevo le idee completamente confuse. Ma guar­ dando quelle riprese, cominciai in qualche modo a capire come avrei dovuto comportarmi con i due attori. Capii che quando volevo che André fosse divertente o vagamente en­ fatico, per esempio, era meglio riprenderlo sotto una certa angolazione; e se volevo che fosse commovente, era prefe­ ribile, per esempio, piazzare la macchina da presa un po’ più in alto. E durante la settimana successiva e l’inizio della terza, rigirai tutto quanto con lievi variazioni nella posizio­ ne della macchina da presa. Avevo ben presto abbandona­ to ogni genere di carrellata, perché ritenevo che avrebbe creato problemi in fase di montaggio. Inoltre, le carrellate avanti e indietro non sarebbero servite ad altro che ad atti­ rare l’attenzione sulla macchina da presa, mentre era essen­ ziale che lo spettatore se ne dimenticasse immediatamente. In capo a una settimana, cominciarono entrambi a rilas­ sarsi, e fu formidabile. All’inizio André parla senza sosta per circa venticinque minuti, una cosa diffìcile da reggere. Mi 160

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dicevo che se il pubblico non avesse abbandonato la sala nei primi venticinque minuti, sarebbe andata. Le cose di cui parlava André erano molto interessanti, ma era tutto un po' insolito e vagamente enfatico. Mi sembra che il mio contri­ buto alla sceneggiatura sia stato quello di beffarmi un po' dei loro personaggi. Questo aspetto umoristico esisteva, ma io lo radicalizzai deliberatamente. Fui davvero contento di sentir ridere tanto gli spettatori, la prima volta che lo vidi in sala insieme al pubblico. Era proprio quello che spera­ vo, ma non si può mai sapere. E non era molto evidente, quando si leggeva la sceneggiatura. Forzai André a introdurre nella sua interpretazione alcuni dettagli che esaltassero pro­ prio questo... l’umorismo e talvolta la stupidità. Ma usai an­ che i controcampi sulle reazioni di Wally. Erano essenziali. Li inserimmo con molta cautela. Volevo che all'inizio il pub­ blico si ponesse subito delle domande su Wally, che non parla ma che, dal modo in cui reagisce, chiaramente non capisce bene quello che l’amico racconta e che egli vaga­ mente disapprova. Questo serviva a preparare ciò che sa­ rebbe seguito.

P.F. - Lei ha detto che in questa conversazione tra l’uo­ mo che conduce una ricerca mistica e intellettuale, André Gregory, e il sensuale uomo medio rappresentato da Wal­ lace Shawn, in questa discussione sulla vita, sui problemi estetici e sull’esperienza, si è identificato con entrambi. Ma le risate di cui ha parlato erano provocate da una manipo­ lazione dello spettatore. Lei ha inevitabilmente dato la sua interpretazione della discussione attraverso i controcampi su Wallace Shawn. L.M. - È vero, ho detto che potevo identificarmi con en­ trambi. Ovviamente, mi sentivo più vicino al personaggio di Wally, sebbene comprendessi-la situazione attraverso quello che aveva passato André. Avevo attraversato anch’io una crisi; ero andato in India e per un po’ avevo staccato. Capivo la sua ricerca. Ad ogni modo il personaggio di An­ dré non era necessariamente André; le cose erano molto più complesse. Essendo stato scritto da Wally, il personaggio 161

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di André, persino nella sceneggiatura, era un po’ irritante. Si notava subito che era stato l’altro a scriverlo. Io mi limi­ tai a sottolineare questo aspetto, a esagerarlo. Nello stesso tempo sapevo che André poteva essere buffo, farsi burla di se stesso. Ciò che è stupefacente nell’evoluzione del suo personaggio è che finisce per diventare straordinariamente commovente. Si riscatta: per esempio, quando parla del bambino e di come il bambino diventi un uomo... è un mo­ mento magnifico. All’inizio è essenziale guardare con iro­ nia a questo avventuriero dello spirito che è sempre in pro­ cinto di partire e che passa per caso qualche giorno nella casa di Richard Avedon, tra un viaggio in Polonia e un al­ tro viaggio in Tibet. Tutto ciò fa parte del testo... io non ho tradito il testo. Adoravo il personaggio di André, mi so­ no identificato con lui, ma c’era qualcosa in lui che mi infa­ stidiva. P.F. - Aveva due straordinari tipi fisici sui quali lavora­ re: mi ricordano quei due personaggi di Ombre rosse di John Ford, il giocatore Hatfield, interpretato da John Carradine, e il piccolo venditore di whisky impersonato da Donald Meek: essi rappresentano, fisicamente, differenti livelli so­ ciali, diversi tipi di ambizioni sociali.

L.M. - Quando il personaggio di Wally comincia a parla­ re, in qualche modo si mette in ridicolo da solo attraverso il dialogo che egli stesso ha scritto. Wally è un personaggio meraviglioso, che controlla perfettamente la situazione, ma al contempo è veramente bizzarro, che se ne renda conto o meno. Al termine delle riprese mi ritrovai con un’enorme quan­ tità di materiale. Sulle prime, ne fui molto contento. Era la vigilia di Natale. All’inizio dell’anno seguente, convocai la mia montatrice, Suzanne Baron, e le dissi: «Suzanne, sarà dura. Se la cosa funzionerà o meno, dipende dalla sala di montaggio». Procedemmo per approssimazioni successive. Individuammo molto in fretta i momenti migliori. Lei sep­ pe scegliere splendidamente... ogni volta bisognava trova­ re il taglio tra due immagini... il momento in cui tagliare in 162

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modo che non si notasse. Inoltre, il montaggio doveva col­ limare con la conversazione e rispettare l’emozione dell’istante. Esclusi i documentari, si tratta sicuramente del mon­ taggio più complesso che abbia mai fatto. Il film fu proiettato per la prima volta al Festival di Telluride4 che ha luogo in America intorno al Labor Day, ossia all’inizio di settembre, ma non potei assistervi perché avevo qualcosa da fare in Francia; ci andarono André e Wally e il film ebbe un’accoglienza fantastica. Fu il film di cui par­ lavano tutti al festival. Quanto tornai a New York, incon­ trai una donna che conoscevo appena, la moglie di un pro­ duttore, che mi disse di aver visto La mia cena con André e continuò a ripetermi che l’aveva trovato meraviglioso; poi, a un certo punto mi disse: «Ho visto il suo nome e so che vi ha partecipato, che l’ha diretto, ma che cosa ha fatto esat­ tamente?». Pensai che non potesse esserci complimento più bello. La maggioranza degli spettatori, eccetto quelli che si intendono un po’ di cinema, dovettero avere l’impressio­ ne che mi fossi limitato a collocare da una parte e dall’altra due macchine da presa e che avessi girato tutto il film in un pomeriggio, mentre i due attori improvvisavano. Giun­ gere a dare un’impressione simile allo spettatore fu per me un grande risultato, che mi fece molto, molto piacere. P.F. - È anche un film dal quale il pubblico esce conti­ nuando a discutere. Si ha l’impressione di un finale aperto: pone quesiti, non dà facili risposte, anche se si può prova­ re maggiore simpatia per un personaggio piuttosto che per l’altro. L.M. -11 film andò piuttosto bene nei paesi di lingua in­ glese. Non ebbe tutto il successo di un film di Spielberg, ma andò molto bene. Ma in Francia, ovviamente, fu un ton­ fo. Sembrava assurdo doppiarlo, anche se poi lo doppiam­ mo... finimmo per presentarlo sottotitolato: c’erano quasi tre righe di battute per ogni immagine. Dicevo agli amici: «Dovreste vederlo due volte: la prima per i sottotitoli, la se­ conda per guardare le immagini». Credo che il mio contributo fu quello di sottolineare che 163

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l’importante non era tanto quello che dicevano i due per­ sonaggi, quanto piuttosto il modo in cui lo dicevano; mo­ strare che non erano del tutto sinceri, che non dicevano totalmente la verità, o che reinventavano i loro ricordi. Fu ciò che riuscii a fare grazie ai controcampi. C’era qualcosa che avveniva sui loro volti, al di là delle parole. Il film fun­ zionava dunque su due livelli: i dialoghi, la conversazione e il fatto di riuscire a conoscere perfettamente quei due per­ sonaggi. In un film classico, non si ha mai la possibilità di dedicare tanto tempo a dei primi piani su due attori. L’ar­ gomento del film finì per essere quest’intima relazione tra i due uomini, e la gente, uscendo dal cinema, voleva conti­ nuare la loro conversazione. A New York il film restò in programmazione per circa nove mesi; credo che a Boston sia rimasto in cartellone per un anno intero. A Los Angeles e anche in Texas la gente mi diceva: «Abbiamo organizzato delle cene alla La mia ce­ na con André, cenavamo, guardavamo la cassetta e poi con­ tinuavamo la conversazione». Il film uscì all’inizio dei de­ primenti anni ottanta, ed era in qualche modo una sorta di nostalgico epilogo degli anni sessanta e settanta. È imper­ niato su una categoria di persone ben definita, analizzata in un momento preciso, quando certe sensibilità comincia­ vano a muoversi. È stato recepito in questo modo ed era, in un certo senso, di un’attualità sorprendente, cosa che nes­ suno avrebbe potuto prevedere. Questo, probabilmente, spiega l’interesse che suscitò tra la gente.

P.F. - Dopo La mia cena con André, uno dei suoi film più raffinati, fu la volta di Crackers, uno dei soggetti meno delicati che abbia mai affrontato. La sola cosa che i due film hanno in comune è la presenza di Wallace Shawn. Come mai si lanciò in questa impresa? Era contento di fare un film del genere?

L.M. - Sia Atlantic City che La mia cena con André era­ no usciti negli Stati Uniti nel 1981 : il primo in estate, l’altro in autunno. Entrambi erano andati molto bene. Mi ero in­ teressato a una truffa di cui la stampa aveva parlato molto, 164

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e sulla quale qualcuno aveva poi scritto un libro. Si trattava di un tipo incredibile, un truffatore che proponeva alla gente un sistema per frodare il fisco. Aveva estorto denaro a un certo numero di persone che c’erano cascate, ma alla fine fu preso. L’FBl aveva deciso di aprire un’inchiesta sulla cor­ ruzione presente tra gli uomini politici e aveva obbligato quest’uomo — non ricordo il suo vero nome, ma nella sce­ neggiatura di John Guare si chiamava Shelley Slutski — a collaborare con loro. Grazie alla mediazione di un falso sceic­ co arabo, che era un agente dell’FBI, offrivano denaro ai politici. Il truffatore doveva entrare in contatto con i poli­ tici, sostenendo che lo sceicco voleva sia ottenere la nazio­ nalità americana, sia investire denaro nelle loro circoscri­ zioni. P.F. - Si trattava dei famoso Ab Scam?

L.M. - Sì, Ab Scam. Ancora una volta, volevo fare qual­ cosa di diverso. Pensavo che sarebbe stato uno splendido soggetto per una satira politica e una commedia. Ne avevo parlato con John Guare, che ne rimase entusiasta. Subito pensammo che sarebbe stata una parte magnifica per John Belushi... volevo rimettere insieme Belushi e Dan Aykroyd. A quei tempi, Belushi era una grandissima star negli Stati Uniti. Quando lo avevo conosciuto, Belushi mi aveva en­ tusiasmato. Lo consideravo estremamente creativo, un po’ confuso ma enormemente dotato come attore comico. Così all’inizio del progetto si parlò di Belushi e Aykroyd. A Hollywood, tutti volevano finanziare il film. John Gua­ re propose il titolo di Moon over Miami. Decidemmo di am­ bientarlo in Florida e cominciammo a lavorare alla sceneg­ giatura. Fu allora che morì mia madre, e dovetti rientrare in Francia, subito dopo avere consegnato una prima stesu­ ra alla Columbia. Una mattina John Guare mi telefonò per dirmi che John Belushi era morto di overdose a Los Ange­ les. Pensai immediatamente che il progetto era spacciato. Accadde quello che avevo previsto: i responsabili dello stu­ dio non erano più così entusiasti del progetto. La sceneg­ giatura era divertentissima, molto provocatoria, e con John 165

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Belushi loro avrebbero accettato di filmare anche l’elenco telefonico. Ma dal momento che era morto, sapevo che avrebbero rifiutato. Passai dei mesi terribili alla ricerca di un sostituto: contattai Dustin Hoffman e qualcun altro. Al­ la fine pensai che la scelta migliore potesse essere Bob Ho­ skins. Avevo visto Guys and Dolls a teatro, dove lui inter­ pretava in modo molto convincente la parte di un america­ no. Ma all’epoca a Hollywood era uno sconosciuto. Nessu­ no sapeva chi fosse. Come sa, oggi è invece molto popola­ re laggiù. P.F. - E fa sempre delle parti da americano. L.M. - Sì. Aykroyd fu molto leale, ma avevamo capito che ci trovavamo in un vicolo cieco. Guare aveva scritto una seconda stesura e cominciava a spazientirsi. Ero sfini­ to: avevo passato già quasi un anno su questo progetto. Non sapevo cosa fare, e poi c’era questo produttore che mi te­ lefonava da un paio di anni cercando di convincermi a rifa­ re / soliti ignoti, il film di Mario Monicelli. Avevo rifiutato diverse molte. Ma poi, non so perché, mi lasciai convincere. Mi dissero: «Può lasciare perdere quan­ do vuole», e io non avevo voglia di impegnarmi ufficialmen­ te. Lo sceneggiatore, Jeffrey Fiskin, era simpaticissimo; aveva lavorato con Ivan Passer a Cutter's Way, un film che mi era piaciuto. Ci intendemmo alla perfezione; nessuno dei due era sicuro che fosse possibile adattare quella storia all’Ame­ rica dei giorni nostri, ma decidemmo di provare. Aveva un contratto per scrivere la sceneggiatura e guadagnare così un po' di soldi, allora mi sono detto: «Bene, vediamo che suc­ cede». Non avevo ancora neppure il contratto ma, per qual­ che ragione, non ho mai capito quale, volevano a tutti i co­ sti affidarmi quel progetto. Ecco come andò... a poco a po­ co... misi la punta del dito nell’ingranaggio, e ci finii dentro. Quando Fiskin mi disse: «Dovremmo fare un giro a San Francisco. Ci sono degli interessanti quartieri a popolazio­ ne mista, laggiù», cominciai a incuriosirmi. Così andammo a San Francisco, e finimmo in un distretto chiamato Mis­ sion District: un quartiere multirazziale, pieno di vecchi hip­ 166

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py, artisti ed emarginati, insediati in quello che essenzial­ mente era un quartiere di ispanici. C’era una vita di quar­ tiere... caffè con tavolini all’aperto... si trova di rado nelle città americane. Ci venne in mente che avremmo potuto ambientare la storia ai giorni nostri in quella zona di San Francisco. Erano i primi anni ottanta e c’era una quantità di gente senza lavoro. Quando Jeff mi mostrò la sceneggiatura, la mia prima reazione fu: «Non ho voglia di fare una cosa del genere». Non era un brutto copione, i personaggi erano interessanti (personaggi da commedia dell’arte trasposti in America), ma non aveva niente a che fare con me, e dissi che non volevo farlo. Non so come, ma riuscirono a convincermi. Sono to­ talmente colpevole. Non posso dire che Hollywood mi ab­ bia raggirato, perché nessuno mi obbligò ad accettare. Ero solo molto ansioso di ricominciare a lavorare. Avrei fatto meglio a prendere una 16 mm e andare a girare un docu­ mentario. Avrei evitato il peggio. E invece pensai: «Se de­ vo ripartire da zero con un altro lavoro, ci vorranno altri sei mesi. Sono sempre stato pronto a nuove esperienze e questa sarà la prima e unica volta che proverò a lavorare all’interno di uno studio hollywoodiano. L’idea non è nem­ meno mia, e quindi, perché no?». Cominciò la preproduzione e immediatamente comin­ ciarono anche i problemi. Il budget del film era di circa do­ dici milioni di dollari, ma ben presto mi accorsi che per gi­ rare il film ne avrei avuto a disposizione solo quattro o cin­ que. Il resto sarebbe andato in spese generali e in stipendi ridicolmente alti, compreso il mio, naturalmente. La sera, tornando a casa, dicevo a Candice: «Forse sarebbe meglio che non Io facessi». E lei continuava a rispondermi: «Ma al­ lora, perché lo fai?». E io ribattevo: «Beh, troverò pure un modo di cavarci qualcosa». Ebbi la fortuna di mettere in­ sieme un cast straordinario. È l’unica cosa positiva che si possa dire del film. Gli attori erano molto divertenti e inte­ ressanti... Donald Sutherland, quella meravigliosa attrice che è Christine Baranski, Wally Shawn, Sean Penn, Jack War­ den, più un certo numero di ottimi attori latini e neri total­ mente sconosciuti. 167

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P.F. - Ha detto che era un buon cast, ma il film originale italiano aveva avuto tanto successo anche perché la banda di piccoli imbroglioni era interpretata da attori di grande fascino: Vittorio Gassman, Mastroianni, Claudia Cardinale. Il suo era un cast realistico, forse troppo. L.M. - Sì, è vero, il cast mi piaceva molto, ma era privo di fascino, non aveva nulla di hollywoodiano. Trinidad Sil­ va, il messicano-americano che faceva il personaggio che nel film italiano corrispondeva a quello del fratello di Clau­ dia Cardinale, non era un vero attore. Aveva recitato in un paio di film, ma nessuno si ricordava di lui. La ragazza che interpretava il ruolo di Claudia Cardinale non aveva mai fatto cinema. Anche Wally era ai margini del sistema hollywoo­ diano, ma lui, almeno, era conosciuto per La mia cena con André. Dovetti persino lottare per avere Donald Sutherland, perche ritenevano che il suo nome non costituisse un ri­ chiamo per il pubblico. Evidentemente, mi stavo scavando la fossa. In quest’avventura il mio sostenitore numero uno era il direttore di produzione dello studio; durante la secon­ da settimana di riprese lasciò la Universal e venne sostitui­ to. Ero consapevole di essere finito in un pasticcio morta­ le. Quello che a Hollywood si chiama musical chairs... ciò che accade quando i quadri principali passano continuamen­ te da uno studio all’altro... rappresenta un pericolo terribi­ le per noi registi. Si comincia un film con qualcuno che è entusiasta e ci si ritrova con un altro che vuol cambiare tutto. Ma vorrei tornare a ciò che lei giustamente stava dicen­ do a proposito del film italiano, anche se all’epoca non era­ no tutti così famosi come divennero in seguito: Claudia Car­ dinale, Renato Salvatori, Marcello Mastroianni, Vittorio Gas­ sman e Totò. Un gruppo favoloso. 11 mio cast era singola­ re, bizzarro e interessante, ma non aveva certo tutto quel brio. Naturalmente, avevo visto il film italiano diverse vol­ te, e mi ero reso conto che funzionava unicamente in virtù delle straordinarie prove degli attori... il fatto che fossero tutti così divertenti, e che si intendessero così bene. Avrei dovuto fare il film con un cast equivalente. Ma presi un’al­ 168

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tra strada... un grave errore. Ero contento di lavorare con questi attori, ma ero estremamente a disagio sul set. Conti­ nuavo a chiedermi: «Cosa ci sto a fare qui?». Si girava se­ condo i criteri hollywoodiani, con una troupe enorme; era così grande che mi ci volle tutto il film per riuscire a cono­ scere tutti quanti. Girammo gli esterni a San Francisco per diverse setti­ mane, poi tornammo negli studi dell’Universal. Non solo la troupe era immensa, ma cambiava di continuo... non i tecnici principali, ma i macchinisti, gli elettricisti, gli addetti agli effetti speciali che passavano a lavorare a un altro film. Entrai in contatto con un modo industriale di fare cinema che non riuscivo a padroneggiare. Francamente, credo di avere fatto un pessimo lavoro. Un regista mercenario, di ta­ lento, ma abituato a lavorare con le sceneggiature di qual­ cun altro e a essere ingaggiato all’ultimo minuto — e in Ame­ rica ci sono alcuni bravi registi che lavorano in questo mo­ do, e anzi sono la maggioranza — avrebbe fatto un lavoro migliore del mio. Quel soggetto era totalmente estraneo al mio senso del comico. Sarebbe troppo facile criticare l'o­ perazione in se stessa o la sceneggiatura... del resto, la sce­ neggiatura di Fiskin non era da buttare via. Solo che io non ero proprio abituato a lavorare in quel modo. Ero come l’in­ granaggio di una grande macchina, sentivo di non tenere in pugno la situazione. Disponevo del budget più grosso che abbia mai avuto, eppure sentivo costantemente l’urgen­ za di dover finire quel dato giorno, per poter andare subito altrove. Ebbi quindi meno libertà rispetto a La mia cena con André, o a qualsiasi dei miei film francesi, o anche ad Atlantic City. Poi cominciai il montaggio con Suzanne Ba­ ron, e poiché era un film degli studios, mi ritrovai con una quindicina di assistenti, mentre ero abituato a lavorare con uno solo, o al massimo con due. Fu una baraonda spaven­ tosa. Nel mettere insieme le scene ci rendemmo immedia­ tamente conto che il film non funzionava. Facemmo un pri­ mo montaggio; l’anteprima fu un disastro. Diventò un ve­ ro incubo, e mi costrinse in sala di montaggio per molto più tempo di quanto in realtà non volessi. Il film fu un fia­ sco. A qualcuno è piaciuto, ma non a molti. 169

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P.F. - Tuttavia in seguito ha realizzato un altro film che si colloca completamente in ambito americano e perfino hol­ lywoodiano. Alamo Bay rientra nella tradizione del film so­ ciale della Warner Bros. Darryl Zanuck, il creatore di tale genere alla Warner Bros, sosteneva di ispirarsi ai titoli dei giornali per i suoi melodrammi sensazionali. Anche lei tras­ se la storia dai titoli che i giornali dedicavano agli episodi di recrudescenza del Ku Klux Klan, e all’ostilità dei pesca­ tori locali del golfo del Texas, i rednecks, nei confronti dei profughi vietnamiti stabilitisi nella regione. L.M. - La cosa cominciò verso la fine degli anni settanta, e nei primi anni ottanta. Il film venne girato nel 1984. Men­ tre lavoravo a Moon over Miami, avevo letto sull’argomento diversi articoli che mi avevano interessato... in particolare quello scritto sul «New York Times Sunday Magazine» da un giornalista texano, Ross Miloy. Lo considerai estremamente rivelatore delle affascinanti contraddizioni america­ ne... l’idea che la guerra del Vietnam stesse continuando in suolo americano, in Texas. C’erano questi pescatori, dei cat­ tolici che erano fuggiti dal Vietnam con i loro preti per an­ darsi a stabilire nel golfo della Florida e in Texas. Quasi im­ mediatamente cominciarono a fare concorrenza ai pesca­ tori di gamberetti americani, ed essendo bravissimi nel lo­ ro mestiere, organizzati molto bene e laboriosissimi, diven­ nero una minaccia per la sopravvivenza economica dei pe­ scatori locali. C’erano stati incidenti. Il KKK si mosse im­ mediatamente e cercò di organizzare i pescatori e di inci­ tarli alla violenza. Quello che non smette mai di appassio­ narmi è il fatto di vedere come, spinta dalle circostanze, la gente faccia cose che normalmente non farebbe mai. D’im­ provviso le persone cambiano. Scoprono chi sono, e met­ tono a nudo il lato peggiore della loro personalità. È proprio quello che era accaduto in quei villaggi di pe­ scatori nel Texas meridionale. È la zona dei rednecks, una cultura curiosa, brutale, molto machista. La gente beve tan­ tissimo, va in giro con il suo camion, con il fucile da caccia dietro la testa, nella cabina, una cosa molto impressionan­ te per uno straniero. C’erano poi questi vietnamiti che era­ no

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no stati costretti ad abbandonare il loro paese perché ave­ vano combattuto al fianco degli americani, e che, ironia della sorte, si ritrovavano a essere denunciati come spie comu­ niste, il pericolo giallo che invadeva il Texas. Una situazio­ ne violenta, incresciosa, ma anche stranamente ambigua. Quei bianchi erano persone del tutto normali, che andava­ no in chiesa alla domenica. Non erano un branco di fascisti o di criminali, erano solo pescatori.

P.F. - Quei vietnamiti erano diventati per loro il capro espiatorio della situazione, come gli ebrei nella Germania degli anni venti e trenta per la gente avvilita dalle angustie economiche. L.M. - Esatto. Avevo qui la possibilità di risalire alle ra­ dici del razzismo. Quei vietnamiti erano diventati capri espia­ tori perché gli americani si sentivano minacciati. La situa­ zione economica di quei villaggi non era comunque buo­ na; avevano pescato troppo, e i gamberetti erano già in via d’estinzione. Quando giunsero i vietnamiti e cominciaro­ no a pescare a loro volta — lavorando qualche volta anche di notte — la collera esplose. Emersero in essa tutti gli ste­ reotipi del razzismo: i bambini vietnamiti pisciano per stra­ da; sono sporchi, vivono in dieci in una stanza; mangiano cibi disgustosi. Se lo si confronta con quanto è accaduto in Europa con gli ebrei, si riscontrano affinità impressionanti. Pensavo che fosse un’occasione per studiare ciò che sem­ brava essere uno schema universale. Quando andai per la prima volta in Texas, per conosce­ re Ross Miloy, era tornata la calma. Il clima era estremamente teso, ma c’era calma. Mi venne subito in mente di fare un giro con una 16 mm, ma era troppo tardi. Ross mi incorag­ giò a realizzare un film di fiction, e io gli ripetevo: «Forse sarebbe meglio se lo facesse un regista americano». Sapevo che mi sarei tirato addosso dei problemi e avevo deciso di lasciar perdere. Poi cominciai a lavorare a Crackers, un’e­ sperienza molto sfortunata dalla quale uscii con il bisogno di prendermi una rivincita. Avevo veramente voglia di fare un film a mo\io mio. Mi concentrai su quello che sarebbe di­ 171

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ventato Alamo Bay. Feci delle ricerche con Ross, poi mi rivolsi a una scrittrice, Alice Arlen.

P.F. - Senza dubbio le sarà piaciuto Silkwoocfi, ma fece questa scelta perché riteneva che la coscienza del film do­ vesse essere una donna che ritorna al suo paese, con un pun­ to di vista oggettivo sulla situazione locale? L.M. - Conoscevo Alice e mi piaceva ciò che faceva. Ave­ va scritto la sceneggiatura di Silkwood insieme a Nora Eph­ ron. Mike Nichols, il regista, mi aveva detto che gli era sta­ ta di grande aiuto. Aveva trascorso la sua infanzia nel Wyo­ ming, e conosceva bene l’ambiente dei rednecks. La portai nel Texas, dove la situazione era calma, ma ancora estre­ mamente tesa. Parlammo con la gente, compresi alcuni ame­ ricani che si erano schierati con i vietnamiti e avevano su­ bito delle minacce. Alice scrisse poi una prima bozza della sceneggiatura. Volevo lavorare in fretta. Avevamo preso co­ me nostro punto di riferimento quei film della Warner Bros di fine anni trenta, inizio anni quaranta. P.F. - La nascita di questo genere risale a molto prima: film come Io sono un evaso risalgono ai primi anni trenta. C’è anche quel film fatto da John Sturges a metà degli anni cinquanta, Giorno maledetto. C’è persino un certa somi­ glianza fisica tra Ed Harris e Rober Ryan. Entrambi hanno lo stesso modo di esibire la loro aggressività, indossano ber­ retti da baseball e hanno una relazione con una donna più giovane che incarna valori differenti. I due film parlano dei rapporti degli americani xenofobi del Sud-ovest, con i viet­ namiti in Alamo Bay, e con i nippo-americani nel film di Sturges.

L.M. - A dire il vero, Alice aveva proposto di adottare come modello, ma ribaltandolo, Mezzogiorno di fuoco. L’i­ dea era quella di riprendere il tema, utilizzato piuttosto spes­ so da Hollywood, dello straniero che arriva in un posto e non riesce a integrarsi. Ugualmente, un giovane vietnami­ ta, giunto in città con grandi aspettative, sarà adottato dai 172

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suoi compatrioti, ma essendo uno spirito aperto cercherà di diventare un vero americano. Alla fine del film, si ritro­ verà solo contro l’intera città. Ancora una volta, il personaggio principale del film sa­ rebbe stato un adolescente. Occorreva che si trattasse di uno sconosciuto. Per prima cosa esaminai alcuni attori vietna­ miti e sino-americani, ma non trovai nessun giovane abba­ stanza convincente. Così cercai per mesi e mesi nelle co­ munità vietnamite degli Stati Uniti. A una settimana dall’i­ nizio delle riprese, stavo ancora cercando il protagonista! Avevo scelto un giovane vietnamita, ma nonostante la sua aria intelligente e commovente, sapevo che sarei andato in­ contro a dei problemi. Notavo che era a disagio. All’ultimo mi misi disperatamente in cerca di qualcun altro ma, non trovando nessuno, dovetti iniziare con lui. Ero stato molto fortunato con Zazie, Soffio al cuore, Cognome e nome: La­ combe Lucien e Pretty Baby, ma questa volta sentivo che non avrebbe funzionato. Alice Arlen era rimasta per fortuna con noi sul set per modificare la sceneggiatura. Avevo questi due attori mera­ vigliosi, Ed Harris e Amy Madigan, che durante le riprese, e ancor più in fase di montaggio, diventarono i personaggi principali. Non era quello che avevo previsto. Era un tradi­ mento dell’idea originale, che consisteva nel prendere un giovane vietnamita e, attraverso ciò che viveva e vedeva, seguire l’evolversi degli avvenimenti.

P.F. - Ma facendo di Ed Harris e Amy Madigan i perso­ naggi principali, lei ha posto l’accento sui rapporti tra il mito dell’ovest, quale esiste in Texas, e il western stesso: il tito­ lo Alamo Bay6, la ripresa estremamente ironica del tema dei texani che si difendono, il razzista soprannominato Pear­ ce, con riferimento a «Shanghai» Pearce, un celeberrimo pro­ prietario di bestiame... Vi è anche questa caratteristica del western, secondo cui la voce della ragione è di solito quel­ la di una donna, e spesso quella dell’insegnante. Dato il ge­ nere, è inevitabile che alla fine ci sia violenza, e non credo che lei avrebbe potuto evitarla, se si considera la forma che aveva scelto. Lei lascia tuttavia sperare che i cattivi avran173

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no quello che si meritano, vinti non tanto dalla ragione ma da azioni violente, da un regolamento di conti. L.M, - Fin dall’inizio volli raccontare questa storia con­ formandomi alle regole richieste dal genere. Il film è così stilizzato da assumere un carattere quasi «operistico». Ne ero cosciente e mi sforzai di lavorare in questa direzione. È per questo che il film, credo, sarebbe stato più equilibrato se il ragazzo vietnamita fosse stato più convincente. La colpa è mia, poiché di solito riesco a creare personaggi originali e a trovare gli interpreti adatti. In questo caso, dovetti fare persino qualcosa che non mi piaceva gran che... 11 suo in­ glese era così difficile da capire — sebbene uno dei miei assistenti provasse tutti i giorni con lui le battute — che do­ vetti farlo doppiare interamente da un attore sino-americano, a New York. A dire il vero, questo aspetto ha funzionato. Ma le dimostra in che condizione mi trovavo. Avevamo que­ sto curioso triangolo con la donna al centro, un cattivo for­ tissimo e un eroe debole. A parte questo, devo dire che quando tutto fu finito ero soddisfatto del film. Credevo di essermi fatto capire bene, di essermi attenuto alla realtà, ri­ tenevo che la descrizione dei rednecks non fosse affatto ca­ ricaturale... sebbene fu proprio questo ciò che mi rimpro­ verarono i critici americani. I critici di New York e Los An­ geles non sanno nulla della cultura redneck. Quando finii il film, ne sapevo molto più di loro. Non mi aspettavo che il film dovesse essere accolto necessariamente bene, ma lo ritenevo assolutamente onesto. Crackers era stato ritirato immediatamente — per buo­ ne ragioni, a dire il vero. Fu un fiasco colossale, e sparì dal­ le locandine subito dopo essere uscito. Ho notato che i cri­ tici americani, quando parlano del mio lavoro, non men­ zionano mai Crackers. Sono molto cortesi. Alamo Bay uscì nel 1985, nel decimo anniversario della caduta di Saigon, e gli americani si sforzavano di riesaminare la guerra del Viet­ nam e di riconciliarsi con essa. Si era nel bel mezzo dell’era reaganiana. Non avrei potuto scegliere momento peggiore per l’uscita del film. Ma quello che non avevo previsto, an­ che se avrei dovuto pensarci, è che si mettessero a dire: 174

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«Ecco un regista francese che lavora in America, che è sta­ to trattato bene e che, d’improvviso, si occupa di un argo­ mento molto inquietante e di eventi poco edificanti della nostra storia recente». A dire il vero i critici di New York e Los Angeles demolirono il film senza utilizzare in realtà questo argomento, ma quelli delle città meno importanti, persone meno sofisticate, non esitarono a dirmi: «Si faccia i fatti suoi».

P.F. - Non aveva riscontrato quello stesso atteggiamen­ to mentre girava in Texas? Quale fu la reazione della gente del posto quando venne a sapere qual era il soggetto del film? L.M. - Sembrava quasi che fossero state riaperte le osti­ lità! Le riprese si svolsero in un clima molto teso. Si stava­ no riproponendo scene accadute quattro anni prima, ben­ ché avessi appositamente scelto un villaggio in cui non si erano verificati molti incidenti. Reclutai parecchia gente del luogo. A parte Ed, Amy, il giovane vietnamita e un paio di attori, tutti gli altri erano autentici pescatori. E, naturalmente, i vietnamiti erano tutti del posto. Entrambe le comunità era­ no ostili al progetto. Alla fine gli americani, o almeno alcu­ ni di loro, accettarono di comparire nel film per guadagna­ re un po’ di soldi. Recitarono alcune scene con un’intensi­ tà che aveva qualcosa di strano. La maggior parte di quelli che interpretavano gli estremisti, i pescatori che volevano cacciare i vietnamiti, erano totalmente d’accordo con i lo­ ro personaggi. D’altro canto, ebbi enormi difficoltà a convincere la co­ munità vietnamita a partecipare al film. Non ne volevano sapere; quando cercavo le comparse non si presentava nes­ suno. Dovetti convincere innanzitutto i loro preti del fatto che era importante realizzare questo film. Dovetti recarmi dal vescovo di Corpus Christi, in modo che la gerarchia cat­ tolica assumesse un atteggiamento positivo. Per fortuna, egli dimostrò di essere un uomo intelligente e mi fu di grande aiuto: andò a parlare coi vietnamiti chiedendo loro di col­ laborare con noi. Quando girammo la scena in cui il KKK 175

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brucia la croce per spaventare i vietnamiti, la tensione era altissima, le assicuro. Ricevemmo moltissime minacce anonime. Ed Harris e Amy Madigan arrivarono due settimane pri­ ma dell’inizio delle riprese e io fui impressionato dal modo in cui Ed, in pochi giorni, si inserì tra i pescatori divenen­ do uno di loro. Si integrò a tal punto nella loro comunità, diventando a sua volta un redneck, che ogni tanto dubita­ vo di avere a che fare con un attore. Gli americani sono bra­ vissimi in questo senso, ma a volte esagerano. Cominciò a bere e ad assumere comportamenti aggressivi nei locali, cosa che credo facesse parte del suo lavoro di immedesimazio­ ne nel personaggio. E questo ci aiutò, perché la gente del posto adorava Ed, erano tutti suoi amici. Amy e Ed sono liberali, nell’accezione americana del termine, hanno sem­ pre partecipato alle battaglie della sinistra. Eppure Ed stava in pratica prendendo le parti dei rednecks. Era quello che volevo... volevo dare loro la parola, dato che la presenza dei vietnamiti costituiva realmente una minaccia enorme per loro. Non è molto che sono tornato in quei posti a trovare Ross Milloy, che vive sempre ad Austin. Abbiamo rivisitato la costa ma non ci sono quasi più pescatori americani... so­ no scomparsi. E non ci sono quasi più gamberetti. Gli ulti­ mi pescatori rimasti sono vietnamiti. Sono molto più orga­ nizzati, lavorano con maggiore determinazione, e per que­ sto ce l’hanno fatta, negli Stati Uniti.

P.F. - Non mi pare che lei abbia minimizzato, nel film, il pericolo che essi rappresentano, né la loro indifferenza rispetto alle regole e alle leggi. Un’ultima considerazione sul­ la qualità delle immagini e del sonoro. Amy Madigan debuttò nel cinema con Strade di fuoco di Walter Hill, che lanciò anche Ry Cooder. Lei lo ingaggiò per questo film, insieme all’operatore Curtis Clark, che fino allora aveva fatto soprat­ tutto documentari.

L.M. - Mi è sempre piaciuta la musica di Ry Cooder, in concerto come nei film di Walter Hill. Era appena diventa176

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to famoso per la musica di Paris, Texas. All’inizio volevo della musica country. Feci persino un accordo con un edi­ tore di Nashville specializzato nel genere, che finì per in­ terpretare il personaggio del predicatore battista. Era entu­ siasta del film e avevamo cominciato a sovrapporre alle im­ magini dei brani di musica country scelti da lui. A quel punto mi accorsi che, per il suo carattere «operistico», il film ave­ va bisogno di una partitura originale... il che non mi capita molto spesso. Così andai da Ry, sentivo la necessità di una musica al tempo stesso popolare e intelligente, e lui fece un lavoro meraviglioso. Comprese benissimo il film. La scelta di Curtis Clark è legata in parte al fatto di di­ sporre di un budget piuttosto ridotto. Ci sono due sindaca­ ti negli Stati Uniti: l’IATSE, quello ufficiale, e il NABID, che è indipendente ed essenzialmente newyorkese. Avevamo deciso fin dall’inizio di rivolgerci al secondo perché c'era gente più giovane, disposta a lavorare in una troupe più ri­ dotta. Avendo un numero limitato di giorni per girare, sa­ pevamo anche che ci sarebbe stato molto lavoro straordi­ nario; potei portare in Texas un'eccellente troupe newyor­ kese. Curtis aveva cominciato la sua carriera di operatore in Inghilterra; avevo saputo che era tornato negli Stati Uni­ ti e che per di più era texano. Avevo ammirato molto il la­ voro che aveva fatto con Peter Greenaway, in particolare in / misteri del giardino di Compton House. Così decisi di ingaggiarlo. Era il suo primo film americano e, da allora in poi, continuò a lavorare negli Stati Uniti. Non so cosa dire. Non andammo molto d’accordo, ma è un ottimo operatore. Ho sempre avuto problemi con gli operatori lenti. Di ra­ do lavoro con loro. Una cosa che ammiro nei grandi ope­ ratori con cui ho lavorato — persone come Henri Decaé, Sven Nykvist, Tonino Delli Colli o, recentemente, Renato Berta — è che sono veloci. Prima di cominciare il film, di­ scutiamo a lungo l’illuminazione, e poi tutto va da sé. Mi piace tenere il ritmo. A mio parere è fondamentale, con gli attori, seguire il loro ritmo. Odio lavorare con un operato­ re che cambia le luci durante le riprese; molti operatori ame­ ricani lo fanno, e anche alcuni francesi, a dire il vero. Stai 177

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per cominciare a girare, sono tutti al loro posto... e a quel punto l’operatore chiede venti minuti per cambiare le lu­ ci... per me è qualcosa di inaccettabile. E questo che ha re­ so un po’ difficile il mio rapporto con Curtis, è sicuramen­ te ingiusto da parte mia, perché secondo i canoni america­ ni lui non è affatto lento. P.F. - Prima di Alamo Bay, e anche di Atlantic City, nel 1979 ha girato un documentario in una cittadina del Min­ nesota, chiamata Glencoe. Lo montò e lo fece uscire solo nel 1986, con il titolo di God's Country, dopo essere tor­ nato in quel luogo per aggiungere un breve epilogo. In se­ guito realizzò un altro documentario americano, Alla ricerca della felicità. Qual era, allora, il legame tra questi due do­ cumentari e i suoi film di fiction americani?

L.M. - Nel corso degli anni sessanta e settanta avevo gi­ rato diversi documentari: quelli sull’india, Umano, troppo umano e Place de la République, del 1972. Dopo i film in­ diani, avevo sempre avuto l’intenzione di alternare la fic­ tion e i documentari. Gran parte dei miei film francesi do­ po Fuoco fatuo sono ambientati nel passato. Mi pareva di avere bisogno, per la fiction, di una certa distanza tempo­ rale. Non era una scelta consapevole, ma mi era sempre par­ so più facile trattare un tema, un soggetto o una storia ap­ partenenti ai passato, perché questo mi avrebbe dato una visione migliore e un approccio più lucido a quello che stavo cercando di fare. Nella fiction, è pericoloso parlare del pre­ sente: si è influenzati dall’attualità. Avevo bisogno della di­ stanza che dà il tempo. Come antidoto a questo, dato che ero curioso di quello che mi succedeva intorno, pensavo di poter affrontare meglio il presente con il cinéma direct, in 16 mm, nella forma del documentario.

P.F. - Che differenza c’è tra cinéma direct e cinéma vérité? L.M. - Beh... cinéma vérité non è un’espressione che mi piace usare; il cinema-verità è un cinema-menzogna; il ci178

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néma vérité ha delle implicazioni morali, presume di defi­ nire la verità, il che è molto pretenzioso e spesso non vero. Mi piace invece l’espressione cinema direct perché si rife­ risce essenzialmente a una tecnica. Ciò che definisco cinéma direct è un genere di documentario in cui tutto è im­ provvisato, si lavora con una troupe ridotta al minimo, e non si tenta di organizzare la realtà; ma ci si lascia sempli­ cemente andare nella direzione in cui si è spinti dalla pro­ pria curiosità... Si cerca di filmare dal vivo tutto quello che sembra interessante o sorprendente, dopo di che, in sala di montaggio, si fa in modo di dargli un senso. È un cine­ ma d’istinto, di improvvisazione, un cinema veramente al presente. Quando accade qualcosa, si cerca di catturarlo. Successivamente, si esamina il materiale cercando di capi­ re perché lo si è ripreso in quel modo. Questa è la mia defi­ nizione personale. Mi sembra che il termine cinéma direct sia il modo migliore per descrivere ciò che cercai di fare in India o nei documentari realizzati in Francia nel 1972, o più tardi, in America. Girai God's Country nella primavera del 1979, l’anno prima di Atlantic City. Avevo lavorato a un progetto di fic­ tion di cui non ero soddisfatto, e la prima reazione degli studios e dei finanziatori non mi aveva incoraggiato. Nel frat­ tempo, mi aveva contattato Susan Weil, che all’epoca era direttrice dei programmi P.B.S.7, che mi aveva detto: «Louis, noi ammiriamo molto i suoi documentari e, se le interessa, ci piacerebbe che ne realizzasse uno in America». Così tornai a trovarla. Avevo scelto il soggetto: volevo stu­ diare il fenomeno americano degli shopping malls^. All’e­ poca, nel 1979, non erano più una vera novità, ma per un europeo si trattava di scoperta. Lo shopping mali era stato inventato in Minnesota per la semplice ragione che lì, d’in­ verno, fa un freddo terribile, ed era diventato quasi una sorta di microcultura. Avevo letto un paio di saggi interessanti su come era nata l’idea degli shopping malls, sulla loro ar­ chitettura, i loro aspetti economici e sociologici. Dissi a Su­ san Weil che non avrei avuto bisogno di molto denaro per girare il film. Qualcosa come 50.000 dollari. Radunai una piccola troupe, cinque persone in tutto, e 179

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andammo a Minneapolis, dove cominciammo a visitare que­ sto tipo di negozi. Avevo anche deciso di stare io stesso al­ la macchina da presa. Nei miei precedenti documentari, ave­ vo avuto la fortuna di avere con me Étienne Becker, che era diventato direttore alla fotografìa, ma non credo che avesse voglia di venire a lavorare negli Stati Uniti. Dato che in questo genere di film tutte le decisioni importanti ven­ gono prese dall’operatore, pensavo che forse sarebbe stata una buona soluzione. Avevo scoperto che il fatto di tenere io stesso la macchina da presa dava una dimensione ulte­ riore al mio lavoro e rendeva i rapporti con la gente che filmavo più personali e più intimi di quanto non sarebbe stato se fossi rimasto accanto all’operatore o ne avessi te­ nuta un’altra, come facevo in precedenza. Una volta in Minnesota, mi resi conto che quell’idea degli shopping malls non avrebbe mai funzionato per un’unica, stupidissima ragione: la musica in sottofondo; faceva parte dell’ambiente e non s’interrompeva mai. Queirassurda e or­ ribile musica non era forte, ma lo era comunque abbastan­ za per noi. Sarebbe stata sempre presente sullo sfondo, e nessun tipo di montaggio sarebbe mai stato possibile, dato che la musica sarebbe stata continuamente tagliata. Cercai di convincere il direttore di uno di questi malls a toglierla, ma rifiutò perché per lui uno shopping mali senza musica non è più uno shopping mali. Diceva che ne avrebbero ri­ sentito gli affari. Mi trovavo così in Minnesota con la mia piccola troupe e un furgoncino. Dissi: «Perché non diamo un’occhiata in giro? Magari troviamo qualcosa di interes­ sante». Non era stato un caso se avevo scelto il Minnesota. Sapevo che vi avrei trovato gli shopping malls, ma mi inte­ ressava anche il Middle West in sé, una zona rimasta fonda­ mentalmente rurale, con una popolazione composta da emi­ grati europei: scandinavi, tedeschi, polacchi e lituani. Inol­ tre, il Middle West ha qualcosa di mitologico: in America è considerato come il paese autentico, con gente e valori autentici... a parte che non ci va mai nessuno, soprattutto la gente che fa film. Ci volano sopra viaggiando tra New York e Los Angeles, ma non ci si fermano mai. Decisi di andare in cerca di una comunità rurale, di co­ 180

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noscere la gente del posto, parlare con loro, e infine ripren­ derla. Cominciammo andando a caso, per le strade; filmam­ mo diverse cose, ci fermammo per un po' in una città mi­ neraria. Si andò avanti così per tre settimane, e stavo co­ minciando a preoccuparmi, finché non entrammo nella bor­ gata di Glencoe. Era domenica e c’era la sagra annuale. Il luogo contava circa cinquemila abitanti, e tutti erano in stra­ da; un’orchestra suonava la tradizionale musica tedesco­ polacca per fisarmonica. Tutti ballavano e bevevano birra a fiumi. La maggior parte della popolazione di Glencoe era di origine tedesca. Quel pomeriggio cominciammo a girare: le persone, i giochi. 11 primo impatto fu eccellente. Gli abitanti erano al­ legri e cordiali. Ci fermammo tre o quattro settimane. Quel primo giorno, dato che erano tutti per strada intorno all’or­ chestra, conoscemmo parecchia gente. Avevamo preso i loro numeri di telefono; il giorno dopo andammo fuori città a trovare un agricoltore e gli chiedemmo se potevamo ripren­ derlo mentre lavorava, con la sua famiglia, la sua casa. Ec­ co come cominciammo. Ero molto incuriosito da quella gente. Erano assai più interessanti di quanto non mi aspettassi, forse perché si pen­ sa sempre che gli abitanti del Middle West siano persone molto convenzionali — il che è vero in un certo senso —, che vivono in comunità molto chiuse in se stesse, molto osservanti. Tutti questi luoghi comuni sono veri, ma rispon­ dono a una visione semplificata delle cose. Adottai un mo­ do di girare vagamente ironico, ma in realtà mi ero inna­ morato di quella gente. Del resto erano intelligenti, talvol­ ta estremamente consapevoli di quello che stava accaden­ do nel mondo, ed era un periodo in cui le cose andavano bene per gli agricoltori. Era una piccola comunità econo­ micamente florida. Ebbi meravigliose sorprese. Per esem­ pio, quel piccolo agglomerato sperduto nel cuore del Min­ nesota aveva un teatro, dove venivano rappresentate le pie­ ces che scriveva una donna straordinaria, la moglie di un avvocato. Ci si offrì anche la possibilità di filmare un matri­ monio; fu divertentissimo. Vissi un periodo straordinario. Vi ritrovai anche echi della guerra del Vietnam. Non po­ 181

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tevo fare a meno di notare che in quella comunità non c’e­ rano neri; solo qualche messicano, braccianti, famiglie più o meno di passaggio. Finimmo con il parlare di politica. No­ tai alcune tracce di razzismo, un razzismo moderato, se co­ sì si può dire. Mi ricordo un giovane agricoltore, uno di quel­ li che mi piacevano di più; quando gli chiesi perché non ci fossero neri in quella comunità, rispose: «Beh, sembra che ai neri questo posto non piaccia, non restano, non sem­ brano quadrare con questo posto». Alla gente sembrava nor­ male che non ci fossero neri. P.F. - Ha cercato sia di non esprimere giudizi, sia di te­ nere a mente certi precedenti che non desiderava emulare: quei documentari condiscendenti e sensazionalistici che fan­ no spesso gli europei sull’America, come quelli di Francois Reichenbach 9. Meno brutti di Mondo Cane, per esempio, ma che ricercano il colore locale, il bizzarro, e che riesco­ no spesso a trovare prove a conferma della loro personale visione degli americani.

L.M. - È certo che Francois Reichenbach e io abbiamo una sensibilità completamente diversa; non credo che ci in­ teressino le stesse cose. L’aspetto più interessante di Glen­ coe era che fosse una cittadina in cui non accadeva nulla. Per un documentario era un soggetto disperato, proprio co­ me quando ero andato in Thailandia. Quella gente era di­ stante dai centri di potere, così lontana da tutto, e sotto ogni possibile punto di vista... ma era proprio questo ciò che mi attraeva. Personalmente, la parte che di tutto il documentario pre­ ferisco è quella che riguarda una ragazza che lavorava in un ufficio. L’avevo conosciuta a teatro, recitava in una com­ media e le avevo detto che mi sarebbe piaciuto parlare con lei. Così, nel week-end andammo a trovarla a casa sua, e discutemmo a lungo su ciò che significava per una donna vivere a Glencoe, sul fatto che c’era ancora una cultura mol­ to maschilista, di come per una donna fosse quasi impossi­ bile una libera vita sessuale, di come non venisse accettata l’omosessualità... se uno era omosessuale doveva lasciare 182

L'esperienza americana

Glencoe, andarsene era l’unica soluzione. Cominciò a par­ lare della sua esperienza, a esprimere una certa amarezza; quando montammo il film, la chiamammo «Madame Bova­ ry di Glencoe». Aveva dei sogni, avrebbe voluto avere una vita più interessante, detestava quel paese per la sua men­ talità limitata. Era una ribelle. Alla fine, si trasferì in Flori­ da. Per un certo periodo ci siamo scritti: per questo so che cosa ne è stato di lei. Mi ero seduto sul suo letto accanto a lei, con la teleca­ mera. Il suo viso era illuminato di sbieco, solo dalla luce della finestra. Cominciammo a parlare e divenne una sorta di confessione. Giravo bobina dopo bobina. Mi resi conto che il fatto di tenere io stesso la cinepresa aggiungeva qual­ cosa. Era come se lei conversasse con la macchina da pre­ sa, come se fosse questa a farle le domande. E lei racconta­ va, si confidava con essa: se avesse parlato con me non sa­ rebbe stata la stessa cosa. Il fatto di guardare la macchina da presa, faceva sì che ci fosse qualcosa in lei, un modo di dire certe cose, che rendeva l’esperienza ancora più intima e a volte inquietante. Quando finì, ebbe improvvisamente un attimo di paura e disse: «Non avrei mai pensato di rac­ contarle tutto questo». Risposi: «Va benissimo. Si fidi, ne verrà fuori qualcosa di buono». Nel film lei è formidabile, molto commovente ed estremamente interessante. Poi tornai a New York, cominciai Atlantic City e misi tutto da parte. Avevo detto alla P.B.S.: «Non c’è fretta. Fa­ rò Atlantic City e quando l’avrò finito monterò God's Coun­ try». Gli ci vollero quasi cinque anni per trovare gli altri 50.000 dollari di cui avevo bisogno per il montaggio, il che è tipico della P.B.S. Dopo Alamo Bay, cominciai a pensare ad Arrivederci ragazzi. Ma nel frattempo, nel 1985, decisi di montare God's Country. In realtà Suzanne Baron aveva già fatto, a Parigi, un primo montaggio lungo. Avevamo circa due-tre ore di pellicola. Decisi di rimontarlo e di colpo mi resi conto che erano trascorsi sei anni da quando ero stato a Glencoe, e che era necessario che ci ritornassi. Così vi tornai, e rimasi circa una settimana. Dato che ave­ vo iniziato il montaggio, avevo individuato i passaggi più interessanti, sapevo quali persone sarebbero entrate nel film 183

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e volevo sapere che ne era stato di loro. Quando tornam­ mo a Glencoe, gli agricoltori americani erano in piena crisi economica; si era a metà dell’era reaganiana e sembrava che tutto dovesse crollare. Gli agricoltori fallivano ed erano co­ stretti a vendere le fattorie. Il clima era molto diverso, cu­ pissimo: interrogai le stesse persone, che mi dissero: «Va malissimo, non so se ce la caveremo». Uno degli agricolto­ ri che avevo filmato aveva venduto e se n’era andato. La mia amica, Madame Bovary, era in Florida. Ritorno a Glen­ coe, di tanto in tanto. Sono ancora in buoni rapporti con tutti quanti. P.F. - Quando vi tornò, stava montando un’ondata im­ provvisa di paranoia, nutrita persino di rigurgiti antisemiti, tra alcune persone che aveva conosciuto, e questo riecheggia Alamo Bay. Era un’anticipazione del film di Costa-Gavras, Tradita, con gli agricoltori di destra del Middle-West che si organizzano.

L.M. - È sempre la stessa storia. Quando ci sono delle disgrazie, si cerca un capro espiatorio. Ricordo la sorpren­ dente dichiarazione di uno degli agricoltori, che nel 1979 era piuttosto ricco. Aveva delle difficoltà finanziarie, poi­ ché dovette fare troppe spese, e cominciava a dare la colpa agli intermediari, ai grossisti, agli ebrei. Erano decisi a ri­ bellarsi al governo, se necessario. Erano molto ostili a Wa­ shington. Benché fosse un feudo repubblicano, erano ama­ reggiati e ce l’avevano con Reagan che li aveva abbandona­ ti. Riaffiorava l’ideologia di estrema destra. Non me l’aspet­ tavo, perché erano persone molto tranquille e piene di buon senso.

P.F. - Dopo aver studiato gli «indigeni» americani e i lo­ ro problemi in God's Country, passò ad occuparsi, con Al­ la ricerca della felicità^, della nuova ondata di emigran­ ti. Voleva così approfondire, nel registro del documenta­ rio, i due aspetti di Alamo Bay, che aveva girato tra i due film? 184

L'esperienza americana

L.M. - Quando tornai a Glencoe nel 1985, la gente era così amareggiata che se la prendeva con tutti: il governo, gli ebrei, gli stranieri, e in effetti, si poteva rinvenire, in que­ sto, un’eco della drammatica storia di Alamo Bay. Se rea­ lizzai un documentario sugli emigranti recenti all’inizio del­ l’anno successivo, fu perché ero io stesso una specie di emi­ grato. Un emigrato di lusso, certo, ma capivo cosa signifi­ cava essere straniero in America. Il mio interesse era natu­ ralmente rivolto a coloro che cominciavano dal gradino più basso della società americana e al loro modo di esserne coin­ volti. Senza dubbio, la mia curiosità per i vietnamiti di Ala­ mo Bay veniva in parte da questo.

P.F. - God's Country era il risultato di un viaggio di esplo­ razione che aveva intrapreso senza sapere cosa avrebbe tro­ vato, e del suo incontro con una comunità che divenne il fulcro del suo film. Nel caso di Alla ricerca della felicità non aveva una tesi da sottoporre, ma semmai una doman­ da da fare. L.M. - Avevo un tema, un piano. Originariamente, Alla ricerca della felicità era molto diverso. Tutti i miei docu­ mentari sono stati fatti più o meno casualmente; prendevo una macchina da presa e andavo in un luogo che desidera­ vo conoscere. Nel caso di Alla ricerca della felicità... era l’inizio del 1986... stavo già pensando di tornare in patria. Avevo cominciato a prendere appunti per Arrivederci ra­ gazzi, che scrissi nell’estate successiva. Ma volevo restare ancora un po’ negli Stati Uniti perché nel novembre del 1985 era nata mia figlia Chloé, e non volevo lasciare Candice e la bambina. Nello stesso tempo ero ansioso di riprendere il lavoro. Si stava per celebrare il centenario della statua della libertà e l’HBO, la televisione via cavo, mi chiese se mi sa­ rebbe interessato fare qualcosa sull’argomento. Erano sta­ te organizzate moltissime commemorazioni sul tema degli immigrati e di Ellis Island. Incontrai quelli della HBO e dis­ si loro: «Se farò qualcosa sugli immigrati, non riguarderà Ellis Island, né il passato, né le navi cariche di polacchi, ebrei, russi, tedeschi e italiani. Voglio parlare dell’emigrazione di 185

il mio cinema

oggi e degli immigrati attuali». Ricordavo di essere andato a Dallas per il casting di Ala­ mo Bay e, giunto all’aeroporto con il mio assistente, di es­ sermi imbattuto in un taxista etiope. Cominciammo a par­ lare; trovavo veramente curioso che un taxista di Dallas fosse etiope. Mi disse che ce n’erano moltissimi laggiù. Feci una piccola ricerca e scoprii che c’era un’importante comunità etiope e che c’erano anche dei ristoranti etiopi nel centro di Dallas. Erano loro che volevo filmare... gli immigrati re­ centi che provenivano dall’America latina, dall’Africa, dal­ l’Asia. «Si sa tutto sull ’immigrazione europea», dissi alla HBO, «è cosa passata, ormai». Furono d’accordo. Era il gennaio 1986 e avevo promesso di consegnare il film abbastanza presto perché potesse essere trasmesso per il 4 luglio. Quindi non avevo molto tempo. Il budget era consistente, e potei permettermi una troupe più numero­ sa. Girai nello stesso modo di God’s Country: operavo alla macchina da presa con l’aiuto di un assistente; c’era un tec­ nico del suono, uno della produzione e basta. Ma c'erano diverse persone che mi aiutavano nelle ricerche e nelle ri­ cognizioni. Cominciammo a girare quasi subito. In gennaio ripresi l’arrivo dei rifugiati cambogiani al Kennedy Airport. Poi andai in Florida per filmare i cubani e gli asiatici... Fu lì che ebbi un divertente incontro con la famiglia Somosa... tornai a lavorare con i montatori, mentre i ricercatori pro­ seguivano nelle loro indagini. Andammo in California e per­ fino in un angolo sperduto del paese, nel Nebraska occi­ dentale, solo per incontrare un medico vietnamita che vi­ veva laggiù. P.F. - Lo trovò per caso, mentre intervistava un emigrante greco arrivato in Nebraska nel 1907?

L.M. - Oh, sì, fu assolutamente casuale, ma quel dottore era l’unico vietnamita nel giro di cento miglia. In compen­ so, c’erano moltissimi immigrati europei di antica stirpe in quella parte della regione, greci compresi. P.F. - C’è un contrasto tra God's Country, con il suo epi186

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logo del 1986, e Alla ricerca della felicità, e cioè il grande ottimismo di questi immigrati di fresca data, contrapposto alle angosce e alle incertezze di tanti americani. L.M. - Sì, Alla ricerca della felicità è un film interessan­ te e mi piace molto, ma preferisco God's Country perché è più vicino a ciò che amo realmente nel campo del docu­ mentario... Adoro filmare a casaccio ed è una cosa che mi è sempre riuscita bene. P.F. - Ci sono punti in comune tra i due lavori. Ritornia­ mo adesso al 1972, l’anno di Umano, troppo umano e di Place de la République. Quest’ultimo è un esercizio di quel cinema direct che ha descritto... essere sul posto e fare sco­ perte casuali. A un certo punto ha persino passato il micro­ fono a una donna per lasciarle condurre le interviste e par­ tecipare al film. D’altro canto Umano, troppo umano, per come lo si vede sullo schermo, sembra un film molto for­ male a livello di struttura, del tipo di osservazione e di mon­ taggio. Sembra diviso in tre parti. Comincia quasi come la parodia di un film tradizionale su un processo industriale... è montato ritmicamente, mostra degli operai che lavorano in gruppo alla realizzazione di un prodotto finito. Lei se­ gue l’intero processo: dalla prima lastra d’acciaio all’auto­ mobile, il salone automobilistico e la gente che esamina il prodotto. La seconda parte, separata dalla precedente gra­ zie alle immagini dei potenziali acquirenti che guardano la macchina, è quasi una decomposizione della prima. Il mon­ taggio è molto differente. Si vedono gli operai ripresi a ca­ so nell’officina, i loro piedi, si sente il peso che incombe su di loro. Le domande che vengono sollevate nella prima parte — perché non sentiamo cosa pensa questa gente del suo lavoro? — trovano risposta visiva nel montaggio e nel­ la fotografia della seconda parte. È una interpretazione cor­ retta del film?

L .M. - Si era all’indomani del maggio 1968, nel momen­ to in cui molti studenti estremisti erano riusciti a infiltrarsi in fabbriche come la Renault, allo scopo di politicizzare gli 187

Il mia cinema

operai. Ma non avevo intenzione di fare un film ideologi­ co. Nessuna propaganda di alcun genere. Umano, troppo umano è l'unico dei miei documentari privo di commen­ to. Non volevo che lo spettatore udisse la mia voce. Lo sco­ po del film era solo quello di trascorrere una settimana in quella fabbrica Citroen, il che fu difficilissimo a causa della diffidenza della direzione. L’avevo scelta perché era la più moderna, quella che aveva la catena di montaggio più nuo­ va del paese. Nelle fabbriche intorno a Parigi, come la Renault e gli altri stabilimenti della Citroen, la maggior parte degli ope­ rai erano immigrati. La Citroen si era invece insediata a Ren­ nes, nel cuore della Bretagna, sapendo che sarebbe stato facile trovarvi la manodopera: il 95 % dei contadini del cir­ condario stava attraversando un periodo diffìcile, e molti di loro lavoravano alla catena di montaggio mentre le mo­ gli mandavano avanti il podere. Erano quasi tutti francesi. Nel complesso, erano soddisfatti. Per dei contadini, si trat­ tava di un lavoro ben pagato. 1 sindacati erano poco attivi. In un certo senso, era il trionfo del capitalismo. A differen­ za di altre fabbriche, in particolare quelle intorno a Parigi, tra la direzione e gli operai non c’era tensione. Tutto era moderno e pulito. 11 primo giorno non girammo nulla, ci limitammo a guar­ dare. Avevo detto all’operatore e al tecnico del suono: «Fa­ remo solo campi lunghi, sarà molto ripetitivo ma è proprio così che deve essere. Restate sulla stessa persona che ripe­ te venti volte gli stessi cinque gesti. Non taglieremo nulla perché deve diventare ossessivo». Volevo che lo spettato­ re uscisse dal cinema fisicamente prostato, come se avesse lavorato otto ore di seguito. La colonna sonora era volutamente fragorosa, restituiva l’impressione che si prova in que­ sti immensi capannoni dove a malapena riesci a sentire la tua stessa voce. Volevo trasmettere un senso fisico di fatica e di noia — l’aspetto totalmente disumano di una catena di montaggio — senza doverlo esprimere a parole, ma solo mostrandolo, in modo molto diretto, con le immagini e il suono. Umano, troppo umano e Place de la République ven­ 188

L esperienza americana

nero proiettati in un cinema di Parigi subito dopo l’uscita di Cognome e nome: Lacombe Lucien. Ricordo di aver proiettato Umano, troppo umano in un’università dove gli studenti erano molto impegnati, e di essere stato attaccato da tutte le parti: «Perché non ha denunciato il sistema?». Im­ mediatamente, altri studenti furono di parere opposto per­ ché ritenevano che il film avesse raggiunto lo scopo. Ma i militanti mi rimproverarono di non schierarmi con le pa­ role, al contrario di ciò che stava facendo in quegli anni Go­ dard.

P.F. - Nel 1970, Godard aveva realizzato un film, Bri­ tish Sounds, sulla Ford di Dagenham, giudicato dalla tele­ visione inglese troppo tedioso per essere trasmesso. L.M. - Lo ricordo molto bene. Citava spesso Marx e c’e­ rano alcuni splendidi carrelli. Avevo cercato di spiegare a quegli studenti che, non dando giudizi, non schierandomi apertamente, e invece mostrando le cose e facendo intuire allo spettatore cosa significasse restare otto ore in piedi ri­ petendo gli stessi movimenti, facendoglielo sentire nel corpo e nella testa, il mio film era molto più forte di quanto non sarebbe stato se avessi detto tutto questo con le parole. Inol­ tre, il film aveva anche una sua singolare bellezza. Faceva pensare a quei film sull’industria degli anni trenta, o persi­ no a Tempi moderni, se si vuole; era la bellezza del mondo industriale, ma completamente deformata. Quando lo mon­ tammo, cominciando dall’enorme lastra d’acciaio che si sro­ tola, pensai che vi fosse in questo qualcosa di religioso, co­ me un rituale. Ecco perché inserii all’inizio un canto gre­ goriano. È il mio solo intervento soggettivo, per cercare di dare allo spettatore l’impressione che ci fosse in tutto ciò che avevamo ripreso una strana sacralità. Non avevo alcuna idea preconcetta, non sapevo neppure cosa avrei trovato, né se gli operai si sarebbero lasciati fil­ mare. Mi sembrava interessante mostrare una catena di mon­ taggio al massimo della sua efficienza, come era tipico del­ l’epoca. Al giorno d’oggi, vent’anni dopo, ci sono solo dei robot e la catena di montaggio è quasi scomparsa. A quei 189

Il mio cinema

tempi la robotica non esisteva, e in pratica non era mutato nulla da quando Ford aveva inventato la catena di montag­ gio. So bene che sono immagini dure da sopportare. Eppu­ re, nulla in esse è deformato o reso in modo caricaturale.

P.F. - Parlando di Alla ricerca della felicità, lei si è defi­ nito un emigrato di lusso. Sono parecchi i registi francesi che hanno lavorato in America — Duvivier, Clair e Renoir, in esilio durante la guerra, per esempio — ma l’unico che si sia veramente affermato prima della guerra è stato Mauri­ ce Tourneur. Lei è quindi il solo della sua generazione a es­ sersi stabilito là, eppure si considera ancora un emigrante. Pensa in inglese quando parla questa lingua? E ha sempre la sensazione di essere un outsider nella società americana? L.M. - Dire outsider è eccessivo, dopo tutto il tempo che ho trascorso là, specialmente tra il 1978 e il 1986. Non ho mai voluto diventare un cittadino americano, benché pro­ babilmente mi sarebbe stato facile. Non mi pareva che ce ne fosse motivo. Prenda l'esempio di Maurice Tourneur, che è diventato un regista americano al pari di Billy Wilder, o dell’alsaziano William Wyler. Questa gente arrivò in Ame­ rica giovanissima. Quando io andai in America, avevo più di quarant’anni, avevo molti film alle spalle ed ero già co­ nosciuto come regista francese. Anche se avevo deciso di restare parecchi anni in America, sentivo che per me era importante conservare un’angolazione leggermente diver­ sa, cercare di restare un osservatore della società americana. Trovo estremamente interessante la posizione dell’espatriato. In letteratura, per esempio, ci sono molti scrittori che si sono deliberatamente messi in questa situazione: Henry James o Joseph Conrad per esempio. Da parte mia, ho cer­ cato di osservare, con il mio lavoro nel campo della fiction o del documentario, ciò che stava succedendo negli Stati Uniti. Pensavo di dovere conservare la mia diversità, il fat­ to di non essere nato e cresciuto in America. Mi è capitato spesso di chiedere a John Guare o a Candice spiegazioni su ciò che avevo visto o letto sui giornali; volevo capire me­ glio quello che succedeva e a volte loro mi rispondevano: 190

L esperienza americana

«In fondo è vero, non ci avevo mai pensato». Quando si è nati all’interno di una cultura, si ha la tendenza a dare tut­ to per scontato. Allo stesso modo, in Francia, gli amici stra­ nieri mi comunicano le loro osservazioni ed io sono costret­ to a riconoscere di non averci mai pensato. Nella propria cultura, ci sono delle stranezze alle quali non si fa caso per tjgta la vita. Durante il mio soggiorno negli Stati Uniti, mi convinsi che non dovevo diventare un regista americano, che dove­ vo restare un regista europeo che lavorava negli Stati Uniti. A un certo punto, divenne difficile. Ricordo che, quando tornavo in Francia, mi sentivo talvolta lontanissimo dai re­ centi avvenimenti o dalle trasformazioni della società fran­ cese. Ero molto più aggiornato su ciò che stava accadendo negli Stati Uniti. Naturalmente il problema della lingua è cruciale. Non credo al bilinguismo, e non credo che diventerò mai com­ pletamente bilingue; e se ciò avvenisse, sarebbe un grosso rischio. La lingua madre è legata all’infanzia, agli anni della formazione: è la lingua che gioca il ruolo essenziale per noi, il nostro riferimento. Per me, ovviamente, è il francese. Cer­ to, dato che a volte passano mesi prima che torni a parlare nella mia lingua, mi metto a pensare in inglese. Quando so­ no tornato in Francia e ho cominciato a scrivere la prima stesura di Arrivederci ragazzi, mi sorprendevo a comin­ ciare una frase in francese e a finirla in inglese. Si è sempre in cerca del termine giusto e a volte viene più facilmente in un’altra lingua. Qualcosa di molto inquietante, e vi misi presto fine. Quando prendo appunti... su un’idea, un sogno o un film che ho visto... non tengo un diario, ma ho mucchi di brevi appunti classificati totalmente a caso... quando li rileggo, mi accorgo che sono scritti in entrambe le lingue. È assur­ do, ma mi viene così. Non elaboro veramente le mie frasi. Mi limito a buttar giù quello che mi passa per la mente: a volte è tutto in inglese, altre in francese, altre ancora in en­ trambe le lingue. È pericoloso, c’è il rischio di diventare schi­ zofrenici. Non riuscirei mai a scrivere completamente in in­ glese, e non lo vorrei neppure, del resto. Posso lavorare a 191

Il mio cinema

una sceneggiatura o scrivere un adattamento in inglese, co­ me ho fatto di recente, ma non mi sognerei mai di scrivere dei dialoghi in questa lingua, come faccio in francese. Un dialogo deve avere una sua personalità e io non sono vera­ mente capace di scrivere un inglese interessante. P.F. - Ma è in grado di giudicare, leggendolo, se un dia­ logo è buono. L.M. - Questo sì. Mi ci è voluto un po’ per riuscire a di­ rigere in inglese gli attori con la stessa intensità e precisio­ ne con cui lo faccio in francese. Credo di aver superato que­ sto handicap prima di Atlantic City. Ma quando stavo gi­ rando Pretty Baby, a New Orleans, mi ci volle del tempo per rendermi conto, ad esempio, che non esisteva solo un accento meridionale. Nei film hollywoodiani l’accento del Sud assunto dagli attori è convenzionale, come l’accento marsigliese per i francesi... ed è grossolanamente caricatu­ rale. Mentre ero alla ricerca di luoghi per le riprese nel Sud, scoprii che esistono almeno venti tipi di accento meridio­ nale. Ed è stata una sorpresa scoprire che la gente di New Orleans aveva in realtà, per motivi che non ho mai capito, una specie di accento di Brooklyn che non ha nulla a che fare con l’accento meridionale. P.F. - Facendo documentari, avrà scoperto tipi diversi di accento e di inflessione nel parlare.

L.M. - Sì. E tornando a Alla ricerca della felicità, uno dei più grossi problemi che ho avuto me lo crearono le per­ sone che filmavo. Il loro inglese era in genere spaventoso. Talvolta capivo a malapena e sapevo che sulla colonna so­ nora sarebbe stato anche peggio. Quando qualcuno diceva cose interessanti, ma difficili da capire, dovevo più o me­ no ripeterle nel commento. Naturalmente, .è un modo ec­ cellente per imparare a conoscere un paese e la sua lingua. La maniera in cui parla una persona, la lingua che usa, dan­ no un’ottima idea del suo ambiente sociale, della Sua cultu­ ra; e naturalmente i ritmi, le esitazioni, le difficoltà di espres­ 192

L'esperienza americana

sione sono estremamente rivelatori. È così che si giunge a conoscere gli altri, e farlo con una macchina da presa e un registratore è un modo meraviglioso di arrivarci.

1 .Jack Gelbcr (1932): autore drammatico, noto soprattutto per una pièce che ebbe un lungo successo off Broadway, Tbe Connection (1959), una storia di droga e passione per il jazz portata sullo schermo nel 1961 da Shirley Clarke con gran parte degli attori e dei musicisti che avevano lavorato all’allestimento teatrale. 2. E. J. Bellocq: si sa poco di questo fotografo quasi nano, nato proba­ bilmente in Francia, che visse a New Orleans dalla fine del XIX seco­ lo agli anni, trenta. Dopo la sua morte, vennero ritrovate in casa sua ottantanove lastre di vetro, quasi tutte fotografìe di prostitute scatta­ te nel quartiere a luci rosse di Story ville intorno al 1912. Non si sa esattamente a cosa fossero destinate. Il fotografo Lee Friedlander le acquistò nel 1966 e nei 1970 il Museum of Modern Art di New York ne pubblicò trentaquattro in un'antologia intitolata E. J. Bellocq: Storyville Portraits, a cura di John Szarkowski. 3. John Guare (1938): drammaturgo diplomatosi alia Yale Drama School. Il suo primo grande successo off Broadway fu una commedia noire, ne House of Blue Leaves (1971). Nel 1991 la sua pièce Six Degrees of Separation (una commedia sociale ispirata alla vera storia di un truffatore che aveva raggirato ricchi bianchi newyorkesi facendosi passare per il figlio di Sidney Poitier) conobbe una lunga serie di re­ pliche a Broadway. Oltre alla sceneggiatura di Atlantic City, ha col­ laborato con Jean-Claude Carrière alla sceneggiatura di Taking off di Milos Forman. 4. Telluride Film Festival: dal 1975 si svolge tutti gli anni a settembre nella piccola città montana di Telluride, in Colorado, divenendo ben presto il festival più alla moda degli Stati Uniti. Nel 1979, alla presen­ za deil’autore Abel Gance, vi venne presentata la versione restaurata del film Napoléon. 5. Silkwood (1933): thriller politico diretto da Mike Nichols e sceneg­ giato da Alice Arlen e Nora Ephron. È la storia vera di Karen Silk­ wood (Meryl Streep), operaia di una fabbrica di plutonio dell’Oklahoma morta in circostanze misteriose dopo avere denunciato la cri­ minale negligenza dei suoi datori di lavoro. A un certo momento, Meryl Streep aveva espresso il desiderio di recitare in Alamo Bay. 6. Nel 1836, i texani persero la battaglia di Alamo contro il Messico, al quale apparteneva il territorio. Ma, in quello stesso anno, riportaro-

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Il mio cinema no una vittoria schiacciante a San Jacinto, e proclamarono l’indipen­ denza. 7. Rete televisiva statale di carattere didattico, estesa a tutti gli Stati Uniti. 8. Area riservata a negozi e ristoranti, chiusa al traffico e caratterizzata da unità architettonica. 9. Francois Reichenbach (1922): dopo essere stato autore di canzoni (fra l’altro per Edith Piaf), fece numerosi documentari francesi e diven­ ne il leader del movimento del cinéma vérité. Un ceno numero di suoi film, come Les Marines ( 1959) e L’A merica vista da un france­ se (I960), enfatizzano gli aspetti ridicoli e assurdi della società ame­ ricana. 10. Formula tratta dalla Dichiarazione d’indipendenza americana, che ri­ conosce a ogni cittadino «il diritto alla libertà, alla vita e alla ricerca della felicità».

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V - Il ritorno

P.F. - Nel 1986 è tornato in Francia perché voleva fare un film francese o perché era finalmente giunto il momen­ to di realizzare Arrivederci ragazzi?

L.M. - Come lei sa, Arrivederci ragazzi si basa su una storia che mi è realmente accaduta. Il film rispecchia molto da vicino ciò che vissi. Ma si è verificata una cosa sorpren­ dente: dopo avere scritto una prima sceneggiatura e avere fatto alcune verifiche (avevo interrogato altri testimoni, mio fratello, degli alunni e un professore che all’epoca insegna­ va in quella scuola), mi accorsi che c’erano alcune distor­ sioni, quasi che la mia immaginazione, durante questi qua­ rantacinque anni, avesse preso il sopravvento, fecondan­ do il mio ricordo. La memoria non rimane immobile, vive intensamente, si muove, cambia. Le farò un esempio che fa sempre ridere i miei familiari: sono convinto di ricordarmi di una dimostrazione che eb­ be luogo davanti alla nostra fabbrica nel 1936 (agli inizi del Fronte popolare) e ho ben nitida davanti agli occhi l’imma­ gine delle bandiere rosse che sventolavano sopra il muro del giardino dei miei genitori. «Assurdo, Louis, non eri nean­ che a Thumeries in quel periodo», mi dicono le mie sorel­ le. Ho verificato, e naturalmente c’ero. E mi madre mi di­ ceva: «Non ti avrei mai permesso di uscire, te lo sei inven­ tato». Ma ancora oggi sono convinto di essere stato là, per­ ché vedo ancora chiaramente quella gente che cantava 17nternazionale. A dire il vero non potevo vederle, ma vede­ 195

// mio cinema

vo le bandiere al di sopra del muro, che era alto circa due metri, laggiù dove c’era un filare di lamponi. È una delle prime immagini della mia infanzia; non avevo ancora quat­ tro anni. Allora, a chi credere? Ho questo ricordo; anche se l’avessi inventato, non cambierebbe nulla. È un po’ quello che è accaduto con Arrivederci ragazzi. Per anni mi ero semplicemente rifiutato di occuparme­ ne, perché quell’episodio mi aveva traumatizzato, ed ebbe un’enorme influenza sulla mia vita. Quello che è successo nel gennaio 1944 ha avuto un’importanza enorme nella mia decisione di diventare regista. È diffìcile da spiegare, ma fu un trauma tale che mi ci vollero molti anni per superarlo, per cercare di capire, quando, ovviamente, ero così giova­ ne da non poter capire. Quello che era accaduto era così terribile e talmente in contraddizione con i valori che ci ve­ nivano insegnati, che giunsi alla conclusione che ci fosse qualcosa di sbagliato nel mondo, e cominciai a ribellarmi. Non dico che non sarebbe successo ugualmente, ma sareb­ be accaduto in modo diverso. Credo che questo avvenimen­ to suscitò in me un profondo interesse per ciò che accade­ va al di fuori dell’ambiente estremamente privilegiato in cui ero cresciuto. Non ne parlavo mai. Il che non significa che non ci pen­ sassi... ne ero costantemente ossessionato. Ma non raccon­ tavo questa storia a nessuno. Ne parlavo qualche volta con mio fratello, ma a parte lui, a nessun altro. E, comunque, mai fino agli anni settanta, cioè quasi venticinque anni do­ po. È possibile che la decisione di ambientare Cognome e nome: Lacombe Lucien nel 1944 abbia a che fare con un improvviso desiderio di ricordare; fu allora che mi torna­ rono in mente molti particolari relativi a ciò che era acca­ duto nel collegio. Avevo fatto molte ricerche su quel pe­ riodo, e fu forse questo che richiamò alla memoria i ricordi di quel tempo. Comunque sia, nel 1972-73 seppi che un giorno o l’al­ tro avrei raccontato questa storia, ma non subito: proba­ bilmente avevo ancora bisogno di parecchio tempo. Una domenica, durante le riprese di Alamo Bay, cominciai ad annotare delle idee per Arrivederci ragazzi. Avevo raccon­

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// ritorno

tato la storia ad Alice Arlen che mi disse: «Louis, devi mettertici». Sapevo che il momento era giunto. Ero spaventa­ to, perché era talmente importante per me... era il mio punto di riferimento fondamentale, l’evento più significativo del­ ia mia infanzia e forse di tutta la mia vita. E sentivo che sa­ rebbe stato difficilissimo ricrearlo nel film. Se avessi fallito, non me lo sarei mai perdonato. Durante tutti quegli anni avevo temporeggiato, perché volevo essere almeno sicuro di affrontare questa impresa nella miglior forma possibile. Avevo attraversato momenti diffìcili in America con Crac­ kers e Alamo Bay, e sentivo il bisogno di ritrovare le mie origini, il che voleva dire fare Arrivederci ragazzi. Nell’estate del 1986 ritornai in questa casa con Candice e i bambini, e cominciai a prendere appunti, un mucchio di appunti. Dicevo loro che avrei provato a scrivere qual­ cosa, e a vedere se avrebbe funzionato. La storia non ha nulla di ovvio, a pensarci bene. La si poteva considerare una sorta di variazione Sull’Olocausto, e c’erano già stati tanti film sul­ l’argomento. Ero convinto di dovermi buttare, ma mi chie­ devo se sarei arrivato in fondo. Infine, nell’agosto 1986 partii per Parigi e passai due settimane nella più completa solitu­ dine per scrivere un primo abbozzo di sceneggiatura. Sono estremamente riconoscente a Candice per avermi quasi co­ stretto a farlo. P.F. - Arrivederci ragazzi era un titolo di lavoro o ven­ ne in seguito?

L.M. - Scelsi il titolo fin dall’inizio. Quando alla fine tro­ vai un distributore, la prima cosa che mi disse fu: «È un ti­ tolo spaventoso». A un certo punto finii addirittura per cam­ biarlo; fino a pochi giorni prima dell’inizio delle riprese si intitolava Le Nouveau, che significa «Il nuovo alunno», un pessimo titolo. Era opinione comune che Arrivederci ra­ gazzi non avrebbe funzionato, ma si disse lo stesso anche per Soffio al cuore. Per me, è sempre stato Arrivederci ra­ gazzi, perché erano queste le ultime parole pronunciate da Padre Jacques nel lasciare il cortile della scuola... era il ri­ cordo che avevo conservato di quel mattino terribile. 197

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Terminato il primo abbozzo della sceneggiatura, tornai qui a leggerla a Candice e a mia figlia Justine; quando finii, scoppiarono a piangere. Ne rimasi sconcertato. Mi rendevo improvvisamente conto di quanto questa storia potesse es­ sere sconvolgente per gli altri, e non solo per me. Soprat­ tutto, bisognava evitare che diventasse qualcosa di melodram­ matico. Avevo cominciato a scrivere la sceneggiatura delle scene finali: erano quelle che non volevo cambiare. Le ave­ vo scritte direttamente a memoria. Non avevo cercato di per­ fezionare il dialogo, era venuto da solo. La scena in classe, quando entra l’uomo della Gestapo in borghese, e poi la scena dell’infermeria e in cortile... c’erano diversi modi per trat­ tarle, ma sapevo che quella sequenza non sarebbe cambia­ ta. Era il punto culminante di tutto il film. Per cui lavorai procedendo quasi a ritroso. Scrivendo la sceneggiatura, mi dicevo che avrei dovuto verificare se i miei ricordi coinci­ dessero con quelli di altri testimoni, vecchi compagni di scuo­ la di allora. Mi accorsi che c’erano alcune discrepanze. La principale — particolare interessante — riguardava il personaggio di Joseph. L’avevo inventato di sana pianta. Non saprò mai con certezza se l’ho creato a causa di Co­ gnome e nome: Lacombe Lucien-, ma penso che sia piutto­ sto il contrario. Ero affascinato da quel giovinetto che vie­ ne trattato malissimo nella scuola per bambini ricchi dove fa lo sguattero, che viene ingiustamente cacciato per una faccenda di mercato nero, e che si vendica denunciando alle autorità che nel collegio sono nascosti dei ragazzi ebrei. In effetti quel ragazzo era veramente esistito, ma non era stato lui il delatore... anche se si tratta di un punto ancora un po’ controverso: esistono diverse versioni in merito. Al­ cuni dicono che la denuncia venne fatta dai vicini, altri che fu un ex allievo che era entrato nella Resistenza e che era stato arrestato e torturato. In realtà, i ragazzi ebrei erano nascosti nel collegio dalla primavera precedente, mentre nel film li faccio arrivare solo qualche settimana prima del loro arresto. Avevo deciso di mantenere la mia versione senza alcuna esitazione, la ritenevo più interessante. Fin dall’epoca di Cognome e nome: Lacombe Lucien ero convinto che il colpevole fosse Joseph; era lui una delle fonti del film. 198

Il ritorno

P.F. - Fare di Joseph il delatore significa che sono i pa­ dri stessi, con la loro decisione di cacciarlo, e in virtù di una tragica ironia, la causa dell’arresto dei ragazzi ebrei.

L.M. - Sì. Devo dire che sul piano drammatico funziona a meraviglia. Inoltre Joseph è un amico di Julien. Fanno un po’ di mercato nero insieme; Julien si interessa sinceramente di Joseph e gli vuole bene. È un momento terribile, nel cor­ tile, quando Julien si rende conto all’improvviso che il col­ pevole è Joseph. Ecco ancora una volta la scoperta del ma­ le. Ma Joseph non sembra capire la gravità di ciò che ha fat­ to, non sembra dargli importanza. Ciò che turba profonda­ mente Julien, e anche lo spettatore, credo, è che tutto co­ minci per una faccenduola di mercato nero e per l’atteggia­ mento così intransigente del padre al riguardo... La com­ plessità e l’ambiguità di questa situazione mi piacevano mol­ to. Più che fare di Joseph un farabutto integrale, ho cerca­ to di dargli maggiore complessità, e in questo senso egli è senza dubbio un cugino di Lucien Lacombe. P.F. - Del resto, prima degli atroci eventi finali, che se­ guono alla denuncia, il film dipinge in toni vagamente anti­ clericali la vita di un collegio al tempo dell’occupazione, e racconta la storia dell’amicizia tra due ragazzi... Una specie di Zero in condotta in chiave naturalistica, in certo modo. Il film si inserisce nel solco di questa tradizione francese. L.M. - Pur non potendo proprio lamentarmi, dato che Arrivederci ragazzi ebbe un’accoglienza eccezionale, mi è spiaciuto che un certo numero di persone vi abbia visto solo la storia di un’amicizia tra due ragazzini, il cattolico e l’ebreo, una variazione sul tema dell’olocausto dal punto di vista di un non ebreo. Credo che il film abbia ben altre dimensioni. Per me è anche il ritratto di un giovinetto, un bambino, se vuole, molto vicino a quello di Soffio al cuo­ re, del quale ho deliberatamente sottolineato il legame molto passionale con la madre, che appare due volte nel film: al­ l’inizio, quando lo saluta alla stazione, e dopo, quando va a trovarlo; una delle sequenze chiave del film è la scena al

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ristorante. È la prima volta in cui ho cercato di fare un ri­ tratto autentico di mia madre. Ma non si tratta solo di questo. Ho cercato di riprodur­ re quello che avevamo vissuto, io e mio fratello, in quel col­ legio esclusivo. Naturalmente, di notte faceva molto fred­ do, il cibo era pessimo, ma eravamo dei privilegiati rispet­ to alla maggioranza degli altri ragazzi. Eravamo circondati da mura, e facevamo un po’ come se la guerra non fosse esistita, ci sentivamo protetti. Quando cominciai a riflette­ re sulla struttura del film, mi dissi che era importante che si vedesse la guerra arrivare a poco a poco. La storia princi­ pale è l’arrivo del nuovo allievo e del modo in cui lui e Ju­ lien diventano amici: all’inizio c’è dell’ostilità, ma poi, gra­ dualmente, si vede nascere un’amicizia tra due ragazzini at­ tratti dalle stesse cose, probabilmente un po’ più smaliziati degli altri compagni, e che si scoprono affini. Ma ci sono anche altri episodi e altri particolari. Anche la scena della foresta, per esempio, si basa su un ricordo personale. Per quanto possa sembrare strano, in un perio­ do così cupo, ci mandavano — per rafforzarci il carattere — in pieno inverno quando le giornate erano cortissime, a fine pomeriggio, a cercare un tesoro nella foresta di Fon­ tainebleau. Una volta mi persi insieme a un compagno e ri­ cordo di avere avuto una paura tremenda. Quel dettaglio dei tedeschi, che sono gentilissimi e riaccompagnano i due ragazzini al collegio, è inventato. P.F. - Nella scena del ristorante due ufficiali tedeschi cer­ cano di fare colpo sulla madre di Julien con la loro buona educazione, prendendo le distanze dai miliziani, anch’essi presenti e impegnati nell’intimidire i clienti.

L.M. - Sì. È quello che succedeva allora. I collaborazio­ nisti francesi erano più aggressivi e zelanti dei soldati tede­ schi. C’è questo tavolo al quale sono seduti degli ufficiali della Luftwaffe, gli aristocratici della guerra: bevono cham­ pagne, si divertono e non hanno voglia di essere infastidi­ ti, e uno di loro dice in tedesco: «Oh, questi francesi con la loro politica’». Cercano di far colpo sulla madre di Julien. 200

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Quella del ristorante è una scena chiave, perché mentre cer­ cavo di fare della madre di Julien un personaggio simpati­ co, volevo al contempo mostrare come fosse vittima di tutti i pregiudizi della sua classe. Quando parla di Leon Blum — che la borghesia detestava — dice: «Non ho nulla contro gli ebrei». Ma si scandalizza quando Julien domanda: «Non siamo ebrei, noi?». È uno scambio di battute direttamente tratto dai miei ricordi d’infanzia. La famiglia di mio padre era di origine alsaziana, e avevamo una zia che chiamava­ mo sempre «zia Reinach»; cercavamo di convincere mia ma­ dre che la famiglia di mio padre fosse ebrea. Sarebbe ingiu­ sto dire che mia madre fosse antisemita, aveva aiutato de­ gli amici ebrei a nascondersi. Ma aveva questo genere di rea­ zioni. Se noi bambini dicevamo: «Forse, dopo tutto siamo ebrei», lei replicava: «Dio mio, basta con questa storia. I Rei­ nach sono buoni cattolici». Il film possiede molte sfumature e molti contrasti, e mette a nudo ambiguità e contraddizioni. Eppure vi si vide per lo più una semplice storia sull’atrocità del nazismo, una va­ riazione sugli orrori dell’olocausto, il che, naturalmente, è un elemento fondamentale nel film. Ma è anche un ritrat­ to preciso delia società francese, in particolare dell’alta bor­ ghesia.

P.F. - Nel film i religiosi sono figure più complesse di quelli di Soffio al cuore. Sono duri e severi, poi, gradual­ mente, ci accorgiamo che in realtà il loro comportamento è eroico. Hanno anche il ruolo di critici della società, come rivela il sermone che colpisce a fondo i genitori in visita al collegio. Tuttavia, pur avendo preso dei ragazzini ebrei sotto la loro protezione, non possono risolversi, quando Jean si presenta all’altare, a dargli la comunione, anche se quel gesto potrebbe forse metterlo al sicuro.

L.M. - Questo l’ho aggiunto io. Inserii un paio di cose che non fanno parte di quanto vissi personalmente. Per esempio, la scena in cui Bonnet si alza nel pieno della not­ te per recitare le preghiere, me l’ha raccontata un amico ebreo. Si dà il caso che abbia molti amici ebrei della mia 201

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età, che sono sopravvissuti perché vennero nascosti in col­ legi tenuti da religiosi. Uno di loro è Gilles Jacob1. Una vol­ ta, mentre ero a pranzo con lui, gli dissi che stavo per co­ minciare il film e lui esclamò: «Ma questa è la mia storia, Louis. Quando è arrivata la Milizia, io e mio fratello ci sal­ vammo solo perché eravamo nascosti in chiesa dietro l’or­ gano». Mi sono state raccontate molte storie analoghe, so­ prattutto dopo l’uscita del film. Anche l’incidente della co­ munione è un’aggiunta. In collegio, una cosa che ci aveva subito insospettito era il fatto che Bonnet non andasse a mes­ sa, che rimanesse in classe. Francamente pensavo che non fosse una tattica molto furba, ma era stato convenuto così. Qualcun altro mi aveva raccontato l’episodio della comu­ nione. Nel film non è molto chiaro se ci fosse una parte di provocazione, o se Bonnet cercasse di conformarsi il più possibile a quello che facevano gli altri, per non farsi nota­ re. Così si avvicina alla balaustra per la comunione. Il pro­ blema è che per un sacerdote dare l’ostia, che è il corpo di Cristo, a chi non è battezzato costituisce un peccato gra­ vissimo. Il prete viene colto alla sprovvista e lì per lì non sa cosa fare. P.F. - Salvo in Zazie, lei ha fatto di rado riferimento ad altri film. In Arrivederci ragazzi tutto il collegio è riunito per assistere alla proiezione di L'emigrante di Chariot. Ci sono anche Joseph e i padri. L’accompagnamento musica­ le... è Saint-Saèns il brano che suona il padre? Mi racconti. Come mai scelse quel film e quella musica?

L.M. - Centrano sia i miei ricordi, sia la licenza poeti­ ca... fu negli anni seguenti che in collegio, alla domenica, venivano proiettati i film; è là che vidi le mie prime comi­ che di Chariot. Venivano proiettati in quello strano forma­ to che era di moda alla fine degli anni trenta e negli anni quaranta, il 9,5 mm, con una perforazione al centro: un’in­ venzione orrenda. Durante la guerra, Charlie Chaplin era stato vietato dai tedeschi, naturalmente, non solo perché ebreo, ma anche perché aveva fatto II grande dittatore. Ma pare che i suoi film abbiano continuato a essere proiettati, 202

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con moka discrezione, nelle scuole e nei cineclub. Sono uno dei ricordi più meravigliosi della mia infanzia, quelle dome­ niche sera; si faceva buio in sala, si tendeva un lenzuolo bian­ co sul muro e ci si sedeva tutti quanti a guardare il film. Ho scelto L'emigrante di Chariot in primo luogo perché è uno dei suoi grandi film, c poi perché, vedendo la statua della Libertà, quei ragazzi ebrei potevano immaginare la Terra promessa. Non so perché volevo un accompagnamento di violino, né come finii per scegliere il brano di Saint-Saèns. Sapevo che sarebbe parso un po’ bizzarro. Avevo questa scena in mente fin dall’inizio, ed è stata diffìcile da girare: quando inquadravo i ragazzi, a causa della luce essi non potevano vedere quello che succedeva sullo schermo. Così facemmo un’inquadratura generale con i ragazzi in primo piano, e lo schermo sullo sfondo. Ma per fare i controcampi e le ripre­ se d’insieme dei ragazzini che ridono o hanno un’aria so­ gnante... dovetti ricorrere a ogni genere di trucco, per farli reagire a immagini che in realtà non stavano vedendo. P.F. - Era la prima volta che lavorava con un operatore molto giovane. Come è riuscito a ottenere quella tonalità strana e cupa, in cui si sente aleggiare l’ombra della cata­ strofe? Non è solo dovuto alla luce di gennaio?

L.M. - Innanzitutto avevo un’idea molto precisa dell’a­ spetto che doveva avere il film. Avevo pensato di girarlo in bianco e nero, ma ben presto mi dissi che sarebbe stato troppo semplice. Il ricordo visivo che ho conservato del periodo dell’occupazione è che non c’erano quasi colori. Ricordo in particolare che i muri della scuola erano bian­ chi o grigi e che noi eravamo tutti vestiti di blu scuro: il berretto, il maglione, i calzoncini, tutto blu. I padri erano carmelitani, ed erano quindi vestiti di marrone scuro. Mi pareva evidente che avrei dovuto fare il film a colori, ma che sarebbe stato un film senza colori. La prima volta che ne discussi con la costumista, le dissi che l’unico rosso che volevo vedere nel film era quello delle labbra della madre. A parte ciò, non volevo la minima traccia di rosso. Non c’era 203

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un vero e proprio direttore artistico, ma lo scenografo, lo splendido Willy Holt, mi aiutò a trasformare la scuola in cui girammo, fuori Parigi. Ridipingemmo alcuni locali e cream­ mo un dormitorio, sempre attenti a usare colori freddi, so­ prattutto nei blu. Di conseguenza, quando parlai dell’illuminazione con Renato Berta, avevamo già l’ambientazione. Per nostra grande fortuna, anche se le riprese furono rese per questo più difficoltose, queU’inverno del 1987 fu fred­ dissimo. Come avevo sperato, cadde moltissima neve. Il pro­ blema, con la neve, è che non cade mai quando ne hai bi­ sogno, e cade quando non la si vuole. Ero così felice quan­ do cominciò a nevicare, che alcune scene vennero girate in modo un po’ precipitoso. Ma, fondamentalmente, l’am­ bientazione doveva apparire molto ostile, fredda, in tutti i sensi del termine. Faceva buio presto. La luce artificiale era ridotta perché il consumo di energia elettrica era limi­ tato: c’era una sola lampadina in tutta la classe, nient’altro. Mi chiedo come abbiamo fatto a non diventare tutti quanti ciechi. Avevo chiesto a Renato di lavorarci sopra. Ma natu­ ralmente fu costretto a usare dei proiettori, anche se utiliz­ zava una pellicola veloce e, come a Sven per Luna nera, dissi: «Non voglio vedere il sole». Per quanto riguarda gli orari delle riprese, anche se le scene si svolgevano all’interno del collegio, dopo le quat­ tro, quattro e mezza, avremmo dovuto fermarci a causa del­ l’oscurità. Così dissi: «Va bene. Cominceremo di mattino presto e faremo il più possibile fino all’una. Dopo pranzo torneremo per un’ora o due, per i dettagli». Le giornate di lavoro erano quindi brevi, ed era meglio per i ragazzi; a fu­ ria di girare con i bambini, ho imparato perfettamente che dopo quattro o cinque ore di riprese non riescono più a concentrarsi. Non ci si può fare niente.

P.F. - Quando scelse i due interpreti principali, pensava non solo a quello che lei avrebbe cercato di ottenere da en­ trambi, ma anche che sarebbe stato necessario instaurare tra loro un rapporto di intimità, indispensabile a fare sì che il film risultasse credibile? Li fece provare insieme, durante le selezioni? 204

Il ritorno

L.M. - Ancora prima di cominciare a scrivere la sceneg­ giatura, sapevo che il successo o il fallimento del film sa­ rebbe dipeso dal cast. Dovevo trovare due ragazzi eccezio­ nali. Quando mi decisi, era già settembre. Dovevo girare in inverno, cominciare a metà gennaio, e il tempo stringe­ va. Avevo incaricato immediatamente diverse persone di cer­ care dei ragazzini. Usammo il nostro solito metodo: passam­ mo degli annunci, in cui venivano descritti i personaggi, nei programmi televisivi destinati a ragazzi di quell’età e alla ra­ dio, e mettemmo locandine nelle scuole. Dato che volevo che fossero entrambi parigini, cercammo soprattutto a Pa­ rigi. Le responsabili del casting ne visionarono centinaia; chiedevano loro di inviare delle foto, dopo di che proce­ devamo a una prima selezione, e quando i ragazzi non ave­ vano scuola, venivano in ufficio e facevamo fare loro un provino che riprendevamo in video. Quando qualcuno mi sembrava interessante, leggevo delle scene insieme a lui e lo filmavo un’altra volta. Tutto ciò richiese molto tempo, ed ero molto angoscia­ to. Avevo trovato quasi subito Gaspard Manesse, che avreb­ be interpretato il personaggio di Julien. Avevo esitato per un attimo tra lui e un altro ragazzino, ma in Gaspard c’era qualcosa di speciale: era come l’argento vivo, così vivace, smaliziato e insolente. Arrogante e timido al tempo stesso. Quando si cominciò a leggere alcune scene con lui, capii che sarebbe stato all’altezza della situazione. Ma mi dissi che non gli avrei assegnato la parte finché non avessi trovato l’altro, Bonnet, dato che tutto dipendeva dalla reazione chi­ mica che ci sarebbe stata tra loro. E qui cominciarono i pro­ blemi; non so perché, ma incontrammo molte più difficol­ tà a trovare Bonnet. Mancavano tre settimane esatte all’ini­ zio delle riprese quando trovai Raphael Fetjò e decisi di scrit­ turarlo. Ero molto sicuro del ragazzino che interpretava Ju­ lien, ma non lo ero altrettanto dell’altro, perché era molto introverso. Non ero convinto che ce l’avrebbe fatta. Prima di cominciare le riprese, trascorremmo tre giorni con tutti i ragazzi, non solo i due protagonisti, ma anche il cast di contorno; ci insediammo nella classe in cui avrem­ mo girato, e provammo con tutta la troupe. Filmammo le 205

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prove, e quando vidi Raphael sul grande schermo capii che era fatta. Aveva soltanto bisogno di integrarsi meglio, era un po’ come il Pierre Blaise di Cognome e nome: Lacombe Lucien, non era proprio sicuro di volere fare il film.

P.F. - Insegnò loro a suonare il boogie-woogie al piano, per la scena in cui scoprono di amare entrambi il jazz, e nella quale si manifesta un’amicizia così meravigliosa? L.M. - È sempre così nei film... Quello che sa suonare bene nella realtà, è proprio quello al quale non occorre sa­ perlo fare nel film. Al contrario Raphael, che avrebbe do­ vuto essere un buon pianista, non aveva mai suonato il pia­ no in vita sua. L’altro era musicalmente molto dotato. Così dovetti obbligare il povero Raphael a imparare un brano di Schubert; con il boogie-woogie fece meno fatica. Se la ca­ vò bene con il ritmo, ma avemmo dei problemi in post­ sincronizzazione. Ma per fortuna si era alla fine delle ripre­ se ed erano entrambi a proprio agio. Avevano acquistato presto sicurezza, sembravano dominare così agevolmente le difficoltà dell’interpretazione che a volte ero costretto a essere duro perché le cose non risultassero loro addirittura troppo facili. Naturalmente avevamo parlato loro del con­ testo storico del film. Per ironia della sorte, erano entram­ bi mezzi ebrei... Gaspard, che interpretava il mio ruolo, lo era di più, essendolo da parte di madre. La madre di Ra­ phael era egiziana, e il padre ebreo. Grazie alle loro fami­ glie, conoscevano piuttosto bene quel periodo, ed erano in grado di comprendere la situazione, i sentimenti dei per­ sonaggi. Il miracolo fu che tutti quei ragazzini in Reeboks, felpe e jeans strappati sulle ginocchia (molti erano alunni del col­ legio nel quale giravamo), ai quali avevamo fatto indossare divisa e scarpe, quelle orribili scarpe di allora, dalla suola in legno, e ai quali avevamo tagliato i capelli (erano furio­ si), si trasformarono all’istante in bambini del 1944. Loro stessi furono molto colpiti dalla naturalezza con cui si veri­ ficò quella trasformazione. Mi resi allora conto che il pe­ riodo storico non era poi così importante; mi convinsi che 206

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un bambino di oggi poteva capire alla perfezione cosa si­ gnificasse essere un bambino nel 1944. Si erano calati dav­ vero nei loro personaggi, facendo un salto indietro di quarant’anni. II fatto mi incoraggiò, perché d’improvviso capii che i ragazzini d’oggi, guardando il film, sarebbero stati coin­ volti da quegli avvenimenti identificandosi completamen­ te con i personaggi dello schermo. In Francia il film è stato visto da moltissimi ragazzi.

P.F. - Il film uscì proprio nel momento in cui si stava verificando un inquietante rigurgito di antisemitismo. L.M. - Sì. Mentre ero alla ricerca di finanziamenti per il film, mi imbattei in reazioni piuttosto negative. Mi diceva­ no: «Non racconterà ancora la solita storia: collegio religio­ so, occupazione, Olocausto». Mi scoraggiavano. Sebbene il budget fosse molto basso, fu difficile trovare i finanzia­ menti. Mi sentivo come un dinosauro che vuole a ogni co­ sto raccontare la sua infanzia. Ma erano appena finite le ri­ prese e stavamo montando il film, quando cominciò il pro­ cesso a Klaus Barbie. Lo avevano catturato in Sud America e riportato in Francia. Era stato il peggiore criminale di guerra nazista durante l’occupazione. II processo suscitò un’intensa emozione, e rese improvvisamente attuale quel periodo; quando Sboab venne trasmesso in televisione, fu seguito da milioni di francesi. Quando avevo cominciato a lavorare al progetto, alla gente del cinema pareva che l’Occupazione fosse una fac­ cenda che risaliva all’epoca del diluvio; avevano stabilito che era qualcosa di concluso e che non se ne sarebbe par­ lato più. Senza dubbio il processo a Barbie contribuì a ren­ dere nuovamente attuale la questione, in particolare per le generazioni più giovani. Il processo fu molto commoven­ te, con tutti quegli anziani che raccontavano in che modo vennero torturati e deportati. Non cercavano vendetta, chie­ devano giustizia. Il mio film si trovò quindi a essere improv­ visamente attuale. E inoltre, a due settimane dalla prima, quell’imbecille di Le Pen riuscì a fare una delle sue stupide gaffes: disse che l’olocausto era un dettaglio e questo, ov­ 207

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viamente, sollevò un mare di proteste.

P.F. -11 rapporto tra i due ragazzini deriva in parte dalla curiosità suscitata in Julien dal mistero di Bonnet. C'è an­ che la scoperta delle loro affinità. Sono anime naturalmen­ te gemelle e hanno dei gusti in comune. Il suo legame con quel ragazzo ebreo fu altrettanto profondo? Amavate entram­ bi la musica e la letteratura?

L.M. - No. Eravamo rivali. A quei tempi ero un bravo studente, ma lui era sempre più bravo di me, e io ce l’ave­ vo un po’ con lui per questo. C’era spirito di emulazione, tra noi. 11 vero Bonnet era molto timido e, sicuramente, man­ teneva le distanze dagli altri. Di tutta la classe, ero io il più vicino a lui. Come nel film, avevamo in comune l’amore per i libri e la musica, ne discutevamo. Quando arrivò la Gestapo, stavamo diventando dei veri amici. Le cose non giunsero mai al punto in cui arrivano nel film. Il legame mol­ to intenso tra i due ragazzini del film è frutto più della mia immaginazione che dei miei ricordi, nel senso che rimpiango che non sia andata in quel modo; avrei voluto che fosse stato così. Nutrivo un grandissimo interesse per lui e avrei volu­ to conoscerlo meglio, ma non diventammo mai quei veri amici che i due personaggi sono alla fine del film. Quello che ho inventato, è il momento in cui Julien sco­ pre, vedendo il libro ricevuto una volta in premio da Bon­ net, che questi non si chiama Bonnet e che è ebreo. In real­ tà le cose andarono diversamente. Agli allievi più grandi del collegio venne detto che quei tre studenti erano ebrei. Era un rischio enorme, ma i padri decisero di fidarsi dei loro allievi. Mio fratello, che era più grande di me, lo sapeva e me lo disse. Non avrebbe dovuto, ma non riuscì a non dir­ mi che quel mio compagno di classe era ebreo. La mia pri­ ma reazione fu quella di non credergli. Mi pareva una cosa strampalata. Mio fratello mi prendeva sempre in giro, mi rac­ contava delle bugie. Non ne parlai con nessuno e men che meno con Bonnet. Credo che stessi ancora chiedendomi se fosse vero, quando arrivò la Gestapo. Nel film ho svi­ luppato la relazione tra i due fino al punto in cui sarebbe 208

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probaóilmente giunta la nostra di lì a poco. C’erano le pre­ messe per un rapporto molto più intenso. Lo stesso vale per la scena finale in classe, quando l’a­ gente della Gestapo chiede chi sia Jean Kippelstein e Julien sa che è Bonnet. Il tedesco si volta e Julien non può impe­ dirsi, non fosse che per una frazione di secondo, di guar­ dare verso Bonnet; il tipo della Gestapo intercetta il suo sguardo e si avvicina a Bonnet. Molti spettatori, soprattut­ to i ragazzini, interpretarono questo fatto come un’ammis­ sione di colpevolezza da parte mia. Dopo l’uscita del film, quando andai nelle scuole perché gli insegnanti mi aveva­ no chiesto di parlare del film con dei ragazzi dell’età di Ju­ lien e Bonnet, la domanda era sempre questa: «Fece davve­ ro questo?», come se fossi stato io a denunciarlo. Come se fossi stato io e non Joseph. Continuavo a ripetere che lo avrebbero scoperto comunque. Non mi preoccupavo nean­ che di spiegare loro che in realtà le cose non andarono co­ sì. Avevo scritto quella scena fin dalla prima stesura e non l’avevo cambiata perché ritenevo che fosse ancora più scon­ volgente per Julien. Non ebbi mai l’intenzione di dire che Julien — o io — si sentisse veramente responsabile dell’ar­ resto di Bonnet. Anche se forse era proprio quello che vo­ levo dire, inconsciamente.

P.F. - A dodici anni, di certo era al corrente del fatto che essere arrestati dalla Gestapo comportava conseguenze ter­ ribili. Sapeva dell’esistenza dei campi di concentramento? L.M. - Lo sapevamo. E quelli che sostengono di non es­ serne stati a conoscenza sono solo dei... insomma, lo sape­ vamo. Non avevo ancora compiuto dodici anni e lo sape­ vo. Ricordo che i miei genitori ne parlavano, dicevano quan­ to fosse orribile. Nel luglio 1942 avemmo quel dramma ter­ ribile a Parigi, quando la polizia francese rastrellò gli ebrei. Gli ebrei arrestati erano principalmente stranieri. Li porta­ rono al Vélodrome d’Hi ver. È uno degli episodi più vergo­ gnosi dell’olocausto in Francia. Non so con certezza se ci rendevamo conto del fatto che sarebbero probabilmente morti tutti. Fu solo dopo la guerra che si venne esattamen­ 209

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te a sapere cos’era successo. Non essendo ebreo, il diretto­ re del collegio avrebbe potuto evitare quella fine. Trattan­ dosi di un prete, esitarono prima di deportarlo. Ma quel Pa­ dre Jacques, da cui ho tratto il mio Padre Jean, quando tut­ ti quelli che erano con lui al campo vennero fatti salire sul treno, chiese di andare con loro. Non voleva essere tratta­ to diversamente solo perché era un prete. Quando sento o leggo che la maggior parte dei francesi ignorava completamente la sorte riservata agli ebrei... è una bugia incredibile. Se non sapevano, è perché non voleva­ no sapere. Come ho detto, i miei genitori sapevano e ce ne parlavano. Ricordo il trauma che subii quando fecero la lo­ ro comparsa le prime stelle gialle. P.F. - All’ultimo minuto del film, la sua voce, sovrappo­ nendosi alla colonna sonora, dice che questo è il ricordo più importante della sua vita, che da allora non ha fatto al­ tro che pensarci ogni giorno, che non l’avrebbe dimentica­ to mai. In quale momento del film decise di pronunciare lei stesso quelle parole e di intervenire personalmente nel film che racconta ciò che aveva vissuto?

L.M. - Queste parole sono le prime che scrissi, ancor pri­ ma di cominciare la sceneggiatura. Si doveva sentire la mia voce anche all’inizio. Pensavo che sarebbe stato utile pre­ cisare fin dal principio che la storia era un flash-back, mo­ strare che si trattava di un ricordo personale. Mentre si svol­ geva la scena della stazione, la mia voce spiegava che stavo tornando al collegio e che ero molto infelice — ma era su­ perfluo, dato che ciò era contenuto nel dialogo con la ma­ dre. Ma quelle parole finali, e il fatto di pronunciarle io stesso saltando di colpo a quarant’anni dopo, le volevo conserva­ re assolutamente. Qualcuno mi aveva consigliato di scriverle sullo scher­ mo invece di usare la mia voce, ma sapevo che doveva es­ serci la mia voce. Ritenevo importante che lo spettatore sa­ pesse che era una storia vera e che proveniva direttamente dai miei ricordi. E volevo che si sentisse la mia voce su un primo piano di Julien. 210

Il ritorno

P.F. - Dopo Arrivederci ragazzi, rimase in Francia e pas­ sò da un film invernale a un film primaverile/estivo, un film a cui fanno da sfondo storico gli avvenimenti del maggio 1968. Si ricorda di quel periodo? All’epoca non era in Fran­ cia, vero?

L.M. - Sì, invece. Avevo trascorso diversi mesi in India ed ero rientrato a Parigi ai primi di maggio del 1968. Me ne ricordo perfettamente. Non avevo la minima idea di ciò che stava accadendo a Parigi e, dopo quei mesi incantevoli passati a girare per l’india, non avevo molta voglia di rien­ trare. Ritornavo semplicemente per fare il pieno, visionare quello che avevo filmato, e poi ripartire per l’india. Giunto a Orly verso mezzogiorno, a stento trovai un taxi che mi portasse a casa, vicino al quartiere latino. C’era una dimo­ strazione enorme, tantissima gente per strada, giovani, stu­ denti. Non mi raccappezzavo più, ero tutto eccitato. Tele­ fonai a degli amici e, la sera, uscii per cenare. In Place SaintMichel dissi a un poliziotto qualcosa che non gradì, e d’im­ provviso dieci di loro saltarono addosso a me e a mio fra­ tello, prendendoci a manganellate. Ecco quale fu la mia presa di contatto con il maggio 1968. Da quel momento mi schierai senz’altro dalla parte degli stu­ denti! Non avevo previsto'di restare a Parigi. Mi avevano chiesto di fare parte della giuria del festival di Cannes e ne ero molto contento, era tanto che non vedevo un film, a parte quelli indiani. Così, il giorno dopo partii per Cannes. L’insurrezione studentesca crebbe velocemente, le manife­ stazioni si facevano più violente e le autorità stavano per­ dendo il controllo della situazione. Erano state colte di sopresa. A Cannes, il festival proseguiva come se niente fosse e io cominciai a perdere la pazienza. P.F. - Chi erano gli altri membri della giuria?

L.M. - Roman Polanski, Terence Young, Monica Vitti... sono quelli di cui mi ricordo2. Il presidente era un anziano scrittore francese, André Chamson3. Me ne stavo incollato alla televisione, nella mia stanza d’albergo, continuando a 211

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pensare: «Che ci sto a fare qui, devo tornare a Parigi». Do» po un po', non ricordo più il giorno esatto, arrivò da Parigi un gruppo di registi francesi — Truffaut, Godard e altri — che indisse una riunione con quelli di noi che erano a Can­ nes, come Lelouch e Claude Berri. Ci riunimmo e loro dissero di essere stati mandati dal sindacato dei tecnici cinematografici di Parigi, e che rap­ presentavano il neonato «Comitato rivoluzionario del cine­ ma», o qualcosa del genere. Dissero che si doveva interrom­ pere il festival di Cannes. Mi pareva un’idea eccellente, per­ ché ero ansioso di tornare a Parigi, anche se i collegamenti erano diffìcili: niente treni, né aeroplani, né benzina. Natu­ ralmente, molti non erano d’accordo: i produttori e tutti coloro che facevano parte del mercato cinematografico ri­ tenevano che il festival dovesse andare avanti. La nostra po­ sizione era logica; infatti, se tutto il paese era in sciopero, era assurdo e incredibile che il festival di Cannes continuas­ se, che la gente andasse ad assistere alle proiezioni in abito da sera come se nulla fosse, come se ci trovassimo nel Liech­ tenstein o a Montecarlo. Ebbi il compito di convincere la giuria a dimettersi; il Comitato pensava che se la giuria avesse rassegnato le di­ missioni, non ci sarebbe più stato il festival. Nel corso di una riunione della giuria, Terence Young annunciò di aver ricevuto una telefonata dal sindacato francese e, dato che era iscritto a tale organismo, ne avrebbe seguito le diretti­ ve. Convinsi Monica Vitti. Truffaut parlò a Roman Polan­ ski, che disse che si sarebbe dimesso, per poi pentirsene quasi subito. Così la maggioranza della giuria aveva accet­ tato di dimettersi. Ritornai al Palais del festival dove i regi­ sti stavano occupando il palcoscenico. Gli organizzatori sta­ vano cercando di proiettare un film, Truffaut e altri si era­ no appesi al sipario per impedirlo e la gente si stava lette­ ralmente battendo sul palco. Attraversai il palcoscenico, pre­ si un microfono e dissi: «La giuria del festival ha rassegnato le dimissioni». Ci furono fischi e applausi. Fu quello il vero segnale di chiusura del festival. Naturalmente, mi addossarono la responsabilità della co­ sa. Ero diventato persona non grata a Cannes. I commer­ 212

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cianti erano furibondi. Si era sparsa la voce che era colpa mia, che avevo fermato il festival da solo; quando entrai nel caffè a fianco del vecchio Palais, il «Café Bleu», si rifiutaro­ no di servirmi. Tornai a Parigi in macchina con degli amici, e facemmo una fatica enorme a trovare benzina vicino a Lione. A Pari­ gi c’era una riunione permanente alla Scuola di Cinema, pomposamente chiamata «Stati generali del cinema». Una delle caratteristiche più importanti del maggio 1968 era che tutti si riunivano di continuo: alla Sorbona, all’Odéon. E tutti avevano delle idee per trasformare radicalmente il modo di fare cinema. L’idea di base era che fosse lo stato ad assu­ mere il controllo della produzione e della distribuzione. Mi­ los Forman, che allora era a Parigi, disse: «Siete pazzi. Vo­ lete un cinema socialista? Sapete come funziona in Ceco­ slovacchia? È un disastro». Ma era eccitante, utopistico ed estremamente divertente. Si andava alle riunioni, si elabo­ ravano progetti per trasformare la legislazione e realizzare film al di fuori del sistema capitalistico. Alcuni di noi parte­ cipavano a manifestazioni che avevano luogo praticamen­ te ventiquattro ore su ventiquattro. Facemmo in modo che gli «Stati generali del cinema» fossero presenti a tutte le ma­ nifestazioni. Non ho mai creduto seriamente che sarebbe stata una rivoluzione. Ricordo una conversazione con il mio amico Pierre Kast. Assistevamo a una delle solite, tumultuose riu­ nioni, ci sarà stato almeno un migliaio di persone in quel­ l’anfiteatro, e qualcuno sul palco stava prendendo le difese di un progetto, quando venne violentemente attaccato e ac­ cusato di essere un mandarino... forse era Chabrol. Del re­ sto tutti noi fummo accusati, da registi giovanissimi o stu­ denti, di essere dei cineasti borghesi. Dissi a Kast: «Ecco a cosa doveva somigliare la Convenzione durante la rivolu­ zione francese». E Kast: «Sì, ma con la differenza che du­ rante la Convenzione cadevano le teste». Ecco la grande dif­ ferenza: noi non rischiavamo la vita. P.F. - Aveva quindi costantemente l’impressione che tut­ to ciò fosse in un certo senso assurdo? 213

// mio cinema

L.M. - Sì, una sorta di happening, con tutti i suoi lati po­ sitivi. La gente aveva smesso di comportarsi come era abi­ tuata a fare. Gente che non si conosceva si metteva a discu­ tere insieme per strada. Le macchine erano scomparse, si andava a piedi o in bicicletta. Fu un grande momento; di colpo l’intero paese si era fermato e la gente cominciava a riflettere sulla propria vita e sulla società in cui viveva, escogitando soluzioni di ogni genere, per lo più irrealizza­ bili. Quando tutto finì pensai: «Bisognerebbe istituzionaliz­ zarlo. Dovrebbe esserci un maggio 1968 ogni quattro anni. Farebbe da catarsi, molto meglio delle Olimpiadi». Ma sa­ pevamo che non ci si sarebbe mai spinti troppo lontano. Suppongo che parecchia gente di destra abbia temuto che i comunisti prendessero il potere. E c’era anche il rischio di una guerra civile. Il governo era sul punto di crollare e non sapeva più cosa fare. E poi, come alla fine di Milou a maggio, De Gaulle sparì improvvisamente per due giorni e nessuno — nem­ meno i giornalisti — sapeva dove fosse. Più tardi si scoprì che era andato in Germania a incontrare i cinque generali più importanti dell’esercito francese. Tra De Gaulle e l’e­ sercito non correva buon sangue a causa della guerra d’Al­ geria, quindi voleva assicurarsi il loro appoggio. Al suo ri­ torno, era di nuovo il vecchio De Gaulle — forte e minac­ cioso — quello che annunciò che avrebbe sciolto l’Assemblea e che ci sarebbero state le elezioni nel giro di tre setti­ mane. Nello stesso tempo i gollisti organizzarono un’enor­ me manifestazione sugli Champs Élysées, un milione di per­ sone. I parigini cominciarono a non poterne più di tutto quel caos. Ed ecco. Di colpo venne ristabilito l’ordine. Tutto l’happening del maggio 1968 finì all’istante. Gli eroi erano stanchi. Si sentiva che era stato... come dire... un grande momento.

P.F. - Aveva pensato di fare un documentario su quegli avvenimenti o di servirsene come punto di partenza per un film di fiction?

L.M. - Avevo deciso di non toccare la macchina da pre­ 214

Il ritorno

sa... avevo girato tutti quei mesi in India e c’erano già ab­ bastanza cineprese per le strade; molta gente che conosce­ vo filmava gli avvenimenti. Non pensavo quindi che fosse necessario. Quando tutto finì, c’è stata una valanga di film militanti basati su documenti filmati. Stavamo montando i nostri film indiani, ma, di notte, mettevamo a disposizione dei nostri giovani amici, che erano cineasti militanti, la sala di montaggio, perché potessero finire i loro film. Allora non mi era mai passato per la testa di utilizzare quel periodo per un film di fiction. Del resto, l’idea di Milou non viene nean­ che da lì. Volevo tornare in questa regione della Francia per girarvi un terzo film, un film su una casa di campagna e la fine di una famiglia, un tema un po’ cecoviano, se si vuole. Volevo attingere ai miei ricordi e parlare del passato, ma in modo meno evidente di Arrivederci ragazzi. Così, poi­ ché il tema di Arrivederci ragazzi era tanto tragico e il film tanto cupo, sentivo il bisogno di fare qualcosa di più leggero. Ero molto soddisfatto di Arrivederci ragazzi, e soprat­ tutto dell’accoglienza che aveva ricevuto. Ma quando un film ha molto successo, di solito si finisce per essere un po’ di­ sorientati. Dopo un fiasco, ci si rimette subito al lavoro per­ ché è un duro colpo da incassare e si vuole la rivincita. È stimolante... almeno per me. Il successo di Arrivederci ra­ gazzi mi aveva travolto, a dire il vero non me lo aspettavo. Siccome quel film mi stava molto a cuore, presenziai alla sua uscita in vari paesi; in Francia lo presentai di persona nelle scuole e nelle università. Ero curioso di verificare le reazioni del pubblico, e di discutere con esso, perciò con­ tinuai a vivere con quel film per molti mesi dopo la sua uscita. Poi, per reazione, pensai di fare un film sempre basato su ricordi, ma trattati questa volta sul piano della comme­ dia. Mi attraeva l’idea di fare un film di gruppo. Invece di avere uno o due protagonisti, volevo realizzare il ritratto di un gruppo sociale, in questo caso di una famiglia, un po’ come quella del Giardino dei ciliegi. Pensavo di ambien­ tarlo negli anni sessanta. Avevo in mente di parlare della fine di una famiglia, dopo la morte della matriarca. Date le leggi sulla successione, è impossibile dividere una casa. Gli 215

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eredi erano squattrinati, e quindi costretti a vendere quella splendida proprietà. Questo è l’inizio della storia. Poi pen­ sai che sarebbe stato interessante ambientarla nel bel mez­ zo del maggio 1968. Non fu in effetti un caso. Avevo cominciato a pensare a Mìlou nella primavera del 1988, quando i media francesi avevano celebrato, con grande solennità, il ventesimo an­ niversario degli avvenimenti di allora, e si erano apprestati a riesaminare ciò che era accaduto. Ci fu una quantità di articoli sui giornali e molte trasmissioni televisive. Ma il ri­ cordo che ne avevo io era molto diverso. I vecchi combat­ tenti del maggio 1968 facevano dichiarazioni pompose. Ov­ viamente, all’epoca avevano vent’anni, e quello era stato il grande evento della loro vita. Poi erano diventati funzio­ nari, uomini politici o pubblicitàri. C’era molta nostalgia. Il maggio 1968 era un sfondo perfetto per la mia sce­ neggiatura. Avevo la possibilità di esaminare — uno dei miei vecchi trucchi — in che modo reagiscono le persone quando unà\serie di. eventi le costringe a uscire dal loro tran tran quotidiano: fatti privati, còme la.morte della nonna, è fatti stòrici? il maggio 1968, anche se questa storia si svolgeva in unTrégióne della Francia molto pacifica e lontana da tutto. Le notizie della rivoluzione vi giungono in modo indiretto e distorto. D’un tratto i miei personaggi sono messi a con­ fronto con una situazione in cui devono improvvisare, e sono costretti a chiedersi chi sono. Non si vedono da molti anni e non provano un particolare affetto gli uni per gli al­ tri. Quello che sta loro più a cuore è seppellire l'anziana si­ gnora il più presto possibile, vendere la proprietà e tornar­ sene a casa: a Londra, Parigi, Nizza, Bordeaux. Ma riman­ gono bloccati là. E, ovviamente, accadono delle cose. In­ nanzitutto, essendo cresciuti tutti quanti in quella casa, ri­ scoprono il loro passato, le loro origini, la loro infanzia. E poi c’è la formidabile presenza di Milou, colui che è rima­ sto e che rappresenta la continuità, la tradizione. È com­ pletamente distrutto dalla morte della madre. Ma non è ostile alla rivoluzione; dopo tutto, è libero, non ha nulla da per­ dere; è generoso e aperto alle nuove idee. Il film è la satira di una certa borghesia ma, pur metten­ 216

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do un po’ in ridicolo i miei personaggi, volevo anche che fossero commoventi. Passano attraverso una serie di cam­ biamenti: insoddisfatti ed egoisti all’inizio, quando scopro­ no che non si può seppellire la nonna, finiscono per lasciarsi andare e cominciano a sognare una società utopistica: una vita comunitaria, la liberazione sessuale, tutte quelle idee alla moda. È primavera, c’è un tempo splendido, la natura prende il sopravvento. E poi c’è la svolta finale, quando ap­ prendono che De Gaulle è scomparso: «Forse è morto», di­ ce qualcuno, ed è il panico. P.F. - C’è quella scena in cui loro fraintendono le noti­ zie trasmesse alla radio. Mi ha fatto venire in mente il pani­ co seminato nel 1932 negli Stati Uniti da La guerra dei mon­ di di Orson Welles, quando la gente andò a rifugiarsi in mon­ tagna. In che momento si è rivolto a Jean-Claude Carrière? Non collaborava con lui da vent’anni, ma l’aveva incontra­ to a Parigi, all’epoca dei fatti del maggio, poco dopo essere tornato dall’india.

L.M. - Io e Jean-Claude siamo molto, molto amici. Per diverse ragioni non avevo più lavorato con lui dopo II la­ dro di Parigi. Ma mi aveva aiutato per Arrivederci ragaz­ zi. Gli avevo chiesto dei consigli. È un esperto della strut­ tura delle sceneggiature. Avevo lavorato per diversi mesi da solo a Milou a maggio e nel novembre del 1988 mi resi conto di avere bisogno di aiuto, di essermi bloccato. Ave­ vo tutti i personaggi, avevo un intreccio, più o meno, ma avevo ancora dei problemi soprattutto per la seconda par­ te. Così domandai a Jean-Claude di aiutarmi. Sapendo che era occupatissimo, gli chiesi se poteva dedicarmi un mese. Gli portai quello che avevo, settanta od ottanta pagine, e cominciammo da lì. Si trattava di una storia che lo toccava da vicino, molto più che a me, in un certo senso. Lui è originario di quella parte della Francia, e conosce molto bene la microcultura di quelle famiglie che per di­ verse generazioni, dalla fine del diciannovesimo secolo fi­ no agli anni cinquanta, avevano posseduto alcuni ettari di vigne ed erano vissuti in una certa prosperità. Non si am217

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mozzavano di fatica, perché la vigna non richiede molte cure, e vendevano bene il loro vino. Particolare significativo, nel luogo delle riprese incontrammo un problema: non c’era­ no più vigneti. Erano stati estirpati negli anni sessanta, per­ ché il governo aveva convinto i viticoltori a ridurre la pro­ duzione puntando sulla qualità; molti di loro avevano so­ stituito le vigne con alberi da frutto... o si erano semplicemente ritirati dagli affari... che è poi la storia della famiglia del film. Jean-Claude sapeva tutto, conosceva una quantità di sto­ rie sull’argomento. Ci tenevo che Milou andasse a pescare i gamberetti: ricordavo le pesche notturne, con le torce, cosa assolutamente proibita, che facevamo da bambini. Ma lui disse: «Conosco un altro modo. Metti le mani sotto la sponda del fiume, i gamberetti sono lì, e ti pinzano le dita». Mi for­ nì molti altri dettagli che sono andati ad arricchire la storia. Lavorammo velocemente, poiché volevo girare a tutti i costi in primavera o all’inizio dell’estate. È un film molto legato alla stagione. All’inizio volevo girarlo qui vicino, ma poi mi resi conto che il paesaggio doveva essere un po’ me­ no austero, più ridente e rigoglioso. Così cercammo nella regione del Gers. A quelli che mi accompagnavano nelle ri­ cognizioni continuavo a ripetere: «Non troveremo mai quel­ lo che ci serve, una casa con un grande ciliegio davanti». E un giorno imboccammo un viale che portava a una casa, fermai la macchina, scesi e vidi un grosso ciliegio. «È un se­ gno, — dissi — questa casa deve essere magnifica». E lo era. Devo averne esaminato circa una sessantina, e i miei amici anche di più, e fu come se si fosse trattato di fare un ca­ sting. Cercammo di girare al tempo delle ciliege. Ma quel­ l’anno non ce n’erano a causa della siccità, e così fummo costretti a mettere delle ciliege fìnte sugli alberi. Cominciam­ mo a girare a maggio, riuscendo così a beneficiare della lu­ ce primaverile. P.F. - È stato Jean-Claude Carrière a dare al film una cer­ ta patina surrealistica? Aveva lavorato con Bunuel... L.M. - Le scene alle quali pensa facevano parte della sce­ 218

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neggiatura originale. Volevo, e non sto cercando di giusti­ ficarlo o razionalizzarlo, che l’anziana signora ricomparis­ se alla fine, quando Milou rimane solo. Lei sarà là ad aspet­ tarlo. Le ultime parole sarebbero state: «Finalmente soli». Milou era chiaramente terrorizzato dalla madre, ma le ave­ va dedicato tutta la vita, e sebbene lei lo tiranneggiasse, egli l’amava appassionatamente. La scena della civetta è diret­ tamente tratta dai miei ricordi. Jean-Claude era piuttosto contrario alle riapparizioni del­ l’anziana signora. Forse aveva ragione, non so. Pensava che il film dovesse collocarsi da qualche parte tra Cechov e Fey/ deau. Gli sarebbe piaciuto che fosse un po’ più realistico. Io volevo che il film fosse un ritratto accurato e ironico di quel genere di famiglia. Ma volevo far sentire anche la ma­ gia della natura, la vita in campagna. Non mi interessava par­ ticolarmente che la trama fosse plausibile. Mi rendevo con­ to del fatto che il momento in cui tutti sono colti dal pani­ co e corrono a nascondersi nella foresta mancava di vero­ simiglianza. Molti lo ritennero esagerato e non lo accetta­ rono. Mi si è spesso detto: «Il film mi è piaciuto fino a quel punto, poi ho staccato». Non ho cercato di essere realista.

P.F. - È in quel momento che si verificano quelle discus­ sioni feroci, soprattutto tra le due sorelle, ribollenti di tutta l’acredine che accompagna lo smembramento di una fa­ miglia? L.M. - Sì, è veramente brutto. Ma sempre condotto nel registro della commedia. So da dove viene la faccenda del­ la madre che riappare: ancora una volta, da mia madre. Morì nel 1982. Somigliava un po’ alla Paulette Dubost di Milou a maggio, nel senso che aveva una personalità molto for­ te, era lei che teneva unita la famiglia. Poteva essere adora­ bile, ma anche tirannica. Da quando è morta, continuo a sognarla: tornava di continuo nei miei sogni, vi compare una volta su due. Da un certo punto di vista è magnifico: è come se non fosse morta. La vedo ancora, aleggia nei miei sogni. Credo che venga tutto da qui. Quando tornava, volevo 219

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che fosse più giovane, e che soprattutto non fosse vestita di nero, che indossasse un vestito estivo, che somigliasse a quella che era vent’anni prima. Appare ai suoi due fedeli ammiratori: Léonce. il tuttofare di casa, e Milou. Nella sce­ neggiatura appariva anche alla piccola Fran^oise: girai la sce­ na, ma poi finii per tagliarla. Non funzionava, non era una buona idea, si aveva l’impressione che fosse gratuita. Mi pia­ ce la scena in cui appare a Léonce, che si affanna a scavarle la tomba, di notte; ha un attimo di sorpresa, alza le spalle e continua il suo lavoro. Quando ebbi l’idea del personaggio di Fran^oise — na­ turalmente ci voleva una ragazzina nella storia — mi venne la tentazione di farne il personaggio principale e di osser­ vare il resto della famiglia con i suoi occhi. Sono sicuro che avrebbe funzionato benissimo, e che sarebbe stata una pro­ secuzione dei miei film precedenti. Ma temevo di ripeter­ mi. Milou a maggio è stata la mia unica occasione, insieme a II ladro di Parigi, forse, di trovarmi al cospetto di un ve­ ro gruppo di attori, come succede nelle opere di Cechov. In questi casi, è sempre diffìcile e richiede un’enorme con­ centrazione da parte del regista. C’erano dodici personag­ gi, tutti abbastanza importanti da svilupparsi nel corso del­ la storia, da trovarsi spesso in primo piano: personaggi che avevano tutti, in un momento o nell’altro, un ruolo attivo e importante. P.F. - Lei mette costantemente alla prova il pubblico, lo scuote, lo stimola, per vedere fino a che punto sarà colpito alla vista della gente che entra e si mette a danzare intorno alla madre sul letto di morte. C’è una scena in cui Milou ve­ de la nipote che si china a baciare la nonna defunta: non è del tutto sveglio, solleva la testa, e un guizzo di libidine gli balena-nello sguardo nell’intravedere le natiche della ra­ gazzina. C’è poi la scena in cui questa entra nella stanza delle giovani lesbiche e nota che una di loro è legata al letto. Il turbamento che si prova non proviene solo dalla scena in se stessa, ma anche dalla reazione della ragazzina; ci si do­ manda che cosa penserà, ed è allora che lei comincia a fare delle domande. Ha cercato di destabilizzare gli spettatori, 220

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o di prenderli alla sprovvista sul piano dei loro sentimenti. L.M. - Ho sempre fatto così, fin dall’inizio, correndo an­ che dei rischi. È per me una cosa naturale. Fa parte del mio carattere, forse è il mio particolare senso dell’umorismo. Mi piace stupire la gente, coglierla di sospresa. Talvolta è un po’ puerile, ma fa parte di quello che cerco di realizzare: proporre sempre un altro punto di vista, una diversa ango­ lazione; incoraggiare la gente, obbligarla a rimettere le co­ se in discussione, a guardarle con occhio diverso, a ripen­ sare ciò che sembra scontato. È una mia ossessione mostrare che tutte le opinioni sono soggettive. Sono sempre stato convinto che la Verità con la V maiuscola, la verità rivela­ ta, non esiste, è un’idea terroristica e nefasta. All’inizio ho cominciato a ribellarmi alla religione, specialmente alle no­ stre religioni monoteistiche, che predicano idee rigide e va­ lori intoccabili che non possono essere messi in discussione. Mi piacerebbe che lo spettatore di un mio film fosse con­ tinuamente stupito da ciò che vede, e che poi dicesse: «Ma guarda! Non è ciò che mi aspettavo, è qualcos’altro». È quel­ lo che ho sempre cercato di fare. Zazie, per esempio, era provocazione pura, in un certo senso, provocazione visi­ va; ma, dato che si trattava di una commedia, lo si è consi­ derato qualcosa che dovesse far ridere. Ricordo che quan­ do finimmo di montare Les Amants, lo mostrammo ai di­ stributori, e loro cercarono di convincermi a tagliare una ripresa, quella in cui Jeanne Moreau saluta la figlia prima di andarsene via. «E se lasciassimo perdere il fatto che ha una figlia?», mi dissero. È un momento molto romantico, e improvvisamente ci si ricorda che lei è anche una madre che, abbandonando la figlia, sta commettendo un’azione or­ ribile. Lasciare il marito, va bene, ma la bambina di quattro anni... pensavano che al pubblico non sarebbe piaciuto. Io risposi: «Mi spiace, ma è proprio questo il punto. Se taglio, non ha più senso. Se lei non avesse figli, passerebbe sem­ plicemente da un amante all’altro, e alla fine tornerebbe dal marito. Ma il fatto che scelga di abbandonare la bambina significa che la sua decisione è molto più importante. Se ta­ 221

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gliassi la scena, il finale del film sarebbe pesante, invece che grave». P.F. - In certi suoi film precedenti, trapelava un senti­ mento di ribellione contro la chiesa reazionaria. In Milou è il contrario, nel senso che il prete è buffo perché è di si­ nistra e ha delle idee molto alla moda. Capeggia la gioven­ tù locale, la incita a unirsi alla rivoluzione.

L.M. - La chiesa cattolica francese è sempre stata divisa tra accaniti reazionari da un lato, e preti operai e sostenito­ ri della teologia della liberazione dall’altro. Negli anni ses­ santa c’erano molti preti impegnati. Ancora una volta, cer­ cavo di offrirne una dimensione comica, perché non ci si sarebbe aspettati che un prete di campagna potesse essere così. P.F. - A proposito del gruppo di attori di cui ha parlato, ebbe l’opportunità di sviluppare i personaggi discutendo con loro e facendoli improvvisare durante le prove?

L.M. - Sono molto orgoglioso del cast di Milou. Se do­ vessi rifarlo, non cambierei nulla. Ero soddisfatto di tutti... forse con un’unica eccezione, dato che non c’è nulla di per­ fetto. Quando cominciai a scrivere la sceneggiatura, e an­ cor più quando la finii con Jean-Claude, avevamo già in men­ te attori e attrici ben precisi. Volevo fin dall’inizio che a in­ terpretare Milou fosse Michel Piccoli. Il ruolo era scritto per lui. Per quanto riguarda Camille... fu un’idea di Jean-Claude... all’inizio ero perplesso, poi pensai che fosse un’idea splen­ dida, un eccellente esempio di contro-ruolo, fare di MiouMiou una borghese altezzosa, convenzionale e reazionaria. Quando le presentammo la sceneggiatura, ci telefonò e disse ridendo: «Ma come vi è venuto in mente di pensare a me per questa parte? Non mi ci riconosco assolutamente, non ho mai fatto nulla del genere, e il personaggio mi è total­ mente estraneo». Aveva accettato volentieri, dicendomi però che avrebbe dovuto documentarsi a fondo. Ero sicuro che sarebbe stata magnifica in quel ruolo. Per quanto riguarda 222

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alcuni altri, Dominique Blanc, per esempio, ci avevamo pen­ sato sin dall’inizio. Durante la preproduzione, lavorammo alla sceneggiatura e, a poco a poco, come in un puzzle, tutti i pezzi andarono a posto. Era fondamentale non scegliere gli attori separatamente, ma tenere conto dell’alchimia che si sarebbe pro­ dotta tra tutte quelle persone. Due mesi prima delle ripre­ se, cominciammo a riunirci a casa di Jean-Claude, a Parigi. Mangiavamo tutti insieme, era magnifico. Prima ancora che il cast fosse completo. Leggevamo la sceneggiatura, poi gli attori facevano domande e davano suggerimenti, alcuni ec­ cellenti. Ne ricordo uno di Miou-Miou riguardo al suo per­ sonaggio. A un certo punto Claire, interpretata da Domini­ que Blanc dice, vedendo sua nonna morta: «Non le volevo bene... Ci faceva sempre lavare le mani». E Miou-Miou: «E se ereditassi questo fatto dalla nonna?». Per questo, nel film, ordina più volte ai gemelli: «Andate a lavarvi le mani». Ci riunivamo a scadenze regolari, e ogni volta c’era un nuovo attore. Ben presto decisi di scritturare Paulette Dubost, con la quale avevo già lavorato in Viva Maria. Adoravo Paulette. P.F. - Vi è forse in questo un riferimento a La regola del gioco — come nel caso di Gaston Modot, in Les Amants?

L.M. - Oh! Certamente. Il cerchio si era chiuso. Lei muore nella prima scena, ma è un personaggio cruciale, sempre presente, assolutamente potente all’interno della famiglia, un costante punto di riferimento. Il mio unico problema con Paulette, benché abbia già più di ottant’anni, credo, è la sua splendida forma fisica. Per la scena in cui è sul letto di morte, fummo costretti a invecchiarla. Sembra talmente giovane! Mi chiedevo persino se sarebbe sembrata credibi­ le come madre di Piccoli. In seguito, ci trasferimmo tutti in quello splendido luo­ go in cui girammo tutto il film. Era primavera, ed eravamo felici di lasciare Parigi e di isolarci dal resto del mondo. L’in­ tesa era perfetta, un fatto che non capita sempre. Trascor­ remmo un’intera settimana a provare sul posto. E anche in costume. Essendo un film di gruppo, era essenziale che tutta 223

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quella gente, che proveniva da ambienti differenti, impa­ rasse a conoscersi e diventasse una famiglia, prima di co­ minciare. È forse il più bel ricordo delle riprese. La sceneg­ giatura funzionava veramente bene. Era un momento tal­ mente meraviglioso che in fondo avevo paura. Jean-Claude, che era a Parigi, veniva chiamato in continuazione da tutti loro, che gli dicevano come fosse meraviglioso, come tut­ to filasse a meraviglia. Così mi chiamò e disse: «Louis, sta’ in guardia. La commedia è un genere difficile. Quando sul set le cose vanno troppo bene, di solito è un brutto segno». «Lo so, lo so, — gli risposi — cerco di mantenere la con­ centrazione. Ma è dura». Dato che la maggior parte delle scene si svolgeva all’in­ terno e nei dintorni della casa, era possibile girare più o me­ no nell’ordine della sceneggiatura, il che accade di rado in una programmazione normale. Lavorammo molto intensamente, ma ci divertivamo tutti un mondo. Non sembrava neanche di lavorare. Gli attori erano molto creativi. In varie scene venivano inquadrate una decina di persone. Avevano tutte qualcosa da fare. Po­ tevo contare su di loro. Ad esempio, fin dai primi giorni mi resi conto che Michel Piccoli, che è un professionista talmente bravo da poter fare venticinque riprese con risul­ tati eccellenti in tutte quante, nella primissima ripresa dava qualcosa di particolare, qualcosa in più, l’impressione di in­ ventare le sue battute. Nel montaggio finale ho tenuto di solito le prime riprese. Per altri attori, dato che avevano me­ no esperienza o avevano bisogno di scaldarsi, ci voleva un po’ più tempo. Di conseguenza, quando c’erano delle sce­ ne d’insieme, ero davvero nei pasticci! Fare un film conferisce un’intensità incredibile ai rap­ porti umani; assomiglia a una storia d’amore appassionata che si consumi in un breve arco di tempo. Dura otto, nove o dieci settimane, ma sembra tutta una vita. E poi si tratta di una nascita, della nascita di questa cosa che si sta facen­ do insieme, del film. Esso assume una vita propria. E d’im­ provviso si era arrivati alla fine di agosto e le riprese termi­ narono. Dopo un’esperienza così intensa, è sempre molto difficile il momento in cui ci si dice reciprocamente arrive­ 224

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derci, si fanno le valige e ci si separa per andare a girare al­ trove. Il regista rimane solo con centinaia di «pizze», dalle quali deve cercare di cavare qualcosa che abbia un senso. Ti senti abbandonato, quasi tradito. Quando tutto è anda­ to bene, ma anche se le cose sono andate male... in un cer­ to senso è lo stesso, dato che solo la natura del sentimento è diversa... è così forte che è difficile immaginare il vuoto che resta quando tutto è finito. È un po’ come morire ogni volta. Milou è stata un’esperienza particolarmente gratifican­ te. Ancora oggi, continuiamo a vederci a Parigi; abbiamo formato una sorta di circolo di veterani, «1 vecchi di Milou a maggio*. Gli siamo stranamente fedeli e, quando ne ab­ biamo la possibilità, ritorniamo sul luogo delle riprese. P.F. - Ci sono pochissimi film francesi ambientati in In­ ghilterra, o nei quali appaiano personaggi inglesi. Qui, ce ne uno, interpretato da Harriet Walter, la seconda moglie del figlio che lavora per «Le Monde» a Londra. Come mai scelse un’attrice inglese? Se fosse stato per cercare di esse­ re distribuito all’estero, avrebbe dovuto prendere un’ame­ ricana, con un marito che lavorasse per «Le Monde» a Wa­ shington o a New York...

L.M. - Originariamente si trattava di un'americana, ma poi pensai che sarebbe stato divertente rievocare la «swin­ ging London» di allora. In quegli anni Londra era molto avan­ ti rispetto a tutte le altre capitali, molto aggiornata, la flo­ wer generation, la musica, la moda. Così feci di questo per­ sonaggio una hippy non più molto giovane, il che era di­ vertente. È il ricordo che ho conservato di quel periodo. Certi vestiti che indossava Harriet appartenevano ad Ale­ xandra Stewart che li portava all’inizio degli anni sessan­ ta... mantello afghano, collane e cinture tibetane. Per for­ tuna, li aveva conservati. Ero contentissimo di avere scelto Harriet, specialmente quando scoprii che parlava un fran­ cese impeccabile. Nonostante tutto fu molto dura per lei, perché parlare perfettamente una lingua straniera è alquan­ to diverso dal recitare in quella lingua. 225

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L’avevo già sperimentato con Lea Massari in Soffio al cuore, e ne ebbi la conferma con Juliette Binoche in II dan­ no. Ma Harriet se la cavò benissimo. Non avrebbe avuto sen­ so inserire una star americana in questo gruppo di attori così omogeneo. Harriet funzionava perfettamente con Michel Duchaussoy, che interpretava la parte del marito... il corri­ spondente a Londra di «Le Monde» che infiora la sua con­ versazione di frasi in inglese.

P.F. - La musica di Grappelli, data l’ambientazione, rie­ vocava inequivocabilmente alla maggior parte degli spetta­ tori quella di Django Reinhardt, utilizzata per la colonna so­ nora di Cognome e nome: Lacombe Lucien. Fu una scelta del tutto casuale? L.M. - No, naturalmente! Adoro Grappelli, e trovavo sor­ prendente che avesse fatto la musica soltanto per un altro film, I Santissimi di Bertrand Blier, anch’esso con MiouMiou. Era una musica eccellente che si notava appena — il miglior complimento che si possa fare a una colonna so­ nora. Lo stesso non si può dire di quelle di John Williams4! Avevo sempre pensato a Grappelli. All’inizio, mentre ero alle prese con il personaggio di Milou, avevo scritto questa nota a margine: «Milou è il violino di Grappelli». C’era an­ che della musica sincrona nel film, per esempio quando Clai­ re suona Debussy o Camille canta un’aria di Mozart, e an­ che, ovviamente, queirassurda canzone di cui si ricordava Jean-Claude: La fitte du Bédouin.

P.F. - La canzone con cui ballano? È una canzone tradi­ zionale francese? Non l’avevo mai sentita prima. L.M. - È la canzone più nota di un’operetta che ebbe un certo successo negli anni trenta, Le Comte Obligado. Per una strana coincidenza, Paulette Dubost la interpretò pri­ ma a teatro, e poi al cinema. Pensai che fosse un segno. Prima di far venire Grappelli, avevo selezionato diversi brani dai suoi album che mi sembravano adatti allo spirito del film, e li avevo montati sulle immagini. Così Grappelli 226

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potè assistere a una proiezione del film con la sua musica. Naturalmente, doveva essere un’altra cosa, perché alcuni brani non funzionavano. Ma partimmo da lì. Stéphane, più grande che mai a ottantadue anni, ribolliva di idee. Infine, in studio, procedemmo un po’ allo stesso modo che con Miles Davis. Grappelli aveva con sé dei musicisti, con i quali lavora di solito, due chitarre e un piano. Non c’era partitura scritta, ma era stato tutto preparato nel cor­ so di diverse settimane passate a scegliere e a discutere. Ma quando arrivammo allo studio, l’improvvisazione finì per prendere il sopravvento. P.F. - Nella scena del picnic, dopo essersi inebriati di vi­ no, di grandi idee e di un po’ di marijuana, i personaggi si sentono dei rivoluzionari e parlano di fondare una comu­ ne. Appena Si incamminano, Grappelli abbozza una versio­ ne swing Internazionale; è una cosa molto comica e non manca mai di scatenare le risate del pubblico. Di chi è stata l’idea?

L.M. ■ Ebbi quest’idea fin dall’inizio. Prima di lavorare con Grappelli, avevo inserito una versione valzer dell’/wlernazionale elaborata da un amico con il sintetizzatore, per vedere se funzionava. Era piacevole e molto buffo, natu­ ralmente. Le dico com’è nata l'idea. Quando stavo girando Soffio al cuore avevamo pochissimi soldi e un gran biso­ gno di moltissime comparse per la scena del ballo del 14 Luglio (quella che precede la scena dell’incesto). Il mio as­ sistente era membro di un gruppo maoista, per cui gli dis­ si: «Fernand, perché non porti qui i tuoi amici! Li pagherò o verserò i soldi per la causa». Volevo delle comparse mol­ to giovani, impossibili da trovare attraverso il sindacato. Ven­ nero e si accorsero in fretta che fare la comparsa in una ri­ presa notturna è interminabile. Ed è pure noioso. Si stan­ carono. Avevamo un’orchestrina, tipica orchestra da 14 Lu­ glio, e loro cominciarono a insultarla. Dissero ai musicisti: «Quello che suonate è merda. Perché non suonate L'inter­ nazionale?*. Per prenderli in giro, o forse per calmarli, l’or­ chestra attaccò improvvisamente L'internazionale a ritmo 227

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di valzer. Lo trovai meraviglioso. Pensai di utilizzarlo subi­ to, ma non poteva adattarsi a Soffio al cuore, ambientato in una stazione termale, nel 1954. Ma fu qualcosa che mi rimase impresso, e mi dissi che Milou sarebbe stata un’ottima occasione di utilizzarla, spe­ cialmente nel momento in cui si mettono a sognare di cam­ biare il mondo. Stéphane non era molto convinto. Mi dis­ se: «Nel 1939 Django e io registrammo La marsigliese in versione jazz, e ci tirammo addosso un mucchio di proble­ mi». Ribattei: «Non c’è nulla di cui preoccuparsi, soprattut­ to al giorno d’oggi; la gente lo prenderà come uno scher­ zo». Così acconsentì di cominciare L’internazionale a tempo di valzer, che in breve trasformò in jazz, naturalmente. Mi dispiace solo che, per non coprire le battute che in quel pun­ to sono divertenti e importanti, fui costretto ad abbassare la musica. In disco è veramente comica.

1. Gilles Jacob: critico c documentarista francese. Responsabile gene­ rale e direttore della selezione del festival di Cannes a partire dal 1977. 2. La giuria di Cannes del 1968 era costituita da André Chamson (Presi­ dente), Monica Vitti (Italia), Claude Aveline (Francia), Boris von Borrezholm (Germania Ovest), Veljko Bujalic (Jugoslavia), Paul Cadéac d'Arbaud (Francia), Jean Lescure (Francia), Louis Malie (Francia), Jan Nordlander (Svezia), Roman Polanski (USA), Rojdestvensky (URSS), Terence Young (Inghilterra). Tra i film selezionati (ma dato che quel­ l’edizione venne interrotta, non venne attribuito alcun premio) c’e­ rano Petulia di Richard Lester; L’errore di vivere di Albert Finney; Doctor Glass di Mai Zetterling; The Firemen's Ball di Milos Forman; Anatomia di un suicidio di Alain Resnais, e il film in tre episodi ispi­ rati alle Storie straordinarie di Edgar Allan Poe, di cui solo quello di Fellini e quello di Vadim avrebbero potuto concorrere per la Pal­ ma d’Oro. 3. André Chamson (1900-1983): romanziere, saggista e storico d’arte francese, nato in Provenza, dì origine protestante. Molti dei suoi ro­ manzi (tra gli altri Les Hommes de la route, 1927) sono ispirati alla vita contadina nelle Cévennes, montagne dove Chamson è cresciu­ to. Fu presidente del PEN International nel 1956 e direttore delle Ar­ chives Nationales negli anni sessanta.

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il ritorno 4. John Williams (1932): pianista e compositore americano, iniziò a mu­ sicare film a partire dagli anni sessanta, diventando poi celebre con le fragorose musiche di film catastrofici ed epici e dei film di Steven Spielberg. Vinse dei premi Oscar per Lo squalo, Guerre stellari e E. T.

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VI - Il danno

P.F. - Qualunque buon conoscitore della sua opera che abbia letto // danno di Josephine Hart1, venendo a sapere che lei aveva in mente di farne un film, avrebbe notato nel romanzo la presenza di alcuni temi che le stanno a cuore: l’ambiente dell’alta borghesia, l’incesto, il suicidio, la resa di fronte a una passione irresistibile. Come scoprì il libro e cosa ne apprezzò in particolar modo?

L.M. - Lessi II danno prima della sua uscita, perché Jo­ sephine Hart mi mandò le bozze. All’epoca stavo lavoran­ do, tra grandi difficoltà, a una riduzione in chiave moderna di Ciò che sapeva Maisie2- di Henry James. Quando lessi II danno vi trovai un certo numero di temi, momenti e per­ sonaggi che mi affascinarono; ne fui totalmente sedotto. Opzionai in tutta fretta il libro per il tramite della NEF, la mia società francese. Guarda caso, interessava anche a diversi studi americani... era il gennaio 1991. Ero stato operato, e dovevo starmene tranquillo a Los Angeles. Per il ruolo del protagonista, pensai subito a Jeremy Irons, e quando leg­ gemmo il romanzo assieme, egli accettò immediatamente con entusiasmo. Così ebbi sia il libro, sia Jeremy. Buttai giù una traccia, e mi accorsi che sarebbe stato molto più diffì­ cile di quanto pensassi. Il romanzo è scritto in prima per­ sona, ed è totalmente incentrato sulla figura del narratore, le sue sensazioni, i suoi ricordi, le sue emozioni, è come una continua voce fuori campo. Iniziai mantenendo que­ sta voce fuori campo, ma era estremamente rischioso. Il rac­ 231

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conto diventa talmente soggettivo, che sarebbe stato diffì­ cile dare vita agli altri personaggi. Lavorai per un po’ con Jean-Claude Carrière, cercando di raccontare la storia in ter­ mini più oggettivi, ma continuava a restare incentrata sul narratore.

P.F. - Per certi aspetti, questo breve romanzo, acuto e molto analitico sul piano dei sentimenti, si avvicina a una certa tradizione francese — si pensi a II diavolo in corpo di Raymond Radiguet, a L'amante di Marguerite Duras, e magari anche a libri da lei adattati per il cinema, Point de Lendemain di Vivant-Denon e Fuoco fatuo di Drieu La Ro­ chelle.

L.M. - Sì, sono d’accordo. Leggendo il libro pensai im­ mediatamente a Les Amants. C’è lo stesso tipo di ambiente sociale; parla di un uomo che scopre il vuoto della sua esi­ stenza; succede qualcosa che fa crollare il convenzionale universo borghese in cui vive. Mi pareva interessante rivi­ sitare questa tematica, e inoltre ero affascinato da Anna, que­ sta donna inquietante che vuole sia il padre sia il figlio. In un certo senso, il libro appartiene a una tradizione france­ se, ma è anche un racconto gotico, pieno di teatralità. Comunque, sentivo di dover lavorare molto sul libro. Per esempio i lunghi dialoghi stilizzati ed estremamente let­ terari avrebbero posto delle serie difficoltà agli attori. Nel­ la prima sceneggiatura che preparai con Jean-Claude, ci era­ vamo allontanati troppo dal romanzo. Avevo l’impressio­ ne di avere perso ciò che mi era veramente piaciuto nel ro­ manzo, e decisi di ricorrere a uno scrittore inglese. A un certo punto avevo pensato di ambientare la storia in Fran­ cia o in America, ma la connotazione decisamente inglese dello sfondo era importantissima. Così cominciai a lavora­ re con David Hare3. Aveva letto il libro e gli era piaciuto. Non piacque a tutti. Lavorammo piuttosto in fretta e tiram­ mo fùori una sinopsi di trentacinque pagine. Aumentam­ mo la drammatizzazione dell’intreccio, dato che, dal mo­ mento in cui il protagonista è preso da passione per la don­ na, cosa che accade abbastanza presto nel libro, la narrazione 232

Il danno

diventa molto lineare. Sviluppammo alcune vicende e al­ cune contraddizioni e introducemmo una scansione dram­ matica. Fui molto contento quando in autunno lessi la pri­ ma stesura di David. Girammo solo a febbraio, a causa del­ le condizioni meteorologiche. Nel frattempo avevo pensato a Juliette Binoche per il ruo­ lo di Anna Barton. Era una parte che sarebbe piaciuta a molte attrici. Nel libro è una donna misteriosa e piuttosto impe­ netrabile. Io e Jean-Claude Carrière conoscevamo già Juliette, e quando David Hare venne a Parigi gliela presentai. A po­ co a poco la parte venne scritta per lei. Quando cominciam­ mo le prove, avevamo un’altra sceneggiatura che era più vicina al libro, pur conservando le aggiunte che vi aveva­ mo apportato. La sceneggiatura ha un’intensa connotazio­ ne drammatica: in certo modo, è una tragedia classica. Vi si sente la mano del destino, di qualcosa di inesorabile: si capisce che finirà tragicamente, a mano a mano che ci si addentra nelle relazioni tra i personaggi. Eppure, nella sto­ ria di una donna che rincorre un sogno utopico, deve es­ serci la speranza... o la paura... che possa realizzarsi. P.F. - La conclusione tragica è la conseguenza di un lon­ tano incesto vissuto da Anna nel passato (quindici anni pri­ ma) e della passione sensuale di Stephen. In quale misura lei fa qui un confronto con le conseguenze di avvenimenti che, in Soffio al cuore e in Les Amants, avevano apparen­ temente avuto un lieto fine?

L.M. - Les Amants non ha proprio un lieto fine. È un finale in sospeso. La grande differenza sta nel fatto che il fratello di Anna si è suicidato a sedici anni e che lei deve convivere con il peso di questo dramma. Lei era allora gio­ vanissima, e aveva subito un trauma tremendo. L’idea inte­ ressante del libro è che lei, per il fatto di essere sopravvis­ suta, è diventata pericolosa: i sopravvissuti sanno che se la caveranno, qualunque cosa accada. P.F. - È la prima volta dopo Fuoco fatuo, ventisette an­ ni fa, che ha ambientato un film nell’Europa attuale. Si è 233

li mio cinema

forse sentito in obbligo di osservare la società europea di oggi, oppure pensa che l’Inghilterra non faccia parte del­ l’Europa?

L.M. - Ero felice di fare un film contemporaneo dopo aver esplorato il mio passato... tuttavia, come ha detto, ci sono in II danno molti temi di cui mi ero già occupato. Il fatto che sia ambientato nell’Inghilterra contemporanea lo avvicina un po’ ai miei film americani (a parte Pretty Ba­ by), nel senso che mostra una determinata condizione del­ la società contemporanea. Ho tentato di osservare il com­ portamento degli inglesi. Ma, ciò nonostante, non penso che sia un film inglese come gli altri. P.F. - È curioso che solo pochi registi francesi abbiano lavorato in Inghilterra o girato film ambientati in quel pae­ se. René Clair (Ilfantasma galante) e Marcel Carnè (La stra­ na avventura del dottor Molineaux) negli anni trenta; do­ po la guerra René Clément (Le amanti di Mr. Ripois), Fran­ cois Truffaut (Fahrenheit 451), Jean-Luc Godard (Oneplus one) e più recentemente Bertrand Tavernier (La morte in diretta). Erano tutti film di genere fantastico o anticipatorio, a parte quello di Clément.

L.M. - È strano, ma per andare dalla Francia in Inghilter­ ra bastano quaranta minuti, eppure tra i due paesi ci sono incredibili differenze culturali, anche oggi, nonostante l’u­ nità europea e tutto il resto. Ritengo fondamentale provare a capire in che modo le persone reagiscano sul piano dei sentimenti. È importante per me che Anna sia mezza fran­ cese e che sia interpretata da un’attrice francese, dato che ha veramente una sensibilità differente. Ho sempre voluto che non fosse inglese (come nel libro), in modo da porsi su un piano di forte contrasto con gli altri personaggi, radi­ cati nel contesto inglese. Dato che è figlia di diplomatici, e che sua madre è francese, ha viaggiato moltissimo e non appena fa la sua apparizione nella storia risulta chiaro che proviene da un altro posto. Ovviamente, ero un po’ preoc­ cupato dal fatto che il pubblico inglese e americano potesse 234

// danno

liquidarla dicendo: «Beh, per forza, è francese».

P.F. - Nei film inglesi degli anni cinquanta e sessanta si era presa l’abitudine di far fare ad attrici continentali le parti di donne sessualmente libere... anche se nel romanzo da cui era tratto il film si trattava chiaramente di personaggi inglesi. Basti pensare a Simone Signoret, chiamata a inter­ pretare il ruolo di una borghese dello Yorkshire in La stra­ da dei quartieri alti di John Braine, o, in Sesso, peccato e castità quello della sensuale moglie di un uomo d’affari gallese (il film è tratto dal romanzo di Kingsley Amis That Uncertain Feeling), che era poi divenuta una scandinava nel­ l’interpretazione di Mai Zetterling.

L.M. - Alcune aree culturali sono diffìcili da capire. Di­ ciamo che in Juliette c’è qualcosa di mediterraneo, non ne­ cessariamente francese, che la pone ai margini della fami­ glia inglese, estremamente convenzionale, del film. Non vo­ levo farne una donna fatale, una distruttrice, ma doveva es­ sere diversa. P.F. - Nel suo film, il personaggio di Stephen è meno provinciale, meno limitato rispetto ai politici che lo circon­ dano, che scherzano di continuo sulla loro ignoranza della lingua francese e che durante una visita alla sede della Co­ munità Economica Europea di Bruxelles sottolineano il gri­ giore e l’incomprensibilità del discorso dei politici europei. A differenza di loro, egli è pronto per quel genere di espe­ rienza. L.M. - Sì. Non volevo farne un inglese caricaturale. E spe­ ro anche che questa storia abbia una portata che superi il fatto che il personaggio sia inglese. Come spesso accade al­ l’interno della nuova generazione di politici, Stephen è più aperto. È un conservatore, ma dell’ala moderata. È uno che si preoccupa; non è ambizioso. Sua moglie sembra esserlo più di lui, ma gli uomini politici che dicono di non essere ambiziosi sono quelli di cui bisogna diffidare di più! 235

H mio cinema

P.F. - Come è andata la sua collaborazione con David Hare? Credo che abbiate un punto di vista piuttosto simile sulla borghesia, ma politicamente Hare è più a sinistra di lei. L.M. - Sì. Ma non penso che abbia avuto molta impor­ tanza. Ci trovammo fin dall’inizio d’accordo sul fatto di non fare una satira della classe dirigente, ma un’analisi dei suoi costumi. Jeremy era molto preoccupato: temeva che, essen­ do di sinistra, David avrebbe ridicolizzato il personaggio di Stephen, ma ciò non è accaduto. P.F. - Negli ultimi dieci anni, egli ha lavorato molto per il teatro e il cinema nell’Inghilterra della signora Tatcher: film e pièces sulla situazione nazionale, risolte invariabilmen­ te in chiave accusatrice. Quell'Inghilterra appartiene ormai al passato, per lo meno per quanto riguarda il nome che portava. È un genere di film che, suppongo, non ha molto avvenire.

L.M. - Beh, il genere al quale appartiene il romanzo è diverso, e anche David ci si trovò molto a suo agio. Fin dal­ l’inizio ebbi un rapporto molto buono con lui. Come sa, mi piace collaborare strettamente con i miei sceneggiatori, e per lui questa era un’esperienza nuova, per la semplice ragione che aveva scritto sempre da solo le sue pièces, le sue sceneggiature o i suoi telefilm, ne curasse o meno la re­ gia. Era la prima volta che adattava un romanzo (cosa che si era sempre rifiutato di fare) per un regista che glielo ave­ va portato, e che aveva un sacco di idee su come avrebbe dovuto essere il film. Non era abituato a lavorare così. Pen­ so che gli sia piaciuto molto. P.F. - Che genere di problemi ha incontrato nel portare la sceneggiatura sullo schermo? L.M. - Beh, i personaggi camminano sempre sul filo del rasoio. In un certo senso, il comportamento di Stephen è autodistruttivo, ed è facile pensare ad Anna come a un ve­ ro e proprio mostro. Quindi, io sono sempre sul filo del 236

// danno

rasoio, il che rende le riprese molto difficili perché si deve sempre mantenere l’equilibrio. È una storia estremamente choccante, ma se il pubblico condanna o rifiuta i personaggi, vuol dire che avrò fallito. Spero che il personaggio di Anna venga capito. È enigmatica, e lo deve essere. Ma rincorre un sogno, che credo sia comune a molte donne: quello di essere ramante di due uomini che corrispondano a bisogni diversi, e di trovare la felicità in mezzo a loro due. Ma a causa del suo passato, consciamente o inconsciamente, li condu­ ce alla catastrofe. P.F. • Mentre preparava // danno, aveva in mente film o romanzi inglesi... a parte quelli di Josephine Hart o David Hare, ovviamente... che avrebbero fatto da guida in mate­ ria di stile o di analisi dei comportamenti? L.M. - Ho letto molti romanzi e visto molti film, ma non ho fatto ricerche particolari, a parte punti estremamente spe­ cifici, per esempio la vita quotidiana di un uomo politico inglese. Ho fatto affidamento su David per quanto riguarda tutto ciò che è tipicamente inglese. Complessivamente, ho finito per trascorrere quasi un anno in Inghilterra prima di cominciare a girare, e adesso ho l'impressione di conosce­ re meglio questo paese. Ma sa dirmi se ci sono stati recen­ temente film inglesi su questo ambiente sociale?

P.F. - C’è proprio il film di David Hare, Paris by Night, abbastanza strano, nel quale una donna-deputato conser­ vatore attraversa la Manica e trova la sua rovina in Francia. Lavorando con un cast in gran parte inglese, fino a che punto ha tenuto conto dei pareri dei suoi attori in materia di com­ portamento, e a proposito di ciò che potevano o non pote­ vano fare i loro personaggi? Li ha accettati come collabo­ ratori? L.M. - Beh, ho fatto sempre così, a parte casi particolari come Arrivederci ragazzi, dove mi sono basato sui miei ricordi o su delle ricerche. Ma quando lavoro con Jeremy, Miranda Richardson o Rupert Graves, mi interessa sempre 237

// mio cinema

quello che hanno da dire a proposito del personaggio. Il danno è stato uno dei miei lavori in cui la collaborazione è risultata più fruttuosa. È così che lavoravo in America; quando avevo degli attori di cui mi fidavo, spesso pensavo che a proposito del loro personaggio he sapessero più loro di me. Nel caso di II danno, mi è capitato di non essere d’ac­ cordo con loro, ma c’era comunque un vero dialogo. Alle volte cerco di fare le cose in modi diversi... ma quando gi­ riamo la scena ogni cosa sembra andare al suo posto, e tro­ vare la sua verità. E finora tutto è andato bene. P.F. - Nei suoi film americani, a parte La mia cena con André, lei si è occupato delle classi popolari, e non dell’am­ biente privilegiato che frequentava negli Stati Uniti. Il danno è ambientato nel mondo dell’alta borghesia inglese, che è l’equivalente di quello in cui lei è nato.

L.M. - È vero, ma ci sono parecchie differenze, sottili e affascinanti. Superficialmente, a livello di modi e compor­ tamenti, è un ambiente che in effetti mi è molto familiare. Penso di saperne di più degli attori riguardo al comporta­ mento di questi personaggi. È un universo molto particola­ re, ma spero che anche il pubblico non inglese lo trovi in­ teressante, non solo perché è il ritratto di una determinata classe sociale, ma anche per ragioni più vaste... perché tratta di sentimenti che chiunque può provare. L.M. - Alla fine del romanzo di Josephine Hart l’anoni­ mo narratore, che nel film lei chiama Stephen Fleming, do­ po lo scandalo fugge dal mondo per ritirarsi in un luogo che non viene specificato. Nel film si stabilisce a Caylus, non lontano dal paese di Lucien Lacombe, dai luoghi dove si svolgeva la guerra civile di Luna nera e dalla decadente dimora di Milou, per non parlare della sua stessa casa di cam­ pagna. Di chi fu la scelta? L.M. - Interamente mia. Volevo finire in una di quelle piccole città del sud ovest della Francia, molto austere, che ricordano vagamente la Spagna. Non è come ritirarsi a Saint238

// danno

Tropez. Josephine Hart era molto preoccupata: «Si ritirerà in Provenza?». «No, no», la rassicurai. «Quando vedrà la cit­ tadina in cui si ritira, si accorgerà di com’è medioevale. È come se si facesse monaco, in un certo senso».

1. Josephine Hart: nata in Irlanda, moglie del magnate della pubblicità Maurice Saatchi, ha lavorato in editoria e realizzato produzioni tea­ trali, e in particolare La casa di Bemarda Alba di Garcia Lorca e Tbe Vortex di Coward. Il danno è il suo primo romanzo. 2. What Maisie knew: romanzo breve di Henry James, pubblicato nel 1897, scritto sulla base di una sceneggiatura molto particolareggiata destinata al palcoscenico, è tra le prime opere di fiction a trattare degli effetti di un divorzio su una ragazzina; l’azione è ambientata nell'alta borghesia inglese. Come Anna Barton in II danno, Maisie Farange (dal cui punto di vista è narrato gran parte del romanzo) è una bambina quando i genitori si separano e si risposano, e quando i rispettivi consorti dei due genitori vanno via insieme dando luogo a un curioso scambio di partner. Nel film di Malie, Stephen Fleming fa una visita ad Anna, mentre lei è insieme a un antico amante. Lei fìnge allora che Stephen sia venuto a cercare un libro, c gli dà pro­ prio un esemplare di Ciò che sapeva Maisie. 3. David Hare (1949): scrittore di teatro e regista inglese, direttore as­ sociato del National Theatre. Per il cinema ha adattato la sua opera teatrale Plenty (regia di Fred Schepisi, 1985) e ha scritto e diretto // mistero di Wetherby ( 1985), Paris by Night ( 1990) e Strapless (1991).

239

Epilogo

P.F. - Ora che siamo giunti alla fine di questo viaggio attraverso la sua carriera, vuole fare qualche considerazio­ ne finale?

L.M. - Mi preoccupa sempre moltissimo fare delle «di­ chiarazioni», specialmente quando vengono poi pubblica­ te, acquistando così l’aspetto di «pensieri». Tuttavia, penso proprio che sia essenziale per un artista creare un univer­ so, un universo definito da uno stile e da un modo di vede­ re le cose. Al tempo stesso ammiro gli artisti che sanno cam­ biare, che non rimangono sempre vincolati alla stessa tec­ nica, alla stessa forma espressiva. Prendiamo un pittore come Georges de la Tour. Era os­ sessionato da un certo tipo di illuminazione e continuò a ripetere quello stesso effetto in tutte le sue opere. Sicura­ mente de la Tour aveva un suo universo, ma la mia predile­ zione va a quegli artisti che cercano costantemente di apri­ re e allargare il campo dell’esperienza. Perciò, per me, l’ar­ tista supremo è Matisse. Dico Matisse piuttosto che Picas­ so, perché Picasso è sempre stato un grande virtuoso: era il camaleonte per eccellenza. Mi piace Matisse per il modo paziente e riflessivo con cui ha allargato i propri orizzonti, muovendosi costantemente verso una maggiore semplici­ tà, verso l’essenziale. Per quanto mi riguarda, nel mio lavoro sono sempre pronto a lanciarmi in cose nuove o completamente diver­ se. Un critico francese una volta mi disse: «Quando vado 241

// mio cinema

a vedere un suo nuovo film, sono sempre a disagio. Sono un po’ diffidente, e mi chiedo: “Cosa tirerà fuori questa vol­ ta?”». Quando la gente mi dice che ho fatto tutti questi film in direzioni così diverse, e si chiede cosa abbiano in comu­ ne, tutto quello che posso rispondere è: «Me stesso». Per­ sonalmente, tendo a pensare di essere incline a ripetermi, così cerco di resistere alla tentazione di tornare su ciò che ho già esplorato. All’inizio era tutto così entusiasmante... tra l’altro per­ ché il cinema, specie in Francia, era un mezzo espressivo incredibilmente popolare. Durante gli anni sessanta, i gio­ vani cineasti erano degli eroi della cultura. Hiroshima, mon amour, I quattrocento colpi, Les Amants furono veri e pro­ pri eventi. Oggi, a causa della televisione e dell’incredibile saturazione di immagini, non credo che possa più accade­ re. Il cinema è diventato... non voglio dire obsoleto, ma un po’ marginale. Viviamo nella civiltà dell’usa e getta. Un film può esse­ re un avvenimento, essere in testa agli indici di incasso, vin­ cere premi di ogni tipo, e poi cadere quasi nell’oblio nel giro di pochi anni. Comunque, noi registi non lavoriamo per i posteri. Creiamo su un supporto di celluloide e pig­ menti chimici che non durano molto a lungo. Le immagini si dissolvono. Nel giro di duecento anni tutto il nostro la­ voro sarà ridotto in polvere.

P.F. - Ma se dovesse citare tre suoi film da inserire in un archivio speciale destinato ad assicurare la loro conser­ vazione, quali sceglierebbe?

L.M. - A dire il vero non spetta a me dirlo. Mi lasci citare piuttosto quelli dei miei film che amo di più. Tra quelli del primo periodo direi Zazie e Fuoco fatuo. Per i film degli anni settanta sceglierei senza dubbio Cogno­ me e nome.- Lacombe Lucien. Pur amando Soffio al cuore, penso che Lacombe sia un film più importante. E per gli ultimi dieci anni direi Arrivederci ragazzi. Quindi potrebbero essere Arrivederci ragazzi, Lacombe Lucien e Fuoco fatuo. Stranamente, sono tre film piuttosto 242

Epilogo

cupi, ma ci sono molto affezionato. Le potrei dare una lista alternativa, un po’ più leggera: Zazie, Soffio al cuore e Atlan­ tic City. Ma in definitiva il film di cui sono più fiero è L'India fantasma. Continuo a essere entusiasta di questo mezzo espressi­ vo. Fare un film è un’impresa incredibilmente diffìcile, che racchiude in sé una quantità di elementi di cui mantenere il controllo. Mi piace pensare che riesco a padroneggiare sempre meglio questo strumento, ma si può sempre miglio­ rare. Dopo tutti questi anni, ho ancora l’impressione di po­ ter approfondire la mia conoscenza del cinema e di scopri­ re nuove possibilità. Più vado avanti nella vita, più diffido delle idee e più mi fido delle emozioni.

243

Filmografia

1956

Le Monde du silence (Il Mondo del Silenzio) Documentario frutto di due anni di esplorazioni subacquee nel Mediterraneo, nel mar Rosso, nel golfo Persico e nell’oceano Indiano, realizzate dal comandante Cousteau, pioniere dell’ocea­ nografia, e dall’equipaggio della sua nave di spedizione «Calyp­ so». Raggiungendo la profondità mai esplorata prima di 75 metri, i subacquei si servono di attrezzature sperimentali come l’auto­ respiratore e lo scooter elettrico sottomarino, e affrontano diverse situazioni difficili e rischiose. Li si vede nuotare in compagnia di banchi di pesci, esaminare barriere coralline ed esplorare relitti navali sommersi. La Calypso viene investita da un monsone, ingaggia una cruenta battaglia con gli squali e con un banco di balene e il suo equipag­ gio sbarca su un’isola dell’oceano Indiano dove il cane di bordo gioca con delle tartarughe giganti.

Produzione: Société Filmad e Requins Associés Regia: Jacques-Yves Cousteau, Louis Malie Fotografia: Edmond Séchan (Technicolor) Riprese subacquee: Jacques-Yves Cousteau, Louis Malie, Frédé­ ric Dumas, Alberto Falco

Musica: Yves Baudrier Montaggio: Georges Alépeé Durata: 86’ 1957

Ascenseur pour l'échafaud (Ascensore per il patibolo) 245

// mio cinema

Julien Tavernier, ex ufficiale paracadutista e veterano delle guer­ re d’Indocina e di Algeria, è l'amante di Florence, la moglie del suo principale, il fabbricante di armi Carata. Insieme, hanno architettato un delitto perfetto. Poco prima che la società chiuda per il week-end, Julien si introduce senza essere visto nell’ufflcio di Carata, lo uccide con un colpo di pistola e fa in modo che la sua morte sembri un suicidio. Ma dimentica di riprendere il rampino di cui si era servito per scavalcare il muro esterno dell’uffìcio della sua vittima, e rientrando per recuperarlo rimane imprigionato nel­ l’ascensore nel momento in cui viene tolta la corrente elettrica per la notte. Nelle dodici ore seguenti tenta disperatamente di liberar­ si. Nel frattempo, Véronique, la giovane commessa di un negozio di fiori dall’altra parte delta strada, e il suo ragazzo Louis rubano la decappottabile di Julien per andarsene a fare un giro. Florence vede la macchina passare, scambia Louis per Julien, attende inva­ no che il suo amante la raggiunga al* caffè e poi si mette a vagare per la città. Véronique e Louis giungono in un elegante motel, do­ ve si registrano con il nome di Julien. Fanno la conoscenza di una coppia di vecchi tedeschi, scattano delle fotografie con la macchi­ na di Julien, e fanno sviluppare il rullino al motel. Nel corso della notte. Louis tenta di rubare la Mercedes del tedesco, ma sorpreso da questi, che sopraggiunge con un fucile, uccide lui e la moglie con un revolver trovato nel cruscotto delta macchina di Julien. I due giovani fuggono, abbandonano la macchina, e ritornano nel­ l'appartamento di Véronique; rendendosi conto che Julien rischia di essere condannato a morte, decidono di suicidarsi. Intanto Flo­ rence viene condotta alta polizia insieme a un amico ubriaco in­ contrato in un bar, ma viene rilasciata, non prima, tuttavia, che l’ispettore Chérier faccia il nome di Tavernier. Nel frattempo, la corrente è stata reinserita nell’immobile delta società, la fotografìa di Julien compare sulle prime pagine dei giornali, quale principale indiziato degli omicidi del motel. Poco tempo dopo, Julien viene arrestato. Interrogato da Chérier e dai suoi collaboratori, Julien non può fornire alcun alibi senza riconoscere l’assassinio di Carata. Men­ tre viene trattenuto alta polizia, Florence va a casa di Véronique, dove la giovane coppia non è riuscita a suicidarsi, poi pedina Louis che prende la sua moto per andare al motel a recuperare il rullino che lo incrimina. L’ispettore Chérier l’aspetta nella camera oscura e l’arresta. Mostra poi a Florence delle fotografìe che la ritraggono insieme a Julien Tavernier, scattate all’epoca in cui erano felici, ap­ partenenti allo stesso rullino, e che provano che l’assassinio di suo marito è stato premeditato.

246

Filmografia

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Produzione: Nouvelles Éditions de Film Produttore: Jean Thuillier Regia: Louis Malie Sceneggiatura: Louis Malie, Roger Nimier (dal romanzo di Noci Calef, L'Ascenseur pour l'échafaud) Dialoghi: Roger Nimier Fotografia: Henri Decaè (bianco e nero) Montaggio: Leonide Azar Direzione artistica: Rino Mondellini, Jean Mandaroux Musica: Miles Davis Suono: Raymond Gauguier Assistenti alla regia: Alain Cavalier, Francois Leterrier Interpreti: Maurice Ronet (Julien Tavernier), Jeanne Moreau (Flo­ rence Carata), Georges Poujouly (Louis), Yori Benin (Véronique), Lino Ventura (Ispettore Chérier), Ivan Petrovich (Horst Bencker), Elga Andersen (Frau Bencker), Jean Wall (Simon Carata), Felix Mar­ ten (Subervie), Charles Denner (l’assistente dell’ispettore Chérier), Jean-Claude Brialy (il giocatore di scacchi al motel) Durata: 90’ 1958

Les Amants (Les Amants) Jeanne Tournier, moglie del ricco proprietario di un giornale digionese, e madre di una piccola bimba, sfugge alla noia recan­ dosi il più spesso possibile a Parigi dove viene ospitata dall'ami­ ca Maggy e dove si incontra con Raoul, il suo amante, un elegan­ te giocatore di polo. Un giorno, tornando in macchina a casa sua, dove ha invitato Maggy e Raoul per il week-end, la sua decappot­ tabile ha un guasto su una strada di campagna. Bernard, un gio­ vane archeologo, le dà un passaggio sulla sua 2CV. Durante il tra­ gitto, si ferma a trovare un vecchio amico, ed è molto tardi quan­ do giungono alla splendida villa di Tournier, dove Bernard vie­ ne invitato a trascorrere la notte. Dopo una cena carica di tensio­ ne, in cui Raoul è sconcertato dall’evidente preoccupazione di Tournier per la moglie, vanno tutti a dormire. Incapace di pren­ dere sonno, Jeanne esce nel giardino illuminato dalla luna e qui incontra Bernard, anche lui insonne. Fanno una lunga passeggia­ ta nella proprietà e vanno in barca sul fiume. È il colpo di fulmi­ ne: essi rientrano nella camera di Jeanne per trascorrere il resto della notte insieme. La mattina successiva, Jeanne prepara la vali­ gia e, tra lo stupore di suo marito, di Maggy e di Raoul, parte con

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il mio cinema

Bernard. Si fermano a prendere un caffè, in un bar di un paese vicino, prima di proseguire il loro cammino verso un incerto destino.

Produzione: Nouvelles Editions de Films Regia: Louis Malie Sceneggiatura: Louis Malie, Louise de Vilmorin (liberamente tratto da Point de lendemain di Dominique Vivant-Denon) Dialoghi: Louise de Vilmorin Fotografia: Henri Decaè (Dyaliscope, bianco e nero) Direzione artistica: Bernard Evein, Jacques Saulnier Suono.- Pierre Bertrand Musica: primo e secondo movimento del Sestetto n° 1 in si be­ molle opera 18 di Johannes Brahms Interpreti: Jeanne Moreau (Jeanne Tournier), Alain Cuny (Henri Tournier), Jean-Marc Bory (Bernard Dubois-Lambert), Judith Ma­ gre (Maggy Thiébaut-Leroy); José-Luis Villalonga (Raoul Florès); Gaston Modot (Codray, il domestico di casa Tournier), Claude Mansart (Marcelot), Georgette Lobbe (Marthe), Patricia Garcin (Ca­ therine) Durata: 88' 1960

Zazie dans le mètro (Zazie nel metrò) Zazie, una piccola provinciale di dieci anni molto disinvolta, caratterizzata da un vocabolario colorito e osceno e dall’arte di sconcertare gli adulti, arriva a Parigi con la madre. Alla Gare de l’Est, la madre l'affìda allo sventurato zio Gabriel, mentre lei va a passare trentasei ore con il suo amante. Il desiderio più grande di Zazie è quello di prendere la metropolitana, ma questa è in scio­ pero e lo zio la porta a casa sua nel taxi dell’amico Charles. Ga­ briel e sua moglie Albertine abitano sopra un caffè, di proprietà di Turandot e gestito dal cameriere Mado, che è in corso di am­ modernamento. Gabriel fa la parte del travestito in un night-club, e sua moglie gli fa i costumi. Il giorno dopo, Zazie vaga per Parigi e, dopo aver umiliato pubblicamente Turandot, accusandolo di essere un satiro, incontra il camaleontico Trouscaillon che la porta al mercato delle pulci dove le compera un paio di Jeans e le offre un piatto di cozze. La rincorre per Parigi, in bicicletta e a piedi, lanciando bombe (in riprese accelerate e al rallentatore) e si ri­ trova improvvisamente da Gabriel dove Zazie lo presenta come 248

Filmografia

un agente di polizia. Si invaghisce di Albertine e oltraggia Gabriel insinuando che egli è un omosessuale. Gabriel conduce allora Za­ zie a vedere la Tour Eiffel, dopo di che incontrano la vedova Mouaque che si innamora follemente di Gabriel che, dal canto suo, si fa rapire da una corriera di turisti norvegesi. Zazie e Moua­ que ritrovano Trouscallion, che ora indossa la divisa di poliziot­ to, e si lanciano con lui all’inseguimento di Albertine che va nel night-club dove Gabriel fa il suo numero con delle ragazze in cap­ pello a cilindro. Tutti vanno poi a mangiare una zuppa di cipolle in una birreria, ma tra il personale del ristorante e i clienti scop­ pia un tafferuglio da ubriachi; il locale viene completamente di­ strutto, ma Zazie, che dorme, è indifferente al fracasso. Infine, Trouscaillon parte all’assalto, alla testa di uno squadrone di ca­ micie nere armate. Ma Albertine porta tutti in salvo, in uno scan­ tinato che conduce al metrò che ha ripreso a funzionare. Zazie si risveglia e alla fine riesce a fare un giro in metropolitana. La mattina, ritrova sua madre alla stazione e insieme ritornano a casa.

Produzione: Nouvelles Editions de Films Regia: Louis Malie Sceneggiatura: Louis Malle, Jean-Paul Rappeneau (dall’omonimo romanzo di Raymond Queneau)

Fotografia: Henri Raichi (Eastmancolor) Direzione artistica: Bernard Evein Suono: André Hervé Montaggio: Kenout Peltier Musica: Fiorenzo Carpi Consigliere Artistico: William Klein Interpreti: Catherine Demongeot (Zazie), Philippe Noiret (lo zio Gabriel), Carla Marlier (la zia Albertine), Vittorio Caprioli (Pedro Trouscaillon), Hubert Deschamps (Turandot), Jacques Dufilho (Gridoux), Annie Fratellini (Mado), Antoine Roblot (Charles), Yvonne Clech (la vedova Mouaque), Odette Piquet (la signora Lalochère), Nicholas Bataille (Fédor), Marc Doèlnitz (Coquetti) Durata: 92’ 1961

Vie privée (Vita privata) Jill, figlia viziata di una ricca famiglia dell’alta borghesia gine­ vrina, trascorre un’esistenza dedita a feste e ragazzi. Ma dopo es­ sersi innamorata di Fabio, uno scenografo italiano, marito di Carla,

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Il mio cinema

la sua migliore amica, litiga con la madre e parte per Parigi con il coreografo Dick, l’amante del momento. Ben presto si lascia­ no, e Jill diventa ballerina, modella fotografica, attrice, e passa di amante in amante. Nel giro di un paio di anni, diventa una stel­ la del cinema famosa per la leggerezza dei suoi costumi, che le guadagnano costantemente le prime pagine dei giornali. Volen­ do ritrovare un po’ di privacy, dopo una depressione nervosa, torna a Ginevra in incognito. Sua madre non c’è più, ma lei si riavvicina a Fabio che si è separato da Carla e che la salva dal sui­ cidio. La stampa continua a perseguitarla e quando Fabio parte per il festival di Spoleto, dove ha allestito Catherine von Heil­ bronn, Jill lo segue in compagnia dell’aristocratico amante di sua madre, Gricha. Le attenzioni dei cronisti mondani e dei paparaz­ zi distraggono Fabio dal suo lavoro, la coppia litiga e si lascia. Pri­ ma di partire, Jill sale sul tetto di una casa per assistere alla prima dell'opera di Fabio. Un fotografo la riconosce e lei abbagliata dal flash della macchina fotografìa, perde l’equilibrio, precipita e muore.

Produzione: Progefi, Cipra (Francia), CCM (Roma) Produttore: Christine Gouze-Rénal Regia: Louis Malie Sceneggiatura: Louis Malle, Jean-Paul Rappeneau, Jean Ferry Fotografia: Henri Decac (Eastmancolor) Montaggio: Kenout Peltier Scenografia: Bernard Evein Suono: William Robert Sivel Musica: Fiorenzo Carpi; poema Sidonie, di Charles Cros, musi­ cato da J. Max Rivière e Jean Spanos Interpreti: Brigitte Bardot Qill), Marcello Mastroianni (Fabio), Eleo­ nore Hirt (Cécile), Ursula Kubler (Carla), Dirk Sanders (Dick), Gre­ gor von Rezzori (Gricha), Jacqueline Doyen (Juliette), Antoine Roblot (Alain, il fotografo), Paul Sorèze (Maxime), Nicolas Bataille (Edmond), Gloria France (Anna), Jeanne Allard (la donna delle pu­ lizie dell’ascensore) Jacques Gheusi (Bazy) Durata: 103’ 1962

Vive le Tour (Viva il Tour) Documentario di impressioni sul Tour de France, imperniato sugli spettatori, sui giornalisti che seguono la competizione e sul 250

Filmografia

calvario dei corridori che scalano i colli, sono vittime di crampi e vengono coinvolti in una serie di cadute.

Regia: Louis Malie Fotografia: Ghislain Cloquet, Jacques Ertaud, Louis Malie (bian­ co e nero)

Montaggio: Kenout Peltier e Suzanne Baron Musica: George Delerue Durata: 18’ 1963

Le Feu follet {Fuoco fatuo) Alain Leroy, un trentenne parigino appartenente all’alta bor­ ghesia, è alla fine del soggiorno di sei mesi in una clinica per al­ colisti a Versailles. Trascorre il suo tempo leggendo, fumando, tenendo un diario, carezzando la sua Luger e ritagliando articoli di giornale sulla morte per decorare le pareti della sua stanza, tap­ pezzate di fotografie di Marilyn Monroe. Sua moglie, che è ame­ ricana, è a New York e lui trascorre la notte con Lydia, un’amica di lei. Lydia lo riaccompagna a Versailles e gli dà del denaro che lui accetta. Il dottor La Barbinais, che lo segue, ritiene che sia gua­ rito e lo incoraggia ad assumere un atteggiamento positivo rispetto alla vita. Per verificare la validità del punto di vista del medico, Alain rientra a Parigi in autostop e va a trovare vecchi amici e an­ tichi compagni di bevute. Sono tutti dei rinnegati, socialmente, politicamente e intellettualmente. Il suo vecchio compagno Dubourg è ora un borghese posato, sposo e padre, soddisfatto di se stesso e appassionato di egittologia. Jeanne è circondata da pre­ tenziosi pseudo-intellettuali. Solange, una donna di mondo, e il ricco marito Cyrille invitano Alain a cena, dove lui è scioccato dalle idee di destra e dal cinismo dei suoi ospiti e dei loro invita­ ti. Per il disgusto che ha della società e di sé, Alain ricomincia a bere. Il giorno dopo, si risveglia con la gola secca e la bocca impastata. Chiede di non essere disturbato e mentre sta prepa­ rando le valigie, Solange lo chiama per invitarlo a colazione. Ter­ mina il romanzo di Scott Fizgerald che stava leggendo e si uccide sparandosi un colpo al cuore con la Luger.

Produzione: Nouvelles Éditions de Films Regia: Louis Malie (bianco e nero) Sceneggiatura: Louis Malie (dal romanzo omonimo di Pierre Drieu 251

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La Rochelle)

Fotografia: Ghislain Cloquet (bianco e nero) Montaggio: Suzanne Baron Direzione artistica: Bernard Evein Musica: estratti da Gymnopédies e Gnossiennes di Erik Satie ese­ guite al piano da Claude Helffer Interpreti: Maurice Ronet (Alain Leroy), Léna Skerla (Lydia), Yvon­ ne Clech (la signora Farnoux), Hubert Deschamps (d’Averseau), Jean-Paul Moulinot (Dr. La Barbinais), Mona Dol (la signora La Barbinais), Pierre Moncobier (Moraine), René Dupuy (Charlie), Ber­ nard Tiphaine (Milou), Bernard Noci (Dubourg), Ursula Kubler (Fanny), Jeanne Moreau (Jeanne), Alain Mottet (Urcel), Frangois Gragnon (Francois Minville), Romain Bouteille (Jéróme Minville), Jacques Sereys (Cyrille Lavaud ), Alexandra Stewart (Solange), Claude Deschamps (Maria), Tony Taffìn (Bracion), Henri Serre (Frédéric) Durata: 110’ 1964

Bons baisers de Bangkok (Bacioni da Bangkok) Documentario per la televisione francese sulla vita quotidia­ na nella capitale thailandese

Produzione: O.R.T.F. Regia: Louis Malie Fotografia: Yves Bonsergent Montaggio: Nicole Lévy Durata: 15' 1965

Viva Maria (Viva Maria) Da quindici anni, Maria O’Malley (Maria II), una bella ragazza irlandese, aiuta il padre, un terrorista repubblicano, a mettere le bombe per uccidere soldati e poliziotti inglesi, in Gran Bretagna e in tutto ITmpero britannico. Suo padre muore nel 1907, men­ tre stanno per far saltare un ponte in una colonia britannica del­ l’America centrale, ma Maria riesce a fuggire. Incontra un circo e assiste al suicidio di una giovane donna, Janine, abbandonata dall’amante. Janine era la partner di un’altra donna, anche lei di nome Maria (Maria 1). Maria II sale clandestinamente sulla roulot­

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te di Maria I, e quando la troupe arriva nella repubblica di San Miguel, sostituisce Janine nello spettacolo. Il nuovo duetto ha mol­ to successo e inventa casualmente lo strip-tease. Oltre alla sua ini­ ziazione al mondo dello spettacolo, la candida Maria li fa inoltre conoscenza del sesso. Nel suo peregrinare, la gente del circo è testimone del terribile sfruttamento dei contadini da parte della dittatura militare. Incontrano Florès, il capo rivoluzionario cadu­ to prigioniero, e Maria II si innamora follemente di lui, mentre il circo è fatto prigioniero dai partigiani del sadico Rodriguez. Le affascinanti Marie ipnotizzano Rodriguez, mentre Rudolpho, il fab­ bro del circo, organizza un'evasione dalla hacienda del dittatore, nel corso della quale Florès viene ferito mortalmente. Maria I giura al rivoluzionario morente che continuerà la lotta e trascina il suo villaggio natale all’azione declamando, sul cadavere di Florès, il discorso di Marco Antonio, del Giulio Cesare. Grazie alle cono­ scenze dell'irlandese Maria in materia di esplosivi, le due Maria diventano leggendarie eroine e guidano il popolo di vittoria in vittoria. Scandalizzato nel vedere che la popolazione venera le due Maria, il vescovo della regione le fa arrestare e condurre di fronte al tribunale dell’inquisizione, ma i monaci non riescono a far funzionare i vecchi strumenti di tortura. Ancora una volta, Rudolpho e i colleghi del circo partono all’assalto della prigione e le due Maria sono salvate qualche secondo prima del momento previsto per la loro esecuzione. La rivoluzione ha vinto e il circo lascia la città tra le acclamazioni del popolo.

Produzione: Nouvelles Éditions de Films / United Artists Produttori: Oscar Dancigers, Louis Malie Regia: Louis Malie Sceneggiatura (e canzoni): Louis Malie, Jean-Claude Carrière Fotografia: Henri Decaè (Panavision, Eastmancolor) Montaggio: Kenout Peltier, Suzanne Baron Direzione artistica: Bernard Evein Suono: José B. Carles Consulente per il colore e i costumi: Ghislain Uhry Musica: Georges Delerue Interpreti: Jeanne Moreau (Maria I), Brigitte Bardot (Maria li), George Hamilton (Florès), Gregor von Rezzori (Diogène), Paulette Dubost (la signora Diogène), Claudio Brook (Rudolpho), Carlos Lopez Moctezuma (Rodriguez), Poldo Bendandi (Werther), Fran­ cisco Reiguera (il padre superiore), Jonathan Eden Quanito), Adria­ na Roel (Janine), José Angel Espinoza («el Presidente»), José Ba­

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viera (Don Alvaro), Fernando Wagner (il padre di Maria O’Mal­ ley), José Luis Campa, Roberto Campa, Eduardo Murillo e José Esqueda (i «turchi») Durata: 115’ 1967

Le Voleur (/l ladro di Parigi} Dalla mezzanotte all'alba, mentre svaligia una lussuosa dimo­ ra disabitata a qualche chilometro da Parigi, Georges Randal rie­ voca la sua carriera di ladro gentiluomo. Rimasto molto presto orfano di entrambi i genitori, Georges è stato allevato a Parigi da un cinico zio e spera, da sempre, di sposare la cugina Charlotte. Ma, ritornando a casa, al termine dei suoi studi, scopre che la sua ingente fortuna è stata dilapidata (o sottratta) dallo zio e che Char­ lotte si sta per sposare con un ricco vicino. Nel corso del ricevi­ mento offerto per il fidanzamento, Georges seduce una domesti­ ca aUo scopo di rubare i gioielli della famiglia del fidanzato. Il fi­ danzamento è rotto: Charlotte sa che Georges è l’autore del fur­ to di cui (per ragioni sociali) altri sono accusati, e lui fugge con la refurtiva. Alla festa, Georges aveva conosciuto l’abate La Margelle, che ritrova in treno nel suo scompartimento. Si scopre che l’abate La Margelle è il capo di una banda di Bruxelles, che ricetta la refurtiva il cui ricavato serve a finanziare le opere missionarie. L’abate introduce Georges nell’ambiente della malavita intema­ zionale e Roger-la-Honte, l’asso dei ladri, gli insegna i trucchi del mestiere. Conosce prostitute, mogli infedeli e le informazioni che queste gli forniscono gli permettono di salire al vertice della ge­ rarchica del crimine. Vede anche lo zio addescato da una donna di facili costumi. Invitato da un deputato di destra ad assistere a una riunione politica a Dieppe, Georges conosce il celebre la­ dro anarchico Canonnier, un amico dell’abate, appena evaso dal­ l’isola del Diavolo. Georges è meravigliato dal suo sangue fred­ do, dalla chiarezza con la quale espone le sue idee e dall'abilità che permette ai due di fare man bassa su pezzi di grande valore che sono nascosti nella stanza in cui una donna ricchissima giace sul suo letto di morte. Nel frattempo, nella vicina grande sala da pranzo deH’hotel, il deputato pronuncia un discorso reazionario davanti a un pubblico ammirato. Ma nel momento in cui esce dal!’hotel, Canonnier viene riconosciuto dalla polizia e ucciso sotto gli occhi di Georges. Charlotte raggiunge in seguito Georges a Lon­ dra e i due diventano amanti. Suo padre, lo zio di Georges, soc-

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combe a una crisi cardiaca e Georges — con la complicità dell’a­ bate La Margelle — redige un falso testamento che fa di lui e di Charlotte gli eredi di tutti i beni. Disgustato dalla cupidigia della borghesia, l’abate La Margelle annuncia la sua decisione di parti­ re per la Cina. Ma Georges è incapace di rinunciare alla sua pas­ sione per il furto. Dopo aver rubato in una casa, ne esce scaval­ cando il muro di cinta e si dirige carico di pesanti valige verso la stazione per prendere il primo treno in direzione di Parigi. Sem­ bra sospettare che i viaggiatori che attendono con lui sul binario siano dei rappresentanti della legge, ma non viene scoperto. Sale sul treno e prosegue la sua carriera di ladro.

Produzione: Nouvelles Éditions de Films / United Artists (Paris) / Compagnia Cinematografica Montoro (Italia) Produttori: Louis Malle, Norbert Auerbach Regia: Louis Malie Sceneggiatura: Louis Malie, Jean-Claude Carrière (dall’omonimo romanzo di Georges Darien) Dialoghi: Daniel Boulanger Fotografia: Henri Decaé (grande schermo, Eastmancolor) Scenografia: Jacques Saulnier Consulente al colore e ai costumi: Ghislain Uhry Montaggio: Henri Lanoe Suono: André Hervée Interpreti: Jean-Paul Beimondo (Georges Randal), Geneviève Bu­ jold (Charlotte), Julien Guiomar (l’abate La Margelle), Marie Du­ bois (Geneviève Delpiels), Christian Lude (Urbain, lo zio di Geor­ ges), Paul Le Person (Roger-la-Honte), Fran^oise Fabian (Ida), Mar­ lène Jobert (Broussailles), Martine Sarcey (Renée), Roger Crouzet (Mouratet), Fernand Guiot (Van der Bush), Charles Denner (Can­ nonieri Bernadette Lafont (Marguerite, la domestica della casa del fidanzato di Charlotte) Durata: 120’

Histoires extraordinaires (Tre passi nel delirio) Coproduzione italo-francese che riunisce tre film liberamenti tratti dai racconti di Edgar Allan Poe. 11 primo, Metzengerstein, realizzato da Roger Vadim, ha come protagonista Jane Fonda, nel ruolo di un’autoritaria contessa ungherese che causa la morte di un giovane barone, e che poi si invaghisce di uno scontroso stal­ lone nero in cui si è incarnato lo spirito del barone. Il terzo epi255

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sodio, Toby Dammit (dal racconto Never Bet tbe Devil Your Head) realizzato da Federico Fellini, ha per protagonista Terence Stamp, nel ruolo di un divo del cinema britannico alcolizzato che viene a Roma per recitare nel «primo western cattolico», in cambio di una Ferrari, e che una ragazzina indemoniata condurrà alla mor­ te su un’autostrada. L’episodio centrale, William Wilson, diretto da Louis Malie, si svolge nel XIX secolo. Un ufficiale dell’esercito italiano entra in una chiesa e chiede di confessarsi a un prete cattolico, benché sia protestante. Dice di chiamarsi William Wilson e racconta le circostanze che l’hanno portato a commettere un omicidio. Nel­ la sua infanzia, ha perseguitato un suo compagno di classe, poi durante gli studi di medicina ha praticato un mostruoso intervento su una giovane donna. Ogni volta, il suo doppio, che si chiama­ va anche lui William Wilson, era intervenuto é lo aveva fatto cac­ ciare. Più tardi, nell’esercito, il freddo e arrogante Wilson orga­ nizza una partita a carte con un dama dell’aristocrazia, Giuseppi­ na, le vince tutto il denaro, poi dopo aver giocato a lascia o rad­ doppia, la spoglia dei suoi abiti per frustarla. Ma ancora una vol­ ta, il suo Doppelganger interviene e lo accusa di essere un baro. Wilson deve rassegnare le dimissioni dall’esercito, poi sfida il suo doppio in duello e lo uccide. Una volta che si è confessato, Wil­ son corre in cima al campanile e si getta nel vuoto. Viene ritrova­ to sul selciato, con una spada conficcata nel ventre.

Produzione: Les Films Marceau-Cocinor (Paris) / PEA Cinemato­ grafica (Roma) Regia: Louis Malie Sceneggiatura: Louis Malie, Daniel Boulanger, Clément Biddle Wood (dal racconto William Wilson di Edgar Allan Poe) Fotografia: Tonino Delli Colli (cinemascope, Eastmancolor) Montaggio: Franco Arcali!, Suzanne Baron Direzione artistica: Ghislain Uhry Musica: Diego Masson Interpreti: Alain Delon (William Wilson), Brigitte Bardot (Giusep­ pina), Danièle Vargas (il professore), Renzo Palmer (il prete), Marco Stefanelli (William Wilson bambino) Durata: 121’ (Tre passi nel delirio)-, 40’ (William Wilson)

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Filmografia

1968-1969

Calcutta (Calcutta) Documentario sulla seconda città dell’india, capitale del Ben­ gala occidentale. Vi si vedono folle di fedeli, di mendicanti, stra­ de brulicanti e treni stracolmi. All’epoca nello stato era in vigore la legge marziale e il film riprende manifestazioni non violente contro la limitazione dei diritti civili. Si entra nell’ospedale di ma­ dre Teresa e si assiste ai suntuosi preparativi per una festa religio­ sa. Si vede la classe dirigente anglofona nell’esclusivo circolo del golf di Calcutta, separato da un muro da uno dei quartieri più mi­ serabili della città. Una marcia di protesta, degli studenti di sini­ stra manifestano la loro solidarietà per il presidente Mao e il Viet­ nam del Nord, ma vengono respinti da diecimila soldati e poli­ ziotti, e la manifestazione si blocca per lasciar passare una pro­ cessione religiosa. Un lebbroso parla della proscrizione di cui è oggetto la sua comunità; degli equilibristi eseguono fantastiche acrobazie su pertiche di bambù. Una lunga sequenza mostra l’as­ soluta mancanza di igiene che regna nella città — strade ricolme di immondizie, ovunque maiali, rifiuti che non vengono raccolti per mesi e mesi nei quartieri poveri, lo sterco di vacca essiccato usato come combustibile. Nell’ultima scena, dei monelli di stra­ da fissano la macchina da presa.

Produzione: Nouvelles Éditions de Films Co-produzione: Elliot Kastner Regia: Louis Malie Commento: Louis Malie Fotografia: Étienne Becker, Louis Malie (Ektachrome 16 mm.) Suono: Jean-Claude Laureux Montaggio: Suzanne Baron Durata: 105'

L'Inde fantóme: reflexions sur un voyage (L'India fantasma) Serie televisiva in sette episodi della durata di 54’ ciascuno (per un totale di 378’) trasmessa in Francia nel 1969 e poi in Gran Bre­ tagna (con commento in inglese di Louis Malie). Nel 1975 la serie viene proiettata nelle sale cinematografiche d’Europa e degli Sta­ ti Uniti. 1 titoli di testa sono gli stessi di quelli di Calcutta. 1 : La Caméra impossible (o Descente vers le Sud) 2: Cboses vues à Madras

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3: 4: 5: 6: 7:

La Religion La Tentation du Réfe Regards sur les castes Les Étrangers en Inde Bombay

1971

Le Souffle au coeur {Soffio al Cuore) Nella primavera del 1954, mentre l'esercito francese è asse­ diato a Dièn Bièn Phu e la vittoria dei vietnamiti è imminente, Laurent, quindici anni, il più giovane di tre fratelli, vive a Bigio­ ne. Suo padre è un noto ginecologo e la madre Clara, un’italiana molto indipendente la cui famiglia è fuggita dal regime fascista, è sensibilmente più giovane del marito. Laurent è uno scolaro do­ tato, frequenta un collegio cattolico molto severo ed è appassio­ nato di jazz e di letteratura. Ma è preoccupato dai problemi ses­ suali ed è così sconvolto nello scoprire che la madre ha un aman­ te che, dopo aver letto II mito di Sisifo di Camus, pensa di suici­ darsi. 1 fratelli lo istruiscono in materia sessuale, lo iniziano al fu­ mo e all'alcool mentre i genitori sono a Parigi. Più tardi lo porta­ no in un bordello, ma l’interrompono brutalmente proprio nel momento in cui sta per perdere la verginità. Poco dopo il suo ritorno da un campo scout gli viene scoperto un soffio al cuore, ed egli è costretto a rimanere a letto per un mese. Per favorire la sua guarigione, la madre lo porta in una stazione termale c, a causa di un errore da parte della reception dell’hotel, devono con­ dividere la stessa camera. La loro intimità si rafforza; Laurent è contrariato quando sua madre flirta con un ragazzo più grande di lui e quando viene a sapere che il suo amante sta venendo a trovarla. Conosce due ragazze, Daphne e Hélène, e ascolta musi­ ca jazz. Un giorno, la madre rientra sconvolta e gli confida di avere lasciato l’amante. Quella sera, al ballo del 14 luglio, Clara beve un po’ troppo e, quando rientrano in camera, Laurent la spoglia e fanno l’amore. Più tardi lei gli dice: