Il logicismo di Bertrand Russell e il suo contesto filosofico Vol. 1 2017903812, 1544208928, 9781544208923


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Il logicismo di Bertrand Russell e il suo contesto filosofico Vol. 1
 2017903812, 1544208928, 9781544208923

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Stefano Donati

Il logicismo di SEE

Bertrand Russel e il suo contesto filosofico

Stefano Donati

IL LOGICISMO DI BERTRAND RUSSELL e il suo contesto filosofico

Vol. I

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Library of Congress Control Number: 2017903812 N CreateSpace Independent Publishing Platform, North Charleston, SC.

First edition: copyright © 2016 Stefano Donati Second edition (U.S. edn): copyright © 2017 Stefano Donati All rights reserved ISBN: 1544208928 ISBN-13: 978-1544208923

SOMMARIO Vol. I Prefazione ix Principali simboli utilizzati xi

INTRODUZIONE 1 CAPITOLO 1 LA TEORIA CANTORIANA DEL TRANSFINITO 18 1. Infinito potenziale e infinito attuale 18 1.1. L’infinitamente grande 19 1.2. L’infinitamente piccolo 20 2. Gli insiemi 27 3. Numeri cardinali e numeri ordinali 28 4. Numeri cardinali infiniti 34 S. Confrontabilità tra numeri cardinali 44 6. Numeri ordinali infiniti 48 7.Confrontabilità 56 7.1. Confrontabilità tra numeri ordinali 56 7.2. Confrontabilità tra numeri cardinali di insiemi ben ordinati 60 8. Operazioni aritmetiche con i numeri transfiniti 63 8.1. Operazioni con i numeri cardinali 63 8.2. Operazioni con i numeri ordinali 66 9. La soluzione di antiche difficoltà 67 10. Russell e Cantor 71

CAPITOLO 2 LA FONDAZIONE RUSSELLIANA DELL’ARITMETICA 75 1. Gli assiomi di Peano 75 2. Critiche di Russell alla definizione per postulati dei numeri naturali 80 3. La definizione di “numero cardinale” 86 3.1. La “definizione per astrazione” di Peano 86 3.2. La critica di Russell e il suo “principio di astrazione” 90 3.3. Il principio di astrazione come applicazione del rasoio di Occam 95 3.4. Adeguatezza della definizione di “numero cardinale” 97 3.4.1. Circolarità? 97 3.4.2. Nient'altro che logica? 100 3.5. Operazioni con i numeri cardinali 105 4. La definizione di “numero ordinale” 110 4.1. Riduzione degli insiemi ordinati a relazioni ordinanti 110 4.2.1 numeri-relazione e i numeri ordinali 114 4.3. Operazioni con i numeri-relazione 118 5.1 numeri naturali e le progressioni 125 5.1. Definizione di “0”, di “1” e di “successore” 125 5.2. La definizione di “numero naturale” 129 5.3. Le progressioni 132 5.4. “Finito” e “infinito”: due possibili definizioni 138 6. La dimostrazione degli assiomi di Peano 139 7. Una definizione ripresa da Frege? 147 7.1. Russell e Frege 147 7.2.1 $32. del Formulario di Peano 158

Sommario

IV

CAPITOLO 3 NUMERI INTERI, FRAZIONARI, REALI E COMPLESSI. LA GEOMETRIA 161 1. Estensioni tradizionali del concetto di numero 161 2. La critica di Russell 163 3.1 numeri interi 167 3.1. Operazioni e relazioni 167 3.2.I numeri interi nei Principia e nell’ Introduction to Mathematical Philosophy 170 3.3. I numeri interi nei Principles of Mathematics 172 3.4.I numeri naturali non sono una sottoclasse dei numeri con segno 174 4.1 rapporti 175 4.1. La teoria dei rapporti nell’ Introduction to Mathematical Philosophy 175 4.2. La teoria dei rapporti nei Principles 176 4.3. La teoria dei rapporti nei Principia 178 4.3.1. I rapporti come relazioni tra relazioni 178 4.3.2. La definizione formale 180 4.3.3. La serie dei rapporti. Rapporti generalizzati 181 4.4.I numeri naturali non sono una sottoclasse dei rapporti 182 5.I numeri reali alla fine dell'Ottocento 183 6. La teoria dei numeri reali di Dedekind 186 6.1. Che cosa sono i numeri reali 186 6.2. Operazioni con i numeri reali 190 6.3. Un teorema fondamentale dell’analisi 191 7.La teoria dei numeri reali di Cantor 191 8. La teoria dei numeri reali di Weierstrass 193 9. La teoria dei numeri reali di Russell 197 9.1. La critica di Russell alle definizioni di Dedekind, Weierstrass e Cantor 197

9.2. I numeri reali semplici 200 9.3. Rapporti (ratios) e numeri razionali (rational numbers) 205 9.4. Completezza dei numeri reali come segmenti di rapporti 207 9.5. La serie dei numeri reali con segno 208 9.6. Caratteri distintivi della teoria dei numeri reali di Russell 210 10. Serie continue 212 11. Serie continue, numeri reali e fondamenti dell’analisi 218 12.I numeri complessi 220 13. La geometria 224 13.1. La concezione russelliana della geometria 224 13.2. Aritmetica e geometria 238 13.3. La definizione russelliana di “geometria” 241

CAPITOLO 4 LA CRISI: I PARADOSSI E L’ASSIOMA DI SCELTA 246 1. I paradossi 246 2. Paradossi logici 251 2.1.1 paradossi di Cantor e di Burali-Forti 251 2.1.1. Il paradosso di Cantor 251 2.1.2. Il paradosso di Burali-Forti 252 2.1.3. Cantor, Jourdain e le “molteplicità inconsistenti” 257 2.2. Il paradosso di Russell 262 3. Paradossi semantici 269 3.1. Il paradosso di Richard 269 3.2. Il paradosso di K6nig 273 3.3. Il paradosso di Berry 274 3.4. Il paradosso del mentitore 276 3.5. Il paradosso di Grelling 277 4. L'assioma di scelta 278

Sommario

4.1. Che cos’è l’assioma di scelta 279 4.2. Alcuni teoremi che richiedono l’assioma di scelta 284 4.2.1. L'assioma di scelta e la moltiplicazione 284 4.2.2. L'assioma di scelta e le due definizioni di “infinito” 288 4.2.3. Il teorema del buon ordinamento 293 4.2.4. L’assioma di scelta e l’ipotesi del continuo 300 4.3. Russell e l’assioma di scelta 300 4.4. La critica di Ramsey a Russell 303

CAPITOLO 5 I GRUNDGESETZE E LA VIA D’USCITA DI FREGE 309 1. Il sistema di Frege 310 2. Il paradosso di Russell nei Grundgesetze 333 3. La via d’uscita di Frege 336 41 paradossi di Kerry e di Russell-Myhill 351 CAPITOLO 6 I PRINCIPLES OF MATHEMATICS 359 1. La redazione dei Principles of Mathematics 359 2. Le idee fondamentali 364 3. Gli assiomi logici 369 4.I concetti denotanti e la quantificazione 387 5. Le descrizioni definite nei Principles 397 6. La denotazione dei concetti denotanti 401 7. Ambiguità del linguaggio tecnico dei Principles 406 8. Le funzioni proposizionali 411 9. Le classi 417 9.1. La teoria delle classi nel maggio del 1902 418 9.2. Il paradosso di Russell e la teoria delle classi 428 9.3. La nuova teoria delle classi (giugno-novembre 1902) 436 9.4. I due significati di “uno” 440 10. Estate 1902: la prima teoria dei tipi 443 11. Settembre 1902: il paradosso delle proposizioni 448 12. Maggio 1903: “Ho risolto la contraddizione” 460

CAPITOLO 7 LA TEORIA DELLE DESCRIZIONI 468 1. La fine dei concetti denotanti e una nuova teoria 468 2.11 problema delle descrizioni definite 493 3. La soluzione di Russell 508 4. Funzioni descrittive e definizioni 514 5.I nomi propri e l’epistemologia di Russell 521 6. Teoria delle descrizioni e linguaggio ordinario 557 7. Significato e importanza della teoria delle descrizioni 560

vi

Sommario

Vol. II

CAPITOLO 8 LE TEORIE DELLO ZIGZAG,DELLA LIMITAZIONE DI GRANDEZZA, E SENZA CLASSI 565 1. Funzioni proposizionali predicative e impredicative 565 2. La teoria dello zigzag 570 3. La teoria della limitazione di grandezza 571 4. La teoria sostituzionale 576 4.1. La teoria sostituzionale semplice 576 4.2. La critica di Poincaré e la risposta di Russell 594 4.3. La prima teoria sostituzionale ramificata 601 4.3.1. La soluzione dei paradossi 601 4.3.2. La prima versione dell’assioma di riducibilità 606 4.4. L’abbandono della teoria sostituzionale 609 CAPITOLO 9 LA TEORIA DEI TIPI DEL 1907 618 1. Il principio del circolo vizioso 619 1.1. Il principio del circolo vizioso e gli enunciati generali 621 2. La gerarchia degli ordini e dei tipi 626 2.1. La spiegazione di Russell 626 2.2. Il significato dei termini chiave 627 2.3. La gerarchia degli ordini: una prima interpretazione 632 2.4. La gerarchia degli ordini: seconda interpretazione 636 3. La soluzione dei paradossi “semantici” 640 4. L’ontologia della teoria dei tipi del 1907 642 5. L'assioma di riducibilità 643 6. La teoria delle classi e delle relazioni in estensione 645 7. Lo sviluppo delle idee fondamentali dell’aritmetica 657 7.1. Alcune difficoltà derivanti dalla teoria dei tipi 657 7.2. Un argomento modale contro la definizione russelliana di “numero cardinale” 662 CAPITOLO 10 LA TEORIA DEL GIUDIZIO COME RELAZIONE MULTIPLA 667 1.I giudizi elementari all’epoca dei Principia 667 2. L'evoluzione successiva 671 3. Giudizi generali e giudizi molecolari 682 4. L’interpretazione di Landini 685 S. Wittgenstein e l’abbandono della teoria 691 CAPITOLO 11 LA TEORIA DEI TIPI DEI PRINCIPIA 701 1. Le funzioni proposizionali nei Principia 703 1.1. Predicati o attributi? 703 1.2. Funzioni proposizionali, proposizioni e universali 714 1.3. Le funzioni proposizionali come simboli 721 1.4. La quantificazione 726 1.5. Continuità nel pensiero russelliano 739 2.1 tipi logici 740 2.1. La suddivisione in tipi delle funzioni proposizionali 740 2.1.1. L'argomento del circolo vizioso 741 2.1.2. L'argomento per esame diretto 743 2.2. La gerarchia dei tipi e degli ordini 745

Sommario 2.3. L'assioma di 3. Le classi 757 3.1. La riduzione 3.2. Convenzioni 4. La soluzione dei

riducibilità 751 delle classi a funzioni proposizionali 757 d’ambito e quantificazione 762 paradossi nei Principia 765

CAPITOLO 12 ALTERNATIVE, CRITICHE E PROPOSTE DI EMENDAMENTO AL SISTEMA DEI PRINCIPIA 769 1. La teoria assiomatica degli insiemi 769 1.1. La teoria assiomatica di Zermelo 770 1.1.1. Gli assiomi del 1908 770 1.1.2. Zermelo e il paradosso di Russell 775 1.1.3. Alcuni sviluppi successivi 777 1.1.4. Concezione iterativa e limitazione di grandezza 794 1.2. Russell e il sistema di Zermelo 805 2. Critiche e emendamenti alla teoria Principia 808 2.1. La teoria dei tipi contraddice se stessa? 808 2.2. Critiche al principio del circolo vizioso 814 2.3. Critiche all’assioma di riducibilità 817 2.4. La seconda edizione dei Principia 821 2.5. La teoria di Ramsey 829 2.6. Russell dopo la seconda edizione dei Principia 839 2.7. Sviluppi della teoria dei tipi 842 2.7.1. La teoria semplice dei tipi 842 2.7.2. La teoria cumulativa dei tipi 848 2.8. I sistemi fondazionali di Quine 849 2.9. Critiche all’assioma dell’infinito 860 2.10. L'assioma dell’infinito secondo Carnap, Fraenkel e Bar-Hillel 862

2.11. L'assioma dell’infinito secondo Ramsey 865

CAPITOLO 13 IL LOGICISMO DI RUSSELL 871 1. Proprietà delle proposizioni logiche 871 1.1. Analitico e sintetico 871 1.2.I principi logici sono autoevidenti? Sono a priori? 890 1.3. L’autoevidenza a priori è garanzia di verità? 899 2. Che cos'è la logica? 905 CAPITOLO 14 ALCUNE OBIEZIONI GENERALI AL LOGICISMO 917 1. L’obiezione di Quine 917

2.1 primo teorema d’incompletezza di Gòdel 935 2.1. Il teorema 939 2.2. Conflitto con il realismo? 952 2.3. Conflitto con il logicismo? 956

BIBLIOGRAFIA 963 Opere di Bertrand Russell 964 Opere di altri autori 975 Indice dei nomi di persona 1040 Indice degli argomenti 1047

vii

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Nttps://archive.org/details/illogicismodiber0000dona

PREFAZIONE

Questo libro è basato sul mio precedente / fondamenti della matematica nel logicismo di Bertrand Russell (2003).' Il suo tema principale è l'articolazione della tesi — che Russell sostenne dal 1901 e non abbandonò mai — secondo cui tutta la matematica pura deriva da premesse puramente logiche e utilizza solo concetti definibili in termini puramente logici. Questo lavoro è però più ampio: vi ho sviluppato argomenti che erano appena accennati, o tralasciati affatto nell’opera precedente.” Non solo: in certi casi ho riveduto in modo radicale le mie interpretazioni, e corretto errori sostanziali.*

La materia è suddivisa come segue. All’introduzione, sulla formazione di Russell e sulla sua filosofia della matematica prelogicista, segue un capitolo che intende offrire una presentazione della teoria degli insiemi sviluppata da Georg Cantor alla fine dell’Ottocento, che fu di importanza cruciale per lo sviluppo del logicismo russelliano. I successivi due capitoli riguardano il nucleo della fondazione russelliana della matematica: cioè la riduzione dell’aritmetica, dell’analisi e della geometria a costruzioni insiemistiche. Il quarto capitolo è dedicato a un'esposizione dei paradossi che, all’inizio del Novecento, posero in crisi la teoria ingenua degli insiemi e ai problemi suscitati più o meno nello stesso periodo dal cosiddetto “assioma di scelta”. Nel quinto si esaminano il sistema logicista di Frege e l'impatto su di esso del paradosso di Russell. I capitoli sesto, ottavo, nono e undicesimo seguono lo sviluppo storico del logicismo russelliano dall’esordio, con i Principles of Mathematics, fino alla prima edizione dei Principia Mathematica, con i vari tentativi di Russell di salvare il logicismo dalla contraddizione che aveva fatto naufragare il sistema di Frege. Ad essi sono intercalati i capitoli settimo e decimo, dedicati all'esame di tesi della filosofia del linguaggio e dell’epistemologia di Russell che sono importanti per una migliore comprensione di alcuni punti della sua filosofia della matematica. Nel dodicesimo capitolo si espongono diversi approcci fondazionali per la matematica classica alternativi alla teoria ramificata dei tipi, considerando i rapporti tra essi e la teoria della prima edizione dei Principia; inoltre si esaminano le principali obiezioni e proposte di emendamento a tale teoria — inclusa quella delineata dallo stesso Russell nella seconda edizione dei Principia. Il tredicesimo capitolo verte sulla concezione russelliana della logica e sulle particolari caratteristiche della sua forma di logicismo. Il capitolo conclusivo vaglia alcune influenti obiezioni generali al progetto logicista: quella di Quine e quelle che diversi autori ritengono provenire dal primo teorema d’incompletezza di Géòdel. In tutta l’opera ho fatto il massimo sforzo per essere comprensibile a un lettore interessato, ma con modeste cognizioni

matematiche

e con

una conoscenza

basilare della logica simbolica.

Il prezzo

è stato, naturalmente,

un’espansione del testo che può risultare fastidiosa per 1 lettori più esperti, ma fare riferimento a un lettore modello per così dire “ingenuo” è stato un buon metodo per non distorcere lo sviluppo storico degli argomenti trattati assumendo fin dall’inizio una prospettiva contemporanea, come se questa fosse una posizione metastorica. Ho comunque cercato di curare che ogni capitolo rimanesse leggibile singolarmente. Del mio precedente libro su Russell ho mantenuto la decisione di trattare i punti principali della riduzione russelliana della matematica pura alla logica prima di aver parlato delle varie teorie logiche successivamente proposte da Russell per fondare tale riduzione. Quest’impostazione è stata criticata,” ma intende rispecchiare una circostanza storica che reputo della massima importanza: Russell aveva già sviluppato la sua teoria sulla riduzione della matematica pura a ciò che egli riteneva essere “logica”, quando scoprì il paradosso che oggi porta il suo nome e altri paradossi. Egli cercò allora una soluzione che risolvesse queste difficoltà lasciando il più possibile intatta la costruzione precedente. In crisi dopo la scoperta del “paradosso di Russell”, riferendosi alle dottrine logiciste (sue e) di Frege, Russell scrive: «In considerazione della contraddizione del Capitolo x [cioè, il paradosso di Russell], è chiaro che si richiede qualche correzione nei principi di Frege; ma è difficile credere che ciò possa fare di più che introdurre qualche limitazione generale che lasci inalterati i dettagli [corsivo mio]».° Anche dopo aver adot-

' V. Donati [2003].

EREDE

|

? Per es., l'esame della logica dei Grundgesetze di Frege (cap. 5), la trattazione della logica dei Principles (cap. 6), delle teorie russelliane dello zigzag e della limitazione di grandezza (cap. 8), e dei sistemi fondazionali alternativi a quello dei Principia proposti da Zermelo, von DI E, Neumann e Quine (cap. 12). 3 Per es., l’interpretazione della teoria dei tipi della prima edizione dei Principia Mathematica (cap. 11). 4 Per es., il resoconto della concezione ramseyana delle “funzioni proposizionali” offerto in Donati [2003], $ 3.4.2.

5 V. Grattan-Guinness [2004], p. 190.

Russell [1903a], Appendice B, $ 494, p. 519.

x

Prefazione

tato quella che sarebbe diventata la sua dottrina logica definitiva, nella prefazione ai Principia Mathematica Russell osserva: La particolare forma della dottrina dei tipi difesa in quest'opera non è logicamente indispensabile, e ce ne sono diverse altre forme ugualmente compatibili con la verità delle nostre deduzioni. Abbiamo specificato i particolari, sia perché la forma di teoria dei tipi che difendiamo ci pare la più probabile, sia perché era necessario dare almeno una teoria perfettamente definita che eviti le contraddizioni. Ma difficilmente qualcosa nel nostro libro sarebbe mutato dall’adozione di una forma differente di dottrina dei tipi. In realtà, possiamo andare oltre, e dire che, supponendo che esista qualche altro modo di evitare le contraddizioni, non moltissimo del nostro libro, tranne quanto tratta esplicitamente dei tipi, dipende dall’adozione della teoria dei tipi in qualsiasi forma [.. I

Più di mezzo secolo dopo, nei suoi Portraits from Memory (1956), Russell riassumerà così il suo lavoro sui fondamenti della matematica: Desideravo la certezza nel modo in cui la gente desidera la fede religiosa. Pensavo che la certezza si potesse più verosimilmente trovare nella matematica che altrove. Ma scoprii che molte dimostrazioni matematiche, che i miei insegnanti si aspettavano che accettassi, erano piene di fallacie, e che, se la certezza si poteva effettivamente trovare nella matematica, lo sarebbe stata in un nuovo genere di matematica, con fondamenta più solide di quelle che si erano ritenute sicure fino a quel momento. Ma mentre il lavoro procedeva, mi si rievocava di continuo la favola dell’elefante e della tartaruga. Avendo costruito un elefante su cui il mondo mate-

RSS potesse appoggiarsi, scoprii che l’elefante vacillava, e procedetti a costruire una tartaruga per impedire all’elefante di cadere.

Per Russell, non fu dunque l’assunzione di questa o quella teoria logica a determinare, deduttivamente, l’una o l’altra dottrina dei fondamenti della matematica, ma, all’inverso, furono le sue idee di matematica pura (la mate-

matica pura classica) e di come questa si potesse ricondurre a “logica” (attraverso la riduzione a teoria degli insiemi) a fornirgli quelle che considerava /e condizioni di adeguatezza per le varie teorie logiche che escogitò nel corso delle sue ricerche.

Ringrazio tutti coloro che hanno richiamato la mia attenzione su errori, imprecisioni, lacune e difetti di / fondamenti della matematica nel logicismo di Bertrand Russell. Un ringraziamento particolare al prof. Gregory Landini, dell’Università dello Iowa, per i preziosi suggerimenti su molte questioni difficili. Grazie di cuore a mia moglie Rita per la pazienza e il sostegno durante la stesura di questo lungo lavoro. Quasi superfluo aggiungere che sono il solo responsabile di tutti i difetti del libro.

Stefano Donati

i[PM], vol. I, prefazione, p. vii.

* Russell [1956b], “Reflections on My Eightieth Birthday”, pp. 54-55.

Parma, 9 dicembre 2016

PRINCIPALI SIMBOLI UTILIZZATI

Russell utilizzò simbologie molto diverse, nel tempo. Per esigenze di uniformità, laddove le questioni legate al simbolismo scelto non avevano rilevanza storica, mi sono in genere attenuto alla simbologia dei Principia Mathematica, ma senza alcuna rigidità: mi sono discostato dalla simbologia dei Principia, per esempio, nel rendere con parentesi e con il simbolo “A” per la congiunzione ciò che nei Principia è reso dal meccanismo dei punti. Al fine di evitare l'eccesso di parentesi, nelle formule riportate nel testo ho adottato la convenzione secondo cui certi simboli logici hanno la precedenza su altri nel legare le parti adiacenti di una formula, in assenza di parentesi che indichino diversamente. L’ordine di precedenza è: “— “, “e”, “©”, “X”

D

poi tutti gli altri segni. Di seguito fornisco una spiegazione dei principali simboli usati nel testo, segnalando convergenze e divergenze rispetto alla notazione dei Principia Mathematica. =df

“È uguale per definizione”. ([PM, introduzione, p. 11. In [PM], invece del simbolo “df° scritto a pedice del segno “=”, è usato il segno “Df” posto al termine della riga contenente la definizione.)

logica proposizionale PVq -p PAQ p>q p=q

“p oppure g”. (“v” è un simbolo primitivo in [PM].) “non p”. (“—’ è un simbolo primitivo in [PM].) “non (non p oppure g)”. p e g. p A q=4 q =ar —P V q. ([PM], vol. I, #1.01.) “p se e solo se g, cioè se p allora gq e se gq allora p”. p= q =4ar (P 2 9 A q 2 p). ([PM], vol. I, #4.01.)

logica predicativa se X#Y (x) (x) (4) (px)

(1x)(Qx)

“x è identico a y”.x=y=ar(@)(p!x> @!y). ([PM], vol. I, #13.01.) “x è diverso da y”. x # y =4r (x = y). ([PM], vol. I, #13.02.) “@x per ogni valore di x”. (il quantificatore universale, simboleggiato da una variabile racchiusa tra parentesi tonde, è un simbolo primitivo in [PM].) “non (non-gx per ogni valore di x)”. (x) (9x) =ar -(® -(@»*). ([PM], vol. I, #10.01.)

Descrizione definita: “l’x che ha la proprietà @ %”. Il simbolo è definito solo nei contesti: (1) “10 (PY] (Y(12 (x), che si legge “L’x che ha la proprietà pg .% è un y *”; (2) “E! (12)(@x)”, che si legge “L’x che ha la proprietà @ X esiste”. Le due definizioni sono: (1) [(7x)(@x)] (VG) (x) =ar

PX

pl i P(X,))

(45)()(@x=x= b) A vb). ([PM], vol. I, #14.01.) (2) E! (10) (x) =ar (35) (@M (px = x = d)). ([PM], vol. I, #14.02.) Funzione proposizionale monadica (proprietà): “la proprietà di essere un @”. AI posto di “x” può essere usata un’altra variabile, come “y”, “2”, ecc. AI posto di “@” sono usati anche i simboli “y”, “x”, “0”. (Simbolo primitivo in [PM].) Proprietà predicativa. (Simbolo primitivo in [PM].) Funzione proposizionale diadica (relazione). (Simbolo primitivo in [PM].)

xe (p!Z)

Relazione predicativa. (Simbolo primitivo in [PM].) “x ha la proprietà @! 2”.x € (0!2)=ar @! x. ([PMI], vol. I, #20.02.)

a(@!(*,Y))b

“aq e b stanno nella relazione @!(£,$)?.

0!(*,))

a(9!(£*,9))b=4 9! (4, 5). ([PM], vol. I, #21.02.)

classi a]

2(@z)

“Ja classe che ha per elementi i soli x, X2, ..., Xn". (Simbologia introdotta da Zermelo ([1908]), che mo-

difica uî precedente uso di Cantor, non utilizzata in [PM]; nella simbologia dei PAIRCIDIAANK ASA n} a è indicata come 1°x} U 1%) WU ... WUL'A.) “la classe degli z che hanno la proprietà @ î”. Il simbolo è definito solo contestualmente:f( 2 (@ 2)) =ar

Principali simboli utilizzati

xii

AV(@M(Y!1x= 9» A f(v! î)). ([PM], vol. I, +20.01.) [PM] anche le lettere greche & f, % d.) xe

Z(yz)

xɣ0

(Cigi)

(Per rappresentare una classe sono usate in

“x appartiene alla classe 2 (w2)”. x € 2 (vz)= vx. ([PM], vol. I, *20.3.) “x non appartiene alla classe @°.x £ @=4 (x € 0. ([PM], vol. I, #20.06. AI posto del simbolo “#” in [PM] si trova il simbolo “€ ”.) TIXE E “La classe @è una sottoclasse (non necessariamente propria) della classe Pac Pa 5). ([PM], vol. I, #22.01.) ge #°. @N B=ar *xe anxe /. “la classe formata dal prodotto logico (intersezione) delle classi ([PM], vol. I, #22.02.)

“la classe formata dalla somma logica delle classi *22.03.) “Ja classe unione della classe di classi x”. s°x=4

(xe av xe A) ([PM], vol. I,

e #?. au B=a *(G@(ae

r1x€

@). [PM], vol. I, #40.01.)

“l'insieme delle sottoclassi di @ (cioè, l’insieme potenza di 0)”. Cl‘a =8 (BC 0. ([PM], vol. I, *60.12.) “il complemento della classe 0”. —@=4r * (x € 0. ([PM], vol. I, + 22.04.)

“l'intersezione tra la classe & e il complemento della classe 2”. a— 8 =4 @N -B. ([PM], vol. I, * D20)59) “la classe che ha x come unico elemento”; sinonimo dunque di ‘“{x}”, nella simbologia di Zermelo. t°x = Y=x). ([PM], vol. I, #51.11.) “Ja classe vuota”. A =ar £ (x # x): “La classe vuota è la classe delle cose diverse da se stesse. ([PM], vol.

I, #24.02.)

relazioni (DAS)

“la n-upla ordinata x1, xa, ..., Xn”. (Simbolo non usato in [PM]; si avverta che ciò che in [PM] è chiamato la “coppia ordinale” x Y y non è la coppia ordinata (x, y), ma è la relazione in estensione che vale solo tra x e y, ossia la classe che ha per unico elemento la coppia (x, y) (una relazione seriale, se x # y) (v. [PM], vol. I, #55); analogamente “x L y Y 2”, che abbrevia informalmente l’ufficiale “x J PRIA Ju Ùy Y 2°, non indica in [PM] l’n-upla ordinata (x, y, z), ma una relazione in estensione che ha come elementi le coppie (x, y), (x, z) e (y, z) (una relazione seriale se x # y # z) (v. [PM], vol. II, parte IV, sezione D, sommario, p. 459).

x) (x,y)

Relazione diadica in estensione: “la classe di tutte le coppie ordinate (x, y) tali che x sta con y nella relazione @(%,Y)”. Il simbolo è definito solo contestualmente: f(*% @(x, ») =ar

GWM(MM(d41G,

y) =

P(x, ») Af(v!(2,4)). ([PM], vol. I, *21.01.) Una relazione può anche essere indicata da una lettera latina maiuscola quale “K?, “P”, “O”, “R”, “8, “7”. L'espressione aRb significa “a ha la relazione R con

b”. Se R=a4r X) @(x, y), invece di scrivere “a(*$ g(x, y)) d” si può scrivere “aRb”, che equivale a @(a,

x(X) Y(x,Y))y

b). “la coppia (x, y) è un elemento della classe di coppie ordinate è) y(x, y)”. x(îdy(x, y))y= VA, Y). ([PM], vol. I, *21.3.)

Nets

“La relazione R è inclusa nella relazione S”. R C- S=gr XY (xRy A xSy). ([PM], vol. I, *23.01.)

RAS

“il prodotto logico (intersezione) delle relazioni R e S°. ROS

RIS

“la somma logica delle relazioni R e S°.R ùS=4r £9 (xRy v xSy). ([PM], vol. I, *23.03.)

RIP

“Ja classe delle sottorelazioni della relazione P”. RIP=

À

“la relazione vuota”.

=ar XY (xRy A xSy). ([PM], vol. I, *23.02.)

A (H c-: P). ([PM], vol. I, *61.12.) A=g4r X) -(x=x A y=y): “La relazione vuota è la classe di tutte le coppie ordinate

di oggetti tali che l’uno o l’altro è diverso da se stesso”. ([PM], vol. I, *52.02.) “il dominio della relazione 7”. D‘H = % ((Ay)(xHy)). ([PM], vol. I, *33.11.)



“il dominio inverso (0 codominio) della relazione 7°. C‘H= î*((Ay)YHx). ([PM], vol. I, #33.111.) “il campo della relazione 7”. C‘H= %$ ((Ay) (xy v yHx)). ([PM], vol. I, *33.112.) “l’inversa della relazione R”. R=y XY (YRx). ([PM], vol. I, *31.02.)

“la classe delle relazioni uno-molti”. IAT)

1

Cls=

A (0) A) xHy A xy

> x = xy). ([PM], vol. I,

Principali simboli utilizzati

xiii

Cis. 1

“la classe delle relazioni molti-uno”. *71.171.)

141 i)

“la classe delle relazioni uno-uno”. 1 1= 7 (He 1-CIsnHe “la relazione di identità”. xZy =4r £$ (x = y). ([PM], vol. I, #50.01.)

di

“la relazione di diversità”. xJy =gr £9 (x # y). ([PMI], vol. I, *50.02.)

as

“la classe delle relazioni asimmetriche”. as =jr 7 (@ (xy > — yHx)). (In [PM] non è usato un simbolo semplice per denotare la classe delle relazioni asimmetriche: questa classe è denotata da

Cls>1=/7 (00) 0) (xHy A xHy; > y = yi)). ([PM], vol. I, Cls + 1). ([PM], vol. I, #71.103.)

“R(RA R)=ÀA”, che significa: “La classe delle relazioni R tali che l’intersezione tra R e la sua inversa è la relazione vuota”.)

RI‘J

“la classe delle relazioni irriflessive”. RI‘Y=

7 (()M) (xy > x # y)). (Il simbolo “RI‘7”, in [PM] è un

simbolo composto che significa, alla lettera, “la classe delle sottorelazioni della relazione di diversità”)

trans connex RIS x minp Q

“la classe delle relazioni transitive”. trans =gyr 7 (() )) (2) (xy A yHz > xHz)). ([PM], vol. II, #201.01.) “la classe delle relazioni connesse”. connex =j H (@MM)Aaxe CHA ye CHA x# y> xHyv yHx)). ([PM], vol. II, *202.103.) “la relazione data dal prodotto relativo delle due relazioni R e S”. RIS =ar *$ (Az) (xRz A zSy). ([PM], vol.

I, +34.01.) “x è un minimo di a rispetto alla relazione P”. x minp a=x€ gAx€ C‘PA-(Ay)y e an Pyx): “x è un minimo di rispetto alla relazione P se e solo se x è un elemento di e del campo di P e non esiste un y appartenente ad & che abbia con x la relazione P”. ([PM], * 93.11.)

Bord

“la classe delle relazioni ben ordinanti (o bene ordinate)”. Bord =jr d ((@(a CP (A) dI (4x) (x minp 0))): “La classe delle relazioni ben ordinanti è la classe di tutte le relazioni P tali che ogni classe non vuota costituita di elementi del campo di P ha un minimo”. ([PM], vol. III, #250.01.)

Ser

“la classe delle relazioni seriali (ovvero, la classe delle serie)”. Ser =qr ù (He RIIJAHE connex). ([PM], vol. II, #204.01.)

H)a

“la relazione H limitata alla classe @°. H) @=4r £$ (xHy Axe

Q

“la classe delle relazioni seriali ben ordinanti (o bene ordinate)”. Q = vol. III, #250.02.)

a/y€

transna He

0. ([PM], vol. I, #36.01.) B (Pe Ser n Pe

Bord). ([PM],

aritmetica cardinale

sm

“la relazione di similitudine cardinale tra due classi”. sm =gr Q8(GK)(Ke

1> 1A a=

DK 1 B=

Nc

T°K)). ([PM], vol. I, #73.02.) “Ja relazione che vale tra un numero cardinale e una classe qualsiasi di cui esso è numero cardinale”. “nNc@?” significa: “n è il numero cardinale di @?. Ne =s Rd (n= 8 (Bsm 2). ([PM], vol. II, #100.01.) (8 sm d. ([PM], vol. II, *100.1.)

Nc'a

“il numero cardinale di Q2?. Nc‘a=

NC

“Ja classe dei numeri cardinali”. NC =jr & (49)(@= Ne‘). ([PM], vol. II, #100.02.) a3 ‘Ja classe dei numeri cardinali induttivi, o numeri naturali”. NC induct =4yr * ((@(0€ aAMbe cui e zero appartiene cui classi le tutte di y+le QDxre dj): “La classe dei numeri naturali è la classe #120.01.) II, vol. ([PM], elemento”. appartiene anche, per ogni elemento, anche il successore di questo “la classe delle progressioni”. Prog =4r la classe delle relazioni uno-uno tali che il loro dominio è uguale alla posterità del primo termine. (La definizione simbolica si trova in [PM], vol. II, #122.01.) “la relazione ancestrale di R”. R, =gr *) (re C'RA(M(xE QA (V)(WhRWw A ve adDwe DIE

NC induct

Prog R.

R po

a+ B

0d)). ([PM], vol. I, #90.01.) “Ja relazione che vale tra x e e y se e iasolo se esiste uno z tale che x ha la relazione R con z e tra z e y vale la relazione ancestrale di R”. Ro =ar XY (XRIR.y). ([PM], vol. I, * 91.52.) “la somma aritmetica delle classi @e 27. a+ B=4 la somma logica della classe di tutte le coppie ordinate aventi come primo membro {x}, dove x è un elemento qualsiasi di @, e come secondo membro la classe vuota, con la classe di tutte le coppie aventi come primo membro la classe vuota e come secondo membro {y}, dove y è un elemento qualsiasi di 4. (La definizione simbolica si trova in [PM], vol. II,

*#110.01.)

Principali simboli utilizzati

xiv

n+m

“la somma dei numeri cardinali m e n”.

n+,

m=gr é(G@(AP)(n= Ne'an m= Ne‘BA É sm (a+ fb).

([PM], vol. II, #110.02.) axp

“il prodotto aritmetico delle classi ge #?. QX B =ar i) (x E AA yE D.

nXx,m

“il prodotto dei numeri cardinali m e n°. nX. m=qr 5 (Gad (AI) (n=Nc'anm=Ne‘BA

ésm (ax b)).

([PM], 113.03.) aritmetica ordinale

S|s W(n)

“la sezione dell’insieme ordinato S determinata dall’elemento s di S”. L'insieme ordinato (secondo la i relazione che ordina $) di tutti gli elementi di S che precedono s. (Simbolo non usato in [PM].) in usato non (Simbolo grandezza”. di ordine in n, di minori “l’insieme ordinato di tutti inumeri ordinali

[PM].) “Ja relazione di similitudine ordinale tra due classi”. smor =gr RS(GRM((Ke

1-1) A (CCR=D'AA

(2) 0) (Ry = Ex) By) (Kx; A YK yi A X18y1)))). ([PM], vol. II, #151.02.)

i

“Ja relazione che vale tra un numero relazione e una qualsiasi relazione di cui essa è numero relazione”. “nNrH” significa: “n è il numero relazione di H”. Nr =qr hh (= R (R smor H). ([PM], vol. II,

#152.01.)

“1 numero relazione della relazione H”. NrH = È (R smor H). ([PM], vol. II, #152.1.) “Ja classe dei numeri relazione”. NR =4rdd ((AR)(a= Nr°R)). ([PM], vol. II, #152.02.)

“la classe dei numeri ordinali”. NO =jr

& ((AP)(P € Q A (a= Nr°P): “La classe dei numeri ordinali è la

classe dei numeri-relazione di relazioni seriali ben ordinate”. ([PM], vol. III, #251.01.) “il numero

P+0Q

ordinale delle serie generate da una progressione”.

@ =gr P (GR)(Re

Prog A P=

Rro))

([PM], vol. II, *263.01.) “la somma aritmetica delle relazioni P e O”. P+ Q =aqrla relazione che vale tra x e y quando x e y hanno la relazione P' o la relazione Q', oppure x è un membro di C°P' e y è un membro di C‘0' (dove P' è la relazione che vale tra le coppie ordinate ({x}, A) e ({y}, A) se e solo se la relazione P vale tra x e y; e dove Q' è la relazione che vale tra le coppie ordinate (A, {x}) e (A, {y}) se e solo se la relazione Q vale tra x e y). (La definizione simbolica si trova in [PM], vol. II, #180.01.)

n+m

PESO,

nxm

“la somma dei numeri relazione n e m”. n+m =4r R(GP)G0)(n = Nr°P A m=

Nr‘Q A R smor (P+

O))) ([PM], vol. II, #180.02.) “il prodotto aritmetico delle relazioni P e O”. Px Q =a4rla relazione che vale tra due coppie ordinate (z, x) € (w, y) quando x e y appartengono al campo di P e z è w appartengono al campo di O, e inoltre vale che xPy oppure vale sia x = y sia z0w. (La definizione simbolica si trova in [PM], vol. II, *166.01.) “il prodotto dei numeri-relazione n e m”. nXm =qr È (AP) (40)(n = Nr°P A m=

Nr‘Q A R smor (Px

O))). ([PM], vol. II, #184.01.)

teoria sostituzionale delle classi e delle relazioni!

p/a'x!q p/a’x

“qè ciò che risulta da p sostituendo a con x in tutti quei luoghi (se ce ne sono) in cui a si presenta in p”. (V. Russell [1906b], p. 168.) descrizione definita: “ciò che risulta da p sostituendo a con x in tutti quei luoghi (se ce ne sono) in cui a si presenta in p”. (V. Russell [1906b], p. 169.) matrice, cioè simbolo incompleto che sostituisce i simboli di classe; si legge: “Il risultato della sostituzione di a in p con ...”. (V. Russell [1906b], p. 169.) “x appartiene alla classe p/a”. x € p/a =ar (Ap’)((9)(p/a'x! q=p'= q) A p’); il definiens si legge: “il risul-

tato della sostituzione di a in p con x è vero”. (V. Russell [1906b], p. 170.) zar

169.)

y ! x; il definiens si legge: “Il risultato del sostituire y ad x in x è ancora x”. (V. Russell [1906b], p.

zar (0) (p/a'x = g/b'x); il definiens si legge: “Per tutti i valori di x, p/a'x e g/bîx sono equivalenti” (V. Russell [1906b], p. 173.)

I a “a nate TS a ||? 1 i Questa simbologia A ècà usata da‘ Russell solo nell’ambito diA una teoriai diversa da quella sostenuta successivament e in [PM] (v. Russell [1906b]).

Principali simboli utilizzati

p/a, b)'(x, y)!q p/a, b)'(x, y) p/a, b)

x(p/(a, b)) y

XV

“q è ciò che risulta da p sostituendo simultaneamente a e d con x e y in tutti quei luoghi (se ce ne sono) in cui essi si presentano in p”. “ciò che risulta da p sostituendo simultaneamente a e d con x e y in tutti quei luoghi (se ce ne sono) essi si presentano in p”. (V. Russell [1906b], p. 173.) simbolo incompleto che sostituisce i simboli di relazione diadica; si legge: “il risultato della sostituzione simultanea di a e d in p con ...” (v. Russell [1906b], p. 170). Una classe di classi è un genere particolare di relazione diadica: il genere definito da una funzione di p e di a quando p e a compaiono in essa solo nel simbolo “p/a” (v. Russell [1906b], p. 176). La matrice 9/p, a) è una classe di classi se, per tutti i valori di r, c, r', c', a condizione che r/c = r/c', allora 9Ap, a)'(r, c) è equivalente a g/p, a)'(r', c')(v. Russell [1906b], p. 176). “x e y sono nella relazione p/a, b)”. x (p/a, b))y =ar Ap) ((g) (a, b)'(x, y)! = p'= Q) A p)); il definiens si legge: “Il risultato della sostituzione simultanea di a e b in p con x e y è vero”. (V. Russell [1906b],p. 174.)

p/a, b) = g/(c, d)

=

r/c € q/(p, a)

e g/(c, d)'(x, y) sono equivalenti”. “la classe r/c è un elemento della classe di classi g/(p, a)”. r/c e Gp, a) =ar (1) (c)(r")(c") [r/c' =

0) Aa, b)'(x, y) = g/(c, d)'(x, y)); il definiens si legge: “Per tutti i valori di x e di y, p/a, b)'(x, y)

r"/c"> q/p, a(r', c) = gp, a'(r", c')) A Ep”) [(4)(4/p, a)'(r, ©)! q'= p'= q”) A p'l; il definiens si può leggere: “(9/(p, a) è una classe di classi) A (9/(p, 4)'(r, c) è vero)”. (V. Russell [1906b], p. 176.)

@

ves

INTRODUZIONE

Bertrand Arthur William Russell nacque mercoledì 18 maggio 1872, nei pressi di Trellech, nel sud est del Galles (Monmouthshire),' da una famiglia aristocratica di idee politiche liberali. Avendo perso entrambi i genitori a nemmeno quattro anni,” egli fu affidato ai nonni paterni,’ i quali vivevano a Londra, in una villa in stile georgiano

in Richmond Park, Pembroke Lodge, che era stata loro concessa in uso vitalizio negli anni Quaranta dell’Ottocento dalla regina Vittoria, per i servigi resi allo Stato dal nonno di Russell. Il nonno, Lord John Russell — che era stato due volte primo ministro! —, aveva all’epoca ottantatré anni, ed era debolissimo; morì nel 1878,

quando Bertrand aveva appena compiuto sei anni, cosicché questi fu cresciuto dalla nonna, l’energica Lady Frances Anna Maria Elliot Russell. La sua prima istruzione fu affidata a precettori privati — come si usava all’epoca, nel suo ambiente sociale — i cui metodi pedagogici pare non fossero sempre ineccepibili: Mi facevano imparare a memoria: “Il quadrato della somma di due numeri è uguale alla somma dei loro quadrati aumentata del doppio del loro prodotto”. Non avevo la più vaga idea di che cosa significasse, e quando non riuscivo a ricordare le parole, il mio istitutore mi tirava il libro in testa, cosa che non stimolava in alcun modo il mio intelletto. Dopo i primi inizi dell’ Algebra, comunque, tutto il resto filò via liscio.”

Nonostante questi incidenti, l'interesse di Russell per la matematica fu precoce: A undici anni cominciai Euclide, con mio fratello come istitutore. Questo fu uno dei grandi eventi della mia vita, inebriante come il primo amore. Non avrei mai immaginato che al mondo ci fosse una cosa così deliziosa. Dopo che ebbi imparato la quinta proposizione, mio fratello mi disse che era generalmente considerata difficile, ma io non avevo trovato nessuna difficoltà. Questa fu la

prima volta che mi resi conto che potevo avere un po’ d’intelligenza. Da quel momento fino a quando Whitehead e io finimmo Principia Mathematica, quando avevo trentotto anni, la matematica fu il mio interesse principale e la mia principale fonte di felicità. Come tutte le felicità, tuttavia, non era pura. Mi era stato detto che Euclide dimostrava le cose, e fui molto deluso che egli co-

minciasse con degli assiomi. Dapprima rifiutai di accettarli a meno che mio fratello non mi offrisse qualche ragione per farlo, ma egli disse: “Se non li accetti non possiamo andare avanti”, e siccome io volevo andare avanti, con riluttanza li accettai pro tempore. Il dubbio circa le premesse della matematica che provai in quel momento rimase con me, e determinò il corso del mio lavoro successivo.

! La casa natale di Russell — allora Ravenscroft e ora Cleddon Hall — si trova a meno di tre chilometri da Trellech, in direzione sud-est; vi

si arriva da Trellech prendendo la strada per il villaggio di Llandogo. I genitori di Bertrand Russell non erano di origine gallese, ma avevano acquistato Ravenscroft poco prima della nascita di Bertrand, trasferendosi dall’ Inghilterra. ? La madre di Russell, Katherine Louisa Stanley Russell, Lady Amberley, morì di difterite il 28 giugno del 1874, a trentadue anni, e fu sepolta in prossimità di Ravenscroft; il padre, John Russell, Lord Amberley, da tempo malato di tubercolosi, morì il 9 gennaio del 1876, a trentatré anni, in seguito a una bronchite; avrebbe voluto essere sepolto anch'egli a Ravenscroft, ma la famiglia decise diversamente, ed entrambe le salme furono trasferite nella tomba di famiglia a Chenies, a nord ovest di Londra.

* Il padre di Bertrand Russell, Lord Amberley, poco prima di morire aveva lasciato disposizioni che i suoi due figli Bertrand e Frank (maggiore di sette anni di Bertrand) fossero cresciuti da due tutori: Douglas A. Spalding (biologo, e già precettore di Frank) e Thomas J. Cobden-Sanderson. Lord Amberley era un libero pensatore e, nelle sue intenzioni, questi due tutori — entrambi atei — avrebbero protetto i due figli dai danni di un’educazione religiosa. Ma le cose non andarono come previsto, a causa di uno strano scandalo che coinvolse Spalding. Ecco come racconta l’episodio Russell nella sua autobiografia: «Anch’egli [Spalding] era in uno stadio avanzato di tubercolosi e morì non molto dopo mio padre. A quanto pare sulla base di considerazioni puramente teoriche, mio padre e mia madre decisero che sebbene dovesse restare senza figli a causa della sua tubercolosi, non era giusto aspettarsi da lui il celibato. Pertanto mia madre gli permise di stare con lei, sebbene non mi risulti che ella ne derivasse alcun piacere. Quest’accordo durò assai poco, perché cominciò dopo la mia nascita e io avevo solo due anni quando mia madre morì. [...] Imiei nonni, tuttavia, scoprirono dalle sue carte [di Lord Amberley] ciò che era accaduto in relazione a mia madre. Tale scoperta provocò in loro ilpiù

profondo orrore vittoriano. Decisero che, se necessario, avrebbero messo in moto la legge per salvare bambini innocenti dalle grinfie di is quei miscredenti intriganti» (Russell [1967-69], 1872-1914, cap. 1, p. 12). fubambini I vincere. di speranza alcuna avuto avrebbero non che Gli avvocati sconsigliarono a Spalding e Cobden-Sanderson una causa

rono quindi posti sotto tutela legale e Cobden-Sanderson consegnò Bertrand ai nonni nel febbraio del 1876. Bertrand visse nella loro casa

tutta l’infanzia e l'adolescenza, fino al suo ingresso all’ Università di Cambridge. Il fratello maggiore, Frank, era già stato mandato in collegio a Winchester dai genitori, e la sua permanenza presso i nonni era limitata al solo periodo delle vacanze scolastiche. 4 Dal 30 giugno 1846 al 21 febbraio 1852 e dal 29 ottobre 1865 al 26 giugno 1866. Il suo più importante risultato parlamentare, tuttavia, non l’aveva ottenuto da primo ministro, ma diversi anni prima, quand’era primo ministro Charles Grey, con l’approvazione della riforma elettorale del 1832 (nota come Reform Act 1832, 0 Great Reform Act). > Russell [1967-69], 1872-1914, cap. 1, p.31. © Russell [1967-69], 1872-1914, cap. 1, pp. 30-31.

Introduzione

2

Durante l’adolescenza Russell cominciò a nutrire interesse anche per la speculazione filosofica che, tuttavia, l’ambiente familiare, rigidamente puritano, non favoriva; nell’autobiografia Russell scrive: «solo la virtù era ap-

prezzata, la virtù a spese dell’intelletto, della salute, della felicità, e d’ogni bene mondano».' La nonna di Russell

aveva, egli ricorderà, la rigidità morale degli scozzesi presbiteriani:* «disprezzava le comodità, era indifferente al cibo, odiava il vino e considerava peccaminoso il tabacco. [...] Aveva quell’indifferenza al denaro che è possibile soltanto a coloro che ne hanno sempre avuto abbastanza. [...] Aveva la fiducia protestante nel giudizio privato e nella supremazia della coscienza individuale. [...] A settant'anni la nonna diventò unitariana».’ Fu alle dottrine unitariane che Russell prestò fede dai tredici fino ai quindici anni circa, ma nei tre anni successivi la riflessione filosofica lo allontanò definitivamente dalle idee nelle quali era stato educato. Nell’autobiografia di Russell si leg-

ge: A quest’età cominciai un’indagine sistematica dei supposti argomenti razionali a favore delle credenze cristiane fondamentali. Trascorsi ore interminabili in meditazione su quest’argomento; non potevo parlarne con nessuno per timore di arrecare un dispiacere. Soffrivo acutamente sia per la graduale perdita di fede sia per la necessità del silenzio. Pensavo che se avessi cessato di credere in Dio, nella libertà e nell’immortalità, sarei stato molto infelice. Scoprii, tuttavia, che le ragioni addotte a favore di questi dogmi era-

no pochissimo convincenti. Li considerai uno a uno con grande serietà. Il primo ad andarsene fu il libero arbitrio. A quindici anni, mi convinsi che i movimenti della materia, vivente o inanimata, procedono interamente secondo le leggi della dinamica, e pertanto la volontà non può avere influenza sul corpo. A quell’epoca scrivevo le mie riflessioni in un inglese scritto con lettere greche su un libro intitolato “Esercizi di greco”. Feci questo per paura che qualcuno scoprisse ciò che stavo pensando. Su questo libro registrai la mia convinzione che il corpo umano è una macchina. Avrei potuto trovare soddisfazione intellettuale diventando un materialista, ma per motivi quasi identici a quelli di Descartes (a me sconosciuto se non come inventore delle coordinate cartesiane), giunsi alla conclusione che la coscienza è un dato innegabile, e pertanto il materialismo puro è impossibile. Questo all’età di quindici anni. Circa due anni dopo, mi convinsi che non c’è vita dopo la morte, ma credevo ancora in Dio, perché l'argomento della “Causa Prima” sembrava irrefutabile. A diciott’anni, tuttavia, poco prima di andare a Cambridge, lessi l’Autobiography di Mill, dove trovai una frase in cui egli diceva che suo padre gli aveva insegnato che la domanda “Chi mi ha creato?” non può avere risposta, perché essa implica immediatamente l’altra: “Chi ha creato Dio?”. Questo mi condusse ad abbandonare l'argomento della “Causa Prima”, e a diventare ateo. Durante il lungo periodo di dubbio religioso, ero stato reso molto infelice dalla graduale perdita di fede, ma quando il processo fu completato, scoprii con sorpresa che ero ben felice di aver chiuso con l’intero argomento."

Nell'ottobre del 1890, Russell entrò al Trinity College di Cambridge per laurearsi in matematica. Cambridge era, all’epoca, una sede universitaria più prestigiosa di Oxford per gli studi matematici, e Russell la scelse per questo: egli scrive: «Mio padre era stato a Cambridge, ma mio fratello era a Oxford. Io andai a Cambridge per il mio interesse per la matematica». !! Per un verso, il giovane Russell trovò a Cambridge un ambiente entusiasmante, per il clima di libertà intellettuale che contrastava con la chiusura puritana dell’ambiente familiare in cui era fino ad allora vissuto. Egli non doveva più celare le sue riflessioni per timore di offendere qualche ortodossia, ma poteva discutere liberamente le sue idee con altri: «senza che essi mi squadrassero come se fossi matto né mi riprovassero come se fossi un criminale». Grazie anche all’interessamento di Alfred North Whitehead — allora docente in quell’università — il quale era rimasto colpito dalle sue doti intellettuali, Russell fu ammesso a far parte di un ristretto circolo di studenti di Cambridge chiamato “gli Apostoli” — che si riuniva ogni sabato sera nella stanza del segretario — nel quale entrò in contatto con i migliori ingegni allora presenti in quell’università. i Per un altro verso, Russell non era soddisfatto del tipo d'insegnamento impartito a Cambridge: L'insegnamento della matematica a Cambridge quand’ero studente universitario era decisamente scadente. La sua qualità scadente era in parte dovuta alla classifica di merito nell’esame finale [7ripos], che fu abolita non molto tempo dopo. La necessità di una giusta discriminazione fra le abilità di diversi esaminandi portava a un’enfasi sui “problemi” rispetto allo studio teorico. Le “dimostrazioni” dei teoremi matematici che si offrivano erano un insulto all’intelligenza logica. In effetti, intero soggetto della matema-

tica era presentato come un insieme di abili trucchi con i quali accumulare punti nell’esame finale. L'effetto di tutto ciò su di me fu

” Russell [1956b], “Adaptation: an Autobiographical Epitome”, p. 3. Sa famiglia di Lady Frances Russell era scozzese, della regione di Borders. Il presbiterianesimo è una dottrina cristiana di derivazione

calvinista — ancor oggi con un forte seguito in Scozia — nel cui ambito la Chiesa è organizzata in modo assembleare, in contrapposizione sia alla Chiesa cattolica, sia a quella anglicana, in cui il clero è organizzato gerarchicamente.

Russell [1944a], p. 5. L’unitarianesimo è una dottrina cristiana che nega la divinità di Gesù e la trinità di Dio. Dal 1700 l’unitarianesimo

%. era diffuso largamente in Gran Bretagna e in America settentrionale presso presbiteriani, anglicani, battisti e congregazionalisti. Russell [1967-69], 1872-1914, cap. 2, pp. 35-36.

!! Russell [1967-69], 1872-1914, cap. 3, p. 53. '? Russell [1956b], “Adaptation: an Autobiographical Epitome”, p. 4.

Introduzione

3

di rendermi disgustosa la matematica. Quando ebbi finito il mio esame finale, vendetti tutti i miei libri di matematica e feci voto di non guardare mai più un libro di matematica. E così, nel mio quarto anno [a Cambridge], m’immersi con incondizionato piacere nel fantastico mondo della filosofia.!

Nel quarto anno di Russell a Cambridge — l’anno accademico 1893-1894 — i suoi professori di filosofia erano

Henry Sidgwick (Elementi di Filosofia, Etica), James Ward (Metafisica, Storia della Filosofia) e George F. Stout (Storia della Filosofia). Il primo — un tardo seguace dell’utilitarismo di Bentham — era considerato allora démo-

dé e furono gli altri due ad avere la maggiore influenza sul giovane Russell. Dal kantiano Ward, Russell fu introdotto a un’approfondita conoscenza di Kant, e in particolare della Critica della ragion pura. Stout aveva, all’epoca, una grande considerazione del neohegeliano Francis H. Bradley e riteneva che quest’ultimo, con la sua opera maggiore Appearance and Reality (1893), avesse realizzato tutto quanto è umanamente possibile nel campo dell’ontologia. Attraverso Stout, Russell entrò in contatto anche con la filosofia di Alexius Meinong. Le dottrine in auge a Cambridge erano, a quel tempo, quella kantiana e, soprattutto, quella hegeliana — quest’ultima»mutuata dapprima attraverso l’opera di Thomas H. Green e in seguito attraverso l’opera di Bradley. Russell seguì la corrente: fu in un primo tempo kantiano, poi — soprattutto sotto l'influenza di Stout e del giovane John M. E. McTaggart (che sarà l’ultimo esponente di spicco del neohegelismo inglese) — divenne hegeliano: [...] [Ricordo il preciso momento, un giorno del 1894, mentre stavo camminando lungo Trinity Lane, in cui vidi in un lampo (0

pensai di vedere) che l’argomento ontologico è valido. Ero uscito a comprare una scatoletta di tabacco; sulla via del ritorno, improvvisamente la lanciai in aria, ed esclamai, riprendendola al volo: “Perdiana, l'argomento ontologico è valido”. A quel tempo lessi avidamente Bradley e lo ammirai più di qualsiasi altro filosofo recente."

Nell'estate del 1895, Russell presentò la sua dissertazione di dottorato, rielaborata l’anno seguente nel libro —

recante una dedica a McTaggart — An Essay on the Foundations of Geometry. Quest'opera consiste nella difesa (di una variante) dell’approccio kantiano alla geometria, in cui si punta a ricondurre a pochi enunciati a priori sia la geometria euclidea sia le geometrie non euclidee; nelle parole di Russell: [...] sosterrò [...] che questi assiomi, che Euclide e la Metageometria [cioè, le geometrie non euclidee] hanno in comune, coincido-

no con quelle proprietà di qualsiasi forma di esternalità [cioè, per Russell, un ‘principio di differenziazione” — in astrazione dal particolare contenuto differenziato — che consente di percepire gli oggetti dell’esperienza come distinti e coesistenti esternamente l’uno all’altro'‘] che sono deducibili, mediante il principio di contraddizione, dalla possibilità dell'esperienza di un mondo esterno. Queste proprietà, allora, possono dirsi, anche se non proprio nel senso kantiano, essere proprietà a priori dello spazio, e quanto ad esse, penso, si può sostenere una posizione kantiana modificata.!”

Pur ammettendo che gli assiomi che distinguono la geometria euclidea dalle geometrie non euclidee non siano veri a priori e che la questione se lo spazio del nostro mondo sia euclideo, riemanniano o lobaCevschiano sia da risolvere per via empirica, Russell sostiene che ogni possibile geometria metrica'* — euclidea o non euclidea — sia fondata su tre assiomi a priori:'° (1) L’assioma del libero movimento, che Russell enuncia così: «Le grandezze spaziali possono muoversi da un posto all’altro senza distorsioni; o come si può anche dire, Le forme non dipendono in alcun modo dalla posla . 20 sizione assoluta nello spazio».

!3 Russell [1959], cap. 4, pp. 37-38. Sulla qualità dell’insegnamento matematico a Cambridge in quegli anni, è indicativo ciò che Russell riferisce poco dopo, nello stesso libro (v. Russell [1959], cap. 4, p. 39), ricordando che durante due viaggi in Germania, negli inverni del 1894 e del 1895, e un viaggio in America con la moglie Alys nel 1896, egli venne a conoscenza di opere tedesche.in matematica pura delle

quali non aveva mai udito notizia. In “My mental development” Russell ricorda di essere venuto a conoscenza del lavoro di Weierstrass — «di cui i miei insegnanti di Cambridge non avevano mai fatto menzione» (Russell [1944a], p. 11) — solo durante il viaggio in America con la moglie Alys nel 1896 (v. Russell [1944a], p. 11). 14 Russell [1944a], p. 10. V. anche Russell [1967-69], 1872-19 14, cap. 3, p. 60.

!5 V. Russell [1897a].

non la 16 V_ Russell [1897a], $ 128, p. 136. La nozione di esternalità proposta da Russell in questo libro differisce da quella di Kant, ilquale

concepiva come esternalità di un oggetto d’esperienza compresente a un altro, ma come l’esternalità degli oggetti d’esperienza rispetto all’Io.

!7 Russell [1897a], $ 55, p. 57.

|

ina

!8 Cioè ogni geometria in cui sia possibile effettuare misurazioni quantitative.

!9 V. per es., Russell [1897a], $$ 142, 177 e 209. 20 Russell [1897a], $ 144, p. 150; corsivo di Russell.

4

Introduzione

(2) L’assioma delle dimensioni, riportato da Russell in una forma dovuta a von Helmholtz: «“In uno spazio di n

dimensioni, la posizione di ogni punto è univocamente determinata dalla misurazione di n variabili continue indipendenti (coordinate)”».' Russell considera come parte dell’assioma il principio che «Lo spazio deve avere un numero finito intero di Dimensioni», perché «un numero infinito di dimensioni sarebbe praticamen— te impossibile da determinare». (3) L’assioma della distanza: «ogni punto deve avere con ogni altro punto una, e solo una, relazione indipendente dal resto dello spazio. Questa relazione è la distanza tra i due punti».?*

Russell considera però la geometria metrica come basata su una geometria più generale, puramente qualitativa, cioè in cui in cui non si fa nessun uso del concetto di quantità: la geometria proiettiva;” egli scrive: «La geometria metrica, [...] anche se distinta dalla geometria proiettiva, non è indipendente da essa, ma la presuppone, e deriva dalla sua combinazione con l’idea estranea di quantità».?° La geometria proiettiva, secondo ciò che qui sostiene Russell, si fonda su tre assiomi:

(D

L’assioma dell’omogeneità dello spazio: «Possiamo distinguere parti diverse dello spazio, ma tutte le parti sono qualitativamente simili, e sono distinte soltanto dal fatto immediato che si trovano una al di fuori

dell’altra».”

(I) L’assioma di divisibilità all’infinito: «Lo spazio è continuo e infinitamente divisibile; il risultato della divisione infinita, lo zero dell’ estensione, si chiama punto».

(II) L’assioma della retta e delle dimensioni: «Due punti qualsiasi determinano una figura unica, chiamata linea retta, tre qualsiasi in generale determinano una figura unica, il piano. Quattro qualsiasi determinano una figura corrispondente di tre dimensioni, e nonostante quanto possa apparire in contrario, lo stesso può essere vero di qualsiasi numero di punti. Ma questo processo giunge al termine, prima 0 poi, con qualche numero [finito] di punti che determina l’intero spazio». Dunque, Russell considera parte di quest'assioma anche il principio seguente: «Qualsiasi forma di esternalità deve avere un numero finito intero di dimensioni». Russell argomenta che l’assioma dell’omogeneità dello spazio è implicato da quello del libero movimento," e che quello della retta è implicato da quello della distanza.?”? Secondo Russell, questi assiomi della geometria, e solo questi, devono essere considerati veri a priori, nel senso che essi «sono necessariamente veri di qualsiasi mondo in cui l’esperienza è possibile». L'argomento di Russell è che gli oggetti d’esperienza sono costituiti di parti compresenti, esterne l’una all’altra, e dunque una forma dell’esternalità deve precedere l’esperienza. Molti anni dopo, in My Philosophical Development (1959), Russell osserverà che la filosofia dell’ Essay on the Foundations of Geometry non regge di fronte alla teoria generale della relatività,’ concludendo: «Dettagli a parte,

2! Russell [1897a], $ 158, p. 162. 22 Russell [1897a], $ 158, p. 161; corsivo di Russell.

°° Ibid.

24 Russell [1897a], $ 175, pp. 172-173; corsivo di Russell. 2° La geometria proiettiva — che nacque nella prima metà dell'Ottocento — tratta delle proprietà delle figure che non solo restano costanti per traslazione e rotazione — come nel caso sia della geometria euclidea sia di quelle non euclidee —, ma anche per proiezione da un punto: una di queste ultime proprietà, per es., è l'appartenenza di un punto a una retta, da cui deriva che altre due proprietà invarianti per proiezione sono, per es., l’incontrarsi in un dato punto di tre 0 più rette, e l’appartenere a una stessa retta (l'essere allineati) di tre punti.

2° Russell [1897a], $ 142, p. 148; corsivo di Russell. 27 Russell [1897a], $ 122, p. 132.

°* Ibid. °° Ibid.

3° Russell [1897a], $ 132, p. 140; corsivo di Russell. Si avverta, tuttavia, che riassumendo al termine del libro le sue posizioni, Russell

RECOE come assiomi della geometria proiettiva tre assiomi, che chiama: «l'omogeneità, le dimensioni e la linea retta» ($ 209, p. 200). °. V. Russell [1897a], $ 155, pp. 159-160.

3° V. Russell [1897a], $$ 165-172. 3 Russell [1897a], $ 181, p. 179.

34 V. Russell [1959], cap. 4, p. 40. In proposito, Ray Monk spiega: «Questi assiomi [Monk si riferisce qui agli assiomi della geometria proiettiva], afferma Russell, devono essere soddisfatti da qualsiasi geometria che descriva uno spazio possibile [...] Se lo spazio sia 0 no curvo, cioè, non si può conoscere a priori ma ciò che si può conoscere a priori è che, se esso è curvo, allora la sua curvatura è costante. Questo segue dall’“omogeneità” dello spazio asserita dal primo assioma. Un colpo mortale a questo punto di vista fu inferto dalla Teoria della relatività di Einstein, secondo la quale lo spazio fisico è riemanniano, quadridimensionale e di curvatura variabile [...]» (Monk [1999], p. 108). Il punto è che, secondo la teoria della relatività generale, la presenza di materia curva lo spazio, che dunque non è omoge-

neo.

È

Introduzione

5

non penso che vi sia nulla di valido in quel primo libro». In realtà, Russell respinse questa teoria già prima del 1900” — dunque ben prima che Finstein pubblicasse la sua teoria della relatività generale (1915) — probabilmente a causa di un ripensamento causato dalla critica al suo libro dell’amico George Edward Moore.” In effetti, il tentativo dell’ Essay on the Foundations of Geometry di fondazione kantiana della geometria non può dirsi riuscito: un problema è che gli assiomi (1), (II) e (III) sono affatto insufficienti a ricavarne la geometria proiettiva;*

un altro — più grave — è che, in ogni caso, Russell non riesce a dimostrare che gli assiomi (1), (2), (3) e (1), (ID) e

(III) siano prerequisiti di ogni esperienza possibile del mondo esterno.? Nel 1897, Russell pubblica anche il saggio “On the relations of number and quantity”, ancora nel solco del neohegelismo." Nei confronti di questo saggio, in My Philosophical Development Russell si esprimerà in maniera sprezzante: «quest'articolo [...] non mi sembra adesso nient'altro che vera e propria spazzatura».‘ Da uno sguardo a queste opere risulta evidente che Russell non aveva mantenuto a lungo il voto «di non guardare mai più un libro di matematica». In My Philosophical Development, Russell ricorda: «A dispetto del mio precedente voto, lessi una grandissima quantità di matematica — molta della quale, come scoprii più tardi, del tutto irrilevante al mio scopo principale». In effetti, in un elenco delle sue letture mese per mese, che Russell tenne tra il febbraio del 1891 e il marzo 1902,' figurano molte opere di matematica lette tra il 1894 e il 1898. Tra di esse — sicuramente rilevanti allo «scopo principale» di Russell: lo sviluppo della sua indagine sui fondamenti della matematica —

si trovano: nel marzo del 1896, le traduzioni francesi dei più importanti articoli di Cantor dal 1871

al 1883, pubblicate su Acta Mathematica;* nel dicembre 1896, il saggio di Dedekind Stetigkeit und irrationale Zahlen;* nel marzo del 1898 la Universal Algebra di Whitehead,*° e nell’aprile dello stesso anno il saggio di Dedekind Was sind und was sollen die Zahlen?.! Verso la fine del 1898, Russell ripudiò sia il kantismo, sia l’idealismo hegeliano. All’origine di questo rifiuto, si possono individuare due impulsi esterni: quello di Whitehead e, più importante, quello di Moore. Riguardo a Whitehead, Russell ci dice che, nel 1897, questi lo sollecitò a leggere direttamente i libri di Hegel sulla logica, accantonando quelli dei neohegeliani inglesi sui quali egli si era fino allora formato. Il risultato fu quello che, probabilmente, Whitehead si aspettava:

35 Russell [1959], cap. 4, p. 40. 3° Nella parte introduttiva di Russell [1899b], la risposta di Russell alla recensione di Poincaré al suo libro sulla geometria (v. Poincaré [1899]), Russell avverte di aver «cambiato idea su numerosi punti, dacché il mio libro è stato pubblicato» (Russell [1899b], p. 684), e di aver esitato ad accettare l’invito di Poincaré a rispondere alle sue critiche perché «dubitavo di poter sostenere con successo le mie vecchie opinioni» (ibid.). Russell esporrà le sue nuove idee sulla geometria — accennate nella parte finale dell’articolo — nei Principles of Mathematics (1903).

37 V. G. E. Moore [1899b]. In una lettera a Louis Couturat del 2 luglio 1899, Russell scrive: «Il mio amico G. E. Moore (Trinity College, Cambridge) è, a mio parere, il più sottile, in logica pura. Vedrete (se vedete Mind) la recensione del mio libro nel presente numero. Sebbene egli non sia un matematico, sono d’accordo con quasi tutte le sue critiche, che sono abbastanza severe» (in Russell [2001a], p. 129). Nel-

la sua recensione, Moore non entra nella questione dell’adeguatezza matematica degli assiomi geometrici proposti da Russell; la sua critica fondamentale è che Russell non dimostra che devono esserci condizioni a priori di qualsiasi intuizione spaziale: «mostrare che una “forma di esternalità” è necessaria per la possibilità dell’esperienza, può significare solo mostrare che è presupposta nella nostra esperienza reale. E

questo non può mai provare che nessun’esperienza sarebbe possibile senza tale forma, salvo che non si assuma che la nostra esperienza reale è essa stessa necessaria, cioè, che non è possibile nessun'altra esperienza» (G. E. Moore [1899b], p. 399). 38 Come già osservò Poincaré in una recensione del 1899 al libro di Russell (v. Poincaré [1899], $ 3). Nella sua replica (v. Russell [1899b],

$ II, pp. 696-699), Russell riconosce l’insufficienza dei tre assiomi per la geometria proiettiva, e li rimpiazza con altri sei (senza tentare di sostenere che questi ultimi siano necessari a ogni forma di esternalità) — ancora, tuttavia (contrariamente a ciò che suppone Russell (v. Russell [1899b], $ II, p. 699)), insufficienti per derivare molti teoremi della geometria proiettiva (v. Torretti [1978], $ 4.3.2, pp. 306-307).

39 In proposito, si veda Torretti [1978], $ 4.3, pp. 301-320.

40 V. Russell [1897c]. 4! 42 43 4

Russell [1959], cap. 4, p.41. Russell [1959], cap. 4, p. 39. V. Russell [1891-1902], pp. 357-361. V. Acta Mathematica, vol. 2 (1883), pp. 305-414.

45 V. Dedekind [1872]. 40 V. Whitehead [1898]. 47 V. Dedekind [1888].

ras

da

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1898 sia stato 48 Nikolay Milkov ([2001], $ 7) sostiene che l’abbandono da parte di Russell dell’idealismo britannico e del monismo nel sul quale causato principalmente dall’influsso di Rudolf Hermann Lotze — un filosofo che Russell aveva già letto nel 1886 6 l'ssi/te di un tuttavia, tratta, Si 1898. del febbraio e gennaio nel — partecipato aveva Russell McTaggart aveva tenuto un ciclo di lezioni — cui influsso che, a differenza di quelli che ho indicato, non è riconosciuto da Russell.

49 V. Garciadiego [1992], $ 3.5, p. 64.

6

Introduzione con riveIl mio primo serio contatto con la cultura tedesca consistette nella lettura di Kant, che, quando ero studente, consideravo

lo rente rispetto. I miei insegnanti mi dissero di avere almeno un uguale rispetto per Hegel, e 10 accettai questo giudizio finché non lessi. Ma quando lo lessi trovai le sue osservazioni nella filosofia della matematica (che era la parte della filosofia che mi interessava di più) ignoranti e stupide [both ignorant and stupid] Se [...] mi volsi dai discepoli [di Hegel] al Maestro e trovai nello stesso Hegel una farragine di confusioni e ciò che non mi sembrava essere molto di più che giochi di parole.?!

L’atteggiamento di Russell nei confronti di Hegel si manterrà, nel tempo, improntato a una totale disistima. Per

esempio, in Our Knowledge of the External World, del 1914, la demolizione della Logica di Hegel è così compendiata: L’argomento di Hegel in questa parte della sua “Logica” dipende interamente dal confondere l°“è” della predicazione, come in “Socrate è mortale”, con l’“è” dell’identità, come in “Socrate è il filosofo che bevve la cicuta”. A causa di questa confusione, egli pensa che “Socrate” e “mortale” debbano essere identici. Vedendo che sono diversi, non inferisce, come altri farebbero, che ci sia un errore da qualche parte, ma che essi esibiscono “identità nella differenza”. Ancora, Socrate è un particolare, “mortale” è un universale. Pertanto, egli dice, siccome Socrate è mortale, ne segue che il particolare è l’universale — prendendo l°“è” come esprimenSI te dappertutto identità. Ma dire “il particolare è l’universale” è autocontraddittorio. Ancora una volta Hegel non sospetta un errore, ma procede a sintetizzare particolare e universale nell’individuo, o universale concreto. Questo è un esempio di come, per mancanza di attenzione all’inizio, sistemi filosofici vasti e grandiosi siano costruiti sopra confusioni stupide e banali, che, se non fosse per il fatto quasi incredibile che non sono intenzionali, si sarebbe tentati di caratterizzare come giochi di parole.”

Russell non abbandonò però il neohegelismo nel 1897: nel luglio 1898,” egli completò un manoscritto — non pubblicato all’epoca —

sui fondamenti della matematica, dal titolo “An Analysis of Mathematical Reasoning”,° x

che è ancora di matrice chiaramente neohegeliana. George E. Moore, più giovane compagno di studi di Russell a Cambridge, aveva avuto anch’egli un periodo neohegeliano, dal quale però era uscito prima di Russell. Russell lo conobbe al suo terz’anno di università, quando Moore era ancora una matricola, e ne ebbe subito una grande considerazione;

nella sua autobiografia, Russell

scrive: «per qualche anno egli incarnò il mio ideale di genio».” Le conversazioni di Russell con Moore nel corso del 1898 — Moore stava, a quell’epoca, preparando la sua tesi di dottorato — furono molto importanti, almeno come catalizzatore del nuovo indirizzo filosofico anti-idealista di Russell: «fu in larga misura la conversazione con lui a condurmi ad abbandonare sia Kant sia Hegel».?° Moore condivideva con Russell il rifiuto di quello che quest’ultimo chiamò assioma delle relazioni interne — cioè del principio secondo cui «ogni relazione tra due termini esprime, in primo luogo, proprietà intrinseche dei due termini»”” — a favore della dottrina secondo cui le relazioni sono esterne — cioè non modificano i loro termini. All’inizio del 1898, studiando la filosofia di Leibniz in vista di un ciclo di lezioni da tenere al Trinity Col-

lege di Cambridge, * Russell scoprì che la dottrina delle relazioni interne era alla base della metafisica di Leibniz: Scoprii — cosa che i libri su Leibniz mancavano di chiarire — che la sua metafisica era esplicitamente basata sulla dottrina che 0gni proposizione attribuisce un predicato a un soggetto e (cosa che a lui sembrò quasi la stessa cosa) che ogni fatto consiste di una sostanza avente una proprietà. Scoprii che questa stessa dottrina sta alla base dei sistemi di Spinoza, Hegel e Bradley, i quali, di fatto, svilupparono tutti tale dottrina con più rigore logico di quello mostrato da Leibniz.”

Il rifiuto della dottrina delle relazioni interne segna una cesura fondamentale tra la filosofia giovanile e quella successiva di Russell; è quindi opportuno soffermarsi un po” sull'argomento. Secondo questa dottrina, ogni mutamento nelle “relazioni” in cui è coinvolta un'entità a è riducibile a un mutamento nelle qualità di a: 50 Russell [1956b], “Six Autobiographical Essays”: II, p. 20. V. anche Russell [1944a], p. 11. °! Russell [1956b], “Six Autobiographical Essays”: I, p. 17. °2 Russell [1914a], lecture II, pp. 48-49, nota (1% ediz., pp. 39-40, nota). 53 V. nota introduttiva a Russell [1898b], in Russell [1990], p. 155.

24 V. Russell [1898b]. °° Russell [1967-69], 1872-1914, cap. 3, p. 61. °° Ibid. °7 Russell [1959], cap. 5, p. 54.

98 A Russell fu chiesto di sostituire McTaggart, che in circostanze normali avrebbe dovuto tenere le lezioni, ma aveva chiesto di assentarsi per visitare la propria famiglia in Nuova Zelanda (v. Russell [1944a], p. 12). Lo studio intrapreso da Russell in quell’occasione sfociò in un

libro uscito nel 1900, intitolato A Critical Exposition of the Philosophy of Leibniz (v. Russell | 1900a]).

°° Russell [1959], cap. 5, p. 61.

60

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; 3 reso . . È Il rifiuto russelliano della dottrina delle relazioni È, interne, con l'affermazione della tesi secondo cui «tutte le relazioni sono esterne» appan

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97 Lia

89 V. sotto, cap. 4, $ 4.2.2. Questa proprietà degli insiemi finiti è descritta da Cantor per la prima volta in Cantor [1878], p. 119. Indipendentemente da Cantor, anche Charles Sanders Peirce aveva rilevato questa caratteristica degli insiemi finiti, per la prima volta nel 1881; scrive Peirce: «Se ogni S è un Pese i P sono una moltitudine finita [finite lot] che ammonta a un numero non più grande del numero degli S, allora ogni P è un S» (Peirce [1881], p. 95). Parafrasando, qui Peirce dice che se un insieme è P finito e S è un suo sottoinsieme che ha

un numero cardinale non minore di quello di P, allora P è un sottoinsieme di S, cosicché P = S. Nel 1885, Peirce usa questa proprietà per definire gli insiemi finiti: «Orbene, dire che una moltitudine [a lot] di oggetti è finita, è lo stesso che dire che [...] se ognuno della moltitu-

dine è in una qualsiasi relazione uno-uno con uno della moltitudine, allora con ognuno della moltitudine qualcuno è nella medesima relazione» (Peirce [1885], $ TV, p. 202). Parafrasando, Peirce dice qui che un insieme @è finito se e solo se ogni relazione uno-uno tra tutti i membri di Xe membri di @è tale che correla tutti i membri di @ con tutti imembri di a. Quindi, secondo la definizione di Peirce, un insie-

me @è infinito se e solo se esiste almeno una relazione uno-uno tra tutti i membri di @ e membri di @ che non correla tutti i membri di & con tutti imembri di a. vale a dire, se a è cardinalmente simile a un suo sottoinsieme proprio. 20 V. Dedekind [1888], $ 5, punto 64. Come mostra la prima stesura di questo saggio di Dedekind, cominciata nel 1872 e saltuariamente continuata fino al 1878, la definizione risale ad almeno dieci anni prima (v. Dedekind [1872-78], p. 294). 9! Cantor [1887-1888], $ VIII, punto 7, p. 415, nota. La definizione degli insiemi finiti come originati da un elemento originale per succes-

sive addizioni di un nuovo individuo era stata proposta in precedenza da Bernard Bolzano nei suoi Paradoxien des Unendlichen: v. Bolza-

no [1851], $ 8.

sa

92 V. Cantor [1895-97], $ 5, pp. 289-290 (in Cantor [1915], p. 98). Cantor non considera qui il numero 0 come un numero cardinale finito (il numero cardinale dell’insieme vuoto) — né la sua definizione permette di farlo. Tuttavia, più avanti, nello stesso testo, egli include e splicitamente il numero 0 tra i numeri ordinali (v. Cantor [1895-97], $ 18, p. 336 e p. 338 (in Cantor [ 191 5], pp. 178 e p. 181)). Ciò appare

piuttosto misterioso, se si considera che Cantor identifica i numeri cardinali finiti con inumeri ordinali finiti (v., per es., Cantor [1883b], $

7, p. 181), e che difficilmente si può considerare lo 0 come un numero cardinale (o ordinale) transfinito.

9 V. Cantor [1895-97], $ 6, p. 293 (in Cantor [1915], p. 103). 24 V. Cantor [1895-97], $ 6, teoremi C e D, p. 295 (in Cantor [1915], p. 108). Nel 1878 Cantor aveva già osservato (senza dimostrarlo) che

nessun insieme finito può avere lo stesso numero cardinale di un suo sottoinsieme proprio, e aveva aggiunto — adducendo l'esempio dell’insieme dei numeri interi positivi e del suo sottoinsieme proprio costituito dai numeri interi positivi pari — che questo non vale per gli pa insiemi infiniti (v. Cantor [1878], pp. 119-120).

95 Si tratta del teorema A del $ 6 del libro citato di Cantor (Cantor [1895-97], $ 6, p. 293; in Cantor [1915], p. 105), che stabilisce che ogni insieme infinito ha un sottoinsieme numerabile. l we a

9% Torneremo a lungo su questo principio nella seconda parte del cap. 4 ($ 4). Per ora diciamo soltanto che una sua formulazione MOIO è la seguente: Dato un insieme & di insiemi non vuoti e non aventi elementi in comune esiste un insieme formato di un elemento “scelto” da bed ciascun insieme appartenente ad a. 7 Torneremo più ampiamente su questo punto in seguito: V. Cap. 2,8$54,ecap.4,$4.2.2.

capitolo 1

40

4.3. Dicevamo che, in un primo tempo, Cantor credette che tutti gli insiemi transfiniti avessero la stessa cardinalità. Se le cose stessero così la teoria del transfinito cardinale non sarebbe tuttavia molto interessante, perché esisterebbe un solo numero cardinale transfinito. Nel dicembre del 1873, tuttavia, Cantor scoprì che l'insieme dei nu-

meri reali ha una potenza superiore a quella dei numeri naturali.’* Vediamo come si può dimostrare.” Abbiamo accennato prima al fatto che un segmento della retta dei reali, estremi esclusi, ha la stessa potenza dell’intera retta dei reali. Per dimostrare il teorema possiamo dunque limitarci a considerare i numeri reali nell’intervallo da 0 a 1, estremi esclusi. Valgono qui le considerazioni che facevamo poco sopra sulla mancanza di una correlazione biunivoca tra i nomi in notazione decimale dei numeri reali e i numeri reali stessi. Risolviamo il problema linguistico come prima, ammettendo sviluppi decimali che terminino con una sequenza infinita dia ed escludendo quelli che hanno uno sviluppo decimale finito, o terminante con infiniti zeri. La dimostrazione del teorema procederà per assurdo. Supponiamo che l’insieme dei numeri naturali e l’insieme dei numeri reali tra 0 e 1 (estremi esclusi) abbiano lo stesso numero cardinale, e di avere a disposizione una correlazione biunivoca tra

l’insieme dei numeri naturali e l’insieme dei numeri reali tra 0 e 1 (estremi esclusi). Immaginiamo tutte le rappresentazioni decimali dei numeri reali scritte in colonna, a cominciare da quella che rappresenta il numero reale correlato con il numero naturale 0:

RSI

TURE TION

Man

1

0,

mi

N32

N33

No4

...

2

0,

il

Uso

Mag

Ma

cc

detta

ero

draziznaa

Sen,

I vari n con due indici rappresentano singole cifre dei diversi sviluppi decimali; per ogni i e per ogni j, n;; rappresenta la j-esima cifra decimale dell’i-esimo numero reale del nostro elenco. Consideriamo ora il numero reale k = 0, n; 1 122133 ... ecc., cioè il numero reale minore di 1 denotato dal nume-

rale il cui sviluppo decimale è dato dalle cifre n;; nelle quali é= j, nell’ordine da 1 in poi, cioè a partire da n) ;. Da questo numero k formiamo il numero m che differisce da & solo in questo: se la j-esima cifra del decimale che rappresenta k è diversa da S allora la j-esima cifra del decimale che rappresenta m è uguale a 5; se la j-esima cifra del decimale che rappresenta % è uguale a 5, allora la j-esima cifra del decimale che rappresenta m è uguale a 7. È facile ora vedere che il numero m è maggiore di 0 e minore di 1, ma non può essere contenuto nel nostro elenco di numeri reali, in quanto il decimale che lo rappresenta differisce decimale che rappresenta l’i-esimo numero reale dell’elenco almeno nella j-esima cifra decimale. Esiste dunque un numero reale maggiore di 0 e minore di 1 che non si trova nel supposto elenco di tutti i reali maggiori di 0 e minori di 1, contro l’ipotesi che rutti questi numeri figurassero nell’elenco: la qual cosa prova che l’ipotesi era falsa, e che non è possibile una correlazione uno-uno tra numeri naturali e numeri reali. Quest’argomento è noto con il nome di argomento diagonale di Cantor, perché consiste nel formare un numero non presente nell’elenco modificando il numero reale rappresentato da una successione di cifre che si trovano su una diagonale dell’elenco. Infine, siccome l’insieme dei numeri naturali può essere correlato con un sottoinsieme dei reali compresi tra 0 e 1 (basta correlare, per esempio, ciascun naturale n al reale 0,n89999...), abbiamo — per definizione (v. sopra, $ 3.2) — che il numero cardinale dei numeri naturali è minore del numero cardinale dei reali compresi tra 0 e 1. Abbiamo trovato così due insiemi, entrambi infiniti, dei quali si può asserire che uno ha potenza maggiore dell’altro.

Cantor scoprì questa dimostrazione il 7 dicembre del 1873 e lo stesso giorno la inviò a Dedekind, che rispose il giorno dopo congratulan-

dosi con Cantor per il risultato e suggerendogli una semplificazione della dimostrazione che Cantor adottò. Cantor pubblicò il teorema in un articolo uscito l’anno successivo (v. Cantor [1874], $ 2, p. 117).

99



di



è

fi

.

.

3

a dimostrazione fornita in Cantor [1874] è diversa dalla seguente, che è invece un’applicazione di una seconda dimostrazione cantoriana dell’esistenza di potenze superiori alla prima potenza transfinita (Cantor dimostra, per la precisione, che l'insieme di tutte le possibili successioni infinite costituite di due elementi dati m e w — cioè successioni (x, x}, x5, ...4 Xp «..) iN cui ciascuno degli x, x1,.%> x è x

.

dg

pae

.

.

.

*

.

mo è w— non può essere messo in correlazione biunivoca con l’insieme dei numeri naturali), scoperta da Cantor nel 1891 e pubblicata in CONSE [1892], pp. 278-279. Una dimostrazione molto simile a quella presentata qui si trova in Fraenkel [1959], cap. 3, pp. 28-30. In questo modo, il numero 0 sarà escluso, perché non è rappresentabile nella notazione che abbiamo scelto: questo è tuttavia privo di importanza.

La teoria cantoriana del transfinito

41

Gli insiemi infiniti che hanno lo stesso numero cardinale dell’insieme dei numeri naturali si dicono insiemi numerabili (abzihlbare Mengen)"" la loro potenza (cioè il loro numero cardinale) è detta potenza del numerabile e Cantor la denota con il simbolo “Ro” (“alef con zero”).! La potenza (cioè, il numero cardinale) dell’insieme dei numeri reali si dice invece potenza del continuo e la denoteremo con il simbolo “c?.!% IH teorema precedente stabilisce dunque che No < €.

4.4. Abbiamo visto dunque che la potenza del continuo, e, è superiore a quella del numerabile, Xo; ora ci chiediamo: esistono altri numeri cardinali infiniti oltre a questi due, oppure ogni insieme infinito è o numerabile o continuo (cioè, ha la potenza del numerabile oppure la potenza del continuo)? Cantor dimostrò un teorema che non solo prova che ce ne sono altri, ma che c’è una gerarchia infinita di insiemi infiniti aventi potenze sempre più grandi. Vediamo come.

Se abbiamo un insieme, e ci chiediamo quanti sottoinsiemi ha, possiamo fornire una risposta attraverso il se-

guente ragionamento. Supponiamo, per fissare le idee, di avere un insieme @ che contiene esattamente gli elementi a, b, c, d, e. Per ogni elemento di @ ci sono due possibilità: esso può essere presente o può non essere presente in un sottoinsieme di 2. Possiamo allora descrivere, per esempio, il sottoinsieme di @ che contiene esattamente a e

b in questo modo: a (presente), b (presente), c (assente), d (assente), e (assente),

oppure:

al, bI, c0, d0, e0, dove “0” è preso a significare che l’elemento è assente e “1” è preso a significare che l’elemento è presente. Ciò è come dire che il numero dei sottoinsiemi di un insieme @ è uguale al numero di funzioni tali che, per ciascun elemento dell’insieme, danno come valore 1 o 0. Se 4 è il numero cardinale di &, si può definire il numero cardinale

2” come il numero di tali funzioni.'* Possiamo vedere che, nel caso familiare degli insiemi finiti, tale definizione conferma che 2 x 2 X 2...., n volte, con n numero finito, è uguale a 2”. Per esempio, sia @, come prima, un insieme & che contiene esattamente gli e-

lementi a, b, c, d, e. Ciascuna delle funzioni che, per ciascun elemento dell’insieme & danno come valore 1 o 0

può essere rappresentata da una e una sola sequenza di cinque simboli scelti tra “1” e “0”, in modo che viceversa, ciascuna sequenza di cinque simboli scelti tra “1” e “0” rappresenti una e una sola delle funzioni che, per ciascun elemento dell’insieme & danno come valore 1 o 0. Basta seguire la convenzione, per es., che il primo numerale

della sequenza rappresenti il valore della funzione rappresentata dalla sequenza per l’argomento a, il secondo numerale della sequenza rappresenti il valore della stessa funzione per b, il terzo il valore della stessa funzione per c,

il quarto il valore della funzione per d, e il quinto per e. Nello stesso tempo, ciascuna di queste sequenze descriverà un sottoinsieme di @ (e ogni sottoinsieme di @ sarà descritto da una di queste sequenze), se adottiamo la convenzione che I’ n-esimo simbolo di ciascuna sequenza (“1” oppure “0”’) stabilisca se l’n-esimo degli elementi di & ordinati secondo l’ordine alfabetico dei loro nomi, è presente o assente nel rispettivo sottoinsieme. Seguendo questa convenzione, la funzione che per gli elementi di &a e d dà il valore 1, e per tutti gli altri elementi di & dà il valore 0; oppure, il sottoinsieme di @ che contiene esattamente a e b saranno descritti dalla sequenza:

IRIS sU 00:

101 Scrive Cantor: «[...] ho chiamato le molteplicità [Mannichfaltigkeit] di questa classe insiemi numerabili all’infinito [ins unendliche abI primi usi zéihlbare Mengen] 0 più brevemente e semplicemente insiemi numerabili |abzohlbare Mengen] |...]» (Cantor [1882], P. 152).

cantoriani del termine “numerabile” risalgono a tre anni prima, quando gli insiemi numerabili sono detti “numerabili all’infinito” (v. Cantor

[1879], p. 142).

102 V. Cantor [1895-97], $ 6, p. 293 (in Cantor [1915], p. 104).

(1868103 sj denota talora la potenza del continuo con il simbolo “&” (“alef?), che fu introdotto, in questo significato da Felix Hausdorff fine del $ 6.3) 1942). Questa simbologia, però, assume che la potenza del continuo faccia parte della scala degli alef (di cui parleremo alla — cosa che può essere garantita solo dall'assunzione dell’assioma di scelta. 10 Questa è in effetti la definizione di Cantor: v. sotto, $ 8.1.1.

capitolo 1

42

Ognuna di queste sequenze rappresenta evidentemente una delle possibili permutazioni con ripetizione dei due simboli ‘1’ e “0” a 5 a 5. Queste permutazioni sono, in tutto, 2°: infatti al primo posto può apparire ciascuno dei due simboli; per ognuna di queste due possibilità, al secondo posto possono apparire ancora due simboli; per 0ognuna delle possibilità già ottenute, al terzo posto possono apparire ancora due simboli; e così via. In generale, vediamo così che, se abbiamo un insieme finito avente numero cardinale n, il numero delle funzioni tali che, per ciascun elemento dell’insieme, danno come valore 1 o 0, e il numero dei suoi sottoinsiemi sarà 2 Xx 2 X SI x)

volte, cioè 2°. 2x2X2..., n volte, è uguale a 2”, è facile verificare che, se

Tenendo presente che, nel caso di insiemi finiti,

un insieme è finito, il numero dei suoi sottoinsiemi è sempre maggiore del numero degli elementi dell’insieme stesso: infatti, se n è il numero cardinale dell’insieme, 2” sarà il numero cardinale dei suoi sottoinsiemi, e n < ande

Ma questo è vero anche nel caso di insiemi infiniti? Abbiamo potuto constatare che non è prudente estendere meccanicamente risultati validi per i numeri finiti ai numeri infiniti: si rende quindi necessaria, per questi nuovi numeri, una dimostrazione indipendente. Questa dimostrazione è stata fornita per la prima volta da Cantor, e il teorema è conosciuto oggi come teorema di Cantor." Esso prova che, dato un insieme qualsiasi @, l'insieme dei sottoinsiemi di 2 — detto insieme potenza di a, Pa — ha un numero cardinale più grande di a. La dimostrazione di Cantor si può esporre come segue.!” Per provare che il numero cardinale di 2 è minore di quello di Pa, si dimostra:

(a) (b)

che @è cardinalmente simile a un sottoinsieme di Pa che qe Panon sono cardinalmente simili.

La dimostrazione di (a) è banale: basta associare biunivocamente a ogni elemento x di @ quell’elemento di Pa

che ha x come unico elemento. La dimostrazione di (b) è la seguente. Supponiamo di correlare tutti gli elementi di @ con alcuni" elementi di Paattraverso una funzione biunivoca f (abbiamo già visto, dimostrando la prima parte del teorema, che questo è possibile). Dato un elemento qualsiasi x di @ e dato l'elemento f(x) di Pa correlato a x, ci sono due casi possibili: O x appartiene all’insieme f(x) cui è correlato, o x non appartiene all’insieme f(x) cui è correlato. Riuniamo in un

insieme tutti gli elementi x di @ che non appartengono agli insiemi f(x) cui sono correlati e chiamiamo quest’insieme “#”.!°° 8 è un sottoinsieme di @— e quindi un elemento di Pa — perché contiene solo elementi di 2 (0, eventualmente, nessun elemento). Verifichiamo adesso che non esiste nessun x e & tale che sia correlato a 8 dalla funzione biunivoca f. Consideriamo dapprima i membri di @ che sono anche membri di £: essi non possono essere correlati a fin quanto (per definizione di f) ogni membro di 8 è correlato con un insieme di cui non è membro, e non può essere quindi correlato con 2. Consideriamo poi i membri di @ che non sono membri anche di : essi non possono essere correlati a 3, in quanto ciascuno di essi (per definizione di £8) è correlato con un insieme di cui è membro. Nessun membro di & è quindi correlato a f dalla funzionef.Poichéfè una qualsiasi correlazione uno-uno tra tutti i membri di @ e alcuni membri di Pa, ne deriva che per qualsiasi correlazione biunivoca

'05 Basta osservare che 1 + 1 + 1... n volte è sempre minore di 2 Xx 2 X 2... n volte. 106 Vv. Cantor [1892], pp. 279-280. La dimostrazione originale di Cantor è esposta con cura da Russell in Russell [1903a], $ 346, pp. 365-

366. !07 In Cantor [1892], si dimostra, in realtà, che dato un insieme a qualsiasi, l'insieme a' di tutte le possibili funzioni ciascuna delle quali associa a ogni elemento di 4 uno e un solo elemento di una coppia di elementi distinti dati (che possiamo immaginare come l'insieme avente per elementi solo 0 e 1) ha un numero cardinale maggiore di a. La dimostrazione che segue è una riformulazione, oggi molto diffusa e originariamente

dovuta

a Russell

(v. Russell

[1903a],

$ 347,

p. 366

(secondo

capoverso),

e Russell

| 1919a],

cap. 8, pp. 85-86),

dell’esposizione originale di Cantor. Nella menzionata esposizione russelliana, ciascuna funzione dell’insieme di funzioni @ è identificata con un sottoinsieme di @ (per esempio, con il sottoinsieme di @ di tutti e solo gli elementi di @ che sono associati dalla funzione al valore 1), cosicché l’insieme 2 diviene l’insieme Pa di tutti i sottoinsiemi di a. Come dimostra una lettera di Cantor a David Hilbert del 10 ottobre 1898 (pubblicata in Cantor [1991], pp. 396-397), almeno per quella data Cantor era consapevole della corrispondenza uno-uno tra gli

elementi dell’insieme potenza di un insieme @e le possibili funzioni ciascuna delle quali associa a ogni elemento di @ uno e un solo elemento di una coppia di elementi distinti dati. '© Qui “alcuni” è usato esattamente con il valore del quantificatore esistenziale: lascia quindi impregiudicato il fatto che si tratti solo di alcuni o di tutti gli elementi di Pa. Se non esiste nessun elemento di x che non appartiene all'insieme cui è correlato, 8 sarà l'insieme vuoto. 109

.

.

.



.

peo

.

.

La teoria cantoriana del transfinito

43

tra tutti imembri di 2 e alcuni membri di Pa si può trovare almeno un elemento di Pa che non è correlato ad alcun elemento di a. Quindi @e Pa non hanno la stessa potenza. Ì Unendo le parti (a) e (b) del teorema si ha — per definizione di minore tra numeri cardinali — che, per ogni insieme, l’insieme dei suoi sottoinsiemi ha una potenza superiore a quella dell’insieme stesso. Il teorema di Cantor non si limita a mostrare che esistono altri numeri cardinali in aggiunta ad No ea c, ma implica che ne esista addirittura un numero infinito, ognuno maggiore del precedente. Infatti, dato un qualunque insieme finito o infinito di cardinalità 4 esisterà un insieme, costituito dall’insieme di tutti i sottoinsiemi dell’insieme di partenza, che ha la cardinalità 2%, che è, per il teorema di Cantor, maggiore di u. Così, per esempio, l'insieme dei numeri reali, che ha cardinalità c, dà origine a un insieme di sottoinsiemi che ha cardinalità 2°, il quale insieme dà origine a un altro insieme di sottoinsiemi che ha cardinalità 27° , e così via.

4.5. I risultati esposti negli ultimi due paragrafi permettono di scoprire diversi insiemi che hanno cardinalità superiore a quella dell’insieme numerabile dei numeri naturali. Consideriamone, in particolare, due: l'insieme dei numeri reali, la cui cardinalità è c (v. sopra, $ 4.3), e l’insieme di tutti i sottoinsiemi di numeri naturali, la cui cardinalità è 20 (v. sopra, $ 4.4). Ci chiediamo ora se abbiamo identificato due numeri cardinali diversi, oppure se la

potenza dell’insieme di tutti i sottoinsiemi di numeri naturali è uguale alla potenza del continuo. Ebbene, Cantor ha dimostrato che abbiamo identificato lo stesso numero, cioè che c = 2°° . Nelle linee essenziali, la dimostrazio-

ne di Cantor procede come segue. '! Estendiamo il modo che abbiamo usato sopra ($ 4.4) per rappresentare i sottoinsiemi di un insieme finito con una sequenza di “1” e “0”. Il metodo funziona anche nel caso degli insiemi infiniti numerabili. Supponiamo, infatti che gli elementi di un insieme numerabile @ siano dati in un certo ordine. Allora ciascuna sequenza infinita numerabile di “1° e “0” descriverà un sottoinsieme di @, e ogni sottoinsieme di 2 sarà descritto da una sequenza di infiniti “1° e “0”, se adottiamo la convenzione che l’n-esimo simbolo della se-

quenza (“1” oppure “0”) stabilisca se l’n-esimo elemento di @ è presente o assente nel rispettivo sottoinsieme. Così, in particolare, ciascun sottoinsieme dell’insieme dei numeri naturali potrà essere descritto, in modo non ambiguo, da una sequenza infinita di “1° e di “0”. Per esempio, se supponiamo che i numeri naturali siano presi in ordine di grandezza, il sottoinsieme di numeri naturali che contiene esattamente 3 e 5 sarà descritto dalla sequenza:

000101000000000..., con una successione infinita di “0”; il sottoinsieme che contiene tutti i numeri pari sarà descritto da:

DOPO 7010 1 01, con una successione infinita di “0 1”. Abbiamo quindi che a ogni possibile sequenza infinita di “0” e di “I° corrisponde un solo sottoinsieme dell’insieme dei numeri naturali e, viceversa, che a ogni sottoinsieme di numeri naturali corrisponde una sola sequenza infinita di “0” e di “1”. Se non fosse per una complicazione, a questo punto basterebbe porre in correlazione ciascuna di queste sequenze $; con il numero reale, in notazione binaria, 0,$;, per avere una corrispondenza biunivoca tra numeri reali tra 0 e 1, denotati attraverso la notazione decimale binaria, e sottoinsiemi di numeri na-

turali: con questo il nostro teorema sarebbe provato. La complicazione nasce dal solito fatto che ogni numero razionale, anche in notazione binaria, può essere rappresentato, utilizzando una sequenza infinita di cifre, in due modi; per esempio, il numero razionale 0,1 — che, in notazione binaria, è il numero razionale 1/2 — si può scrivere “0,10000...”, con una sequenza infinita di “0”, oppure “0,01111...”, con una sequenza infinita di “1”. Il pro-

cedimento è quindi imperfetto, perché si correla ogni numero reale irrazionale con un solo sottoinsieme di naturali, ma ciascun razionale viene ad essere correlato con due sottoinsiemi di numeri naturali, l'uno finito, l’altro infinito. È possibile tuttavia ovviare all’inconveniente osservando che l’insieme dei numeri razionali tra 0 e I è numerabile (sopra, nel $ 4.1 abbiamo anzi visto che è numerabile l’insieme di tutti i razionali); quindi —

poiché a

ogni razionale sono correlati esattamente due sottoinsiemi di naturali — i sottoinsiemi di naturali correlati ai ra

di zionali formeranno un insieme numerabile di coppie, cioè di insiemi di due elementi. Ma l’insieme unione, 4,

110 y_ Cantor [1895-97], $ 4, pp. 288-289 (in Cantor [1915], pp. 96-97).

44

capitolo 1

tutto siorquest’insieme numerabile di coppie è ancora un insieme numerabile. Questo si verifica così:!!! Innanzi coppie è queste di dinano tutte queste coppie nell’ordine dei numeri naturali (è possibile farlo, perché l’insieme

numerabile). Si l’insieme finito numero dispari zione biunivoca Riassumendo

considera poi, all’interno di ognuna di queste coppie, come primo membro della coppia stessa, di numeri naturali. Infine, si fa corrispondere il primo elemento della n-esima coppia all’n-esimo e il secondo elemento della n-esima coppia all’n-esimo numero pari. Si ottiene così una correlatra tutti i numeri positivi e tutti gli insiemi di numeri naturali appartenenti ad a. la dimostrazione: si è istituita una corrispondenza biunivoca tra tuti i numeri reali irrazionali tra

0 e 1 e alcuni sottoinsiemi dell’insieme dei numeri naturali; restano un insieme numerabile di razionali da una

parte e un insieme numerabile di sottoinsiemi di naturali dall’altra, che possono essere quindi anch’essi posti in corrispondenza biunivoca. Questo prova che ( = 2% : detto altrimenti, 2°° è la potenza del continuo. 4.6. Abbiamo visto che è possibile ottenere numeri cardinali transfiniti sempre più grandi con il seguente metodo: dato un insieme @ di cardinalità infinita data 4 formiamo l’insieme potenza di @ — cioè l’insieme di tutti i sottoinsiemi di @—: esso avrà cardinalità 24. In questo modo otteniamo una gerarchia infinita di cardinali transfiniti:

NEO OEZIITO

RI

22°

5. CONFRONTABILITÀ TRA NUMERI CARDINALI 5.1. È possibile che esistano numeri cardinali che non sono tra loro confrontabili? Cantor era certo che numeri siffatti non esistano: egli riteneva cioè che dati due numeri cardinali qualsiasi 4 e 4, si debba sempre dare uno dei tre casi seguenti: O //< 1, O > 4,0 U= 14." Ma è davvero sempre così? Esaminiamo il problema più da vicino. Prendiamo due insiemi infiniti @ e f, che abbiano, rispettivamente, numero cardinale 4 e numero cardinale ;. Se cerchiamo di correlarne gli elementi otteniamo, da un punto di vista puramente combinatorio, quattro casi possibili: (1) @è cardinalmente simile ad almeno un sottoinsieme di 8, e 8 non è cardinalmente simile a nessun sottoinsieme di a,

(2) Bè cardinalmente simile ad almeno un sottoinsieme di @, e @ non è cardinalmente simile a nessun sottoin-

sieme di £8; (3) è

cardinalmente simile ad almeno un sottoinsieme di 8, e 8 è cardinalmente simile ad almeno un sottoin-

sieme di a,

!!! In realtà, giunto a questo punto della dimostrazione, Cantor, trovandosi con un insieme di Xp insiemi di due elementi, mutuamente esclusivi (cioè privi di elementi in comune), ne deduce immediatamente che l’insieme unione, &, di questi insiemi deve avere Xy + o elementi. Tuttavia, come vedremo più avanti (v. sotto, cap. 4, $ 4.2.1.3), per provare in generale che l'unione di 4 insiemi, mutuamente esclusivi, ciascuno di velementi è uguale all’unione di vinsiemi mutuamente esclusivi, ciascuno di 4 elementi, è necessario assumere l'assioma di scelta: la dimostrazione si può ottenere senza fare uso di tale assioma se Ve 4 sono numeri finiti, ma non nel caso in cui abbiamo a che

fare con numeri infiniti. La dimostrazione del teorema secondo cui c= 2% non è tuttavia dipendente dall’assioma di scelta, come mostra la piccola modifica della dimostrazione di Cantor adottata nel testo. !!2 Nel 1878, a Cantor la confrontabilità tra tutti i numeri cardinali pareva così ovvia che in Cantor [1878] egli la contrabbanda all’interno di quella che vorrebbe essere solo una definizione di “uguale”, “minore” e “maggiore” tra numeri cardinali; scrive Cantor: «[...] se due insiemi M e N possono essere associati l’uno all’altro in modo univoco e completo, elemento per elemento [...] tali insiemi hanno uguale potenza [Mtichtigkeit] [...]. Per parte costitutiva [Bestandtheil] di un insieme M intendiamo ogni altro insieme Mi cui elementi siano anche elementi di M. Se i due insiemi M e N non hanno uguale potenza, 0 avranno uguale potenza M e una parte costitutiva di N, o l’avranno N e una parte costitutiva di M; nel primo caso diciamo che la potenza di M è minore, nel secondo caso che è maggiore di quella di N» (Cantor [1878], p. p. 119). In Cantor [1895-97] ($ 2, p. 285 (in Cantor [1915], p. 90)), invece, Cantor riconosce che non è evidente che, dati due numeri cardinali, deve sempre darsi o il caso che essi siano uguali, oppure che uno sia maggiore dell’altro, e che quindi una dimostrazione è necessaria; ma non ne fornisce alcuna, limitandosi a rinviarla a una fase successiva del lavoro «quando avremo ottenuto una visione d’insieme della successione ascendente dei numeri cardinali transfiniti e una comprensione delle loro connessioni [...]» (ibid.).

La teoria cantoriana del transfinito

45

(4) @non è cardinalmente simile a nessun sottoinsieme di }, e B non è cardinalmente simile a nessun sottoinsieme di a. Se si verifica il caso (1), possiamo concludere che il numero cardinale di @ è minore di quello di /. Infatti, se £ non è cardinalmente simile a nessun sottoinsieme di B non è cardinalmente simile ad @, poiché a stesso fa parte dei sottoinsiemi di @; d’altra parte, per ipotesi, @ è cardinalmente simile ad almeno un sottoinsieme di B: ne segue, per definizione (v. sopra, $ 3.2), che il numero cardinale di a è minore di quello di /. Se si verifica il caso (2), possiamo inferire — con lo stesso ragionamento fatto per il caso precedente — che il

numero cardinale di 8 è minore di quello di a.

Il caso (3) è deciso da un teorema detto teorema di equivalenza, o teorema di Schròder-Bernstein.!! Il teorema

in questione stabilisce che, nel caso si verifichino le ipotesi del caso (3), gli insiemi @ e 8 hanno lo stesso numero cardinale. Esporrò una dimostrazione di quest'importante teorema nel prossimo paragrafo. Il caso (4) è precisamente quello che, se si verificasse, renderebbe impossibile il confronto tra i numeri cardina-

li dei due insiemi @ e £: infatti, le ipotesi del caso (4) escludono esplicitamente che possano essere soddisfatte le definizioni di minore, maggiore o uguale tra i cardinali dei due insiemi. Avremmo,

in altri termini, due numeri

cardinali di cui non si potrebbe dire veridicamente né che sono uguali, né che uno è maggiore dell’altro. Come abbiamo già osservato, Cantor riteneva che tutti i numeri cardinali siano confrontabili, tuttavia non riuscì

a dimostrarlo in modo soddisfacente.'!* Oggi sappiamo che si può escludere il caso (4) soltanto attraverso considerazioni sul confronto tra numeri ordinali, con l’aggiunta dell’ipotesi che ogni insieme possa essere ben ordinato: assunzione dimostrabile, a sua volta, solo attraverso l’assioma di scelta (v. sotto, $ 7.2.1).

5.2. Veniamo ora alla dimostrazione del teorema di Schròder-Bernstein.'!® L’enunciato del teorema è il seguente: Se a e B sono insiemi tali che @ ha lo stesso numero cardinale di un sottoinsieme di B e f ha lo stesso numero cardinale di un sottoinsieme di 0 allora a e B hanno lo stesso numero cardinale. Dimostriamo dapprima il seguente teorema: (SB)

Se un insieme a è equivalente! a un suo sottoinsieme a" allora esso è equivalente anche a ogni sottoin5

A

7

go

sieme O di a che include, come sottoinsieme, a".

117

!!3 Alcuni autori lo chiamano “teorema di Cantor-Bernstein”, perché fu enunciato per la prima volta da Cantor. Questi lo formula, senza dimostrazione, in Cantor [1895-97] ($ 2, teorema B, p. 285 (in Cantor [1915], p. 91)) indicandolo tra le conseguenze dell’assunzione — che egli reputava vera — che due numeri cardinali siano sempre confrontabili (v. Cantor [1895-97], $ 2, teorema A, p. 285 (in Cantor

[1915], p. 90)). Richard Dedekind aveva scoperto una dimostrazione di questo teorema nel 1887, ma non la pubblicò, e la sua dimostrazione rimase sconosciuta finché non fu ritrovata da Jean Cavaillès nel Nach/af di Dedekind, e pubblicata in Dedekind [1930-32], vol. 3, pp. 447-448. Il teorema fu poi dimostrato nel 1897, durante un seminario di Cantor, da Felix Bernstein — allora studente di Cantor a Halle — e fu pubblicato per la prima volta in Borel [1898], “Note I”, pp. 104-106 (Emile Borel riferisce (v. ibid., p. 104, nota) che la dimostrazione di

Felix Bernstein gli era stata comunicata dallo stesso Cantor al Primo Congresso Internazionale dei Matematici, che si tenne a Zurigo tra il 9 e 1’11 agosto del 1897). Ernst Schròder aveva annunciato una dimostrazione dello stesso teorema nel 1896, ma questa, pubblicata nel 1898 (v. Schréder [1898a], $ 4, pp. 336-341), fu dimostrata fallace da Alwin Korselt nel 1911 (v. Korselt [1911]). Russell menziona questo teorema in Russell [1902b] (p. 383) e nel cap. 37 dei Principles of Mathematics — dedicato alla presentazione della teoria dei cardinali transfiniti di Cantor — (v. Russell [1903a], $ 285, p. 306), chiamandolo “teorema di Bernstein e di Schròder”. Una nuova dimostrazione del teorema fu scoperta da Ernst Zermelo, comunicata in una lettera a Henri Poincaré del gennaio 1906, riassunta in Poincaré [1906b] ($ XIV,

pp. 314-315), e pubblicata in Zermelo [1908] ($ 2, punti 25 e 27, pp. 271-272 (in Zermelo [20 10], p. 208, p. 210 CIPIZIZA trad. ingl. a fronte, e in van Heijenoort (ed.) [1967], pp. 208-209)). Nel 1906, Giuseppe Peano pubblicò una dimostrazione simile a quella di Zermelo, cui era giunto in modo indipendente (v. Peano | 1906a]). Nei Principia Mathematica di Russell e Whitehead, il teorema è chiamato “teorema di

Schréder-Bernstein” e ne sono formulate sia la dimostrazione di Zermelo (v. [PM], vol. I, *73.8-+73.88), sia quella di Bernstein (v. [PM], vol. I, #94 e +95). Per una comparazione tra le dimostrazioni di Bernstein e di Zermelo, v. [PM], vol. I, *94, sommario, pp. 589-590.

!4 per la descrizione di un tentativo cantoriano di dimostrazione della confrontabilità di tutti i numeri cardinali, v. sotto, cap. 4, $ 2.1.3.

!15 La dimostrazione seguente è adattata da Fraenkel [1959], cap. 6, pp. 74-77, e segue nelle linee generali il metodo usato nella dimostraeta esa p 1 zione di Bernstein. 116 In tutto questo paragrafo userò, per brevità, i termini cantoriani “equivalente” e “equivalenza” al posto dei soliti “cardinalmente simile l vw pes e “similitudine cardinale”.

agli ALI Questo teorema (che, come vedremo, è equivalente a quello di Schròder-Bernstein) è enunciato in Cantor [1883b], limitatamente

numeri insiemi aventi la potenza della seconda classe di numeri (v. sotto, $ 6.3), come conseguenza del teorema secondo cui non esistono

capitolo 1

46

&”” si può inferire “asm

Dobbiamo dunque provare che, se a" Cc a'C a,!!3 allora da “asm

significa: “è equivalente a”.!!° Abbiamo, per ipotesi: l'insieme a è incluso nell’insieme cluso in &. Introduciamo una semplificazione notazionale: poniamo b = @— a’, dove @— menti che sono in @ ma non in &, poniamo poi c= a'— 2, dove a'— 2° è, naturalmente, di ’ che non sono anche in e’. Quindi l’insieme @ sarà uguale alla somma logica degli sgiunti (cioè privi di elementi in comune), b, c e 2°". Avremo, dunque, CEI

a” —

dove “sm”

a; Q' è, a sua volta, in2’ è l'insieme degli elel'insieme degli elementi insiemi, a due a due di-

TASTO

Enunciamo ora un principio la cui applicazione iterata è alla base della dimostrazione. Il principio — che deriva la sua validità immediatamente dalla definizione di equivalenza — è il seguente: Ogni correlazione biunivoca tra gli elementi di un qualsiasi insieme u e gli elementi di un qualsiasi insieme w costituisce anche una relazione di equivalenza tra ogni sottoinsieme u' di u e un corrispondente sottoinsieSu) mew'diw.

(P)

Siccome, per ipotesi, @ è equivalente ad a’, possiamo applicare il principio (P): gli elementi di @'e di a possono porsi in una corrispondenza biunivoca K e tale relazione K correlerà tra loro anche gli elementi dei tre sottoinsiemi disgiunti che costituiscono & (cioè b, c e @) con elementi di tre insiemi corrispondenti b' c'e ala cui unione costituisce 2". Essendo dunque la relazione K una relazione di equivalenza tra a" e @", essa sarà anche una relazione di equivalenza tra i sottoinsiemi b' c'e a" di a" e corrispondenti sottoinsiemi b", c" e a" di a". Essendo poi la relazione K una relazione di equivalenza tra a" e a", essa sarà anche una relazione di equivalenza trai sottoinsiemi b”, c'e a" di 2 e corrispondenti sottoinsiemi b", c'e "di

2". E così via, all’infinito.

Tutti gli insiemi d' saranno equivalenti;"' altrettanto saranno fra loro gli insiemi c' e gli insiemi 2. Chiamiamo “d’ l'insieme degli elementi comuni a tutti gli insiemi 0/: eventualmente, se non esistono elementi comuni a tutti gli insiemi d/, d può essere vuoto.!? In ogni caso, avremo che:

ONIONS

DIAMO

ALSASTATI AIA O OTO

RAS ALE

010)

Ora, per provare che @'è equivalente ad 2’, correliamo ciascun elemento di d con se stesso, ciascun elemento di ciascun c' con se stesso, ciascun elemento di ciascun b' con l'elemento di b'*! cui esso è correlato dalla relazione K. Abbiamo così una correlazione uno-uno tra ciascun elemento di @ e ciascun elemento di @/, che dimostra che i

cardinali intermedi tra No e N; (v. Cantor [1883b], $ 13, p. 201); poco dopo, però, Cantor ne asserisce, senza dimostrazione, la validità ge-

nerale, cioè per insiemi aventi un numero cardinale qualsiasi. In Cantor [1884b], p. 257, è ancora affermata, senza dimostrazione, la validità generale del teorema. Una decina di anni dopo, in Cantor [1895-97] ($ 2, teorema C, p. 285 (in Cantor [1915], p.91)), il teorema è menzio-

nato — insieme con il teorema di Schròder-Bernstein — tra le conseguenze dell’assunzione che due numeri cardinali qualsiasi siano sempre confrontabili. Il teorema è dimostrato in Borel [1898], “Note 1°, pp. 104-106; in Peano [1906a], pp. 337-341; in Zermelo [1908] $ 2, punto 25, pp. 271-272 (in Zermelo [2010], p. 208, e p. 210, trad. ingl. a fronte, e in van Heijenoort (ed.) [1967], p. 208); e in [PM], vol. I,

*73.85. 118

5

"

ù

È

ra

Ù

a

paio.

.

Si avverta che, in tutto questo libro, mi attengo all’uso dei Principia Mathematica (v. [PM, vol. I, *22.01), secondo cui “@

B' signifi-

ca che @è un sottoinsieme non necessariamente proprio di B; in questo senso di “C” si ha dunque che ac &. A proposito dell’uso del se-

gno “©” c’è una nota storica interessante di Quine in Set Theory and Its Logic: «|...] “© è il vecchio segno per “©”, ed è usato in questo senso in pubblicazioni da Whitehead e Russell ai giorni nostri, molte delle mie incluse. Ma è usata oggi nel senso più ristretto [...] da coloro che usano “C” per il senso più ampio. Ho deciso di seguire questa tendenza, perché “©”, in ogni modo, non incoraggia nessuna confusione» (Quine [1969a], $ 2, p. 18, nota 4). 119 cc

sm”

xi

.

.

.

3

È

è il simbolo russelliano per designare la medesima relazione: v. [PM], vol. I, *#73.02.

120

Si osservi che un principio del tutto analogo è usato da Cantor per dimostrare che nessun insieme ordinato può essere simile a una sezione di se stesso (v. sopra, $ 3.2, teorema (B), nota 62). Con “@”, “b”, “c', dove i è un numero naturale, intendo una scrittura abbreviata per “@°, “b” e “©” con un numero di “ ' ” a esponente

uguale a i. 122

n=

cd

0

R

È

*

x

sa

.

Faremo esempi di casi in cui d è vuoto e in cui d non è vuoto più avanti.

La teoria cantoriana del transfinito

47

due insiemi sono equivalenti." Possiamo quindi concludere che, nell’ipotesi che asm ae che

"Cc ac 4a, si ha

che allora a sm &7,, e la dimostrazione del teorema (SB) è completa. Un esempio potrà forse chiarire meglio il procedimento che abbiamo usato. Supponiamo che a sia l’insieme

du numeri naturali e che a" sia l’insieme dei numeri naturali da 5 (compreso) in poi. Supponiamo che & sia l'insieme dei naturali da 3 (compreso) in poi. Supponiamo anche che K sia la relazione che lega ciascun numero naturale n con il numero n + 5. Le nostre ipotesi di partenza sono verificate: @ è un sottoinsieme di Cche'&in sottoinsieme di @ inoltre @ è equivalente ad a, perché ciascun numero naturale n contenuto in @ è correlato con

uno e un solo numero contenuto in 2”. L'insieme . sarà costituito dai numeri che sono in @ ma non in @ cioè 0,

1 e 2; l’insieme c dai numeri che sono in a’ ma non in @°: cioè 3 e 4. La correlazione biunivoca K tra gli elementi

di Qe quelli di 2 farà sì che al sottoinsieme b, composto dai numeri 0, 1 e 2, corrisponda l’insieme b', che conterrà i numeri 5, 6 e 7; al sottoinsieme c, composto dai numeri 3 e 4, corrisponderà l’insieme c' contenente i nume-

ri 8 e9; al sottoinsieme a, costituito da tutti i naturali da 5 in poi, corrisponderà l’insieme a” di tutti i numeri naturali da 10 in poi; e così via. In quest’esempio l’insieme d sarà vuoto. Ma se invece, per esempio, @ fosse stato l’insieme di tutti inumeri positivi, 2’ fosse stato l’insieme di tutti i numeri pari a partire da 8 (incluso) e di tutti inumeri dispari, 2" fosse stato

l’insieme di tutti i numeri pari a partire da 12 (incluso) e di tutti i numeri dispari, e K fosse stata la relazione che associa ciascun numero dispari con se stesso e ciascun numero pari, 2n (con n diverso da 0), con il numero 2n + 10, l’insieme d non sarebbe stato vuoto. Infatti, ogni insieme 2/*' non sarebbe stato ottenuto dal precedente dî — come nel primo esempio — eliminandone i primi cinque numeri in ordine di grandezza, ma eliminandone i primi cinque numeri pari, cosicché l’insieme d avrebbe infine contenuto tutti i numeri dispari." Tornando al nostro primo esempio, l'insieme & sarà così costituito: VANS CCC:

IRA

ei

4a

eeeh

ABU

4a

mentre Q' sarà:

SSN

DDA

13 Aoc

È immediato verificare che, in questo caso, si ha gsm &. Il teorema (SB) (cioè, “gsm

a'"> asm

a” dove a"C

a'C €) implica direttamente il teorema di Schròder-

Bernstein, secondo cui, se un insieme @è equivalente ad almeno un sottoinsieme di f, e 8 è equivalente ad almeno un sottoinsieme di &, allora 4e f sono equivalenti. Infatti, per ipotesi abbiamo:

(1) un insieme @ che è equivalente a un sottoinsieme /' di 8; (2) un insieme £ che è equivalente a un sottoinsieme Q' di a. Vogliamo dimostrare, servendoci di (SB), che da ciò consegue

a sm /8.

Applichiamo il principio (P) agli insiemi Be &: poiché f è equivalente ad a' (ipotesi (2)), allora /', essendo un sottoinsieme di /8, sarà equivalente a un sottoinsieme a di 2" dunque #'sm a”. Da “8" sm a”, e dall’ipotesi (1) 123 Per provare che @'è equivalente ad @', dopo aver osservato che tutti gli insiemi 5° sono equivalenti, e altrettanto sono fra So gli insiemi c' e gli insiemi di, si potrebbe seguire anche la strada di stabilire una corrispondenza biunivoca tra gli insiemi la cui unione dà ce quelli la cui unione dà /, in maniera da accoppiare a ogni insieme un insieme che sia ad esso equivalente. Potremmo correlare l'insieme d con se stesso, ciascun c' con se stesso, e ciascun insieme b' con l’insieme b'**. In questo modo, proveremmo che @ e a' sono somme logiche di uno stesso numero di insiemi, ciascuno dei quali formato di uno stesso numero di elementi, e da ciò pare ovvio inferire che @e 2’ sono ei Gi 1 è dA nr quivalenti. dimola dipendere fa Borel, e Bernstein da utilizzata originariamente quella è che (SB), di dimostrazione della variante Tuttavia, questa strazione del teorema di Schròder-Bernstein dall’assioma di scelta: il motivo è che — come sarà spiegato nel cap. 4, $ 4.2.1.2 — senza asdebba essere sumere l’assioma di scelta non si può dimostrare, in generale, che la somma logica di 4 insiemi, privi di elementi in comune, ; primi. ai simili cardinalmente e comune in elementi di privi insiemi, z altri di logica somma alla simile cardinalmente 14, 16}; c'={18, 20}; b"= {22, 24, 26}; 124 Nelle ipotesi date avremmo: d= 1, 3, 5, 7,9, 11, ..., ecc.; b={2,4, 6}; c= {8,10}; b'={12, ecc. c"= {28,30}; b'"= {32, 34, 36}; c'""= {38, 40};

capitolo 1

48

(“asm B'”), otteniamo che a sm a". Da “gsm a” e dal teorema (SB) otteniamo “asm 2'”. Da “gsm a” e dall’ipotesi (2) (‘8 sm a”) deriva “a sm #”, che è quanto dovevamo provare. È facile vedere che, inversamente, il teorema di Schròder-Bernstein implica (SB). Infatti, se è vero che, dati due insiemi qualsiasi 2 e B tali che (ha lo stesso numero cardinale di un sottoinsieme ydi Be Bha lo stesso numero cardinale di un sottoinsieme 77 di 4 @ e £ hanno lo stesso numero cardinale, basta porre B=a,ey=nN=a', dove O è un sottoinsieme di 2, e 2°" è un sottoinsieme sia di & sia di 2, per ottenere 2.sm 2. Se ne conclude che (SB) è equivalente al teorema di Schròder-Bernstein.

6. NUMERI ORDINALI INFINITI

6.1. In un saggio del 1883, Cantor descrive una gerarchia infinita di ordinali transfiniti ottenuti facendo uso, ricorsivamente, di due principi di formazione (Erzeugungsprinzipien). © Supponiamo di avere — per cominciare — una serie di numeri ordinali, in ordine di grandezza, che abbia un ultimo elemento p. Il primo principio di formazione (erste Erzeugungsprinzip) di Cantor dice che possiamo aggiungere a questa serie il numero ordinale 2+ 1, cioè il successore di z. In base a questo principio possiamo, a partire da una serie finita di ordinali, ottenere ordinali sempre più grandi, all’infinito, ma non possiamo mai raggiungere ordinali transfiniti perché, per quanto grande possa essere l’ultimo numero z di una serie finita, il suo successore sarà ancora un numero finito. Per passare agli ordinali infiniti, Cantor ricorre a un secondo principio di formazione (zweite Erzeugungsprinzip) ogni volta che abbiamo una serie di ordinali, in ordine di grandezza, che non abbia un ultimo elemento, possiamo aggiungere alla serie un nuovo numero ordinale concepito come limite (Grenze) dell’intera serie: cioè come il primo numero ordinale che segue tutti gli elementi della serie data. Vediamo ora, attraverso qualche esempio, come funzionano i due principi cantoriani. Partendo dal numero 0, in base al primo principio di formazione possiamo aggiungere a 0 il numero 0 + 1, cioè 1,e ottenere la serie 0, 1. Applicando ancora a questa serie il primo principio di formazione, possiamo aggiungere ad essa l'elemento 1+ 1, cioè 2, ottenendo la nuova serie 0, 1, 2. Il procedimento di continuare ad aggiungere 1 può essere iterato all'infinito, permettendo così di avere l’intera serie dei numeri ordinali finiti. Questa serie non ha un ultimo elemento — perché, potendo ogni numero ordinale finito dare origine, per aggiunta di 1, a un numero ordinale finito più grande, non ci può essere un numero ordinale finito che sia più grande di tutti gli altri ordinali finiti. Possiamo allora applicare il secondo principio di formazione all’intera serie degli ordinali finiti, aggiungendo ad essa un numero concepito come limite dell’intera serie. Cantor chiama questo numero “@”."?° Avremo ora la serie 0, 1, 2, 3, 4,5, ..., n, ..., ©. Questa serie ha un ultimo elemento, cioè @ stesso, e possiamo quindi riprendere ad applicare

ad essa il primo principio di formazione, ottenendo così la serie: Ob

ua:

Anche la serie dei numeri ordinali fino a © + 1 ha un ultimo elemento, cioè @ + 1. Possiamo dunque applicare ancora il primo principio di formazione, ottenendo il numero ordinale @©+ 2. Applicando il primo principio di formazione infinite volte, otterremo i numeri ordinali: O,0+1,0+2,0+3,...,.0+"n,...

Questa serie evidentemente non ha un ultimo elemento, dunque ad essa si potrà applicare il secondo principio di formazione cantoriano, in modo da ottenere il numero ordinale @ + @, cioè 2©. Qualsiasi serie di ordinali fino a

‘2° V. Cantor [1883b], $ 1, pp. 166-167,e $11, pp. 195-196. 126 A partire da [1883b], Cantor usa il simbolo “@?”, al posto di “co” — che egli aveva utilizzato in precedenza —, per sottolineare che qui si tratta di infinità proprie (attuali) non delle infinità improprie (potenziali), che di solito sono indicate, in matematica, con il simbolo oo «D’ora in poi», scrive Cantor, «sostituirò con © il segno ce, che avevo usato nel Nr. 2 di questo saggio [il riferimento è a Cantor [1880], pp. 147-148] perché co viene già impiegato, in vari modi, per indicare infinità indeterminate [cioè, potenziali]» (Cantor [1883b], $ 11, nota 1 p. 195); v. anche Cantor [1887-88], $ I, p. 395). Il simbolo “co” (detto “lemniscata”) fu introdotto da John Wallis, nelle sue opere De sectioni-

bus conicis (Oxonii, Typis Leon. Lichfield, Impensis Tho. Robinson, 1655) e Arithmetica infinitorum (Oxonii, Typis Leon. Lichfield, Impensis Tho. Robinson, 1656). i

La teoria cantoriana del transfinito

49

2@ compreso ha un'ultimo elemento, cioè 2@. Possiamo così tornare ad applicare il primo principio di formazione

ottenendo, successivamente, 20 + 1, 20 + 2, e così via, fino a trovarci con una serie come 20, 20 + 1, 20 +2, 20 +3, ..20+n,...

cui potremo applicare il secondo principio di formazione per ottenere il numero 20 + @, cioè 3@. Usando successivamente i due principi di formazione potremo giungere alla serie:

40, 50, 60, 70, 80, ..., 10, ... che ci permetterà, tramite il secondo principio di formazione, di ottenere il numero ©. Continuando ad applicare i due principi cantoriani potremo poi ottenere la serie:

(0) il cui limite sarà @®. Continuando ancora, otterremo @° + 1, ..., 0°+@, ..., 0%+0°= 209), ..., 30%, ..., 0®*!,

D+

o

ò

i 0°*®, ..., ©® .Infine, avremo la serie:

cioè la serie rappresentata da © con un numero n di esponenti @, per n che assume come valori tutti i numeri finiti da | in poi. Questa serie avrà come limite @ elevato alla © elevato alla @ elevato alla @..., © volte. Per questo numero ordinale, Cantor si serve del simbolo “€”: €0 è il più piccolo epsilon-numero (e-Zah)).!?? Gli epsilonnumeri sono definiti da Cantor come quegli ordinali che soddisfano la relazione ©° = €.!?* Si può naturalmente procedere oltre €), ottenendo così £0 + 1, £0+ 2,... €0+ @, ..., &+ ©, ecc. Sorprendentemente, i numeri ordinali

definiti finora — e ancora molto oltre — sono tutti piuttosto “piccoli”, nel senso che, facendo uso di una certa ingegnosità, si può dimostrare che gli insiemi ben ordinati aventi questi numeri ordinali hanno tutti la potenza

dell’infinito numerabile."

Sorge allora la questione: i due principi di formazione cantoriani portano a numeri ordinali di insiemi che hanno potenza superiore a quella del numerabile? Se non fosse così si avrebbe una frattura tra la teoria dei cardinali e quella degli ordinali transfiniti, perché non vi sarebbero numeri ordinali di insiemi di potenza superiore all’infinito più piccolo, quello numerabile. Nel $ 6.3 vedremo che, in effetti, Cantor riuscì a dimostrare che la gerarchia degli ordinali conduce a numeri ordinali di insiemi che hanno una potenza superiore a quella del numerabile. 6.2. Si possono giustificare i due principi di formazione cantoriani sulla base del seguente teorema: (T)

Inumeri ordinali minori di un numero ordinale qualsiasi, 4, possono essere ordinati in ordine di grandezza; l’insieme ordinato W(Lì) ottenuto in questo modo è ben ordinato e ha numero ordinale u.

!27 V_ Cantor [1895-97], $ 20, teorema B, pp. 347-348 (in Cantor [1915], pp. 196-197). !28 V. Cantor [1895-97], $ 20, p. 347 (in Cantor [1915], p. 195). 12° Infatti, ciascuno degli ordinali finora descritti è specificabile, in modo sistematico, attraverso un numero finito di simboli composti da un alfabeto di un certo numero & di simboli semplici (numeri, lettere dell’alfabeto, indici, pedici, ecc.) ai quali possiamo assegnare un ordine alfabetico qualsiasi. Per ogni numero naturale n, ci saranno £" espressioni di lunghezza n costruibili con il nostro alfabeto di k simboli (al primo posto può comparire ciascuno dei £ simboli, per ciascuna di queste possibilità, al secondo posto può comparire ciascuno dei k simboli, e così via, fino ad aver assegnato l’n-esimo posto del simbolo da formare). Ordiniamo tutte le espressioni in modo che qualsiasi espressione di lunghezza m < mj preceda sempre tutte le espressioni di lunghezza my e che, per ogni numero naturale n, ei espressioni aventi la

medesima lunghezza n siano poste in ordine alfabetico. Otteniamo così una dimostrazione che le espressioni finite sono numerabili, e che,

pertanto, anche l’insieme dei simboli che specificano i numeri ordinali della nostra serie non può essere più che numerabile. Quindi, poiché ciascun numero della nostra serie di ordinali è specificabile con un simbolo di lunghezza finita, ne deriva che ciascuno di essi non può avere più di un numero infinito numerabile di predecessori. Poiché, come vedremo tra poco (teorema (T) del $ 6.2), ogni numero ordinale è il numero ordinale della serie ben ordinata dei suoi predecessori, in ordine di grandezza, ne segue che ogni numero ordinale della nostra serie

è il numero ordinale di una serie numerabile.

capitolo 1

50

Cantor dimostra questo teorema in un saggio del 1895, ma ne limita la validità ai numeri ordinali transfiniti della seconda classe (cioè ai numeri ordinali i cui predecessori formano insiemi numerabili: ne parleremo nel prossimo paragrafo). La restrizione del teorema ai numeri ordinali transfiniti della seconda classe è però inessenziale, mentre la restrizione agli ordinali transfiniti è necessaria solo se si fa cominciare — come fa Cantor nel luogo citato — la serie dei numeri ordinali in ordine di grandezza con il numero ordinale 1, anziché con il numero ordinale 0. Illustriamo dapprima il teorema (T) con alcuni esempi. Se = 0, allora W(0) è l'insieme che non contiene nessun ordinale, cioè l'insieme vuoto, il cui ordinale è 0. Se 4 = 5, l'insieme ordinato W(5) è dato dalla serie 0, 1, 2, 3

e 4, che ha numero ordinale 5. Se

= @, allora W(@) è la serie di tutti i predecessori di @, cioè di tutti gli ordinali

finiti: 0, 1, 2, 3,4, ..., ecc., che ha numero ordinale @. Se 4= @ + 1, allora W(@ + 1) è dato dalla serie: 0, 1, 2, 3; ..., ©, che ha numero ordinale © + 1.

Veniamo ora alla dimostrazione generale del teorema." Sia W(4) l'insieme di tutti i numeri ordinali che precedono 4, presi in ordine di grandezza. Sia S un insieme ben ordinato qualsiasi avente numero ordinale 4. Dimostriamo innanzitutto che W(2) è un insieme ordinato. Dire che W(2) è un insieme ordinato equivale a dire che, dati due numeri ordinali v, e w tali che yv# We che siano entrambi minori di 4, allora si ha sempre o Vi < V 0 Vi > ». Quest'ultimo enunciato può essere provato facilmente, nell’ipotesi che vj e w siano entrambi minori di un numero ordinale dato . Infatti, se due numeri ordinali diversi sono entrambi minori di x, allora devono determinare due sezioni diverse, S]s, e $]s,, dell’insieme or-

dinato S avente numero ordinale 4; inoltre — poiché $ è, per ipotesi, ben ordinato — se sj # s> allora 0 sj precede S7 O sy precede s; in S. Nel caso che sj preceda s, allora sj è un elemento di S]s, e dunque la sezione S]s; è una sezione di S|s, e pertanto il numero ordinale di S|s,, cioè v;, è minore del numero ordinale di Sjs;, cioè w. Nel caso invece che s, preceda sj allora s, è un elemento di Ss} e dunque la sezione Ss, è una sezione di Sjs; e pertanto il numero ordinale di $]s,, cioè w, è minore del numero ordinale di $|s,, cioè vj. In ogni caso si ha dunque che: se Va Wev /, 0 = 2. Cantor dimostrò, con il teorema che illustreremo tra poco, che due numeri ordinali sono sempre confrontabili. Nella sua dimostrazione,” egli si serve dei seguenti teoremi:

(A) Dati due insiemi ben ordinati S e 7, ordinalmente simili, i cui elementi sono posti in una corrispondenza biunivoca, K, che rispetta l’ordine, si ha che: per ogni sezione S]s di S esiste una sezione 7]? di 7 ordinalmente simile ad essa; per ogni sezione 7]t di 7 esiste una sezione SJs di S ordinalmente simile ad essa, e eli elementi s e t che determinano tali sezioni sono, a loro volta, in corrispondenza rispetto a K. i Infatti, si prenda una sezione a piacere js di S. Sia f l'elemento di 7che la corrispondenza biunivoca K fa corrispondere a s. La sezione 7]t di 7’sarà ordinalmente simile a Ss. Infatti, poiché, per ipotesi, glì insiemi S e 7 sono

Il principio enunciato da Cantor richiede invece, per la sua dimostrazione, un principio di induzione più forte, detto di induzione transfinita, che afferma che se qualcosa vale per vale per un numero ordinale 7 e se, quando vale per tutti i numeri ordinali che seguono ze precedono un numero ordinale qualsiasi v, vale anche per v, allora la stessa cosa vale per tutti i numeri ordinali maggiori o uguali a 4 (v. anche, sotto cap. 4, nota 275). i

5” V. Cantor [1895-97], $ 13, teorema N, pp. 319-320 (in Cantor [1915], pp. 150-151).

La teoria cantoriana del transfinito

SU

ordinalmente simili; per ogni elemento s' di S che precede s ci dovrà essere un corrispondente elemento #' di 7 che dovrà precedere, a sua volta, £, e viceversa.'5 (G)

Se Sls, e 7]f sono sezioni ordinalmente simili di due insiemi ben ordinati S e 7, per ogni sezione SJs < S]s, c’è una sezione 7]t < 7]t, ordinalmente simile a Ss, e viceversa.

La scrittura “F< G”, dove F e G sono insiemi ordinati, significa — nella simbologia usata da Cantor — che F è una sezione di G. Quindi, il teorema (G) è un’applicazione del teorema (A) agli insiemi ben ordinati S|s e 7]t.°° (H)

Se Sls; e S]s, sono sezioni di un insieme ben ordinato S, T)t, e 7]t, sono sezioni di un insieme ben ordinato 7 ordinalmente simili alle prime, e Ss < S]s» allora 7]t < 7]b.

Il teorema (H) deriva dal precedente teorema (G) e dal teorema!’ secondo cui, dati due insiemi ben ordinati qual-

siasi F e G, per ogni sezione di F vi può essere al massimo una sezione di G ordinalmente simile ad essa.!° (I)

Se esiste una sezione S]sj di un insieme ben ordinato S che non è ordinalmente simile a nessuna sezione di un insieme ben ordinato 7, allora nessuna sezione S]s > Ss, di S, né S stesso sono ordinalmente simili né a 7 né a nessuna sua sezione.

Il teorema (1) si dimostra facilmente, per assurdo, a partire dai teoremi (A) e (G).! Sulla base dei precedenti teoremi, Cantor dimostra il teorema (N) che ci interessa ora:

(N)

Se S e 7 sono insiemi ben ordinati allora vale: (a) Se T sono ordinalmente simili, oppure (b) Sè ordinalmente simile a una sezione di 7, oppure (c) Tè ordinalmente simile a una sezione di 5; e ciascuno di questi tre casi esclude gli altri due.'

Nel primo caso, per definizione, il numero ordinale di S è minore di quello di 7. Quindi il teorema 4, si debba sempre dare uno dei

il numero ordinale di S è uguale a quello di 7; nel secondo caso, per definizione, di quello di 7; nel terzo caso, per definizione, il numero ordinale di S è maggiore (N) ha come conseguenza immediata che dati due numeri ordinali qualsiasi z e tre casi seguenti: 0 24 < 2, 0 U> 1,0 L= sita

La dimostrazione cantoriana del teorema (N) è la seguente. Dati due insiemi ben ordinati S e 7, vi sono, da un

punto di vista puramente combinatorio, quattro possibilità:

(1) Per ogni sezione S|s di S vi è una sezione 7]? di 7 ordinalmente simile a Ss, e viceversa: per ogni sezione 7]? di 7 vi è una sezione S|s di S ordinalmente simile a 7]t. (2) Per ogni sezione S]s di S vi è una sezione 7]f di 7 ordinalmente simile a $]s, ma c'è almeno una sezione di 7 che non è ordinalmente simile a nessuna sezione di S.

!58 V. Cantor [1895-97], $ 13, teorema A, pp. 315-316 (in Cantor [1915], pp. 143-144). Abbiamo già menzionato questo teorema esponenstesso (v. sopra, $ 3.2, teorema (B), nota 62).

!59 V_ Cantor [1895-97], $ 13, teorema G, p. 317 (in Cantor [1915], pp. 146-147). 160 Sj tratta del teorema F del $ 13 di Cantor [1895-97]: p. 317 (in Cantor [1915], p. 146).

16! V_ Cantor [1895-97], $ 13, teorema H, p. 318 (in Cantor [1915], p. 147). La dimostrazione del fatto che, dati due insiemi ben ordinati

qualsiasi F e G, per ogni sezione di F vi può essere al massimo una sezione di G ordinalmente simile ad essa, è data da Cantor come segue

(v. Cantor [1895-97], $ 13, teorema F, p. 317 (in Cantor [1915], p. 146)): se per una certa sezione F]fdi F vi fossero due sezioni differenti

Gigi e Glg» di G entrambe ordinalmente simili a F]/, allora avremmo due sezioni diverse dello stesso insieme ben ordinato aventi lo stesso

numero ordinale — cosa impossibile (v. sopra, $ 6.2, teorema (D)). 162 V_ Cantor [1895-97], $ 13, teorema I, p. 318 (in Cantor [1915], p. 147).

!63 v_ Cantor [1895-97], $ 13, teorema N, pp. 319-320 (in Cantor [1915], pp. 150-151). 164 v_ Cantor [1895-97], $ 14, teorema A, p. 321 (in Cantor [1915], pp. 152-153).

capitolo 1

58

di S (3) Per ogni sezione 7]t di 7 vi è una sezione S]s di S ordinalmente simile a 7]t, ma c’è almeno una sezione che non è ordinalmente simile a nessuna sezione di 7. (4) C’è almeno una sezione di S che non è ordinalmente simile a nessuna sezione di 7 e c’è almeno una sezione di 7 che non è ordinalmente simile a nessuna sezione di S.

Il caso (1) è deciso dal seguente teorema: (K)

Se per ogni sezione S|s di un insieme ben ordinato S vi è una sezione 7]t di un insieme ben ordinato 7, ordinalmente simile a Ss, e viceversa, per ogni sezione 7]t di 7 vi è una sezione Sls di S ordinalmente simile a 7]t, È Sr] allora S e 7 sono ordinalmente simili.'°°

Cantor dimostra il teorema (K) così. Se s è un qualsiasi elemento di S, esso determina la sezione Sjs di $, cui cor-

risponde, per ipotesi, una sezione ordinalmente simile 7] di 7. Inversamente, se # è un elemento qualsiasi di 7, esso determina una sezione 7]t di 7, cui corrisponde, per ipotesi, una sezione Ss di S. Poniamo ogni s in corrispon-

denza con il f che determina la sezione di 7 corrispondente alla sezione S]s di S. La corrispondenza così definita è una corrispondenza biunivoca fra gli elementi di S e quelli di 7. Inoltre, tale corrispondenza rispetta l’ordine. Infatti, se s e s' sono due elementi di S e # e 1 sono i corrispondenti elementi di 7, e si ha: SEZ

cioè, s' precede s, allora: Sjs'< Sjs,

cioè, Sjs' è una sezione di S|s. Per il teorema (H) si ha allora:

Ne< Tk e, di conseguenza: CoS appartenente a un &, e K ha lo stesso numero ordinale della sezione K|l, di K. Ma ciò implica che K non può avere lo stesso numero cardinale di nessun sottoinsieme di @ (e quindi neppure di a stesso, poiché a stesso fa parte dei sottoinsiemi di 2). Questo si dimostra per assurdo. Supponiamo che K abbia lo stesso numero cardinale di un sottoinsieme £ di a. Se K ha lo stesso numero cardinale di 8 esisterà una corrispondenza biunivoca tra tutti gli elementi di X e tutti gli elementi di #8; ma siccome K è ben ordinato, una corrispondenza biunivoca del genere permetterà di ordinare gli elementi di 8 secondo lo stesso ordine degli elementi di K ad essi correlati: gli elementi di f così ordinati costituiranno un insieme ben ordinato Sg avente, per costruzione, il medesimo numero ordinale di K. Poiché Sg è un in-

sieme ben ordinato ottenuto ordinando gli elementi di un sottoinsieme di &, avremo che Sg e îg e K. Allora, in base a quanto dimostrato in precedenza, il numero ordinale di Sg è uguale al numero ordinale di X]tg; ma il numero ordinale di Ss è anche uguale al numero ordinale di K. Ciò porta alla conclusione assurda (v. sopra, $ 3.2) che il numero ordinale di K sia uguale al numero ordinale di K]fy, cioè che K abbia lo stesso numero ordinale di una sua sezione. Poiché la conclusione è assurda, la premessa che K abbia lo stesso numero cardinale di un sottoinsieme di

a dev'essere falsa. Ne segue direttamente, sulla base delle definizioni, che il numero cardinale di K non può essere né minore, né uguale a quello di a. Poiché @era un insieme qualsiasi, il teorema (Hart) è dimostrato. Il teorema (T) segue immediatamente dal teorema (Hart). Infatti, se si suppone che tutti i numeri cardinali siano

confrontabili, dal fatto che il numero cardinale di K non possa essere né minore né uguale a quello di @ segue che il numero cardinale di K dev'essere maggiore di quello di @& e quindi deve esistere una correlazione biunivoca tra gli elementi di e gli elementi di un sottoinsieme proprio di XK. Ma allora si potranno ordinare gli elementi di @ secondo l'ordine degli elementi di K ad essi correlati, ottenendo un buon ordinamento di @.

176 Infatti, si consideri qualsiasi È e x Set < Bb e S) € ©, la sezione S)|x) che me ben ordinato hanno numeri ordinali diversi, e quindi non potrebbero avere mente, una sezione Sx, di S, determina un unico insieme f|: infatti, gli insiemi hanno numeri ordinali diversi dagli insiemi ordinati appartenenti a È, e dunque per ipotesi, ha lo stesso numero ordinale di un elemento di f,. C'è dunque una

determina f, è unica, poiché due sezioni diverse di un insieentrambe lo stesso numero ordinale di un $; € î,. Inversaordinati appartenenti a qualsiasi elémento di x-diverso da È, non potrebbero avere lo stesso numero ordinale di Sobe che, corrispondenza uno-uno tra i f; tali che i, (x = y)); cioè “Per ogni x e per ogni y, se x appartiene a N, y appar-

tiene a N, e il successore di x è uguale al successore di y, allora x è uguale a y”; ossia “I numeri che hanno lo stesso successore sono identici”; o anche: “Numeri diversi non hanno mai lo stesso successore”;

(4) @M&xe N 2 (s@) # 0); cioè: “Per ogni x, se x appartiene a N, allora il successore di x è diverso da 0”; ossia: “Zero non è il successore di alcun numero naturale”;

(5) (M(0€ a/(Y)(ye das) DINE 0): cioè: “Per ogni classe & se 0 appartiene a @e, per ogni y che appartiene a @, appartiene a @ anche il successore di y, allora N è una sottoclasse di @; ossia: “Ogni insieme

la quinta edizione (v. Peano [1908]), intitolata Formulario mathematico, è scritta in latino sine flexione, la lingua propugnata da Peano per gli scambi scientifici internazionali. Le cinque edizioni (o tomi) del Formulaire sono una via di mezzo

tra le successive edizioni di una

stessa opera e i volumi complementari di un unico lavoro: gli argomenti centrali sono riportati in ogni edizione, con maggiore o minore ampiezza, mentre sviluppi più particolari possono comparire in un’edizione, ma non nelle successive. In questo modo, i volumi più recenti del Formulaire non costituiscono un superamento delle edizioni precedenti, alle quali il lettore è rinviato in diverse occasioni.

!2 V. Peano [1891], $ 2, pp. 84-87. !3 Per ragioni di uniformità non mi attengo, nel seguito, alla notazione originale di Peano. 14 Gli assiomi di Peano si trovano oggi di solito espressi nell’ambito di una logica del primo ordine (v. sotto, nota 131). Peano, tuttavia, li intendeva formulati, come sono qui di seguito, in una logica di ordine superiore. Gli assiomi sono esposti in ordini diversi nelle successive opere di Peano: qui seguo l’ordine che essi hanno in Peano [1889], “Arithmetices principia”, $ 1, p. 34 (dove sono però intercalati con un blocco di quattro assiomi per l’identità), Peano [1891], $ 2, p. 84 (p. 85 per una formulazione nel linguaggio ordinario), e nelle prime tre edizioni del Formulaire. Nell'ultima edizione (v. Peano [1908], p. 27), gli assiomi sono posti nell’ordine (1), (2), (5), (3), (4) rispetto

all’ordine seguito qui; inoltre, in quest'edizione, ai cinque postulati che sono comuni a tutte le edizioni del Formulaire, ne è preposto un altro — indicato con il numerale “0” — affermante che i numeri naturali formano una classe (in simboli “N e cls”). In Peano [1889] e [1891] il numero 1 tiene il posto di 0 come primo numero naturale: evidentemente, prima del 1895, Peano non considerava 0 come un numero naturale, ma piuttosto come un numero

intero (nel medesimo periodo, Dedekind concepiva il numero 0 nello stesso modo). Gli as-

siomi di Peano sono esposti in linguaggio ordinario, nella forma e nell’ordine che abbiamo dato nel testo, nella relazione di Burali-Forti al Primo Congresso Internazionale di Filosofia, Parigi, 1900 (v. Burali-Forti [1901], $ II, pp. 299-301). 5 Si richiami che, nel corso del presente lavoro mi attengo all’uso dei Principia (vol. I, *22.01) secondo cui “@c B' significa che @ è una sottoclasse non necessariamente propria di 8 (v. sopra, cap. 1, nota 118). Russell usa “© per l'inclusione dal maggio 1902. In precedenza,

tra il settembre 1900 e il marzo-aprile del 1902, usava il segno peaniano “O”, cosicché, nel periodo menzionato, “a D 6”, dove a e d sono classi, in Russell significa, come in Peano, che a è una sottoclasse di 5. Il segno russelliano “©” per l'inclusione tra classi è probabilmente

desunto da Ernst Schréder, che nel 1890 aveva introdotto un segno simile a “©” per indicare la relazione di inclusione tra classi 0 proprietà e il segno “D” per indicare la conversa della relazione indicata da “© (v. Schròder [1890-95], vol. I, $ 1). Per Schroder, tuttavia. “©” sieni-

ficava inclusione propria: vale a dire che a © b (0 b > a), nella simbologia di Schròder, esclude il caso che a = b. Per indicare ciò EA Principia è simboleggiato da “©”, e che oggi si indica più spesso con “C” (e anche per indicare il connettivo proposizionale che nei Princi-

pia è simboleggiato da “D?), Schréòder si serve di un segno in cui alla curva del ferro di cavallo è sovrascritto un segno di uguale (un segno simile a “€”) (si trova questo simbolo, nello stesso significato, in Whitehead [1898], in alcuni testi russelliani tra il 1898 e Re

1900, e

I fondamenti dell’aritmetica

79

a che contiene lo zero e, per ogni suo elemento, contiene il successore di quest’elemento, contiene tutti i numeri naturali”.

Analizziamo brevemente il significato di questi postulati. Il primo e il quarto, insieme, affermano che zero è il primo numero della successione dei naturali. Il secondo postulato garantisce che ogni numero naturale abbia un unico successore, il quale è ancora un numero naturale. Il terzo e il quarto postulato escludono che la successione dei numeri naturali intersechi se stessa, o si chiuda su se stessa; in altri termini, essi assicurano che ogni numero

naturale si presenti nella successione una sola volta. Così, questi due postulati, insieme al secondo, garantendo che il successore di un numero naturale debba sempre essere un numero diverso da tutti quelli comparsi nella successione prima di esso, assicurano che il numero dei numeri naturali sia infinito. I primi quattro postulati non sono però sufficienti a determinare completamente la classe dei numeri naturali: essi si applicano, infatti, ugualmente bene a insiemi che, oltre ai numeri raggiungibili da zero in un numero finito di passaggi al successore, contengono elementi supplementari; ne sono esempi l’insieme dei numeri relativi (interi con segno e 0), l'insieme dei numeri frazionari e quello dei numeri reali —

se questi insiemi sono intesi includere

quello dei numeri naturali. Un altro esempio può essere l’insieme dei numeri della prima e della seconda classe di Cantor, cioè l’insieme che, oltre ai numeri naturali (prima classe di numeri di Cantor), contiene gli ordinali transfiniti ©, @ + 1, © + 2, ecc., fino a @ escluso (seconda classe di numeri di Cantor). Occorre quindi un altro postu-

lato — il quinto — con lo scopo di garantire che i numeri naturali non sono altri che lo zero e i numeri raggiungibili da zero continuando a passare da un numero naturale al suo successore. Il quinto postulato è della massima importanza: esso implica che possiamo far uso, nelle dimostrazioni che riguardano i numeri naturali, del principio di induzione matematica. Il nome “induzione” significa qui qualcosa di completamente distinto dal metodo empirico di trarre una conclusione generale da un buon numero di esempi particolari. Non si tratta, infatti, di osservare che una certa proprietà vale per tutti inumeri naturali che abbiamo avuto modo di esaminare e di inferirne che essa, probabilmente, vale per tutti i numeri naturali. In matematica, un ragionamento del genere rappresenterebbe solo una congettura, mentre l’induzione completa è un vero e proprio principio dimostrativo, di uso frequentissimo: applicato ai numeri naturali, il principio dice che, se è vero che il primo numero naturale appartiene a una certa classe (o: ha una certa proprietà) e se è vero che, quando un qualsiasi numero naturale appartiene a una certa classe (o: ha una certa proprietà), alla stessa classe appartiene anche il suo successore (o: anche il suo successore ha la stessa proprietà) allora tutti inumeri naturali appartengono a quella classe (o: hanno quella proprietà). Come rileva lo stesso Peano, i cinque assiomi sono indipendenti l’ uno dall’altro; vale a dire che nessuno di essi può essere dedotto dagli altri quattro. Peano lo dimostra, sia nel secondo, sia nel terzo fascicolo del Formulaire del 1897-99,'° esibendo interpretazioni dei tre termini primitivi “N”, “O” e “s” in ciascuna delle quali un assioma diviene falso, mentre gli altri quattro restano veri. Ciò prova che nessuno degli assiomi è deducibile dagli altri.!” aLL)

ancora in Zermelo [1908] e in Lòwenheim [1915]); ma Schròder usa “€” anche per rappresentare l'appartenenza (nella notazione di Peano, “£”), che egli non distingue dall’inclusione (v., per es., Schròder [1890-95], vol. I, $ 9, p. 245). I simboli “©” e “>” di Schròder sono, a loro

volta, una modificazione dei segni “” — usati in logica per la prima volta da Johann Andreas Segner nel Settecento — e sono del tutto indipendenti dal simbolismo introdotto da Gergonne nel 1817, di cui abbiamo parlato sopra, nella nota 5 (d’altra parte, come abbiamo già avuto modo di osservare, Gergonne, a differenza di Schròder, non usa mai “C” e “O”

fra i simboli delle entità poste in relazione, ma

ALL) di Schròder), e il segno “>” per rappresentare la relazione conversa sono presenti ancora in Peano [1888] (v. in particolare, “Operazioni della logica deduttiva”, $ 1, p. 3), che poi li sostituirà con la “O” (il segno “C”, per indicare la relazione conversa, è definito da Peano, ma non utilizzato, potendosi sem-

solo come lettere isolate). Il segno “ xRz),” che si legge: “trans è, per definizione, la classe di tutte le relazioni tali che, per ogni x, per ogni y, per ogni z, se x è nella relazione R con y e y è nella relazione R con z, allora x è nella relazione R con 2”. Una relazione R è riflessiva nel suo campo, o semplicemente riflessiva°' se e solo se: 5 V. Russell [1903a], $ 208, p. 218; [PM], vol. I, introduzione, cap. 1, p. 32; Russell [1914a], lecture II, pp. 56-57 (1° ediz., p. 47), e lecture

IV, p. 132 (1° ediz., p. 124); Russell [1919a], cap. 2, p. 16.

5 V. [PM], vol. I, #73.31.

53 V. [PM], vol. I, #73.301. V. sopra, nota 50.

% V. [PM], vol. IL +201.1. 55 V. Russell [1903a], $ 208, p. 218; [PM], vol. I, introduzione, cap. 1, p. 35; Russell [1914a], lecture II, p. 57 (1° ediz., p. 48), e lecture IV,

pp. 132-133 (1° ediz., p. 124); Russell [1919a], cap. 2, p. 16, e cap. 4, pp. 31-32.

5 V. [PM], vol. I, *73.32. 7 Il prodotto relativo di due relazioni R e S è la relazione che vale tra x e y quando esiste uno 2 con cui x è nella relazione R e che ha con y la relazione S. Nel simbolismo dei Principia Mathematica: xR |Sy= (42) (xRz A 2$y); dove “R |S” significa “la relazione data dal prodotto relativo delle relazioni R e S”. (V., per es., Russell [1903a], $ 29, e $ 220, e [PM], vol. I, +34.) Il prodotto relativo di due relazioni fu defini-

to per la prima volta da Peirce ([1883], p. 189), che lo simboleggiava semplicemente attraverso la giustapposizione dei simboli di relazione; la definizione fu poi ripresa da Schròder ([1890-95], vol. III, $ 3, p. 30), che simboleggiava il prodotto relativo separando i simboli di relazione con “;”. Prima di adottare — durante la redazione dei Principia —

il simbolo “|”, Russell indicava il prodotto relativo tra due relazio-

ni Re S con la semplice giustapposizione di simboli “RS” (v., per es., Russell

[1901e], $ 1, p. 6).

9 V. [PM], vol. I, *73.311.

°°? V. [PM], vol. II, +201.01. 2.91 avverta che, nei primi due capitoli del presente lavoro, le formule dei Principia Mathematica sono — salvo esplicita dichiarazione

contraria — proposte in un’interpretazione che prescinde totalmente dalla teoria dei tipi dei Principia. Ciò che mi irtteressa, a questo punto, è solo rilevare come il modo in cui l’aritmetica è ricostruita da Russell nei Principia è sostanzialmente identico (teoria dei tipi a parte) a quello utilizzato nelle sue opere di inizio Novecento. di Russell, usando la terminologia già adoperata da Peano, e ancora oggi più in voga, chiama riflessive le relazioni che valgono tra una qualsiasi entità e se stessa, e riflessive nel loro campo (reflexive in its field) le relazioni che valgono tra qualsiasi elemento del loro campo — cioè della classe che ha per elementi tutti i primi e i secondi membri di una relazione (per la definizione di “campo” di una relazione, v sotto, $ 3.4.1) — e se stesso. (V., per es., Russell [1903a], $ 209, p. 219; Russell

[1919a], cap. 2, p. 16.) Poiché l’espressione “riflessive nel loro campo” è un po’ ingombrante, nel testo ho adottato la terminologia di Carnap [1954], $ 31b, pp. 185-186, chiamando “totalmente riflessive” le relazioni che valgono tra una qualsiasi entità e se stessa e semplicemente “riflessive” le relazioni che valgono tra un elemento N qualsiasi del loro campo e se stesso.

I fondamenti dell’aritmetica

89

(x) (Ely) ARy v yRx) > xRx), cioè se e solo se, qualora x abbia la relazione R con qualcosa, 0 qualcosa abbia la relazione R con x, allora x è nella relazione R con se stesso. Per esempio: la relazione espressa da “avere lo stesso numero cardinale” è riflessiva?” perché ogni insieme @ — in base alla definizione di Cantor — ha lo stesso numero cardinale di se stesso: infatti gli oggetti di un insieme possono essere sempre posti in correlazione biunivoca con se stessi. E facile dimostrare che ogni relazione simmetrica e transitiva dev’essere anche riflessiva. Dunque la terza condizione è ridondante, e si può caratterizzare — come fa abitualmente Russell — una relazione di equivalenza semplicemente come una relazione simmetrica e transitiva. Ogni relazione di equivalenza ha un’importante proprietà, che Russell spiega così: Data una qualsiasi relazione simmetrica transitiva, i termini che hanno questa relazione con un dato termine formano un gruppo. Il gruppo di termini che hanno questa relazione con a e il gruppo di termini che hanno questa relazione con 6 o sono identici o mutuamente esclusivi. Così la relazione dà origine a un certo numero di gruppi mutuamente esclusivi.°

In altre parole, ogni relazione di equivalenza R suddivide gli oggetti cui essa si applica in classi mutuamente esclusive (cioè, prive d’elementi in comune) che soddisfano le seguenti condizioni: (1) Per ogni coppia possibile di elementi in ognuna di queste classi, vale tra essi la relazione R. (2) Se un elemento qualsiasi di una di queste classi ha con un altro elemento qualsivoglia la relazione R, allora anche il secondo elemento appartiene alla stessa classe del primo. Questo deriva direttamente dall’ipotesi che la relazione R sia transitiva e simmetrica. Ciascuna delle classi in cui risulta ripartito il campo di una relazione di equivalenza R (cioè la classe che ha per elementi tutti i primi e i secondi membri di R) si dice comunemente classe di equivalenza rispetto ad R.°° Tutto ciò chiarisce perché le relazioni riflessive, simmetriche e transitive siano relazioni di “uguaglianza sotto un certo aspetto”. Ogni relazione R avente queste proprietà ripartisce il “mondo” degli oggetti a cui si applica in classi, e gli oggetti appartenenti a una qualsiasi di queste classi non si possono distinguere tra loro sulla base della sola relazione R: essi avranno infatti la relazione R con esattamente gli stessi termini. In linguaggio corrente esprimeremmo questo dicendo che gli oggetti in questione sono “uguali” dal punto di vista della relazione R. Per esempio, la relazione espressa da “avere la stessa massa” è una relazione riflessiva, transitiva e simmetrica. Allora

essa ripartirà gli oggetti cui si applica in classi distinte, e due corpi a e d appartenenti a una di queste classi non saranno distinguibili tra loro mediante la relazione espressa da “avere la stessa massa”: infatti, ogni volta che a si trova nella relazione espressa da “avere la stessa massa” con un corpo qualsiasi x, anche 5 si troverà in questa relazione con x, e viceversa.

© V_ [PM], vol. I, #73.3. 3 V. Russell [1903a], $ 209, p. 219. Si vuole dimostrare che, se la relazione R è simmetrica e transitiva, e si ha xRb 0 bRx, allora vale xRx:

infatti, se xRb oppure bRx, per la simmetria, si ha xRb e bRx, da cui, per la transitività, si ha xRx.

9% Russell [1913a], parte I, cap. 8, p.91. 5 La dimostrazione è semplice. Consideriamo infatti la classe @ di tutti gli individui con i quali un elemento qualsiasi x del campo di R sta nella relazione R. Supposto che y e z appartengano a questa classe, si ha, per ipotesi, xRy e xRz; ma allora, siccome la relazione R è simmetrica si avrà anche yRx e zRx, e quindi, poiché R è transitiva, da zRx e xRy si ha zRy, e da yRx e xRz si ha yRz; per la riflessività di R varranE no poi xRx, yRy, zRz. Se ne conclude che R vale per ogni coppia in a. v. Vale dunque wRv. qualsiasi individuo altro un con Supponiamo ora che un elemento qualsiasi di & per esempio w, abbia la relazione R provato l’asserto abbiamo e @ di parte fa v anche cosicché xRv, vale R, di transitività la per dunque, Ma poiché w fa parte di & vale xRw:

una classe di equivalenza — cioè che i suoi elementi soddisfino le condizioni (1) e (2) — può essere simbolicamente & 6 I] fatto che sia espresso così: aAxRyDye 0); anye 22 xRy) A) formula che equivale alla seguente: 0) (re aD (ye aDxRy) A (xe aD (ARy>3 ye 0)) che, a sua volta equivale a: MY)xe a>3e a=xRy)). Dunque @è una classe equivalenza rispetto alla relazione di equivalenza R se e solo se: MMxe aD3De a=xRy)). M)M)xe

capitolo 2

90

La definizione per astrazione proposta da Peano” consiste nel considerare uno schema del tipo M‘a=M°‘b=a=b

(dove “a = b” significa che a ha una certa relazione di equivalenza con b e “M°’ è un operatore che forma termini singolari, cosicché il simbolo “M‘a” significhi: “il/la M di a”) come definente il nuovo oggetto M‘a. Questo nuovo oggetto sarebbe, secondo Peano, ciò che hanno in comune tutti gli oggetti b tali che a = d. Applicando questo ai numeri cardinali, si ha la possibilità di definire il numero cardinale di @ come la proprietà comune a tutte le classi che hanno lo stesso numero cardinale di 4— dove “avere lo stesso numero cardinale” significa “essere cardinalmente simili”, giusta la definizione cantoriana.°* Ne segue che il numero 0 può essere definito come il numero della classe vuota; il numero 1 come il numero di ogni classe che ha un solo elemento; e così via. I numeri infi-

niti possono essere definiti come i numeri di quelle classi il cui numero resta invariato quando si sia loro tolto un elemento. Infine, i numeri naturali possono essere definiti come quei numeri che non sono infiniti. Le operazioni aritmetiche possono poi essere definite alla maniera di Cantor, come operazioni tra insiemi. In un articolo scritto subito dopo aver studiato l’opera di Peano — ma non pubblicato all’epoca — Russell osserva: La teoria dell’aritmetica [di Peano] consiste propriamente di due distinte parti, nella prima delle quali i numeri sono considerati semplicemente come formanti quella che Cantor chiama una serie numerabile. Per i nostri scopi presenti sarà meglio chiamare una tale serie progressione [...] Accade che i numeri formino una tale serie; ma ciò che contraddistingue i numeri è la loro relazione con le classi e con le entità logiche. È questa relazione che conduce alla seconda parte dell’aritmetica. Possono essere date definizioni puramente logiche dei vari numeri, che garantiscono la proposizione generale che le classi hanno numeri. Così 0 è il numero della classe nulla; 1 è il numero di una classe tale che, se x è un membro della classe, nessun termine diverso da x è un membro di essa; e così via.9°

Pur riconoscendo che l’aritmetica potrebbe cominciare da qui, invece che dai suoi assiomi, Peano non sviluppò questa seconda possibilità. Fu invece proprio essa ad attrarre Russell, per due ragioni: (1) Consentiva un trattamento unificato per l’aritmetica dei numeri transfiniti e quella dei numeri finiti; (2) Permetteva un’ ulteriore riduzione dei termini primitivi usati negli assiomi di Peano a termini che Russell riteneva essere puramente logici, realizzando così un’analisi filosofica più profonda.

3.2. LA CRITICA DI RUSSELL E IL SUO “PRINCIPIO DI ASTRAZIONE” 3.2.1. Secondo la definizione per astrazione dei numeri cardinali proposta da Peano, tutte le classi cardinalmente simili a una certa classe @ hanno una proprietà in comune, una proprietà che è diversa da quella che hanno in comune tutte le classi simili a 8, dove 8 è una classe che non è cardinalmente simile ad @. Una formulazione del senere, secondo Russell, pecca tuttavia di vaghezza; nei Principles (1903), egli scrive: È Ma una proprietà comune non è una concezione molto precisa [...]. Una qualità comune di due termini è considerata usualmente

come un predicato di questi termini. Ma l’intera dottrina del soggetto e predicato, come la sola forma di cui sono suscettibili le proposizioni, e l’intera negazione della realtà ultima delle relazioni, sono rifiutate dalla logica difesa in questo lavoro. Abbandonando la parola predicato, si può dire che il senso più generale che si può dare a una proprietà comune è questo: Una proprietà comune di due termini è qualsiasi terzo termine con il quale entrambi hanno la medesima relazione. In questo senso generale, il possesso di una proprietà comune è simmetrico, ma non necessariamente transitivo. Affinché esso possa essere transitivo, la relazione alla proprietà comune dev’essere tale che solo un termine al massimo possa essere la proprietà di qualsiasi termine dato [cioè, la relazione deve essere molti-uno (v. sotto, nota 71 )}:®

Russell spiega il concetto di “proprietà comune”, in questo contesto, rinunciando come -inessenziali a tutte quelle caratteristiche che normalmente sarebbero associate a una “proprietà” (concepita come attributo), conservando solo il fatto che si tratti di “qualcosa” — in altri termini, una “proprietà”, nel senso qui indicato da Russell

potrebbe benissimo essere non solo un attributo, ma anche un’altra entità qualsiasi. La sola cosa essenziale, per-

° ° °° 7°

V. Peano [1894a], pp. 167-168. V. Peano [1901a], $ 32, p. 70. Russell [1901f], p. 359. Russell [1903a], $ 157, p. 166.

I fondamenti dell’aritmetica

91

ché la definizione di Peano funzioni, è che tutte le classi cardinalmente simili a una certa classe @ abbiano qualco-

sa in comune, qualcosa di diverso da ciò che hanno in comune tutte le classi simili a B, dove f è una classe n cardinalmente simile ad @. Russell riformula quest’ultima condizione come segue: esiste una relazione molti-uno”! S che ogni classe & ha con una certa entità z tale che tutte e solo le classi cardinalmente simili ad @ hanno la relazione S con z (in altri termini, esiste una funzione che associa a ogni classe & un’entità z e che associa a z tutte e

solo le classi cardinalmente simili ad 0). Spiega Russell:

Per chiarire questo punto, esaminiamo che cosa s'intende, nel caso presente, con proprietà comune. Ciò che s’intende è, che ogni classe ha con una certa entità, il suo numero, una relazione che essa non ha con nient’altro, ma che tutte le classi [cardinalmente]

simili (e po. altre entità) hanno con il detto numero. Cioè, c’è una relazione molti-uno che ogni classe ha con il suo numero e con nient’altro.

In simboli, la condizione di cui parla Russell può essere espressa così:

(1)

(@S)(Se Cls4 1 A(O(B(asm B= (32)(aSz A bSz))),

dove “Cls

> 1” denota la classe delle relazioni molti-uno, e “sm” denota la relazione di similitudine cardinale. In

un articolo del 1901 intitolato “Sur la logique des relations avec des applications à la théorie des séries”, Russell aveva dimostrato che:

(2) (R)((Re Equ n (x) (3y) xRy) > ASS e Cls+ 1A (2) 9) (Ry= (A2)(xS7 A yS2)))), cioè: “Se R è una relazione di equivalenza (“Equ” = “la classe delle relazioni di equivalenza”) che sussiste tra almeno due termini, allora esiste una relazione molti-uno $ tale che R sussiste tra un qualsiasi x e un qualsiasi y se e solo se esiste uno z con cui x e y hanno entrambi la relazione S”. Poiché, per definizione (v. sopra, nota 57) si ha: (3)

xR|Sy=(4z)(xRz A z$y),

cioè: “Tra x e y sussiste la relazione data dal prodotto relativo delle relazioni R e S se e solo se c’è uno z con cui x ha la relazione R che ha con y la relazione $”, abbiamo che: (4)

xS| (Sy= (42) (xSz A zS »),

o anche: (5)

xS Ssy= (Az) (xSz A ySz).

La formula (2) si può dunque anche scrivere: *6.2

(R)((Re Equ A (4x)(Ay) xRy) > (AS)(Se ClsÒ

1 AM)

ARy CLAN) y),

che è la forma in cui il principio è espresso nell’articolo di Russell, con la spiegazione: «La P6.2 [...] afferma che tutte le relazioni che sono transitive, simmetriche, e non nulle si possono analizzare come prodotti di una relazio74 ; ne molti-uno e della sua conversa».

> y = y1) (v. [PM], 7! Hè una relazione molti-uno — nella simbologia dei Principia “H e Cls > 1° — se e solo se (XV)Oi)(xHy A xHy; e fino al 1907, All’epoca, H. relazione la avere può oggetto vol. I, #71.171), ossia se non ci sono due oggetti distinti con cui uno stesso

Russell concepiva le funzioni come relazioni molti-uno (v. sotto, cap. 3, $ SIDE

72 Russell [1903a],$ 110, p. 114.

/

anche in [PM]: vol. I, 73 Mantengo qui la numerazione assegnata alla formula nell’articolo originale di Russell. Il teorema è dimostrato

*72.66.

74 Russell [1901e],$ 1, p. 10.

capitolo 2

92.

Nell'articolo menzionato, Russell dimostra la 6.2, spiegando però: «la dimostrazione dà un metodo che ci consente di fare questo [cioè di analizzare una qualsiasi relazione simmetrica, transitiva e non nulla come prodotto

relativo di una relazione molti-uno e della sua conversa], senza provare che non ci siano altri metodi di farlo», e

continua: «La P6.2 è presupposta nelle definizioni per astrazione, e mostra che in generale queste definizioni non

indidanno un singolo individuo [...] Per ciascuna relazione S di questa classe, e per tutti i termini x di R, c’è un lo generale in viduo che la definizione per astrazione indica; ma le altre relazioni S di questa classe non danno edi stesso individuo».”° Ora, la (1) non è altro che il conseguente della (2), laddove si sia presa come relazione quivalenza R la relazione di similitudine cardinale. La conclusione è che sebbene, grazie alla 6.2, si possa dimostrare che esiste almeno una relazione S tra le classi e i loro numeri cardinali, non si può dimostrare che essa è unica, cosicché la (1) non riesce a isolare un unico z che sia il numero cardinale di una classe a. Nei Principles, Russell scrive: [...] per quanto può insegnare la definizione per astrazione, qualsiasi insieme di entità, con ciascuna delle quali qualche classe ha una certa relazione molti-uno, e con una e una sola delle quali qualsiasi classe data ha questa relazione, e che sono tali che tutte le classi [cardinalmente] simili a una classe data hanno questa relazione con una e la stessa entità dell’insieme, appare come l’insieme dei numeri, e qualsiasi entità di quest’insieme è i/ numero di qualche classe. Se, allora, vi sono molti di tali insiemi d’entità — ed è facile dimostrare che ce n’è un numero infinito — ogni classe avrà molti numeri, e la definizione mancherà totalmente di definire i/

numero di una classe.”

Ciò che osserva Russell è che ogni relazione molti-uno S tale che per ogni classe & esiste un’entità z con cui @ ha la relazione S, e tale che tutte e solo le classi cardinalmente simili ad @ siano correlate a z (vale a dire, ogni funzione che associ a ogni classe & un'entità z, e che associ a z tutte e solo le classi cardinalmente simili ad 0), può essere interpretata come se dicesse: “z è il numero cardinale di &/°. Il problema è però che, se esiste almeno una tale relazione (una tale funzione) S, allora si dimostra che essa non è unica, anzi, che ce ne sono infinite: supponiamo, infatti, che l’insieme dei secondi membri di una relazione S ci dia l'insieme dei numeri naturali, basterà

allora rimpiazzare ogni secondo membro della relazione originale con il suo successore e otterremo un’altra relazione che soddisfa le stesse condizioni di quella di partenza. Come si vede, la critica russelliana alla definizione per astrazione di Peano fa appello a un argomento simile a quello con il quale era stata criticata la definizione per postulati. Ma com'era stata dimostrata la 6.2, in “Sur la logique des relations avec des applications à la théorie des séries”’? Era stata dimostrata prendendo come entità con la quale ciascun x appartenente a una classe di equivalenza, rispetto a una relazione di equivalenza R, deve avere la relazione S, la classe di equivalenza stessa, cioè la classe degli y che hanno con x la relazione R. Nell’articolo, Russell propone allora per la prima volta di prendere sempre questa classe come «come l’individuo indicato dalla definizione per astrazione», e aggiunge: «così per esempio il numero cardinale di una classe w sarà la classe delle classi simili a w».!” La ragione per cui Russell sceglie, come numeri cardinali /e estensioni degli attributi di essere cardinalmente simile a una certa classe, e non gli attributi stessi — identificando così un numero cardinale con una “proprietà” in

senso tradizionale —, è evidente: se, infatti, 2 e f sono classi cardinalmente simili, ma differenti, gli attributi denotati da “cardinalmente simile ad @° e “cardinalmente simile a #8” sono attributi diversi, pur essendo entrambi attributi comuni a tutte e solo le classi cardinalmente simili ad @ se entrambi questi attributi fossero numeri cardinali ne seguirebbe ancora una volta che — contrariamente a quanto supposto dalla definizione per astrazione —

® Ibid. 7° Russell [1903a], $ 110, pp. 114-115. 7 Russell [1901e], $ 1, p. 10. V. anche: Russell [1903a], $ 111, p. 105; [PM], vol. II, *100.1: Russell [1914a], lecture VII, p. 208 (1° ediz., p. 204); Russell [1919a], cap. 2, p. 18. In [PM], nel commento al teorema *72.66 (corrispondente al teorema *6.2 di Russell [1901e]) si

legge: «Questo è il “principio di astrazione”. [...] Questo principio incorpora una gran parte delle ragioni per le nostre definizioni dei vari ceneri di numeri; cercando queste definizioni abbiamo sempre, per cominciare, qualche relazione transitiva simmetrica che onsidecifio come identità di numero; così, per *72.64 [teorema che, in PM, costituisce un lemma di *72.66, dimostrando che un'entità con la quale ciascun x

appartenente a una classe di equivalenza, rispetto a una relazione di equivalenza R, ha la relazione S, è la classe di equivalenza stessa] le

proprietà desiderate dei numeri del genere in questione sono assicurate prendendo il numero di un oggetto come la classe di vegehi sa, dui

l’oggetto menzionato ha la relazione transitiva simmetrica in questione. È in questo modo che siamo condotti a definire un OR le come classe di classi, e un numero ordinale come classe di relazioni» ([PM], vol. I, *72, sommario, p. 442).

cardina-

I fondamenti dell’aritmetica

93

le classi cardinalmente simili ad @ non avrebbero un solo numero cardinale, ma molti — di fatto infiniti, se vi so-

no infinite classi aventi quel numero cardinale.” Riassumiamo, usando la notazione dei Principia, la definizione russelliana dei numeri cardinali. Il simbolo

“x(9x)” denota la classe degli x che sono @; quindi “8(8sm @)” indicherà la classe di tutte le classi B simili ad

&. Denotando il numero cardinale di @ con il simbolo dei Principia “Ne @?°, l'enunciato “Il numero cardinale di @ è uguale alla classe dei 8 che sono cardinalmente simili ad @'° si può dunque scrivere:

(7) Nc‘a= B(Bsm a.” Dalla (7), Russell perviene facilmente alla definizione della classe dei numeri cardinali, che è denotata, nei Principia, dal simbolo “NC”."° La definizioneè la seguente:

(8) NC=y fEA(b=Nce'd} “La classe dei numeri cardinali è la classe di tutte le classi ft tali che esiste una classe @ di cui £ è il numero cardinale”, O, più semplicemente: “Un numero cardinale è il numero cardinale di una classe o di un’altra”. 3.2.2. Nel $ 32 dell’edizione del 1901 del suo Formulaire, Peano considera esplicitamente l’idea —

che, come

abbiamo visto, Russell fa propria — di identificare il numero di una classe con la classe di tutte le classi ad essa cardinalmente simili. Ma infine la respinge, affermando — senza altre spiegazioni — che «questi oggetti hanno proprietà differenti».*° A quest’affermazione di Peano, Russell ribatte, nei Principles (1903): «Egli non ci dice quali siano queste proprietà e per parte mia non le so scoprire. Con tutta probabilità gli parve immediatamente evidente che un numero non è una classe di classi».* Russell riconosce che, a un primo sguardo, si può avere la stessa impressione: [...] quando giungiamo all’effettiva definizione dei numeri non possiamo evitare ciò che a prima vista sembra un paradosso, anche se quest’impressione si affievolirà presto. Noi pensiamo spontaneamente che la classe delle coppie (per esempio) sia qualcosa di differente dal numero 2. Ma non vi è dubbio riguardo alla classe di coppie: è indubitabile e non difficile da definire, mentre il numero 2, in qualsiasi altro senso, è un’entità metafisica circa la quale non possiamo mai sentirci sicuri che esista e che l’abbiamo identificata. È pertanto più prudente accontentarci della classe delle coppie, di cui siamo sicuri, che andare a caccia di un problematico numero 2 che è destinato a rimanere inafferrabile.8*

78 V. Russell [1903a], $ 111, pp. 115-116. ? V. [PM], vol. II, *100.1. Questa formula non rappresenta, nei Principia, una definizione, ma un teorema. Nei Principia si definisce la relazione Nc (v. vol. II, #100.01), come la relazione tra la classe di tutte le classi cardinalmente simili a una classe Q@e astessa, cioè la rela-

zione tra un numero cardinale e le classi di cui esso è numero. Dunque Ne sussiste tra x e y se e solo se x è numero cardinale di y. “Nc‘Q° è un esempio di ciò che Russell chiama funzione descrittiva. Le funzioni descrittive sono definite in [PM], vol. I, *30.01: data una relazione

R, “R‘x° significa: “L’unico y che ha la relazione R con x”, e si può leggere: “L’R di x”. Per esempio, se R è la relazione espressa da “padre”, “R‘x” significherà “il padre di x”; se R è la relazione che vale tra il doppio di un numeroe il numero stesso, “R°x” significherà “il doppio di x”. Una funzione descrittiva è dunque, in generale, un’espressione contenente variabili, che diviene una descrizione definita

quando si assegna un valore a queste variabili. Nel presente lavoro, la teoria: Tusselliana delle descrizioni definiteè trattata nel cap. 7 (in particolare, delle funzioni descrittive si parla nel $ 4). Il simbolo russelliano“*” per le funzioni descrittive è ripreso da Peano (1897-99], N° 1, pp. 50-51. In Peano si trova anche il simbolo composto “Nc‘@?: v. Peano [1897-99], N°2, punto 210, p. 39. 50 “NC” denota la classe di tutti i numeri cardinali: non va confuso con “Ne”, che denota una relazione (v. nota precedente) che vale tra un numero cardinale e una classe avente quel numero cardinale. 8! Quest’uguaglianza non è, nei Principia, una definizione, ma un teorema (v. vol. II, *100.4). La definizione di “numero cardinale” (v. vol. IT, #100.02) è in realtà scritta così:

NC =gp DiNo, che si legge: “La classe dei numeri cardinali è il dominio della relazione Ne”; formulazione equivalente a quella che abbiamo dato nel testo.

$ 32, p. 70. #2 Peano [1901a], 83 Russell [1903a], $ 111, p. 115. Si noti che, dopo la pubblicazione degli scritti di Russell sull’argomento,

a

Peano ammise che alla defini-

zione di “numero cardinale” come classe di classi non poteva essere mossa nessuna obiezione logica; tuttavia, egli preferì, prudentemente, sospendere l’assenso sulla definizione di Russell, evidentemente fiutando il pericolo di avventurarsi su un terreno giudicato più filosofico che matematico (v., per esempio, Peano [1915], pp. 413-415). #4 Russell [1919a], cap. 2, p. 18.

capitolo 2

94

Certo, inizialmente può sembrare che un numero sia qualcosa di diverso da una classe di classi — che il nume-

ro 9, per fare un esempio, non abbia come elemento la classe dei pianeti del sistema solare (Plutone incluso). Ma,

in realtà, la definizione di Russell è meno artificiosa di quanto possa sembrare d’acchito: essa rende conto in modo naturale delle applicazioni del numero al mondo. Supponiamo di avere l’enunciato “I pianeti del sistema solare sono corpi celesti”; quest’enunciato dice, di ciascun pianeta, che esso ha la proprietà di essere un corpo celeste: Se vogliamo esprimere il nostro enunciato in termini di estensioni di proprietà, anziché di proprietà, possiamo dire: “Ciascun pianeta del sistema solare appartiene alla classe dei corpi celesti”. Ora supponiamo di avere l’enunciato “I pianeti del sistema solare sono nove”. Non possiamo interpretarlo esattamente come il precedente, perché esso non intende affermare che ciascun pianeta del sistema solare ha la proprietà di essere nove, ma che i pianeti del sistema solare tutti insieme sono nove. L’enunciato fa un’affermazione sull’insieme dei pianeti del sistema solare e di quest’insieme dice che ha la proprietà d’essere costituito di nove elementi. Se ora vogliamo, come prima, esprimere il nostro enunciato in termini di estensioni di proprietà, anziché di proprietà, sostituiamo alla proprietà essere costituito da nove elementi la classe di tutte le classi di nove elementi, ottenendo: “La classe dei pianeti del sistema solare appartiene alla classe di tutte le classi di nove elementi”. Il principio applicato da Russell nella definizione dei numeri cardinali è di grande importanza in tutta la sua filosofia matura: si tratta di quello che Russell chiama principio d’astrazione (principle of abstraction).®° Esso consiste — nella sua generalità — nell’identificare una classe di equivalenza rispetto a una certa relazione di equivalenza, che non sia vuota, con quel “qualcosa” che tutti e solo gli oggetti appartenenti a questa classe si suppone abbiano in comune. Ecco come lo spiega Russell in una lettera a Louis Couturat datata 10 dicembre 1903: L’essenziale del principio, come si dimostra [poco prima, nella stessa lettera, Russell aveva fatto riferimento alla dimostrazione della proposizione 6.2 di Russell [1901e], $ 1, p. 9], è di sostituire la classe stessa degli oggetti che sono in questione alla qualità [qualité] ipotetica comune a tutti questi oggetti. Invece di “principio di astrazione”, avrei fatto meglio a chiamarlo “principio rimpiazzante l’astrazione”. Quando si ha una relazione S simmetrica e transitiva, la classe degli oggetti che hanno con a la relazione s rimpiazza, nel calcolo, la proprietà, comune a tutti questi oggetti, che suppone il senso comune. Non nego che vi sia spesso una tale proprietà, ma non è necessario introdurla; essa sarà in generale indefinibile, e la classe ha tutte le qualità di cui c’è bisogno.*°

Che ciò sia adeguato deriva dal fatto che tutti gli oggetti appartenenti a una certa classe di equivalenza (non vuota), e solo essi, hanno verso la classe stessa una relazione molti-uno —

che non è altro che la relazione

d’appartenenza a tale classe.” L’applicabilità generale di questo principio è ribadita da Russell in Our Knowledge of the External World

(1914): Dato un insieme di oggetti dei quali due qualunque abbiano una relazione della sorta chiamata “simmetrica e transitiva”, è quasi certo che li considereremo come aventi tutti qualche qualità comune, o come aventi tutti la stessa relazione con qualche oggetto

fuori dall’insieme. [...]

sa

Tutte le relazioni che si possono rappresentare come uguaglianza sotto qualche aspetto, 0 possesso di una proprietà comune, sono transitive e simmetriche — ciò si applica, per esempio, a relazioni come essere della stessa altezza, peso, 0 colore. Poiché il posses-

so di una proprietà comune dà origine a una relazione transitiva simmetrica, veniamo a immaginare che ogni volta che è presente una tale relazione, questo si debba a una proprietà comune. “Essere ugualmente numerosi” è una relazione transitiva simmetrica tra due collezioni; di qui immaginiamo che ambedue abbiano una proprietà comune, che è chiamata il loro numero. [...] In tutti questi

casi, la classe dei termini che hanno la relazione transitiva e simmetrica data con un dato termine soddisfa tutti i requisiti formali di una proprietà comune a tutti i membri della classe. Poiché la classe esiste con certezza, mentre ogni altra proprietà comune può essere illusoria, è prudente, al fine d’evitare affermazioni superflue, sostituire la classe alla proprietà comune che si ammetterebbe or-

dinariamente [...]. In assenza di una conoscenza specifica [dell’esistenza di particolari proprietà], dunque, il metodo che abbiamo

adottato è il solo che sia sicuro, e che eviti il rischio di introdurre entità metafisiche fittizie.8

Secondo Russell, il principio d’astrazione evita dunque, in molti casi, l'introduzione di entità metafisiche puramente ipotetiche: Quando un gruppo d’oggetti presenta quel genere di similitudine che siamo inclini ad attribuire al possesso di una qualità comune il principio in questione [il principio d’astrazione] mostra che l'appartenenza al gruppo servirà a tutti gli scopi della supposta quali-

*° Da non confondere con la “definizione per astrazione” di Peano.

5° In Russell [2001a], p. 346. #7 V. Russell [1903a], $ 157, pp. 166-167; [PM], vol. I, *72.66.

** Russell [1914a], lecture IV, pp. 132-134 (1° ediz., pp. 124-126).

I fondamenti dell’aritmetica

95

tà comune e quindi, a meno che sia effettivamente conosciuta qualche qualità comune, il gruppo o classe d’oggetti simili può essere usato al posto della qualità comune, che non è necessario si assuma come esistente.8°

In “Logical atomism”, del 1924,” Russell porta quest’esempio: Supponiamo di avere un certo gruppo di bastoncini, tutti ugualmente lunghi. È facile supporre che esista una certa qualità, chiamata la loro lunghezza, che tutti questi condividono. Ma tutte le proposizioni nelle quali compare questa supposta qualità conserveranno invariato il loro valore di verità se, in luogo di “lunghezza del bastoncino x” prendiamo l’“appartenenza al gruppo di tutti i bastoncini lunghi come x”.?!

Seguendo tale strategia riduzionistica avremo, per esempio, che: la lunghezza di un oggetto non è altro che la classe di tutte le cose che hanno la stessa lunghezza; la direzione di una retta è la classe di tutte le rette parallele alla retta data; la massa di un corpo è la classe di tutti i corpi che hanno la sua stessa massa; il colore di un oggetto è la classe di tutti gli oggetti che hanno il medesimo colore; la specie di un animale è la classe di tutti gli animali della stessa specie di quell’animale. La classe degli oggetti che si suppone abbiano in comune una certa proprietà sostituisce la proprietà stessa. Come si vede, nel principio d’astrazione, l’astrazione è spogliata d’ogni vaghezza psicologica; ancora molti anni dopo la lettera a Couturat che abbiamo citato sopra, Russell ribadirà che il principio: «si potrebbe chiamare “il principio che elimina l’astrazione [dispenses with abstraction]'».”

3.3. IL PRINCIPIO DI ASTRAZIONE COME APPLICAZIONE DEL RASOIO DI OCCAM Dopo i Principia Mathematica, Russell affermerà più volte che il suo principio d’astrazione non è altro che un’applicazione del rasoio di Occam (“Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem”), che Russell interpreta così: Ogni qualvolta è possibile, le costruzioni logiche devono essere sostituite alle entità inferite [cioè, alle entità la cui esistenza è solo 93 supposta]. Ogni qualvolta è possibile, sostituire costruzioni basate su entità conosciute alle inferenze [cioè, alle supposizioni d’esistenza] di entità sconosciute.” =

3

DAS

Gi

z

ò

9

5

È

Questo è un principio cardine di tutta la filosofia russelliana matura.’ Ma che cosa significa — per Russell — “costruire” logicamente entità a partire da entità conosciute? Sovente significa prendere le nuove entità come classi di entità, o relazioni in estensione tra entità, la cui esistenza non sia dubbia (o sia meno dubbia): Due collezioni ugualmente numerose appaiono avere qualcosa in comune: questo qualcosa si suppone essere il loro numero cardinale. Ma finché il numero cardinale è inferito dalle collezioni, non costruito in termini di esse, la sua esistenza deve restare in dubbio, se non in virtù di un postulato metafisico ad hoc. Definendo il numero cardinale di una collezione data come la classe di tutte le collezioni ugualmente numerose, evitiamo la necessità di questo postulato metafisico, e rimuoviamo quindi un elemento di dubbio non necessario dalla filosofia dell’aritmetica.?°

Russell parla spesso, in questi casi, di “costruzioni logiche”, perché egli considerò sempre la teoria delle classi e delle relazioni come parte della logica. In una prima fase del suo pensiero logicista, questo per lui significava che le entità insiemistiche sono entità logiche, indubitabili quanto i loro membri — per es., se ci sono a, d e c, la pura logica garantisce l’esistenza di una classe che ha per elementi solo a, d e c. Quindi, per Russell, identificare un'entità dubbia con un’entità insiemistica (o “costruirla” come

un'entità insiemistica) significava identificarla

89 Russell [1914a], lecture II, p. 51 (1° ediz., p. 42). 90 V. Russell [1924a], pp. 326-327. 21 Russell [1924a], p. 327. ° Russell [1914a], lecture II, p. 51 (1° ediz., p. 42). V. anche Russell [1924a], p. 326. 9 Russell [1914d], $ VI, p. 155; corsivo di Russell.

i0 d

9 Russell [1924a], p. 326.

2201m Theory of Knowledge, Russell scrive che il rasoio di Occam

parte I, cap. 2, p. 21).

% Russell [1914d], $ VI, p. 156.

è «la massima

metodologica suprema

nel filosofare» (Russell [1913a],

-

[1912f], p. 84, riga 43. 97 Russell usa per la prima volta il termine “logical construction” nel manoscritto del 1912 “On matter”: v. Russell

capitolo 2

96

con un'entità altrettanto indubbia quanto gli elementi dell’entità insiemistica: in una parola, significava ridurla agli elementi dell’entità insiemistica. A partire dal 1906 — come vedremo nei capitoli 8, 9 e 11 —, Russell fa un passo in più: pur continuando ad annettere alla logica pura la teoria delle classi e delle relazioni in estensione, egli considera anche le classi e le relazioni in estensione come entità ontologicamente dubbie, ontologicamente riducibili a entità non revocate in dubbio (proposizioni prima, attributi poi). Ovviamente, in quest’ultimo caso la riduzione non può — pena un circolo vizioso — avvenire per via insiemistica, ed è quindi effettuata da Russell con un metodo diverso, che gli fu dapprima suggerito dalla sua teoria delle descrizioni definite del 1905. Il metodo consiste nel reinterpretare tutti gli enunciati contenenti apparenti riferimenti a classi o relazioni in estensione come enunciati che contengono solo riferimenti a entità considerate ammissibili, mantenendone il valore di verità. Russell considera anche quest’ultimo genere di riduzione come una “costruzione logica”. Russell scoprì l’importanza del rasoio di Occam lavorando sui fondamenti della matematica, ma dal 1912 applicò estesamente questo principio anche nella sua teoria del mondo fisico.!® Egli ricorda: Quando, [...], dopo il 1910, ebbi fatto tutto ciò che mi ero Proposto di fare riguardo alla matematica pura, cominciai a occuparmi

del mondo fisico e, soprattutto sotto l'influenza di Whitehead,[!"] fui condotto a nuove applicazioni del rasoio di Occam, di cui ero diventato un devoto per la sua utilità nella filosofia dell’aritmetica.!°°

Mi soffermerò più avanti sull’epistemologia di Russell, ma una brevissima anticipazione potrà illustrare le analogie che egli vide tra il metodo da applicare nei fondamenti della matematica e quello da applicare nei fondamenti della fisica. In Our Knowledge of the External World (1914), Russell spiega così il rasoio di Occam: [...] la massima che ispira tutta la filosofia scientifica, cioè il “rasoio di Occam”: Le entità non si devono moltiplicare senza neces-

sità. In altre parole, trattando qualsiasi argomento, trovate quali entità siano innegabilmente implicate, e formulate tutto riferendovi a queste entità. Molto spesso l’asserzione risultante è più complicata e difficile di quella che, come il senso comune e la maggior parte della filosofia, assume entità ipotetiche nella cui esistenza non c’è nessuna buona ragione di credere. [...] ma è un errore supporre che ciò che è più facile e naturale da pensare sia più libero da assunzioni gratuite [.. piRi

Le entità che Russell considera innegabili, nella nostra conoscenza del mondo esterno, sono gli “aspetti” o le “apparenze” sotto i quali — diremmo comunemente — una “ cosa”, cioè un oggetto fisico ordinario, come una montagna, un tavolo o una sedia, ci si presenta nella percezione sensoriale. Nel periodo tra il 1914 e il 1921, Russell sostiene che le “cose” si possano ridurre a costruzioni insiemistiche a partire dai loro “aspetti” o “apparenze”. In estrema sintesi, Russell sostiene che uno stato momentaneo di una “cosa” — egli parla spesso, in questo caso, di “cose momentanee” — si può identificare con la classe di tutti gli “aspetti’’, o “apparenze” che essa presenta, o presenterebbe, da tutti i punti di vista possibili: «Una cosa fisica consiste, in ogni istante, dell’intero insieme dei suoi aspetti in questo istante [...]; così, uno stato momentaneo

di una cosa è un intero insieme di aspetti».!®® In

proposito, Russell spiega:

°8 Sulla teoria russelliana delle descrizioni definite v. sotto, cap. 7.

°° V,, per es., Russell [1914d], $ VI, p. 156. 100 In “The relation of sense-data to physics” (1914), Russell scrive che il rasoio di Occam è «la suprema massima della filosofia scientifica» (Russell [1914d], $ VI, p. 155). Con “filosofia scientifica”, egli intende evidentemente la filosofia della scienza — così come con “filosofia matematica” (v. Russell [1919a]) intende ciò che oggi chiameremmo piuttosto “filosofia della matematica”.

!0! Russell attribuì sempre a Whitehead l’idea di concepire il mondo esterno come una costruzione logica, anziché come un’inferenza: v. Russell [1914a], prefazione, p. 8 (1° ediz., p. vi), Russell [1914d], $ VI, p. 157, Russell [1922], p. 131, e Russell [1959], cap. 1, p. 12, e cap. 9, p. 103. Senza dubbio, nell’autunno del 1913 Whitehead suggerì a Russell una tecnica per costruire punti e istanti, rispettivamente, come classi di volumi e classi di eventi (v. sotto, cap. 3, alla fine del $ 13.1.2). In My Philosophical Development (1959), Russell dichiara: «Il metodo di Whitehead di costruire i punti come classi [...] fu un grande aiuto per me nell’arrivare alla teoria precedente [ Russell ha appena

finito di descrivere la sua teoria costruzionista del mondo esterno del 1914]» (Russell [1959], cap. 9, p. 108). Ma non ci sono conferme testuali di altre possibili influenze di Whitehead sul costruzionismo di Russell, né di un ruolo di Whitehead nella sua nascita, che risale al

saggio russelliano del 1912 “On matter” (v. Russell [1912f]). Sajahan Miah, nel suo libro sulla teoria della percezione di Russell, ne con-

clude che Whitehead non ebbe in realtà alcuna parte nella nascita del costruzionismo russelliano (v. Miah [1998], $ 4.4, pp. 107-109). A meno che Whitehead non abbia influenzato Russell attraverso contatti verbali, sembra in effetti di dover concludere che l’idea costruzioni: sta sia sorta in Russell in modo indipendente, e che fu solo nel suo sviluppo fattivo, a partire dal 1914, che Russell fu influenzato dalla co-

struzione dei punti e degli istanti elaborata da Whitehead.

102 Russell [1959], cap. 1, p. 12. 103 V. sotto, CAPAMUFISISEZE

'°* Russell [1914a], lecture IV, p. 112 (1° ediz., p. 107). V. anche Russell [1914d], $ VI, p. 156. !05 Russell [1914a], lecture IV, p. 117 (1° ediz., p.111).

I fondamenti dell’aritmetica

o)

Poiché la “cosa” [momentanea] non può, senza una parzialità indifendibile, essere identificata con nessuna delle sue singole apparenze, essa viene a essere pensata come qualcosa di distinto da esse e soggiacente ad esse. Ma per il principio del rasoio di Occam,

> la classe di apparenze soddisfa gli scopi per i quali la cosa fu inventata dai metafisici preistorici cui si deve il senso comune,

l’economia richiede che dobbiamo identificare la cosa con la classe delle sue apparenze. Non è necessario negare una sostanza 0

sostrato soggiacente a queste apparenze; è solo conveniente [expedient] astenersi dall’asserire quest’entità non necessaria. La nostra procedura qui è precisamente analoga a quella che ha spazzato via dalla filosofia della matematica l’inutile serraglio di mostri metafisici dai quali era infestata.!°

Una “cosa”, considerata invece nella sua estensione temporale, è identificata da Russell con la serie dei suoi Stati, quindi con una serie di classi: «Quindi una cosa momentanea è un insieme di particolari, mentre una cosa (che può essere identificata con l’intera storia della cosa) è una serie di tali insiemi di particolari».! Così, perresri un uomo c‘°

?

DI

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.

è in realtà una serie di uomini momentanei, uno diverso dall’altro [...]. E ciò che si applica agli uomini si applica ugualmente ai tavoli e alle sedie, al sole, alla luna e alle stelle. Ciascuna di queste si deve considerare non come una singola entità persistente, ma come una serie di entità che si succedono l’una all’altra nel tempo [.. Jo

Naturalmente, definire uno stato momentaneo di una “cosa” come la classe dei suoi aspetti, e una “cosa” come la serie dei suoi stati momentanei è circolare, ma Russell ritiene che sia possibile riformulare queste definizioni in modo non circolare, facendo ricorso alle “leggi della fisica”, prese però come leggi applicate non alle “cose”, ma alle loro “apparenze” o ai loro stati momentanei.'°°

3.4. ADEGUATEZZA DELLA DEFINIZIONE DI “NUMERO CARDINALE” 3.4.1. CIRCOLARITÀ? A prima vista, dire che “Un numero cardinale è il numero cardinale di una classe” sembra oziosamente circolare. Ma, se si tengono presenti le definizioni russelliane, l’impressione svanisce: infatti, ciò che l’espressione “il numero cardinale di una classe” denota non è altro che la classe di tutte le classi che hanno lo stesso numero cardinale della classe data; e il significato di “avere lo stesso numero cardinale” è precisabile, grazie alle idee di Cantor, senza presupporre che si sappia già che cosa sia un numero: ‘avere lo stesso numero cardinale” significa lo stesso di “essere cardinalmente simili”. Prima di esaminare il modo in cui Russell definisce la similitudine cardinale, è necessario premettere alcune de-

finizioni. Il dominio (domain) di una relazione R, è l'insieme dei termini che hanno la relazione R con un altro termine: cioè come la classe degli x tali che esiste un y con cui x ha la relazione R.!!° Per denotare il dominio della relazione R, nei Principia è usato il simbolo “DR”, che si legge: “Il dominio di R”; si ha dunque, in simboli: D‘R=ar *(Ay)(Ry)).

qualR è l'insieme dei termini con i quali domain), o codominio, di una3) relazione Il dominio inverso (converse CS 111 a È È

5 È Per deche termine ha la relazione R: cioè come la classe degli y tali che esiste un x che ha la relazione R con y. *R”, che si legge: “il dominio innotare in dominio inverso della relazione R, nei Principia è usato il simbolo“

verso di R”; abbiamo dunque:

CA'R=s $(Ev(ARy)). 106 Russell [1914d], $ V, p. 155. 107 Russell [1921a], lecture VII, p. 126. V. anche Russell

108 Russell [1915], p. 129...

[1918-19], $ VII, p. 274.

De

ediz., p. 108-110), e Russell !09 v_, per es., Russell [1914a], lecture III, p. 96 (1° ediz., p. 89), Russell [1914a], lecture IV, p. 113-116 (1° [1921a], lecture VII, p. 126. Russell [1919a], cap. 4, p. 32. 110 V_ Russell [1901e], $ 1, p. 5; Russell [1903a], $ 96, p. 97; [PM], vol. I, introduzione, cap. 1, pp. 33-34;

4, p. 32. Ill v Russell [1901e], $ 1, p. 5; Russell [1903a], $ 96, p. 97; [PM], vol. I, introduzione, cap. 1, p. 34; Russell [1919a], cap.

98

capitolo 2

Russell chiama poi campo (field) di una relazione R la classe formata dall’unione del dominio e del dominio inverso di R.!!° Per denotare il campo di R, nei Principia è usato il simbolo “CR” (dove la lettera

“C” rappresenta

l’iniziale del latino campus). La definizione del “campo di R” è dunque la seguente: x

CR=DROCTR “Il campo di R è uguale, per definizione, all’unione del dominio e del codominio di R”. Poiché l’unione di due classi @ e £ è uguale, per definizione, alla classe degli x che appartengono a @ 0 a f, in simboli QU Pza *(xe

avxe B)!* e tenuto conto del teorema dei Principia che stabilisce che x e î (#2) = wx (cioè, “x appartiene alla classe degli x che sono y se e solo se x è un Y° ),!° a partire dall’ultima definizione, si ha il teorema seguente:

C‘R= £(Ay)(Ry v yRo),!!° che afferma che il campo di R è la classe degli x che hanno la relazione R con qualche y e degli x con i quali qualche y ha la relazione R. Così, per esempio, se R è la relazione fra marito e moglie, il dominio della relazione è la

classe dei mariti, il dominio inverso la classe delle mogli e il campo la classe di tutte le mogli e di tutti i mariti, cioè di tutte le persone coniugate. Possiamo ora comprendere la definizione di similitudine cardinale che Russell offre negli scritti successivi ai Principles:

«Una classe si dice essere “simile” [similar] a un’altra quando c’è una relazione uno-uno di cui una classe è il 3 SE er: 117

dominio, mentre l’altra è il dominio inverso».

Secondo questa definizione, due classi a e f hanno lo stesso numero cardinale se e solo se esiste una relazione biunivoca K — detta correlatore tra ae B— tale che a è uguale al dominio di K, e Sè uguale al dominio inverso di K; in simboli: (1)

a sm

B=(3K)(Ke

ila

DR

laddove il simbolo “1 + 1°” denota — secondo la simbologia dei Principia — la classe delle relazioni biunivoche o, come preferisce dire Russell, delle relazioni uno-uno.

Riassumendo: la definizione di “numero cardinale” dipende dalla definizione della similitudine cardinale e questa definizione, a sua volta, è fondata sulle relazioni biunivoche, o uno-uno. Una relazione biunivoca. o uno-uno.

tra gli elementi di due insiemi è una relazione che a ciascun elemento di un insieme fa corrispondere uno e uno solo dell’altro insieme. Limitarsi a definire una relazione biunivoca in questo modo, tuttavia, non andrebbe bene, perché questa definizione richiede di sapere già che cosa significhi “uno”, e quindi, in definitiva, utilizzare la no-

pi VIDA. 1!3 Anche se nell’introduzione dei Principia quest’uguaglianza è presentata, per semplicità, come una definizione, propriamente si tratta di un teorema dei Principia (v. vol. I, +33.16). La stessa cosa vale per le definizioni di “dominio” e “dominio inverso” di una relazione date sopra: anche queste uguaglianze, sebbene presentate nell’introduzione come definizioni, sono, in realtà, teoremi dei Principia (v., vol. I, *33.11 e *33.111). Infatti, i simboli realmente definiti sono “D”, “A”, “C” (v. vol. I, +33.01, *33.02, *33.03): D è la relazione che vale tra

ae Rsee

solo se @è la classe degli x tali che esiste un y con cui x ha la relazione R; CI è la relazione che vale tra Be Rseesolo se Bè la

classe degli y tali che esiste un x che ha la relazione R con y; C è la relazione che vale tra ye R se e solo se yè la classe degli x tali che esiste un y con cui x ha la relazione R o che ha con x la relazione R. “D‘R”, “CR”, “CR” sono esempi di quelle che Russell chiama funzioni descrittive (v. sopra, nota 79 e sotto, cap. 7, $ 4).

114 V. [PM], vol. I, #22.03. !!° V_ [PM], vol. I, #20.3. !!© V. [PM], vol. I, 33.112.

'!” Russell [1919a], cap. 2, p. 16; corsivo di Russell.

!!8 V. [PM], vol. I, #73.1.

I fondamenti dell’aritmetica

99

zione di relazione biunivoca per definire i numeri cardinali significherebbe definire i numeri cardinali presupponendo di aver già definito il numero 1: in breve, ci si chiuderebbe in un circolo vizioso.

Tuttavia una relazione uno-uno si può benissimo definire senza presupporre affatto il numero 1. Russell la definisce come segue: Una relazione si dice “uno-uno” quando, se x ha la relazione in questione con y, nessun altro termine x'ha la stessa relazione con y, e x non ha la stessa relazione con nessun altro termine y' diverso da y. Quando è soddisfatta solo la prima di queste due condizioni,

la relazione si dice “uno-molti”; quando è soddisfatta solo la seconda, si dice “molti-uno”.!!°

Una corrispondenza uno-uno si può dunque definire come una relazione che è insieme uno-molti e molti-uno tra due insiemi d’elementi. Una relazione R è uno-molti se e solo se, qualora sia x sia x; abbiano la relazione R con y, si ha x = x1. Una relazione è molti-uno se e solo se, qualora x abbia la relazione R sia con y sia con y}, si ha

y= yi. Denotando —

secondo la simbologia dei Principia —

la classe delle relazioni uno-molti con il simbolo

“I + Cs” e la classe delle relazioni molti-uno con il simbolo “Cls > 1”, abbiamo, in simboli:

Rel Cls=M0)(x)(RyAx;Ry>x=x;), Re Cls->1=) 0) GRy A xRy 39y=v), RATORI CRE Quindi, come scrive Russell, «è possibile, senza la nozione di unità, definire ciò che s’intende per una relazione

uno-uno »:' non vi è qui nessun circolo vizioso. Nei Principles, Russell propone già — verbalmente — la definizione (1) di similitudine cardinale, affermando che ciò che si richiede perché due classi siano cardinalmente simili è «che vi debba essere qualche relazione unouno il cui dominio è una classe e il cui dominio inverso è l’altra classe».'?* Subito dopo, però, gli sembra di scorgere, in tale definizione, una difficoltà che ne richiede una modifica. Egli scrive: Ma per comprendere anche il caso di due classi che non hanno termini [cioè, elementi], è necessario modificare leggermente la precedente spiegazione di ciò che s’intende dicendo che due classi hanno lo stesso numero. Perché se non vi sono termini, i termini non possono essere correlati uno a uno. Noi dobbiamo dire: Due classi hanno lo stesso numero quando, e solo quando, esiste una relazione uno-uno il cui dominio include una classe, e tale che la classe dei correlati dei termini di questa classe sia identica all’altra

classe.!?°

La traduzione in simboli della definizione finale di similitudine cardinale proposta nei Principles sarebbe la seguente:

(2)

asm B=(AK)(Ke

1>11acCD'KA

$(MQKyAxe

a) =);

oppure, in modo equivalente: asmB=(AK)(Ke

1>11@Mxe

apre

D'K)AM)MKy

Axe

0)=ye

12)

Russell osserva: Da ciò appare chiaro che due classi che non hanno termini hanno sempre lo stesso numero di termini; infatti, se noi prendiamo una qualsiasi relazione uno-uno, il suo dominio include la classe nulla, e la classe dei correlati della classe nulla è di nuovo la classe nulla.!?°

!19 120 121 !22

Russell [1919a], cap. 2, p. 15. V. anche: Russell [1901e], $ 1, pp. 8-9; [1903a], $ 109, p. 113; [PM], vol. I, #71.103. V_ [PM], vol. I, #71.17. V_ [PM], vol. I, #71.171. V_ [PM], vol. I, #71.103.

!23 124 125 126

Russell [1903a], $ 109, p. 113. Ibid. Ibid. Ibid.

capitolo 2

100

nella deNon si può muovere nessun’obiezione alla definizione (2).!” Tuttavia, la difficoltà rilevata da Russell carnumero stesso lo abbia vuoto l’insieme che finizione (1) è fittizia. Infatti, anche la definizione (1) garantisce che relazione una cioè vuota, diadica dinale di se stesso: questo deriva semplicemente dal fatto che una relazione relauna di Invece uno-uno”. non sussiste mai tra nessuna coppia di oggetti, soddisfa la definizione di “relazione zione diadica vuota in intensione, possiamo prendere la relazione diadica vuota in estensione, cioè la classe di tutte le coppie ordinate che non contiene nessuna coppia ordinata. La relazione vuota in estensione, simboleggiata da “A”, si può definire come segue:

À =u 9 -@=xAy=9), cioè: “La relazione vuota in estensione è uguale, per definizione, alla classe di tutte le coppie ordinate (x, y) tali che sia falso che x e y siano uguali a se stessi”. E evidente che À non potrà avere nessun elemento. È facile vedere che A è sia uno-molti sia molti-uno, infatti:

AZSISCs=

MYA

rrAyD5

=)

è vera poiché x À y A x; À y è sempre falso e

A

CS

1=MPMNAAyaxAy

3 y=v),

è vera poiché x À y A xÀ yi è sempre falso. Dunque ei S

Così, se

.

x

.

2 e f sono la classe vuota, si può dire che

130

a sm PB."

.

z

.

poiché la relazione vuota

i

A

x

sarà un correlatore

tra 2 e 2. Evidentemente, Russell si accorse di questo, come testimonia che, dopo i Principles, egli adotterà la definizione (1) al posto della (2).

3.4.2. NIENT'ALTRO CHE LOGICA? Che nella sua definizione logica di “numero cardinale” — così come nelle definizioni delle nozioni matematiche che incontreremo più avanti — Russell si serva liberamente della quantificazione su insiemi può lasciare perplesso il lettore contemporaneo. Da molti decenni, la maggior parte dei filosofi e dei logici ritiene che l’ambito della logica vera e propria sia ristretto alla cosiddetta “logica del primo ordine” con identità, mentre le logiche di ordine superiore e la teoria delle classi farebbero parte della matematica." 12? Tra l’altro, questa è la definizione di similitudine cardinale usata in Carnap [1954], $ 19.

18 V. [PM], vol. I, +25.02. 12° V. [PM], vol. I *72.1. 150 V. [PM], vol. I, #73.46. 13! Una nota terminologica. Un linguaggio si dice del primo ordine se fa uso solo di variabili per individui del dominio di discorso (qualunque genere di entità s’intenda con “individuo”’); detto altrimenti: in un linguaggio del primo ordine le posizioni occupate dai predicati, negli enunciati, non sono accessibili alle variabili. Un linguaggio si dice del second’ordine se in esso sono presenti, oltre alle variabili individuali, anche variabili predicative che variano su proprietà (monadiche e/o poliadiche) di individui. In un linguaggio del ferz'ordine sono presenti, oltre a quelle già menzionate, anche variabili per proprietà (monadiche e/o poliadiche) di proprietà di individui. Si può proseguire in questo modo definendo linguaggi del quarto, del quinto, ..., dell’n-esimo ordine. Se non interessa distinguere tra proprietà coestensive, sì possono prendere come valori delle variabili predicative, al posto delle proprietà monadiche o poliadiche, classi o relazioni in estensione. Per linguaggio di ordine superiore s'intende un linguaggio che sia almeno del second’ordine. Si parla anche di espressioni del primo, secondo, terzo ordine, ecc., nel senso ovvio di espressioni che si possono considerare come appartenenti, al minimo, a un linguaggio rispettida, vamente del primo, secondo, terzo ordine, ecc. Nel presente libro, con le locuzioni “linguaggio del second’ordine”, “linguaggio di ordine superiore”, ecc., mi riferisco sempre alle interpretazioni standard di tali linguaggi, vale a dire le interpretazioni secondo cui: le variabili del second’ordine (cioè che variano su proprietà, monadiche o n-adiche, con n> 1, di individui) sono intese variare su tuzte le proprietà (rispettivamente, monadiche o n-adiche), o tutte le classi di oggetti, o di n-uple ordinate di oggetti, dell’universo di discorso (dominio del modello); le eventuali variabili di ordine m-esimo,

con m > 2, (che variano su proprietà, monadiche o n-adiche, di proprietà, monadiche o poliadiche) sono intese variare su tutte le proprietà (o tutte le classi, o tutte le classi di n-uple ordinate) dei valori delle variabili di ordine minore dell’m-esimo (oppure, in una versione più limitativa, su tutte le proprietà (0 tutte le classi, e tutte le classi di n-uple ordinate) dei valori delle variabili dell’ — 1-esimo ordine). Le interpretazioni, invece, in cui le variabili che variano su proprietà di determinate entità non variano su tutte le loro proprietà, ma solo su

I fondamenti dell’aritmetica

101

Abbiamo parlato di logica del primo ordine con identità (una locuzione che abbrevia “con l’aggiunta della teoria dell’identità”), perché la nozione di “identità” non è definibile nella logica del primo ordine, e dev’esservi introdotta come nozione primitiva, le cui proprietà siano definite da alcuni assiomi:

(i) x=x (riflessività totale dell’identità); (ii) x=y=y=x(simmetria dell’identità); (iii) x=yAz=yDx=z (transitività dell’identità); (iv) x=y A Fx> Fy (sostitutività dell’identità o indiscernibilità degli identici). (Nella logica del primo ordine (iv) non è propriamente un assioma, ma uno schema d’assiomi che sintetizza tutti gli assiomi ricavabili da (iv) sostituendo predicati alla lettera schematica “F ”.) Gli assiomi elencati non sono, in realtà, indipendenti, e quindi non sono tutti necessari: assumendo (1) e (iv), infatti, è facile dimostrare (ii) e (iii). Non esiste invece una logica di ordine superiore senza identità, perché usando una logica di ordine superiore

(e/o una teoria degli insiemi) l’identità si può definire come fece Russell: stabilendo cioè che “x è identico a y” significhi “x e y appartengono alle stesse classi, oppure, hanno tutte le medesime proprietà”;' in simboli: (1)

x=y=a(0)(xe

ap3ye

O),

14

oppure:

alcune, sono dette “interpretazioni di Henkin”, e i modelli (v. sotto, nota 139) corrispondenti sono detti “modelli di Henkin”: questi ultimi modelli, interpretano in effetti un linguaggio di ordine superiore come un linguaggio del primo ordine con diversi stili di variabili. Le logiche del primo, del secondo, del terzo ordine, ecc., sono calcoli logici espressi, rispettivamente, in un linguaggio del primo, del secondo, del terzo ordine, e così via (una logica di ordine superiore è qualsiasi calcolo logico espresso in un linguaggio almeno del second’ordine). Una logica del primo ordine ha dunque solo assiomi e regole di deduzione logici espressi in un linguaggio del primo ordine. Le teorie (0 sistemi formali) si dicono del primo, secondo, terzo ordine, ecc., se inglobano una logica, rispettivamente, del primo, del secondo, terzo ordine, ecc. Una teoria del primo ordine è espressa dunque in un linguaggio del primo ordine e ha, oltre ad assiomi logici e regole di deduzione logiche, un insieme di assiomi non logici, che caratterizzano la teoria stessa. La terminologia risale a Peirce, il quale distingueva tra “proposizioni del primo ordine”, in cui è presente solo una quantificazione su individui, e “proposizioni del secondo ordine”, in cui è presente una quantificazione su attributi monadici o poliadici (v. Peirce (ed.) [1883], “Note A”, pp. 184-185), e, parallelamente, distingueva tra una first-intentional logic (v. Peirce [1885], $ III), una second-intentional logic (v. Peirce [1885], $ IV). La terminologia di Peirce s1 è poi diffusa soprattutto per il tramite dell’influente Lòwenheim [1915] (v. sotto, nota

141). 132 Nei Principles, Russell formula la definizione sia termini di classi — “x è uguale a y” significa “y appartiene a tutte le classi cui appartiene x” (v. Russell [1903a], $ 24, p. 20, e $ 26, p. 23) —, sia in termini di funzioni proposizionali (cioè di proprietà) (v. Russell [1903a], $ 338, p. 356). Si osservi che, a quel Primo Congresso Internazionale di Filosofia (Parigi, 1900) che tanto influenzò lo sviluppo del logicismo russelliano, Burali-Forti aveva già proposto la seguente definizione: «Diciamo che x= y, nel solo caso in cui “ogni classe che contiene x contiene anche y”, oppure “ogni proprietà di x è anche una proprietà di y”» (Burali-Forti [1901], $ I, p. 292; corsivo di Burali-Forti).

Prima di Burali-Forti, Peirce aveva definito l'identità nello stesso modo — cioè come condivisione di tutte le proprietà 0 appartenenza alle stesse classi (v. Peirce [1885], $ IV, p. 199). Poco dopo Peirce, anche Frege aveva caratterizzato l'identità in termini molto simili. Più

accuratamente, nei Grundgesetze der Arithmetik Frege non definisce l'identità, ma l’uso del segno “=” è governato dall’assioma (III) dei Grundgesetze, equivalente a (x)(y)((x=y)=(@)(9x> @y)) (v. Frege [1893-1903], vol. I, $ 20, p. 36). Sull’assioma (III) dei Grundgese-

tze, e sulle ragioni per cui Frege non lo considera una definizione di identità, v. sotto, cap. 5, $ 1. Dopo il 1907, la definizione russelliana di identità è formulata sempre in termini di funzioni proposizionali, perché Russell adotta teorie nelle quali non si assume l’esistenza di classi. 133 Non vi è, naturalmente, nessun circolo vizioso in definizioni di questa forma: non si definisce l’uguaglianza assumendo di sapere che cosa sia l’uguaglianza; ma si definisce l’uguaglianza assumendo l’uguaglianza per definizione: il segno “=4f° non ha lo stesso significato

del simbolo ‘=’ che dev'essere definito: il primo è un segno metalinguistico, ha un verso (da sinistra a destra) e esprime una stipulazione riguardo a certi simboli del linguaggio; mentre il secondo è un segno appartenente al linguaggio oggetto, non ha un verso preferenziale, ed esprime un’identità tra gli oggetti designati dai simboli che si trovano alla sua sinistra e alla sua destra. 134 Se si ammette che ogni classe @ abbia un complemento — come certamente accade nella teoria intuitiva degli insiemi — non occorre porre la definizione nella forma: x=yY=sx(@Oe a=ye 0) e, perché, se y appartiene a una classe & ed è vero il definiens della (1), anche x deve appartenere ad «. Infatti, se x non appartenesse ad 4, allora apparterrebbe alla classe delle cose che non appartengono ad 4 e dunque, stando al definiens della (1), anche y apparterrebbe a que1’ sta sta classe, cosa che è contro l’ipotesi. L’adeguatezza della definizione di identità come appartenenza alle stesse classi si intuisce quando si pensi che, se x e y appartengono alle stesse classi, allora x apparterrà anche alla classe il cui solo membro è y, e viceversa.

capitolo 2

102

(2) x=y=4(P)(0xD Py).

135

Da ciascuna di queste definizioni si possono facilmente dedurre le proprietà d-(iv).!99 L’uso di una logica di ordine superiore e/o di una teoria delle classi non è una semplice opzione, per il logicismo, ma una necessità: le definizioni logiciste richiedono una quantificazione su proprietà, o su classi. Se dunque l’ambito della logica si considera ristretto alla logica del primo ordine con identità, la tesi logicista è (banalmente) confutata. Può dunque apparire sorprendente che Russell — come Frege prima di lui — non offra specifiche argomentazioni a favore dell’inclusione di una logica di ordine superiore e/o di una teoria delle classi nell’ambito della logica vera e propria. Tale circostanza ha, tuttavia, una spiegazione storica. Come ha spiegato in più occasioni Willard V. Quine, sincronicamente le logiche di ordine superiore si possono vedere come estensioni di quella del primo ordine, ottenute permettendo che, oltre alle variabili individuali, possano entrare nei quantificatori anche le lettere predicative. Di qui, si può ottenere una teoria delle classi identificando i valori delle variabili predicative con classi, anziché con proprietà, oppure derivando le classi dalle proprietà con qualche principio che stabilisca che proprietà coestensive identificano la medesima classe. Storicamente, tuttavia, le logiche di ordine superiore e non nacquero come estensioni della logica del primo ordine; all’opposto, fu quest’ultima a vedere la '’”E questo non può meravigliare, se si luce come sottosistema di una logica più inclusiva, di ordine superiore. considera che una delle suddivisioni della logica tradizionale riguardava lo studio dei concetti, dei quali si distingueva un’intensione e un’estensione (l’idea di “classe”), e che un’altra parte della logica tradizionale riguardava il giudizio, tipicamente della forma soggetto-predicato, in cui la copula “è” — considerata, dai tempi di Aristotele, una particella logica — era intesa come asserente anche un rapporto di appartenenza dell’estensione di un concetto individuale

all’estensione

di un

altro,

o di inclusione

dell’estensione

di un

concetto

non

individuale

nell’estensione di un altro. Il primo a considerare un sistema logico del primo ordine fu Leopold Lòwenheim, in un articolo'* nel quale proponeva una dimostrazione (di fatto, lacunosa) di parte di quello che oggi è noto come teorema di LòwenheimSkolem, il quale afferma — nella sua generalità — che ogni sistema assiomatico del primo ordine che ammette un modello infinito, ammette un modello infinito numerabile, e che ogni sistema assiomatico del primo ordine che ammette un modello numerabile, ammette anche un modello non numerabile per ciascun alef maggiore di No (as-

135 In Russell [1908] ($ VI, p. 85) e in [PM] (vol. I, 13.01) è in realtà formulata così: x=Y=ar(P)(P!xD @!y), dove il punto esclamativo tra il segno di funzione e il segno di argomento sta a significare che la funzione dev'essere predicativa: si tratta di una complicazione dovuta alla teoria ramificata dei tipi su cui per ora non ci soffermiamo (v. sotto, capp. 9 e 11). 136 V_ [PM], vol. I, *13.15 (riflessività totale dell’identità), *13.16 (simmetria dell’identità), *13.17 (transitività dell'identità), *13.13 (sosti tutività dell’identità o indiscernibilità degli identici). Che le proprietà (i), (11) e (iti) della relazione di identità seguano dalla definizione in termini di appartenenza alle medesime classi, o di condivisione delle medesime proprietà, è già rilevato da Burali-Forti nella sua relazione al Primo Congresso Internazionale di Filosofia, Parigi, 1900 (v. Burali-Forti [1901], $ 1, p. 292). Nello stesso contesto, Burali-Forti osserva

che non si può derivare la definizione di identità dalle sole proprietà (1)-(iii), perché queste ultime valgono anche «se al posto di = poniamo: ii è equivalente, è simile...» (Burali-Forti [1901], $ I, P. 293), cioè, valgono per qualsiasi relazione di equivalenza. “*

Si vedano, in proposito, G. H. Moore [1980], [1988] e [1997], Shapiro [1991], $ 7.2.1, Eklund [1996], Ferreirés [2001].

138 V. Lowenheim [1915].

15° Un modello è un’interpretazione semantica estensionale di un linguaggio che rende vero un certo insieme di enunciati: così, un modello di un enunciato è un’interpretazione che lo rende vero, un modello di una classe di enunciati è un’interpretazione che li rende tutti veri, un modello di una teoria è un’interpretazione ne rende veri tutti gli assiomi (e dunque tutti i teoremi). Formalmente, un modello di una teoria espressa in un linguaggio del primo ordine L si può descrivere come una coppia ordinata (D, 7), in cui D è una classe non vuota, detta dominio (0 universo di discorso) del modello, su cui variano le variabili individuali di L, e / è una funzione (detta funzione interpretazione)

che assegna: uno e un solo individuo di D a ogni costante individuale di L; una classe di individui di D a ogni predicato monadico di L; una classe di n-uple ordinate di D a ogni predicato n-adico di L; una funzione che, prendendo per argomenti individui di D, dà per valore un individuo di D a ogni simbolo funzionale di L. Se la teoria del primo ordine è con identità, la funzione / assegna una classe di n-uple ordinate di D a ogni predicato n-adico di L tranne che al predicato diadico “=”, e assegna a “=” la relazione di identità trà elementi di D (si vuole con ciò garantire che l’interpretazione della costante predicativa “=”, al contrario dell’interpretazione degli altri predicati di L, rimanga

costante). Si può facilmente estendere questa nozione di modello alle teorie formulate in un linguaggio del second’ordine, stabilendo chele variabili del second’ordine (predicative) monadiche varino su tutte le classi di elementi di D e le variabili del second’ordine poliadiche varino su tutte le classi di n-uple ordinate di elementi di D. (Quella appena descritta è l’interpretazione standard di un linguaggio del second’ordine; i cosiddetti “modelli di Henkin” contengono, oltre al dominio D, domini separati per le variabili del setnd'orndine interpretano in effetti un linguaggio del second’ordine come un linguaggio del primo ordine con diversi stili di variabili.) La cardinalità di un modello è la cardinalità del suo dominio; quindi, con “modello finito”, “modello infinito”, “modello numerabile”, ecc., si intende un modello il cui dominio sia finito, infinito, numerabile, ecc. Il termine “modello” fu introdotto in logica matematica da John von Neumann parte I, $ 4, e si diffuse attraverso Weyl [1927] (in proposito, v. Mancosu, Zach e Badesa [2009], $ 8.1.2, pp. 420-421).

in [1925] La

I fondamenti dell’aritmetica

103

sumendo l'assioma di scelta — che implica che tutti i cardinali infiniti sono alef — si ha dunque che ogni sistema assiomatico del primo ordine che ammette un modello numerabile, ammette un modello per ciascuna cardinalità infinita). Sebbene il teorema dimostrato da Léwenheim!"° si applichi solo ai linguaggi le cui espressioni (ZaAlausdriicke) non contengono altre variabili quantificate che quelle che variano su individui — cioè, ai linguaggi del primo ordine —, nella dimostrazione Lòwenheim faceva ampio ricorso alle risorse di una logica più inclusiva, il cui linguaggio comprende anche espressioni (Relativausdriicke) con variabili quantificate che variano su relazioni — cioè, di una logica di ordine superiore." Nel 1920 e nel 1922, Thoralf Skolem offrì nuove dimostrazioni del teorema, colmando le lacune della dimostrazione di Lòwenheim, e facendo uso solo delle risorse di quella che 0ggi chiameremmo “logica del primo ordine”.! A partire dalle sue lezioni all’Università di Berlino del semestre invernale 1917-18, anche Hilbert distinse, all’interno di una logica più inclusiva (di ordine superiore) un sottosistema del primo ordine, che chiamò “calcolo funzionale ristretto”(der engere Funktionenkalkiil), che egli riteneva sufficiente per lo sviluppo delle singole teorie matematiche assiomatiche, ma inadeguato per una teoria fondazionale, per la quale egli riteneva necessario il “calcolo funzionale esteso” (der erweiterte Funktionenkalkiil).! 11 libro di Hilbert e Ackermann del 1928 Grundztige der theoretischen Logik — in buona parte basato sulle lezioni di Hilbert del semestre invernale 1917-18 — è il primo trattato di logica in cui il “calcolo funzionale ristretto” riceve un trattamento come sistema separato.'* La dizione hilbertiana “calcolo funzionale ristretto” è ripresa pelancolo del 1930 in cui Gédel dimostra il suo teorema di completezza semantica della logica del primo ordine, ed è utilizzata negli stessi anni da Carnap.'‘° Negli anni Trenta, Hilbert e Bernays sostituiscono il termine Funktionenkalkiil con Pridikatenkalkiil, cosicché “der engere Funktionenkalkiil” diviene “der engere Pridikatenkalkil”, “il calcolo dei predicati ristretto”?! 14° V. Lòwenheim [1915], $ 2, teorema 2, pp. 235-240. Il teorema dimostrato da Lòwenheim è oggi di solito enunciato come segue: “Se un enunciato del primo ordine (Lòwenheim ammette anche enunciati contenenti un numero infinito numerabile di variabili quantificate e di simboli di relazione) ha un modello, ha un modello finito o un modello infinito numerabile”. Se si considera il converso di quest’enunciato, cioè “Se un enunciato del primo ordine non ha nessun modello finito e non ha un modello infinito numerabile, non ha un modello”, e invece di un enunciato a piacere si considera la sua negazione, si vede che la precedente enunciazione del teorema di L6wenheim equivale all’asserzione seguente: “Se un enunciato del primo ordine vale in tutti i modelli finiti e infiniti numerabili, allora è valido” — che è un’altra enunciazione del suddetto teorema. 14! Lòwenheim si serviva della notazione di Peirce-Schréder, nella cui tradizione si era formato. Nel suo articolo del 1915, egli riprende in parte la terminologia peirciana (v. sopra, nota 131) parlando di dominio del primo ordine (Denkbereich der ersten Ordnung), per indicare l’insieme delle entità cui si interpretano i simboli che rappresentano individui, e di dominio del secondo ordine (Denkbereich der zweiten Ordnung), per indicare l’insieme di tutte le coppie ordinate di individui del dominio del primo ordine, su cui si interpretano i simboli che rappresentano relazioni tra individui del dominio del primo ordine. 14 Nel 1920 Skolem dimostra —

facendo uso in modo essenziale dell’assioma di scelta (sull’assioma di scelta, v. sotto, cap. 4, $ 4) —

dapprima che se un enunciato del primo ordine ha un modello infinito, M, ha un sottomodello di M infinito numerabile (un sottomodello di un modello dato M ha un dominio che è un sottoinsieme del dominio di M e una funzione interpretazione che assegna ai predicati e funzioni del linguaggio L la medesima interpretazione di M, ristretta però al nuovo dominio); poi estende questo risultato dimostrando lo stesso vale anche per un insieme finito o numerabile di enunciati (ciascuno dei quali può contenere un numero finito o infinito non

M” alle che nu-

merabile di predicati e un numero finito o numerabile di variabili individuali quantificate) (v. Skolem [1920], $ 1). La seconda dimostra-

zione di Skolem non fa uso dell’assioma di scelta, e prova che se un insieme finito o numerabile di enunciati di una teoria del primo ordine (senza identità) ha un modello infinito, ha anche un modello il cui dominio è dato dai numeri naturali (quindi infinito numerabile) (v. Skolem [1923], punto 3, pp. 293-294). Generalizzazioni del teorema di Lòwenheim-Skolem si ebbero a metà degli anni Trenta, per merito di Alfred Tarski e di Anatélij MAl’cev (v. G. H. Moore [1982], $ 4.8, pp. 257-258, e Mancosu, Zach e Badesa [2009], $ 8.6, p. 433-434).

143 Nella prima edizione del libro di Hilbert e Ackermann Grundzîiige der theoretischen Logik si legge: «Il calcolo funzionale ristretto [Der engere Funktionenkalkiil| era sufficiente se non si aveva altro scopo che la formalizzazione del ragio-

namento logico, se si trattava solo di sviluppare in un modo puramente formale dai loro principi teorie isolate. Non appena tuttavia si fanno oggetto di studio i fondamenti delle teorie, delle teorie matematiche in particolare, non appena si vuole esaminare in quale relazione essi stiano con la logica e in quale misura si possano ottenere mediante operazioni e formazioni di concetti puramente logiche, il calcolo esteso [der erweiterte Kalkiil] diviene indispensabile [unentbehrlich]» (Hilbert e Ackermann [1928], cap. 4, $ 2, p. 86).

n i Significativamente, il brano non è ripetuto nella seconda edizione del libro (v. Hilbert e Ackermann [1938]). in cui non si può quanlogica una di uso fa Weyl Hermann (1918) 144 V_ Hilbert e Ackermann [1928], cap. 3. Nel suo libro Das Kontinuum tificare su oggetti di ordine superiore, ma considera la teoria dei numeri naturali come parte di questa logica (ottenendo così un sistema più potente della logica del primo ordine) e respinge il principio del terzo escluso (che è invece parte della logica del primo ordine classica). G. H. Moore [1997], p. 76, avanza l’ipotesi che Weyl possa essere stato influenzato dalla conferenza che Hilbert tenne a Zurigo (dove Weyl all’epoca insegnava) nel settembre del 1917 (v. Hilbert [1918]).

145 V. Gédel [1930]. Sul teorema di completezza di Gòdel, v. sotto, cap. 14, $ 2. 146 V. Carnap [1931].

A.

de

è 147 V_ Hilbert e Bernays [1934-39]. In Hilbert e Ackermann [ 1938] — la seconda edizione di Hilbert e Ackermann [1928], la terminologia

i. in generale adattata a quella dell’opera di Hilbert e Bernays, cosicché Funktionenkalkiil è rimpiazzato dappertutto con Prddikatenkalki testo dal ricavata Ackermann, e Hilbert di libro del inglese traduzione nella trova si che quella L'espressione restricted predicate calculus è della seconda edizione, e uscita nel 1950.

capitolo 2

104

Il cosiddetto “programma di Hilbert”, che si proponeva di dimostrare consistenza e completezza dell’aritmetica con metodi finitistici (cioè senza mai fare ricorso a nozioni implicanti l’esistenza di un infinito attuale), ebbe una vasta influenza nel mondo matematico. Per la sua realizzazione, i seguaci di Hilbert procedettero per stadi, isolando dapprima sottosistemi — logica proposizionale, logica del primo ordine — all’interno di quella che ritenevano una “logica” più inclusiva. Ma ancora all’inizio degli anni Trenta del Novecento la maggior parte dei logici e dei matematici non dubitava che quello che Hilbert chiamava “calcolo funzionale esteso” facesse parte della logica: in effetti, durante gli anni Venti, gli unici autori che sostenevano una restrizione della logica alla logica del primo ordine erano alcuni costruttivisti, come Hermann Weyl e Thoralf Skolem (altri costruttivisti, come i seguaci di Luitzen E. J. Brouwer, rifiutavano la logica classica, anche del primo ordine). Alla restrizione dell’ambito della logica classica a logica del primo ordine cooperarono diversi fattori. Uno fu sicuramente il sospetto nei confronti delle logiche di ordine superiore indotto dai paradossi scoperti nella teoria “ingenua” degli insiemi e delle proprietà (v. sotto, cap. 4): se le nostre intuizioni sulle proprietà e sugli insiemi sono inaffidabili, perché conducono a contraddizioni, non ci si può basare, negli studi fondazionali, su teorie logiche assumenti che, con il dominio degli individui su cui variano le variabili individuali, sia dato anche il dominio di

tutte le proprietà di questi individui, o di tutte le classi cui questi individui appartengono. Questa sembra essere la ragione principale della restrizione della logica alla logica del primo ordine in Weyl e in Skolem, già tra la fine degli anni Dieci e i primi anni Venti. Un’azione decisiva nella restrizione dell’ ambito della logica esercitarono poi — all’inizio degli anni Trenta — i teoremi di Gòdel, che dimostravano come la logica del primo ordine fosse semanticamente completa, ma non lo fossero le logiche di ordine superiore (v. sotto, cap. 14, $ 2.3). Di fatto, dopo il

1930 la logica del primo ordine fu sempre più spesso identificata con la logica matematica. Ma un’influenza che è difficile sopravvalutare fu esercitata più tardi da Quine, il quale, dagli anni Cinquanta, sostenne con argomenti persuasivi che, con il passaggio dalla logica del primo ordine a una di ordine superiore, o a una teoria delle classi, si passa dall’ambito della “logica” vera e propria — semanticamente completa e libera da paradossi — a quello della matematica — in cui esistono teorie in competizione (v. sotto, cap. 14, $ 1). La posizione del Quine maturo, riguardo al confine tra logica e matematica, nella seconda metà del Novecento è divenuta standard, sebbene alcuni logici, tra i quali Alonzo Church, George Boolos e Stewart Shapiro, l’abbiano contestata. È importantissimo tenere presente che, quando Russell scriveva, nei Principles of Mathematics: «L'argomento della Logica Simbolica consiste di tre parti, il calcolo delle proposizioni, il calcolo delle classi, e il calcolo delle relazioni»,'*non enunciava una tesi controversa, né pretendeva di essere originale, ma riportava solo quelle che erano opinioni correnti, all’epoca: teoria degli insiemi e logica di ordine superiore erano generalmente considerate parte della logica; così era stato per Boole, così era per Peirce, Schròder, Dedekind, Frege e Peano, e così sarà ancora per studiosi illustri come Hilbert, Carnap, il Tarski precedente la Seconda guerra mondiale, e Church.'! Torneremo ancora, nell’ultimo capitolo, sulla questione, ancor oggi tutt'altro che risolta, dell’ambito della logica. Nel frattempo, adotteremo un punto di vista simpatetico con il logicismo, assumendo ciò che la tradizione pre-

russelliana e Russell non misero mai in dubbio, cioè che logica di ordine superiore e teoria delle classi siano parte della logica.

145 Russell [1903a], $ 13, p. 11. 149 Può essere interessante osservare che, fino agli anni Cinquanta del Novecento, lo stesso Quine considerava la teoria delle classi come parte della logica. In “New foundations for mathematical logic” (1937), egli scrive: «Si deve ammettere che la logica che genera tutto questo [l’intera matematica pura tradizionale] è uno strumento molto più potente di quella fornita da Aristotele. ud ÎSi tratta di] una logica

triplice di proposizioni, classi, e relazioni. Le notazioni primitive nei termini delle quali questi calcoli sono infine espressi non sono nozioni standard della logica tradizionale; tuttavia esse sono di un genere che non si esiterebbe a classificare come logico [corsivo mio]» (Quine [1937a], p. 81). In Mathematical Logic (1940), Quine afferma che «la matematica si riduce a logica» (Quine [1940], introduzione, pro)

intendendo con “logica”, la logica del primo ordine più la teoria degli somma, prodotto, potenza, limite, derivata, ecc., sono tutte definibili nei negazione congiunta e quantificazione con le sue variabili. Con queste spressa In termini puramente matematici diviene un’abbreviazione di ann une

SII)

insiemi: «[...] le nozioni di identità, relazione, numero. funzione termini dei nostri tre strumenti notazionali primitivi: appartenenza, definizioni ogni asserzione vera e ogni asserzione falsa che sia e una formula logica, in particolare di un’asserzione logica [...b

$ 23, pp. 125-126). Gli stessi passi sono ripetuti nella seconda edizione corretta di Mathematical Logic, uscita nel 1951 ‘

ì

i

I fondamenti dell’aritmetica

105

3.5. OPERAZIONI CON I NUMERI CARDINALI 3.5.1. Le operazioni tra numeri naturali (addizione, moltiplicazione, sottrazione, divisione, esponenziazione, fattoriale) erano state definite da Peano tramite quelle che oggi sono conosciute come definizioni induttive.'5 Una definizione induttiva basa la sua validità sul principio di induzione matematica (quinto assioma di Peano); essa consta di due parti complementari: una base dell’'induzione, che fornisce il punto di partenza, e un passo induttivo che ci consente di procedere oltre, passo dopo passo, fino a incontrare il caso che ci interessa. Vediamo, per esempio, come funziona nel caso dell’addizione. Innanzi tutto, la base dell’induzione: (a)

se xè un numero naturale, x +0 è uguale a x;

poi il passo induttivo: (b)

sexe

y sono numeri naturali, la somma di x con il successore di y è uguale al successore di x + y.

Grazie al principio di induzione matematica, queste due clausole definiscono l’addizione per tutti i numeri naturali. Infatti, dato un qualsiasi numero naturale m, il risultato di aggiungergli 0 è definito, e se è definito il risultato di aggiungergli un numero naturale n è definito anche quello di aggiungergli n + 1: dal quinto postulato di Peano deriva dunque che il risultato di aggiungere un numero naturale a m è definito per tutti i numeri naturali. !°! Una volta definita l’addizione, Peano può definire la moltiplicazione attraverso il medesimo procedimento: (a’)

se xè un numero naturale, x x 0 è uguale a 0;

(b’) sexe y sono numeri naturali, il prodotto di x per il successore di y è uguale a (x X y) + x. Siccome si è già trattata l’addizione, siamo ora in grado di trattare anche la moltiplicazione. La definizione induttiva di elevamento a potenza può essere data sulla base della definizione di moltiplicazione. Essa è la seguente: (a') se x è un numero naturale, x è uguale al successore di 0 (cioè a 1); '

I

0

PS

e

>:

x

(b") sexe y sono numeri naturali, x è uguale a x Xx. 3.5.2. Russell non si serve di definizioni induttive per definire le operazioni aritmetiche, ma segue la strada indicata da Cantor, cioè quella di definire il numero che risulta da una certa operazione come il numero di elementi di una classe appropriata. Questo non perché ci sia qualcosa da obiettare alle definizioni induttive (in una logica di

50 v_, per es., Peano [1921], $ 7, p. 431. Si tratta dunque di un quarto tipo di definizione ammesso da Peano, dopo le definizioni nominali (che stabiliscono l’intercambiabilità di due simboli, definiendum e definiens, in tutti i contesti estensionali), quelle per postulati, e quelle per astrazione. Nella sua filosofia della matematica matura, Russell ammetterà solo il primo tipo di definizione. !51 Per illustrare come funziona la definizione, dimostriamo che 2 + 2 = 4. Diamo, innanzi tutto le seguenti definizioni nominali (si tratta di mere abbreviazioni notazionali):

1 =ar (0);

2=4r8(s(0)); 3 =arS[s(s(0))]; 4=a4rS{s[s(s(0))]}. Abbiamo dunque che 2+2=s(s(0))+s(s(0)). Allora, applicando la seconda clausola della definizione induttiva a “s(s(0)) + s(s(0))”, otteniamo:

s(s(0)) + s(s(0)) = s{s(s(0)) + s(0)};

applicando ancora la seconda clausola della definizione induttiva a “s(s(0))+ s(0)” — dell’uguaglianza precedente —, otteniamo: s{s(s(0)) + s(0)} = s{s[s(s(0)) + 01}. Infine, applicando a “s(s(0))+ 0” la prima clausola dell’uguaglianza precedente —, otteniamo:

mu

e sostituendo il risultato nel secondo membro rac

della definizione

s{s[s(s(0)) + 0]} = s{s[s(s(0))]}. Ma s{s[s(s(0))]} è uguale a 4 per definizione: quindi 2 + DIA,

induttiva



e sostituendo

il risultato

nel secondo

membro

capitolo 2

106

ordine superiore, come quella russelliana, queste definizioni induttive si possono trasformare in definizioni nominali), ma per una ragione di generalità; riferendosi alla stesura dei Principia, Russell scrive: [...] nel trattare l’aritmetica e i suoi prolegomeni, noi [Whitehead e io] dovevamo tenere presente che dove possibile proposizioni che sono ugualmente vere di classi o numeri finiti e infiniti non dovrebbero essere provate solo dei primi. Più in generale, consideravamo uno spreco di tempo dimostrare proposizioni in qualche particolare classe di casi quando esse possono altrettanto bene essere provate molto più in generale. [...] Le ordinarie definizioni di addizione e moltiplicizione assumono che il numero degli addendi o fattori sia finito. Questa è tra le limitazioni che ci proponevamo di eliminare.

Come diverrà chiaro più avanti, le definizioni induttive valgono solo nel caso del finito. Russell vuole invece offrire definizioni della somma e della moltiplicazione che valgano indipendentemente dal fatto che i numeri da sommare o moltiplicare siano finiti o infiniti, e che valgano indipendentemente dal fatto che il numero degli addendi — nel caso dell’addizione — o dei fattori — nel caso della moltiplicazione — sia finito 0 infinito.’ Il modo in cui Russell raggiunge questi obiettivi non è una questione di puri artifici tecnici, destituiti di rilevanza filosofica; è invece un punto molto interessante da esaminare, perché fornisce un’eccellente prospettiva su come funziona, in realtà, il logicismo russelliano. Vediamo dunque come Russell definisce le operazioni tra numeri cardinali, cominciando dall’addizione. 154

Il numero cardinale dato dalla somma di due numeri cardinali 4 e v non è altro — dice Russell” — che il numero cardinale della somma logica di due insiemi @ e /} che non abbiano elementi in comune e tali che @ abbia numero cardinale e 8 abbia numero cardinale v (dove per somma logica di due insiemi @ e f s'intende l’insieme di tutti gli elementi che appartengono a @ oppure a /). Detto altrimenti: la somma di due numeri cardinali 4e v— nella simbologia dei Principia “u+; V?!° — è il numero di ogni classe che si può suddividere in due parti, prive di elementi in comune, di cui una ha il numero cardinale x e l’altra il numero cardinale v. Questa definizione può essere espressa simbolicamente come segue:

Ut V=s é(GMAP(Mxre

E= (xe avxe B)A-Anlxe

anxe

PB)A u=Ne‘a n v= Ne‘).

Quella che abbiamo descritto finora è sostanzialmente la definizione della somma di due termini che Russell dà nei Principles. Nei Principia questa definizione è perfezionata col mostrare che, date due classi qualsiasi a e B

aventi, rispettivamente, numero cardinale 4 e numero cardinale v esistono sempre due classi a’ e £8' che hanno, rispettivamente, numero cardinale 4 e numero cardinale ve che non hanno elementi in comune. Il metodo è simile a quello illustrato da Russell nell’ Introduction to Mathematical Philosophy," che è il seguente: si forma la classe 2' di tutte le coppie ordinate aventi come primo membro un elemento di @ e come secondo membro la classe vuota; si forma la classe /8' di tutte le coppie aventi come primo membro la classe vuota, e come secondo membro un elemento di /8: le due classi di coppie a' e f8' così formate non hanno elementi in comune, cosicché la loro somma logica avrà 4 +; v termini. Il metodo seguito nei Principia'* è quasi lo stesso, tranne che per due punti che dipendono esclusivamente dalla teoria dei tipi lì adottata: (1) AI posto di ciascun elemento di @ e di ciascun elemento di 8, si prende la classe che contiene quell’unico elemento. (2) Si richiede che la classe vuota che è accoppiata a {x}, dove x è un elemento di «&, sia dello stesso tipo logico di 8 e, analogamente, che la classe vuota che è accoppiata a {y}, dove y è un elemento di b, sia dello stesso tipo logico di a. !52 Russell [1959], cap. 8, pp. 91-92. 153 V, per es., [PM], vol. II, parte III, sez. B, sommario, p. 63.

154 V. Russell [1903a],$ 113, p. 118. 155 Nei capitoli successivi, quando non vi sia pericolo di confusione, sostituirò i simboli dei Principia “+ e “Xx (quest’ultimo sarà intro-

dotto nel prossimo paragrafo) con i più usuali “#° e “x”. Un criterio semplificatore del genere fu utilizzato dallo stesso Russell in diversi scritti posteriori ai Principia. 15° Si osservi che n +: m risulta definito anche quando m o n non sono numeri cardinali: in questo caso la somma di m e n sarà la cl asse

ta.

VUo-

57 V. Russell [1919a], cap. 12, pp. 117-118. S V. [PM], vol. II, p. 63. Il motivo di queste limitazioni diverrà chiaro quando, nei capitoli 7 e 8, ci soffermeremo sul la teoria ramificata

ei tipi.

I fondamenti dell’aritmetica

107

La classe vuota di un tipo non specificato è denotata, nei Principia, dal simbolo “A”;' la classe vuota dello stesso tipo di /8 si indica, nei Principia, con il simbolo “A N B' (‘“l’intersezione delle classi @e 2”, ossia, “la classe degli elementi comuni alle classi 2 e 8”), mentre la classe vuota dello stesso tipo di a si indica con il simbolo “A N Q° (“l’intersezione della classe vuota con la classe @).' Tenendo conto di quanto detto, nei Principia, la classe a’ viene ad essere costituita da una coppia ({x}, AN 5) per ogni elemento x di & mentre la classe ' viene ad essere costituita da una coppia (A N 4 {y}) per ogni elemento y di B. È evidente che @' avrà lo stesso numero cardinale di @, perché ogni elemento x di @ può essere correlato biunivocamente con la coppia ({x}, AN £) appartenente a a. Per la stessa ragione, la classe /8' avrà lo stesso numero cardinale della classe 4. Inoltre, a’ e ['saranno sempre prive di elementi in comune, anche se le classi @ e 8 avevano in comune degli elementi. Infatti, se supponiamo, per esempio, che @ e 8 abbiano in comune l’elemento x, questo stesso elemento sarà rimpiazzato in a’ da ({x}, AM LB) e in B'da (A N 4 {x}), che sono coppie diverse. La somma logica delle classi @' e £8' così ottenute da @ e 8 è detta, nei Principia,'" somma aritmetica delle classi ae B— in simboli “@+ £” In altre parole, a+ £ è una classe costituita da tutti i termini che appartengono alla classe 2 o alla classe ft". Attraverso la somma aritmetica di due classi, la somma di due numeri cardinali è infine definita come la somma aritmetica di due classi aventi, rispettivamente, questi numeri cardinali; in simboli:

dt: V=a Èé(GM AP(= Nea A v= Ne‘ A E sm (a+ pb), che si legge: “La somma cardinale di 4 e v è uguale alla classe degli é che sono cardinalmente simili alla somma aritmetica di due classi @e f aventi, rispettivamente, numero cardinale 4 e numero cardinale V?. Questa definizione di somma può essere estesa, passo dopo passo, a un numero finito qualsiasi di addendi: per coprire però anche il caso in cui si vogliano sommare infiniti addendi, occorre una definizione più generale." La generalizzazione offerta da Russell nei Principles era del tutto ovvia: Se xè una classe di classi, due delle quali non abbiano termini comuni (chiamata brevemente una classe esclusiva di classi), allora la somma aritmetica dei numeri delle varie classi di xsarà il numero dei termini della somma logica di x!

Quindi, la somma di v numeri cardinali non è che il numero della somma logica di v classi mutuamente esclusive aventi come numeri cardinali, rispettivamente, i numeri cardinali da sommare.

Nei Principia'’ si dà una definizione che non richiede la supposizione che le classi che formano xsiano prive di elementi in comune. La costruzione è analoga a quella già usata per la somma di due numeri cardinali. Per ogni classe & appartenente a xsi considera, al posto di a, la classe &' di tutte le coppie ordinate che hanno come primo membro un elemento di @ e come secondo membro a stesso. Per ogni &, @' avrà esattamente lo stesso numero cardinale di a, perché ogni elemento x di & può essere correlato biunivocamente con la coppia (x, 0) appartenente a af. Inoltre, due classi qualsiasi @' e @' ottenute in questo modo da due classi distinte @, e @, saranno sempre

prive di elementi in comune — anche se le classi @, e @ avevano in comune degli elementi. Infatti, se supponiamo che @ e @ abbiano in comune l’elemento x, quest’elemento sarà rimpiazzato in @' da (x, @) e in @' da (a, ©), che sono coppie diverse.

159 Il simbolo “A” per indicare la classe vuota è di Peano (così come il simbolo “V” per indicare la classe universale, cioè la classe che cui appartiene ogni cosa): sono introdotti in Peano [1889], “Logicae notationes”, $ IV, pp. 27-28). 160 Naturalmente, al di fuori della teoria dei tipi, isimboli “A”, “AN

@°e“An

PB” denotano la stessa cosa, cioè la classe vuota.

!6! Vv. [PM], vol. II, #110, p. 72. 162 V. [PM], vol. II, #110.02. La formula dei Principia non è identica a quella data qui. La differenza consiste nel fatto che, nei Principia, compare il simbolo “Ncy” dove qui compare il simbolo “Ne”. “Ney@° significa “Il numero cardinale omogeneo di Q°. Sitratta di una complicazione legata esclusivamente alla teoria ramificata dei tipi, che prenderemo in esame nel cap. 9, $ TL 2. Per ora notiamo soltanto che, tenendo conto della teoria dei tipi, anche le formule che daremo più avanti per il prodotto tra numeri cardinali e per la potenza di numeri cardinali, richiedono la stessa sostituzione del simbolo “Ne” con “Ney”. 163 Per quanto segue, v. [PM], vol. II, +112, sommario, p. 93.

164 Russell [1903a], $ 113, p. 118.

165 V. [PM], vol. II, #112, sommario, p. 93.

capitolo 2

108

La somma logica delle classi ricavate dalle classi di xcon il precedente metodo è detta, nei Principia,"° somma aritmetica delle classi di x— in simboli “X°r°. La somma dei numeri cardinali delle classi che compongono x— in simboli “XNc‘x° — è infine definita come il numero cardinale della somma aritmetica delle classi di x. Abbiamo dunque, in simboli:

2No‘K=4 No

x!

3.5.3. Per definire il prodotto di due numeri cardinali 4 e v Russell ricorre, nei Principia,'* alla costruzione seguente. Dapprima definisce il prodotto aritmetico di due classi. Date due classi a e [il loro prodotto aritmetico — in simboli “ax 2° — sarà la classe di tutte le coppie ordinate aventi come primo membro un elemento di una

classe a e come secondo membro un elemento di una classe 2.'°° Così, per esempio, se & ha i tre elementi a, de c, e Bha i due elementi a e c, si formerà la classe delle seguenti coppie ordinate: (dia);

bia)i (bic) (cia, (cc).

Una volta definito il prodotto aritmetico di due classi, Russell definisce il prodotto di due numeri cardinali 4 e V — nella simbologia dei Principia “4 X. V? — come il numero cardinale del prodotto aritmetico di due classi a e [aventi rispettivamente numero cardinale pu e numero cardinale v. In simboli: E.

É (Aa) (AB) (u=Ne'a n v=Nc‘B A Ésm (ax pb).

Si noti che questa definizione è identica a quella di Cantor:'" non richiede che le classi @e f abbiano un numero cardinale finito e potrebbe essere estesa, passo dopo passo, a un qualunque numero finito di fattori.” Tuttavia — osserva Russell'"? — tale definizione non può essere estesa al caso in cui i fattori da moltiplicare siano essi stessi infiniti. Per coprire tale caso, Russell propone dunque una definizione più generale, '”* tale da valere sia nel caso in cui il numero dei fattori è finito, sia nel caso in cui è infinito.

Supponiamo di avere un prodotto di v numeri cardinali, dove v può essere anche un numero transfinito. Supponiamo anche di avere a disposizione v classi disgiunte — cioè prive di elementi in comune — aventi come numeri cardinali i numeri cardinali da moltiplicare. Dobbiamo ottenere una classe che abbia come numero cardinale il prodotto degli v fattori. A tale scopo, formiamo la classe x comprendente tutte le nostre classi: xè dunque una classe di classi disgiunte. Si formino ora tutte le classi possibili che hanno esattamente un elemento in comune con ciascuna delle classi che sono elementi di xe nient'altro. Chiamiamo “o’ la classe avente come elementi futte e solo queste classi. Il numero cardinale della classe o non è altro che il prodotto dei numeri cardinali delle classi che sono elementi di x. Questa definizione si applica altrettanto bene sia nel caso in cui il numero degli elementi di x (cioè dei fattori) sia finito, sia nel caso in cui il numero degli elementi di xsia infinito.

La definizione appena esposta è quella che Russell fornisce nei Principles.'? A partire dai Principia,'"° tale definizione è generalizzata eliminando l’ipotesi particolare che le v classi che compongono x debbano essere prive

100 V_ ibid. 167 168 162 170

V. V. V_ V_

[PM], [PM], [PM], [PM],

vol. vol. vol. vol.

II, II, II, II,

*112.02. *113. *113.02. *113.03.

SUE sopra, cap. 1, $ 8.1.1.

172 Il motivo per cui, nei Principia, il prodotto di due numeri cardinali n e m non è caratterizzato come la somma dei numeri di m classi con

n termini ciascuna è connesso con l’assioma di scelta e diverrà chiaro più oltre (v. cap. 4,$4.2.1.1).

o V., per es.: Russell [1903a], $ 115, p. 119; [PM], vol. II, *114, p. 119; Russell [1919a], cap. 12, p. 118.

Russell correttamente attribuisce a Whitehead la paternità di tale definizione (v. Russell [1903a], $ 115, Russell [1906a], $ II, p. 158, e

Russell [1919a], cap. 12, p. 119), che la introduce in Whitehead [1902], $ IV, pp. 383-385. 175 V_ Russell [1903a], $ 115. È la definizione che compare in Whitehead [1902], $ IV, *7.21, p.385.

!7© V_ [PM], vol. II, #114 e *115.

I fondamenti dell’aritmetica

109

di elementi in comune. Vediamo, prima di tutto, come Russell definisce i tre concetti di selezione (selection) da K,

di classe moltiplicativa (multiplicative class) di xe di selettore (selector) da x.!

Data una classe di classi x, si dice che una classe @ è una selezione da K!% se e solo se ogni elemento di @ ap-

partiene anche a una classe che è elemento di xe, data una qualsiasi classe yche sia elemento di x @ e yhanno

esattamente un elemento in comune. In breve, una selezione da xè una classe formata prendendo esattamente un

elemento da ciascuna classe che è elemento di x: La classe di tutte le selezioni da x — cioè la classe di tutte le classi che possono essere formate prendendo esattamente un rappresentante da ciascun elemento di x — si dice classe moltiplicativa di x.!° Se x è una classe di classi non aventi nessun elemento in comune, il numero di ter-

mini della classe moltiplicativa di x non è altro che il prodotto dei numeri cardinali delle classi che sono membri di x. Infine, un selettore da x®° è una relazione che —

intuitivamente — ha il compito di ‘estrarre’ uno e un solo e-

lemento da ciascuna delle classi che compongono una classe di classi x un selettore è cioè una relazione diadica che vale tra l'elemento “scelto” come rappresentante di una classe appartenente a xe la classe stessa da cui è stato scelto. In un linguaggio più preciso, si dice che R è un selettore da una classe di classi x'se e solo se R è una relazione uno-molti avente gli elementi di xcome dominio inverso e tale che, se x ha la relazione R con % allora x € y. Se R è un selettore da x, possiamo chiamare il termine x che è nella relazione R con una certa classe ydi K

“rappresentante” di yrispetto alla relazione R. Se le classi che costituiscono x sono prive di elementi comuni, allora un selettore da xè una relazione uno-uno: infatti, in questo caso, è impossibile che lo stesso rappresentante sia scelto da due classi diverse. Se però abbandoniamo l’ipotesi che le classi che compongono x non abbiano elementi in comune, un selettore da xè una relazione che è, in generale, uno-molti ma non uno-uno, perché, ogni volta che c’è un elemento che è comune a due

classi di x può accadere che questo stesso elemento sia scelto come rappresentante di entrambe le classi. In entrambi i casi, la classe che prima abbiamo chiamato “selezione” da xnon è altro che il dominio di un selettore da K. Se le classi che sono elementi di x non hanno elementi in comune, allora esistono tante selezioni quanti sono i selettori da x ma se le classi di x hanno degli elementi in comune, vi saranno meno selezioni che selettori. Sup-

poniamo, per esempio, che x sia una classe composta di due sole classi @ e 8, e supponiamo che a abbia come elementi due oggetti x e y che appartengono anche a /; allora avremo un selettore che sceglie x come rappresentante di © e y come rappresentante di 8, un altro selettore che sceglie invece y come rappresentante di @ e x come rappresentante di 2: ma questi due selettori daranno origine a una medesima selezione — cioè la classe formata da eo Dunque, nel caso più generale — cioè nel caso in cui non sappiamo se classi che sono elementi di x siano o no mutuamente esclusive — se vogliamo ottenere una classe che abbia come numero cardinale il prodotto dei numeri cardinali delle classi che sono elementi di x, dovremo prendere piuttosto la classe dei selettori da x che la classe delle selezioni da x (cioè la classe moltiplicativa di x). Russell giunge in questo modo alla seguente definizione generale: «“Il prodotto dei numeri dei membri di una classe di classi x è il numero dei selettori da oa Nei Principia la classe dei selettori da xè denotata dal simbolo “€ xîk°,5 mentre il prodotto dei numeri cardinali degli elementi di una classe di classi xè denotata con il simbolo “TINc‘ x”; la definizione è quindi, nella simbologia dei Principia, la seguente: 177 Per quanto segue, v. Russell [1919a], cap. 12, pp. I 19-120. V. anche [PM], vol. I, parte II, sez. D, sommario, pp. 478-479. 178 Adotto qui la terminologia usata in Russell [1919a]: in [PM] una selezione da xè detta classe selezionata (selected class) di x(v. [PM], vol. I, parte II, sez. D, sommario, p. 478).

|

179 V_ [PM], vol. II, #115, sommario. 180 Adotto qui la terminologia usata in Russell [1919a]: [PM], vol. I, parte II, sez. D, sommario, p. 479).

181 Russell [1919a], cap. 12, p. 120.

in [PM] un selettore da x è detto relazione selettiva (selective relation) di K (v.

den

ara

!82 V. [PM], vol. I, parte II, sez. D, sommario, p. 479. Il simbolo “£y‘x° è, nei Principia, un simbolo complesso il cui significato è stabilito direttamente dal significato dei simboli componenti. Nei Principia (vol. I, *80.01) è definito il simbolo “Py”; questa definizione si traduce nel teorema *80.14: Re

P\ixr=Rel-+Clsn®0))(xRy

3 xPy) A CeR=t

s1 ottiene: Sostituendo nell’enunciato del teorema precedente la costante “e”, che denota la relazione di appartenenza, alla variabile “P”, Re

exx=RelaClsn(M)M)ARyDxey)

A Cerere

e inoltre il che si legge: “R appartiene a € 4°xse e solo se R è una relazione uno-molti tale che, se vale tra x e y, allora x è un elemento di y,

capitolo 2

110

TINc‘x=g Ne'e 4x1

3.5.4. Poiché questa definizione di moltiplicazione è valida anche nel caso in cui il numero dei fattori è infinito, si potrebbe semplicemente, a questo punto, definire la potenza 4" come il prodotto di 4 per se stesso V volte, cioè come il numero dei selettori da una classe x formata da v classi ciascuna delle quali di 4 elementi. Questo è il modo in cui le potenze sono effettivamente definite nei Principles.'** Tuttavia — per motivi che diverranno chiari più oltre, quando affronteremo i problemi legati all’assioma di scelta! — Russell preferì in seguito costruire la classe x, formata da v classi ciascuna delle quali di 4 elementi, in un modo particolare. Questa particolare costruzione permette di limitare il ricorso all’assioma di scelta. Si procede come segue. > Supponiamo di avere una classe

& avente 4 elementi e una classe 8 avente v elementi. Prendiamo ora un ele-

mento y qualsiasi di 2 e formiamo la classe di tutte le possibili coppie ordinate che abbiano y come secondo elemento e un elemento di @ come primo elemento: di queste coppie ce ne saranno evidentemente 4, poiché L è, per ipotesi, il numero di elementi di a. Se ora formiamo tutte le classi possibili di questo tipo variando y, otteniamo una classe di v classi, perché y può essere un qualsiasi elemento di #8, e Bha velementi. Otteniamo cioè una classe di v classi, ciascuna delle quali è composta di tutte le 4 coppie ordinate che hanno al primo membro un elemento qualsiasi di 2 e al secondo membro un dato elemento y di 8. Abbiamo così ottenuto una classe x che ha per elementi vclassi ciascuna formata di 4 coppie ordinate. Nei Principia, la classe delle selezioni da questa classe è denotata dal simbolo “@ exp 2”:'*” il numero cardinale di @ exp 8, dove @ ha numero cardinale 4 e 8 ha numero cardinale v, non è altro che la potenza 2, in simboli:

l'=a é (GAI U=Ne'a 1 v=Ne‘B1 ésm (aexp dj). Ritorneremo sull’opportunità di questa definizione più avanti."

4. LA DEFINIZIONE DI “NUMERO

ORDINALE”

4.1. RIDUZIONE DEGLI INSIEMI ORDINATI A RELAZIONI ORDINANTI Per Cantor, così come i numeri cardinali sono proprietà di insiemi, i numeri ordinali sono proprietà di insiemi ben ordinati (v. sopra, cap. 1, $ 2.2). Russell precisa quest'idea servendosi della sua logica delle relazioni. Nei Principles egli scrive: L’analisi corretta degli ordinali è stata finora impedita dal pregiudizio dominante contro le relazioni. Si parla di una serie come consistente di termini presi in un certo ordine, e in quest'idea vi è comunemente un elemento psicologico. A prescindere da considerazioni psicologiche, tutti gli insiemi di termini [terms: con questa parola, Russell non si riferisce a parole, ma a entità qualsiasi] hanno tutti gli ordini di cui sono capaci.'°0

Il fatto è che, dice Russell, un insieme non è mai intrinsecamente ordinato; l'ordine è sempre dato a un insieme da una relazione ordinante che vale tra i suoi elementi: Cercando una definizione di ordine, la prima cosa da capire è che nessun insieme di termini ha solo wr ordine ad esclusione di altri. Un insieme di termini ha tutti gli ordini di cui è suscettibile. Talvolta un ordine è tanto familiare e naturale al nostro pensiero che siamo inclini a considerarlo come /’ordine di quell’insieme di termini; ma questo è un errore. I numeri naturali — o i “numeri indominio inverso di R è uguale a £°.

!83 V. [PM], vol. II, #114.01. 184 V. Russell [1903a], $ 116. 155 V. sotto, cap. 4, $ 4. '8© V. [PM], vol. II, *116, sommario. V. anche Russell [1919a], cap. 12, p. 121.

!87 188 8° '°0

V. [PM], vol. II, *116.01. V. [PM], vol. II, 116.02. V. sotto, cap. 4, $ 4.2.1.4. Russell [1903a], $ 231, p. 242.

I fondamenti dell’aritmetica

111

duttivi”, come possiamo anche chiamarli — ci si presentano più facilmente in ordine di grandezza; ma essi sono suscettibili di un numero infinito di altre disposizioni. Potremmo, per esempio, considerare prima tutti i numeri dispari e poi tutti i numeri pari; oppure prima I, poi tutti i numeri pari, poi tutti i numeri dispari multipli di 3, quindi tutti i multipli di 5 ma non di 2 o di 3, poi tutti i multipli di 7 ma non di 2030 5, e così via per l’intera serie dei numeri primi. Quando diciamo che “disponiamo” i numeri in questi vari ordini, questa è un’espressione imprecisa: quel che realmente facciamo è rivolgere la nostra attenzione a certe relazioni tra i numeri naturali, che generano esse stesse una disposizione tale e tale. Non possiamo “disporre” i numeri naturali più di quanto possiamo fare con il cielo stellato; ma proprio come possiamo notare tra le stelle fisse o il loro ordine di brillantezza o la loro distribuzione nel cielo, così tra i numeri ci sono diverse relazioni che si possono osservare, e che danno origine a vari ordinamenti tra i nu-

meri, tutti egualmente legittimi. E quel che è vero per i numeri, è ugualmente vero per i punti su una linea o per gli istanti di tempo: un ordine è più familiare, ma altri sono ugualmente validi. [...]

L’ordine non sta nella classe di termini, ma in una relazione tra i membri della classe, rispetto alla quale alcuni appaiono come precedenti e altri come seguenti. Il fatto che una classe possa avere molti ordini è dovuto al fatto che possono esserci molte relazioni che valgono tra i membri di una singola classe."

Una relazione ordinante, cioè una relazione che può ordinare gli elementi di un insieme è — spiega Russell!” — una relazione seriale. Una relazione seriale è una relazione diadica che è asimmetrica, irriflessiva, transitiva e connessa." Vediamo che cosa significano questi termini e facciamo qualche esempio. Una relazione R è asimmetrica se e solo se:

O) ARy > Rx), cioè se e solo se, qualora essa valga tra x e y, allora non vale tra y e x.!”* Per esempio, la relazione espressa da “più alto di” è asimmetrica, perché, se x è più alto di y, allora y non è più alto di x. Invece, per esempio, la relazione espressa da “alto come” è una relazione simmetrica, perché, se x è alto come y, allora y è alto come x. Infine, per esempio, la relazione espressa da “essere sorella di’ è una relazione né asimmetrica né simmetrica perché, se x è sorella di y, capita a volte che y sia sorella di x e a volte che non lo sia (y può essere fratello di y). Se denotiamo la classe delle relazioni asimmetriche con il simbolo “as”,"” abbiamo la seguente definizione simbolica:

as=s

R(@M)O)ARy > -yRx)).

Una relazione R è irriflessiva, o come preferisce dire Russell, contenuta nella diversità (contained in diversity), se e solo se:

MORI

xy),

DARA

-

.

.

196

È

-

x

cioè se e solo se la relazione R non vale mai tra un termine e se stesso. ‘° Per esempio, la relazione espressa da “più alto di” è irriflessiva, perché — tra le cose che sono più alte o più basse di qualcos’altro — nulla è più alto di se stesso. Invece la relazione espressa da “alto come” è una relazione riflessiva, perché ogni x che può essere alto

19! Russell [1919a], cap. 4, pp. 29-30. 192 V_, per es., Russell [1919a], cap. 4, p. 34.

| 193 V. [PM], vol. II, p. 497; Russell [1919a], cap. 4, p. 32. 194 V. Russell [1903a], $ 208, p. 218; [PM], vol. I, introduzione, cap. 1, p. 32; Russell [1914a], lecture II, p. 57 (1° ediz., p. 47); Russell

i ; i urta la classe delle relazioni asimmetriche è denotata dal simbolo: “R(R A R = A).Il simbolo “R A R = A” si legge: “Il prodotto logico (l'intersezione) di R con la conversa di R, R, è uguale alla rerelazione vuota” (ricordiamo che, data una relazione R, la sua conversa R è quella relazione che vale tra x e y se e solo se tra y e x vale la equivalendo, — falso sempre è y” A “x Poiché y”. A x se solo e se y R x e xRy y, ogni per lazione R); la qual cosa equivale a: “Per ogni x e ex Ry”, 0 per definizione, a “x # x V y # y” — ne risulta che la formula precedente è equivalente a: “Per ogni x e per ogni y, è falso che xRy [1919a], cap. 4, p.31. 195 Il simbolo “as” non

i

è utilizzato

nei Principia.

Nei

Principia,

per ogni y, anche: “Per ogni x e per ogni y, se xRy, allora —x Ry”. Quindi R (RA) R = A)èla classe delle relazioni R tali che, per ogni x, | TRA se xRy, allora —x R y. che la relazione è una sottorela196 V_ [PM], vol. II, *200; Russell [1919a], cap. 4, p. 32. L'espressione “contenuta nella diversità” significa a n q ‘care che | î î in? ; di: È È Pe i che unadCclasse èÒ sottoclasse i indicare per in) (contained in” “contenuta locuzione la spesso usa Russell diversità. di zione della relazione tra qualcosa ha classe una che indicare per contain) (fo un’altra, in parziale contrasto con il suo uso delle forme attive del verbo “contenere” 9

i suoi elementi.

capitolo 2

ETZ

come qualcos'altro è alto come se stesso. Infine, la relazione espressa da “ama” non è né riflessiva né irriflessiva,

perché alcune persone che amano o sono amate amano se stesse, ma altre no. Se denotiamo — come nei Principia — la classe delle relazioni irriflessive con il simbolo “RI‘J”, abbiamo:

RIJ=R(MOARy>x#y)).!” Nel $ 3.1 abbiamo già visto che la classe delle relazioni transitive si definisce come segue:

trans =sr R(M) 0) (2) (Ry A yRz > xRz)).

198

Così, per esempio, la relazione espressa da “più alto di” è transitiva, perché se x è più alto di y e y è più alto di z, allora x è più alto di z. Invece la relazione espressa da “padre di” è intransitiva, perché se x è padre diyeydiz allora x non è padre di z. Infine la relazione espressa da “ama” non è né transitiva né intransitiva, perché se x ama ye yamaz può essere a volte vero e a volte falso che x ama z. Infine, una relazione R è connessa (connected) se e solo se: (MM (Axe

CRAye

CRAx#yD

xRy v yRx),

cioè se e solo se, tra due elementi differenti del suo campo, x e y, vale 0 xRy 0 yRx.'° Per esempio, la relazione espressa da “maggiore” tra numeri naturali è connessa, perché dati due numeri naturali qualsiasi uno è sempre maggiore dell’altro. Invece la relazione espressa da “più alto di” tra esseri umani non è connessa, perché è possibile che di due esseri umani nessuno dei due sia più alto dell’altro. Se denotiamo — come nei Principia — la classe delle relazioni connesse con il simbolo “connex”, abbiamo la seguente definizione: connex =qr È (MM)

e C'RAye

C'RAx#yDxRyv

SR)

In realtà, è ridondante definire una relazione seriale per mezzo di tutte e quattro le proprietà di essere asimmetrica, irriflessiva, transitiva e connessa: infatti è evidente che una relazione asimmetrica non può che essere irriflessiva:”” se, d’altra parte, una relazione è irriflessiva e transitiva, allora dev'essere anche asimmetrica.” Si può

dunque definire una relazione seriale come una relazione irriflessiva, transitiva e connessa oppure come una relazione asimmetrica, transitiva e connessa: non c’è differenza. Nei Principia, Russell sceglie la prima strada,”°* definendo simbolicamente la classe delle relazioni seriali, Ser, come segue:

!°97 Nei Principia, quest'uguaglianza è un teorema, non una definizione, perché il simbolo “R1°/° è un composto di altri simboli. Il simbolo “RI‘S” denota — nei Principia (vol. I, #61.12) —

la classe delle sottorelazioni della relazione S, in simboli:

RISSRRGS: La definizione di (R c- $) (che si legge: “R è una sottorelazione di S°°) è, a sua volta, la seguente (v. [PM], vol. I, *23.01):

(Rc: S)=a MO) (Ry 3 xy). Il simbolo “/? denota la relazione di diversità: cioè la relazione che vale tra x e y se e solo se x # y (v. [PM], vol. I, 50.12).

Applicando le definizioni, il simbolo “RI‘Y° denota la classe delle sottorelazioni della relazione di diversità:

RI‘/=R (1) 0) @Ry > x/Y)), cioè:

RI‘J=R(MM)ARy>x#y). REA: [PM], vol. II, #201.01. V. anche: Russell [1903a], $ 208, p. 218; [PM], vol. I, introduzione, cap. 1, p. 35; Russell [1914a], lecture Il,

p. 97 (1° ediz., p. 48), e lecture IV, pp. 132-133 (1° ediz., p. 124); Russell [1919a], cap. 2, p. 16, e cap. 4, pp. 31-32.

'°° V. Russell [1903a], $ 229, p. 239; [PM], vol. II, +202, sommario; Russell [1919a], cap. 4, p. 32. 200 V. [PM], vol. II, #202.103.

20! V. [PM], vol. I, #50.46. 202 Sì supponga infatti che una relazione R, irriflessiva e transitiva, non sia asimmetrica. Se la relazione non è asimmetrica allora esistono almeno due elementi a e b tali che vale sia aRb sia bRa; ma allora, per la transitività di R, da aRb e bRa abbiamo aRa, che contraddice l'ipotesi che la relazione R fosse irriflessiva. (La dimostrazione simbolica si trova in [PM], vol. I, *50.47.)



Le relazioni seriali sono definite come relazioni irriflessive transitive e connesse anche in Russell [1902a], p. 390, e Russell [1919a],

cap. 4, p. 34; nei Principles of Mathematics le relazioni seriali sono caratterizzate come asimmetriche, riflessive e connesse (v, per es.,

sell [1903a], $ 190, p. 203).

ì

Rus-

tati

I fondamenti dell’aritmetica

Ser=y È (Re RIJARE DEESSSTI

trans

MA

ARe

113

connex),

. O Delo . * » . . Oro Cioe: sla classe delle relazioni seriali è uguale, per definizione, alla classe delle relazioni irriflessive transitive e connesse”. .

.

Una relazione seriale è una relazione che ha la proprietà di ordinare tutti gli elementi dell’insieme costituito dal suo campo. Per esempio, la relazione espressa da “

nto

tenuta nel [cioè, che è sottoclasse del] suo campo ha uno o più minimi».??*

23

5

È

Se denotiamo la classe delle relazioni

x

ben ordinate con il simbolo dei Principia “Bord”, abbiamo, in simboli:

Pe Bord=(@(acC‘Pau(Ay)(ye

0 > A») (x minp 0).

Nei Principia, “£”° denota la classe delle relazioni seriali ben ordinate; in simboli:

S. Allora R e R'sono simili se c'è una relazione uno-uno $ tale che, quando sono soddisfatte le precedenti condizioni x{, x} ..., x}, hanno la relazione R‘ e viceversa». Un modo di trascrivere, nella simbologia dei Principia, questa definizione è quello che segue: RemoiRa(d9(Selod)(CRE=Edl9ann))

ee

e

ie)

Riad)

R

00)

216 V_ Russell [1903a], $ 253, p. 262; [PM], vol. II, #152; Russell [1919a], cap. 6, p. 56; Russell [1927a], cap. 24, p. 250. 217 Nei Principia, questa non è una definizione, ma un teorema (v. [PM], vol. II, #152.1), perché “Nr°R” è un simbolo complesso. Ciò che

nei Principia si definisce è la relazione Nr — che vale tra un numero-relazione e le relazioni di cui esso è numero — come la relazione che vale tra la classe di tutte le relazioni ordinalmente simili a una relazione data e quest’ultima relazione (v. vol. II, #152.01). “Nr*R” è una

funzione descrittiva (v. sopra, nota 79), che si legge: “il numero-relazione di R”.

218 V. [PM], vol. II, #152, sommario, e Russell [1919a], cap. 6, p. 56.

219 V. [PM], vol. II, #152.02.

220 V. Russell [1903a], $ 231, p. 242, e $ 293, p. 317; [PM], vol. III, +251, sommario; Russell [1919a], cap. 6, pp. 56-57; Russell [1927a], cap. 24, p. 250.

221 V. [PM], vol. I, +93. 222 V. [PM], vol. I, #93.11. Questo è un teorema dei Principia. La definizione da cui dipende è:

minp=y$d (re anx € C‘PAu-(dy)y e an yPa)): “minp è uguale, per definizione, alla relazione (in estensione) tra gli x e gli & tali che x è un elemento di 2 e del campo di P e non esiste un y appartenente ad & che abbia con x la relazione P” (v. [PM], vol. I, *93.01). 223 [PM], vol. III, parte V, sez. D, sommario, p. 1.

224 V.. [PM], vol. III, #250.101.



capitolo 2

116

Q Sar P(Pe Ser A Pe Bord).

225

La classe dei numeri ordinali — nella simbologia dei Principia denotata dal simbolo “NO” — è definita quindi come la classe dei numeri-relazione delle relazioni appartenenti a ©; in simboli:

NO =, &(GP)(Pe QA(a=Nr'P).? 4.2.2. Riassumiamo brevemente. Russell definisce una relazione tra relazioni detta “similitudine ordinale”; tutte le relazioni ordinalmente simili a una relazione data hanno, intuitivamente, una proprietà in comune: il loro numerorelazione. AI posto di quest’ipotetica proprietà comune Russell assume — con una strategia esattamente analoga a quella adottata per i cardinali — la classe stessa di tutte le relazioni ordinalmente simili alla relazione data. Si definisce così il “numero-relazione di una relazione R”. Un numero-relazione, in generale, è definito come il numero-relazione di una relazione: definizione che, contrariamente all’apparenza, non è circolare, perché l’espressione “numero-relazione di una relazione R” è già stata definita in precedenza. I tipi d’ordine e i numeri ordinali sono definiti come particolari numeri-relazione: rispettivamente i numerirelazione di relazioni seriali e inumeri-relazione di relazioni seriali che siano anche ben ordinate. Si osservi che, mentre per Cantor inumeri ordinali finiti coincidono con i numeri cardinali finiti (v. sopra, cap. 1, $ 3.3), nella ricostruzione di Russell non è così. Infatti, un numero cardinale finito è una classe di classi, mentre

un numero ordinale finito è una classe di relazioni seriali ben ordinate. 4.2.3. Il modo in cui Russell definisce i numeri ordinali, come classi di relazioni seriali ben ordinate, dà origine a un certo problema tecnico che, benché sia facilmente superabile, è opportuno non passare sotto silenzio. Il problema è connesso con la correlazione tra numeri ordinali e numeri cardinali, e in particolare, con il fatto che l’analisi di Russell rende impossibile definire un numero ordinale 1 in corrispondenza con il numero cardinale 1. Infatti — benché possa esistere una relazione seriale che non ha nessun elemento nel suo campo?” — non può esistere nessuna relazione seriale che abbia nel suo campo un solo elemento: questo per il semplice fatto che una relazione seriale è irriflessiva, e dunque non può contenere una coppia formata dal ricorrere due volte dello stesso elemento. In questo modo, la serie dei numeri ordinali risulta incompleta, poiché “salta” quello che dovrebbe essere il numero ordinale corrispondente al numero cardinale 1. Ciò, naturalmente, non è sfuggito agli autori dei Principia”* che propongono una definizione a parte di un numero-relazione che tenga il luogo del numero ordinale 1; essi definiscono il numero-relazione

1, come la classe di tutte le relazioni che contengono solo una cop-

pia costituita dal ricorrere due volte dello stesso elemento.” Nei Principia si osserva che questo numerorelazione offre la migliore approssimazione possibile al numero ordinale 1, ma non è un numero ordinale, perché la coppia (x, x) non può far parte di nessuna relazione seriale: 1 così definito è un numero-relazione, ed è il numero-relazione corrispondente a 1 nel senso che è il numero-relazione di tutte le relazioni tali da avere un campo consistente in un solo termine. Ma 1, non è ciò che si dice un “numero ordinale” perché questo termine si applica solo ai numeri-relazione di serie ben ordinate, e x È x non è una relazione seriale [con il simbolo “x Y y”, nei Principia si indica la relazione in estensione che vale tra x e y se e solo se x appartiene alla classe che ha per elemento solo x e y appartiene alla classe che ha per elemento solo y (v. [PM], vol. I, #55), cosicché “x $ y” indica la relazione in estensione che ha per unico SISENIO la coppia ordinata (x, y), e “x L x” indica la relazione in estensione che ha come unico elemento la coppia ordinata

(X,)]"

225 V_ [PM], vol. III, #250.02. 226 V. [PM], vol. III, #251.01. 227 La relazione vuota, cioè la relazione che vale tra x e y se e solo se x# xv y# y è una relazione seriale (v. [PM], vol. II, *204.24) in quanto è asimmetrica (v. [PM], vol. II, *200.3), transitiva (v. [PM], vol. II, #201.3) e connessa (v. [PM], vol. II, #202.3). Inoltre soddisfa la condizione di essere ben ordinata (v. [PM], vol. III, *250.4): dunque la classe di tutte le relazioni simili alla relazione vuota è un numero

ordinale (v. [PM], vol. III, #251.15). Naturalmente, poiché una relazione può essere ordinalmente simile alla relazione vuota se e solo se è SALg alla relazione vuota (v. [PM], vol. II, #153.101) il numero ordinale zero è la classe che contiene solo la relazione vuota. “© V. [PM]], vol. II, #200, sommario.

22° V_ [PM], vol. II, #153, in particolare, 153.01. #90 [PM], vol. II, #153, sommario, p. 324.

I fondamenti dell’aritmetica

LL

Questa è la ragione per cui, mentre i numeri ordinali veri e propri sono indicati — nei Principia — per mezzo

di una cifra arabica con l’indice “7°” (per esempio “0,”, “2,7, “3,”, ecc.), il corrispondente del numero cardinale 1 è indicato dal simbolo “1”. Anni prima, nei Principles,” 231 Russell aveva adottato, per questo problema, una soluzione un po” diversa, secondo la quale una relazione ben ordinata ha numero ordinale 4 se e solo se ha 4 elementi nel suo dominio. È evidente che una relazione seriale non può avere un solo termine nel suo campo, ma può averne uno solo nel suo dominio: ciò rende definibile un numero ordinale 1. Questa soluzione implica però che un insieme avente un numero cardinale finito n, una volta che sia ordinato da una relazione seriale — cioè, una volta che divenga il campo di una relazione seriale —, si trovi ad avere numero ordinale n — 1, invece che n. A proposito delle difficoltà nella definizione del numero ordinale 1, Quine commenta: Si dovrebbe notare che l’identificazione, da parte di Whitehead e Russell, di un insieme ordinato con la relazione di “prima-dopo” è piuttosto arbitraria; potremmo identificarla piuttosto con la relazione espressa da “non successivo a” nell’insieme (scegliendo così l'analogo di “ xFS) a TM = C‘P,°°

dove “F” (dall’iniziale di “Field”) denota la relazione che vale tra x e S se e solo se x appartiene al campo di $S. La formula precedente si legge allora: “M è un elemento di F\°C°P se e solo se M è una relazione uno-molti tale che se vale tra x e S allora x è un elemento del campo di $S, e il dominio inverso di M è il campo di P”. Si osservi che — come è esplicitamente rilevato nei Principia* — un M e Fy‘C°P non è semplicemente un selettore dalla classe che ha per elementi i campi delle relazioni che appartengono al campo di P: infatti, anche se due relazioni R e S del campo di P hanno gli stessi elementi nel loro campo, ogni relazione della classe Fy°C'P sceglierà un elemento come rappresentante del campo di R e un elemento come rappresentante del campo di S, non un solo elemento come rappresentante del campo di R e del campo di S contemporaneamente. Le relazioni della classe Fy‘C°P sono ordinate in base a una forma del principio delle prime differenze (principle offirst differences) di Hausdorff.?®° Si considerino due relazioni M e N che siano membri di Fy°C‘P. Sia Q un membro del campo di P dal cui campo M sceglie un rappresentante che precede (secondo la relazione Q) quello scelto da N: vale a dire, se x è il rappresentante scelto da M in Q e y è il rappresentante scelto da N in O si abbia xOy. Se M e N scelgono uno stesso rappresentante in tutte le relazioni R che precedono Q nella relazione P (cioè, per cui vale RPO, con R diverso da Q), allora diciamo che M ha la relazione II°P con N. La relazione IT‘P è, per definizione ([PM], vol. II, *172.01), il prodotto delle relazioni del campo di una relazione tra relazioni P. Riassumendo, il prodotto delle relazioni del campo di una relazione tra relazioni P è la relazione II°P, che vale tra due relazioni M e N se e solo se: M e N appartengono alla classe F,‘C‘P, ed esiste una relazione Q del campo di P tale che, se x e y sono, rispettivamente, i rappresentanti scelti da M e da Nin Q, allora vale xOQy, e inoltre, per ogni R diverso da Q e tale che RPQ vale che M e N scelgono da R lo stesso rappresentante. 7 Attraverso la definizione del prodotto delle relazioni del campo di una relazione tra relazioni P, nei Principia”° è definito il prodotto dei numeri-relazione delle relazioni che costituiscono il campo di P — in simboli “TINr°P”. La definizione è la seguente:

TINr‘P=y NrTT‘P,8 che si legge: “Il prodotto delle relazioni del campo di una relazione tra relazioni P è uguale, per definizione, al numero-relazione della relazione II°P”. Sebbene non presenti difficoltà concettuali, il procedimento è piuttosto intricato da esporre e da seguire: sarà x î a Î x 269 3 ° k 5 dunque opportuno cercare di chiarirlo con un esempio semplice.” Supponiamo di avere una relazione seriale P fra le tre serie R, Se O seguenti:

R: X1, X2, 33 S: Vi» V2, V3

O: Z1, Z2, 23

In realtà, il simbolo

“F‘C°P”

non ha bisogno di essere definito, nei Principia, perché il suo significato è già perfettamente fissato dalle

definizioni dei simboli componenti. Nei Principia (vol. I, *80.01) è definito il simbolo “Py, e la definizione si traduce direttamente nel

teorema *80.14: Re

Pxk=Rela-ClsM)0Ry>xPy)

A A'R=x

Prendendo la relazione £ (definita nel vol. I, #33.04), che vale tra ciascun elemento del campo di una relazione e la relazione stessa, al posto della relazione P della definizione precedente, e prendendo come classe xil campo di una relazione a piacere P, otteniamo la formula Foo A Api “y” con una variabile “S” per una semplice ragione di maggiore leggibilità.) 265

V. [PM], vol. II, parte IV, sez. C, sommario, pp. 391-398. 266 V. [PM], vol. II, *172, sommario, p.416.

207 V. [PM], vol. II, #185.

298 V. [PM], vol. II, +185.01. 29° L'esempio che scegliamo è adattato da Russell | 1959], cap. 8, pp. 97-98.

I fondamenti dell’aritmetica

123

E Ordine numerico degli indici di x, y e z è inteso a specificare l’ordine in cui i diversi elementi si succedono all’interno di ciascuna serie. Per esempio, nella serie R, gli elementi sono nell’ordine di successione x1, x3, x3: in altre parole, la serie R è data dalla classe di coppie (x1, x2), (X1, X3), (X2, X3).

In questo caso, la classe Fy°C‘P è costituita da 27 relazioni selettive, ciascuna delle quali sceglie, dal campo di

R, di S e di Q un elemento. Una di queste relazioni sarà, per esempio, la classe di coppie seguente: {0n, R), (93, SÌ, (Z1, Ot:

un’altra sarà la classe di coppie: {(%2, R), (73, S), (z1, O)},

e così Via.

Il prodotto delle relazioni che costituiscono il campo di P è la relazione IT‘P, la quale ordina le relazioni appartenenti alla classe F°C‘P nel modo che segue: (1) Qualsiasi relazione avente come elemento del suo campo x; precede qualsiasi relazione avente come elemento

del suo campo x, che, a sua volta, precede qualsiasi relazione avente come elemento del suo campo x3. Così, per esempio, la relazione: {Qu, R), (93, S), (Z1, O)}

precede la relazione {(va, R), (Va, S), (Z1, O)}.

(2) Tra lazione y, come campo.

le relazioni che non sono ordinate dalle regole precedenti — cioè tra le relazioni che selezionano dalla reR lo stesso elemento x, — quelle che hanno yj come elemento del loro campo precedono quelle che hanno elemento del loro campo, le quali, a loro volta, precedono quelle che hanno y3 come elemento del loro Così, per esempio, la relazione:

{0, R), 01, 5), (z», O)} precede la relazione {(,

R), (Y3, SÌ, (Z1, O)}.

(3) Tra le relazioni che non sono ordinate dalle regole precedenti — cioè tra le relazioni che selezionano dalla relazione R e dalla relazione S gli stessi elementi x, € ym — quelle che hanno z, come elemento del loro campo pre-

cedono quelle che hanno z, come elemento del loro campo, le quali, a loro volta, precedono quelle che hanno 23 come elemento del loro campo. Per esempio, la relazione:

{(c, R), 01, S), (21, OD} precede

{(x1, R), 01, 5), (2, O)}. Le relazioni della classe Fy‘C‘P risulteranno così ordinate in una serie, che comincerà con le relazioni: {(x, R), Di

S), (Zi, O)}

{(x1, R), 01, SÌ, (2, O)}

124

capitolo 2

{(x, R), (Vi S), (23, O)}

{(x1, R), (92, 5), (z1, O)}

e terminerà con le relazioni: {(23, R), (Ya, 5), (Z3, O)} {(x3, R), (73, 5), (1, DD}

{(x3, R), (93, S), (Za, O)Ì {(23, R), (73, S), (23, O}. La serie di queste relazioni, è, come si è detto, II“P. Il prodotto dei numeri-relazione della relazione P non è altro,

per definizione, che il numero-relazione di II°P. Nel nostro esempio, II°P ha 27 relazioni nel suo campo e queste sono ordinate da IT‘P in una serie ben ordinata. In questo caso, dunque, il numero ordinale 27 sarà il prodotto dei numeri ordinali delle relazioni che stanno nel campo della relazione P. Come si vede, la definizione che precede non è che un adattamento alla teoria dei numeri-relazione della teoria

della moltiplicazione tra numeri cardinali. 4.3.3. Concludiamo il nostro esame delle definizioni delle operazioni tra numeri-relazione con la definizione di esponenziazione di un numero-relazione, così come è esposta nei Principia”” Supponiamo di avere due relazioni P e Q: ciò che vogliamo ottenere è una relazione che abbia come numerorelazione il numero-relazione di P elevato al numero-relazione di Q. Si procede in due passi. Innanzi tutto, si costruisce una relazione Q0' — ordinalmente simile a Q — il cui campo sia costituito da relazioni ordinalmente simili a P. Il procedimento è esattamente quello che abbiamo già incontrato nel $ 4.3.2, e cioè il seguente. Per ogni termine y del campo di Q si forma la classe di tutte le coppie ordinate che hanno y come secondo membro e un termine del campo di P come primo membro. Si otterranno così tante classi di coppie quanti sono gli elementi di Q. Ciascuna di queste classi di coppie forma il campo di una relazione che vale tra due coppie se e solo se tra i primi membri di queste due coppie vale la relazione P. Le relazioni tra coppie ordinate così ottenute si considerano ordinate da una relazione Q' che vale tra due di esse, R e S$, se e solo se il secondo membro delle coppie del campo di R sta nella relazione Q con il secondo membro delle coppie del campo di S. In questo modo si ottiene una relazione Q' tra relazioni che è ordinalmente simile a Q e tale che ciascuna relazione del suo campo è ordinalmente simile a P. Il secondo passo consiste nell’applicare alla relazione (tra relazioni) Q' la nozione — introdotta nel paragrafo precedente — di II°P, cioè di prodotto delle relazioni appartenenti al campo di una relazione (tra relazioni) P.

IT°Q'è dunque la relazione che vale tra M e N se e solo se M e N selezionano, ciascuna, una e una sola coppia ordinata da ciascuna delle relazioni che costituiscono il campo di Q' e inoltre esiste una relazione A tale che, se (x, 2) e (v, z) sono, rispettivamente, i rappresentanti scelti da M e da N in R, allora vale (x, 2)R(», 2) (la qual cosa si verifica quando xPv), e inoltre, per ogni S diverso da R e tale che SQ'R vale che M e N scelgono da S lo stesso rappre-

sentante. Ogni elemento del campo di TI°Q' è una relazione tra coppie ordinate e relazioni del campo di Q'. Si sostituisca, a ciascuna delle relazioni del campo di IT°Q', il suo dominio, lasciando immutato l’ordine degli elementi di 11°": più precisamente, prendiamo, al posto della relazione IT‘Q'la relazione che vale tra i domini di due relazioni M e N appartenenti al campo di II°Q' se e solo se M(II°Q”)N. Questa relazione è simboleggiata, nei Principia da “Pexp 0”?! Ora si può procedere a definire il numero-relazione derivante dall’elevare il numero-relazione 4 al numerorelazione v, in simboli “exp, V?.°?? La definizione è: exp:

270 271 222 293

V. V_ V. V.

V=ar R (AP) AQ) (= Nr°PaA v= Nr‘°Q A R smor (Pexp O)

[PM], [PM], [PM], [PM],

vol. vol. vol. vol.

II, II, II, II,

#173, #176, *186. #176. *186. +186.01.

I fondamenti dell’aritmetica

125

cioè: “4 alla v-esima potenza (dove 4 e v sono numeri-relazione) è la classe di tutte le relazioni che sono ordinalmente simili alla relazione Pexp O”. e

ice

.

.

.

x

.

.

.

.

S. I NUMERI NATURALI E LE PROGRESSIONI 5.1. DEFINIZIONE DI “0”, DI “1” E DI “SUCCESSORE” Abbiamo già avuto modo di osservare che, mentre per Cantor i numeri cardinali finiti coincidono con i numeri ordinali finiti, per Russell i numeri ordinali si distinguono dai numeri cardinali anche quando si tratta di numeri finiti: infatti, nella sua ricostruzione, un numero cardinale finito è una classe di classi, mentre un numero ordinale

finito è una classe di relazioni seriali ben ordinate. Russell identifica i numeri naturali con i numeri cardinali finiti. Una volta definiti i numeri cardinali come classi di classi simili e identificati inumeri naturali con i numeri cardinali finiti, è facile definire due dei termini primitivi di Peano: cioè “0” e “successore”. Russell definisce il numero naturale 0 come la classe il cui unico elemento è la classe vuota;?”* nella simbologia dei Principia: 0=,1 AS

dove 1°A= &(@= A). La classe vuota dev'essere una classe che non contiene nessun oggetto, cioè la classe di tutte le cose che soddisfano una condizione che non può mai essere soddisfatta. Russell la definisce come la classe di tutte le cose che sono diverse da se stesse; nella simbologia dei Principia:

A=a $(x#x).° A a ci 2 278 N 7 Naturalmente la classe vuota è cardinalmente simile a se stessa, Ie solo a se stessa. Dunque 0, così definito, è la classe di tutte le classi che sono cardinalmente simili alla classe vuota, nella simbologia dei Principia:

0= $(BsmA):" in altri termini, 0 è un numero cardinale: il numero cardinale della classe vuota, nella simbologia dei Principia:

0=Nc'A2° Veniamo ora alla definizione di “successore”. Il successore di un numero è il numero che si ottiene aggiungendo 1 al numero di partenza. Per definire il successore di un numero n, Russell definisce dapprima il numero cardinale 1, poi — avendo già a disposizione il concetto di somma tra numeri cardinali — definisce il successore di n come la somma di n con 1.

274 V. Russell [1903a], $ 123, p. 128.

275 V. [PM], vol. I, #54.01.

|

|

276 V. [PM], vol. I, #24.02. Come già precisato sopra (v. nota 60) le formule dei Principia devono qui essere intese prescindendo dalla teoria dei tipi. Nel contesto della teoria dei tipi dei Principia, la formula “ X (x # x)”, è propriamente da intendersi Ceno IDE iO ambigua: essa non designa, cioè, una sola classe, ma una differente classe per ogni tipo che sia attribuito alla variabile “x”. Ciò comporta che, per

ogni tipo di entità, vi sia una classe vuota, che è la classe di tutte le entità di quel tipo, che sono diverse da se stesse. Di conseguenza, nep-

pure il numero naturale 0 è unico, nei Principia, ma vi è un numero naturale 0 per ogni classe vuota. In questa parte del lavoro intendo focalizzare l’attenzione sulla forma originaria del logicismo russelliano e trascuro deliberatamente le modificazioni cui la teoria di Russell andò incontro in conseguenza del tentativo di superare i paradossi logici e semantici attraverso la teoria dei tipi — che saranno affrontate ampiamente nei capitoli 9 e 11.

277 278 279 280

V. V. V. V.

[PM], [PM], [PM], [PM],

vol. vol. vol. vol.

I, #73.46. I, *73.47. I, #73.48. II, #101.1.

capitolo 2

126

Proprio come il numero 0 è la classe di tutte le classi che non hanno nessun elemento, il numero 1 è — per Russell — la classe di tutte le classi che hanno esattamente un elemento. Vi possono essere diversi modi — del tutto equivalenti — di enunciare con precisione questa definizione. Nei Principles, Russell propone le seguenti due formulazioni: 1 è la classe di tutte le classi che non sono nulle e sono tali che, [(A)] se x appartiene alla classe, la classe senza x è la classe nulla; oppure [(B)] tali che, se x e y appartengono alla classe, allora x e y sono identici.

Nei Principles non è presentata una versione simbolica di queste due possibili formulazioni, che tuttavia è semplice: (A)

1=ae da(Go)xe

DAMAe

(B) 1=r a(EmMxe

25

YOe

a/1y#2)=A));

QAMOM (Ke anye DIx=)).

Russell non lo dimostra, ma le due definizioni sono equivalenti. Infatti, ammettendo che se due classi sono uguali, le proprietà che le definiscono siano vere degli stessi oggetti, e viceversa, si ha che:

(i) POE any#zx»)=A=0))(Ge a1y#x)=y#));

poiché y # y è sempre falso, si ha: (i) (e

any#x)=yc A)=0)-Ve a1y#2);

si ha poi: (il) M)-Ve a1y#»=M)VE

aDx=p).

Da (i), (ii) e (iii) si ricava: (iv) POE a1y#))=A=))e

aD3x=p).

Sostituendo ora nel definiens di (A) il primo membro dell’equivalenza (iv) con il secondo membro di essa, si ottiene:

Vv) a(Mxe

QAMxe a3()e

aDx=p).

Dunque (v) equivale al definiens di (A). Ora abbiamo, in generale:

(vi) Mae

a>9 Me

c2x=y)=MY)xe

c3 Ye a3x=p),

e (vi)

MMxe

aDYe

aD3x=y)=®

(re

aAye

DI5x=)).

c23x=)=@0) (re

aAye

d2x=y),

Da (vi) e (vii) otteniamo:

(vii)

Me

05M)

e infine, sostituendo in (v) il primo membro dell’equivalenza (8) con il secondo membro di essa, si ottiene il deft-

niens di (B), che è così provato essere equivalente a (v): poiché (v) era equivalente al definiens di (A), anche il definiens di (B) è equivalente al definiens di (A). Le due definizioni (A) e (B) sono dunque equivalenti. 28! Russell [1903a],$ 123, p. 128.

I fondamenti dell’aritmetica

127

La definizione dei Principia:

(C) 1=a d(E)(a=19), è solo apparentemente diversa dalle precedenti (A) e (B): infatti, ‘“1‘x? x” significa “Ila classe che ha come unico elemento x”, in simboli:

wo: quindi, il definiens di (C) equivale a:

d(Aa(a= $0=»)), che, a sua volta, equivale a:

a(ENO) Ve a=x=y) che non è altro che una forma abbreviata del definiens di (B). Poiché tutte le classi di un solo elemento formano una classe di equivalenza rispetto alla similitudine cardinalesaLi numero 1 è la classe di tutte le classi cardinalmente simili a una classe qualsiasi che abbia solo un elemento:°*° resta quindi provato che il numero 1, così definito, è un numero cardinale: il numero cardinale di ogni classe che contiene solo un elemento.” Nel 1905, Henri Poincaré sostenne che le definizioni di “0” e di “1” proposte da Russell sono circolari. In un articolo del 1905 molto polemico nei confronti del logicismo, Poincaré argomenta ironicamente che, per la definizione di “classe vuota”, «zéro est le nombre des objets qui satisfont à une condition qui n’est jamais remplie. Mais comme jamais signifie en aucun cas je ne vois pas que le progrès soit considérable».?** Riguardo alla definizione del numero 1, Poincaré si riferisce a una possibile formulazione verbale della definizione (B). Egli scrive: «Un, dit-il [il bersaglio diretto della critica è Louis Couturat] en substance, est le nombre des éléments d’une classe

dont deux éléments quelconques sont identiques. Elle [questa definizione] est plus satisfaisante [di quella di zero] [...] en ce sens que pour dffinir 1, il ne se sert pas du mot un; en revanche, il se sert du mot deux».”"° Queste obiezioni di Poincaré sono tuttavia basate su un fraintendimento.?”° È vero che le definizioni di “0” e

282 V. [PM], vol. I, #52.01. 283 V. [PM], vol. I, #51.11. Questa non è una definizione, nei Principia, perché“1°x” è un simbolo complesso. Ciò che si definisce nei Principia è il Suobote “1°, che è preso a denotare la relazione tra qualsiasi classe che pa solo un elemento e quest’elemento stesso (v. [PM], vol.

I, #50.01). “1°x? è una funzione descrittiva (v. s0pr nota 79). Il simbolo “1‘°x”, per indicare la classe che ha come unico elemento x, è di ispirazione peaniana; Peano usa però il simbolo “ur” senza l’apostrofo invertito (v. Peano [1897-99], N° 1, p. 14 e p. 49).

284 V. [PM], vol. I, #52.11. In questa forma, la definizione del numero 1 è data in Russell [1908], $ IX, p. 96.

285 V. [PM], vol. I, #73.44. 286 V. [PMI], vol. I, #73.45. 287 V. [PM], vol. II, #101.2. 285 Poincaré [1905], $ VII, pp. 823-824. V. anche Poincaré [1908], p. 137. L’obiezione di Poincaré è rivolta invero contro Louis Couturat, il

quale però, nel testo cui Poincaré si riferisce, non enuncia tesi proprie, ma si fa paladino di quelle di Russell. Per ira di Couturat si veda Couturat [1904-05], cap. 2, B, pp. 222-223 ([1905a], pp. 59-60). 28° Poincaré [1905], $ VII, p. 824. V. anche Poincaré [1908], p. 137. L’omissione delle virgolette, in questa citazione, è conforme al testo originale. 20 1 punto seguente è chiarito con efficacia da Louis Couturat nella sua replica a Poincaré (v. Couturat [1906a], $ II, pp. 221-226). Qual-

che anno prima, Couturat era stato un kantiano — come lo era Poincaré riguardo all’aritmetica — e aveva sostenuto che i giudizi matematici sono giudizi sintetici a priori (v. Couturat [1900], p. 36). È interessante che, nel suo periodo kantiano, Couturat usò un argomento del

tutto identico a quello di Poincaré contro la possibilità di definire in termini logici i numeri 1, 2 e 3 (v. Couturat [1900], pp. 33- 34). La po lemica di Couturat ([1900]) era rivolta in particolare contro le definizioni proposte da Schroder in [1898b]. Secondo queste definizioni —

in linea con quelle cantoriane — i numeri naturali sarebbero proprietà di classi: 0 è il numero della classe che non contiene nessun elemen-

to, 1 è il numero delle classi che hanno un elemento i e che non hanno elementi diversi da i, 2 è il numero delle classi che hanno gli elemen-

ti ie j e nessun elemento che sia diverso da entrambi, e così via. La mossa di Couturat consiste nel tradurre gli enunciati simbolici di Schroder nel linguaggio naturale e nell'obiettare quindi che essi risultano circolari. Pochi anni dopo, Couturat si convertì al logicismo, divenendone un fervente sostenitore.

128

capitolo 2

“1” possono essere parafrasate nel linguaggio comune nel modo indicato da Poincaré. Ma solo a condizione di te-

nere ben presente che si tratta di parafrasi imprecise che possono avere il solo scopo di aiutare la nostra intuizione finché non abbiamo afferrato il vero significato delle formule. Nell’effettiva definizione della classe vuota non

compare affatto l’espressione “in nessun caso”, né un suo sinonimo. Si dice solo che la classe vuota è la classe di

tutte le cose diverse da se stesse. È vero che questa condizione non è soddisfatta da nessuna cosa, ma ciò non è per nulla asserito nella definizione stessa. Analogamente, nella definizione di “1” cui si riferisce Poincaré, non compare affatto la parola “due”, né alcun sinonimo di “due”: si dice soltanto che una classe 2 ha numero cardinale 1 se e solo @ non è vuota e, qualora x e y appartengano ad 4 x e y sono lo stesso elemento. Interpretare l’enunciato “Se x e y appartengono ad 4, allora x e y sono lo stesso elemento” come se contenesse la parola “due”, non è solo improprio, ma addirittura sbagliato. Infatti, secondo la teoria dell’identità di Russell, due elementi identici sono una cosa impossibile e la classe formata da tutti gli elementi che soddisfano tale condizione impossibile sarebbe la classe vuota, non una classe unità. Fraintendimenti come quello di Poincaré sono inevitabili se le costruzioni logiciste sono spiegate solo nel linguaggio naturale. Poincaré considerava il simbolismo logico di Peano- Russell poco importante, ma a torto, perché proprio questo gli impedì di comprendere a fondo quanto i logicisti stavano facendo. Sebbene la menzionata obiezione di Poincaré a Russell sia errata, essa ne suggerisce una affine, sulla quale merita di soffermarsi un momento. Può sembrare che un circolo vizioso si nasconda proprio nell’uso di concetti come “una cosa” o “un’entità”. Nella nozione di “una cosa” sembra già presente la nozione del numero uno: se fosse così, definendo il numero 1 con una locuzione che comprende un’espressione che si interpreta come “Esiste almeno una cosa, tale che ...”’ si finirebbe in un circolo vizioso analogo a quello indicato da Poincaré. La risposta è che la proprietà di “essere uno”, attribuibile agli individui, dev'essere distinta dalla proprietà di “avere numero cardinale 1”, attribuibile invece solo alle classi.”?! Secondo tale distinzione, per esempio, Socrate è uno nel senso che è un individuo, un’entità, ma non è affatto qualcosa che abbia numero cardinale 1, perché la proprietà di avere il numero cardinale 1 è una proprietà di classi, non di individui. Se “essere uno”, nel senso di “essere un individuo”, implicasse “avere numero cardinale 1”, allora ogni classe di avente cardinalità diversa da 1, essendo nondimeno una classe, avrebbe anche cardinalità uguale a 1: una conclusione certamente assurda.

In realtà, Russell non fece questa distinzione fino alla seconda metà del 1902, quando studiò l’opera di Frege — il quale già nelle sue Grundlagen der Arithmetik (1884)? aveva posto in evidenza che i numeri non si possono considerare proprietà di oggetti. Trascurare questa distinzione fu all’origine, tra l’altro, di difficoltà nella teoria delle classi dei Principles of Mathematics che, più tardi, Russell considerò del tutto spurie; ma di questo parleremo nel cap. 6 (v., soprattutto, $ 9.4); torniamo ora all’argomento di questo paragrafo. Avendo già definito il concetto di somma di due numeri cardinali (v. sopra, $ 3.5.2), il numero 0 e il numero 1, Russell può definire il successore di un numero n come n +;1.°°° Per trovare dunque il successore di un numero n, dobbiamo prendere una classe @ che abbia esattamente n elementi (una classe che sia un elemento di n), poi prendere una classe #8che abbia esattamente un elemento, il quale non sia anche elemento di @ in modo che @ e 2 non abbiano nessun elemento in comune: allora, per definizione, il successore di n sarà il numero cardinale della somma logica di @.e /, cioè il numero cardinale dell’insieme che ha per elementi tutti gli elementi di @ e di 8. Per dirla con le parole di Russell: «Il successore del numero di termini di una classe @ è il numero dei termini della classe consistente di a insieme con x, dove x è un qualsiasi termine non appartenente alla classe».?”* Una definizione equivalente è quella che segue: «n + 1 è la collezione di tutte quelle classi che hanno un termine x tale che. quando x è tolto, rimane una classe di n termini».?”

2° V. Russell [1903a], $ 128, pp. 132-133; Russell [1903a], $ 132, pp. 135-136; Couturat [1904], pp. 47-48; [PM], vol. II, p. 4; Russell

[1914a] lecture VII, pp. 206-207 (1° ediz., pp. 201-202); Russell [1959], cap. 6, pp. 68-69.



V. Frege [1884], cap. 3, soprattutto $$ 29 e 46.

293 V., per esempio, Russell [1903a], $ 123, p. 128. 0, Russell [1919a], cap. 3, p. 23; corsivo di Russell.

2° Russell [1919a], cap. 13, p. 132. V. anche Russell [1903a], $ 131, p. 135. Quest'ultima definizione richiama da vicino la definizione di ‘“y segue immediatamente x nella serie dei numeri naturali” data da Frege nelle Grundlagen e nei Grundgesetze der Arithmetik, che si può parafrasare così: ‘“y è il successore di x” significa che esiste una classe

@ avente numero cardinale y, ed esiste un oggetto 4, appartenente ad

0, tale che la classe di tutti gli oggetti che appartengono ad @& ma sono diversi da v, ha numero cardinale x (v. Frege [1884], $ 76, e Frege

[1893-1903], vol. I, $ 43, p. 58).

i

a

I fondamenti dell’aritmetica

129

5.2. LA DEFINIZIONE DI “NUMERO NATURALE” 5.2.1. Cantor aveva definito il numero 1 come il numero cardinale degli insiemi di un solo elemento, caratteriz-

zando gli altri numeri finiti — 2, 3, 4, 5, ... — come i numeri cardinali degli insiemi che sono ottenibili, a partire

da un insieme avente numero cardinale 1, per successive aggiunte di un elemento.” Dopo aver definito “0” e “successore”, potremmo dire, seguendo Cantor, che i numeri naturali sono: ‘0, il successore di 0, il successore del successore di 0, e così via”. Con ciò, tuttavia, non avremmo definito i numeri naturali servendoci solo delle no-

zioni primitive “0” e “successore”. Questo perché la locuzione “e così via” — come i puntini di sospensione che potrebbero rimpiazzarla —, ha un senso non esplicitato, che fa appello all’intuizione. Passando da un numero al suo successore si può definire, passo dopo passo, qualsiasi particolare numero naturale, ma non si giungerà mai ad aver definito tutti i numeri naturali, e quindi non si riuscirà con questo metodo a eliminare “e così via”. Né potremmo semplicemente spiegare il significato di “e così via” dicendo che con ciò intendiamo che il processo di passare da un numero al suo successore può essere iterato un qualsiasi numero finito di volte, perché il nostro scopo è appunto definire i numeri naturali, che sono i numeri cardinali finiti. Scrive Russell: Quali sono i numeri che si possono raggiungere, dati i termini “0” e “successore”? C’è qualche modo attraverso il quale possiamo definire l’intera classe di tali numeri? Raggiungiamo

1, come successore di 0; 2, come successore di 1; 3, come successore di 2; e

così via. E questo “e così via” che vorremmo rimpiazzare con qualcosa di meno vago e indefinito. Potremmo essere tentati di dire che “e così via” significa che il processo di procedere al successore può essere ripetuto qualsiasi numero finito di volte; ma il problema in cui siamo impegnati è il problema di definire “numero finito”, e quindi non possiamo usare questa nozione nella nostra definizione. La nostra definizione non deve assumere che sappiamo che cosa sia un numero finito.??”

Per dare una definizione rigorosa di “numero naturale” occorre dunque esplicitare il senso che vogliamo attribuire alla locuzione “e così via”. Bisogna che la locuzione “e così via” scompaia, e che ciò che la rimpiazza non faccia appello a un’implicita conoscenza di ciò che si intende con “numero cardinale finito”. 5.2.2. La tecnica generale per risolvere il problema fu provveduta da Frege nella sua Begriffsschrift, del 1879,7° e dal 1884 lo stesso Frege la applicò per offrire una definizione dei numeri naturali.?’’ Russell adottò la stessa definizione dal 1901. Essa consiste nel definire i numeri naturali come quei numeri cardinali che obbediscono all’induzione matematica: ciò spiega perché Russell usi l’espressione “numeri cardinali induttivi” come sinonimo di “numeri naturali”. Per giungere alla definizione — seguendo un’impostazione simile a quella di Frege — Russell introduce dapprima il concetto di classe ereditaria (hereditary class) rispetto a una relazione." Una classe @ è detta ereditaria rispetto alla relazione R se e solo se, ogni volta che un elemento del dominio di R appartiene a questa classe, anche tutti gli elementi che stanno con quest’elemento nella relazione R appartengono alla classe a. In simboli, a è una classe ereditaria rispetto alla relazione R, se e solo se:

29 V. Cantor [1895-97], $ 5, pp. 289-290 (in Cantor [1915], p. 98).

297 Russell [1919a], cap. 3, pp. 20-21. 298 V. Frege [1879], $$ 23-29. 29 V. Frege [1884], $$ 79, 81 e 83, e Frege [1893-1903], vol. I, $ 46. Lia LI primo accenno di Russell a questa definizione dei numeri naturali si trova in un suo articolo del 1901: «Si possono, volendo, definire i numeri finiti attraverso l’induzione matematica [...]» (Russell [1901e], $ 4, p. 24). La definizione secondo questo metodo compare nel

simbolismo di Peano nella III parte di Whitehead [1902] — scritta nel 1901 —

(v. Russell [1902b], *1.6, p. 379), e in forma verbale nei

Principles (v. Russell [1903a], $ 119, p. 123, e $ 123, p. 128). Frege però non è citato, nei luoghi menzionati. E possibile Russell abbia scoperto il metodo indipendentemente da Frege. Quest’ipotesi può essere suggerita da un passo dei Portraits from Memory (1956) in cui Russell dice che il suo professore di filosofia a Cambridge, James Ward, gli aveva dato la Begriffsschrift di Frege i libro il cui piatto forte consiste proprio nell’elaborazione del metodo di cui lo stesso Frege si servirà, nelle Grundlagen del 1884, per offrire una definizione dei numeri naturali coincidente con quella proposta da Russell dal 1901 — dicendogli di non averla letta e di non sapere se valesse qualcosa; Russell continua: «A mia vergogna devo confessare che non la lessi nemmeno io,finché per mio conto non ebbi elaborato gran parte di ciò che conteneva [corsivo mio]» (Russell [1956b], “Six Autobiographical Essays”: II, PP. 21-22).

In ogni caso, negli anni della maturità non solo Russell riconobbe, ma enfatizzò la priorità temporale di Frege; nel 1918, per esempio, egli scrisse al riguardo: «Queste definizioni, e la teoria generalizzata dell’induzione, si devono a Frege, e furono pubblicate fin dal lontano 1879

nella sua Begriffsschrift. Nonostante il grande valore di questo lavoro, io fui, credo, la prima persona ad averlo letto — più di vent'anni dopo la sua pubblicazione» (Russell [1919a], cap. 3, p. 25, nota 2). bg ve se 1 — che non 20 V., per es., [PM], vol. I, parte II, sez. E, sommario, p. 544, e Russell [ 1919al, cap. 3, p. 20. La definizione originale hiese

LA denota una relaparla di “classe ereditaria”, rispetto a una relazione R, ma di “proprietà ereditaria nella successione” (f-Reihe), RUI, rispetto a A”. “chiusa detta spesso è R relazione una a rispetto ereditaria classe una Oggi, 24. $ [1879], Frege in trova zione qualsiasi — si

capitolo 2

130

(xe

a

AxRy 3 y E di

Possiamo farci un’idea intuitiva di che cosa sia una classe ereditaria prendendo, per esempio, la classe di tutti coloro che si chiamano Jones.** Questa è una classe ereditaria rispetto alla relazione padre-figlio perché, quando qualcuno appartiene a questa classe e ha un figlio, allora anche il figlio appartiene a tale classe. E evidente che questa classe ereditaria conterrà tutti i discendenti in linea maschile di ogni capostipite che si chiama Jones: infatti, ogni figlio maschio di ogni capostipite Jones sarà un Jones, e quindi apparterrà alla classe, e quindi, se diviene padre a sua volta, i suoi figli maschi saranno dei Jones, e quindi apparterranno alla classe, e così via. Dopo aver definito il significato di “classe ereditaria rispetto alla relazione R”, Russell definisce come posterità (posterity) di un elemento a rispetto a una relazione R l'insieme di tutti gli individui che appartengono a ogni classe ereditaria, rispetto alla relazione R, cui appartiene anche a, il quale, a sua volta, deve far parte del campo della relazione R.°°* In simboli, la posterità di un elemento a rispetto a R è uguale a: î(ae C'RA(d(ac

aA(x))Y) xe

a xRy>ayemaze

0).

Tornando, per fissare le idee, ai Jones, è chiaro che, anche se una classe ereditaria rispetto alla relazione padrefiglio contiene un certo capostipite Jones e tutti i suoi discendenti in linea maschile, essa non conterrà necessariamente solo i suoi discendenti in linea maschile: per esempio, la classe di tutti quelli che si chiamano Jones è una classe ereditaria rispetto alla relazione padre-figlio, ma contiene persone di sesso femminile, e comprende dei Jones discendenti da capostipiti diversi. Se però, invece di una sola classe ereditaria a cui appartenga il nostro capostipite, prendiamo il prodotto logico, cioè l’intersezione di tutte le classi ereditarie rispetto alla relazione padrefiglio cui appartiene questo capostipite, otteniamo una classe che contiene tutti e so/o i suoi discendenti diretti in linea maschile. Sia infatti ala classe che contiene solamente un certo capostipite a, i suoi discendenti in linea maschile, e nient'altro; @ è una classe ereditaria rispetto alla relazione padre-figlio, perché ogni volta che contiene un individuo contiene anche tutti i suoi figli maschi. Ora, l’intersezione di tutte le classi ereditarie rispetto alla relazione padre-figlio cui appartiene a coincide con a. Infatti, tale intersezione non può mancare di nessun membro di a, perché ogni elemento di & dev'essere presente — per definizione — in tutte le classi che formano l’intersezione; e l'intersezione non può neppure avere membri che non sono in &, perché se così fosse @ non sarebbe una delle classi che formano l’intersezione, cioè non sarebbe una classe ereditaria rispetto alla relazione padre-figlio. Così, la posterità di un capostipite dato rispetto alla relazione padre-figlio è l'insieme di tutti gli indivi-

302 Frege chiama una proprietà F “ereditaria nella f-successione” se e solo se, ogni volta che un qualsiasi x ha la proprietà F, hanno la prorietà F anche tutti gli y con cui x ha la relazione f (v. Frege [1879], $ 24, p. 55, prop. 69, e p. 58). = L’esempio si trova in Russell [1914a], lecture VII, p. 200 (1* ediz., p. 195). Per un esempio simile, v. anche [PM], vol. I, parte II, sez. E, sommario, p. 544.

304 V. [PM], vol. I, #96, sommario, p. 607. Nel $ 26 della sua Begriffsschrift

(1879), dopo aver definito simbolicamente la relazione tra x e y

espressa da ‘“y segue x nella f-successione” o da “x precede y nella f-successione” (v. Frege [1879], $ 26, p. 60, prop. 76), Frege spiega la definizione con queste parole: «Se dalle due proposizioni [Sdtzen] che ogni risultato di un'applicazione del procedimento fa x ha la proprietà F e che la proprietà F è ereditaria nella fsuccessione [fReihe], qualunque F possa essere, si può concludere che y ha la proprietà F, allora dico: “y segue x nella fca successione”; oppure “x precede y nella f-successione”’» (Frege [1879], $ 26, pp. 61-62). La definizione è riformulata da Frege nelle Grundlagen der Arithmetik con queste parole: «La proposizione [Satz]

“Se ogni oggetto con cui x sta nella relazione cade sotto il concetto £, e se dal fatto che d cade sotto F segue, in generale, qualunque sia d, che ogni oggetto con il quale d sta nella relazione g cade sotto F, allora y cade sotto il concetto F, qualunque concetto F possa essere” sia sinonima [gleichbedeutend] di

“y segue x nella g-successione [@-Reihe]"» (Frege [1884], $ 79, p. 92). (Per la definizione nei Grundgesetze, v. Frege [1893-1903], vol. I, $ 45, p. 60.) Sulla base della relazione così definita, nel $ 29 della Begriffsschrift Frege definisce poi la relazione espressa da “z appartiene alla fsuccessione che comincia con x”, oppure da “x appartiene alla /-successione che termina con 2° come la relazione espressa da: “z è identico

a x oppure segue x nella f-successione” (v. Frege [1879], $ 29, p. 71, prop. 99, e p. 72; per la stessa definizione nei Grundgesetze, v. Frege

[1893-1903], vol. I, $ 46, p. 60). La classe degli z che hanno con un certo x la relazione espressa da ‘“y segue x nella f-successione” è ten

que quasi coincidente con quella che Russell chiama “posterità” di x rispetto alla relazione f — la differenza è solo che per Frege qualsiasi oggetto fa sempre parte della sua posterità rispetto a una qualsiasi relazione R, mentre per Russell un oggetto fa parte della propria posterità rispetto a una relazione R se e solo se appartiene al campo di R, cioè se è un oggetto che ha con qualcosa la relazione R, 0 con il quale qualcosa ha la relazione R.

I fondamenti dell’aritmetica

131

dui che appartengono a ogni classe ereditaria, rispetto alla relazione padre-figlio, cui appartiene anche il capostipite dato. È facile comprendere come ci si può servire di queste considerazioni per definire i numeri naturali: basta sostituire il capostipite a con 0 e la relazione padre-figlio con la relazione tra un numero e il suo successore, cioè la relazione che vale tra x e y se e solo se y= x +; 1. Così “numero naturale” è definito da Russell come segue: “numero naturale” denota la posterità di 0 rispetto alla relazione tra un numero e il suo successore ® Dire che “numero naturale” denota la posterità di 0 rispetto alla relazione tra un numero e il suo successore è come dire che qualcosa è un numero naturale se e solo se appartiene a tutte le classi che contengono tutti i membri della posterità di 0; cioè se e solo se appartiene a tutte le classi @ cui appartengono sia 0 sia i successori di tutti gli elementi di & che hanno successori: questa è la formulazione che si trova nei Principles. L’intersezione tra tutte le classi che contengono tutti i membri della posterità di 0 sarà la classe più piccola che contiene tutti i membri della posterità di 0. Infatti, tale intersezione non può essere più piccola della classe N che contiene solamente 0 e la sua posterità, perché ogni elemento di N dev'essere presente — per definizione — in tutte le classi che formano l’intersezione; e l’intersezione non può essere neppure più grande di N, perché se così fosse N non sarebbe una classe che contiene 0 e la sua posterità, il che è contro l’ipotesi. Dire dunque che un numero naturale è qualcosa che appartiene alla posterità di 0 rispetto alla relazione tra un numero e il suo successore equivale dunque a dire che un numero naturale è qualcosa che appartiene alla classe più piccola che contiene tutti imembri della posteri-

tà di 0. Denotando la classe dei numeri naturali con il simbolo dei Principia “NC induct”, si ha, in simboli:

xe

NC induct=(@(0€

a1(M()ye

aAz=y+15ze

QIxe

adaà,

o, più brevemente:

xe NC induct=(@(0e

anMye

apy+le

Qpxre



che significa: “Qualcosa è un numero naturale se e solo se appartiene a tutte le classi cui appartiene zero e cui appartiene anche, per ogni elemento, il successore di quest’elemento”. La definizione russelliana di “numero cardinale induttivo” è la seguente:

NC induct=y #((Q(0e a1()Ye

aDy+le

Dore

o)

cioè: “La classe dei numeri naturali è la classe di tutte le classi cui appartiene zero e cui appartiene anche, per ogni elemento, anche il successore di quest’elemento”.?” Naturalmente, queste definizioni possono essere formulate altrettanto bene in termini di proprietà, invece che di classi," e proprio questo era stato il metodo originariamente seguito da Frege. Si dice che una proprietà @ è

ereditaria rispetto alla relazione R se e solo se, ogni volta che un elemento del dominio di R ha la proprietà @, anche a tutti gli elementi che stanno col primo nella relazione R hanno la proprietà @. Per es., la proprietà di chiamarsi Jones è ereditaria rispetto alla relazione tra padre e figlio perché se qualcuno si chiama Jones ed è padre di qualcun altro, allora questo qualcun altro si chiamerà anch’egli Jones. Si può allora definire la proprietà di essere un numero naturale come la proprietà di avere tutte le proprietà ereditarie di 0 rispetto alla relazione tra un numero e il suo successore. Secondo questa versione, un numero naturale è qualcosa che ha tutte le proprietà che ha 0, e tali che, se le ha un numero naturale, le ha anche il suo successore.

Si osservi che, con il metodo di Frege- Russell, la classe dei numeri naturali è definita facendo riferimento a una totalità di classi di cui la stessa classe da definire fa parte, oppure facendo riferimento a una totalità di pro-

305 V., per es., [PM], vol. II, #120, sommario, p. 200, e Russell [1919a], cap. 3, pp. 22-23

306 La definizione dei Principles è la seguente: «la classe dei numeri finiti è la classe dei numeri che è contenuta in [cioè, è sottoclasse di]

aggiunogni classe s cui appartiene 0 e il successore di ogni numero appartenente a s, dove il successore di un numero è il numero ottenuto gendo 1 al numero dato» (Russell [1903a], $ 119, p. 123).

307 V. [PM], vol. II, #120.101. 308 V_ [PM], vol. II, #120.01.

30° V. Russell [1903a],$ 119, p. 123, e $ 123, p. 128. 310 v_, per es., Russell [1914a], lecture VII, p. 201 (1° ediz., p. 197), e Russell [1919a], cap. 3, pp. 21-23.

capitolo 2

132

è prietà di cui la stessa proprietà da definire fa parte. Definizioni di questo tipo — cioè definizioni in cui un'entità Vedefinita a partire da una totalità di cui essa stessa è parte — sono dette impredicative: esse assumeranno, come dremo a suo tempo, una particolare importanza nella discussione russelliana dei paradossi.

5.3. LE PROGRESSIONI 5.3.1. Siamo ora nella posizione migliore per esaminare in dettaglio la definizione russelliana di “progressione”.?!! Una progressione è caratterizzata, nei Principia, come «una serie che è simile alla serie dei numeri cardinali induttivi in ordine di grandezza [...]. Tali serie appartengono al numero-relazione [...] che Cantor chiama 0».!° Nei Principia, si dice che una progressione può pensarsi come generata da una relazione R con le seguenti proprietà: (1) Rè unarelazione uno-uno; (2) R ha un primo termine; cioè, esiste un termine del campo di R con cui nessun altro termine ha la relazione R;

(3) R non ha un ultimo termine; cioè, non esiste un termine del campo di R che non abbia la relazione R con un altro termine; (4) il campo di R è contenuto nella [cioè, è una sottoclasse della] posterità del primo termine.*!*

R è la relazione tra un termine qualsiasi x della serie generata da R e il suo successore y rispetto a R, cioè il termine y tale che xRy, che chiameremo “R-successore”. Per esempio se R è la relazione tra un numero naturale x e il numero naturale x + 1, 1’R-successore di x è il termine che negli assiomi di Peano è detto “successore” di x. Le proprietà (1)-(4) della relazione R rappresentano un modo di esprimere il requisito che la serie generata da & sia tale che: (1a) ha un primo termine;

(2a) ha uno e un solo R-successore di ogni termine (cioè, ha almeno un R-successore di ogni termine, e non più di uno);

(3a) termini dive-rsi di essa hanno R-successori diversi; (4a) tutti i termini sono raggiungibili, a partire dal primo, in un numero finito di passaggi da un termine al suo R-

successore. Vediamo perché. La condizione (1) dice che R dev'essere uno-uno; quindi, per definizione, R dev'essere sia molti-uno sia uno-molti. La condizione che R sia molti-uno esprime il requisito che ogni termine della serie debba avere al massimo un R-successore, che è parte di quanto afferma (2a). La condizione che R sia uno-molti esprime il

requisito che termini diversi abbiano R-successori diversi, che è ciò che afferma (3a). La condizione (2) esprime, ovviamente, (1a).

La condizione (3) esprime la parte rimanente di quanto afferma (2a), cioè che ogni termine della progressione deve avere almeno un R-successore. Infine, vediamo perché la condizione (4) esprime (4a). La relazione che vale tra un qualsiasi termine x di una

serie generata da R e un qualsiasi termine y della stessa serie che possa essere raggiunto, a partire da x, in un numero finito di passaggi da un termine al suo R-successore è detta, nei Principia, relazione ancestrale (ancestral

sa

prima definizione russelliana di “progressione” si trova in Russell [1901e], $ 3, p. 15. Ne parleremo più avanti, nel $ 5.3.3

312 [PM], vol. II, #122, sommario, p. 245.

IV iibidi

314 Questa caratterizzazione delle progressioni è già espressa da Russell nella definizione del numero &y che si trova nei Principles of Mathematics: «@, [“@y” è il simbolo usato nei Principles al posto del cantoriano “Ng” (v. sotto, nota 324)] è la classe di classi w ciascuna

delle quali è il dominio di qualche relazione uno-uno R (la relazione di un termine al suo successore) che è tale che c'è almeno un termine

che non succede a nessun altro termine, ogni termine che succede ha un successore, e u è contenuta in [cioè, è sottoclasse di] qualsiasi clas-

se s che contiene [cioè, che ha tra i suoi elementi] un termine di v che non ha predecessori, e contiene anche il successore di ogni termine di u che appartiene a s» (Russell [1903a], $ 123, p. 127). Si osservi che la terza condizione — nelle parole di Russell: «every terms which succeeds has a successor» — non è espressa del tutto correttamente, perché non impone che il primo termine della successione abbia un successore.

I fondamenti dell’aritmetica

li55

relation) di R, ed è denotata con il simbolo “R,”.?!° La definizione è la seguente: “La relazione ancestrale di R è la relazione (in estensione) tra gli x e gli y tali che y appartiene alla posterità di x rispetto a R”; in simboli:

Riza (xe

C'RA(M(xe

aA(M(MbRwAve adwe

DELIO)

da cui si ha:

xRiy=xe

C:RA(O(xe

aAMMbRwAve

adDwe

ay

‘x sta con y nella relazione ancestrale di R se e solo se y appartiene alla posterità di x rispetto a R”. Sulla base della definizione di relazione ancestrale di R, si può formulare la condizione (4a) come segue: (4b) Tra il primo termine di R e un termine qualsiasi del campo di R vale sempre la relazione ancestrale di R. Poiché tra il primo termine di R e ogni termine del campo di R deve valere la relazione ancestrale di R, allora ogni elemento del campo di R deve far parte della posterità del primo termine di R. Altrimenti detto, il campo di R dev'essere una sottoclasse della posterità del primo elemento di R. Poiché vale evidentemente anche l’inverso — se il campo di R è una sottoclasse della posterità del primo elemento di R, allora tra il primo elemento di R e ogni termine del campo di R deve valere la relazione ancestrale di R — la (4b) è equivalente a: (4)

Il campo di R è contenuto nella posterità del primo termine,

dove “contenuto nella” significa, com’è usuale in Russell, “è una sottoclasse della”. Questo è effettivamente il

modo in cui — come abbiamo visto prima — è formulata la condizione (4a) nei Principia. La classe delle relazioni R che soddisfano le condizioni (1)-(4) è denotata, nei Principia, dal simbolo “Prog”.

Poiché tutte le relazioni della classe Prog sono ordinalmente simili, e nessuna relazione che non faccia parte di questa classe è ordinalmente simile a una relazione che ne fa parte, la classe Prog è una classe di equivalenza rispetto alla similitudine ordinale ed è quindi — secondo la definizione di numero-relazione data da Russell — un numero-relazione.?'5 La definizione formale delle relazioni della classe Prog che si trova nei Principia non consiste nell’elencare le condizioni (1)-(4), ma è più breve. Per comprenderla, cominciamo con il notare che le condizioni (1)-(4) sono sovrabbondanti: se, infatti, per (4), è vero che il campo di R è contenuto nella posterità del primo termine, allora bisogna che esista un primo termine. Dunque (4) implica (2). Si noti, inoltre, che (4) equivale a:

(4°) Il campo di R è uguale alla posterità del primo termine. Infatti, per (4), il campo di R è una sottoclasse della posterità del primo termine; d’altra parte, la posterità del primo termine è costituita da elementi del campo di R, ed è dunque una sottoclasse del campo di R. Ne segue che il campo di R è uguale alla posterità del primo termine. Ora, se è vera la condizione (3), cioè se R non ha un ultimo termine, allora evidentemente ogni termine del

campo di R dev'essere anche un elemento del dominio di R! Dunque, se (3) è vera, il campo di R è una sottoclasse del dominio di R. Poiché, inoltre, il dominio di R è una sottoclasse del campo di R3° ne segue che il campo 315 La relazione R, è oggi spesso chiamata “chiusura transitiva di R”. 316 V. [PM], vol. I, #90.01. Come abbiamo già avuto modo di rilevare sopra (v. nota 304), fin dalla sua Begriffsschrift (v. Frege [1879], $

ne ancestrale di Russell — la differenza essendo solo che per Frege ogni oggetto ha sempre, per qualsiasi scelta di R, la relazione ancestrale di R con se stesso, mentre per Russell un oggetto ha con se stesso la relazione ancestrale di R solo se appartiene al campo di R.

317 V. [PM], vol. I, #90.1. 318 V. [PM], vol. III, #263.162.

prati

\

319 Infatti, se esistesse un termine x, appartenente al campo di R ma non al dominio di R, x non avrebbe la relazione R con nessun altro terla mine, e dunque R avrebbe un ultimo termine. 320 Infatti, il campo di una relazione è definito come l’unione del dominio e del codominio della relazione. 9

capitolo 2

134

e di R è uguale al dominio di R. Da ciò consegue che, la condizione (4°) — che abbiamo già visto equivalere a (4), (3): anche inglobare quindi inglobare (2) — può essere riformulata in modo da (4') Il dominio di R è uguale alla posterità del primo termine.

(4') ingloba dunque le condizioni (2), (3) e (4). Si giunge così a spiegare la definizione formale delle relazioni della classe Prog proposta nei Principia, che, tradotta in parole, è la seguente:

ugo NE, LA AE Da: 3 ug 2. Prog è la classe di tutte le relazioni uno-uno il cui dominio è uguale alla posterità del primo termine. Dato il significato che, come abbiamo visto, assume tale definizione, è evidente che qualsiasi relazione R della

classe Prog genererà una serie che soddisfa i cinque assiomi di Peano, e viceversa, qualsiasi serie che soddisfa i cinque postulati di Peano si potrà pensare come generata da una relazione della classe Prog. Scrive Russell: È facile vedere che una progressione, così definita, soddisfa i cinque assiomi di Peano. Il termine appartenente al dominio ma non al dominio inverso sarà ciò che chiamiamo “0”; il termine con cui un termine ha la relazione uno-uno sarà il “successore” del ter-

mine; e il dominio della relazione uno-uno sarà ciò che chiamiamo “numero”. Prendendo successivamente i cinque assiomi, avremo le seguenti traduzioni:— (1) “0 è un numero” diviene: “Il membro del dominio che non è un membro del dominio inverso è un membro del dominio”. Questo è equivalente all’esistenza di tale membro, che è data nella nostra definizione. Chiameremo questo membro “il primo termine”. (2) “Il successore di qualsiasi numero è un numero” diviene: “Il termine con cui un dato membro del dominio ha la relazione in

questione è ancora un membro del dominio”. Questo si dimostra come segue: Per la definizione, ogni membro del dominio è un membro della posterità del primo termine; quindi il successore di un membro del dominio dev’essere un membro della posterità del primo termine (perché la posterità di un termine contiene sempre i suoi successori, per la definizione generale di posterità), e pertanto un membro del dominio, perché per definizione la posterità del primo termine è la stessa cosa del dominio. (3) “Due numeri non hanno lo stesso successore”. Questo è soltanto dire che la relazione è uno-molti, cosa che è per definizione (essendo uno-uno). (4) “0 non è il successore di nessun numero” diviene: “Il primo termine non è un membro del dominio inverso”, che è ancora un'immediata conseguenza della definizione. (5) Questo è l’induzione matematica, e diviene: “Ogni membro del dominio appartiene alla posterità del primo termine”, che era parte della nostra definizione.?””

Ciò dimostra pienamente l’asserzione di Russell secondo cui gli assiomi di Peano non definiscono /a progressione dei numeri naturali — supposto che esista una progressione siffatta — ma una progressione qualsiasi.’ Il punto interessante è che non solo le operazioni aritmetiche sono definibili (per induzione) a partire da una progressione qualsiasi, ma — come vedremo nel prossimo capitolo — sempre a partire da una progressione qualsiasi sono definibili i numeri interi con segno, i numeri frazionari, e quindi i numeri reali e complessi. In breve: la matematica pura non si basa per nulla sul fatto che 1 numeri naturali siano identificati con classi di classi, ma solo sul fatto che essi formano una progressione. Questo è un punto che Russell riconobbe e ribadì più volte — anche se pare spesso trascurato dai suoi commentatori. Già nei Principles of Mathematics (1903) Russell scrive: La classe di classi che soddisfano i suoi assiomi [di Peano] è la stessa della classe di classi il cui numero cardinale è @[°?*], ossia della classe di classi, secondo la mia teoria, che è @). Essa si può definire nel modo più semplice come segue: @ è la classe di classi u ciascuna delle quali è il dominio di qualche relazione uno-uno R (la relazione di un termine con il suo successore) che è tale che c’è almeno un termine che non succede a nessun altro termine, ogni termine che succede ha un successore, e u è contenuto in ogni

classe s che contiene un termine di u che non ha predecessori, e contiene anche il successore di ogni termine di w che appartiene as.

221 V. [PM], vol. II, #122.01. V. anche Russell [1919a], cap. 8, p. 82.

322 Russell [1919a], cap. 8, pp. 82-83. V. anche Russell [1903a], $ 123, p. 128. 223 V. Russell [1903a],$ 123,p. 127, e Russell [1919a], cap. 1, pp. 8.

:

324 “Q? con un numerale a pedice è il simbolo che Russell usa all’epoca dei Principles, e fino alla fine del 1905, al posto del cantoriano “N” con un numerale a pedice (cosicché “@” sta per “Ny”). In “Théorie générale des séries bien-ordonnées”, scritto nella prima metà del 1901,

Russell scrive: «Ho rimpiazzato l’alef di Cantor con @, perché questa lettera è più conveniente» (Russell [1902a], p. 410). Nei Principles, si legge: «Cantor impiega per questo numero l’Alef ebraico con il suffisso 0, ma questa notazione è scomoda» (Russell [1903a], $ 118, p. 122, prima nota) e, molto più avanti, «Cantor denota questo numero mediante 1° Alef ebraico con il suffisso 0, per noi sarà più conveniente

denotarlo mediante @» (Russell [1903a], $ 287, p. 309). In una lettera a Jourdain del 12 aprile 1904, Russell spiega candidamente: «non riesco a fare gli Alef» (in Grattan-Guinness [1977], p. 26). Russell usa il simbolo “X” per la prima volta nella sua corrispondenza con

Jourdain in una lettera del 17 novembre

1905 e nella sua corrispondenza con Couturat in una lettera del 7 dicembre del 1905. Fino al luglio

dello stesso anno, Russell usava “@?° per “N” in entrambe le corrispondenze.

Ù

I fondamenti dell’aritmetica

J55

Questa definizione ingloba i cinque postulati di Peano e niente più. Così di ogni classe siffatta [di ogni classe v che è un elemento di Nol si possono dimostrare tutte le proposizioni usuali nell’aritmetica dei numeri finiti: si possono definire addizione, moltiplicazione, frazioni, ecc., e si può sviluppare la totalità dell’analisi [...].°5 Dedekind, Cantor e Peano hanno mostrato come basare tutta 1’ Aritmetica e 1’ Analisi su serie di un certo tipo — ossia su quelle proprietà dei numeri finiti in virtù delle quali essi formano quella che chiamerò una progressione.??°

[...] soltanto le proprietà seriali o ordinali dei numeri finiti sono usate dalla matematica ordinaria, essendo del tutto irrilevanti quelle che si possono chiamare proprietà logiche. Per proprietà logiche dei numeri, intendo la loro definizione per mezzo di idee puramente logiche. [...] Ma non sono queste le proprietà che impiega la matematica ordinaria, e i numeri potrebbero essere privati di esse senza alcun danno per la verità dell’ Aritmetica e dell’ Analisi. Ciò che è rilevante per la matematica è soltanto il fatto che i numeri finiti formino una progressione.” [...] l’Aritmetica finita, in quanto tratta con i numeri, e non con i termini o le classi di cui si possono asserire i numeri, si applica .

«

32

ugualmente a tutte le progressioni.*°*

5.3.2. Le spiegazioni verbali offerte da Russell riguardo alle progressioni potrebbero dare origine a qualche confusione. Nei Principia” e nel successivo Introduction to Mathematical Philosophy,® Russell parla delle progressioni come di serie — serie aventi numero ordinale © —, ma chiama “progressioni” anche le relazioni della classe Prog. In realtà, le relazioni della classe Prog — sebbene abbiano un numero-relazione, il numero-relazione Prog — non possono avere un numero ordinale, perché non sono relazioni seriali: non lo sono perché, pur essendo irriflessive, non è né transitive né connesse. Come si può definire, a partire da una relazione della classe Prog, una relazione cui attribuire il numero ordinale ©? Una definizione adeguata si può facilmente ottenere dalla nozione di relazione ancestrale, ed è proprio questa la strada seguita da Russell. Notiamo, innanzi tutto, che, se R è una relazione della classe Prog, la relazione ancestrale di R, R., è una relazione riflessiva, antisimmetrica, transitiva e connessa: si tratta dunque di un ordine

semplice! Se si definiscono i numeri ordinali secondo il metodo adottato da Carnap nell’edizione americana di Carnap [1954],°° la relazione ancestrale di R si può considerare essa stessa come una relazione avente numero ordinale ©. Ma questo non si può fare nella teoria di Russell, perché egli definisce i numeri ordinali come numerirelazione di relazioni seriali ben ordinate; ne segue che la relazione ancestrale di R, non essendo una relazione seriale (perché riflessiva), non può avere un numero ordinale.

Tuttavia, a partire dalla relazione ancestrale di una relazione R della classe Prog si può ottenere facilmente una relazione seriale che abbia numero ordinale ©. L’idea è quella di definire una relazione che valga tra x e y in tutti i casi in cui vale la relazione R., tranne quando x = y. Per enunciare la definizione precisa, richiamiamo la definizione russelliana di prodotto relativo di due relazioni, secondo la quale, date due relazioni R e S il loro prodotto relativo —

in simboli “R|S” —

è quella relazione

che vale tra x e y se e solo se esiste uno z tale che x è nella relazione R con z e 2 è nella relazione S con y; cioè, in simboli: xR|Sy= (Az) (xRz A zSy)

Per esempio, se R è la relazione espressa da “padre” e S è la relazione espressa da “cugino”, la relazione R|S è la relazione che vale tra x e y se e solo se x è padre del cugino di y. Ora, per ottenere, a partire da una relazione R della classe Prog, una relazione avente numero ordinale ©, Rusà ; i Po : «D 7 334 das E È . RI che vale tra x e y se e solo se tra x e y sell definisce una relazione, denotata, nei Principia dal simbolo “Rp°,

325 326 327 328

Russell Russell Russell Russell

[1903a], [1903a], [1903a], [1903a],

$ 123, $ 187, $ 230, $ 412,

p. p. p. p.

127. 199. 241. 430.

den

le relazioni della 329 V. [PM], vol. II, *122, e vol. III, *263: +*122 e *263 sono entrambi intitolati “Progressions”, ma in #122 sono trattate

classe Prog, mentre in *263 sono trattate le serie aventi numero ordinale @.

330 V_ Russell [1919a], cap. 8, pp. 82-83. 931 V. sopra; $:4.2.3.

332 V_ Carnap [1954], $ 38a, p. 237. V. sopra, $ 4.2.3.

333 V_ [PM], vol. I, #34.1. V. anche Russell [1901e], $ 1, p. 6, e Russell [1903a], $ 29, p. 25. 334 V_ [PM], vol. I, #91.05.

capitolo 2

136

sussiste la relazione R|R., cioè se e solo se esiste uno z tale che x ha la relazione Rconzetraze ne ancestrale di R. In simboli:

y vale la relazio-

RESA, R35 da cui:

xRpoy = xR|R.y = (42) (xRz A zR.y), cioè, sviluppando: xRpo) = (32) (xRz A(a)(ze

aA(M)MmRw Ave aDwe

MIye

Il membro di destra dell’ultima equivalenza si legge: “C’è uno posterità di z rispetto a R”. Se R è una relazione della classe Prog, vale la relazione R., tranne quando x = y. La relazione in parola è e connessa: è dunque una relazione seriale. Russell chiama “@” simboli:

DI

z con cui x ha la relazione R e y appartiene alla la relazione Ryo vale tra x e y in tutti i casi in cui dunque irriflessiva, ma, come R., resta transitiva la classe delle relazioni seriali così ottenute; in

@=y P((AR)(R e Prog A P= Ryo). Nei Principia, si dimostra: che le relazioni di questa classe sono serie ben ordinate," che © è un numerorelazione,” e che dunque © è un numero ordinale.?*° Infine, si dimostra che il numero cardinale dei campi delle relazioni che appartengono a ® è No.*' Per riassumere, vi sono dunque due tipi di relazioni che il Russell maturo — nelle spiegazioni verbali — chiama “progressioni”: le relazioni della classe Prog e le relazioni della classe @. Tuttavia, nello sviluppo simbolico dei Principia non vi è nessuna confusione: Prog è il numero-relazione delle relazioni uno-uno il cui dominio è uguale alla posterità del primo termine, mentre @ è il numero ordinale delle relazioni Ry,, dove R è una qualsiasi relazione avente numero-relazione Prog. 5.3.3. Il Russell di inizio Novecento non vedeva ancora le cose con questa chiarezza. Il $ 3 dell’articolo “Sur la logique des relations avec des applications à la théorie des séries” (1901), si apre con una definizione, data nel simbolismo di Peano, che identifica il numero ordinale © con ia classe di tutte le classi i cui elementi costituisco-

no il dominio di qualche relazione della classe Prog (uso qui la terminologia russelliana più tarda per evitare confusioni).** In altri termini, il numero ordinale @ è identificato con la classe di tutte le classi numerabili. Subito dopo questa definizione, Russell commenta: Questa è una definizione del numero ordinale @, 0 piuttosto, se si vuole, una definizione della classe delle classi numerabili. I numeri ordinali sono, in effetti, classi di serie. La classe © è la più semplice delle classi di serie infinite. Poiché la definizione non pre-

suppone numeri, sarà bene dare a questo tipo di serie un nome che non implichi numeri. Pertanto la chiamerò la classe delle progressioni. Qui è la definizione in parole: ® è la classe delle classi u tali che c’è una relazione uno-uno R tale che u è contenuto nel [cioè: è una sottoclasse del] dominio di R, e che la classe dei termini con i quali i diversi v hanno la relazione R è contenuta in w. senza essere identica a u, e che, se s è una classe qualsiasi cui appartiene almeno uno dei termini di v con cui nessun « ha la relazione R, e cui appartengono tutti i termini di v con cui un termine della porzione comune di « e s ha la relazione R, allora la classe u è contenuta nella classe s.°!

335 V. PM], vol. I, #91.52. 336 La condizione che z appartenga al campo di R può essere tralasciata perché è già espressa dalla condizione “xR?”.

337 338 399 340 34! 3 34

V. [PM], vol. III, #263.01. V. [PM], vol. III, #263.11. V. [PM], vol. III, *263.19. V. [PM], vol. III, #263.2. V. [PM], vol. III, *263.101. V. Russell [1901e], $ 3, #1.1, p. 15. Russell [1901e], $ 3, p. 15.

I fondamenti dell’aritmetica

137

Russell afferma qui che i membri di © — che, secondo la definizione, sono le classi numerabili —

sono le pro-

gressioni, e che le progressioni sono serie. Evidentemente, egli identifica qui una serie con i/ campo di una relazione seriale, e una progressione con il campo di una relazione della classe Prog.” Ciò sarebbe legittimo se ci fosse una relazione uno-uno tra serie — intese come relazioni seriali — e campi di relazioni seriali. Ma non è così: una serie non può essere identificata con il campo di una relazione seriale, né una progressione può essere identificata con il campo di una relazione della classe Prog, per la semplice ragione che la medesima classe può essere il campo di diverse relazioni seriali. Nell’ Introduction to Mathematical Philosophy (1919), lo stesso Russell spiega: Si potrebbe pensare che una serie dovrebbe essere il campo di una relazione seriale, non la relazione seriale stessa. Ma questo sarebbe un errore. Per esempio,

IERI IEEE sono sei serie diverse che hanno tutte il medesimo campo. Se il campo fosse la serie, ci potrebbe essere solo una serie con un dato campo. Ciò che distingue le precedenti sei serie sono semplicemente le diverse relazioni ordinanti nei sei casi. Data la relazione ordinante, il Campo e l'ordine sono entrambi determinati. Così la relazione ordinante si può assumere essere la serie, ma il campo non può esserlo.”

Nell'articolo del 1901 sulla logica delle relazioni Russell propone dunque una definizione del numero ordinale @ che — secondo l’identificazione russelliana dei numeri cardinali con classi di classi già proposta nel medesimo saggio?’ — è in realtà la definizione di un numero cardinale: il numero cardinale No. Russell si rese conto molto presto dell’errore: nell’articolo del 1902 (ma scritto nella prima metà del 1901) “Théorie générale des séries bienordonnées”, il numero ordinale @ è definito correttamente nella proposizione 1.35, con il seguente commento: La Prop 1.35 è la Df del numero ordinale @. Vedremo più avanti (Prop 2.12) che qualsiasi numero ordinale è una classe di relazioni ben ordinate. La Df appena data dovrebbe rimpiazzare la definizione del precedente articolo ($ 3, Prop 1.1), che avrebbe dovuto essere una definizione del numero cardinale o

li (V. sotto, Prop 1320

Nella proposizione 7.32 dello stesso articolo,” così come nel contributo di Russell all’articolo di Whitehead “On cardinal numbers”? — scritta non più tardi del giugno 1901 — il numero cardinale No è definito in modo equivalente a come nell’articolo precedente era stato definito il numero ordinale @. L’errore nella sua prima definizione del numero ordinale © è rilevato da Russell in una lettera a Couturat del 22 aprile 1904: Una serie non è una classe, ma una relazione. Nel Vol. 8 della Revue de Mathématiques, ho corretto ciò che avevo detto nel Vol. 7. Se cercate di dare una Df formale di ©, scoprirete che, finché si considera una serie come una classe, si dà sempre la definizione di

2, in luogo di quella di @. Ho fatto ciò io stesso, T VII, p. 126, $ 3 P 1.1 [il riferimento è a Russell [1901e], $ 3, #1.1, p. 15]. Ciò

che chiamavo © era in verità @. Vedi il mio articolo in T. VIII, introduzione, e prop. 1.35 (p. 15) [il riferimento è a Russell

[1902a], p. 391, 1.35].?°"

344 Le sottorelazioni delle relazioni uno-uno, di cui parla la precedente definizione di ©, le quali hanno come dominio (0, in modo equiva-

lente, come campo) u, sono relazioni della classe Prog, e quindi non sono relazioni seriali. (Nel medesimo articolo (v. Russell [1901e], $ 1, p. 6), Russell rileva che una relazione che genera una serie è una relazione transitiva, mentre le sottorelazioni suddette non lo sono.) Ma,

come abbiamo visto nel testo, a ciascuna relazione R della classe Prog corrisponde esattamente una relazione seriale, Ro, che ha lo stesso

campo di R.

345 Russell [1919a], cap. 4, p. 34. V. anche Russell [1919a], cap. 4, pp. 29-30. 346 V_ Russell [1901e],$ 1, p. 10.

|

347 «qy” è qui adoperato, come in tutti gli scritti russelliani dell’epoca, al posto del cantoriano “N”

348 Russell [1902a], p. 391. 349 V_ Russell [1902a], p. 410. 350 V. Whitehead

[1902], $ INI (Russell [1902b]), #2.4, p. 380. Qui No è definito come

(v. sopra, nota 324).

|

Daf

la classe di tutte le classi che sono il dominio di

nei Principles qualche relazione della classe Prog. La medesima definizione di Xy è presentata, come abbiamo già avuto modo di vedere, (v. Russell [1903a], $ 123, p. 127).

351 In Russell [2001a], p. 383.

138

capitolo 2

5.4. “FINITO” E “INFINITO”: DUE POSSIBILI DEFINIZIONI “Finito” e “infinito” sono termini contraddittori; quindi, avendo definito l’uno, si può definire immediatamente

l’altro come negazione del primo. Ciò che evidentemente non si può fare, senza involgersi in un circolo vizioso, è definire l’infinito come “non finito” e, nello stesso tempo, il finito come “non infinito”. Alla fine dell’Ottocento, erano stati proposti due modi di definire i ILL “finito” e “infinito”, cui abbiamo accennato nel cap. 1, $ 4.2. Un metodo, dovuto a Dedekind e a Peirce, stabilisce ae una classe infinita è una

classe che è cardinalmente simile a una sua sottoclasse propria e, al contrario, che una classe finita è una classe che non è cardinalmente simile a nessuna sua sottoclasse propria. Secondo tale definizione, i numeri cardinali infiniti sono i numeri cardinali di classi che sono cardinalmente simile a una loro sottoclasse propria, mentre i numeri cardinali finiti sono i numeri cardinali di classi che non sono cardinalmente simili a nessuna loro sottoclasse propria. Se, seguendo la terminologia dei Principia, chiamiamo classi riflessive le classi che hanno lo stesso numero cardinale di una loro sottoclasse propria e cardinali riflessivi i numeri cardinali di classi riflessive, possiamo dunque porre: infinito= riflessivo e finito =non riflessivo. “i Il secondo metodo, utilizzato da Frege e da Cantor,” consiste invece nel definire dapprima il finito. Cantor definisce gli insiemi finiti come insiemi aventi un solo elemento o ottenibili da insiemi di un solo elemento per successive aggiunte di un nuovo elemento, e gli insiemi transfiniti come gli insiemi che non hanno questa proprietà. I numeri cardinali e ordinali finiti sono poi definiti come i numeri di insiemi finiti, e i numeri cardinali e ordinali

transfiniti come i numeri di insiemi transfiniti. La definizione fregeana e russelliana dei numeri cardinali induttivi fornisce uno strumento per rendere del tutto rigorosa una definizione secondo quest’ultimo metodo. Si potrà dire: i numeri cardinali finiti sono i numeri induttivi; le classi finite sono le classi che hanno un numero cardinale induttivo. Se, seguendo la terminologia dei Principia, chiamiamo classi induttive quelle classi il cui numero cardinale è un numero cardinale induttivo, possiamo dunque porre: finito = induttivo e infinito = non induttivo? Ci troviamo così di fronte a due diverse definizioni possibili di “finito” e di “infinito”. Ora, ogni volta che si rendono possibili definizioni diverse di uno stesso termine, si deve indagare se siamo di fronte a modi diversi di dire la stessa cosa — cioè se le definizioni sono equivalenti — oppure no. Nel secondo caso le definizioni definirebbero concetti diversi, cui a rigore andrebbero attribuiti anche nomi diversi, perché chiamare entità diverse con lo stesso nome può dare origine a contraddizioni. Si può porre la domanda in questi termini: una classe è riflessiva se e solo se Non: è induttiva? Dedekind, Frege e Cantor pensavano di sì, e Dedekind e Cantor ne fornirono anche dimostrazioni.” Nei Principles, Russell concorda, presentando entrambe le definizioni di “infinito” come equivalenti. La prima” definizione proposta è data così: «Quando è possibile togliere un termine da [una classe] u e lasciare una classe w' [cardinalmente] simile alla classe u, noi diciamo che u è una classe infinita».** Naturalmente, ciò è come dire che la classe u è infinita se e solo se è riflessiva. Infatti, se u è cardinalmente si-

mile a una classe v' ottenuta togliendo a v un elemento, allora v è cardinalmente simile a una sua sottoclasse propria, e dunqueè riflessiva per definizione. Inversamente, se una classe w èriflessiva allora, per il teorema (SB) del

352 V. Dedekind [1888], $ 5, punto 64, e Peirce [1885], $ IV, p. 202. Come mostra la prima stesura del saggio di Dedekind, cominciata nel 1872 e saltuariamente continuata fino al 1878, la definizione risale al 1872 (v. Dedekind [1872-78], p. 294). Quindi Dedekind precedette

Peirce, anche se non nella pubblicazione. 33V. [PM], vol. II, parte III, sez. C, sommario, p. 184, e

#124, sommario.

4 V. Frege [1884], $ 83; Cantor [1887-88], $ VII, punto7, p. 415; Frege [1892c], p. 271; Cantor [1895-97],$ 5, pp. 289-209, e $ 6, p. 292 (in Cantor [1915], p. 98 e p. 103). (V. anche, sopra, cap. 1,$4.2.) 2 V. [PM], vol. II, parte III, sez. C, sommario, pp. 181-184, e #120, sommario e 120.02.021. La definizione SS

di “numero finito”

Co, ‘numero induttivo” si trova in Frege [1884], $ 83, e in Frege [1893-1903], vol. I, $ 46. V. Dedekind [1888], $ 8, punto 119, e $ 14, punti 159 e 160, e Cantor [1895-97],$Tri teoremi C e D, p. 295 (in Cantor [1915], p. 108). Frege non fornisce una dimostrazione, limitandosi da affermare: «[...] si può dimostrare che i sistemi infiniti del sig. Dedekind sono non

Sol nel mio senso.(RCS enunciato È invertibile; ma la eu,

di ciò è dai SAS È certamente |non ipod è con suffi-

in una parte della dimostrazione del teorema (e. Dedekind [18881, 8s 14, punto 159, ultime due righe di p. 384-prima riga di p. 385). È la prima non per importanza, ma perché Russell, nei Princ iples, parla dell’opposizione finito-infinito nel capitolo precedente a quello nel quale definisce inumeri naturali, cioè i numeri finiti.

358 Russell [1903a],$ 117, p. 121.

I fondamenti dell’aritmetica

139

cap. 1, $ 5.2 (che equivale al teorema di Schréder-Bernstein) essa è anche simile alla classe u' ottenuta togliendo un solo elemento a wu.

Poco più avanti, sempre nei Principles, Russell propone «una definizione alternativa del finito e dell’infinito mediante l’induzione matematica». Essa è la seguente: [...] la classe dei numeri finiti è la classe dei numeri che è contenuta in [cioè, è sottoclasse di] ogni classe s cui appartiene 0 e il

successore di ogni numero appartenente a s, dove il successore di un numero è il numero ottenuto aggiungendo 1 al numero dato.?9°

A quell’epoca, Russell riteneva che l'equivalenza delle due definizioni fosse dimostrabile: Così possiamo definire i numeri finiti sia come quelli che si possono raggiungere per induzione matematica, partendo da 0 e aggiungendo 1 a ogni passo, sia come quelli come quelli di classi che non sono simili [cioè, cardinalmente simili] alle parti di se stesse ottenute togliendo singoli termini.0°! Possiamo ora definire i numeri finiti o in base al fatto che l’induzione matematica può raggiungerli, partendo da 0 o da 1 [...] o in base al fatto che essi sono i numeri di collezioni [collections] tali che nessuna parte propria di esse ha lo stesso numero del tutto. Queste due condizioni possono facilmente dimostrarsi essere equivalenti.*9?

La dimostrazione

di Russell

si può trovare —

espressa nel simbolismo

di Peano —

nella terza parte

dell’articolo di Whitehead “On cardinal numbers”, che fu interamente scritta da Russell. Tuttavia, come Russell

comprese già nel 1905, questa dimostrazione, così come quelle già offerte da Dedekind e da Cantor, fanno tacitamente uso di uno speciale principio, che Russell chiamerà “assioma moltiplicativo” e che oggi è generalmente noto con il nome di “assioma di scelta”. Se quest’assioma non fosse vero, potrebbero esserci degli insiemi infiniti — nel senso di ‘non induttivi” —

che pure non sono riflessivi. In altri termini, potrebbero esservi insiemi che non

sono né induttivi, né riflessivi. Torneremo più ampiamente su questo punto nel quarto capitolo.

6. LA DIMOSTRAZIONE

DEGLI ASSIOMI DI PEANO

6.1. Nei Principles,” Russell afferma che i cinque assiomi di Peano sono dimostrabili a partire dalla sua definizione di ‘numero naturale”. Egli non si preoccupa, in quella sede, di fornire le dimostrazioni, che, in effetti, sono +. 366 molto semplici. Cominciamo riportando qui l'equivalenza che deriva immediatamente dalla definizione russelliana di “numero naturale”:

(1)

@M&xe NCinduct=(@(0e

a1M0Vye

apayt.le

QI re

0),

“Qualcosa è un numero naturale se e solo se appartiene a tutte le classi cui appartiene zero e cui appartiene anche, per ogni elemento, anche il successore di tale elemento”; oppure “Qualcosa è un numero naturale se e solo se appartiene alla posterità di 0 rispetto alla relazione tra un numero e il suo successore”. A partire da (1), quattro dei cinque postulati di Peano sono sicuramente dimostrabili. Per dimostrare il primo postulato, “Zero è un numero naturale”, basta prendere 0 come x in (1). Si ottiene:

Oe NC induct=(@(0€

35° 360 30 362 363

a1M)ye

cpDyt.le

D20e

0.

Russell [1903a], $ 118, p. 123. Russell [1903a], $ 119, p. 123. Ibid. Russell [1903a], $ 292, p. 315. y. Whitehead [1902], $ III (Russell [1902b]), *2.75 e *2.76, p. 380.

364 V, sotto, cap.4,$ 4.2.2.

365 V. Russell [1903a], $123,p. 128.

|

n

>

+120.12; il secondo è il 366 Quattro dei postulati di Peano si trovano tra i teoremi del vol. Il dei Principia. Il primo postulato è il teorema $ 6.2, e in particolare la sotto, v. postulato, terzo il Per *120.11. teorema il è quinto il *120.124; teorema il è quarto il teorema #120.121; nota 382.

capitolo 2

140

Il lato destro dell’equivalenza precedente non può che essere vero e quindi dev’essere vero anche il lato sinistro. Il secondo postulato dice “Il successore di un numero naturale è un numero naturale”. Si può dimostrarlo così: si supponga, in contrasto con il secondo postulato, che esista un numero naturale n il cui successore s(n) non è un numero naturale (si osservi che, per la definizione russelliana, s(n) esiste sempre). Essendo n, per ipotesi, un numero naturale, secondo la (1) n appartiene a tutte le classi che contengono 0 e, per ogni elemento che ha un successore, anche il successore di tale elemento; d’altra parte, non essendo s(n), per ipotesi, un numero naturale, do-

vrebbe esserci almeno una di queste classi che, pur contenendo n, non contiene s(n). Ma questo è impossibile, perché secondo la (1), tutte queste classi, qualora contengano un numero, contengono anche il successore di questo numero. Tralasciamo, per il momento, il terzo postulato, del quale ci occuperemo tra non molto. Il quarto postulato afferma che zero non è il successore di alcun numero naturale. Questo deriva dal significato che la teoria assegna a “successore”: il successore di un numero y è y +; 1, cioè il numero di una classe ottenuta dall'unione di una classe di y elementi con un’altra — priva di elementi in comune con la prima — di un solo elemento. Quindi, indipendentemente da quanti siano gli y elementi, una classe di cardinalità y +. 1 ha almeno un elemento, e quindi y +. I non può essere 0, perché l’unica classe che ha numero cardinale 0 è la classe vuota. Il quinto postulato di Peano, trascritto nella simbologia dei Principia, diventa: (2)

(Q(0€

aNMye

a3yt.le

QD2(Mxe

NC inducet>o xe 0),

che significa: “Se zero appartiene alla classe Qe se, data una cosa che appartiene a a, il suo successore appartiene anch'esso ad a, allora ogni numero naturale appartiene a @/°. La (2) equivale a:°°” (@@(06

a

AMY)

aDyt

le

Q>2 (xe NC inducto xe 0),

che equivale a:°* (@@(0e

am) e a>3Dyt le QAxe

NC inducto xe

d,,

che equivale a:°9° (@(x(x e NC induct

10

gA1Y)0 e aDyt

le QpIxe

a,

; 3 che equivale a:°”° (3)

(M@M(xe

NC induct> (0e a1M)ye

ap3ytle

QIxe

0).

La (1) implica:?”! (x)(xe NC induet> (M(0€

aA Me

apDytle

QIxe

0),

che equivale a (3),°”? cioè a una formula che esprime il quinto postulato di Peano. Riguardo al principio di induzione matematica, incorporato nel quinto assioma di Peano, la concezione di Rus-

sell è opposta a quella sostenuta da Poincaré. Poincaré considerava l’induzione matematica come il racionamento matematico per eccellenza. L’aritmetica non può essere fondata solo sulla logica,” secondo Poincaré, perché se

397 Poiché “B” sta al 308 Poiché 30° Poiché 270 Poiché È Poiché

“B > MAM)” equivale a “(x)(B > A)”, dove “A(x)” sta al posto di una formula qualsiasi contenente la variabile “x” libera e posto di una formula qualsiasi che non contiene la variabile “x”. i “p > (g> rr)” equivale a “pAqg>3r°. “pagAr2s” equivale a “yApAqg>s”. “p A q>r° equivale a “p > (92 »)” (v. sopra, nota 368). “p = g” implica “p > g”. "7°Poiché “BI (AM) equivale a “(x)(B > A)”, dove “A(x)” sta al posto di una formula qualsiasi contenente la variabile “x ” libera e i sta al posto di una formula qualsiasi non contenente “x” (v. sopra, nota 367). Logica che Poincaré identifica con la logica aristotelica.

I fondamenti dell’aritmetica

141

lo fosse, essa sarebbe incapace di fornire conoscenze nuove e interessanti, riducendosi a una collezione di tautolo-

gie. Ciò che rende l’aritmetica feconda è — secondo Poincaré — proprio il ragionamento per induzione matematica, che egli chiama «ragionamento per recursione».3”! Principio non dimostrabile né logicamente, né empiricamente, il ragionamento per recursione costituisce per Poincaré un modello di ragionamento sintetico a priori:3”° «[...] non è che l’affermazione della potenza dello spirito che si sa capace di concepire la ripetizione indefinita di uno stesso atto, essendo tale atto possibile una volta».?”° La certezza di questo principio deriva, per Poincaré, dal fatto che esso non è che l’affermazione di una proprietà dello spirito stesso.” Così, la certezza del ragionamento aritmetico dipende — per Poincaré, come per Kant prima di lui — da qualcosa di extralogico, cioè da una certa caratteristica della mente umana. Per Russell, invece, l’induzione matematica non è un principio, ma — come abbiamo visto — un teorema immediatamente ricavato da una definizione: L’uso dell’induzione matematica nelle dimostrazioni fu, in passato, qualcosa di misterioso. Non sembrava ragionevole dubitare che fosse un metodo di prova valido, ma nessuno sapeva perché fosse valido. Alcuni credevano che fosse realmente un caso d’induzione, nel senso in cui questa parola si usa in logica. Poincaré [...] lo considerava un principio della massima importanza, per mezzo del quale un infinito numero di sillogismi potrebbe essere compendiato in un solo argomento. Noi ora sappiamo che tutti questi punti di vista sono errati, e che l’induzione matematica è una definizione, non un principio.*?8

Essendo ricavata dalla definizione di “numero finito”, l’induzione matematica non ha affatto —

osserva Russell

— quella validità generale che le attribuiva Poincaré; essa è valida solo in un ambito piuttosto ristretto, cioè quello dei numeri finiti: Ci sono alcuni numeri ai quali può essere applicata, e ce ne sono altri [...] ai quali non può essere applicata. Definiamo i “numeri naturali” come quelli ai quali si possono applicare le dimostrazioni per induzione matematica [...]. Ne segue che tali dimostrazioni si possono applicare ai numeri naturali non in virtù di una misteriosa intuizione o assioma o principio, ma come una proposizione puramente verbale. Se i “quadrupedi” sono definiti come animali che hanno quattro zampe, ne consegue che gli animali che hanno quattro zampe sono quadrupedi; e il caso dei numeri che obbediscono all’induzione matematica è esattamente simile.?”°

6.2. Veniamo ora al terzo postulato di Peano: “Numeri naturali diversi hanno successori diversi”. Nei Principles, 8 come

abbiamo

visto, Russell sostiene che tale postulato è dimostrabile

sulla base della definizione di

“numero finito” — una posizione che egli conserva fino al 1906. Il terzo postulato, in unione con gli altri, implica l’esistenza di infiniti numeri naturali. Infatti, se ogni numero deve avere un successore, e nessun numero può ripetersi nella serie, occorre che i numeri naturali siano infiniti.

Nella teoria dei numeri naturali di Russell, perché questo sia vero, occorre che il numero di “cose” — di entità — esistenti al mondo non sia un numero naturale: in altre parole occorre che il numero di “cose” esistenti non sia finito. Supponiamo, infatti, che al mondo esistessero solo, poniamo, nove “cose”. In tal caso —

scrive Russell —

andremmo incontro a una sorta di catastrofe aritmetica: [...] i cardinali induttivi da 0 a 9 sarebbero così come ce li aspettiamo, ma 10 (definito come 9 + 1) sarebbe la classe-nulla. Si ricor-

derà che n + 1 può essere definito come segue: n + 1 è la collezione di tutte quelle classi che hanno un termine x tale che, quando x è tolto, rimane una classe di n termini. Applicando ora questa definizione, vediamo che, nel caso supposto, 9 + 1 è una classe consi-

374 V. Poincaré [1894].

375 V,, per es., Poincaré [1891], p. 773, e Poincaré [1894], $ VI, pp. 381-382. 376 Poincaré [1894], VI, p. 382. EV

bid: L’opinione di Kant, com’è noto, è molto simile. Come ha ben sintetizzato Stephen F. Barker, la conoscenza aritmetica si fonda,

DI i per Kant, «sulla coscienza del tempo come una “forma pura dell’intuizione” e sulla coscienza da parte della mente della propria capacità di ripetere l’atto del contare, una volta dopo l’altra. Questa è la sua spiegazione di come una tale conoscenza sintetica a priori sia possibile: nel conoscere le leggi del numero, la mente acquisisce un’intuizione solo sul proprio funzionamento interno, non sulla realtà com'è in sé. Naturalmente questo è parallelo all’opinione di Kant che la nostra conoscenza sintetica a priori della geometria euclidea si basi sulla coscienza dello spazio come una “forma dell’intuizione” e sulla coscienza della mente della propria capacità di costruire figure spaziali i nell’immaginazione pura» (Barker [1964], cap. 4, p. 73). InternazioCongresso Primo al relazione sua nella Burali-Forti, già che osservare interessante essere 378 Russell [1919a], cap. 3, p. 27. Può nale di Filosofia (Parigi, 1900), aveva sottolineato, in esplicita polemica con Poincaré, che il principio d’induzione, che compare nella definizione peaniana per postulati di “numero naturale”, non è un principio valido in generale, perché è vero per i numeri finiti, ma non per i numeri transfiniti di Cantor (v. Burali-Forti [1901], $ III, pp. 300-301 e p. 303).

97? Ibid.

380 v_ Russell [1903a], $ 123, p. 128.

capitolo 2

142

sia zero. Così stente di nessuna classe, ossia è la classe-nulla. Lo stesso sarà vero di 9 + 2, o in generale di 9 + n, a meno che n non

10 e tutti i successivi numeri cardinali induttivi saranno identici, poiché saranno tutti la classe nulla. In un caso simile i numeri cardinali induttivi non formeranno una progressione, né sarà vero che non ce ne sono due con lo stesso successore, poiché 9 e 10 saranno seguiti entrambi dalla classe-nulla (10 essendo esso stesso la classe-nulla).35!

Se dunque esiste un massimo numero naturale, la classe vuota è un numero naturale. Ne segue, per contrapposizione, che se la classe vuota non è un numero naturale, allora non esiste un massimo numero naturale — in altri termini, i numeri naturali sono infiniti. È evidente che, se al mondo esistono infinite cose, nessun numero naturale è vuoto e che, viceversa, se qualche numero naturale è vuoto, allora non vi sono infinite cose. Le asserzioni che esistono infiniti numeri naturali, che la

classe vuota non è un numero naturale e che esistono infinite “cose” sono quindi — nella prospettiva di Russell — affermazioni equivalenti. Se una di esse può essere provata, allora è facile dimostrare il terzo postulato di Peano. Si può fare come segue. Il terzo postulato dice: (MM (x e NC induct A y e NC induct) A (s(x)=s))) > x=y).

Poniamo, per assurdo, che — essendo x e y numeri naturali — sia falso che (s(x) = s(y)) > (x = y): si abbia, cioè, s(x) = sy), ma x # y. Siano ora @ e / classi senza elementi in comune aventi, rispettivamente, numero cardinale s(x) e numero cardinale s(y) (classi del genere esisteranno sempre purché né s(x) né s(y) siano mai la classe vuota cioè purché vi siano infiniti numeri naturali). Per definizione di “successore”, la classe @ avrà un elemento w tale che, tolto quest’elemento ad &, ciò che resta abbia numero cardinale x; per lo stesso motivo, la classe bB avrà

un elemento w; tale che, tolto quest’elemento a 8, ciò che resta abbia numero cardinale y. Esistendo, per ipotesi, un correlatore K tra @ e f, possono darsi due casi: (a) Se uKu;, sia K; la relazione che vale tra ve w se e solo sevzuew# wu; e vKw. (b) Se -uKu,, sia K, la relazione che vale tra ve w se e solo se: v#z ue w# wu, e vKw, oppure vKu, e uKw. È facile vedere che sia K, sia K, sono correlatori tra le due classi di numero cardinale x e di numero cardinale y. In en-

trambi i casi si ha dunque che x = y, che è in contraddizione con l’ipotesi che x # y. È quindi impossibile che sia vero sia che s(x) = s(y) sia che x # y.

6.3. Per dimostrare il terzo postulato di Peano, si deve dunque provare che esistono infinite entità. Cosa che, nel contesto della teoria intuitiva degli insiemi che stiamo utilizzando, equivale a provare l’esistenza di una classe infinita. Tra il 1903 e il 1904, il matematico americano Cassius J. Keyser aveva pubblicato due articoli in cui

sosteneva che l’esistenza di una classe infinita non è dimostrabile, e poiché essa è necessaria per sviluppare la matematica, deve essere postulata attraverso un assioma, che egli chiamò assioma dell’infinito (infinity axiom).® Russell replicò nel 1904 al secondo scritto di Keyser," sostenendo che, al contrario, l’esistenza di almeno una classe infinita è dimostrabile logicamente: Dimostriamo dapprima il principio dell’induzione matematica [...]. Questo principio stabilisce che qualsiasi proprietà posseduta dal numero 0, e posseduta da n + 1 quando è posseduta da n, è posseduta da tutti i numeri finiti. Per mezzo di questo principio, dimostriamo che, se n è un qualsiasi numero finito, il numero dei numeri da 0 a n, entrambi inclusi, è n + 1. Di conseguenza, se esiste 71,

esiste anche n + 1. Quindi, poiché 0 esiste, ne segue per induzione matematica che tutti i numeri finiti esistono. Dimostriamo anche che, se m e n sono due numeri finiti diversi da 0, m + n non è identico né a m né a n. Ne segue che, se n è un qualsiasi numero finito, n non è il numero dei numeri finiti, poiché il numero dei numeri da 0 a nè n+1,en+ 1] è differente da n. Quindi nessun nume-

x Russell [1919a], cap. 13, p. 132. V. anche [PM], vol. II, parte III, sez. C, sommario, p. 183, e *120.03, p. 203. "°° Ineffetti, il teorema dei Principia più vicino al terzo postulato di Peano (il *120.31) include nell’antecedente questa condizione. 383 AI di fuori della teoria intuitiva degli insiemi, non è detto che si tratti della stessa cosa. Per esempio, nella teoria degli insiemi di Zermelo senza assioma dell’infinito si può ancora dimostrare che i numeri naturali sono infiniti, e che quindi vale il terzo assioma di Peano, ma so che esiste un insieme che li raccoglie tutti. Per maggiori particolari sulla teoria di Zermelo, v. sotto, cap. 12; Sl “° V. Keyser [1903] e [1904]. 385 L'assioma dell’infinito di Keyser — che in questo segue esplicitamente Poincaré [1894], VI, p. 382 —asserisce che un atto mentale che è possibile una volta può essere ripetuto senza fine, oppure, in modo secondo Keyser equivalente, che l'insieme delle possibili ripetizioni di

un atto che si può compiere mentalmente una volta è cardinalmente simile a un suo sottoinsieme proprio (e dunque è infinito secondo la

definizione di Dedekind) (v. Keyser [1903], $ TI, p. 427, e [1904], ESSI

35° V. Russell [1904b].

I fondamenti dell’aritmetica

143

ro “finito Èx il numero dei numeri finiti; e pertanto, poiché la definizione dei numeri cardinali?” non lascia dubbio quanto all esistenza di un numero che è il numero dei numeri finiti, ne segue che questo numero è infinito. Quindi, a partire dai soli princi-

pi astratti della logica, l’esistenza dei numeri infiniti è rigorosamente dimostrata.38*

In un testo molto successivo gomentazione raggiunge il suo tutte le cose, perché, se n fosse loro e coincidenti con la classe .

.

— l’Introduction to Mathematical Philosophy (1919), Russell osserva che tale arscopo solo se si riesce a dimostrare che nessun numero induttivo n è il numero di il numero di tutte le cose, allora tutti i numeri da n + 1 in poi sarebbero uguali tra vuota:

.

. . n . $ x L'argomento che il numero dei numeri . da 0 a n (entrambi petinclusi)ANIè n + 1 si. fonda sull’ipotesi che fino a n incluso nessun numero è

uguale al suo successore, cosa che, come abbiamo visto, non sarà sempre vera se l’assioma dell’infinito è falso.38°

In realtà, una volta che si sono definiti i numeri come classi di classi è possibile fornire una dimostrazione — nel contesto della teoria “ingenua” degli insiemi — che i numeri da 0 a n hanno numero cardinale n +, 1. Supponendo di partire con la classe vuota, si può definire “0” come il numero della classe vuota, “1” come il numero

della classe che ha per unico elemento il numero 0, “2” come il numero della classe che ha come elementi solo 0 e 1, e così via. 0 è diverso da 1, perché il primo ha per unico elemento la classe vuota, mentre il secondo ha tra i suoi elementi una classe che ha per unico elemento il numero 0. Ne segue che 2 dev'essere diverso da 0 e da 1, perché 2 ha tra i suoi elementi una classe che ha per elementi solo 0 e 1, mentre 0 e 1 non hanno questa classe tra i loro elementi. Si può procedere dimostrando, per induzione, che ogni numero naturale diverso da zero è il numero della classe non vuota dei suoi predecessori. Il numero cardinale di tutti inumeri naturali sarà dunque un numero infinito. Quella appena descritta è esattamente la procedura seguita da Frege nei suoi Grundgesetze der Arithme-

ni

Si tratta, in fondo, di una variante di un argomento molto antico, suggerito in un passo del Parmenide di Platone.” L'argomento, semplificato e sfrondato, rispetto all’originale platonico, è riportato da Russell nei Principles®” e nell’Introduction to Mathematical Philosophy," ed è il seguente. Supponiamo, per iniziare, che esista il numero 1. Allora 1 ha l’Essere; dunque c’è l’ Essere; ma 1 e l’Essere sono diversi; dunque vi sono almeno due cose: 1 e l’Essere, cosicché esiste il numero 2. Ma adesso 1, l’Essere e 2 sono tre, dunque esiste il numero 3, e così via. Pertanto, se c’è il numero 1, ci sono infiniti numeri.

Un’altra argomentazione per dimostrare che nessun numero è uguale alla classe vuota, esposta da Russell nella sua Introduction to Mathematical Philosophy," fa uso del teorema di Cantor, e procede come segue. Sappiamo che il numero delle sottoclassi di una classe di n membri è 2” e che 2" — per il teorema di Cantor — è un numero che è sempre maggiore di n. Sappiamo anche che: se gli elementi della classe di partenza sono individui, le sue sottoclassi saranno classi di individui; se gli elementi della classe di partenza sono classi, le sue sottoclassi saran-

no classi di classi; e così via. Partiamo ora dall’ipotesi estrema che al mondo non vi siano affatto individui. Possiamo in tal caso formare una sola classe di individui, cioè la classe vuota. La classe che contiene tutte le possibili classi di individui sarà dunque la classe che contiene solo la classe vuota di individui. A partire da questa classe, possiamo però formare le sue sottoclassi, che saranno due classi di classi di individui: la classe vuota di classi di

individui e la classe che contiene solo la classe vuota degli individui. Formiamo adesso la classe che ha per elementi queste due classi di classi di individui: il numero delle sue sottoclassi — che sono classi di classi di classi di individui — sarà quattro.” Se formiamo la classe di queste classi, otterremo da essa 16 sottoclassi: cioè 16 classi di classi di classi di classi di individui. E così via. Sebbene laborioso da enunciare il principio è molto semplice: partendo con n individui otteniamo, al primo livello della gerarchia, 2" classi di individui. Al secondo livello della

387 Vedi i miei Principles of Mathematics, cap. xi. [Nota di Russell.]

388 Russell [1904b], pp. 257-258. Per una dimostrazione simile, v. anche [1903a], $ 339, pp. 356-357, e $ 747, p. 497.

35° Russell [1919a], cap. 13, p. 138.

390 V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 41, $ 42, $ 46, e $$ 114-118. 391 V. Parmenide, 143a-144a. 392 V. Russell [1903a], $ 339, p. 357. 393 Vv. Russell [1919a], cap. 13, p. 138.

39 V_ Russell [1919a], cap. 13, pp. 133-134.

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che contiene solo una 395 Avremo infatti: la classe vuota di classi di classi, la classe che contiene solo la classe vuota di classi, la classe solo la classe contenente classe la sia classi di vuota classe sia contiene che classe classe contenente la classe vuota di individui e infine la vuota di individui.

144

capitolo 2

gerarchia, otteniamo

2” classi di classi di individui. Al terzo livello otteniamo

2°°

classi di classi di classi di

individui, eccetera.

Avanzando sufficientemente nella gerarchia, possiamo dimostrare che un numero finito qualsiasi non è uguale

alla classe vuota. Per esempio, anche se nel mondo non esistesse alcun individuo, potremmo dimostrare che il

numero 65.536 non è la classe vuota salendo fino al quinto livello della gerarchia, cioè quello delle classi di classi di classi di classi di classi di individui: di queste ce ne saranno infatti 2!° = 65.536. Su questa base, ci si può servire dell’induzione matematica per dimostrare che nessun numero finito è uguale alla classe vuota. Scrive Russell: Si può dire: Assumiamo che il numero degli individui sia n, dove n può essere zero senza invalidare il nostro argomento; allora, se formiamo l’insieme completo degli individui, classi, classi di classi, ecc., presi tutti insieme, il numero dell’intero insieme sarà: n

RIOT

ud infinitum,

che è Xo. Così, prendendo insieme tutti i generi di oggetti, e non limitandoci agli oggetti di un unico tipo qualsiasi, otterremo La tamente una classe infinita, e non ci sarà quindi bisogno dell’assioma dell’infinito. Questo è il ragionamento che si potrebbe fare.

Una dimostrazione dell’esistenza di una classe infinita che segue una linea un po’ diversa da quelle descritte finora è esposta da Richard Dedekind con il teorema 66 del suo saggio Was sind und was sollen die Zahlen? (1888). Scrive Dedekind: Il mondo dei miei pensieri, cioè la totalità S di tutte le cose che possono essere oggetto del mio pensiero è infinito. Difatti, se s indica un elemento di S, il pensiero s' che s può essere oggetto del mio pensiero è esso stesso un elemento di S. Se si considera s' come immagine @(s) dell’elemento s [cioè, se si considera s'come il valore della funzione @ per l'argomento s], allora la rappresentazione @ di S determinata in tal modo [cioè la classe degli s' che costituiscono i valori delia funzione @ per i vari s di S] ha la proprietà che l’immagine S' è parte [una sottoclasse] di S; anzi, S'è parte propria di S, poiché in S vi sono degli elementi (per es. il mio proprio Io) diversi da ogni pensiero s' del genere, e quindi non contenuti in S‘. Infine è chiaro che se a, 5 sono elementi diversi di S anche le immagini a', b' saranno diverse [cioè @(a) # P(b)] [...]. Dunque S è infinito, c. biden

Il ragionamento di Dedekind è dunque il seguente. Sia Sla classe di tutti i possibili oggetti di pensiero. Sia @(5) una funzione che correla ogni oggetto di pensiero s con un pensiero: il pensiero che s può essere un oggetto di pensiero. La funzione @ è tale che, dati due oggetti di pensiero diversi, a e b, @(a) sarà distinto da @(b). Quindi, la funzione @ fa corrispondere, a ogni oggetto di pensiero, uno e un solo pensiero che tale oggetto può essere un oggetto di pensiero e, viceversa, a ogni pensiero che un oggetto può essere un oggetto di pensiero fa corrispondere uno e un solo oggetto: di conseguenza la classe S' di tutti i pensieri che un oggetto può essere oggetto di pensiero ha lo stesso numero cardinale della classe S di tutti i possibili oggetti di pensiero. Inoltre, se s è un elemento di S, il pensiero s' che s può essere un oggetto di pensiero è, a sua volta, un possibile oggetto di pensiero, e dunque un elemento di S. Dunque, la classe S' di tutti i pensieri che qualcosa può essere un oggetto di pensiero è una sottoclasse di S. Ma i pensieri della classe S' costituiscono anche una sottoclasse propria di tutti i possibili oggetti di pensiero: infatti esistono anche possibili oggetti di pensiero che non sono pensieri (per esempio — dice Dedekind — il mio Io non è tale). Dunque la classe S dei possibili oggetti di pensiero è cardinalmente simile a una sua sottoclasse propria S' (la classe di tutti i pensieri che qualcosa può essere un oggetto di pensiero), e quindi è una classe riflessiva (v. sopra, $ 5.4), e quindi — data la definizione di infinito di Dedekind (v. sopra, $ 5.4) — è una clas-

se infinita. Nei Principles, una quindicina d’anni dopo che Dedekind aveva pubblicato questa dimostrazione, Russell scrive che «si può provare direttamente, sulla base della correlazione tutto-parte, che il numero delle proposizioni 0 dei concetti è infinito»: in una nota a piè di pagina, Russell rinvia al $ 13 dei Paradoxien

des Unendlichen

(1851) di Bernard Bolzano e al teorema 66 di Was sind und was sollen die Zahlen? di Dedekind. Di seguito, Russell riformula l’argomentazione di Dedekind: Per ogni termine [term: con questa parola, nei Principles, Russell indica un'entità qualsiasi] 0 concetto c’è un'idea [idea], [che è]

diversa da ciò di cui essa è l’idea, ma [è] ancora un termine o un concetto. D'altra parte, non ogni termine o concetto è un’idea. Esi-

2° 297 39 29

V. Russell [1919a], cap. 13, p. 134. Russell [1919a], cap. 13, pp. 134-135. Dedekind [1888], $ 5, punto 66. Russell [1903a], $ 339, p. 357.

I fondamenti dell’aritmetica

145

stono tavoli, e idee di tavoli; numeri e idee di numeri; e così via. Così c’è una relazione uno-uno tra i termini e le idee, ma le idee

sono soltanto alcuni tra i termini. Quindi c’è un numero infinito di termini e di idee.

Nei Principles, Russell non riferisce l’argomentazione di Bolzano, che riportiamo qui come appare nei Paradoxien: L'insieme delle proposizioni e verità in sé è, come si può molto facilmente riconoscere, infinito; se infatti fissiamo la nostra atten-

zione su una qualunque verità, ad esempio sulla proposizione; “Ci sono verità”, o qualunque altra proposizione a piacere, e la indichiamo con A, troviamo che la proposizione espressa dalle parole “A è vera”, è diversa dalla proposizione A, perché quella ha manifestamente un soggetto diverso da questa. Precisamente, il suo soggetto è l’intera proposizione A. Ora, mediante la stessa legge con cui abbiamo derivato dalla proposizione A un’altra proposizione diversa da essa, che chiameremo B, si può derivare anche da B una terza proposizione C, e così via senza fine. L’aggregato di tutte queste proposizioni, di cui ognuna sta con quella che la precede nella relazione appena indicata di averla come soggetto e di asserire di essa che è una proposizione vera, quest’aggregato — dico — comprende un insieme di membri (proposizioni) che è più grande di ogni insieme finito.‘°!

Dedekind menziona questa dimostrazione di Bolzano in una nota all’inizio della dimostrazione del teorema 66

del suo saggio Was sind und was sollen die Zahlen?, definendola «simile» alla sua. Poiché il teorema 66 è assente dalla prima redazione del menzionato saggio di Dedekind, scritta tra il 1872 e il 1878,‘ si può plausibilmente supporre che la dimostrazione di Dedekind sia stata ispirata da quella di Bolzano." Evidentemente, al tempo dei Principles, Russell considerava valideledimostrazioni di Dedekind e di Bolzano. In seguito, però, cambiò idea. Nell’Introduction to Mathematical Philosophy (1919) egli osserva, a proposito dell’argomento di Dedekind: L’errore principale consiste nell’assumere che vi sia un’idea [idea] di ogni oggetto. [...]. Dobbiamo allora supporre che partendo (diciamo) da Socrate, vi sia l’idea di Socrate, e così via ad infinitum. Ora è chiaro che non è così nel senso che tutte queste idee abbiano reale esistenza empirica attuale nelle menti delle persone. Oltre il terzo o quarto livello esse diventano mitiche. Se si vuole sostenere l’argomento, le “idee” intese devono essere le idee platoniche fissate nel cielo, perché di certo esse non sono sulla terra. Ma allora diventa subito dubbio se ci siano idee del genere. Se dobbiamo sapere che esistono, ciò deve avvenire sulla base di qualche teoria logica che provi che è necessario per una cosa che ci debba essere un’idea di essa.'°

In un manoscritto intitolato “Logik”, scritto probabilmente nel 1897 e rimasto inedito fino al 1969,‘ Frege aveva già fornito un’analisi simile dell’argomento di Dedekind: Il signor Dedekind [...] vuol dimostrare che la totalità di tutte le cose che possono essere oggetto del suo pensiero è infinita. Sia s un tale oggetto; il signor D. [Dedekind] chiama quindi @(s) il pensiero che s possa essere oggetto del suo pensiero. E questo pensiero @(s) può ora esso stesso essere oggetto del suo pensiero. Di conseguenza @(@(s)) è il pensiero che il pensiero che s possa essere oggetto del suo pensiero, possa essere oggetto del suo pensiero. Di qui si vede che cosa devono significare “@(9(@(s)))”, “0(0(P(9(s))))", eccetera. Per la dimostrazione è essenziale che l’enunciato “s può essere oggetto del pensiero del signor Dedekind” esprima un pensiero ogni qualvolta la lettera “s” designa un tale oggetto. Se dunque, come il signor D. vuol dimostrare, vi

sono infiniti oggetti s siffatti, devono anche esserci infiniti pensieri @(s) siffatti. Ora però non si offenderà il signor D. supponendo che egli non abbia pensato infiniti pensieri. Né egli può presupporre che altri abbiano pensato infiniti pensieri che possono essere oggetto del suo pensiero; perché con ciò presupporrebbe quello che deve dimostrare. Se dunque non sono stati ancora pensati infiniti pensieri, allora fra quegli infiniti pensieri @(s) devono essercene infiniti che non sono stati pensati, cosicché l’essere pensato

non è essenziale per il pensiero.!°°

Si badi però che, a differenza di Russell nell’ultimo brano riportato, Frege non obietta all'indipendenza dei “pensieri” dal pensiero umano — né, quindi, obietta alla dimostrazione di Dedekind. Egli scrive il brano riportato proprio per suffragare la plausibilità della sua ontologia, secondo la quale i pensieri (Gedanken) — così egli chiama i sensi degli enunciati — sono entità che sussistono in modo affatto indipendente da qualsiasi mente.

400 Russell [1903a], $ 339, pp. 357-358. 40! Bolzano [1851], $ 13, pp. 38-39.

402 V. Dedekind [1872-78].

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403 Questa è in effetti la conclusione di Dugac [1976], cap. 7, p. 81 e p. 88. Il libro di Bolzano è segnalato in una lettera di Cantor a Dedekind del 7 ottobre 1882 (v. in Dugac [1976], appendice XL, p. 256).

404 Russell [1919a], cap. 13,p. 139. 405 V. Frege [1897b]. 406 Frege [1897b], pp. 147-148, nota. 407 V. sotto, cap. 5, $ 1.

capitolo 2

146

Ma, in realtà, come suggerisce il Russell dell’ Introduction to Mathematical Philosophy, tale assunzione ontologica non appare meno dubbia della cosa da dimostrare, cioè l’esistenza di infinite entità. Lo stesso si può dire della dimostrazione di Bolzano. Nei suoi Paradoxien des Unendlichen, questi argomenta a favore dell’esistenza di proposizioni e verità in sé dicendo che, se si ammette che anche in luoghi, come i poli della Terra, in cui non è presente nessun osservatore, ci siano degli avvenimenti fisici, si deve ammettere che «ci so-

no anche proposizioni e verità in sé che esprimono tutti questi avvenimenti, senza che ci sia nessuno che le pensi o le conosca». Ma l’argomento non è più cogente di ciò che presuppone, cioè che per ciascuno dei supposti fatti di cui l’argomento sembra indicare l’esistenza, vi sia sempre una proposizione che lo esprime — così, per es., l’esistenza di un’ape che nessun essere pensante ha mai visto dovrebbe implicare l’esistenza di proposizioni che esprimano verità a proposito di quell’ape. Se, d'altra parte, le proposizioni sono identificate con i supposti fatti, allora non è chiaro come la proposizione espressa da “A è vera” si distingua dalla proposizione A: dopotutto, il fatto che il ghiaccio galleggia sull’acqua non sembra diverso dal fatto che è vero che il ghiaccio galleggia sull’acqua. Che dire delle dimostrazioni dell’esistenza di una classe infinita come quelle proposte da Frege e (nel suo primo periodo logicista) da Russell? Esse sono senz'altro valide nell’ambito di una teoria intuitiva degli insiemi, ma possono cessare di esserlo secondo altre concezioni degli insiemi. Per esempio, non sono più valide nell’ambito della teoria ramificata dei tipi — cioè di quella teoria logica che Russell sviluppò a partire dal 1907 per far fronte ai paradossi che si erano scoperti nella teoria intuitiva degli insiemi. Torneremo più avanti su quest'argomento (v. sotto, cap. 9, $ 7.1.3). Per ora diciamo soltanto, in breve, che, dal punto di vista tecnico, il motivo per cui queste dimostrazioni cessano di valere consiste nel fatto che, nella teoria ramificata dei tipi, le classi sono suddivise in

differenti tipi a seconda del tipo dei loro membri, a partire dal tipo degli individui, che è il tipo più basso, e non è possibile avere classi formate di entità che non siano dello stesso tipo. Secondo la teoria dei tipi di Russell non possiamo avere, per esempio, una classe formata da un individuo e da una classe, o da una classe e da una classe di classi. Il risultato è comunque che, con l’adozione della teoria ramificata dei tipi, Russell rinunciò all’idea di poter dimostrare l’esistenza di una classe infinita e convenne con chi, come Keyser, riteneva necessario un assioma dell'infinito. La necessità di assumere un assioma dell’infinito — innocua per altre teorie fondazionali — diviene problematica nell’ambito del logicismo. Torneremo anche su questo punto in seguito (v. sotto, cap. 12, $ 2.9): per ora continuiamo a muoverci, come ancora faremo nei prossimi due capitoli, nel quadro di una teoria intuitiva degli insiemi. In questo quadro, l'assioma dell’infinito — e dunque il terzo assioma di Peano — appare dimostrabile per via logica.

6.4. Abbiamo visto come Russell definisca i numeri cardinali induttivi facendo uso di concetti che egli considera puramente logici e, partendo da questa definizione, abbiamo visto come si possano dimostrare gli assiomi di Peano. La teoria che ne risulta fornisce un modello dei numeri naturali il quale sembra garantire che gli assiomi di Peano non sono contraddittori. Il modello, inoltre, appare in ottimo accordo con quelle che sono le nostre intuizioni preteoriche. Scrive Russell: Abbiamo così ridotto le tre idee primitive di Peano a idee della logica: ne abbiamo dato definizioni che le rendono definite, non più passibili di un’infinità di significati diversi, come quando erano determinate solo dall’obbedienza ai cinque assiomi di Peano. Le abbiamo eliminate dall’apparato fondamentale di termini che devono essere semplicemente afferrati, e così abbiamo accresciuto

l’articolazione deduttiva della matematica.!” »

5

5

.

è



Tutto quanto, in aritmetica o, più generale, in matematica, è dimostrabile a partire dagli assiomi di Peano diviene ora, per Russell, dimostrabile sulla base di principi e concetti puramente logici.

408 Bolzano [1851],$ 14, p.41. ‘0° Russell [1919a], cap. 3, p. 24.

I fondamenti dell’aritmetica

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7. UNA DEFINIZIONE RIPRESA DA FREGE? 7.1. RUSSELL E FREGE Russell espose per la prima volta le sue definizioni logiciste dei numeri cardinali, dei numeri ordinali e dei numeri naturali in quattro saggi composti nella prima metà del 1901; essi sono, nell’ordine: (1) Il già citato articolo (v. sopra, $ 3.2.1) “Sur la logique des relations avec des applications à la théorie des séries”, pubblicato dalla Rivista di Matematica di Peano nel luglio del 1901; (2) Nell’articolo “Théorie générale des séries bien-ordonnées”, pubblicato dalla Rivista di Matematica di Peano tra il maggio e l’agosto del 1902, e scritto probabilmente nella primavera del 1901;!° (3) la terza parte (scritta interamente da Russell) di un articolo di Whitehead dal titolo “On cardinal numbers”, pubblicato nell’ottobre del 1902, intitolata “On finite and infinite cardinal numbers””!! e scritta non più tardi

del giugno 1901;*° (4) la parte II del libro Principles of Mathematics, terminato nel maggio 1902 e pubblicato nel maggio del 1903. La parte II fu scritta nel giugno del 1901. Nel primo articolo sono definiti i numeri cardinali e i numeri ordinali, 414 nel secondo i numeri ordinali,*! nel terzo i numeri cardinali e, per la prima volta, i numeri naturali.‘!° Nei Principles, naturalmente, sono presenti tutte queste definizioni. Gottlob Frege aveva anticipato molte delle definizioni russelliane. Già in un libro pubblicato nel 1884, dal titolo Die Grundlagen der Arithmetik, egli sostiene — riguardo ai numeri cardinali e naturali — idee quasi del tutto coincidenti con quelle che saranno poi sostenute da Russell; in particolare:

e

e

e

i numeri cardinali‘! sono considerati come spettanti a concetti (Begriffe), ossia a denotazioni di predicati: per es., secondo questa concezione, quando si dice: “Venere ha 0 satelliti” non si dice nulla riguardo a qualche satellite di Venere, o gruppo di satelliti di Venere (che non esistono), ma si dice, del concetto satellite di Venere, che ad esso spetta il numero 0, cioè che sotto di esso non cade nessun oggetto (sc., che nessun oggetto ha la proprietà di essere un satellite di Venere); analogamente, quando si dice: “La carrozza dell’imperatore è trainata da quattro cavalli” non si ascrive il numero cardinale quattro né a ciascun cavallo, né al gruppo dei cavalli, ma al concetto cavallo che traina la carrozza dell’imperatore;'* il numero cardinale spettante a un concetto F è definito come l’estensione del concetto (Begriffsumfang) ‘equinumeroso (gleichzahlig) a F’ (detto altrimenti, come la classe dei concetti equinumerosi a F), laddove un concetto F è detto “equinumeroso” a un concetto G ogni qualvolta esiste la possibilità di porre in corrispondenza biunivoca gli oggetti che cadono sotto / (sc., che hanno la proprietà F) e quelli che cadono sotto Ga il numero cardinale zero è definito come il numero cardinale che spetta al concetto “diseguale da se stesso”! e a tutti i concetti sotto i quali non cade alcun oggetto; il numero 1 è definito come il numero cardinale che spetta al concetto “uguale a 0422 e a tutti i concetti sotto cui cade un oggetto e nessun altro;*>

410 V_ Ja nota introduttiva di G. H. Moore a Russell [1902a], in Russell [1993], p. 385.

4!! V. Whitehead [1902], $ III (Russell [1902b]).

42 V. Grattan-Guinness [1996], p. 114. TV. Byrd [1987], p. 61-62; Garciadiego [1992], $ 4.4, p. 109; G. H. Moore, nota introduttiva alla parte I di Russell [1993], p. 6; Byrd [1996], p. 145; Grattan-Guinness [1996], p. 107. SE Va per inumeri cardinali, Russell [1901e], $ 1, p. 10; per i numeri ordinali Russell [1901e], $ 3, p. 15.

evi,

415 V. Russell [1902a], p. 393, 2.12.

VO

per i numeri cardinali, Whitehead [1902], $ II (Russell [1902b]), #1.3, del $ III, p. 378; per i numeri naturali, Whitehead [1902], $

# i INI (Russell [1902b]), #1.6, p. 379. cardinali. numeri i per Anzahlen termine il riservando reali, o cardinali essi siano genere, in numeri 4? Frege utilizza il termine Zahlen per i La traduzione è qui molto difficile, perché sia “Anzahl”’, sia “Zahl” significano “numero”. Nelle citazioni dai lavori di Frege, ho tradotto entrambi con “numero” laddove non vi sia pericolo di confusione, altrimenti ho tradotto “Zahl” con “numero” e “Anzahl” con “numero cardinale”.

418 V. Frege [1884], $ 46, p. 59. 419 V_ Frege [1884], $ 68, pp. 79-80. 420 V_ Frege [1884], $ 74, pp. 86-87.

|

pre

421 v. Frege [1884], $ 75, pp. 88-89. Prima di distinguere, nel 1891, tra senso (Sinn) e denotazione (Bedeutung) delle espressioni, Frege non

capitolo 2

148

e

i numeri naturali‘ sono definiti come quei numeri che cadono sotto qualsiasi concetto F sotto cui cade il numero cardinale 0 e tale che, per ogni x, se x cade sotto F, allora cade sotto F anche qualsiasi y che segua immediatamente x nella serie dei numeri naturali,” laddove l’espressione “n segue immediatamente a m nella serie dei numeri naturali” è definita come sinonima di «Ci sono un concetto F e un oggetto x che cade sotto di esso, tali che n è il numero cardinale che spetta al concetto F, e m è il numero cardinale che spetta al con-

e

cetto “cadente sotto F ma non uguale a x°».!°° Il numero Xo (all’epoca, Frege si serve del simbolo ‘“0,”) è definito come il numero che spetta al concetto “numero naturale”.*”

Frege sviluppò poi queste idee in forma rigorosa e simbolica‘ nei Grundgesetze der Arithmetik, opera il cui primo volume uscì nel 1893 e il secondo solo dieci anni dopo, nel 1903. Nei Grundgesetze, le definizioni sono date facendo intervenire spesso le estensioni dei concetti, cioè le classi. Dapprima Frege definisce una relazione che vale tra due estensioni di concetti, a e 8 — interpretata come “Il concetto appartenente ad a è equinumeroso al concetto appartenente a LB” — che vale se e solo se esiste una relazione che: correli imembri di 2 con i membri di f, che sia molti-uno, e la cui conversa sia anch'essa molti-uno*° —

le ultime due condizioni, naturalmente, am-

montano semplicemente a richiedere che la relazione sia uno-uno. Questa relazione tra due estensioni di concetti non è altro che ciò che noi abbiamo chiamato, seguendo Russell, similitudine cardinale tra due classi. La proprietà di essere nella relazione suddetta con una classe £ è per Frege un concetto, la cui estensione è, secondo la definizione dei Grundgesetze, ciò che è designato dal definiens dell’equivalente, nella simbologia dei Grundgesetze, di “Nc‘8° — che è interpretato verbalmente come “il numero cardinale del concetto la cui estensione è £#°°-° Detto altrimenti, Frege definisce il suo equivalente simbolico di “Nc‘8”° come un nome della classe di tutte le classi cardinalmente simili ad @.*4' La definizione è qui identica a quella russelliana dell’articolo del 1901: «il numero cardinale di una classe u sarà la classe delle classi simili a u>;**° in una lettera a Russell del 28 luglio 1902, lo stesso Frege commenta che questa definizione «coincide perfettamente con la mia definizione [stimmt ganz mit meiner Definition iiberein]»,'? e Russell lo riconosce nell’appendice dei Principles: «Frege dà esattamente la stessa definizione di numero cardinale che ho dato io [...]».5* Nei Grundgesetze, Frege definisce poi il numero cardinale 0 come Ne‘ & (x # x), e il numero cardinale 1 come Nc* £ (x=0).4° In altri termini, il numero cardinale 0 è definito come la classe di tutte le classi cardinalmente simili alla classe vuota, e il numero cardinale | è definito come la

classe di tutte le classi cardinalmente simili alla classe il cui unico elemento è il numero 0. Proseguendo, Frege definisce il concetto essere un numero cardinale come il concetto che spetta a x se e solo se esiste una classe @ tale che Nc‘@= x.” Infine, Frege definisce i numeri cardinali finiti in modo simile a quanto già fatto nelle

sostiene ancora il suo punto di vista maturo secondo cui i concetti sono estensionali, vale a dire, si identificano se hanno la medesima estensione.

422 V_ Frege [1884], $ 77, p. 90. 423 V. Frege [1884], $ 78, p. 90, prop. 4. 424 Frege chiama endliche Anzahlen i numeri naturali.

425 V. Frege [1884], $$ 79, 81 e 83. 120 Frege [1884], $ 76, p. 89. 427 V_ Frege [1884], $ 84, p. 96. 128 Si servì, a questo scopo, della notazione che aveva introdotto con l’opera Begriffsschrift (Ideografia) nel 1879. Proprio questo simbolismo fu una delle principali cause della scarsa fortuna delle opere di Frege.

42° V_ Frege [1893-1903], vol. I, $$ 37-40.

450 [articolo determinativo davanti a “concetto” è qui giustificato dal fatto che, nel sistema di Frege, i concetti sono estensionali, cosicché. per ogni classe, non ci può essere più di un concetto che la definisce. Per esempio, supponendo che non vi siano fate, né gnomi, il concetto

di essere una fata, quello di essere uno gnomo, e quello di essere diverso da se stesso — che determinano tutti la classe vuota — sono per Frege lo stesso concetto.

53! 152 133 454 15° 13° 47

V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 40, p. 57. Russell [1901e],$ 1, p. 10. In Frege [1976], p. 223. Russell [1903a], $ 494, p. 519. V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 41. V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 42. V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 42.

I fondamenti dell’aritmetica Grundlagen,"* e il numero

cardinali finiti.4°

149

Xy (che Frege ora chiama Endlos) come il numero cardinale della classe dei numeri

Frege pervenne alla sua definizione di “numero cardinale” (Anzahf) per una via non troppo lontana da quella di Russell. Prima di giungere alla definizione nominale, nelle sue Grundlagen Frege esplora la possibilità di fornire una definizione contestuale di “numero di un concetto” definendo induttivamente le espressioni del tipo: “AI concetto F spetta il numero n°: [...]a un concetto spetta il numero [Zah/] 0 se, qualunque sia a, vale in generale la proposizione [Satz] che a non cade sotto questo concetto [cioè, non ha questa proprietà].

In modo simile si può dire: a un concetto F spetta il numero 1 se, qualunque sia a, non vale in generale la proposizione che a non cade sotto F, e se dalle proposizioni “a cade sotto F” e “6 cade sotto P”, segue in generale che a e b sono la stessa cosa. [...] al concetto spetta il numero (n + 1) se c’è un oggetto a che cade sotto F, ed è siffatto che al concetto “cadente sotto F ma non a” spetta il numero n.45

Ma Frege scarta poi come inadeguato questo tentativo di definizione rilevando che: Certamente possiamo [...] dire che cosa significhi [was es bedeute]: “Al concetto F spetta il numero [Zah{] 1 +1”

e poi, facendo uso di ciò, fissare il senso [Sinn] dell'espressione “AI concetto F spetta il numero 1 + 1 +1” ecc.; ma per mezzo delle nostre definizioni non possiamo mai decidere — per fare un esempio estremo — se a un concetto spetti il numero Giulio Cesare, se questo celebre conquistatore della Gallia sia o no un numero. LES È solo un’illusione, che abbiamo spiegato il numero 0 e il numero 1: in verità abbiamo solo determinato il senso delle espressioni “spetta il numero 0” “spetta il numero

1”;

ma non si permette con ciò di distinguere lo 0 e 1 1 come oggetti in sé sussistenti, reidentificabili.**

Il punto è che la precedente definizione induttiva consente d’interpretare alcuni degli enunciati in cui un termine numerico ‘n° appare come parte del predicato “spetta il numero n”, ma non dice nulla su che cosa sia un numero; così non possiamo sapere (solamente in base alla definizione) se Giulio Cesare sia o no un numero, né che

cosa denotino i termini numerici quando, in un enunciato, appaiono come nomi. Frege non abbandona però l’ipotesi di una definizione contestuale dei numeri, ma fa un altro tentativo prendendo, questa volta, enunciati in cui i termini numerici appaiano come termini di un’asserzione d’identità: l’idea sottostante è, naturalmente, quella di ottenere un criterio di identificazione dei numeri. Egli si volge così all'esame della stessa classe di definizioni che, proprio nello stesso anno della pubblicazione delle Grundlagen, il 1884, Peano chiama “definizioni per astrazione”; definizioni, cioè, secondo lo schema:

M‘a=M°‘b=a=b.°

La definizione di numero che ha qui in mente Frege è sostanzialmente la stessa di Peano: “Il numero del concetto F è uguale al numero del concetto G” è uguale, per definizione, a “Gli oggetti che cadono sotto F' stanno in una relazione uno-uno con quelli che cadono sotto G”.45 Per semplificare, Frege prende come esempio dell’intera classe di definizioni per astrazione la seguente definizione di “direzione di una retta”: [...] la proposizione [.Sa1z]

“La retta a è parallela alla retta 5” sia sinonima [gleichbedeutend] di

438 V. Frege [1893-1903], vol. I, $$ 43-46.

(‘o’) priva 439 V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 122, p. 150. All’epoca Frege si serve, al posto di “N”, di un simbolo simile a una lemniscata alto). in convessità la (con arcuata della sua metà superiore e sormontata da una linea leggermente

440 Frege [1884], $ 55, p. 67. 44! Frege [1884], $ 56, p. 68. #eVa sopra, $ 3.1.

443 V_ Frege [1884], $ 68, p. 79.

capitolo 2

150

“La direzione della retta a è uguale alla direzione della retta bg

Scegliendo sempre come esempio illustrativo tale supposta definizione di “direzione di una retta”, Frege descrive così il funzionamento di queste definizioni: Il giudizio: “La retta a è parallela alla retta d”, in simboli: alb, può essere inteso come un’uguaglianza [Gleichung]. Se facciamo ciò, otteniamo il concetto di direzione e diciamo: “La direzione della retta a è uguale alla direzione della retta 5”. Sostituiamo quindi il segno // con il più generale=, distribuendo il contenutodia half] particolare del primo su a e b. Dividiamo il contenuto in modo diverso dall’originale e otteniamo così un nuovo concetto.**

Frege obietta però che neppure questa definizione raggiunge il suo scopo, per una ragione che egli descrive coSI:

Nella proposizione [Satze]: “La direzione di a è uguale alla direzione di bd” la direzione di a appare come oggetto,‘ e nella nostra definizione abbiamo un mezzo per riconoscere quest’oggetto se esso dovesse presentarsi in diversa veste, per esempio come direzione di 6. Ma questo mezzo non è sufficiente per tutti i casi. Non si può decidere in conformità ad esso, per es., se l'Inghilterra sia la stessa cosa della direzione dell’asse terrestre. Si perdoni quest’esempio che appare insensato! Naturalmente nessuno confonderà l’Inghilterra con la direzione dell’asse terrestre; ma questo non è merito della nostra spiegazione. Questa non ci dice nulla sul fatto se la proposizione “La direzione di a è uguale a 9g” debba essere affermata o negata, quando g stesso non è dato nella forma “la direzione di 5”. Ci manca il concetto di direzione

ele

L’obiezione di Frege è che la supposta definizione di direzione permette di eliminare l’espressione “la direzione di” da contesti come “La direzione di a è uguale alla direzione di 5”, ma non da contesti come, per es., “L’Inghilterra è uguale alla direzione di b”. La definizione non è dunque adeguata. Questo si può vedere così: da “La direzione di a = la direzione di b” si deduce immediatamente “-(x)-(x = la direzione di b)”; ma la definizione non stabilisce, in generale (cioè, per ogni valore di “x”), se “x= la direzione di b” sia vero o falso, perché se sostituiamo a “x un nome proprio come “Inghilterra”, la definizione non ci dice se “Inghilterra = la direzione di db”. Riportandoci al caso dei numeri vediamo che, come nel caso della definizione contestuale, risulta impossibile stabilire — sulla scorta della sola definizione per astrazione del numero di un concetto — se Giulio Cesare sia un numero. Si tratta di un’obiezione distinta da quella opposta da Russell alle definizioni per astrazione (v. sopra, $ 3.2.1): per Russell, troppe entità si candiderebbero ad essere direzioni di rette, e la definizione per astrazione non ci dà il modo di scegliere tra esse; per Frege, la definizione per astrazione non ci dice se un’entità g sia una direzione, a meno che essa non sia designata da un’espressione della forma “la direzione di x°.** Ma per entrambi il punto centrale è il medesimo: le definizioni per astrazione non ci dicono affatto che cosa sia una direzione, o un numero naturale. La cosa interessante è che, arrivato a questo punto, Frege risolve il problema in modo identico a Russell: Poiché in questo modo non possiamo ottenere un concetto di direzione nettamente delimitato, né, per le stesse ragioni, un tale concetto di numero cardinale [Anzah/], tentiamo un’altra strada. Se la retta a è parallela alla retta 6, allora l'estensione del concetto

“retta parallela alla retta a” è uguale all’estensione del concetto “retta parallela alla retta 9”; e viceversa: se le estensioni dei concetti

menzionati sono uguali, allora a è parallela a b. Proviamo dunque a spiegare: “La direzione della retta a è l'estensione del concetto ‘parallelo alla retta a’”; “La forma del triangolo d è l’estensione del concetto ‘simile al triangolo d”1

Se vogliamo applicare ciò nel nostro caso, dobbiamo mettere al posto delle rette 0 dei triangoli concetti, e al posto del parallelismo o della similitudine, la possibilità correlare uno-uno [beiderseits eindeutig: alla lettera: “univocamente da entrambe le parti]

44 Frege [1884], $ 65, p. 76. 45 Frege [1884], $ 64, pp. 74-75. 14° L’articolo determinativo indica [deutet an] questo. Concetto è per me un possibile predicato di un contenuto giudicabile singolare, 0ggetto un possibile soggetto di un tale contenuto. [Nota di Frege.]

cadsg Erege [1884], $ 66, pp. 77-78. 4 Frege sottolinea che non potremmo risolvere il problema affermando che, per esempio, 9g sia una direzione solo se l'abbiamo NR come “direzione di x”, perché le parole con cui un oggettoè introdotto non possono mutare l'identità dell’ oggetto. (V. Frege [1884],$

pp. 78-79).

I fondamenti dell’aritmetica

151

gli oggetti che cadono sotto un concetto con quelli che cadono sotto l’altro. Voglio chiamare per brevità il concetto F equinume-

roso [gleichzahlig] al concetto G, se c’è questa possibilità [...].44°

La strategia di Frege è quella di offrire una definizione nominale scegliendo oggetti — le estensioni di concetti — che rendano vera la parte sinistra dello schema d’astrazione se e solo se è vera la parte destra. Ma che cosa garantisce che le estensioni di concetti, cioè le classi, abbiano questa proprietà? Fissando le idee sul caso della direzione, abbiamo visto che Russell rinveniva questa garanzia nell’analisi, condotta mediante la sua logica delle rela-

zioni, dell’idea di quel “qualcosa in comune” che tutte le rette parallele a una retta data dovrebbero avere; Frege la trova invece in ciò che, nel secondo capoverso dell’ultimo brano riportato, egli dice “esser noto”, cioè che: «l’estensione del concetto ‘retta parallela ad a’ risulta uguale all’estensione del concetto ‘retta parallela a db’ se e solo se la retta a è parallela alla retta b». Poiché il parallelismo è, per ipotesi, una relazione di equivalenza, la retta a sarà parallela alla retta b se e solo se: (x) (x è parallela ad a = x è parallela a b);

nel passo riportato, Frege afferma che questo enunciato è equivalente a quello che potremmo simboleggiare come segue:

2 (z è parallela ad a)= î(zè

parallela a db):

“La classe delle cose che sono parallele ad a è uguale alla classe delle cose parallele a d se e solo se, per ogni x, x è parallela ad a se e solo se x è parallela a b”. Generalizzando il metodo di definizione, Frege mostra di fare affidamento sulla validità della generalizzazione della formula precedente, cioè sul principio che stabilisce che le estensioni di due concetti (due classi) sono identiche se, e solo se, sotto i concetti stessi cadono gli stessi oggetti. Quest'ultimo principio diverrà in seguito il (famigerato) assioma (V) dei Grundgesetze, che possiamo trascrivere, nel nostro simbolismo attuale:

(P)(M(Z(pz)= î(vV2)=((0x= v3), “La classe degli z che sono @ è uguale alla classe degli z che sono w, se e solo se, per ogni x, x ha la proprietà @ se e solo se ha la proprietà w”. Purtroppo, quest’assioma — per quanto intuitivo — conduce a una contraddizione, e rende il sistema di Frege inconsistente: lo scoprirà proprio Russell, alcuni anni più tardi (v. sotto, cap. 5).

449 Frege [1884], $ 68, p. 79. 459 Non tutto va perduto, tuttavia, nel crollo del sistema di Frege. Come hanno osservato in vari scritti Crispin Wright, Bob Hale e George Boolos, Frege si serve dell’assioma (V) dei Grundgesetze per provare (v. Frege [1884], $ 73) la validità della formula che stabilisce che due

concetti, F e G, hanno lo stesso numero cardinale se e solo se gli oggetti che cadono sotto di essi si possono porre in una correlazione uno-

uno: Nci=NeiHi==G: Questo principio è ora noto come principio di Hume — una locuzione coniata da George Boolos ([1987], p. 171) che, nonostante la protesta di Michael Dummett ([1998], appendice, pp. 386-387), non è ingiustificata (v. sopra, cap. 1, nota 50), sebbene il criterio sia stato coerentemente applicato per la prima volta solo da Cantor. L'importante acquisizione matematica del lavoro di Frege è l'aver dimostrato (facendo uso di una logica del second’ordine) che dal principio di Hume è derivabile l’intera aritmetica — un risultato oggi noto, realizzando l’auspicio di Boolos [1990], p. 209, come teorema di Frege (una dimostrazione compatta, ma accessibile, di tale teorema si trova in appendice a Boolos [1990], pp. 217-219). Dagli anni Ottanta dello scorso secolo, Crispin Wright e Bob Hale hanno suggerito un recupero del logicismo di Frege ottenuto (per quanto concerne l’aritmetica) rimpiazzando l'assioma (V) dei Grundgesetze con il principio di Hume, e sostenendo che quest’ultimo principio è una verità analitica (v. Wright [1983], e Hale [ 1987). Sulla strada di questo tentativo neofregeano si pongono però diversi problemi, di non facile soluzione (per un’ampia discussione di questi problemi, si vedano Boolos [19982], parte II, Hale e Wright [2001]; per una ricognizione generale dei problemi posti dal neologicismo fregeano si veda MacBride [2003]). Un problema è quello di superare l’obiezione che lo stesso Frege opponeva alla definizione per astrazione di “numero cardinale di un concetto , cioè che essa non permette di stabilire se Giulio Cesare sia o no un numero — un problema oggi noto come problema di Giulio Cesare. Un altro problema importante è quello suscitato dall’obiezione detta della cattiva compagnia (bad company): osservando l’assioma (V) dei Grund-

gesetze, ci si avvede che esso è una sorta di definizione per astrazione del concetto di “classe” ma, poiché l’assioma (V) conduce a contrad-

dizioni, le definizioni per astrazione, come il principio di Hume, si trovano, per così dire, in una “cattiva compagnia’ — fuor di metafora: non possono garantire, di per sé, l’esistenza dei loro oggetti. Si badi: l’obiezione della cattiva compagnia non consiste nel sollevare il dubbio che il principio di Hume sia inconsistente: di fatto, si può dimostrare che esso è consistente, se lo (A analisi (per una dimostrazione

semplice si veda Boolos [1998a], cap. 9, pp. 151-153). Il problema posto dalla cattiva compagnia è piuttosto che i principi di quella forma

capitolo 2

153

di parecchi anni, ed è quindi inevitabile Frege anticipò dunque la definizione russelliana di “numero cardinale” rebbe che Russell si sia qui limichiedersi quale sia il rapporto tra Russell e Frege. La semplice cronologia suggeri corretto. Un indizio lo abtato ad accogliere e adattare alcune idee di Frege.® ! Ciò, tuttavia, non è storicamente

ione dei numeri cardinali biamo già considerando che le strade che portarono Frege e Russell alla stessa definiz no alla medesima conclufurono diverse: entrambi partirono dalle definizioni per astrazione, ed entrambi arrivaro

e alla stessa sione, ma Frege ci arrivò attraverso un esame della forma di tali definizioni, mentre Russell pervenn conclusione attraverso la sua logica delle relazioni. conosceva Una conferma l'abbiamo dalle dichiarazioni dello stesso Russell, il quale affermò sempre che non es.: Per cardinali. numeri dei definizione sua affatto la definizione di Frege all’epoca in cui elaborò la [1902b])] ho dato la stesIn quest’ultimo [ Russell si riferisce qui alla parte da lui scritta dell’articolo Whitehead [1902] (v. Russell

scoperta. [Lettera di sa def. del numero cardinale [KardinalzahI] che dà lei: allora non sapevo ancora che lei avesse già fatto questa Russell a Frege datata 12 dicembre 1902.]f°°

In matematica i miei debiti principali, com’è evidente, sono verso Georg Cantor e il professor Peano. Se io avessi conosciuto prima l’opera del professor Frege, gli sarei stato largamente debitore; ma nei fatti io sono arrivato telo lito a molti risultati che egli aveva già stabilito. [Prefazione alla prima edizione dei Principles, datata dicembre 1902.] La definizione dei numeri [...] era stata formulata da Frege sedici anni prima, ma io non lo seppi se non più o meno un anno dopo averla riscoperta. [My Philosophical Development.]'° i

Questa circostanza è confermata dall’assenza di citazioni di Frege negli articoli pubblicati nel 1901 e 1902, così come nel cap. 11 dei Principles, intitolato “Definizione dei numeri cardinali”. L'assenza di riferimenti a Frege, in questi primi scritti russelliani, è significativa quando si considera che Russell non mancava di pagare i propri debiti intellettuali.’ Per esempio, in una nota a piè di pagina all’inizio del cap. 2 dei Principles, Russell scrive: — anche quando sono formulabili in un linguaggio puramente logico — non possono essere verità logiche, perché talora sono contraddittori, e dunque falsi, com'è il caso dello stesso assioma (V) dei Grundgesetze, o di un assioma analogo al principio di Hume per i numerirelazione (“Il numero-relazione di R è identico al numero-relazione di S se e solo se R e S sono ordinalmente simili”) che, come accennato in Hodes [1984], p. 138, è contradditorio, perché conduce al paradosso di Burali-Forti (v. sotto, cap. 4, $ 2.1.2). Né basta affermare che

principi aventi questa forma sono verità logiche se sono coerenti: infatti, esistono definizioni per astrazione che sono dimostrabilmente coerenti prese isolatamente, ma incoerenti se prese insieme. Come ha mostrato Boolos ([1990], pp. 214-215), questo è il caso del principio di Hume e del principio, escogitato allo scopo da Boolos, di parità (parity principle): due concetti F e G hanno la stessa parità se e solo se il numero degli elementi che cadono sotto , ma non sotto G, o sotto G, ma non sotto F, è finito e pari (0 è considerato pari, cosicché un concetto ha la stessa parità di se stesso) — ciò che accade se sotto entrambi i concetti cade un numero finito e pari di oggetti, o se sotto entrambi cade un numero finito e dispari di oggetti. Entrambi i principi sono coerenti, ma il primo è vero solo in modelli infiniti (infatti, il principio di Hume garantisce: l’esistenza di un oggetto — il numero 0 — corrispondente al concetto (sotto cui non cade nessun oggetto) di essere diverso da se stesso, l’esistenza di un altro oggetto — il numero 1 — corrispondente al concetto di essere uguale a 0, l’esistenza di un altro oggetto — il numero 2 —, corrispondente al concetto di essere uguale a ! 0 a 2, e così via; cosicché un modello contenente un qualunque numero finito, k, di oggetti, non può essere un modello del principio di Hume, perché tale principio consente di dimostrare l’esistenza di

K+ 1 oggetti (numeri)). Per contro, il principio di parità è vero solo in modelli finiti (per la dimostrazione, v. Boolos [1990],

p. 215). Dunque, nelle parole di Boolos, «[i]l principio di Hume è inconsistente con il principio di parità. Qual è la verità logica?» (Boolos

[1990], p. 215). L’obiezione secondo cui c’è una molteplicità di principi di astrazione in sé coerenti, ma reciprocamente inconsistenti — cosicché essi non possono essere tutti veri, e non si sa come scegliere quali siano legittimi —, è nota in letteratura come obiezione dell’ imbarazzo della scelta (embarrassment of riches).

4 Che non si possa attribuire a Russell la scoperta indipendente della definizione dei numeri cardinali, perché questi l'avrebbe ricavata da Frege, è una tesi effettivamente sostenuta in Sainsbury [1979], cap. 8, $ 1, nota 1, p. 174. In proposito, v. sotto, nota 520.

452 In Frege [1976], p. 234.

453 Russell [1903a], prefazione, p. xxiii; ediz. orig., p. viii.

454 Russell [1959], cap. 6, p. 70. 45 Irving H. Anellis sostiene ilcontrario in Anellis [1995] — cioè che Russell sminuiva consapevolmente l’opera altrui per autoglorificarsi

—, ma le motivazioni oggettive con cui egli suffraga questa e altre tesi denigratorie su Russell — come la sua supposta incompetenza in matematica — non sono convincenti. Per ragioni di spazio, non posso trattenermi qui sull’articolo di Anellis, alla cui lettura rinvio il lettore

perché maturi un giudizio proprio, con l'avvertenza di verificare sempre le fonti originali dei documenti menzionati da Anellis perché sti ne offre talora un resoconto che distorce il contenuto a suffragio delle tesi che egli intende sostenere (v., per es.,

que-

il resiivonto — in

282, 290 e 304 dell’articolo di Anellis — della lettera di Russell a Couturat dell’11 febbraio 1899). In penerale; bisogna convenire ui Anellis che spesso Russell non riconosce a Peirce e Schròder i giusti meriti, ma Russell non è uno stoica è un aa La scarsità dei riferimenti a Peirce e Schròder nell’opera di Russell dipende dalla circostanza che Russell studiò gli scritti di Peirce e Schroder solo dopo aver appreso la logica di Peano. 111 febbraio 1899, Russell scrive a Couturat, che gli chiedeva se poteva procurargli una co adi Pei+ (ed.) [1883], di non avere nessun titolo particolare per intercedere presso Peirce perché «lho letto solo una volta e tion lo aa nani (in Russell [2001a], p. 103). In una lettera a Couturat del 20 giugno 1903, Russell dice di aver letto Schròder «solo dopo aver ab

ina

ano» e che «quindi non è essenziale [in logica] passare attraverso di lui» (in Russell [2001a], p. 301). In una lettera a Philip Jourdain del 15

I fondamenti dell’aritmetica

+93

In quanto segue, le linee generali sono dovute al professor Peano, eccetto che per quanto concerne le relazioni; anche in quei casi in cui mi allontano dai suoi punti di vista, iproblemi considerati mi sono stati suggeriti dai suoi lavori.4°9

I riconoscimenti all’importanza del lavoro di Frege sono numerosi negli scritti di Russell successivi al maggio del 1902. Già nell’appendice A dei Principles — consegnata all’editore nel novembre del 1902 —, dopo aver parlato delle concezioni semantiche e della teoria delle classi di Frege, Russell si accinge a esporne le teorie aritmetiche con queste parole: Resta da trattare brevemente della sua logica simbolica e della sua aritmetica; ma qui io mi trovo in accordo così completo con lui

che è necessario fare poco di più che riconoscergli la scoperta di proposizioni che, quando scrivevo [i Principles], credevo fossero

nuove. 9?

In una lettera a Couturat datata 5 luglio 1904, Russell commenta un passo di un articolo di Couturat sulla filosofia della matematica di Kant, in cui Couturat dice, riferendosi alle Grundlagen di Frege: «Quest'ultima opera è, di gran lunga, quella in cui la teoria kantiana dell’aritmetica è stata discussa con più forza e profondità, e quella che ci è servita di più nel presente lavoro», con queste parole: Sono felice di vedere che rendete onore a Frege — è un uomo misconosciuto, ed è bene attribuirgli gli elogi che merita.”

Nell’introduzione al suo articolo “The theory of implication” (1906) Russell scrive: Il simbolismo adottato in ciò che segue è quello di Peano, con alcune aggiunte e cambiamenti. [...] Ma sebbene il simbolismo sia principalmente di Peano, le idee sono più quelle di Frege. L’opera di Frege, probabilmente a causa della scomodità dei suoi simboli, ha ricevuto un riconoscimento molto minore di quello che merita. Non mi riferirò a lui in dettaglio in ciò che segue, ma chiunque consulterà la sua opera vedrà quanto gli devo.‘9°

Nei Principia Mathematica (1910-13) si legge: Il Numero Cardinale di una classe &, che denoteremo con “Nc‘@”, è definito come la classe di tutte le classi simili ad & ossia. co-

me È (Bsm 0). Questa definizione è dovuta a Frege, e fu pubblicata la prima volta nel suo Grundlagen der Arithmetik; la sua e° ° 5 È È È 0 «1 461 spressione simbolica e il suo uso si possono trovare nei Grundgesetze der Arithmetik.

Il merito della definizione di “numero cardinale” è attribuito a Frege in diversi altri testi russelliani. In una nota in apertura di “Réponse à M. Koyré” (1912) Russell scrive: Questa definizione è di Frege, non mia; si veda Die Grundlagen der Arithmetik, Breslau, 1884, $ 68 (p. 79); Principles of Mathe-

matics, p. 519 [a p. 519 dei Principles si legge: «Frege dà esattamente la stessa definizione di numero cardinale che ho dato io, almeno se identifichiamo il suo decorso di valori [range] con la mia classe» (v. Russell [1903a], $ 494, p. 5 19)

aprile 1910 Russell scrive di aver letto Schròder, riguardo alle relazioni, nel settembre del 1900, trovando i suoi metodi senza speranza (v. in Grattan-Guinness

[1977], p. 134). Infine, in Russell

[1946b], p. 185, Russell scrive che, sebbene avesse sentito parlare di Peirce nel

1896, non ne aveva letto nulla fino al 1900, quando si era interessato alla logica delle relazioni e aveva appreso, dalle Vorlesungen iiber die Algebra der Logik di Schròder (v. Schréder [1890-95], vol. I), che Peirce aveva trattato l’argomento. La cronologia è confermata dalle i-

scrizioni sul frontespizio del primo e del terzo volume delle Vorlesungen di Schròder che furono proprietà di Russell (ora si trovano nella

Russell Library, Bertrand Russell Archives, McMaster University, Hamilton, ON, Canada): «B. Russell, September 1900» (v. Anellis [1990], p. 238), e dalle note a margine di Russell, sparse nei tre volumi, che testimoniano un'ottima conoscenza dell opera di Peano (v.

Anellis [1990], pp. 240-243). In sintesi: l’influenza di Peirce e Schròder su Russell fu soprattutto indiretta, attraverso | opera di Peano, il quale conosceva bene la loro opera, e in Peano [1895b] afferma: «Le notazioni adottate nel Formulario, nel concetto sono identiche a quelle di Schréder e Peirce» (p. 192). In Russell [1946b], Russell riconoscerà: «Io sono — lo confesso a mia vergogna — un esempio dell’indebita trascuranza di cui Peirce ha sofferto in Europa» (p. 185). 456 Russell [1903a], $ 11, p. 10, terza nota.

457 458 45° 460 41 42

Russell [1903a], $ 492, p. 518. Couturat [1904], p. 246, nota. In Russell [2001a], p. 417. Russell [1906b], p. 160. [PM], vol. II, p.4. Russell [1912c], p. 453, nota 1.

capitolo 2

154

In Our Knowledge of the External World (1914), Russell scrive: numeri transfiniti] da un uoLa definizione di numero fu scoperta all'incirca negli stessi anni [in cui Cantor elaborava la teoria dei [...] La sua definizione di Jena. di Frege Gottlob intendo — merita che to riconoscimen il ricevuto ha mo il cui grande genio non Arithmetik, eine logischder Grundlagen Die numero è contenuta nel suo secondo lavoro, pubblicato nel 1884, e intitolato mathematische Untersuchung iiber den Begriff der Zahl.'93

Qui Russell inserisce una nota a fondo pagina in cui leggiamo: 1903), è stata La definizione di numero contenuta in questo libro, ed elaborata nei Grundgesetze der Arithmetik (vol. i, 1893; vol. ii,

da me riscoperta nell’ignoranza del lavoro di Frege. Voglio asserire con tutta l’enfasi possibile — cosa che sembra ancora spesso ignorata — che la sua scoperta precedette la mia di diciotto anni.

Qualche pagina dopo, nello stesso libro, leggiamo: “Il numero di termini in una classe data” si definisce come significante “la classe di tutte le classi che sono simili alla classe data”. Questa definizione, come Frege (esprimendola in termini un po’ diversi) dimostrò, comporta le proprietà aritmetiche usuali dei numeri. Essa è ugualmente applicabile ai numeri finiti e infiniti, e non richiede l’ammissione di qualche insieme nuovo e misterioso '9* di entità metafisiche.

E ancora nel 1919, in apertura del secondo capitolo dell’ Introduction to Mathematical Philosophy — intitolato “Definizione di numero” (Definition of number) — Russell scrive: x

La domanda “Che cos'è un numero?” è stata posta spesso, ma ha ricevuto una risposta corretta soltanto ai nostri giorni. La risposta è stata data da Frege nel 1884, nel suo Grundlagen der Arithmetik.* Sebbene questo libro sia abbastanza breve, non difficile e del-

la massima importanza, non attirò quasi nessun’attenzione, e la definizione di numero che contiene rimase praticamente sconosciuta finché non fu riscoperta dal presente autore nel 1901 go

Può oggi apparire sorprendente che — pur occupandosi da alcuni anni di fondamenti della matematica — fino al 1901 Russell avesse omesso di leggere un autore dell’importanza di Frege. Ma all’inizio del Novecento Frege era un autore poco noto e sottovalutato: furono proprio le menzioni del suo lavoro nell’opera di Russell a contribuire nella maniera più cospicua, più tardi, al riconoscimento che meritava.” Una delle cause della scarsa influenza di Frege risiedeva senza dubbio nel suo simbolismo — che Frege chiamava ideografia (Begriffsschrift).** È tuttavia difficile credere che si sia trattato del motivo principale: dopotutto, Frege aveva esposto con estrema limpidezza i suoi punti di vista in un libro — le Grundlagen — in cui il simbolismo non è usato affatto: eppure, anni dopo, nel primo volume dei Grundgesetze (1893), Frege lamentava che scienziati impegnati in ricerche analoghe alle sue, come Dedekind, Stolz, Helmholtz, sembrassero ignorare i suoi lavori e che Kronecker non li citas-

se in un suo saggio sul concetto di numero." Probabilmente, Frege era solo in anticipo sui tempi: i filosofi non erano ancora abituati ai ragionamenti formali, e i matematici dell’epoca non erano ancora pronti ad afferrare la 463 Russell [1914a], lecture VII, p. 204 (1° ediz., pp. 199-200). 404 Russell [1914a], lecture VII, p. 208 (1° ediz., p. 204). 465 [a stessa risposta è data con maggior completezza e maggiore sviluppo nei Grundgesetze der Arithmetik, volume i, 1893. [Nota di Russell.]

466 Russell [1919a], cap. 2, p. 11. 467 Dj questo Russell si mostrò orgoglioso: «sono felice di aver fatto tutto ciò che era in mio potere per conquistargli quel riconoscimento che meritava» (Russell [1956b], “Six Autobiographical Essays”: II, pp. 22-23).

SA Ritengo che la causa principale della difficoltà del simbolismo di Frege non consista, come può apparire a un primo sguardo, dalla sua caratteristica bidimensionalità — a ciò ci si abitua molto presto —, ma al fatto che essa fa uso di un solo connettivo (quello che, nella simbologia di Russell, è scritto “>”), oltre alla negazione. Nel caso di formule lunghe e complesse, ciò rende difficile afferrare a prima vista che cosa esse affermino. L'impatto negativo del suo simbolismo sui potenziali lettori fu rilevato dallo stesso Frege. Citiamo, in proposito

alcuni passi di una lettera che egli scrisse il 29 agosto 1882 (il destinatario è incerto: forse si trattava di Carl Stumpf, o, meno probabilmente, di Anton Marty). Scrive Frege:

«[...] finora ho magari cogliere quasi terminato [1976], p. 163).

incontrato ben poco favore. Mi permetto di dare ancora qualche notizia sulla mia ideografia, nella speranza che lei possa l’occasione per richiamare su di essa l’attenzione in una rivista; ciò mi faciliterebbe la pubblicazione di altri lavori. Ho de un libro [il riferimento è alle Grundlagen der Arithmetik] nel quale tratto del concetto di numero [Anzahl] [...]» = Frege «Mi riesce difficile trovare accesso nelle riviste filosofiche. Giustifichi la mia lettera con il bisogno ibsoddisfano di confi-

darmi. Mi trovo in un circolo vizioso: prima di prestare attenzione all’ideografia, si esige di vederne le prestazioni e io d’altra parte non posso mostrarle, senza presupporne la conoscenza» (in Frege [1976], p. 165).

V. Frege [1893-1903], vol. I, prefazione, p. xi, nota. Il riferimento di Frege è a Kronecker [1887].

I fondamenti dell’aritmetica

155

sottigliezza filosofica dei testi fregeani. Così, coloro che avevano letto e recensito i libri di Frege non ne colsero l’enorme importanza — almeno finché non se ne avvide Russell. Russell sapeva dell’esistenza di Frege già dai tempi di Cambridge, ma non ne aveva letto nulla. Nei suoi Portraits from Memory (1956), Russell ricorda: [...] il mio professore di filosofia [a Cambridge], James Ward, mi diede il libricino di Frege Begriffsschrift [/deografia] dicendomi che egli non l’aveva letto e non sapeva se avesse un qualche valore. A mia vergogna devo confessare che non lo lessi nemmeno io, finché per mio conto non ebbi elaborato una gran parte di ciò che conteneva. Il libro fu pubblicato nel 1879 e io lo lessi nel 1901. Ho il forte sospetto di esserne stato il primo lettore.*?°

Secondo quanto riferisce Russell nella sua autobiografia, !”! Ward gli diede il libro di Frege solo dopo che egli si era laureato: siamo quindi dopo il 1895.4 In realtà, la Begriffsschrift qualche lettore l’aveva avuto: nei due anni seguenti la sua pubblicazione ebbe diverse recensioni, tra le quali una di Ernst Schròder ([1880]) — che era considerato il più importante logico tedesco dell’epoca — lunga 14 pagine e che rivela una lettura attenta (Schréder individua nel primo capitolo del libro di Frege un piccolo errore, che non sarebbe facile da rilevare in una lettura veloce‘’*). È però vero che la recensione di Schròder — pur non essendo negativa — come le altre non colse l’importanza innovativa dell’opera, e dunque non contribuì alla sua diffusione. Fu una recensione di Peano al primo volume dei Grundgesetze!"* ad attirare su Frege l’attenzione di Russel i;475 Peano conosceva Frege da tempo, e aveva avviato con lui una corrispondenza scientifica che durò dall’inizio del 1894 fino almeno all’ottobre del 1896,‘”° nel corso della quale gli aveva offerto di collaborare sia alla Rivista di

Matematica da lui diretta (lettera a Frege datata 24 ottobre 1895), sia al suo Formulaire (lettera a Frege datata 14 ottobre 1896)'”8 — «purché [le sue formule e le sue dimostrazioni] si possano comporre con i segni tipografici usuali». In una lettera del 30 gennaio 1894, Peano ringrazia Frege per l’invio di alcuni suoi lavori (non specifica di quali opere si tratti, ma si può supporre che, tra essi, vi fossero i recenti articoli “Uber Sinn und Bedeutung”*° e “Uber Begriff und Gegenstand”*') e aggiunge: «Ho acquistato qualche tempo fa il vostro Die Grundlagen der Arithmetik e ho fatto acquistare dalla nostra biblioteca i vostri recenti Grundgesetze der Arithmetik».**° In una lettera datata 14 ottobre 1896, Peano scrive a Frege di aver «di nuovo letto i vostri libri Begriffsschrift e Grundgesetze, con rinnovato piacere, perché li comprendo sempre meglio» e rileva la coincidenza fra tredici formule della Begriffsschrift e quelle del secondo vol. del suo Formulaire. Frege, dal canto suo, pubblicò su una

470 Russell [1956b], “Six Autobiographical Essays”: II, pp. 21-22. La Begriffsschrift non compare tra le letture di Russell del 1901 elencate in Russell [1891-1902], pp. 364-365, ma gli elenchi di Russell [1891-1902] non sono esaustivi (v. l'introduzione a Russell [1891-1902], in Russell [1983], p. 345).

4! V. Russell [1967-69], 1872-1914, cap. 3, p. 65. “2 Nel luogo citato della sua autobiografia, Russell dice che Ward gli aveva dato la Begriffsschrift insieme alle Grundlagen einer allgemei-

nen Mannichfaltigkeitslehre di Cantor, che, in Russell diede a Russell il libro di Frege prima del luglio 1899. 43 v. Schroder [1880], p. 88. L'errore — riconosciuto si trova alla fine del $ 5 della Begriffsschrift (v. Frege fermando che la formula “(B > A) > /” nega il caso

[1891-1902], p. 362, è elencato tra le letture di Russell del luglio 1899: quindi Ward da Frege in una lettera a Russell del 22 giugno 1902 (v. in Frege [1976], p. 213) — [1879], $ 5, p. 7), laddove Frege porta un esempio di lettura della sua ideografia afin cui l’enunciato rappresentato da “8” sia vero e quelli rappresentati da “A” e “/7

siano falsi — mentre, in questo caso, la formula è vera: essa nega, invece, che l’enunciato rappresentato da “8” sia falso e quello rappresentato da “/” sia vero, e nega che gli enunciati rappresentati da “A” e da “8” siano entrambi veri e quello rappresentato da “/” sia falso; è piuttosto la formula “B > (-A > /)” a negare il caso in cui l’enunciato rappresentato da “B” sia vero e quelli rappresentati da “A” e “/” siano falsi. 474 V_ Peano [1895b]. In una lettera a Peano del 29 settembre 1896, Frege definisce la recensione di Peano dettagliata e benevola (v. in Fre-

ge [1976],p. 181). 45 V. Russell [1956b], “Six Autobiographical Essays”: II, p. 22.

476 477 478 479 480 481 482 483

Ora in Frege [1976], pp. 176-198. V. in Frege [1976], p. 180. V. in Frege [1976], p. 193. In Frege [1976], p. 193. V. Frege [1892a]. V. Frege [1892b]. In Frege [1976], p. 177. In Frege [1976], p. 189.

capitolo 2

156

de Mathématiques, una rivista tedesca un raffronto tra la sua ideografia e la simbologia di Peano” e, sulla Revue

lettera in cui replicava alla recensione che Peano aveva dedicato ai suoi Grundgesetze. ne venne a conoLa menzionata recensione di Peano ai Grundgesetze risaliva all’autunno del 1895, ma Russell letto nulscenza solo dopo la metà del 1900: prima di allora, egli aveva sentito parlare di Peano, ma non ne aveva di Pala.45° Fu nell’agosto del 1900, che Russell incontrò Peano — al Primo Congresso Internazionale di Filosofia rigi —, ne fu affascinato, e cominciò a leggerne le opere: che, in ogni discusPrima di allora non conoscevo il suo lavoro [di Peano], ma [al congresso del 1900] fui impressionato dal fatto

tutte i sione, egli dimostrava maggiore precisione e maggior rigore logico di chiunque altro. Andai da lui e dissi: “Vorrei leggere idee mie alle l'impulso dare a esse Furono tutte. e immediatament lessi le io e aveva, Le voi?”. con copie delle Avete vostri lavori. sui principi della matematica.” Nelle discussioni al Congresso osservai “che egli era sempre più preciso di chiunque altro, e che aveva invariabilmente la meglio in

ogni discussione in cui si imbarcasse. Col passare dei giorni, decisi che ciò fosse dovuto alla sua Jogica matematica. Pertanto lo

convinsi a darmi tutti i suoi lavori, e non appena il Congresso finì mi ritirai a Fernhurst [piccola località a sud ovest di Londra] per studiare tranquillamente ogni parola scritta da lui e dai suoi discepoli. Mi divenne chiaro che la sua notazione forniva uno strumento di analisi logica quale io avevo cercato per anni, e che studiandolo stavo acquisendo una nuova e potente tecnica per il lavoro che avevo a lungo voluto fare. Alla fine di agosto [del 1900] mi ero completamente familiarizzato con tutto il lavoro della sua scuola.*85

In Portraits from Memory (1956) Russell afferma che nella recensione menzionata Peano accusava Frege di «eccessiva sottigliezza», e che questo lo incuriosì: «Poiché Peano era il logico più sottile che a quei tempi avessi incontrato, pensai che Frege dovesse essere notevole». Così, nell’ottobre del 1900, Russell acquistò il primo volume dei Grundgesetze"" (il secondo sarebbe stato pubblicato solo nel 1903) e si dispose a leggerlo; ma non vi riuscì: Lessi l’introduzione con appassionata ammirazione, ma fui respinto dall’intricato simbolismo che aveva inventato e fu soltanto dopo che ebbi compiuto lo stesso lavoro per conto mio che fui in grado di capire ciò che aveva scritto nel testo principale. Egli fu il primo a esporre l’opinione che fu ed è la mia, che la matematica è un prolungamento della logica, e fu il primo a dare una definizione dei numeri in termini logici. Egli fece questo nel 1884, ma nessuno lo notò. °°

Fu l’opera di Peano (insieme con quella di Cantor), e non quella di Frege, a formare /e basi per lo sviluppo della filosofia logicista di Russell. Nell’articolo di Russell “My mental development” (1944), si legge: 484 V. Frege [1897a]. 485 V_ Frege [1898]. 486 In una lettera a Couturat del 9 ottobre 1899 (in Russell [2001a], pp. 138-139), Russell, che aveva letto un articolo di Couturat sulla logi-

ca di Peano, commenta:

«Non ho ancora letto Peano, ma, per quanto posso giudicare, sono completamente d’accordo con le critiche che

avete fatto» (in Russell [2001a], p. 139). L'articolo cui fa riferimento Russell è una lunga recensione del lavoro di Peano, pubblicata poco tempo prima nella Revue de Métaphysique et de Morale, in cui Couturat assume un atteggiamento molto critico. In particolare, Couturat imputa alla notazione di Peano di «dissimulare l'analogia formale così notevole che esiste tra le formule della Logica e quelle dell’ Algebra

ordinaria, analogia che risalta, al contrario, quando si impiegano i segni algebrici per esprimere le relazioni logiche. [...] è chiaro che la notazione adottata mal si presta alla traduzione e alla manipolazione delle “equazioni logiche» (Couturat [1899], II, $ 4, pp. 643-644).

Interessante è che, in quest'articolo, Couturat consideri priva di importanza la distinzione stabilita da Peano tra il simbolo di appartenenza a una classe (“£’’) e il simbolo di inclusione tra classi (“O”), richiamandosi a Ernst Schroder, il quale non distingueva appartenenza e inclusione, e esprimeva entrambe con un unico segno (simile a “€”) (v. Couturat [1899], I, $ 4, pp. 628-630). Russell si dichiara d'accordo con

le critiche di Couturat, ed è quindi presumibile che non sentisse, all’epoca, l’immediata esigenza di accedere ai lavori originali di Peano. Sull'argomento, v. anche Garciadiego [1992], $ 4.2, p. 84.

r

487 Russell [1959], cap. 6, p. 65. 488 Russell [1967-69], 1872-1914, cap. 6, p. 147. 15° Russell [1956b], “Six Autobiographical Essays”: II, p. 22. L'accusa di «eccessiva sottigliezza» (unnecessary subtlety) in realtà non si trova nella recensione menzionata: si tratta dunque di un’interpretazione di Russell, forse dovuta a un passo in cui Peano osserva che Frege

«usa lettere greche, latine e tedesche, maiuscole e minuscole; e le sceglie in modo che la forma della lettera indichi già la natura dell’ente

che esso [essa] rappresenta» (Peano [1895b], p. 193), laddove nel Formulario, «le lettere variabili a, b, ... x. v. FA rappresentano enti qua-

lunque, ad es. proposizioni, classi, segni di funzione, numeri delle varie specie, punti, rette, senza limitazione alcuna: e volta per volta si

deve dire che cosa si vuole indicare con una lettera variabile» (ibid.), o alla conclusione della recensione, in cui Peano lamenta che lato

del lavoro di Frege è «assai faticosa. Certe distinzioni sono difficili ad afferrarsi. poiché spesso due termini tedeschi, fra cui l'A. fa differenza, hanno nei dizionari per corrispondente lo stesso termine italiano» (Peano [1895b], p. 195).

490 Russell [1956b], “Six Autobiographical Essays”: II, PZA 491 Sulla copia del primo volume dei Grundgesetze appartenuta a Russell (ora presso i Bertrand Russell Archives,

Hamilton, ON, Canada) compare l’iscrizione “B. Russell, Oct. 1900” (v. Byrd [1987], p. 65). 492 Russell [1956b], “Six Autobiographical Essays”: II p. 22.

McMas ter University,

I fondamenti dell’aritmetica

15%

Non appena ebbi imparato la sua notazione [di Peano], mi resi conto che questa estendeva la regione della precisione matematica

all’indietro verso regioni che erano state abbandonate alla vaghezza filosofica. Basandomi su di lui, inventai una notazione per le relazioni. Whitehead, fortunatamente, era d’accordo sull’importanza del metodo, e in brevissimo tempo elaborammo insieme ar-

gomenti come la definizione delle serie, dei cardinali e degli ordinali e la riduzione dell’aritmetica alla logica. Per quasi un anno avemmo una rapida serie d’immediati successi. Buona parte del lavoro era già stata fatta da Frege, ma in un primo momento noi

non lo sapevamo.'°3

Russell cominciò uno studio sistematico dell’opera di Frege solo nel giugno del 1902 — cioè dopo aver terminato i Principles of Mathematics! Nella famosa lettera del 16 giugno 1902 in cui comunicava a Frege il paradosso della classe di tutte le classi che non appartengono a se stesse, Russell scrive: Egregio collega, Da circa un anno e mezzo conosco i suoi “Grundgesetze der Arithmetik”, ma solo ora mi è stato possibile trovare il tempo per lo studio approfondito che mi proponevo di dedicare ai suoi scritti. Mi trovo in completo accordo con lei in tutte le cose principali, in particolare nel rifiuto di ogni momento psicologico nella logica e sull’apprezzamento di un’ideografia per i fondamenti della mate- matica e della logica formale, che del resto sono a stento distinguibili. Su molte questioni particolari trovo nelle sue opere discussioni, distinzioni e definizioni che invano si cercano in altri logici. Particolarmente sulla funzione ($ 9 della sua Begriffsschrift), sono indipendentemente stato condotto fin nei dettagli alle stesse opinioni.‘

In una successiva lettera a Frege, datata 10 luglio 1902, Russell è più franco sui motivi del rinvio della lettura dei Grundgesetze: Quando ho letto per la prima volta i suoi Grundgesetze, non ero in grado di capire l’ideografia [Begriffsschrift]: ci sono riuscito solo quando ho cominciato a rendermi conto delle lacune nella scrittura di Peano. Purtroppo il mio libro [Principles of Mathematics] era allora già completato.'°

«Conoscete Frege», scrive Russell a Couturat il 25 giugno del 1902, «i Grundgesetze der Arithmetik? È un libro molto

difficile,

ma

sono

riuscito

finalmente

a comprenderlo,

e ci ho trovato

molte cose

di cui mi credevo

l'inventore». Stando alla dichiarazione fatta da Russell nel brano dei Portraits from Memory riportato due pagine addietro,** una lettura sommaria della Begriffsschrift doveva risalire al 1901; dunque, verso la metà del giugno del 1902, Russell aveva letto la Begriffsschrift e aveva appena terminato il primo volume dei Grundgesetze. Sembra che alla fine di giugno del 1902 Russell non avesse ancora letto nessun altro scritto di Frege. In una lettera a Frege datata 24 giugno 1902, egli infatti scrive: «Fino ad ora ho letto soltanto la sua Begriffsschrift e i suoi Grundgesetze: studierò subito anche le altre opere». Nei mesi successivi, Russell completò velocemente lo studio delle opere più importanti di Frege. Nella lettera del 16 giugno 1902, Russell chiese a Frege copia dei suoi articoli apparsi su diverse riviste, manifestando il desiderio di farne uno studio approfondito. Frege soddisfece questa richiesta il 22 giugno del 1902, inviando a ol cinque suoi articoli, tra i quali i celebri “Uber Sinn und Bedeutung” e “Uber Begriff und SS e il saggio “Kritische Beleuchtung einiger Punkte in E. Schroder Vorlesungen iiber die Algebra der Logik”* che, come vedremo nel cap. 6 ($ 9.1.1), contiene un’argomentazione che influirà molto sullo sviluppo della concezione russelliana delle classi.” L’opera nella quale Frege offre per la prima volta una definizione logicista dei numeri cardinali — le Grundlagen — dev'essere stata letta da Russell tra la fine di giugno e l’inizio d'agosto del 1902.

493 Russell [1944a], pp. 12-13. 494 Il manoscritto dei Principles fu consegnato all’editore il 27 maggio del 1902.

495 In Frege [1976], p.211. 496 In Frege [1976], p. 220. 497 In Russell [2001a], p. 279.

498 V_ Russell [1956b], “Six Autobiographical Essays”: II, p. 22.

499 In Frege [1976], p. 217. 500 V_ Frege [1892a]. 50! V_ Frege [1892b].

502

die Begriffsion inviati da Frege a Russell sono: “Ueber formale Theorien der Arithmetik” (Frege [1885]) e “Ueber 203

0, esiste sempre un numero naturale n tale che, per ogni p > n e per ogni gq > n, lap — ag < e. Cantor denota una successione fondamentale il cui n-esimo termine è a, con il simbolo “(an)”. La tesi di Cantor è che ogni successione fondamentale (a,) definisce un numero reale b, e, viceversa, che ogni numero reale b è definito da una successione fondamentale (a,). Una successione fondamentale — osserva Cantor — può essere di tre tipi:'! (1) fissato un qualsiasi numero razionale €, maggiore di zero, arbitrariamente piccolo, i valori assoluti dei termini

della successione, da un certo termine in poi, sono tutti minori di €;

(2) da un certo termine in poi, tutti i termini della successione sono maggiori di un certo numero positivo n; (3) da un certo numero in poi, tutti i termini della successione sono minori di un certo numero negativo —n. Se una successione fondamentale è del tipo (1), il numero reale da essa definito sarà lo zero; se una successione fondamentale è del tipo (2), il numero reale da essa definito è un numero reale positivo; se una successione fondamentale è del tipo (3), il numero reale da essa definito è un numero reale negativo. Le operazioni tra numeri reali sono definite da Cantor per mezzo di operazioni sui numeri razionali." Innanzi tutto, Cantor osserva che, se (a,) e (a) sono due successioni fondamentali qualsiasi, a, è I’n-esimo termine di DTT

.

.

:

,

.

x

.

.

a

nd

ara

A

n

-

.

È.

(a,) e a, è I n-esimo termine di (a,), si può dimostrare che ogni successione infinita il cui n-esimo termine è ,

,

,

x

,

*

R

aAn+ a, , Oppure dan — da, , oppure a, X a, , è anch'essa una successione fondamentale;

4

a

inoltre, se il numero reale

14° V. Cantor [1883b]. 141 Per quanto segue, oltre che all’esposizione contenuta

in Cantor [1872], $ 1, mi riferirò anche all'esposizione successiva di Cantor

[1883b], $ 9, nonché al resoconto della teoria di Cantor proposto da Russell nei Principles (v. Russell [1903a], $$ 269-270). LIV sopra, cap. 2, $ 5.3.

a

143 Detta oggi anche successione convergente o successione di Cauchy. Si tratta di una cosa diversa dalla serie convergente di cui parlere-

mo nel $ 8.1. Un chiarimento terminologico può qui essere utile. Nel presente libro mi sono in genere attenuto alla terminologia russelliana. ma nel seguito di questo paragrafo e nel prossimo, per esporre le teorie di Cantor e Weierstrass, userò i termini “successione” e “serie” nel

loro usuale significato matematico, che chiarisco nel testo. Russell si serviva del termine “series” sia per indicare le relazioni seriali — cioè le relazioni asimmetriche, transitive e connesse —, sia per indicare le “successioni”, sia per indicare le “serie”, nel senso matematico cui abbiamo accennato, e quindi parlava, per es., di “fundamental series” per indicare le successioni fondamentali. A Louis Couturat, che il 20 settembre 1903 gli scriveva: «Pourquoi employez-vous le mot série (Reihe) plutòt que le mot suite (Folge) qui paraît mieux convenir? L’idée de suite est purement ordinale, celle de série (en math. du moins) implique l’addition» (in Russell [2001], pp. 302-303), Russell rispose: «il n’existe pas de mot commun en Anglais pour traduire suite ou Folge: on emploi series dans les deux sens» (in Russell [2001a]

p. 305: lettera a Couturat del 5 ottobre 1903). Del resto, come si può constatare dall’uso cantoriano di Fundamentalreihe. invece che Fun-

damentalfolge, nonché dall’uso fregeano di f-Reihe, invece che f-Folge, nella seconda metà dell'Ottocento la convenzione oesi corrente in tedesco, francese e italiano cui si riferisce Couturat non era rispettata. ri LA Russell [1903a], $ 269, p. 284. Questa condizione è oggi spesso detta condizione di Cauchy. Riflettendo sulla definizione, si comprenderà facilmente che, data una successione fondamentale, tutte le successioni ottenute da essa permutandone i te rmini saranno anch'esse

successioni fondamentali. 145 V. Cantor [1883b], $ 9, p. 186.

140 V. ibid.

Numeri interi, frazionari, reali e complessi. La geometria

193

so I 3 . . n . . . . a . ° definito da (a, )SEO” non èx zero, anche la successione infinita il cui n-esimo termine è an: 7, si dimostra essere una successione fondamentale.

Siano ora b e b' due numeri reali definiti, rispettivamente, dalle successioni fondamentali (a,) e (a/), e siano an , . . . . . . . . *]° e a, C3, rispettivamente, , |l’n-esimo termine di (a,)n e l’n-esimo termine di (a’). È; Cantor stabilisce stabil che: he: la somma di b e di b' è il numero reale definito dalla successione fondamentale il cui n-esimo termine è an + ,

die

e la differenza b — b'è il numero reale definito dalla successione fondamentale il cui n-esimo termine è a, — dA e il prodotto b x b'è il numero reale definito dalla successione fondamentale il cui n-esimo termine è a, X E e il quoziente 5 : b' (con b'# 0) è il numero reale definito dalla successione fondamentale il cui n-esimo termine è

Casto. Una volta definite le operazioni, Cantor definisce una relazione d’ordine tra numeri reali!” stabilendo che, dati due numeri reali qualsiasi b e b': C) b = b' significa che b — b'= 0;14

e b>b' significa che db — b'è positivo; e b n. cd

p

149 Cantor [1883b], $ 9, p. 186. 150 V_ Cantor [1883b], $ 9, p. 187. 15! Weierstrass insegnò a Berlino dal 1856 al 1890.

i

»

x

pe

a

capitolo 3

194

a lezione accurato, perché egli non la pubblicò personalmente: ?° la sua teoria rimase affidata agli appunti presi 187242 nel dai suoi studenti, e fu pubblicata per la prima volta dal suo allievo Ernst Kossak, Weierstrass sembra concepire i numeri interi positivi, alla maniera di Euclide (Elementi, Libro VII, definizione Il), come aggregati composti di unità. I rapporti sono invece concepiti come aggregati composti di unità e parti 9 LA 1 esatte dell’unità, essendo queste ultime definite come numeri e, tali che n X en= 1, cosicché e, = —. Dato un nun un numero dato che, tale numero quel come a' opposto numero un poi definisce mero positivo a, Weierstrass considerati sono negativi rapporti I 0. a'= + a che tale qualsiasi b, b + a + a'= b, oppure, in modo equivalente, (di cui reali numeri i generale, In dell’unità. esatte come aggregati costituiti da numeri opposti all’unità e alle parti Weida concepiti sono razionali) numeri i rapporti sono considerati parte, coincidendo per Weierstrass con i immapuò si 1,4 erstrass come somme di un numero finito o infinito di rapporti. Per esempio, il numero razionale ginare come dato dalla somma di un’unità e di quattro parti di unità, ossia dalla somma 1 + 0,4, ma si può anche immaginare come dato dalla somma

1 + 0,2 + 0,2, oppure dalla somma 0,9 + 0,1 + 0,1 + 0,3, ecc. In quest'ottica,

un numero irrazionale è il risultato di una somma di infiniti rapporti. Per es., la radice quadrata di 2 si può concepire come:

(i) 1+0,4+0,01+0,004+0,0002 +0,00001 + 0,000003 + 0,0000005 + ..., dove la somma dei primi n + 1 termini costituisce un’ approssimazione all’n-esimo decimale di v2:1+0,4=1,4; 1,4+ 0,01 =1,41; 1,41 + 0,004 = 1,414; 1,414 + 0.0002 = 1,4142; e così via. La successione infinita dei termini di

(i): (ii) 1 0,4 0,01 0,004 0,0002 0,00001

0,000003 0,0000005 ...

è un esempio di ciò che in matematica è detto serie incondizionatamente convergente di razionali. Si può descrivere l’idea generale della teoria di Weierstrass dicendo che essa assume che ogni serie finita di rapporti definisca il numero razionale dato dalla loro somma, e che ogni serie infinita incondizionatamente convergente di razionali

definisca il numero reale cui converge." 41 numeri irrazionali sono tutti i numeri che non sono definiti da serie fi15 Come il suo amico Leopold Kronecker, Weierstrass era più propenso a comunicare i risultati delle sue ricerche nelle lezioni universitarie che a pubblicarli. Già nel 1880 Salvatore Pincherle, che aveva seguito un corso di Weierstrass a Berlino nel 1878, menzionava nella sua presentazione della teoria di Weierstrass «la nota avversione di quel maestro per la stampa» (Pincherle [1880], p. 178). 153 Per quanto segue, mi sono riferito soprattutto a Dugac [1972]. Dal semestre invernale 1863-64, Weierstrass tenne all'università di Berlino un corso sulle funzioni analitiche, con cadenze all’incirca biennali, nella prima parte del quale introduceva la sua teoria matura dei numeri reali. I menzionati corsi di Weierstrass ebbero luogo nei periodi seguenti: semestri invernali 1863-64 e 1865-66: semestri estivi 1868, 1870, 1872, 1874, 1876, 1878 (dal 1872 il titolo del corso passa da “Teoria generale delle funzioni analitiche” a “Introduzione alla teoria delle funzioni analitiche”); semestri invernali 1880-81, 1882-83 e 1884-85; semestre estivo 1886 (il corso del 1886 è intitolato “Capitoli scelti della teoria delle funzioni”). In Kossak [1872] è presentata una parte del corso dell’inverno 1865-66. Wilhelm Killing redasse il corso

del 1868 (v. Weierstrass [1986]). Georg Hettner redasse il corso del 1874 (una copia del manoscritto si trova ora presso la biblioteca dell'Istituto di Matematica dell’Università di Gòttingen, un’altra presso il Mittag-Leffler Institute di Djursholm, vicino a Stoccolma; estratti pubblicati in Dugac [1972], appendice HI, pp. 125-129). Nel 1880 Salvatore Pincherle (v. Pincherle [1880]) presentò un'introduzione alla

teoria delle funzioni analitiche «secondo i principi del prof. C. Weierstrass» basata sul corso del 1878 e su «fascicoli di corsi antecedenti messi alla mia disposizione dalla gentilezza dei suoi scolari» (Pincherle [1880], p. 178). Dello stesso corso del 1878 esiste una redazione di Adolf Hurwitz (estratti pubblicati in Dugac [1972], appendice I, pp. 96-118; edizione integrale in Weierstrass [1988]). Un libro di Victor von Dantscher del 1908 (v. Dantscher [1908]) è basato sui corsi del 1872 e dell’inverno 1884-1885. Abbiamo inoltre una redazione di G. Thieme del corso del 1886 (il manoscritto si trova nella biblioteca dell’Istituto di Matematica della Humboldt-Universitàt di Berlino: estrat-

ti pubblicati in Dugac [1972], appendice IV, pp. 129-136). Succinte esposizioni della teoria dei numeri reali di Weierstrass sono presentate da Georg Cantor ([1883b], $ 9, pp. 184-185) e da Philip Jourdain, nella sua introduzione a Cantor [1915] (pp. 18-20). Bertrand Russell ([1903a], $ 268, p. 282) sintetizza’ brevemente

la teoria di

Weierstrass, dichiarando di seguire l’esposizione fornitane in Stolz [1885-86], vol. I (il matematico austriaco Otto Stolz aveva studiato a Berlino con Weierstrass nel 1869-70).

154 Si osservi che, nel senso di “serie” impiegato in questo paragrafo — che è quello usuale in matematica, cioè di successione di cui sì considerano le somme di ogni numero finito di elementi in ordine di successione — una serie può contenere ripetizioni dello stesso elemento (può, al limite, essere costituita da infinite ripetizioni dello stesso termine). Weierstrass parla di “ZahlengròBen” (“grandezze numeriche”)

costituite di numeri razionali, in numero finito o infinito, tra i quali non è fissato nessun ordine. Gli aggregati di razionali che definiscono le ZahlengròBen non si possono tuttavia concepire come insiemi di razionali, perché un medesimo razionale può esservi presente più volte — cosa che, naturalmente, non è possibile in un semplice insieme di razionali. Sebbene non sia affatto chiaro come Weierstrass concepisse effettivamente le Zah/engròfBen, sembra che esse siano numeri definiti da classi di equivalenza di serie di razionali. n;

Numeri interi, frazionari, reali e complessi. La geometria

195

nite. È naturalmente essenziale caratterizzare le serie convergenti che definiscono numeri irrazionali senza fare alcun riferimento al numero irrazionale cui si vuole che le serie convergano — altrimenti ci s’involge in un circolo vizioso. Che cos è una serie incondizionatamente convergente di razionali? Consideriamo una qualsiasi successione infinitaA di numeri razionali: A,

42, 43, A4, ..., Any ...4

e chiamiamo

“ss,” la somma dei primi n termini di questa successione, per n qualsiasi. Per esempio: s1 = 41; 52 = A, + 43; S3=A,+0,+ 43; S4= ad, +0, +43 + 44; ecc. I termini s, così ottenuti formano, a loro volta, una successione

infinita S: Sp

SEE

eo

che si chiama — modernamente — successione delle ridotte di A. Una serie convergente di razionali A è una successione infinita di razionali tale che la successione delle ridotte di A è una successione fondamentale. Quindi a ogni serie convergente di razionali corrisponde almeno una successione fondamentale. Per esempio, la successione delle ridotte della successione (ii) è la successione:

(ii)

1 1,4 1,41

1,414 1,4142

1,41421

1,414213

1,4142135...,

dove l’(n + 1)-esimo termine costituisce un’approssimazione all’ n-esimo decimale di 2, è una successione fondamentale, secondo la terminologia cantoriana. Una serie incondizionatamente convergente di razionali è una serie convergente di razionali che rimane tale comunque si muti l'ordine dei suoi elementi. Se una serie infinita A è costituita interamente di razionali positivi, o interamente di razionali negativi, ed è convergente, allora è anche incondizionatamente convergente. Non così, però, se essa è costituita di razionali positivi e negativi insieme. Nel caso più generale, in cui si possono avere o non avere numeri razionali positivi e negativi insieme, Weierstrass caratterizza una serie A di infiniti numeri definente un numero reale come una serie

tale che la somma di n termini qualsiasi di A, per qualunque numero naturale n, sia sempre inferiore in valore assoluto a un numero razionale positivo assegnabile. Questa è una definizione possibile delle serie incondizionatamente convergenti. La definizione implica che, date una serie costituita da tutti gli elementi positivi di A (se ve ne sono), e una serie costituita di tutti e soli gli elementi negativi di A (se ve ne sono), entrambe devono essere convergenti. 155 Per illustrare con un esempio la differenza tra la teoria Cantor e quella di Weierstrass, si può osservare che nella teoria Cantor la successione:

TAR

PO

] 3 +0.

dd ite

definisce un numero reale (lo zero), perché è una successione fondamentale. Nella teoria di Weierstrass, invece, questa successione non è

del tipo che definisce un numero reale, perché essa non è una serie convergente. Si dimostra infatti facilmente che, sebbene i rapporti di questa serie divengano sempre più piccoli, la somma dei primi n di essi finisce, prima 0 poi, per superare qualsiasi numero intero fissato, per cui la successione in parola non è una serie convergente. Infatti, si consideri la somma di n termini a partire dal termine n-esimo. Questi n termini sono:

I

I

nel

421

1

]

43

2n

Il loro numero è n, e — è il più piccolo di essi: dunque la loro somma dev'essere maggiore o uguale a n x 37) cioè maggiore 0 uguale a 2n 2n . Quindi, se sommiamo i termini adiacenti della serie, partendo da n = I, otteniamo la serie:

]

Lai

|

|

;-++-+

] 9 +00,

SRI (5 i cui termini non sono minori di quelli della serie: I che è una serie la somma dei cui primi n termini può divenire più grande di qualsiasi intero fissato.

capitolo 3

196

numeri 8.2. Nella teoria di Weierstrass, la relazione di uguaglianza e la relazione espressa da “minore” tra due di raconvergenti reali sono definite confrontando tra loro due qualsiasi delle serie finite o incondizionatamente | | zionali che definiscono i due numeri reali. Cominciamo con i numeri reali positivi definiti da serie di razionali positivi. Sia A una serie finita o una serie .

.

.

.

(3

e

29

"i

convergente di razionali positivi. Diciamo che un rapporto — è contenuto m volte in A, se e solo se esiste un nun

mero naturale & tale che la somma di & termini di A sia maggiore o uguale a — . Ciò pone in grado di confrontare i n numeri reali b e b' definiti, rispettivamente, da una serie finita o convergente di razionali positivi A, e da una serie

finita o convergente di razionali positivi A'. Se ogni rapporto contenuto m volte in A è contenuto m volte anche in A', e ogni rapporto contenuto m volte in A' è contenuto m volte anche in A, allora, per definizione, d = b'. Se esiste un rapporto che è contenuto m volte in A, ma non in A', allora, per definizione, b > b'. Se esiste un rapporto che è contenuto m volte in A', ma non in A, allora, per definizione, b < pap:

I numeri reali negativi sono definiti da serie finite o incondizionatamente convergenti che hanno tra i loro termini numeri razionali negativi. Con le serie di razionali negativi si opera in modo analogo a quello già visto per le serie costituite di razionali positivi. Diciamo che un rapporto negativo -— è contenuto m volte in una serie finita n o convergente di razionali negativi A, se e solo se esiste un numero naturale & tale che la somma di £ termini di A

sia minore o uguale a -—. Ciò pone in grado di confrontare i numeri reali b e b' definiti, rispettivamente, da una n serie finita o convergente di razionali negativi A, e da una serie finita o convergente di razionali negativi A‘. Se ogni rapporto contenuto m volte in A è contenuto m volte anche in A', e ogni rapporto contenuto m volte in A' è contenuto m volte anche in A, allora, per definizione, b = b'. Se esiste un rapporto che è contenuto in A, ma non in A', allora, per definizione, b < b'. Se esiste un rapporto che è contenuto m volte in A', ma non in A, allora, per definizione, b > D'.

Se A è una serie finita o incondizionatamente convergente di razionali e positivi e negativi insieme che definisce un numero reale b, sia B una serie che ha come termini tutti i termini positivi di A, e sia B' una serie che ha

come termini gli opposti di tutti i termini negativi di A. Se esiste un rapporto che è contenuto m volte in B, ma non in B', allora b è un numero positivo. Se esiste un rapporto che è contenuto m volte in A', ma non in A, allora b è un numero negativo. Se ogni rapporto contenuto m volte in B è contenuto m volte anche in B', e viceversa, allora b = 0. Siano i numeri reali b e b' definiti, rispettivamente, da una serie finita o incondizionatamente convergente A di razionali positivi e negativi insieme, e da una serie finita o convergente A' di razionali positivi e negativi insieme. Se b e b' sono di segno diverso, o se uno dei due è zero, è naturalmente immediato stabilire se essi sono uguali e, altrimenti, quale sia il maggiore dei due. Il caso, invece, in cui b e b' hanno lo stesso segno, è risolto da un teorema dimostrato da Weierstrass secondo cui, se si ha una serie incondizionatamente convergente A, costituita di in-

finiti razionali positivi e di infiniti razionali negativi insieme, si può sempre ridurre con un numero finito di operazioni la serie dei suoi soli elementi negativi (se il numero definito da A è positivo), o la serie dei suoi soli elementi positivi (se il numero definito da A è negativo), ad avere una somma inferiore, in valore assoluto, di qualsiasi numero positivo assegnato. Ciò pone in grado di confrontare i numeri reali è e d' definiti. rispettivamente, da una serie finita o convergente A di razionali positivi e negativi insieme, e da una serie finita o convergente A' di

razionali positivi e negativi insieme, anche qualora b e b' abbiano lo stesso segno. Si può procedere così. Diciamo

LO che un rapporto positivo — è contenuto m volte in A, se e solo se esiste un numero naturale & tale che la somma di n

15° Si noti che la relazione tra A e A' data dalla condizione che ogni rapporto contenuto m volte in A sia contenuto anche in A‘, e viceversa, è una relazione di equivalenza: tutte le serie finite o convergenti di razionali positivi che stanno tra loro in questa relazione definiscono lo stesso numero reale, e tutte le serie finite o convergenti di razionali positivi che non stanno tra loro in questa relazione definiscono numeri reali positivi differenti. Si può dunque dire che ogni classe di equivalenza di serie di numeri razionali positivi rispetto alla relazione suddetta corrisponde, secondo la teoria di Weierstrass, a uno e un solo numero reale positivo.

Numeri interi, frazionari, reali e complessi. La geometria

197

k termini di A sia maggiore o uguale a — e l’ulteriore somma di un numero finito di altri termini di A ai k termini n non divenga mai minore di —; diciamo che un rapporto negativo — — è contenuto in A, se e solo se esiste un n n numero naturale X tale che la somma di X termini di A sia minore o uguale

a-—, n

e l’ulteriore somma di un nume-

ro finito di altri termini di A ai & termini non divenga mai maggiore di — —. Se ogni rapporto contenuto m volte in n A è contenuto m volte anche in A', e ogni rapporto contenuto m volte in A' è contenuto m volte anche in A, allora, per definizione, b = b'. Se b e b' sono positivi, allora se esiste un rapporto che è contenuto m volte in A, ma non in A', b > b'; se esiste un rapporto che è contenuto m volte in A’, ma non in A, b < b'. Se b e b' sono negativi, allora se esiste un rapporto che è contenuto m volte in A, ma non in A', b < b'; se esiste un rapporto che è contenuto m volte in A', ma non in A, b> dD'.

8.3. Le operazioni di addizione, moltiplicazione e divisione tra numeri reali sono definite come segue. Sia » il numero reale definito dalla serie finita o convergente A e sia b' il numero reale definito dalla serie finita o convergente A'. La somma b + b' è definita come il numero reale b" definito da una serie finita o convergente i cui termini siano tutti gli elementi di A e tutti gli elementi di A'. La differenza b — b' tra due numeri reali d e d' definiti, rispettivamente, da una serie finita o convergente A di razionali, e da una serie finita o convergente A' di razionali è il numero reale b" definito da una serie finita o convergente i cui termini siano tutti gli elementi di A e gli opposti di tutti gli elementi di A‘. Il prodotto d x b' è il numero reale 5" definito da una serie finita o convergente i cui termini sono dati dal prodotto di ciascun termine di A con ogni termine di A. Il quoziente . : b'è definito, dove b' è diverso da 0, come il prodotto di b x 1/b'. Se b'è un numero razionale, lo sarà anche 1/b'; in questo caso, il quoziente è : d' è il numero reale 5" definito da una serie finita o convergente i cui termini sono dati dal prodotto di ciascun termine di A con 1/b'. Perché però la divisione tra numeri reali sia possibile in generale, occorre mostrare che, qualora b' sia diverso da 0, esiste sempre un numero reale 1/b' tale che 1/b'x b'= 1 anche nel caso che d' sia un numero irrazionale, cioè non possa essere definito tramite una serie finita. Allo scopo, Weierstrass indica la serie infinita seguente, che definisce il numero 1/b": ,

12

m?



RIOLO m

36

dove m è il numero positivo intero immediatamente superiore a b'e b,

=m- d'.

9. LA TEORIA DEI NUMERI REALI DI RUSSELL 9.1. LA CRITICA DI RUSSELL ALLE DEFINIZIONI DI DEDEKIND, Le teorie di Dedekind, Weierstrass e Cantor — secondo Russell —

WEIERSTRASS E CANTOR non raggiungono l’obiettivo per cui sono

state approntate: quello di fondare interamente la teoria dei numeri reali sull’aritmetica dei razionali. Per Russell, nessuna di queste tre teorie prova che vi siano numeri reali: i loro autori parlano dei numeri reali come definiti dalle sezioni, dalle serie finite o incondizionatamente convergenti, 0 dalle successioni fondamentali di razionali,

sostituendo così l’aritmetica alla geometria nei fondamenti dell’analisi, ma non dimostrano che entità come i nu-

meri reali esistano.

inferiti come sato per es., l'articolo “The relation of sense-data to physics” (1914), dove Russell scrive: «Un tempo, gli irrazionali erano

degli supposti limiti di serie di razionali che non avevano un limite razionale; ma l’obiezione a questa procedura era che lasciava lesistenza

(Russell irrazionali come puramente ottativa, e per questa ragione i metodi più rigorosi di oggi non tollerano più una tale definizione» [1914d], $ VI, pp. 135-136). V. anche Russell [1919a], cap. 7, p. 71.

capitolo 3

198

poiché lo spirito umano crea na Dedekind afferma più volte esplicitamente che i numeri irrazionali esistono da un Di razionale. nuovo numero in corrispondenza di quelle sezioni di razionali che non sono determinate

“Creazione Il $ 4 del suo saggio Stetigkeit und irrationale Zahlen si intitola: “Schòpfung der irrationalen Zahlen”: da Deusate dei numeri irrazionali”. Le parole “creare” (erschaffen), “creazione” (Schòpfung), e collegate, sono

scrive: «Noi dekind in modo letterale; per esempio, in una lettera a Heinrich Weber datata 24 gennaio 1888, egli [schòpferische siamo di stirpe divina [gòttlichen Geschlechtes] e abbiamo senza alcun dubbio potere creativo n Din[geistige spirituali cose in mente eminente , ma telegrafi) Kraft] non soltanto in cose materiali (ferrovie, gen». Per Dedekind, le estensioni del sistema numerico si devono a questa “creazione” di nuove entità da parte dello spirito umano: Mentre queste due operazioni [cioè, addizione e moltiplicazione tra numeri naturali] sono sempre eseguibili, le operazioni inverse, la sottrazione e la divisione, mostrano una fattibilità limitata. Ora quale possa essere stata la ragione prossima, quali confronti 0a nalogie con esperienze, intuizioni possano aver portato a ciò, può restare indeciso; basti dire che proprio questa limitazione dell’eseguibilità delle operazioni indirette è ogni volta divenuta la causa ultima di un nuovo atto creativo [eines neuen Schbpfungsactes]; così i numeri negativi e quelli frazionari sono stati creati [sind erschaffen] dallo spirito [Geist] umano, e nel sistema di tutti i numeri razionali si è ottenuto uno strumento di perfezione infinitamente maggiore. Così come i numeri razionali negativi e frazionari devono e possono essere prodotti [hergeste/lt] per mezzo di una libera creazione [durch eine freie Schòpfung], e come le leggi del calcolo con tali numeri devono e possono essere ricondotte alle leggi del calcolo con i numeri interi positivi, così si deve mirare a far sì che i numeri irrazionali siano completamente definiti soltanto per mezzo dei

numeri razionali.'°

Cantor ha una visione dell’attività del matematico che, per alcuni versi, richiama quella di Dedekind, ma appare più articolata filosoficamente. Cantor afferma che si può parlare di “realtà”, o “esistenza” dei numeri in due sensi: (1) quando essi esistono nel nostro intelletto; (2) quando essi hanno un’esistenza al di fuori del nostro intelletto. Egli scrive: Possiamo parlare in due sensi [Bedeutungen] della realtà [WirKlichkeit] o esistenza [Existenz] dei numeri interi, di quelli finiti come

di quelli infiniti; per la precisione si tratta però degli stessi due rispetti nei quali in generale può essere presa in considerazione la realtà [Realitàt] di concetti e idee qualsiasi. In un’occasione possiamo considerare i numeri interi come reali [wirklickh] nella misura

in cui, sulla base di definizioni essi occupano nel nostro intelletto un posto completamente determinato, sono distinti al meglio da tutte le altre parti costituenti del nostro pensiero, stanno con esse in relazioni determinate, e di conseguenza modificano in modo determinato la sostanza del nostro spirito; mi sia permesso di chiamare questo tipo di realtà [Realitàf] dei nostri numeri realtà intrasoggettiva 0 immanente [intrasubjektive oder immanente Realitiit.!®! Poi però può anche essere attribuita una realtà [Wirklichkeif] ai numeri nella misura in cui essi si devono ritenere un’espressione o un’immagine [Abbild] di processi e relazioni del mondo esterno che sta di fronte all’intelletto, e inoltre nella misura in cui le varie classi numeriche (1), (ID, (ID), ecc. sono rappresentanti [Représentanten| di potenze [Méchtigkeiten] che di fatto sono presenti [vorkommen] nella natura corporea e spirituale. Chiamo

dio secondo tipo di realtà [Realizàt] dei numeri interi realtà transoggettiva o transiente [transsubjektive oder transiente Reali-

tùit].

Per Cantor, tuttavia, l’esistenza, o realtà, nel primo senso deve sempre implicare quella nel secondo senso: Dato il fondamento completamente realistico, ma al tempo stesso non meno idealistico, delle mie riflessioni. non c° è per me alcun dubbio che questi due tipi di realtà stanno sempre uniti, nel senso che un concetto che va qualificato come esiste nte nel primo riguardo possiede sempre, per certi — anche per infiniti — rispetti, anche una realtà transiente [...].!93

Qui Cantor aggiunge al testo una nota illuminante: Questa convinzione si accorda essenzialmente sia con i principi [Grundsdtzen] del sistema platonico

sia con una caratteristica es-

senziale di quello spinoziano. Per il primo rispetto faccio riferimento a Zeller, Philos. d. Griechen. III ed. Parte II, Sez. I, pp

!58 In Dedekind [1930-32], vol. III, p. 489. 5° Dedekind [1872],$ 1, pp. 12-13. 160 Dedekind [1872], $ 3, p. 17. 16! Quella che qui chiamo realtà “intrasoggettiva” o “immanente” potrebbe forse coincidere con l’attributo di adeguato”, nel senso in cui questa parola viene usata da Spinoza quando dice (Ethica, pars II, def. IV) «Per ideam dear adaequat am intelligo ideam, quae, quatenus in se sine relatione ad objectum consideratur, omnes verae ideae propriet ates sive denominationes intrinsecas habet». [Nota di Cantor.]

‘92 Cantor [1883b], $ 8, p. 181.

163 Ibid.

Numeri interi, frazionari, reali e complessi. La geometria

199

541-602. Qui si dice, già all’inizio della suddetta sezione: «Solo il sapere concettuale reca (secondo Platone) una vera conoscenza. Ma tanta verità [Wahrheit] spetta alle nostre rappresentazioni [Vorstellungen] — Platone condivide questo presupposto con altri (Parmenide) —, quanta realtà [Wirklichkeit] deve spettare al loro oggetto, e viceversa. Ciò che si può conoscere è, ciò che non si può conoscere non è, e nella misura in cui qualcosa è, è anche conoscibile». Riguardo a Spinoza mi basta ricordare la sua proposizione dell’Etica, pars II, prop. VII: «ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum». Anche nella filosofia leibniziana si può ritrovare lo stesso principio. Soltanto a partire dai più recenti empirismo, sensismo e scetticismo, così come dal criticismo kantiano

da essi derivato, si è creduto di dover trasferire, e confinare, la fonte del sapere e

della certezza nei sensi o nelle cosiddette forme pure del mondo della rappresentazione; secondo la mia convinzione questi elementi non forniscono affatto una conoscenza sicura, perché quest’ultima si può ottenere solo grazie a concetti e idee che, al massimo stimolate [angeregt] dall’esperienza esterna, nell’essenziale sono costruite per mezzo di induzione e deduzione interiore come qualcosa che in un certo qual modo stava già in noi ed è solo risvegliato e portato alla coscienza [Beww$tsein].!®

Dall’asserita connessione tra realtà immanente e transiente — secondo cui la prima implicherebbe la seconda — Cantor trae la conclusione che la matematica può limitarsi a considerare solo la realtà immanente dei suoi 0ggetti, cioè la loro realtà intellettuale: Questa connessione tra due realtà ha il suo reale fondamento [sei eigentlichen Grund] nell’unità [Einheit] del tutto [AUs] al quale

noi stessi apparteniamo. — Il richiamo a tale connessione ha qui il solo scopo di derivarne una conseguenza che mi sembra molto importante per la matematica, cioè che nello sviluppo del proprio materiale ideale quest’ultima deve prendere in considerazione so-

lo e unicamerite la realtà immanente dei propri concetti e pertanto non ha nessun obbligo di controllarne anche la realtà transiente. Grazie a quest’ottima posizione, che la distingue da tutte le altre scienze e fornisce una spiegazione del suo genere di attività relati vamente facile e privo di vincoli, essa sola merita il nome di matematica libera, una denominazione alla quale, se stesse a me scegliere, darei la preferenza su quella divenuta usuale di matematica “pura”. La matematica è completamente libera nel suo sviluppo e vincolata solo all’ovvio riguardo che i suoi concetti siano in sé non contraddittori e stiano in una relazione fissa, regolata da definizioni, con quelli formati in precedenza, già disponibili e sperimentati.'99

Così, secondo Cantor, quando la matematica introduce nuovi numeri [...] è tenuta solo a darne definizioni attraverso le quali sia loro conferita una determinatezza e, secondo le circostanze, una relazione con i vecchi numeri, tali che sia possibile, nei casi dati, distinguerli tra loro con sicurezza. Quando un numero soddisfa tutti que-

sti requisiti, esso può e deve essere considerato come esistente e reale [existent und real] nella matematica. In questo io ravviso il motivo [...] per cui i numeri razionali, irrazionali e complessi sono da considerarsi esistenti proprio come gli interi positivi finiti.19°

Come si vede, Dedekind e Cantor non dimostrano che i numeri reali ‘vi siano” o “esistano” nell’unico senso

che Russell e Frege considerano legittimo — nella realtà extramentale —; piuttosto lo postulano: il primo affermando che i numeri reali possono essere creati come ferrovie e telegrafi; il secondo sostenendo che il matematico ritrova, con le sue libere costruzioni, realtà oggettive preesistenti. Ma il metodo del “postulare” ciò che si desidera ottenere, non è, per Russell, un metodo soddisfacente; nell’Introduction to Mathematical Philosophy, egli scrive:

«Il metodo di “postulare” ciò che vogliamo ha molti vantaggi; sono gli stessi vantaggi che ha il furto sul lavoro onesto. Lasciamolo agli altri e continuiamo con il nostro onesto lavoro».!” C'è poi una seconda critica che Russell muove alle concezioni di Dedekind, Weierstrass e Cantor: se i numeri

reali esistono, non costituiscono una serie di cui facciano parte i rapporti: Essi [i numeri reali] non possono far parte di nessuna serie contenente razionali [rationals: qui, è inteso come sinonimo di “Tappor-

ti”], poiché i razionali sono delle relazioni fra interi e i numeri reali non lo sono; e la relazione costitutivain virtù della quale i razionali formano una serie è definita unicamente per mezzo degli interi tra i quali essi sono relazioni, cosicché la stessa relazione non può valere fra due numeri reali, o fra un numero reale e un numero razionale.'9*

Cantor, abbiamo visto sopra ($ 7.2), affermava che nella sua teoria dei numeri reali si può dimostrare che ogni

successione fondamentale di razionali ha come limite un numero reale. Ma Russell obietta che tale dimostrazione è fallace. Essa si basa —scrive Russell — sull’osservazione

164 Cantor [1883b], $ 8, nota 6, pp. 206-207. 165 Cantor [1883b], $ 8, p. 182. 100 Ibid. 167 Russell [1919a], cap. 7, p. 71.

168 Russell [1903a], $ 270, p. 286.

capitolo 3

200

è una serie fondamentale, secondo la Jas [...] che una serie numerabile i cui termini siano tutti il medesimo numero razionale cui è definito b — b', possiamo mettere qualmediante , af, — a, differenze le costruire nel quindi zione [di Cantor] sopra riportata; a che possiamo definire b — a, e ciò che razionale fissato a al posto di a/,, per tutti i valori di n. Non ne deriva però la conseguenz

numeri reali che dimostri essere per la ragione seguente. Non esiste assolutamente nulla nella precedente definizione [di Cantor] dei E il preconcetto, se non sba[...] a. ad eguali tutti sono termini cui i e fondamental serie a il numero reale definito per mezzo di una

glio, è effettivamente erroneo. eslati

rapporti, L’obiezione di Russell è corretta. Per comprenderla bene, serviamoci della terminologia che distingue i una definiti come relazioni tra numeri naturali, dai numeri razionali, che sono i numeri reali definibili attraverso

successione fondamentale i cui termini siano tutti uguali a un certo rapporto. Secondo Russell, i casi sono due: 0 il numero reale definito da una successione fondamentale di rapporti è identificato con il limite della successione fondamentale, e allora le successioni fondamentali di rapporti che non hanno come limite alcun rapporto non definiscono nessun numero reale; oppure non si assume che il numero reale definito da una successione fondamentale di rapporti sia il limite della successione fondamentale, e in questo caso non c’è nessuna prova che il numero reale definito da una successione fondamentale i cui termini sono tutti uguali al medesimo rapporto a sia quello stesso rapporto a. Supponendo che ogni successione fondamentale di rapporti definisca un numero reale, il ragionamento cantoriano dimostra effettivamente — come osserva Russell!” — che ogni successione fondamentale di numeri razionali ha come limite un numero reale.'”! Ma non dimostra, come ritiene Cantor, che ogni successione fondamentale di rapporti abbia come limite un numero reale, se non assumendo l’identità tra rapporti e numeri razionali — un’assunzione inconsapevole che tuttavia chiude l’argomento volto a provare che i rapporti sono una sottoclasse dei numeri reali in un circolo vizioso.

9.2. INUMERI REALI SEMPLICI 9.2.1. Lo scopo che Russell si propone è quello di costruire entità la cui esistenza sia logicamente garantita che possano svolgere esattamente il ruolo dei numeri reali, sostituendo così entità ipotetiche con entità indubbie. Tecnicamente, la teoria dei numeri reali di Russell è basata su una variante della teoria di Dedekind che era stata già adottata da Peano." Si tratta sempre di dividere in due parti l’insieme dei rapporti, o numeri frazionari, per ottenere un numero reale definito dalla partizione, tuttavia si avverta che, mentre Dedekind elabora la sua teoria dei numeri reali partendo dalla serie di tutti i rapporti con segno (negativi e positivi, più lo zero), ottenendo così una teoria di tutti i numeri reali (negativi, positivi e zero), Russell prende le mosse dalla serie dei soli rapporti semplici (rapporti privi di segno) e diversi da zero (cioè zero escluso), ottenendo così una teoria riferita ai soli numeri reali privi di segno e diversi da zero. Nei Principia Mathematica — naturalmente — Russell procede a definire anche la serie dei numeri reali con segno, cioè la serie costituita dai numeri reali negativi, dal numero reale zero, e dai numeri reali positivi. Tuttavia, anche qui, il procedimento russelliano consiste nel partire dalla serie dei soli rapporti semplici diversi da zero, che nei Principia sono identificati con i rapporti positivi, per ottenere la serie dei numeri reali semplici diversi da zero, che nei Principia sono identificati con i numeri reali positivi; i numeri reali negativi sono dezza inverso; tendo insieme Dunque, lai dalla serie dei

ottenuti ripetendo la medesima costruzione sulla serie dei rapporti negativi, presi in ordine di graninfine è definito lo zero dei numeri reali. La serie dei numeri reali con segno si costruisce poi meti numeri reali precedentemente definiti e assegnando loro un ordine di successione. costruzione di base che permette di definire i numeri reali semplici diversi da zero a partire i MESI è quella i rapporti semplici diversi da zero: è dall’analisi di quest a costruzione che prenderemo le mosse.

159 Russell [1903a], $ 269, pp. 284-285. !7° V. Russell [1903a], $ 269, p. 285, e Russell

[1919a], cap. 7, p. 73.

17! Per la dimostrazione di questo teorema nel contesto della teoria russelliana dei nume ri reali, v. sotto, $ 9.4.

172 V. Peano [1891], $ 11. La modificazione tecnica della teoria di Dedekind di cui si serve Peano fu elaborata per la

[1882b], $ 1. Russell trasse però la sua teoria da Peano (com’egli stesso dichiara in Russell [1903a],

Grattan-Guinness [1977], p. 129: lettera di Russell a Jourdain del 21

AE

mar:

Hou

Dpersil

IRSA

$ 261

prima volta

p. 274) x

ia

in

Pasch o

dite;

e 21 marzo 1910), la cui opera [1882b] non è neppure citata nei Principles

Numeri interi, frazionari, reali e complessi. La geometria

201

9.2.2. Per spiegare la teoria di Russell cominciamo con il considerare le sezioni di Dedekind di rapporti (semplici e diversi dallo zero dei rapporti). Tali sezioni possono essere di tre tipi: (t1) (t») (t3)

la classe inferiore della sezione ha un massimo, mentre la classe superiore non ha un minimo; la classe inferiore della sezione non ha un massimo e la classe superiore ha un minimo; la classe inferiore della sezione non ha un massimo e la classe superiore non ha un minimo.

Naturalmente, è impossibile, che la classe inferiore della sezione abbia un massimo e, contemporaneamente, la classe superiore abbia un minimo. Infatti, se così fosse, il minimo della classe superiore dovrebbe essere il rapporto immediatamente successivo al rapporto che costituisce il massimo della classe inferiore della sezione: ma questo è impossibile, perché tra due rapporti qualsiasi, in ordine di grandezza, c’è sempre un altro rapporto (e quindi infiniti rapporti). Possiamo stabilire, per convenzione, che una sezione determinata da un certo rapporto a debba sempre avere la forma (t2): se abbiamo una sezione della forma (t;) possiamo ridurla alla forma (ty) semplicemente togliendo il rapporto che determina la sezione dalla classe inferiore della sezione e includendolo nella classe superiore della sezione. In questo modo otteniamo i seguenti due casi possibili: (t») (t3)

la classe inferiore della sezione non ha un massimo e la classe superiore ha un minimo; la classe inferiore della sezione non ha un massimo e la classe superiore non ha un minimo.

Ora, siccome la classe superiore di una sezione di Dedekind di rapporti non è altro che la classe di tutti i rapporti che non fanno parte della classe inferiore della sezione, è evidente che ogni sezione è perfettamente determinata una volta che sia data la sua classe inferiore. Ne segue che, invece di ragionare sulle sezioni, possiamo ragionare, in modo equivalente, sulle classi inferiori delle sezioni stesse. È ciò che fa Russell, seguendo la modificazione della teoria di Dedekind adottata in precedenza da Peano. Come Peano,” Russell chiama segmento (segment)'? della serie dei rapporti ogni classe che può essere considerata come la classe inferiore, priva di un massimo, di una sezione di Dedekind.!”°

Nei Principles Russell definisce un segmento della serie dei rapporti come una classe di rapporti che: e non è vuota;

e non comprende tutti i rapporti; e è identica alla classe di tutti i rapporti minori di un elemento variabile di se stessa; ovvero, comprende tutti e

solo i rapporti x che sono minori di qualche rapporto y appartenente alla classe stessa.

Nel seguito ci atterremo a questa definizione.'!”” Si osservi che la terza clausola richiede che un segmento non abbia un elemento massimo. Infatti, l'elemento massimo di una classe di rapporti non può essere minore di nessun rapporto appartenente alla classe stessa, mentre la terza clausola prevede che un segmento possa contenere solo rapporti che siano minori di qualche rapporto appartenente al segmento stesso. Possiamo dunque asserire, più analiticamente, che un segmento di rapporti è una classe & di rapporti definita dalle seguenti quattro proprietà (uso qui il simbolo “Q” per denotare la classe di tutti i rapporti semplici diversi da zero): (1)

xe

Nxe"o):

“C’è almeno un rapporto che appartiene ad 2°.

Chi Nel seguito, finché non verrò a parlare dei numeri reali con segno (v. sotto, $ 9.5), userò per brevità il termine “rapporti” per riferirmi all’insieme di tutti i rapporti semplici diversi da zero, e il termine “numeri reali” per riferirmi ai numeri reali semplici diversi da zero. 174 : n iena

fu usato in questo senso per la prima volta in Pasch [1882b], $ 1 (V. Peano | 1891], $ 10, p. 107).

176 Una sezione, si rammenti, dei soli rapporti semplici diversi da zero. ibi 177 V_ Russell [1903a], $ 259, p. 271. A differenza che nei Principles of Mathematics, nei Principia Mathematica (v. [PM], vol. IT, #21 nell’Introduction to Mathematical Philosophy (v. Russell [1919a], cap. 7, p. 72), un “segmento” non deve necessariamente soddisfare le le restrizioni prime due clausole — cioè può anche essere una classe vuota, o contenente tutti i membri di una serie. Tuttavia, nei Principia

III, #310). Ho ritenucorrispondenti alle due clausole menzionate sono poi imposte ai segmenti che definiscono numeri reali (v. [PM], vol.

to dunque più comodo, ai nostri scopi, aderire alla definizione di “segmento

dei Principles.

capitolo 3

202 (2)

(ne

Qunxe

dl:

“C'è almeno un rapporto che non appartiene ad Q°. (3)

Me

Onye

QAx B", che possiamo trasformare in un enunciato chiuso quantificando universalmente tutte le n variabili

libere “x”, ..., ‘“X, contenute in esso: otteniamo così l’enunciato:

(1) "Gp... (m(A'> BI, che rappresenta (nelle ipotesi stabilite), ciò che Russell considera un enunciato logico. Gli enunciati della forma (1) sono verità logiche della geometria pura. * Quando vogliamo passare da essi alle 34! Russell [1903a], $ 412, pp. 429-430. 342 Russell [1903a], $ 8, p. 8. 34 Gli assiomi dovranno essere scritti in modo da non contenere variabili libere (cioè, non vincolate da quantificatori): se un assioma con-

tiene delle variabili libere, lo si sostituirà con la formula ottenuta quantificando universalmente tutte le sue variabili libere e dando ai quantificatori universali così ottenuti il massimo ambito possibile nella formula. Se

virgolette angolari sono le virgolette di ‘“quasi-citazione” (quasi-quotation) introdotte da Quine ([1940], $ 6). Poste ai lati di una

formula, formano un simbolo che designa una qualsiasi delle formule che risulta dal rimpiazzamento, nella formula di origine, di tutte le variabili metalinguistiche in essa contenute con simboli del linguaggio oggetto su cui variano tali variabili. Così, per es., "A > B' è la formula risultante dallo scrivere l’ enunciato A, facendone seguire il simbolo “>” e poi l’enunciato B. 345 C’è una nota obiezione, risalente a Quine (v. Quine [19362], $ I, p. 334; Coffa [1981], p. 252; Gandon [2012], $ 2.1, p. 53), a questa concezione che possiamo chiamare (seguendo Putnam [1967], Musgrave [1977], e Coffa [1981]) “se-allorista” della geometria, secondo cui

in questo modo si riduce una teoria matematica a logica «[...] al costo di banalizzare la tesi riduzionista. Infatti, se l'affermazione che la matematica è logica non è fondamentalmente niente di più che l’affermazione che ciascun condizionale che ha un insieme appropriato di assiomi matematici come antecedente e uno dei suoi teoremi come conseguente è dimostrabile in logica, allora possiamo stabilire la riducibilità a logica non solo della matematica, ma anche di un gran numero di discipline ovviamente non logiche. [...] [A]nche la biologia pura, l'economia pura, la geografia pura, e, in effetti, qualsiasi teoria (del primo ordine) assiomatizzabile è, nello strano senso di Russell, riducibile a logica» (Coffa [1981], p. 252). In uno spirito simile, molti anni prima di Coffa, Quine argomentava: «Il corpo di tutte queste asserzioni ipotetiche, descrivibile come “teoria della deduzione della geometria non-matematica”, è naturalmente parte della logica; ma lo stesso è vero di qualsiasi “teoria della deduzione della sociologia”, “teoria della deduzione della mitologia Greca”, ecc., che potremmo costruire in un modo parallelo con l’aiuto di qualsiasi insieme di postulati adatti alla sociologia o alla mitologia Greca. Il punto di vista verso la geometria considerato si riduce così meramente a un’esclusione della geometria dalla matematica, a una retrocessione della geometria allo status della sociologia o della mitologia Greca. [...] Incorporare la matematica nella logica considerando tutte le verità matematiche recalcitranti come asserzioni ipotetiche ellittiche è così in effetti meramente delimitare il termirte “matematica” così da escludere queste branche recalcitranti. Ma noi non siamo interessati al rinominare» (Quine [1936a], $ I, p. 334).

Concordo che il logicismo se-allorista sarebbe una tesi banale se applicata a tuta la matematica. Senza dubbio ci sono parti della matema-

tica i cui teoremi sono intesi come veri in un senso non condizionale; ma ci sono anche parti della matematica —

una di esse è la geometria

metrica — nei confronti delle quali l’idea se-allorista ha una base solida. Certamente, infatti, in geometria metrica non possono essere en-

trambi veri, in modo incondizionato, enunciati contraddittori come, per es., “La somma

degli angoli interni di un triangolo è 180°” e “La

somma degli angoli interni di un triangolo non è 180°”; eppure il primo è “vero” nella geometria euclidea e il secondo è “vero” nella geometria iperbolica e in quella ellittica. Anche se esistesse una realtà matematica platonica in cui, poniamo, fosse vera la geometria euclidea e fossero false le altre geometrie metriche (in questo quadro platonico, si potrebbe supporre che lo spazio fisico sia un riflesso di questa realtà matematica, e quindi euclideo), scoprendola non si eviterebbe il se-allorismo in geometria, perché questo andrebbe applicato ancora alla

Numeri interi, frazionari, reali e complessi. La geometria

253

applicazioni della geometria, ciò che dobbiamo fare è interpretare le nostre n variabili in modo che l’antecedente

di (1) diventi un enunciato vero: in questo caso anche il conseguente diventerà vero. Tutte le interpretaz ioni delle nostre n variabili che rendono vero l’antecedente di (1) sono interpretazioni possibili della geometria in esame: cioè sono interpretazioni in cui, essendo gli assiomi veri anche i teoremi saranno veri. Gli assiomi definiscono così una classe di n-uple ciascuna delle quali rappresenta un’interpretazione degli n termini primitivi la quale rende veri gli assiomi della geometria e costituisce dunque, per Russell, uno spazio della geometria in esame.?*° Uno di questi spazi sarà lo spazio metrico euclideo che ci è reso familiare dalla geometria analitica, dove i “punti” sono interpretati come n-uple di numeri reali e la relazione metrica di distanza tra punti è interpretata come una relazione algebrica tra queste n-uple.?! Il significato che ciò assume, nella filosofia della geometria di Russell, è il seguente. Poiché l’esistenza di nuple di numeri reali può essere dimostrata, secondo Russell, per via puramente logica, ne segue che l’esistenza di almeno uno spazio euclideo n-dimensionale risulta dimostrata per via puramente logica; detto in altri termini, abbiamo, per Russell, la dimostrazione logica che la classe degli spazi euclidei n-dimensionali non è vuota.?** Questo vale anche per le geometrie non euclidee; scrive Russell:

geometria iperbolica e a quella ellittica — a meno di non escludere queste geometrie -dall’ambito della matematica. (Alan Musgrave difende il se-allorismo dalle critiche di Quine sviluppando considerazioni simili alle precedenti in Musgrave [1977], $ 5, pp. 122-123.)

Riguardo alle obiezioni avanzate nei brani riportati sopra, si può ancora osservare che c’è un’importante differenza tra la geometria pura e le supposte assiomatizzazioni di biologia, economia, sociologia e geografia, che giustifica il fatto che solo la prima sia intesa dal se-allorista come costituita di verità logiche condizionali. Le supposte assiomatizzazioni di biologia, economia, sociologia e geografia, infatti, sarebbero teorie interpretate, con lo scopo di descrivere una certa realtà empirica. Una teoria assiomatica biologica o geografica, per es., i cui assiomi fossero riconosciuti come empiricamente falsi sarebbe semplicemente abbandonata, perdendo il suo posto nella scienza. Una geometria pura, invece, non è oggi (dopo la nascita delle geometrie non euclidee) intesa come una teoria interpretata, intesa a descrivere un dato di fatto. Se si scoprisse, per es., che lo spazio fisico non è euclideo, la geometria euclidea non sarebbe affatto abbandonata, ma manterrebbe il suo posto nella matematica. 246 La concezione formale delle teorie, oggi abitualmente associata al nome di Hilbert, alla fine dell’800 era già un’acquisizione stabile della scuola di Peano. In proposito, è interessante riportare due passi tratti, rispettivamente, dalle relazioni di Alessandro Padoa e di Mario Pieri a quel Primo Congresso Internazionale di Filosofia (Parigi, 1900) che tanta influenza ebbe su Russell. Scrive Padoa: «In effetti, durante il periodo di elaborazione di una teoria deduttiva qualsiasi, scegliamo le idee che rappresentiamo per mezzo dei simboli non definiti e i fatti che enunciamo per mezzo delle P [proposizioni] non dimostrate; ma, quando cominciamo a formulare la teoria, possiamo immaginare che i simboli non definiti siano completamente sprovvisti di significato e che le P non dimostrate (in luogo di enunciare dei fatti, cioè delle relazioni tra le idee rappresentate dai simboli non definiti) non siano che delle condizioni alle quali sono assoggettati i

simboli non definiti. Quindi, il sistema di idee che abbiamo scelto all’inizio non è che un’interpretazione del sistema dei simboli non definiti, ma, dal punto di vista deduttivo, quest’interpretazione può essere ignorata dal lettore, il quale può rimpiazzarla liberamente, nel pensiero, con un’altra interpretazione che verifica le condizioni enunciate dalle P non dimostrate» (Padoa [1901], $ 13, p. 318; corsivi di Padoa).

Nello stesso spirito, Pieri scrive: «[L]'ente primitivo di un qualsivoglia sistema deduttivo (come sarebbe il punto in Geometria) dev'essere suscettibile d’interpretazioni arbitrarie entro certi limiti assegnati dalle proposizioni primitive; in modo tale che il contenuto delle parole o dei segni che s’impiegano per designare un soggetto primitivo qualunque sia determinato unicamente dalle proposizioni primitive che vertono su questo soggetto, e che per il resto ciascuno sia libero di attribuire a queste parole o a questi segni un senso ad libitum, purché esso sia compatibile con gli attributi generali imposti a quest’ente dalle proposizioni primitive» (Pieri [1901], $ I, p. 373; corsivi di Pieri. Un passo quasi identico a questo si

trova in Pieri [1899], $ 1°, p. 6). # Va per es., Russell [1924b], p. 453. Adattando un esempio riguardante la geometria tridimensionale citato in Nicod [1924], cap. 1, p. 11, nel caso più semplice della geometria piana si può porre: (1) La classe dei punti = la classe delle coppie di numeri reali. (2) La relazione espressa da “essere a uguale distanza” = la relazione che vale tra due coppie di coppie di numeri reali (x, y1) € (xa, Ya); (13, Y3) e (x, Y4) se e solo se: 3

(1-4) +02- 1) = (14 - x3) + 4 — Ya).

(3) La relazione espressa da “giacere sulla stessa retta” = la relazione che vale fra tre coppie di numeri reali (x, y1), (Xa, Y2) e (A, Y3) se e solo se: Xx

a

Le xy

Sii Dv In quest’interpretazione, gli assiomi e i teoremi della geometria euclidea piana divengono enunciati veri. Incidentalmente, è per questa via in che, alla fine dell'Ottocento, Hilbert dimostrò la coerenza (rispetto all’analisi) della geometria euclidea: cioè traducendone gli assiomi

mihi enunciati algebrici e mostrando che, in quest’interpretazione, essi risultano veri (v. Hilbert [ 1899], $9). esistenza] tramite 348 V. Russell [1903a], $ 474, p. 498. In una lettera a Couturat datata 23 luglio 1905 Russell scrive: «a dimostrazione [di che ci sono mostrare per complessi numeri i es.) (per prendo io che esempi non è empirica se gli esempi non sono empirici; è per questo

euclidea piana, interpredegli spazi euclidei (vedi “Principles”, p. 498)» (in Russell [2001a], p. 522). Russell si riferisce qui alla geometria

tata su un piano complesso.

capitolo 3

234 La

raccolta

[assemblage]

di tutte

le terne

ordinate

di numeri

reali

forma

uno

spazio

tridimensionale

euclideo. Con

quest’interpretazione, tutta la geometria euclidea è deducibile dall’aritmetica. Ogni geometria non euclidea è suscettibile di un’interpretazione aritmetica simile.**°

L’applicazione di una geometria allo spazio fisico, fa invece parte, per Russell, della ricerca empirica: Tutte le proposizioni riguardo a ciò che realmente esiste, come lo spazio in cui empirica, non alla matematica; quando appartengono alla matematica applicata, proposizione di matematica pura qualche valore costante soddisfacente l’ipotesi, di asserire realmente sia l’ipotesi sia la conseguenza invece di asserire solamente

viviamo, appartengono alla scienza sperimentale o esse sorgono dal dare a una o più variabili in una permettendoci così, per quel valore della variabile, l’implicazione.??®

Così per esempio la Geometria euclidea, come branca della matematica pura, consiste interamente di proposizioni che hanno come ipotesi “S è uno spazio euclideo”. Se poi diciamo: “Lo spazio che esiste è euclideo” questo ci permette di asserire dello spazio che esiste iconseguenti di tutte le ipotetiche che costituiscono la Geometria euclidea, essendo ora la variabile S sostituita dalla costante spazio reale. Ma con questo passo noi procediamo dalla matematica pura a quella applicata.

In vista dell’applicazione della geometria allo spazio fisico, occorre, secondo Russell, che i termini primitivi degli assiomi geometrici — parole come “punto” — ricevano un’interpretazione in termini di dati empirici.” Riferendosi al “punto” dello spazio fisico, nell’ Introduction to Mathematical Philosophy Russell scrive: Dev’essere qualcosa che soddisfi quanto più possibile i nostri assiomi, ma non ha da essere “piccolissimo” o “senza parti”. Che sia o no queste cose è indifferente, finché soddisfa gli assiomi. Se possiamo, dal materiale empirico, costruire una struttura logica, non importa quanto complicata, che soddisfi i nostri assiomi geometrici, questa struttura può legittimamente essere chiamata “punto”. Non dobbiamo dire che non c’è altro che possa legittimamente essere chiamato “punto”; dobbiamo solo dire: ‘“Quest’oggetto che abbiamo costruito è sufficiente per il geometra; potrebbe essere uno di molti oggetti, uno qualsiasi dei quali sarebbe sufficiente, ma questo non ci riguarda, poiché quest’oggetto basta a confermare la verità empirica della geometria, nella misura in cui la geometria non è materia di definizione” 95?

Russell allude qui al modo di costruire i punti dello spazio reale adottato nel suo libro, di cinque anni precedente, Our Knowledge of the External World* Per capire bene di che cosa si tratti, conviene partire dall’esposizione, offerta nei Principles, dell’idea comune a molti filosofi, a partire da Aristotele, secondo la quale lo spazio continuo è infinitamente divisibile, ma non è costituito da “punti”, intesi come entità semplici e indivisibili: C'è, tuttavia, presso la maggior parte dei filosofi l’opinione che, ogni lunghezza, area, o volume possa essere divisa in lunghezze, siano composte. Secondo questo punto di vista, i punti sono mere considerati come classi di punti, ma come tutti [who/es] contenenti

nello spazio, il tutto sia antecedente alle parti; [...] che sebbene aree, o volumi, tuttavia non vi siano indivisibili di cui tali entità finzioni, e solo i volumi sono genuine entità. I volumi non sono parti che non sono mai semplici. Mm

Secondo Russell, quest'idea scaturisce — oltre che da difficoltà filosofiche riguardo al concetto di infinito attuale, che tuttavia, egli pensa, possono ritenersi superate dopo le analisi di Cantor — dal fatto che, «ogni cosa spaziale, della cui esistenza siamo direttamente consapevoli nella sensazione o nell’intuizione, è complessa e divisibile».°

34° Russell [1948a], parte IV, cap. 1, p. 254 (ediz. americana, p. 238). 350 Russell [1903a], $ 5, p. 5. 3! Russell [1903a], $ 9, p. 8. 322 V., per es., Russell [1924b], p. 453.

353 Russell [1919a], cap. 6, p. 59. Si Per un passo analogo in Our Knowledge of the External World, v. Russell [1914a], lecture IV, p. 119 (1° ediz., p. 114).

©

Russell [1903a], $ 419, p. 440. V. anche, ibid., $ 142, p. 146. In una nota che abbiamo omesso al passo riportato (dopo il punto e virgo-

la), Russell menziona Leibniz ([1709], p. 379, e [1696], p. 491). Ma la posizione di Kant, un secolo dopo, in questo è simile; nella Critica

della ragion pura si legge infatti:

«Quella proprietà delle quantità, per la quale non si dà in esse parte alcuna che sia la più piccola possibile (cioè, una parte semplice), si tempo sono quanta continua, per il fatto che non è possibile dare una loro parte senza racchiu: far sì che la parte data sia anch'essa uno spazio o un tempo. Pertanto lo spazio non è costituito istanti non sono altro che limiti, ossia semplicemente termini della delimitazione dello spazio e sempre le intuizioni [cioè, lo spazio e il tempo], che spetta loro di limitare e determinare: coi semplici termini, presi come elementi costitutivi, anche se potessero esser dati prima dello spazio e del tempo, non è possibile dar luogo allo spazio e al tempo» (Kant [1781], I, I, libro II, cap. 2, sezione terza, 2, pp. 211-212 (A 169-170, B 211). chiama la continuità delle quantità. Spazio e derla fra limiti (punti e istanti), quindi senza che di spazi e il tempo di tempi. I punti e gli del tempo; ma questi termini presuppongono

°°°

Russell [1903a], $ 419, p. 441.

Numeri interi, frazionari, reali e complessi. La geometria

235

Nei Principles, Russell replica a quest’obiezione sostenendo che le premesse di una scienza empirica (qual è la geometria applicata allo spazio reale) non hanno nessun bisogno di essere intuitivamente evidenti o in sé plausibili: è necessario solo che «i fatti osservati seguano dalle nostre premesse, e, se possibile, da nessun altro insieme di premesse non equivalenti a quelle che assumiamo».”” Che i punti, come entità indivisibili, possano essere considerati entità, è dimostrato, secondo Russell, dallo sviluppo stesso della geometria euclidea usuale «dove, per mezzo di punti indivisibili, si costruisce uno spazio empiricamente indistinguibile da quello in cui viviamo».** La questione se i punti debbano essere considerati entità è una questione più complessa, alla quale Russell, nei Principles, dà una risposta affermativa sulla base di due argomenti. Il primo — esposto nel $ 143 — è che una totalità infinita che non fosse composta di parti semplici involgerebbe un regresso all’infinito: Perché il più semplice è sempre implicato [implied] nel più complesso, e pertanto non vi può essere verità intorno al più complesso se non c’è verità intorno al più semplice. Così nell’analisi del nostro tutto infinito, noi trattiamo sempre con entità che non sarebbero affatto se non vi fossero i loro costituenti. Questo costituisce una differenza reale rispetto alla serie-tempo [time-series], per e-

sempio: un momento non presuppone logicamente un momento precedente, e se lo facesse sarebbe forse autocontraddittorio negare un primo momento, come è stato ritenuto (per la stessa ragione) autocontraddittorio negare una Causa Prima. Sembra conseguirne che i tutti infiniti non avrebbero affatto l’Essere, se non vi fossero innumerevoli Esseri semplici il cui Essere è presupposto in quel-

lo dei tutti infiniti.?°°

AI termine del paragrafo citato, Russell concede: «Il precedente argoinento, si deve ammettere, è meno conclusivo di quanto si potrebbe desiderare [...]».°® Il secondo argomento presentato da Russell — riportato nel $ 422 dei Principles — è basato sul fatto che le relazioni tra entità indivisibili sembrano essenziali alla descrizione di uno spazio geometrico: Le relazioni sono, naturalmente, del tutto essenziali per uno spazio, e ciò ha condotto alla credenza che uno spazio è, non solo i suoi

termini, ma anche le relazioni che li correlano. Qui, tuttavia, è facile vedere che, [...] se le relazioni sono essenziali alla definizione

di uno spazio, dev’esserci [se vi è lo spazio in questione] qualche classe di relazioni aventi un campo che è lo spazio. Le relazioni essenziali alla Geometria non varranno tra due termini spazialmente divisibili: non c’è una linea retta congiungente due volumi, e nessuna distanza tra due superfici. Così, se uno spazio dev’essere definito per mezzo di una classe di relazioni, non ne segue, come si suggerisce [dagli oppositori dei punti], che lo spazio è una unità [unity], ma piuttosto, al contrario, che è un aggregato [aggregate], cioè il campo della detta classe di relazioni.?°!

Una decina d’anni dopo i Principles, in Our Knowledge of the External World, Russell sostiene ancora che la logica non vieta di considerare i punti come entità semplici; ma ora ritiene che la stessa logica non possa dimostrare che vi siano entità siffatte.?** Tuttavia, Russell ora argomenta che, supposto che al mondo non esistano punti, come entità semplici adimensionali, ma solo volumi — vale a dire, oggetti spazialmente estesi — sempre divisibili in altri volumi, sia possibile costruire, a partire da essi e dalle loro relazioni, delle entità che abbiano tutte le proprietà geometriche che si vuole che abbiano i “punti”. La costruzione utilizzata da Russell in Our Knowledge of the External World è dovuta a Whitehead, il quale l’aveva comunicata a Russell e poi esposta al Primo Congresso di Filosofia Matematica, tenutosi a Parigi nel 1914.°% In breve, essa consiste nel prendere, al posto di 357 358 35° 360 361 362

Russell [1903a], $ 421, p. 442. Russell [1903a], $ 422, p. 442. Russell [1903a], $ 143, pp. 147-148. Russell [1903a], $ 143, p. 148. Russell [1903a], $ 422, p. 443. V_ Russell [1914a], lecture IV, p. 152-153 (1° ediz., pp. 146-147).

|

363 V_ Russell [1914a], 1° ediz., lecture IV, pp. 114-115 (in quella che di solito abbiamo usato come ediz. di riferimento —

la 2° ediz. ingle-

se, del 1926 —, Russell offre solo, alle pp. 119-120, una sintesi generica della tecnica usata, rinviando, per una sua descrizione precisa, a sd La | Whitehead [1919] e [1920]). théorie “La titolo il con francese, traduzione in 364 Whitehead lesse la sua relazione 1°8 aprile del 1914; essa fu pubblicata due anni dopo, relationniste de l'espace” (v. Whitehead [1916])— l’originale inglese è perduto. (Queste notizie sono ricavate da Hurley [ 1979], p. 14.) Più tardi, Whitehead chiamerà il metodo qui proposto: metodo di astrazione estensiva (method of extensive abstraction) (v. Whitehead [1919], A i parte III, e [1920], capp. 3 e 4). Sebbene fin dalla prima edizione di Our Knowledge of the External World Russell riconosca a Whitehead la paternità del metodo (v. Russell [1914a], 1° ediz., prefazione, p. vi, e lecture IV, p. 114; 2* ediz., p. 8, e 119-120), Whitehead si risentì del fatto che Russell | avesse In My Philosopubblicato. La storia è interessante, perché segnò la fine di una collaborazione più che decennale tra Russell e Whitehead.

phical Development, Russell racconta:

he

«Riguardo a punti, istanti e particelle, fui svegliato dal mio “sonno dogmatico

|

i

,

nigiadi

da Whitehead. Whitehead inventò un metodo di costruire

in fisica nello punti, istanti, e particelle come insiemi di eventi, ciascuno di estensione finita. Ciò rese possibile usare il rasoio di Occam [...] matematica. logica della metodi dei applicazione nuova questa di felice Fui aritmetica. in usato l’avevamo cui in stesso genere di modo

236

capitolo 3

un punto qualsivoglia, la classe di tutti ivolumi che comprendono quel punto. Naturalmente, la definizione non potrebbe essere data esattamente con queste parole perché sarebbe palesemente circolare a essendo menzionato nel definiens proprio quel concetto di punto che si deve definire. Ma questa circolarità è evitata, nel metodo effet tivamente utilizzato da Whitehead e Russell; vediamo come, seguendo la spiegazione di Russell. Si assume, in-

nanzi tutto, una relazione primitiva di inclusione (che, intuitivamente, vale tra due volumi quando il secondo è

completamente compreso nel primo),*°° caratterizzata dalle seguenti proprietà: (1) è transitiva — cioè se un volume ne include un altro e questo ne include un terzo, allora il primo include il terzo — (2) è antisimmetrica a cioè ogni volume include se stesso, ma se un volume ne include uno diverso allora il secondo non include il primo. Si tratta dunque di una relazione d’ordine. (3) Ogni insieme di volumi tale che vi sia un volume incluso da tutti i membri dell’insieme ha un minimo, cioè un volume incluso da tutti i membri dell’insieme il quale include tutti i volumi inclusi in tutti imembri dell’insieme; (4) La relazione di inclusione non è vuota: cioè, esiste almeno

un volume. Si assume inoltre, per assicurare la divisibilità infinita, che ogni volume ne includa un altro diverso da se stesso. Russell chiama serie di inclusione (enclosure-series) ogni serie di volumi tale che due qualsiasi di essi sono sempre uno incluso nell’altro. Serie di inclusione puntuale (punctual enclosure-series) è ogni serie di inclusione di volumi tale che, data una qualsiasi altra serie di inclusione di volumi tale che ogni termine della prima serie includa qualche termine della seconda, ne consegue che ogni termine della seconda serie include qualche termine della prima. Un punto è ora definito come l’insieme di tutti i volumi che includono almeno un volume di una serie di inclusione puntuale di volumi. L’immagine è questa: si prende una qualsiasi serie di volumi uno dentro l’altro, all’infinito — per esempio, una serie di sfere concentriche sempre più piccole, o di cubi concentrici sempre più piccoli, o di figure irregolari una dentro l’altra sempre più piccole. Questa è una serie di inclusione puntuale. La classe di tutti i volumi che inclu-

Essendo stato invitato a tenere le Lowell Lectures a Boston nella primavera del 1914, scelsi come soggetto “La nostra conoscenza del mondo esterno” e, in connessione con questo problema, mi misi al lavoro per utilizzare il nuovo apparato di Whitehead» (Russell [1959], cap.

97 :p103): Questo ebbe uno sviluppo sgradito. In una lettera dell’8 gennaio del 1917, Whitehead negò a Russell la visione dei nuovi manoscritti che stava preparando: «Caro Bertie, sono terribilmente dispiaciuto, ma non mi pare che tu abbia compreso il punto. To non voglio che le mie idee siano diffuse adesso né sotto il mio nome né sotto quello di chiunque altro — vale a dire, per come esse sono adesso sulla carta. Il risultato sarebbe un’esposizione incompleta e fuorviante che inevitabilmente danneggerebbe l’esposizione finale quando io volessi pubblicarla [...] Non voglio che tu abbia le mie note [...] per precipitarle in ciò che considererei una serie di mezze verità» (in Russell [1967-69], 1914-1944, cap. 8, p. 306). Nella sua autobiografia, Russell commenta: «Prima che cominciasse la guerra, Whitehead aveva scritto delle note sulla nostra conoscenza del mondo esterno e io avevo scritto un libro sull’argomento nel quale mi ero servito con i dovuti riconoscimenti di idee che Whitehead mi aveva passato. La lettera precedente mostra che questo l’aveva contrariato. Di fatto, pose fine alla nostra collaborazione» (Russell [1967-69], 1914-1944, cap. 8, p. 307). Whitehead spedì a Russell il manoscritto contenente la relazione che poi avrebbe letto al menzionato congresso di Parigi una prima volta il 1° ottobre del 1913 e, in forma riveduta, il 10 gennaio del 1914. Nello stesso, era contenuto anche un suggerimento su come il trattamento si poteva estendere al tempo, per ottenere il concetto di istante — quest’ultimo argomento non sarà però menzionato nella relazione tenuta da Whitehead al congresso (per questa notizia, v. Hurley [1979], p. 17, nota 4). L'estensione del metodo agli istanti è invece presente in Our Knowledge of the External World (v. sotto, nota 368).

Non credo che l’irritazione di Whitehead fosse dovuta alla sostanza dell’elaborazione russelliana del suo metodo, né al timore di essere privato della priorità scientifica. Ritengo che si trattasse di una strana idiosincrasia all’idea che qualche sua idea fosse resa pubblica senza che avesse ricevuto una forma definitiva. Questa supposizione è suggerita dalla circostanza che Whitehead dispose che, alla sua morte, tutti i suoi manoscritti non pubblicati fossero distrutti. La sua richiesta fu esaudita dalla moglie Evelyn dopo la sua morte — avvenuta a Cambridge, MA, il 30 dicembre del 1947 —, e così andò purtroppo perso molto lavoro interessante — per esempio, tutto il materiale del quarto volume dei Principia Mathematica (per opera del solo Whitehead), sulla geometria, che, sebbene abbandonato dopo il 1918, per il mutamento di interessi di Whitehead, era arrivato a buon punto. 3°5 Naturalmente, se partissimo dai punti come dati, potremmo dire che un volume è incluso in un altro quando tutti i punti del primo sono punti del secondo. Ma qui non possiamo usare questo metodo, perché il nostro scopo è proprio quello di stabilire che cosa sia un “punto”; occorre dunque prendere la relazione di inclusione tra volumi come primitiva. 3° Jean Nicod ([1923], cap. 4, p. 29) osserva che la definizione di Russell — così come quella originariamente formulata da Whitehead —

è difettosa, perché non esclude che i volumi di una serie d’inclusione possano essere in qualche modo tangenti: se non si esclude questo, una serie di volumi ottenuta, per es., diminuendo progressivamente l'altezza di un cilindro dato e lasciando le altre dimensioni immutate, sarebbe una serie di inclusione puntuale; ma questo non va bene, perché questa serie non “racchiude” un punto, ma una superficie circolare.

Nello stesso modo, la serie di volumi che si otterrebbe diminuendo progressivamente l'altezza e la larghezza di un parallelepipedo rettango-

lo dato, ma lasciandone immutata la profondità, sarebbe una serie di inclusione puntuale; ma neppure questo va bene, perché tale serie non

converge verso un punto, ma verso un segmento di retta. La definizione di Whitehead-Russell

è tuttavia facilmente emendabile —

mostra lo stesso Nicod ([1924], cap. 4, pp. 29-30) — senza dover menzionare punti, segmenti o superfici.

come

Numeri interi, frazionari, reali e complessi. La geometria

23%

dono qualche termine di questa serie è un punto — secondo la definizione di Russell. Nel nostro esempio, il punto, così definito, è ciò che sostituisce quella ipotetica entità adimensionale che normalmente si immagina essere il centro, per es., comune a tutte le sfere concentriche di una serie di inclusione puntuale di volumi sferici concentrici. Si noti l’analogia tra questa costruzione dei punti e la costruzione russelliana dei numeri reali: per dirla in modo approssimativo, Russell identifica i numeri reali con l’insieme di tutti i rapporti che li precedono e, in modo analogo, egli identifica i punti con l’insieme di tutti i volumi che li racchiudono. (La circolarità di queste definizioni scompare quando si esaminano da vicino le costruzioni logiche effettivamente usate.) Di solito ci si esprimerebbe in altro modo; si direbbe: un numero reale è i/ limite di una classe di rapporti, ma è qualcosa di diverso dalla classe stessa. Analogamente, si direbbe che un punto è i/ limite cui tende una classe di volumi uno dentro l’altro, ma è qualcosa di diverso da questa classe. Ma qui vi è, per Russell, un postulato di esistenza di nuove entità — i limiti delle classi suddette — che, secondo Russell, è opportuno evitare. La sua strategia è di non richiedere un’esistenza indipendente di queste nuove entità, ma di identificarle con le classi stesse di cui normalmente esse sarebbero considerate i limiti. L'idea di Russell è che in questo modo non occorre più, o/tre all'esistenza della classe data, ammettere anche l’esistenza di un’ulteriore entità essenzialmente diversa — il suo limite —, perché la classe ba-

sta già da sé a tutti gli usi cui servirebbe l’entità ulteriore. Costruire i punti — nella geometria applicata allo spazio fisico — come classi di volumi, è dunque per Russell un nuovo esempio di applicazione del rasoio di Occam: evitare l'assunzione di entità la cui esistenza è dubbia — come i punti — interpretandole come classi di entità la cui esistenza è ammessa anche da coloro che non ammettono l’esistenza di punti, nello spazio fisico, ma solo di volumi contenenti parti che non sono mai semplici.” 3% 367 V. Russell [1914a], lecture IV, p. 152-153 (1° ediz., pp. 146-147), e Russell [1959], cap. 9, p. 103. 368 Come si è accennato (v. sopra, nota 364), in Our Knowledge of the External World (v. Russell [1914a], lecture IV, p. 127; 1° ediz., p.

121), Russell fornisce anche una costruzione degli istanti di tempo molto simile a quella dei punti: la nozione di inclusione temporale fra eventi — laddove «[u]n oggetto sarà temporalmente incluso da un altro quando è simultaneo all’altro, ma non prima o dopo di esso», e un “evento” è «qualsiasi cosa include temporalmente o è temporalmente inclusa» (ibid.) — prende il posto di quella di inclusione tra oggetti spaziali. In Our Knowledge of the External World, immediatamente prima della menzionata costruzione degli istanti, ne è presentata un’altra, un po’ diversa da quella di Whitehead (v. Russell [1914a], lecture IV, pp. 123-124; 1° ediz., pp. 117-118). Secondo quest’ultimo metodo, che possiamo chiamare metodo delle sovrapposizioni parziali, un evento è definito come «qualunque cosa sia simultanea con una cosa 0 l’altra» (Russell [1914a], lecture IV, p. 126; 1° ediz., p. 120), dove la simultaneità, che Russell chiama anche “sovrapposizione” (overlap-

ping), è intesa come in generale parziale, non totale: due eventi sono simultanei, o si sovrappongano (overlap), se e solo se c’è un tempo, comunque breve, in cui esistono entrambi. Un istante di tempo è definito come «un gruppo di eventi due qualsiasi dei quali si sovrappon-

gono [overlap], cosicché ci sia un tempo, anche se breve, in cui esistono tutti», e tale che «nessun evento al di fuori del gruppo sia simultaneo con tutti gli appartenenti al gruppo» (Russell [1914a], lecture IV, p. 124; 1% ediz., p. 118. V. anche, ibid., lecture V, p. 155; 1° ediz., p. 149). In Our Knowledge of the External World Russell non lo rileva, ma si può osservare che, se si nega l’esistenza di un tempo assoluto, il metodo delle sovrapposizioni parziali, a differenza del metodo di Whitehead, conduce a istanti privi di durata anche nel caso in cui fosse falso che ogni evento ne includa un altro diverso da se stesso, cioè, anche se esistesse una misura minima alla durata degli eventi. Infatti, come Russell spiega in Human Knowledge (1948), se si nega l’esistenza di un tempo assoluto, che scorre indipendentemente dagli eventi,

non può esservi uno scorrere del tempo in assenza di qualsiasi mutamento (v. Russell [1948a], parte 4, cap. 5, p. 288; ediz. americana, p. 270); cosicché, dire che un evento ha una certa durata finita può significare soltanto «che avvengono cambiamenti mentre esso esiste, ossia

che gli eventi che esistono quando esso comincia non sono tutti identici agli eventi esistenti quando esso finisce. Ciò assomma a dire che ci sono eventi che si sovrappongono all’evento dato ma non si sovrappongono tra loro. Vale a dire: “a dura per un tempo finito” significa “ci sono due eventi b e c tali che si sovrappongono ad a ma b precede interamente c'’» (ibid., p. 289; ediz. americana, pp. 271-272). Russell continua: i «Possiamo applicare la stessa definizione a un gruppo di eventi. Se i membri del gruppo non si sovrappongono tutti, il gruppo come totalità non ha durata, ma se se essi si sovrappongono tutti, diremo che il gruppo come totalità dura per un tempo finito se ci sono almeno due eventi che si sovrappongono a ogni membro del gruppo sebbene uno di essi preceda interamente l’altro. Se è così, avvengono cambiamenti mentre il gruppo persiste; se no, no. Ora se un gruppo costituisce un “istante” come definito sopra, nessun evento fuori del gruppo si sovrappone a tutti i membri del gruppo, e nessun evento nel gruppo precede interamente un altro evento qualsiasi nel gruppo. Pertanto il gruppo come totalità non dura per un tempo finito. E pertanto può essere appropriatamente definito un “istante’’» (ibid., p. 289; ediz. amerisu

cana, p. 272).

In “Logical atomism” (1924), Russell osserva che le costruzioni di punti e istanti di Whitehead sono adeguate nell’ambito di una fisica newtoniana, dove tempo e spazio sono indipendenti, ma nella fisica relativistica si richiede qualche correzione (Russell studiò le teorie spe-

ciale e generale della relatività all’inizio del 1919): «Nella teoria della relatività, non è dei punti o degli istanti che abbiamo in primo luogo dono a ciò che, nel più vecchio linguaggio, potrebbe essere descritto come un punto a un to dello spazio durava per tutto il tempo, e un istante di tempo pervadeva tutto lo spazio. estensione spaziale né temporale.) Gli eventi-particelle sono costruiti proprio attraverso struiti i punti e gli istanti» (Russell [1924a], p. 328).

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bisogno, ma degli eventi-particelle, che corrisponistante, o un punto istantaneo. (In passato, un punOra l’unità richiesta dalla fisica matematica non ha il medesimo processo attraverso il quale erano cok

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le (con Nella fisica relativistica, al posto dello spazio tridimensionale e del tempo unidimensionale, c'è uno spazio-tempo quadridimensiona

capitolo 3

238

13.2. ARITMETICA E GEOMETRIA Come abbiamo visto, per Russell una geometria pura non tratta essenzialmente di un genere particolare di entità, ma può essere applicata a tutte quelle entità che ne soddisfano gli assiomi, cioè che rendono vere le protasi degli enunciati ipotetici che costituiscono la geometria pura in questione. Scrive Russell: «La logica mostra che lo spazio non è “l’oggetto [subject-matter] della geometria”, poiché un numero infinito di oggetti [subject-matters] soddisfano qualsiasi dato genere di geometria». Qui potrebbe sorgere una perplessità. Nel precedente capitolo abbiamo visto che Russell criticava la fondazione assiomatica dell’aritmetica fornita da Peano poiché essa non definisce univocamente i numeri naturali. Per esempio, nei Principles si legge: _———rT—1————_————11——————————————————————————————————@&—&@—====--—+7=—=—-=ytzt r—r_u_v" r_rrrr—rrrrrrrm__ rr

tre dimensioni spaziali e una temporale), i cui punti-istanti — secondo Russell — si possono costruire a partire dagli eventi (quadridimensionali) che si danno nello spazio fisico. Da The Analysis of Matter (1927), Russell respinge la costruzione dei punti-istanti secondo le linee del metodo di Whitehead (v. Russell [1927a], cap. 28, pp. 292-294), perché ritiene ora che non si possa assumere, come richiede la definizione di Whitehead, che «ogni evento includa e sia incluso da altri eventi», cosicché non vi sia «nessun limite inferiore

o minimo, e nessun limite superiore o massimo, alla misu-

ra degli eventi» (ibid., p. 292). In questo libro, Russell costruisce gli istanti newtoniani — che egli considera esistere nella «serie temporale psicologica unidimensionale psicologica» — secondo il metodo delle sovrapposizioni parziali: partendo dalla relazione primitiva diadica di compresenza (compresence) che si ha quando due eventi si sovrappongono (overlap) nello spazio-tempo (in questo caso, ridotto a una sola serie temporale monodimensionale), si definisce “punto-istante” «come un gruppo di eventi che hanno le seguenti due proprietà: (i) Due membri qualsiasi del gruppo sono compresenti; (2) Nessun evento al di fuori del gruppo è compresente con ogni membro del gruppo» (Russell [1927a], cap. 28, pp. 294-295). Russell mostra però che lo stesso metodo non funziona quando si tratta di definire i “punti” di uno spazio a più di una dimensione. La difficoltà è che, quando si passa da una sola dimensione a più dimensioni, non è più sufficiente una relazione diadica di sovrapposizione, o di compresenza, per garantire che gli eventi di un gruppo che si sovrappongono (a due a due) abbiano, come esige la costruzione, un’area o un volume comune a tutti; Russell lo dimostra, in due dimensioni, tracciando tre circoli parzial-

mente sovrapposti, in modo che essi racchiudano un’area comune, e tracciando una figura a ferro di cavallo, sovrapposta ai tre circoli, in modo che l’area comune ai tre circoli si trovi nella concavità del ferro di cavallo: le quattro figure si sovrappongono tutte a due a due, ma non c’è nessun’area comune a tutte e quattro (v. Russell [1927a], cap. 28, p. 295). Così, per definire i “punti” (punti-istanti) dello spaziotempo fisico (quadridimensionale), Russell assume una relazione pentadica primitiva di copuntualità (co-puntuality) «che vale tra cinque eventi quando c’è una regione comune a tutti» (Russell [1927a], cap. 28, p. 299) e definisce come copuntuale un gruppo di cinque o più eventi «quando ogni quintetto scelto dal gruppo ha la relazione di copuntualità» (ibid.); infine, definisce un “punto” come «un gruppo copuntuale che non può essere ampliato senza cessare di essere copuntuale» (ibid.). Curiosamente, nell’Inquiry into Meaning and Truth, pubblicato nel 1940, un “punto” dello spazio-tempo fisico è definito esattamente come un istante in Yhe Analysis of Matter, cioè «come un gruppo di eventi che hanno le due proprietà seguenti: (1) due qualsiasi del sruppo sono compresenti; (2) niente al di fuori del gruppo è compresente con ogni membro di esso» (Russell [1940], cap. 24, p. 340). La cosa curiosa è che sia in The Analysis of Matter (v. Russell [1927a], cap. 28, p. 295), sia in Human Knowledge (v. Russell [1948a], parte 4, cap. 6, p. 297; ediz. americana, pp. 279-280), Russell dimostra che questa definizione non è applicabile allo spazio-tempo quadridimensionale. In Human Knowledge, gli istanti della fisica newtoniana — che Russell considera esistere solo limitatamente a singoli frammenti di materia, o all’interno dell’esperienza privata dei singoli individui (v. Russell [1948a], parte 4, cap. 5, pp. 291-292; ediz. americana, p. 274) — sono definiti, come in precedenza, secondo il metodo delle sovrapposizioni parziali, a partire dalla relazione primitiva (diadica) di sovrapposizione tra eventi (v. Russell [1948a], parte 4, cap. 5, pp. 288-289; ediz. americana, pp. 271-272), e i punti in uno spazio n-dimensionale qualsiasi sono definiti a partire da una relazione di copuntualità tra volumi, che Russell spiega dover essere diadica per gli spazi monodimensionali, triadica per quelli bidimensionali, tetradica per quelli tridimensionali e, in generale, n + 1-adica per spazi n-dimensionali (Russell [1948a], parte 4, cap. 6, pp. 297-298; ediz. americana, pp. 280-281). Più avanti, in Human Knowledge, Russell offre una definizione separata dei punti-istanti dello spazio-tempo fisico, come “complessi di compresenza completi” (v. Russell [1948a], parte IV, cap. 8, p. 322; ediz. americana, p. 304): dove la compresenza è una relazione primitiva che vale tra più qualità (v. Russell [1948a], parte IV, cap. 8, p. 321; ediz. americana, p. 303), o più eventi (v. Russell [1948a], parte IV, cap. 10, p. 347; ediz. americana, p. 329), che compaiono insieme nello spazio-tempo o nell’esperienza personale; un “complesso di compresenza”, che Russell identifica con un “evento” (v. Russell [1948a], parte IV, cap. 8, p. 322; ediz. americana, p. 305), è un complesso (non una classe: v. Russell [1948a], parte IV, cap. 8, p. 325; ediz.

americana, p. 307) costituito da diverse qualità tutte compresenti; infine, un “complesso di compresenza completo” è un complesso di compresenza «i cui costituenti hanno le due proprietà (a) che sono tutti compresenti, (b) che niente al di fuori del gruppo è compresente con ogni membro del gruppo» (Russell [1948a], parte IV, cap. 8, p. 322; ediz. americana, p. 304). Secondo questa definizione, i “punti-istanti”’ non sarebbero classi, ma entità complesse. Tuttavia, qualche capitolo dopo, nello stesso libro, dopo aver spiegato Come, se si assume una

relazione primitiva di compresenza tra eventi, si possa definire il significato di “tra” e ricostruire l'ordine spaziale, Russell dichiara che, adottando questa prospettiva, «i punti nello spazio-tempo divengono classi di eventi» (Russell [1948a], parte IV, cap. 10, p. 348; ediz. americana, p. 330), intendendo, presumibilmente, che essi siano da identificarsi con classi di eventi compresenti. Tralasciando la questione se i

punti-istanti siano intesi

o no come classi, è evidente che la loro definizione in Human

Knowledge è simile a quella dell’/Inquiry; ma in

Human Knowledge la relazione di compresenza sembra (Russell non è esplicito, in proposito) non essere più concepita come una relazione diadica, ma come una relazione multigrada, secondo

la definizione di Henry S. Leonard

[1940], p. 50), cioè una relazione con un numero non fissato di posti di argomento.

°°° Russell [1913a], parte I, cap. 2, p. 22.

e Nelson Goodman

(v. Leonard

e Goodman

Numeri interi, frazionari, reali e complessi. La geometria

239

L’altra risposta alla questione [di che cosa siano i numeri naturali] consiste nel considerare 0, numero, e successione [succession]

come una classe di tre idee appartenenti a una certa classe di terzetti [trios] definiti dalle cinque proposizioni primitive [cioè, dagli assiomi di Peano]. È molto facile formulare la cosa in modo che le cinque proposizioni primitive siano trasformate in una definizione nominale di una certa classe di terzetti. [...] Ma 0, numero e successione diventano variabili, poiché sono solo determinati come una delle classi di terzetti: per di più il teorema d’esistenza diviene ora dubbio, poiché non possiamo sapere, se non scoprendo almeno un terzetto reale di questa classe, che ci siano affatto di tali terzetti.37

Russell ne concludeva che non si può definire un “numero naturale” come “qualsiasi cosa soddisfi gli assiomi di Peano”: occorre darne una definizione univoca in termini puramente logici. Qui può sorgere una perplessità, perché sembra che Russell ragioni, riguardo alla geometria, esattamente nel modo da lui criticato riguardo all’aritmetica: per es., egli sostiene che un “punto” è semplicemente qualsiasi cosa soddisfi gli assiomi di una certa geometria, cosicché sia una n-upla di numeri reali, sia una classe di volumi possono essere chiamati “punti”. Perché Russell non identifica i “punti” di uno spazio n-dimensionale con n-uple di numeri reali — ottenendone così una definizione univoca in termini puramente logici? Il motivo della differenza di trattamento che Russell riserva alla geometria rispetto all’aritmetica si deve ricercare nel diverso modo in cui esse sono applicate.??! Cominciando dall’aritmetica, Russell non nega che possa essere utile lasciare che i termini primitivi “0”, “numero e “successore” assumano un significato variabile: in questo modo, si ottengono le proprietà di tutte le progressioni. Ma — egli sostiene — così: (1) non si dimostra l’esistenza di almeno una progressione, e (2) non si ottengono le proprietà dei numeri naturali che si utilizzano nelle applicazioni al mondo. Scrive Russell: Si potrebbe suggerire che, invece di costruire “0? e “numero” e “successore” come termini di cui conosciamo il significato anche se non possiamo definirli, possiamo lasciare che essi stiano per qualsiasi tre termini che verificano i cinque assiomi di Peano. Essi allora non saranno più termini che hanno un significato definito, anche se non definito: essi saranno “variabili”, termini riguardo ai quali facciamo certe ipotesi, cioè, quelle stabilite nei cinque assiomi, ma che sono altrimenti indeterminati. Se adottiamo questa strategia, i nostri teoremi non saranno provati riguardo a un insieme accertato di termini detti “numeri naturali”, ma riguardo a tutti gli insiemi di termini che hanno determinate proprietà. Una tale procedura non è fallace; in effetti per certi scopi rappresenta una preziosa generalizzazione. Ma da due punti di vista non riesce a dare una base adeguata per l’aritmetica. In primo luogo, non ci mette in grado di sapere se c’è qualche insieme di termini che verifichi gli assiomi di Peano; non ci da nemmeno il più pallido suggerimento su nessun modo di scoprire se tali insiemi ci sono. In secondo luogo [...] vogliamo che i nostri numeri siano tali da poter essere usati per contare gli oggetti comuni, e ciò richiede che abbiano un significato definito NES

Oltre all’esigenza di dimostrare logicamente l’esistenza di almeno una progressione, sono per Russell le applicazioni della matematica a richiedere una definizione univoca, in termini logici, dei termini primitivi che compaiono negli assiomi di Peano. Venendo ora alla geometria, sappiamo che l’interpretazione dei “punti” come n-uple di numeri reali garantisce l’esistenza logica di uno spazio n-dimensionale (per es.) euclideo. Ma ora l’esigenza di salvaguardare le applicazioni richiede di agire un modo opposto a quello che era richiesto dall’esigenza di salvaguardare le applicazioni dell’aritmetica. Le applicazioni della geometria richiedono infatti di non identificare i “punti” di uno spazio a n dimensioni con n-uple di numeri reali. Questa restrizione, infatti, renderebbe impossibile applicare direttamente la geometria allo spazio fisico. D'altra parte, benché si possano interpretare i “punti” come entità fisiche (per esempio, come classi di volumi, o qualcosa del genere), identificandoli con queste entità non si potrebbe più applicare direttamente la geometria a spazi numerici — cosa che invece si rivela essenziale in geometria analitica. Dall’esigenza di salvaguardare le applicazioni della matematica, Russell è dunque condotto a cercare un’interpretazione univoca dell’aritmetica, ma a trattare uno spazio geometrico come una struttura che può essere soddisfatta da oggetti diversi. È ciò che Russell spiega in questo passo di The Analysis of Matter (1927): Qualsiasi geometria, euclidea o non euclidea, in cui ogni punto ha coordinate che sono numeri reali, può essere interpretata come applicantesi a un sistema di insiemi di numeri reali — ossia un punto può assumersi essere la serie delle sue coordinate. Ma non Quest’interpretazione è legittima, ed è conveniente quando studiamo la geometria come una branca della matematica pura. è l’interpretazione importante. La geometria è importante, diversamente dall’aritmetica e dall analisi, perché può essere interpretata e come parte della matematica applicata — di fatto, come parte della fisica. E questa l’interpretazione che è davvero interessante,

370 Russell [1903a],$ 122, p. 126.

i

9.6), Russell è sempre molto attento a 37! Come abbiamo già avuto modo di osservare (v. sopra, cap. 2,$2,e$ 5.3.1, e in questo capitolo, $

pura. salvaguardare le applicazioni della matematica, nello sviluppo della sua teoria della matematica

372 Russell [1919], cap. 1, pp. 9-10.

240

capitolo 3 non possiamo quindi accontentarci di un’interpretazione che renda la geometria parte dello studio dei numeri reali, e così, infine, parte dello studio degli interi finiti.”

La stessa differenza di trattamento della geometria rispetto all’aritmetica compare anche in Ramsey, un filosofo molto influenzato da Russell. E anche per Ramsey la giustificazione risiede nelle applicazioni della matematica; in “The foundations of mathematics” (1926) egli scrive: È del tutto chiaro che la geometria, in cui consideriamo termini come “punto”, “linea” come significanti qualsiasi cosa soddisfi certi assiomi, cosicché i soli termini costanti sono funzioni di verità come “o”, “alcuni”,[?74] consiste di tautologie. E lo stesso sarebbe

vero dell'analisi se considerassimo i numeri come qualsiasi cosa soddisfi gli assiomi di Peano. Un tale modo di vedere sarebbe tuttavia certamente inadeguato, perché siccome i numeri da 100 in poi soddisfano gli assiomi di Peano, non ci darebbe modo di distinguere “Quest’equazione ha tre radici” da “Quest’equazione ha centotré radici”. Perciò i numeri si devono definire non come variabili, ma come costanti [XS

Questa tesi — che la differenza di trattamento da parte di Russell tra l’aritmetica e la geometria si debba alla questione delle applicazioni — è sostenuta da Herbert Hochberg in un articolo del 1970, intitolato “Russell’s reduction of arithmetic to logic”. Hochberg spiega la differenza tra le applicazioni dell’aritmetica e quelle della geometria in un passo efficace, che voglio riportare per esteso: La misurazione e il conteggio sono le due fondamentali applicazioni dell’aritmetica alle situazioni empiriche. Il nostro uso ordinario dei concetti aritmetici nella misurazione e nel conteggio dà per scontato che tali concetti abbiano un significato definito e che certe asserzioni aritmetiche siano vere. Il conteggio è un caso piuttosto ovvio. Ciò che facciamo è stabilire una correlazione 1-1 tra un insieme di numeri e, per esempio, un insieme di persone. Si intende che i numeri sono ordinati nel modo usuale; cioè, che valgano certe verità aritmetiche. Noi non trattiamo termini e asserzioni aritmetiche come schemi di segni non interpretati che interpretiamo in termini di segni che si riferiscono alle persone e alle relazioni tra esse. Quando contiamo un gruppo di persone formato da Jones, Smith e Brown, non interpretiamo il segno ‘1° in termini del segno ‘Jones’ né sosteniamo che ‘1’ si riferisce a Jones 0 “significa” Jones (né, quanto a questo, ‘Jones’). Lo stesso è vero nel caso della misurazione. Si consideri un caso semplice di misurazione, dove noi stabiliamo semplicemente un ordinamento tra minerali, in termini delle relazioni più duro di e ugualmente duro, è dove queste relazioni sono specificate in termini di un test di resistenza alla scalfittura.[°”°] Ciò che facciamo è scoprire che un insieme di numeri e le relazioni > e =, prese in un senso aritmetico standard, condividono certe proprietà logiche con i minerali e le relazioni più duro di e ugualmente duro. [...] Questo ci permette di coordinare a ciascuna asserzione circa l’essere un minerale, o un tipo di minerale, più duro di un altro (o tanto duro quanto un altro) un’asserzione circa l’essere un numero più grande di un altro (o un’asserzione di uguaglianza numerica). Noi non trattiamo le asserzioni aritmetiche come sequenze di segni astratte e non interpretate e le asserzioni empiriche circa i minerali come interpretazioni di esse. [...] L’uso dell’aritmetica nel conteggio e nella misurazione contrasta nettamente con l’applicazione della geometria nelle questioni empiriche. Applicando una geometria, la interpretiamo. In altre parole, il contesto ordinario delle asserzioni geometriche rivela che noi le prendiamo o come asserzioni empiriche o come forme enunciative appartenenti a un sistema assiomatico astratto, avente determinate caratteristiche logiche e matematiche. Così, applicare una geometria è dare un’interpretazione a un sistema assiomatico astratto, cosa che è affatto diversa da ciò che facciamo nel conteggio e nella misurazione.?””

Nel suo articolo, Hochberg sottolinea che non è sufficiente fornire un’interpretazione di un sistema assiomatico che sia logicamente vera per affermare di aver “ridotto” i teoremi di questo sistema a logica pura: accanto alle interpretazioni che rendono i teoremi verità logiche, ne potranno infatti esistere molte altre che non hanno questa proprietà. Non si riduce la geometria a logica semplicemente identificando i punti con n-uple di numeri reali. Né si riduce l’aritmetica a logica semplicemente fornendo un’interpretazione logicamente vera degli assiomi di Peano. Il vero significato della riduzione russelliana dell’aritmetica alla logica — per Hochberg — non è quello di aver trovato un’interpretazione degli assiomi di Peano che rende logicamente veri i teoremi da essi derivati. ma l’aver fornito un’analisi degli enunciati aritmetici che renda conto dell’uso che si fa di essi. Non vi è dunque nessuna incoerenza nella diversità di trattamento che Russell riserva alla ricostruzione dei fondamenti della geometria rispetto a quello usato per l’aritmetica. Entrambi i trattamenti sorgono coerentemente dalla medesima esigenza: fornire una teoria che renda conto anche del diverso modo in cui aritmetica e ceometria @ sono applicate. 373 Russell [1927a], cap. 1, p. 5; corsivo di Russell. 374 Per maggiori informazioni sul motivo per cui, nella concezione di Ramsey, “alcuni” è una funzione di verità, v. sotto, cap. 12, $ 2.5. Il punto non è però qui importante.

7 Ramsey [1926a], $ I, pp. 13-14. 37° Il riferimento è alla scala di Mohs, ottenuta confrontando le tracce lasciate sui minerali da una punta di diamante. Nella scala di Mohs, 0g minerale scalfisce tutti quelli che hanno numero inferiore nella scala ed è scalfito da tutti quelli che ogni h anno numero superiore. "° Hochberg [1970b], pp. 408-409.

Numeri interi, frazionari, reali e complessi. La geometria

241

13.3. LA DEFINIZIONE RUSSELLIANA DI “GEOMETRIA” i La geometria pura era tradizionalmente intesa come la scienza dello spazio fisico, un’idea che, come abbiamo visto, Russell rifiuta. Come si caratterizza allora la geometria pura, secondo Russell, rispetto al resto della matematica? Che cosa differenzia uno studio di geometria da un qualsiasi altro studio matematico? Nei Principles, Russell dà questa risposta: Come branca della matematica pura, la Geometria è strettamente deduttiva, indifferente alla scelta delle sue premesse e alla questione se esistano (in senso stretto) entità come quelle che le sue premesse definiscono. Molti insiemi diversi e anche inconsistenti di premesse conducono a proposizioni che si chiamerebbero geometriche, ma tutti questi insiemi hanno un elemento comune. Quest’elemento è interamente riassunto dall’asserzione che la Geometria tratta con serie di più di una dimensione. La questione di quali possano essere i termini reali di tali serie [di che cosa siano, cioè, i “punti”], è indifferente alla Geometria, che esamina solo le conseguenze delle relazioni che postula tra i termini. Queste relazioni sono sempre tali da generare una serie di più di una dimensione, ma non hanno, a quanto posso vedere, nessun altro punto generale di accordo. [...] Al presente, porrò, come anticipazione, la definizione seguente: la Geometria è lo studio delle serie a due 0 più dimensioni.3"*

Russell continua osservando che questa definizione comporta che lo studio dei numeri complessi rientri nel campo della geometria — poiché essi costituiscono una serie a due dimensioni — «ma ciò non mostra che i numeri complessi abbiano alcuna dipendenza logica dallo spazio reale».?” In questo paragrafo, cercheremo di chiarire il significato di questa definizione. Uno “spazio” continuo può essere inteso come una particolare specie di molteplicità di “punti” avente un certo numero di dimensioni. Il primo a caratterizzarlo così fu Bernhard Riemann, alla metà dell’800.**° In una prospettiva radicalmente antikantiana, Riemann concepiva gli spazi continui possibili come oggetti matematici costituiti da punti; il numero di dimensioni di uno di tali spazi non era altro che il numero di coordinate reali indipendenti necessarie per identificare un punto in quello spazio. Per esempio: per identificare un punto su una linea basta un numero reale; per identificare un punto su una superficie occorrono almeno due coordinate reali indipendenti; per identificare un punto in uno spazio tridimensionale occorrono almeno tre coordinate reali indipendenti; e così via. Riemann ammetteva l’esistenza matematica di spazi con un numero qualsiasi di dimensioni, e anche di spazi con un numero infinito di dimensioni. Per esempio, uno spazio a quattro dimensioni sarebbe uno spazio i cui punti possono essere identificati da quattro numeri reali, e non da meno di quattro numeri reali. Riemann concepiva poi uno spazio euclideo come uno spazio in cui vale il teorema di Pitagora, ovvero uno spazio in cui una distanza è

definita in accordo con tale teorema. Così, per esempio, uno spazio bidimensionale euclideo è uno spazio i cui punti sono in correlazione biunivoca con coppie di numeri reali e in cui la distanza tra due punti individuati dalle coppie (x1, y1) € (x2, y2) è posta (per definizione) uguale alla radice quadrata positiva di (x — pit 2 ve si Il numero

di dimensioni

di uno spazio era spontaneamente

interpretato, dai matematici

della seconda metà

dell'Ottocento, come una sua caratteristica cardinale: cioè dipendente dal numero cardinale dei suoi punti. Per esempio, poiché una linea è costituita da un insieme infinito di punti, pareva ovvio che un piano, generabile dallo n spostamento continuo di una linea al di fuori di se stessa, fosse infinitamente più infinito della linea. Nel 1877, tuttavia, Cantor scoprì che questa supposizione è falsa: in un articolo pubblicato l’anno successivo,” egli dimostrò che tutti gli insiemi continui di punti sono cardinalmente simili: vi sono cioè tanti punti in un segmentino piccolo quanto si voglia, quanti in un quadrato, in un cubo, in uno spazio a n dimensioni o anche a © dimensioni, poiché è possibile identificare univocamente la posizione di ciascun punto in uno spazio ndimensionale qualsiasi servendosi di un solo numero reale. Così, uno spazio a n dimensioni non può essere ca|

378 Russell [1903a], $ 352, p. 372.

379 Ibid. Che lo studio dei numeri complessi sia per Russell parte della geometria spiega l’assenza di una trattazione dei numeri complessi nei Principia Mathematica: essa era riservata al quarto volume, mai pubblicato, dedicato alla geometria.

380 V. Riemann [1868] (lezione di abilitazione alla docenza del 1854).

/

|

Sa

381 In generale, uno spazio n-dimensionale euclideo è uno spazio in cui i punti sono in correlazione biunivoca con le n-uple di numeri reali dalle n(un caso particolare è, naturalmente, quello in cui i punti sono n-uple di numeri reali), ein cui una distanza tra due punti individuati con la accordo in Xn), — On + ... + x1) — (yy uple (x1, ..., Xn) € (1, ---, Yn) è posta (per definizione) uguale alla radice quadrata positiva di Pitagora. di forma generalizzata del teorema

382 V. Cantor [1878].

RIV, sopra, cap. 1, $ 4.1, punti (6) e (dî

capitolo 3

242

precedenza, aveva supporatterizzato in alcun modo dalle sue proprietà cardinali. Lo stesso Cantor — il quale, in — fu incredusto che una linea contenesse X; punti, un piano ne contenesse X-, e uno spazio tridimensionale DE in una lettera del 29 giugno 1877> in cui384sottoponeva la sua prima dimostrazione di lo di fronte a questo risultato; IO 5 ; 5 ; 4 ciò all'esame di Dedekind scrisse: «Je le vois, mais je ne le crois pas». di L'esistenza di corrispondenze biunivoche tra continui di dimensioni differenti poteva sembrare rendere privo Cantor di dell’articolo ione nell’introduz già suggerita è senso lo stesso concetto di dimensione. Ma la soluzione del 1878: base della Le ricerche che Riemann [...] e Helmholtz [...] e in seguito altri [...] hanno compiuto sulle ipotesi che stanno alla geometria partono notoriamente dal concetto di molteplicità continua n-dimensionale [n-fach ausgedehnten, stetigen Mannichfaltigkeit] e pongono la caratteristica essenziale delle stesse nel fatto che i loro elementi dipendono da n variabili reali continue x}, x2, ., Xn, indipendenti l’una dall’altra, cosicché a ogni elemento della molteplicità spetta un sistema di valori [Wertsystem] ammissibile x}, x), ...,%,, © anche viceversa, a ogni sistema di valori ammissibile x, x2, ..., x», Spetta un certo elemento della molteplicità.

Quasi sempre in modo tacito si fa inoltre, come risulta dallo sviluppo di quegli studi, la supposizione [Voraussetzung] che la corrispondenza presa come basilare fra gli elementi della molteplicità e quelli del sistema di valori x1, x», ..., Xn Sia continua [eine stetige sei], cosicché a ogni variazione infinitamente piccola del sistema x;, x2, -.., X, corrisponda una variazione infinitamente piccola dell’elemento associato, e viceversa, a ogni variazione infinitamente piccola dell’elemento corrisponda un’analoga variazione dei valori delle sue coordinate. Se questa supposizione sia da considerare adeguata o se sia da integrare con condizioni ancora più specifiche, affinché l’intesa costruzione del concetto di molteplicità continua n-adica possa essere considerata protetta da ogni contraddizione, solida, [...] — può per il momento restare indeciso; qui si deve solo mostrare che se la si lascia cadere, cioè se non si fa nessuna restrizione riguardo alla corrispondenza fra la molteplicità e le sue coordinate, allora quella che è considerata dagli autori la caratteristica essenziale (secondo la quale una molteplicità continua n-adica è tale che i suoi elementi si possono determinare per mezzo di n coordinate reali continue indipendenti l’una dall’altra) viene completamente a cadere.**°

In effetti, presto si scoprì che non si può avere una corrispondenza che sia al tempo stesso biunivoca e bicontinua tra continui di un numero differente di dimensioni (una tale corrispondenza è continua se è continua, per ogni argomento, la funzione che fa corrispondere gli elementi di un insieme con quelli dell’altro, ed è bicontinua se è continua anche la funzione inversa: in modo impreciso, ma intuitivo, si può dire che una corrispondenza tra due insiemi ordinati di punti è continua se, a punti che sono vicini nel primo insieme, fa sempre corrispondere punti che sono proporzionalmente vicini nell’altro insieme; è bicontinua se vale anche l’inverso).?*° E possibile istituire una corrispondenza tra i punti di un segmento e i punti di una superficie quadrata tale che a ogni punto del segmento corrisponda uno e un solo punto della superficie quadrata e che sia anche continua, cioè che a punti vicini del segmento faccia sempre corrispondere punti vicini del quadrato. Ciò fu dimostrato nel 1890 da Peano, il quale descrisse una curva che riempie un intero quadrato: la curva di Peano, se disegnata su un foglio,

384 In Cantor e Dedekind [1937], p. 211; l’espressione è in francese nel testo originale. Lo stesso Cantor, in precedenza, aveva cercato di dimostrare che in un quadrato dovessero esserci più punti che in un segmento. ®8° Cantor [1878], pp. 120-121. L'osservazione secondo cui gli autori della letteratura rilevante erano sempre partiti dall’assunzione implicita che, in caso di cambio di coordinate di un continuo n-dimensionale, ciò che appare continuo in un sistema di coordinate debba anche

apparire continuo nell’altro sistema di coordinate, e l’idea che, se si stabilisce una corrispondenza biunivoca tra due continui di dimensione

diversa, allora questa corrispondenza dev’essere necessariamente discontinua, erano presenti in una lettera di Dedekind a Cantor del siugno

23 1877. Cantor si servì di queste osservazioni nel suo articolo, senza però alcuna menzione di Dedekind. a “° Per esempio, la corrispondenza tra i punti di un segmento e quelli di un quadrato che abbiamo descritto nel $ 4.1 del cap. l è, sì, biunivoca, ma non è continua (si vedano, in proposito, Peano [1890a], p. 110, e Peano [ 1908], V, $ 2, p. 240). Questo SÌ può verificare facilmen-

te: prendiamo il punto di mezzo del segmento i cui punti vogliamo correlare con i punti della superficie del quadrato di lato unitario. Se-

guendo la regola illustrata nel cap. 1, $ 4.1, punto (6), scriveremo la sua coordinata come segue:

w=0,49999...

È

allora (v. sempre cap. 1, $ 4.1) le coordinate del punto corrispondente del quadrato saranno. Doi=10:4990078 (e pae) 000, Si tratta dunque di un punto del quadrato di lato unitario che si trova sul lato superiore. Se adesso prendiamo un punto del segmento che si trovi molto vicino al punto di me Zzo, per esempio il punto di coordinata w=0,500011109999..., a esso corrisponderà il punto del quadrato di coordinate: r=[0}S10999088 y=0,000119999... Si tratta dunque di un punto del quadrato che si trova molto vicino al suo lato inferiore. ‘pit dunque punti molto vicini del segmento cui corrispondono punti che non sono vicini nel quadrato: quindi la corrispondenza non è

Numeri interi, frazionari, reali e complessi. La geometria

243

3 vdi una superficie avrebbe l’aspetto quadrata.?*” 387 Ma — come osserva lo stesso Peano®8* — tale corrispondenza non è biunivoca: a ogni punto della curva corrisponde infatti uno e un solo punto della superficie quadrata, ma non via V. Peano [1890a]. Nell’articolo originale di Peano la curva è descritta solo per via analitica. Una curva con le stesse proprietà della curva di Peano è descritta geometricamente — e raffigurata nei primi stadi di costruzione — in Hilbert [1891] (una descrizione elementare della curva di Hilbert si trova in Waismann [1936], cap. 12, pp. 218-222 (trad. ingl., pp. 160-164)). Seguendo l’esempio di Hilbert, nel suo Formulario del 1908 Peano costruisce geometricamente, e raffigura nei primi stadi di costruzione, sia la propria curva originale sia quella di Hilbert (v. Peano [1908], cap. 5, $ 2, pp. 239-240); illustrazione del Formulario è la seguente:

Da ta

(a)

1)

(e)

(d)

(e)

(da Peano [1908], cap. 5, p. 240) Le figure (a) (c) (e) qui sopra illustrano lo sviluppo della curva di Hilbert; le figure (5) e (d) illustrano lo sviluppo della curva di Peano.

Soffermiamoci su quest’ultima. Si immagini la linea spezzata ottenuta congiungendo con segmenti di retta, nell’ordine, i punti da 0 a 8 della figura () qui sopra, all’interno di un grande quadrato: questa linea rappresenta una primissima approssimazione alla curva di Peano. Se ora si divide il grande quadrato in nove quadrati uguali, e si riproduce, all’interno di ciascuno di essi, una spezzata identica a quella ottenuta in prima approssimazione, rovesciando però nelle loro immagini speculari le spezzate contenute nei quadrati aventi un lato in comune con il quadrato centrale — cosicché le estremità delle spezzate possano unirsi tra loro a formare una sola linea spezzata, avente le stesse estremità di quella ottenuta in prima approssimazione —, dall’unione di queste nove linee spezzate si ottiene una seconda approssimazione alla curva di Peano (che, ruotata di 90° appare come nella figura (d) qui sopra). Se si suddivide ancora ciascuno dei quadratini in nove quadrati uguali, all’interno di ciascuno di essi si riproduce la linea spezzata ottenuta con la seconda approssimazione, rovesciando però nelle loro immagini speculari le spezzate contenute nei quadratini aventi un lato in comune con il quadrato centrale — cosicché le estremità delle spezzate possano unirsi tra loro in una sola linea spezzata —, dall’unione di queste 81 linee spezzate si ottiene una terza approssimazione alla curva di Peano. La curva di Peano si ottiene come limite della ripetizione all’infinito di questo processo. Un’altra curva molto semplice avente le stesse proprietà di quelle di Peano e di Hilbert fu descritta geometricamente da E. H. Moore e da Arthur Schoenflies (v. E. H. Moore [1900], $ I, punto 7, p. 77, e Schoenflies [1900], sezione terza, cap. 1, $ 5, pp. 121-123), a quanto sembra in modo indipendente (v. Schoenflies [1900], sezione terza, cap. 1, $ 5, pp. 121, quarta nota, E. H. Moore [1900], nota a p. 507); una sua descrizione elementare si trova in Couturat [1905a], cap. 6, A, pp. 129-131 (il passo relativo non è presente in Couturat [1904-05]), dove si trova l’illustrazione seguente:

(da Couturat [1905a], cap. 6, A, p. 130)

uguali, di La diagonale del quadrato grande è una primissima approssimazione alla curva descritta. Il quadrato è poi diviso in nove quadrati quadrati aventi dei diagonali le speculari immagini loro nelle però rovesciando grande, più quadrato nel come diagonali le tracciano si cui

che va un lato comune con il quadrato centrale, in modo che le estremità delle diagonali si possano unire, ottenendo così la linea spezzata da curva alla approssimazione seconda una è spezzata linea questa 1-2-3-4-5-6-7-8; punti dai nell’ordine, passando, 9 dal punto 0 al punto ancora in nove descritta. Si ripete poi la stessa costruzione in ciascuno dei quadrati in cui è suddiviso ilquadrato grande, suddividendolo è una terza approssimazioquadratini e tracciandone le diagonali come prima; la linea spezzata che si ottiene dall’unione delle 81 diagonali ne alla curva descritta. Procedendo così all’infinito, si ottiene la curva descritta da Couturat.

388 v. Peano [18902], p. 114.

capitolo 3

244

ceversa (perché la curva di Peano passa più volte attraverso alcuni punti del quadrato). Si noti inoltre che, mentre a punti che sono vicini nella curva corrispondono sempre punti vicini del quadrato, non vale l’inverso, cosicché la corrispondenza, pur essendo continua, non è bicontinua.®° Tutto ciò ha un significato importante per la geometria: continui di un numero diverso di dimensioni non differiscono affatto dal punto di vista cardinale; essi si distinguono l’uno dall’altro per il modo in cui i loro elementi sono ordinati, per le loro proprietà ordinali. Uno spazio a una dimensione, uno a due dimensioni, uno a tre dimensioni, così come un segmento, un quadrato, un cubo, non differiscono tra loro né per il tipo di elementi di cui sono composti (si suppone che siano tutti fatti di “punti”) né per il numero cardinale dei loro punti (che è identico) ma per l’ordine in cui i loro punti sono posti, cioè, in definitiva, per le relazioni che valgono tra i loro punti. Ciò che vale per il numero di dimensioni di uno spazio è vero anche per la distinzione tra spazi euclidei e non euclidei: anche qui, ciò che conta non sono gli elementi di cui uno spazio è costituito, ma le relazioni che sussistono tra essi. Scrive Russell: Dato uno spazio euclideo, ci sono tra i punti di un tale spazio non solo le relazioni che generano l’ordine euclideo, ma anche altre relazioni che generano altri spazi. Ogni spazio continuo contiene 280 punti: se prendete un tale spazio e una tale classe qualsiasi di

280 punti, sussiste una relazione univoca e reciproca tra i punti dello spazio e i punti della classe. Sia S questa relazione. Sia R una relazione il cui campo sia una retta nello spazio. Allora SR S [cioè il prodotto relativo di S Re

S] sarà una relazione che genera

una retta nella classe; e l'insieme delle relazioni come SR S farà della classe data uno spazio simile allo spazio dato. Ne segue che i punti dello spazio attuale formano ugualmente degli spazi di specie diverse, secondo le relazioni generatrici che si considerano. Dunque — e questo è il punto importante — sono le relazioni, e non i punti, che caratterizzano l’attualità dello spazio.*”

Il ragionamento di Russell si può illustrare con il grafico seguente: DE

R

y

S

N

Se ,

R

'

y Li

Il prodotto relativo S |R|S è una relazione che vale tra x' e y' esattamente quando vale la relazione R', la quale rispecchia la relazione R che si suppone generi una retta nello spazio di partenza. E alle situazioni appena descritte che fa riferimento Russell nei brani seguenti, il primo dai Principles (1903), il secondo da Human Knowledge (1948): Ora, se trattiamo (come si assumerà in questa discussione) con uno spazio continuo, ogni tratto [stretch: data una serie di termini a}, a, ..., An, il tratto da a; ad a, consiste di tutti i termini tra 4; © 4, (v. Russell [1903a], $ 169, p. 181). Come osserva Russell nel luogo citato (ibid., p. 181, seconda nota) il termine stretch è usato nello stesso senso del termine Strecke di Meinong [1986], $ 3, p. A : 90 + 21° fe90 22], area o volume èx unaÈ classe di 2°° termini [2°°”

ate

:



N

39392

sta qui per “ 2°0

»

xi;

:

]; e considerato come una classe, è il campo di un nu-

mero infinito di relazioni oltre a quella (0 quelle) che gli appartengono rispetto allo spazio che stiamo considerando. [...] Dal punto di vista della logica, nessuna delle relazioni aventi un dato campo ha una qualsiasi preminenza, e i punti dello spazio reale, così come ogni altra classe di 2° termini, formano, rispetto ad altri insiemi di relazioni generatrici, altre sorte di spazi continui — in effetti qualsiasi altro spazio continuo, avente un qualsiasi numero finito di dimensioni, o anche © dimensioni, può essere formato dei punti di uno spazio euclideo prestando attenzione ad altre relazioni generatrici.3°* Lo

.

.

;

.

».

o

na

è.

.

.

.

».

.

nta

°° Una dimostrazione generale che non può esistere nessuna corrispondenza biunivoca e bicontinua tra due continui di dimensioni diverse

— teorema dell’invarianza delle dimensioni —

fu fornita nel 1911 da Luitzen E. J. Brouwer (v. Brouwer [1911]), ed è piuttosto Gainplessti

Ma già prima di allora, la validità di questo teorema era stata congetturata dai matematici e, alla fine dell’800, si erano ottenuti risultati parAol che mostravano che non può esistere alcuna corrispondenza biunivoca e bicontinua tra continui a 1, 2 0 3 dimensioni. na) In Russell [2001a], pp. 376-377 (lettera di Russell a Couturat del 4 aprile 1904).

Da Grafici simili sono RIS rai

in [PM], vol. II,parte IV, sez. A, sommario, p. 295, e in Russell

[1919a], cap. 6, p. 54.

dell’epoca dei Principles, e fino alla fine del 1905, il simbolo “@)” è utilizzato al posto del cantoriano “N07 Ve

°°° Russell [1903a], $ 397, pp.411-412.

Numeri interi, frazionari, reali e complessi. La geometria

245

Si può dimostrare che la geometria euclidea, e ogni forma

di geometria non euclidea, si può applicare a ogni classe avente lo stesso numero di termini dei numeri reali; la questione del numero delle dimensioni , e se la geometria risultante sia euclidea o non euclidea, dipenderà

dalle relazioni ordinanti che scegliamo; esiste (nel senso logico) un numero infinito di relazioni ordinanti, e solo ragioni di convenienza empirica possono condurci a dedicare a qualcuna di esse un’attenzi one particolare.??4 39

be relazioni che ordinano un insieme di elementi in modo che essi si dispongano in un ordine a n dimensioni sono, per l’appunto, le serie n dimensionali.

394 Russell [1948a], parte IV, cap. 1, p. 254 (ediz. americana, p. 238); v. anche, ibid., parte IV, cap. 10, p. 346 (ediz. americana, pp. 328325) 299 Sulla base di questa concezione dello spazio, Russell contesta l’idea di Poincaré secondo cui la scelta della geometria da applicare allo spazio fisico sarebbe questione di pura convenzione. Russell ammette — ciò che sostiene Poincaré — che se alcune misurazioni mostrassero scostamenti dalla geometria euclidea, questi scostamenti potrebbero essere attribuiti alla natura dei corpi misurati, e non alla natura dello spazio (v. Russell [1905b], p. 73). Se, per es., si scoprisse, attraverso osservazioni astronomiche, che tre raggi di luce formano un triangolo la somma dei cui angoli interni è diversa dalla somma di due angoli retti, non si sarebbe costretti a rinunciare alla geometria euclidea, ma si potrebbe anche concluderne che i raggi luminosi non sono perfettamente rettilinei (v. Russell [1924b], p. 451). Russell, tuttavia, ritiene che

ciò non basti a concluderne che la geometria applicata allo spazio fisico sia del tutto convenzionale. Egli scrive: «Ci sono relazioni che dispongono i punti dello spazio [fisico] in qualsiasi ordine immaginabile, per es. in modo che oggetti che percepiamo come vicini uno all’altro sarebbero ampiamente separati, mentre oggetti che, nell’ordine spaziale percepito, sono molto distanti, verrebbero a essere tra oggetti che sono molto vicini a noi. In breve, sussistono relazioni tra punti che compiono una completa ridisposizione di essi, per nulla somigliante alla disposizione che percepiamo. Queste altre disposizioni differiscono da quella che percepiamo, sembrerebbe, solo per il fatto che noi non le percepiamo; e ciò evidenzia la necessità di supporre che le relazioni spaziali che consideriamo reali siano percepite. Ma se è così, allora quelle relazioni costituiscono uno spazio euclideo o qualche spazio non euclideo definito, sebbene possa essere per noi impossibile sapere quale. In ogni caso, è un fatto empirico che le parti materiali di un qualsiasi oggetto ordinario sono più vicine l’una all’altra di quanto lo siano le parti di due oggetti tra i quali giace l'oggetto menzionato, e che percepiamo i corpi come costituiti di parti più o meno contigue. Tutto ciò mostra che la materia è disposta dalla percezione in un ordine spaziale che è certamente differente da certi ordini possibili; ed è solo per ragioni la cui origine è nella percezione che facciamo una selezione tra gli ordini che sono possibili a priori. E ciò è sufficiente per provare che la geometria non è de/ tutto convenzionale, come sostiene M. Poincaré» (Russell [1905b], pp. 73-

74). Qui, Russell contrasta una posizione che Poincaré condivide con Kant, secondo la quale lo spazio è qualcosa che informa le nostre percezioni (forma a priori dell’intuizione per Kant; convenzione per Poincaré), ma non fa parte delle percezioni, cioè non si percepisce. Secondo Russell, invece, lo spazio reale — cioè, le relazioni che ordinano i “punti” dello spazio fisico — è evidentemente un dato empirico (v., in proposito, anche un passo della lettera di Russell a Couturat del 4 aprile 1904, ora in Russell [2001a], p. 377). Certo, Russell ammette che questo dato empirico non è sufficiente per stabilire se viviamo in un mondo euclideo o no («[...] premesse diverse da quelle di Euclide potrebbero dare risultati empiricamente indistinguibili, nei limiti dell’osservazione, da quelli del sistema ortodosso»; Russell [1903a], $ 353,

p. 373), ma — come risulta dal passo sopra riportato — è per Russell sufficiente a escludere certi spazi non euclidei e con ciò a stabilire che la geometria applicata non può essere puramente convenzionale.

CAPITOLO 4

LA CRISI: I PARADOSSI E L’ASSIOMA DI SCELTA

1. I PARADOSSI Molti anni dopo, Russell avrebbe ricordato la fine del 1900 e i primi mesi del 1901 come un momento di straordinaria euforia intellettuale; gli sembrava, a quell’epoca, che una soluzione definitiva del problema dei fondamenti della matematica fosse ormai a portata di mano: Intellettualmente, il mese di settembre 1900 fu il punto più alto della mia vita. Dissi a me stesso che finalmente avevo fatto qualcosa di valido, e avevo la sensazione di dover stare attento a non essere investito per strada prima di averlo scritto. Mandai un articolo a Peano per la sua rivista,['] che dava corpo alle mie nuove idee. All’inizio di ottobre mi misi a scrivere The Principles of Mathematics, cui avevo già dedicato un certo numero di tentativi infruttuosi.?

Finii questa prima stesura di The Principles of Mathematics l’ultimo giorno del XIX secolo — cioè il 31 dicembre 1900.[°] I mesi dal luglio precedente erano stati una luna di miele intellettuale quale non ho mai sperimentato né prima né dopo. Ogni giorno mi ero trovato a comprendere qualcosa che non avevo compreso il giorno precedente. Pensavo che tutte le difficoltà fossero risolte e che tutti i problemi fossero finiti.* Frege pensò, come pensai io per alcuni mesi al giro del secolo, che la riduzione alla matematica alla logica fosse stata definitivamente completata.

Era tuttavia in agguato una difficoltà imprevista e formidabile: nel maggio del 1901 Russell scoprì un paradosso — oggi noto come “paradosso di Russell” — che rivelava come la logica apparentemente indubitabile sulla quale Russell — come Frege prima di lui — aveva fondato la matematica fosse contraddittoria.® Questa scoperta fu seguita, a breve distanza, dalla scoperta di nuovi paradossi: l’edificio logicista era scosso nelle sue fondamenta. Con il termine “paradosso” s’intendono, nel linguaggio comune, cose diverse, che tuttavia è bene distinguere in via preliminare. Nel suo significato più ampio, un paradosso è semplicemente un enunciato che appare ovviamente falso, ottenuto come conclusione di un ragionamento le cui premesse appaiono vere e i cui passi deduttivi sono in apparenza corretti. Oltre che la conclusione del ragionamento, si chiama spesso “paradosso” l’intero argomento che conduce ad esso. Di fronte a un paradosso, in linea di principio, si possono fare tre cose:

(1) accettare la conclusione dell’argomento come vera e rivedere alcune delle assunzioni, esplicite o implicite, che dapprima l’avevano fatta apparire ovviamente falsa; (2) respingere come falso qualche passo del ragionamento; (3) respingere qualche premessa del ragionamento.

Gli esempi di paradossi di fronte ai quali si è stati indotti a adottare l’atteggiamento (1) — cioè l'accettazione — sono molti nella scienza: si pensi a certi risultati controintuitivi della fisica relativistica, quantistica o della teoria della probabilità. O si pensi a certe stranezze cui conduce la teoria cantoriana del transfinito; una volta, Russell raccontò questa storiella:

! Il riferimento è a Russell [1901e]. ? Russell [1967-69], 1872-1914, cap. 6, p. 148. 3 In realtà, sembra che Russell avesse scritto solo parte dei Principles per la fine del 1900 (v. sotto, cap. 6, $ 1).

* Russell [1959], cap. 6, p. 73.

° Russell [1956b], “Six Autobiographical Essays”: II, p. 22. ° In [1944a], p. 13, e in [1956b], “Six Autobiographical Essays”: II, p. 22, Russell indica il giugno 1901 come data della scoperta, ma una

versione di esso è già contenuta nel manoscritto della parte I dei Principles redatto nel maggio del 1901 (v. sotto, cap. 6, $ 1). Tra il 1899 e

il 1901, Ernst Zermelo scoprì il paradosso, indipendentemente da Russell, ma non pubblicò la sua scoperta (in proposito, v. sotto, cap. 12, $

1.1.2).

lenprrig

di

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

247

Tristam Shandy, come sappiamo, impiegò due anni a far la cronaca dei primi due giorni della sua vita, e lamentava che, di questo passo, il materiale si sarebbe accumulato più velocemente di quanto egli avrebbe potuto trattarlo: cosicché, col passare degli anni egli sarebbe stato sempre più lontano dalla fine della sua storia. Ora io sostengo che, se fosse vissuto per sempre, e non si 10RSE stancato del suo compito, allora, anche se la sua vita avesse continuato ad essere piena d’avvenimenti com’era cominciata, nessuna parte della sua biografia sarebbe rimasta non scritta. Infatti: il centesimo giorno sarebbe descritto nel centesimo anno, il millesimo nel millesimo anno, e così via. Qualsiasi giorno possiamo scegliere come tanto lontano che egli non possa sperare di raggiungerlo, quel giorno sarà descritto nell’anno corrispondente. Così qualsiasi giorno si possa menzionare verrà presto o tardi descritto, e quindi nessuna parte della biografia resterà permanentemente non scritta. Questa proposizione, paradossale ma perfettamente vera, dipende dal fatto che il numero dei giorni in tutto il tempo non è più grande del numero degli anni.”

Russell prosegue commentando che, una volta familiarizzatisi con la teoria di Cantor, le stranezze come questa — che fecero pensare a molti filosofi che il concetto stesso d’infinito fosse contraddittorio — appaiono «non più

strane degli abitanti degli antipodi, che si reputavano impossibili perché troverebbero alquanto scomodo starsene con la testa all’ingiù». Esistono però paradossi che, per qualche motivo, sono del tutto inaccettabili. Di fronte a un paradosso di questo genere, non resta altra scelta che quella di respingere il ragionamento che conduce ad esso o le sue premesse. Un caso in cui è il ragionamento a rivelarsi fallace, è la seguente dimostrazione dell’enunciato paradossale “1 = 2”. Sia x= 1. Da questa supposizione deriva che x° = x; quindi, sottraendo 1 a entrambi i membri dell’equazione,

otteniamo: x° — 1=x- 1, cioè (x- 1)x (x+1)=x-1. Dividendo ora entrambi i membri di quest’ultima equazione per x— l otteniamo: x + 1 = 1. Di qui, poiché, per ipotesi, x= 1, otteniamo 2 = 1. Il paradosso può essere qui respinto perché deriva da un errore nel ragionamento: la fallacia consiste nel supporre che dividendo entrambi i membri dell’equazione (x — 1) x (x+1)=x— 1 per x— 1 si ottenga sempre x + 1 = 1, cosa che invece è falsa se, come nel nostro caso, x— 1 è uguale a 0.° Una sottoclasse di enunciati paradossali inaccettabili è costituita dalle contraddizioni. Il motivo per cui, in questo caso, non è possibile accettare come vera la conclusione del ragionamento è semplicemente che, nella logica classica, l’accettazione di un enunciato contraddittorio elimina qualsiasi possibilità di distinguere il vero dal falso, perché da una contraddizione è possibile derivare qualsiasi altro enunciato.' Ciò significa che, supponendo di avere, per esempio, una teoria matematica in cui sono derivabili un certo numero di teoremi, se nella stessa teoria è derivabile anche una contraddizione allora divengono dimostrabili formalmente in essa anche tutti i contraddittori di quei teoremi. Così, qualsiasi possibilità per quella teoria di distinguere il vero dal falso è eliminata e, con ciò,

essa diviene del tutto inutile." ? Russell [1901d], pp. 90-91. V. anche Russell [1903a], $ 340, p. 358. Il riferimento di Russell è naturalmente al personaggio narrante del romanzo di Laurence Sterne, The Life and Opinions of Tristam Shandy, Gentleman, uscito per la prima volta in nove volumi tra il 1759 e il 1767 (voll. TV:

London, R. and J. Dodsley; voll. V-KX: London, T. Becket and P. A. Dehondt): il romanzo è narrato da Tristam Shandy

sotto forma di autobiografia, ma tanto digressiva da giungere alla propria nascita solo nel terzo volume, e da non arrivare, infine, oltre

l'infanzia del narratore. è Russell [1901d], p. 91. Russell si riferisce agli argomenti per negare la possibilità dell’esistenza di antipodi resi celebri da Lattanzio: «Quid illi, qui esse contrarios vestigiis nostris Antipodas putant? num aliquid loquuntur? aut est quisquam tam ineptus, qui credat esse homines, quorum vestigia sint superiora quam capita? aut ibi quae apud nos iacent inversa pendere? fruges et arbores deorsum versus crescere? pluvias, et nives, et grandinem, sursum versus cadere in terram?» («Che dire di quelli che ritengono esserci antipodi opposti alle piante dei nostri piedi? dicono forse qualcosa? forse che c’è qualcuno tanto sciocco da credere che vi siano uomini le cui piante dei piedi stiano più in alto delle teste? o che là siano sospese alla rovescia le cose che da noi stanno a terra? che le messi e gli alberi crescano verso il basso? che la pioggia, la neve, e la grandine cadano a terra verso l’alto?»; Divinarum institutionum, libro II: “De falsa sapientia philosophorum”, caput 24, 1).

°Il ragionamento sarebbe giustificato se, dati due numeri naturali qualsiasi m e n, si avesse sempre che (m X n) : n= m, mentre ciò è vero se solo se n è diverso da 0. Una supposta regola algebrica che ammettesse che (m x n) : n= m anche nel caso in cui n = 0 condurrebbe al collasso dell’intera aritmetica, perché permetterebbe di dimostrare che non esistono numeri distinti. Infatti, supponendo di avere due numeri

l distinti qualsiasi me n, dam x0=nX 0 avremmo sempre, dividendo per 0 entrambi i membri dell’uguaglianza, m = n. —p. sia p sia dedurre possa si quale nel sistema un cioè contraddittorio, sistema un avere !0 Vediamo come questo accada. Supponiamo di Mostriamo che, dato un enunciato qualsiasi g, siamo in grado di dedurre g nel sistema stesso. Partiamo dalla formula: NT

che sia è facile controllare, mediante le tavole di verità, che si tratta di una tautologia. Applicando la regola del modus ponens, dall'ipotesi vero p e da (1) otteniamo: (1)

PVI);

p>

.

.

.

.

.

È

.

SET



È

@) pva. Ma (2) equivale a

che è quanto volevamo dimostrare. Se applichiamo ancora la regola del modus ponens, dall'ipotesi che sia vero —p e da (3) otteniamo g: o

si

Di (e

i

i

i

i

Ò

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U

1

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i

che da una contraddizione segua !! Ci sono oggi delle logiche, dette paraconsistenti, le cui regole di deduzione evitano la conseguenza

248

capitolo 4

Vi sono casi in cui, non potendosi scoprire alcuna fallacia nel ragionamento che conduce a una contraddizione, non resta che rifiutarne le premesse. Le cosiddette “prove per assurdo” funzionano proprio così: cioè si formula un’ipotesi, e da quest’ipotesi si deriva, attraverso un ragionamento corretto, una contraddizione: ne deriva che l’ipotesi dev'essere falsa. Fin dal Medioevo furono scoperti molti paradossi che possono essere considerati come dimostrazioni per assurdo. Uno è quello del re che dice, veridicamente, che farà decapitare tutti quelli che gli diranno il falso, e solo essi. Che cosa succede ora se A dice al re solo la frase: “Il re mi farà decapitare”? Se il re lo fa decapitare, allora, poiché il re ha detto veridicamente che avrebbe fatto decapitare tutti quelli e solo quelli che gli avessero detto il falso, ne segue che A, essendo stato decapitato, deve aver detto il falso al re. Ma poiché A ha detto solo “Il re mi farà decapitare” ne segue che questo dev'essere l’enunciato falso: dunque dev'essere falso che il re fa decapitare A. Quindi, dall’ipotesi che il re faccia decapitare A, segue che non lo fa decapitare. Supponiamo allora che il re non faccia decapitare A. Allora, poiché il re ha detto veridicamente che avrebbe fatto decapitare tutti coloro e solo coloro che gli avessero detto il falso, ne segue che A, non essendo stato decapitato, deve aver detto il vero al re.

Ma poiché A ha detto solo “Il re mi farà decapitare” ne segue che quest’enunciato dev’essere vero: dunque dev'essere vero che il re fa decapitare A. Quindi, dall’ipotesi che il re non faccia decapitare A, segue che lo fa decapitare. In conclusione abbiamo il paradosso che il re fa decapitare A se e solo se non lo fa decapitare. Un paradosso dello stesso genere è esposto da Russell.'* C’è un villaggio in cui vive un barbiere che rade tutti e solo gli abitanti del villaggio che non si radono da sé. La domanda è: il barbiere si rade da sé o no? Supponiamo che il barbiere si rada da sé. Allora, poiché il barbiere rade solo coloro che non si radono da sé, ne segue che il barbiere non rade il barbiere, cioè il barbiere non si rade da sé. Supponiamo allora che il barbiere non si rada da sé. Allora poiché il barbiere rade tutti quelli che non si radono da sé, il barbiere deve radere il barbiere, cioè il barbiere si rade da sé. In conclusione, il barbiere si rade da sé se e solo se non si rade da sé.

La soluzione di questi ultimi paradossi è semplice: si tratta di dimostrazioni per assurdo che è logicamente impossibile che esista un re siffatto o un barbiere siffatto. Nessun re può dire veridicamente che farà decapitare tutti coloro che gli diranno il falso e solo essi. Nessun barbiere che abiti in un certo villaggio può radere tutti e solo gli abitanti di quel villaggio che non si radono da sé: è logicamente impossibile, proprio come è impossibile che esista un quadrato rotondo. I paradossi di cui parleremo in questo capitolo — detti anche ‘“antinomie” — somigliano a quest’ultimo genere di paradossi. Ma hanno un carattere più maligno, dovuto al fatto che la contraddizione, in questi ultimi casi, scaturisce da premesse e passi deduttivi che appaiono logicamente o matematicamente irrefutabili. Il paradosso, in questi casi, dimostra certo che qualcosa nelle nostre premesse o nel nostro ragionamento è sbagliato, ma non ci mostra che cosa, né con quali altri principi o regole rimpiazzarli senza buttar via, insieme all’ acqua sporca della con-

traddizione, anche il bambino di altri desiderabili risultati logici o matematici."

qualsiasi enunciato. Noi ci limitiamo a considerare ciò che accade nell’ambito della logica classica, che è l’unica presa in considerazione da Russell. !? Questo paradosso fu pubblicato da Ludolph Meistermann, di Lubecca, intorno al 1393 (v. Pozzi [1987], cap. $, p. 355, insolubile 204). Vi sono altre celebri varianti del paradosso. Una è la seguente (che si trova enunciata già nella Vitarum auctio di Luciano di Samosata, $ 22): supponiamo che un coccodrillo rapisca un bambino sulla riva di un fiume, e proponga al padre un patto: restituirà il bambino se e solo se il padre gli dirà il vero su quello che il coccodrillo effettivamente farà. Che cosa deve rispondere il padre? Se il padre risponde: “Restituirai il bambino”, il coccodrillo terrà fede alla sua promessa qualunque cosa faccia. Ma se il padre risponde: “Non restituirai il bambino”,

il coccodrillo non può in alcun modo tener fede alla sua promessa. Infatti, se il coccodrillo non restituisce il bambino, allora il padre aveva

detto il vero ed egli, non restituendolo, non mantiene la promessa; se lo restituisce, allora il padre aveva detto il falso ed egli, restituendolo, viene ancora meno alla sua promessa. i x V. Russell [1918-19], $ VII, p. 261. Russell dice che il paradosso gli è stato suggerito, ma non riferisce da chi. E stato sostenuto che non ci sarebbe nessuna differenza, per es., tra il paradosso del barbiere e quello di Russell. Mi riferisco in particolare a James Moulder ([1974]), che si oppone al punto di vista, che qui sostengo, di Russell ([1918-19], $ VII, p. 261), Quine ([1962]) e Copi ([1971], $ 1.3, pp. 15-18) — i quali distinguono tra paradossi autentici, come quello di Russell, e pseudoparadossi, come quello del barbiere —

sostenendo che il paradosso di Russell non sarebbe niente di più che una prova per assurdo dell’inesistenza dell’insieme di tutti gli

insiemi che non appartengono a se stessi — proprio come il paradosso del barbiere non è niente di più che la dimostrazione per assurdo dell’inesistenza di un tale barbiere. Certamente, il paradosso di Russell dimostra che non può esistere un certo insieme — così come il pa-

radosso di Cantor dimostra che non può esistere l’insieme di tutti gli insiemi, o l’insieme di tutti i numeri cardinali. e quello di Burali-Forti dimostra che non può esistere l’insieme ben ordinato di tutti i numeri ordinali. Ma il problema, a questo punto, è solo all’inizio: infatti mentre non è mai stata proposta una teoria logica o matematica che implichi l’esistenza del barbiere paradossale, l’esistenza dell’insieme di

Russell è dimostrabile in sistemi logici e matematici che apparivano fondati su principi indubitabilmente veri. Poiché dunque tali sistemi si dimostrano incoerenti, dobbiamo cambiarli — se vogliamo avere sistemi adeguati per condurre dimostrazioni logiche o matematiche — e proprio qui sta il problema.

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

249

E vero che la logica dei predicati usata da Frege e Russell per fondare la matematica è molto più sviluppata della logica sillogistica di Aristotele; ma il punto essenziale è che questa logica più sviluppata non pretendeva di essere altro che una codificazione esplicita di ciò che è alla base di ragionamenti da sempre ritenuti intuitivame nte validi — proprio come, per esempio, una teoria grammaticale non pretende di essere altro che una codificazio ne di regole che i parlanti usano senza averne piena consapevolezza. In un articolo dal titolo “The study of mathematics”, pubblicato nel 1907, ma scritto nell’ottobre del 1902, Russell scrive: Il vero metodo di scoperta, in logica simbolica, [...] è l’analisi di esempi reali di ragionamento deduttivo, allo scopo di scoprire i principi Impiegati. Questi principi, per la maggior parte, sono così radicati nei nostri istinti raziocinativi, che sono impiegati del tutto inconsciamente, e possono essere portati alla luce solo attraverso uno sforzo molto paziente."

E evidente che la logica sillogistica era inadeguata a rendere conto di molti ragionamenti considerati logicamente corretti. Per citare un esempio classico: il logico Augustus De Morgan, alla metà dell'Ottocento, osservò che tutta la logica sillogistica non è in grado di spiegare la deduzione: “Un cavallo è un animale, quindi la testa di un cavallo è la testa di un animale”.!° Ma se l'argomento è interpretato come: “Ogni cavallo è un animale, quindi se qualcosa è una testa di un cavallo, allora è una testa di un animale”, esso è valido,"” e di certo appariva tale anche prima che la logica sottostante a ragionamenti di questa forma fosse codificata. Che la logica da cui scaturivano paradossi non pretendesse di essere altro che una codificazione esplicita di principi usati da sempre nel ragionamento è un punto ben focalizzato da Russell in My Philosophical Development (1959): Venne fuori che, da premesse che tutti i logici, non importa di quale scuola avevano accettato sin dal tempo di Aristotele, si potevano dedurre contraddizioni, mostrando così che qualcosa era sbagliato, ma senza dare alcun indizio su come le cose si dovessero ag-

; 18 giustare.

Già più di mezzo secolo prima, Russell si esprimeva in modo del tutto simile a proposito del paradosso che porta il suo nome. Nei Principles si legge: Si deve osservare, infine, che nessuna filosofia particolare è implicata nella precedente contraddizione [cioè, il paradosso di Rus5 5 9 ai 3 Ù 19 sell], che scaturisce direttamente dal senso comune, e si può risolvere solo abbandonando qualche assunzione di senso comune.

!5 Russell [1907c], p. 67. ne L’esempio si trova in [PM], vol. I, *37.62, e in Russell [1945], libro I, cap. 22, p. 209 (ediz. americana, pp. 198-199). Nel luogo dei

Principia menzionato, Russell

e Whitehead riportano il seguente passo dei Principles of Science (1874) di William S. Jevons: «Ricordo lo scomparso prof. De Morgan rilevare che tutta la logica di Aristotele non potrebbe dimostrare che “Poiché un cavallo è un animale, la testa di un cavallo è la testa di un animale”’» (Jevons [1874], vol. I, cap. 1, p. 22; Russell e Whitehead riportano dall’ediz. del 1887, cap. 1, p. 18). Come riferito in Wengert [1974], p. 165, negli scritti pubblicati di De Morgan l’argomento compare, con “uomo” al posto di “cavallo”, per es., in De Morgan [1847], cap. 6, p. 114. !7 In [PM], vol. I, *#37.62, Russell e Whitehead affermano che l’inferenza “Poiché un cavallo è un animale, la testa di un cavallo è la testa di

un animale” non è valida senza la premessa che «il cavallo in questione» abbia una e una sola testa; per esempio, essi scrivono, «non vale per un’ostrica o un’idra». Ma ciò dipende dall’interpretare l'argomento come “Un cavallo qualsiasi è un animale, quindi ha una e una sola testa, che è la testa di un animale” — diversamente da come ho fatto qui (non azzardo ipotesi su come lo intendesse lo stesso De Morgan; in proposito, v. Merrill [1977]). In ogni caso, gli autori dei Principia precisano, nel passo menzionato, che l’inferenza (valida): “Un cavallo

qualsiasi è un animale che ha una e una sola testa, quindi ha una e una sola testa, che è la testa di un animale” non è sillogistica.

Per stabilire la validità dell’inferenza “Ogni cavallo è un animale, quindi se qualcosa è una testa di un cavallo, allora è una testa di un a-

nimale”, occorre una logica delle relazioni, che gli antichi non avevano codificato. La struttura del ragionamento è molto semplice. Si indichi con “C” “è un cavallo” e con “A” “è un animale”. Sia T la relazione che vale tra una testa di un animale e l’animale stesso, cioè la relazione espressa da “è una testa di”. Allora la premessa “Ogni cavallo è un animale” si può scrivere:

(0) (Cx > Ax); la conseguenza si può scrivere come segue: n

(A) 0Tz A Cz > yTz A Az)

(seguo qui l’interpretazione di Wengert [1974], contro quella offerta nella maggioranza delle trattazioni correnti, che traduce la conseguen-

za con: “(y)((3z) QTz A Cz) > (42) TZ A Az))”).



sata

I

La forma simbolica non solo esibisce chiaramente la verità del ragionamento, ma permette di cogliere la struttura di tutti i ragionamenti disegna un aanaloghi — su cui si affaticarono i medievali — come per esempio: “Ogni uomo è un animale, quindi chi disegna un uomo nimale”.

!8 Russell [1959], cap. 7, p. 75. !9 Russell [1903a], $ 105, p. 105.

capitolo 4

250

Nello stesso spirito, in una lettera a Couturat datata 26 aprile 1905, Russell scrive: Essa [la contraddizione: cioè, il paradosso di Russell] non dipende affatto da alcun assioma chei vecchi logici neghino |È .] la contraddizione [...] risulta da principi che il senso comune ha accettato senza esitazione dai tempi di Aristotele al più tardi.?®

Come vedremo, Russell ebbe un ruolo centrale nella scoperta di molti paradossi nella forma in cui oggi sono conosciuti. La loro risoluzione fu uno dei compiti più difficili della sua filosofia della matematica: si trattava, da un lato, di riformare la logica intuitiva — includente, per i logicisti, la teoria degli insiemi — in modo da renderla esente da contraddizioni, dall’altro di fornire una giustificazione filosofica di questa riforma, sicché essa non apparisse come un mero artificio ad hoc. A scopo espositivo, suddividerò i paradossi — secondo un criterio derivato da Frank P. Ramsey e ora largamente utilizzato — in due categorie: quella dei paradossi logici e quella dei paradossi semantici. Intenderò con il termine “paradossi logici” quelle antinomie che sorgono a proposito delle entità logiche ammesse in una teoria, senza l’intervento di nozioni semantiche, cioè di nozioni riguardanti i/ rapporto tra le parole e le loro denotazioni o i loro significati. Con il termine “paradossi semantici” intenderò quelle antinomie che sorgono solo in connessione con l’intervento di nozioni

semantiche,

come

“verità”, “falsità”, “denotazione”,

“definizione”,

“senso”,

“termine indicale”, “contesto epistemico”. Sono però opportune due importanti avvertenze. Per quanto riguarda più specificamente l’oggetto del nostro studio, si deve osservare che Russell — almeno fino agli anni Trenta dello scorso secolo — non vede nessuna distinzione importante tra le due categorie: non solo perché (come Ramsey) ritiene che la risoluzione di tutte le antinomie sia affare della logica, ma anche perché — nella fase matura del suo pensiero: quella di Principia — egli sostiene che tutte derivino dallo stesso genere di fallacia. Dal punto di vista più generale, è evidente che la partizione, se presa sul serio, non è indipendente dalla teoria logica che si accoglie: infatti, dall’adozione di una teoria logica o di un’altra possono dipendere sia il considerare o no le due categorie di paradossi come esaustive, sia il decidere quali paradossi far rientrare nell’una o nell’altra categoria. Per esempio, per Ramsey — che, come Frege e Russell, ritiene che la cosiddetta “logica di ordine superiore” e la teoria delle classi siano parte della logica —, i paradossi riguardanti nozioni come quelle di “proprietà”, “relazione”, “classe”, “membro di...” sono paradossi logici. Invece, per un filosofo come Quine — che riserva il nome “logica” alla logica del primo ordine, non ammette l’esistenza di attributi, né crede che le classi siano oggetti logici (esse sarebbero, piuttosto, oggetti matematici) —, non vi sono affatto paradossi logici, ma solo paradossi insiemistici e semantici. Va da sé che, in quest’ultima accezione di “logica”, il logicismo non può che essere falso: la ricostruzione logicista dei fondamenti della matematica dipende infatti, in modo cruciale, dalla legittimità di classi e/o di attributi come oggetti logici. Ho incluso i paradossi insiemistici in quelli logici non solo perché tale partizione è simpatetica nei confronti del logicismo, ma anche perché è più vicina al modo in cui i paradossi furono storicamente recepiti dai primi che li scoprirono e lavorarono a una loro soluzione. Si rammenti, in proposito, che la logica del primo ordine nacque, solo nel 1915, come sottosistema di una logica più inclusiva (di ordine superiore), e che prima della fine degli anni Dieci dello scorso secolo nessuno poneva in dubbio che l’ambito della logica si estendesse alla logica di ordine superiore e alla teoria delle classi (v. sopra, cap. 2, $ 3.4.2). b Cominciamo, dunque, con l’esposizione dei paradossi logici.

20 In Russell [2001], p. 489. In un’altra lettera a Couturat datata 4 luglio 1905, Russell scrive: «La contraddizione faceva vacillare le basi del ragionamento, e rendeva dubbia ogni deduzione» (in Russell [2001], p. 507). Quine sostiene un punto di vista simile a questo di Rus-

sell: per es., in un suo articolo su Whitehead del 1941 scrive che «il senso comune è fallito, perché è andato a finire nella contraddizione» (Quine [1941], p. 153). °! V. Ramsey [1926a], $ I, pp. 20-21, eRamsey [1926b], Pp. 76-77. Ramsey non chiamava “semantici” i paradossi del secondo gruppo preferendo considerarli di pertinenza ia

piuttosto che linguistica (v. Ramsey [1926],$ I, p.21).

i

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

251

2. PARADOSSI LOGICI 2.1. IPARADOSSI DI CANTOR E DI BURALI-FORTI 2.1.1. IL PARADOSSO DI CANTOR Il ragionamento che conduce al paradosso di Cantor era già noto a Georg Cantor nel 1899,°° ma la prima esposizione pubblicata di esso si deve a Russell, che lo scoprì indipendentemente da Cantor, ed è contenuta nella parte

V, cap. 43, $$ 344, 348 e 349, dei Principles of Mathematics.

Il paradosso si può esporre in molti modi, ma in ogni caso prende origine dal fatto che il teorema di Cantor stabilisce che data una classe qualsiasi deve sempre essercene una più grande. Per esempio: (1) Prendiamo la classe di tutte le classi; per il teorema di Cantor (v. sopra, cap. 1, $ 4.4), la classe di tutte le sue

sottoclassi deve avere un numero cardinale maggiore della classe stessa. Dunque esiste una classe di classi che ha un numero cardinale maggiore della classe di tutte le classi. Ma questo è assurdo: non può esserci una ‘ classe contenente più classi di quante siano tutte le classi.

(2) Consideriamo la classe w di tutti le classi; in virtù del teorema di Cantor, w deve avere cardinalità minore del-

la sua classe potenza Cl‘w,°° cioè della classe di tutte le sue sottoclassi. Ma C1‘w è una classe di classi (essendo la classe di tutti le sottoclassi di w) e quindi dev'essere una parte, una sottoclasse, della classe di tutte le classi w: ne segue”* che la cardinalità di Cl‘w dev'essere minore, o al più uguale alla cardinalità di w. (3) La classe di tutto ciò che vi è dovrebbe avere il massimo numero cardinale; tuttavia il teorema di Cantor mostra che le sottoclassi della classe di tutto ciò che vi è dovrebbero essere di più degli elementi della classe stessa, e quindi avere un numero cardinale ancora più grande: in conclusione, il massimo numero cardinale non sarebbe il massimo numero cardinale. (4) Un’altra variante — esposta da Russell nei Principles? — è la seguente. Se le classi sono “cose”, possiamo mettere ogni classe in correlazione biunivoca con se stessa, ottenendo così una correlazione biunivoca fra tut-

te le classi e un sottoinsieme di cose. D”’altra parte a ogni cosa può essere correlata esattamente una classe: la classe che ha come unico elemento proprio quella cosa; abbiamo quindi anche una correlazione biunivoca fra tutte le cose e un sottoinsieme di classi. Se ora consideriamo il teorema di Schròder-Bernstein (v. sopra, cap. 1,$ 5.2) —

in base al quale, se due insiemi sono entrambi cardinalmente simili ciascuno a un sottoinsieme

dell’altro, essi hanno lo stesso numero cardinale — possiamo concludere che esistono tante cose quante classi di cose. Eppure il teorema di Cantor ci assicura che le classi di cose (cioè i sottoinsiemi dell’insieme di tutte le cose) sono di più delle cose stesse: giungiamo quindi ancora a una contraddizione. Russell si avvicinò molto alla scoperta del paradosso oggi detto “di Cantor” già nell’autunno del 1900 — dunque circa sei mesi prima di scoprire il paradosso oggi detto “di Russell”. L’8 dicembre 1900 egli scrisse una lettera a Couturat in cui, tra l’altro, afferma: Ho scoperto un errore in Cantor, che sostiene che non c’è un numero cardinale massimo. Ora il numero delle classi è il numero massimo. La migliore delle dimostrazioni del contrario data da Cantor [...] consiste in fondo nel mostrare che, se v è una classe il

cui numero è « il numero di classi contenute in u (che è 2%) è più grande di @. Ma la dimostrazione presuppone che ci siano classi contenute in u che non sono individui [individui”: qui significa “elementi”] di 4; ora, se u= classe [se v è uguale alla classe di tutte }

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annos

le classi], ciò è falso: ogni classe di classi è una classe.

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Affermando che la dimostrazione “presuppone” che ci siano classi incluse in u che non sono elementi di x, è

presumibile che Russell intenda che la dimostrazione sia valida solo se questo caso si verifica. Come ha notato Alberto Coffa ([1979], pp. 34-36), la stessa obiezione è sollevata da Russell nella versione della parte V dei Prin-

?° V. sotto, $ 2.1.3.

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23 Nel primo capitolo avevamo chiamato “Pa? l'insieme potenza di 2. Qui seguiamo la notazione che Russell usa nei Principia, designan-

do l’insieme di tutti i sottoinsiemi di & con il simbolo “C1“@? (v. [PM], vol. I, +60.01, #30.01 e #22.01).

24. sopra, cap. 1, $ 5.1. i va: 25 2° V. Russell [1903a], $ 348, pp. 366-367. Anelin e 325-326, pp. [1981], Garciadiego e Moore in 33, p. [1979], Coffa in 26 In Russell [2001a], pp. 210-211. Il brano è anche riportato lis [1984], p. 10.

capitolo 4

252

ciples scritta nel novembre del 1900 (cap. 43 della versione pubblicata),”” ed è ribadita in una lettera a Couturat datata 17 gennaio 1901.°* Russell non ritiene di aver scoperto un paradosso, ma piuttosto una dimostrazione per assurdo del fatto che il teorema di Cantor non può essere valido in generale. Secondo il Russell dell’epoca, deve esistere (contrariamente a quanto implicato dal teorema di Cantor) un massimo numero cardinale — il numero di tutte le classi, o il numero di tutte le entità. In “Recent work on the principles of mathematics”, del gennaio 1901, Russell scrive: C'è un numero infinito più grande di numero più grande di questo, poiché, che non esiste un numero più grande forma sublimata. Ma su questo punto,

tutti, cheè il numero di tutte le cose, di ogni sorta e genere. È ovvio che non può esserci un se si è già presa ogni cosa, non resta più nulla da aggiungere. Cantor ha una dimostrazione di tutti, e se la sua prova fosse valida, le contraddizioni dell’infinito ricomparirebberoin una il maestro è incorso in un errore molto sottile, che spero di spiegare in un futuro lavoro.”

Ma, infine, Russell si rese conto che non c’era nessun errore nella dimostrazione di Cantor, e fu dunque costret-

to a riconoscere un paradosso. Quando questo accadde non è ben chiaro. In proposito, Francisco RodriguezConsuegra ([1989a], p. 134) osserva che la versione del capitolo 43 dei Principles consegnata all’editore il 23 maggio del 1902 contiene ancora il menzionato attacco al teorema di Cantor, e suggerisce che Russell non fosse cosciente dell’inevitabilità del paradosso di Cantor fino alla metà del 1902. È vero che il capitolo 43 appartiene alla parte V dei Principles, che fu scritta da Russell nel novembre del 1900, ma resta che Russell non corresse

quella parte almeno fino alla fine di maggio del 1902. Coffa ([1979], p. 34, nota 7, e p. 37) rileva tuttavia che in una lettera a Couturat datata 2 ottobre 1901 Russell

annota: «Credevo di poter refutare Cantor; ora vedo data avesse riconosciuto infondate le obiezioni mosse Principles del novembre 1900. Coffa ammette il all’editore un manoscritto contenente un argomento suggerisce nessuna risposta ad esso. In ogni caso, tra il maggio e il dicembre del 1902, sione nella quale il teorema di Cantor è accettato e,

che è irrefutabile»,°° e ne conclude che Russell già a quella alla validità generale del teorema di Cantor nella stesura dei problema di spiegare perché Russell avrebbe consegnato che egli considerava fallace da almeno otto mesi, ma non il capitolo 43 dei Principles fu sostituito con una nuova verdi conseguenza, è derivato il paradosso oggi detto “di Can-

3931

tor.

2.1.2. IL PARADOSSO DI BURALI-FORTI Il paradosso di Burali-Forti ha una storia strana e interessante.?? Esso non fu realmente scoperto da Cesare Burali-Forti, sebbene l’idea sia stata suggerita da un suo articolo. La storia risale al 1897, quando l’allora trentaseienne Cesare Burali-Forti —

un matematico toscano che fu col-

laboratore di Peano a Torino — pubblica un articolo intitolato “Una questione sui numeri transfiniti”.** Lo scopo dell’articolo è di fornire una dimostrazione del fatto che, dati due numeri ordinali @ e f, non vale sempre la tricotomia 2> Bo B< ao a= p. In altri termini, l’articolo intende dimostrare che devono esistere numeri ordinali transfiniti non confrontabili: cioè tali che l’uno non è né uguale, né più grande, né più piccolo dell’altro. La strategia seguita è, a grandi linee, quella di trovare una sottoclasse di numeri ordinali per i quali la tricotomia non valga in generale. La dimostrazione di Burali-Forti è però viziata da un fraintendimento: come si sa, Cantor definisce un numero ordinale come il tipo d’ordine di un insieme ben ordinato; Burali-Forti fraintende il significato di “ben ordinato”

2? Si avverta che, al contrario di quanto avviene nella versione pubblicata dei Principles, nelle redazioni precedenti la numerazione dei capitoli non è progressiva in tutta l’opera, ma ricomincia daccapo in ciascuna sezione. Così, nella versione della parté V scritta nell’autunno 1900, il capitolo corrispondente al cap. 43 della versione definitiva è il capitolo 12. Per maggiori particolari sull’obiezione ivi contenuta, v.

SUM SSOIDI

* V. in Russell [1992b], pp. 211-212, e in Russell [2001a], pp.

2 Rascal [1901d], pp. 88-89. 20 In Russell [2001a], p. 259.

-226.

DA proposito, anche Garciadiego [1992], $ 4.5, p. 123 e p. 127. “ Per quanto segue, mi sono riferito soprattutto a Mooree Garciadiego [1981]. Interessanti notizie si trovano anche in Copi [1958]

32

° V. Burali-Forti [1897a].

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

253

e, di conseguenza, il significato di “numero ordinale”. Una quindicina d’anni prima dell’uscita dell’articolo di Bu-

rali-Forti, Cantor aveva definito un insieme ordinato a come ben ordinato se e solo se:3*

(1) ha un primo elemento; (2) ogni elemento di & che ha un successore ha un successore immediato; (3) se un insieme finito o infinito di elementi di 2 ha un successore, ha un successore immediato.

Ciò equivale, come sappiamo (v. sopra, cap. 1, $ 3.1), a dire che un insieme ordinato è ben ordinato quando ogni suo sottoinsieme non vuoto ha un primo elemento. Burali-Forti omette la terza condizione, considerando ben or-

dinato un insieme ordinato che soddisfa le prime due condizioni. Su questa base, Burali-Forti procede a introdurre quelli che chiama “insiemi perfettamente ordinati”. Un insieme ordinato @ è perfettamente ordinato se e solo se:

(1) ha un primo elemento; (2) ogni elemento di & che ha un successore ha un successore immediato; (3) per ogni x in @, se x ha un predecessore immediato, allora esiste qualche predecessore y di x tale che y non ha | un predecessore immediato e tale che solo un numero finito di elementi di @si trovano tra y e x. Da questa definizione di insieme perfettamente ordinato, e dal suo modo di intendere il significato di “insieme ben

ordinato”, Burali-Forti deriva la tesi che gli insiemi perfettamente ordinati siano una sottoclasse propria degli insiemi ben ordinati: cioè che ogni classe perfettamente ordinata sia anche ben ordinata, ma non viceversa. I tipi d’ordine delle classi perfettamente ordinate sono dunque — secondo Burali-Forti — una sottoclasse di numeri ordinali, ma non sono tutti i numeri ordinali. Burali-Forti chiama NO la classe di tutti i numeri ordinali delle classi

perfettamente ordinate. Ora la dimostrazione di Burali-Forti prosegue per assurdo. Innanzi tutto egli mostra che, se vale la tricotomia,

allora la classe NO è essa stessa una classe perfettamente ordinata. Di conseguenza, il tipo d’ordine di NO, Q, dev'essere esso stesso un membro di NO. Siccome però, aggiungendo un’unità a una classe perfettamente ordinata, si ottiene ancora una classe perfettamente ordinata, anche O + 1 deve appartenere a NO. Ma, per ogni a, se a € NO allora a £ Q, da cui si ricava Q + 1 < ©, che è in contraddizione con il fatto che Q< Q+ 1.

Da questa contraddizione, Burali-Forti conclude che l’ipotesi che per i membri della classe NO valga la tricotomia dev'essere respinta. Poiché — secondo le definizioni di Burali-Forti — la classe NO è una sottoclasse propria dei numeri ordinali, se ne conclude che per i numeri ordinali la tricotomia non vale. Più tardi, sempre nel 1897, Burali-Forti lesse l’articolo di Cantor in cui si dimostrava che la tricotomia vale,

senza eccezioni, per i tipi d'ordine degli insiemi ben ordinati.’ Ma da ciò egli non concluse di aver trovato un paradosso nella teoria del transfinito, poiché si rese conto di aver frainteso la definizione cantoriana di insieme ben ordinato. Nell’ottobre del 1897 Burali-Forti scrive una breve nota, dal titolo “Sulle classi ben ordinate”, ° in cui

riconosce l’errore, fornendo la corretta definizione di insieme ben ordinato. Sulla base di questa definizione, Burali-Forti afferma ora, del tutto correttamente, che ogni classe ben ordinata è perfettamente ordinata, ma che non va-

le il contrario, cioè esistono classi perfettamente ordinate che non sono ben ordinate.” (Nell’articolo precedente, si ricordi, egli aveva sostenuto l’opposto, cioè che ogni classe perfettamente ordinata è anche ben ordinata, ma che esistono classi ben ordinate che non sono perfettamente ordinate.) Poiché, con ciò, la classe NO dei tipi d’ordine

delle classi perfettamente ordinate non risulta più una sottoclasse di numeri ordinali, la prova che la tricotomia non vale per NO non costituisce più una prova che la tricotomia non vale per i numeri ordinali. Quindi — secondo Burali-Forti — non c’è nessuna contraddizione con il teorema della confrontabilità tra ordinali stabilito da Cantor.

34 V. Cantor [1883b], $ 2, p. 168. 35 V_ Cantor [1895-97], $ 13, pp. 319-320 (in Cantor [1915], pp. 150-151).

3° V. Burali-Forti [1897b].

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forni3? A prima vista non è evidente come possa una classe essere perfettamente ordinata senza essere anche ben ordinata; Mo DR ©@ (1+*@)X d’ordine tipo di ordinate sottoclassi contengono che ordinate perfettamente classi alle sce alcuna spiegazione. Si pensi tuttavia sono ben or(cioè (1 + *@) volte ©), dove *@ rappresenta il tipo d'ordine dei numeri naturali in ordine di grandezza decrescente: esse non e Garciadiedinate, perché contengono classi di termini che non hanno un immediato successore. (V. Moore e Garciadiego [1981], p. 341,

go [1992], $ 2.2, p. 28.)

capitolo 4

254

Riassumendo: Burali-Forti non scoprì il paradosso che oggi porta il suo nome: egli pensò semplicemente di aver fornito una prova per assurdo che per i tipi d’ordine delle classi perfettamente ordinate non vale la tricotomia. Inizialmente, pensando che la classe degli insiemi perfettamente ordinati fosse una sottoclasse degli insiemi ben ordinati, Burali-Forti ritenne di aver dimostrato che la tricotomia non valga per i numeri ordinali. Poco più tardi — conosciuto il teorema di Cantor che stabilisce il contrario, e resosi conto della sua svista — riconobbe che

la classe degli insiemi ben ordinati è una sottoclasse della classe degli insiemi perfettamente ordinati, e che quindi la negazione della tricotomia per i tipi d'ordine degli insiemi perfettamente ordinati non implica la negazione della tricotomia per i tipi d’ordine degli insiemi ben ordinati. Tutto ciò spiega perché l’articolo di Burali-Forti non ebbe, all’epoca, nessuna risonanza.” Tra la fine del 1900 e il 1901, vi fu uno scambio di lettere tra Russell e Couturat sul teorema di Cantor. Russell,

come sappiamo, sosteneva che dovesse esserci un errore nel teorema di Cantor che stabiliva non esservi un massimo numero cardinale, poiché tale teorema non poteva essere applicato alla classe di tutte le classi. Il 3 gennaio 1901 Couturat scrive a Russell attirando la sua attenzione sull’articolo di Burali-Forti: Gli errori che mi segnalate in Cantor mi sembrano molto interessanti [...]. L'infinito si presta così facilmente ai paralogismi! Burali-Forti ha affermato di dimostrare che per i tipi d'ordine [numeri ordinali] è falso affermare: (a=b)v(ab)

e che di conseguenza essi non formano una classe ben ordinata. Il suo ragionamento è più specioso che probante. [In una nota a piè pagina inserita a questo punto:]“Una questione sui numeri transfiniti”, in Rendiconti del Circolo matematico di Palermo 28 marzo 1897 (vol. XD). Posso prestarvi l’articolo, se volete.‘

Russell risponde il 17 gennaio: «Vi sarei molto grato se voleste prestarmi l’articolo di Burali-Forti, che non ho visto».!! Il 27 gennaio Couturat scrive a Russell: «Ho scritto a M. Burali-Forti di inviarvi i suoi articoli sui numeri transfiniti, dicendogli che altrimenti vi presterò i miei. Dovrebbe averveli mandati, perché non mi ha detto nulla». Il primo di febbraio del 1901 Russell scrive a Couturat: «Burali-Forti mi ha mandato le sue memorie, che ho letto con molto interesse». Quello che oggi è conosciuto con il nome di “paradosso di Burali-Forti”, fu pubblicato per la prima volta nei Principles of Mathematics: Esiste una difficoltà riguardo al tipo dell’intera serie dei numeri ordinali. È facile provare che ogni segmento [Russell traduce “segment” il cantoriano “Abschnitt°, che noi abbiamo tradotto “sezione”’] di questa serie è ben ordinato, ed è naturale supporre che l’intera serie sia anche ben ordinata. Se fosse così, il suo tipo dovrebbe essere il massimo di tutti i numeri ordinali, poiché gli ordinali minori di un dato ordinale formano, in ordine di grandezza, una serie il cui tipo è l’ordinale dato. Ma non può esistere un numero ordinale massimo, perché ogni ordinale si accresce con l’addizione di 1. Da questa contraddizione, M. Burali-Forti, che la scoperse, [...] inferisce che di due differenti ordinali, come di due differenti cardinali, non è necessario che uno debba essere maggiore

e l’altro minore. In questo, però, egli contraddice consapevolmente un teorema di Cantor che afferma l’opposto.'* Ho esaminato questo teorema con tutta l’attenzione possibile, e non sono riuscito a trovare alcuna falla nella dimostrazione.®

Poiché la redazione dei Principles richiese alcuni anni, è naturale chiedersi se Russell abbia scoperto il paradosso di Burali-Forti già nel 1901, oppure più tardi. Ebbene, come osservano Moore e Garciadiego ([1981], p. 331) il passo dei Principles in cui per la prima volta appare il paradosso di Burali-Forti — cioè il paragrafo 301 dei Principles (da cui è tratta la precedente citazione) — è assente dal manoscritto dei Principles che Russell consegnò all’editore il 23 maggio del 1902. Esso fu dunque aggiunto — insieme ai due paragrafi precedenti, pure sul-

° Questa stessa tesi è sostenuta in Garciadiego [1992], $$ 2.1-2.2, pp. 19- 32. °° Nell’introduzione alla sua traduzione inglese di Burali-Forti [1897a], pubblicata in van Heijenoort (ed.) [1967], Jean van Heijenoort afferma che l’articolo di Burali-Forti «sollevò immediatamente l’interesse del mondo matematico» (p. 105). Questo non è tuttavia corretto,

perché — come osservano Moore e Garciadiego [1981], p. 324 — per ben cinque anni dalla pubblicazione dell’artitolo di Burali-Forti non vi fu alcuna pubblicazione sull’ argomento.

40 In Russell [2001a], p. 218. 4l In Russell [1992b], p. 211, e in Russell [2001a], p. 225

42 In Russell [2001a], p. 234. 43 In Russell [2001a], p. 239. 4 Teorema N del $ 13 dell’art. di Cantor nei Math. Annalen, vol. XLIX. [Nota di Russell. Il riferimento è a Cantor [1895-97],

319-320 (in Cantor [1915], pp. 150-151).]

4 Russell [1903a], $ 301, p. 323.

$ 13, pp

dda

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

255

la Icora dei numeri ordinali transfiniti — nel periodo tra la fine di maggio del 1902 e il novembre dello stesso anno. Si noti come il resoconto che Russell fa della tesi di Burali-Forti sia storicamente fuorviante. Russell non menziona affatto la distinzione di Burali-Forti tra classi ben ordinate e classi perfettamente ordinate. Egli semplicemente trasferisce alle classi ben ordinate di Cantor l'argomento che Burali-Forti aveva sviluppato per le classi perfettamente ordinate, presentando questo come un resoconto del lavoro di Burali-Forti. È da questo resoconto di Russell che ha preso origine l’idea, in seguito molto diffusa, che il paradosso di Burali-Forti sia stato scoperto da Burali-Forti, mentre, in realtà, il matematico italiano non pensò neppure in seguito che il suo articolo mettesse in luce alcun paradosso.! Il resoconto di Russell fu ripreso da Philip E. B. Jourdain, in un articolo del 1904 intitolato “On the transfinite cardinal numbers of well-ordered aggregates”. Scrive Jourdain: [...] non può esserci né un più grande ordinale né un più grande Alef; infatti, dato di tutti gli ordinali], il tipo dell’aggregato (1... /) è il numero ordinale 8+ 1, e B+1>p, Na+ =

[il numero ordinale dell’insieme ben ordinato

Ng.

| Questa contraddizione fu pubblicata per la prima volta da Burali-Forti, [...] che concluse da essa che si devono negare entrambi i teoremi di Cantor [...] fondamentali nella teoria dei numeri ordinali, cioè che: se @ e @ sono due numeri ordinali qualsiasi, allora 0% 0Q

e il corrispondente teorema per gli Alef. Questa conclusione è, di fatto, necessaria se si ammettono le premesse di Burali-Forti

[186

Come osservano Moore e Garciadiego ([1981], p. 334), da questo passo sembra che Jourdain non avesse letto l’articolo originale di Burali-Forti, ma si affidasse al riassunto fattone da Russell nei Principles. Il modo in cui

l’argomento di Burali-Forti è ricostruito nell’articolo di Jourdain è importante perché proprio quest'articolo fu all’origine della diffusione del paradosso di Burali-Forti in Gran Bretagna, Germania e Francia. Il motivo dell’interesse che l’articolo di Jourdain suscitò nel mondo matematico risiede nel fatto che in esso — come vedremo in dettaglio nel prossimo paragrafo — egli si basava sul paradosso di Burali-Forti per fornire quella che

4° V. anche Garciadiego [1992], $ 4.5, p. 128. cadi 3) piuttosto strano, ma Burali-Forti parve sempre rifiutarsi di vedere che il suo argomento poteva essere trasferito, senza sostanziali mutamenti, agli insiemi ben ordinati di Cantor. Replicando a Poincaré ([1905], $ VI, p. 823), che sosteneva che la conclusione di Burali-Forti

è in contraddizione con quella di Cantor, Burali-Forti scrisse una lettera a Couturat — la cui parte rilevante è riportata in Couturat [1906a], $ II, pp. 228-229. Ebbene, in questa lettera, Burali-Forti sostiene che dal suo precedente lavoro non emerge nessuna contraddizione; egli scrive: «Dal gruppo delle classi ben ordinate di G. Cantor estraggo un gruppo speciale, quello delle classi perfettamente ordinate (p. 157, prop. 4). Una classe perfettamente ordinata è anche una classe ben ordinata (p. 260); quindi posso considerare, con Cantor, il tipo d'ordine di una classe perfettamente ordinata. Io chiamo NO l’insieme dei tipi d’ordine delle classi perfettamente ordinate (p. 161, prop. 25). Ciascun numero ordinale è un numero ordinale di Cantor (Ma qualcuno di questi ultimi può non essere contenuto nella mia classe NO [nota a piè di pagina di Burali-Forti]). Ammettendo il teorema di Cantor, “Se a, b sono numeri ordinali, si deve sempre avere a < b,0a=b,04> b”, io dimostro che: “I NO (È importante notare: i NO, e non “i numeri ordinali di Cantor” [nota a piè di pagina di Burali-Forti]), ordinati in senso crescente, formano una classe perfettamente ordinata». Questa lettera lascia davvero perplessi. In essa, sembra essere confuso, in modo inestricabile, il contenuto dell’articolo originale (secondo il quale sorge un conflitto con il teorema di Cantor affermante la tricotomia per gli ordinali) con la rettifica scritta poco dopo (in base alla quale il conflitto non sorge, ma il rapporto tra classi perfettamente ordinate e ben ordinate è esattamente il contrario di quello affermato nella precedente lettera). Inoltre, Burali-Forti sembra stranamente incapace di vedere che il suo ragionamento si può trasportare dalle classi perfettamente ordinate a quelle ben ordinate, ottenendo così un paradosso. oe Tutto ciò non sfuggì a Poincaré, il quale, nella sua replica a Couturat [1906a], scrive: «A seguito del mio articolo [v. Poincaré [1905]] Burali-Forti ha scritto a Couturat. Non c’è contraddizione, egli sostiene, perché il risultato

E i di Cantor si applica agli insiemi ben ordinati, e il mio agli insiemi perfettamente ordinati. La lettera di Burali-Forti è citata da Couturat a pagina 229 del suo ultimo articolo; ma è stata snaturata al punto di diventare assurda. E lui stesso che ha commesso una svista, è Couturat che ha tradotto male, è colpa dello stampatore? Non lo so. Fortunatamente il testo è facile da 2 } | ’ : ripristinare, è sufficiente capovolgere tutte le frasi. Gli si fa dire: una classe perfettamente ordinata è anche una classe ben ordinata, ma il reciproco non è vero. Egli ha certamente voluto dire: una classe ben ordinata è anche una classe perfettamente ordinata, ma il reciproco non è vero. E in effetti se ci si rifà al testo citato [Burali-Forti [1897b]] si legge: “Ogni classe ben ordinata è anche perfettamente ordinata, ma non viceversa”.

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Anche dopo questa rettifica, la sua spiegazione non è soddisfacente. I ragionamenti di Burali-Forti SÌ applicano in effetti facilmente agli insiemi ben ordinati e ai numeri ordinali di Cantor e, in particolare, è facile dimostrare che la serie di tutti i numeri ordinali di Cantor forma

un insieme den ordinato» (Poincaré [1906b], $ VII, p. 304).

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in [1904], $ 2,

“ Sa PRA

p . 64-65.

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della diffusione del paradosso di Burali-Forti, v. Moore e Garciadiego [1981], pp. 334-342.

capitolo 4

256

supponeva essere una dimostrazione della congettura di Cantor che ogni insieme può essere ben ordinato. Così, attraverso i Principles e l’articolo di Jourdain, il paradosso di Burali-Forti si diffuse nella forma in cui oggi è conosciuto. All’epoca dei Principles, Russell aveva proposto di risolvere il paradosso ammettendo che i numeri ordinali formino una serie (in accordo con quanto dimostrato da Cantor circa la confrontabilità tra ordinali), ma negando che questa serie sia anche ben ordinata: Ma c’è un’altra premessa nell'argomento di M. Burali-Forti, che mi sembra più passibile di essere negata, e cioè, che la serie di tutti i numeri ordinali sia ben ordinata. Questo non segue dal fatto che tutti i suoi segmenti siano ben ordinati, e deve, io credo, essere respinta, poiché, per quanto ne so, non è passibile di dimostrazione. In questo modo, sembrerebbe, la contraddizione in questione può essere evitata.

Se l’insieme dei numeri ordinali, in ordine di grandezza, non fosse ben ordinato, esso non avrebbe un numero ordinale e, dunque, il paradosso di Burali-Forti verrebbe a cadere. Ma, già il 21 dicembre del 1904, George G.

Berry?! scrisse a Russell una lettera?” in cui si dichiarava molto insoddisfatto della soluzione delineata nei Principles: In secondo luogo, c’è la questione del massimo ordinale. Fu nella speranza di un’illuminazione su questo punto che inizialmente mi rivolsi al vostro libro [i Principles], ma fui deluso. Il vostro suggerimento [...] era che non c’è una dimostrazione che gli ordinali sono ben ordinati. Ma Cantor lo ha dimostrato, virtualmente, nel 1895, io credo, quando ha dimostrato che gli ordinali della seconda classe sono ben ordinati. La limitazione è del tutto oziosa in questa dimostrazione. A parte questo è molto facile dimostrare che una serie che non ha altro che segmenti ben ordinati è ben ordinata. [...]. Secondo me la difficoltà del massimo ordinale è della stessa dignità e importanza di quella del massimo cardinale eos

In effetti — come lo stesso Russell riconoscerà presto — la soluzione proposta nei Principles è impraticabile, perché si può dimostrare che la serie dei numeri ordinali in ordine di grandezza è ben ordinata: cioè che se @ è una classe non vuota qualsiasi di numeri ordinali, allora esiste un elemento di @ che è il più piccolo.”* Sono stati sollevati dubbi su un altro punto dell’argomentazione che conduce al paradosso: cioè sull’assunzione che per ogni ordinale 4 debba sempre esistere un ordinale 4 + 1 che è maggiore di 4.” Ma si tratta di un argomento specioso, legato a un particolare modo di enunciare l’antinomia. Se si hanno dei dubbi, essi possono essere fugati riformulando il paradosso come segue.” Supponiamo che w sia il numero ordinale della serie ben ordinata di tutti gli ordinali, in ordine di grandezza. Sappiamo che l’insieme di tutti gli ordinali minori di un qualsiasi numero ordinale 4 è un insieme ben ordinato, il quale ha esattamente numero ordinale z (v. sopra, cap. 1, $ 6.2). Applicando questo al numero ordinale x, si deduce che l’insieme ben ordinato di tutti gli ordinali che precedono u ha pure numero ordinale u. Ma ciò conduce a una contraddizione. Infatti, poiché l’insieme ordinato dei predecessori di v è una sezione dell’insieme ordinato di

tutti gli ordinali, si ha (per definizione di “minore” tra numeri ordinali di due insiemi: v. sopra, cap. 1, $ 3.2) che il numero ordinale dell’insieme ordinato dei predecessori di u dev'essere minore del numero ordinale dell’insieme ordinato di tutti gli ordinali; ma il numero ordinale dell’insieme ordinato dei predecessori di e il numero ordinale dell’insieme ordinato di tutti gli ordinali sono entrambi w: da ciò deriva la conclusione impossibile che w sia minore di se stesso.

90 Russell [1903a], $ 301, p. 323. °! Per maggiori informazioni su Berry, v. sotto, $ 3.3. °? Ora in Garciadiego [1992], appendice, pp. 166-167, e in Russell [2014], pp. 772-773. n Garciadiego [1992], appendice, p. 167, e in Russell [2014], p. 772. 94 V. in Grattan-Guinness [1977], p. 48 (lettera di Russell a Jourdain del 28 aprile 1905). V. anche Russell [1906a], $ I, p. 142, nota 1. Il

teorema si può dimostrare in modo abbastanza semplice. Sia v un numero appartenente ad @ e si supponga che v non sia il numero più pic-

colo di a. Sia S un insieme ben ordinato avente numero ordinale v. Allora ogni elemento v' di a tale che v'< vdev*essere rappresentato da una sezione Sls' di S (ciò deriva puramente dalla definizione di “minore” tra numeri ordinali). Ma poiché $ è un insieme ben ordinato, e

poiché gli s' che determinano le sezioni di S corrispondenti ai vari v' di @ appartengono ovviamente a $, la classe degli s'che determinano queste sezioni S|s' deve avere un primo elemento s'; secondo l'ordine di S: l'elemento vi, di @ corrispondente a S|s', è dunque il numero io più piccolo di &. (La dimostrazione è adattata da Wilder [1952], Cap: 0,9 SSN p 1291)

È Per esempio, come rileva Copi ([1958], p. 284), in Young e Young [1928], p. 103, gli autori obiettano che, una volta che si è formata la

serie di fufti i numeri ordinali, non resta affatto un altro numero ordinale da aggiungere alla serie e che quindi «l’intero ragionamento [che

conduce al paradosso di Burali-Forti] è una mera confusione».

28 Questa formulazione segue la falsariga di quella che si trova in Russell [1906a], $ I, p. 141.

5

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

257

2.1.3. CANTOR, JOURDAIN E LE “MOLTEPLICITÀ INCONSISTENTI” E molto diffusa, in letteratura, la notizia secondo cui Cantor avrebbe già scoperto, fin dal 1895, i paradossi ora

detti “di Cantor” e “di Burali-Forti”.?” Come vedremo, è vero che a Cantor era noto, almeno dall’inizio del 1897, il ragionamento che conduce al paradosso di Burali-Forti, ed è vero che egli conosceva, almeno dall’agosto del

1899, uno dei ragionamenti che conduce al paradosso di Cantor; ma è falso che egli li vedesse come fonte di paradossi all’interno della propria teoria degli insiemi. Come ha mostrato in modo convincente Irving M. Copi,° la fonte ultima della notizia secondo cui Cantor avrebbe scoperto le antinomie suddette nel 1895 si trova nell’articolo di Jourdain “On the transfinite cardinal numbers of well-ordered aggregates” (1904) che abbiamo già menzionato nel precedente paragrafo.” Dopo aver letto i Principles di Russell, Jourdain aveva cominciato a interessarsi al paradosso di Burali-Forti. Nella seconda metà del 1903, Jourdain pensò a una correzione della teoria intuitiva degli insiemi che egli pensava risolvesse il paradosso. La correzione — espressa nei termini di cui Jourdain si serve in “On the transfinite cardinal numbers of well-ordered aggregates” — consisteva nel distinguere tra aggregati” consistenti e aggregati inconsistenti, intendendo con i primi gli insiemi cantoriani veri e propri — cioè aggregati che è possibile pensare come unità —, e con i secondi delle molteplicità che sono troppo grandi per essere considerate insiemi, e che dunque non possono avere né un numero cardinale, né un tipo d’ordine. Jourdain definiva un aggregato inconsistente come un aggregato avente una sottoclasse cardinalmente simile alla classe W di tutti i numeri ordinali: «[...] uso la definizione seguente: Un aggregato [aggregate] “inconsistente” [inconsistent] è un aggregato tale che

c’è una parte di esso che è equivalente a W».°! Sulla base di quest'idea, Jourdain sviluppò poi un argomento volto a dimostrare che ogni numero cardinale transfinito è un alef — cioè che ogni insieme può essere ben ordinato. Il 29 ottobre del 1903 Jourdain spedì a Cantor — con il quale era in corrispondenza da due anni — una versione di quest’argomento.°° Nella sua risposta, del 4 novembre dello stesso anno,’ Cantor descrive una sua dimostrazione del tutto simile a quella di Jourdain, che

afferma di aver comunicato a Hilbert sette anni prima (cioè nel 1896) e a Dedekind quattro anni prima (cioè nel 1599): La comunicazione a Hilbert è costituita da una lettera del 26 settembre 1897. Vi è una discrepanza tra la data di questa lettera a Hilbert e la data — il 1896 — desumibile dalla lettera di Cantor a Jourdain del 4 ottobre 1903. Si tratta certamente di un piccolo trascorso di Cantor nella lettera a Jourdain, perché in una lettera a Dedekind del 28 luglio 1899, Cantor dice di essere in possesso già da due anni della dimostrazione che non ci sono altri nume-

ri cardinali transfiniti oltre agli alef — una datazione che concorda benissimo con quella della menzionata lettera a Hilbert. Quale fosse questa dimostrazione, non lo spiega nella stessa lettera, ma in quella successiva, datata 3 agosto 1899.°° Per dimostrare che ogni numero cardinale transfinito è un alef, in queste lettere a Hilbert e a Dedekind, Cantor si serve di argomenti identici a quelli che saranno poi ritenuti condurre al paradosso di Burali-Forti,°” nei quali cui tuttavia non vede la fonte di una contraddizione, ma semplicemente dimostrazioni per assurdo che devono esistere collezioni che sono troppo grandi per essere insiemi, cioè per poter ricevere un trattamento matematico. Questa

7 Come esempio fra i tanti, v. Grattan-Guinness [1978], p. 129, e Grattan-Guinness [1980], p. 75. Per la citazione di altri esempi, v. Gar-

ciadiego [1992], $ 2.3, pp. 32-34.

58 V. Copi [1958], p. 283, nota 13. 59 Per le notizie che seguono, v. anche Grattan-Guinness [1971] e Moore e Garciadiego [1981], pp. 331-334. 90 «A ggregato” (aggregate) è la traduzione scelta da Jourdain per il cantoriano Menge (v. Cantor [191 51).

©! Jourdain [1904], $ 4, p. 67. V. anche la lettera di Jourdain a Russell del 17 marzo 1904 (in Grattan-Guinness [1977], pp. 27-28). € V. Grattan-Guinness [1971], p. 115.

6 Ora in Grattan-Guinness [1971], pp. 116-117. © Vv. Cantor [1897a].

|

65 V_ Cantor [1899a], p. 405 (in Cantor [1932], p. 443).

|

luglio 1899 (v. 66 v_ Cantor [1899b]. Come scoprì Grattan-Guinness ([1974b], $$ 7.1 e 7.2), la presunta lettera di Cantor a Dedekind del 28

parti rilevanti delle due letteCantor [1899c]) pubblicata da Zermelo in Cantor [1932] (pp. 443-447) è in realtà costituita dalla fusione delle

presenta inoltre (come il testo dica re a Dedekind del 18 luglio e del 3 agosto 1899 che abbiamo menzionato. Il testo riportato da Zermelo tre lettere

a Dedekind riportate in Cantor [1932]) mutamenti

notazionali rispetto al testo originale (v. Grattan-Guinness

128 e 134-135). Cantor però non menziona Burali-Forti neppure nelle lettere a Dedekind del 1899.

[1974b], pp. 126-

capitolo 4

258

era un’idea cui Cantor era giunto già molto tempo prima » per motivi filosofici. Già in un articolo del 1883, difendendo la sostenibilità della sua teoria del transfinito dalle opinioni contrarie espresse nel passato da filosofi come Locke, Descartes, Spinoza e Leibniz, Cantor scrive: Per quanto le teorie di questi autori siano diverse, nei luoghi indicati essi essenzialmente concordano, nella valutazione del finito e dell’infinito, sul fatto che al concetto di numero appartiene la finitezza e che d’altra parte il vero infinito [das wahre Unendliche] o assoluto [Absolute], che è in Dio, non ammette nessuna determinazione [Determination]. Riguardo all’ultimo punto, io sono com-

pletamente d’accordo, e non può essere diversamente, perché la proposizione “omnis determinatio est negatio” è per me del tutto fuori questione; per contro, nel primo vedo, come ho già detto sopra nella discussione delle ragioni aristoteliche contro l’“infinitum actu”, una petitio principii, che rende spiegabili parecchie contraddizioni che si trovano in tutti questi autori e in particolare in Spinoza e Leibniz. L'assunzione che oltre all’assoluto, inaccessibile a ogni determinazione, e al finito non debbano esservi altre modificazioni [Modifikationen] che, sebbene non finite, siano nondimeno determinabili mediante numeri e di conseguen-

za siano ciò che io chiamo infinito proprio [Eigentlich-Unendliches] — io trovo quest’assunzione del iutto ingiustificata [...]. Ciò che io sostengo, e che credo di aver dimostrato con questo lavoro, come con i miei saggi precedenti, è che dopo il finito c’è un transfinitum (che si potrebbe chiamare anche suprafinitum), cioè una scala illimitata [unbegrenzte] di modi determinati [bestimmten Modis] che per loro natura non sono finiti, bensì infiniti, ma che possono essere determinati [determiniert], proprio come il finito, mediante numeri determinati [bestimmten], ben definiti e distinguibili l’uno dall’altro. È perciò mia convinzione che il dominio [Bereich] delle grandezze definibili [der definierbaren Gròssen] non sia concluso con le grandezze finite [.. visa

Il punto è ripreso in una lettera a Hilbert del 2 ottobre 1897” e poi anche nella menzionata lettera a Dedekind 3 agosto 1899. Nella lettera a Hilbert del 2 ottobre 1897, Cantor spiega che cosa intendesse, nella precedente lettera del 26 settembre allo stesso Hilbert, dicendo che un insieme (Menge) può essere, o non essere, “completato” (fertig): Dico di un insieme che esso si può pensare come completato [fertig], e chiamo tale insieme, se contiene infiniti elementi, “transfinito” o “sopraffinito” [,,transfinit“ oder ,,iiberendlich“], se è possibile pensare senza contraddizione (come accade sempre con gli in-

siemi finiti) tutti i suoi elementi come coesistenti [zusammenseiend], e perciò pensare all’insieme stesso come una cosa composta per sé [ein zusammengesetztes Ding ftir sich]; o anche (in altre parole) se è possibile immaginare [sich zu denken) l'insieme con la totalità dei suoi elementi come attualmente esistente [actuell existierend]. Il “transfinito” è perciò coincidente [zusammenfallend] con ciò che è stato chiamato fin dall’antichità “infinito attuale” [Actualunendliches], ed è da considerarsi come un a@gwpiouévov.?!

Nella lettera a Hilbert del 26 settembre, Cantor si era servito dell’argomento del paradosso di Burali-Forti per dimostrare che la totalità degli alef non è un insieme completato. Nella lettera del 2 ottobre Cantor spiega: [...] gli insiemi [Mengen] infiniti in cui la totalità dei loro elementi non si può pensare come “coesistente” [zusammenseiend] 0 499 come “una cosa per sé” [ein Ding fiir sich] o un agwpioyévov, e che perciò in questa totalità non sono affatto oggetto di ulteriore trattamento MAeniaHco, li chiamo “insiemi assolutamente infiniti” [absolut unendliche Mengen], e ad essi appartiene l’ “insieme di SUE 7 tutti gli alef”.

Nella lettera a Dedekind del 3 agosto 1899, Cantor ha affinato la propria terminologia: ora non usa più il termine “insieme” (Menge) per riferirsi alle totalità assolutamente infinite, ma distingue due generi di molteplicità (Vielheiten) infinite: molteplicità consistenti (consistente Vielheiten) — a cui egli ora riserva il nome di insiemi (Mengen) — e molteplicità inconsistenti (inconsistente Vielheiten),"" o assolutamente infinite (absolut unendliche). Un insieme può essere considerato come un’unità (Einheit), come “una cosa completata” (ein fertiges Ding), ha sempre un numero cardinale e, se ben ordinato, ha anche un numero

ordinale. Al contrario. una molteplicità

De Questo è stato ben puntualizzato in Menzel [1984].

°° Cantor [1883b], $ 5, pp. 175-176.

7° V. Cantor [1897b].

7! Cantor [1897b], p. 226. ?? Cantor [1897b], p. 227. È;Per quanto segue, in questo capoverso, V. Cantor [1899b], p. 407 (in Cantor [1932], pp. 443-444). Jourdain non prese i termini “consistente” e “inconsistente” da Cantor ma da Ernst Schréder ([1890-95], vol. I, $ 7, p. 213), che usava

“molteplicità consistente” (konsistente Mannigfaltigkeit) e “molteplicità inconsistente” (inkonsistente Mannigfaltigkeit) per indicare, rispet-

tivamente, molteplicità di oggetti che siano, o non siano, mutuamente compatibili (vertràglich) (v. Jourdain [ 1904], $ 4, p. 67, brina nota)

Per essere “compatibili”, secondo Schròder, due oggetti non devono essere tali da escludersi l’un l’altro (Vv. Schroder [1890-95],

vol. I $

16, pp. 342-343). La nozione schròderiana di consistenza di una molteplicità è dunque diversa da quella di Cantor e di Jourdain perché don è per nulla legata alla “grandezza” della molteplicità, ma può sorgere, in teoria, anche con molteplicità di due soli elementi.

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

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assolutamente infinita non può essere considerata come una “cosa completata”, e non ha né un numero cardinale, né un numero ordinale. In una lettera a Dedekind del 31 agosto 1899, Cantor dimostra che esistono molteplicità che non sono insiemi servendosi di un argomento del tipo di quelli che saranno poi ritenuti condurre al paradosso di Cantor. La dimostrazione è la seguente.” Si associa ciascun “insieme” esistente al suo numero cardinale, e si considera il sistema (System: Cantor usa qui il termine dedekindiano per designare gli insiemi) S di tutti i numeri cardinali. Sia M, un insieme qualsiasi associato al numero cardinale a (Cantor usa la lettera gotica “a” al posto di “a”°) — in altre parole, un insieme qualsiasi avente numero cardinale a. Supponendo che S sia un insieme, sarà tale anche l’insieme 7 dato dalla somma logica di tutti gli insiemi M,, per ogni @ appartenente a S.?° 7 avrà un numero cardinale — sia esso ao. Per il teorema di Cantor, esisterà almeno un insieme (l’insieme potenza di 7) avente numero cardinale Li > ao. Poiché, per ipotesi, S ha per elementi tutti i numeri cardinali di insiemi, il numero cardinale a; dev’ essere un suo elemento; di conseguenza, per la definizione di 7, ci sarà un sottoinsieme di 7, M dj > avente numero cardi,

Ls

Ta

: bi < h È 3 nale @,. Ma questo è impossibile, perché5 nessun insieme può avere un sottoinsieme avente un numero cardinale maggiore di quello dell’insieme stesso. Quindi 7 non può avere un sottoinsieme M 4» NÉ S può avere tra i suoi :

ciù

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.

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.

.

Ò

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.

21

.

.

.

2

elementi il numero a, . Quindi non può esistere un insieme S che abbia per elementi tutti i numeri cardinali, né un insieme 7 che abbia, per ciascun numero cardinale a, una sottoclasse di cardinalità a. In altri termini, le moltepli-

cità 7 e S — definite come sono nelle ipotesi — non sono insiemi. Conclude Cantor: «Quindi ci sono molteplicità determinate [bestimmte Vielheiten] che non sono al tempo stesso unità [Einheiten] — ossia molteplicità per le quali una reale “coesistenza [Zusammensein] di tutti i loro elementi” è impossibile [unmòglich]. Questi sono quelli che chiamo “sistemi inconsistenti” [inconsistente Systeme], gli altri li chiamo invece “insiemi” [Mengen]»."

Già dal 1883, Cantor sosteneva che le molteplicità costituite da tutti i numeri ordinali o cardinali non sono insiemi (nella terminologia della lettera a Dedekind del 3 agosto 1899), ma molteplicità assolutamente infinite: L’ Assoluto [Das Absolute] può essere solo riconosciuto [anerkannt], mai conosciuto [erkannt], neppure approssimativamente. Perché, come all’interno della prima classe di numeri (1) con ogni numero finito, per grande che sia, si ha davanti a sé sempre la stessa potenza [Mdchtigkeit] dei numeri finiti più grandi di esso [questa potenza è, ovviamente, No, la potenza dell’intera serie dei numeri ordinali finiti], così a ogni numero sopraffinito [tiberendliche: cioè, transfinito], per grande che sia, di una qualsiasi delle classi numeriche superiori (IT) o (III), ecc. segue una collezione [Inbegriff] di numeri e classi di numeri che per potenza [an Méchtigkeit; cioè, per cardinalità] non è inferiore in nulla rispetto al tutto della collezione assolutamente infinita [corsivo mio] dei numeri [ordinali] che comincia da 1. La situazione è con ciò simile a quello che dice Albrecht von Haller dell’eternità: “Io lo sottraggo (il numero immenso) e Tu (l’eternità) mi resti davanti intera”. La successione assolutamente infinita [corsivo mio] dei numeri [Die absolut unendliche Zahlenfolge] mi sembra perciò, in un certo senso, un simbolo appropriato dell’assoluto [.. dle

Le molteplicità infinite consistenti, “completate” — gli insiemi transfiniti — sono dunque per Cantor l’oggetto della teoria matematica del transfinito; le molteplicità inconsistenti costituiscono invece l’infinito assoluto che,

per Cantor, non è suscettibile di alcun trattamento matematico.” L’idea cantoriana che si debbano distinguere due generi di molteplicità infinita, una volta sfrondata dalle sue motivazioni teologiche, costituisce un’evidente anticipazione di quella che poi sarà la teoria degli insiemi di von Neumann.

Nella formulazione attuale della teoria di von Neumann si distinguono, nell’ambito delle classi, gli in-

siemi, che sono classi le quali sono membri di altre classi, dalle classi proprie che sono molteplicità “troppo grandi” per essere membri di classi. Secondo la proposta di von Neumann, una classe w è “troppo grande” per essere un insieme se e solo se c’è una corrispondenza uno-uno tra gli elementi della classe di tutti gli insiemi e gli eleauge

menti di w.

80

La posizione cantoriana suscita tuttavia una perplessità: una volta che si sia ammesso che, oltre alle molteplicità consistenti, ne esistono di inconsistenti — cioè molteplicità che non si possono pensare come riunite in un insieme ras

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75 V. Cantor [1899e], p. 448.

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76 Che se S è un insieme, tale debba essere 7 — immediato in una teoria intuitiva degli insiemi — in una teoria assiomatica richiede gli assiomi di rimpiazzamento e dell’unione. Per una spiegazione di questi assiomi, v. sotto, cap. 12, $$ 1.1.1, e 1.1.3.

"? Cantor [1899e], p. 448. 8 Cantor [1883b], $ 4, nota 2, p. 205.

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alla mag79 Nel suo saggio “Mitteilungen zur Lehre vom Transfiniten”, Cantor dice esplicitamente dell’infinito assoluto — che rimprovera a nessuna determinazione e perciò non è gior parte dei filosofi di confondere con il transfinito — che esso «naturalmente non è so $ V, p. 405. y soggetto [unterworfen] alla matematica» (Cantor [1887-88], $ L p. 39 1). V. anche Cantor [1887-88],

fine del $ 1.1.3. 80 V. von Neumann [1925], parte I, $ 3, p. 400, assioma IV 2. Sul sistema di von Neumann, v. sotto, cap. 12, alla

capitolo 4

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senza incorrere in contraddizioni — che cosa ci garantisce che le molteplicità che hanno la dimensione, per esem-

pio, degli alef cantoriani non siano già molteplicità inconsistenti? Nel cap. 1 ($ 6.3), per esempio, avevamo visto

che Cantor dimostra che il numero ordinale dell’intera serie dei numeri della prima e della seconda classe non può essere un numero della prima o della seconda classe, e che quindi questa serie ha una potenza superiore al numerabile. Ma sarebbe meglio dire che Cantor dimostra che se questo numero esiste non può essere un numero della prima o della seconda classe: infatti, potrebbe accadere che già l’intera serie dei numeri della prima e della seconda classe sia una molteplicità inconsistente — e dunque non possa avere alcun numero ordinale. Cantor vede la difficoltà, e cerca di rispondere ad essa in una lettera a Dedekind del 28 agosto 1899: Va sollevata la questione di come io sappia che le molteplicità [Vie/heiten] ben ordinate o successioni [Folge] cui attribuisco i numeri cardinali No, N10 No» Rox» 1 sono davvero “insiemi” nel senso chiarito della parola, cioè “molteplicità consistenti”. Non sarebbe possibile che anche queste molteplicità siano “inconsistenti”, e che la contraddizione del supporre una “coesistenza [Zusammenseins] di tutti i loro elementi” semplicemente non si sia ancora fatta notare? La mia risposta a questo è che si deve estendere questa domanda anche alle molteplicità finite e che una riflessione accurata porta al risultato: anche per le molteplicità finite non si deve fornire una “dimostrazione” della loro “consistenza” [Consistenz]. In altre parole: Il fatto [Die Thatsache] della “consistenza” delle molteplicità finite è una verità x semplice, indimostrabile; è “L'assioma [Das Axiom] dell’aritmetica (nel vecchio senso della parola)”. E nello stesso modo la “con-

sistenza” di quelle molteplicità cui io assegno gli alef come numeri cardinali è “l’assioma dell’aritmetica estesa, transfinita” [das Axiom der erweiterten, der transfiniten Arithmetik] È!

Quest’argomento non è certo conclusivo, ma si deve ammettere che ora ha più forza di quanta ne avesse nel 1899 perché, nonostante i più di cento anni di studi intensivi sulla matematica cantoriana e l’accumularsi di risultati, non è mai emersa alcuna contraddizione che riguardi i numeri transfiniti.

Come abbiamo anticipato, nelle lettere a Hilbert del 26 settembre 1897 e a Dedekind del 3 agosto 1899, Cantor si serve dell’idea di molteplicità inconsistente, o assolutamente infinita, per fornire una dimostrazione del teorema secondo cui tutti i numeri cardinali transfiniti sono alef. L'argomento di Cantor consiste nel mostrare che una molteplicità che non avesse un alef come numero cardinale sarebbe assolutamente infinita, e dunque non avrebbe nessun numero cardinale. Nella lettera a Hilbert, il ragionamento si sviluppa così: La totalità di tutti gli alef non può essere [...] intesa come un insieme completato, ben definito, determinato [bestimmte, wohldefinirte fertige Menge]. Se fosse così, allora a questa totalità seguirebbe in grandezza un alef determinato, che pertanto apparterrebbe (come elemento), e anche non apparterrebbe, a questa totalità, cosa che sarebbe una contraddizione.

Premesso questo, posso dimostrare rigorosamente: “Se un insieme completato, ben definito, determinato avesse un numero cardinale che non coincidesse con nessuno degli alef, allora esso dovrebbe contenere sottoinsiemi [Theilmengen] il cui numero cardinale sia qualsiasi alef, o in altre parole, l'insieme dovrebbe contenere la totalità degli alef?. Da ciò è facile dedurre che, sotto la supposizione appena fatta (di un insieme determinato il cui numero cardinale non sia un alef). anche la totalità di tutti gli aief dovrebbe essere intesa come un insieme completato, ben definito, determinato. Che non è così, l'ho dimostrato sopra."

Il ragionamento che conduce al “paradosso di Burali-Forti” — ma che Cantor non poteva vedere come paradosso, data la sua precedente distinzione tra infinito assoluto e transfinito** — è qui applicato alla serie degli alef. Se sì concepisce la totalità degli alef come un insieme «determinato, ben definito, completato», si giunge alla contraddizione di Burali-Forti; Cantor ne conclude che la totalità degli alef non può essere un insieme siffatto. Ma allora non può esistere — continua Cantor — un insieme «determinato, ben definito, completato» il cui numero cardinale non sia un alef: perché esso — ritiene Cantor — dovrebbe avere un sottoinsieme grande come la serie di tutti gli alef, e dunque sarebbe grande almeno quanto la totalità di tutti gli alef. Nella lettera di Cantor a Dedekind del 3 agosto 1899 la dimostrazione è analoga: il ragionamento del paradosso

di Burali-Forti è utilizzato per dimostrare che se Q, la molteplicità ordinata di tutti i numeri ordinali. è concepita come una molteplicità consistente, e quindi fornita di un numero ordinale, si giunge a una contraddizione. La conclusione di Cantor è che © non può essere una molteplicità consistente, ma dev'essere una molteplicità assoluta-

mente infinita. Su questa base, Cantor fornisce la seguente dimostrazione che non esistono insiemi la cui potenza non sia un alef:

8! Cantor [1899d], p. 412 (in Cantor [1932], pp. 447-448).

*° Cantor [1897a], pp. 388-389. 83 V. Menzel [1984].

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

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Dimostrazione. Se prendiamo una molteplicità determinata [eine bestimmte Vielheit] V e supponiamo che ad essa non spetti nessun alef come numero cardinale, concludiamo che V deve essere inconsistente [inconsistent]. Infatti si riconosce facilmente che, sulla base delle supposizioni fatte, l’intero sistema [System] Q è proiettabile [hineinprojizier-

bar] nella molteplicità V, cioè che deve esistere una sottomolteplicità [Theilvielheit] V' di V che è equivalente [aequivalent] al sistema ©. V'è inconsistente, perché lo è Q, e lo stesso si deve quindi affermare di V. Di conseguenza ogni molteplicità consistente transfinita, ogni insieme transfinito, deve avere un alef determinato come numero cardinale.

Nella sua celebre raccolta di scritti cantoriani, Ernst Zermelo commenta così questa dimostrazione: Che l’intera successione di numeri [Zak/reihe] Q debba essere necessariamente “proiettabile” [hineinprojizierbar] in ogni molteplicità V che non ha un alef come numero cardinale, non è dimostrato, ma desunto da una “intuizione” [Anschauung] un po’ vaga. E-

videntemente Cantor immagina che elementi successivi e arbitrari di V to di V sia usato solo una volta. Questa procedura dovrebbe o giungere allora V sarebbe correlata a una sezione [Abschnitte] della successione all’assunzione. Oppure V rimarrebbe inesauribile, e quindi conterrebbe quindi inconsistente."

siano correlati ai numeri di Q in modo tale che ogni elemenalla conclusione, essendosi esauriti tutti gli elementi di V, e dei numeri e la sua potenza sarebbe un alef, contrariamente una parte costituente [Bestandteil] equivalente all’intera Q,

Come osserva Zermelo nel seguito del suo commento, questa dimostrazione cantoriana presuppone la validità di un principio che pochi anni dopo diverrà noto come assioma di scelta.8° Zermelo continua però avanzando un’altra ragione di dubbio: anche assumendo l’assioma di scelta, «la dimostrazione opera con molteplicità “inconsistenti”, in effetti forse con concetti contraddittori, e già per questo sarebbe logicamente inammissibile».5” AI termine del suo commento alla dimostrazione cantoriana, Zermelo osserva che fu proprio questo dubbio a spingerlo a trovare una diversa dimostrazione del teorema del buon ordinamento e quindi del teorema di confrontabilità tra cardinali — che pure è ancora basata sull’assunzione (stavolta esplicita) dell’assioma di scelta.** L'argomento che Jourdain aveva inviato a Cantor il 29 ottobre del 1903 era sostanzialmente identico a quello cantoriano che abbiamo appena descritto. In una lettera del 10 marzo del 1904,*° Jourdain chiese a Cantor il permesso di pubblicare la sua lettera del 4 novembre 1903, ma Cantor rifiutò.” Evidentemente, Cantor non era del tutto soddisfatto della propria dimostrazione — forse, per una ragione simile alla seconda indicata da Zermelo: la dimostrazione richiede di operare matematicamente con un infinito assoluto. In ogni caso, Jourdain aveva pubblicato la propria dimostrazione nell’articolo “On the transfinite cardinal numbers of well-ordered aggregates”, terminato il 2 dicembre del 1903 e uscito sul Philosophical Magazine del gennaio 1904. In quest'articolo, Jourdain faceva riferimento alla lettera di Cantor del 4 novembre 1903, annotando: Avevo in precedenza comunicato al professor Cantor la mia dimostrazione che ogni cardinale è un Alef, e, in questa risposta [la lettera del 4 novembre 1903], egli offrì la dimostrazione (non pubblicata) che è essenzialmente identica alla mia, che egli aveva usato nel 1895 per dimostrare il teorema A del $ 7 [si tratta della legge della tricotomia per numeri cardinali qualsiasi], e aveva comunicato nel 1896 al professor Hilbert e nel 1899 al professor Dedekind. Sono in debito con il professor Cantor per il suo gentile incoraggiamento a pubblicare la mia dimostrazione.”

È a partire da questa nota di Jourdain che la maggior parte dei commentatori ha considerato Cantor lo scopritore dei paradossi oggi detti “di Cantor” e “di Burali-Forti”. Si noti, tuttavia, che questa è un’imprecisione storica: Cantor tratta l’argomento relativo al massimo numero ordinale piuttosto come una dimostrazione per assurdo che come un paradosso. Egli vede, cioè, nella contraddizione che sorge dalla supposizione dell’esistenza di un massimo numero ordinale, una dimostrazione per assurdo della sua idea filosofica secondo cui non tutte le molteplicità

84 Cantor [1899b], p. 410 (in Cantor [1932], p. 447). 85 In Cantor [1932], p. 451, nota I.

i

LA

incorporato 86 V. sotto, $ 4, in particolare l’argomentazione riportata al termine del $ 4.2.3.2. L'assunzione inconsapevole del principio nell’assioma di scelta è abituale in Cantor: v. sotto, $ 4.1.

87 In Cantor [1932], p. 451, nota I. 88 V_ ibid. Per la dimostrazione di Zermelo, v. sotto, $ 4.2.3. 8° Ora in Cantor [1967], p. 266.

90 V. Grattan-Guinness [1971], pp. 117-118, e Moore e Garciadiego [1981], p. 333. 2! Jourdain [1904], $ 7, p. 70, prima nota.

capitolo 4

262

infinite sono transfinite, ma esiste un infinito assoluto, e si serve di ciò per fornire una dimostrazione della sua te-

si secondo cui per tutti gli insiemi deve valere il teorema del buon ordinamento.

2.2. IL PARADOSSO DI RUSSELL

Come si è visto, Russell fu inizialmente dell’opinione il paradosso di Burali-Forti avesse origine dalla premessa errata che l’intera serie dei numeri ordinali, posti in ordine di grandezza, sia ben ordinata. Russell aveva anche scoperto le difficoltà connesse con il teorema di Cantor (paradosso di Cantor) ma queste non erano intese come antinomie, bensì come l’indizio che il teorema di Cantor dovesse contenere un errore. Fu proprio mettendo alla prova questo teorema che — probabilmente nel maggio del 1901 — Russell s’imbatté in un paradosso più semplice e devastante, che colpiva al cuore l’intera teoria intuitiva degli insiemi. Si tratta del paradosso che oggi è conosciuto con il nome di “paradosso di Russell”, e che Russell chiamò inizialmente, in modo antonomastico, “the contradiction” — “la contraddizione”. Il paradosso di Russell fu il primo paradosso logico della storia ad essere riconosciuto come tale. Era semplice e non riguardava la teoria dei numeri transfiniti — ancora controversa, all’inizio del Novecento — ma concetti, come quello di proprietà o di insieme, che erano divenuti assolutamente centrali nella matematica dell’epoca. Servendosi degli insiemi, Russell aveva potuto ricostruire i concetti fondamentali della matematica — numeri cardinali, ordinali, naturali, reali, ecc. —: ora scoprì che, servendosi degli insiemi nello stesso modo, si poteva ricavare

anche una contraddizione. Fu, comprensibilmente, un duro colpo. Il paradosso di Russell è facile da formulare, ed è oggi notissimo. Intuitivamente, alcune classi non sono membri di se stesse, altre invece lo sono. Per esempio, la classe degli uomini non è membro di se stessa, perché non è un uomo; la classe delle biciclette non è un membro di se stessa perché non è una bicicletta. Ma la classe di tutte

le cose che non sono uomini non è un uomo, e quindi è un elemento di se stessa; la classe di tutte le cose che non sono biciclette non è una bicicletta, e quindi è membro di se stessa; la classe di tutte le cose menzionate in questo

capoverso è a sua volta menzionata in questo capoverso, e quindi appartiene a se stessa; la classe di tutte le classi descrivibili con esattamente dodici parole italiane, è una classe descrivibile con dodici parole italiane, e quindi appartiene a se stessa. Supponiamo ora di formare la classe di tutte le classi che non sono membri di se stesse. Definiamo cioè la classe w tale che una classe appartiene a w se e solo se non appartiene a se stessa. Le classi che fanno parte di w sembrano essere quelle di tipo più comune: la classe degli uomini, quella delle biciclette, quella dei gatti, e così via. Chiediamoci ora: la classe w è un membro di se stessa o no? Supponiamo dapprima che w sia un elemento di w. Allora, poiché, per definizione di w, tutti gli elementi di w hanno la proprietà di non appartenere a se stessi, se w stesso è uno di questi elementi se ne deduce che w non è un elemento di w. Dall’ipotesi che w sia un elemento di w si deduce dunque che w non è un elemento di w. Supponiamo allora che w non sia un elemento di w. Allora, poiché, per definizione di w, tutte le classi che non sono elementi di se stesse appartengono a w, se w non appartiene a w, allora w non è una classe che non è elemento di se stessa. Ma allora w appartiene a w. Quindi dall’ipotesi che w non sia un elemento di w si deduce che w è un elemento di w. Dunque, da ogni possibilità segue l’opposto, e questa è una contraddizione. Riassumiamo il ragionamento usando dei simboli. Poiché w è la classe comprendente tutte e solo le classi che non appartengono a se stesse si avrà:

Mae w=-(x€ 2); di qui, prendendo w stessa come x otteniamo: WEeWE-(WE

w),

formula che equivale a: » V. Moore e Garciadiego [1981], pp. 332-333; Menzel [1984], pp. 99-101; Garciadiego [1992], $ 2.3, pp. 34-35. °° Come testimonia la menzione di Peano in una lettera a Russell del 16 febbraio 1906, al «célèbre p aradoxe qui porte votre nom» (in KenDO [1975], p. 83), già a quell’epoca il paradosso era noto come “paradosso di Russell”.

Appunto “The contradiction” è il titolo del capitolo 10 dei Principles, che è dedicato al paradosso di Russell.

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

(WE WA-(WE

W)v(-(we

w)Awe

263

W),

cioè, riducendo: WEWA-(WE

w),

ciò che rappresenta un’esplicita contraddizione. Nei Principles, Russell riferisce di essere giunto a scoprire questo paradosso «nel tentativo di riconciliare la dimostrazione di Cantor che non può esserci un numero cardinale massimo con la supposizione molto plausibile che la classe di tutti i termini [...] [nei Principles, “termine” non è utilizzato per indicare parole, ma come sinonimo di “individuo”, o “entità”] abbia necessariamente il massimo numero possibile di membri».” Inizialmente,

Russell aveva pensato che tale conciliazione si potesse trovare limitando la validità del teorema di Cantor. Come si è già osservato, la parte V del manoscritto dei Principles scritta nel novembre del 1900 — e poi consegnata all'editore il 23 maggio del 1902 — contiene ancora (nel suo cap. 12, corrispondente al capitolo 43 della versione pubblicata) un attacco al teorema di Cantor. In questo manoscritto,” Russell sostiene che la dimostrazione di

Cantor, secondo cui, per ogni classe x, il suo insieme potenza deve avere un numero cardinale più grande di wu, non funziona più quando si prende come u la classe di tutte le classi: Ora se u è la classe delle classi, questo [cioè, che il numero delle sottoclassi di una classe deve sempre essere superiore al numero dei suoi membri] è certamente autocontraddittorio, perché le classi contenute in u [le sottoclassi di w] saranno solo classi di classi,

mentre i termini appartenenti a u saranno tutte le classi senza restrizioni, cosicché le classi contenute in u [le sottoclassi di u] sono una parte propria della classe u stessa. Quindi ci dev’essere da qualche parte nell’argomentazione di Cantor un’assunzione nascosta che non è verificata quando u è la classe di tutte le classi.”

Svolgendo la sua obiezione, Russell definisce una funzione K(x) che correla gli elementi della classe di tutte le classi — in simboli Class — con gli elementi del suo insieme potenza: L'argomento attraverso il quale si mostra che il numero delle classi di classi è più grande del numero delle classi può essere confutato nel modo seguente. Abbiamo u= Class, cosicché “x è un w” significa “x è una classe”. Quando x non è una classe di classi, sia k. [K(x)] la classe di classi il cui solo membro è x. Quando x è una classe di classi, k, sia x stesso.[°] Quindi definiamo una classe w‘,

in conformità al precedente metodo [cioè, il metodo di Cantor], che contenga ogni x che non sia membro del suo k,, e nessun x che sia membro del suo k,. [...] Allora Cantor inferisce che, per qualsiasi valore di x, u' non è identico a k, [cioè che u‘' non ha nessun correlato x in Class]. Ma u' è una classe di classi, e pertanto è identica a k,. Quindi il metodo di Cantor non ha dato un nuovo ter-

mine, e ha quindi mancato di fornire la dimostrazione richiesta che ci sono numeri più grandi di quello delle classi [cioè, della clas-

se di tutte le classi].!° L’obiezione è la stessa cui Russell accenna nelle lettere a Couturat del 1900-1901

che abbiamo citato nel $

2.1.1:!° data una classe di classi w, il teorema di Cantor può valere solo se esiste qualche classe che non sia ele-

mento di u. Ma, se non è così (cioè se u = Class), la classe di Cantor u', appartenente all'insieme potenza di u, sarà sempre correlabile, tramite la funzione K(x) definita sopra da Russell, con se stessa, e poiché u' — essendo una classe — dev'essere elemento di x, il teorema di Cantor, in questo caso, non funziona.

Come osserva Coffa ([1979], pp. 36-37), la classe u' menzionata nel brano appena riportato non è altro che la classe di tutte le classi che non appartengono a se stesse. Russell giunge qui a un soffio dallo scoprire il paradosso

che oggi porta il suo nome,

ma

non ne acquista ancora coscienza.

L'unica conclusione

che Russell trae

% Russell [1903a], $ 100, p. 101. Russell offre lo stesso resoconto del modo in cui giunse a scoprire il suo paradosso in una lettera a Frege datata 24 giugno 1902 (v. in Frege [1976], pp. 215-216).

|

% V. Coffa [1979], pp. 34-36, e Garciadiego [1992], $ 4.3, pp. 96-98.

he,

pe tu

PAG

9 Il manoscritto, che in grandissima parte coincide con il testo dei Principles, non è stato pubblicato. Le citazioni di cui mi servo sono tratte dall’articolo di Coffa citato alla nota precedente.

98 In Coffa [1979], p. 34.

;

ua

99 La correlazione tra elementi di Class e elementi dell’insieme potenza di Class non è uno-uno, ma molti-uno: infatti, se

|

@ non è una classe

di classi, sia @ sia { &} saranno correlati con {@}. Questo tuttavia è irrilevante per l’applicazione del ragionamento di Cantor, che in ogni caso prevede che, alla classe di tutti gli elementi di Class che non appartengono alla classe dell’insieme potenza di Class cui sono correlati dalla funzione (x), non possa corrispondere nessun elemento di Class.

100 In Coffa [1979], p. 35. Riportato anche in Garciadiego [1992], $ 4.3, p. 98.

101 Questo punto è messo in luce da Coffa ([1979], pp. 33-36.

capitolo 4

264

dall’argomento precedente è invece che esistono classi la cui potenza non può essere superata (cioè che hanno il massimo numero cardinale) — come la classe di tutte le classi o la classe di tutte le cose — e che il teorema di Cantor non vale per queste classi: Così ciò che Cantor ha dimostrato è, che qualsiasi potenza diversa da quella di tutte le classi può essere superata, ma non c’è contraddizione nel fatto che questa potenza non possa essere superata. La precisa assunzione in Cantor, che Class manca di soddisfare, è che se u è la classe la cui potenza può essere superata [cioè, se u è una classe la cui potenza non è il massimo numero cardinale],

non tutte le classi di v sono esse stesse termini [cioè, elementi] di u.!°?

Nel maggio del 1901, Russell si rese tuttavia conto che la classe di tutte le classi che non sono elementi di se stesse dà origine a una contraddizione che è del tutto indipendente dal teorema di Cantor. Nel testo pubblicato dei Principles, Russell ricostruisce il modo in cui giunse a prendere in considerazione questa classe partendo dalla classe di tutte le entità," invece che dalla classe di tutte le classi. La differenza è irrilevante, e l'argomento è del tutto parallelo a quello già riportato nella versione dei Principles scritta nell’autunno del 1900: È istruttivo esaminare in dettaglio l'applicazione dell’argomento di Cantor [...] per mezzo di una tentata correlazione effettiva. Nel caso dei termini [ricordiamo che nei Principles “termine” è utilizzato come sinonimo di “individuo”, o “entità”] e delle classi, per esempio, se x non è una classe, correliamolo con 1x, ossia la classe il cui unico membro è x, ma se x è una classe, correliamola con

se stessa. (Questa non è una correlazione uno-uno, ma molti-uno, perché x e x sono entrambi correlati con Lx; ma essa servirà a illustrare il punto in questione.) Allora la classe che, secondo l’argomento di Cantor, dovrebbe essere omessa dalla correlazione, è la classe w di quelle classi che non sono elementi di se stesse; eppure questa, essendo una classe, dovrebbe essere correlata con se stessa. Ma w [...] è una classe autocontraddittoria, che è e non è elemento di se stessa.!%

Russell procede dunque, in primo luogo, a correlare gli elementi della classe V di tutte le entità con quelli di CI°V (cioè della classe potenza di V) nel modo che segue. Ogni classe appartenente a V si fa corrispondere alla classe identica appartenente a C1°V; ogni oggetto appartenente a V che non sia una classe si fa corrispondere alla classe di CI°V che contiene soltanto quell’oggetto. Questa correlazione non stabilisce una correlazione biunivoca tra elementi di V ed elementi di CI°V, ma una correlazione molti-uno tra i primi e i secondi: infatti un oggetto w che non sia una classe e la classe che contiene soltanto u saranno correlati entrambi alla classe che contiene soltanto u. In ogni caso, data questa correlazione, perché gli elementi di C1°V possano essere di più degli elementi di V occorre che esista un elemento di CI°V cui non corrisponde nessun elemento di V. Per scoprire quale, Russell applica a questo caso particolare l’argomentazione del teorema di Cantor. Secondo quest’argomentazione dalla correlazione tra V e C1‘V è esclusa la classe w di tutti gli elementi di V che non appartengono alla classe di C1°V cui sono correlati. Ora, un individuo di V che non sia una classe deve appartenere per forza alla classe di CI°V cui è correlato, infatti, per ipotesi, la classe cui è correlato non è altro che la classe che lo contiene come unico ele-

mento. Invece, gli individui di V che sono classi possono appartenere o non appartenere alla classe di C1°V cui sono correlati. Da ciò si desume che la classe che l’argomentazione di Cantor esclude è la classe w di tutte le classi che non appartengono alla classe cui sono correlate. Ma poiché ogni classe è, per ipotesi, correlata con se stessa, la classe w non è che la classe di tutte le classi che non appartengono a se stesse: la classe paradossale di Russell. Sebbene il ragionamento di Russell sia — nella sua prima parte — del tutto simile a quello riportato nella versione dei Principles consegnata all’editore nel maggio 1902, le conclusioni sono ora affatto diverse: non solo non è più mossa nessuna obiezione al teorema di Cantor, ma si riconosce esplicitamente che w «è una classe autocontraddittoria, che nello stesso tempo è e non è elemento di se stessa». Abbiamo finora parlato dell’antinomia di Russell in riferimento alle classi. Già nel maggio 1901, tuttavia, Russell scoprì che lo stesso paradosso sorge se si considerano le proprietà anziché le classi. Ecco come lo presenta Russell nei Principles: Se x è un predicato, x può essere 0 non essere predicabile di se stesso. Ammettiamo che “non predicabile di se stesso” sia un predi-

cato. Allora supporre che questo predicato sia, o non sia, predicabile di se stesso, è autocontraddittorio.!°

02 In Coffa [1979], p. 36. 103

IE î Russell sceglie° come punto di: partenza la classe di. tutte le entità anche in Russell [1906a] ($ I, p. 139).

104 Russell [1903a], $ 349, p. 367. 5 Russell [1903a], $ 101, p. 102. V. anche ibid., $ 78, pp. 79-80.

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

265

Tenendo conto che, in questo contesto, “predicati” è inteso significare “proprietà”, nel senso di “attributi monadici”, possiamo esporre questa versione del paradosso come segue. Alcune proprietà convengono a se stesse, altre no. Per esempio, la proprietà di essere un cavallo non conviene a se stessa, perché non è un cavallo; ma la proprietà di non essere un cavallo, non essendo un cavallo, conviene a se stessa: è cioè vero che la proprietà di non essere un cavallo non è un cavallo. Chiamiamo ora impredicabile — in simboli “Impr° — ogni proprietà che non conviene a se stessa. Possiamo allora dare la seguente definizione simbolica:

(1) (Impr(F)=-F(F)), che si legge: “Una proprietà F è impredicabile se e solo se non conviene a se stessa”. Se però, a questo punto, ci chiediamo: “La proprietà di essere impredicabile conviene o no a se stessa?” ci ritroviamo in una contraddizione. Prendendo infatti Ympr come valore di “F” otteniamo: Impr(Impr) = -Impr(Impr), cioè: “Impredicabile conviene a se stessa se e solo se non conviene a se stessa”. Una contraddizione. Peter T. Geach ([1970], pp. 93-94) ha richiamato l’attenzione su una versione meno nota del paradosso di Russell, riportata nel $ 100 dei Principles. Vediamo di che cosa si tratta. Russell chiama w la classe dei concetticlasse (attributi monadici) che non possono essere asseriti di se stessi. Poi prosegue: [...] se y è un qualsiasi termine di w, e w'è la totalità di w escluso y, allora w'’, essendo una sottoclasse di w, non è un w' ma è un w,

e perciò è y. Quindi ogni concetto-classe [attributo monadico] che sia un termine di w ha come sua estensione tutti gli altri termini di w. Ne segue che il concetto bicicletta è un cucchiaino, e cucchiaino una bicicletta.!°

Tralasciando di soffermarci ora sulla peculiare terminologia usata qui da Russell — che spiegheremo nel capitolo 6 —, il paradosso si può esporre come segue. Sia w la classe di tutti gli attributi che non sono attributi di se stessi. Di w faranno parte, per esempio, l’attributo di essere un cucchiaino e l’attributo di essere una bicicletta, poiché l’attributo di essere un cucchiaino non è un cucchiaino, e quello di essere una bicicletta non è una bicicletta. Sup-

poniamo ora di togliere a w un elemento y qualsiasi, per esempio l’attributo di essere un cucchiaino. Sia w' ciò che resta di w. w' è una sottoclasse di w, e quindi ha per elementi solo attributi che non sono attributi di se stessi: dunque l’attributo di appartenere a w' non può avere l’attributo di appartenere a w' (perché, se lo avesse, w' avrebbe tra i suoi membri un attributo che è attributo di se stesso, contro l’ipotesi). Ma se l’attributo di appartenere a w' non è attributo di se stesso, esso soddisfa la condizione necessaria e sufficiente per essere un elemento di w. Ma l’unica entità che appartiene a w senza appartenere a w' è y; dunque l’attributo di appartenere a w' è uguale a y. Nel nostro esempio, y era l’attributo di essere un cucchiaino; così si è dimostrato che l’attributo di essere un cucchiaino ha la stessa estensione dell’attributo di essere un elemento di w'; ma dell’estensione dell’attributo di ap-

partenere a w' fa parte l’attributo di essere una bicicletta, e dell’estensione dell’attributo di essere un cucchiaino fanno parte solo cucchiaini: ne risulta che l’attributo di essere una bicicletta è un cucchiaino. Se avessimo preso come y l’attributo di essere una bicicletta, avremmo dimostrato, in modo affatto analogo, che l’attributo di essere un cucchiaino è una bicicletta. L’intero ragionamento può forse risultare più perspicuo se lo si ricostruisce utilizzando solo classi, invece di attributi. Sia w la classe di tutte le classi che non sono elementi di se stesse. Di w faranno parte, per esempio, la classe delle biciclette e quella dei cucchiaini, poiché una classe di biciclette non è essa stessa una bicicletta e la classe dei cucchiaini non è un cucchiaino. Supponiamo ora di togliere a w un elemento y qualsiasi, per esempio la classe dei cucchiaini. Sia w' ciò che resta di w. w' è una sottoclasse di w, e quindi ha per elementi solo classi che non sono elementi di se stesse: dunque w' non può essere un elemento di se stessa (perché, se lo fosse, avrebbe tra i suoi membri una classe che è elemento di se stessa, contro l'ipotesi). Dunque w' @ w'. Ma, se è così, w' soddisfa la condizione necessaria e sufficiente per essere un elemento di w. Quindi: w' non è un elemento di w', ma (pro-

prio per questo) è un elemento di w. Ma l’unica entità che appartiene a w senza appartenere a w' è y, dunque We y. Nel nostro esempio, y era la classe di tutti i cucchiaini; così si è dimostrato che questa classe ha per elementi

tutte le classi che sono elementi di w' tra le quali, per esempio, la classe delle biciclette. Dunque la classe delle bi-

106 Russell [1903a], $ 100, p. 102.

capitolo 4

266

ciclette è un cucchiaino. Se prendiamo come y la classe delle biciclette, dimostriamo, in modo del tutto analogo, che la classe dei cucchiaini non è che una bicicletta. | Sempre nel periodo della stesura dei Principles, Russell scoprì che una forma del paradosso può essere ricavata

anche considerando le relazioni e, in particolare, relazioni tra relazioni.!” Le relazioni tra relazioni sono cose più

intuitive di quanto potrebbe sembrare; come osserva Clive W. Kilmister ([1984], p. 143): Non c’è nulla di intrinsecamente strano circa la possibilità di relazioni tra relazioni. Se R è la relazione che vale tra due numeri naturali n, m quando m = 2n, e S è quella che vale quando m = n, è naturale descrivere R come più forte di S poiché, se nRm, allora nSm, ma non necessariamente vale l’inverso. Ed è anche naturale usare qualche notazione, per esempio Q, per la relazione “più forte di” e scrivere ROS.

La relazione tra relazioni che conduce al paradosso è la relazione 7, definita come quella che sussiste tra due relazioni R e Sse e solo se R non ha la relazione R con $; in simboli:

(R)(S)(RTS=-RRS). Se ora ci chiediamo: “In quali casi la relazione 7 sussiste tra 7 stessa e un’altra relazione S?”, otteniamo una contraddizione. Infatti, dando a “R” il valore 7 si ha:

(S(TTS=-=TTS): cioè: “Per ogni S, Tha la relazione 7 con S se e solo se 7 non ha la relazione 7 con $”. Che è una contraddizione. In particolare, dando anche a “S” il valore 7, otteniamo: TrIIl ==

Come ha mostrato Quine ([1938], $ 2, pp. 127-128), un numero infinito di paradossi analoghi alla versione insiemistica del paradosso di Russell può essere ottenuto con un semplice espediente. Nel paradosso di Russell, la contraddizione sorge ponendo x e w come equivalente a —(x € x). Otteniamo nuove contraddizioni definendo la classe w‘ (Dren così:

(DD @M(rew)=M)-e yAye »), oppure definendo la classe w” (2) così:

(re

w9)=YA-Gre yayezaze s)),

oppure definendo la classe w® come segue: (Me

NS

w)=

MA

M-xe

yAye

zAze

vAvEe

x)

eccetera, cioè, in generale, definendo w® come la classe di tutti gli x che è falso che appartengano a una classe la quale appartiene a una classe... che appartiene a una classe che appartiene a x:

(1) Me

w9=0)0)... Gn

e pr AyLE

AVEVA

LL AYp E 3).

Per vedere come queste definizioni, le quali — usando la terminologia di Quine — contengono un e-ciclo, conducano ancora a CONUZUATAIONI, consideriamo dapprima la (1), prendendo in essa la classe 1°w!! (cioè la classe che ha come unico elemento w') come x. Otteniamo così: OM 107

NI

VAI)

D ses Per la prima esposizione del paradosso che segue, v. le lettere di: Russell a Frege datate 8 agosto 1902 e 29 settembre 1902 ( . ora in Frege [1976], rispettivamente, pp. 226-227 e pp. 230-231). V. anche Russell [1903a], $ 496, p. 521, e Russell [1908], $ I, pp. 59-60. i

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

267

Il lato destro della (2) equivale a:

3)

DAWN

e

vye 1),

e quindi a:

(Ge wp MW e y)), che equivale a:

4) MOo=w)> We

y)).

Ma la (4) equivale alla semplice:

65) A we

yy,

Infatti si ha che la (4) implica la (5),'°8 e che la negazione della (4) implica la negazione della (5)! Sostituendo la (5) al lato destro della (2), otteniamo infine la contraddizione:

(Oi

Wi

Nel caso più generale, si potrà procedere alla derivazione di un paradosso prendendo, nella (1), la classe 1‘”w (9452) come x (dove “1°” rappresenta un’abbreviazione notazionale per n occorrenze di ‘“1°”)!! e procedendo poi in modo analogo al precedente. Si parte cioè da:

D ame

= VM

NAME

Ape var

ATE 19),

e si trasforma il lato destro della (7) in:

8)

01) 02...) (One 1°°W®)3 (On 1 ya) 3 (1

AM

e yy) ...)).

Dalla (8) si giunge poi alla conclusione paradossale

OE

e

e)

attraverso n passi ciascuno dei quali è analogo ai passaggi dalla (3) alla (Se seta (4) implica la (5) perché, prendendo w

come y nella (4), si ottiene:

WD ww e w9), ossia, poiché w! = w° dev'essere sempre vero: (5)

awe

wi).

a Infatti, la negazione della (4):

-M(0= wp (We y) equivale a: -)- (=

w0) A (1° WI

e )),

cioè a:

Ep (= w) A GW! e y),

che, poiché solo w!!? è uguale a w implica

we

wi.

cheè la negazione della (5).

110 Ricordiamo che, per esempio, 1°1°1°x è — nella simbologia di Russell (ispirata a Peano [1897-99], N° 1, P430, p. 49) — la classe che ha come unico elemento una classe che ha come unico elemento una classe che ha come unico elemento x, cioè, secondo la simbologia oggi più usuale, la classe {{{x}}}ti De precedenti dimostrazioni sono ricavate da du

[1938], $ 2, p. 128. Che la definizione (1 )Poi

a una contraddizione, è mostrato

in Quine [1969a], $ 5, p. 36, con un metodo un po” diverso. Si prende, nella (1)la stessa classe w° come x, ottenendo:

268

i

capitolo 4

Come nota Quine ([1938], $ 2, p. 127), questi paradossi impediscono di considerare una soluzione al paradosso

le di Russell (nella sua versione insiemistica) il semplice espediente di escludere — come prive di significato — formule della forma “x e x”. Infatti, le definizioni contenenti e -cicli non contengono nessuna formula del tipo

FE Nel $ 2.1.3 abbiamo accennato all’idea cantoriana di eliminare i paradossi di Cantor e di Burali-Forti negando l’esistenza di insiemi “troppo grandi” — come quello di tutti i numeri ordinali. Chiediamoci: quest'idea potrebbe funzionare anche per il paradosso di Russell (perlomeno nella sua forma insiemistica)? E possibile sostenere che anche l'insieme di Russell — cioè l'insieme di tutti gli insiemi che non sono elementi di se stessi — sia ‘troppo grande”? Nell’articolo della fine del 1905 “On some difficulties in the theory of transfinite numbers and order types”, Russell mostrò che, effettivamente, tale insieme avrebbe un numero cardinale non inferiore a quello dell’insieme di tutti i numeri ordinali.'!° La sua dimostrazione si può riassumere così: si associa il numero ordinale 0 a una classe & qualsiasi che non sia elemento di se stessa, e a ogni altro numero ordinale la classe di tutte le classi assegnate ai numeri precedenti. Così, per esempio, l’ordinale 1 sarà associato a {@}, 2 sarà associato a {a {2}}, 3 sarà associato a {a {2}, {a {a}}}, ecc.!!* Sia ora w l’insieme di Russell e sia w'l’insieme di tutti gli in-

siemi associati nel modo suddetto agli ordinali. È evidente che sia ha: Ma,

perché ogni elemento di w' è un insieme che non appartiene a se stesso. (Si osservi, più in generale, che w' sarebbe incluso anche nell’insieme di tutti gli insiemi di Quine non e -ciclici, perché nessuno degli elementi di w' è € ciclico.) Data la correlazione uno-uno tra ordinali ed elementi di w', w' avrà lo stesso numero cardinale della clas-

se di tutti gli ordinali Q. Si è dunque provato che l’insieme di Russell w ha un sottoinsieme cardinalmente simile a O, e quindi © non può essere più grande di O we

OE

M-WNe

YAYE

wi),

che implica:

We wp

We ya ye w),

cioò:

(2) -MWPe wa EpWwPe yuye w). Dall’ipotesi che we w°! deriva: wWe

MON

we

WD.

e quindi ApwPe

yaye w), cosicché si ha: (3) wPe wp EpwPe yaye

w).

Da (2) e (3) otteniamo:

Ay(wle yaye w8), che può essere anche scritta, cambiando la variabile “y” con “x” e mutando l’ordine dei membri della congiunzione:

(4) Eee

wW°AwDe x);

la (4) implica ovviamente che c’è un x che appartiene a w°", e poiché — secondo la (4°) — w° appartiene allo stesso x, ne deriva che c'è qualcosa cui x appartiene e che a sua volta appartiene a x. In simboli, la (4) implica:

(5) En(ae WA Apre yAye x). Ma la (5”), pur essendo derivata dalla (1), è in contraddizione con la (1).

12 V. Russell [1906a], $ I, p. 143. In una nota, Russell attribuisce la dimostrazione a George G. Berry. Per alcune informazioni su Berry, v. sotto, $ 3.3.

'!3 Per una spiegazione più generale del metodo di Russell si veda sotto, cap. 8, $ 3.

1

114 Questa dimostrazione è molto simile a quella che sarà proposta nel 1917 da Dimitry Mirimanoff (v. Mirimanoff [1917a], punto 5, pp. 4547). La tecnica di Mirimanoff è di associare il numero ordinale 0 a un oggetto qualsiasi fissato e — che si assume essere uno di quelli

che Mirimanoff chiama elementi indecomponibili, cioè entità prive di elementi (possiamo pensare ad e come alla classe vuota, o come a un individuo) e a ogni altro numero ordinale l’insieme di tutti gli insiemi assegnati ai numeri precedenti. Così, per esempio, l’ordinale 1 sarà

associato a {e}, 2 sarà associato a {e, {e}}, 3 sarà associato a {e, {e}, {e, {e}}}, ecc. Sia ora R l’insieme di Russell e sia W' l'insieme di

tutti gli insiemi associati nel modo suddetto agli ordinali (mi servo qui della simbologia usata dallo stesso Mirimanoff). È evidente che sia ha W'c R, perché ogni elemento di W' è un insieme che non appartiene a se stesso. (Si veda anche il resoconto semplificato di questa dimostrazione in Arpaia [2005], pp. 50-57.) X Mirimanoff ne trae la conclusione che, per evitare il paradosso di Russell, è sufficiente eliminare quello di Burali-Forti, assumendo che un insieme non può esistere se qualcuno dei suoi sottoinsiemi non può esistere, e che non esistono insiemi aventi un sottoinsieme cardinalmente simile a quello di tutti gli ordinali: «Un insieme non esiste, se contiene un sottoinsieme equivalente [cardinalmente simile] a W» (Mirimanoff [1917a], punto 4, p. 45). Gli insiemi contenenti un sottoinsieme cardinalmente simile a quello di tutti gli ordinali sarebbero dunque per Mirimanoff, “troppo grandi” per esserci. Naturalmente, il senso di “troppo grande” è qui relativo al numero degli ordinali che si asa

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

269

Nel cap. 8, $ 3, torneremo su quest’argomento, esaminando le difficoltà che, secondo Russell, s'incontrano nel

cercare di risolvere i paradossi insiemistici attraverso una teoria che limiti la “grandezza” delle classi ammissibili.

3. PARADOSSI SEMANTICI 3.1. IL PARADOSSO DI RICHARD Il 10 agosto 1904, al Terzo Congresso Internazionale dei Matematici, tenutosi a Heidelberg (8-13 agosto),! il matematico ungherese Julius Kònig presentò quella che riteneva una dimostrazione che il continuo non può essere ben ordinato — contrariamente a quanto sosteneva Cantor —, offrendo così una confutazione dell’ipotesi cantoriana del continuo. Ciò prospettava la soluzione del primo dei problemi che David Hilbert aveva proposto, nel precedente congresso (Parigi, 6-12 agosto 1900),'!° come centrali per la matematica dell’epoca, cosicché la relazione di Kénig attirò molti congressisti. Ad essa seguì una discussione, cui presero parte lo stesso Cantor, David Hilbert e Arthur Schoenflies, durante la quale non furono sollevate obiezioni alla dimostrazione, sebbene Cantor — contrariato — si riservasse di esaminare il problema in modo più approfondito.'!” Russell seppe dell’esistenza della dimostrazione di K6nig da una lettera di Couturat del 5 settembre 1904: Caro Signore, Apprendo da M. Fehr["!*] che al Congresso di mat. di Heidelberg un certo M. Kònig di Budapest ha dimostrato (contro G. Cantor) che il continuo non è un insieme ben ordinato. Colpo di scena! Nessuno ha trovato da obiettare alla sua dimostrazione, e G. Cantor stesso ha chiesto il tempo di riflettere. Ho pensato che questa notizia vi avrebbe interessato molto. [...] Fareste bene a chiedere a M. Kònig la sua dimostrazione, perché io non posso (come desidererei) procurarvela.!!°

Il 22 settembre Russell rispose a Couturat: La notizia a proposito del continuo m'interessa molto. Finora non ho trovato nessuna dimostrazione pro o contro l’opinione di Cantor. Spero che Kònig pubblicherà presto il suo ragionamento, perché si trovano spesso dei paralogismi nelle P. [proposizioni] negative di questa specie [...].!°®

In effetti, l'errore c’era, e — secondo le migliori speranze di Cantor — fu scoperto presto da un altro partecipante al congresso: Felix Hausdorff.'?":!?2 La dimostrazione di Kénig è basata sulla validità della formula mono esistere: se, per assurdo, esistessero solo tre numeri ordinali, ogni insieme di non meno di tre elementi sarebbe “troppo grande”. !!5 Il Primo Congresso Internazionale dei Matematici si tenne a Zurigo, tra il 9 e 11 agosto del 1897. A partire dal secondo (Parigi, 6-12 agosto 1900) — che ebbe luogo poco dopo quel Primo Congresso Internazionale di Filosofia in cui Russell conobbe Peano — l’incontro è avvenuto con cadenze quadriennali (non ebbe luogo negli anni 1916, 1940, 1944, 1948, e il primo congresso dopo la seconda guerra mondiale (l’undicesimo) fu nel 1950, a Cambridge MA (30 agosto-16 settembre)). Dal decimo congresso (Oslo, 13-18 luglio 1936), alla ceri-

monia d’apertura dei lavori si assegnano le prestigiose medaglie Fields — considerate l'equivalente di un premio Nobel, che per la matematica non esiste, ma riservate ai matematici che hanno meno di quarant’anni d’età.

!6 V_ Hilbert [1900b], $ 1, pp. 263-264 (in Hilbert [1932-35], vol. 3, pp. 298-299; in Hilbert [1985], pp. 154-156).

!!7 V. Fehr [1904], p. 385. Cantor rimase scettico sulla dimostrazione di Kénig; Joseph W. Dauben scrive: «Egli rifiutò di accettare la di-

mostrazione come conclusiva, e sebbene non fosse in grado di identificare falle nell’argomento di K6nig, credette incrollabilmente che la sua ipotesi del continuo non fosse stata refutata» (Dauben [1979], cap. 11, p. 249).

118 Sj tratta del matematico svizzero Henri Fehr. Fehr era stato tra i relatori del congresso di Heidelberg (v. E. B. Wilson [190Sb], p. 257), e ne aveva fornito un resoconto, ancora nel 1904, sulla rivista L’Enseignement Mathématique (v. Fehr [1904]), che egli stesso aveva fondato

con il francese Charles Laisant, nel 1899.

49 In Russell [2001a], pp. 437-438. 120 In Russell [2001a], p. 442.

bra

121 V. Hausdorff [1904], $ IMI, pp. 32-33 (ediz. orig., pp. 570-571). Dopo il congresso, alcuni dei partecipanti sì ritrovarono, per una vacanza post-congressuale, nella stazione di villeggiatura di Wengen, sulle Alpi svizzere, dove continuarono a discutere del risultato di Kònig. Tra essi vi erano Cantor, Hilbert, Schoenflies, Kurt Hensel e lo stesso Hausdorff (v. Schoenflies [1922], p. 100). In una lettera a Hilbert del

29 settembre 1904, Hausdorff scrive: «Dopo che il problema del continuo mi aveva tormentato quasi come un’ossessione a Wengen, qui la Lipsia, dove Hausdorff aveva fatto ritorno da due giorni] ho naturalmente guardato per prima cosa la dissertazione di Bernstein. L'errore è esattamente nel luogo sospettato [...]» (brano riportato in Plotkin [2005], p. 25, e in Ebbinghaus e Peckhaus [2007], $ 2.5.3, p. 52). Hausdorff aggiunge di aver scritto a Kénig, in proposito, ma senza ottenere risposta (v. Plotkin [2005], p. 26, e Ebbinghaus e Peckhaus [2007], ca ra ibid.). È possibile che Kénig avesse già raggiunto autonomamente la stessa conclusione. Garciadiego e 340-341, pp. [1985], Garciadiego in trovano si paragrafo questo di 122 Notizie sugli eventi cui si fa riferimento nel seguito

[1992], $$ 5.3-5.4, pp. 137-142. Per ragguagli più accurati su quanto accadde al congresso di Heidelberg, v. anche Grattan-Guinness

[2000], $ 7.2.2, pp. 334-336, Plotkin [2005], e Ebbinghaus e Peckhaus [2007], $ 2.5.3.

270

capitolo 4

(NONE ben ordove z può essere un qualsiasi numero ordinale. Kònig suppone, per assurdo, che il continuo possa essere dinato, in modo da avere un numero ordinale & 4 e prendendo, in (i), N 6+

(i)

NÙO8+ =x 010 Ng

come N,, ricava:

Noro: e

Rpg 123 È x dl: ug e —, K6nig dimostra che, data una proSenza servirsi di (i) — usando però implicitamente l’assioma di scelta” gressione di insiemi privi di elementi in comune @, @, 0, ..., vale il seguente teorema:

No

(iii) Y Noe'a,< DENG i=0

1=0)

cioè, “La somma dei numeri cardinali degli insiemi 4, @, 03, ... è minore della somma degli stessi insiemi elevata alla No”. Ma allora, prendendo X g;;come Nc‘g; in (ili) si ha: RIECNIZA (iv)

X 0+®

< Noto ?

che è in contraddizione con quanto stabilito da (ii). Quindi — secondo Kònig — la supposizione che il continuo possa essere ben ordinato — in modo da avere un alef come numero ordinale — è falsa. La formula (i), su cui si basa la dimostrazione di K6nig era assunta come istanza particolare del seguente teo.

.

.

.

.

.

e;

rema, dimostrato da Felix Bernstein nella sua dissertazione di dottorato (1901 deri NiRISE =N,X2 LE :

tuttavia, la dimostrazione di Bernstein vale solo nel caso in cui e v siano numeri ordinali finiti — una restrizione omessa nella formulazione del teorema nell’edizione originale della dissertazione di Bernstein, ma opportunamente sottolineata nella riedizione del saggio, sui Mathematische Annalen del 1905."°° Già in una lettera del 7 settembre 1904 a Hilbert, Kònig riconobbe che la sua dimostrazione non era valida in generale.'?” Nella versione pubblicata nel 1905 del suo intervento al congresso di Heidelberg, egli ritrattò esplicitamente la sua precedente conclusione, dichiarando di aver provato solo che se la formula di Bernstein è vera in generale, a/lora il continuo non può essere ben ordinato. "5 Sicuramente Ernst Zermelo sapeva della presunta dimostrazione di Kònig, ma dovette essere presto consapevole della sua fallacia,'’° perché il 24 settembre 1904 inviò una lettera a Hilbert, allora direttore dei Marhematische 123 Sull’assioma di scelta, v. sotto, $ 4.

Che

BroSeri

sia uguale a Ng, dipende dal fatto che la somma di due alef diversi è sempre uguale al maggiore dei due: v. sopra,

cap. 1,$ 8.1.2.

12° V. Bernstein [1901], $ 12. 126 V. Bernstein [1901], $ 12, p. 150 (originale, p. 49).

Mm K6nig non cita però Hausdorff come fonte della sua ritrattazione. !28 Vv. Kénig [1905a], p. 180. Abbiamo visto, tuttavia, che la dimostrazione di Kònig fa un uso implicito dell'assioma di scelta; ma l'assioma di scelta non può essere vero se il teorema di Bernstein ha validità generale (e viceversa), perché le due ipotesi, prese insieme, dimostrano che il continuo non può essere ben ordinato, mentre l’assioma di scelta, da solo, implica che il continuo può essere ben ordinato.

‘2° Dauben ([1979], cap. asseriscono che Zermelo diffusa, ma la sua unica 202). Tuttavia, lo stesso risulta — contrariamente

11, p. 249), G. H. Moore ([1982], $ 2.1, p. 87), e Garciadiego ([1985], p. 340, e [1992] $ 5.3, p. 137), tra gli altri, scoprì l’errore nella dimostrazione di Kénig il giorno dopo la sua presentazione al congresso. La notizia è molto fonte sembra essere l'autobiografia di Gerhard Kowalewski (v. Kowalewski [1950], “Berufung nach Bonn”, p Kowalewski non era tra i relatori del congresso di Heidelberg del 1904 (v. E. B. Wilson [ 1905a] e [1905b]), e hori a quanto riferito in Dauben [1979], cap. 11, p. 248 — che vi fosse presente neppure come uditore (lo stesso Ko-

walewski non asserisce di esservi stato). Schoenflies, che invece era presente al congresso, attribuisce la scoperta dell’errore a Hausdorff.

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

271

Annalen, in cui Poma per la prima volta una dimostrazione (basata sull’assioma di scelta) che il continuo può essere ben ordinato. ”’Hilbert pubblicò la parte rilevante della lettera sui Mathematische Annalen;'? in essa, però, non si faceva menzione dell’errore di Kénig. Tra la seconda metà di novembre e il 18 dicembre del 1904 Couturat apprese dal matematico Émile Borel che la dimostrazione di Kénig conteneva un errore e il 18 dicembre lo comunicò a Russell: Sono felice di potervi comunicare un’importante notizia (che devo al mio amico Borel): M. Kénig si è sbagliato nella sua refutazione del teorema di G. Cantor [Couturat si esprime qui in modo improprio: il “teorema” era in realtà una congettura di Cantor], e l’ha riconosciuto lui stesso. D'altra parte, M. Zermelo pubblica nei Math. Annalen una dimostrazione di questo stesso teorema. Ma siccome essa riposa sul calcolo degli “Alef”, alcuni matematici non le attribuiscono più valore che alla refutazione di M. K6nig.'5

La situazione, alla fine del 1904, era dunque la seguente: Hausdorff, K6nig, Hilbert, Zermelo, Borel, Couturat e

Russell sapevano che non vi era contraddizione nel fatto che il primo avesse fornito una dimostrazione della tesi che il continuo non può essere ben ordinato, mentre il secondo aveva dimostrato il contrario — questo semplicemente perché la prova di K6nig non era valida. Ma per molti matematici, soprattutto fuori dalla Germania, le cose erano più confuse: sembravano esserci due dimostrazioni matematiche, pressoché contemporanee, di teoremi contraddittori. Sul numero del 15 novembre 1904 della Revue Générale des Sciences Pures et Appliquées, il matematico francese Jacques Hadamard pubblicò una breve relazione sul congresso di Heidelberg.'#* Pur non potendo fornire un resoconto dettagliato delle relazioni presentate, Hadamard richiamò l’attenzione sul fatto che K6nig sembrava aver dimostrato che il continuo non può essere ben ordinato e che, poco dopo, Zermelo era giunto alla conclusione esattamente opposta — promettendo che sarebbe tornato a discutere il punto. Sul numero del 30 marzo 1905 della stessa rivista, Hadamard ritornò sulla questione," mettendo in rapporto questa (supposta) contraddizione con quelle di Burali-Forti e di Cantor, e affermando che il presentarsi di contraddizioni nell’ambito della teoria cantoriana degli insiemi non era affatto sorprendente, poiché i matematici avevano da sempre dovuto far fronte a conclusioni paradossali quando avevano introdotto nuovi concetti — com'era accaduto, per esempio, nel caso dei numeri incommensurabili, dei numeri negativi e dei numeri immaginari. "5° Poco tempo dopo, stimolato dagli interventi di Hadamard, un professore di matematica al liceo di Digione, Jules Richard, scrisse una lettera a Louis Olivier, allora direttore della Revue Générale des Sciences Pures et Appliquées. Nella lettera, che fu pubblicata nel numero del 30 giugno 1905,'5” dopo aver osservato che «non è necessario giungere fino alla teoria dei numeri ordinali per trovare [...] contraddizioni», Richard espone un nuovo paradosso, insieme con un interessante tentativo di soluzione.

Scrive Richard: Scriviamo tutte le permutazioni delle ventisei lettere dell’alfabeto francese prese due alla volta, mettendo queste permutazioni in ordine alfabetico, poi, di seguito tutte le permutazioni prese tre alla volta, in ordine alfabetico, poi, di seguito tutte le permutazioni prese quattro alla volta, ecc. Queste permutazioni possono contenere la stessa lettera ripetuta più volte, sono permutazioni con ripetizioni.

nel periodo postcongressuale passato a Wengen (v. Schoenflies [1922], p. 101). Questa storia su Zermelo, che in Donati [2003] prendevo per buona, sembra dunque essere una leggenda. Si vedano, in proposito, Grattan-Guinness [2000], $ 7.2.2, p. 334, Plotkin [2005], p. 24 e P. 28, nota 6. Ebbinghaus e Peckhaus ([2007], $ 2.2.3, p. 52) citano tuttavia una lettera di Zermelo a Max Dehn del 29 ottobre 1929 che testi-

monia che Zermelo scoprì da solo l'errore nella dimostrazione di K6nig quando, dopo il congresso, rientrò a Gòttingen (dove all’epoca insegnava, come Hilbert) e poté controllare la dissertazione di Bernstein.

i

|

130 per il teorema del buon ordinamento, v. sotto, $ 4.2.3. Nella lettera, Zermelo dice di aver sviluppato la dimostrazione in seguito a conversazioni con Erhard Schmidt avvenute nella settimana precedente (v. Zermelo [1904], p. 514 (in Zermelo [2010], p. 114, trad. ingl. a fronte, e in van Heijenoort (ed.) [1967], p. 139)); il 24 settembre 1904 era un sabato, quindi Zermelo si riferisce al periodo tra il 12 e il 18 settembre 1904.

!31 v. Zermelo [1904].

132 In Russell [2001a], p. 455. 133 V. Hadamard [1904]. La relazione del 15 novembre

1904 e la successiva nota del 30 marzo

1905 sono anonime. Che l’autore sia Hada-

269-272: mard si evince da una lettera di Hadamard a Émile Borel del 1905, pubblicata in Baire, Borel, Hadamard e Lebesgue [1905], pp. il passo rilevante è a p. 270.

134 V. Hadamard [1904], p. 961, e ibid., nota 4.

!35 v. Hadamard [1905].

136 V. Hadamard [1905], p. 242.

!37 V. Richard [1905].

138 Richard [1905], p. 295.

capitolo 4

202

può Quale che sia l’intero p, ogni permutazione delle ventisei lettere prese p alla volta sarà nell’elenco, e poiché tutto ciò che si scrivere con un numero finito di parole è una permutazione di lettere, tutto ciò che si può scrivere sarà nell’elenco di cui abbiamo appena indicato il metodo di formazione."

Alcune delle permutazioni ottenute — continua Richard — saranno definizioni di numeri reali. Cancelliamo dall’elenco tutte le permutazioni di lettere che non definiscono numeri reali. Considerando, per ogni definizione, il

numero reale da essa definito, e ordinando i numeri reali così ottenuti in modo che il primo numero sia il primo ad

essere definito da una permutazione, il secondo numero sia il secondo ad essere definito da una permutazione, ecc.,"‘ si perviene all’insieme ben ordinato £ di tutti inumeri reali che sono definiti per mezzo di un numero finito di parole. Supponiamo che i numeri reali diversi da 0 che si trovano nell’insieme E siano scritti sotto forma di decimali infiniti.!! Richard forma allora — seguendo il metodo diagonale di Cantor — un numero reale N, diverso da 0, che sicuramente non appartiene all'insieme E: Ecco ora dov'è la contraddizione. Possiamo formare un numero che non appartiene a quest’insieme. “Sia p l'n-esimo decimale dell’n-esimo numero dell’insieme E; formiamo un numero avente 0 come parte intera, e come n-esimo decimale p + 1, se p non è uguale né a otto, né a nove, e l’unità in caso contrario”. Questo numero N non appartiene all’insieme £. Se fosse l’n-esimo numero dell’insieme E, la sua n-esima cifra [decimale] sarebbe l’n-esima cifra decimale di questo numero, cosa che non ai

Ma questo conduce alla seguente contraddizione. Il numero reale N, abbiamo visto, non appartiene all'insieme E; ma poiché il numero N è definito mediante un numero finito di parole — e precisamente le parole poste tra virgolette nella precedente citazione — esso deve, per definizione dell’insieme E, appartenere a E. In conclusione, il numero reale N deve appartenere e insieme non appartenere a E — una contraddizione. Questo è il paradosso di Richard. Veniamo ora al modo in cui lo stesso Richard — nel seguito della sua lettera a Olivier — propone di risolverlo. Il paradosso, secondo Richard, è solo apparente: per dimostrarlo — egli dice — torniamo alle permutazioni iniziali. La definizione di N — chiamiamo “G” quest’espressione — è una permutazione di un numero finito di lettere, e pertanto compare senz'altro nel nostro elenco iniziale di permutazioni. Ma, a questo punto, l’espressione G non definisce ancora nessun numero reale, e quindi è fra quelle che devono essere cancellate. Questo deriva dal fatto che G definisce un numero reale a condizione che si abbia già a disposizione l’intero insieme E. (Se, per esempio, conoscessimo tutti gli elementi di E tranne l’n-esimo, allora non potremmo determinare il numero N attraverso la definizione G, perché il valore della sua n-esima cifra decimale resterebbe

indeterminato.) Quindi, finché l’insieme E non è stato completamente determinato, non possiamo considerare G una definizione di un numero reale. Detto in altro modo, poiché è possibile stabilire quale numero è definito da G solo avendo già precisato tutti gli elementi di E, supporre che il numero definito da G sia esso stesso uno degli elementi di E conduce al circolo vizioso consistente nel determinare il numero definito da G tramite se stesso. Riassumendo: secondo la diagnosi di Richard, l’espressione G definisce effettivamente un numero reale N diverso da ogni elemento di E, ma l’argomento che sembrava provare che N è un elemento di £ si rivela fallace, e quindi non sorge nessuna contraddizione.

All’inizio del suo intervento, Richard suggerisce, pur senza entrare in dettagli, che molte altre supposte contraddizioni della teoria degli insiemi abbiano una forma comune con quella da lui descritta. La soluzione di Richard sarà approvata da Henri Poincaré, che proporrà di considerare tutti i paradossi come originati da circoli viziosi.'* Come vedremo, Russell giungerà, indipendentemente da Poincaré, alla medesima conclusione."

È 1°3 Ibid.

140 Si q; deve intendere ; ESSciò che i: numeriSERATA 3 DET icon ;.; con reali in parola sono ordinati secondo l’ordine di apparizione della loro prima definizione — non “della loro definizione”, tout court. Infatti — sebbene Richard non lo rilevi esplicitamente — è perfettamente possibile che due o più permutazioni di lettere definiscano il medesimo numero reale. !#! Un numerale che ha un numero finito di cifre sarà sostituito dal numerale ottenuto dal primo diminuendo di un’unità l’ultima cifra e fa-

cendo seguire ad essa una parte decimale del numerale costituita da una sequenza infinita di nove (v. sopra, cap. 1, $ 4.1, punto (6)). Ri-

chard non fa esplicitamente questa supposizione, ma è evidente, da quanto dice dopo sul modo di ottenere il numero reale N (l’eccezione per lecifre 8 e 9), che egli suppone che si sia scelto un modo univoco di esprimere i numeri reali in forma decimale infinita. “ Richard [1905], p. 296. 143 V_ sotto, cap.8,$ 4.2.1.

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

273

3.2. IL PARADOSSO DI KONIG

Riconosciuto che la sua prima dimostrazione dell’impossibilità di dare un buon ordinamento al continuo non era valida, Kénig continuò a lavorare sull’argomento. Evidentemente non convinto dalla dimostrazione del contrario fornita da Zermelo, il 20 giugno 1905 — in una conferenza tenuta di fronte all’ Accademia Ungherese delle Scienze — egli fornì una nuova dimostrazione dello stesso teorema, del tutto diversa dalla precedente." Essa si sviluppa come segue. Al massimo un numero infinito numerabile di numeri reali può essere definito con un numero finito di simboli tratti da un elenco finito (per esempio, dalle lettere e dai segni di punteggiatura usati nella lingua italiana). Sia E l’insieme di tutti i numeri reali definibili con un numero finito di simboli (di un certo linguaggio, che supponiamo fissato per tutto il ragionamento). Cantor ha dimostrato che l’insieme di tutti i numeri reali ha la potenza del continuo, cioè ha una cardinalità superiore al numerabile; quindi l’insieme dei numeri reali deve contenere elementi che non sono definibili mediante un numero finito di simboli, cioè non fanno parte di E. Se ora supponiamo che il continuo possa essere ben ordinato, possiamo fissare un buon ordine per tutti i numeri reali. Questo fisserà un buon ordinamento dell’insieme dei numeri reali che non fanno parte di E: avremo dunque un insieme ben ordinato di tutti i numeri reali che non fanno parte di E. Tale insieme — come tutti gli insiemi ben ordinati — deve avere un primo elemento, che sarà dunque il primo elemento che non fa parte di E, secondo il buon ordinamento dato ai numeri reali. Ma da qui segue una contraddizione. Infatti, nell’ordinamento fissato dei numeri reali, i! primo numero reale non definibile attraverso un numero finito di simboli può essere definito attraverso un numero finito di simboli proprio mediante l’espressione posta in corsivo: pertanto tale numero dovrebbe far parte dell’insieme £. Ma questo è assurdo, perché esso è appunto il primo numero reale che non fa parte di E. La conclusione tratta da K6nig è che il continuo non può essere ben ordinato. Si noti che — come rileva lo stesso Kénig'!° — l’argomentazione precedente può applicarsi parola per parola a qualsiasi insieme infinito non numerabile. Se essa fosse corretta, escluderebbe dunque l’esistenza di qualsiasi insieme ben ordinato di cardinalità superiore a quella del numerabile. Così, per esempio, il numero ordinale ®©; — cioè il numero ordinale della classe di tutti i numeri ordinali della seconda classe!” — sarebbe spazzato via insieme al numero ordinale del continuo. Ecco come espone l'argomento Russell in un articolo del 1906 dal titolo “On the substitutional theory of classes and relations”: Una definizione, simbolicamente, consiste in un certo numero finito di segni [marks]. Tali segni devono essere i simboli dei nostri

termini fondamentali indefiniti, oppure parentesi, oppure lettere che stanno per variabili una definizione contenente n segni, non ci possono certamente essere più di n parentesi, ni fondamentali è c, il numero delle definizioni contenenti n segni è dunque certamente di 2n+ c cose [cioè, di n variabili, più rn parentesi, più c simboli per nozioni primitive]

di cui si devono prendere tutti i valori.! In né più di n variabili. Se il numero di nozionon maggiore del numero di permutazioni prese n alla volta. Tale numero è finito; la

somma di tutti questi numeri per differenti valori finiti di n è No. Quindi il numero totale delle definizioni possibili, e dunque il

numero totale dei termini definibili, non può superare No. Ora, il numero cardinale degli ordinali della seconda classe supera No [infatti, esso è N 1]; quindi alcuni di essi devono essere in-

definibili, e tra quelli che sono indefinibili deve essercene uno minimo [si rammenti, infatti, che la serie degli ordinali in ordine di grandezza è ben ordinata].'*

Ma, a questo punto, ci si trova di fronte al paradosso che il primo numero ordinale non definibile della seconda

classe è definibile proprio attraverso la locuzione “Il primo numero ordinale non definibile della seconda classe”. Russell era già arrivato a comprendere questa difficoltà nella primavera del 1905. In una lettera a Jourdain datata 28 aprile 1905, egli scrive infatti: Il numero totale di tutte le entità matematicamente definibili

è Alefy. Perché il numero degli indefinibili è finito; e ogni definizione

è (simbolicamente) una serie finita di indefinibili, in cui ognuno di essi può essere ripetuto un numero finito di volte; ma il numero di tali serie è Alef,. Questo ha bizzarre conseguenze, per es. che tra © e ©) dev’esserci un più piccolo ordinale indefinibile. Non so Sao ale 45) come evitare contraddizioni qui.

145 v. Kénig [1905b], punti 1-3, pp. 146-148. 146 V. Kénig [1905b], punto 4, p. 148.

a nm 147 V. sopra, cap. 1, $ 6.3. sup148 Suppongo che ciascuna definizione sia scritta per esteso, ossia senza usare nessuna definizione preliminare. [Nota di Russell. Egli universale.] quantificazione la attraverso usuale, modo nel pone qui la quantificazione esistenziale definita,

149 Russell [1906c], pp. 184-185.

te

n

|

end

di Kònig — sugge150 In Grattan-Guinness [1977], p. 49. Grattan-Guinness — il primo a rilevare l’anticipazione russelliana del paradosso

capitolo 4

274

Che cosa può esserci di sbagliato nel prendere “l’insieme di tutti inumeri della seconda classe” e nell’ordinarlo secondo la grandezza dei suoi elementi? Kònig propone di rispondere attraverso una distinzione, simile a quella già proposta da Cantor (v. sopra, $ 2.1.3), tra “insiemi” (Mengen) — come molteplicità completate — e “classi” (Klassen) — come molteplicità potenziali: la seconda classe di numeri, per esempio, non sarebbe un “insieme” ma solo una “classe”.!! Così — conclude Kònig — «si potrebbe dire che la presente discussione contiene una dimostrazione che la seconda classe di numeri non può essere considerata come un insieme completato [.. cali ò

L’argomentazione di Kénig, insieme con quella affine che conduce al paradosso di Berry (v. sotto, $ 3.3) furono scoperte — in modo indipendente — nel giugno del 1905 dal matematico inglese Alfred C. Dixon, che le espose in un articolo pubblicato nel 1906. Per questo, talora si parla del paradosso di K6nig-Dixon, o del paradosso di Berry-Dixon. Ma — come Kénig nell’articolo menzionato — neppure Dixon pensò di aver scoperto un paradosso; piuttosto, da queste argomentazioni egli trasse la conclusione che nessun insieme transfinito (neppure quello, numerabile, dei numeri naturali) sia “ben ordinabile” nel senso inteso da Cantor secondo cui ogni sottoinsieme non vuoto di un insieme ben ordinato deve avere un primo elemento, rispetto all’ordine dato, e che dunque il termine “ben ordinato” avesse bisogno di essere ridefinito (Dixon non dice però in che modo).'” In realtà, queste conclusioni di Ké6nig e Dixon appaiono sospette, una volta che si conosca il paradosso di Richard. In quest’ultimo, infatti, il problema del buon ordinamento non gioca alcun ruolo. Eppure una contraddizione scaturisce da un argomento molto simile a quello usato da Kénig.'°° È dunque più probabile che il problema stia altrove e che ci troviamo di fronte a un autentico paradosso. Negli anni successivi, K6nig modificò la sua posizione iniziale: sotto l’influenza crescente di Poincaré, sostenne di aver effettivamente scoperto un paradosso, e infine, alcuni anni prima della sua morte, avvenuta nel 1913, accettò il teorema del buon ordinamento di Zermelo."”

3.3. IL PARADOSSO DI BERRY Il 21 dicembre 1904, George G. Berry"* inviò una lettera a Russell" in cui metteva in questione alcuni punti dei Principles. Nella lettera, Berry dice di non essere soddisfatto del trattamento che Russell riserva, nel suo libro, risce che Russell l’abbia scoperto riflettendo sul paradosso di Berry (v. Grattan-Guinness [1977], p. 50). Berry aveva comunicato a Russell il suo paradosso in una lettera del 21 dicembre 1904.

!5! V. Kénig [1905b], punto 4, p. 148.

°° Ibid. 153 ma nel ma

V. Dixon [1906]. L'articolo fu presentato alla London Mathematical Society il 10 novembre del 1905, e letto il 14 dicembre successivo, in una nota al termine di esso Dixon spiega: «L'idea sulla quale si fonda quest'articolo fu da me presentata in una lettera al dr Hobson

giugno di quest'anno [il 1905], e in una brevissima nota inviata alla Society in luglio. Un referee diede parere negativo su questa nota, rivide la sua opinione dopo aver letto l'articolo di Herr Kénig sulla questione nell’ultimo numero dei Marh. Annalen» (Dixon [1906], p.

20, nota).

!54 La posizione di Dixon secondo cui «[...] neppure l’aggregato dei numeri naturali ha la proprietà che caratterizza gli aggregati ben ordinati secondo Cantor, che ogni aggregato contenuto in uno ben ordinato abbia un primo elemento» (Dixon [1906], p. 19) mi è incomprensibile, perché implica che nella successione dei numeri naturali, posti in ordine di grandezza, vi siano serie infinite decrescenti — cosa im-

possibile, perché ogni numero naturale ha solo un numero finito di predecessori.

55 V. Dixon [1906], p. 19. 15° Si noti che, quando espose per la prima volta il suo argomento, Kònig non poteva conoscere il paradosso di Richard, perché la lettera di Richard non era stata ancora pubblicata.

adVedi G. H. Moore [1982], $ 3.6, p. 183, e Garciadiego [1992], $ 5.6, p. 147, nota 4. ” Di George Godfrey Berry (2 novembre 1866-31 gennaio 1930) si sa che si era laureato al Balliol College di Oxford, e a Oxford lavorava part time alla Bodleian Library, dove aveva un incarico non prestigioso. Tradusse in inglese l’ Introduction aux études historiques (1898) di Charles-Victor Langlois e Charles Seignobos (Introduction to the Study of History, London, Duckworth, e New York, Henry Holt & Co., 1898), e il secondo (1902) e il terzo (1909) volume di Griechische Denker: Eine Geschichte der antiken Philosophie di Theodor Gomperz

(Greek Thinkers: A History of Ancient Philosophy: Volume II, London, John Murray, e New York, Charles Scribner's Sons. 1905: Volume III, London, John Murray, e New York, Charles Scribner’s Sons, 1905; Volume IV, London, John Murray, e New York, Charles Scribner's Sons, 1912 (il secondo volume dell’opera tedesca è suddiviso tra il secondo e il terzo volume dell’edizione inglese)). Berry s’interessava di

matematica per curiosità personale. Fu in amichevole corrispondenza con Russell, il quale lo stimava come uomo di considerevole abilità nella logica matematica (v. in Russell [2014], prefazione all’ Appendice IV, p. 770). In Garciadiego [1992] (appendice, pp. 166-184) sono

pubblicate dieci lettere di Berry a Russell scritte tra il 1904 e il 1910. La trascrizione della simbologia logica di queste lettere, come fiponse ta in Garciadiego [1992], contiene tuttavia diversi errori (v. prefazione all’ Appendice IV di Russell [2014], p. 771), cui ha rimedintà la ripubblicazione delle stesse lettere in Russell [2014], pp. 772-782. In Garciadiego [1992] (appendice, p. 166) è pubblicata anche una breve

nota olografa di Russell alla lettera di Berry del 21 dicembre 1904 in cui il suo primo incontro con Berry è così descritto: «La prima volta

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

219

al paradosso di Burali-Forti; l'osservazione di Berry è che — contrariamente a quanto sostenuto nei Principles — si può dimostrare che la serie di tutti i numeri ordinali dev'essere ben ordinata.! Più oltre, nella sua lettera, Berry propone un nuovo paradosso: Alcuni ordinali, per es., @, ©°, ©° sono definibili in un numero finito di parole. Supponiamo che ci sia un ordinale che non è definibile così. Gli ordinali minori di questo particolare ordinale formano una serie ben ordinata. Quindi, se tra essi ce ne sono alcuni che non sono definibili in modo finito, c’è uno di essi minore di tutti gli altri. Questo primo numero della classe è dunque il primo ordinale che non è definibile in un numero finito di parole. Ma ciò è assurdo, perché io lo ho appena definito in tredici parole.!

In un articolo del settembre 1906 — intitolato “Les paradoxes de la logique” —, Russell pubblicò, per la prima volta, una versione un po’ modificata di questo paradosso, attribuendone la paternità a Berry. La versione modificata di Russell è oggi nota con il nome di “paradosso di Berry”. Un’esposizione più particolareggiata di esso ci è offerta in un successivo articolo di Russell: “Mathematical logic as based on the theory of types” (1908). La riporto qui di seguito (in inglese, per non alterare l’argomentazione originale). The number of syllables in the English names of finite integers tends to increase as the integers grow larger and must gradually increase indefinitely, since only a finite number of names can be made with a given finite number of syllables. Hence the names of some integers must consist of at least nineteen syllables, and among these there must be a least. Hence “the least integer not nameable in fewer than nineteen syllables” must denote a definite integer; in fact, it denotes 111,777.['] But “the least integer not nameable in fewer than nineteen syllables” is itself a name consisting of eighteen syllables; hence the least integer not nameable in fewer than nineteen syllables can be named in eighteen syllables, which is a contradiction.!*

Vediamo di rendere questo paradosso in italiano. Nella nostra lingua, il numero tre, per esempio, ha un nome di una sillaba, e il numero quattordici di quattro sillabe. Esisteranno, naturalmente, diversi modi di specificare un certo numero: per esempio 4.782.969 ha un nome di 25 sillabe — quat-tro-mi-lio-ni-set-te-cen-to-ot-tan-ta-du-emi-la-no-ve-cen-to-ses-san-ta-no-ve —, ma si può specificare anche in 10 sillabe come “la settima potenza di nove”, e nulla vieta che questo numero si possa specificare come, per esempio, il numero di abitanti di una certa città. La cosa essenziale è che devono esservi numeri naturali che non possono essere specificati in italiano con meno di, poniamo, 27 sillabe. Infatti, nella lingua italiana esistono solo un numero finito di sillabe, e quindi può esistere solo un numero finito di espressioni formate con meno di 27 sillabe, mentre i numeri naturali sono infiniti.

Tra i numeri naturali che non sono specificabili con meno di 27 sillabe esisterà certo il più piccolo, poiché, nella successione dei numeri naturali, non esistono serie infinite decrescenti. Ma qui troviamo la contraddizione: il più piccolo numero non specificabile in meno di ventisette sillabe è specificabile — proprio attraverso la descrizione posta in corsivo — in meno di 27 sillabe: dovrebbe dunque essere, e insieme non essere, specificabile in meno di 27 sillabe. Il paradosso, come si intuisce, è collegato con quelli di K6nig e di Richard, ma è ancora più semplice. In esso non si fa questione del buon ordinamento di insiemi più che numerabili: il paradosso sorge già dal buon ordinamento dei numeri naturali in ordine di grandezza.

che venne a trovarmi a Bagley Wood egli recava, a mo” di biglietto da visita, un pezzo di carta sul quale notai le parole: “L’asserzione sull’altro lato del foglio è falsa”. Lo girai e trovai le parole: “L’asserzione sull’altro lato del foglio è falsa”. [Evidentemente, Russell ha qui un trascorso di penna: una delle due asserzioni doveva essere “L'affermazione sull’altro lato del foglio è vera”, altrimenti non sorge alcun paradosso. Di fatto, si può dimostrare che, data una successione finita di enunciati, x, Y}, V2; +-+» Yn % CIASCUNO dei quali afferma o nega la verità di quello immediatamente successivo, e dove il penultimo afferma o nega il primo, il paradosso del mentitore sorge se e solo se il numero degli enunciati che negano la verità del successivo è dispari (in proposito, v. Giaquinto [2002], parte III, cap. 3, pp. 100-102.] Passammo quindi a una garbata conversazione» (in Garciadiego [1992], appendice, p. 166). 159 Ora in Garciadiego [1992], appendice, pp. 166-167, e in Russell [2014], pp. 772-773. Do 3 EAd 160 V_ in Garciadiego [1992], appendice, p. 167, e in Russell [2014], p. 772. 16! In Garciadiego [1992], appendice, pp. 167-168, e in Russell [2014], p. 773. Il brano è già riportato in Garciadiego [1985], p. 339.

$ III, p. 210. 162V_ Russell [1906d],

[ENLI

St o

163 Come rilevato da R. Mark Sainsbury ([1979]), l'affermazione di Russell secondo la quale ilpiù piccolo numero non nominabile (in inglese) con meno di diciannove sillabe dovrebbe essere 111.777 è doppiamente fuorviante. Scrive Sainsbury: «For one thing, given that the di LR relevant language is English, a larger number is denoted by “the cost in pounds of World War Il pae è un'espressione di meno in sane nameable not integer least the expression the by denoted is nothing that shows itself paradox the nove sillabe]. For another thing,

ruolo nella derivathan nineteen syllables”» (Sainsbury [1979], cap. 8. $ 6, p. 311). Tuttavia, quest’affermazione di Russell non ha alcun

zione del paradosso, e può essere tranquillamente espunta.

164 Russell [1908], $ I, p. 60.

capitolo 4

276

3.4. IL PARADOSSO DEL MENTITORE È Questo paradosso è antichissimo. Fu escogitato, pare, nel IV secolo a. C. dai filosofi della scuola megarica, dibattumolto fu e Paolo,” san di un’epistola menzionato da Cicerone,!°° se ne trova una versione involontaria in

to dai logici medioevali. Dopo la scoperta dei paradossi logici e semantici che abbiamo esposto, il paradosso del mentitore fu ripreso da Russell, il quale vi scorgeva una difficoltà simile a quella che affetta gli altri paradossi. Nel 1908, Russell lo espone così: Epimenide il cretese disse che tutti i cretesi erano bugiardi, e tutte le altre affermazioni fatte da cretesi erano certamente menzogne. Questa era una menzogna? La forma più semplice di questa contraddizione è offerta dall’ uomo che dice “Io mento”; se mente, allora dice la verità, e viceversa.!9

Questa versione — che riprende quella involontaria di san Paolo — ha dato origine al nome di “paradosso di Epimenide”, con il quale l’antinomia è anche nota. In tale versione ci sono degli elementi non essenziali: il riferimento a parlanti, alle loro intenzioni di dire il vero o il falso, al tempo, ecc. Il paradosso sorge anche semplice-

mente considerando l’enunciato “Quest’enunciato è falso”: esso è vero o è falso? Supponiamo che sia vero; allora è vero ciò che esso dice, cioè che quest’enunciato è falso: dunque l’enunciato è falso. Supponiamo che sia falso; allora è falso ciò che esso dice, cioè è falso che quest’enunciato è falso: dunque l’enunciato è vero. Da ogni possibilità segue il suo opposto: una contraddizione. Nel passato, alcuni avevano proposto di sbarazzarsi del paradosso argomentando che se in “Quest’enunciato è falso” cerchiamo di sostituire al deittico “quest’enunciato” il nome dell’effettivo enunciato cui il deittico si riferisce, ci troviamo coinvolti in un regresso all’infinito: da che si concluderebbe che “Quest’enunciato è falso” non dice, in realtà, nulla di definito. Infatti, che cosa denota l’espressione “Quest’enunciato” in “Quest’enunciato è falso”? L’enunciato stesso. Ma sostituendo al deittico il nome di ciò che esso denota otterremmo: ““Quest’enunciato è falso’ è falso”, che contiene ancora al suo interno il deittico “quest’enunciato”. Soluzioni del genere non colgono però il nocciolo dell’antinomia. Quest'ultima, infatti, può essere formulata senza fare nessun ricorso a deittici. Il 12 maggio del 1905, Russell scrisse a Couturat una lettera in cui espone il paradosso del mentitore in quella che dice esserne “la forma migliore”: Eccone la forma migliore: sia k la classe delle proposizioni che afferma una certa ste prop. affermi che c’è almeno una prop. nella classe k che è vera. Supponete persona durante il tempo 1 siano vere. Non c’è dubbio che tutte queste condizioni ra: è vero 0 falso che c’è tra queste Prop almeno una che non è vera? Se sì, non che non è vera; [allora la proposizione è vera e] dunque, esse sono tutte vere. Ma vere è vera; dunque esse non sono tutte vere [segue una derivazione simbolica del

persona nel tempo f; e supponete che una di queancora che tutte le altre prop. che afferma questa possano realizzarsi in pratica. Cì si domanda allopuò essere che quella che afferma che ce n’è una allora quella che afferma che esse non sono tutte paradosso].'°°

In questa derivazione non è implicato l’uso di deittici. Nel suo commento a questa formulazione del paradosso, Russell osserva che: (1) £ è una classe finita e dunque questa contraddizione non ha nulla a che fare con l'infinito: (2) che il paradosso si può riformulare sostituendo la proprietà @ alla classe X e dunque esso non richiede essenzialmente la nozione di “classe”. Un altro metodo per verificare che il paradosso non dipende dall’uso di deittici è indicato, per es., da Evert W. Beth nel $ 159 del suo libro The Foundations of Mathematics, dove si riporta la seguente asserzione: e L’asserzione, fatta nel libro “The Foundations “L’asserzione... è falsa”, è falsa.!”

of Mathematics”

di Evert W. Beth, Sezione

159, e che recita

5 Forse da Eubulide di Mileto, attivo intorno alla metà del IV secolo a. C. La fonte è Diogene Laerzio, Vite dei filosofi illustri, Il, 108. a Academica, IV, 29, 96: «Se tu dici che menti, o dici il vero e allora menti o dici il falso e allora dici la verità».

Come notò Russell, san Paolo non è consapevole di enunciare un paradosso. Riferendosi (probabilmente) a Epimenide, un cretese vissu-

to nel VI secolo a. C., san Paolo scrive, nella sua Lettera a Tito (1, 12-13): «Uno di essi, anzi un loro profeta, disse: “Cretesi, sempre bu-

ci

bestie cattive e ventri voraci”. Questa testimonianza è vera; perciò riprendili con severità, affinché conservino una fede sana IIS

Russell [1908], $ I, p. 59.

‘°° In Russell [2001a], pp. 498-499. 170 Beth [1959], $ 159, p. 485.

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

210

Poiché questa è l’unica asserzione che si trova nel $ 159 del libro di Beth che soddisfa i requisiti, essa si riferisce a se stessa e, poiché dice di essere falsa, si deve nuovamente concludere che essa è vera se e solo se è falsa. dr paradosso non sia dovuto a un regresso all’infinito, si può verificare anche con un metodo dovuto a Quine. ©Prendiamo l’enunciato seguente:

(1)

“Non genera un enunciato vero quando si aggiunge alla citazione di se stesso” genera un enunciato vero quando si aggiunge alla citazione di se stesso.

Quest’enunciato specifica una serie di tredici parole e dice che, se la scriviamo due volte, chiudendo tra virgolette la prima delle due occorrenze, il risultato è un enunciato vero. Dunque, se (1) è vero, deve essere vero: (2)

“Non genera un enunciato vero quando si aggiunge alla citazione di se stesso” non genera un enunciato vero quando si aggiunge alla citazione di se stesso;

ma (2) è la negazione di (1). Quindi, se (1) è vero, allora è falso. Se (1) invece è falso, allora deve essere falso (2), ma allora (1) deve essere vero, perché esso è la negazione di (2). Dunque, (1) è falso se e solo se è vero. Un altro tentativo di eliminare il paradosso potrebbe essere quello di ammettere che ci siano enunciati che non sono né veri né falsi. Ma si consideri l’ enunciato seguente:

e Quest’enunciato è falso o privo di valore di verità. Se esso è vero, allora è falso o privo di valore di verità; se è falso o privo di valore di verità allora è vero. Abbiamo dunque ancora il paradosso, in una forma allargata. Un tentativo ancora diverso di eliminare il paradosso potrebbe consistere nello stipulare che nessun enunciato possa riferirsi a se stesso. Ma, come nota Russell nella stessa lettera a Couturat del 12 maggio 1905 sopra citata, ciò dà origine a una nuova difficoltà: Si crede dapprima di poter risolvere questa contraddizione dicendo che una prop. [proposizione] che afferma che una qualità [qualité] qualsiasi appartiene a tutti i termini [fermes: qui s'intende “membri”] di una classe non debba essere essa stessa un termine di questa classe. Ma ne seguirebbe che non si può affermare niente a proposito di tutte le prop. o di tutti gli esseri, per esempio “p >y p’ e “x=:X [tutte le proposizioni sono vere” e “ogni cosa è uguale a se ga sarebbero prive di senso. Questo renderebbe impossibile la logica e la filosofia. Bisogna dunque trovare un’altra soluzione.“

Sembra dunque non esistere un modo semplice di bloccare quest’antinomia, alla quale Russell attribuì sempre molta importanza, vedendo in essa l’archetipo di tutte le antinomie. Già nella Ialii

lettera a Couturat, Rus-

sell scrive: «Si possono, credo, ridurre tutte le forme della contraddizione a questa». ‘ All’epoca, egli non ha ancora una proposta di soluzione, ma suggerisce un’idea: «Mi sembra risultarne che la soluzione debba trovarsi in un circolo vizioso [cercle vicieux] che racchiudono certe Df che non ne hanno l’aria. Ma non so ancora precisare quest’idea».!”* Come vedremo nei prossimi capitoli, sarà proprio sulla base di quest’intuizione che Russell, infine, elaborerà la sua soluzione definitiva alle antinomie.

3.5. IL PARADOSSO DI GRELLING Questo paradosso fu scoperto nel 1907 da Kurt Grelling'” e pubblicato in un articolo del 1908.!”° Frank P. Ramsey!” e Paul Weiss!” lo attribuiscono a Hermann Wegyl, il quale, però, lo ascrive a Russell — forse identifi-

171 !72 173 Ni !75 176 177 178

y, per esempio, Quine [1953c], $ 2, pp. 133-134, e Quine [1962], p. 9 (2° ediz.: p. 7). In Russell [2001a], p. 499. Ibid. ubidi V. Peckhaus [1995], p. 377. v_ Grelling e Nelson [1908], p. 307. V. Ramsey [19262], $ I, p. 20, $ II, p. 27, $ III, p. 42. V_P. Weiss [1928], p. 69 e p. 72.

capitolo 4

278

c

S

3

È

179 c c 5 a Russell non menziona però quest’antinomia fino candolo con la versione intensionale del paradosso di Russell.‘ così: descrive al 1940, quando, in An Inquiry into Meaning and Truth, la

non è Un predicato è “eterologico” [heterological] quando non può essere predicato di se stesso; così “lungo” è eterologico poiché una parola lunga, ma “corto” è omologico [homological]. [In una nota a piè pagina inserita a questo punto, si legge: «Tedesco, istruito, stupendo sono eterologiche: English, erudito, sgradevole [ug/y] sono omologiche».] Chiediamo ora: “eterologico” è etero-

. logico? Entrambe le risposte conducono a una contraddizione'*°

L’argomento è dunque il seguente. Definiamo un aggettivo — cioè una parola — “eterologico” se e solo se la proprietà che esso esprime in italiano non è una proprietà della parola stessa. Per esempio, “nuovo”, “lungo”, “i nutile”, “inglese”, “monosillabo”, “sconosciuto” sono aggettivi eterologici, perché la parola “nuovo” non è nuova, la parola “lungo” non è lunga, la parola “inutile” non è inutile, la parola “inglese” non è inglese, la parola “monosillabo” non è un monosillabo e la parola “sconosciuto” non è sconosciuta. Chiamiamo “omologico” ogni aggettivo non eterologico, cioè tale che la proprietà che esso esprime in italiano è una proprietà della parola stessa. Per esempio, “vecchio”, “breve”, “utile”, “italiano”, “polisillabo”, “conosciuto” sono omologici, perché la parola “vecchio” è in effetti una vecchia parola, “breve” è una parola breve, la parola “utile” è utile, la parola “italiano” è italiana, la parola “polisillabo” è polisillaba e la parola “conosciuto” è conosciuta. Poiché “eterologico” è un aggettivo italiano, proviamo a chiederci se l’aggettivo “eterologico” è eterologico o omologico. Da entrambe le possibilità deriva l’opposto: una contraddizione. Supponiamo dapprima che “eterologico” sia eterologico: allora la proprietà che l’aggettivo esprime si applica all’aggettivo stesso, e dunque, per definizione, l'aggettivo è omologico. Se dunque “eterologico” è eterologico, allora è omologico. Supponiamo allora che “eterologico” sia omologico: allora, per definizione, la proprietà che l’aggettivo “eterologico” esprime deve applicarsi all’aggettivo stesso; cioè dev'essere vero che “eterologico” è eterologico. In sintesi: se “eterologico” è omologico, allora è eterologiCOL

Il paradosso di Grelling — a differenza di quello di Russell — è un paradosso semantico: infatti, la proprietà di essere eterologico è la proprietà di tutte le parole di una certa lingua che esprimono — in quella lingua — una proprietà che si applica alla parola stessa. Il concetto semantico di significato è dunque essenziale per la sua derivazione. Ciò, tuttavia, non cancella l’evidente analogia strutturale con il paradosso di Russell: all’origine di quest’ultimo abbiamo la classe di tutte le classi che non appartengono a se stesse (o la proprietà di tutte le proprietà che non sono proprietà di se stesse), mentre all’origine del paradosso di Grelling abbiamo la parola che descrive tutte le parole che non descrivono se stesse. Quest’analogia induce a non liquidare troppo frettolosamente l’idea dei Principia Mathematica — opposta a quella oggi standard — secondo cui all’origine dei paradossi sia logici sia semantici si celerebbe il medesimo genere di fallacia.

4. L’ASSIOMA DI SCELTA Nei primi anni del Novecento, alla tesi logicista si pose un altro problema: quello costituito dal cosiddetto “assioma di scelta”. L'assioma dice che, data una qualsiasi classe di classi non vuote, x; è possibile scegliere da ciascuna delle classi che sono membri di x un unico elemento, formando con gli elementi scelti una classe; in altre parole, l'assioma afferma che esiste sempre almeno una sottoclasse della somma logica dei membri di x che ha

uno e un solo elemento in comune con ciascun membro di x Per il logicismo la matematica pura è uno sviluppo della logica; ne segue che le verità matematiche devono essere verità logiche e le falsità matematiche devono essere falsità logiche. L'assioma di scelta è un enunciato matematico, da cui conseguono importanti teoremi. Si direbbe dunque che un logicista debba sostenere che l’assioma di scelta e i teoremi che ne conseguono, se sono veri, devono essere logicamente veri e se sono falsi devono essere logicamente falsi. Il problema era che l’assioma di scelta non sembrava esso stesso un principio logico, né sembrava derivabile da altri principi logici. Oggi anzi sapLEA Weyl [1918], cap. 1, p. 19. Anche Sainsbury ([1979], cap. 8, $ 6, p. 312) attribuisce il paradosso a Russell, citando i luoghi in cui. nei

Principles, questi espone la versione intensionale del suo paradosso (Russell [1903a], $ 78, p. 80; $ 96, p. 97; $ 101, p. 102) È molto dite

sa, e

te, l’asserzione sbagliata (che riportavo anche in Donati [2003]) secondo cui Russell non avrebbe mai menzionato il parados-

so 1992) di Grelling CER — una supposta circostanza dalla a quale sia ua evince che egli della sua g non sapesse esistenza (v., per pesse della er esempio, esempi sua esistenza arciadi Garciadiego

1 Russell [ 1940], cap. 5, p. 79. Russell non menziona Grelling, e non attribuisce il paradosso a nessun autore in particolare. Per una versione formale di questo paradosso, v. sotto, cap. 12, $ 2.5.

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

279

piamo, grazie al lavoro di Kurt Gédel e di Paul J. Cohen,!8° che esso effettivamente non è né refutabile né dimostrabile, sulla base di principi logici riconosciuti, o di altri assiomi generalmente accettati della teoria degli insiemi. La difficoltà è diversa da quella posta dai paradossi, ma c’è un legame tra esse. I paradossi costringono ad ammettere che alcuni principi apparentemente autoevidenti non possono essere davvero principi logici, perché conducono a contraddizioni,

e dunque sono falsi. Il problema costituito dall’assioma di scelta è che, posto che si rie-

scano a eliminare le falsità dai principi apparentemente autoevidenti, ottenendo così un sistema logico coerente, questo sistema non sembra sufficiente per derivare l’intera matematica corrente." Nella stessa direzione punta la questione posta da un’altra celebre congettura matematica, di cui indicheremo le connessioni con l’assioma di scelta: l’ipotesi del continuo.'8* All’inizio del Novecento, anche l’ipotesi del conti-

nuo resisteva a tutti i tentativi di dimostrazione e confutazione. Quello di dimostrarla fu il primo della celebre lista di problemi proposti da Hilbert al Secondo Congresso Internazionale dei Matematici, tenutosi a Parigi tra il 6 e il 12 agosto del 1900. Ancora dal lavoro di Gòdel e di Cohen," oggi sappiamo che anche l’ipotesi del continuo non è né refutabile né dimostrabile, sulla base di principi logici riconosciuti, o di altri assiomi generalmente accettati della teoria degli insiemi, neppure se si aggiunge ad essi l’assioma di scelta. Vedremo adesso che cosa affermi l’assioma di scelta e come esso si connetta con alcuni risultati matematici già noti a Russell nel 1904. Esamineremo poi l’opinione di Russell sull’argomento e la strategia attraverso la quale egli propone di superare il problema in un quadro logicista.

4.1. CHE COS'È L’ASSIOMA DI SCELTA L’assioma di scelta fu enunciato per la prima volta da Ernst Zermelo in una lettera a Hilbert del 24 settembre 1904 — pubblicata in estratto nei Mathematische Annalen del dicembre 1904! — nella quale egli dimostrava, basandosi su di esso, il cosiddetto teorema del buon ordinamento, secondo il quale ogni insieme, di qualsiasi cardinalità, può essere ben ordinato.

Tra la seconda metà dell’Ottocento e il 1904 il principio enunciato nell’assioma era stato molte volte utilizzato inconsapevolmente dai matematici. Lo usa spesso Cantor; per es.: nella sua dimostrazione che il limite di ogni progressione di numeri della seconda classe di numeri è ancora un numero della seconda classe di numeri;'” nella dimostrazione che un insieme che ha numero cardinale 4 X v è cardinalmente simile alla somma logica di v insiemi, privi di elementi

in comune,

ciascuno costituito da

elementi;'* nella dimostrazione che ogni insieme

transfinito (cioè, non induttivo) ha almeno un sottoinsieme numerabile;'*° nella (supposta) dimostrazione che tutti i numeri cardinali transfiniti sono alef, e quindi sono confrontabili.!”

Dimostrazioni — implicitamente assumenti l’assioma di scelta — che ogni insieme infinito (nel senso di “non induttivo”) ha almeno un sottoinsieme numerabile, si trovano anche nelle Lecons sur la théorie des fonctions e [1966], capp. 3 e 4. e Cohen [1963], 182V_ Gòdel [1938], [1939] e [1940],

i

i

|

183 Che l’assioma di scelta sia necessario per dimostrare molti teoremi matematici che, tuttavia, non sono equivalenti ad esso (cioè che non implicano a loro volta l’assioma), può in molti casì essere dimostrato grazie alla tecnica del forcing, messa a punto da Paul J. Cohen all’inizio degli anni Sessanta del Novecento per dimostrare la coerenza dei sistemi assiomatici per la teoria degli insiemi con la negazione dell’assioma di scelta e dell’ipotesi del continuo. La tecnica del forcing permette di determinare in modo rigoroso la forza di molti enunciati della teoria degli insiemi, cosicché, laddove prima che questa tecnica fosse messa a punto, per es., dato un enunciato P la cui dimostra-

zione dipenda dall’assioma di scelta, ma che non sia equivalente ad esso, si poteva solo dire che non era stato possibile scoprire nessun metodo per dimostrare P senza ricorrere all’assioma di scelta (0 a un principio equivalente) — raggiungendo così una certezza solo empirica della dipendenza di P dall’assioma di scelta —, in seguito la tecnica di Cohen permise in molti casi di dimostrare l’inesistenza di un metodo di dimostrazione di P che non ricorra all’assioma di scelta (o a un principio equivalente). Un discorso analogo vale per l’ipotesi del

continuo. 184 Sull’ipotesi del continuo, v. anche, sopra, cap. 1, $ 6.3.

185 V_ Gòdel [1938], [1939] e [1940], e Cohen [1963-64], e [1966], capp. 3 e 4.

Da ni wa i 186 v. Zermelo [1904]. Hilbert era all’epoca direttore dei Mathematische Annalen. da chiaramente spiegato è teorema questo di dimostrazione nella entra scelta di l’assioma cui in modo Il 198. p. 12, $ 187 V_ Cantor [1883b], Russell in una lettera a Jourdain del 30 aprile 1909 (v. in Grattan-Guinness [1977], p. 116). Cantor si serve del teorema per dimostrare che

vi sono numeri ordinali superiori a ogni numero della seconda classe. Abbiamo esposto quest’ultimo teorema nel cap. 1, $ 6.3.

190 V. Cantor [1899b], p. 410 (in Cantor [1932], p. 447). Abbiamo esposto l’argomentazione di Cantor sopra, nel $ 2.1.3.

capitolo 4

280

(1898) di Émile Borel,"! e (nel simbolismo di Peano) nella sezione dovuta a Russell dell’articolo di Whitehead

“On cardinal numbers” (1902)!’° — dove il teorema è poi sfruttato per dimostrare l'equivalenza delle definizioni di “infinito” come “non induttivo” e come “riflessivo” di cui abbiamo parlato nel cap. 2, $ 5.4.1 Nella parte dovuta a Whitehead dell’articolo menzionato, l’assioma di scelta è ancora implicitamente assunto nella teoria della moltiplicazione, sotto forma della tacita assunzione che la classe moltiplicativa,""* di una classe di classi non vuote prive di elementi in comune non sia mai vuota.” Fa un uso inconsapevole dell’assioma di scelta anche la presunta dimostrazione che il continuo non può essere ben ordinato presentata da K6nig nel 1904 al Terzo Congresso Internazionale dei Matematici (v. sopra, S$:321): Peano, invece, già in un suo articolo del 1890 sulle equazioni differenziali, aveva esplicitamente rifiutato di far uso in una dimostrazione del principio asserito nell’assioma di scelta, ritenendo evidente che «non si può applicare un’infinità di volte una legge arbitraria con la quale a una classe a si fa corrispondere un individuo di tale clas-

se».!° Più tardi, anche Rodolfo Bettazzi ([1892b] e [1896])!”7 e Beppo Levi ([1902])'* avevano respinto la validi-

tà generale del medesimo principio. 191 V. Borel [1898], cap. 1, pp. 12-13. Il libro di Borel contiene altri usi impliciti dell’assioma di scelta (v. G. H. Moore [1982], $ 1.7, pp. 65-66): per es., nella dimostrazione del teorema secondo cui un insieme numerabile di insiemi, ciascuno della potenza del continuo, ha anch'esso la potenza del continuo (v. Borel [1898], cap. 1, p. 16).

192 V. Whitehead [1902], $ III (Russell [1902b]), *2.6, p. 380. Come puntualizza Whitehead nella prefazione dell’articolo, la sezione III dell’articolo «è integralmente dovuta a Russell, ed è scritta interamente da lui» (Whitehead [1902], prefazione, p. 368). 193 V. Whitehead [1902], $ III (Russell [1902b]), *2.75 e *2.76, p. 380. Nella stessa sezione dell’articolo di Whitehead, Russell esplora le

conseguenze dell’assumere, come assioma, che ogni classe infinita (non induttiva) sia l’unione di una classe di classi numerabili prive di elementi in comune (v. Whitehead [1902], $ INI (Russell [1902b]), *4.3, p. 381): un principio che poi si scoprirà essere implicato dall’assioma di scelta (ma non equivalente ad esso). Da quest’assioma Russell ricava alcuni teoremi, che più tardi si dimostreranno essere tutti implicati dall’assioma di scelta (ma non equivalenti ad esso); per es.: (1) Se a è un numero cardinale infinito, allora c'è un numero cardinale b tale che a= db X Xo (ibid. *4.31, p. 382); (2) se a è un numero cardinale infinito, allora a+ a= a (ibid. *4.32, p. 382): (3) se a è un numero cardinale infinito, allora a Xx Xo= a (ibid. *4.33, p. 382); (4) se a è un numero cardinale infinito, e b< a, allora a+ b= a (ibid. *4.38, p. 382). Vedi G. H. Moore [1982], $ 1.7, pp. 72-73. 194 Whitehead definisce la classe moltiplicativa, 4°, di una classe, d, solo nel caso che d sia una classe di classi mutuamente esclusive (si

tratta dunque di una definizione condizionata, o definizione sotto ipotesi, nello stile di Peano: parleremo di questo genere di definizioni nel cap. 7, $ 4). Secondo la definizione di Whitehead, se d soddisfa l’ipotesi, d* è la classe di tutte le classi ciascuna delle quali ha esattamente un elemento in comune con ciascun membro di d e che sono sottoclassi dell’unione dei membri di d — cioè sono interamente costituite da elementi degli elementi di d (v. Whitehead [1902], $ IV, +6.0, p. 383). La definizione è simile a quella che abbiamo dato sopra, nel cap. 2,

$ 3.5.3 — la differenza essendo solo che la classe moltiplicativa di una classe di classi x'era definita, nel cap. 2, anche nel caso che i membri di xnon siano mutuamente esclusivi. 195 V. Whitehead [1902], $ IV. La tacita assunzione che la classe moltiplicativa, d*, di una classe, d, di classi mutuamente esclusive sia la classe vuota solo se uno dei membri di d è la classe vuota — ciò che equivale all’assioma di scelta — consente a Whitehead di dimostrare, per es., che la somma logica dei membri di d° è uguale alla somma

logica dei membri di d (v. Whitehead [1902], $ IV, *6.21, p. 384), e

che, se f è una classe di classi mutuamente esclusive, alloraf°= d° se e solo se f= d (v. Whitehead [1902], $ IV, *6.22, p. 384). Questi teoremi sono, a loro volta, equivalenti all’assioma di scelta, e quindi tali che da ciascuno di essi si può inferire sia l’assioma *4.3 proposto da Russell nella sua sezione dell’articolo (secondo cui ogni classe infinita (non induttiva) è l’unione di una classe di classi numerabili prive di anni in comune), sia i teoremi da esso ricavati (v. sopra, nota 193). Vedi G. H. Moore [1982], $ 1.7, pp. 73-74. Peano [1890b], deuxième partie, $ 7, p. 210 (Peano 1957-59], p. 150). Peano argomenta più ampiamente il suo rifiuto dell’assioma di scelta in [1906a] [1906b], $ 1. Egli obietta che un ragionamento che presuppone la scelta di n elementi arbitrari successivi equivale a un

ragionamento con n + | ipotesi; dunque, conclude Peano, non possiamo porre n = infinito, perché questo ci darebbe un argomento con infinite ipotesi. à 197 Il brano pertinente di Bettazzi [1892b] è molto interessante per la sua lucidità; scrive Bettazzi:

«Dato un gruppo [Bettazzi chiama gli insiemi “gruppi”] di punti può prendersi ad arbitrio un punto in esso, od in una sua parte, od in un numero finito di sue parti. Ma quando occorre considerare infiniti sottogruppi [sc. sottoinsiemi] di esso e costruire un gruppo formato sce-

gliendo in ciascuno di un gruppo ad arbitrio tutti in date classi. Ciò nizione di uno o di un possibile solo quando

quei sottogruppi un punto qualunque senz’altra condizione [...] non basta dire che si forma questo gruppo prendendo per ciascuno di quei sottogruppi, non potendosi ritenere come determinato un numero infinito di enti scelti ad arbitrio risulta chiaro quando si pensi che il darli ad arbitrio equivale a definirli separatamente uno ad uno, senza che la definumero finito qualunque di essi possa servire a determinare uno dei restanti — il che [cioò, il definirli a uno a uno] è sono in numero finito. In casi consimili conviene dunque prendere, se si vuole, ad arbitrio alcuni di quei punti, ma in

numero finito, e per gli infiniti altri assegnare una legge costante, la quale applicata ad uno qualunque di quei sottogruppi permetta di defi-

nire in esso un punto che sarà quello che prenderemo in quel sottogruppo [...] : Perché dato un gruppo arbitrario G si potesse formare un gruppo costituito da un punto, qualunque sia, per ciascuno di infiniti determinati

sottogruppi di G, occorrerebbe aver risolta la questione: Dato un gruppo di punti, indicare una legge applicando la quale a un gruppo,

ne

venga determinato un punto, e ciò qualunque sia il gruppo dato. — Nello stato attuale della teoria dei gruppi, di questo a sì a h “ne cao ui sa una legge nec ave E un gruppo si determini un punto (del resto quai i PEN do » 81 può dire ch per tutti 1 gruppi è nota una legge di scelta [poco dopo, Bettazzi osserva che una legge di scelta si può indicare per gli insiemi finiti o numerabili — aggiungendo, tra parentesi: «e ch’io mi sappia, per essi soli» —

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

281

Zermelo, per parte sua, riteneva l'assioma da lui introdotto come una verità indubitabile: nel suo articolo del o 5 DR nona 199 A

È 1904 egli lo chiama «principio logico».

DA 5 Potremmo aspettarci che Russell facesse sua con decisione quest’idea,

considerata la sua posizione logicista, e considerato che egli stesso aveva inavvertitamente usato in precedenza il principio incorporato nell’assioma; invece, dopo il 1904 egli sostenne che l’assioma non era affatto evidente e sol-

levò dei dubbi sulla sua verità. Per dimostrare il teorema del buon ordinamento, nel suo articolo del 1904?” Zermelo assume un principio che si può parafrasare come segue: (A)

Se @è

una classe qualsiasi, sia xla classe di tutte le sottoclassi non vuote di & (cosicché a stessa è un ele-

mento di x). Allora esiste una relazione S che “sceglie” uno e un solo elemento da ciascuna classe che è membro di x; cioè, esiste una relazione uno-molti S il cui dominio inverso è costituito dagli elementi di xe

tale che, se x ha la relazione S con un elemento £di x allora x e 8.20" a

I AEO AE

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grazie al fatto che essi possono essere ben ordinati (ibid.)]» (Bettazzi [1892b], punto 1, p. 176). Quattro anni dopo, in [1896], Bettazzi critica la dimostrazione di Dedekind (egli cita il punto 159 di Dedekind [1888], $ 14) che ogni in-

sieme (Bettazzi, anche qui, parla di “gruppo”) non induttivo è riflessivo (v. sopra, cap. 2, $ 5.4, e sotto, $ 4.2.2), obiettando che essa richiede di «scegliere ad arbitrio un ente (corrispondenza) in ciascuno di infiniti gruppi, il che non pare rigoroso; a meno che non si voglia ammettere per postulato che tale scelta possa farsi, la qual cosa peraltro ci sembrerebbe inopportuna» (Bettazzi [1896], p. 512, nota). È probabile che nel suo rifiuto di una determinazione ottenuta attraverso un numero infinito di scelte arbitrarie Bettazzi sia stato influenzato da Peano, che all’epoca era suo collega d’insegnamento all’Università e all’Accademia Militare di Torino e con il quale Bettazzi collaborò, firmando una sezione del primo volume del Formulario di Peano (v. Peano [1895a], VID.

!°5 Si legge talora che Beppo Levi avrebbe formulato l’assioma di scelta due anni prima di Zermelo, in Levi [1902] (v., per es., Jean van Heijenoort nella sua introduzione alla trad. inglese di Zermelo [1904] pubblicata in van Heijenoort (ed.) [1967], p. 139). Non è così (v. B. Moss [1979] e G. H. Moore [1982], $ 1.8, pp. 78-80). È possibile che, all’origine del mito, vi sia un passo piuttosto enigmatico di Fraenkel e Bar-Hillel [1958] (cap. 2, $ 4.1, p. 48 (nella seconda ediz., p. 57), terzo capoverso e nota 2) —

v. B. Moss [1979], p. 55, e G. H. Moore

[1982], $ 1.8, p. 80. Ciò che effettivamente fa Levi nell’articolo menzionato, è rifiutare di assumere senza una dimostrazione — come egli rimprovera a Bernstein ([1901]) — l’asserto, oggi noto come principio di partizione, secondo cui un insieme (Levi usa anche il termine

“aggregato”’) S di insiemi non vuoti disgiunti (cioè privi di elementi in comune: Levi usa il termine staccati”) ha sempre un numero cardinale (Levi utilizza il termine cantoriano “potenza”) minore o uguale all’unione A degli insiemi s che sono in S (v. Levi [1902], $ I, p. 864). In proposito, Levi scrive: «Dissi che, se A è ben ordinato, la proposizione si può dimostrare: la dimostrazione, per quanto semplice, può forse valere a rischiarare la questione. L’insieme A essendo ben ordinato, ogni insieme s (parte di A) avrà un elemento a, primo nell’ordinamento di A; e poiché gli s sono staccati, questo elemento non appartiene ad altri s. Fra gli s e i loro primi elementi (o gli elementi di un dato posto) si può dunque stabilire una corrispondenza biunivoca, e quindi si può rappresentare $ sopra una parte di A. Onde risulta l’asserto. Si vede anche che la dimostrazione si applica inalterata ad ogni caso in cui tutti gli s siano ben ordinati o, più generalmente, si possa distinguere in ogni s in modo univoco un elemento» (ibid). È evidente dal contesto che Levi non ammette una dimostrazione generale del principio di partizione che richieda di poter sempre scegliere un elemento da ciascun elemento di un insieme (possibilmente infinito) di insiemi —

anche se non è possibile dare nessuna regola per ef-

fettuare la scelta. Levi non riconosce cioè una validità generale al medesimo tipo di argomentazione già giudicato inammissibile, in modo più esplicito, in Peano [1890b] e in Bettazzi [1892b] e [1896]. Due anni dopo, Bernstein replicò all’obiezione di Levi rivendicando la legit-

timità dell’uso del principio di partizione in teoria degli insiemi (v. Bernstein [1904], p. 558). Proponendo, nel 1904, l’assioma di scelta, Zermelo menzionò, come ragione per accettarlo, che esso è necessario per dimostrare il principio di partizione (v. Zermelo [1904], p. 516 (in Zermelo [2010], p. 118, trad. ingl. a fronte, e in van Heijenoort (ed.) [1967], p. 141)). Il principio di partizione implicato dall’assioma di scelta — fu formulato esplicitamente per la prima volta da Cesare Burali-Forti nel 1896: «[...] ogni classe di classi non nulle è equivalente [sc. cardinalmente simile] a una parte [sc. a un sottoinsieme] della classe formata con gli elementi che formano i suoi elementi» (BuraliForti [1896], $ 2, nota alla P 17, p. 46). Burali-Forti si serve di questo principio per dimostrare l'equivalenza delle due definizioni di “finito”, come “induttivo” e come “non riflessivo” (v. sopra, cap. 2, $ 5.4), ma egli omette la condizione che i membri di una classe per la quale

si asserisce la validità del principio di partizione siano disgiunti. Come osservò per primo Russell ([ 19062], $ II, p. 159, nota), tuttavia, il principio non vale se questa condizione non è soddisfatta (per es., se x e y sono due oggetti distinti qualsiasi, la classe { Delo {y}, {x, y}} ha

tre elementi, mentre la classe degli elementi dei suoi elementi, {x, y}, ne ha solo due: questo controesempio al principio enunciato da Burali-Forti si trova in una lettera di Russell a Couturat del 19 dicembre 1905: v. in Russell [2001], p. 576). Se il principio di partizione è formulato correttamente, la dimostrazione di Burali-Forti (che aveva convinto Rodolfo Bettazzi: v. Bettazzi [1897], punto 1,p. 352) è bloccata



sebbene sia vero che il principio di partizione implica l'equivalenza tra “finito” come “induttivo” e come “non riflessivo” (v. G. H. 1.3,

ari

p. 28, in particolare, nota 20). A 516 Pai [2010], p. 118, trad. ingl. a fronte, e in van Heijenoort (ed.) | 1967], p. 141). Ancora nel 1930, Zer-

melo assume l’assioma «principio logico generale» (Zermelo [1930a], $ 1, p. 31 (in Zermelo [2010], p. 404, trad. ingl. a fronte; in Cellucci

; : inEwald (ed.) [1996], vol. II, p. 1220). 114 e 116, trad. ingl. a fronte, e in van Heijenoort (ed.) [1967], PP. 139-140). Il meDV. DG Foddi p. AG ca Vea desimo principio è enunciato come teorema (dipendente, nella sua piena generalità, dall'assunzione dell’assioma di scelta) in Zermelo [1907], $ 1, p. 108 (in Zermelo [2010], p. 120, trad. ingl. a fronte, e in van Heijenoori (ed.) [1967], p. 184).

20! Si può anche dire: esiste una funzione ftale che, se Bè un membro di x; allora f(4) è un membro di /.

capitolo 4

282

In questa formulazione, Russell chiama l'assioma di scelta assioma di Zermelo. lo riconosce (A) come implicato

202

Nello stesso articolo, Zerme-

dal principio che anche per una totalità infinita di insiemi ci sono sempre correlazioni per le quali a ogni insieme corrisponde uno dei suoi elementi, o, espresso formalmente, che il prodotto di una totalità [Gesamtheif] infinita di insiemi, ciascuno dei quali contiene almeno un elemento, è essa stessa diversa da zero.

Il primo dei due principi esposti nel brano riportato sarà detto da Zermelo, nel 1907, principio generale di scelta (Allgemeines Auswahlprinzip).* Il secondo principio diverrà più chiaro quando, nel prossimo paragrafo, accenneremo ai rapporti dell’assioma di scelta con la moltiplicazione tra numeri cardinali. Poco prima che Zermelo formulasse questi principi, nell’estate del 1904, Russell e Whitehead — che stavano collaborando a quell’opera che si sarebbe poi sviluppata nei Principia Mathematica — scoprirono che nella teoria della moltiplicazione sviluppata da Whitehead era necessario un certo principio di cui quest’ultimo aveva fornito una dimostrazione. Tuttavia, rivedendo la dimostrazione, Russell si accorse che in essa si faceva uso di una proposizione richiedente l’assunzione del principio stesso da dimostrare. Russell credette dapprima di poter scoprire facilmente una dimostrazione corretta; «ma», egli scrive a Jourdain il 15 marzo del 1906, «gradualmente mi

avvidi che, se una dimostrazione esiste, dev'essere molto recondita».?°° Russell pubblicò per la prima volta questo principio, assunto come assioma, nell’articolo “On some difficulties in the theory of transfinite numbers and order types”, scritto alla fine del 1905 e uscito nel 1906.” L'assioma è il seguente: (A’) Sia xuna classe di classi non vuote mutuamente esclusive (cioè prive di elementi in comune); allora esiste almeno una classe o, costituita di elementi degli elementi di x che ha uno e un solo elemento in comune con

ciascuna classe che è membro di x

Russell lo chiama assioma moltiplicativo.?* Nell’articolo menzionato, Russell dimostra che tale assioma si può dedurre dall’assioma di Zermelo, cioè che da (A) si deduce (A). La dimostrazione è la seguente.” Supponiamo

di avere una classe di classi mutuamente esclusive e non vuote x e di voler dimostrare che, se vale l’assioma di Zermelo, allora esiste almeno una classe o, che è una sottoclasse dell’unione dei membri di x e che ha uno e un

solo elemento in comune con ciascuna classe che è membro di x — cioè è vero l’assioma moltiplicativo. Allo scopo formiamo

la classe unione, s°x di x cioè la classe che contiene tutti gli elementi che sono contenuti in

qualche elemento di x. Se l'assioma di Zermelo è vero allora, detto 4 l'insieme di tutte le sottoclassi non vuote di s°K, esiste una relazione S che “sceglie” uno e un solo elemento da ciascuna classe che è membro di 4. Ma poiché tutte le classi che sono elementi di x sono anche elementi di A, la stessa relazione S “sceglie” uno e un solo elemento da ogni elemento di x A questo punto è facile costruire una classe o— basta prendere il dominio della sottorelazione S' di S il cui codominio è costituito da tutti e solo i membri di x. Nel 1905 Russell restava tuttavia in dubbio se fosse vero anche l’inverso di quanto appena provato, cioè se l’assioma di Zermelo fosse ricavabile dall’assioma moltiplicativo. In “On some difficulties in the theory of transfinite numbers and order types” egli scrive: Quest’assioma [l'assioma moltiplicativo]

è meno generale dell’assioma di Zermelo. Può essere dedotto dall’assioma di Zermelo: ma la deduzione inversa, sebbene possa risultare possibile, non è ancora stata effettuata, che io sappia.”?°

202

V., per es., Russell [19064], $ II, p. 157; [PM], vol. I, *85, sommario, p. 526, e *85.63, pp. 533-534; Russell [1911d], p. 404; Russell

[1919a], cap. 12, p. 123. Dr Zermelo [1904], p. 516 (in Zermelo [2010], p. 118, trad. ingl. a fronte, e in van Heijenoort (ed.) [1967], p. 141). * pr V. Zermelo [1908], $ 2, punto 29y, p. 274 (in Zermelo [2010], p. 214, trad. ingl. a fronte, e in van Heijenoort (ed.) [1967], p.210). ” Questo resoconto della scoperta, da parte di Russell, di quello che poi egli chiamerà “assioma moltiplicativo” si trova in un passo di una

i

di Russell a Jourdain del 15 marzo 1906 (v. in Grattan-Guinness [1977], p. 80).

Ki In Grattan-Guinness [1977], p. 80.

| V. Russell [1906a], $ III, pp. 158-159.

°° V., per es., Russell [1906a], $ III, p. 159; [PM], vol. I, +85, sommario, p. 526, *85.63, p. 534, e *88.03: Russell [191 Id], p. 404; Russell

cap. 12, p. 122. [1919a],

20° V. Russell [1906a], $ III, p. 162. 210 Russell [19062], $ III, p. 159.

dl

Sera

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

283

In due articoli del 1907 e 1908, Zermelo formulò l’assioma nella sua forma (A)! chiamandolo — per la prima volta nell’articolo del 1908 — “assioma di scelta” (Axiom der Auswahl). Sempre nel 1908, egli dimostrò che, da (A) si ricava quello che Zermelo chiama principio generale di scelta! che si può formulare come segue:

(A")

Se xè una classe di classi non vuote (mutuamente esclusive o no, non importa) esiste sempre una relazione uno-molti S il cui dominio inverso è costituito dagli elementi di xe tale che, se x ha la relazione S con [bal lora xe /. (Intuitivamente, S è una relazione che “sceglie” un rappresentante da ciascuna delle classi che compongono XK.)

È chiaro che (A) e (A”) sono principi equivalenti;”!* dunque Zermelo dimostrò, nel 1908, che da Russell chiama “assioma moltiplicativo” si ricava quello che Russell chiama “assioma di Zermelo”. Anche Russell pubblicò, nel 1908, una dimostrazione che da (A) — ovvero da quello che Russell chiama “assioma moltiplicativo” — segue (A) — ovvero quello che Russell chiama “assioma di Zermelo”.?!* Questa dimostrazione risolve, in positivo, il dubbio, espresso da Russell nel 1905, se l'assioma di Zermelo

sia ricavabile

dall’assioma moltiplicativo. La menzionata dimostrazione di Russell è molto sintetica, e quasi interamente simbolica, ma si può esporre in parole come segue. Sia xla classe di tutte le sottoclassi non vuote di una classe data. Per ogni elemento @ di xconsideriamo la classe / di tutte le coppie ordinate formate prendendo come primo membro un elemento di a e come secondo membro la stessa classe a. Per ogni classe @ di xotteniamo così una classe a di coppie ordinate. Formiamo ora l’insieme x di tutte le classi @' così ottenute; x sarà formato di classi mutuamente esclusive, cioè non aventi nessun elemento in comune. Quindi, nell’ipotesi che l'assioma moltiplicativo sia

vero, esso può essere applicato all’insieme x, ottenendo così una classe o che ha uno e un solo elemento in comune con ciascuna classe @' di x. Poiché ogni classe @' di x' è una classe di coppie ordinate, la classe o sarà, a sua volta, una classe di coppie ordinate, cioè una relazione (in estensione); inoltre, questa relazione è tale che correla uno e un solo elemento di ciascuna classe @ di x con a stessa: dunque è precisamente la relazione S di cui parla (A). Dunque da (A) si può dedurre CNTZA Poiché, inoltre, come abbiamo visto, da (A) si può dedurre (A), si ha che (A) e (A” — ovvero l’assioma di Zermelo e l’assioma moltiplicativo — sono principi equivalenti.?!° Riassumendo: i principi (A), (A’) e (A‘) sono equivalenti, cioè esprimono lo stesso assioma — che d’ora in poi chiameremo indifferentemente “assioma moltiplicativo” o “assioma di scelta”.

21! La formulazione di Zermelo, per la precisione, dice che, se x'è una classe di classi non vuote mutuamente esclusive, esiste una sottoclasse o dell’insieme unione di x (cioè, della classe di tutti gli elementi degli elementi di x) che ha uno e un solo elemento in comune con ciascuna classe che è membro di x (v. Zermelo [1907], $ 1, p. 110 (in Zermelo [2010], p. 126, trad. ingl. a fronte, e in van Heijenoort (ed.)

[1967], p. 186), e Zermelo [1908], $ 1, punto 13, p. 266 (in Zermelo [2010], p. 198, trad. ingl. a fronte, e in van Heijenoort (ed.) [1967], p. 204). La differenza — del tutto inessenziale —, rispetto alla formulazione di Russell, è solo che, laddove questi descrive la classe o di (A’) come costituita di elementi degli elementi di x Zermelo la descrive come una sottoclasse della classe di tutti gli elementi degli elementi di 2) V. Zermelo

[1907], $ 1, p. 110 (in Zermelo

[2010], p. 126, trad. ingl. a fronte, e in van Heijenoort (ed.) [1967], p. 186), e Zermelo

[1908], $ 2, punto 29vj, p. 274 (in Zermelo [2010], p. 214, trad. ingl. a fronte, e in van Heijenoort (ed.) [ 1967], p. 210). La dimostrazione di Zermelo si articola, in particolare, nei punti 19, p. 269, 28 e 29v1, pp. 273-274 del $ 2 di Zermelo [1908] (in Zermelo [2010], pp. 204, 212 e 214, trad. ingl. a fronte, e in van Heijenoort (ed.) [1967], pp. 206 e 209-210).

=

;

213 Che (A") implichi (A) è ovvio. Inoltre, è molto facile vedere che (A) implica (A). Infatti, data una classe qualsiasi xdi classi non vuote si può dimostrare l’esistenza di una relazione che “sceglie” un unico rappresentante da ciascuna delle classi che compongono &, come af fermato da (A”), applicando il principio (A) alla somma logica degli elementi di x— ossia alla classe che ha per elementi tutti gli elementi i | delle classi che sono membri di x.

214 V_ Russell [1908], $ IX, p. 98, seconda nota. L'articolo contenente la dimostrazione di Zermelo (Zermelo [ 1908]) uscì nel febbraio del

1908, mentre l’articolo di Russell uscì nel luglio dello stesso anno; ma la dimostrazione di Russell è sicuramente indipendente da quella di Zermelo, perché il suo articolo era stato composto nei primi mesi del 1907, e fu pubblicato più di un anno dopo solo per il ritardo ba I dell’ American Journal of Mathematics. (A”) (v. implica (A) che Zermelo di dimostrazione La 533-534. pp. nota, *85.63, I, vol. in offerta è 215 Nei Principia la dimostrazione fronte, ein Zermelo [1908], $ 2, punto 19, p. 269, e punti 28 e 29vr, pp. 273-274 (in Zermelo [2010], p. 204, e pp. 212 e 214, trad. ingl. a di classi non e ordinarie, classi di solo serve si Zermelo perché complicata, più ma simile, è van Heijenoort (ed.) [1967], pp. 206 e 209-210)

di coppie ordinate.

a

216 Yna dimostrazione formale dell’equivalenza dei due assiomi si trova in [PM], vol. I, *88.33.

284

capitolo 4

4.2. ALCUNI TEOREMI CHE RICHIEDONO L’ASSIOMA DI SCELTA 4.2.1. L’ASSIOMA DI SCELTA E LA MOLTIPLICAZIONE Si è accennato al fatto che l’assioma moltiplicativo fu così chiamato da Russell per la sua connessione con la teoria della moltiplicazione. L'assioma è necessario per garantire che, in generale, un prodotto tra numeri cardinali possa essere zero solo se uno dei fattoriè zero. Per comprendere come ciò accada, è necessario richiamarsi alla teoria della moltiplicazione tra numeri cardinali che abbiamo trattato nel cap. 2 ($ 3.5.3). Cominciamo dal caso più semplice, supponendo di avere una classe di classi xi cui elementi siano mutuamente esclusivi — cioè non abbiano membri in comune. In questo caso — avevamo visto — il prodotto dei numeri dei membri di xè uguale al numero delle selezioni da x (ricordiamo che una selezione da x è una classe che contiene esattamente un elemento tratto da ciascuna classe di x). È ovvio che una

selezione esiste sempre solo a condizione che l’assioma moltiplicativo sia vero, poiché una selezione non è altro che la classe 0 menzionata nell’assioma (A). Se poi esiste almeno una selezione da x, allora ne esistono sicuramente altre, a meno che gli elementi di x non siano classi composte da un unico elemento. Infatti, come osserva

Russell, «se u è un membro di x,e x è il membro di u che si estrae, possiamo sostituire a x qualsiasi altro membro di u — diciamo y —

e] iate sbibfimo ancora una selezione da x. Ma nel caso in cui non esistesse nessuna sele-

zione da x, il prodotto dei numeri cardinali dei membri di x sarebbe il numero cardinale della classe vuota, cioè Zero. Venendo ora al caso generale, cioè al caso di una classe di classi xi cui membri non sono necessariamente privi di elementi in comune, avevamo visto (cap. 2, $ 3.5.3) che il prodotto dei numeri cardinali dei membri di xè uguale al numero dei selettori da x. Un selettore da

x—

ricordiamolo brevemente —

è una relazione tale che, per

ogni elemento ydi x correla un unico elemento di ycon ystesso. Anche in questo caso abbiamo che, se l’assioma moltiplicativo è vero, esiste necessariamente almeno un selettore da

x—

infatti, la relazione S menzionata nell’assioma (A") non è altro che un selettore da x Se l’assioma

moltiplicativo è falso, invece, potrebbe in qualche caso non esistere nessun selettore da xe quindi il prodotto dei numeri dei membri di x — essendo uguale al numero dei selettori da x — verrebbe a essere il numero cardinale della classe vuota, cioè zero.

In conclusione, l'assioma moltiplicativo è necessario per provare che i/ prodotto di più numeri cardinali diversi da zero è, a sua volta, diverso da zero. Quando xè una classe di classi non vuote che ha un numero finito di elementi, allora l’assioma moltiplicativo può essere dimostrato, o, per meglio dire, in questo caso non c’è bisogno di assumere nessun assioma. Infatti, in questo caso, se le classi che formano xsono mutuamente esclusive, possiamo prendere un elemento a caso da ciascuna classe che fa parte di xe formare una selezione o da x semplicemente elencando gli elementi che via via abbiamo scelto; se le classi che formano x non sono mutuamente esclusive, possiamo prendere, come prima, un elemento a caso da ciascuna classe che fa parte di xe formare poi la relazione S dell’assioma (A) semplicemente elencando tutte le coppie ordinate aventi come primo membro l’elemento scelto da una certa classe e come secondo membro la classe da cui è stato scelto. Ma non possiamo seguire lo stesso metodo quando xè una classe infinita. Perché, in questo caso, 00 S sono classi infinite, e in questo caso non ci è possibile elencarne tutti gli elementi: non porteremmo mai a termine il nostro compito. Tutto ciò spiega l’asserzione di Russell che la dimostrazione che «un prodotto cardinale può essere zero solo se uno dei suoi fattori è zero», 3 è possibile solo assumendo |’ assioma moltiplicativo: anzi, si può dimostrare che

l’assioma moltiplicativo è equivalente all’enunciato tra virgolette.” Un’ equivalenza che già era stata intuita da Zermelo nel 1904, quando considerava il principio generale di scelta come equivalente al principio che «il prodotto diRuna totalità infinita di insiemi, ciascuno dei quali contiene almeno un elemento,è essa stessa diversa da zero». Abbiamo così un quarto modo di formulare l'assioma di scelta.

2!7 Russell [1906a], $ III, p. 158. 2!5 Russell [1911d], p. 404; corsivo di Russell.

A V. [PM], vol. I, *88.372. 220 Zermelo [1904], p. 516 (in Zermelo [2010], p. 118, trad. ingl. a fronte, e in van Heijenoort (ed.) [1967], p. 141).

La crisi: i paradossi e l'assioma di scelta

285

4.2.1.1. Se ci limitiamo al prodotto di due fattori, possiamo essere sicuri che esso è diverso da zero senza assumere l’assioma moltiplicativo. Avevamo visto (cap. 2, $ 3.5.3) che Russell — riprendendo la definizione di Cantor”?! — definisce il prodotto tra due numeri cardinali 4 e Vattraverso il prodotto di due classi a e f aventi, rispettivamente, numero cardinale 4 e v. Ricordiamo brevemente il procedimento. Il prodotto delle classi @ e [è la classe di tutte le coppie ordinate possibili il cui primo elemento appartiene ad @e il cui secondo elemento appartiene a ft. Il prodotto 4 x v'è il numero cardinale del prodotto delle classi @ e B. Qui non si fa nessun uso dell’assioma moltiplicativo. Anche nel caso del prodotto di due fattori, tuttavia, l'assioma moltiplicativo diviene necessario per provare il teorema secondo il quale la somma di v classi mutuamente esclusive, ciascuna di 4 elementi, possiede LX Velementi.” Nel 1903 — all’epoca dei Principles — Russell era di diverso avviso: E facile dedurre dalle precedenti definizioni l’usuale connessione tra addizione e moltiplicazione, che si può enunciare così. Se % è una classe di d classi mutuamente esclusive, ognuna delle quali contenga a termini, allora la somma logica di % contiene a x b ters8-1223 mini.

In una nota a fondo pagina inserita a questo punto, Russell scrive: «Marh. Annalen, vol. XLVI, $ 3». Il riferimento

è alla dimostrazione di questo teorema contenuta in Cantor [1895-97], $ 3, pp. 286-287 (in Cantor [1915], p. 93). Tale teorema, tuttavia, è valido in generale solo se l’assioma di scelta è vero. Più tardi, Russell si rese conto del

fatto che, sebbene questo teorema si possa effettivamente dimostrare senza difficoltà qualora v sia un numero finito, in mancanza dell’assioma moltiplicativo, non si può provare qualora v sia un numero infinito.?”* Nell’Introduction to Mathematical Philosophy (1919) Russell chiarisce il punto attraverso un esempio divenuto celebre: Noi sappiamo che 2 x Ro = No. Quindi potremmo supporre che la somma di Xy paia debba avere Xy termini. Ma questo, sebbene possiamo provare che è qualche volta vero, non si può provare che accada sempre a meno che non assumiamo l’assioma moltiplicativo. Questo è illustrato dal milionario che comprava un paio di calze ogni volta che comprava un paio di stivali, e soltanto allora, e che aveva una tale passione per l’ acquisto di entrambi che alla fine aveva Xy paia di stivali e Xo paia di calze. Il problema è: Quanti stivali aveva, e quante calze? Si potrebbe supporre naturalmente che egli avesse due volte tanti stivali e due volte tante calze rispet-

to alle paia che aveva degli uni e delle altre, e che quindi ne avesse &y sia degli uni sia delle altre, poiché questo numero non cresce raddoppiandolo. Ma questo è un esempio della difficoltà, già rilevata, di connettere la somma di vclassi, ciascuna di 4 termini, con LX Vv. A volte ciò si può fare, a volte no. Nel nostro caso lo si può fare con gli stivali, ma non con le calze, se non mediante un sistema molto artificioso.[°°°] La ragione della differenza è questa: Tra gli stivali possiamo distinguere il destro e il sinistro, e quindi possiamo fare una selezione di uno da ciascun paio, vale a dire, possiamo scegliere tutti gli stivali destri o tutti gli stivali sinistri; ma con le calze non si presenta un principio di selezione del genere, e non possiamo essere sicuri, se non assumiamo l’assioma moltiplicativo, che ci sia una classe consistente di una calza presa da ogni paio. Di qui il problema. Possiamo mettere la questione in un altro modo. Per provare che una classe ha Xy termini, è necessario e sufficiente trovare qualche modo di sistemare i suoi termini in una progressione. Non c’è difficoltà a fare questo con gli stivali. Le paia sono date come formanti un No, e quindi sono il campo di una progressione. In ogni paio, prendiamo prima lo stivale sinistro e poi il destro, mantenendo invariato l’ordine delle paia: in questo modo otteniamo una progressione di tutti gli stivali. Ma con le calze IO sce-

gliere arbitrariamente, per ogni paio, quale mettere prima; e un numero infinito di scelte arbitrarie è un’impossibilità.”

22! V. Cantor [1895-97], $ 3, p. 286 (in Cantor [1915], p. 92). 222 V. Russell [1906a], $ ITI, p. 160. 223 Russell [1903a], $ 116, p. 119. 224 V. Russell [1919a], cap. 12, p. 124. Questo — incidentalmente — è dotto Xx v come la somma di v classi mutuamente esclusive, ciascuna *113, sommario, p. 103) 225 Poco più oltre, Russell spiega quale potrebbe essere, questo “sistema come le calze, possiamo sempre trovare qualche principio di selezione.

anto

|

il motivo per cui, dopo i Principles, Russell evita di definire il prodi 4 termini. (V. Russell [1919a], cap. 12, p. 121, e [PM], vol. II, i 1 "n molto artificioso”: «Naturalmente, nel caso di oggetti nello spazio, Per esempio, prendete i centri di massa delle calze: vi saranno dei

punti p nello spazio tali che, per ogni paio, i centri di massa delle due calze non saranno entrambi esattamente alla stessa distanza da P; possiamo così scegliere, da ogni paio, quella calza che ha il centro di massa più vicino a p. Ma non c’è nessuna ragione teorica per cui un metodo di selezione come questo debba essere sempre possibile, e il caso delle calze, con un po’ di buona volontà da parte del lettore, servirà a | na mostrare come una selezione potrebbe essere impossibile» (Russell [1919a], cap. 12, pp. 126-127). 226 Russell [1919a], cap. 12, pp. 125-126. L'esempio degli stivali si trova già in una lettera di Russell a Godfrey H. Hardy del 22 giugno 1905 (ora in Garciadiego [1992], appendice, pp. 190-192: p. 191), in una lettera di Russell Jourdain del 31 luglio 1905 (ora in Grattan-

Guinness [1977], pp. 54-55: p. 55), in Russell [1906a], $ III, pp. 157-158, e in Russell [1911d], p. 406. Il riferimento al milionario risale a

Russell [1911d], e sarà poi ripreso in Russell [1959], cap. 8, pp. 92-93.

ha

ale

Già in una lettera a Couturat del 26 aprile 1905, Russell si mostra consapevole della necessità di assumere l’assioma di scelta per dimo-

esclusive anstrare che è possibile, in generale, scegliere un elemento da ciascun membro di una classe xdi classi non vuote mutuamente

capitolo 4

286

Ma perché l’operazione 2 Xx No — a differenza della somma di No classi di 2 elementi — dà sempre un unico

risultato, indipendentemente dall’assunzione dell’assioma moltiplicativo? Secondo la definizione che Russell dà

di moltiplicazione fra due numeri cardinali, il prodotto 2 X Ko è il numero cardinale della classe di tutte le coppie ordinate che hanno al primo membro un elemento di una classe che contiene due elementi e al secondo membro un elemento di una classe contenente Xo elementi. Supponiamo dunque di avere una classe @ di due elementi — poniamo, a e b — e un’altra classe 8 di N elementi. Poiché la classe Bè numerabile, possiamo ordinarne gli ele-

menti c; in una progressione ci, C2, C3, ..., Cn MG TI prodotto 2 x Xo dev'essere, per definizione, il numero cardinale della classe yche contiene tutte le coppie (a, c1), (a, c2), (a, C3), ..., all’infinito e tutte le coppie (db, c1), (b, c2), (b, c3), ..., all’infinito. È facile vedere che il numero cardinale di yè ancora No, se si considera che tutti i suoi elementi possono essere sistemati nella progressione seguente: (a, CI), (b, CI), (a, C2), (b, C2), (a, C3), (b, C3), (a, dg

(b, C4), ce.

E COSÌ via,

cioè in ordine del secondo membro di ogni coppia e, per le coppie che hanno il medesimo secondo membro x, nell’ordine (a, x) < (b, x). Poiché le classi @e Berano classi qualsiasi aventi, rispettivamente, numero cardinale 2 e numero cardinale Xp, possiamo concludere che, in ogni caso, 2 X No = No.

Un altro esempio chiarirà come si ottenga un risultato definito — senza dover ricorrere all’assioma moltiplicativo — anche moltiplicando Xy per Xo. Supponiamo di avere due classi @ e f, ciascuna di X elementi. Poiché sia a sia B sono classi numerabili, i loro elementi possono essere ordinati in progressione. Sia dunque 417, 43, 43, 44, ... una progressione ricavata ordinando gli elementi di @ e sia bi, b), b3, b4, ... una progressione ricavata ordinando gli elementi di /8. Il prodotto Xo Xx o sarà, per definizione, il numero cardinale della classe yche contiene tutte le

coppie seguenti: (a, bi), (ay, ba), (a1, b3), (ai, ba), ...

(3, bi), (02, ba), (a, b3), (42, bi), ... (a3, bi), (43, ba), (a3, b3), (3, ba), ... (a4, bi), (a4, b»), (ay, b3), (a4, ba), ...

Si può verificare che il numero cardinale di yè ancora Xy sistemando tutti i suoi elementi in un’unica progressione. Si può fare così: consideriamo la somma degli indici di a e di 5 in ciascuna coppia, che possiamo chiamare, per comodità, altezza della coppia considerata; si ordinano poi le coppie ordinate in ordine di altezza crescente e, se due coppie hanno la stessa altezza, in ordine di grandezza crescente dell’indice di a. Per esempio, le coppie di altezza 5, ordinate secondo la grandezza crescente dell’indice di a, saranno le seguenti: (a, b4), (a, b3), (43, b)), (4, bi).

che quando ciascuna classe membro di x può essere ben ordinata; scrive Russell: «Ho creduto dapprincipio di poterlo dimostrare [l'assioma di scelta] quando si può ben ordinare ciascuna delle classi, perché allora si potrebbe prendere il primo termine in ciascuna di esse. Ma per questo occorrerebbe scegliere, per ciascuna classe, una delle relazioni [ben ordinate] di cui essa è il campo. S'impiega dunque per queste relazioni, lo stesso principio che bisognerebbe dimostrare» (in Russell [2001a], p. 491). Lo stesso punto è spiegato in Russell

[19062], $ II, p. 160.

‘’

3

E

Si osservi che, per ordinare gli elementi di una classe numerabile qualsiasi in progressione, non è necessario l'assioma di scelta: non è

necessario né che si possano effettuare

2% scelte arbitrarie di un unico rappresentante da ciascuno dei sottoinsiemi non vuoti della classe

numerabile data; e neppure è necessario che si possa effettuare una successione di Xv scelte arbitrarie, una dipendente dall’altra iena dalla classe numerabile data un elemento arbitrario, poi un altro da ciò che rimane, poi un altro ancora da ciò che rina esi "Tnfant di definizione, una classe è numerabile se e solo se esiste almeno un correlatore che ne correla biunivocamente gli elementi to i divi wi |

rali. Naturalmente, se esiste un correlatore siffatto, ne esisteranno infiniti altri. Uno qualsiasi di questi correlatori ordinerà gli elementi della classe numerabile secondo l’ordine dei numeri naturali ad essi correlati. Ordinare in progressione gli elementi di una ma numerabil sa gnifica scegliere uno di tali correlatori. Per sceglierne uno a piacere sarà certo necessario effettuare una scelta di un eleînento Nerini da

bi

So

(di correlatori), ma non sarà necessario effettuare infinite scelte arbitrarie, e quindi l’assioma di scelta non sarà affat-

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

287

Nei fornisce un ordinamento in progressione di tutte le coppie di % e prova così che il prodotto No X Ko è 0

Ma, come osserva Russell nel brano sopra riportato, se non si assume l’assioma moltiplicativo, da tali risultati non si può concludere che la somma di &o classi di 2 elementi, o di Xy classi di Xo elementi sia sempre uguale a No: qualche volta (come nel caso degli stivali) lo si può dimostrare; qualche volta (come nel caso delle calze) no. Così, senza l’assioma moltiplicativo, viene a mancare la prova che, in generale, il prodotto 4 Xx v è uguale alla somma di vclassi di 4 elementi.

4.2.1.2. Senza l’assioma moltiplicativo, non si può provare che la somma logica di v insiemi, privi di elementi in comune, debba sempre essere cardinalmente simile alla somma logica di altri v insiemi, privi di elementi in comune e cardinalmente simili ai primi.?°’ Russell spiega il problema come segue.?? Supponiamo di avere due diversi insiemi, e b, entrambi costituiti di v classi mutuamente esclusive, ciascuna con 7 elementi. È possibile provare che la somma logica delle classi che compongono @ ha lo stesso numero di elementi della somma logica delle classi che compongono /#? Per dimostrarlo è necessario e sufficiente stabilire una corrispondenza biunivoca tra gli elementi della prima somma logica e gli elementi della seconda. Ovviamente c’è una corrispondenza biunivoca tra gli elementi di @ e quelli di £, poiché, per ipotesi, questi elementi sono in entrambi i casi v. Ciò di cui però avremmo bisogno è una correlazione biunivoca tra gli elementi degli elementi di @ e gli elementi degli elementi di f. A1 fine di ottenere questa correlazione, consideriamo una relazione biunivoca $ tra le classi di @ e quelle di 2. Dunque, se x è una classe di 4, ci sarà una classe y di £ che è correlata a x dalla relazione S. Ma sia x sia y hanno, per ipotesi, 4 elementi, e quindi vi devono essere correlazioni biunivoche tra gli elementi di x e quelli di y. Il problema è tuttavia che queste correlazioni possibili sono molte. Così, per ottenere una correlazione uno-uno tra gli elementi della somma logica delle classi di ge gli elementi della somma logica delle classi di 8occorre poter effettuare una scelta di un elemento da ciascun membro di un insieme di classi di correlazioni — una classe di quest’insieme essendo costituita da tutte le correlazioni uno-uno possibili tra gli elementi di un x € @e quelli di un ye 8. Se @e f sono composti di infinite classi, non possiamo essere sicuri che una tale scelta sia sempre possibile, a meno di non ammettere l’assioma moltiplicativo. 4.2.1.3. Senza l’assioma moltiplicativo non si può provare, in generale, che la somma di vclassi, ciascuna di £ eE k 6 e, o 31281 IRE lementi, ha lo stesso numero di elementi della somma di z classi, ciascuna di v elementi.??! Questo si dimostra se

Ve 4 sono numeri cardinali finiti ma, senza l’assioma moltiplicativo, non si dimostra, in generale, qualora V 0 4 siano numeri cardinali infiniti. Nell’ Introduction to Mathematical Philosophy (1919), Russell spiega: Per prendere il caso più semplice, supponiamo di avere una progressione di coppie

X13 Y13 X23 V2X3, Var 200 Xw Vw ea : ; 3 Mar Pon, Tg e supponiamo di dover dimostrare che si possono disporre gli stessi termini in una coppia di progressioni. Con la notazione che abbiamo appena usato, questo si fa prendendo la serie X1,X23

003

00

Via Va

ca

Do

i

l

A

i

Ma, adottando la notazione x,, yy» per la v-esima coppia, abbiamo introdotto l’ipotesi che sia dato un ordine per ogni coppia, in modo che si possa distinguere un primo e un secondo membro della coppia. Se non si fa quest’ipotesi, sarà impossibile dare una regola secondo la quale scegliere simultaneamente un termine in ciascuna coppia. Dunque non si potranno disporre i termini in due pro= t239 gressioni.

Si osservi che, se si potesse provare che la somma di v classi, ciascuna di z elementi, ha sempre lo stesso numero di elementi della somma di y classi, ciascuna di v elementi, si dimostrerebbe anche che la somma di vclassi, ciascuna di elementi, possiede 4 X v elementi, in tutti i casi in cui 4 è un numero finito. Infatti, ammesso che 4 sia un numero finito, vX pu è il numero di elementi della somma logica di classi, mutuamente esclusive, cia-

228 V. Cantor [1895-97], $ 6, pp. 294-295 (in Cantor [1915], p. 107).

|

ssaf

e fa 229 V. [PM], vol. II, *112, sommario, p. 94. Questo teorema si trova dimostrato in Russell [1901e], $ 2, p. 13, 3.41, ma la dimostrazion implicitamente appello all’assioma di scelta.

230 V_ Russell [1919a], cap. 12, pp. 124-125. 231 V_ Russell [19062], $ III, p. 160. 232 Russell [1911d], pp. 405-406.

288

capitolo 4

scuna di velementi (v. sopra, $ 4.2.1.1), e, poiché

LX v= vX 4, 4 X vè il numero di elementi della somma logica

di 4 classi, mutuamente esclusive, ciascuna di V elementi che, per ipotesi, sarebbe il numero di elementi della

somma di v classi, mutuamente esclusive, di elementi. Così, per esempio, se si assume che la somma logica di Xo coppie mutuamente esclusive abbia lo stesso numero di elementi della somma logica di due insiemi di No elementi (cioè che abbia Xo + No = No elementi), poiché Xo= NoX2=2X

No, si ottiene che la somma logica di No

coppie mutuamente esclusive deve avere & elementi. volte; in altri 4.2.1.4. Nei Principles, Russell definiva la potenza 4” come il prodotto del numero % per se stesso v elementi.” In 4 di quali delle ciascuna classi v da formata x classe una da selettori termini, come il numero dei Il motivo 3.5.4).°* ($ 2 cap. nel descritto abbiamo che elaborata seguito però preferì ricorrere alla costruzione più di ciò dovrebbe ora risultare chiaro: Russell voleva limitare il più possibile il ricorso all’assioma moltiplicativo.?° Per comprendere come ciò avvenga supponiamo, per esempio, di voler elevare 2 alla No. Se formiamo una classe qualsiasi di X coppie — come prevede la definizione dei Principles — non potremo mai essere sicuri (a meno di non assumere l’assioma moltiplicativo) che esista almeno un selettore da essa. Quindi non potremo essere sicuri che la potenza 2°° non sia mai uguale a zero. Nei Principia, invece, si fa così: si prende una classe @ di due elementi a e b e un’altra classe #8di Xp elementi; si ordinano gli elementi c; di 8 in una progressione ci, c2, C3, ..., Cn ..., ecc. (è possibile farlo perché f è una classe numerabile); a questo punto si applica il procedimento descritto nel cap. 2 ($ 3.5.4): si forma cioè, per ogni elemento c; di la classe di tutte le coppie ordinate aventi come primo membro un elemento di 2 e come secondo membro c;. Raccogliendo tutte queste classi in un insieme, si ottiene una classe xdi X classi, ciascuna formata di due coppie ordinate; eccone alcune:

{ {{a, C1), (b, Ce

{(a, C2), (b, C)}, {(a, 3), (b, Cl,

{(a, Ci), (b, C4)}, siase }

Questa è una classe di No coppie (di coppie ordinate), la cui struttura garantisce che una selezione da essa esista sempre, senza assumere l’assioma moltiplicativo: basta prendere, in ogni classe di x, la coppia ordinata che ha a come primo elemento, e si avrà una selezione da x.

4.2.2. L’ASSIOMA DI SCELTA E LE DUE DEFINIZIONI DI “INFINITO” Nei Principles of Mathematics, Russell sostiene la dimostrabilità dell’equivalenza di due diverse definizioni di r5 È 7 3 : . î : grata IR È 4 “infinito”: l'infinito come “non induttivo” e l’infinito come “riflessivo”.??° In effetti, di quest'equivalenza avevano fornito una dimostrazione sia Dedekind, in Was sind und was sollen die Zahlen,"” sia Cantor, nei suoi “Beitràge zur Begriindung

der transfiniten Mengenlehre”,”* e lo stesso Russell

nel $ III (interamente

dovuto

a lui)

dell’articolo di Whitehead “On cardinal numbers”. Tuttavia — come lo stesso Russell noterà in seguito — queste dimostrazioni sono valide solo a condizione che si assuma la verità dell’assioma di scelta. é Ricapitolando ciò che si è detto nel $ 5.4 del secondo capitolo: è possibile dare due diverse definizioni di “classe infinita”: secondo la prima, una classe è infinita se e solo se non è induttiva — intendendo con ciò che il suo numero cardinale non è induttivo (ossia non è un numero naturale); secondo l’altra definizione una classe è infinita se e solo se è riflessiva, cioè ha la stessa cardinalità di una sua parte propria. Riferendosi ai numeri, invece che

agli insiemi, si possono dare le seguenti definizioni: un numero è infinito se e solo se non è induttivo; oppure: un numero è infinito se e solo se è riflessivo — cioè è il numero cardinale di un insieme riflessivo. Sono equivalenti queste definizioni dell’infinito come non induttivo e dell’infinito come riflessivo? Si tratta di dimostrare che:

- V. Russell [1903a], $ 116. pr o

INCRNO

molto simile a quello usato da Cantor per definire l’esponenziazione (v. Cantor [1895-97], $ 4, pp. 287-288

23 V. [PM], vol. II, *116, p. 138. 236 V_ Russell [1903a], $ 119. Sull’argomento, v. anche, sopra, cap. 2, $ 5.4.

RENE Dedekind [1888], $ 8, punto 119, e $ 14, punti 159e 160. 238 V. Cantor [1895-97], $ 6, teoremi C e D, p. 295 (in Cantor [1915], p. 108).

23° V. Whitehead [1902], $ INI (Russell [1902b]), *2.75 e *2.76, p. 380.

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

(T)

289

Un insieme è riflessivo se e solo se non è induttivo.

Non è difficile provare che: (1°)

Se un insieme è riflessivo allora non è induttivo.

Per dimostrarlo è sufficiente dimostrare il converso di (T’), cioè che se un insieme è induttivo — cioè ha come numero cardinale un numero induttivo — allora non è riflessivo. Ciò si può provare in due passi. Dapprima si dimostra, per induzione matematica, che nessun insieme induttivo @ può avere la stessa cardinalità di un suo sottoinsieme ricavato da @ togliendo un solo elemento. Abbiamo, innanzi tutto, che un insieme che ha cardinalità 1 non ha la stessa potenza di un insieme che ha cardinalità 1 — 1, cioè 0. Inoltre, per ogni numero naturale n, se un insieme che ha cardinalità n non ha la stessa potenza di un insieme che ha cardinalità n — 1, allora un insieme di

potenza n + | non ha la stessa potenza di un insieme di cardinalità n: infatti se un insieme di potenza n + 1 avesse la stessa cardinalità di un insieme di potenza n, allora esisterebbe un correlatore tra il primo e il secondo, eliminando una coppia ordinata del quale otterremmo un correlatore tra un insieme di potenza n e un insieme di potenza n— 1; dunque un insieme di cardinalità n avrebbe la stessa potenza di un insieme di cardinalità n — 1, la qual cosa è contro l’ipotesi. Quindi, per induzione matematica, segue che nessun insieme induttivo @ può avere la stes-

sa potenza di un insieme ricavato togliendo un solo elemento ad a. Il secondo passo della dimostrazione consiste nel mostrare che nessun insieme induttivo @ può avere la stessa cardinalità di un suo sottoinsieme ricavato da @ togliendo un qualsiasi numero di elementi. A questo scopo, possiamo per brevità utilizzare il teorema (SB) del cap. 1, $ 5.2, che equivale al teorema di Schròder-Bernstein. Secondo il teorema (SB), se un insieme a è cardinalmente simile a un suo sottoinsieme &', allora è cardinalmente simile anche a qualsiasi sottoinsieme 2' di @ che includa @”. Ne consegue che, se un insieme @ è cardinalmente simile a un suo sottoinsieme di cardinalità 4 — i, con >

1, allora dev'essere cardinalmente simile anche a un suo

sottoinsieme di cardinalità 4 — 1: la qual cosa però abbiamo visto essere falsa nel caso degli insiemi induttivi. Se ne conclude che un insieme induttivo non può mai avere la stessa potenza di un suo sottoinsieme proprio: cioè, se è induttivo, non è riflessivo. Ne deriva, per contrapposizione, che se un insieme è riflessivo non è induttiVO. Per dimostrare che un insieme è riflessivo se e solo se non è induttivo, occorre però dimostrare anche l’inverso di (T”), cioè che:

(T')

Se un insieme non è induttivo allora è riflessivo.

È ; CE pale * 240 hé È proprio qui che entra in gioco l’assioma di scelta. Vediamo perché.

Supponiamo, per il momento, di aver dimostrato che ogni insieme non induttivo ha (almeno) un sottoinsieme numerabile.” Sulla base di questo lemma, possiamo dimostrare il teorema nel modo che segue. Sia f un sottoinsieme numerabile arbitrario di un insieme non induttivo a. Indichiamo con yla classe degli elementi che restano togliendo gli elementi di J da @. ypuò essere una classe vuota, una classe con un numero finito di elementi, o una classe con un numero infinito di elementi (di qualsiasi cardinalità, numerabile o non numera-

bile). Per costruzione, @ è dunque uguale alla somma logica di ye 8, dove ye f sono insiemi mutuamente esclusivi. Ordiniamo ora in una progressione qualsiasi gli elementi di 8 (è possibile farlo perché # è un insieme numerabile) e chiamiamo “(8- 1)” l’insieme 8 a meno del suo primo elemento — chiamiamo quest'elemento 501: L’insieme yU (B- 1) sarà, ovviamente, un sottoinsieme proprio di @ cioè il sottoinsieme che risulta togliendo ad ail suo elemento bj. Possiamo ora porre la seguente correlazione biunivoca tra @ (cioè yU 8) e il suo sottoinsieme proprio yu (8- 1): ogni elemento di y(se ne esistono) sia posto in corrispondenza con se stesso; ogni elemento di 8 sia associato con il suo successore.

240 V_ Russell [1906a], $ III, p. 159.

;

de

ravennati

un sottoin24! Jl sottoinsieme può eventualmente coincidere con l’insieme stesso di partenza, in altri termini non si richiede che si tratti di i sieme proprio. p. 108). 242 La dimostrazione che segue si trova in Cantor [1895-97], $ 6, teorema D, p. 295 (in Cantor [1915],

capitolo 4

290

Poiché @ è un insieme non induttivo qualsiasi, abbiamo dimostrato — senza fare appello all’assioma di scelta

— che se un insieme non induttivo ha un sottoinsieme numerabile, allora esso è equivalente a un suo sottoinsieme

proprio, cioè è riflessivo. Ci siamo avvicinati quanto più possibile alla dimostrazione del teorema T senza far uso dell’assioma di scelta. Non resta ora che un passo: provare che ogni insieme non induttivo ha un sottoinsieme numerabile. E proprio questo che non si riesce a provare senza ricorrere all’ assioma di scelta. Nei Principles, si trova la seguente dimostrazione: g

È

-

È

ES,

5

2

243

Piani

di

a A d 5 a n S È molto facile dimostrare che ogni classe infinita [qui, nel senso di “riflessiva”] contiene classi il cui numero è &[]. Sia infatti una tale classe [infinita] e sia x) un termine di u. Allora u è [cardinalmente] simile alla classe ottenuta togliendo x [da u], che chia-

meremo u;. Così u; è una classe infinita. Da essa possiamo togliere un termine x}, lasciando [come residua] una classe infinita w2, € LI 5 ò R 5 DAG 244 % 7 così via. La serie dei termini x;, x), ... è contenuta in , ed è del tipo che ha per numero @.

In questa dimostrazione è inessenziale che si parta dalle classi infinite definite come riflessive (come fa Russell nel passo appena riportato), o dalle classi infinite definite come non induttive. In entrambi i casi, si giungerà al medesimo risultato usando una tecnica simile. Infatti, sia u una classe non induttiva. Possiamo togliere un elemento xo da u, ottenendo una classe u,, perché, se non potessimo, u avrebbe numero cardinale 0, e quindi sarebbe —

contro l’ipotesi — una classe induttiva. Supponendo poi di poter togliere a una classe u, — ottenuta sottraendo progressivamente n elementi alla classe u — un elemento x,, così da ottenere la classe u,+1, si ha ancora che Un+1

non può essere vuota, perché altrimenti u avrebbe numero cardinale n +1, e quindi sarebbe — contro l’ipotesi — una classe induttiva; possiamo dunque togliere a u,+; un elemento x,+;. Dunque, per induzione matematica pos-

siamo concludere che, per ogni numero naturale n, possiamo togliere dalla sottoclasse u, di u un elemento x,. L’insieme degli x, così ottenuti sarà — come si desiderava provare — una classe di elementi di u che ha per numero No.

Questa dimostrazione che ogni classe infinita contiene una sottoclasse numerabile fu fornita, prima che da Russell, da Cantor nei “Beitrige zur Begriindung der transfiniten Mengenlehre” (1895), e da Émile Borel nelle sue Lecons sur la théorie des fonctions (1898). Ma è chiaro che una dimostrazione siffatta è valida solo a condizione che valga l’assioma di scelta: infatti, essa richiede di scegliere uno e un solo elemento da una serie infinita di insiemi inclusi l’uno nell’altro, senza che sia fornita alcuna regola per operare tale scelta. Il 12 maggio 1905

Russell scrive a Couturat: A questo proposito, ho scoperto che non esiste una dimostrazione conclusiva dell’identità delle due Df del finito, quella attraverso l’induzione completa e quella attraverso l'assenza di similarità tra il tutto e la parte. La dimostrazione accettata impiega il principio che, data una classe di classi non nulle, si possa estrarre un termine da ciascuna classe per formare una nuova classe. È l’assioma di D,

Zermelo [...].249

In realtà — come Russell e Whitehead dimostreranno più tardi, nei Principia Mathematica — per provare che una classe non induttiva include una sottoclasse numerabile, e dunque è riflessiva, non è necessaria la validità generale dell’assioma di scelta: basta qualcosa di meno, cioè la validità dell’assioma di scelta limitatamente alle classi di Xo classi. Si tratta ovviamente di un’assunzione più debole dell’assunzione che l’assioma di scelta debba valere per qualsiasi classe di classi x di qualsivoglia cardinalità. Seguendo il testo dell’Introduction to Mathematical Philosophy, vediamo come si può fornire la dimostrazione di questo teorema, e dunque di (T'), assumendo tale versione più debole dell’assioma di scelta.?!” 1 \ Near DST 4” è qui RA adoperato, come in: tutti RAEE, gli scritti russelliani dell’epoca, al posto del cantoriano “No” (v. sopra, cap. 2, nota 324).

24 Russell [1903a], $ 118, pp. 122-123. Russell fornisce una dimostrazione simile (ma riferita alle classi “infinite” nel senso di “non indutna e interamente sviluppata nel simbolismo di Peano) anche in Whitehead [1902], $ INI (Russell [1902b]), *2.6, p. 380. V. Cantor [1895-97], $ 6, teorema A, p. 293 (in Cantor [1915], p. 105), e Borel [1898], cap. 1, pp. 12-13. Su questo teorema, Cantor basa RA dimostrazione che se un insieme non è induttivo allora è riflessivo (v. Cantor [1895-97], $ 6, teorema D, p. 295 (in Cantor [1915]

p.

108)).

$i:

240 In Russell [2001a], p. 500. Nell’agosto dell’anno successivo, anche Peano rileva: «[...] in Borel, Théorie des fonctions, a. 1898 pag. 13, propositione: [...] “Si a es classe de objectos in numero infinito, tunc existe in a classe numerabile, id est que habe pro numero aleph zero [...]”, es demonstrato per postulato de Zermelo, et eliminatione de illo non es fa-

cile. Ergo propositione non es demonstrato» (Peano [1906a] [1906b], $ 1, p. 349). | 24 Per tutta la dimostrazione che segue, v. Russell [1919a], cap. 12, pp. 127-129. La dimostrazione è spiegata anche in [PM] vol. II, *124

sommario, pp. 271-272, e svolta formalmente in [PM], vol. II, *124.51-*+124.56, pp. 276-279.

pag

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

201

È facile dimostrafe — comincia Russell — che se o è una qualsiasi classe non induttiva e n è un numero induttivo qualsiasi, @ deve sempre avere una sottoclasse di n elementi. In caso contrario @ avrebbe meno di n elementi, cosa impossibile, perché a è una classe non induttiva, mentre tutte le classi aventi meno di n elementi, dove n è un numero naturale qualsiasi, sono induttive.

Possiamo allora formare — continua Russell — una progressione di insiemi di sottoclassi di @ ciascuno dei quali formato da tutte le sottoclassi di @ aventi uno stesso numero finito di elementi. Il primo insieme conterrà esattamente una sottoclasse di a senza elementi; il secondo insieme sarà formato di tutte le sottoclassi di @ con un solo elemento (che saranno, ovviamente, tante quante gli elementi di @); il terzo insieme avrà come elementi tutte e solo le sottoclassi di @ con due elementi; il quarto insieme conterrà tutte e solo le sottoclassi di @ con tre elementi; e così via. Fin qui abbiamo ottenuto una progressione di insiemi di sottoclassi di a. Ne deriva che l'insieme costituito da tutti gli insiemi possibili di sottoclassi di @ dev'essere riflessivo, giacché contiene il sottoinsieme numerabile che abbiamo appena descritto. Che cosa abbiamo dimostrato finora? Se 4 è il numero di elementi di &, . . . 3 ° Dar . . . 5 . il numero delle sottoclassi di @ sarà 2“ e il numero degli insiemi di sottoclassi . sarà< 27ve : abbiamo dunque dimostrato che, se 4 non è un numero induttivo, una classe di 2°° elementi è una classe riflessiva.” Siamo dunque ancora lontani dalla meta, che è quella di provare che, se 4 non è un numero induttivo, una classe di 4 elementi è

una classe riflessiva. Possiamo però giungere alla conclusione desiderata applicando l’assioma moltiplicativo — nella sua versione più debole — due volte. Ecco come procede Russell. Da ogni insieme della precedente progressione, escluso il primo, scegliamo una sottoclasse di @. «Vale a dire, scegliamo una sottoclasse contenente un termine, @, diciamo; una contenente due termini, @, diciamo; una che ne contiene tre, @, diciamo; e così via. (Possiamo fare ciò

se si assume l’assioma moltiplicativo; altrimenti non sappiamo se possiamo sempre farlo o no.)».?!° In questo modo, al posto di una progressione di insiemi di sottoclassi di &, otteniamo una progressione di sottoclassi di @, cioè: 0, 0, 03, CZ, ..., On»...

Poiché nell’insieme di tutte le sottoclassi di @ è possibile trovare una progressione (cioè A, @, 03, %, ..., Gy ...),

si può concludere l’insieme di tutte le sottoclassi di @ è un insieme riflessivo. In generale, abbiamo dimostrato finora che, se 4 è un numero induttivo, allora un insieme di numero cardinale 24 è un insieme riflessivo. Siamo di

un passo più vicini alla meta: e infatti questa sarà raggiunta con una nuova applicazione dell’assioma moltiplicativo. Prima di applicare nuovamente quest’assioma è però necessario passare dalla progressione @, @, 03, 04, ...,

O, ... a una nuova progressione di classi mutuamente esclusive. Vediamo come Russell espone questo passaggio: Il passo successivo è notare che, sebbene non possiamo essere sicuri che a ogni stadio specificato sì aggiungano nuovi membri di a alla progressione @, @, 04, ... possiamo essere sicuri che nuovi membri continuano ad aggiungersi di tanto in tanto. SPIEgianio. La classe 4, che consiste di un termine, è un nuovo inizio; il suo unico termine sia xj. La classe @, costituita di due termini, può

contenere 0 no x}; se lo contiene, introduce un nuovo termine; se non lo contiene, deve introdurre due nuovi termini, diciamo X2, 43: In questo caso è possibile che 23 consista di x}, x, € x3, e non introduca quindi nessun nuovo temine, ma in tal caso & deve introdurre un nuovo termine. Le prime vclassi 4, 0, ..., &, contengono, al massimo, 1+2+3+...+

Vv termini, ossia

v(v+1)

O)

termi-

ni; sarebbe quindi possibile, se non ci fossero ripetizioni nelle prime vclassi, andare avanti solo con ripetizioni dalla (V+ 1)-esima v(v+1)

classe fino alla ——

-esima classe. Ma da quel momento i vecchi termini non sarebbero più sufficientemente numerosi per for-

mare un’ulteriore classe con il giusto numero di membri, ossia

v(v+1)

+ 1, e quindi nuovi termini devono aggiungersi a questo

punto, se non prima. Ne segue che, se omettiamo dalla nostra progressione 4, @, 03, ... tutte quelle classi che sono composte inte-

ramente di membri che sono già comparsi in classi precedenti, avremo ancora una progressione. La nostra nuova progressione si

248 Questo risultato è ascritto a Tarski [1924] in Fraenkel e Bar-Hillel [1958], cap. 2, $ 3.6, p. 49, nota 10 Nell'articolo di Task trova il di A teorema secondo cui A è un insieme finito (induttivo) quando nessun sottoinsieme proprio dell’insieme potenza dell’insieme potenza

ha lo stesso numero cardinale di A. Tale teorema è presentato, un po” ambiguamente, come «una conclusione interessante che risulta» dalle eno da ricerche di Whitehead e Russell nei Principia Mathematica (Tarski [1924], $ 5, p. 74). In realtà, si tratta di una semplice Ceri e solo se CI°*Cl°p teorema #124.6 del secondo volume dei Principia Mathematica, che afferma che p non è una classe induttiva se (l’insieme potenza dell’insieme potenza di ) è una classe ri flessiva. 24 Russell [1919a], cap. 12, p. 128.

capitolo 4

292

Q = chiami 4,, 8, 8}, .... (Avremo & = 6; e @= f,, perché @, e @, devono introdurre nuovi termini. Possiamo avere o non avere sono 8 questi Ora a.) degli alcuni sono 8 i ossia /4 di B;, ma, parlando in generale, /,, sarà @,, dove v è qualche numero più grande tali che ciascuno di essi, diciamo 8, contiene membri che non sono comparsi in nessuno dei 8 precedenti. Sia y, la parte di 8, che consiste di nuovi membri. Così otteniamo una nuova progressione %, 74, %, ... (Ancora % sarà identico a Be a 4; se @, non contiene l’unico membro di 4, avremo anche % =@ = #, ma se @ contiene quest’unico membro, % consisterà dell’altro membro di E 6 È o A " 250 01.) Questa nuova progressione di yconsiste di classi mutuamente esclusive.

Ricapitolando: dalla progressione 4, @, 03, 2, ..., Om «.. eliminiamo tutte /e classi a, che sono composte e-

sclusivamente da membri già presenti nelle classi che, nella progressione, precedono @, Otteniamo così la pro-

gressione 8, 8, 8, B4, ..., B,, .... Eliminiamo poi da ogni /8, di questa progressione tutti gli elementi già comparsi in precedenza; chiamiamo “Y,’ la classe così ottenuta da ciascun /,. Poiché ogni /, contiene elementi che non sono presenti nelle classi che nella progressione precedono /,, al posto di ogni /}, otteniamo un y, (che in qualche caso può coincidere con /,) e quindi ricaviamo infine una progressione %, 7, 7, %; --., 7%» ..., in cui due y, qualsiasi non hanno mai elementi in comune. Possiamo ora procedere applicando l’assioma moltiplicativo alla classe che ha per elementi %, %, %, %, -... %» ..., Sicuri che, essendo i vari y, mutuamente esclusivi, una selezione da questa classe sarà ancora una progressione, cioè un insieme numerabile. In altri termini, se l’assioma moltiplicativo è vero, esisterà un insieme che sceglierà l’elemento x; da %, l’elemento x, da %, l'elemento x3 da 74, e così via, e — poiché i vari Y, sono privi di elementi in comune, gli elementi x1, x2, X3, ..., Xn -.., formeranno anch'essi una progressione. Ma x, x, X3, ..-, Im

..., Sono una sottoclasse numerabile del nostro insieme originario @ resta dunque dimostrato che 2 — avendo una sottoclasse numerabile — è una classe riflessiva. Poiché @ è una classe non induttiva qualsiasi, abbiamo che ogni classe non induttiva è riflessiva. Applicando due volte l’assioma moltiplicativo si è dunque dimostrata la seconda parte del teorema (T), che risulta con ciò completamente dimostrato. Con ciò risulta anche provato che definire un insieme infinito come “insieme riflessivo” o come ‘insieme non induttivo” è la stessa cosa. Nella dimostrazione precedente si è reso necessario applicare l'assioma moltiplicativo solo a classi numerabili. Ciò significa che, per dimostrare che un insieme è riflessivo se e solo se non è induttivo non è necessario che

l’assioma moltiplicativo sia vero in generale, ma solo che esso sia vero qualora x sia una classe numerabile di classi. A questo proposito, Russell osserva: [...] l'argomento di cui sopra non richiede la verità universale dell’assioma moltiplicativo, ma solo la sua verità se applicato a un insieme di No classi. Potrebbe darsi che l'assioma valga per Xy classi, ma non per un numero più grande di classi. Per questa ragio-

ne è meglio, quando sia possibile, accontentarci dell’assunzione più ristretta. L’assunzione fatta nell’argomentazione diretta dì cui sopra è che un prodotto di X fattori non è mai zero a meno che non sia zero uno dei fattori. Possiamo formulare quest’assunzione nella forma: “N, è un numero moltiplicabile”, dove un numero v è definito “moltiplicabile” quando un prodotto di v fattori non è mai zero a meno che non sia zero uno dei fattori. Possiamo provare che un numero finito è sempre moltiplicabile, ma non possiamo provare che qualsiasi numero infinito lo sia. L'assioma moltiplicativo è equivalente all’assunzione che tutti i numeri cardinali sono moltiplicabili. Ma al fine di identificare il riflessivo con il non induttivo, o per trattare il problema degli stivali e delle calze, 0 per mostrare che qualsiasi progressione di numeri della seconda classe [ha un limite che] è della seconda classe, abbiamo solo bisogno dell’assunzione molto più ristretta che N sia moltiplicabile.”9'

È

Riassumendo: se l'assioma moltiplicativo vale per le classi numerabili di classi, allora ogni classe non induttiva ha un sottoinsieme numerabile, e ciò implica che tutte le classi non induttive sono riflessive. Si osservi che tutte le classi che hanno numeri cardinali maggiori di Xy —

non solo Ki, N, N34, ..., ecc., ma anche

No



93°

ga:

..., ecc. — hanno, per definizione, un sottoinsieme numerabile. Se dunque questi fossero tuti gli insiemi non in-

duttivi che ci sono, avremmo che tutte le classi non induttive hanno un sottoinsieme numerabile, e dunque sono

riflessive. Pertanto, se non si assume che l’assioma moltiplicativo valga in generale per le èlassi numerabili di

classi, potrebbero esservi classi che non sono induttive, ma che non hanno un sottoinsieme numerabile e che non sono né induttive, né riflessive — cioè, classi il cui numero cardinale non è né minore, né maggiore, né uguale ad

290 Russell [1919a], cap. 12, pp. 128-129. 29! Russell [1919a], cap. 12, pp. 129-130.

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

293

No e che quindi non trova posto né nella gerarchia 1, 2, 3, ..., ecc., né nella gerarchia Xo, X1, Na, N3, ..., ecc., né .

Xo

nella gerarchia No, 2°, 2°, 22

280

CCC

4.2.3. IL TEOREMA DEL BUON ORDINAMENTO 4.2.3.1. Il risultato matematico più noto, e storicamente controverso, che si sia ricavato dall’assioma di scelta è sicuramente il teorema del buon ordinamento. Questo teorema dice che un insieme di cardinalità qualsiasi può es-

sere ben ordinato. La sua prima dimostrazione rigorosa fu scoperta nel settembre 1904 da Zermelo — per questo, il teorema del buon ordinamento è anche detto teorema di Zermelo — e pubblicata sui Mathematische Annalen

(vol. 59, n. 4) nel dicembre del 1904.°°* La dimostrazione originale di Zermelo, provocò subito vivaci reazioni nel

mondo matematico. Già nel marzo del 1905, la stessa rivista Mathematische Annalen (vol. 60, n. 2) pubblicò tre interventi sintomatici, di Arthur Schoenflies (“Uber wohlgeordnete Mengen”, pp. 181-186), Felix Bernstein (“Uber die Reihe der transfiniten Ordnungszahlen”, pp. 187-193), e Émile Borel (“Quelques remarques sur les principes de la théorie des ensembles” pp. 194-195). Schoenflies e Bernstein ponevano in dubbio il passo finale della dimostrazione, a loro avviso infirmato dal paradosso di Burali-Forti,”°* mentre Borel rifiutava l’assioma di

scelta — almeno quando esso sia applicato a insiemi infiniti non numerabili di insiemi.’ Tra il 1905 e il 1906, molti matematici intervennero nel dibattito: la maggior parte rifiutava il teorema. René Baire e Henri Lebesgue rifiutarono l’assioma di scelta, anche se applicato a insiemi numerabili di insiemi:”°° Peano ribadì il suo rifiuto del principio incorporato nell’assioma;” Philip E. B. Jourdain sostenne di aver dimostrato il teorema del buon ordinamento prima di Zermelo, in modo più semplice e completo (ossia tale da rilevarne limiti che la dimostrazione di Zermelo non riconoscerebbe),°* senza far uso dell’assioma di scelta: Ernest W. Hobson respinse il principio incorporato nell’assioma,”’ e considerò anche dubbia la deduzione di Zermelo, con una motivazione simile a quella di Jourdain:”" Godfrey H. Hardy accettò l’assioma,”°° ma sottoscrisse la ragione di Hobson per dubitare DalVi [PMI], vol. II, parte II, sez. C, sommario, p. 184.

253 V. Zermelo [1904]. 254 V. Schoenflies [1905], $ 3, p. 182-183, e Bernstein [1905], p. 193. Diremo di più sull’obiezione di Schoenflies e Bernstein quando esporremo la dimostrazione di Zermelo [1904] (v. sotto, nota 280). Tre anni dopo, Schoenflies cambierà la sua posizione, sostenendo che la

dimostrazione di Zermelo prova l’equivalenza dell’assioma di scelta e del teorema del buon ordinamento, ma non risolve il problema del buon ordinamento (v. Schoenflies [1908], cap. 1, $ 9, p. 36).

29° V. Borel [1905]. 256 V. in Baire, Borel, Hadamard e Lebesgue [1905], pp. 263-264, e p. 268). Curiosamente, Baire, Borel e Lebesgue continuarono a fare un uso inconsapevole dell’assioma nelle loro ricerche anche dopo averlo respinto. In proposito, v. G. H. Moore [1982], $ 2.3, pp. 95-103.

257 V. Peano [1906a] [1906b], $ 1.

258 Jourdain, naturalmente, difendeva la dimostrazione fornita in Jourdain [1904] — cui abbiamo accennato sopra, nel $ 2.1.3 — che ritene-

va più “completa” di quella di Zermelo nel senso che essa rivelerebbe i limiti del teorema del buon ordinamento, valido — secondo Jourdain — solo per gli “aggregati consistenti”, non per gli “aggregati inconsistenti” (per questa terminologia, v. ancora sopra, $ 2.1.3). In Jourdain [1905b] egli afferma infatti che né la propria dimostrazione, né quella di Zermelo dimostrano, per es., che la potenza del continuo sia un alef; nelle sue parole: «Nessuno dei due teoremi ci permette di affermare che il continuo numerico abbia un numero cardinale che non è contraddittorio, 0, in altre parole, che 2%0 sia un Alef [...], o che l’esponenziazione con un numero cardinale transfinito sia un'operazione

possibile» ($ 6, p. 469). La ragione — secondo Jourdain — è che l’aggregato dei numeri reali potrebbe non essere un “aggregato consistente”, cioè potrebbe essere un aggregato avente un sottoaggregato cardinalmente simile all’aggregato di tutti i numeri ordinali. Per la critica di Zermelo alla posizione di Jourdain, v. Zermelo [1907], $ 2, c, pp. 120-121 (in Zermelo [2010], pp. 144 e 146, trad. ingl. a fronte, e in van | Heijenoort (ed.) [1967], pp. 192-194). 25 V. Jourdain [1905b], $$ 3 e 4, p. 468. Già all’inizio del 1906, tuttavia, Russell aveva convinto Jourdain che anche la sua dimostrazione faceva uso essenziale dell’assioma di scelta. Ma ciò non persuase Jourdain che l’assioma fosse necessario per ladimostrazione del teorema. In seguito, Jourdain fu sempre più ossessionato dall’assioma di scelta. Dal marzo del 1918 fino alla morte, il primo di ottobre del 1919,

Jourdain pubblicò diversi articoli contenenti una dimostrazione del teorema del buon ordinamento che egli riteneva non facesse NO) dell’assioma di scelta — provando quindi l’assioma di scelta stesso. Nonostante che tutti gli studiosi dell’epoca — tra i quali | amico Russell, Whitehead e Hardy — respingessero la dimostrazione di Jourdain, perché faceva implicitamente DINO, dello stesso assioma di scelta, Jourdain rimase incapace di vederne la fallacia e, sentendo approssimarsi la morte, fu sempre più amareggiato dalla presunta incomprensione suoi oppositori (in proposito, v. G. H. Moore [1982], $ 3.8, pp. 188-192).

260 V. Hobson [1905], $ 10, pp. 182-183, e $ 11, pp. 184-185.

i

I

TEEN

261 V. Hobson [1905], $ 11, p. 185. Oltre all’uso dell’assioma di scelta — da cui egli riteneva dipendere la dimostrazione di Jourdain non

meno di quella di Zermelo — Hobson obietta alla dimostrazione zermeliana che essa non terrebbe conto della possibilità dell’esistenza di insiemi “inconsistenti”, nel senso attribuito al termine da Jourdain, cioè di insiemi aventi un sottoinsieme cardinalmente simile all insieme

“inconsistente” di tutti i numeri ordinali — ai quali non può essere attribuito un numero ordinale. Scrive Hobson: «Il mancato riconoscimento dell’esistenza di aggregati “inconsistenti”, la cui esistenza, assumendo la teoria di Cantor, non si può negare, introduce un elemento

294

capitolo 4

posizione della deduzione di Zermelo:”9 Gerhard Hessenberg accettò la deduzione di Zermelo, ma mantenne una

agnostica riguardo alla validità dell’assioma di scelta,” e altrettanto fece Russell;°°° Henri Poincaré accettò l'assioma,” ma respinse il teorema del buon ordinamento perché, nella sua dimostrazione, Zermelo ricorreva a inaccettabili.” Pochi, come Jacques Hadamard,”* Cassius J. Kedefinizioni “impredicative” — per Poincaré 3 c o 7 271 yser,”® e Georg Hamel,””® accettarono sia l'assioma sia la deduzione del teorema.

Per superare le critiche alla deduzione del teorema, nel 1907 Zermelo pubblicò un articolo in cui forniva una nuova dimostrazione — che evitava un passo critico, ma dipendente anch’essa dall’uso essenziale dell'assioma di scelta —, e difendeva la sua prima dimostrazione dagli oppositori; inoltre, in un altro saggio che fu pubblicato poco dopo, fornì per la prima volta un’assiomatizzazione rigorosa della teoria degli insiemi.?”? Gradualmente, si riconobbe in generale che il teorema del buon ordinamento seguiva dalle premesse, cosicché quelli che ritenevano incredibile il risultato concentrarono le loro obiezioni su tali premesse: in particolare, sull’assioma di scelta. Ma perché il teorema del buon ordinamento risultava tanto incredibile? Una ragione è spiegata da Russell in un suo articolo del 1911.2? Il fatto è —

dice Russell — che «[m]olti abili matematici hanno cercato di trovare una

serie ben ordinata costituita dai numeri reali, ma nessuno è riuscito a trovare una tale serie».°”! Si può congetturare che l’assioma di scelta avrebbe incontrato meno resistenze, se non fosse stato che rendeva dimostrabile un teo-

rema, come quello del buon ordinamento, da molti considerato del tutto implausibile. Come vedremo più avanti, tuttavia, la pertinenza di tale argomento dipende da una certa concezione metafisica delle classi e delle relazioni in estensione. Come si dimostra il teorema del buon ordinamento usando l’assioma di scelta? L'essenza delle dimostrazioni di

Zermelo è compendiata così da Russell nella sua Introduction to Mathematical Philosophy: Essa [la dimostrazione di Zermelo] usa la forma [dell'assioma di scelta] che chiamiamo “assioma di Zermelo”, cioè assume che, data una qualsiasi classe a, ci sia almeno una relazione R uno-molti il cui dominio inverso consista in tutte le sottoclassi esistenti

[cioè, non vuote] di @e tale che, se x ha la relazione R con $, allora x è membro di é. Una tale relazione sceglie un “rappresentante” da ciascuna sottoclasse; naturalmente, accadrà spesso che due sottoclassi abbiano lo stesso rappresentante. Ciò che fa Zermelo, di fatto, è contare i membri di @ uno per uno, per mezzo di R e dell’induzione transfinita.[??°] Prendiamo prima il rappresentante di & chiamiamolo x. Prendiamo poi il rappresentante della classe consistente di tutti gli @ eccetto x}; chiamiamolo x. Esso dev'essere MIELI addizionale riguardo a questa dimostrazione» (Hobson [1905], $ 11, p. 185).

V. Hardy [1906], p. 17, e le lettere di Hardy a Russell del 30 giugno 1905, in Garciadiego [1992], appendice, pp. 192-195, e del 5 luglio 1905, in Garciadiego [1992], appendice, pp. 203-204; in particolare, p. 195 e p. 204.

» V. Hardy [1906], p. 17, nota, e in Garciadiego [1992], appendice, p. 204 (lettera di Hardy a Russell del 5 luglio 1905). V. Hessenberg [1905]. Più tardi (v. Hessenberg [1909]), Hessenberg accettò sia l’assioma di scelta sia l’assiomatizzazione della teoria degli insiemi fornita da Zermelo in [1908].

vaV., per es., in Russell [2001a], pp. 490-491 (lettera di Russell a Couturat del 26 aprile 1905), e Russell

[19062], $ II.

V. Poincaré [1906b], $ XIII, p. 313. Nel luogo citato, Poincaré afferma che l’assioma di scelta è «un giudizio sintetico a priori senza il quale la “teoria cardinale” sarebbe impossibile, tanto per i numeri finiti quanto per quelli infiniti» (ibid.). Più tardi, nel 1912, Poincaré sema invece rifiutare l’assioma di scelta (v. Poincaré [1912], e G. H. Moore [1982], $ 3.6, p. 177).

V. Poincaré [1906b], $ XIV, p. 315. Diremo di più sull’obiezione di Poincaré quando esporremo la dimostrazione di Zermelo [1904] (v. sotto, nota 279).

268 v_, per es., le lettere di Hadamard in Baire, Borel, Hadamard e Lebesgue [1905], pp. 261-263, e pp. 259-272

299 V_ Keyser [1905].

270 V. Hamel [1905].

27! Per una trattazione più approfondita delle reazioni alla prima dimostrazione zermeliana del teorema del buon ordinamento, v. G. H. Moore [1982], $$ 2.3-2.10.

272 V. Zermelo [1907] e Zermelo [1908]. Il primo saggio fu completato il 14 luglio 1907 e il secondo il 30 luglio 1907 (v. G. H. Moore

[1982], $ 3.2, p. 158), ma l’assiomatizzazione della teoria degli insiemi di Zermelo fu sviluppata, nelle sue lince fondamentali, tra il 1905 e i il 1906 (v. G. H. Moore [1982], $ 3.2, pp. 155-157).

23 V. Russell [1911d].

274 Russell [1911d], p. 407. 275 L’induzione transfinita è un principio che afferma che se (1) una proprietà @ è vera per il primo elemento di un insieme ben ordinato S e (2) il fatto che sia vera per tutti gli elementi di S che precedono un certo elemento x implica che sia vera per x, allora @ è vera per tutti gli elementi di $S. Questo principio si può dimostrare così. Supponiamo che la tesi sia falsa, cioè che il sottoinsieme di S contenente eli x Da

cui la proprietà non è vera non sia vuoto. Poiché $ è ben ordinato, tale sottoinsieme deve avere un primo elemento x; che, in basale (1) non può essere il primo elemento di $. Ma allora la proprietà @ deve valere per tutti gli elementi di S che precedono x}, e dunque, in base alla (2), @ dev'essere vera anche per xj, cosa che è contro l’ipotesi che per x; la proprietà @ non valga. Dunque, l’ipotesi che il nigi 10 di induzione transfinita sia falso porta a una contraddizione. Talora si sente dire che il principio d’induzione transfinita sarebbe valido pen

io che lo sia ua di scelta. Questo è un fraintendimento, la cui origine non è difficile da rintracciare: il principio di induzione RR si può applicare solo a insiemi ben ordinati,ua e spesso si fa uso dell’assioma transfinita scelta perpe mostrare insie di dell’assioma che un strare c DI RI di scelta che un certo insieme puòI essere

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

295

diverso da x, perché-ogni rappresentante è membro della propria classe, e x, è escluso da questa classe. Procediamo in modo simile a togliere x,, e sia x3 il rappresentante di ciò che è rimasto. In questo modo otteniamo dapprima una progressione x}, x9, ..., X LLSTIOIOAI assumendo che @non sia finita. Togliamo poi l’intera progressione; sia Xe il rappresentante di ciò che è rimasto di . In questo modo possiamo Ie avanti finché non rimane nulla. I successivi rappresentanti formeranno una serie ben ordinata contenente tutti i membri di a.

In realtà, questa versione semplificata fornita da Russell non corrisponde fedelmente alle dimostrazioni di Zermelo del 1904 e del 1907. Esaminiamo queste ultime più da vicino. In entrambe le sue dimostrazioni, Zermelo ricava un buon ordinamento di un insieme arbitrario @ dalla supposizione dell’esistenza di una funzione — chiamata “7° in Zermelo [1904] e “@” in Zermelo [1907] — la quale scelga un unico rappresentante da ciascuno dei sottoinsiemi non vuoti di &.°”” Nella sua prima dimostrazione, Zermelo definisce quelli che chiama “yinsiemi” di a. Un yinsieme di @ è un sottoinsieme ben ordinato di @ ciascun elemento del quale, Xx» Sia il rappresentante (secondo la funzione di scelta 7) dell’insieme degli elementi di @ che non precedono x, nel z-insieme dato. È chiaro che il primo elemento di ogni yinsieme sarà il rappresentante (secondo 7), xo, dell’intero @ infatti, nessun elemento di potrà @ precedere, nel yinsieme dato, il primo elemento del y-insieme, e dunque, secondo la definizione, il primo elemento del y-insieme sarà il rappresentante dell’intero a. In generale, ogni elemento xy di un Yrinsieme sarà il rappresentante dell’insieme @ — 2, — dove a, è l’insieme di tutti gli x, con v< 4, e @ — a, è l'insieme di tutti gli elementi di @ che non appartengono ad &, . Dopo aver mostrato che, per ogni insieme @, devono esistere dei suoi insiemi (per es., l’insieme ben ordinato avente per elementi xy e x1, ordinati secondo la grandezza de-

gli indici), e che, dati due yYinsiemi distinti, uno dev'essere una sezione dell’altro,’* cosicché la loro unione (cioè l’insieme di tutti i membri di ciascuno dei due) è ancora un yinsieme, Zermelo considera l’insieme unione, L, di

tutti i Y-insiemi (L,ècioè l'insieme di tutti i membri di ciascuno dei y-insiemi), che sarà ancora, per quanto detto,

un yinsieme.””? Per il modo in cui è definito, l'insieme ben ordinato L,è tale che il suo primo elemento è il rappresentante x) di &, e i suoi elementi successivi sono tutti i rappresentanti x, degli insiemi @ — @,, fino ad aver esaurito tutti gli elementi di a. Che l’insieme ben ordinato L,esaurisca effettivamente tutti gli elementi di &, è di-

mostrato da Zermelo osservando che, se esistesse un elemento che fa parte di @ ma non di L, allora l'insieme di tutti gli elementi di 2 che non appartengono a L, non sarebbe vuoto, e quindi avrebbe un rappresentante x,, distinto da tutti i membri di L,(in quanto membro di @— L,)); ma allora, aggiungendo x,, a Ly, otterremmo un nuovo 7

insieme, i cui elementi dovrebbero far parte di L,, cosicché x,, farebbe e non farebbe parte di L,; una contraddizione. Quest'ultimo passo della dimostrazione —

il passo 7.V, in Zermelo [1904] (pp. 515-516) — è quello che nel

1905 lasciava in dubbio Schoenflies e Bernstein," e che è evitato nella seconda dimostrazione. In quest’ultima,

276 Russell [1919a], cap. 12, pp. 123-124. 277 La simbologia che uso nel descrivere le dimostrazioni di Zermelo è liberamente adattata, rispetto a quella dei saggi di Zermelo; tuttavia, per facilitare il raffronto con le dimostrazioni originali, ho ritenuto opportuno conservare le locuzioni zermeliane “yinsieme” e “©-catena”,

la denominazione dell’insieme ben ordinato L,, e la lettera greca maiuscola “©” per indicare un insieme generico che risponda alla definia zione di ©-catena. 278 Siano infatti S,e T, due yinsiemi. Poiché, per ipotesi, essi sono ben ordinati, si potranno correlare a partire dai loro primi elementi. Ma allora i due insiemi dovranno coincidere, oppure uno dei due dovrà essere una sezione dell’altro. Se non fosse così, vi sarebbe un primo elemento, $y, di uno dei due (che potrebbe anche essere il suo primo elemento in assoluto) che sarebbe diverso nat corrispondente ciemento,

t,, dell’altro, mentre tutti gli elementi precedenti l’4-esimo, se ve ne sono, sarebbero identici; ma questo è impossibile, perche Sy È l’elemento scelto dalla funzione ynell’insieme che comprende tutti i membri di & che siano diversi dai predecessori di 5,, € 1, è l'elemento scelto dalla funzione ynell’insieme che comprende tutti i membri di @ che siano diversi dai predecessori di 1,; se i predecessori diSy SONO gli stessi dei predecessori di £,, i due insiemi coincidono, cosicché la funzione ysceglierà da essi un medesimo elemento, e si avrà Sy=

(a contro l’ipotesi che 5, # ty. 279 Si osservi che la definizione dell’insieme L,è impredicativa (v. sopra, cap. 2, $ 5.2.2, e cap. 3, $ 9.4), perché esso è definito come l’unione di fusti i Yinsiemi, dei quali fa parte L, stesso. Per questo motivo, la dimostrazione di Zermelo è rifiutata da Henri Poincaré, che

pure è disposto ad ammettere l’assioma di scelta (v. Poincaré [1906b], $ XIV, p. 315). Zermelo risponde all obiezione di Poincaré — che

[ 1907], $2,b, sussiste anche rispetto alla sua seconda dimostrazione del teorema del buon ordinamento (v. sotto, nota 282) — in Zermelo

pp. 116-118 (in Zermelo [2010], pp. 136, 138, e 140, trad. ingl. a fronte, e in van Heijenoori (ed.) [1967], PP. 190-191). Esamineremo le concezioni di Poincaré riguardo all’ impredicatività nel cap. 8, $$ 4.2.1 e 4.2.3. Per il nocciolo della replica di Zermelo, v. sotto, cap. 12, $ aventi il ZIO Nel 1905, Schoenflies e Bernstein consideravano legittimi l’insieme ordinato W di tutti i numeri ordinali, e gli insiemi ordinati

medesimo numero ordinale di W, ma, in vista del paradosso di Burali-Forti, reputavano questi insiemi non estensibili per aggiunta di nuove per qualche insieme unità (v. Schoenflies [1905], p. 181, e Bernstein | 1905], pp. 188-190). Su questa base, essi obiettavano a Zermelo che,

296

capitolo 4

Zermelo definisce una 9-catena (Kette)?®! come un qualsiasi sottoinsieme, ©, dell’insieme potenza di un insieme a, Cl‘a, avente queste proprietà: (1) aè un elemento di ©;

(2) se q,è un elemento di ©, lo è anche @, — {xy}, dove xy è il rappresentante di @, secondo una funzione fissata

@ che scelga — come l’assioma di scelta prevede — un unico rappresentante da ciascun sottoinsieme non vuoto di 0); (3) per ogni sottoinsieme di 0, {@,, @y ...}, il prodotto logico (l’intersezione) di tutti i suoi elementi (cioè l'insieme di tutti gli elementi che appartengono sia ad @,, sia ad 4, ecc.), appartiene all’insieme 0.

È evidente che lo stesso insieme di tutti i sottoinsiemi di @, Cl‘, è una @-catena. Zermelo considera il prodotto logico, A (Zermelo, che chiama “M” l’insieme 4 lo chiama “M”), di tutti gli insiemi ©, cioè di tutte le O-catene.

A sarà quindi la @-catena più piccola — in altri termini, quella che ha per elementi “soltanto” gli elementi richie-

, l’insieme ordinato L, dei suoi insiemi potrebbe avere lo stesso numero ordinale di W, e dunque essere inestensibile, anche se @— L, non è un insieme vuoto (v. Schoenflies [1905], $ 3, pp. 182-183, e Bernstein [1905], p. 193). Nel suo articolo, Bernstein fornisce anche due

supposti controesempi al teorema di Zermelo, asserendo che l’insieme W non può essere ben ordinato, perché, per ogni ordinale & Ng, 1 è il numero cardinale di qualche segmento di W, cosicché W non può avere numero cardinale & , (e quindi non può avere come numero cardinale un alef). Inoltre, egli afferma che l’insieme potenza di W, Z, non può essere ben ordinato, perché, per il teorema di Cantor, il numero cardinale di Z dev'essere maggiore di quello di W, mentre se Z potesse essere ben ordinato, allora sarebbe ordinalmente simile a un segmento di W, cosicché il numero cardinale di Z sarebbe minore, o al massimo uguale a quello di W (v. Bernstein [1905], pp. 191-192). Nel 1905, in una lettera a Borel, Hadamard obiettò a Bernstein che, se l’insieme W esiste, è impossibile impedire l’aggiunta di un elemento ad esso per ottenere un insieme ben ordinato con un numero ordinale più grande di W; in realtà, secondo Hadamard, la soluzione del paradosso di Burali-Forti è che l’insieme W non può esistere (v. in Baire, Borel, Hadamard e Lebesgue [1905], p. 271). Due anni dopo, anche Zermelo

replicherà alle critiche di Schoenflies e Bernstein negando l’esistenza dell’insieme W (v. Zermelo [1907], $ 2, c, pp. 122-123 (in Zermelo [2010], pp. 146, 148, e 150, trad. ingl. a fronte, e in van Heijenoort (ed.) [1967], pp. 194-195)).

Più tardi, Schoenflies e Bernstein modificheranno la loro posizione, ma in direzioni diverse. Mentre Schoenflies, nel 1913, accetterà entrambe le dimostrazioni di Zermelo (v. Schoenflies e Hahn [1913], cap. 10, p. 170, e G. H. Moore [1982], $ 3.6, p. 182), nel 1919 Bernstein

sosterrà che l’assiomatizzazione della teoria degli insiemi proposta da Zermelo nel 1908 consente di dimostrare troppo, perché rende possibile derivare il teorema del buon ordinamento (v. Bernstein [1919], p. 72, e G. H. Moore [1982], $ 3.3, pp. 165-166). 281 Come Zermelo riconosce (v. Zermelo [1907], $ 2, b, p. 117 (in Zermelo

[2010], p. 138, trad. ingl. a fronte, e in van Heijenoort (ed.)

[1967], p. 190)), il termine e l’idea di “catena” (Kette) sono mutuati da Richard Dedekind ([1888], $ 4). Dato un insieme s (Dedekind usa il

termine “sistema” (System) con il significato di “insieme”’), e una funzione (Dedekind la chiama “rappresentazione” (Abbildung)), @, che fa corrispondere a ciascun elemento di s un elemento di s, Dedekind definisce: e catena, rispetto a quella funzione @, come un sottoinsieme di s, x tale che, se un elemento x appartiene a x, vi appartiene anche l’elemento @(x) (v. Dedekind [1888] $ 4, punto 37); e

catena di un insieme & (rispetto alla stessa relazione @), Q)(0), dove @ è un sottoinsieme di s, come l’intersezione di tutte le catene di elementi di s cui appartengono tutti i membri di @ (v. Dedekind [1888] $ 4, punto 44).

Dedekind usa la nozione di catena di un insieme per definire le progressioni (egli chiama una progressione “sistema semplicemente infinito” (Einfach unendliches System)). Una progressione, N, è definita come un insieme ordinato da una funzione il quale soddisfi quattro condizioni, che Dedekind chiama a, /, ye ò, complessivamente equivalenti agli assiomi di Peano (v. sopra, cap. 2, nota 2): (Q) sex appar-

tiene a N, vi appartiene anche @(x); (8) N è la catena, @9({1}), dell’insieme {1}, che ha per elemento solo un'entità chiamata “1”: (7) non

esiste nessun elemento x di N è tale che @(x) = 1; (d) per ogni x e ogni y appartenenti a N, se x # y, allora P(x) # P(y) (altrimenti detto, la funzione è uno-uno) (v. Dedekind [1888] $ 6, punto 71). Intuitivamente, @ è in questo caso una funzione che, applicata a un elemento della progressione, dà il suo successore immediato, ossia — se una funzione è considerata come una relazione uno-molti tra valori e argo-

menti — è la relazione tra il successore di un elemento della progressione e l’elemento stesso; come abbiamo visto nel CUP. d, SI

dalla

relazione

@ è facile ricavare una relazione d'ordine semplice (cioè una relazione riflessiva, antisimmetrica, transitiva e connessa): tale relazione d’ordine semplice sarà la relazione ancestrale della conversa di @( @, , nella simbologia di [PM]). Il primo termine di una progressio-

ne qualsiasi è chiamato “1” da Dedekind non per caso; egli infatti scrive: «Se nel considerare un sistema N semplicemente infinito, ordinato da una rappresentazione [Abbildung)] @, si prescinde interamente dalla particolare natura dei suoi elementi, si tiene ferma soltanto la loro distinguibilità, e si considerano solo le relazioni in cui essi sono posti l’uno con l’altro dalla rappresentazione ordinante @, allora questi esa Se numeri pariina O) opiaia ordinali o anche semplicemente numeri, e l'elemento fondamentale [ Grundelem Di € n “x, (4 aj :Prie Aric: y 2) Dî D su A, aki è chiamato il numero fondamentale [Grundzahl] della serie numerica [Zahl/enreihe] N» (Dedekind [1888], $N 6, punto

La nozione zermeliana di ©-catena è evidentemente una generalizzazione al transfinito della nozione dedekindiana di catena di un insieme: intuitivamente, il passo (2) permette di avanzare da un elemento dell’insieme © al suo “successore”. mentre il passo (3) permette di avanzare da un intero insieme a dna AGC di elementi di © a un ulteriore elemento di ®, che li segue tutti, consentendo di arrivare a elementi che non sono “successori” immediati di nessun altro elemento.

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

297

sti da (1), (2), e (3)282 Zermelo mostra che A è un insieme ben ordinato dalla relazione inversa a quella di inclu-

sione tra insiemi (il suo primo elemento è @ e ogni suo elemento successivo è un sottoinsieme di ciascuno dei precedenti), e che i suoi membri sono posti in corrispondenza uno-uno con tutti i membri di @ dalla funzione di scelta fissata, @, che seleziona un unico rappresentante da ciascun sottoinsieme non vuoto di a. Può essere interessante vedere ancora un’altra dimostrazione del teorema del buon ordinamento, che si ricava dal teorema (Hart) che abbiamo esposto nel $ 7.2.2 del cap. 1 (teorema di Hartogs): (Hart)

Se a è un insieme qualsiasi, allora esiste un altro insieme ben ordinato K tale che il suo numero cardinale

non è né minore, né uguale a quello di a. A partire da (Hart) e assumendo l’assioma di scelta è possibile provare che ogni insieme può essere ben ordinato. Notiamo innanzi tutto che se si riesce a provare che per qualsiasi insieme @ esiste almeno un insieme ben ordinato —

di numero ordinale, diciamo, x — il cui numero cardinale è uguale al numero cardinale di a, il teo-

rema del buon ordinamento è dimostrato. Infatti, in questo caso, gli elementi di @ possono essere ordinati secondo l’ordine degli elementi dell’insieme di numero ordinale 2 ad essi correlati da una qualsiasi relazione biunivoca. La presente dimostrazione del teorema del buon ordinamento consiste, in breve, nel prendere, dato un qualsiasi

insieme 4, un certo particolare numero ordinale ve nel mostrare che deve esistere un 4 < vche è il numero ordinale di un insieme ben ordinato avente lo stesso numero cardinale di a. Come vsi prende proprio il numero ordinale dell’insieme ben ordinato K del teorema (Hart). La dimostrazione procede poi per assurdo. Supponiamo, per assurdo, che sia vero che: (I)

Esiste un insieme a tale che per ogni 4< v sia sempre falso che z sia il numero ordinale di un insieme di cardinalità uguale a quella di a.

Per procedere con la dimostrazione occorre servirsi dell’induzione transfinita. Innanzi tutto, l'insieme @ non può essere vuoto, perché se lo fosse sarebbe falsa l’ipotesi che, per ogni 4 < v, 4 sia diverso dal numero ordinale di una classe di cardinalità uguale a quella di @ (0 è infatti il numero ordinale della classe vuota, e 0 < 1°*°). Dunque possiamo prendere un elemento di @ — sia esso x) — come rappresentante dell’intero insieme a. Poi, supponendo di aver definito per ogni y < 4 un rappresentante x, dell’insieme @ — 4, cioè l'insieme degli elementi di @ che non sono anche in 4@, mostriamo che è possibile definire ancora un rappresentante xy dell’insieme @ — @,, dove Q, è l'insieme di tutti gli x, con y < 4. Intanto, abbiamo che @ — @, non è mai la classe vuota: infatti @,, può essere ordinato come una serie avente numero ordinale , e l’ipotesi stabilisce che è sempre falso che £ sia il numero ordinale di una classe di cardinalità uguale a quella di @. Allora, assumendo l’assioma di Zermelo, possiamo sempre scegliere un rappresentante x, di ciascun @ — Qy Dunque, per induzione transfinita, si dimostra che è possibile scegliere, per ogni 4< v un rappresentante x, che è un elemento dell’insieme &. Ora, l’insieme ordinato dei 4 che precedono

v deve avere numero ordinale v°8° ne

segue che c’è una corrispondenza uno-uno tra gli elementi di un insieme ordinato di numero ordinale ve almeno una parte degli elementi di @. Ma anche K è un insieme che ha numero ordinale ve quindi anche gli elementi Ji possono essere messi in correlazione uno-uno con almeno alcuni degli elementi di a. Ne segue, per definizione, che il numero cardinale di K dev'essere minore o uguale a quello di a. Ma questo è impossibile, perché in contraddizione con quanto stabilito dal teorema (Hart). Dunque dall'ipotesi (1) segue una falsità, per cui tale ipotesi dev'essere falsa e la sua contraddittoria — cioè che per ogni & esiste un

come la definizione dell’insieme L, nella prima dimostrazione zermeliana del buon ordinamento (v. sopra, nota 279) a. e stesso È ess pa o a Acc i rQe7] a |} > defini èà -’hé icnti ù j : — la definizione dell’insieme A è impredicativa, perché A è definito come l intersezione fetutte le ®-catene, ed è i stesso una ©-catena 282 Si osservi che —

i

“ni7i

i 283 La dimostrazione seguente è dovuta a Wactaw Sierpinski, ed è adattata da Wilder [1952], cap. 5, 5.1 4, pp. 137-138. — cardinale similitudine alla rispetto equivalenza di classi le tutte di l’insieme è K ordinato 284 Ricordiamo, in breve, che l’insieme ben dei crescente esce ezza grande secondo secondo ordinate e &, ordinate i d e @, ‘lassi di s a d sottoclassi e t a m r o f da — formate cardinale” o r e cardinale 38 numero stesso lo G i “avere relazione alla i r ioè rispetto cioè numeri cardinali dei loro elementi. 285 In questo caso, 1 sarebbe il numero ordinale della classe K. ;

>

>

250:Na, sopra, cap. 1, $ 6.2. teorema (T).

287 V_ sopra, cap. 1, $ 5.1.

298

capitolo 4

4< Vche è il numero ordinale di un insieme ordinato di cardinalità uguale alla cardinalità di

4 — dev'essere vera.

Da ciò segue, come dicevamo all’inizio, il teorema del buon ordinamento. 4.2.3.2. Non solo il teorema del buon ordinamento può essere dedotto dall’assioma di Zermelo,”* ma l’assioma di

Zermelo può, a sua volta, essere dedotto dal teorema del buon ordinamento. Supponiamo, infatti, che ogni insieme possa essere ben ordinato, e prendiamo un insieme arbitrario a. È facile trovare una relazione R uno-molti il cui dominio inverso consista in tutte le sottoclassi non vuote di 2 e tale che, se x ha la relazione R con la classe 4, allora x è membro di #8 si procede così: si assegna ad un buon ordinamento, e quindi si prende come relazione R la relazione tra il primo elemento di ciascuna sottoclasse di @ (secondo il buon ordinamento assegnato ad 0) e la sottoclasse stessa.” Poiché ciascuno dei due può essere dedotto dall’altro, l’enunciato del teorema buon ordinamento è equivalente all’enunciato dell’assioma di Zermelo: l’ enunciato del teorema del buon ordinamento può quindi essere considerato come uno dei modi possibili di enunciare l’assioma di scelta.” Nel primo capitolo ($ 7.2.1) avevamo dimostrato che dal teorema del buon ordinamento — e quindi dall’assioma di scelta — dipende un importante risultato per la teoria dei numeri transfiniti: che tutti i numeri cardinali transfiniti sono confrontabili; in altri termini, per essi vale la tricotomia: se due numeri cardinali non sono

uguali, uno dei due dev'essere maggiore dell’altro. Il ragionamento era stato più o meno questo: si era dimostrato che i numeri cardinali di insiemi che possono essere ben ordinati sono sempre confrontabili; se dunque si prova — assumendo l’assioma di scelta — che tutti gli insiemi possano essere ben ordinati, si ottiene che tutti i numeri cardinali sono confrontabili. La dimostrazione che due numeri cardinali transfiniti siano sempre confrontabili dipende dunque — via teorema del buon ordinamento — dall’assioma di scelta.??! Avevamo anche visto (v. sopra, cap. 1, $ 7.2.2) che, viceversa, se si assume che tutti i numeri cardinali siano

confrontabili, si può dimostrare il teorema del buon ordinamento: dunque il teorema del buon ordinamento equivale al teorema secondo cui tutti i numeri cardinali sono confrontabili. Poiché — come abbiamo visto — il teorema del buon ordinamento equivale all’assioma di scelta, si ha che l’enunciato che asserisce che, se due numeri

cardinali sono diversi, uno è maggiore dell’altro è equivalente all’assioma di scelta.” Se si vuole negare l’assioma di scelta bisogna dunque ammettere che esistono numeri cardinali non confrontabili, cioè che la tricotomia non vale in generale per i numeri cardinali. A prima vista sembra evidente che se due numeri non sono uguali, allora uno debba essere minore e l’altro maggiore: ma quale argomentazione intuitiva ci conduce a pensarlo? Si potrebbe ragionare come segue. Immaginiamo di dover confrontare il numero cardinale di @ con il numero cardinale di 8, dove @ e £ sono insiemi qualsiasi. Operiamo così: prendiamo un elemento di &@ e un elemento di f e uniamo questi elementi in coppia; poi prendiamo un altro elemento di & e un altro elemento di f e mettiamo in coppia anche questi; procediamo così finché non avremo esaurito tutti gli elementi di & o tutti gli elementi di B. A questo punto avremo tre possibilità: (1) Tutti gli elementi di @e di f saranno stati utilizzati. (2) Tutti gli elementi di @ saranno stati utilizzati, ma non tutti quelli di /. (3) Tutti gli elementi di 8 saranno stati utilizzati, ma non tutti quelli di @.

Nel primo caso gli insiemi @ e / avranno, per definizione, lo stesso numero cardinale. Nel secondo caso, sempre per definizione, o @ ha lo stesso numero cardinale di 8 oppure ne ha uno minore. Nel terzo caso, o @ ha lo stesso numero cardinale di ffoppure ne ha uno maggiore. In tutti e tre i casi i numeri cardinali dei due insiemi sono con-

frontabili. Siccome & e f sono insiemi qualsiasi, che possono avere qualsiasi numero cardinale, sembra che dobbiamo concludere che due numeri cardinali non possono non essere confrontabili. A288 V. [PM], vol. III, #258, sommario, pp. 96-97, e *258.32.

28 V. [PM], vol. II, #250.51. 290

n° V. [PMI], vol. III, *258, sommario, p. 97, e #258.36, Russell [1911d], p. 404, e Russell [1919a], cap. 12, pal25:

na V. Russell [ 191 Id], p. 404, punto 1°. V. anche Russell [1903a], $ 345, p. 364, dove la confrontabilità tra tutti i numeri cardinali è fatta rencae dal principio del buon ordinamento (sul quale Russell, già all’epoca, si mostra scettico: v. anche Russell [ 1902a], p.410). Prima che, nel 1915, Hartogs dimostrasse il suo teorema secondo cui, dato un insieme qualsiasi &, esiste un altro insieme K che è ben

AL HG numero SIA I è Do minore, né uguale a quello di @ — da cui deriva che se vale la tricotomia, vale il teoema del buon or inamento (v. sopra, Cap. Il $ 7.2.2) — S1 riteneva comunemente che la confrontabilità tra tutti i numeri cardinali (tricotomia) fosse un’assunzione più debole dell’assioma di scelta.

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

299

Questo ragionamento è reso plausibile da una somiglianza tra la procedura descritta e alcuni reali processi fisici che si svolgono nello spazio e nel tempo: se si comincia con il togliere un elemento da ciascuno di due normali mucchi di oggetti e si continua togliendo ripetutamente un elemento da ciò che rimane di ciascuno dei due mucchi, è evidente che prima o poi si giungerà ad aver esaurito uno di essi. Tuttavia, se supponiamo che entrambi i mucchi contengano infiniti oggetti, tale procedura non funzionerà in generale. Se ogni passo della procedura richiede un tempo finito che non possa ridursi oltre un certo limite, sia pure piccolissimo, è ovvio che essa non avrà mai termine. Potremmo immaginare che non esista alcun limite teorico oltre il quale il tempo impiegato a compiere ciascun passo non possa ridursi: questo, se non fisicamente, appare a prima vista logicamente possibile. In queSto caso, si potranno compiere © passi in un tempo arbitrariamente piccolo: per es., se il primo passo richiedesse un minuto, e ciascun passo successivo richiedesse la metà del tempo del precedente, dopo due minuti si sarebbero compiuti © passi.°* E si potrebbe procedere oltre: immaginando, per esempio, di compiere i primi @ passi in un

minuto, e ciascun lotto successivo di altri @ passi nella metà del tempo del precedente lotto di © passi, in due mi-

nuti si sarebbero compiuti ©° passi. E si potrebbe mite inferiore alla riduzione di un lasso di tempo. metodo descritto non sarà mai possibile compiere Questo ci fa capire come la metafora temporale siemi di potenza

procedere ancora oltre — sempre nell’ipotesi che non vi sia liMa, per quanto diventiamo abili nel comprimere i tempi, con il ®; passi. contenuta nel nostro ragionamento iniziale vacilli di fronte a in-

Xo, e si sgretoli totalmente già di fronte a insiemi di potenza N, che sono molto “piccoli”, ri-

spetto alle grandezze enormi che — come abbiamo visto nel primo capitolo — possono raggiungere gli insiemi transfiniti. La difficoltà sarebbe superata se avessimo un “meccanismo” capace di effettuare simultaneamente una scelta di un elemento da ciascun sottoinsieme non vuoto degli insiemi di partenza. In questo modo, gli insiemi di partenza potrebbero essere ben ordinati seguendo i metodi indicati da Zermelo, e quindi i loro membri potrebbero essere accoppiati in ordine di apparizione.”’* Il problema è che, nella maggioranza dei casi, non siamo in grado di descrivere nessun meccanismo del genere, se ci troviamo di fronte un insieme di infiniti insiemi. Dal punto di vista matematico, ciò che sarebbe richiesto è l’esistenza, per ogni insieme infinito di insiemi non vuoti, di una funzione che scelga uno e un solo elemento da ciascuno dei suoi membri. Ma se non siamo in grado, in generale, di descrivere precisamente almeno una di tali funzioni, di definirla, assumere che essa esista sempre — non importa se come relazione uno-molti in intensione o in estensione (classe di coppie ordinate) — ammonta semplicemente all’assunzione dell’assioma di scelta. Se tale assioma fosse falso, il confronto tra due insiemi

@ e f potrebbe risul-

tare impossibile, e in questi casi gli insiemi avrebbero numeri cardinali non confrontabili.

"2% S

293 Questa possibilità è suggerita in Russell [1936b], p. 323.

29 Si può notare come, nelle sue dimostrazioni del teorema del buon ordinamento, Zermelo eviti accuratamente di considerare un'infinità di scelte successive, di un elemento da un insieme arbitrario &@e di un ulteriore elemento da ciascuna delle rimanenze di @, in modo che ciascuna scelta dipenda da scelte effettuate in precedenza. Nelle dimostrazioni di Zermelo, l'assioma di scelta opera solo consentendo di scegliere contemporaneamente un elemento da ciascun membro di una classe di classi non vuote, o, per dirla altrimenti, in modo che ciascuna scelta sia affatto indipendente da tutte le altre. Il punto è sottolineato da Hadamard in una lettera a Borel del 1905. Borel aveva concluso il suo intervento del 1905 sui Mathematische Annalen a proposito della dimostrazione zermeliana del buon ordinamento asserendo

che il ragionamento di Zermelo non gli pareva «meglio fondato del seguente: “Per ben ordinare un insieme M è sufficiente scegliervi arbitrariamente un elemento cui si attribuirà il rango 1, poi un altro cui si attribuirà il rango 2, e così di seguito transfinitamente [transfiniment], vale a dire finché non si siano esauriti tutti gli elementi di M per mezzo della successione dei numeri transfiniti”. Ora, nessun matematico considererà valido quest’ultimo ragionamento. Mi sembra che le obiezioni che si possono qui opporre valgano contro ogni ragionamento

dove si suppone una scelta arbitraria fatta un’infinità non numerabile di volte; tali ragionamenti sono fuori del dominio della matematica» (Borel [1905], p. 195). Nella lettera menzionata, Hadamard obietta a Borel:

«Jo non ammetto, innanzi tutto, l'assimilazione che tu istituisci tra il fatto che serve da punto di partenza di M. Zermelo e ilragionamento che consisterebbe nell’enumerare gli elementi dell’insieme uno dopo l’altro, quest'enumerazione essendo proseguita transfinitamente. Ca in effetti, una differenza fondamentale tra i due casi: il ragionamento citato per ultimo comporta una serie di scelte successive, ciascuna

delle quali dipende dalle precedenti; è per questo che la sua applicazione transfinita è inammissibile. Io non vedo alcuna analogia che si possa stabilire, dal punto di vista che ci interessa, tra le scelte in questione e quelle di cui parla M. Zermelo, le quali sono indipendenti l’una dall’altra» (lettera di Hadamard a Borel in Baire, Borel, Hadamard e Lebesgue [1905], p. 261). Si osservi che la verità dell’assioma di scelta per insiemi di insiemi di potenza 2% implica la possibilità di effettuare No scelte dipen-

di effetdenti da un insieme numerabile, ma la verità dell'assioma di scelta per insiemi di insiemi di potenza Xy non implica la possibilità

tuare No scelte dipendenti da un insieme.

capitolo 4

300

4.2.4. L’ASSIOMA DI SCELTA E L’IPOTESI DEL CONTINUO

Se tutti gli insiemi possono essere ben ordinati, allora per ogni insieme esiste un insieme ben ordinato che ha lo stesso numero cardinale. Ma il numero cardinale di un insieme transfinito ben ordinato è un alef: dunque,

nell’ipotesi che sia vero il teorema del buon ordinamento, tutti i numeri cardinali transfiniti sono alef. Quindi an-

che il numero cardinale del continuo dev'essere un alef. Ciò, tuttavia, non consente di risolvere il problema posto dall’ipotesi del continuo: cioè non consente di stabilire se &, =2%°: né — tanto meno — consente di risolvere il problema posto dall’ipotesi generalizzata del continuo: cioè non consente di stabilire se valga in generale che Nyu41 =. Dunque, dall’assioma di scelta non si può dedurre la verità dell’ipotesi del continuo. In particolare si dimostra?” che la teoria degli insiemi di Zermelo-Fraenkel,”°° anche con l’aggiunta dell’assioma di scelta, formulata al primo ordine,””” è consistente sia con quest’ipotesi, sia con la sua negazione (supposto, naturalmente che essa sia consistente senza di esso).

Se si enuncia l’ipotesi generalizzata del continuo, come abbiamo fatto alla fine del $ 6.3 del cap. 1, cioè come equivalente alla congiunzione delle asserzioni seguenti: (1)

Ogni numero cardinale transfinito è un alef,

Dtracte è ovvio che l’ipotesi generalizzata del continuo implica l’ assioma di scelta, perché quest’ultimo equivale a (1). Ma c’è un altro modo di enunciare l’ipotesi generalizzata del continuo: (3)

Per ogni numero cardinale transfinito a, non esiste nessun numero cardinale b tale che a < b < 2°.

Si può dimostrare — cosa che non è affatto ovvia — che (3) implica (1), da cui segue facilmente che (3) equivale alla congiunzione di (1) e (2). Questo teorema, enunciato senza dimostrazione da Adolf Lindenbaum e Alfred

Tarski nel 1926, è stato dimostrato nel 1947 da Wactaw Sierpifiski.°°* Poiché dall’assunzione dell’ipotesi generalizzata del continuo consegue (1), e dunque l’assioma di scelta, ma dall’assioma di scelta non si può dedurre la verità dell’ipotesi generalizzata del continuo, ne segue che l’ipotesi generalizzata del continuo è un’assunzione più forte dell’assioma di scelta.

4.3. RUSSELL E L’ASSIOMA DI SCELTA

Che Russell avesse usato l’assioma di scelta, prima di ravvisarvi, nel 1904, un principio nuovo non sorprende, se si considera l’influenza esercitata su di lui da Cantor. Ma in seguito Russell considerò dubbio l'assioma.”

295 La dimostrazione è dovuta a Cohen ([1963-64]). 29 V. sotto, Caprel29a1a183:

297 Se la teoria degli insiemi di Zermelo-Fraenkel è formulata al second’ordine, la situazione è un po’ diversa. Infatti, come vedremo nel In quest’unico modello, l’ipotesi del continuo e l’ipotesi generalizzata del continuo devono essere vere o false. Se sono vere. sono una conse: cap. 12, $ 1.1.3, è possibile formulare tale teoria in modo che risulti categorica, cioè che abbia un solo modello, a meno di isomorfismi.

guenza logica degli assiomi (perché sono vere in tutti i modelli in cui sono veri gli assiomi), altrimenti, se sono false, sono una conseguen-

za logica degli assiomi le loro contraddittorie. Ciò non significa, però, che questi enunciati o i loro contraddittori debbano essere paria bili, perché la logica del second’ordine è semanticamente incompleta: in essa, cioè, non è possibile dimostrare tutti gli etunciati validi (v sotto, cap. 14, $ 2.3). In effetti, anche se la teoria degli insiemi di Zermelo-Fraenkel è formulata al second’ordine, l’ipotesi del continuo oa Doo essere né derivata, né refutata, a partire dai suoi assiomi (v. Weston [1977]). o V. Lindenbaum e Tarski [1926], teorema 95, p. 314, e Sierpifiski [1947]. La dimostrazione di Sierpinski fa uso di una variante,

allo stesso Sierpifiski, della dimostrazione del teorema di Hartogs (v. sopra, cap. 1, $ 7.2.2); da tale variante risulta che cardinale transfinito a, esiste un alef, X(a), che non è né minore, né uguale a a, e che è minore o uguale a Da

per A

dovuta

NEUE

9a

cioè al numero cardinale

dell insieme potenza dell’insieme potenza dell’insieme potenza di un insieme avente numero cardinale a. Per la dimostrazione. v. anche Sierpifiski [1958], cap. 16, $ 1, pp.410-412, e $ 5, pp. 437-439. 1) che l’assioma iplicati lassi implica l'assioma Zer 2°° Nel 1905 i e 1906 ussellRussell sapeva sapeva che l’assioma didi Zermelo implica moltiplicativo, ma dubitava se valesse l'inverso sospettando che l’assioma moltiplicativo potesse essere più debole di quello di Zermelo. Tuttavia, anche prima di aver dimostrato, nel 1907. che queste sono formulazioni equivalenti dell’assioma di scelta, Russell considerava dubbi entrambi i principi ; da

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La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

301

In una lettera del 26 aprile 1905, Russell informa Couturat di aver letto l’articolo di Zermelo contenente la prima dimostrazione del teorema del buon ordinamento e di averlo tradotto nella sua logica simbolica; poi enuncia l'assioma di scelta in una forma asserente l’esistenza di un’unica funzione che “estrae” uno e un solo elemento da ciascun insieme non vuoto esistente.” Riguardo a tale possibile assioma, Russell scrive: Ma non so se quest’assioma sia vero. Non trovo nessun paralogismo nel ragionamento di Zermelo [cioè, nella sua dimostrazione del teorema del buon ordinamento] e penso che il risultato che dimostra sia molto interessante; ma questo non è C “Q = C/s [“Ogni classe può essere ben ordinata”] poiché non si deve mai ammettere un assioma tanto complesso e dubbio. [...] Il principio che, data una classe non nulla di classi non nulle che si escludano l’una con l’altra, si possa prendere un termine in ciascuna per formare una nuova classe è d’uso costante. Ho creduto dapprima di poterlo dimostrare quando si può ben ordinare ciascuna delle classi, perché allora si potrebbe prendere il primo termine di ciascuna di esse. Ma per questo bisognerebbe scegliere, per ciascuna classe, una delle relazioni di cui essa è il campo. Si usa quindi, per queste relazioni, lo stesso principio che bisognerebbe dimostrare.?0!

Il 12 maggio 1905, in un’altra lettera a Couturat, Russell ribadisce, riferendosi all’assioma di Zermelo:

«Non

vedo alcuna ragione di pensare che l’assioma sia vero». In una lettera a Couturat del 4 luglio 1905, Russell scrive, riferendosi alla validità dell'assioma moltiplicativo limitatamente alle classi di X classi: «È possibile che questo si possa dimostrare; dico solo che non so come si faccia». Questi dubbi provocarono la reazione di Couturat, che il 10 luglio 1905 scrisse a Russell: Che voi non possiate, finora, dimostrare la P. 3‘x‘% [la proposizione che esiste una selezione da X] è possibile; ma ciò che mi sor-

prende è che sembriate dubitare della sua verità. Mi sembra evidente che sotto l’Hp: ke Cls°Excl:ue

k. >, 3°u [che xsia una classe di classi non vuote mutuamente esclusive]

si possa estrarre un individuo da ciascuna classe [che sia elemento di] xe formare così una nuova classe. E allora, vedendo che non

riuscite a dimostrare una cosa che pare così semplice e facile, mi chiedo se non sia il difetto delle definizioni o dei principi del vostro sistema. Comprendete e scusate quest’atteggiamento di spirito critico: ma mi sembra che un sistema logico debba poter dare tutto ciò che è dato dal senso comune.

Il 23 luglio 1905, Russell replica a Couturat concordando che, senza dubbio, il buon senso afferma l'assioma moltiplicativo, ma aggiunge: Esso afferma anche uc v. d‘v— u. > . Nc'v> Nc‘u [se u è una sottoclasse propria di v, allora il numero cardinale di v è maggiore di quello di ueuc v.ucw.>.A°v0w [se u è una sottoclasse sia di v sia di w, allora l’intersezione tra v e « non è vuota], ecc. Esso è dunque una guida abbastanza ingannevole. Se fossi sicuro che l'assioma di Zermelo è vero, lo prenderei come Pp [proposizione primitiva]. Esso è equivalente a (3f) : A‘u .>y.f‘ue u [esiste una funzione tale che per ogni classe non vuota u sceglie almeno un elemento, f(v), di u] che è abbastanza semplice; ma al momento non so se si possa ammettere un tale assioma senza giungere a contraddizioni. Zermelo ha mostrato che implica C/s © C “Q (cioè, qualsiasi classe può essere ben ordinata); e io credo che si possa mostrare che questo è falso.399

Qui Russell è chiaro: i suoi dubbi sull’assioma di scelta derivano non solo dal fantasma delle contraddizioni, ma anche dalla convinzione che il principio del buon ordinamento debba essere falso. In effetti, già nel 1901 Rus300 V. in Russell [2001a], p. 490. Si tratta di una forma dell’assioma oggi nota come assioma di scelta globale (la designazione “axiom of global choice” è stata introdotta da Azriel Lévy, che lo usa in Fraenkel, Bar-Hillel e Lévy [1973] (cap. DS 44, p. 72) al posto della sua

precedente “axiom of universal choice”). Nei sistemi per la teoria degli insiemi che non ammettono l’esistenza di una classe comprendente tutte le entità —

come quello di Zermelo di cui parleremo nel cap. 12, $ 1.1 — si tratta di un assioma di scelta più forte di quello prima e-

nunciato. Non è così, invece, se si ammette l’esistenza di una classe di tutte le entità; Russell lo chiarisce in [1906a]: «Applicando il suo

assioma [l'assioma di Zermelo] alla classe di tutte le entità, troviamo che, se esso vale universalmente, ci deve essere una funzione f°u tale

che, se u è una qualsiasi classe esistente [cioè, che ha almeno un elemento], allora f‘u è un membro di u. Per converso, se c è una tale fun-

zione, l’assioma di Zermelo è ovviamente sempre soddisfatto. Quindi, se c’è una classe di tutte le entità, il suo assioma è equivalente a: f*% è un membro di 4» (Russell [1906a], $ II, p. 162). f ‘u tale che, se u è una qualsiasi classe esistente, “C’è una funzione

301 In Russell [2001a], pp. 490-491.

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+

persi

carat

302 In Russell [2001a], p. 500. In una lettera a Hardy del 22 giugno 1905, Russell si esprime nello stesso modo nei confronti dell’assioma formoltiplicativo: «[...] se un insieme di classi consiste di classi mutuamente esclusive, nessuna delle quali sia nulla, dev’essere possibile

mare una classe composta di un solo termine di ciascuna classe dell’insieme. Ciò può essere vero, ma non conosco nessuna ragione per crederlo» (in Garciadiego [1992], p. 191).

si VA "iom

Pali25t

. 508. pl

512. Questo brano, così come la frase della lettera precedente, sono riportati anche in G. H. Moore [1982], $ 2.7,

305 In Russell [2001a], p. 520.

capitolo 4

302

sell considerava perlomeno dubbio il principio del buon ordinamento: nell’articolo “Théorie générale des séries bien-ordonnées”, pubblicato nel 1902 ma scritto nella prima metà del 1901, Russell scrive: «Non c’è ragione, per quanto posso vedere, di credere che ogni classe possa essere ben ordinata». Nei Principles si legge: Si può dubitare se tutti gli individui formino una serie; per parte mia non riesco a scoprire nessuna relazione transitiva asimmetrica che valga tra ogni paio di termini. Cantor, è vero, considera una legge del pensiero che ogni aggregato infinito possa essere ben ordinato: ma non vedo nessuna base per quest’opinione. [...] Ci possono essere due classi tali che non sia possibile correlare nessuna delle due con una parte dell’altra; in questo caso il numero cardinale dell’una non sarà né uguale a, né maggiore di, né minore di, quello dell’altra. Se tutti i termini appartengono a una singola serie ben ordinata, ciò è impossibile; ma se non è così, non riesco a vedere nessun modo di provare che un tale caso non possa sorgere.07

All’epoca Russell considerava implicitamente valido l’assioma di scelta, ma dopo aver visto — dalla dimostrazione di Zermelo — come da esso discenda il teorema del buon ordinamento, il suo scetticismo riguardo al principio del buon ordinamento si estese in modo naturale all’assioma di scelta. Sebbene nella lettera a Couturat del 4 luglio 1904 Russell attenui il suo scetticismo nei confronti di una forma dell’assioma moltiplicativo, limitata a classi di Xp classi, affermando solo di non essere in grado di dimostrarla, in un articolo scritto nell'autunno dello stesso anno, egli chiarisce che gli appare più probabile che l’assioma moltiplicativo si possa dimostrare falso: «[...] resta possibile che esso risulti suscettibile di confutazione [disproof] per reductio ad absurdum. Esso potrebbe, naturalmente, anche essere suscettibile di dimostrazione, ma questo è molto meno probabile».**

In un saggio del 1911, Russell afferma che l’assioma moltiplicativo cessa di apparire evidente una volta che si rifletta sul suo reale significato.’ ® Vediamo perché. Sappiamo che — qualora si abbia a che fare solo con insiemi finiti — porre un assioma come l’assioma moltiplicativo è superfluo. L’enunciato di tale assioma diviene, in questo caso, un feorema. Sia infatti x una classe finita di classi non vuote mutuamente esclusive: possiamo sempre descrivere una classe o che contenga esattamente un elemento per ciascuna classe appartenente a x semplicemente fornendo un elenco degli elementi di 0. Le cose però si complicano quando abbiamo a che fare con classi infinite. Il problema è che, se xè una classe infinita, sarà infinita anche la classe 0, e allora non potremo più descrivere tale classe fornendo un elenco dei suoi elementi: non porteremmo mai a termine il nostro compito. Nel saggio menzionato, Russell osserva che «quando si parla di una classe infinita, è necessario che essa sia data per mezzo di una proprietà che possiedono tutti i membri della classe e che nient'altro possiede: è impossibile che la classe sia data per enumerazione».!° Non potendo fornire un elenco infinito, per descrivere una classe infinita ci occorre — sostiene Russell — una regola che stabilisca in tutti i casi quali oggetti sono membri della classe in questione e quali non lo sono: per esempio, giacché i numeri naturali sono infiniti, essi non possono essere definiti semplice-

mente dandone l’elenco, ma occorre una proprietà tale che sia condivisa da tutti e solo questi numeri. «Dunque», argomenta Russell, «l’assioma moltiplicativo deve affermare che quando si ha un insieme di classi esiste sempre una qualche proprietà che è posseduta da un termine, e uno solo, in ciascuna classe che appartiene all’insieme».!' Russell prosegue: «Ora, ciò non è per nulla ovvio, secondo me. Mi trovo dunque condotto alla conclusione che l’assioma cessa di essere evidente dal momento in cui si afferra ciò che esso significa»? La conclusione di Russell è che l’assioma moltiplicativo non può essere considerato una verità indubitabile: «È possibile che sia vero, ma non c’è evidenza che sia così, e le sue conseguenze sono sorprendenti».'!*

30° 307 ** 3° 2!°

Russell [1902a], p. 410. Russell [1903a], $ 345, p. 364. Russell [1906a], $ III, p. 159. V. Russell [1911d], p. 407. Russell [1911d], p. 407.

3! Ibid. 3! Ibid.

s 3!3 Ibid. Russell si riferisce qui, come nella lettera a Couturat sopra citata, ata, èal teorema del buon ordiname amento. Sii osservi OSSErvi che Cc ; Ì all’epoca — il testo citato è del 1911 — non erano ancora note conseguenze dell’assioma di scelta come i cosiddetti paradossi di Hausdorff e di BanachTarski. Il paradosso di Hausdorff è il teorema dimostrato da Hausdorff nel 1914 (v. Hausdorff [1914b], e Hausdorff [ 1914a] cap. 10, $ 1 pp. 401-402 e “Nachtrige und Anmerkungen”, p. 469) secondo cui, assumendo l’assioma di scelta, ciò che resta di una mata

e

dalla quale sia rimosso un numero numerabile di punti, può essere suddiviso in modo che un terzo di esso sia congruente a due Vani dello stesso. Il paradosso di Banach-Tarski è uno sviluppo del teorema precedente, dimostrato da Banach e Tarski nel 1924 (v Banach e Tarski [1924]), secondo cui, assumendo l’assioma di scelta, è possibile dividere una sfera tridimensionale in un numero finito di parti che

pero

poste, costituiscono due sfere identiche all’originaria. Questi sono “paradossi”, però, solo nel senso che sono risultati venbrgiatultivi

non nel senso che diano origine a contraddizioni. Di fatto, l'assioma di scelta implica l’esistenza, nel normale spazio euclideo tridimensionale

di insiemi non misurabili di punti, cioè di insiemi di punti che sono sottoinsiemi di insiemi misurabili di punti, ma di cui non è possibile

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

303

Che ne è, allora, di tutti i teoremi matematici che dipendono dall’ assunzione dell’assioma moltiplicativo? Sono veri o falsi? La strategia adottata da Russell — a partire dal 1907 — è quella di trattare tutti questi teoremi come conseguenti di enunciati condizionali di cui l’assioma stesso costituisce l’antecedente: Molti teoremi elementari concernenti i cardinali richiedono l’assioma moltiplicativo. [...] Si deve osservare che quest’assioma è

equivalente a quello di Zermelo, [...] e quindi all’assunzione che ogni classe può essere ben ordinata. [...] Queste assunzioni equivalenti sono tutte, a quanto pare, non suscettibili di prova, anche se l’assioma moltiplicativo, almeno, appare assai autoevidente. In EIZO di prova, sembra meglio non assumere l’assioma moltiplicativo, ma affermarlo come ipotesi in ogni occasione in cui è usato.

Ognuno di questi condizionali resterà sempre logicamente vero, sia che l’assioma sia vero, sia che esso sia falso: se l’assioma moltiplicativo è vero, allora il condizionale è vero perché sono veri sia l’antecedente sia il conseguente; se l'assioma moltiplicativo è falso, allora il condizionale è ancora vero perché l’antecedente è falso. Da un punto di vista logicista si tratta, naturalmente, di un ripiego, a meno di non sostenere che la verità o falsità dell’assioma moltiplicativo sia una questione empirica 0, almeno, contingente. Ma, per lo stesso Russell, il principio espresso dall’assioma moltiplicativo ha il carattere di un principio logico. Nel 1911 egli afferma esplicitamente: «L'assioma moltiplicativo ha la forma e il carattere degli assiomi della logica: non potremmo dimostrarlo per mezzo di dati empirici. Le considerazioni attinenti alla verità o alla falsità dell’assioma moltiplicativo sono considerazioni di logica, considerazioni a priori».:!° Come nel 1905, Russell suggerisce l’eventualità che esso si possa confutare: Può darsi che si trovi in futuro una riduzione all’assurdo che mostrerà che l’assioma è falso. Ma, per il momento, mi sembra che sia

soltanto dubbio. [...] In queste circostanze, mi sembra che si farebbe bene ad astenersi dall’utilizzarlo, se non in ragionamenti che al z ra È È Sa y 5 CAR È 1 diano speranza di condurre a un’assurdità e di decidere così in negativo la questione della verità dell’assioma.?!9

Come abbiamo anticipato, tuttavia, oggi si sa che l'assioma moltiplicativo non può essere né provato, né confutato, sulla base di principi logici riconosciuti, e anzi, che la teoria degli insiemi più utilizzata, quella di ZermeloFraenkel,'!” è consistente sia con quest’assioma, sia con la sua negazione (supposto, naturalmente che essa sia : ; 318

consistente senza di esso).

4.4. LA CRITICA DI RAMSEY A RUSSELL Criticando la posizione di Russell, in un articolo del 1925 intitolato “The foundations of mathematics”, Ramsey À

vi

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3

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319

sostenne vigorosamente il carattere di verità autoevidente dell’assioma moltiplicativo.”!° Per comprendere bene misurare l’area, o il volume, in modo che tali misure siano invarianti rispetto a rotazioni e traslazioni spaziali. In particolare, l’assioma di

scelta implica l’esistenza di porzioni di una superficie sferica, o di una sfera, la cui superficie, 0 il cui volume, non sono determinabili, oppure, secondo un altro modo di vedere la cosa, non restano invarianti rispetto a rotazioni e traslazioni spaziali. 1 314 Russell [1908], $ IX, pp. 98-99. V. anche [PM], vol. I, parte II, sez. D, sommario, pp. 481 e 482; vol. II, parte III, sez. C, sommario, p.

183; vol. II, #120.03, p. 203.

315 Russell [1911d], p. 407. 316 Russell [1911d], p. 407. ic AVI sotto, cap. 12, $ 1.1.3. 318 Come abbiamo già accennato, il completamento della dimostrazione è dovuto a Paul J. Cohen ([1963], [1966]), ma già prima degli anni

Sessanta si erano ottenuti risultati parziali significativi. Ricordiamo, in proposito, che Abraham Fraenkel (I 1922b]) aveva dimostrato che l’assioma di scelta è indipendente dagli assiomi della teoria degli insiemi di Zermelo in ogni modello insiemistico il cui dominio contenga un numero infinito di Urelemente, cioè di oggetti privi di elementi che non sono insiemi. Negli anni Cinquanta, Elliott Mendelson ([1956] e [1958]) e Ernst Specker ([1957], p. 193), in modo indipendente, avevano modificato il metodo seguito da Fraenkel, dimostrando che l’assioma di scelta non è un teorema della teoria degli insiemi di von Neumann-Bernays-Gédel senza Urelemente ma privata dell assioma di fondazione (cioè senza un assioma che escluda l’esistenza di insiemi non ben fondati, ossia di insiemi xy da cui parta una successione infinita discendente di appartenenze della forma: ... € xn42 E Xn4+1 E In E... € ME x E xo). Nel 1938, Kurt Godel aveva delineato la di-

mostrazione della compatibilità dell'assioma di scelta con gli altri assiomi della teoria degli insiemi di von Neumann, accennando che lo stesso risultato si poteva dimostrare anche rispetto ai sistemi dei Principia Mathematica e della teoria assiomatica degli insiemi di Zermelo-

Fraenkel; l’anno successivo, Godel aveva pubblicato una dimostrazione di compatibilità dell assioma di scelta con gli altri assiomi della

dell assioma teoria degli insiemi di Zermelo-Fraenkel (v. Gòdel [1939]), e, nel 1940, aveva pubblicato una dimostrazione di Oa di queste di scelta con gli altri assiomi della teoria degli insiemi di von Neumann-Bernays-Gòdel (v. Godel [1940]). Per una descrizione

teorie assiomatiche degli insiemi, v. sotto, cap. 12, $ 1.1.3. 319 V. Ramsey [19262], $$ II e V.

304

capitolo 4

l’obiezione di Ramsey che esporremo tra poco, osserviamo intanto una cosa. L'assioma moltiplicativo afferma che, se xè una classe di classi mutuamente esclusive e non vuote, esiste una classe 0 formata dagli unici rappresentanti estratti da ciascun membro di x Se esiste, 0'è una tra le tante sottoclassi dell’unione s°x delle classi che

sono membri di x. Allora, sostenere che per qualche x non esiste una selezione da x, è sostenere che alcune di

quelle che, intuitivamente, sembrano essere sottoclassi di s° x non esistono. Ma com'è possibile? In effetti, secon-

do Ramsey, l’assioma moltiplicativo diviene dubbio, per Russell, solo perché questi lo interpreta in modo errato. Quale sarebbe l’errore di Russell? Ramsey assume come obiettivo della sua critica la teoria sostenuta nei Principia Mathematica. Nei Principia, le asserzioni in cui compaiono apparenti riferimenti a classi e a relazioni in estensione sono reinterpretate come asserzioni coinvolgenti invece quelle che Russell chiama “funzioni proposi zionali”. Quale sia il preciso significato da attribuire a questo termine, nei Principia, è una questione intricata, che discuteremo a fondo più avanti,” ma che per gli scopi della presente discussione possiamo accantonare, assumendo che “funzione proposizionale” sia sinonimo di “proprietà esprimibile attraverso una formula finita”. Ramsey osserva — correttamente — che, stando alla teoria sostenuta nei Principia, per ogni (supposta) classe dev’esserci una funzione proposizionale che la definisce.?”! Una funzione proposizionale del genere si può talvolta esprimere in modo abbastanza semplice: ciò accade con tutte le classi finite; per esempio, la classe che ha per elementi a e d può essere definita attraverso il predicato “& = a v & = b”, dove “%” segnala i posti d’argomento del predicato. Tuttavia, quando abbiamo una classe infinita, non potremmo definirla usando il metodo precedente — a meno di non avere a disposizione espressioni di lunghezza infinita (anche superiore al numerabile).*?* Come essere sicuri, allora, che esista sempre una funzione proposizionale che decida in ogni caso se un certo elemento appartiene o no alla classe da definire? Nulla ce lo garantisce, argomenta Ramsey: potrebbero esserci, oltre alle classi in linea di principio definibili attraverso una funzione proposizionale, anche delle classi in linea di principio indefinibili. Certo — ammette Ramsey — di classi del genere non potremmo occuparci individualmente, poiché non possiamo nominarle; ma anch’esse sarebbero coinvolte in qualunque enunciato che incominci con “Per ogni classe...” o “C’è una classe tale che...”. Se vi siano o no classi indefinibili è — secondo Ramsey — una questione meramente empirica; può darsi di sì, può darsi di no. Ma è un errore — egli sostiene — stabilire a priori, come fa Russell, che non ne esistono, perché l’esistenza di una classe non ha nulla a che fare con la nostra possibilità di definirla" DI chiarire meglio lasua tesi, Ramsey porta un esempio che non riguarda le classi, ma le relazioni in estensione“ — anch'esse definite nei Principia sulla base di funzioni proposizionali (poliadiche). L'esempio è il seguente. Ramsey osserva che la similitudine cardinale tra due classi — cioè il fatto che due classi abbiano lo stesso numero cardinale — richiede l’esistenza di una relazione diadica in estensione uno-uno che abbia come dominio gli elementi della prima classe e come codominio gli elementi della seconda classe.” Su questa base, Ramsey argomenta: Ora se per relazione in estensione noi intendiamo relazione in estensione definibile, questo significa che due classi hanno lo stesso numero cardinale solo quando c’è una relazione o funzione reale f(x, y) che le correla termine a termine. Mentre evidentemente ciò che intendeva Cantor, che per primo diede questa definizione, era solo che le due classi fossero tali da poter essere correlate, non che ci debba essere una funzione proposizionale che realmente le correli. [...] Così le classi degli angeli maschi e femmine possono essere infinite e uguali in numero, cosicché sarebbe possibile appaiare completamente maschio con femmina, senza che ci sia alcuna relazione reale come il matrimonio che li correla.??°

Che nei Principia si dia una definizione di classe (e di relazione in estensione) la quale è applicabile solo alle

classi (e alle relazioni in estensione) definibili ha conseguenze particolarmente gravi — sostiene Ramsey” i proprio in connessione con l'assioma moltiplicativo. Se, infatti, con “classe” non s'intende “classe definibile”. secondo Ramsey, l'assioma moltiplicativo diviene una verità indubitabile; egli scrive:

320

I

IRROTOE,

7

ia V. sotto, cap. 11, $ 1. Per il significato del termine nel contesto dei Principles, v. sotto, cap. 6, $ 8.

“©

V. Ramsey [1926a], $ I, p. 22.

33 V. Ramsey [1926a], $ I, pp. 22-23. se Ricordiamo che una relazione in estensione è una classe di n-uple ordinate. Così una relazione in estensione ha con una relazione in intensione lo stesso rapporto che c’è tra una classe e una proprietà. © V. Ramsey [1926a], $ I, p. 23.

320 Ramsey [19262], $ I, p. 23. 327 V. Ramsey [1926a], $ I, p. 24.

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta Se per “classe” intendiamo, come

faccio io, qualsiasi insieme di cose di tipo omogeneo

305 non necessariamente definibile lisa]

l’ Assioma Moltiplicativo mi sembra la più evidente delle tautologie. Non vedo come ciò possa essere soggetto di dubbio ragionevole, e credo che non se ne sarebbe mai dubitato se non lo si fosse male interpretato.

Invece — aggiunge Ramsey — nell’interpretazione scorretta che l’assioma ha nei Principia, esso diviene realmente dubbio: non c’è infatti motivo di pensare che una selezione qualsiasi possa sempre essere definita da una funzione proposizionale.? Torniamo al nostro esempio delle sottoclassi di s°x Se assumiamo che, per essere una sottoclasse di sx. un insieme di elementi di s°x-debba essere definibile in modo finito, ecco che è possibile che alcune di quelle che intuitivamente possono apparire sottoclassi di s° non esistano. Ricapitolando: nell’interpretazione russelliana, ammettere l'assioma moltiplicativo significa ammettere che, per ogni possibile classe di classi (mutuamente esclusive, nessuna delle quali vuota) x esiste sempre una proprietà esprimibile in modo finito (una funzione proposizionale) che definisce una selezione da x, anche se in molti casi non siamo affatto in grado di costruirla; negare l'assioma moltiplicativo significa ammettere che ci sono casi in cui una selezione da x-non può essere definita. In ogni caso, per il Russell dell’epoca dei Principia, una classe costruita attraverso un insieme infinito di scelte arbitrarie è impossibile. Infatti, se le scelte sono davvero arbitrarie, non si può trovare nessuna proprietà esprimibile in modo finito che definisca l'insieme, e dunque non esiste un tale insieme. Per Ramsey, al contrario, una classe del genere è perfettamente legittima: essa non può definirsi in modo finito, ma questo non ha a che fare, per Ramsey, con l’esistenza della classe, ma solo con la nostra possibilità di descriverla. È interessante rilevare che, all’epoca dei Principles (1903), Russell aveva sostenuto riguardo alle classi, una

posizione vicina a quella che avrebbe poi adottato Ramsey: Classe può essere definito sia estensionalmente [extensionally] sia intensionalmente [intensionally]. [...] Ma sebbene la nozione

generale possa definirsi in questa maniera duplice, le classi particolari, eccetto il caso in cui esse sono finite, si possono definire soltanto intensionalmente, ossia come gli oggetti denotati da tali e tali concetti. Credo che questa distinzione sia puramente psicologica: da un punto di vista logico, la definizione estensionale appare ugualmente applicabile alle classi infinite [corsivo mio], ma in pratica, se volessimo tentarlo, la Morte interromperebbe il nostro lodevole sforzo prima che avesse raggiunto il suo scopo.??°

Nei Principles, dunque, che una classe infinita non possa essere definita per enumerazione è considerato un mero accidente pratico, non un fatto logico. Una posizione che Russell apparentemente conserva ancora nel 1905, perché in una lettera a Jourdain del 31 luglio 1905 egli scrive: «Non sostengo che la definizione mediante l'estensione sia logicamente limitata alle classi finite, ma lo è umanamente, perché non siamo immortali».®! Tuttavia, come dimostra la sua corrispondenza con Couturat, già a quell’epoca Russell considerava dubbio l'assioma di scelta — e ciò mostra che, in realtà, egli concepiva già le classi come estensioni di proprietà definibili in modo finito. In seguito, spinto dall’esigenza di trovare una teoria che riuscisse a far fronte ai paradossi, Russell rinunciò completamente al realismo riguardo alle classi. Nei Principia (1910), le espressioni in cui entrano simboli di clas-

se sono considerate semplici “modi di dire”, da interpretarsi, in realtà, come asserzioni riguardo a “proprietà” e sprimibili in modo finito (‘funzioni proposizionali”).?*° Come vedremo,” le espressioni in cui entrano simboli

328 Ramsey [19262], $ V, pp. 57-58.

Vini

330 Russell [1903a], $ 71, p. 69. 331 In Grattan-Guinness [1977], p. 55.

i

ìe

332 Più tardi, Russell sembra talora ritornare a posizioni più vicine a quelle dei Principles, riguardo alla possibilità logica di avere classi infinite non definite da una funzione proposizionale; talora, tuttavia, egli si mostra scettico, in proposito. In My Philosophical Development di i eat Mina (1959), Russell descrive così la posizione di Ramsey: «[...] Ramsey riteneva che non ci sia obiezione logica alla definizione di una classe infinita per enumerazione. Noi non possiamo definire una classe infinita in questo modo perché siamo mortali, ma la nostra mortalità è un fatto empirico che i logici dovrebbero ignorare. Su

, questa base, egli sosteneva, l’assioma moltiplicativo è una tautologia» (Russell | 1959], cap. 10, pp. l23-124). The Ramsey di (postumo) libro al recensione una in ma posizione, questa su definito parere un esprime Nello stesso libro, Russell non Foundations

of Mathematics and other Logical Essays, pubblicato nel 1931, Russell sembrava tornato a posizioni più vicine a quella dei

» visa siae i i Principles: «L'articolo [Russell si riferisce all’articolo di Ramsey “The foundations of mathematics”, incluso nel volume oggetto di 1ecensione] procesiano de nell’individuare tre difetti nei Principia Mathematica. Il primo consiste nel supporre che tutte le classi e le relazioni in estensione di contraddizioni, di generi due tra distinzione mancata nella consiste difetto secondo Il finite. proposizionali funzioni mediante definibili [Ramdell’identità trattamento il è difetto terzo Il semplificata. molto cui solo una richiede la teoria dei tipi, che di conseguenza può essere

306

capitolo 4

che (apparentemente) si riferiscono a proprietà sono a loro volta concepite, nei Principia come “modi di dire” da interpretarsi in termini di asserzioni su individui e universali (“qualità” e relazioni in intensione).** Nei Principia Russell rimane dunque platonista riguardo all’esistenza di certi universali (qualità e relazioni in intensione), ma assume un orientamento nominalista nei confronti di certi altri (classi, relazioni in estensione, e proprietà). L'opposizione individuata da Ramsey tra esistere ed essere definibile era già emersa con chiarezza vent'anni prima, nel dibattito sull’assioma di scelta tra Baire, Borel e Lebesgue da una parte, e Hadamard dall’altra: mentre

i primi obiettavano all’assioma di scelta che non si possono considerare matematicamente esistenti delle entità non definite, il secondo opponeva che l’esistenza o meno di qualcosa non può identificarsi con la nostra capacità di descriverla.* Di conseguenza, date le due domande: “Possiamo noi effettivamente descrivere un buon ordinamento di un insieme dato qualsiasi?” e “È possibile un buon ordinamento di un insieme dato qualsiasi?”, i primi vi vedevano due formulazioni della medesima questione, mentre Hadamard vi vedeva due questioni distinte, la prima delle quali di natura extramatematica.*° In questo dibattito si contrapponevano una visione costruttivista della realtà matematica (esistono solo le entità matematiche che possono essere effettivamente “costruite” concettualmente) e una concezione platonista (l’esistenza di entità matematiche è indipendente da noi e dalla nostra possibilità di definirle). Nel 1907, lo stesso Zermelo aveva abbracciato una concezione platonistica delle entità matematiche scrivendo, in difesa dell’assioma di scelta dalla critica di Poincaré alle definizioni impredicative, che «Un

oggetto non è prima creato [geschaffen] attraverso una tale “determinazione” [Bestimmung] [.. $ RE Sarebbe tuttavia inaccurato ridurre completamente i punti di vista opposti sull’assioma di scelta — come verità evidente o principio dubbio — a un’opposizione tra realismo e nominalismo, o tra realismo e concettualismo riguardo alle classi. La questione non è solo ontologica ma, in senso più lato, metafisica.*** Per esempio, l’ontologia di Frege riguardo alle classi non è meno platonista di quella di Ramsey. Tuttavia, nel sistema di Frege l’assioma di scelta non può considerarsi una verità evidente più di quanto si possa fare nel contesto — nominalista, riguardo alle classi — dei Principia. Infatti, Frege concepisce le classi come estensioni di concetti; i concetti, per Frege, sono funzioni che prendono per argomenti oggetti e danno come valori valori di verità: il Vero o il Falso; gli argomenti per i quali un concetto dà il valore Vero, sono i membri della classe determinata dal concetto; pertanto, nel nostro caso, se non esistesse una funzione che dia il valore Vero per tutti e solo i membri di una (supposta) selezione da una classe di classi x, la selezione stessa non esisterebbe. In Frege non vi sono elementi di concettualismo: per lui, concetti, relazioni e, più in generale, funzioni, sono entità del tutto indipendenti dalla mente umana e, per di più, sono estensionali; nondimeno, Frege non concepisce le classi (e le estensioni di relazioni) che come sey aveva fatto propria la critica che Wittgenstein aveva mosso alla definizione russelliana dell’identità: v. sotto, cap. 12, $ 2.11]. Da parte mia, io ammetto il primo e il secondo di questi difetti [corsivo mio] e considero il lavoro di Ramsey su questi punti di grande valore. Ciò gli permette di trattare l'assioma moltiplicativo come una tautologia [...]. Riguardo all’identità, tuttavia, sono meno convinto» (Russell [1931], p. 477).

Che la posizione di Russell fosse più vicina a quella di Ramsey, all’inizio degli anni 30 del Novecento, appare confermato anche da quanto Russell aveva scritto qualche anno prima in The Analysis of Matter (1927): «Sono stato condotto dagli argomenti, prima del Dr H. M. Sheffer, e poi di Mr. F. P. Ramsey, all’opinione che l’assioma di Zermelo sia vero; sono quindi meno riluttante di quanto fossi stato in precedenza ad assumere che gli eventi [spaziotemporali] possano essere ben ordinati» (Russell [1927a], cap. 28, pp. 299-300). Ma in un’altra recensione al libro di Ramsey Yhe Foundations of Mathematics and other Logical Essays, pubblicata nel 1932, pur subito dopo aver descritto l'impossibilità di specificare uno sviluppo decimale infinito di un numero reale, qualora questo sviluppo non sia prodotto da una legge, come «dovuta a ciò che è, dal punto di vista logico, un mero accidente, cioè il fatto che non viviamo per sempre», commendando di seguito: «La logica pura deve sicuramente essere indipendente da tali circostanze banali» (Russell [1932], p. 85), Russell esprime scetticismo sull’idea di avere collezioni non definite da una funzione proposizionale; egli scrive: «Se esiste un’obiezione valida [alla concezione ramseyana delle funzioni proposizionali in estensione] — cosa di cui mi sento incerto — dev'essere derivata da un esame del significato di “correlazione”. Una correlazione, interpretata in modo puramente estensionale, significa una collezione di coppie ordinate. Ora una tale collezione esiste se qualcuno la raccoglie, o se qualcosa di logico o di empirico la mette in-

sieme. Ma, se non è così, in che senso c’è una tale collezione?» (Russell [1932], p. 85). SMAVASOLLO Gap SAR

334 Si osservi che Russell usa solitamente i termini proprietà (property) e qualità (quality) in modo differenziato: le proprietà non sono,

generale, autentiche entità, mentre le qualità lo sono (v. sotto, cap. 11, $ 1.3).

in

335 V_ Baire, Borel, Hadamard e Lebesgue [1905].

# V. in Baire, Borel, Hadamard e Lebesgue [1905], p. 262, pp. 264-266, e p. 270. =» O [ 1907], SI20D3 pp. 117.1 18 (in Zermelo [2010], p. 138, trad. ingl. a fronte, e in van Heijenoort (ed.) [1967], p. 191). ; Uso l aggettivo “ontologico” per riferirmi a questioni circa il “Che cosa vi è?” e l’aggettivo “metafisico” , In senso più lato, per riferirmi LHUCHONI che riguardano anche la struttura di ciò che vi è. po \VASIDEG es., Frege [1893-1903], vol. Il, $ 147, p. 148. ì Frege scrisse tutte le sue opere principali, sui fondamenti della matematica prima del 1903 — quando l’assioma di scelta non era stato ancora riconosciuto come principio indipendente. Sebbene Frege sia morto nel 1925, quando il principio era noto da molti anni, non mi è noto nessuno scritto fregeano, edito o inedito, nel quale il problema dell’assioma di scelta sia menzionato. i

La crisi: i paradossi e l’assioma di scelta

307

estensioni di concetti-(e di relazioni), ossia ciò che lui chiama decorsi di valori [Werthverlcufe] di certe funzioni

(concetti e relazioni). Ecco dunque che anche in Frege l’assioma di scelta assume un significato simile a quello che gli attribuisce Russell — e non è affatto improbabile che questa concezione di Frege abbia influenzato il modo di concepire le classi del Russell post-Principles. In conclusione, le dispute sulla validità dell’assioma di scelta mettono in luce un conflitto tra due concezioni delle classi e delle relazioni in estensione che sono spesso confuse, soprattutto nella letteratura del passato: (1) classi e relazioni in estensione come estensioni di proprietà;

(2) classi come aggregati arbitrari di oggetti e relazioni in estensione come aggregati arbitrari di n-uple di 0ggetti.

La prima concezione, che deriva dalla logica tradizionale, è la più antica ed è quella condivisa da Dedekind, da Peano, da Frege, da Russell, e anche da Cantor, almeno quando, nel 1883, quest’ultimo definisce gli insiemi dicendo: «Per “molteplicità” [Mannichfaltigkeit] o “insieme” [Menge] intendo [...] in generale ogni Molti che si possa pensare come Uno [jedes Viele, welches sich als Eines denken léisst], cioè ogni collezione [Inbegriff] di elementi determinati [bestimmter Elemente] che possa essere unita [verbunden] in un tutto da una legge [Gesezz], e credo di definire con questo qualcosa di affine all’eidoc o idéa platonica [.. e La seconda concezione si potrebbe leggere nella definizione di “insieme” che Cantor diede nel 1895: «Per “insieme” [Menge] intendiamo ogni riunione [Zusammenfassung] in un tutto [zu einem Ganzen] M di oggetti determinati [bestimmten] e ben distinti [woh/unterschiedenen] m della nostra intuizione [unsrer Anschauung] o del nostro pensiero [unseres Denkens] (che sono chiamati gli “elementi” [Elemente] di M)»,} è quella sostenuta da Ramsey ed è quella sottostante alla moderna teoria standard degli insiemi. Come abbiamo già rilevato, le due concezioni portano a risultati identici quando si tratti di classi finite, ma l’assioma di scelta illustra bene come esse possano divergere quando si tratti di classi infinite. Chi sostiene che le relazioni diadiche siano estensioni di relazioni diadiche in intensione — come Russell — vedrà, per esempio, nel teorema del buon ordinamento un enunciato dubbio: che non si riesca a fornire una descrizione di un buon ordinamento, per es., dei numeri reali,°* fa legittimamente sospettare che tale descrizione non esista. Chi invece sostiene che le relazioni diadiche siano aggregati arbitrari di n-uple di oggetti può dubitare che esista una qualsiasi

descrizione finita di un buon ordinamento dell’insieme dei numeri reali, ma rifiutare di vedere in ciò una possibile refutazione del teorema del buon ordinamento: un buon ordinamento dei numeri reali può benissimo esistere, in questa concezione, anche se è impossibile definirlo.

Naturalmente se, come il Russell dei Principles, si adotta la concezione (1) delle classi e delle relazioni in estensione, ma si ammettono classi e relazioni definibili attraverso elencazioni infinite, si ottiene un risultato indistinguibile da quello comportato dalla concezione (2) — almeno per tutte le classi aventi una potenza non superiore all’infinito numerabile. L’assioma di scelta richiede dunque, per essere accettato come una verità evidente, una particolare posizione metafisica riguardo alle classi. Se le classi sono solo estensioni di proprietà esprimibili in modo finito — se devo-

no essere definibili, per esistere —, allora l'assioma enuncia un principio dubbio. Se le classi sono concepite come aggregati arbitrari di oggetti, che esistono indipendentemente da qualsiasi possibilità di “costruirli”, esso appare un’ovvietà. I paradossi insegnano però che non tutto ciò che appare ovvio al senso comune è coerente; in particolare, ci insegnano che non sempre possiamo raccogliere in una classe una molteplicità arbitraria di oggetti: per esempio, la classe di tutte le classi dà luogo al paradosso di Cantor, e quella di tutte le classi che non appartengono

to

341 v_, per es., Frege [1891], pp. 9-16, Frege [1893-1903], vol. I, $ 3, p. 8, e Frege [1895], p. 455.

34 Cantor [1883b], $ 1, nota 1, p. 204. La grafia del testo originale “Mannichfaltigkeit” è normalizzata, in

Kee

343 Cantor [1895-97], $ 1, p. 282 (in Cantor [1915], p. 85).

pa

me Cantor [1932], in

2 “Mannigfaltig-

ai

344 La speranza che tale descrizione potesse essere scoperta c’era ancora, ai tempi di Russell. Oggi però sappiamo — grazie a un teorema dimostrato da Solomon Feferman

(v. Feferman

[1964], $ 4) —

che è consistente con la teoria degli insiemi di Zermelo-Fraenkel, con as-

continuo. Detto sioma di scelta e assunzione dell’ipotesi generalizzata del continuo, che non esista alcun buon ordinamento definibile del con l aggiunta anche insiemi, degli teoria della accettati generalmente assiomi altri di e riconosciuti altrimenti, sulla base di principi logici dei numeri dell’ipotesi generalizzata del continuo, non è possibile fornire una descrizione di un buon ordinamento, per es., dell’insieme reali.

capitolo 4

308

a se stesse porta all’antinomia di Russell. Occorrono dunque delle cautele, per non trovarsi a sostenere una teoria metafisica che possa sì validare l'assioma di scelta, ma che si riveli infine incoerente.” Questo è un altro modo in cui la questione dell’assioma di scelta si connette con quella dei paradossi descritti nella prima parte di questo capitolo.

Nella teoria di Ramsey, per esempio, le entità sono suddivise in tipi, e non è consentito raccogliere in una classe entità di tipi diversi Questo evita i paradossi teoria didi Ramsey, SST insiemistici, INS SUCI, ma implica che, , anche nella a teoria qualsiasi icità formi SCY; non Èsiai vero che q ualsias cità didi entità > entità formi molteplicità si una classe. 345

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CAPITOLO 5

I GRUNDGESETZE E LA VIA D’USCITA DI FREGE

Il primo a pubblicare il paradosso di Russell fu Gottlob Frege, nella postfazione al secondo volume suoi Grundgesetze der Arithmetik (1903). Il volume precedente di quest'opera, nella quale Frege presentava una derivazione rigorosa dell’aritmetica da pochi principi che egli considerava puramente logici, era uscito dieci anni prima, nel 1893. La prefazione terminava con parole di sfida:

Chiunque abbia convinzioni diverse [sc. dalle mie convinzioni logiche] può ben tentare di erigere su di esse una costruzione simile, e diverrà consapevole, credo, che non funziona, o almeno non funziona così bene. E solo questo potrei riconoscere come confutazione, se qualcuno mostrasse con i fatti che sopra convinzioni fondamentali diverse si possa erigere un edificio migliore e più duraturo, 0 se qualcuno mi dimostrasse che i miei principi portano a conseguenze evidentemente errate. Ma questo non riuscirà a nessuno. E così possa questo libro, anche se tardi,['] contribuire a un rinnovamento della logica.”

Nel giugno del 1902, il secondo volume dei Grundgesetze era in stampa, quando Frege ricevette una lettera, datata 16 dello stesso mese, in cui Russell lo informava dell’esistenza del paradosso: Egregio collega, [...] Mi trovo in completo accordo con lei in tutte le cose essenziali [...]. Solo in un punto ho incontrato una difficoltà. [...] Sia w il predicato, essere un predicato che non può essere predicato di se stesso. Si può predicare w di se stesso? Da ogni risposta segue l’opposto. Si deve quindi concludere che w non è un predicato. Allo stesso modo non c’è una classe (come totalità [als Ganzes]) di quelle classi che come totalità non appartengono a se stesse. Ne concludo che in certe circostanze un insieme definibile non forma una totalità.

Nella lettera, Russell riferisce a Frege di aver già scritto a Peano, in proposito, senza però ricevere risposta.’ Frege, invece, rispose poco dopo, il 22 giugno 1902, con una lettera in cui diceva tra l’altro: «La sua scoperta della contraddizione mi ha sorpreso al massimo e, quasi vorrei dire, costernato, perché in questo modo vacilla la base su cui pensavo si fondasse l’aritmetica».° Dopo molti anni di lavoro, a quasi 54 anni, Frege era ormai sicuro di aver rigorosamente dimostrato che l’aritmetica si riduce a logica. La lettera di Russell lo pose di fronte al fatto che nel suo sistema logico era derivabile il paradosso di Russell — in altri termini, il suo sistema logico era contraddittorio. Egli fu profondamente scosso da questo risultato, ma, con onestà scientifica, riconobbe subito pubblica-

mente il problema:” nell’ottobre del 1902 aggiunse al secondo volume dei Grundgesetze una postfazione (Nach! Alcune pagine prima, all’inizio della stessa prefazione, Frege osservava che, nei Grundgesetze, si attuava il progetto «che mi ero già proposto fin dalla mia Begriffsschrift del 1879 e ho annunciato nelle mie Grundlagen der Arithmetik del 1884» (Frege [1893-1 903], vol. I, prefazione, p. viii). In una nota a fondo pagina, inserita dopo la frase riportata, Frege faceva riferimento all'introduzione e ai $$ 90 e dI delle

Grundlagen der Arithmetik. Frege spiegava anche che il ritardo di tanti anni tra l’annuncio e la realizzazione «risiede in parte in trasformazioni interne dell’ideografia [Begriffsschrift], che mi hanno costretto a scartare un manoscritto già quasi terminato» (Frege [1893-1903], vol. I, prefazione, p. ix).

? Frege [1893-1903], vol. I, prefazione, p. xxvi. ° In Frege [1976], p.211.

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4 Oltre che a Russell e a Peano, all’epoca il paradosso era già noto anche a Zermelo, il quale lo aveva scoperto in modo indipendente e co-

municato privatamente a Hilbert e a Husserl (v. sotto, cap. 12, $ 1.1.2). 5 Come mostrano le lettere di Peano a Russell (ora pubblicate in Kennedy [1975], pp. 90-81), ancora qualche anno dopo, Peano non aveva un’idea chiara sulla soluzione da dare ai paradossi. Si vedano le lettere del 16 febbraio, 27 luglio e 9 settembre 1906 (ora in Kennedy

[1975], rispettivamente, pp. 83-85, 85-87 e 87-88). Le lettere di Russell a Peano, a quanto pare, sono perdute.

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dello spirito scientifico dimostrato da Frege in quest'occasione. In una lettera a van Heijenoort del 23 novembre 1962 o gian egli scrive: «[...] non conosco nulla di comparabile con la dedizione di Frege alla verità. La sua intera vita di lavoro era sul punto di compiersi, molto del suo lavoro era stato ignorato a vantaggio di uomini infinitamente meno capaci, ilsuo secondo volume [dei Grundgesetze] stava per essere pubblicato, e di fronte alla scoperta che la sua assunzione fondamentale era sbagliata, rispose con piacere intellettuale, evi un segno eloquente di ciò di sui gli uodentemente soffocando qualsiasi sentimento di disappunto personale. Questo fu quasi sovrumano e essemini sono capaci se la loro dedizione è volta al lavoro creativo e alla conoscenza piuttosto che ai più grossolani sforzi per as re conosciuti»; (in van Heijenoort (ed.) [1967], p. 127). Sicuramente, nonostante la sua onestà scientifica, Frege non provò nessun

piacere

intellettuale” dalla scoperta di Russell: la postfazione dei Grundgesetze comincia con le parole: «E difficile che possa accadere a uno scrit-

capitolo 5

310

sistema logico dei wort) in cui descriveva accuratamente il paradosso, ne forniva due derivazioni all’interno del

Grundgesetze e ne proponeva una soluzione che salvasse parte di questo sistema — spesso citata in letteratura ile come la “Frege’s way out”. dei classi delle teoria della contesto In questo capitolo ci occuperemo di come il paradosso di Russell sorga nel fregeasemantica Grundgesetze, di come Frege tentò di porvi riparo e, infine, della questione della coerenza della na senza teoria delle classi.

1. IL SISTEMA DI FREGE

Per comprendere come i Grundgesetze siano vulnerabili al paradosso di Russell e il tentativo di soluzione di Frege, è necessario aver presenti alcune caratteristiche della filosofia matura di Frege, che cercheremo qui di riassumere. Frege distingue due categorie mutuamente esclusive di entità: funzioni e oggetti. Un oggetto (Gegenstand) è qualsiasi entità possa essere denotata da un nome proprio. Frege usa il termine nome proprio (Eigenname) nel senso ampio di “termine singolare”, vale a dire includente le descrizioni definite — cioè le espressioni come “la stella del mattino”, “l’autore di Waverley”,

9

(13

“il numero primo pari”, ecc. Nella semantica matura di Frege, tutti i

nomi propri — così come tutti i predicati e gli enunciati dichiarativi — hanno sia una denotazione (Bedeutung) sia un senso (Sinn); per esempio, “Walter Scott”, “l’autore di Waverley” e “l’autore di Ivanhoe” denotano lo stesso uomo, ma hanno sensi diversi. Frege ritiene che nel linguaggio naturale compaiano nomi propri che non hanno una denotazione, ma solo un senso, ! come, per esempio, “Nesso”, “Scilla”, “Nausicaa”, “il più grande nu-

mero finito”,

RI

‘il maggiore tra i numeri primi”; secondo Frege, nomi come questi possono andar bene nella poesia

o nella fiaba, ma non nella scienza, dove è importante non solo il senso di ciò che si dice, ma anche e soprattutto il

suo valore di verità (Wahrheitswert).!* Infatti, poiché per Frege il ruolo semantico di un nome proprio in un enunciato dichiarativo — cioè il ruolo svolto dal nome proprio per la determinazione del valore di verità dell’enunciato — è quello di denotare un oggetto del quale l’enunciato afferma qualcosa, gli enunciati dichiarativi in cui compaiono nomi propri privi di denotazione — come “Scilla ha sei teste”, “Pegaso è un cavallo” o “Il più grande numero primo è dispari” — non possono affermare qualcosa dell’oggetto denotato dal nome, e sono dunque privi di valore di verità, quindi scientificamente inutili.'* Per questo, Frege ritiene che in un linguaggio adeguato per gli

tore scientifico qualcosa di più indesiderato che uno dei fondamenti del suo edificio sia infirmato dopo il completamento del suo lavoro. Sono stato messo in questa situazione da una lettera del signor Bertrand Russell, quando la stampa di questo volume si approssimava alla fine» (Frege [1893-1903], vol. II, postfazione, p. 253).

* V_, per es., Frege [1892a], pp. 26-27. ? Il tedesco “Bedeutung” vuol dire, letteralmente, “significato”. Nel suo uso fregeano maturo, esso è variamente tradotto in inglese con “meaning”, “denotation”, “reference”, o “what ... stand for” (nell’appendice A di Russell [1903a], il termine è tradotto con “indication’), e in italiano con “significato”, “denotazione”, o “riferimento”. In.modo corrispondente, le voci del verbo “bedeuten” (letteralmente “sienifi-

care”), nel loro uso fregeano maturo si trovano variamente tradotte in inglese con le voci dei verbi “to mean”, “to denote”, “to refer”, “to stand for”, e in italiano con le voci dei verbi “significare”, “denotare”, “riferirsi”, “stare per”. Consapevole che qualsiasi scelta presenta qui

degli inconvenienti, ho preferito in questo caso “denotazione” e “denotare” perché, anche se indubbiamente meno letterali, evitano inutili confusioni con la nozione di “senso”, che nell’italiano, tedesco e inglese correnti è resa spesso con le parole corrispondenti a “significato”. In due casi mi è però parso opportuno tradurre “Bedeutung” (e voci affini), in modo più neutro, con “significato” (e voci affini): nelle citazioni dai testi fregeani precedenti il 1891 — laddove Frege non aveva ancora operato la distinzione tra Sinn e Bedeutung, (v. nota seguente), e adoperava “Bedeutung” e “bedeuten” non come termini tecnici, ma nel loro senso corrente —, e nei passi riportati dalla Coteisport denza tra Frege e altri studiosi, perché certamente i corrispondenti di Frege che scrivevano in tedesco — tra i quali c'è anche Russell — usavano e intendevano il termine nel suo significato usuale non tecnico. Nei casi in cui ho tradotto “Bedeutung” (e voci affini) con “signifiDi (e voci affini), ho segnalato tra parentesi il termine originale tedesco usato da Frege. ; V., per es., Frege [1892a], pp. 26-27. Frege teorizza la distinzione tra senso e denotazione solo a partire dal saggio “Funktion und Be-

griff°, presentato alla Jenaische Gesellschaft firr Medicin und Naturwissenschaft il 9 gennaio 1891. In precedenza, egli parlava del contenuto (Inhalt) dei segni: termine con il quale egli sembra riferirsi talora — nel caso dei nomi propri — a quello che poi chiamerà la Bedeutung del segno, e talaltra

— nel caso degli enunciati dichiarativi —

a quello che poi chiamerà il Sinn del segno. Prima del 1891,

Frese utilizza le

parole “Bedeutung”, “bedeuten”, e “Sinn” nelle loro accezioni comuni, per cui spesso, in questo periodo, “Bedeutung” e “Sinn” sone uu SN AD “Inhalt”. Frege rileva il cambiamento nella sua teoria semantica in una lettera a Husserl datata

11n V., per es., Frege [1892a], p. 28 e p. 41, Frege [1892d], p. 133, Frege [1897a], p. 370, Frege [1897b], p. 141. S V., per es., Frege [1892a], p. 33, Frege [1893-1903], vol. I, prefazione, p. xxi, e vol. II, $ 64, p. 72, e Frege [1906b], pp. 210-211. ° V., per es., Frege [1892a], pp. 32-33, Frege [1897a], p. 370, Frege [1893-1903], vol. II, $ 64, p. 72, e Frege [1906b], p.211.

I Grundgesetze e la via d’uscita di Frege

3.01

usi scientifici — come quello logico e matematico — i nomi propri privi di denotazione debbano essere banditi." In tal modo, la logica può rimanere rigorosamente bivalente, come la suppone Frege (in logica, per Frege, ogni enunciato dichiarativo completo esprime (driickt aus) un pensiero vero o falso, tertium non datur!5 ). Come evitare, nel linguaggio scientifico, di avere nomi propri privi di denotazione? Per i nomi propri in senso stretto, la soluzione è facile: basta non utilizzarne mai uno cui non sia stato garantito un referente. Con le descrizioni definite,

invece, il problema è che, se in una descrizione definita figura una variabile, abbiamo un’espressione che potrebbe denotare uno e un solo oggetto assegnando alcuni valori alla variabile ma non assegnandone altri; per esempio: “l’autore di x° denota Walter Scott se come x si prende il romanzo Waverley, ma non denota un solo individuo se come x si prende i Principia Mathematica; “l’attuale re di x” può denotare un regnante se come x si prende un paese in cui attualmente vige la monarchia, ma non denota nulla se come x si prende una repubblica. Qualora la variabile, in espressioni del genere, fosse vincolata in un quantificatore, alcune istanziazioni di essa potrebbero dunque introdurre descrizioni definite prive di riferimento. Il problema è risolto da Frege richiedendo che, in un linguaggio scientifico, si fornisca una denotazione convenzionale a tutte le descrizioni definite il cui predicato non è soddisfatto da uno e un solo oggetto: in “Uber Sinn und Bedeutung” (1892) egli propone di assegnare come denotazione a queste descrizioni il numero cardinale 0;'° l’anno dopo, nei Grundgesetze,! egli proporrà come denotazione per le descrizioni il cui predicato non è soddisfatto da nessun oggetto, o da più di un oggetto, /a classe degli oggetti che soddisfano il predicato: così, per esempio, “l’attuale re di Francia” denoterebbe la classe vuota, mentre ‘l’autore dei Principia Mathematica” denoterebbe la classe i cui soli elementi sono Russell e Whitehead." Concetti (Begriffe) e relazioni (Beziehungen) sono per Frege la denotazione, rispettivamente, dei predicati monadici e poliadici.'’ Frege li concepisce come particolari tipi di funzioni: funzioni i cui valori sono sempre valori di verità: i concetti sono funzioni di un argomento i cui valori sono sempre valori di verità;”® le relazioni sono funzioni di due o più argomenti i cui valori sono sempre valori di verità.” Al contrario di un oggetto, una funzione è per Frege bisognosa di completamento (erginzungsbediirftig) 0, com’egli dice anche, insatura (ungesdittigt).” Quello di funzione (Function) è, per Frege, un concetto primitivo — che può essere spiegato, ma non definito sulla base di concetti più fondamentali. Una funzione è per Frege un’entità che contiene uno o più posti vuoti ed è tale che, quando questi posti vuoti sono saturati da oggetti — gli argomenti della funzione —, dà come valori degli oggetti. Per dirla in breve: una funzione fregeana è un’operazione ipostatizzata che, in quanto tale, appartiene a una categoria ontologica diversa da quella degli 0ggetti. Frege giunse alla teoria dell’insaturazione delle funzioni considerando la differenza tra un enunciato dichiarativo e una giustapposizione di nomi propri. Per esempio, l’enunciato “Socrate è saggio” possiede una sua unità, esprime un pensiero, ma se supponiamo che “Socrate” denoti Socrate e “è saggio” denoti a sua volta un oggetto,

per esempio l’essere saggio, o la saggezza, “Socrate è saggio” dovrebbe significare lo stesso di “Socrate l'essere saggio”, o “Socrate la saggezza”, che invece non sono più enunciati, ma semplici giustapposizioni di nomi propri. Né rappresenterebbe una soluzione affermare che il soggetto e il predicato sono messi in relazione dalla copula; infatti, supponendo che la copula denoti la relazione di sussunzione di un oggetto in un concetto, l’enunciato “Socrate è saggio” dovrebbe significare lo stesso di “Socrate la relazione di sussunzione l’essere saggio”, 0 di “Socrate la relazione di sussunzione la saggezza”, che sono nuovamente solo giustapposizioni di nomi propri. La soluzione di Frege consiste nell’affermare che in “Socrate è saggio” sono in gioco due diversi generi di entità: l’entità denotata da “è saggio” è un concetto, cioè un particolare tipo di funzione, ed è insatura, mentre l'entità denotata da “Socrate” è un oggetto, ed è satura (gesditigt), 0 in sé sussistente (selbststtindig). Queste due entità si combinano, secondo Frege, in modo quasi chimico: l’oggetto è in grado di saturare il concetto dando, come valore, un

14 v, per es., Frege [1892a], p. 41, Frege [1892d], p. 135, e Frege [1893-1903], vol. I, $ 28, p. 45.

!5 v_, per es., Frege [1893-1903], vol. II, $ 56, p. 69, e Frege [1923], p. 38. !6 v_, per es., Frege [1892a], p. 42, prima nota.

!? V_ Frege [1893-1903], vol. I, $ 11, pp. 18-20.

|

18 Sul trattamento fregeano delle descrizioni definite, v. anche, sotto, cap. 7, $ 2.

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FRCONE:

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sti

!9 Raramente Frege menziona relazioni di più di due argomenti: egli chiama “relazioni”, senza qualificazioni, le denotazioni dei predicati Fundamenten). diadici; in Frege [1914], p. 269, egli chiama le relazioni triadiche «relazioni con tre fondamenti» (Beziehungen mit drei argomenti. di maggiore numero un con relazioni Non ud a conoscenza di luoghi in cui Frege menzioni 20 Vv, per es., Frege [1891], p. 15 e p. 28, e Frege | 1892d], p. 129. | 21 V., per es., Frege [1891], p. 28.

A 3 es., Frege [1891],pp.7-8, Frege [1892d], p. 129, Frege [1893-1903], vol. I, $ 1, pp. 5-6, e Frege [19062], p. 192. 23 v., per es., Frege [1892b], p. 205.

312

capitolo 5

valore di verità.” Se un concetto dà come valore il vero per un certo oggetto come argomento, Frege dice che l’oggetto cade sotto (fillt unter) il concetto, altrimenti che non cade sotto il concetto: così, per esempio, Platone cade sotto il concetto è un filosofo, mentre il Monte Bianco non cade sotto lo stesso concetto. Secondo Frege, una funzione, essendo un’entità incompleta, non può mai essere denotata da un nome proprio, ma deve sempre, in un corretto simbolismo, essere denotata da un nome in cui figurino posti d’argomento che ne rispecchino l’insaturazione: i nomi che denotano funzioni devono dunque essere anch'essi insaturi, o bisognosi di completamento,” mentre i nomi propri, che non hanno questa caratteristica, possono per Frege denotare solo oggetti. In genere, Frege usa le lettere greche “©” e “0” per segnalare i posti d’argomento di un nome di funzione in isolamento nei quali possono entrare nomi propri. Così, per esempio, un nome di concetto “È è saggio”, dove il simbolo “€” contrassegna il posto di argomento che rispecchia l’insaturazione del concetto denotato dal nome. Un nome di relazione sarà “© è più alto di &”, dove “€” e “(” indicano i posti d’argomento che rispecchiano l’insaturazione della relazione diadica denotata dal nome. Si osservi che in un’espressione che denota una funzione di un solo argomento, può comparire più volte la stessa lettera “E”, così come in un’espressione che denota una funzione di de due soli argomenti possono comparire più volte sia la lettera “€” sia la lettera “©”: per esempio, "CFE =

nota un concetto con un solo argomento, e “(E + ©) — 26 + €) = 26 — ©” denota una relazione con due soli argomenti. In generale, quindi, non sarà vero che una funzione con n argomenti sia denotata da un nome di funzione con n posti di argomento: questi ultimi potranno essere molti di più. Frege chiama &posti di argomento (&Argumentstellen) tutti i posti di argomento che, in un nome determinato di una funzione, sono contrassegnati dalla lettera “€”, e $-posti di argomento (é-Argumentstellen) tutti i posti di argomento che, in un nome determinato di una funzione, sono contrassegnati dalla lettera “&”; in generale, Frege chiama apparentati (verwandt) tutti i posti di argomento che, in un nome determinato di una funzione, sono contrassegnati da una stessa lettera. Si osservi ancora che “€” e “U” non sono variabili, ma simboli il cui unico ruolo è quello di contrassegnare le lacune di un’espressione in cui si debbono porre nomi di oggetti — ovvero di contrassegnare le lacune di una funzione che debbono essere saturate da oggetti. Quindi, per esempio, “© è un filosofo” non è semplicemente un altro modo di scrivere “x è un filosofo”: “€ è un filosofo” contiene una lacuna contrassegnata da “&”, ed è per Frege il nome di un concetto,” ossia denota un concetto, mentre ‘x è un filosofo”, dove “Xx” è una variabile, non contiene nessuna

lacuna e non è un nome proprio: è quello che Frege chiama una marca latina di oggetto (lateinische Gegenstandsmarke):? cioè una concatenazione di segni in cui il simbolo “x” indica (deutet an) un oggetto indeterminato, e che diviene un enunciato solo se si sostituisce a “x” il nome di un oggetto determinato. Frege è chiarissimo nel precisare che i simboli “€” e “W” non fanno parte, a rigore, dei nomi di funzione, ma sono un modo di evidenziare come una funzione debba essere saturata da oggetti: secondo Frege, per es., il nome “3 — 3” contiene il nome della e funzione “È — €”, sebbene evidentemente non contenga il simbolo “&”.?* Detto altrimenti, i simboli i quivalgono, nella simbologia di Frege, a ciò che si potrebbe esprimere con varie sorte di puntini di sospensione:

per es. “€ è un filosofo” e “È — &” si potrebbero scrivere, rispettivamente, come “... è un filosofo” e “... — —-”, dove ovviamente “...” e “---’ altro non sono che contrassegni di lacune nelle espressioni. Quindi dire, per es., che il nome di concetto “€ è un filosofo” compare nell’enunciato “Platone è un filosofo” è come dire che in “Platone è un filosofo” compare “... è un filosofo” — non significa affatto, cioè, affermare che in “Platone è un filosofo” compaia il simbolo “©”. Un oggetto è caratterizzato da Frege sulla base del concetto primitivo di funzione, come qualsiasi cosa non sia una funzione.” Attenendosi a tale caratterizzazione, Frege considera oggetti i valori di verità, il Vero (das Wahre) e il Falso (das Falsche): questi oggetti sono per Frege la denotazione (Bedeutung) degli enunciati dichiarativi.?° Dunque, per Frege, tutti gli enunciati veri hanno la stessa denotazione — il Vero — e tutti gli enunciati falsi hanno la stessa denotazione — il Falso.?! Così, per esempio, gli enunciati “2 + 3 = 5”, “5 = 5”, “Cesare varcò il Rubi24 V,, per es., Frege [1906a], p. 192.

Ì

25 V., per 4 es., Frege [1892d], p. 129, Frege [1893-1903], vol. I, $ 1, p. 5, Frege [1893-1903], vol. II, $ 147, p. 148, nota 2, e Frege [1906c]

p.217.

i

2° I termini che Frege usa più spesso per il nome di un concetto sono “Begriffswort” e “Begriffszeichen”, mentre per i nomi di funzione in generale usa “Functionsnamen”. n IVA Herso [1893-1903], vol. I, $ 17, p. 33. “Latina” perché, nella simbologia di Frege, le lettere latine sono variabili non vincolate. V. Frege [1914], p. 259. A V., per es., Frege [1891], p. 18, e Frege [1893-1903], vol. I, $ 2, p. 7.

È V., per es., Frege [1891], p. 18, Frege [1893-1903], vol. I, $ 2, ’ p. 7, e Frege [1906b], SEZZIIRI, — V., per es., Frege [1892a], p. 34, Frege [1897a], pp. 368-369, e Frege [1919b], p. 276.

I Grundgesetze e la via d’uscita di Frege

313

cone”, ‘“22=4”, “Copernico sostenne il sistema eliocentrico”, sono tutti, per Frege, nomi propri di una stessa entità, il Vero, esattamente come, per es., “5”, “1 + 4QPID49R

19790

sono'notti propri di un’unica enti-

tà, il numero 5. Frege naturalmente non nega che vi sia una differenza di contenuto tra questi enunciati, ma sostie-

ne che si tratta di una differenza di senso, non di denotazione: secondo Frege “2 +3 = 5” ha un senso diverso da “Cesare varcò il Rubicone”, e anche da “1+4= 5”, proprio come, per es., “1 + 4” ha un senso diverso da “2 +

3”? Frege chiama pensieri (Gedanken) i sensi espressi dagli enunciati dichiarativi.?* Frege chiarisce che un enunciato dichiarativo spesso richiede per la sua interpretazione la conoscenza del contesto di enunciazione; in questo caso l’enunciato, di per sé, non esprime compiutamente un pensiero: il pensiero è espresso compiutamente solo da un enunciato dichiarativo che sia completato da tutte le specificazioni contestuali pertinenti (tempo, luogo,

parlante, ascoltatori, ecc.).”* I pensieri sono, per Frege, costituiti dai sensi dei nomi propri e dai sensi dei predicati che costituiscono gli enunciati che li esprimono compiutamente. Nonostante ciò che il nome inevitabilmente

suggerisce, i pensieri — così come i sensi che li compongono — non sono, per Frege, qualcosa di soggettivo e psicologico: essi sono entità assolutamente indipendenti da chi li pensa.?° Per Frege, pensare non è creare, produrre (hervorbringen) pensieri, ma afferrare (fassen; erfassen) pensieri che esistono indipendentemente dalla mente di chi pensa.” Un pensiero, scrive Frege, «[...] non ha bisogno di un portatore, ai contenuti della cui coscienza appartenere. [...] Non è vero solo dal momento in cui viene scoperto; come un pianeta, già prima che qualcuno lo vedesse, era in interazione con altri pianeti».** I pensieri, sostiene Frege, sono immutabili, aspaziali e atemporali:* l’uomo non può in alcun modo modificarli! Ciò che i parlanti hanno nella loro mente quando usano un segno non è il senso, ma ciò che Frege chiama la rappresentazione (Vorstellung) connessa con il segno: Se la denotazione di un segno è un oggetto sensibilmente percepibile, la mia rappresentazione [Vorstellung] di esso è un'immagine interna [inneres Bild] originata dai ricordi di impressioni sensibili che ho avuto e di attività, sia interne sia esterne, che ho praticato. [...] La stessa rappresentazione non è sempre collegata allo stesso senso, neanche nella stessa persona. La rappresentazione è soggettiva: la rappresentazione dell’uno non è quella dell’altro. [...] La rappresentazione si distingue per questo essenzialmente dal senso di un segno, che può essere proprietà comune di molti e dunque non è una parte o un modo della mente individuale; perché non si potrà certo negare che l’ umanità abbia un bagaglio comune di pensieri che tramanda da una generazione all’altra.‘'

ci V., per es., Frege [1893-1903], vol. I, $ 2, p. 7, Frege [1897a], pp. 369-370. In una lettera a Russell del 28 dicembre 1902 (ora in Frege

[1976], pp. 234-237), Frege chiarisce che, per lui, il criterio dell’identità o differenza di senso è epistemico: «Ogni volta che la coincidenza di denotazione [Bedeutung |] non è autoevidente [selbstverstiindlich], abbiamo una differenza di senso [Sinnes]. Così il senso di Nata

diverso dal senso di “3°”, anche se abbiamo la stessa denotazione, perché per vedere ciò è necessario uno speciale atto di riconoscimento [Erkennens]. Così anche le equazioni “32 = 3?» e “23 + 1=3”” non sono equivalenti per la conoscenza, anche se il valore di verità è lo stesso» (in Frege [1976], pp. 234-235).

33 v_, per es., Frege [1893-1903], vol. I, $ 2, p. 7, e $ 32, p. 50, Frege [1897a], p. 370, e Frege [1918], p. 62. a

per es., Frege [1893-1903], vol. I, prefazione, pp. xvi-xvii, Frege [1897b], pp. 146-147, Frege [1918], p. 76, e Frege [1919a], p. 145,

nota. Daga per es., Frege [1893-1903], vol. I, $ 32, p. 51, Frege [1906c], p. 217, Frege [1919b], p. 275, e Frege [1923], p. 36.

leur i per es., Frege [1897b], pp. 144-145. Poco più avanti, Frege scrive: «La nostra teoria che il pensiero è indipendente da colui che lo pensa sembra essere contraddetta da un enunciato come “Io ho freddo”, poiché esso può essere vero per uno e falso per un altro, cosicché non è vero in sé. Ciò dipende dal fatto che l’enunciato in bocca a una persona esprime un pensiero diverso da quello che esprime in bocca a un’altra. Le semplici parole non contengono qui ] intero senso, ma Si deve ancora considerare chi le pronuncia. Le parole proferite richiedono dunque in molti casi il complemento dei gesti, dell’espressione del viso e delle circostanze concomitanti» (Frege [1897b], p. 146). 37 v,, per es., Frege [1897b], pp. 148-149, e Frege [1918], p. 74. va

38 Frege [1918], p. 69.

era

soli:

2 V., per es., Frege [1897b], p. 146, e Frege [1918], p. 76. Contro l’obiezione più ovvia a questa tesi, Frege scrive:

«Se come esempio contro l’atemporalità dei pensieri si volesse per esempio citare, “Il numero degli abitanti dello stato tedesco ammonta a 52.000.000” io risponderei così: quest’enunciato non è affatto l’espressione completa di un pensiero, perché manca la determinazione del tempo. Se la si aggiunge, per es. il primo gennaio 1897 a mezzogiorno secondo l’orario dell Europa centrale, allora o il pensiero è vero e allora lo è per sempre — 0 meglio, è atemporalmente vero —, oppure è falso e allora lo è in assoluto» (Frege [1897b], p. 147).

eran cr l i | I 40 Scrive Frege: «L'uomo può non considerare i pensieri e può farli propri. Questo si potrebbe intendere come un agire dell uomo sui pensieri, cosa che sembra deporre contro la loro atemporalità. Ma in questo modo non si opera nessun cambiamento sostanziale nei pensieri, così come non e sembra che la luna sia disturbata dal fatto che la si osservi o no. Se dunque è forse possibile parlare di un’azione dei pensieri sono ALE non essi che addurre potrebbe si pensieri dei variabilità la Per pensieri. sui dell’uomo non si può tuttavia parlare di un’azione [Auffassung], immediatamente chiari. Ma ciò che si chiama chiarezza dei pensieri è in realtà una compiutezza i afferrare 150). dell’appropriarsi [Aneignung] un pensiero, nel nostro senso del termine, non una proprietà dei pensieri» (Frege [1897b], p.

4 Frege [1892a], p. 29.

capitolo 5

314

I pensieri e i sensi dei nomi propri sono, per Frege, entità complete, oggetti, mentre i sensi dei predicati, monadici o poliadici (e, più in generale, i sensi dei nomi di funzione), sono insaturi come le rispettive denotazioni; funzioni (da predicati (oltre alle loro denotazioni) come non è però chiaro se Frege concepisca anche i sensi dei I 3 5 = 5 43 E c È . 5 î in cui è modo il sono sensi i Frege, Per “insature”. entità di genere altro un come concepisca sensi a sensi), o li Va

per es., Frege [1892b], p. 205, Frege [1906b], p. 204 e p. 209, e Frege [1906c], p. 217.

43 Quest'ultima concezione sembra esclusa dal fatto che Frege afferma esplicitamente (per es., in Frege [1893-1903], vol. I, $ 2, p. 7, e $ 21, p. 37) che gli oggetti sono entità sature. Il ragionamento è il seguente: se ogni entità che non è una funzione è un oggetto (v. Frege [1891], p. 18, e Frege [1893-1903], vol. I, $ 2, p. 7), i sensi delle espressioni funzionali, essendo entità, se non sono funzioni devono essere

oggetti; ma questo non è possibile, se gli oggetti sono sempre entità sature: dunque i sensi devono essere funzioni. Questa conclusione è stata in effetti tratta da molti studiosi, tra i quali Alonzo Church, Peter T. Geach, Montgomery Furth, Terence Parsons e Antoni Diller. Michael Dummett ha però negato che Frege concepisse l’insaturazione delle espressioni funzionali e dei loro sensi come indice della loro natura funzionale: secondo Dummett, le espressioni funzionali e i loro sensi sono per Frege oggetti: oggetti insaturi, ma in un senso diverso dalle funzioni (v., per es., Dummett [1973a], cap. 9, pp. 291-294, e Dummett [1981], cap. 15, p. 270). Dummett ([1984], p. 396) osserva

che per Frege i sensi delle espressioni funzionali (e le espressioni funzionali stesse) sono costituenti dei pensieri (e, rispettivamente, degli enunciati) cui danno origine, mentre è inappropriato considerare una funzione e il suo argomento come costituenti, o parti, del valore, perché se è dato solo il valore di una funzione per un argomento non è possibile risalire alla funzione o all’argomento, mentre i costituenti di qualcosa si possono scoprire attraverso un’analisi. In effetti, in uno scritto del 1919, dopo aver spiegato che «[l]®enunciato si può considerare come una rappresentazione [Abbildung] del pensiero, in tal modo che al rapporto di parte e tutto tra i pensieri e le parti di pensiero corrisponda, nel complesso, lo stesso rapporto tra gli enunciati e le parti di enunciato» (Frege [1919b], p. 275) — da cui si desume che i sensi delle espressioni funzionali sono costituenti dei pensieri cui danno origine —, Frege rifiuta esplicitamente il principio che la stessa cosa valga per le denotazioni, cioè nega che la denotazione di un enunciato dichiarativo sia composta dalle denotazioni dei costituenti dell’enunciato e, più in generale, che il valore di una funzione per un argomento sia composto dalla funzione e dall’argomento: il suo esempio è che il valore della funzione denotata da “Ila capitale di È” per l'argomento Svezia è la capitale della Svezia, ma la Svezia non è una parte della sua capitale (v. ibid.). Secondo Dummett, la relazione appropriata tra i costituenti del senso di un enunciato con il senso dell’enunciato, così come quella tra i costituenti di un enunciato e l’enunciato, è quella tra parte e tutto, non quella tra funzione e valore. Per esempio, osserva Dummett, «anche se possiamo già identificare l’espressione ‘4!”’, non possiamo spiegare come è costruita a partire dalle sue parti dicendo che è il valore della funzione che mappa “4” su “41”, perché ci sono molte funzioni siffatte», e ancora: «Dato il pensiero espresso dall’enunciato “La Terra gira”, non possiamo spiegare il senso del predicato “È gira” come la funzione che porta dal senso del nome “la Terra” a questo pensiero, perché non c’è un’unica funzione siffatta; inoltre, dobbiamo già conoscere il senso del predicato per afferrare il pensiero, mentre dobbiamo essere in grado di identificare il valore di una funzione prima di sapere che è il valore di questa funzione» (Dummett [1984], p. 396). L’ultima osservazione di Dummett è che la posizione (sostenuta, per es., da Geach) secondo cui il senso di un predicato è una funzione, ma non è parte del pensiero che ne costituisce il valore per un certo argomento, rende inintelligibile il modo in cui arriviamo a comprendere un pensiero nuovo; infatti — argomenta Dummett —, per sapere che un certo pensiero è il valore del senso del predicato per un certo argomento, dobbiamo già aver afferrato il pensiero (v. anche Dummett [1973a], cap. 9, p. 293, e Dummett [1981], cap. 15, pp. 267-268). A proposito dell’incompletezza che Frege attribuisce ai sensi delle espressioni funzionali, Dummett scrive: «Frege è effettivamente in difetto per non aver mai spiegato il modo di incompletezza dei sensi, e forse per non avervi mai posto mente. Nulla ci impedisce di dire, tuttavia, che l’ incompletezza del senso di un’espressione funzionale consista, non nell’essere una funzione, ma nell’essere un modo di concepire una funzione, il modo in cui una funzione ci è data» (Dummett [1984], p. 397; v. anche Dummett [1973a], cap. 9, p. 291). L’interpretazione di Dummett, tuttavia, non concorda con l’affermazione fregeana che gli oggetti sono entità sature (v., per es., Frege [1891], p. 18), e, inoltre, non si concilia con il resoconto fregeano della denotazione degli enunciati nei contesti indiretti (per es., discorso

indiretto e contesti epistemici). In proposito, v. sotto, nota 60. L’interpretazione di Dummett è stata contestata da Antoni Diller ([1993a], [1993b]), il quale conviene con Alonzo Church ([1951b]) e Peter T. Geach ([1951], pp. 59-61, e [1976], p. 61) nell’interpretare le espressioni funzionali fregeane e i loro sensi come funzioni (rispettivamente, da espressioni linguistiche a espressioni linguistiche e da sensi a sensi). Diller ([1993a], pp. 71-72) osserva che ci sono almeno due modi di concepire le funzioni: uno insiemistico, che considera una funzione, per es. diadica, come una classe di coppie ordinate, un altro secondo cui una funzione è una regola, ossia una procedura per calcolarne il valore dagli argomenti. Secondo Diller ([1993a], pa 20),

l’obiezione di Dummett che concepire i sensi delle espressioni funzionali come funzioni rende inintelligibile il modo in cui possiamo com-

prendere pensieri nuovi è valida se le funzioni sono intese in modo insiemistico — perché allora, per conoscere, per es., una funzione diadica si devono conoscere entrambi i membri di ogni coppia ordinata che ne è membro —,

ma non se le funzioni sono intese come metodi

per calcolare il valore delle funzioni dagli argomenti. Diller suppone evidentemente che Frege avesse in mente questa seconda concezione delle funzioni. A quest’interpretazione Kevin C. Klement ha però obiettato che la concezione delle funzioni di Frege non gli consente di considerarle

come procedure di calcolo; scrive Klement:

.

«Come abbiamo visto, per Frege, “© ha un cuore” e “E ha un rene” si devono intendere come denotanti la stessa funzione (in particolare, lo stesso concetto). Tuttavia, certamente, le due implicano procedure o regole differenti riguardo a come si determinerebbe un valore di verità dato un argomento. o, per offrire un esempio matematico, la funzione denotata da “E?” sarebbe intesa come la stessa della funzione denotata da “E x (36 — (9° sh 26) — 81))”, poiché esse avrebbero lo stesso valore per qualsiasi argomento, sebbene le due chiaramente implichino metodi di calcolo diversi. Quindi, Frege non approverebbe la soluzione di Diller del problema di Dummett riguardo alle funzioni-senso» (Klement [2002], cap. 3, p.7 1). Come vedremo più avanti, Frege considera in effetti le funzioni come estensionali. cosa che rende impossibile concepire i sensi dei nomi di funzione sia come funzioni da sensi di nomi propri a sensi di pensieri, sia come parti dei pe nsieri cui essi

danno origine‘in unione con un nome proprio. Klement respinge tuttavia la tesi di Dummett secondo cui, per Frege, i sensi dei termini funzionali sarebbero oggetti: «[.. .] la mia posi-

I Grundgesetze e /a via d’uscita di Frege data la denotazione cei segni di cui essi sono sensi,"

315

ed è solo attraverso i sensi che i segni sono correlati alla

propria denotazione.® Frege ritiene che, dato un pensiero, esistano in generale diversi modi di scomporlo.*° In una lettera del 29 agosto 1882, egli scrive: Non credo che per ogni contenuto giudicabile si dia un solo modo in cui lo si possa scomporre, o che uno dei modi possibili possa sempre rivendicare una preminenza oggettiva. Nella disuguaglianza 3 > 2 si può considerare tanto bene 2 come soggetto quanto 3. Nel primo caso si ha il concetto “minore di 3”, nell’ultimo “maggiore di 2”. Si può certamente anche considerare “3 e 2” come un soggetto complesso. Si ha allora come predicato la relazione del maggiore con il minore.!”

Qui Frege non distingue ancora il senso dalla denotazione degli enunciati dichiarativi — le due nozioni essendo fuse in quella di contenuto giudicabile (beurtheilbarer Inhalt) —, ma l’idea resta anche dopo che, nel 1891, Frege avrà stabilito la distinzione. Per esempio, in “Uber Begriff und Gegenstand” egli scrive: [...] un pensiero può essere scomposto in molti modi e [...] perciò ora questo, ora quello appare come soggetto e come predicato. Che cosa sia inteso come soggetto non è ancora determinato dal pensiero stesso. Se si dice: “il soggetto di questo giudizio”, si designa [man bezeichnet] qualcosa di determinato solo se insieme si indica un determinato tipo di scomposizione. [...] Così nel nostro pensiero [Frege si riferisce al pensiero espresso da “Cè x almeno una radice quadrata di 4”] si potrebbe anche trovare un’asserzione sul numero 4: “Il numero 4 ha la proprietà che c’è qualcosa di cui esso è il quadrato”. La lingua ha i mezzi per far apparire come soggetto ora questa, ora quella parte del pensiero. Uno dei più noti è la distinzione delle forme dell’attivo e del passivo. Non è perciò impossibile che uno stesso pensiero appaia come singolare in una scomposizione, come particolare in un’altra, come universale in una terza. Non deve quindi meravigliare che lo stesso enunciato possa essere inteso come un’asserzione su un concetto e anche come un’asserzione su un oggetto [...].4°

Interpreto questo come segue. Prendiamo, per esempio, il pensiero che 3 è maggiore di 2. Questo stesso pensiero si può concepire come il pensiero che il numero 3 cade sotto il concetto denotato da “È è maggiore di 2? — nel qual caso potremo esprimere il pensiero come “3 è maggiore di 2° —, oppure come il pensiero che il numero 2 cade sotto il concetto denotato da “3 è maggiore di €”, cioè il concetto di essere minore di 3 — nel qual caso potremo esprimere il pensiero come “2 è minore di 3”. Possiamo anche vedere lo stesso pensiero come il pensiero che 3 e 2 stanno nella relazione denotata da “€ è maggiore di 0”; oppure possiamo vederlo come il pensiero che 2 e 3 stanno nella relazione denotata da “€ è minore & — nei quali casi potremmo esprimerci dicendo, rispettivamente: “3 e 2 sono nella relazione del maggiore con il minore” e “2 e 3 sono nella relazione del minore con il

maggiore”.° Tutti questi enunciati — “3 è maggiore di 2”, “2 è minore di 3”, “3 e 2 stanno nella relazione del zione su come Frege concepisce i Sinne delle espressioni di funzione, almeno nella sua filosofia matura, è che essi non siano né funzioni né oggetti, ma un tipo particolare di entità insature nel regno del Sinn» (Klement [2002], cap. 3, p. 74). Ciò, però, come Klement riconosce, è

in conflitto con le ripetute affermazioni di Frege che ogni cosa è un oggetto o una funzione.

Si può conciliare la posizione di Klement con quella di Diller ammettendo che Frege abbia considerato come un genere particolare di funzione quel «tipo particolare di entità insature nel regno del Sinn» di cui parla Klement. Queste entità sarebbero precisamente quelle funzioni come procedure per calcolare il valore a partire dagli argomenti menzionate da Diller. Se si ammette questo, la differenza tra le posizioni di Diller e di Klement diviene dopotutto verbale, ma il vantaggio di considerare i sensi delle espressioni di funzione come generi di funzione è che ciò consente di spiegare (almeno in parte) la ripetuta asserzione fregeana secondo cui ogni cosa è o un oggetto o una funzioUV, per es., Frege [1892a], p. 26. Qualche pagina dopo, nel saggio appena citato, Frege illustra la relazione tra denotazione, senso e rap-

presentazione di un nome attraverso l’analogia della luna vista attraverso un telescopio: la luna sarebbe la denotazione del nome proprio, l’immagine che risulta dal telescopio — un'entità oggettiva, si badi, come la luna stessa — ne sarebbe il senso (un modo possibile attraverso il quale ci è data la luna), infine, l’immagine retinica della luna sarebbe larappresentazione associata al segno (v. Frege [1892a], p. 30). 45 In Frege [1892d], p. 135, si legge: «Così il nome proprio si riferisce [bezieht] attraverso la mediazione [Vermittlung] del senso e solo at-

traverso questa all’oggetto». Si veda anche lo specchietto riassuntivo della sua semantica che Frege riporta in una lettera a i

24 maggio 1891, dal quale risulta che i sensi delle espressioni fanno da tramite tra queste e le loro denotazioni (v. in Frege [1976], p. 96). 46 V_, per es., in Frege [1976], p. 164, Frege [1892b], p. 200, Frege [ 1906b], p. 209, e Frege [1906c], p. 218.

47 In Frege [1976], p. 164. Il destinatario della lettera è incerto: Carl Stumpf o Anton Marty. i i na 1891, Frege rileva: «Ciò che in precedenza chiamavo contenuto CE 96). Sulla cabile [beurtheilbaren Inhalt] ho ora distinto in pensiero [Gedanken] e valore di verità [Wahrheitswerth]» (in Frege [1976], p.

48 V. Frege [1879], $ 2, p. 2. In una lettera a Husserl del 24 maggio nozione di “contenuto giudicabile”, v. anche, sotto, nota 62.

i

:

4° Frege [1892b], pp. 199-200. Frege insiste spesso che volgere un enunciato dalla forma attiva a quella passiva, e viceversa, non comporta

p. 153 e p. 155, e Frege nessun mutamento di senso (v., per es., Frege [1879], $ 3, p.3, e $ 9, p. 18, Frege [1892b], p. 200, Frege [1897b],

bond ue [1918],p. 64. cade en50 Yn altro modo ancora in cui potremmo considerare il nostro esempio, è come il pensiero che la relazione tre maggiore e minore

capitolo 5

316

maggiore con il minore”, ‘2 e 3 stanno nella relazione del minore con il maggiore” — esprimono dunque, per Frege, lo stesso pensiero — solo, scomposto in modi diversi.” °° Frege non nega che possa esserci una differenza di contenuto tra due enunciati che esprimono lo stesso pensiero. Egli infatti vede nel senso solo una parte di quel contenuto del segno che abitualmente si chiama “significato”. Il senso è per Frege quella parte del contenuto di un segno che è pertinente alla determinazione univoca della sua denotazione: in altri termini, il senso di un segno è ciò che (dato come è fatto il mondo) determina univocamente il referente del segno. Quindi, nel caso degli enunciati dichiarativi, il senso è quella parte del loro contenuto che è pertinente alla determinazione del loro valore di verità. Ma Frege ammette che siano parte del contenuto di un segno anche altre componenti, perché, egli dice, «la lingua non solo esprime il pensiero, ma gli dà anche un'illuminazione [Belewuchtung] o una coloritura [Férbung] particolare. E questa può ben essere diversa, anche se il pensiero è il medesimo».° Frege esemplifica variamente le differenze di contenuto di un segno che non riguardano il senso: la differenza tra un enunciato introdotto dalla congiunzione da “e” e lo stesso enunciato introdotto da “ma” [aber], 0 “sebbene” [obgleich], o “però” [doch]," la differenza tra un enunciato e lo stesso enunciato preceduto da ‘fortunatamente’ o da ‘“sfortunatamente”, la differenza tra l’enunciato “Alfredo è venuto” e l’enunciato “Alfredo è già venuto”, o tra “Alfredo non è venuto” e “Alfredo non è ancora venuto”;” la differenza di contenuto tra “botolo” e “cane”, o tra “cavallo”, “destriero”, e “ronzino”, o tra “avanzare” e “incedere”; tra una frase pronunciata con tono triste o allegro; tra forma

attiva e passiva.’ Frege spiega che parte del senso di un enunciato dichiarativo è ciò che è esplicitamente asserito nell’enunciato, mentre la coloritura dell’enunciato riguarda ciò che non è asserito, ma solo suggerito dall’enunciato —

una distinzione che egli ritiene debba essere fatta, anche se ammette che possono presentarsi ca-

si dubbi e casi in cui vi possono essere diversi modi di interpretare un enunciato.” È interessante il ragionamento che conduce Frege alla posizione, oggi eterodossa, di attribuire una denotazione agli enunciati dichiarativi, e a identificare questa denotazione con il loro valore di verità:

tro il concetto di secondo livello espresso da “®(3, 2)” — in questo caso potremmo esprimere il pensiero con “la relazione tra maggiore e minore vale tra 3 e 2”. Per la nozione di “concetto di secondo livello”, vedi più avanti, nel testo.

51 V_, per es., Frege [1879], $ 24, p. 57. Si osservi che, nel luogo citato, Frege parla non di espressioni che hanno lo stesso senso, ma di espressioni che hanno la stessa Bedeutung, termine che è qui opportuno tradurre genericamente con significato, perché, all’epoca, Frege non ne distingueva ancora le due componenti che, dal 1892, chiamerà Sinn e Bedeutung, che noi abbiamo reso con senso e denotazione. 52 Questa concezione pone un problema che, per quanto ne so, Frege non affronta esplicitamente in nessuno scritto. Se, per es., “3 è maggiore di 2°” e “2 è minore di 3” esprimono lo stesso pensiero, e questo pensiero è — come asserisce Frege (v. Frege [1893-1903], vol. I, $ 32, p. 51, Frege [1906c], p. 217, Frege [1919b], p. 275, e Frege [1923], p. 36) —

composto dai sensi delle parole che costituiscono gli e-

nunciati che lo esprimono, sembra, a prima vista, che il senso di “è maggiore di” e il senso di “è minore di” sia il medesimo — cosa che appare falsa. Il ragionamento è il seguente: se i sensi a, b e c compongono il pensiero A e i sensi a, è e d compongono il pensiero 8, e si ha che A = B, allora c e d devono essere entrambi costituenti di A (e di B); cosicché nel caso particolare — che sembra essere quello del nostro esempio — in cui il pensiero A è costituito solo dai sensi a, b e c, si deve avere c = d. Inoltre, poiché per Frege il senso di un segno ne determina univocamente il referente (dato il modo in cui è il mondo), l’identità di senso di “è maggiore di” e di “è minore di” implicherebbe

anche l’identità delle relazioni maggiore e minore, che invece non sono identiche, essendo l’una la conversa dell’altra. ovvio dello stesso fenomeno sono gli enunciati volti dalla forma attiva a quella passiva, e viceversa. Se, per es., “Bruto “Cesare fu ucciso da Bruto” esprimono per lo stesso pensiero, che è composto dai sensi delle parole che lo costituiscono, inferire che i sensi e i riferimenti di “uccise” e di “fu ucciso” siano identici — cosa che appare inaccettabile. Russell affronta il problema menzionato nel 1901-02 — in modo indipendente dalle concezioni di Frege — giungendo

Un altro esempio uccise Cesare” e

sembra di poterne

a conclusioni opposte a Frege: egli argomenta che, per es., le relazioni espresse da “è maggiore di” e da “è minore di” sono diverse, concludendo da ciò che

le proposizioni espresse da “a è maggiore di b” e da “b è minore di a” devono essere diverse (sebbene l’una implichi l’altra), e, in generale, che devono essere diverse le proposizioni aRb e bRa (v. Russell | 1901a], pp. 40-41, e Russell [1903a], $ 219).

Una soluzione al problema — dal punto di vista fregeano — è quella di negare che, per es., nella nostra illustrazione precedente, il senso di A sia dato solo dai sensi a, bec,e che il senso di B sia dato solo dai sensi a, b e d. Frege chiarisce infatti che i pensieri hanno una struttura, che è spesso rispecchiata nell’ordine delle parole degli enunciati che li esprimono: «Alla costruzione del pensiero corrisponde la composizione dell’enunciato per mezzo delle parole, dove l’ordine [Reihenfolge] non è in generale indifferente» (Frege [1919a], p. 148). Seguendo questa traccia, si potrebbe dire che non è la componente c del pensiero ad essere uguale a d, ma la componente c insieme con la

struttura di A (rispecchiata dall'ordine delle parole che esprimono a,

e c nell’enunciato che esprime A), ad essere uguale alla componente

insieme alla struttura di B (rispecchiata dall’ordine delle parole che esprimono a, è e d nell’enunciato che esprime B).

°° Frege [1906b], p. 209.

°4 V. Frege [1892a], p. 45, e Frege [1918], p. 64. 9 V. Frege [1918], pp. 63-64. » V. Frege [1897b], pp. 151-153, e Frege [1918], pp. 63-64. weVALRITERE [18970], p. 15258 chiaro che almeno parte delle coloriture di Frege sono quelle che H. Paul Grice ([1975], p. 45) chiama implicature

convenzionali

(conventional

implicatures).

I Grundgesetze e la via d’uscita di Frege

SI

Se ci interessa la verità, se operiamo scientificamente, esigiamo che i nomi propri che compaiono in un enunciato abbiano una denotazione [Bedeutung]. D'altra parte sappiamo che, per il senso dell’enunciato, per il pensiero, è indifferente che le parti dell’enunciato abbiano o no una denotazione; di conseguenza all’enunciato deve essere connesso qualcosa che è diverso dal pensiero e per cui è essenziale che le parti dell’enunciato abbiano una denotazione, e chiameremo questo la denotazione dell’enunciato. Ma l’unica cosa per cui ciò è essenziale è quello che io chiamo valore di verità, vale a dire, se il pensiero è vero o falso. Non è necessario che i pensieri del mito e della poesia abbiano un valore di verità. Un enunciato che contiene un nome proprio privo di denotazione [bedeutungslosen] non è né vero né falso; il pensiero che forse esprime appartiene alla poesia. L’enunciato, in tal caso, non ha alcuna denotazione. Abbiamo due valori di verità: il Vero e il Falso. Se un enunciato ha una denotazione, allora questa è o il Vero oppure il Falso.®*

L'argomento è dunque questo: nel discorso scientifico, ciò che interessa è quello che si dice sugli oggetti de/ mondo; per es., se, parlando di corpi celesti, diciamo che Marte e Giove stanno in una certa relazione, ciò di cui intendiamo parlare non è il contenuto dei nostri pensieri, ma sono due sfere rocciose che orbitano intorno al sole. Affermando che i due pianeti stanno in una certa relazione, ci riferiamo a una relazione che supponiamo valere oggettivamente tra Marte e Giove, ci riferiamo dunque alla denotazione di un predicato.” Allora, il contenuto di un enunciato dichiarativo non può esaurirsi nel pensiero, perché il pensiero è indipendente sia dalla denotazione dei nomi propri, sia dalla denotazione dei predicati; ma l’unica cosa che dipende dalla denotazione delle parole che figurano in un enunciato dichiarativo, piuttosto che dal loro senso, è il suo valore di verità. Dunque, la denotazione di un enunciato dichiarativo è un valore di verità: il Vero, o il Falso.

Per Frege, quello che è ordinariamente il senso di un nome proprio, predicato o enunciato dichiarativo, costituisce la sua denotazione nei contesti indiretti (o obliqui) — come i contesti epistemici e il discorso indiretto —: Frege parla di denotazione obliqua (o indiretta: il termine che egli usa è ungerade Bedeutung).® Questo è possibile perché per Frege i sensi sono entità, e quindi possono essere denotati. Così, per esempio, in “Copernico credeva che le orbite dei pianeti fossero circolari”, o in “Copernico affermava che le orbite dei pianeti fossero circolari”, l’enunciato subordinato non denota, per Frege, un valore di verità, ma un pensiero: il pensiero che le orbite dei pianeti siano circolari; è questo pensiero, e non il valore di verità dell’enunciato “Le orbite dei pianeti sono circolari”, a essere, secondo Frege, l’oggetto della credenza o dell’affermazione attribuite a Copernico. In questi casi, quando cioè, un enunciato denota un pensiero, il suo senso non è per Frege un pensiero, ma il senso del nome

proprio ‘il pensiero che.. SA Sebbene identifichi gli enunciati dichiarativi con nomi di valori di verità, Frege non trascura affatto la differen-

za tra un nome proprio e un’asserzione: egli infatti distingue l’espressione di un pensiero dall’ asserzione (Behauptung), cioè dall’espressione del giudizio (Urtheil), che questo pensiero è vero. Cerchiamo di chiarire il punto. Prendiamo, per esempio, l’enunciato “2 + 3 = 5”: se esso è — come ritiene Frege — il nome proprio di un valore di verità, allora non differisce da “la denotazione di ‘2 + 3 = 5’”, oppure da “che 2 + 3 = 5”; oppure da “l’essere 2+3 uguale a 5”: non asserisce il vero, lo nomina: si tratta — diremmo noi — di un enunciato nominalizzato. Il giudizio che la denotazione di un nome proprio è il Vero, o che il pensiero espresso dal nome proprio è vero, è espresso da Frege ideograficamente con il simbolo “ | a precedere il nome stesso. Frege considera il simbolo si | come composto dal segno “—”, che nei Grundgesetze è detto orizzontale (Wagerechter), e dal tratto di giudizio (Urtheilstrich) “ |?.L’orizzontale, ‘-—’ nei Grundgesetze denota una funzione che, prendendo per ar8 Frege [1906b], pp. 210-211. 5° V. Frege [1906b], pp. 209-210.

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0 v., per es., Frege [1892a], p. 28. Ciò pone un problema per chi, come Dummett, identifica i sensi dei predicati fregeani con particolari (v.sopra, nota 43). Infatti, se i sensi dei nomi € dei EU sono 0goggetti, negando che essi siano funzioni (da sensi di nomi a pensieri) getti, questi oggetti sarebbero la denotazione dei predicati nei contesti indiretti, cosicché, in tali contesti, gli enunciati dichiar ativi PAC OR9 delle semplici liste di nomi di oggetti (gli usuali sensi delle parole implicate), e non VI sarebbe nulla a garantirne l’unità — in contrasto con ciò che accade nei contesti diretti, in cui l’unità di un enunciato dichiarativo sarebbe garantita, per Frege, dal fatto che la denotazione di un predicato è una funzione (da oggetti a valori di verità) e la denotazione di un nome è un oggetto. Dummett risolve il problema ammettendo che, nei contesti indiretti, i predicati denotino effettivamente non i loro sensi usuali (come asserisce Frege), ma corrispondenti funzioni da sensi di nomi a sensi di enunciati (quelle stesse funzioni che la maggior parte degli interpreti ritiene siano, per Frege, il senso usuale dei

predicati); scrive Dummett:

i

AR

«Se allora il senso di un predicato non è una funzione, come dobbiamo risolvere la difficoltà circa l’unità di una clausola nell’oratio Do i

senso di un predicato qua? La risposta è semplicemente che la dottrina fregeana del riferimento indiretto richiede un altro emendamento. Il opachi non è contesti nei referente Mito) il ma predicato”; del senso “il è in effetti da considerarsi un oggetto — il referente dell’espressione

deo il aaa questo senso, ma la funzione associata, che mappa il senso di un nome sul pensiero espresso dall’enunciato dichiarativo esso stesso incompleto» predicato a quel nome. Il referente di un’espressione incompleta, diretto o indiretto che sia, deve sempre essere (Dummett [1973a], cap. 9, p. 294; corsivo di Dummett).

6! V_, per es., Frege [1892a], p. 37.

318

capitolo 5

gomenti oggetti qualsiasi dà per valori dei valori di verità: il Vero se l’argomento è il Vero; il Falso in tutti gli altri casi.9° La funzione — È ha il ruolo di trasformare la denotazione e il senso di qualsiasi nome proprio in una denotazione e un senso che può essere oggetto di giudizio. Per esempio: prendendo il nome proprio “2 + 3”, il senso di “— (2 +3)” sarà lo stesso di “(2 + 3) è il Vero”, o di “la denotazione di ‘(2+ 3) è il Vero”; prendendo il nome proprio “2 +3 = 5”, il senso di “—(2+ 3 = 5)” è lo stesso di “2+3= 5 è il Vero”, o di “la denotazione di ‘2 + 3=5 è il Vero”, oppure (volgendo l’enunciato in forma subordinata nominale) di “che 2 + 3 = Sè il Vero”, 0 semplicemente, in questo caso, lo stesso di “2 +3 = 5”. La denotazione di “——(2 + 3)” sarà dunque il Falso, e la denotazione di “—(2 + 3 = 5)” sarà il Vero. Riconoscere come vero il pensiero espresso da “2 + 3 = 5 è il Vero” è un giudizio, indicato ideograficamente con il tratto verticale, il quale trasforma l’enunciato che lo segue in un’asserzione. In sintesi: se “X” sta al posto di un enunciato dichiarativo, allora “——X” ha lo stesso senso e denota lo stesso valore di verità di “X”; se “X” sta al posto di un nome proprio diverso da un enunciato, allora “—.X” denota il Falso, ed esprime il pensiero espresso da “X è il Vero”; così, per esempio, “-—Frege” denota il

Falso, ed esprime il pensiero espresso da “Frege è il Vero” Nell’ideografia di Frege, le formule molecolari sono formate da quelle atomiche per mezzo di due soli connettivi: il segno d’implicazione e quello di negazione. Tali connettivi sono concepiti da Frege come segni di funzione: vale a dire che essi denotano, per Frege, delle funzioni le quali, prendendo come argomenti degli oggetti, danno come valori dei valori di verità.” La negazione è denotata da Frege con il simbolo ‘7_&”, dove ‘7 consta di un piccolo tratto verticale (Verneinungsstrich) sotto l’orizzontale ‘-—” (quello in precedenza detto “tratto di contenuto”). ‘7_&” è il nome di una funzione che, prendendo per argomenti oggetti qualsiasi, dà per valore un valore di verità: il Falso se l’argomento è il Vero, il Vero in tutti gli altri casi;°° così, se “X” sta al posto di un nome proprio, ‘Sepo ili senso di “X non è il Vero”, o di “la denotazione di ‘X non è il Vero’”. Per riprendere il nostro ultimo esempio, ‘__Frege” significherà qualcosa come “Frege non è il Vero”, o “che Frege non è il Vero”, che denoterà il Vero, e l’asserzione “ 7_Frege” sarà il riconoscimento di questa verità. Data la sua definizione, non fa differenza che si consideri la negazione come applicata a un oggetto, oppure al valore della funzione —$ per quell’oggetto. Noi useremo il simbolo “-’ al posto di “‘—7—”, ma, in questo capitolo, conferiremo a “-&” lo stesso senso e la stessa denotazione del fregeano “-7—&”; cosicché, per esempio, “(2 = 3)” e ‘“—Frege” saranno entrambi considerati nomi propri del Vero. L’implicazione è per Frege una funzione diadica che dà come valore il Falso se il primo argomento è il Vero e

il secondo è un oggetto diverso dal Vero, e che dà come valore il Vero per tutti gli altri oggetti presi come argo-

°2 V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 5, pp. 9-10. Prima dei Grundgesetze (dal 1879 fino la 1891) Frege chiamava l’orizzontale, tratto orizzontale (wagerechter Strich), o tratto di contenuto (Inhaltsstrich) (v. Frege [1879], $ 2). Il tratto di contenuto significava ciò che nella lingua comune si può esprimere con “la circostanza di...” o “la circostanza (che)...”, oppure “la proposizione (che)... (Frege si serve del termine Satz, che, in questo caso — come accade spesso nella Begriffsschrift —, intende come il contenuto espresso da un enunciato). A differenza

dell’orizzontale dei Grundgesetze, il tratto di contenuto non poteva precedere qualsiasi nome proprio, ma solo un complesso di simboli aventi quello che Frege chiamava un contenuto giudicabile (beurtheilbarer Inhalt) (v. ibid.). Le espressioni aventi un contenuto giudicabile

sono, nel linguaggio formale della Begriffsschrift, gli enunciati: più precisamente, gli enunciati intesi in forma nominalizzata (v. Frege [1879], $$ 2-3): per es., da “Archimede morì nella conquista di Siracusa”, si possono ottenere gli enunciati nominalizzati “la morte di Archimede nella conquista di Siracusa”, oppure “che Archimede sia morto nella conquista di Siracusa”; se questi enunciati nominalizzati sono preceduti dal segno “—, il risultato significa qualcosa come “la circostanza della morte di Archimede nella conquista di Siracusa”, o “la circostanza che Archimede sia morto nella conquista di Siracusa”, o “la proposizione che Archimede sia morto nella conquista di Siracusa”. Le espressioni che hanno un contenuto non giudicabile (unbeurtheilbare Inhalt), non possono invece essere precedute dal segno “—, nel linguaggio formale della Begriffsschrift: vale a dire che, se precedute da “—’, darebbero luogo a un simbolo privo di significato (come esempio di espressione che ha un contenuto non giudicabile, Frege porta l'esempio della parola “casa”: v. Frege [1879], $ 2, p. 2). Il tratto verticale, anteposto al segno “—’ che precede un’espressione avente un contenuto giudicabile (un enunciato nominalizzato) trasforma ciò che lo segue in un giudizio. Nella Begriffsschrift, Frege afferma che il segno “ [n significa, complessivamente, ciò che nella lineua comune si può esprimere con “è un fatto”, ed è l’unico predicato del linguaggio formale presentato nella Begriffsschrift (v. Frege [ 1879] Si p

4). Pertanto, per es., “ l la morte di Archimede nella conquista di Siracusa” e “ } che Archimede sia morto nella conquista di Siracusa”, nella Begriffsschrift significano “La morte di Archimede nella conquista di Siracusa è un fatto”, oppure “Che Archimede sia cen nella i conquista di Siracusa è un fatto”. Su sostiene, infatti, che dato un enunciato dichiarativo qualsiasi X, “X è il Vero” ha lo stesso senso di X (v., per es., Frege [1892a], p °% Questo è un punto in cui la logica di Frege differisce dagli standard attuali, ma coincide pienamente con quella sostenuta da Russell nei n Principles of Mathematics (v. sotto, cap. 6, $ 3).

V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 6, pp. 10-11.

I Grundgesetze e la via d’uscita di Frege

319

menti.’ Tale funzione è rappresentata da Frege mediante un tratto verticale — detto tratto condizionale (Bedingungsstrich)" — che congiunge due orizzontali paralleli, posti uno sotto l’altro, partendo dall’estremità sinistra dell’orizzontale

inferiore,

e terminando

all’interno

dell’orizzontale

superiore.

Ciò

che

si trova

a destra

dell’orizzontale inferiore denota |’ antecedente dell’implicazione, e l’orizzontale stesso si può considerare come denotante la funzione —É applicata all’antecedente dell’implicazione; ciò che si trova a destra dell’orizzontale superiore denota il conseguente dell’implicazione, e la parte dell’orizzontale stesso che sta a destra del tratto condizionale si può considerare come denotante la funzione —& applicata al conseguente dell’implicazione. Infine, la parte dell’orizzontale superiore che sta a sinistra del tratto condizionale si può considerare come la funzione — $ applicata all’intero condizionale. Per comodità notazionale useremo, al posto del simbolo fregeano, il simbolo “€ > &”, assegnandogli il senso e la denotazione dell’implicazione fregeana. Quindi assumeremo che, per es., “Frege è un filosofo > Frege è un filosofo” abbia lo stesso senso e la stessa denotazione di “Se Frege è un filosofo è il Vero, allora Frege è un filosofo è il Vero”, e che ‘“Frege > 2” abbia lo stesso senso e la stessa denotazione di

“Se Frege è il Vero, allora 2 è il Vero”, cosicché “Frege è un filosofo > Frege è un filosofo” e “Frege > 2” saranno entrambi considerati nomi propri del Vero. Tutti gli altri connettivi verofunzionali sono espressi da Frege servendosi solo dell’implicazione e della negazione. Noi useremo, invece, anche i segni di congiunzione “A” e di disgiunzione “V”. Interpreteremo però “© A &” come un nome della funzione diadica -(é > —$ ), ossia interpreteremo la congiunzione come una funzione diadica che dà il Vero se entrambi i suoi argomenti sono il Vero, altrimenti dà il Falso; interpreteremo la disgiunzione “© v U” come un nome della funzione —& > 6, ossia interpreteremo la disgiunzione come una funzione diadica che dà come valore il Vero se uno dei suoi argomenti è il Vero, altrimenti dà il Falso.°* Così, per esempio, in questa notazione “Frege n 3” e “Frege v 3” saranno nomi del Falso, mentre “-Frege A -3” e “-Frege v 3” saranno nomi del Vero. Sebbene Frege usi solo, nella sua ideografia, simboli per la negazione e il segno d’implicazione, egli interpreta i rapporti tra connettivi esattamente così; per esempio, legge una formula del tipo “A > B” anche come la negazione di “A e non B” e spiega verbalmente le formule del tipo “(A > -B)” e “A > B” leggendole, rispettivamente, come “A e B” e “A 0 B”.9°

Si osservi che, poiché a fianco dei segni di negazione e d’implicazione devono figurare dei nomi propri, e il simbolo “ |” non forma un nome proprio, quando prefissato a una formula, ma l’espressione di un giudizio, cioè un’asserzione, ne segue che questo simbolo non può mai essere utilizzato in combinazione con i segni d’implicazione o negazione: nel simbolismo fregeano, il simbolo “ |” può essere usato solo davanti a un’intera formula preceduta da “-—’, mai al suo interno.” Il simbolo “ |” indica quella che Frege chiama dapprima forza abituale (ordinaria, usuale) [gewòhnliche Kraft] e, dal 1906, forza assertoria (behauptende Kraft) di un enuncia-

10,68

Ca

Frege [1893-1903], vol. I, $ 12, p. 20. Il medesimo significato per l’implicazione sarà adottato da Russell negli scritti successivi ai

Principles.

4

wa

6 V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 12, p. 20.

6 Volendo, naturalmente, si potrebbe anche definire la doppia implicazione é = € come la funzione (COHIOIN(CRIO) cioè una funzione diadica che dà il valore Vero solo se entrambi i suoi argomenti sono il Vero, oppure sono entrambi diversi dal Vero, altrimenti dà il Falso,

ma,

nel sistema di Frege, il bicondizionale “=” è inutile, potendo legittimamente rimpiazzato — ed è di fatto rimpiazzato — dal segno

d’identità “=”. Infatti, l’utilità del bicondizionale si ha quando “=” compare tra enunciati, ma, nel sistema dei Grundgesetze, tutti gli enunciati veri denotano il Vero, e tutti quelli che non sono veri denotano il Falso, cosicché, se “A” e “B” sono lettere che stanno al posto di enunciati, o il valore di verità di questi enunciati è identico, e allora è vero “A = B”, o il loro valore di verità è diverso, e allora “A = B” è

falso. Dunque, “A = B” è vero se e solo se “A = B”.

N x Fre SAI 69 V, per es., Frege [1882], pp. 57-58, Frege [1893-1903], vol. I,$12, p. 21, e Frege [1923], pp. 48-49.

70 Come esplicitamente riconosciuto da Russell e Whitehead P

;

(v. [PM], vol. I, *1, p. 92, prima nota) dal simbolo fregeano bi

R

a

(13

|

9

ha preso €

n

origine il segno d’asserzione dei Principia Mathematica “Y”, utilizzato da Russell fin dall’inizio del 1903 per contrassegnare assiomi e teo-

remi, in contrapposizione alle definizioni, agli enunciati solo ipotizzati e agli enunciati che sono parte di altri enunciati. Si osservi, però, a “e OA‘ PFA < cha “I? PI dibi e ” . Dal segno fregeano al | che 0 “+” non è un segno composto: esso corrisponde piuttosto al fregeano che ili simbolo russelliano è un asserzione dei Principia è derivato il moderno segno “\”, detto in inglese “turnstile” (“tornello”); si badi, tuttavia, che il moderno “+” sistema quel di segno metalinguistico, che, a precedere una formula A di un sistema formale, significa che A è un assioma o un teorema linguaggio 0gDanilo (cioè è in esso sintatticamente derivabile); invece, il segno fregeano e quello russelliano sono segni appartenenti al etto.

l

|

[1914], p. 252. î V. Frege [1892a], p. 34, Frege [1906a], p. 192, Frege [1906b], p. 201, Frege [1906c], p. 214, e Frege

capitolo 5

320

e

TO.

2

3

SARNO

5

È

È 5 3 3 Nei Grundgesetze Frege usa il termine Satz, che traduco con “enunciato”, ”per riferirsi ai nomi propri prefissati in altri scritti egli usa invece lo stesso termine per indicare un nome proprio preceduto dal dal simbolo “ 9 solo segno “—”, cioè il nome, esprimente un pensiero, di un valore di verità. Nella nostra esposizione, ci atterremo a questo secondo uso di “enunciato (dichiarativo)”, riservando il termine “asserzione” ai segni prefissati da n |”. (Nel seguito, ometterò il segno “ | davanti alle trascrizioni simboliche degli enunciati ideografici dei Grundgesetze per cui sia chiaro, dal contesto, che sono asseriti.) Nella concezione matura di Frege, le funzioni (e dunque i concetti e le relazioni) sono estensionali: vale a dire che funzioni le quali hanno, per tutti i medesimi argomenti, i medesimi valori, sono considerate come la stessa funzione.”* Così, per esempio, “É +9” 0 “É +7 + 2” o “€ + il numero dei pianeti del Sole (Plutone incluso)” rappresentano la medesima funzione e “& = 9” o “€ = 7 + 2” o “È = il numero dei pianeti del Sole (Plutone incluso)” rappresentano il medesimo concetto; ancora, se tutti gli animali che hanno un cuore hanno, di fatto, anche un rene, e viceversa, secondo Frege “É è un animale con un cuore” e “€ è un animale con un rene” rappresentano lo stesso

concetto, e la loro diversità di contenuto non sta quindi nella loro denotazione, ma nel loro senso, cioè nel modo in

cui è dato il concetto.” Ho scelto per ultimo un celebre esempio di Quine per introdurre la discussione di un punto importante. Tutti ricorderanno la spiegazione che dà Quine di che cosa sia una classe: nient'altro che una proprietà, a meno della distinzione tra proprietà coestensive. Secondo questa caratterizzazione, i concetti fregeani sarebbero già classi. Eppure Frege introduce nel suo sistema le classi come entità distinte dai concetti.” Di più: egli introduce anche le estensioni di relazioni come entità distinte dalle relazioni.” In generale, per ogni funzione, Frege introduce un’entità distinta dalla funzione, che egli chiama decorso di valori (Werthverlauf) della funzione. Il decorso di valori di una funzione è, intuitivamente, la corrispondenza tra gli argomenti della funzione e il valore della funzione per quegli argomenti; Frege spiega i decorsi di valori assimilandoli al corrispettivo ontologico dei grafici di una funzione analitica.’* Se la funzione è un concetto, allora il suo decorso di valori è la corrispondenza tra

ogni argomento del concetto e il valore (il Vero, o il Falso) del concetto per quell’argomento; Frege identifica il decorso di Valon di un concetto con l’estensione del concetto (Begriffsumfang), o la classe (Klasse) determinata dal concetto.

Le:Accolgo qui la traduzione scelta da Corrado Mangione nell’edizione da lui curata di Frege [1976] (v. “Premessa del curatore italiano”,

nella trad. it. di Frege [1976], p. xvii). Il tedesco “Satz” si può tradurre, a seconda dei contesti, con “frase”, “enunciato”, “proposizione”. Nel caso del Frege maturo, attenersi a “enunciato” ha il vantaggio di evitare confusioni superflue con la “proposition” di Russell. Che i “Satze” del Frege maturo altro non siano che enunciati è testimoniato da passi fregeani espliciti. Ne citerò tre. Il primo compare in una nota a piè pagina di Frege [1897a]: «Il sig. Peano dice “proposition” [in francese nel testo], io direi “valore di verità”, poiché uso la parola

“Satz” nel senso di una combinazione di segni [Zeichenverbindung] il cui senso è un pensiero e la cui denotazione [Bedeutung] è un valore di verità — il Vero o il Falso» (Frege [1897a], p. 371, nota 5). Il secondo passo, è dei Grundgesetze, dove il termine Satz è introdotto così: «Chiamo la rappresentazione ideografica (begriffsschriftliche Darstellung) di un giudizio per mezzo del segno “ o enunciato ideografico (Begriffsschriftsatz), o per brevità enunciato (Satz)» (v. Frege [1893-1903], vol. I, $ 5, p. 9). Il terzo passo — citato dallo stesso Mangione a suffragio della sua scelta di traduzione —

compare in una lettera di Frege a Russell datata 20 ottobre 1902; Frese scrive:

«[...] che cos’è un Satz? I logici tedeschi intendono con ciò l’espressione di un pensiero, un gruppo di segni [Zeichen] udibili o visibili, che esprimono un pensiero. Lei intende invece evidentemente il pensiero stesso. Codesto è certo l’uso di questa parola presso i matematici. Io preferisco aderire piuttosto all’uso dei logici» (in Frege [1976], p. 231). Si osservi che il primo Frege, per es. nella Begriffsschrift (1879) e nelle Grundlagen (1884), usava “Satz” per riferirsi talora a un enuncia-

to, talora a quello che il Frege maturo chiamerà pensiero [Gedanke] espresso dall’enunciato. In quest'ultimo caso, mi è parso opportuno CON l’ambiguità, traducendo “Satz” con “proposizione”, e segnalando tra parentesi il termine originariamente usato da Frege.

V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 5, p.9.

b

7 V. Frege [1892d], pp. 128-129. È quindi inaccurato Quine ([1955], p. 376), quando identifica i concetti fregeani con attributi, anche se, negli scritti antecedenti il 1891 — l’anno in cui Frege distingue per la prima volta tra senso e denotazione —

Frege parla di “concetti” in

icadendo un amalgama di senso e denotazione, e ammette dunque che concetti con la stessa estensione possano essere diversi.

° V. Frege [1892d], pp. 128-129.

7° V_, per es., Frege [1893-1903], vol. I, $ DICISIO) 7? V,, per es., Frege [1893-1903], vol. I, $ 36.

.

78 V. Frege [1891], pp. 8-9. VE per es., Frege [1891], p. 16, Frege [1895] p. 455, Frege [1893-1903], vol. I, $ 3, p. 8, e vol. II, $ 147, p. 148, e $ 161, pp. 158-159 Nell’ultimo luogo citato (il $ 161 del vol. Il dei Grundgesetze), Frege stabilisce che da allora in poi, avrebbe usato il termine “classe” Sissi come sinonimo LR

di concetto” (Begriffsumfang). L'equazione tra le estensioni di concetti e le classi si giustifica per-

e parti >Ili elli che vi apparte ché, così come un insieme divide idealmente gli oggetti del mondo i no, il decorso di valori di un concetto divide glde del Joi Sa Eh ti si È ini giga g che, presipresi come argomenti lore Vero, ì e quelli che, del concetto, = il valore eine ca e Inoltre, vi can Falso. ; "dani ceto, didanno il secondo la definizione

che “pr da SR Ma aa dei di “appartenenza” Grundgesetze (vedi più avanti, nel testo), sono elementi del decorso di valori di un concetto tutti e solo gli ogg etti che, presi come argo-

menti del concetto, danno il valore Vero.

i

va

I Grundgesetze e la via d’uscita di Frege

321

Ma se i concetti fregeani sono già entità estensionali, che bisogno ha Frege di introdurre nel suo sistema le estensioni dei concetti, le classi? È interessante qui un confronto tra Frege e il Russell dei Principles of Mathematics: entrambi vogliono ridurre l’aritmetica pura a logica ed entrambi cercano di raggiungere quest’obiettivo servendosi di classi e pervenendo spesso, indipendentemente l’uno dall’altro, a definizioni affatto simili (v. sopra, cap. 2, soprattutto $ 7); ma Frege e Russell fanno uso delle classi per motivi completamente diversi. Per Russell i predicati monadici o poliadici denotano, se denotano qualcosa, delle entità intensionali: attributi monadici o poliadici. Ma l’intensionalità degli attributi è un serio ostacolo, in matematica. Un esempio l’abbiamo già incontrato nel secondo capitolo: non potremmo identificare il numero di una classe @ con l’attributo comune a tutte e solo le classi cardinalmente simili ad @, perché non c’è un solo attributo siffatto: per es., se @ e B sono classi cardinalmente simili, ma differenti, gli attributi espressi da “cardinalmente simile ad @?° e “cardinalmente simile a P'’ sono attributi diversi, pur essendo entrambi attributi comuni a tutte e solo le classi cardinalmente simili ad @. Russell ricorre quindi alle estensioni di proprietà, definendo il numero cardinale di @ come la classe di tutte le classi cardinalmente simili ad &° Dalla semantica di Russell è assente quella distinzione tra denotazione e senso che permette a Frege di considerare i concetti e le relazioni (e, più in generale, le funzioni) come estensionali: a Russell sarebbe parso ovviamente falso, per esempio, che “è uguale al numero 9” e “è uguale al numero dei pianeti del Sole (Plutone incluso)” denotino il medesimo concetto. Secondo Frege, invece, le denotazioni dei predicati sono entità estensionali: se @ e f sono classi cardinalmente

simili, “€ è cardinalmente simile ad @ e “€ è cardinalmente simile a #8” denotano il medesimo concetto (così come “€ è un animale con un cuore” e “È è un animale con un rene”), solo, dato in modi differenti. Ma anche Frege introduce le classi e, nei Grundgesetze, definisce il numero cardinale di una classe come la classe di tutte le classi

cardinalmente simili ad essa. Perché? Il problema, per Frege, è che i concetti e le relazioni non sono oggetti e possono essere denotati solo da predicati, mai da nomi propri. Questo implica — secondo Frege — che i termini numerici, i quali si comportano, negli enunciati matematici, come nomi propri, devono denotare oggetti e non concetti." Il ragionamento fregeano implicito è all’incirca il seguente: l’aritmetica parla dei numeri come di oggetti; l’aritmetica è vera; dunque i numeri sono oggetti. Un’argomentazione caratteristicamente realista, nel senso che prende gli enunciati aritmetici alla lettera, non attribuendo, per es., a un enunciato come ‘3 è dispari” una struttura differente da quella di un enunciato come ‘Venere è un pianeta”, o a un enunciato come “3 = 2 + 1” una struttura diversa da quella di “Venere = la stella della sera”. Ciò spiega perché Frege ricorra alle classi: sebbene i concetti siano per lui estensionali, egli ha bisogno delle classi perché ritiene che i numeri si debbano identificare con oggetti, e — seguendo la sua idea logicista — ritiene che tali oggetti debbano essere oggetti logici. Le classi, nel sistema di Frege, sono ancora — come i concetti e, più in generale, tutte le funzioni — entità logiche, le quali sono in corrispondenza uno-uno con i concetti, ma che a differenza di questi sono oggetti. L'introduzione delle classi come oggetti logici consente a Frege di identificare i numeri, a loro volta, con oggetti logici — oggetti che possono costituire la denotazione dei numerali in enunciati d’identità come “3 = 2 + 1” e possono essere presi come valori delle variabili in enunciati come “Esiste almeno un x che è un numero primo”. Riassumendo: Russell introduce le classi e le relazioni in estensione perché esse, al contrario degli attributi e delle relazioni in intensione, sono estensionali; Frege introduce le classi e le estensioni di relazioni perché esse, al

nt, i contrario dei suoi concetti e delle sue relazioni sono oggetti. Purtroppo, come vedremo più avanti, l'introduzione delle classi è per Frege una mossa fatale, poiché rende derivabile nel suo sistema la versione insiemistica del paradosso di Russell. Invece, la teoria fregeana delle funzioni come entità insature rende impossibile derivare il paradosso di Russell riferito alle denotazioni dei predicati, perché impedisce che si possano significativamente prendere un concetto o una relazione come argomenti di se stes° | si. Vediamo come ciò accada. Supponiamo di avere l’espressione “€ è un filosofo”, e supponiamo che essa denoti un onesto se SITO Ù “E” mettiamo un nome proprio, il nome di un oggetto, otterremo enunciati come “Socrate è un filosoto' : Hitler È un filosofo”, “Il Monte Bianco è un filosofo”, “Il numero 3 è un filosofo”; alcuni di essi saranno un po strani, ma

non importa: per Frege, ognuno di essi sarà o vero 0 falso. Infatti, secondo Frege, una funzione (e quindi un concetto, una relazione) applicabile a oggetti deve sempre dare come valore un oggetto ben definito per qualsiasi 0g-

80 V. anche, sopra, cap. 2, $ 3.2.1, e sotto, cap. 6, $ 12.

81 y,, per es., Frege [1884], $ 57.

capitolo 5

322

getto preso come argomento.® Così come non c’è posto, nella semantica fregeana, per nomi propri privi di denotazione, non c’è nemmeno posto per funzioni parziali, o per concetti fuzzy: un concetto esiste, per Frege, anche se è contraddittorio — in questo caso, semplicemente, sotto di esso non cade nessun oggetto —, ma un concetto applicabile a oggetti non può esistere se non è definito, per ogni oggetto, quale sia il valore di verità dato dal concetto con quello stesso oggetto preso come argomento: un supposto nome di concetto che non soddisfi questo requisito è per Frege privo di denotazione." Così, per esempio, quello di circolo quadrato sarà un concetto, ma non sarà un concetto quello di mucchio — almeno, non lo sarà nel senso vago che si attribuisce alla parola “mucchio” nel linguaggio ordinario, che non decide quando un mucchio cessi di esistere per progressiva sottrazione di elementi, o quando cominci ad esistere per progressiva aggiunta di elementi.5 Non si può tuttavia, nella simbologia di Frege, sostituire alla lettera “€” che figura, per es., in “€ è un filosofo”, qualcosa che non sia il nome di un oggetto: in altri termini, come argomento di un concetto applicabile a oggetti non si può prendere qualcosa che non sia un oggetto.” Questo perché, per Frege, i valori di una funzione devono sempre essere oggetti. Certo, dato il nome di funzione diadica “€ + ©” è possibile sostituire a “© il nome di un oggetto, per es., il numerale “1”, senza inserire nessun nome proprio al posto di “€”, così da ottenere il nome di

funzione “É + 1”; ma, si badi, che É + 1 non è un valore della funzione € + &: un valore della funzione $ + © può essere solo un oggetto, mai un’altra funzione. Il nome di un valore della funzione denotata da “È + ©” si ottiene dunque solo sostituendo sia a “€” sia a “CU” il nome di un oggetto, così da ottenere, per es. “3 + 1”. Quindi il simbolo “€”, in un predicato monadico, deve sempre essere sostituito da un simbolo che trasformi il predicato nel nome di un valore di verità, ossia in un enunciato.” Ciò non si verifica se, per es., cerchiamo di mettere al posto di

“E”, in “€ è un filosofo”, un altro nome di funzione. Per es., se a “&”, in “È è un filosofo”, sostituissimo il predicato “É è rosso”, o il nome di funzione “€ + 1” il otterremmo, rispettivamente, “E è rosso è un filosofo”, e “È + 1 è un filosofo”, che non sono affatto enunciati, perché contengono ancora un posto di argomento vuoto, contrasse-

gnato dalla lettera “&”. Come caso particolare, se a “€”, in “€ è un filosofo”, sostituissimo lo stesso predicato “È è un filosofo”, otterremmo ‘€ è un filosofo è un filosofo”, che non è il nome di un valore di verità. Frege non intende certo negare la possibilità di fare affermazioni su concetti o su relazioni. Ma poiché un predicato i cui posti d’argomento possono accogliere significativamente dei nomi di oggetti non diviene un enunciato se in questi posti d’argomento inseriamo dei predicati, egli ne deduce che è necessario che i concetti e le relazioni che possono prendere altri concetti e relazioni come argomenti siano di un livello (Stufe) logico differente dai concetti e dalle relazioni che possono prendere solo oggetti come loro argomenti, e che questa distinzione debba essere rispecchiata a livello sintattico. Per Frege, la relazione che sussiste tra un oggetto e un concetto di primo livello quando il concetto dà il valore Vero prendendo quell’oggetto come argomento è — seppure analoga — diversa da quella che sussiste tra un concetto e un altro concetto di livello superiore quando il secondo concetto dà il valore Vero prendendo il primo come argomento. Nel primo caso, Frege dice che l’oggetto cade sotto (fùllt unter) un concetto, nel secondo, che un concetto cade entro (fallt in) un altro concetto.8 Le funzioni (i concetti, le relazioni) che hanno per argomenti solo oggetti sono per Frege di primo livello (erster Sugo) quelle, invece, che hanno per argomenti funzioni di primo livello sono di secondo livello (zweiter Stu-

fe). Esempi di nomi di funzioni di secondo livello, sono i nomi di funzioni monadiche “(Socrate)”, “®(Socrate) > ®(Socrate)”,

“®(Socrate)

a -P(Alessandro

Magno)”,

e il predicato diadico “®(Socrate) A (Alessandro Magno)”, dove “D” e “P” non sono variabili né costanti, ma lettere schematiche che segnalano i posti di argomento

2] Frege [1884], $ 74, p. 87; Frege [1892d], p. 133; Frege [1897a], pp. 374-375; Frege [1893-1903], vol. I, $ 8, p. 11, $ 29, p. 46,$ 31, p

49, e vol. II, $ 56, pp. 69-70,e$$ 62-65, pp. 74-78; Frege [1914], p. 260.

SARA

i

83 ., per es., Frege [1892d], p. 133. 84 V_, per es., ibid., e Frege [1898], pp. 182-183.

39 L’esempio dello pseudoconcetto mucchio si trova nella Begriffsschrift (v. Frege [1879], $ 27, p. 64), e in Fregè [1898], p. 183. Nel secondo volume dei Grundgesetze si trova l'esempio della parola “omogeneo” (gleichartig) con la quale dice Frege, presa a sé sè Svideni. che non si dice proprio nulla [ist offenbar gar nichts gesagi]»: la ragione è che, poiché le cose possono essere omogenee per la certo aspetEt

tn

E

due oggetti siano omogenei

non si può rispondere in generale con un “sì” o un “no” (v. Frege

80 v_, per es., Frege [1893-1903], vol. I, $ 21, pp. 36-37.

*7 V,, per es. Frege [1892d], p. 129. sìV., per es., Frege [1892b], p. 201. 2AeVE per es., Frege [1891], pp. 28-29, Frege [1892b],

usato il termine “ordine” (Ordnung), A

a

p. 201, e Frege

dii

[1893-1903

82

SIVORI

-38

ATO

Re:

3

ò

sii

I Grundgesetze e la via d’uscita di Frege

325

in cui si possono porre nomi di funzioni monadiche di primo livello — proprio come “€” e “C” indicano i posti di argomento che possono accogliere un nome proprio nel nome di una funzione monadica di primo livello.” Per esempio, sostituendo il predicato “© è un filosofo” a “@(...)” nella prima serie di esempi otteniamo rispettivam ente: “Socrate è un filosofo”, “Se Socrate è un filosofo allora Socrate è un filosofo”, “Socrate è un filosofo e Alessandro Magno non è un filosofo”. Sostituendo invece, rispettivamente, i predicati “€ è un filosofo” e “€ è un condottiero” a “D(...)” e ‘WP(...)” in “®(Socrate) x (Alessandro Magno)” otteniamo “Socrate è un filosofo e Alessandro Magno è un condottiero”; ma potremmo anche sostituire sia a “D(...)? sia a ‘*P(...)”, in “®(Socrate) A

‘P(Alessandro Magno)”, ottenendo così “Socrate è un filosofo e Alessandro Magno è un filosofo”. Se infine sostituiamo, per es., il nome di funzione “& + 3” a “D(...)”, in “@(Socrate)”, in “®(Socrate) > P(Socrate)”, e in “@(Socrate) A —(Alessandro Magno)”, otteniamo, rispettivamente: “Socrate + 3”, “(Socrate + 3) > (Socrate +

3)”, e “(Socrate + 3) n (Alessandro Magno + 3)”: per Frege, il primo di questi nomi deve denotare un oggetto, altrimenti “È + 3” non è una funzione; il secondo ha lo stesso senso e la stessa denotazione dell’enunciato “Se

(Socrate + 3) è il Vero, allora (Socrate + 3) è il Vero”, che è vero, supponendo che “Socrate + 3” non denoti il Vero; e il terzo ha lo stesso senso e la stessa denotazione dell’enunciato: “È il Falso che se (Socrate + 3) è il Vero, allora (Alessandro Magno + 3) è il Vero”, che sarebbe vero solo se “Socrate + 3” denotasse il Vero e “Alessandro Magno + 3” denotasse un oggetto diverso dal Vero. I quantificatori su oggetti sono, per Frege, anch'essi simboli che denotano concetti di secondo livello." Nella simbologia di Frege, il quantificatore universale consiste in una variabile scritta in caratteri gotici” inserita in una concavità ricavata nel mezzo di un orizzontale (Wagerechter) che precede una formula in cui deve comparire, in uno o più posti, la medesima lettera gotica.” Le lettere gotiche che si trovano in una formula quantificata sono le

variabili che oggi chiamiamo “vincolate” — ma che Frege chiama solo “lettere gotiche” (deutsche Buchstaben). Sono invece scritte in caratteri latini, nella simbologia fregeana, le variabili che oggi diremmo “libere” — ma che Frege chiama semplicemente “lettere latine” (lareinische Buchstaben).*® Nei Grundgesetze, Frege spiega l’uso di lettere latine so/o in enunciati asseriti,”° laddove egli le intende come variabili implicitamente vincolate da quanti-

ficatori universali il cui ambito si estenda almeno all’intero enunciato asserito in cui le variabili libere compaiono (ad esclusione del tratto di giudizio), °ma che può anche essere inteso, se si vuole, come estendentesi a enunciati diversi, se in essi compaiono le medesime variabili non vincolate (per esempio, nel corso di una deduzione). Da-

°0 Per segnalare i posti d’argomento di un predicato di secondo livello — in cui possono essere inseriti predicati di primo livello — Frege si serve in realtà delle consonanti greche minuscole ‘“@° e “w°. Nella sua ideografia, le lettere greche maiuscole non contrassegnano i posti di argomento di predicati di primo livello, ma stanno al posto di espressioni determinate; in particolare, i nomi (tra i quali gli enunciati), sono rappresentati solitamente dalle lettere schematiche “I”?, “A”, “@”, “A”, “E”, “I”, “2”, e le funzioni dalle lettere schematiche “®”, ‘P°, “X”, “Q” a precedere le lettere schematiche che ne segnalano i posti d’argomento; così, per es., per Frege “D(E)”, PE)”, “PE, 0)” stanno al posto di nomi di funzioni (fa eccezione “M” che è utilizzata come variabile per funzioni del secondo livello: v. Frege [1893-1903], vol. D $ 25. p. 42). Qui preferisco usare, nello stesso ruolo, ie lettere maiuscole “@®” e “P”, per non creare confusioni con il nostro uso solito —

mutuato da Russell — di “”, “#7”, ecc. come lettere predicative. 2 V. Frege [1892b], p. 198, e Frege [1893-1903], vol. I, $$ 21-22, pp. 37-38. 92 Le lettere “f?, “9g”, “b”, “7”, “G”, “O” sono riservate alle funzioni, mentre le altre lettere gotiche minuscole, “a”, “b”, “©, “d”, “e”, ... s0no riservate agli oggetti. sa Frege [1893-1903], vol. I, $ 8, pp. 12-14. Per Frege, la formula preceduta da un quantificatore deve obbligatoriamente contenere della variabile vincolata dal quantificatore (v. Frege [1893-1903], vol. I, $ 8, p. 13). Non sono dunque ammessi, nella notazione di Frege, quanti-

ficatori davanti a enunciati che non contengano nessuna occorrenza della variabile vincolata dal quantificatore. La ragione di questo risulterà chiara quando, tra poco, vedremo che il quantificatore universale denota per Frege la funzione di secondo livello (PM), che, per una funzione f(É) presa come argomento, dà il valore Vero se f(€) dà il valore Vero per qualsiasi argomento, altrimenti dà il valore Palo: Se

dunque, per es., in un enunciato che segue un quantificatore universale che vincola la variabile “x non comparisse lastessa lettera x”, non si potrebbe ottenere l’enunciato stesso preceduto da tale quantificatore partendo dal nome di funzione di secondo livello “(x)(®(x))” stat rendo nel suo posto d’argomento il nome di una funzione di primo livello (v. Frege [1893-1903], vol. I, $ 21, p. 36). ISONO riservate alle funzioni di primo livello, le altre lettere latine minuscole: “a”, “b”, ea GET 4 Le lettere ie ce

inse-

ta “©”, “@”,

1 he ..., Sono riservate agli oggetti; la lettera latina “M” è riservata alle funzioni di secondo livello. 95 In una nota a piè pagina, Frege osserva: «Con questo l’uso delle lettere latine è spiegato solo per il casoin cui sia presente un tratto di

giudizio. In un puro sviluppo ideografico è tuttavia sempre così; poiché in esso procediamo sempre da enunciato [asserito] [Satz] a calcia; to [asserito]» (v. Frege [1893-1903], vol. I, $ 17, p. 31, nota). Anni prima, nella Begriffsschrift, Frege dichiarava invece: «Se una spiata latina compare in un’espressione non preceduta dal segno di giudizio, l’espressione è priva di senso [sinn/os]» (Frege [1879], $ 11, p. 21). (x # % Cosicché, per es., l’asserzione di “(x # y)” sarà interpretata come l’asserzione di “(x)(y)-(x # y)”, e non come l’asserzione “—(x)(y)

Lante

Py [1893-1903], 27 V. caFrege & Logi esempio è l’inferenza da

vol.5 "D,

arida

aa

o

le inferenze in cui debbono comparire variabili giustifica modo, Frege I,? $ 17, p.4 31. ”In questo «esi _ Ras 9 2% 2 _ 8 = 2 she A e svol versi, se

“(x° = Na CCIE

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1)”, che non potrebbe

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degli

g

capitolo 5

324

to il suo uso, è evidente che in un enunciato isolato una lettera latina può essere sempre sostituita da una lettera gotica avente per ambito l’intero enunciato — ponendo la stessa lettera gotica in una concavità ricavata nell’orizzontale che precede l’enunciato — purché questa lettera gotica non compaia già nello stesso enunciato. Frege dice che una lettera gotica o latina non denota (bedeutet), ma indica (deutet an) un oggetto.” Indicano, ma non denotano — non sono nomi —, anche le espressioni in cui compaiono lettere latine: Frege chiama marca latina di oggetto (lateinische Gegenstandsmarke) un’espressione contenente lettere latine che diviene un nome proprio se a ognuna di esse si sostituiscono (uniformemente) nomi; analogamente, egli chiama marca latina di funzione (lateinische Functionsmarke) un’espressione contenente lettere latine che diviene un nome di funzione se a ognuna di esse si sostituiscono (uniformemente) nomi." In un orizzontale contenente una concavità con una lettera gotica, Frege concepisce sia il tratto orizzontale a destra, sia quello a sinistra della concavità come orizzontali a loro volta.!! Questo significa che una formula contenente una variabile quantificata risulta sempre preceduta da un orizzontale. In altri termini, se una formula, poniamo “f(x)”, è preceduta da un quantificatore fregeano che ne vincola la variabile “x”, la formula quantificata non è solo “f(x)”, ma “—f(x)”. Quindi, anche nel caso che la funzione f($), il cui nome compare in “f(x)”, non sia un predicato, ma una funzione i cui valori non sono valori di verità, l'ambito della variabile quantificata sarà sempre un enunciato. Noi non useremo la simbologia fregeana, ma utilizzeremo la nostra usuale simbologia attribuendole però il senso e la denotazione della corrispondente notazione di Frege. Così, in “(x)(f(®))”, la formula ‘f(x)” sarà intesa come implicitamente preceduta da un orizzontale, ossia con il senso e il valore di verità di “flx)

è il Vero”, che ha lo stesso senso e lo stesso valore di verità di “f(x)” se e solo se “f(é)” è il nome di un concetto. Possiamo quindi comprendere il senso e la denotazione che Frege attribuisce all’equivalente, nella sua simbolox gia, del nostro attuale uso di “(x)(f(®)”, ossia: il senso di ‘“(x)(f(x))” è il pensiero che, per qualsiasi argomento, il valore della funzione f(é) è sempre il Vero; la denotazione di “(x)(f(x)” è il Vero se, per qualsiasi argomento, il

valore della funzione f(é) è sempre il Vero, altrimenti è il Falso. Il quantificatore universale è per Frege il nome della funzione di secondo livello (x) (P(x)).!® Il valore di questa

funzione (x)(®(x) per una funzione f($) presa come argomento è il Vero se f(€) dà il valore Vero per qualsiasi argomento, altrimenti è il Falso. Di conseguenza,

il valore della funzione di secondo livello (x)-(®(x)) per una

funzione f(6) presa come argomento è il Vero se il valore della funzione —f($) è il Vero per qualsiasi argomento, ossia se il valore di f(É) non è mai il Vero, altrimenti è il Falso. Pertanto, il valore della funzione -(x)-(®(®)) per una funzione f(éÉ) presa come argomento sarà il Vero se è falso che f(é) non è mai il Vero, ossia se c’è almeno un valore di f($) che sia il Vero, altrimenti è il Falso. In alternativa a “-(x)-(®(x))” scriveremo “A3x) (©):

dun-

que il valore della funzione (4x)(®(x)) per una funzione f(É) presa come argomento sarà il Vero, secondo Frege,

se c’è almeno un valore di f($) che sia il Vero, altrimenti sarà il Falso. Facciamo qualche esempio. Se sostituiamo a “®(...)”, in (X)(P(x)), il predicato “È è un filosofo”, otteniamo l’enunciato “(x)(x è un filosofo)”. Questo enunciato ha, nella notazione fregeana, lo stesso senso di “Per ogni x, x è un filosofo è il Vero” e dunque, poiché se “X” sta al posto di un enunciato, per Frege “X è il Vero” ha lo stesso senso di “X”, “(x) (x è un filosofo)” ha lo stesso senso di “Per ogni x, x è un filosofo”. Questi enunciati sono per Frege nomi del Falso, perché la funzione é è un filosofo non dà il Vero per ogni argomento. Se invece sostituiamo a “®(...)”, in (M(P(1), il predicato “€ è un filosofo > È è un filosofo”, otteniamo l’enunciato “(x) (se x è un filosofo > x è un filosofo”, che ha lo stesso senso di “Per ogni x è il Vero che se x è un filosofo è il Vero. allora x è un

filosofo è il Vero”, 0, più semplicemente, di “Per ogni x, se x è un filosofo, allora x è un filosofo”. Questi enuncia-

ti sono per Frege nomi del Vero, perché la funzione é è un filosofo > È è un filosofo è il Vero per ogni argomento.

enunciati che fungono da premesse avesse quantificatori universali indipendenti. 9 V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 17, pp. 32-34, e $ 48, p. 62.

°° V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 17, pp. 31-32. 1° V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 17, pp. 32-33. !0! V_ Frege [1893-1903], vol. I, $ 8, p. 14. 102 V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 8, p. 12. 05 V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 22, p. 38. LA Nella simbologia di Frege il quantificatore esistenziale è rappresentato facendo precedere e seguire la concavità in cui è inserita una lettera gotica da un tratto di negazione (v. Frege [1879], $ 12, p. 23, e Frege [1893-1903], vol. I, $ 8, p. 12). Frege interpreta rebaltoeiNe li enunciati di questa forma come

enunciati esistenziali (cioè come enunciati della forma “Esiste almeno

[1879], $ 12, p. 23, Frege [1880], p. 22, e Frege [1893-1903], vol. I, $ 8, p. 12).

e

un Pf

Pineta

” (v.,

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I Grundgesetze e la via d’uscita di Frege

325

Se a “D(...)”, in “(A») (®(x)” sostituiamo il predicato “È è un filosofo” otteniamo l’enunciato “(@x) (x è un filosofo)”, il cui senso è lo stesso di “Esiste almeno un x tale che è il Vero che x è un filosofo”, oppure di “Esiste almeno un x tale che x è un filosofo”, e che ha come denotazione il Vero se e solo se la funzione é è un filosofo dà il valore Vero per almeno un argomento, cioè, se c’è almeno un filosofo. Se, invece, a DA) anne) (©) so stituiamo il predicato “€ è un unicorno” otteniamo l’enunciato ‘“(4x)(x è un unicorno)”, il cui senso è lo stesso di

“Esiste almeno un x tale che x è un unicorno è il Vero”, oppure di “Esiste almeno un x tale che x è un unicorno”, e che ha come denotazione il Falso, se non vi sono unicorni. Finora abbiamo provato a sostituire a “®(...)”, nei precedenti nomi di concetti di secondo livello, solo dei predicati monadici, cioè dei nomi di concetti di primo livello. Vediamo che cosa accade se sostituiamo a «DE nome di una funzione monadica di primo livello che non sia un concetto. Per es., proviamo a sostituire a “D(...)”, in “(Ax (®)”, il nome di funzione “E + 3”. Otteniamo “(3x)(x + 3)”: nella nostra usuale simbologia, questo sarebbe un enunciato malformato; ma abbiamo detto che avremmo adoperato questa simbologia per esprimere i sen-

si e le denotazioni stabiliti da Frege. Vediamo dunque che, se si tengono presenti le sue stipulazioni, “(3x) (x + 3)” viene ad avere lo stesso senso e la stessa denotazione di “Esiste almeno un x tale che (x +3) è il Vero”, cosicché

la sua denotazione è il Vero se c’è almeno un argomento per cui il valore della funzione € + 1 sia il Vero; se questo valore non c’è (come possiamo supporre), allora ‘“(3x) (x + 3)” denota il Falso. Denoteranno invece il Vero sia “QM-+ 1)”, sia “-() (x + 1)”. Infatti, il primo viene ad avere lo stesso senso e la stessa denotazione di “Per ogni x, che (x + 1) non sia il Vero è il Vero”, e il secondo viene ad avere lo stesso senso e la stessa denotazione di ‘Non è il Vero che per ogni x, (x + 1) sia il Vero”.

In sintesi, abbiamo constatato che, ponendo nel posto di argomento dei nostri predicati monadici di secondo livello il nome di una qualsiasi funzione monadica di primo livello, ciò che otteniamo è sempre — come è necessario per tutti i nomi di concetti — un enunciato, ovvero il nome di un valore di verità. Non è però possibile negli stessi casi sostituire a “D(...)” qualcosa che non sia il nome di una qualsiasi funzione monadica di primo livello. Vale a dire che ogni tentativo di farlo metterà capo a un’espressione che non è il nome di un valore della funzione originale — cioè un enunciato —, e ciò dimostrerà che l’ argomento scelto non è il nome di un argomento adatto alla funzione. Per esempio, se proviamo a sostituire a “@(...)”, nel predicato di secondo livello “(4x)(®D(x)”, il nome di un oggetto, per es. “Socrate”, otteniamo: “(4x)(Socrate x)”, che non è un enunciato, perché è privo di un predicato. Ancora, se proviamo a sostituire a “P(...)?, in “Av (P(x)”, il predicato diadico di primo livello “È è discepolo di

©, otteniamo: “(4x)(x è discepolo di €)”, che non è un enunciato, perché contiene ancora la lettera “©” che ne rappresenta una lacuna.'° E ancora, se proviamo a sostituire al posto di “@(...)”, in “(4x)(P(x)”, un altro predicato di secondo livello, per esempio ‘“(y)(®(y))”, otteniamo: “(4x)() (PY)(M)”, che non è un enunciato. Una funzione di secondo livello può — secondo Frege — divenire a sua volta argomento di una funzione di

terzo livello, e così via. Se il risultato denota il Vero, allora il concetto di livello inferiore cade entro quello di livello superiore, altrimenti non cade entro questo concetto. Un esempio di predicato di terzo livello può essere “Og(è un filosofo(B))”, dove «@g7!% è una lettera schematica indicante un posto d’argomento che può accogliere un predicato di secondo livello e ‘“B” una lettera che indica la posizione per il nome di un oggetto, o per una variabile oggettuale che deve essere introdotta insieme con il nome della funzione di secondo livello presa come argomento. Se, per esempio, sostituiamo a “©g(...(B))”, in “©g(è un filosofo(B))” la funzione di secondo livello “®(Socrate)” otteniamo “Socrate è un filosofo”. Si osservi

che un medesimo enunciato, per es. “Socrate è un filosofo”, si può ottenere colmando il posto d’argomento del nome di funzione di primo livello “$ è un filosofo”, sostituendo “Socrate” a “È”, o si può ottenere colmando ilposto d’argomento del predicato di secondo livello “®(Socrate)”, sostituendo “€ è un filosofo” a “®(...)”, o si può ottenere — come abbiamo fatto sopra —

colmando il posto di argomento del predicato di terzo livello “©pg(è un

105 In questo caso, il risultato della sostituzione è il nome di una funzione, e non un simbolo malformato come nel caso precedente. Ma ciò dire che il non cambia il punto: cioè che, non essendo il risultato della sostituzione il nome proprio di un valore di verità, SRO un x almeno esiste è Di cui i concetto del argomento un nome della relazione diadica che abbiamo inserito al posto di “®(...)” denoti dire PREtsbba si Semmai, verità. di valore un valore come dando concetto il saturare sempre tale che D(x)”, perché un tale argomento deve

un x tale che D(x)” che la relazione diadica in parola denota solo parte di un argomento del concetto il cui nome è “esiste almeno

t posito, v. Frege [1893-1903], vol. I, $ 21, pp. 36-37). 24, p.41. $ I, vol. [1893-1903], Frege v. “Jug”: simbolo 106 Frege si serve, allo scopo; del

(in pro-

326

capitolo 5

Frefilosofo(B))”, sostituendo “®(Socrate)” a “©g(...(B))”. Questo è un altro esempio di come, secondo teoria di modi. molti in scomporre ge, i sensi degli enunciati si possano Frege concepisce i quantificatori che quantificano su funzioni del primo livello come simboli che denotano x concetti di terzo livello. Un nome di un tale concetto di terzo livello è “(f)(O6(f(B)))”, cioè “per ogni f, ©g(f(B))”. Si tratta di un predicato di terzo livello perché inserendo al posto di “©g(...(B))” il nome di una funzione monadica di secondo livello che ha per argomenti funzioni monadiche, si ottiene sempre un enunciato vero 0 falso. La

funzione (f)(Ox(f(B))) dà per Frege il valore Vero quando prende per argomento una funzione che dia il valore Vero per ogni argomento, altrimenti dà il valore Falso. Per esempio, se inseriamo nel posto di argomento di “(06(f(B)))” il predicato di secondo livello “(Dx > Dr)”, otteniamo: “({)(2) fx > fx)”, che è un enunciato vero, perché la funzione (x)(®x > Px) dà come valore il Vero per ogni argomento. È facile vedere che non è possibile sostituire a “©g(...(B))”, in “()(0(f(B)))” qualcosa che non sia una funzione monadica di secondo livello che ha per argomenti funzioni monadiche di oggetti: vale a dire, che ogni tentativo di farlo metterà capo a una successione di segni che non è un enunciato. Da ciò che abbiamo osservato, si vede che nella teoria di Frege si genera una suddivisione in tipi delle espressioni, che, limitando la nostra attenzione ai nomi propri e ai nomi di funzioni monadiche e diadiche, possiamo descrivere come segue. AI livello più basso — che possiamo identificare con il livello 0 — troviamo il tipo dei nomi propri. Al primo livello ci sono due tipi: il tipo dei nomi di funzioni monadiche di primo livello (di cui fanno parte i predicati monadici di primo livello) e quello dei nomi di funzioni diadiche di primo livello (di cui fanno parte i predicati diadici di primo livello), nei cui posti di argomento possono entrare solo nomi propri. Al secondo livello ci sono due tipi di nomi di funzioni monadiche (e quindi due tipi di predicati monadici): uno nei cui posti di argomento possono entrare solo nomi di funzioni monadiche di primo livello, e un altro nei cui posti di argomento possono entrare solo nomi di funzioni diadiche di primo livello. Sempre al secondo livello, vi sono quattro tipi di nomi di funzioni diadiche (e dunque quattro tipi di predicati diadici): due tipi nel cui primo posto di argomento possono entrare solo nomi di funzioni monadiche di primo livello, a seconda che: (a) nei posti di argomento successivi al primo possano entrare solo nomi di funzioni monadiche di primo livello, o che (©) vi sia almeno un posto di argomento successivo al primo in cui possono entrare nomi di funzioni diadiche di primo livello; altri due tipi nel cui primo posto di argomento possono entrare nomi di funzioni diadiche di primo livello, a seconda che: (a) negli altri posti di argomento possano entrare solo nomi di funzioni diadiche di primo livello, o che (b) vi siano posti di argomento successivi al primo in cui possono entrare nomi di funzioni monadiche di primo livello. Vi sono poi altri quattro tipi di nomi di funzioni diadiche (e quindi di predicati diadici) che hanno almeno un posto di argomento in cui possono entrare solo nomi di funzioni monadiche di primo livello, e almeno un altro posto di argomento in cui possono entrare solo nomi di oggetti.'* Si può poi passare ai nomi di funzione di terzo livello, e così di seguito, teoricamente senza limite: ascendendo in questa gerarchia si distingueranno ancora nuovi tipi di nomi di funzioni monadiche e diadiche. Ogni tipo di espressione denota un tipo corrispondente di entità: i nomi propri denotano oggetti, mentre i nomi di funzioni denotano funzioni, che sono concetti o relazioni se i loro valori sono per tutti gli argomenti valori di

verità. Abbiamo così una corrispondente suddivisione in tipi delle entità. Al livello più basso — che possiamo identificare con il livello 0 — troviamo gli oggetti. AI primo livello ci sono il tipo delle funzioni monadiche di primo livello (tra le quali vi sono i concetti di primo livello) e il tipo delle funzioni diadiche di primo livello (tra le quali vi sono le relazioni diadiche di primo livello), i cui argomenti possono essere solo oggetti. AI secondo livello ci sono due tipi di funzioni monadiche (e dunque quattro tipi di concetti): uno i cui argomenti possono essere solo funzioni monadiche di primo livello, e un altro i cui argomenti possono essere solo funzioni diadiche di primo livello. Sempre al secondo livello, vi sono quattro tipi di funzioni diadiche (e dunque quattro tipi di relazioni diadiche): due tipi il cui primo argomento può essere solo una funzione monadica di primo livello, a seconda che ilsecondo argomento possa essere, rispettivamente, solo una funzione monadica di primo livello, o solo una funzione diadica di primo livello; altri due tipi il cui primo argomento può essere solo una funzione diadica di primo livello, a seconda che il secondo argomento possa essere, rispettivamente, solo una funzione diadica di primo li-

vello, O)solo una funzione monadica di primo livello. Vi sono poi altri quattro tipi di relazioni diadiche con argomenti misti: due che possono avere come primo argomento solo un oggetto, a seconda che possano avere come !©? V_ Frege [1892b], p. 200.

108 Sembra È LA a E Co : che Frege non consideri questi nomi Ste diPRfunzioni come appartenenti ; al secondo livello. Egli, infatti, parla delle funzioni corrispondenti non come di funzioni o relazioni di secondo livello, ma come di funzioni o relazioni di livello diseguale (ungleichstufige) (v Frege [1891], p. 29, e Frege [1893-1903], vol. I, $ 22, p. 39). Il punto è tuttavia di scarsa importanza. iù

I Grundgesetze e la via d’uscita di Frege

327

secondo argomento solo una funzione monadica di primo livello o solo una funzione diadica di primo livello; e due che possono avere come secondo argomento solo un oggetto, a seconda che possano avere come primo argomento una funzione monadica di primo livello o una funzione diadica di primo livello. Si può poi passare a funzioni monadiche e diadiche di terzo livello, e così di seguito, teoricamente senza limite.

. . Ù h Cao a E Nei x Grundgesetze, 109” Frege assegna designazioni abbreviate solo a tre tipi di entità, in quanto esse possano occorrere come argomenti di funzioni:

=» = =»

argomenti di primo tipo (Argumente erster Art): gli oggetti; argomentidi secondo tipo (Argumente zweiter Art): le funzioni di primo livello di un argomento; argomenti di terzo tipo (Argumente dritter Art): le funzioni di primo livello di due argomenti.

Corrispondentemente, egli distingue tra:

=» =

=

posti d’argomento di primo tipo (Argumentstellen erster Art): appropriati ad accogliere nomi propri; posti d’argomento di secondo tipo (Argumentstellen zweiter Art): appropriati ad accogliere nomi di funzioni di primo livello di un argomento; posti d’argomento di terzo tipo (Argumentstellen dritten Art): appropriati ad accogliere nomi di funzioni di primo livello di due argomenti. Frege continua, distinguendo tipi di entità fino al livello delle funzioni monadiche di secondo livello: Nomi propri e lettere di oggetto sono adatti [passend] ai posti di argomento di primo tipo; nomi di funzioni di primo livello con un argomento sono adatti ai posti di argomento di secondo tipo; nomi di funzioni di primo livello con due argomenti sono adatti ai posti di argomento di terzo tipo. Gli oggetti e le funzioni i cui nomi sono adatti ai posti di argomento del nome di una funzione sono argomenti adatti a questa funzione. Chiamiamo le funzioni con un argomento alle quali sono adatti argomenti di secondo tipo funzioni di secondo livello con un argomento di secondo tipo; chiamiamo le funzioni a un argomento alle quali sono adatti argomenti di terzo tipo funzioni di secondo tipo con un argomento di terzo tipo.!!°

Violare le distinzioni di tipo è sintatticamente impossibile, nel sistema di Frege: vale a dire che ogni tentativo di formare un enunciato che non le rispetti metterà capo solo a un complesso di simboli che non è un enunciato. Ciò, evidentemente, ha l’effetto di bloccare la derivazione del paradosso di Russell riguardo a concetti e relazioni. Come abbiamo anticipato, tuttavia, il sistema di Frege non è immune dal paradosso di Russell, perché l’introduzione fregeana delle classi come oggetti in corrispondenza uno-uno con i concetti permette la derivazione del paradosso nella sua versione insiemistica. Per comprendere bene come ciò accada, dobbiamo considerare gli

assiomi dei Grundgesetze. Gli assiomi dei Grundgesetze der Arithmetik — che Frege chiama, “leggi fondamentali” (Grundgesetze) sono i seguenti (mantengo qui la numerazione di Frege):!!! (ee)

(v. vol. I, $ 18, p. 34, e $ 47, p. 61).!! L’assioma vale per qualsiasi oggetto, e non solo per i valori di verità, '!* perché, come tutte le funzioni fregeane, la funzione $ > C è definita per tutti gli oggetti presi come argomenti: il suo valore è il Falso se al posto di € si prende un nome del Vero e al posto di € un nome del Falso, altrimenti è sempre il Vero. Come osserva Frege (v. vol. I, $ 18, p. 34), da (I) si ottiene immediatamente la formula “® (> x)”, scrivendo “x” al posto di “y” in (1), ed eliminando uno degli antecedenti identici del condizionale, conforme-

!09 V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 23, pp. 40-41. 110 Frege [1893-1903], vol. I, $ 23, p.41.

4

Ki

mes Pd nt 41°, !!! ‘Trascrivo gli enunciati fregeani nella nostra usuale notazione, minimamente adattata. si eambito cui il vincolate variabili di genere un come — latine») !12 Per il significato che Frege attribuisce alle variabili libere («lettere 1Ù enunSÌ £ e; aste x SS | aQGPEe an7: ACC Dc i ileni a ql » 0 1 1 i 71 SU e “nu inteso essere all'occorrenza, pwò, ambito cui il ma compaiono, esse cui in enunciato all’intero almeno stende però, in una EINEM) y 2 x))”. Naturalmente, però come: (x ‘(x)(y) come: èè interpretato retato 1 is iati (v. Frege [1893-1903], vol. I, $) 17, p.31) — (D) înin isolamento ciati | vidi iran libere. variabili solo contenente come usato deduzione l’assioma può essere direttamente 113 In Frege [1879], l’assioma “A > (B > A)” figurava come primo assioma, ma in esso ciati (v. Frege [1879], $ 14, p. 26, prop. 1).

“A” e

‘“B”° potevano essere sostituiti solo da enun-

capitolo 5

328

anche a mente a una regola di deduzione dei Grundgesetze (vol. 1, $ 15, p. 29); per brevità, Frege si riferisce 61). p. 47, “() (x > x)” come a una versione dell’assioma (1) (v. vol. 1, $

mio +93 115

(v. vol. I, $ 20, p. 35, e $ 47, p. 61): “Ciò che vale per ogni oggetto, vale anche per un oggetto qualsiasi”.

(Ib) (MF) > Mag (8) (v. vol. I, $ 25, p. 42, e $ 47, p. 61). “Ciò che vale per ogni funzione di oggetti, vale anche per una qualsiasi fun-39 116 zione di oggetti”.

(MI

g=p)>og(Mk25P))

(v. vol. I, $ 20, p. 36, e $ 47, p. 61).!!” Se si assume che due oggetti x e y siano uguali quando, e solo quando, y cade sotto ogni concetto sotto cui cade x, allora “x= y” e “(f)(fx > fy)” denoteranno, per ogni valore assegnato a (fx > f))) per qualsiasi “X? e a “y”, sempre uno stesso oggetto (il Vero o il Falso), per cui g(x = y) implicherà g ((f) funzione g. L'assunzione che giustifica l'assioma è stabilita nelle sue più semplici istanze: se come g si prende la funzione — €, (III) dice che se x = y allora y cade sotto ogni concetto sotto cui cade x (indiscernibilità degli identici)!!3. Se come g si prende la negazione, (III) dice che se x # y allora è falso che y cada sotto ogni concetto sotto cui cade x (identità degli indiscernibili). È evidente che ciò che asserisce l’assioma (III) è la stessa cosa che asserisce la definizione di identità che sarà data da Russell, secondo cui x = y =4r (P)(Px D ©y).!! Ci si può dunque chiedere perché Frege regoli l’uso del segno di identità attraverso un assioma, e non attraverso una definizione dei Grundgesetze. La ragione risiede nella sua teoria secondo cui le uniche definizioni nel senso proprio del termine sono quelle in cui s’introduce in un sistema un segno completamente nuovo, stipulando che il suo senso e la sua denotazione debbano essere gli stessi di un altro segno complesso composto di simboli di cui già conosciamo senso e denotazione. Frege chiama questo tipo di definizione, oltre che “definizione” tout court, anche definizione costruttiva (aufbauende Definition)."?° Frege osserva però che esiste un altro senso, completamente diverso dal primo, in cui si usa, di solito, il termine “definizione”: quando si analizza un segno semplice già in uso uguagliandolo a un’espressione composta che si ritiene avere lo stesso senso. Questo secondo genere di definizione, dice Frege, si potrebbe chiamare definizione analitica (zerlegende Definition), per distinguerla dalla prima, ma, egli aggiunge: è meglio qui evitare del tutto la parola “definizione” [Definition], poiché ciò che si vorrebbe qui chiamare definizione è in realtà da intendersi come assioma. In questo secondo caso non rimane nessuno spazio per una stipulazione arbitraria, poiché il segno semplice ha già un senso. Solo a un segno che non ha ancora un senso può esserne attribuito uno arbitrariamente. '-'

Per riassumere, usando una terminologia oggi più consueta, Frege contrappone le definizioni nominali (stipulative) alle definizioni reali (esplicative), ritenendo che, propriamente, solo le prime siano vere definizioni, le seconde essendo degli assiomi. Naturalmente, con il segno “=” — preso a indicare l’identità — ci si trova nel secondo caso: di qui, l’uso di un assioma e non di una definizione." 114 fn Frege [1879], questo figura come nono e ultimo assioma (v. Frege [1879], $ 22, p. 51, prop. 58).

s Si osservi che, per il significato che Frege attribuisce alle variabili libere, (Ia) in isolamento equivale a “Y) DM). Si osservi che, per il significato che Frege attribuisce alle variabili libere, (Ilb) in isolamento è interpretato

Ma

MAD) 2 Mg (8).

Si osservi che, per il significato che Frege attribuisce alle variabili libere, (III) in isolamento è interpretato come “ME

gs

come

sl

Lita,

(£x=y >

In Frege [1879], l’indiscernibilità degli identici figura come settimo assioma (v. Frege [1879], $ 20, p. 50, prop. 52).

1° v,, per es. [PM], vol. I, #13.01. Sulla definizione russelliana di identità, v. sopra, cap. 2, $ 3.4.2.

120 V_ Frege [1914], p. 227. S Frege [1914], p. 227.

sig potrebbe allora chiedere che cosa ne sia delle definizioni fregeane di “numero”, di “numero naturale”, ecc.: devono essere intese come assiomi? No, Frege le considera definizioni. Il motivo di ciò è che Frege ritiene che — come prova la difficoltà di formulare Queste definizioni — nell’uso preteorico non si afferri con chiarezza il senso di tali espressioni, per cui non è evidente se tale senso coincida o pa con quello di un definiens proposto; scrive Frege: «Com'è possibile, ci si può domandare, che sia dubbio se un segno semplice abbia lo

I Grundgesetze e la via d’uscita di Frege

IV)

329

{_—x=-)>o(x=—y

(v. vol. I, $ 18, p. 34, e $ 47, p. 61). L’assioma (IV) dice che o un enunciato denota lo stesso oggetto della negazione dell’altro, oppure i due enunciati denotano lo stesso oggetto; in altri termini, l’assioma afferma che ogni enunciato è vero o è falso — che ci sono solo due valori di verità, il Vero e il Falso.

(V) EE) =à(ga)=()(fr= gx) (v. vol. I, $ 20, p. 36, e $ 47, p. 61).'?* L'assioma (V) introduce le classi nel sistema di Frege ed è, come vedremo, il responsabile della sua inconsistenza, perché permette la derivazione del paradosso di Russell. In (V) “é(®£e)” e “a (Yo) sono nomi di funzioni di secondo livello da cui si possono formare nomi propri inserendo nei loro posti

di argomento — che abbiamo contrassegnato con le lettere schematiche “®” e “” — nomi di funzioni monadiche: questi nomi propri denotano, per ogni funzione monadica, un oggetto: il decorso di valori della funzione. Così, “€(fe)” denota il decorso di valori della funzione fé); se “(€)” è il nome di un concetto, allora “è (fe)” denota la classe degli € che sono f.'° L'assioma (V) afferma che due decorsi di valori sono identici se e solo se le funzioni di cui sono il decorso hanno sempre gli stessi valori per gli stessi argomenti. La forma per noi inusuale dell’assioma (V), con segni d’uguaglianza laddove ci si aspetterebbero dei bicondizionali, dipende dal fatto che, essendo per Frege gli enunciati dichiarativi veri nomi propri del Vero e quelli falsi nomi propri del Falso, gli enunciati tra loro equivalenti hanno un’identica denotazione. L’assioma si può leggere: “La denotazione di ‘Il decorso di valori della funzione f($) è lo stesso del decorso di valori della funzione g (É)” è identica a quella di ‘Per ogni x, i valori delle funzioni f($) e g ($) sono identici’. Nel caso che le funzioni f(é) e g (€) siano i concetti @(é) © ye), i loro decorsi di valori saranno le classi 2(@2) e 2 ( Wiz). In questo caso, l’assioma (V) dice: “La clas-

se degli z che sono @ è uguale alla classe degli z che sono w se, e solo se, sotto i concetti @($) e y(É) cadono gli stessi oggetti”, oppure: “Due classi sono identiche se, e solo se, sotto i loro concetti definenti cadono gli stessi ogDErti o. 123

stesso senso di un’espressione composta, quando il senso di quel segno semplice sia noto e anche il senso di questa espressione si possa riconoscere dalla sua composizione? In effetti: se il senso di quel segno semplice è stato realmente afferrato con chiarezza, allora non può esservi dubbio se esso coincida con il senso di quest’espressione. Se ciò è problematico, nonostante che il senso di questa espressione si possa chiaramente riconoscere dalla sua composizione, allora la ragione di ciò deve risiedere nel fatto che il senso di quel segno semplice non è afferrato con chiarezza, ma appare solo con contorni vaghi, come attraverso una nebbia» (Frege [1914], p. 228). Frege ammette che, nel costruire un sistema per la matematica, si possa definire un segno già in uso, con la seguente avvertenza: «Dobbiamo allora però trattarlo come un segno del tutto nuovo, che prima della definizione non aveva ancora un senso. Dobbiamo quindi spiegare che il senso in cui questo segno forse è stato usato prima della ricostruzione [Neubau] del sistema non deve più contare nulla per noi, che si deve invece ricavare il senso di questo segno solamente dalla definizione costruttiva da noi data» (Frege [1914], p. 228). 123 Si osservi che, per il significato che Frege attribuisce alle variabili libere, (IV) in isolamento è interpretato come “@)M)((—x=-y)

3

124 Si osservi che, per il significato che Frege attribuisce alle variabili libere, (V) in isolamento equivale a“(f)(£((E (fe) = (80) ACI

=

Cine

MU

gx)))”. L'assioma è già posto, in modo informale, in Frege [1891], p. 10, e nello stesso vol. I dei Grundgesetze: $ 3, PP. 7-8, e$9, p. 14; il

suo carattere puramente logico è affermato nel luogo citato di Frege [1891] e nella prefazione dei Grundgese ze, p. vii. |

va.

125 In modo analogo, nei Grundgesetze sono introdotti i doppi decorsi di valori (Doppelwerthverliufe) di funzioni diadiche. Se “NE, ©” è il

nome di una funzione diadica, “a &(/(£, @)” è, nei Grundgesetze, il nome del doppio decorso di valori di tale funzione (v. Frege [18931903], vol. I, $ 36). Se, in particolare, la funzione diadica è una relazione, il doppio decorso di valori (Doppelwerthvelauf) è detto anche da

Frege estensione della relazione (umfang der Beziehung) (v. Frege | 1893-1903], vol. I, $ 36, p. 55), o semplicemente relazione (Relation) (v. Frege [1893-1903], vol. II,$ 162, p. 160). < aL | o Frege non si serve dei simboli “@” e “w° per indicare concetti. Quando intende riferirsi a concetti,

ot LA | e non a funzioni qualsiasi, egli usa

simboli come “—f(6)”, o “—g (6Y”, dove “f(6)” e “g (6)” sono variabili per funzioni qualsiasi. Infatti, per il significato della funzione

— É, se f(€) è un concetto, “—/x” avrà per ogni x lo stesso valore di verità e lo stesso senso di “x; se f(é) non è un concetto, allora n 39 À x (E)? SA Ità ' Ò | ; sempre N un concetdenoterà f($)” avrà lo stesso senso ‘ di “fxcaè il Vero” e, per ogni i x, denoterà il valore di verità Falso. Dunque “— fw”

dn Frege non si serve di simboli come “ 2 (@2)” (0 © î (wz)”) per indicare classi. Quando intende riferirsi a SO, enona 05 di Nolo fa)”, dove “f(È)” rappresenta unaqnalsiasi funzione (0 = =35) » 39) ; qualsiasi, egli usa simboli come “£(—f€)”, 0 “a(— dove “g (6)” sta per una qualsiasi funzione). Infatti, se “f(6)” è il nome di un concetto, “E (36

| PENALI lostesso di (è) asc)

non è il nome di un concetto, allora — fx avrà per ogni x come valore il Falso, cosicché “£(—fè)” che dà il Falso per qualunque argomento, cioè la classe vuota. 128 A proposito di questo principio, v. anche, sopra, cap. 2, $ 7.1.

denoterà l'estensione di un concetto

capitolo 5

330

(VD

x=\é(x=E£)

(v. vol. I, $ 18, p. 34, e $ 47, p. I

e ‘\&” è il nome di una funzione che, per così dire, “estrae” da una classe il

suo unico elemento; in altre parole, ‘\é (fe)? è il simbolo usato da Frege per indicare la descrizione definita: “l’unico elemento della classe è (f€)”, oppure “l’unico oggetto che cade sotto il concetto f(&Y.!® L'assioma (VD asserisce dunque: “x è uguale all’unico elemento della classe degli oggetti che sono uguali a x”. Quindi, secondo l’assioma (VI) la funzione \È, per una classe di un solo oggetto come argomento, dà come valore quest’unico 0ggetto. L'assioma non dice nulla, però, su quale sia il valore della la funzione \É quando si prende come argomento qualcosa che non sia una classe di un solo elemento. Frege considera la possibilità, e stipula," senza formalizzare la stipulazione, che in questi casi la funzione \$ dia come valore l'argomento stesso. Così, per esempio, se “f 310 ‘\é fe)”, denota la funzione € è un unicorno, allora \è (fe) (cioè l’unico elemento della classe degli unicorni) sarà la classe degli unicorni stessa, cioè la classe vuota; se “/”, in ‘\é (fè)”, denota la funzione E è autore dei Principia Mathematica, allora \è (fe) (cioè l’unico elemento della classe degli autori dei Principia Mathematica) sarà la classe avente per elementi i soli Russell

e Whitehead; se “Y°, in ‘\é (fe)”, denota la funzione € + 3 (che non è un

concetto) allora \è (fè) sarà il decorso di valori della funzione É + 3. Infine, se u è un oggetto che non è un decorso di valori, allora \u sarà u. Volendo, è facile formalizzare la stipulazione postulando:

()-(a=é&(x=e£))>\a=a.

Nei Grundgesetze, oltre agli assiomi (ricapitolati nel $ 47 del primo volume), sono presenti diverse regole d’inferenza (ricapitolate nel $ 48 del primo volume), alcune per la manipolazione di enunciati (una forma generalizzata di modus ponens,"* commutabilità degli antecedenti di un condizionale," una forma generalizzata di contrapposizione,’* fusione degli antecedenti identici di un condizionale," una forma generalizzata di sillogismo ipotetico,'° una forma generalizzata di un tipo di dilemma costruttivo,” e regole per l’inserimento o 129 Si osservi che, per il significato che Frege attribuisce alle variabili libere, (V) in isolamento è interpretato come “(x)(x=\è (x= e)”. 15° JI] significato di “\&” è dunque analogo a quello del simbolo peaniano “7”.

!31 V_ Frege [1893-1903], vol. I, $ 11, p. 19. 152 Si tratta, in effetti, di una versione del modus ponens più potente di quella usuale che si trova nella Begriffsschrift (v. Frege [1879], $ 6) — che autorizza ad inferire [e B da HA eda HA > B. Nella versione dei Grundgesetze, tale regola permette infatti di inferire, in generale, da l Aeda | TASI(ADI=DILIE } ... D (--- > B}, dove le lacune stanno al posto di posto di n-ple di enunciati, con È > 0, connessi nella forma “Dj > (D; > (... > (D,”, e le parentesi graffe stanno al posto di una successione di parentesi chiuse nello stesso numero di quelle aperte nello stesso enunciato asserito (v. Frege [1893-1903], vol. I, $ 14, p. 25, e $ 48, p. 62: «6. Inferenza (a)»). 133 Tale regola permette di inferire, da HA 2i(bDIC)Ì

| B>(A2C),

e, in generale, da pl DADI

BI

@** >. C}, permette

di inferire - ... 5 (B2(-- > (A2 (*** > C}, dove le lacune stanno al posto di posto di n-ple di enunciati, con n > 0, connessi nella forma “Dj > (D; > (... > (D,”, e le parentesi graffe stanno al posto di una successione di parentesi chiuse nello stesso numero di quelle aperte nello stesso enunciato asserito (v. Frege [1893-1903], vol. I, $ 12, p. 22, e $ 48, p. 61: «2. Scambio dei sottocomponenti»). In Frege [1879], Dee regola era rimpiazzata dal terzo assioma della Begriffsschrift: “(A > (B> C)) > (B>5(A2 CO) (v. Frege [1879], $ 16, p.35, prop. 134 Come presentata nei Grundgesetze, tale regola permette di inferire, da L ADDIS }- -B > (D, > (...> (D,”, e le parentesi graffe stanno al posto di una successione di parentesi chiuse nello stesso numero di quelle aperte nello stesso enunciato asserito (v. Frege [1893-1903], vol. I, $ 15, p. 27, e $ 48, p. 61: «3. Contrapposizione»). In Frege [1879], questa resl era rimpiazzata dal quarto assioma della Begriffsschrift: “(A > B) > (-B > (*** > C}, permette di in-

ferire La ... D(A2(-- > (##* > C}, dove le lacune stanno al posto di posto di n-ple di enunciati, con n > 0, connessi nella forma “Die

(DICE

> Dy, e le parentesi graffe stanno al posto di una successione di parentesi chiuse nello stesso numero di quelle aperte nello

sica enunciato asserito (v. Frege [1893-1903], vol. 1, $ 15, p. 29, e $ 48, p. 61: «4. Fusione dei sottocomponenti identici»). ”° Come presentata nei Grundgesetze, tale regola permette di inferire, da - A> Be | Ba Gi HA 2 C, e, in generale, da pe 9 (A2(--2B}, eda - *** D (B > (#H## > C}, permette di inferire | ... D(AD(-- > (*** > (4### > C}, dove le lacune stanno al col

di posto di n-ple di enunciati, con n 2 0, connessi nella forma “D, > (D; > (... > (D,”, e le parentesi graffe stanno al posto di una suna sione di parentesi chiuse nello stesso numero di quelle aperte nello stesso enunciato asserito (v. Free [1893-1903], vol. I, $ 15, pp 26-27 N

:

$ 48, p. 62: «7. Inferenza (b)»).

137 Come presentata nei Grundgesetze, tale regola permette di inferire, da } A>Be

(-> B}, e da |- #** > (-A > (### > B}, permette di inferire |... > (>

idiota

| -A > B, ;- B, e, in generale, da -

a fl

(*** > (### > B}, dove le lacune stanno al postadi posto

di n-ple di enunciati, con n > 0, connessi nella forma “Dj > (D; > (... > (D,”, e le parentesi graffe stanno al posto di una ericstiize di

I Grundgesetze e /a via d’uscita di Frege

SI

l'eliminazione del segno “—?!), altre per la manipolazione di variabili, sia oggettuali sia funzionali (generaliz-

zazione universale," istanziazione di variabili,‘ sostituzione di variabili vincolate con altre variabili vincola-

te," sostituzione di mazione di un segno Riguardo alle prime tecnica; subito dopo

vocali greche usate nei simboli di estensione di funzione'*), un’altra che consente la trasfordi definizione in un segno di asserzione," e infine alcune regole per l’uso delle parentesi. regole di inferenza, tuttavia, Frege afferma di averne ammesse diverse solo per convenienza aver enunciato il modus ponens, egli precisa:

Questo è l’unico metodo d’inferenza [Schlussweise] che ho applicato nella mia Begriffsschrift [v. Frege [1879], $ 6], e si può an-

che cavarsela con questo. La norma dell’economicità scientifica richiederebbe propriamente di farlo; ma a ciò si oppongono ragioni pratiche, alle quali qui, dove voglio costruire lunghe catene di inferenze, devo concedere qualcosa. Se non volessi ammettere ancora qualche altro metodo d’inferenza ne deriverebbe infatti un’eccessiva prolissità, cosa che avevo già contemplato nella prefazione di quel mio opuscolo.!4

È dunque per non allungare troppo le deduzioni, che Frege preferisce ampliare, nei Grundgesetze, il numero dei possibili tipi d’inferenza. Ampliando il numero di regole d’inferenza ammesse, naturalmente, Frege può anche fare economia di assiomi, rispetto al sistema della Begriffsschrift.!*° La definizione formale (A) dei Grundgesetze è particolarmente importante: si tratta della definizione di appartenenza (Frege usa il simbolo “N”; noi useremo, come sempre, “e ”); essa è la è la seguente:

(A)

xe y=s\d(-0=tER)239-r=

0)!"

che equivale a: x€ Y=ar \d (A) = E)

A fr= 2).

La definizione stipula che l’oggetto chiamato “x e y” sia lo stesso che è chiamato ‘\d.((A)(y = È (€) A fx =)”; possiamo leggerla: “La denotazione di ‘x e y° è la stessa di: ‘l’unico @ che è uguale a fx, laddove y sia il decorso di valori di f(É)””?. Non è complicato come può sembrare. Frege distingue qui due casi.!' (4) Se esiste un f tale che y è il decorso di valori di f(é), allora “x € y” denota la stessa cosa di “fx”; per esempio, se y = é (£ + 2), cioè se f(€) è la funzione $ + 2, allora “x e y” denoterà x + 2; se f($) è un concetto, per esempio & > 2, cosicché si abbia y= é(£> 2), “x e y” denoterà il Vero qualora x sia un numero maggiore di 2, altrimenti denoterà il Falso. (b) Se non c’è un f tale che y è il decorso di valori di f(€), allora la descrizione: “l’unico @ che è uguale a fx, laddove y sia il decorso di valori di f(&)” non denoterebbe nulla, ma, come abbiamo visto, Frege assume che in questo caso

parentesi chiuse nello stesso numero di quelle aperte nello stesso enunciato asserito (v. Frege [1893-1903], vol. I, $ 16, pp. 30-31, e $ 48,. e s III: | p. 62: «8. Inferenza (c)»). 138 Tale regola permette di cancellare orizzontali un orizzontale prima o dopo un altro “—’, prima o dopo il segno ‘K7_, prima o dopo un orizzontale contenente una concavità con una lettera gotica (un quantificatore), o davanti a uno degli argomenti di “>”, o davanti a una formula che abbia “>” come connettivo principale (v. Frege [1893-1903], vol. I, $ 48, p. 61: «1. Fusione degli orizzontali»).

139 V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 17, pp. 32-34, e $ 48, p. 62: «S. Conversione di una lettera latina in una lettera gotica». 140 V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 48, pp. 62-63: «9. Citazione di enunciati. Rimpiazzamento delle lettere latine». !4l V_ Frege [1893-1903], vol. I, $ 48, p. 63: «10. Citazione di enunciati. Rimpiazzamento delle lettere gotiche». a 142 V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 48, p. 63: «11. Citazione di enunciati. Rimpiazzamento delle vocali greche». 143 V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 27, pp. 44-45, e $ 48, pp. 63-64: «12. Citazione di definizioni». Le definizioni sono distinte dagli enunciati che asseriscono un'identità, nella simbologia di Frege, perché hanno un doppio tratto di giudizio: A a precedere ] orizzontale tà, Una volta stipulate, ovviamente, le definizioni divengono enunciati veri. Nella Begriffsschrift, Frege spiega di aver scelto di indicare le definizioni con un doppio tratto di giudizio perché una definizione ha un doppio aspetto: da un lato è una stipulazione, dall’altro, nel momento stesso in cui è formulata, vale come un giudizio (v. Frege [1879], $ 24, p. 56). i

14 V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 48, p. 64: «Stipulazioni sull’uso delle parentesi». 145 Frege [1893-1903], n vol. I, $S 14, p.26 26. 146 Infatti

[1893-1903]

hf

Vea

per esempio, la regola di contrapposizione, che nei Grundgesetze permette di inferire, da as ADDII

- -B>3 B) > (-B > é(f) = a (80), (Vb)

fe) =àa(g0) > M(f=

gx).

Nel caso le funzioni f(€) e g (é) siano concetti, (Va) asserisce che concetti sotto cui cadono gli stessi oggetti danno luogo alla stessa classe — e questo non pare a Frege suscettibile d’obiezioni;'° (Vb) asserisce, per converso, che se sotto due concetti non cadono gli stessi oggetti essi danno luogo a classi differenti. (Va) e (Vb) sono entrambi utilizzati nella derivazione di (1). Il solo (Vb) è usato nell’ultima derivazione del paradosso di Russell. Questo costituisce, per Frege, un indizio della falsità di (Vb), che egli, in effetti, dimostra nel seguito della postfazione, derivando formalmente il seguente teorema:

(XxX) Ma ANAg) MF)

=MA—8(B) A - (=

82),

«Per ogni funzione del secondo livello con un argomento di secondo tipo['°'] ci sono concetti che, presi come argomenti di questa, danno lo stesso valore, sebbene non tutti gli oggetti che cadono sotto uno di questi concetti cadano anche sotto l’altro».!°°

!5° V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 52, p. 69. In realtà, Frege chiama “(Va)” il principio: (e) (A) (fx = 8) > (MF EE) = F(d(g0))), che è equivalente al nostro (Va).

160 A proposito di questo principio, che è assunto nei Principles come assioma (v. sotto, cap. 6, $ 3), in una lettera a Couturat datata 5 luglio 1904, Russell si dimostra d’accordo con Frege: «Nessun inconveniente risulta da questa Pp [proposizione primitiva]» (in Russell [2001a], p. 420). 16! Ricordiamo che Frege chiama argomenti di secondo tipo (Argumente zweiter Art) le funzioni di primo livello di un argomento (v. Frege

[1893-1903], vol. I, $ 23, p. 40). ù È Frege [1893-1903], vol. II, postfazione, p. 260. Riporto la dimostrazione contenuta a p. 258 del secondo volume dei Grundgesetze (postfazione). Frege parte dall’assioma (IIb):

(8) (Mp)(NMp(F(B) > Mg(8 (8): “Ciò che vale per ogni funzione di oggetti, vale anche per una funzione g qualsiasi di oggetti”. Istanziando, in (Ilb), My(®(p)) con:

()) Mp(_P®B)=x> Px), otteniamo:

(i) MMs(_fB)=x>f@)> Msg (B)=x23g 0); istanziando ora, in (ii), g (6) con:

(iii) (Ag)(Mp(_g(B))= È 1-8 (È), si ha:

(iv) DM-SFB) =xDf)

> (Mal (8) Ms(—g(B))=B1A-g (B)]=x> Ag) My(—g(B)=xA-g

0).

Qualche parola di spiegazione. In (i) e (iii) “D” e “È” sono lettere schematiche che indicano il posto d’argomento, rispettivamente, di una

funzione di secondo livello di funzioni monadiche di primo livello, e di una funzione monadica di primo livello. “Mp(_—

DB)” denota

una funzione di secondo livello da funzioni a oggetti. Supponiamo, per fissare le idee, che Mpa(_—®B)) sia la funzione è(— ®e), allora (1) sarà la proprietà di essere una proprietà sotto cui cade la propria estensione, e (iii) sarà la proprietà di essere un oggetto che è l’estensione di un concetto sotto cui non cade. a Possiamo notare che, in (iv), l’antecedente è la contraddittoria di (Ag) (Mg(—g (B)) = x A -g (1); quindi (iv) ha la forma: PST -p)” che equivale a “p > —g”. Pertanto, (iv) si riduce a:

(V) OMi_-SB)=x>f®) che, per contrapposizione, dà:

> -(Mi[— Bg) My(—8()=BA-g(B)]=x

I Grundgesetze e la via d’uscita di Frege

397

, Se — osserva ora Frege”’ 163 — come Myf—®(B)) si: prende é(— De), dove “®” è una lettera schematica rappresentante il posto d’argomento di una funzione di secondo livello di funzioni monadich e di primo livello (cosicché la funzione di secondo livello sia l'estensione di —— ®), allora si ottiene il seguente caso particolare di (x):

(Ag) E ®)=à(—g0) 1 -(2)(fe= gx), “Esistono concetti sotto cui non cadono gli stessi oggetti, i quali, tuttavia, definiscono la medesima classe”. Risultato, questo, che contraddice direttamente (Vb). Osservando che: «[...] il caso eccezionale è dato dall’estensione Stessa, in quanto essa cade solo sotto uno di due concetti che la hanno come estensione [...1»,!°* Frege propone allora — pur mantenendo (Va) — di rimpiazzare il principio (Vb) con:

(VD) éfe)=a(ga) > (ME)

> (= 8g)

oppure, in modo equivalente, con:

(Vie) E E)= (0) > Ma

à(g0) >

= 2)

e l’intero assioma (V) con:

(V) (@(E)=à(g0)=((#é()

Ax#à(g0) > (fr= g0).!%

Nel caso che le funzioni f(€) e g (é) siano concetti, definiscano la stessa classe anche quando sotto di essi ti 9(E) e Y(É) sotto cui cadono tutti gli stessi oggetti dell’altro concetto identificano /a stessa classe. (VD) impedendo di passare dalla (7) alla (8). Si può osservare che (Va), (V b) e (A) implicano:

(V b), al contrario di (Vb), ammette la possibilità che essi non cadono gli stessi oggetti. Più precisamente, due conceteccetto che sotto uno (o entrambi) cade anche l’estensione blocca la precedente derivazione del paradosso di Russell,

1) fazio re e )=S* (vi) Ms[_—Gg)Ms(_8(8))=B1-g(B)]=x> GNMp(_fB)=xA-S0). Si ponga ora, per brevità, “@($)” uguale a “— (4g) (Ms(_—g& (B))=E A -g (€))”, e si prenda Mg(g(B)) come x; da (vi) otteniamo così:

(vii) My(9(B) = Mx(9(B) > GNMy(—FB)=Mp(9(B)

A-SMp(0(B)))),

cioè:

(viii) (EN(Mg(_f(B) = Ms(9(B) 1 -SMp(p(8))). La (viii) afferma che esiste un concetto che, preso come argomento della funzione My(®([)), dà lo stesso valore del concetto @(É), preso come argomento della medesima funzione, ma sotto il quale questo valore stesso non cade.

Infine, se in (viii), sostituiamo “@(6)” a “— (3) (Ms(—f(B)) =

A -f(6))” otteniamo:

(ix) @(Mp(P(B)), la quale dice che il valore della funzione My(®(f)) per il concetto (È) cade sotto questo stesso concetto.

un Poiché la funzione era una funzione qualsiasi di secondo livello di funzioni monadiche di oggetti, da (viii) e (ix) risulta che, per qualsiasi funzione di secondo livello di funzioni monadiche di oggetti, si possono sempre trovare due concetti che, presi come argomento della funzione determinano lo stesso valore, ma tali che questo valore stesso cade sotto l’uno, ma non sotto l’altro concetto.

!63 V_ Frege [1893-1903], vol. II, postfazione, p. 262. 164 Frege [1893-1903], vol. II, postfazione, p. 262. !65 V. Frege [1893-1903], vol. II, postfazione, p. 262. Queste proposte di soluzione al paradosso di Russell appaiono, per la prima volta, in

una lettera di Frege a Russell datata 20 ottobre 1902 (v. in Frege [1976], pp. 232-233).

ded

Osserviamo che in (V”) è necessario introdurre entrambe le condizioni che differenziano (Vb) da (V'c) a causa della direzione destra-

sinistra dell’assioma, non di quella sinistra-destra. Infatti, se fosse introdotta solo una di tali condizioni, la direzione destra-sinistra di 9 potrebbe portare a concludere erroneamente che due concetti, (6) e Y($), sotto cui cadono tutti gli stessi oggetti eccetto che, per CSC Pao; sotto w(é) cade anche î (92), diano luogo a classi differenti (questo accadrebbe se fosse inserita solo la condizione x# a(Y00)). Non è necessario, invece, assumere entrambe (V'a) e (Vb), perché se due classi sono identiche, allora — per il principio dell indiscernibilità degli

identici — il fatto che una sia diversa da x implica che anche l’altra sia diversa da x. Sbaglia dunque Carlo Cellucci, nel volume da lui curato (Gottlob Frege, Le leggi fondamentali dell’aritmetica, Roma, Teknos, 1995) nell’asserire (p. xlii) che Frege intenda che entrambe (VD) e (V‘c) debbano prendere il posto di (Vb): Frege è esplicito nel dire che, a prendere ilposto di (Vb) debba essere (V Db) «oder» (V'c) (v. Frege [1893-1903], vol. II, postfazione, p. 262). Il punto è formulato negli stessi termini nella lettera di Frege a Russell sopra citata.

166 V. Frege [1893-1903], vol. II, postfazione, p. 264, Satz (1).

capitolo 5

338

da cui, invece di (77) e (82) derivano:

(77) MA@MA#E(f)5 (FS) > Fre È) e

(82) MNMx#é)

> (Fre è)

FP)

che bloccano la seconda derivazione del paradosso di Russell data nella postfazione dei Grundgesetze, perché i sostituti di (2) e (3) si trovano ad avere un antecedente falso. Nel caso particolare in cui la funzione f di (1’) sia un concetto, (1') si può trascrivere come segue, nell’usuale logica d’ordine superiore:

(01)

(P)Mx£ Z(pzzoxe

î(92)= px).

La dimostrazione non è fornita da Frege, che rinvia alla dimostrazione di (1) (vol. I, $ 55), basandosi su (V’) invece che su (V). Dimostrazione. Si suppongano:

(i) x#É(f€) (©)

(li) (Ag) (EE) = È(gE) A gx=y). Dall’assioma (V Db) dei Grundgesetze si ha:

(iii) (EE) =e(ge) > Mx*éf) > (£=8gx)) che, nell’ipotesi (1), equivale a:

(iv) (EfE)= (ge) > @M(fx= gx); quindi, nell’ipotesi data:

(v) (Ag) (EE) = È (ge) A gx=y) > (Ag) (M(f= 82) A gx=y); da (11) e da (v) si ha allora:

(vi) Ag(Mfx= gx) 1 8x=p), che implica:

(vii) fx=y; scaricando l’ipotesi (11) si ottiene: (vili) (1) > (vii).

Si supponga adesso (vii). Dall’assioma (Va) dei Grundgesetze si ha:

(ix) MA=S) DE) = E), da cui:

(x) EGE)= E); unendo (x) e (vil):

(xi) E(E)=Ef) Afe=y, da cui:

(ii) (Ag) (€(E)= (ge) 1 gx = y; dunque, scaricando l’ipotesi (vii):

(xii)

(vii) > (ii).

Unendo (xii) e (viii) otteniamo:

(xii) (e é(fE)=y=(=», che, poiché y è un oggetto qualsiasi, implica: (xiv) WM)(e EfE)=y)=(fx=)y),

e dunque, per l’assioma (Va):

(xv) a(e

é(R)=a)=àa(x=0),

da cui: (xvi) \d((re

EE)=0)=\a(fr= 0), da cui, per l’assioma (VI), si ottiene: (xvil)

x e é(fe)= fx.

Scaricando ora l’ipotesi (i) si ha: (xvili) x#é(fe) Dre e(fE)=fx. QE.D.

©” V. Frege [1893-1903], vol. II, postfazione, p. 264.

I Grundgesetze e la via d’uscita di Frege

339

Quine ([1955]) ha dimostrato che un sistema basato su (Q1‘), interpretato come un nuovo assioma di comprensione, è contraddittorio in ogni universo che contenga almeno due oggetti. Quine ottiene questo risultato definendo la classe: W=a X()(xe zAze

xDx=2Z))

e dimostrando, in base all’assunzione che esistano almeno due oggetti, che 1°w (la classe che ha come unico elemento w) deve appartenere e allo stesso tempo non appartenere a w.' Quine si serve dell’ipotesi che esistano almeno due oggetti per provare, con l’aiuto di (Q1 ’), che:

GA ww. 168 v_ Quine [1955], $ 4, pp. 150-152. 16° «1° denota la classe che ha come elemento solo x cioè 1‘x =ar ? (z= x). La dimostrazione che 1°w # w è piuttosto laboriosa, ma può essere interessante seguirla, fornendo qualche dettaglio in più dell’articolo originale di Quine. Mi servirò direttamente del teorema (1), invece che di (Q1”. Si definisce la classe universale V come î (z= z), e la classe vuota A come £ (2 # z). Sulla base di queste due definizioni, abbiamo le seguenti istanze del teorema (1) dei Grundgesetze:

bore Voga

g=y))

e

VON

EA=9#7))

che si riducono, rispettivamente, a:

O MoEaVDYe Vv) e Gi) Moe

A2Dy=A)

Se fosse A = V, allora, da (1) otterremmo:

Mo A23y=A) che, insieme alla (ii) conduce a “(y)(y = A)”. Quest'ultima formula è però in contraddizione con l’assunzione che esistano almeno due 0ggetti. Dunque: (CEAIZIVA che, per (1), implica: (iv) Ae V.

Da (1), per la legge d’identità, deriva direttamente:

V

Voxtvyaye

Se 1°‘y=

ly).

A, allora, da (v), si ha che (y)(y# A > y € A), che, insieme a (ii), implica “y= A”; pertanto:

(vi) W)ly=A>y=A). Prendendo ora, in (vi), V come y, otteniamo:

AVE NDIVIA che, per (iii), implica:

(vii) (VA A. Prendendo, ancora in (vi), tV come y, otteniamo: VESTA

che, per (vii) implica: (viii) v'1V#A. Per (1° si ha: (ix) Azi11Vao(Aet11V=(A=tV)).

Do

(ix), (vili) e (vii) implicano “A @ 1°1°V”. Per (iv), A € V; dunque 1°1°V e V non hanno gli stessi membri, e quindi:

(9) CAAVENE Un’istanza di (1) è:

i) A)M6o#1z2>50 e Vz=0=2))); se si suppone che z = 1°z, da (xi) si ha:

AM)0#z2>50 E z=0=2))), da cui (2))

(xii) M)E=1z>5 0

z2y=2)):

prendendo 1°y come z in (xii):

(zii)

i

#22 y € 2), e quindi (2))y € z 2 (y=2)); dunque, scaricando l’ipotesi che z = 1°z:

M)A'y=11y> Ye l'yay=1));

da (xiii) e (v) si ha:

(xiv) Maya tLy> = 1y= 11). Prendendo V come y in (xiv) abbiamo: INVE UVE VELVET),

capitolo 5

340

Da (i), Quine ricava la contraddizione servendosi ancora di (Q1‘). Noi seguiremo la sua dimostrazione, servendoci però direttamente di (1°). Da (1) si ha: Gi) wawDIWwe

w=(2)(°we

zAze

'wDLUWw=Z);

da (ii) e (1): (iii) 1‘we w=(2)1°we

zAze

L'wDIw=z),

da cui, istanziando z con w e riducendo:

(iv) we

wDo(Wwet'wIt'w=w).

che, per (x), implica:

(CVIRONZILAVE Prendendo 1°V come y ancora in (xiv), abbiamo: LV llviviVvi5o (VE REVE GV che, per (xv), implica: (XVIIMLIVEZION LAVA Un’istanza di (1°) è: (xvii) M)ozWwWDIyew=(2)ye zAze y>3 y=z)); prendendo, in (xvii), t°1°V come y, si ha: Cva vam>o live (A) zie liv

aVi=2):

Ipotizzando che: (xix) -(1A1VEWILIVEe w), si ha 11Vawe-(1°1°V e w), per cui da (xvili) si ha -(2)(1°1°V € z A z € 1°1°V > 1°1°V = z), cioè:

(xx)

(4z)(AA1°V e z Az E 11°V)

Da (xi) si ottiene: (Ze yAye e, riducendo: MA {((re yAye

ALUV #2).

Lz)Ayzuz>((-e

yAye l'z)1y#z1°z)Ay€

0z=(y=2z)))

tz) Ay#1z2(((-e yAye 12) Ay#1z)Ay=z)); sostituendo “2° a “y nel conseguente della formula che precede si ha:

(xi)

MAM

(re

yAye 2)

Ay#z1z2((xe

zAze 2)

z= z è sempre vero e, se z # 1°, per (v), si ha che ze quantificatore su y all’antecedente di (xxi) si ottiene:

(xxii)

M@a(Ay(re

yAye

l'z)Ay#z1z)DCxe

Az#1°z2) Az=Z));

1°z: si possono dunque eliminare “z2= 2” e “ze

zAZEAI°)).

Prendendo ora, in (xxii), t°1°V come x e 1°V come z si ha:

(xxiii) (Ay)(A11°V e yAye LIV) A yzL1V) > (1°1°V e LV ALVELIV) da (xxiil) e (xx) deriva: (CIV) LIVIEILIVIAVIVEZ LUEVI Per (1’) si ha: (Cv) AVE UVE (i aVERaVI= (VilaVi=V) e da (xxv) e (xxiv): lavaVi=aVe

che è però contraria a (x), dunque l’ipotesi (xix) è falsa e si ha: (xxvi)

L'IVEWILIV

e w.

Supponiamo ora (xxvii)

Uw=w;

da (xii), prendendo w come z, si ha: M)W=twpoyYewIy=W)), da cui, prendendo 1°1°V come y: w=l'w>(1'1VewIL11V=w) da cui, per l’ipotesi (xxvii): (xxviii) uu‘Ve wpil'L'Va=w. Da (xxvili) e (xxvi) si ha: (Cogo) In Per (xxix) e (xvi): (XXX)

LwEwW.

Pertanto, se (xxvii), allora (xxx), dunque (xxx). Q.E.D.

1°” da (xxi); limitando, inoltre, il

I Grundgesetze e la via d’uscita di Frege

341

Da: (Vv) wal'WwDOWE

L'w=(w=wW),

da cui, per (i): (vi)

we

1‘w.

da (iv), per (i) e (vi): (vii)

t‘wew.

Da (iii), per (vii):

(vii) (Az)1°w e ZAZE

L'WAIWWEZ).

Da (1):

(i) @M)0#LzIye 17=0=2); dalla tautologia: (x)

MAM

yAye

'zAy#1z)D(xe

yAye L'zAYZI°Z)),

yAye

'zAy#1Z2)D xe

yAy=zAy#1)),

per (ix) si ha: (xi)

MAaAM((e

da cui: (xii)

M@A((Ay)xe

yye

l'zAy#1Z)D

e

zAZ#A142));

prendendo, in (xii), tw come x e w come z: (xii)

(Ay)l‘we yAye

l'WwWAY#ZIWD(L'WwWwEeWA(WELW));

da (xiii) e (vili): (xiv)

1we

wWA(WELW)

e dunque: (xv)

L'WE

W,

che è in contraddizione con (vil).

Sebbene, come abbiamo mostrato, questa dimostrazione rimanga valida nel sistema proposto da Frege nella postfazione dei Grundgesetze, si deve osservare che quest’ultimo non è — come suggerisce Quine'” — un sistema basato su (Q1), o su (1°), come nuovo assioma ristretto di comprensione, ma un sistema in cui (1) è un teorema derivante da (V’) insieme con la definizione (A). Non si tratta di un’inezia, perché un sistema di logica d’ordine superiore basato su (Q1’) come assioma di comprensione non è equivalente al sistema corretto di Frege. Per ve-

170 V. Quine [1955], $ 3, p. 150.

capitolo 5

342

derlo, basta considerare che, mentre (Q1/) lascia aperta la possibilità che, dato un certo @(€), la classe 7(@2z): (a) abbia la stessa classe Z(z) tra i suoi elementi, oppure (5) non abbia Z(z) tra i suoi elementi, (A) e (V”, presi insieme, escludono la possibilità che una classe sia elemento di se stessa. Frege lo dimostra a p. 264 della postfazione dei Grundgesetze. Seguiamo la sua dimostrazione, considerando dapprima un caso particolare. Prendiamo la seguente identità, che è immediata conseguenza della definizione (A):

î(pz)le î(92)=\ù(AM(z(02)=Z(vz)1y(î(pz))=0) e cerchiamo di capire che cosa denoti qui la descrizione definita al secondo membro, per sapere che cosa denota “z2(@z) e î(9z), cioè “La classe 2 (@2) appartiene a se stessa”. Se w,(É) è un concetto la cui estensione è identica a î(@z)e il cui valore per l’argomento (2) è il Falso, allora ci sarà un altro concetto v-(€) il cui valore per l’argomento î(z) è invece il Vero, ma che, in virtù di (V’), ha ancora /a stessa estensione di È (pz); se w1(€) è un concetto la cui estensione è identica a ? (92), ma il cui valore per l'argomento î(@z) è il Vero, ci sarà, analogamente, un altro concetto w-(É) il cui valore per l’argomento î(@2z) è invece il Falso, ma che ha ancora /a stessa estensione di 2 (pz). Quindi, il concetto:

Am(î(pz)= î(y2) 1 vÈ(92)=©), “Oggetto É che è uguale a y(î(@z)), laddove ?(@z) sia uguale all’estensione di y($)”, è soddisfatto sia dal Vero, sia dal Falso. Per la convenzione adottata da Frege secondo cui le descrizioni che valgono per più di un oggetto denotano la classe di questi stessi oggetti, la descrizione:

‘\a(AV(Z(0z)=Z7 (yz) 1 y(î(pz))= 0)" denoterà una classe (la classe che ha per elementi il Vero e il Falso), pertanto per (A), “î(@z) € î(@2z)” denoterà la stessa classe, cosicché “-(Z(@z) e Z(2))” denoterà il Vero (per il significato assegnato alla funzione negazione nei Grundgesetze, $ 6: la negazione di qualsiasi oggetto non sia il Vero è il Vero). Il risultato si può generalizzare. Sia infatti g;(É) una funzione il cui decorso di valori è identico a é ({€) e il cui valore per l'argomento E (fe) sia diverso da un certo oggetto E, allora c’è un’altra funzione g-(£) il cui decorso di valori è identico a è (fè), ma il cui valore per l’argomento é (fe) è uguale a E. Quindi la funzione:

(Ag) (È (E) = È (ge) A gx= È) sarà soddisfatta da tutti gli oggetti e la descrizione:

‘\a((Ag)(£ (E) = (ge) A gx= 00)” denoterà la classe universale, cosicché —(£ (fè) e è (fè)) denoterà il Vero. Si avrà dunque il teorema seguente:

(0) -@)e è fe). Il fatto che (I ) non implichi (0) se si prescinde dalla definizione (A), spiega perché Quine — che parte dalla supposizione che il sistema corretto di Frege consista nell’assunzione di (1°) come nuovo principio di comprensione, ma tralascia il resto del sistema dei Grundgesetze sia condotto a sostenere che (a) sia il risultato , . . DES: . . . + CR . è_k s dell’assunzione implicita, da parte di Frege, di un principio più forte di (Q1), cioè:

(Q1%).

(P)A)xe

Z(pz2)=x# Z2(9z) A px),

17! Un tale concetto w2(6) sarà: wi) v E=î (pz).

72 Un tale concetto yw-(6) sarà: w1(6) AE # 2 (z). !?? V. Frege [1893-1903], vol. II, postfazione, p. 264, Satz (a).

I Grundgesetze e /a via d’uscita di Frege

343

che — a differenza di (Q1’) — esclude che una classe possa essere un elemento di se stessa.!”* Alla medesima

conclusione — errata — di Quine sono giunti diversi studiosi, prima e dopo di lui, tra i quali Stanislaw Le$nie-

wski e Peter T. Geach. In un articolo del 1949, Boleslav Sobocifiski riporta una dimostrazione, che riferisce essere

stata elaborata da Lesniewski nel 1938, della contraddittorietà in ogni universo contenente più di un oggetto del sistema — attribuito a Frege — basato sull’assioma di comprensione (Q1). Questa dimostrazione, che, come rileva Quine ([1955], p. 377), «è difficile a dissociarsi dalle speciali caratteristiche del sistema di Le$niewski», è stata ripresa e generalizzata da Geach qualche anno dopo in un simbolismo standard.'’° La dimostrazione di Lesniewski-Geach consiste nel definire la classe: wza 2(0)CA=

$O=2)

ZE

x),

nel supporre che la classe universale 2 (z= z) non sia una classe di un solo elemento (cioè, che ci sia più di un 0ggetto) e nel ricavare una contraddizione chiedendosi se la classe che ha w come unico elemento appartenga a w. Si osservi, anche qui, che nel sistema corretto di Frege non si assume né esplicitamente né “implicitamente” l’assioma di comprensione (Q1"): in questo sistema (a) deriva da (A) in congiunzione con (V’, e non

dall’assunzione di un nuovo assioma. In un articolo successivo, Geach ([1970]) offre una nuova dimostrazione dell’inconsistenza del sistema corretto di Frege in ogni universo di almeno due oggetti. Questa dimostrazione è interessante perché parte da (Q1) (un teorema, nell’effettivo sistema corretto di Frege), invece che da (Q1"), e perché riguarda il paradosso di Russell nella sua forma relazionale — che era certamente noto a Frege, perché Russell lo espose per la prima volta proprio in una lettera a lui indirizzata dell’8 agosto 1902.'”° Come abbiamo visto nel capitolo precedente ($ 2.2), la forma relazionale del paradosso di Russell si ottiene definendo una relazione 7 tale che, per ogni R, per ogni S:

RTS=-RRS. Una definizione del genere è impossibile, nel sistema dei Grundgesetze, perché nessuna relazione può prendere se stessa come argomento. Tuttavia, nel sistema dei Grundgesetze nulla impedisce di asserire che una coppia ordinata uno dei cui membri è l’estensione di una relazione appartenga all’estensione della stessa relazione. Possiamo quindi definire 7 come la classe di tutte le coppie ordinate (R, Sl tali che (KR, S) € R, dove Re in estensione:

S sono relazioni

S) € R. (R, S)e T=(R, Anzi, come osserva Geach (p. 90), possiamo riformulare la definizione di 7 evitando la complicazione che 7 sia

una classe di coppie di relazioni in estensione, definendola semplicemente come una classe di coppie di oggetti qualsiasi. 7 è allora definita come la classe di tutte le coppie (x, y) tali che (x, Y) € x, CIOÈ:

ye

T=A,y)ex

Ora, stando a (Q1’) e alla definizione di 7, per ogni y per cui si abbia (7, y) # 7, si ha che:

=

(Top

174

-

yp

TT.

c

V. Quine [1955], $ 3, p. 150. | o i ca ° della dimostrazione di UV PC [1956]. Da quanto afferma lo stesso Quine in [1955], p. 377, risulta che egli era già a conoscenza

Geach, al tempo della redazione del suo articolo sulla “Frege’s way out”. eV . in Frege [1976], pp. 226-227I.

abi

di classi {{x}, {x, y}} — secondo il metodo, oggi di uso cor177 Ricordiamo che una coppia ordinata (x, y) Si può identificare con la classe

rente, originariamente proposto in Kuratowski [1921].

344

capitolo 5

Ma questa è una contraddizione. Dunque bisogna respingere l’ipotesi che esistano degli y per cui (7, y) # 7. Quindi, per ogni x, per ogni y, (7, x) = (7, y) = 7. Ma se (T, x) = (7, y) allora x= y. Ne deriva che, per ogni x e y,x = Y; cioè, non esiste che una sola cosa.'”* Leonard Linsky e George F. Schumm ([1971]) hanno offerto una dimostrazione ancora più semplice che il sistema basato su (V’) conduce al teorema che 1 = 0, e dunque è contraddittorio in ogni dominio di almeno due 0ggetti.” Il ragionamento è il seguente: ponendo A =4r È (z # 2), dalla seguente istanza di (V’):

A= îG=A)=@G#A/x# î(2=A)>G=A=x#3)), deriva che A = £(z= A): “La classe vuota è uguale all’estensione di un concetto sotto cui cade solo la classe vuota”.!*° Ora, Frege definisce il numero cardinale 0 come la classe di tutte le classi cardinalmente simili a A, e il numero 1 come la classe di tutte le classi cardinalmente simili alla classe che contiene solo 0; poiché, secondo Linsky e Schumm, solo A è cardinalmente simile a A, si ha che 0 = î(z=A)=A;maallora 1 è uguale alla classe di tutte le classi cardinalmente simili a î (z= A) e dunque è a sua volta uguale a A, cosicché si ha che 1 =0. Linsky e Schumm precisano tuttavia che l’uso, adottato spesso in letteratura, di parlare del sistema corretto di Frege come “contraddittorio” è improprio. Il nuovo sistema di Frege, sostengono, non è contraddittorio: non lo è perché ha dei modelli di un elemento — sebbene sia, ovviamente, inadeguato come sistema logico. Dummett ([1973b]) ha tuttavia rilevato come la trascrizione di Linsky e Schumm non possa essere fedele al sistema di Frege, perché in esso, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, giocano un ruolo essenziale i valori di verità, che per Frege sono oggetti e sono distinti: pertanto, qualsiasi dimostrazione d’inconsistenza del sistema di Frege in ogni dominio che contenga più di un oggetto sarebbe una dimostrazione d’inconsistenza tout court. Geach ([1970], p. 91), dal canto suo, aveva già osservato che ammettere che esista solo un oggetto conduce, nel sistema di Frege, a una contraddizione. Infatti, da “@(y)(x= y)” si avrebbe subito, nel sistema di Frege, l’identificazione tra Vero e Falso, e dunque la contraddizione “(x = x) = (x # x)”. Gregory Landini ([2006a]) sostiene — a ragione — che nessuno dei sistemi esaminati da Quine, Geach e Linsky e Schumm restituisce fedelmente il sistema corretto di Frege; in particolare: Quine e Geach!8! operano con

sistemi basati su assiomi ristretti di comprensione — rispettivamente, (Q1’ e (Q1") — che non sono mai assunti,

nella postfazione dei Grundgesetze; Linsky e Schumm non tengono conto del ruolo che hanno gli oggetti Vero e Falso nel sistema fregeano. Nella propria ricostruzione del sistema fregeano, Landini osserva'* che, nei Grundgesetze,"5 Frege assume che il concetto sotto cui cade solo il Vero (cioè il concetto designato da “—&”) abbia per estensione il Vero, e il concetto sotto cui cade solo il Falso (cioè il concetto designato da “È = -(x)(x = x)”) abbia

per estensione il Falso, e che quest’assunzione è conservata nella postfazione dei Grundgesetze.'® Questo, so-

sil Sempre in Geach [1970], discutendo il paradosso russelliano delle biciclette e dei cucchiaini (v. sopra, cap. 4, $ 2.2), Geach nota anche

una curiosa conseguenza del fatto che, nel sistema corretto di Frege, nessuna classe appartenga a se stessa: non è sempre possibile isolare da una classe Q una classe che abbia come elementi tutti gli elementi di @ diversi da un certo membro x di & Scrive Geach: «Per esempio, secondo Frege, V, o {x:x= x} [“la classe degli x che sono uguali a se stessi”, cioè la classe universale], ha come membri

tutti gli oggetti eccetto V stessa, ma non c’è una classe avente come membri tutti i membri di V eccetto un membro a. {x : x # a} [la classe degli x che sono diversi da a] ha due non-membri, ossia questa stessa classe e a, e diversamente da V stessa ha V come membro; {x : (x # a) n (x € V)} [“la classe degli x che sono diversi da a e appartengono alla classe universale”] ha re non-membri, cioè questa stessa classe, V, e a, e quindi manca di due membri di V» (Geach [1970], p. 94).

179 V. Linsky e Schumm [1971], p. 7. 150 Questo teorema è esplicitamente riconosciuto da Frege nella postfazione dei Grundgesetze: v. Frege [1893-1903], vol. II, postfazione, p.

263. !5! [Landini considera solo il lavoro di Geach del 1956, non quello del 1970.

182 V. Landini [2006a], pp. 6-7. !53 V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 10, p. 18. ‘54 Perché Frege assume che una classe che ha per elemento solo un valore di verità coincida con questo valore di verità? Abbiamo visto nel capitolo 2 ($ 7.1) che quelle che Peano chiama “definizioni per astrazione” sono esposte, secondo Frege, al cosiddetto “problema di Giulio

Cesare”: per esempio, la definizione di numero proposta da quello che oggi è noto come principio di Hume (v. sopra, cap. 2, nota 450) non

ci permette di sapere se è un numero qualcosa il cui nome non sia dato nella forma: “il numero di @° — non ci permette, per esempio, di sapere se Giulio Cesare è un numero. Ora, come abbiamo già osservato (v. ancora sopra, cap. 2, nota 450), l'introduzione dei decorsi di we lori attraverso l'assioma (V) avviene con un meccanismo identico a quello delle definizioni per astrazione: si ripropone quindi, per i decorsi

di valori, il “problema di Giulio Cesare”. Nel $ 10 del vol. I dei Grundgesetze, p. 16, Frege osserva infatti che, avendo stabilito che la suc-

cessione di segni “€ (fe) = &(go)” ha lo stesso referente di “(x) (fx = gx)” (assioma (V)) non abbiamo ancora stabilito quale sia il referente di nomi come “€ (fè)”, e aggiunge: «Abbiamo un modo per riconoscere sempre un decorso di valori solo se esso è designato con un nome co-

I Grundgesetze e la via d’uscita di Frege

345

stiene Landin '*° blocca i, la derivazione di 0 = 1. Il punto è che, nel sistema corretto di Frege, l’estensione di un concetto sotto cui cade solo l’estensione del concetto stesso è una classe vuota (infatti, nessuna classe ha se stessa come elemento). Ma poiché i valori di verità sono due, Landini ritiene evidente che il Frege della postfazione dei

Grundgesetze avesse supposto l’esistenza di almeno due classi vuote.!*” Così, il numero 0 avrebbe almeno due elementi, e sarebbe quindi diverso dall’estensione di un concetto sotto cui cade solo un’unica classe vuota, e quindi

diverso dalla classe vuota. Tuttavia, come osserva lo stesso Landini,!8* l'assunzione che il concetto sotto il quale

cade solo il Vero abbia per estensione il Vero, e il concetto sotto cui cade solo il Falso abbia per estensione il Falso, insieme con assioma (V’), porta — seguendo un ragionamento simile a quello di Linsky e Schumm — a identificare il Vero con il Falso, e dunque a una contraddizione. "5°

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me “è(®e)” [nell'uso fregeano, il simbolo “@” èN una lettera schematica che sta al posto di un nome di funzione; ho qui preferito utilizzare, con questo valore, il simbolo “/”], mediante il quale già è riconoscibile come decorso di valori. Ma non possiamo decidere, finora, se un oggetto che non ci è dato come tale sia un decorso di valori, e a quale funzione eventualmente appartenga [...]» (Frege [1893-1903], vol. I, $ 10, p. 16). Per illustrare il punto, Frege suppone di avere una funzione X (É) che non prenda mai lo stesso valore per argomenti differenti (cioè, tale che la relazione tra argomenti e valori della funzione sia uno-uno); allora, egli osserva, per gli oggetti i cui nomi hanno la forma “X(£(/€))” vale lo stesso criterio di riconoscimento che vale per gli oggetti denotati da segni di forma “è (fe)” (infatti, in questo caso, evi-

dentemente “X(£(fè)) = X(d(g@))” sarà vero se e solo se è vero “è (fe) = è (ga)). Pertanto, osserva Frege, anche “X (è (f£)) = X (à(g0)” avrà lo stesso referente di “(x)(fr = gx)”, cosicché, se la funzione X ($) è tale che in qualche caso X (é (fè)) # è (€), l’assioma (V) non deter-

mina se, in questi casi, il referente di “8(fe)” sia X(é(fe)) oppure é(fe). Dunque il referente di “8 (/è)” non è univocamente determinato dall’assioma (V). Come ovviare a questa indeterminatezza (Unbestimmtheit)? Frege risponde: «Facendo sì che per ciascuna funzione sia

determinato con la sua introduzione quali valori essa riceva per decorsi di valori come argomenti, proprio come per tutti gli altri argomenti» (Frege [1893-1903], vol. I, $ 10, p. 16). Nel punto del testo in cui Frege pone il problema, le uniche funzioni introdotte sono: —&, —7— & e € = È. Frege osserva (v. Frege [1893-1903], vol. I, $ 10, pp. 16-17) che la seconda funzione è riducibile alla prima, e la prima, a sua volta, è riconducibile alla terza, perché si ha che x se e solo se x= (x = x). Il problema si pone dunque, per il momento, solo con la funzione € = È; qual è il suo valore quando almeno uno dei suoi argomenti è un decorso di valori? (V. Frege [1893-1903], vol. I, $ 10, p. 17.) Se solo

uno degli argomenti è un decorso di valori, allora la funzione dà il valore Falso; se lo sono entrambi, allora il valore della funzione è deciso dall’assioma (V). Ora, gli unici oggetti logici introdotti nei Grundgesetze, oltre ai decorsi di valori, sono i valori di verità; occorre dunque

chiedersi: che cosa accade se un argomento è un decorso di valori e l’altro un valore di verità? Se i valori di verità non sono decorsi di valori, allora il valore della funzione $ = $ è sempre il falso quando uno dei suoi argomenti è un valore di verità e l’altro è un decorso di valori; altrimenti — cioè se i valori di verità sono estensioni di funzioni —, il valore della funzione $ = $ è deciso dall’assioma (V). Ora Frege osserva (v. Frege [1893-1903], vol. I, $ 10, p. 17) che, sulla base dell’assioma (V), non si può essere certi che i valori di verità non siano de-

corsi di valori: l’assioma è infatti compatibile con la possibilità che Vero e Falso siano decorsi di valori. Egli lo dimostra con il seguente argomento — noto, in letteratura, con il nome di “argomento della permutazione” (permutation argument). Si supponga di avere degli 0ggetti associati alle funzioni, non precisati, i cui nomi abbiano, per esempio, la forma “ n (fn)”. Supponiamo che per questi oggetti valga lo

stesso criterio di riconoscimento che vale per i decorsi di valori: essi cioè sono uguali quando le corrispondenti funzioni hanno sempre gli stessi valori per lo stesso argomento, cosicché “ n (fn) = a (go)” ha lo stesso referente di “(x)(fr = gx)”. Determiniamo ora una funzione X (€) supponendo che abbia i seguenti valori: per l’oggetto

m (fin) (corrispondente a una determinata funzione f;($)), il valore Vero; per

l’oggetto 7) (fm) (corrispondente a una determinata funzione fx(6), distinta da so, il valore

fi(£)), il valore Falso; per il Vero, il valore n (fim); per il Fal-

© (fim); per tutti gli altri argomenti, il valore coincida con l'argomento. Così definita, la funzione X($) non avrà mai lo stesso

valore per argomenti diversi, cosicché —

per l’argomentazione svolta in precedenza — anche “X( n (fn) = X(a (go) avrà ancora lo

stesso referente di “(x) (fx= gx)”. Pertanto, gli oggetti i cui nomi abbiano la forma “X( m (fin))” saranno riconosciuti con lo stesso mezzo dei decorsi di valori e X( (fin)) sarà il Vero e X( N (fm) sarà il Falso. Dunque, l’assioma (V) è compatibile con la possibilità che il Vero e il

Falso siano decorsi di valori. Frege ne conclude (v. Frege [1893-1903], vol. I, $ 10, p. 17) che è possibile stipulare che un decorso di valori arbitrario sia il Vero e che un altro decorso di valori arbitrario sia il falso. Frege decide allora di stipulare che il Vero sia il decorso di valori

della funzione

— È e il Falso sia il decorso di valori della funzione È = —-— (2) (x = x) (v. Frege [1893-1903], vol. I, $ 10, p. 17): in altre

parole, egli identifica la classe che ha come unico elemento il Vero con il Vero, e la classe che ha per unico elemento il Falso con il Falso. In questo modo, resta fissato il valore della funzione € = € anche quando uno degli argomenti sia un valore di verità. Resta tuttavia un problema,

messo in luce per la prima volta in Moore e Rein [1986], $ III, pp. 382-383: con quale diritto si può fare questa stipulazione, in un

sistema platonista come quello di Frege, in cui il Vero e il Falso, e i decorsi di valori, sono entità logiche che sussistono in modo del tutto

indipendente da noi? Se il Vero e il Falso siano o non siano decorsi di valori, e se lo sono, quali decorsi di valori siano, dovrebbe essere, nel

sistema di Frege, una questione affatto oggettiva, che non si può decidere per stipulazione. !85 V. Frege [1893-1903], vol. II, postfazione, p. 263.

186 v. Landini [2006a], p. 7.

187 V. ibid.

188V. ibid.

=

°

RE

aa

189 [ andini non lo dimostra, ma non è difficile vedere come ciò accada. Si prenda, infatti, la seguente istanza di (V”), dove

Vero” e “F” sta per “il Falso”:

i) G0=T=30=hN)=@(* se $(y=T)=Te

}6=Tz#

$60=A>3(G=T)=(=F)),

$=F)=F, possiamo operare la sostituzione in (i), ottenendo:

presti sta per “i

capitolo 5

346

Nello stesso articolo, Landini esplora una modifica del sistema corretto di Frege in cui il Vero e il Falso siano identificati con Urelemente, cioè con oggetti (logici) che non sono classi. Ciò permette di salvaguardare l’idea — che Landini attribuisce a Frege — secondo cui il Vero e il Falso hanno lo stesso numero cardinale della classe vuota,!” così da bloccare la derivazione di Linsky e Schumm, ma senza condurre a un'immediata identificazione del Vero col Falso. Infine, però, anche questo si dimostra un vicolo cieco: Landini prova infatti che, così inteso, il sistema corretto di Frege torna ad essere vulnerabile al paradosso di Russell nella sua versione insiemistica.'”! Landini ricava il paradosso definendo la classe: WegzMa=

VI

VDAZE),

cioè la classe di tutte le classi che hanno un solo elemento e non appartengono a quel solo elemento, e chiedendosi: “La classe che ha per elemento solo w appartiene a w?”. (Landini non lo specifica, ma qui riconosciamo il medesimo punto di partenza di Le$niewski e della prima dimostrazione di Geach.) Da

(1) APMa#zéf)>xre g(E)= fx, sl ricava:

i) JO=W#wD(JO=we

w=(wd($0=m= =)

A FM»):

poiché nel sistema corretto di Frege è ancora derivabile: A

Were

>x=z);}"

Sensi CANE 5 (De =) che implica “T=F”. 190 Non essendo classi, il Vero e il Falso non avrebbero alcun elemento, e dunque avrebbero lo stesso numero cardinale della classe vuota.

19! V. Landini [2006a], pp. 18-19.

1°? Dimostrazione (di Landini, comunicazione personale del 12 ottobre 2006).

Si suppongano, per assurdo:

i

YO=x=}0=2

e (Mz: Si supponga inoltre: (Gi) = Da (i), (ii) e (iii): Mizzy oi Un’istanza di (1) è:

Mzzy0=2a5Gea da cui, per (iv):

(vi)

=)

ze yYy=z).

Da (vi), per (i):

(vii) ze

)Yy=x.

Per (iii) e (ii):

(vii)

z4#yYy=x).

Un’istanza di (1) è:

(x) z#y9=N>Geg=1)==%). Da (ix), (vili) e (vii):

(CI)

=

Scaricando l’ipotesi (iii), da (x) si ha:

COM Da (x1) e (ii):

(CU) sapo Istanza di (1):

(xii)

x#70=»>(xe

F(y=x)=(x=x);

I Grundgesetze e la via d’uscita di Frege

“950=w=

)=x)

347

implica “x=w”, e si può dunque ricavare da (i), eliminando il quantificatore esistenziale e

sostituendo “w” a “x??;

(i) PO=Mr#wD(ÎO=Me w=(F0=m=$0=W)) A Î0=Me w). Il passo successivo di Landini consiste nel mostrare che, se il Vero non è una classe, nel sistema corretto di Frege

siha $(y)=w)# w, ricavando una contraddizione da (iii). Nel suo articolo, Landini fornisce una spiegazione verbale, concentrata in sei righe, dell’argomento." Nel seguito, fornirò una derivazione un po’ diversa da quella tratteggiata da Landini, ma più dettagliata. Per l’assioma (V ’) si ha:

(iv) (SO=T)=w=(2)[C# $0=T)Az#4w> (A=T)=(E)e= $0=2) Az»), dove “T” sta per “il Vero”. Da (iv), prendendo T come z, si ha:

(9O=T)=wmao[T#73}0=TDAT#wW>(T=T=(AY)(T=30=2) AT»), il cui conseguente è falso, perché T, per ipotesi, non è una classe, e dunque l’antecedente del conseguente di (v) è vero e il suo conseguente è falso. Pertanto, da (v): Nb

yy=Taew:

Ancora dall’assioma (V’) si ha:

(vii) ($O0=T)= $0=w)>[I(T# }0=DAT#30=w)>((T=T)=(T=w)], il cui conseguente è falso perché

T# $(y= T)e

T# $(y= w), mentre T è diverso da w (ciò deriva dall’ipotesi

che T non sia una classe). Dunque, da (vii):

(vii)

$0=T)# YO=W.

Ancora dall’assioma (V ’) si ha:

(ix) (w=30=wm)=(eawAzt

Î6=M(Ae=)9=)Azer)

da (ix), prendendo $ (y = T) come z, si ha:

da (xiii) e (xii):

(xiv) xe 70=%; da (xiv) e (1):

(xv) xe 7(y=2z). Da (xii) e (1):

(xvi) x#Y(=2z). Da (xvi), (xv) e (1): (Do)

iz

Scaricando le ipotesi (i) e (ii), da (xix) si ha:

(xx)

I=2=)0=2)>D#22x=2),

da cui:

(xxi)

9y=2)=70=2z) 2x=z.Q.ED.

193 Vv. Landini [2006a], p. 18.

A Z=W)];

capitolo 5

348

Wire y wa [(30=T#wA 30=D#30=m)>(A($0=T=$0=0A30=Te

dA (ÎO=T)=M

il conseguente di (x) è falso, perché, per (vi) e (viti) il suo antecedente è vero, ma il suo conseguente è falso per-

ché, per (vi), è falso il congiunto $ (y = T) = w. Dunque l’antecedente di (x) è pure falso, e le classi we $(y=W) sono diverse: (xi) w#zÎO=W. La contraddizione è ora immediata, perché (ili) e (xi) implicano:

(xii)

yO=mew=P=Me

w.

A conclusione del nostro esame, possiamo affermare che, sebbene la letteratura che dimostra l’incoerenza del

sistema corretto di Frege sia spesso inaccurata, tale sistema è davvero inconsistente. Non si hanno evidenze testuali che Frege abbia compreso che il suo tentativo di soluzione era inconsistente. Certamente, egli non poteva esserne filosoficamente soddisfatto. Questo per due ragioni. Innanzi tutto, mentre l’assioma (V) poteva contare sulla sua evidenza intuitiva, l'assioma (V’) non è né intuitivo, né giustificato da Frege altrimenti che al fine di evitare la contraddizione; cosa che va contro l’idea fregeana che gli assiomi logici debbano essere autoevidenti. La seconda ragione d’insoddisfazione filosofica, di fronte all’assioma (V’), è che esso

non spiega che cosa sia l’estensione di un concetto. Abbiamo già avuto modo di osservare!’ che l'assioma (V) ha la struttura di quelle che Peano e Russell chiamavano “definizioni per astrazione”. Sebbene queste definizioni non siano nominali, sono tuttavia in grado di spiegare gli usi di un certo termine astratto, fornendone un criterio d’identità, cioè un criterio che consenta di riconoscerlo. Nessuno può percepire l’ estensione di un concetto, ma l’assioma (V) permette di riconoscere l’estensione di un concetto é(@£), quando si ripresenta come estensione di un concetto &(yw€), valutando se gli oggetti che cadono sotto il concetto @($) sono gli stessi che cadono sotto il concetto (é). Ma (V’) non ha più questa caratteristica: esso ovviamente presuppone la competenza nel riconoscere l'estensione di un concetto, perché nella parte destra di:

(V) (EE) = a (ga) =(mM((x# (€) Ax#à(g0) D (fr= gx) compare ancora un simbolo che denota l’estensione di un concetto. Frege era consapevole di ciò; infatti, nella postfazione dei Grundgesetze, egli puntualizza che l’assioma (V’) «non può essere considerato come definizione dell’estensione di un concetto, ma solo come specificazione [Angabe] della qualità distintiva [der kennzeichnenden Beschaffenheit] di questa funzione di secondo livello».'°° Il meccanismo proposto da Frege per superare il paradosso di Russell lasciava dunque inspiegati punti che sarebbe stato indispensabile cercare di chiarire; cosicché la circostanza che Frege non sia più ritornato, nei suoi scritti, ad approfondire la proposta della postfazione dei Grundgesetze, lascia supporre che, infine, egli si sia reso conto che si trattava di un vicolo cieco. Non risulta che, dopo il primo tentativo di correzione del suo sistema, Frege abbia cercato altre strade per salvare il logicismo. Solo nella postfazione dei Grundgesetze, prima di proporre come soluzione l'assioma (V’) in sostituzione di (V), Frege considera altre due possibilità, che scarta dopo un esame che non appare molto approfondito. La prima possibilità menzionata da Frege è di negare che per le classi valga il principio del terzo escluso, cosa che, per Frege, equivale a negare ad esse «la piena oggettività [die volle Gegensténdlichkeit)|».!? Ma, prosegue Frege, considerare le classi — e, più in generale, i decorsi di valori — come oggetti impropri (uneigentliche Gegenstéinde), darebbe origine a una situazione complessa in modo scoraggiante:

'°4 V_ sopra, nota 184, e cap. 2, nota 450. LEVA sopra, cap. 2, $ 3.1.

‘°° Frege [1893-1903], vol. II, postfazione, p. 262. '°7 Frege [1893-1903], vol. II, postfazione, p. 254

I Grundgesetze e la via d’uscita di Frege

349

Ad essi non sarebbe permesso comparire come argomenti di tutte le funzioni di primo livello. Ma ci sarebbero anche funzioni che potrebbero avere come argomenti sia gli oggetti propri sia gli impropri. Perlomeno la relazione di uguaglianza (identità) sarebbe di questo tipo. [...] Ma ora si presenterebbe una grande molteplicità [Mannigfaltigkeit] di funzioni di primo livello, cioè in primo luogo quelle che potrebbero avere come argomenti solo oggetti propri, in secondo luogo quelle che potrebbero avere come argomenti sia oggetti propri sia impropri, infine anche quelle che potrebbero avere come argomenti solo oggetti impropri. Si presenterebbe anche un’altra suddivisione sulla base dei valori delle funzioni. Secondo questa si dovrebbero distinguere funzioni che avessero come valori solo oggetti propri, in secondo luogo quelle che avessero come valori sia oggetti propri sia impropri, infine quelle che avessero come valori solo oggetti impropri. Queste suddivisioni delle funzioni di primo livello sussisterebbero contemporaneamente, cosicché si otterrebbero nove tipi. A questi corrisponderebbero ancora nove tipi di decorsi di valori, di oggetti impropri, che sarebbero da distinguere logicamente. Le classi di oggetti propri dovrebbero essere distinte dalle classi di classi di oggetti propri, le estensioni di relazioni [Relationen'®*] fra oggetti propri si dovrebbero distinguere dalle classi di oggetti propri e dalle classi di estensioni di relazioni fra oggetti propri, e così via. Otterremmo così un’incalcolabile [unabsehbar] molteplicità di tipi; e in generale oggetti che appartengano a tipi diversi non potrebbero comparire come argomenti delle stesse funzioni. Sembra però straordinariamente difficile formulare una legislazione completa per mezzo della quale sia deciso in generale quali oggetti sarebbero argomenti ammissibili di quali funzioni!”

La teoria qui adombrata da Frege presenta indubbie somiglianze con quella che sarà poi sviluppata e sostenuta da Russell e Whitehead nei Principia Mathematica”® È interessante notare che Frege non respinge questa possibilità solo perché tanto complessa da fargli dubitare che sia possibile sistematizzarla in una teoria — un dubbio al quale l’esistenza stessa dei Principia risponde in modo conclusivo —, ma anche perché, egli dice, «si può mettere in dubbio la legittimità [Berechtigung] degli oggetti impropri»?! — e questa sarà un’obiezione che sarà spesso rivolta, dalla critica successiva, proprio alla dottrina dei Principia. La seconda possibilità considerata nella postfazione dei Grundgesetze è di considerare «i nomi di classe come pseudo nomi propri, che quindi in verità non avrebbero nessuna denotazione. Essi dovrebbero in tal caso essere considerati come parti di segni che abbiano una denotazione solo come totalità».?’° Questa è esattamente la posizione che sarà assunta, riguardo alle classi, da Russell e Whitehead nei Principia. Frege la respinge sulla base della considerazione che, poiché i numeri — secondo la sua ricostruzione — sono classi (di classi), il risultato di trattare i simboli di classe come significanti solo contestualmente porterebbe a trattare nello stesso modo i numeri: Anche ciò che siamo abituati a intendere come un numerale [Zah/zeichen] non sarebbe in realtà un segno, ma una parte non auto-

sufficiente di un segno [der unselbsttindige Theil eines Zeichens]. Una spiegazione del segno “2° sarebbe impossibile; invece di questo si dovrebbero spiegare molti segni che contengono “2” come parte non autosufficiente, ma che dal punto di vista logico non si potrebbero pensare come composti di “2” e di un’altra parte. Sarebbe allora inammissibile sostituire una tale parte non autosufficiente con una lettera [...]. La generalità degli enunciati aritmetici andrebbe con ciò perduta.?®*

Russell assumerà una posizione opposta. Per esempio, in “The philosophy of logical atomism” (1918), egli scrive: I numeri sono classi di classi, e le classi sono finzioni logiche [/ogical fictions], così in numeri sono, per così dire, finzioni di se-

condo grado, finzioni di finzioni. Pertanto non avete, come parte dei costituenti ultimi del mondo, queste strane entità che siete insale



* 204

clini a chiamare numeri.

Il ragionamento di Frege secondo cui, se le classi non fossero oggetti, la generalità degli enunciati aritmetici andrebbe perduta presuppone, per la sua validità, non solo la correttezza della ricostruzione dell’aritmetica basata —, ma anche l’impossibilità di reinterpretare gli enunsulle classi — così come essa si presenta nei Grundgesetze ciati in cui compaiono quantificatori su classi, e su numeri, con parafrasi sistematiche che ne preservino i valori di verità. Sarà proprio quest’ultima supposizione ad essere dimostrata falsa dal Russell maturo.

Beziehung” (estensione di 198 Nel secondo volume dei Grundgesetze, Frege usa “Relation” come sinonimo abbreviativo di “Umfang einer 160). p. 162, $ II, vol. [1893-1903], Frege (v. una relazione)

!99 Erege [1893-1903], vol. II, postfazione, pp. 254-255.

anita

o

a

i

denotazioni dei 200 Come vedremo a suo tempo (v. sotto, cap. 11), gli “oggetti impropri” dei Principia non sono le classi, ma le supposte

infatti reinterpretati — simboli di funzione proposizionale — le proprietà, insomma. Gli enunciati che in apparenza vertono su classi sono proprietà. su vertenti nei Principia — come

20! Frege [1893-1903], vol. II, postfazione, p. 255.

202 Ibid. 205 Ibid.

204 Russell [1918-19], $ VII, p. 270.

capitolo 5

350

In un brano di una lettera a Jourdain del 1910, Frege sembra revocare in dubbio la sua tesi logicista suggerendo che l’aritmetica richieda assunzioni che vanno oltre le leggi logiche fondamentali: [...] si possono trattare le cose più importanti della logica senza parlare di classi, come ho fatto nella mia Begriffsschrift, e quella difficoltà [il paradosso di Russell] in ciò non si presenta. Mi sono deciso solo a fatica all’introduzione di classi [K/asse] o estensioni di concetti [Begriffsumfinge], poiché la cosa non mi sembrava del tutto sicura e, come si è rivelato, a ragione. Le leggi dei numeri [Zahlen] dovrebbero essere sviluppate in modo puramente logico. I numeri sono però oggetti e nella logica si hanno in primo luogo solo due oggetti: i due valori di verità. Qui la cosa allora più naturale era di ottenere oggetti da concetti, vale a dire le estensioni di concetti o classi. Perciò fui spinto a superare la mia riluttanza e ad ammettere il passaggio dai concetti alle loro estensioni. E dopo che mi fui una buona volta deciso a questo, feci delle classi un uso più estensivo di quanto fosse necessario, poiché con ciò si potevano ottenere parecchie semplificazioni. Indubbiamente in ciò ho fatto l’errore di abbandonare alla leggera i miei dubbi iniziali, confidando sul fatto che in logica si parla già da lungo tempo di estensioni di concetti. Le difficoltà che sono connesse con l’uso delle classi scompaiono se si tratta solo di oggetti, concetti e relazioni, cosa che è possibile nelle parti fondamentali [in dem grundlegenden Theile] della logica. La classe è infatti qualcosa di derivato [etwas Abgeleitetes], mentre nel concetto — così come io intendo la parola — abbiamo qualcosa di originario [etwas Urspriingliches]. In modo corrispondente, anche le leggi delle classi sono meno originarie [urspringlich] delle leggi dei concetti, e non è corretto [sachgemdss] fondare la logica sulle leggi delle classi. Le leggi logiche primitive [Die logischen Urgesetze] non possono contenere nulla che sia derivato. Si può forse considerare l’aritmetica come una logica ulteriormente sviluppata. Con ciò si è però detto che essa è qualcosa di derivato rispetto alla logica fondamentale [grundlegenden Logik].®

Frege sembra assumere qui, riguardo alle classi, una posizione che anticipa quella del Quine maturo, secondo cui la teoria delle classi non fa parte della logica, ma della matematica — che non fa parte della logica, sebbene condivida con la logica un ruolo assolutamente centrale nel nostro sistema di conoscenze complessivo. Tuttavia, in una lettera a Richard Hònigswald scritta fra il 24 aprile e il 4 maggio del 1925°°° — dunque meno di tre mesi prima di morire —, Frege va ben oltre, sostenendo la tesi drastica che i paradossi della teoria degli insiemi — e, in particolare, il paradosso di Russell — rivelano che non vi sono affatto entità come gli insiemi e che la teoria degli insiemi è impossibile. Scrive Frege: 28 aprile. Mi volgo innanzitutto ai paradossi della teoria degli insiemi [Mengenl/ehre]. Essi sorgono per il fatto che si collega un concetto, per es. stella fissa, con qualcosa, che si chiama l’insieme [die Menge] delle stelle fisse, che appare determinato per mezzo

del concetto e precisamente come un oggetto. Mi immagino dunque gli oggetti che cadono sotto il concetto stella fissa riuniti in un tutto, che io intendo come oggetto e che designo [bezeichne] con un nome proprio, ‘“l’insieme delle stelle fisse”. Questa trasformazione di un concetto in un oggetto è inammissibile [unzu/ssig]; perché solo apparentemente l’insieme delle stelle fisse è un oggetto; in verità un tale oggetto non c’è affatto.

gi 3 maggio. Chiamo M l’insieme degli insiemi non appartenenti a se stessi. M appartiene a se stesso? Assumiamo dapprima che sia così! Se qualcosa appartiene a un insieme, esso cade sotto il concetto per mezzo del quale è determinato l'insieme. Di conseguenza, se M appartiene a se stesso, allora M è un insieme che non appartiene a se stesso. La nostra assunzione, che M appartenga a se stesso, porta quindi a una contraddizione. Assumiamo in secondo luogo che M non appartenga a se stesso! Allora M cade sotto il concetto che determina l'insieme M, appartiene dunque a quest’ultimo. Di conseguenza, se M non appartiene a se stesso, appartiene a se stesso. L'assunzione che M non appartenga a se stesso porta dunque ugualmente a una contraddizione. Questi sono i paradossi della teoria degli insiemi, che la rendono impossibile [die diese unmòglich machen]. Invece di “insieme degli F° [Menge der F],

dove “/” rappresenta [vertritt] una parola di concetto [Begri/fswort], si potrebbe ugualmente dire “estensione di F° [Begriffsumfang von F] oppure “classe degli /”° [Klasse der F] oppure “sistema degli F° [System der F]. L'essenziale di questo procedimento che

conduce a un intrico di contraddizioni si può riassumere come segue. Si vedono gli oggetti che cadono sotto F come un tutto, come

un oggetto, che si designa con il nome “insieme degli /” (“estensione di F”, “classe degli #”, “sistema degli F” ecc.). In questo modo si trasforma una parola di concetto “/”?° in un nome di un oggetto (nome proprio), “insieme degli FP. Ciò è inammissibile a causa della differenza essenziale fra concetto e oggetto, che in effetti è molto mascherata nelle nostre lingue di parole.?®”

Negli ultimi anni di vita, dunque, Frege abbandonò completamente non solo il logicismo, ma anche l’idea di poter fondare l’aritmetica in un modo simile a quello proposto nelle sue opere principali — cioè attraverso una teoria degli insiemi. Ventidue anni dopo aver scritto la postfazione al secondo volume dei Grundgesetze, nel settembre del 1924 Frege annoterà: «I miei sforzi di far luce sulle questioni riguardanti la parola “numero” [ZaAl], i singoli numerali ò

i segni numerici, sembrano essere terminati in un completo fallimento». Nello stesso periodo, in un appunto in

sa In Frege [1976], p. 121. La lettera è senza data. — Lalettera è datata 26 aprile 1925. Essa consta di una parte introduttiva e di quattro parti che recano, rispettivamente, le, del 2 maggio, del 3 maggio e del 4 maggio. 200 Tr Frege [1976], pp. 85-86.

208 Erege [1924], p. 284.

le date del 28 apri CA

I Grundgesetze e /a via d’uscita di Frege

cui avanza l’idea che suo periodo logicista tipo kantiano —, egli quindi nell’aritmetica

351

tutta l’aritmetica debba trovare fondamento nella geometria — che, rammentiamo, anche nel Frege considerava fondata non sulla logica, ma su un’“intuizione” (Anschauung) spaziale di scrive: «Ho dovuto abbandonare l’opinione che l’aritmetica sia una branca della logica e che tutto si debba dimostrare in modo puramente logico».”” Frege morirà meno di un anno do-

po, nel luglio del 1925.

4. I PARADOSSI DI KERRY E DI RUSSELL-MYHILL Abbiamo visto che la teoria fregeana delle funzioni come entità insature — che non possono mai essere denotate da nomi propri — blocca la formulazione del paradosso di Russell per le denotazioni dei predicati. Ci si potrebbe dunque chiedere se la semantica fregeana sia coerente, una volta che, da essa, sia stato espunto il frammento riguardante le classi: era proprio questa l’idea che Frege espose nella lettera a Jourdain del 1910 che abbiamo citato sopra. La semantica fregeana è soggetta a una nota difficoltà, rilevata per la prima volta da Benno Kerry?! già prima della scoperta del paradosso di Russell, e più tardi dallo stesso Russell nei Principles.?!! Si tratta di questo: Frege sostiene che un concetto, avendo una natura essenzialmente predicativa, non possa mai essere denotato da un nome proprio; ma ciò appare paradossale: Kerry ([1887], p. 274) obiettò che possiamo benissimo dire, per es., “Il concetto cavallo è un concetto facilmente acquisibile”, riferendoci al concetto cavallo con il termine singolare (cioè con il nome proprio, nel senso di Frege) “il concetto cavallo”. Non è solo una questione di controintuitività, ma del fatto che le formulazioni della teoria di Frege sembrano contraddire la teoria stessa. Secondo tale teoria,

per esempio, non possiamo riferirci al concetto cavallo con un nome proprio, ma questa stessa asserzione fa uso di quello che per Frege è un nome proprio (“il concetto cavallo”) per riferirsi a un concetto, contraddicendo la dottrina che intende esporre. Se, tuttavia, si rifiuta l’idea che i concetti siano essenzialmente diversi dagli oggetti e, nello stesso tempo, come

Frege, si concepisce la relazione tra un’espressione predicativa e un concetto come dello stesso genere di quella tra un nome proprio e il suo portatore (Bedeutung) — che è quanto fa, per esempio, Russell nei Principles —, non si può evitare il problema dell’assimilazione di un enunciato dichiarativo a una giustapposizione di nomi propri. Ne offre testimonianza il seguente brano dei Principles: La duplice natura del verbo [si badi che, nei Principles, con “verbo” non s’intende primariamente un simbolo, ma il riferimento di un verbo, che è identificato con una relazione in intensione] come verbo effettivo e come nome verbale, può venire espressa, se si ritiene che tutti i verbi siano relazioni, come la differenza tra una relazione in se stessa e una relazione effettivamente relazionante

[actually relating]. Si consideri, per esempio, la proposizione “A differisce da B”. I costituenti di questa proposizione, se la analizziamo, appaiono essere solo A, differenza, B. Tuttavia questi costituenti, messi così uno di fianco all’altro, non ricostituiscono la proposizione. La differenza che compare nella proposizione correla effettivamente A e B, mentre la differenza dopo l’analisi è una nozione che non ha connessione con A e 8. Si può dire che dovremmo, nell’analisi, menzionare le relazioni che la differenza ha con

A e B, relazioni che sono espresse da è e da quando diciamo “A è differente da B”. Queste relazioni consistono nel fatto che A è il

referente e B il relatum rispetto alla differenza. Ma “A, referente, differenza, relatum, B” è ancora semplicemente una lista di termini, non una proposizione. Una proposizione, di fatto, è essenzialmente un’unità, e quando l’analisi ha distrutto l’unità, nessun’enumerazione dei costituenti ricomporrà la proposizione. Il verbo, quando è usato come verbo, esprime l’unità della proposizione, ed è perciò distinguibile dal verbo considerato come va termine [della proposizione in cui compare], benché io non sappia dare un resoconto chiaro della natura precisa della distinzione.” *

20° Frege [1924-25], p. 298.

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210 [obiezione fu sollevata per la prima volta da Kerry nel quarto di una serie di otto articoli dal titolo “Uber Anschauung und ihre psychische Verarbeitung” (“Sull’intuizione e la sua elaborazione psichica”), pubblicata, tra il 1885 e il 1889, sulla rivista Vierteljahrsschrift fiir wissenschaftliche Philosophie (v. Kerry [1887], p. 274). L’unica risposta alla critica di Kerry che Frege pubblicò è costituita dall’articolo “Uber Begriff und Gegenstand”, pubblicato sulla stessa rivista nel 1892 (v. Frege [1892b]).

21!V. Russell [1903a], $ 49, $ 481, e $ 483.



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212 Russell [1903a], $ 54, pp. 49-50. Nei Principles, Russell assume che il riferi mento degli enunciati dichiarativi non siano valori di verità,

non è ma proposizioni, costituite dai riferimenti delle parole che compaiono negli enunciati. Il problema, per il Si dei ed prouna da differenza della corrispondente quello anche ma propri, nomi di lista una e quindi solo quello della differenza tra un enunciato

posizione (in senso ontologico) e un’accozzaglia di entità. Russell risolse ilproblema ammettendo che un concetto (o una relazione in ine tensione) possa comparire in una proposizione sia come soggetto logico di essa, sia come concetto attribuito (0 relazione relazionante),

che la differenza tra i due casi stia nelle relazioni esterne che il concetto (0 la relazione) ha con il resto della proposizione. Per maggiori

particolari su questi punti, v. sotto, cap. OUSIZZA

capitolo 5

392

Ci si trova dunque di fronte a questo dilemma: se si considerano i concetti come appartenenti a una categoria ontologica differente da quella degli oggetti, s'incorre nel paradosso di Kerry: “Il concetto cavallo non è un concetto”; se si considerano i concetti come un genere di oggetti, come spiegare la differenza tra un enunciato dichiarativo e una giustapposizione di nomi propri? E — potremmo aggiungere sapendo ciò che Frege inizialmente non sapeva — come difendersi dalla formulazione del paradosso di Russell riguardante le denotazioni dei predicati? La soluzione suggerita da Frege in “Uber Begriff und Gegenstand” (1892), consiste nell’accettare il paradosso come una semplice stranezza, respingendo l’idea che esso mostri l’assurdità dei suoi punti di vista. Frege sostiene che, effettivamente, il riferimento di espressioni come “il concetto cavallo” o “la denotazione di ‘€ è un cavallo”” non sono concetti, ma oggetti, oggetti che sono sì correlati ai rispettivi concetti, ma che non si possono identificare con essi.-!3 Sebbene Frege non sia esplicito in proposito, da alcuni passi dei suoi scritti si può desumere egli identificasse tali oggetti con i decorsi di valori dei concetti.?!* 2! Così, per esempio, “Il concetto cavallo è un concetto facilmente acquisibile” sarebbe per Frege un enunciato (falso) affermante che l'estensione dei concetto cavallo (la classe dei cavalli) è un concetto (facilmente acquisibile). È chiaro che una posizione del genere accetta l’inesprimibilità della dottrina di Frege: se non c’è un modo per esprimere legittimamente ciò che si vorrebbe dire, per esempio, con “Il concetto cavallo è un concetto”, o con “L'espressione ‘é è un cavallo’ denota il concetto cavallo”, non solo non è più possibile affermare veridicamente “Il riferimento dell’espressione ‘É è un cavallo’ è un concetto”, ma, anzi, si dovrebbe dire che “Il riferimento dell'espressione ‘é è un cavallo’ è un oggetto” e che “L’espressione ‘$ è un cavallo” non denota il concetto cavallo” — che sembrano asserire esattamente l’opposto di ciò che sostiene Frege. Frege è consapevole di questa difficoltà: Sulla via della comunicazione con il lettore c’è in effetti un peculiare ostacolo, cioè che, per una certa necessità linguistica, talora la mia espressione, presa del tutto alla lettera, tradisce il pensiero, essendo nominato un oggetto, laddove s’intende un concetto. Sono

del tutto consapevole di fare affidamento, in tali casi, sulla benevola compiacenza del lettore, che non risparmi un grano di sale.?!°

Ma diversi critici hanno ritenuto questa posizione insostenibile. Tra loro, Michael Dummett, il quale, nel suo Frege: Philosophy of Language, sostiene che «[s]ubito dopo la pubblicazione di “Uber Begriff und Gegenstand”, Frege sottopose alla stessa rivista un articolo che risolveva il paradosso; con quello che dev'essere stato il peggior sbaglio editoriale di sempre, la pubblicazione fu rifiutata, e sfortunatamente Frege non tornò più sull’argomento nei suoi scritti pubblicati».?!” In una nota inserita a questo punto, Dummett tuttavia scrive: Non riesco a trovare alcuna evidenza nei Freges Nachgelassene Schriften [v. Frege [1969]] per quanto ho asserito qui. Il saggio che i curatori hanno intitolato “Ausfihrungen iber Sinn und Bedeutung” [v. Frege [1892d]] dice molto di quanto ho attribuito qui a Frege, anche se non tutto; ma, mentre esso cita “Uber Sinn und Bedeutung” [v. Frege [1892a]], non fa menzione di “Uber Begriff

und Gegenstand” [v. Frege [1892b]], pubblicato nello stesso anno. Sembra incredibile che il saggio non pubblicato sia stato scritto prima di “Uber Begriff und Gegenstand”, poiché indica la via d’uscita alla trappola in cui Frege era caduto; inoltre, mi ricordo distintamente di aver letto una lettera di rifiuto del curatore di Vierteljahrsschrift fiir wissenschafiliche Philosophie [la rivista in cui

era stato pubblicato Frege [1892b]] quando studiavo il Nachlass di Frege a Miinster molti anni fa. Forse la mia memoria mi inganna; 0 forse è andato perduto qualche scritto tra il periodo in cui vidi il Nachlass e la sua pubblicazione nel 1969.?!* n

da V. Frege [1892b], p. 197. 214 Nelle Grundlagen (1884), dopo aver definito “il numero che spetta al concetto Y° come “l’estensione del concetto equinumeroso a FP” Frege aggiunge una nota a piè pagina in cui osserva: «Credo che al posto di “estensione del concetto” si potrebbe dire semplicemente “concetto”’» (Frege [1884], $ 68, p. 80, nota). Otto anni dopo, in “Uber Sinn und Gegenstand”, Frege replica così a un’osservazione di Benno

Kerry riguardo a questo passo:

«Se teniamo presente che, nel mio modo di parlare, espressioni come “il concetto /”° non designano concetti, ma oggetti, le obiezioni di

Kerry divengono già in gran parte invalide. Egli sbaglia se ritiene (p. 281) [v. Kerry [1887]] che io ho identificato concetto ed estensione

del concetto. Ho solo espresso la mia opinione che nell’espressione “il numero che spetta al concetto F è l'estensione del concetto equinumeroso [gleichzahlig] al concetto F°, si possano sostituire le parole “estensione del concetto” con “concetto”. Si notî bene che questa paro-

la è in tal caso congiunta all’articolo determinativo» (Frege [1892b], pp. 198-199). usi Tiulunia frase del passo riportato indica che Frege, almeno nel 1892, identificava la denotazione di sintagmi della forma “il concetto P”

Di estensione del concetto F. (V., in proposito, Burge [1984], pp. 283-284; ediz. orig., pp. 15-16; e Cocchiarella [1986], $ 4). “ Nell’appendice A dei Principles ($ 481, p. 507, e $ 483, p. 510) Russell, riferendosi a Frege [1892b], p. 195, asserisce che la tesi di Fre-

ge consiste nel sostenere che espressioni come “il concetto cavallo” si riferiscono al nome del concetto. Non riesco a spiegarmi da modo

soddisfacente quest’affermazione di Russell né sulla base del luogo citato da lui citato, né sulla base di altri scritti di Fr sta

216 Frege [1892b], p. 204.

217 Dummett [1973a], cap. 7, p. 212 (trad. it., p.211).

215 Dummett [1973a], cap. 7, pp. 212-213, nota (trad. it., p. 211, nota 15).

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I Grundgesetze e la via d’uscita di Frege

333

In [1892d], Frege accenna — en passant, invero?! — alla possibilità di riferirsi a un concetto utilizzando, al posto, per esempio, dell’inaccettabile “il concetto uomo” (che denoterebbe un oggetto) una locuzione come “ciò che ‘un uomo? denota”, la quale, al contrario di “il concetto uomo”, può commutare con “un uomo”, per esempio, in “Gesù è ciò che ‘un uomo’ denota”.?°° Fin qui arrivano i testi di Frege.”°! Il resto della teoria esposta da Dummett in Frege: Philosophy of Language — che adesso prenderemo in esame — si può considerare, almeno in assenza di nuove evidenze testuali, un’elaborazione personale.”°° Dummett accoglie la suggestione fregeana, mettendo in guardia contro un’interpretazione errata che si potrebbe fornire di un’espressione come, per es., “ciò che ‘è un cavallo’ denota” (what ‘is a horse” stands for). Essa potrebbe, infatti, essere intesa come un termine singolare (un nome proprio, nel senso di Frege), e quindi tale da poter essere unita in un sintagma con “€ è un concetto” ottenendo “Ciò che ‘è un cavallo’ denota è un concetto”. Invece, afferma Dummett,”°? le espressioni “X” e “ciò che ‘X’ denota”, sono sempre intercambiabili: proprio come, per esempio, «le due espressioni “Monte Everest” e “ciò che ‘Monte Everest’ denota” sono completamente intercambiabili», anche «“ciò che ‘€ è un cavallo’ denota” deve, se denota qualcosa, denotare ciò che è denotato da He è un cavallo”».??* Così dire, per esempio: “Blue Peter è ciò che è denotato da ‘€ è un cavallo” sarebbe solo un modo tortuoso di dire: ‘Blue Peter è un cavallo”.?°° Per fornire un’interpretazione accettabile di ciò che si intende con espressioni come “Il concetto cavallo è un concetto”, occorre ora trovare un predicato che si applichi veridicamente al sostituto di “il concetto cavallo” — cioè “ciò che ‘€ è un cavallo’ denota” — sostituendo “€ è un concetto”. In generale, occorre trovare predicati analoghi a “È è un oggetto” — che è vero per tutti e solo gli oggetti — i quali siano veri, rispettivamente, di tutti e solo i concetti, di tutte e solo le relazioni, di tutte e solo le funzioni — cioè predicati che diano luogo a enunciati veri

quando, e solo quando, nei loro posti d’argomento siano inseriti predicati (monadici o poliadici), o altri nomi di funzione. Si deve dunque trattare di predicati di secondo livello: non di predicati come “€ è un concetto”, o “€ è una relazione”, o “È è una funzione”, che essendo (almeno nell’interpretazione intuitiva) predicati primo livello

danno luogo a simboli malformati quando nel loro posto d’argomento s’ inserisce un predicato. Dummett propone di risolvere questa parte del problema utilizzando, al posto dell’inaccettabile (per Frege) “€ è un concetto”, il predicato di secondo livello:

(12)

“Per ogni x, ®(x) o non D(x),

cioè: ‘“@ è qualcosa che ogni cosa è o non è”°°° L’adeguatezza di questa definizione si fonda sulla tesi fregeana — esposta con molta chiarezza anche nel saggio di Frege che costituisce il riscontro testuale dell’elaborazione di Dummett?” — secondo cui un predicato manca di denotazione solo quando non è perfettamente determinato, per

219 Dedica alla questione meno di dieci righe in un saggio di nove pagine.

|

220 V_ Frege, [1892d], p. 133.

ZE però dubbio che, come sostiene Dummett, Frege abbia considerato questa come una soluzione pienamente adeguata al paradosso di Kerry. Infatti, in tutti gli scritti successivi, pubblicati e non pubblicati, Frege non fa che ribadire il punto di vista espresso in [1892b]. 1 222 Per quanto segue, v. Dummett [1973a], cap. 7, pp. 213-217 (trad. it., pp. 211-215). 223 V. Dummett [1973a], cap. 7, pp. 213-214 (trad. it., p. 212). Dummett non lo menziona, ma una tesi identica è sostenuta in Geach [1951], pp. 132-133 (che non attribuisce l’idea a Frege). Lo stessa tesi è sostenuta in Geach [1976], pp. 56-57). 224 Ibid. Scrive ancora Dummett: «L'espressione “ciò che ‘€ è un cavallo’ denota” non è quindi un nome proprio, ma un’espressione predicativa, che, quando le forniamo un posto d’argomento e la copula necessaria a fare un predicato grammaticale che non contiene ancora un an verbo, diventa il predicato “$ è ciò che ‘6 è un cavallo’ denota”» (Dummett [1973a], cap. 7, p. 214 (trad. Ti 12). a

Analogamente, in Geach [1951] si legge: «L'espressione “ciò che il predicato ‘rosso’ denota”

(“what the predicate ‘red stands for”)

è

propriamente un predicato logico, come lo stesso “rosso” ; proprio come “ciò che il nome proprio ‘Jemina” denota” è un modo tortuoso di menzionare Jemina, così anche “I naso di Jones è — be’, ciò che il predicato ‘rosso’ denota” O n è una circonlocuzione per “Il naso di Jones è rosso”» (pp. 133-134). Geach [1951] in trova si identica tesi una ma menziona, lo non Dummett 215). 226 V. Dummett [1973a], cap. 7, pp. 216-217 (trad. it., p. deli Vor (che non la attribuisce a Frege). Scrive Geach: «E naturale sentire il bisogno di un termine generale per ciò Suo La what predicates stand for); dire, per es., che ciò che un predicato denota è una proprietà. Questo MLSLI di SRI Lie ha;a

ne può dare un’interpretazione innocua; “proprietà” si può assumere qui essere una semplice abbreviazione per o non è”» (p. 133).

21 V. Frege [1892d], p. 133.

rischi, ma se

“qualcosa che un oggetto è

capitolo 5

354

ogni argomento adatto al predicato, se esso soddisfi o no il predicato; nella logica fregeana, come abbiamo già o0sservato, il principio del terzo escluso ha validità assoluta.

Con questa proposta di Dummett, forme improprie come: “Il concetto cavallo è un concetto”, o ‘“‘€è un cavallo” denota un concetto”, o “Ciò che ‘É è un cavallo’ denota è un concetto” saranno sostituite da: “Ciò che ‘€ è un cavallo’ denota è qualcosa che ogni cosa è o non è”, o meglio: “Per ogni x, x è ciò che ‘€ è un cavallo’ denota 0 x non lo è”.?°3 Dummett afferma che non c’è nessuna difficoltà a estendere lo stesso trattamento alle relazioni,” e che ciò rimuove completamente il paradosso di Kerry: «Una volta eliminati gli pseudopredicati come “€ è un concetto” o “È è una relazione”, non vi è più modo di costruire enunciati paradossali quali “Il concetto cavallo non è e

un concetto”».??° Dummett osserva che non è difficile, a questo punto, specificare in modo legittimo anche il riferimento dei singoli predicati — cosa che naturalmente non si potrebbe fare per mezzo di espressioni come “Il concetto filosofo è la denotazione di ‘É è un filosofo’”, perché esse risulterebbero false, in una prospettiva fregeana.??' In generale, la proposta di Dummett è di trarre prima dai predicati quelle che egli chiama espressioni predicative, eliminando la copula dai predicati nominali e volgendo i verbi dei predicati verbali nella forma participiale (per esempio, “è un uomo” diventerebbe “un uomo, e “corre” diventerebbe “corrente”’),°'° e poi di specificare il riferimento di “€ è A”, dove “A” stia al posto di un’espressione predicativa, per mezzo di: “A è ciò che ‘€ è A’ denota”. Per esempio, dice Dummett, «possiamo dire “Un filosofo è ciò che ‘È è un filosofo’ denota” [...}». Il riferimento di “€ è un cavallo” potrebbe dunque essere specificato, secondo Dummett, da: (13)

“Un cavallo è ciò che ‘È è un cavallo’ denota”.

In (13), “è” non dev'essere considerato una copula, ma una doppia implicazione; “un cavallo” e “ciò che ‘È è un cavallo’ denota” devono essere considerati predicati di primo livello. Dummett non lo dice, ma mi sembra evidente che (13) dovrebbe essere interpretato sul modello di: (14)

“Uno scapolo è un maschio adulto laico non sposato”,

nel senso di: (15)

“Per ogni x, x è uno scapolo se e solo se x è un maschio adulto laico non sposato”

.

laddove (15) rende espliciti i posti di argomento dei predicati “€ è uno scapolo” e “E è un maschio adulto laico non sposato” che sono impliciti in (14). Quindi, (13) si dovrebbe leggere come:

(16)

“Per ogni x, x è un cavallo se e solo se x è ciò che ‘€ è un cavallo’ denota”.

Se, infatti, le espressioni “un cavallo” e “ciò che ‘€ è un cavallo’ denota” devono essere predicati, allora hanno, rispettivamente, la forma “$ è un cavallo” e “È è ciò che ‘ è un cavallo’ denota”. La loro semplice connessione con un bicondizionale sarebbe:

228 V. Dummett [1973a], cap. 7, p. 217 eV ibid. 2979

: p. 215). (trad. it.,

+]

id. Dummett si esprime tuttavia in modo piuttosto fuorviante. Infatti, secondo le linee da lui indicate, si possono trovare predicati che sostituiscano le forme improprie “$ è una relazione diadica di primo livello”, “È è una relazione triadica di primo livello”, ecc., ma non un predicato che sostituisca la forma impropria “$ è una relazione”, senza riguardo al livello o al numero di posti di argomento della relazione Per esempio, per le relazioni diadiche di primo livello si potrebbe usare il predicato di secondo livello: (12%) “Per ogni x, per ogni y, x'Py o non xPy”. Ma un predicato che costituisca il sostituto fregeanamente corretto di “É è una relazione” dovrebbe essere soddisfatto da relazioni aventi a Lara e numeri diversi livelli diversi sa di p posti ddi aargome g nento, e> questo, questo, sec sintassi fregeana, fregeana, èè impossibile. secondo i ssibi laa sintassi | i predicato i Per la stessa ragione, 11 230

Ibid.

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Taty Tal ‘ 2° np rari ne (9) non sostituisce propriamente lo pseudopredicato

diprimo livello”. In proposito, v. Diller

[1993c], pp. 348-350.

23 ' V. Ibid. ; 232 3 V. Dummett [1973a], cap. 7, p. 215 (trad. it, p. 214). 233 Dummett [1973a], cap. 7, p. 217 (trad. it., p. 215).

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“€ è un concetto”, ma lo pseudopredicato “È è un concetto

I Grundgesetze e la via d’uscita di Frege

355

(17) “E è un cavallo se e solo se È è ciò che ‘E è un cavallo” denota”, che non è un enunciato. David Wiggins ([1984], p. 317) e, in seguito, Crispin Wright ([1998], pp. 80-81) hanno criticato la soluzione di Frege-Dummett sulla base del trattamento della copula, considerata, come scrive Dummett riferendo il pensiero di Frege: «un mero strumento grammaticale, privo di contenuto, che serve a trasformare un sintagma in sintagma verbale quando la grammatica richiede un verbo, esattamente come la parola “cosa” serve a trasformare un sintagma aggettivale in sostantivale quando la grammatica richiede un nome [...]».?* Wiggins e Wright obiettano che, per esempio, “un cavallo” e “ciò che ‘€ è un cavallo’ denota” non sono predicati: infatti, queste espressioni non possono commutare salva significatione con un predicato qualsiasi; sono solo “è un cavallo” e “è ciò che ‘E è un cavallo’ denota” ad avere questa proprietà. È evidente che (18)

“è un cavallo se e solo se è ciò che ‘É è un cavallo’ denota”,

non

è un enunciato grammaticale, al contrario di (13). Ma, vorrei suggerire, per questo è irrilevante che l’incompletezza della denotazione di “un cavallo” o “ciò che ‘é è un cavallo’ denota” sia segnalata dalla copula — come in “è un cavallo” o “è ciò che ‘E è un cavallo’ denota” — o sia segnalata da un semplice posto vuoto — come in “un cavallo (É)” o “ciò che ‘un cavallo (é)° denota (6)”. Possiamo benissimo supporre — e questa sarebbe senz'altro la posizione di Frege — che “cavallo (É)” e “ciò che ‘€ è un cavallo’ denota (É)” siano espressioni grammaticali equivalenti a “è un cavallo” o “è ciò che ‘€ è un cavallo’ denota”; resta ancora che:

(19)

“un cavallo (€) se e solo se ciò che ‘un cavallo (é)” denota (€)”

non è un enunciato, a motivo dei posti di argomento che non sono riempiti da nessun nome proprio o variabile vincolata. Ma sia (18) sia (19) divengono enunciati non appena si fornisce un nome proprio, o una variabile vincolata, che riempia i posti vuoti dei predicati di (18) e (19), che è precisamente ciò che abbiamo fatto prima, interpretando (13) come (16) sul modello di (14) e (15). L’interpretazione di Dummett, tuttavia, non appare in grado di risolvere realmente il problema principale. L’inadeguatezza della sua proposta non sta, a mio avviso, nelle soluzioni prospettate per i casi che tratta, ma nel fatto che non fornisce indicazioni sistematiche su come trattare altri casi di presunta inesprimibilità delle dottrine semantiche di Frege. Per esempio, come si può negare che un ogget-

to sia un concetto? o una funzione? Come affermare che se qualcosa non è una funzione è un oggetto? O che nessun concetto di primo livello sia un concetto di secondo livello? Come tradurre lo pseudopredicato “€ è una relazione”, senza specificare il livello e il numero di argomenti della relazione?” Per questo, può essere interessante esaminare le soluzioni del puzzle in esame proposte, rispettivamente, da Wiggins e da Wright come alternative a quella di Frege-Dummett — soluzioni che si distaccano in parte dall’ortodossia fregeana, pur conservandone la tesi centrale secondo cui concetti e relazioni sono entità. Wiggins conserva anche la tesi fregeana dell’incompletezza, ma solo per i predicati (entità linguistiche), non per le loro denotazioni: i predicati, secondo Wiggins, sono incompleti, ma i concetti e le relazioni non sarebbero il riferimento dei predicati, ma di parole come “uomo”, “cavallo”, “ammiratore di Hegel”, “correre”, “dormire”, cioè parole che sono parte dei predicati o che sono la forma infinita del verbo di forma finita che costituisce l’intero predicato. Per Wiggins, la copula, o le marche grammaticali del tempo finito del verbo (nei predicati Verbali), si combinano con le parole denotanti concetti producendo «un'espressione insatura che a sua volta si combinerà nel modo che descrive lo stesso Frege con un’espressione satura producendo un Saunciato Compictoa Ci sono almeno due problemi in questa posizione di Wiggins, entrambi rilevati da Wright." Un problema è che se si ammette che i concetti siano un genere di oggetti, e possano essere denotati da nomi propri, si torna ad avere il problema di spiegare l’ovvia differenza tra “Shergar è un cavallo” e “Shergar è il concetto cavallo Jai

Wiggins, tuttavia, non vede nelle parole che denotano concetti dei nomi propri. Egli afferma che, mentre i nomi

254 Ibid. 235 V_ sopra, nota 230.

236 Wiggins [1984], p. 318. 27 V. Wright [1998], pp. 82-84. 298 V. Wright [1998], pp. 82-83.

capitolo 5

356

propri sono saturi, e i predicati sono insaturi, i simboli che denotano concetti non sono né saturi, né insaturi.” Wiggins afferma anche che i concetti non sono oggetti, e non sono né entità sature né insature.?*° Ma, se i concetti non sono oggetti, e non possono essere denotati da nomi propri, si torna all’apparente paradosso che “Il concetto cavallo non è un concetto”, e sembra che non si sia fatto alcun passo avanti, rispetto alla posizione di Frege. Un'altra difficoltà della teoria di Wiggins è connessa con il ruolo semantico attribuito alla copula (e alle marche grammaticali del tempo finito del verbo nei predicati verbali: d'ora in poi parlerò di “copula”, riferendomi alla teoria di Wiggins, intendendo implicitamente che ciò che vale per essa vale anche per le marche grammaticali del tempo finito del verbo nei predicati verbali).?! Se il ruolo semantico della copula fosse quello di denotare la relazione di sussunzione di un oggetto in un concetto, torneremmo a dover chiarire come, per esempio “Shergar è un cavallo” differisca da “Shergar la relazione di sussunzione un cavallo”, e ci troveremmo coinvolti in un regresso all’infinito di tipo bradleiano.”** È proprio per evitare questo regresso di tipo vizioso,” che Frege non attribuisce alla copula il ruolo semantico di legare il soggetto con il predicato attraverso il riferimento a una relazione di sussunzione che leghi l’oggetto denotato dal soggetto con il concetto denotato dal predicato. Oggetto e concetto, secondo Frege, si legano senza mediazioni, grazie all’incompletezza del concetto saturabile dall’oggetto.”** Anche Wiggins, proprio per evitare il suddetto regresso, non attribuisce alcuna denotazione alla copula.” Egli spiega che per fissare il ruolo semantico della copula è sufficiente stabilire la regola secondo cui un enunciato in cui un nome proprio sia legato a una parola denotante un concetto mediante la copula è vero se e solo se l'oggetto denotato dal nome proprio cade sotto il concetto, aggiungendo a tale regola assiomi che stabiliscano, per ogni espressione primitiva denotante un concetto, a quali condizioni un oggetto cade sotto il concetto — per esempio, assiomi quali: “x cade sotto il concetto denotato da ‘(un) uomo” se e solo se x è un uomo”. Ma se la copula ha la funzione semantica di sussumere un oggetto sotto un concetto, qual è la relazione tra la copula e la relazione di sussunzione? Se la relazione tra la copula e la relazione di sussunzione fosse la denotazione, cioè se la copula denotasse la relazione di sussunzione, saremmo ricondotti al problema di partenza. Si potrebbe risolvere la questione negando che esista una relazione di sussunzione di un oggetto sotto un concetto, adottando quindi per la copula una semantica nominalista. Ma tale posizione non sembra armonizzarsi bene con una teoria che riconosce l’esistenza di concetti e relazioni come riferimenti di espressioni diverse dai nomi propri. Un’alternativa potrebbe essere — suggerisce Wright — quella di identificare, nella teoria di Wiggins, una relazione diversa dal riferimento tra la copula e la relazione di sussunzione: «L'uso della copula tra “Shergar” e “(un)

cavallo” servirebbe allora a esprimere un’affermazione di sussunzione senza fare riferimento alla relazione di sussunzione».”*” Ma, continua Wright, se si ammette questo nuovo tipo di relazione tra parole ed entità, «perché non farle svolgere un lavoro più generale nella semantica della predicazione?».?** La proposta di Wright consiste proprio nel seguire questa strada fino in fondo: egli ammette (come Russell, ma contro Frege) che i concetti stano oggetti, ma nega (contro Russell e contro Frege) che la relazione tra un predicato e un concetto sia analoga a quella tra un nome proprio e il suo portatore. Secondo Wright, un nome proprio (in senso lato) può riferirsi a un oggetto — il suo referente —, mentre un predicato ascrive (ascribes) un concetto —

il suo ascriptum — a un oggetto. Un oggetto che non sia un concetto non si può ascrivere; ma quegli oggetti che sono anche concetti possono essere, per Wright, tanto i referenti di termini singolari, quanto gli ascripta di predicati. Ciò elimina il paradosso di Kerry: infatti, nella teoria di Wright, sia “il concetto cavallo” sia “è un cavallo” sono in relazione con il medesimo oggetto, ma il termine singolare si riferisce al concetto, mentre il predicato lo ascrive a un oggetto; così, si può dire veridicamente: “Il concetto cavallo è un concetto”, perché i concetti sono una parte degli oggetti: quegli oggetti che, come sostiene il Russell dei Principles of Mathematics, hanno una du2° V. Wiggins [1984], p.317. 240 V. Wiggins [1984], p. 318. 24! V. Wright [1998], p. 83. An

Appearance and Reality (v. Bradley [1893], cap. 3, $ 3, pp. 32-33), Francis H. Bradley avanza un argomento secondo il quale

l’esistenza. per es., di una relazione R tra due oggetti A e B implicherebbe l’esistenza di altre due relazioni Re R”che correlino R a sua

volta, ad A e B, e così via all'infinito. Come osserverà Russell, quest'argomento di Bradley dipende dal considerare una relazione ella

oggetto al pari degli oggetti relati (v. Russell [1924a], p. 335, e Russell [1927b], cap. 23, p. 263). Il passo saliente di Bradley è riportato in

Russell [1914a] (lecture I, p. 17; 1° ediz., pp. 6-7), e in Russell [1927b] (cap. 23, p. 263).

243 V. Frege [1892b], p. 205. 24 V, per es., Frege [1906a], p. 192. 24 V. Wiggins, [1984], p. 318.

240 V. Ibid. 247 Wright [1998], pp. 83-84. 245 Wright [1998], p. 83.

I Grundgesetze e la via d’uscita di Frege



plice natura, giacché possono sia essere oggetto di riferimento, sia essere ascritti a oggetti. Anche il problema «di render conto della differenza tra “Shergar è un cavallo” e “Shergar il concetto cavallo” [...] si risolve», dice Wright, «riflettendo che “è un cavallo” e “il concetto cavallo” differiscono precisamente in quanto il primo ascrive, l’altro si riferisce a il concetto cavallo».?'° L’avvicinamento della teoria di Wright alla semantica dei Principles di Russell, con l'ammissione che i concetti e le relazioni siano solo un genere particolare di oggetti, ha tuttavia — come nota lo stesso Wri ght°° — l’effetto sgradito di riaprire la strada alla versione del paradosso di Russell coinvolgente i concetti e le relazioni — che invece era bloccata nel sistema originario di Frege. Ma è proprio vero che una teoria all’interno della quale le differenze di categoria ontologica tra entità siano inesprimibili riduca se stessa all’assurdo? Frege, abbiamo visto, non la pensava così: egli accettava che nella sua dottrina un’espressione come “Il concetto cavallo è un concetto, non un oggetto” fosse, a rigore, falsa; sebbene la

frase, nella sua interpretazione immediata, sembri rispecchiare precisamente la tesi di Frege. Egli accettava anche di non poter esprimere con esattezza la propria tesi, a causa delle limitazioni del linguaggio. E, in effetti, mi pare che il paradosso di Kerry rilevi l'assurdità della semantica di Frege solo per chi già assume che tale semantica sia assurda. Perché se davvero esistesse una radicale differenza di categoria ontologica tra oggetti e concetti, questa differenza dovrebbe essere rispecchiata in un corretto simbolismo logico, e il paradosso di Kerry metterebbe in luce solo uno dei limiti espressivi di qualsiasi linguaggio consistente. Tuttavia, anche se il paradosso di Kerry non le è fatale, non tutto va bene, nella semantica fregeana —

pure se

si prescinde dal suo frammento riguardante le classi. Il problema è costituito dai pensieri, i sensi degli enunciati dichiarativi, che sono, per Frege, entità sature,” i e, in quanto tali, al contrario delle funzioni, dei concetti, delle

relazioni, e dei sensi delle espressioni funzionali,”°? non sono sottoposti ad alcuna gerarchia. Questi oggetti reintroducono una contraddizione formulata da John Myhill nel 1958. In realtà, Myhill formulò il paradosso in obiezione a un sistema di logica intensionale proposto in Church [1951b] che, sebbene ispirato ad alcune idee di Frege, non è fedele alla semantica fregeana in tutti i suoi aspetti: per esempio, il sistema di Church è basato su una teoria dei tipi in cui i simboli funzionali sono autentici nomi propri.”°* La formulazione di Myhill è pertanto riferita a un sistema diverso da quello di Frege. Più tardi, tuttavia, Kevin C. Klement ([2001], [2002]) ha riproposto il paradosso riferendolo alla semantica di Frege, che Klement assiomatizza,?° ricavandone anche una derivazione

formale della contraddizione.” 257 Informalmente, il paradosso si può esporre come segue. Chiamiamo pensiero universale un pensiero p espresso da un enunciato della forma: “(x) gx”, cioè: “Tutte le cose sono @”. Sia @(È) il concetto principale del pensiero universale espresso da “(x) ox” Designiamo con “U(®, È)” la relazione che vale tra ciascun concetto @(€) e i pensieri universali che hanno @(é) come concetto principale. La relazione U (®, È) è uno-molti, perché un pensiero non può avere più di un concetto principale: infatti, nella semantica di Frege, il riferimento è determinato univocamente dal senso, in modo che lo stesso senso non può determinare più riferimenti. La relazione U(®, È) è uno-molti, e non uno-uno, perché, essendo per Frege i concetti entità estensionali, per ogni concetto @(É) ci saranno in generale diversi pensieri che esprimono “Ogni cosa è @”: per esempio, il pensiero espresso da “Ogni cosa è W”, qualora, di fatto, (x)(9x = wx). Si definisca ora il concetto W(€) come il concetto sotto cui cadono tutti i

24° Wright [1998], p. 87. 250 V. Wright [1998], p. 90. 251 V_, per es., Frege [1919a], p. 155, e Frege [1923], p. 37.

|

fue

252 Abbiamo visto che non è chiaro se il senso di un’espressione funzionale fosse per Frege una funzione (v. sopra, nota 43). Suppongo in

ogni caso che i sensi dei predicati, essendo entità incomplete, siano per Frege gerarchizzati come le loro denotazioni.



253 Eccone l’enunciazione: «[...] se fe g sono due distinti insiemi di proposizioni |propositions], la proposizione che ogni proposizione ap-

partiene a fè distinta [...] dalla proposizione che ogni proposizione appartiene a 8. E così istituita un applicazione [mapping] uno-uno degli

insiemi di proposizioni nelle proposizioni [“applicazione”, in matematica, è sinonimo di “funzione”; nel caso presente, Myhill vuol dire che

c’è una corrispondenza uno-uno tra tutte le classi di proposizioni e (almeno una parte delle) proposizioni], in violazione del teorema di »

gir

hill

[1958],

peo

p. 82).

Chieh ha ripreso questa teoria, riformulandola. V. Church [ 1973-74] e [1993].

255 Parzialmente in Klement [2001], pp. 18-22, e in modo completo in Klement [2002], cap. 5.

256V.Klement [2001], pp. 22-24, eKlement [2002], cap. 6, pp. 184-188.

Na

257 Seguo qui la derivazione informale riportata in Demopoulos e Clark [2005], pp. 149-150, che — giusta un suggerimento dello stesso srt I \ I Klement ([2001], p. 24) — è effettuata senza alcun riferimento a classi. non è un perché pensiero, questo di costituente un è non x” “(x) da espresso pensiero del @($), principale, concetto il che osservi 258 Si

determina univosenso. Costituente del pensiero è, invece, i/ senso, dell'espressione “(€)”, che tuttavia, secondo la semantica di Frege, camente @(é).

capitolo 5

358

pensieri universali che non cadono sotto il loro concetto principale (si ricordi che i pensieri sono oggetti); in simboli:

Wp)= AP(U(p, p)

A-PP)).

Sia ora w uno dei pensieri universali (ce ne saranno, in generale, diversi) che affermano che ogni cosa è W. Chiediamoci: “Il pensiero w cade sotto il concetto W(é)?” Dalla definizione di W(É), insieme con la circostanza che U(®, È) è uno-molti e all’ipotesi U(W, w), otteniamo che W(w) = -W(w): una contraddizione. Il paradosso non è formalmente derivabile nel sistema dei Grundgesetze, perché questo sistema, essendo completamente estensionale, non permette di parlare specificamente dei pensieri espressi dagli enunciati, e dunque

non consente di definire la relazione U(®, é). Non potremmo, per es., definire tale relazione con il predicato diadico:

AN(@Mf= Da) AVS)

=Ò)

perché “))(—f(y))” è per Frege, una volta determinata f(é), il nome di un valore di verità, non di un pensiero. Nondimeno, un’estensione del sistema logico dei Grundgesetze che rifletta le assunzioni metafisiche della semantica di Frege rende derivabile la contraddizione — come abbiamo già accennato — anche formalmente.?° Il paradosso di Myhill, come vedremo nel prossimo capitolo ($ 11), non è che una riformulazione di quel “paradosso delle proposizioni” che Russell aveva enunciato già nei Principles ($$ 349 e 500)°°° ed è perciò anche no-

to, in letteratura, con il nome di ‘paradosso di Russell-Myhill”. Esso è affatto indipendente dalla teoria fregeana delle classi;”°! ma il sistema di Frege è vulnerabile ad esso per lo stesso motivo per il quale era vulnerabile al paradosso di Russell nella sua forma insiemistica: i pensieri — come le classi — sono per Frege entità sature (complete, in sé sussistenti), e dunque appartengono tutti allo stesso livello logico. Questa contraddizione mostra che — contrariamente all’opinione espressa da Frege nella lettera a Jourdain del 1910 che abbiamo prima citato — l’inconsistenza del sistema logico fregeano scorre più profonda di quella riscontrata nella sua teoria delle classi.

259 V. Klement [2001], pp. 18-24, e Klement [2002], cap. 6, pp. 184-188.

260 V. sotto, cap. 6, $ 11. 20! Vv. Klement [2001], pp. 24-25.

AVA Demopoulos e Clark [2005], p. 151.

CAPITOLO 6 I PRINCIPLES OF MATHEMATICS

In questo capitolo e nei due successivi esamineremo le tappe principali dello sviluppo storico del logicismo russelliano dal suo esordio con i Principles of Mathematics — pubblicati all’inizio del 1903 — fino alle soglie dell’adozione di quella teoria dei tipi che sarà sostenuta da Russell dapprima in un articolo scritto nel 1907! e poi, con alcune modifiche, nei Principia Mathematica (1910). In questo periodo, la teoria di Russell va incontro a diverse trasformazioni, in parte dovute all’influenza di Frege, e, in misura maggiore, all’esigenza di porre i fondamenti della matematica al riparo da quei paradossi di cui abbiamo parlato nel capitolo 4. In questo paesaggio mutevole vi sono tuttavia delle costanti: in primo luogo, la riduzione della matematica alla logica (che, per Russell, include la teoria delle classi) è sempre effettuata seguendo i metodi che abbiamo delineato nei capitoli 2 e 3, cioè ricorrendo a costruzioni insiemistiche. In secondo luogo, il particolare realismo della semantica russelliana, secondo la quale le singole espressioni presenti in un enunciato dichiarativo denotano singole entità le quali, a loro volta, sono combinate insieme a formare un’entità che costituisce la denotazione dell’enunciato: ciò che Russell

chiama una proposizione (proposition). Questo realismo non verrà meno con l’entrata in scena, dal 1905, della teoria russelliana delle descrizioni definite e dei cosiddetti simboli incompleti. Ciò che cambia non è il realismo di Russell, ma piuttosto il fatto che, mentre prima egli considerava le forme espressive del linguaggio ordinario come rispecchianti l’ autentica forma logica degli enunciati, in seguito si formerà la convinzione che, in diversi e importanti casi, le forme espressive del linguaggio ordinario possano risultare ingannevoli, celando l’autentica forma logica degli enunciati. Sebbene i mutamenti di prospettiva di Russell, in questo periodo, appaiano radicali, vedremo che essi configurano un pensiero in coerente evoluzione e non una serie sconnessa di cambiamenti. In particolare, quando prenderemo in considerazione la teoria ramificata dei tipi, vedremo che tutti gli elementi in essa contenuti erano stati elaborati nel periodo precedente, nell’ambito di tentativi diversi di porre rimedio ai paradossi.

1. LA REDAZIONE DEI PRINCIPLES OF MATHEMATICS Russell cominciò a lavorare al progetto di quello che aveva concepito come un grande libro sui fondamenti della matematica nell’aprile del 1898.° Nel luglio del 1898? terminò un manoscritto, d’impronta neo-hegeliana, intitolato “An Analysis of Mathematical Reasoning”.' Il manoscritto — diviso in quattro parti (libri): I: “La molteplicità” (The manifold); Il: “Numero”; HI: “Quantità”; IV: “I calcolo infinitesimale” — non fu però mai pubblicato, certamente in conseguenza dell’abbandono, avvenuto in quell’anno, delle teorie neo-hegeliane da parte di Russell.

Nel maggio 1899, Russell cominciò a lavorare a una seconda stesura del libro progettato. Il nuovo manoscritto, “The Fundamental Ideas and Axioms of Mathematics”, è diviso in otto parti: I: “Numero”; II: “Tutto e parte” (Whole and part); II: “Ordine”; IV: “Quantità”; V: “Quantità estensiva” (Extensive quantity); VI: “Spazio e tem-

po”; VII: “Materia e movimento”; VIII: “Movimento e causalità”. Qui Russell mostra, per la prima volta, l’influenza della scuola matematica di Weierstrass: ora egli si mostra convinto che tutta l’aritmetica pura e i l’analisi sono riducibili alla teoria dei numeri naturali. Questo secondo progetto fu però abbandonato quasi subito: già nel luglio 1899 Russell intraprese un nuovo

manoscritto,’ che intitolò stavolta “Principles of Mathematics”.” Questo manoscritto — terminato probabilmente

|! V. Russell [1908].

xo

°

Mai

2 V. nota introduttiva di G. H. Moore a Russell, “An Analysis of Mathematical Reasoning”, in Russell [1990], p. 155.

3 Secondo una nota aggiunta da Russell, forse molto più tardi, al manoscritto (v. nota introduttiva di G. H. Moore a Russell, “An Analysis

| | of Mathematical Reasoning”, in Russell [1990], p. 155, e Garciadiego [1992], $ 3.5, p. 69). and conceptions, fundamental the subject-matter, the into inquiry an being reasoning; mathematical of analysis “An è: completo 4 Il titolo the necessary postulates of mathematics”. Quanto resta del manoscritto è ora pubblicato in Russell [1990], pp. 162-242.

5 Quanto resta del manoscritto è ora pubblicato in Russell [1990], pp. 265-305.

© V. Garciadiego [1992], $ 3.5, p. 74.

” Ora pubblicato in Russell [1993], pp. 13-180.

360

capitolo 6

nel giugno del 1900, qualche settimana prima che Russell partecipasse al Primo Congresso Internazionale di Filosofia — è suddiviso in sette parti, ciascuna delle quali suddivisa in diversi capitoli. Le parti II-VII recano gli stessi titoli delle corrispondenti parti dei Principles, tranne la parte VI, che è intitolata “Spazio e tempo”, invece di “Spazio”. La prima parte del manoscritto del 1899-1900 è intitolata “Numero”, e corrisponde alla parte II della versione pubblicata. La parte II del manoscritto del 1899-1900, intitolata “Tutto e parte”, fu poi incorporata nella parte II dei Principles, ma ridotta a soli due capitoli (il sedicesimo e diciassettesimo). La parte III del manoscritto in esame, intitolata “Quantità”, fu quasi interamente ripresa dal precedente “Fundamental Ideas...”, di cui, come abbiamo detto, costituiva la parte IV.* La parte IV del manoscritto del 1899-1900, intitolata “Ordine”, presenta, per la prima volta, la critica di Russell alla tradizionale logica soggetto-predicato — critica basata sull’impossibilità da parte della logica tradizionale di rendere conto delle relazioni asimmetriche.’ L'influenza di Cantor permea tutto il manoscritto del 1899-1900,'° e soprattutto la parte V, “Continuità e infinito”, in cui Russell accetta il trattamento cantoriano del continuo.'! D'altra parte, benché Russell ammetta qui l’esistenza di classi infinite, nega la coerenza dei numeri infiniti; gli argomenti che egli offre risentono della sua ancora imperfetta assimilazione della teoria di Cantor." La parte VI del manoscritto del 1899-1900, “Spazio e tempo”, è piuttosto diversa dalla corrispondente parte dei Principles (“Spazio”), nella quale il problema del tempo è del tutto ignorato, mentre sono discussi in molto maggior dettaglio gli sviluppi tecnici della geometria proiettiva, metrica e descrittiva. La parte VII del manoscritto del 1899-1900, “Materia e movimento”, fu per la maggior parte lasciato immutato nella versione finale dei Principles.!* Dopo l’incontro con l’opera di Peano, nell’agosto del 1900, Russell giudicò inadeguato gran parte del lavoro fino allora svolto. Dopo aver sviluppato, elaborando la notazione di Peano, una logica delle relazioni — che espose nell’articolo “Sur la logique des relations avec des applications à la théorie des séries”!° — Russell si accinse a una nuova stesura del suo libro, che stavolta intitolò “The Principles of Mathematics”. Nel novembre

1900, egli

riscrisse le parti II-V del vecchio manoscritto, e nel dicembre riscrisse la parte VI.'° L'influenza di Cantor è, in questa nuova stesura, ancora più netta che in precedenza: Russell ammette ora l’esistenza di numeri infiniti, anche se contesta la validità del teorema di Cantor sulla base del fatto che — a suo avviso — deve esserci un massimo numero cardinale: il numero della classe che contiene tutte le cose (entità). Non è chiaro se, nel novembre-dicembre

1900, Russell abbia riscritto, almeno in abbozzo, anche le parti I e Il

dei Principles. Dei supposti manoscritti non è pervenuto nulla e le testimonianze dello stesso Russell sono su questo punto discordanti. In My Philosophical Development (1959), egli scrive: Le parti III, IV, V e VI di quel libro [i Principles] sono quasi esattamente come le scrissi durante quei mesi [ottobre, novembre e

dicembre del 1900]. Le parti I, II e VII, invece, le riscrissi più tardi. Finii questa prima stesura di The Principles of Mathematics

l’ultimo giorno del diciannovesimo secolo — ossia il 31 dicembre del 1900."'

Qui Russell sembra suggerire di aver scritto anche una versione delle parti I e Il dei Principles alla fine del 1900 — versione che tuttavia dovette essere riscritta più tardi. Questo è, del resto, esattamente quanto Russell afferma nella sua autobiografia (1967): Le parti III, IV, V e VI del libro [i Principles] come fu pubblicato furono scritte in quell’autunno [del 1900]. In quel periodo scrissi anche le parti I, II e VII, ma dovetti riscriverle più tardi, cosicché il libro non fu finito nella sua forma finale fino al maggio 1902.!8

Ciò però non concorda con quanto lo stesso Russell scrive in una lettera a Jourdain del 15 aprile 1910:

;V. la nota introduttiva di G. H. Moore alla versione dei Principles del 1899-1900, in Russell [1993], p. 10. V. la nota introduttiva di G. H. Moore alla versione dei Principles del 1899-1900, in Russell [1993], p.10.

0 V. Garciadiego [1992], $ 3.5, p. 75.

!! Per il modo in cui Cantor definisce il continuo, v. sopra, cap. 3, $ 10.2. 127, Garciadiego [1992], $ 3.5, pp. 78-79, e Byrd [1994], p. 65.

iV. la nota introduttiva di G. H. Moore alla versione dei Principles del 1899-1900, in Russell [1993], p. 12.

V. ibid.

!° V. Russell [1901e]. !© V. Ja nota introduttiva generale di G. H. Moore alla parte I di Russell [1993], pp. 5-6.

!? Russell [1959], cap. 6, pp. 72-73.

18 Russell, [1967-69], 1872-1914, cap. 6, p. 148.

I Principles of Mathematics

361

Nel settembre 1909 inventai la mia Logica delle Relazioni; all’inizio d’ottobre scrissi l’articolo che apparve in RAM VII 2-3;[9] durante il resto dell’anno scrissi le Parti INI-VI dei miei Principles (la Parte VII è molto più vecchia, le Parti I e II molto più tarde, maggio 1902) [corsivo mio] To

Né concorda con il fatto che in un’altra lettera a Jourdain, datata 11 settembre 1917, Russell afferma solo di aver scritto le parti II-VI dei Principles nell’autunno del 1900 — suggerendo così di non aver scritto in quei mesi anche le parti I, Il e VII”! Ciò appare confermato non solo dalla circostanza che non ci è pervenuto nessun manoscritto attestante l’esistenza di una stesura delle parti I, II e VII dei Principles nell’autunno del 1900, ma anche

dalla circostanza che, alla fine del 1900, la prima moglie di Russell, Alys Pearsall Smith, annotò nel suo diario: «Bertie ha scritto un articolo sulla Logica delle Relazioni, e anche 2/3 di un libro sui Principi della Matematica». Diversi autori?’ ritengono che negli ultimi mesi del 1900 non sia stata scritta nessuna versione delle parti I e II dei Principles. Dopo una pausa di alcuni mesi,”! nel maggio del 1901, Russell completò una versione della parte I dei Principles, recante il titolo “La variabile”. Nel giugno successivo, scrisse una versione della parte II — “Numero”. La parte I scritta nel maggio del 1901 differisce considerevolmente, nella struttura, dalla copia consegnata all’editore un anno dopo. Per esempio, non vi è il capitolo sulle funzioni proposizionali, né quello sulla “contraddizione” (come Russell inizialmente chiamò, antonomasticamente, il paradosso che oggi porta il suo nome).”° Tuttavia, un confronto tra il testo della versione del 1901 della parte I e il testo della versione pubblicata mostra che ben poco del materiale presente nella prima versione fu omesso nella seconda: fu aggiunto molto materiale nuovo e il tutto fu ordinato in modo diverso.” Una delle cose più rilevanti in cui la parte I del maggio 1901 si differenzia da ciò che era stato scritto in precedenza è che, proprio in apertura di essa, si trova la prima enunciazione, nella redazione dei Principles, della tesi logicista: La matematica pura è la classe di tutte le proposizioni della forma “a implica 5”, dove 4 e d sono proposizioni che contengono almeno una variabile, e che non contengono costanti eccetto le costanti logiche o che possano essere definite in termini di costanti logiche.?

La prima formulazione in assoluto, da parte di Russell, della tesi logicista, risale a pochi mesi prima, e si trova nell’articolo “Recent work on the principles of mathematics”, scritto nel gennaio del 1901: [...] sebbene vi siano indefinibili e indimostrabili in ogni branca della cetto quelli che appartengono alla logica generale. La logica, parlando ni si possono mettere in una forma in cui esse si applicano a qualsiasi ometria — è costruita per mezzo di combinazioni delle idee primitive generali della logica [.. EA

matematica applicata, non ve ne sono in matematica pura ecin generale, è contraddistinta dal fatto che le sue proposiziocosa. Tutta la matematica pura — Aritmetica, Analisi, e Gedella logica, e le sue proposizioni sono dedotte dagli assiomi

Per quanto riguarda la parte II dei Principles, non ci sono evidenze che la versione del 1901 differisse in modo sostanziale da quella poi consegnata all’editore.?° In questa parte si trova per la prima volta la definizione di numero cardinale come classe di classi simili. È interessante notare che nessun accenno alle definizioni logiciste di numero cardinale, numero-relazione e numero ordinale è presente nei manoscritti delle parti III-VI scritte alla fine del 1900. I riferimenti a queste defini19 Tl riferimento è a Russell [1901e]. 20 In Grattan-Guinness [1977], p. 133.

2! V_ in Grattan-Guinness [1977], p. 144.

pr

22 Passo riportato da Grattan-Guinness [1996], p. 103. V. anche Garciadiego [1992], $ 4.3, p. 89. |

23 Per es.: Garciadiego ([1983] pp. 88-92, e [1992], $ 4.3, pp. 87-92), G. H. Moore (nota introduttiva generale alla parte I di Russell [1993], pp. 6-7), Byrd ([1994], pp. 52-56, e [1996], pp. 151-153), Grattan-Guinness ([1996], pp. 103-104). Blackwell ([1984], p. 276, nota 13) esd ar sprime qualche perplessità su questa tesi. 2 V Si

introduttiva di G. H. Moore alla stesura del 1901 della parte I dei Principles, in Russell [1993], p. 181. V. anche Garciadiego

i à [1992], $ 4.4, p. 102. 25 V. Grattan-Guinness [1996], p. 106. Questa versione della parte I è ora pubblicata in Russell [1993], pp. 185-208. Ual 26 V.Byrd [1987], p. 62. eno di G. H. Moore alla stesura del 1901 della parte I dei Principles, in Russell [1993], p. 183. V. anche Garciadiego do aa 2 = ( 1992], $ 4.5, p.117. in Garciadiego [1992], $ 4.4, p. 102, e nella nota introduttiva di G. H. Moore alla stesura del 1901 della parte I dei PrinÈ sane 3. ciples, in Russell [1993], p. 182. Per il passo corrispondente nella versione pubblicata, v. Russell [1903a], $ 1, p.

2° Russell [1901d], pp. 75-76. 30 V. Byrd [1987], pp. 62-63.

capitolo 6

362

zioni che si trovano nei paragrafi 253, 284, 295, 299 della parte V del testo pubblicato sono assenti dal manoscritto della stessa parte scritto alla fine del 1900. Si perviene alla stessa conclusione esaminando i manoscritti delle

parti III e IV. Dai riferimenti presenti manoscritti della fine del 1900, si desume che, all’epoca, Russell conside-

rava i numeri cardinali e ordinali come definibili, dal punto di vista formale, per astrazione, alla maniera di Peano. Il principio da cui tale definizione dipende, cioè l’esistenza di una relazione molti-uno che ogni classe ha con il suo numero, e con nient’altro, è considerato da Russell una proposizione primitiva ed è chiamato “assioma” (axiom) di astrazione.** Russell non considerava però questa definizione per astrazione dei numeri cardinali come soddisfacente da un punto di vista filosofico: l’obiezione era che tale definizione presupporrebbe, in ultima analisi, la nozione di “numero cardinale”. «Infatti», scrive Russell, «il metodo precedente [definizione per astrazione], definirà solo quei numeri che sono numeri di qualche classe; se ce ne sono altri, essi restano indefinibili».°° Con

ciò, però, si approda a un circolo vizioso: Si può provare, è vero, che non c’è nessun numero, finito o transfinito, che non sia il numero di qualche classe [...] Ma la prova che

ogni numero è il numero di qualche classe è ottenibile solo attraverso la considerazione di classi di numeri, e dunque presuppone l’esistenza di tutti i numeri.59

Ciò che vuol dire Russell è che, per esempio, l’esistenza del numero &y non è garantita dalla definizione per astrazione, salvo che non si possa dimostrare che esiste almeno una classe infinita numerabile. È vero che la dimostrazione di ciò è offerta da Russell nel $ 339 dei Principles: «se n è un qualsiasi numero finito, il numero dei numeri da 0 fino a n incluso è n + 1, dal che deriva che n non è il numero dei numeri»;"” ma questa dimostrazione funziona solo se si dispone già dei numeri finiti, oppure se — come nei Principles — i numeri sono definiti come classi di classi.” È in questo senso che — secondo il modo di vedere di Russell alla fine del 1900 — la definizione per astrazione dei numeri presuppone i numeri stessi. Per riassumere, riportiamo una citazione da Byrd [1994]: I punti di vista di Russell sulla definibilità dei numeri cardinali nel novembre 1900 differiscono dal testo pubblicato in due aspetti principali: (1) Russell offre una definizione per astrazione “formalmente adeguata”, basata sulla similarità tra classi, ma non propone la familiare definizione nominale usando classi di classi di equivalenza. EE) sostiene che sebbene il numero cardinale sia formalmente,

o matematicamente, definibile, esso non è filosoficamente defi-

nibile.

Dopo il giugno del 1901 il lavoro sui Principles subì una battuta d’arresto. Nella primavera del 1901, lavorando sul teorema di Cantor, Russell aveva scoperto il paradosso che oggi porta il suo nome. La stesura della parte I dei Principles scritta nel maggio 1901 contiene la prima versione ora esistente del paradosso di Russell,'° presentata

in termini di “predicati” (sc. attributi monadici). Ad esso è tuttavia dedicato molto meno spazio di quanto gli sarà riservato nella versione definitiva. I problemi connessi con il paradosso resero a Russell molto difficile giungere a una conclusione soddisfacente del lavoro, e in particolare a una stesura definitiva della parte I, che doveva essere dedicata ai concetti fondamen-

3! V. Byrd [1994], p. 57.

32

gl: * i V. Byrd [1996], p. 146 e p. 153. La definizione di numero ordinale come classe di relazioni ben ordinate ordinalmente simili si trova nella parte IV, cap. 29, $ 230 dei Principles. Il manoscritto del 1900 presenta purtroppo una lacuna nella parte IV: mancano l’ultima pagina del capitolo 27, tutto il capitolo 28, tutto il capitolo 29 e quasi tutto il capitolo 30 (di cui restano le ultime due pagine). Quindi non è possibile confrontare direttamente la trattazione pubblicata dei numeri ordinali con quella del 1900. i 33 Come nota Byrd [1996], p. DDR ; > 157, nota 25, dai manoscritti della fine del 1900 era del tutto assente la critica, poi espressa nella versione pubblicata dei Principles (v. $ 110, pp. 114-115), secondo cui le definizioni per astrazione non sono in grado di stabilire che vi sia un'unica proprietà condivisa dai membri di una classe di equivalenza. x Si noti che, sia in “An Analysis of Mathematical Reasoning”, sia in “The Fundamental Ideas and Axioms of Mathematics”, sia nel manosi del 1899-1900, i numeri erano considerati da Russell indefinibili scritto ù p. 68. (v. Garciadiego $ 3.5, p: , g [1992], 3 $.9.5, 68, p. p. 71 71, pp. 75-76).

V. Byrd [1996], p. 149.

s Russell, manoscritto della parte V della fine del 1900, foglio 97, riportato in Byrd [1994], p. 61.

°° Ibid.

37 Russell [1903a], $ 339, p. 357. 38 V. sopra, cap. 2, $ 6.3.

°° Byrd [1994], pp. 61-62. 40 Essa si trova nel cap. 3, “Classi e relazioni” (v. Russell [1993], p. 195).

I Principles of Mathematics

363

tali della matematica. Così, dal giugno 1901, il libro non fu più modificato per molti mesi.‘ Nella sua autobiografia, Russell ricorda:

Per tutta la seconda metà del 1901 supposi che la soluzione fosse facile, ma alla fine di quel periodo avevo concluso che si trattava di una grossa impresa. Decisi pertanto di finire i Principles of Mathematics lasciando la soluzione in sospeso.‘

Russell riuscì a scrivere la parte I dei Principles — intitolata “Gli indefinibili della matematica” — tra l’aprile e il maggio del 1902. Sempre nel maggio del 1902 si rimise al lavoro sulla parte VII, “Materia e movimento”, ma finì per lasciare questa parte largamente immutata rispetto al manoscritto del 1899-1900. Il lavoro sui Principles dopo la scoperta del paradosso si rivelò per Russell molto frustrante. Il 5 maggio del 1902, in una lettera all’amica Helen Thomas, Russell parla dei Principles come di «un terribile incubo» che ha

cominciato a disperare di riuscire a portare a termine, e fornisce un piccolo saggio dei problemi che in quel periodo stava affrontando: Sto scrivendo su qualsiasi, ogni, un, qualche, tutti, la natura dell’inferenza, l'essenza della verità, e altri argomenti leggeri. Se non

sono in forma, non riesco a comprendere i miei stessi scritti.*°

Si tratta degli argomenti trattati nel cap. 5 dei Principles, che si trova nella parte I del libro. In una lettera alla moglie Alys dell’8 maggio 1902 egli scrive che il nuovo capitolo sulle classi (il sesto, sempre nella parte I) è «il capitolo più difficile di tutto il mio libro».'° Il 13 maggio del 1902, Russell annuncia ad Alys di aver terminato, la notte precedente, la parte I: «Non ne sono per nulla soddisfatto», scrive Russell, «ma temo che sia il meglio che posso fare». In una lettera ad Alys datata 16 maggio, Russell prevede di completare il libro in due mesi, e ribadisce la sua insoddisfazione per il risultato complessivo dei suoi sforzi: Mi aspetto di aver finito completamente il mio libro in altri due mesi, se solo riesco a mantenermi in forma e ad andare avanti lavorando duramente. Non mi darà nessun senso di euforia, solamente una specie di stanco sollievo al termine di un lunghissimo viaggio polveroso per ferrovia. Il libro sarà pieno d’imperfezioni, e solleverà innumerevoli questioni alle quali io non so come rispondere. C'è una gran quantità di buon pensiero in esso, ma il prodotto finale non è un’opera d’arte, come avevo sperato che fosse. Lo manderò subito all’Editore, perché non mi sarò tolto questo peso dal cuore fino a quando non potrò fare ulteriori correzioni.

Inaspettatamente, otto giorni dopo, il 24 maggio del 1902, egli scrive ad Alys annunciando di aver finito il libro: Sarai sorpresa e divertita, dopo tutto il mio parlare di due mesi, nel sentire che ho finito il mio libro ieri. Ho scoperto che un mucchio di vecchi MS [manoscritti], che mi ero aspettato di dover riscrivere, richiedevano solo poche aggiunte e correzioni, così sono arrivato a un'immediata conclusione. Non ho mai conosciuto né immaginato un sollievo come quello che ho provato. .



2%

.

.

49

Il manoscritto dei Principles fu consegnato all’editore — la Cambridge University Press — martedì 27 maggio 1902. Alcuni mesi dopo, Russell vi aggiunse le appendici A e B, dedicate, rispettivamente, alle teorie di Frege e

alla prima proposta di una teoria dei tipi: la prima fu completata nel novembre del 1902;°° la seconda nello stesso mese?! o nel dicembre successivo.” La prefazione fu terminata il 2 dicembre 1902 e la casa editrice la ricevette il 10 dello stesso mese.” Nel gennaio 1903, Russell aggiunse alcune pagine in cui riassumeva l’intero contenuto del libro.”* Il libro fu finalmente pubblicato nel maggio del 1903.

41 V. Blackwell [1984], p. 271; Garciadiego [1992], $ 4.5, p. 117; Grattan-Guinness [1996], p. 120. 42 Russell [1967-69], 1872-1914, cap. 6, p. 150. 4 V. Blackwell [1984], p. 271; Garciadiego [1992], $ 4.5, p. 117; Grattan-Guinness [1996], p. 107. da VA Garciadiego [1992], $ 4.5, pp. 119-120, e Grattan-Guinness [1996], p. 123.

45 Lettera parzialmente riportata nella nota introduttiva generale di G. H. Moore alla parte I di Russell [ 1993], DEA 4° Frase riportata nella nota introduttiva di G. H. Moore alla stesura del 1901 della parte I dei Principles, in Russell [1993], p. 183. 4 Il passo è riportato nell’introduzione di G. H. Moore a Russell [1993], $ III p. xxxvi.

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A diri

2b], p. 234.

sai è236. Il passo è riportato anche nella nota introduttiva generale di G. H. Moore alla parte I di Russell [1993], p. 3.

50 Fu ricevuta dall'editore il 15 novembre del 1902 (v. Blackwell [1984], p. 284).

°! Secondo Garciadiego [1992], $ 4.5, p. 122, e Grattan-Guinness [1996], p. 126.

5? Secondo G. H. Moore, nota introduttiva generale alla parte I di Russell [1993], p. 8. 53 V. Blackwell [1984], p. 282, e Garciadiego [1992], $ 4.5, p. 122.

54 V_ Garciadiego [1992], $ 4.5, p. 123. Si tratta del $ 474 dei Principles.

364

capitolo 6

È probabile che Russell avesse posto fine affrettatamente al suo libro nel maggio del 1902 perché non riusciva più a far fronte alla tensione nervosa che questo gli procurava. Tuttavia — come abbiamo visto — non ne era per nulla soddisfatto. Questo fece sì che, per tutto il periodo intercorso tra la consegna del manoscritto all’editore e la fine del 1902, egli continuasse a intervenire estesamente sul testo.” Gli interventi consistettero nella riscrittura di vari passi, nell’aggiunta di paragrafi e di note. Il capitolo 10 — quello della parte I dedicato alla “contraddizione” — fu completamente rimaneggiato.”

2. LE IDEE FONDAMENTALI

2.1.1 Principles non sono di facile lettura: ciò, principalmente, per la costante inclinazione di Russell a non osservare la distinzione tra uso e menzione dei segni. Questa confusione (di cui forniremo esempi nel $ 7) ha, invero, due giustificazioni storiche: la prima di carattere generale, e la seconda di carattere particolare, ossia legata particolarmente alla filosofia sostenuta da Russell all’epoca. La giustificazione di carattere generale è che, all’epoca dei Principles, gli standard nell’osservare la distinzione tra simboli ed entità simboleggiate erano molto più bassi degli odierni. Questa trascuratezza è giustamente lamentata da Frege nel secondo volume dei suoi Grundgesetze der Arithmetik” — un’opera limpida nel distinguere tra uso e menzione dei segni. Ma il Frege dei Grundgesetze (e successivo) era un’eccezione: egli stesso, nella sua precedente Begriffsschrift (1879), non è sempre accurato nell’osservare tale distinzione. In ogni caso, come sappiamo, il Russell logicista non prese le mosse dall’opera matura di Frege, ma da quella di Peano e della sua scuola, nella quale la distinzione tra simboli ed entità simboleggiate rispecchiava pienamente gli standard generali dell’epoca. Basterà citare qui tre esempi, tra i tanti che si potrebbero trovare: due di Peano, e uno di un suo collaboratore. Il primo è la formulazione verbale che Peano offre, in un articolo del 1891, del suo secondo assioma —

quello che afferma che il successore di un numero è un numero. Premettiamo che, nella notazione utilizzata da Peano in quest'articolo, se “a” designa un numero, ‘“a +” designa il successore di questo numero. Ebbene, Peano formula il suo assioma così: «Il segno + messo dopo un numero produce un numero». Il secondo esempio è la seguente definizione di identità, offerta da Peano in un saggio del 1894 che rappresenta un’introduzione alla prima edizione del Formulario: «L’égalité a = b a toujours la méme signification: a et d sont identiques, ou a et db sont deux noms donnés à la méme chose».” Il terzo esempio è la definizione di “operazione” che si trova nella memoria (d’altronde pregevolissima) fatta pervenire dal collaboratore di Peano Cesare Burali-Forti a quel Primo Congresso Internazionale di Filosofia (Parigi, 1900) che, come sappiamo, segnò un punto di svolta nel pensiero russelliano sui fondamenti della matematica. Riporto anche qui il testo originale francese: «Soit a une classe; nous appelons “opération pour les a”, tout signe f qui placé (par exemple) devant un élément x quelconque de a, produit un élément fx bien déterminé».°® La giustificazione storica di carattere particolare,” per l'inosservanza della distinzione tra uso e menzione dei

segni nei Principles, risiede estremo realismo della semantica — derivata da G. E. Moore®” — che Russell sosteSVI Garciadiego [1992], $ 4.5, p. 122; G. H. Moore, nota introduttiva generale alla parte I di Russell [1993], p. 8; Grattan-Guinness

[1996], p. 125. 5© Nonostante gli interventi in bozze, all’uscita del libro il sentimento dominante di Russell era il sollievo per la fine di un tormento, piutto-

sto che la soddisfazione di aver fatto qualcosa di buono. In una lettera all’amica Helen Thomas datata 7 febbraio mio libro sta per uscire, quando apparirà, mi sentirò come ci si sente quando si lascia il dentista. Non penso che il fatto, e ciò è sufficiente». (Brano riportato in Garciadiego [1992], $ 4.5, p. 130). In un’altra lettera alla Thomas, Russell scrive addirittura: «Il mio libro è finalmente uscito. Mi sembra un libro sciocco [foolish], e provo vergogna

1903 Russell scrive: «Il libro sia buono, ma sarà datata 13 maggio 1903 al pensiero di aver con-

sumato la parte migliore di sei anni su di esso» (in Russell [1992b], p. 263). Russell continuò ad esprimere insoddisfazione per il suo libro

anche nei mesi successivi; in una lettera a Elie Halévy del 19 luglio 1903, egli scrive: «Ciò che mi riferite riguardo al mio libro è molto gradevole [non si sa che cosa la Halévy avesse riferito di buono sui Principles, perché la sua precedente lettera è perduta]; per parte mia ne sono molto insoddisfatto, e resta solo da sperare che il Vol. II, al quale Whitehead e io stiamo collaborando [il progettato secondo volume dei Principles si trasformerà nel tempo in un’opera autonoma:

(in Russell [1992b], p. 267).

i Principia Mathematica], conterrà meno errori e meno difficoltà irrisolte»

°? V. Frege [1893-1903], vol. II, $ 98, p. 106. °* Peano [1891], $ 2, p. 85. °° Peano [1894a], $ 40, p. 171. dlBurali-Forti [1901], $ I, 5, p. 293. 2 Questa giustificazione è stata rilevata da alcuni commentatori: v., per es., Hylton [1990a], cap. 5, p. 171, e Turnau [1991], pp. 53-54. Il debito verso Moore è riconosciuto nella prefazione dei Principles, dove Russell scrive: «Sulle questioni fondamentali di filosofia, la

mia posizione, in tutti i suoi tratti principali, è derivata da Mr. G. E. Moore» (Russell [1903a], p. xxiii; ediz. orig., p. vili).

î

I Principles of Mathematics

365

neva all’epoca. Secondo tale semantica, le singole espressioni che compaiono in un enunciato dichiarativo, in generale, denotano entità, le quali, a loro volta, compongono una proposizione (proposition): un’entità extralinguistica ed extramentale che è la denotazione dell’enunciato, e che può essere vera o falsa. È di queste proposizioni, non delle parole che si utilizzano per denotarle, che — secondo la concezione sostenuta nei Principles — si occupa la logica.” Se si considera che, per il Russell dell’epoca, la struttura degli enunciati rispecchia fedelmente quella delle proposizioni corrispondenti, si comprende come Russell potesse ritenere una pedanteria inutile l’accuratezza nel distinguere tra gli oggetti e i segni che li denotano. Tuttavia, come vedremo, già nei Principles il rispecchiamento tra simboli ed entità da essi denotate viene meno in alcuni casi: per esempio, nelle espressioni “tutti gli 4”, “qualche a”, “un a”, “1a”, le parole “tutti”, “qualche”, “un” e “il” non sono supposte denotare entità, nei Principles, ma è solo l’intero sintagma in cui esse compaiono che si sostiene denotare un'entità, che Russell chiama “concetto denotante”.°° La necessità di una distinzione più accurata tra simboli ed entità designate emerge dunque anche nei Principles. In seguito, quest’esigenza si avverte in modo sempre più spiccato, perché, pur restando la semantica di Russell realista, la corrispondenza tra simboli ed entità denotate diviene sempre meno rigida: per esempio, dal 1905, Russell non supporrà più che le espressioni “tutti gli a”, “qualche a”, “un a”, “la” abbiano un significato in isolamento e, dal 1906, egli sosterrà la stessa co-

sa dei simboli di classe. In seguito, sarà la volta delle proposizioni non essere più intese come entità non linguistiche denotate dagli enunciati. Ma l’antica abitudine di Russell a trascurare la distinzione tra uso e menzione dei segni si rivelerà molto resistente e l'ambiguità riaffiora in tutta la sua opera,’ causando spesso gravi problemi interpretativi. 2.2. Secondo quanto Russell sostiene nei Principles, qualsiasi cosa possa essere menzionata e contata come uno, esista o no, ha nondimeno l’essere (being) ed è un termine (term): Tutto ciò che può essere un oggetto di pensiero, 0 possa comparire in una proposizione vera o falsa, o possa essere contato come uno, lo chiamerò un termine [term]. Questa, dunque, è la parola più ampia del vocabolario filosofico. Userò come suoi sinonimi le parole unità [unif], individuo [individual], ed entità [entity]. Le prime due mettono in evidenza il fatto che ogni termine è uno, mentre la terza è derivata dal fatto che ogni termine ha l’essere [being], ossia in qualche senso è. Un uomo, un momento, una classe,

una relazione, una chimera, o qualsiasi altra cosa possa essere menzionata, è sicuramente un termine; e negare che una determinata cosa sia un termine dev'essere sempre falso. L’essere [Being] è ciò che appartiene a ogni termine concepibile, a ogni possibile oggetto di pensiero [...]. L’essere appartiene a qualunque cosa che può essere contata. Se A è un qualsiasi termine che può essere contato come uno, è chiaro che A è qualcosa, e

quindi che A è. “A non è” deve sempre essere falso o privo di significato. Perché se A fosse niente, non si potrebbe dire che esso non è; “A non è” implica che c’è un termine A il cui essere si nega, e quindi che A è. Così salvo che “A non è” sia un vuoto suono, esso dev'essere falso — qualunque cosa A possa essere, certamente è. I numeri, gli dei omerici, le relazioni, le chimere e gli spazi a quattro dimensioni hanno tutti l’essere, poiché se essi non fossero entità di qualche genere, noi non potremmo costruire proposizioni su di essi. L'essere è quindi un attributo generale d’ogni cosa, e il menzionare alcunché è mostrare che esso è. L’esistenza [existence], al contrario, è la prerogativa di alcuni soltanto fra gli esseri.9*

Russell continuerà a distinguere tra essere (o sussistenza) e esistenza dopo zione dei Principia Mathematica:® le cose esistenti sono per Russell solo una Nei Principles, Russell non è esplicito nel caratterizzare quali entità abbiano successivi chiariscono che ciò che esiste è per Russell ciò che è nello spazio AE

i Principles, e anche dopo la redaparte di quelle che hanno l'essere. la proprietà di esistere, ma i testi o nel tempo. Si avverta, tuttavia,

per es., Russell [1903a], $ 46, p. 42.

6 Vv. Russell [1903a], $ 51, p. 47.

65 V. Russell [1903a], $ 72, pp. 72-73. 66 Almeno fino a An Inquiry into Meaning and Truth (1940) incluso; Human Knowledge (1948) —

NA

ARIE:

l’ultimo libro filosofico di Russell —

mostra un autore più attento alla distinzione tra uso e menzione dei segni. La tendenza di Russell a con fondere tra uso e menzione dei segni — oggi un luogo comune tra gli studiosi — fu rilevata da Susan Stebbing già all’inizio degli anni T renta dello scorso secolo: nella prima edizione del suo libro A Modern Introduction to Logic (1930), ella scrive: «Ma Mr. Russell purtroppo confonde frequentemente l’enunciato

con la proposizione che è espressa dall’enunciato» (Stebbing | 1930], prima ediz., cap. 9, $ 4, p. 153, nota 1; corsivi di pa, nella seconda edizione dello stesso libro (1933), Stebbing scrive che il trattamento delle classi nei Principia Mathematica è reso oscuro dalla «confusione, cui Russell è singolarmente incline, del simbolo con il simbolizzato» (Stebbing [1930], seconda ediz., appendice C, p. 507; corsivi di Stebbing).

9? Russell [1903a], $ 47, p. 43. 68

Russell [1903a], $a 427, p. 449.

A

per es., Russell [1911b], p. 410, Russell [1911c], p. 293, e Russell [1912a], cap. 9, pp. 155-157.

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da Questò è vero con alcune eccezioni. Nei Principles, Russell attribuisce esistenza allo spazio vuoto stesso: «Sia l'essere sia l’esistenza,

capitolo 6

366

che quando non è in questione il contrasto tra essere e esistere, dopo il 1905 Russell usa “esistenza” e “esistere” come sinonimi di “essere” e “esserci”, cioè nel senso ontologicamente più inclusivo. In particolare, il Russell maturo rende il significato del quantificatore esistenziale indifferentemente con “c’è” 0 “esiste”.!! I termini — ossia le entità dei Principles — sono di due tipi: cose (things) e concetti (concepts). Le cose sono i termini indicati (indicated) dai nomi propri; i concetti sono i termini indicati da qualsiasi altra parola.” I due generi più importanti di concetti sono quelli indicati dagli aggettivi e dai verbi (anche le preposizioni, secondo Russell, indicano concetti). Gli aggettivi indicano attributi monadici (che Russell chiama qui “predicati” o “concetti-classe”’), mentre i verbi indicano relazioni.? «Nei verbi intransitivi», scrive Russell, «la nozione espres>

sa dal verbo è complessa, e di solito asserisce una relazione definita verso un relatum indefinito, come in “Smith respira”».” Le cose possono essere combinate con i concetti, o i concetti possono essere combinati tra loro, a

formare proposizioni, che sono termini complessi (complex terms): le proposizioni — nella teoria dei Principles — non sono dunque dei complessi di simboli, ma dei complessi di ciò che i simboli indicano: «una proposizione, salvo che non verta sulla lingua, non contiene essa stessa delle parole: contiene le entità indicate [indicated] dalle

parole».” Ciò che Russell, nei Principles, chiama “indicazione” (indication) di un’espressione linguistica coincide quasi sempre con il suo riferimento: l’unica eccezione è costituita dalle indicazioni delle espressioni del tipo “tutti gli a”, “ogni a”, “qualsiasi a”, “un a”, “qualche a”, “la”, che sono supposte indicare particolari entità — i “concetti denotanti” — che, a loro volta, denotano — nel particolare senso tecnico dei Principles — un oggetto il quale costituisce, potremmo dire, il riferimento dell’espressione. Su questo torneremo più avanti. Nei Principles, i termini “significato” (meaning) e “significare” (to mean) sono utilizzati come sinonimi di “indicazione” e “indicare”. Russell non riconosce — tranne che nel caso particolare dei “concetti denotanti” — nulla di simile al senso di Frege.” Dunque, quando nei Principles si parla di proposizioni come di ciò che è significato, o espresso, dagli enunciati, s'intende dire che una proposizione è ciò cui l’enunciato si riferisce. Secondo i Principles, un enunciato dichiarativo indica una proposizione, la quale è un’entità complessa costituita dalle indicazioni (quasi sempre coincidenti con i riferimenti) delle parole costituenti l’enunciato.”” Così, per esempio, se diciamo “Socrate è mortale”, Socrate, l’individuo in carne e ossa è — per Russell — un costituente della proposizione significata da quest’enunciato. In una lettera a Frege datata 12 dicembre 1904, Russell è molto chiaro in proposito: Credo che lo stesso Monte Bianco, nonostante tutte le sue distese di neve, sia un costituente [Bestandtheil] di ciò che propriamente si asserisce [behauptet wird] nell’enunciato [Satz] “Il Monte Bianco è alto più di 4000 metri”. Non si asserisce [Man behauptet

nicht] il pensiero, che è cosa psicologica privata: si asserisce [man behauptet] oggetto del pensiero, e questo è a mio parere un certo complesso [...] del quale il Monte Bianco stesso è un costituente. [...] Per questo il significato [Bedeutung] dell’enunciato non è per me il Vero, bensì un certo complesso che (nel caso dato) è vero.”

credo, appartengono allo spazio vuoto [...]» (Russell [1903a], $ 427, p. 449). Si può supporre che all’epoca Russell pensasse lo stesso del tempo. In effetti, in “Meinong’s theory of complexes and assumptions” (1904), egli afferma che «eccettuati lo spazio e il tempo stessi, esistono solo quegli oggetti che hanno con particolari posizioni dello spazio e del tempo la speciale relazione di occuparli» (Russell [1904b], $ I, p. 29). Tuttavia, in “The existential import of propositions” (1905), Russell sembra affermare che, se i teisti hanno ragione, Dio esiste. «quel genere di esistenza soprasensibile che si attribuisce alla Divinità» (Russell [190Sa], p. 486). Più tardi, Russell (certamente influenzato dai recenti sviluppi della fisica relativistica) menziona solo l’essere nel tempo come criterio di esistenza; così, nei Problems of Philosophy Ala si legge: «Troveremo conveniente parlare di cose esistenti solo quando esse sono nel tempo [...]» (Russell [1912a, cap. 9, p. 155). Così è, per esempio, in Russell [1908], in [PM] e in Russell [1919a].

i

72 V. Russell [1903a], $ 48, p. 44.

? V. ibid. " Ibid.

?° Russell [1903a], $ 51, p. 47. LO meglio, ritiene che il “significato” di una parola, in questo senso, sia qualcosa di completamente psicologico, che non ha nessun interesse per la logica. } 55 Questa teoria realista delle proposizioni è chiaramente debitrice della teoria sostenuta da G. E. Moore

in “The nature of judgment”

(1899). Qui Moore sostiene che: «una proposizione è composta non di parole, e neppure di pensieri [thoughts], ma di concetti letimogiesi ii

concetti sono possibili oggetti di pensiero; ma questa non è una definizione di essi. Semplicemente asserisce che essi possono entrare in relazione con chi pensa; e perché essi possano fare qualche cosa, devono già essere qualcosa. È indifferente alla loro natura se qualcuno li pensi 0 no» (G. E. Moore [1899a], p. 179). Dunque, quelli che — con un linguaggio un po’ fuorviante per il lettore odierno — Moore

chiama “concetti” non sono altro che i “termini” dei Principles. La distinzione russelliana dei termini in cose e concetti non ha tuttavia nes-

sun corrispettivo nella semantica di Moore.

78 In Frege [1976], pp. 250-251.

I Principles of Mathematics

367

Russell chiama termini di una proposizione (terms of a proposition) «quei termini, comunque numerosi, che compaiono in una proposizione e possono essere considerati come soggetti [subjects] sui quali la proposizione verte [about which the proposition is]».”” Per esempio, nella proposizione espressa da “Socrate è umano”, Socrate (si badi: non la parola, né il senso della parola, ma l’uomo in carne e ossa) è un termine della proposizione, ma non lo è l'umanità, perché la proposizione non verte — secondo Russell — sull’umanità, ma su Socrate. Invece, la proposizione espressa da “L'umanità appartiene a Socrate”, che pure è «equivalente a “Socrate è umano”, è un’asserzione sull’umanità [about humanity]; ma è una proposizione distinta [dalla precedente]».*° Si noti che, secondo i Principles, coppie di parole come, per es., “umanità” e “umano” significano (indicano) lo stesso concetto: in un enunciato si usa l’aggettivo o l’astratto deaggettivale secondoché nella proposizione corrispondente il concetto figuri come termine della proposizione o no." Detto altrimenti, umano e umanità?” sono, per Russell, la stessa entità: quest’entità può trovarsi in contesti proposizionali diversi, assumendo due diverse funzioni. Queste funzioni sono segnalate a livello morfologico; così, se il contesto in cui il concetto compare è di un certo tipo, è appropriato usare la parola “umano”, se è di un altro tipo, è appropriato usare la parola “umanità”. Russell esprime tutto ciò dicendo che la differenza grammaticale tra umano e umanità è una differenza di relazioni esterne con gli altri termini della proposizione, non di qualità intrinseche.* Lo stesso, secondo i Principles, accade con i verbi e i nomi verbali: per esempio, “morire” (o qualsiasi altra forma del verbo) “il morire”, “la morte” indicano, per Russell, esattamente lo stesso concetto: ne segue che, per

esempio,

“Cesare

morì”

e “la morte

di Cesare”,

devono

l’indicazione d’espressioni come “la morte di Cesare” —

indicare

la stessa proposizione.

Russell

chiama

cioè ottenute sostituendo, in un enunciato, un verbo con

un nome verbale, e adattando la forma grammaticale — concetti proposizionali (propositional concepts): la sua idea è dunque che i concetti proposizionali devono essere /a stessa cosa delle proposizioni. La difficoltà, qui, è che un’espressione come “Cesare è morto” pare asserire il fatto che Cesare è morto, mentre l’espressione “la morte di Cesare” sembra solo menzionare tale fatto. Questa difficoltà non sfugge a Russell: Se chiediamo: che cosa si asserisce nella proposizione “Cesare morì”? La risposta dev'essere: “Si asserisce la morte di Cesare”. In tal caso, sembrerebbe, è la morte di Cesare che è vera o falsa; eppure né la verità né la falsità appartengono a un soggetto puramente logico. La risposta qui sembra essere che la morte di Cesare abbia una relazione esterna con la verità o la falsità (secondo il caso), mentre “Cesare morì”

99

in un modo o in un altro contenga la sua stessa verità o falsità come un elemento [cioè, come costituen-

te]. Ma se questa è l’analisi corretta, è difficile vedere come “Cesare morì” differisca da “la verità della morte di Cesare”, nel caso in cui ciò sia vero, 0 da “la falsità della morte di Cesare” nell’altro caso. Tuttavia è chiarissimo che questo, in ogni caso, non è mai

equivalente a “Cesare morì”. È chiaro che ci dev'essere una nozione fondamentale di asserzione, data dal verbo, che si perde appena sostituiamo [al verbo] un nome verbale, e si perde quando la proposizione in questione è resa soggetto di qualche altra proposizione. [...] Questa difficoltà, che sembra essere inerente alla natura stessa della verità e della falsità, è qualcosa che non so come

trattare in modo soddisfacente. La via più ovvia sarebbe dire che la differenza tra una proposizione asserita e una non asserita non è logica, ma psicologica. Nel senso in cui le proposizioni false possono essere asserite, questo è senza dubbio vero. Ma c’è un altro senso dell’asserzione, molto difficile da presentare con chiarezza alla mente, e tuttavia affatto innegabile, secondo cui solo le pro-

posizioni vere sono asserite. Le proposizioni vere e false sono egualmente in qualche senso entità, e sono in qualche senso suscettibili di essere soggetti logici; ma quando accade che una proposizione è vera, essa ha una qualità ulteriore, al di sopra e al di là di ciò che essa condivide con le proposizioni false, ed è questa qualità ulteriore che è ciò che io intendo per asserzione in senso logico come opposto a quello psicologico. La natura della verità, tuttavia non appartiene ai principi della matematica più‘che ai principi di qualsiasi altra cosa. Lascio quindi questo problema ai logici con la breve indicazione suesposta della sua difficoltà. *

Secondo la teoria della verità sostenuta da Russell all’epoca — che egli aveva mutuato dall’amico George E. Moore nel 1898, e che respingerà definitivamente solo nel 1909 — la verità è una proprietà (Russell dice “qualità”) primitiva e inanalizzabile delle proposizioni: alcune proposizioni hanno questa proprietà, altre (quelle false) non l’hanno; in un articolo di pochi anni successivo ai Principles, Russell scrive: «alcune proposizioni sono vere e

7° Russell [1903a], $ 48, p. 45.

5° Ibid.

8! V_ Russell [1903a], $ 46, p. 42, e $ 49.

|

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stia

82 Per evitare confusioni tra un simbolo e ciò cui il simbolo si riferisce, mi riferisco ai concetti servendomi del corsivo. Per riferirmi all’espressione stessa continuo invece a usare il consueto dispositivo delle virgolette. Anche nei Principles, il corsivo è usato spesso per riferirsi ai concetti; ma, a questo stesso scopo, sono usate anche le virgolette. In generale, nei Principles manca qualunque Va sotto, $ 7, soprattutto 7.2 e grafica esplicita, o perlomeno stabile, per distinguere tra segni e concetti da essi indicati. In proposito, V. anche, US 83 V_ Russell [1903a], $ 49, p. 46. V. anche ibid., $ 81, p. 84.

84 V_ Russell [1903a], $ 52.

85 Russell [1903a], $ 52, pp. 48-49.

capitolo 6

368

alcune sono false, proprio come alcune rose sono rosse e alcune sono bianche».5° Si osservi che questa teoria non è corrispondentista: le verità (o le falsità) s’ identificano con proposizioni vere (o false) e non sono tali sulla base di fatti con cui esse si confrontino. Nel brano appena riportato, Russell distingue due sensi di ‘“asserzione”: in un senso — psicologico — una proposizione è o non è asserita secondo il nostro atteggiamento psicologico nei confronti di essa; in un altro senso — logico — tutte le proposizioni vere sono sempre asserite: nel senso che possiedono quella caratteristica (l’asserzione in senso logico) che le distingue dalle proposizioni false. Il problema è ripreso da Russell nell’appendice A dei Principles ($$ 478-479), nel contesto della discussione delle dottrine di

Frege. Anche qui, Russell ripete che: «le proposizioni vere, anche quando esse compaiono come parte di altre, sono sempre ed essenzialmente asserite, mentre le proposizioni false sono sempre non asserite [.. .|>.” Il senso psicologico dell’asserzione è invece spiegato in una lettera di Russell a Frege datata 24 maggio 1903 (dunque scritta immediatamente dopo la pubblicazione dei Principles): Rappresentazione [Vorstellung] e giudizio [Urtheil] hanno entrambi in tutti i casi un oggetto: ciò che io chiamo “Proposition” può essere oggetto di un giudizio, e parimenti può essere oggetto di una rappresentazione. Vi sono dunque due modi in cui si può pensare a un oggetto, nel caso che quest’oggetto sia un complesso [Komplex]: lo si può rappresentare [vorstel/len], oppure lo si può giudicare [urtheilen]; l'oggetto è però in entrambi i casi lo stesso (per es. quando si dice “il vento freddo” e quando si dice “il vento è freddo”). Il tratto di giudizio significa [bedeutet] dunque per me un modo diverso di essere diretti a un oggetto.**

Una proposizione sarebbe dunque asserita — in senso psicologico — se è in una certa relazione (il giudizio) con una mente: un po” come un uomo è un marito se è in una certa relazione (il matrimonio) con una donna. Proseguiamo nell’esame della teoria dei Principles. Le cose si distinguono dai concetti, secondo Russell, perché i secondi, ma non le prime, possono figurare in una proposizione sia come termini della proposizione — cioè come soggetti (subjects) su cui la proposizione verte — sia altrimenti.” Così, per es., Socrate è una cosa, perché può comparire in una proposizione solo come termine. Invece la relazione indicata da “precedere” non è una cosa, perché può funzionare sia come termine di una proposizione — come in quella espressa da “Il precedere è una relazione” — sia diversamente (Russell dice: come relazione relazionante (relating relation))® — come nella proposizione espressa da “a precede b”. Si avverta che Russell usa qui una terminologia che può essere fuorviante: da un lato, egli chiama “termine” tutto ciò che può essere un costituente di una proposizione e che quindi può, in quanto entità, essere il soggetto su cui verte qualche proposizione;”' dall'altro, egli chiama “termine di una proposizione” un costituente di una certa proposizione su cui verte quella particolare proposizione.” Così, per esempio, l’umanità non è un termine della proposizione espressa da “Socrate è umano”, perché non è un soggetto su cui questa proposizione verte, benché sia, in generale, un termine, essendo un costituente della proposizione e dunque potendo essere il soggetto su cui verte qualche altra proposizione (per esempio, quella espressa da “L'umanità appartiene a Socrate”). Possiamo anche dire che, secondo Russell, qualcosa che è, in senso assoluto, un termine (un’entità) può funzionare come termine (Russell dice anche: come soggetto logico) del complesso in cui compare o non funzionare come termine di esso. In una proposizione — si afferma nei Principles — dev’essere sempre presente almeno un concetto indicato da un verbo. Con qualche incertezza, Russell sostiene che anche nelle proposizioni della forma soggetto-predicato — come quella espressa da “Socrate è umano” — il verbo essere esprime una relazione, sebbene non una relazione in senso ordinario: Possiamo forse dire che è una relazione, sebbene sia distinta dalle altre relazioni in quanto non può essere considerata come un’asserzione concernente l’uno o l’altro dei suoi termini indifferentemente, ma solo come un’asserzione che concerne il referente

[cioè, il primo membro della relazione].”*

*° Russell [1904a], $ III, p. 75. Per la stessa dottrina esposta da Moore, v. Moore [1899a], p. 180.

#7 Russell [1903a], $ 479, p. 505.

:

3 In Frege [1976], p. 242. V. anche Russell [1903a], $ 499, pp. 526-527: «Il concetto proposizionale [cioè ciò che è indicato da espressioni come “la morte di Cesare] sembra, in effetti, non essere altro che la proposizione stessa, la differenza essendo semplicemente quella mann

logica che noi non asseriamo la proposizione in un caso, e la asseriamo nell’altro».

5° 20 2! ?? ?? °

V. Russell [1903a], $ 48, p. 45. V. Russell [1903a], $ 54, p. 49, e $ 99, p. 100. V. Russell [1903a], $ 47, p. 43, e $ 427, p. 449. V. Russell [1903a], $ 48, p. 45. V. Russell [1903a], $ 48, p. 44. Russell [1903a], $ 53, p. 49.

ì

I Principles of Mathematics

369

In altre parole, la copula “è” designerebbe, secondo Russell, una relazione del tutto peculiare — talvolta egli parla di “pseudorelazione” (pseudo-relation) — che vale non, come accade di solito, tra due o più termini di una proposizione, ma tra l’unico termine della proposizione e il concetto indicato dall’aggettivo — in questo caso “umano” —,, il quale concetto non può essere, a sua volta, considerato come un termine della proposizione.” Il concetto umano è un predicato (predicate): i predicati — dice Russell — sono «in un certo senso, i tipi più semplici di concetti, poiché essi compaiono nel tipo più semplice di proposizioni».”” Si noti che, con la parola “predicato”, Russell non intende primariamente — com'è oggi abituale — un sintagma verbale, ma piuttosto un artributo.

3. GLI ASSIOMI LOGICI

All’inizio del secondo capitolo dei Principles, intitolato “Symbolic logic”, si legge: La Logica Simbolica o Formale — uso questi termini come sinonimi — è lo studio dei vari tipi generali di deduzione. La parola simbolica designa il soggetto attraverso una caratteristica accidentale, perché l’impiego di simboli matematici, qui come altrove, è - solo una convenienza teoreticamente irrilevante.’

Questo è un punto importante, perché chiarisce che, per Russell, la logica non si identifica con un sistema formale utilizzato per la logica. La logica per Russell è una scienza, una scienza che riguarda il mondo proprio come la zoologia, solo con la caratteristica di studiarne gli aspetti massimamente generali; essa può certamente utilizzare un sistema formale, ma non s’identifica con esso.

Il soggetto della logica simbolica, dice Russell, «consiste di tre parti, il calcolo delle proposizioni, il calcolo delle classi, e il calcolo delle relazioni».'° I confini non sono quelli oggi standard; nei Principles, infatti: (a) la teoria delle classi è considerata parte della logica; (5) la teoria della quantificazione non è confinata nella logica predicativa, ma è usata già nella logica proposizionale; (c) la logica predicativa è sussunta in parte nel calcolo delle classi (predicati monadici) e in parte nel calcolo delle relazioni (predicati poliadici); (d) non c’è nessuna distinzione tra logica del primo ordine e logica d’ordine superiore. Questi non sono aspetti idiosincratici della teoria dei Principles, ma rispecchiano l’idea di logica così come emergeva dagli scritti di Peano. Frege non aveva idee diverse, su questo punto, ma Russell cominciò a studiare la sua opera solo dopo che il manoscritto dei Principles era stato consegnato all’editore; da allora, il modello di rigore, per Russell, non fu più Peano, ma Frege.! In tutti gli aspetti sostanziali in cui la logica di Frege si distaccava da quella di Peano, Russell adottò la prospettiva del primo. Ma i Principles — fatte salve alcune aggiunte e correzioni fatte prima della pubblicazione — restano un’opera concepita a partire dalle tesi di Peano. Tre aspetti, in particolare, segnano il progresso della teoria di Peano rispetto alla logica simbolica precedente (eccettuato Frege): l’invenzione di un sistema per esprimere la quantificazione universale e il suo ambito; la di-

stinzione tra appartenenza a una classe e inclusione in essa; la distinzione tra una classe di un solo elemento e quel solo elemento. Per esprimere la quantificazione universale e il suo ambito, Peano si serviva quella che egli chiama “implicazione formale” (per distinguerla dall’implicazione materiale, che lega due proposizioni): un’implicazione formale è scritta nella forma “...

D,._;.a XK Xn

espressione che ha il medesimo significato dell’usuale “(x1) ...

i (x,)(... > CGA) ...)”.Sele Questa notazione era stata accolta da Russell, che la utilizza nei i suoi x scritti formalint successivi + n}\. all’agosto del 1900.! Per ciò che riguarda il secondo aspetto, si trattava di cogliere l'importante differenza tra

95 9% 9? %

V. Russell [1903a], $ 94, p. 95, seconda nota. V. Russell [1903a], $ 48, p. 45. Russell [1903a], $ 57, p. 55. Russell [1903a], $ 11, p. 10.

9 V. Russell [1918-19], $ IV, p. 216, e Russell [1919a], cap. 16, p. 169.

100 Russell [1903a],$ 13, p. 11.

I

|

e

!01 fn una lettera a Couturat datata 20 giugno 1903, Russell scrive: «lo ripeto, Peano commette molti errori che non si trovano in Frege» (in n ras i Russell [2001a], p. 301). 4 102 Questa simbologia fu introdotta per la prima volta in Peano | 1889], “Logicae notationes”, $ II, p. 25. |

!03 La simbologia dell’implicazione formale è ancora adoperata nei Principia Mathematica, dove però è bed come notazione DV tiva a quella “(x;, ...,xn)(... > ...)” (v. [PMI], vol. I, #11.05 e il commento seguente) — che esprime lostesso di "1) SE in)(-.. DEN

[PM], vol. I, #11.01, *11.02, e il commento seguente). La simbologia dei Principia per i quantificatori universali che consiste nel porre la,

Manoscritti della o le, variabile(-i) quantificata(-e) tra parentesi, a precedere una formula, sembra risalire a Whitehead, che la usa in alcuni stessa simbologia dal febfine del 1902 o inizio del 1903 (v. l’introduzione di A. Urquhart a Russell [1994a], $ I, p. xvil). Russell adotta la

370

capitolo 6

tradienunciati come “Socrate è un uomo” ed enunciati come “I greci sono uomini”, equiparati nella sillogistica 1902, nel quando, solo Russell da assimilato pienamente fu aspetto zionale. A differenza dei primi due, il terzo egli venne a contatto con l’opera di Frege, in cui si trova la stessa distinzione. Nel secondo capitolo dei Principles, si assumono sette nozioni primitive: l’“implicazione formale”; l’“implicazione materiale”; la nozione di “funzione proposizionale”; la “relazione di un termine con la classe di

cui esso è un elemento” (in simboli: “e ”’); la nozione di “tale/i che” (in simboli: “3”); la nozione di “relazione”; la nozione di “verità”.!* Più avanti, nel libro, le nozioni di “funzione proposizionale” e di “implicazione formale”,

sono analizzate sulla base delle nozioni primitive di “classe di proposizioni di forma costante”, “denotare” e «qualsiasi”.!® Per il calcolo proposizionale, il calcolo delle classi e quello delle relazioni sono poi assunti alcuni assiomi, che Russell chiama, come Peano, “proposizioni primitive”. Prima di elencare gli assiomi del calcolo proposizionale, è necessaria qualche spiegazione preliminare. Per Frege, la logica proposizionale era quella parte della logica che si occupa di funzioni che, prendendo come argomenti valori di verità (il Vero e il Falso) danno come valori dei valori di verità. La prospettiva di Russell, nei Principles e in seguito, fino al 1907, era sensibilmente diversa. Egli considerava la logica proposizionale come quella parte della logica che si occupa di funzioni le quali, prendendo come argomenti proposizioni (propositions) — intese come controparti ontologiche degli enunciati — danno come valori altre proposizioni, il cui valore di verità è determinato esclusivamente dal valore di verità delle proposizioni assunte come argomenti. Le usuali costanti del calcolo proposizionale sono — com’è noto — tutte definibili sulla base di una di esse più la negazione: nel 1906, Russell opta per implicazione e negazione; dal 1907!°” opta per disgiunzione e negazione; dall’ Introduction to Mathematical Philosophy, egli adotta invece l’incompatibilità di Sheffer,"° che permette, da sola, di definire tutte le altre costanti logiche, negazione compresa. Nei Principles, invece, Russell definisce tutti iconnettivi — negazione compresa — tramite la sola implicazione.'’ Egli può a fare a meno della negazione perché — in contrasto con la procedura oggi standard — impiega liberamente la quantificazione nella logica proposizionale. Russell non tiene distinte la logica proposizionale dalla teoria della quantificazione, perché considera le proposizioni come autentiche entità, su cui è quindi legittimo quantificare. Come ha ben chiarito Gregory Lan-

braio o marzo del 1903 (v., per es., Russell [1903b]). 104 V. Russell [1903a], $ 12, p. 11, e $ 22, pp. 19-20. Si osservi che Russell non include tra le nozioni primitive solo quelle necessarie al

simbolismo della teoria, ma anche nozioni che oggi considereremmo metateoriche. 105 V_ sotto, verso la fine del $ 4.

106 V. Russell [1906b], p. 176. 107 V_ Russell [1908], $ VI, pp. 83-84. 108 ’incompatibilità [ di Sheffer è rappresentata da “p |9”, in cui il connettivo “|” è detto “tratto di Sheffer® e “p’ e “q” sono lettere schematiche che stanno al posto di enunciati. “p |g” è preso ad avere le stesse condizioni di verità di “—p v —g”, cioè è vero se gli enunciati che stanno al posto di “p’ e “9g” sono entrambi veri, altrimenti è falso. Con questo solo connettivo, è possibile definire tutte le altre costanti lo-

giche del calcolo proposizionale: la negazione “-p” si può definire come “p |p”; la congiunzione “p A 9g” è definibile come “@ |9) |@ | q)”; la disgiunzione “p Vv g” è definibile come “(p |p) |(9 |9)”; l’implicazione “p > g” si può definire come “p |(9 |9)” (v., per es., Russell [1925], $ I, p. xvi). Il connettivo “| fu introdotto da Henry M. Sheffer in un articolo del 1913 (v. Sheffer [1913]), dove, in realtà, esso è preso ad avere le stesse condizioni di verità di “—p x —g”, e per questo è detto reiezione (rejection) (v. Sheffer [1913], $ 2, p. 487). Sheffer mostra che questo solo connettivo rende possibile definire negazione e disgiunzione, riducendo così il numero di nozioni primitive dei Principia Mathematica di Whitehead e Russell (v. Sheffer [1913], $ 2, p. 487). In una nota al termine dell’articolo (v. Sheffer [1913], $ 2

p. 488, seconda nota), egli osserva che, per il principio di dualità, si possono ottenere gli stessi risultati definendo il connettivo con le stesse condizioni di verità di “—p v —g”: quest’ultimo sarà il modo in cui il connettivo “|” sarà poi utilizzato dapprima da Jean Nicod nella sua dimostrazione che, usando questo solo connettivo, tutto il calcolo proposizionale si può dedurre da un solo assioma e una sola regola di inferenza (v. Nicod [1920]), e poi, sulla scorta di Nicod [1920], da Russell nella seconda edizione dei Principia (v. Russell [1925], $ I, p. xvi)

La scoperta che un solo connettivo proposizionale è sufficiente a definire tutti gli altri era stata fatta, trent'anni prima di Sheffer

da

Charles Sanders Peirce ([1880]), che tuttavia non aveva pubblicato il suo risultato. Il connettivo definito da Peiree è quello che Sheffer

chiama “reiezione”: oggi è in genere rappresentato dal simbolo “L” (detto “freccia di Peirce”); dunque “p L g” è preso ad avere le stesse condizioni di verità di “—p n —g”, cioè è vero se gli enunciati che stanno al posto di “p’ e “9” sono entrambi falsi, altrimenti è falso. Così la negazione “-p” si può definire come “p diP”; la congiunzione “p n g” è definibile come “(p n"p)ù (q Ì q); la disgiunzione “p v g” è cena nibile come “(p d q) Ì (p I, g)”; Vimplicazione “p > g” si può definire come “(((p J P) SÌ q) Ì (pi P) di q))”. Nel testo originale di Peirce

il connettivo è rappresentato da una semplice giustapposizione di enunciati, con l’ausilio di virgole, punti e virgole, due punti punti, e pai rentesi per separare coppie di enunciati in enunciati composti da più di una coppia di enunciati; così, per es., “S> P”, cioè “(((SÌ S) Ì P)\

tie ((S È 5) L P)Y”, è rappresentato come “SS, P; SS, P” (v. Peirce [1880], p. 14). po fu dimostrato da Emil Post nel 1920, questi sono gli unici due connettivi che, da soli, consentono di definire tutti gli altri. V. Russell [1903a], $ 18, p. 16, per la definizione di congiunzione e $ 19 per le altre definizioni.

I Principles of Mathematics

ST

dini in diversi scritti!!° — nei Principles le particelle logiche come “>”, “A”, “”, non sono intese come simboli che fiancheggiano enunciati, ma come simboli che fiancheggiano nomi di proposizioni (in senso ontologico). Le particelle logiche non sono quindi connettivi enunciativi — come nel calcolo logico oggi standard —, ma simboli che indicano relazioni tra proposizioni o, nel caso della negazione, una proprietà di proposizioni. (Si osservi che Frege ha una concezione molto simile, concependo i connettivi come simboli che denotano funzioni da oggetti a

valori di verità!!!)

Si noti però che — nel contesto dei Principles — Russell non vede nell’assumere l’implicazione come idea primitiva una questione di semplice scelta, come farà in seguito, ma un obbligo. Egli sostiene che non potremmo, per esempio, scegliere di assumere come idee primitive la disgiunzione e la negazione: Poiché il senso matematico di definizione è molto diverso da quello corrente tra i filosofi, è bene osservare che, nel senso matemati-

co, si dice che una nuova funzione proposizionale è definita quando si afferma che essa è equivalente a (ossia implica ed è implicata da) una funzione proposizionale che è stata accettata come indefinibile o che è stata definita in termini di indefinibili. La definizione delle entità che non sono funzioni proposizionali si deriva dalle entità che lo sono (Re

Poiché dunque il definire è analizzato nel porre un’equivalenza, e poiché un’equivalenza è una doppia implicazione, non sarebbe possibile definire l’implicazione in termini di disgiunzione e negazione: Di fatto, l’asserto [assertion] che q è vera o p falsa risulta essere strettamente equivalente a “p implica g”; ma poiché l'equivalenza significa mutua implicazione, ciò lascia ancora l’implicazione come fondamentale, e non definibile in termini di disgiunzione.'!

Il ragionamento di Russell qui però non è valido. Per comprendere il punto, è necessario dire qualcosa sulla teoria della definizione. Come lo stesso Russell osserverà alcuni anni più tardi nei Principia Mathematica, una definizione — nel senso qui pertinente di definizione nominale — riguarda i simboli di una teoria, non i suoi oggetti.!!* È vero che talora si parla, per es., di definire i numeri razionali, ma ciò che s’intende con ciò è in realtà dare il significato del termine “numero razionale” offrendone un sinonimo dal significato noto. Una definizione può dunque essere espressa nel metalinguaggio di una teoria, ponendo un simbolo metalinguistico, per es. “=, tra nomi di simboli (semplici o complessi) del linguaggio oggetto: a sinistra (per convenzione) il nome di un simbolo contenente il termine da definirsi, il definiendum, e a destra il nome di un simbolo già noto, il definiens. Una va-

riante di questo metodo — molto usata — consiste nel far comparire ai lati del simbolo di definizione, poniamo ‘=’, non nomi di simboli del linguaggio oggetto, ma direttamente simboli del linguaggio oggetto. In questi casi, la convenzione è che i simboli a lato del segno metalinguistico di definizione debbano essere intesi come menzionati, non usati, o, detto altrimenti, siano intesi come nomi di se stessi.!!° Se si vuole che una definizione data in questo modo non rimanga un semplice dispositivo per abbreviare informalmente le notazioni ufficiali di una teoria, ma che si rifletta in un ampliamento del linguaggio ufficiale stesso, si può ottenerlo interpretando la definizione come una coppia di regole esplicite che, aggiunte alla descrizione formale del linguaggio oggetto originario, permettono di inferire da ogni formula che contiene il definiens una formula che contiene al suo posto il definiendum, e viceversa. !!0 V_ Landini [1998a], $ 2.1, pp. 43-44, Landini [2003], pp. 249-251, Landini [2004b], pp. 379-380, e Landini [2011a], cap. 3, pp. 137-

140. la

sopra, cap. 5, $ 1.

112 Russell [1903a],$ 16, p. 15. 113 Ibi

id. tes si: : I !14 Nei Principia si legge: «Una definizione è una dichiarazione che un certo simbolo o combinazione di simboli nuovamente introdotta deve significare lo stesso di una certa altra combinazione di simboli di cui il significato è già noto. [...] Si deve osservare che una definizione non è, strettamente parlando, parte dell’argomento [subject] in cui compare. Perché una definizione ha a che fare solo con i simboli,

let non con ciò che essi simbolizzano» ([PM], vol. I, introduzione, cap. 1, p. 11). !15 Le scelte degli autori che usano questo tipo di definizioni si differenziano nella scelta di tale simbolo REI

“for” (v. Quine [1937a], [1940] e [1951a]), Church usa una freccia “>” (v. Church [1956], $ 11, p. 77), Rescher usa

Ss Quine usa “= DF”

(v. Rescher

e Russell na così la teoria della definizione dei Principia Mathematica. Nei Principia, com'è noto, MS ASTI pupa definizione lea de osservare deve «SI scrivono: definizioni sulle ma metalinguaggio, e non operano una distinzione tra linguaggio non con Do strettamente parlando, parte dell’argomento [subject] in cui compare. Perché una definizione ha a de fare solo Dia i simboli,

che essi simbolizzano. [...] sebbene impieghiamo definizioni e non definiamo “definizione , tuttavia

“definizione”

non appare tra le nostre

i idee primitive, perché le definizioni non sono parte del nostro argomento [subject], ma sono, strettamente pertanto

e

a

da interpretarsi grafiche» ([PM], vol. I, introduzione, cap. I, p. 11). Sembra dunque evidente che il simbolo di definizione dei £ MRoDig sia nomi. loro i tra non e oggetto linguaggio del formule tra posto sia sebbene oggetto, linguaggio del come un segno che non fa parte

S72

capitolo 6

Ora, se il segno che si usa come simbolo di definizione è un segno metalinguistico, non possono sorgere cIrcolarità nell’usarlo per definire un simbolo del linguaggio oggetto in termini di altri simboli del linguaggio oggetto stesso. La teoria della definizione oggi standard ammette, tuttavia, che le definizioni si stipulino nello stesso linguaggio oggetto, attraverso enunciati che vengono così ad essere un particolare genere di assiomi — nei casi tipici, assiomi che hanno il bicondizionale “=” come connettivo principale. Questa concezione della definizione valida forse il ragionamento russelliano sull’indefinibilità del condizionale “D”°? Per comprenderlo, esaminiamo più da vicino la teoria in parola.'!” Supponiamo di avere una teoria 7 e una costante 4, non appartenente al linguaggio D, di k in riferimento alla teoria di 7, che si può definire utilizzando simboli del linguaggio di 7. Una definizione, ila spot CO = DI Sh c È ug 2 & (cioè, enunciati in cui vi sono aperti enunciati due tra è “= T, sarà costruita, tipicamente, ponendo il connettivo variabili libere) contenenti entrambi tutte le medesime variabili libere: l’enunciato aperto a sinistra, il definiendum, contenente k, e quello a destra, il definiens, che è una formula ben formata di 7 (si osservi che il definien-

dum, in quest’uso della parola,'!° non si identifica necessariamente con la costante da definire k); la chiusura universale dell’enunciato aperto così ottenuto (cioè, l’enunciato che si ottiene facendo precedere l’enunciato aperto da quantificatori universali che vincolino ciascuna delle variabili libere in esso contenute) è la definizione D. Aggiungendo D agli assiomi di T come ulteriore assioma si ottiene una teoria 7'— il cui linguaggio contiene la costante k, in aggiunta alle costanti di 7 — che estende T e che, se D soddisfa determinati requisiti, costituisce quella che si dice un’ estensione definitoria di T. Si comprende bene che, se D è semplicemente un assioma, si rendono necessari dei requisiti per considerarlo una definizione, distinguendolo da assiomi che definizioni non sono. Secondo la teoria standard, una definizione — comunque sia data — deve avere due requisiti, detti (1) di eliminabilità, e (2) di non creatività (o conservatività). Nel caso in esame, D è una definizione appartenente a T'— o, detto altrimenti, Tè un’estensione definitoria di T— se e solo se D soddisfa i due requisiti seguenti: (1) eliminabilità: deve permettere di eliminare il termine definito k da ogni enunciato p (aperto o chiuso) del linguaggio di T”in cui esso sia presente, ottenendo così un altro enunciato, p < espresso nel solo linguaggio di 7, tale che si possa dimostrare, in T‘, la chiusura universale di sa I ati Doo 121 (2) non creatività: a 'p=p",° non deve permettere di dimostrare in T'alcun teorema che non contenga & (cioè e-

1!” Le prime esposizioni moderne di questa teoria si trovano in Suppes [1957], cap. 8, e, più sinteticamente, in Suppes [1960], $ 2.1, pp. 16SY Si

potrebbe anche usare, al posto di “=”, il simbolo “=4f”, intendendo quest’ultimo non come un simbolo metalinguistico, ma come un

simbolo primitivo addizionale del linguaggio oggetto, da porsi tra formule dello stesso linguaggio oggetto. !!9 [uso in letteratura non è uniforme, ma questo è l’uso maggioritario, che si trova esplicitamente, per es., in Carnap ([1937], $ 8, p. 23), in Tarski ([1941], $ 11, p. 35), e in Suppes ([1957], $ 8.3, pp. 155-156). 120 In moltissimi testi dagli anni 50 del Novecento in poi (tra i primi, v. Suppes [1957], $ 8.2, p. 151, nota) questi requisiti sono attribuiti a Stanistaw Lesniewski — peraltro senza riferimenti a qualche sua opera specifica. In realtà, quest’attribuzione è falsa (v. Rickey [1975], pp. 175-176, e Urbaniak e Hàmàri [2012], $$ 6-7). Lesniewski sostenne una concezione non metalinguistica delle definizioni, cioè una conce-

zione delle definizioni come particolari espressioni del linguaggio oggetto, e fu il primo a sostenere la necessità di regole esplicite le quali stabiliscano le strutture sintattiche che devono avere le espressioni di una teoria per essere considerate definizioni di quella teoria. Una regola di definizione (formulata, come tutte le regole — per es. le regole di deduzione — di una teoria, nel metalinguaggio della teoria stessa), è dunque un’istruzione per la costruzione di definizioni formalmente corrette di una teoria, che dice qualcosa come: “Se la costante & da definire è ... [descrizione del tipo di costante, per es., un predicato n-adico], una sua definizione è un enunciato della forma ...[descri-

zione della forma sintattica dell’enunciato (e, se ce ne sono, dei teoremi che devono valere perché un enunciato di quella forma sia una definizione di k)]”. In questo, la teoria della definizione di Le$niewski è come quella standard. Ma egli non formulò mai requisiti meta-meta teorici delle definizioni (cioè, requisiti come quelli di eliminabilità e non creatività) che spieghino perché le regole di definizione impongano alle definizioni determinate strutture sintattiche e non altre. Non solo: le regole di definizione formulate da Lesniewski per i suoi sistemi escludono le supposte definizioni che non hanno il requisito di eliminabilità, ma ammettono definizioni creative — scelta di cui Le$niewski era certamente consapevole, perché la rivendicò quando, nel 1928, Jan Lukasiewicz lo contestò su questo punto (per i riferimenti, v. Urbaniak e Himàfri [2012], $ 8, p. 174). La teoria secondo cui le definizioni devono soddisfare il criterio di non creatività si trova invece esposta con molta chiarezza in Frege (v. per es.: Frege [1879], $ 24, p. 56; Frege [1891], p. 4; Frege [1893-1903], vol. I, prefazione, p. VI, e vol. II $ 143; Frege [1914], pp. 224-225). Che le definizioni non arricchiscano in nessun modo una teoria

cosa che implica la non na

delle stesse — è sostenuto anche da Whitehead e Russell nei Principia Mathematica: «Teoricamente, non è mai necessario dare una definizione: potremmo sempre usare il definiens invece, e così fare interamente a meno del definiendum. [...] In pratica, naturalmente, se non

introducessimo definizioni, le nostre formule diverrebbero molto presto così lunghe da essere ingestibili; ma teoricamente, tutte le definizioni sono superflue» ([PMI], vol. I, introduzione, cap. 1, p. 11). Più tardi — tra la fine degli anni 20 e gli anni 30 del Novecento —. il requisito di non creatività sarà sostenuto da Lukasiewicz contro Lesniewski, e entrambi i requisiti di eliminabilità e non creatività Marano

sostenuti da Kazimierz Ajdukiewicz, che li formula in un modo simile a quello oggi standard (v., in proposito, Urbaniak e Himàri [2012] $

ge, ibid., l’appendice di passi di Lukasiewicz, pp. 185-187, e di Ajdukiewicz, pp. 187-189). psi "3 p e psi dicono in questo caso inferenzialmente equivalenti nella teoria 7% Le virgolette angolari sono le virgolette di “quasi-citazione” introdotte da Quine: v. sopra, cap. 3, nota 344. ì

I Principles of Mathematics

573

sprimibile nel solo linguaggio di 7) il quale non sia già dimostrabile in 7” senza introdurre l'assioma D (cioè che

non sia già dimostrabile in 7): in altri termini, 7’ dev'essere quello che si dice un’estensi one conservativa di T, che significa che ogni teorema di 7 è un teorema anche di 7” e che ogni teorema di 7”che contiene solo simboli del linguaggio di 7 è già un teorema di 7. Il requisito (1) impone che la definizione sia effettivame nte tale: non sia, per es., circolare,” e sia completa;' il requisito (2) impone che la definizione sia solo tale, cioè non aggiunga nuove informazioni sostanziali alla teoria 7 (come invece farebbe un assioma usuale). !°* Se il linguaggio di 7 contiene il connettivo “=”, un assioma definitorio di T'(cioè un assioma di 7”che soddisfa i requisiti (1) e (2)) è sempre formulabile con un enunciato equivalente — nel senso, speciale, di un enunciato che, aggiunto a 7, permette la derivazione dei medesimi teoremi — avente una delle forme normali indicate di seguito, a seconda che K (il termine da definirsi) sia: un nome proprio, “a”, un simbolo di funzione, ‘f’, 0 un predicato (monadico o poliadico), “R”:

(i) M(a=x= p() WED ZOO CTER UE) ) Rev I),

x)

dove il definiens non deve contenere il termine da definire (né altri termini che non appartengano al linguaggio di 1), le variabili “x”, ..., “n” e “y” devono essere distinte, il definiens non deve contenere altre variabili libere se

non quelle presenti nel definiendum; inoltre, ciascuno dei definiens di (i) e (ii) deve soddisfare una condizione di esistenza e di unicità: in altre parole, per poter dare una definizione della forma (i), dev'essere dimostrabile in 7 che esiste uno e un solo x che soddisfa la formula schematizzata da “@(x)” — cioè, dev'essere dimostrabile in 7 che (42)M)(@() = x= z) —, e per poter dare una definizione della forma (ii) dev'essere dimostrabile in 7 che esiste uno e un solo y tale che, per ogni x1, ..., x, soddisfa la formula schematizzata da “Y(y, x1, ..., x)? —

cioè,

dev'essere dimostrabile in 7 che (42)(x1) ...(M) (0, x, ...,%)=Y= 2A

Si osservi che fornire (come sopra) una definizione della forma

(X1) ... (Xn) (PA, ..., 4) E YA, -.. %n)), aggiungendola come assioma a una teoria 7 per ottenere una sua espansione definizionale, equivale a fornire una definizione metalinguistica della forma P(x1,

RIO) Dal =df

Y(x1,

ICI

oi

122 Così, per esempio, l’enunciato “Uno scapolo è uno scapolo” contravviene al requisito (1), e non costituisce un possibile assioma defini; torio del termine “scapolo”. 123 I] requisito di eliminabilità impedisce, per es., le cosiddette “definizioni condizionate” © “definizioni sotto ipotesi” (molto usate da Peano, e alle quali si oppose Frege: v., per es., Frege [1898], pp. 182-184). Una definizione condizionata è una definizione in cui un simbolo rappresentante una funzione è definito solo a condizione che gli argomenti della funzione siano entità appartenenti a certe classi, o aventi determinate proprietà. Si prenda, per es., il seguente enunciato:

y#a025(V/y=z2=x=ZX)), bi: dove le variabili x e y sono intesi variare su numeri naturali. L'intenzione sarebbe definire con esso “xy = 2” a condizione che da 0. Ma l’enunciato non mette in grado di eliminare, per es., il simbolo “2/0” dall’enunciato “(z) —(2/0 = 2)”, e dunque non soddisfa il requisito di

I

|

eliminabilità.

i

xp

x

|

124 Così, per es., l'assioma “Uno scapolo è un uomo adulto non sposato e l’ipotesi del continuo è vera”, aggiunto a una teoria da in cui l'ipotesi del continuo non è dimostrabile, contravverrebbe al requisito (2), e pertanto non costituirebbe un possibile assioma definitorio del

termine “scapolo”. Un esempio meno ovvio è la definizione seguente A è la classe che non ha alcun elemento”: se nella teoria cui si aggiunge questa definizione del simbolo “A” è possibile dimostrare che esiste in effetti una e una sola classe che non ha nessun elemento, la definizione va bene; altrimenti viola il requisito di non creatività, perché consente di dimostrate] esistenza € l unicità di tale classe. psi Il requisito che 7”debba essere un’estensione conservativa di 7° garantisce, tra l’altro, che 7 on sia contraddittoria se non lo è già 7 (si ricordi, infatti, che in una teoria contraddittoria è dimostrabile qualunque enunciato, dunque se IS contraddittoria in essa si dimostra anche

il contraddittorio di ogni teorema di 7 — che non può essere già presente inTa meno che T non sia a sua volta contraddittoria) cosicché, per es., l'assioma “Uno scapolo è un uomo adulto non sposato e l'ipotesi del continuo è vera”, se aggiunto a una teoria in cui l’ipotesi del continuo si dimostra falsa, contravverrebbe ancora al requisito (2).

e

De

DS

to

:

125 Sulle ragioni per cui si impongono queste restrizioni sulle formule (1) (11) e (111), è particolarmente limpido Suppes [1957], $ 8.3.

374

capitolo 6

interpretata come una coppia di regole aggiunte a 7, le quali affermano: (i) che da ogni formula contenente la formula schematizzata da “y(t,, ..., tn)” si può inferire la formula ottenuta sostituendo in essa alla formula schematizzata da “y(t1, ..., t,)” quella schematizzata da “@(11, ..., tn)”, € (ii) viceversa, dove “@(t1, ..., t)” e “V(11, .., tn)” sono ciò che risulta sostituendo i termini di 7 “1”, ..., “4° a ‘X%1°, ..., “x,°, rispettivamente, nelle formule schematizzate' da “91, 4) evo

Si noti che il fatto che una definizione di un nome, di un simbolo di funzione, o di un predicato si possa sempre esprimere nelle forme normali suddette non significa che — secondo la teoria standard — debba esserlo: una definizione può essere tale anche se non ha una delle forme normali sopra elencate: è sufficiente che rispetti i criteri di eliminabilità e di non creatività. Un esempio banalissimo: supponiamo che “” sia un termine singolare del linb)”; allora una definizione equivaguaggio di 7 e che lo abbiamo correttamente definito in T”con “()(a=x=x= lente “equivalente” nel senso che, aggiunta a 7, darebbe origine ai medesimi teoremi di 7°) sarà semplicemente “a= b”, un’altra sarà “MM (a=x=(x=bAy= y))”, e un’altra ancora sarà “(x)(a=x=(x=bA(a=bva# b)))”, eppure nessuna delle tre ha la forma (i) — in particolare, la seconda contiene nel definiens una variabile libera non contenuta nel definiendum, e la terza contiene nel definiens lo stesso termine da definire. Da quanto esposto risulta che, anche se una definizione è formulata come enunciato dello stesso linguaggio oggetto cui appartengono, per es, il condizionale “>” e il bicondizionale “=”, non ci sono obiezioni a definire “DD” e “=”, a partire da altri connettivi. Infatti, una definizione deve solo rispettare i requisiti (1) e (2); e in questi requisiti non c’è nulla che imponga a un assioma definitorio di essere formulato avendo tra i suoi connettivi il condizionale o il bicondizionale. Nulla impedisce quindi, per es., di definire l’implicazione in termini di disgiunzione e negazione, e l’equivalenza come doppia implicazione. Certo, non si potranno definire tutti i connettivi in termini gli uni degli altri: qualcuno andrà assunto come segno primitivo — pena la circolarità delle definizioni, e quindi la violazione del requisito di eliminabilità — ma non necessariamente la preferenza deve andare all’implicazione. Evidentemente, Russell giunse presto a considerare invalido l'argomento dei Principles a sostegno dell’indefinibilità

dell’implicazione,'?°

perché



sebbene

egli

non

ritorni,

in

qualche

testo

posteriore,

sull’argomentazione dei Principles vista sopra — negli scritti successivi non oppone più obiezioni alla possibilità di assumere altri connettivi come primitivi e di definire poi l’‘“implicazione” sulla base di questi — cosa che egli farà effettivamente a partire dal 1907.'°” Secondo i Principles, le condizioni di verità di p > q sono: «entrambe sono false o entrambe vere, o p è falsa e q vera; è impossibile avere gq falsa e p vera, ed è necessario avere g vera o p falsa».''* Qui è opportuno osservare

che nei Principles non vi sono diversi stili di variabili. Se nel calcolo proposizionale Russell usa i simboli “p” “q” e “7°, invece di “x” “Y” e “7”, è solo per rendere intuitivamente più comprensibili le formule. In realtà, le variabili

dei Principles sono non ristrette: simboli “p” “Q” e “7°, proprio come “x” “y” e “2°, variano su tutte le entità dell’universo. Quest’idea ha una sua base nella tipica concezione russelliana della logica come la scienza più ge-

nerale dell’essere — la quale, cioè, non è interessata a verità che riguardino particolari entità, ma verità che riguardino tutte le entità, senza eccezioni. Poiché le condizioni di verità di p > g sono, nei Principles, “p e q sono entrambe false o entrambe vere, o p è falsa e q vera”, per il Russell dei Principles “p > q” indica sempre una proposizione, qualsiasi entità si prenda al posto di p e g, ma se p o q non sono proposizioni, p > q è sempre falsa. Per es., “Frege > Russell” indicherebbe

una proposizione falsa, e così anche “Frege > la neve è bianca”. Su questa base, è possibile definire la nozione di “proposizione” mediante l’implicazione: Si può osservare che, sebbene l’implicazione sia indefinibile, la proposizione può essere definita. Ogni proposizione implica se

stessa, e qualsiasi cosa non sia una proposizione non implica nulla. Pertanto dire “p è una proposizione” è equivalente a dire “p implica p”; e quest’equivalenza si può usare per definire le proposizioni. "°°

Trascrivendo la definizione in simboli, abbiamo:

126 Già una lettera a Frege datata 24 maggio 1903, egli sembra considerare quella di “definizione” come una nozione primitiva: v. in Frege [1976], p.241. ss In “Some explanations in reply to Mr. Bradley” (1910), Russell scriverà: «Nei Principles, definii la disgiunzione in termini di implicazione, invece che viceversa [come nei Principia]; ma questa è meramente una questione di gusto e di convenienza» (Russell [1910d] i

355-356, nota).

125 Russell [1903a], $ 16, p. 15. 12° Ibid.

n

ga

i

I Principles of Mathematics

3/9

p è una proposizione =qr p > p,

che costituisce una definizione di “proposizione” sulla base della nozione primitiva di implicazione (materiale). Sebbene le variabili dei Principles siano non ristrette, per evitare conseguenze che appariranno evidenti tra poco Russell vuole che le particelle logiche non primitive siano definite solo quando fiancheggiano nomi di proposizioni, non nomi qualsiasi. Egli specifica questo requisito in una condizione posta sulla definizione di ciascuna particella logica non primitiva, facendo dunque uso di definizioni condizionate — un tipo di definizione che Russell eredita da Peano e che poco più tardi, invece, respingerà, seguendo Frege.' Una definizione condizionata è una definizione che si assume valere solo se è soddisfatta una certa condizione; in altre parole, si definisce un simbolo

solo a condizione che esso compaia in un certo contesto. Nei Principles, la nozione di congiunzione è definita così: Prima di procedere oltre, è opportuno definire l’asserzione congiunta di due proposizioni, 0 ciò che si chiama il loro prodotto logico. [...] Essa è come segue: Se p implica p, allora, se qg implica g, pq (il prodotto logico di p e 9) significa che, se p implica che q

implica r, allora r è vera.!5!

Trascrivendo questa definizione in simboli, otteniamo:

Pdf

>>

((G29)35

AI

M(>9(A2N)25 n),

dove il simbolo “=” è usato (faute de mieux) come una variante del bicondizionale, da utilizzarsi però solo nelle

definizioni. Russell propone la seguente lettura informale: [...] Se p e g sono proposizioni, la loro asserzione congiunta equivale a dire che è vera ogni proposizione che è tale che la prima implica che la seconda implichi tale proposizione. Non possiamo, con correttezza formale, enunciare la nostra definizione in questa forma abbreviata, perché l’ipotesi “p e g sono proposizioni” è già il prodotto logico di “p è una proposizione” e “q è una proposi; 132 zione”.

Dalla spiegazione di Russell è evidente che, nella definizione verbale da cui è tratta la definizione precedente, egli fa una svista, dimenticando di specificare che anche r dev'essere una proposizione. Dunque — poiché nei Principles, come abbiamo visto, “7 è una proposizione”, si scrive “7> 7° — la definizione di congiunzione dovrebbe essere emendata, secondo le intenzioni di Russell, come segue:

Pad?

((A9)3 PAG

MN

N>5 (292).

La disgiunzione è così definita: La disgiunzione o addizione logica è definita come segue: “p 0 9g” è equivalente a “‘p implica 9g” implica 9g”. È facile persuaderci di

quest’equivalenza, ricordando che una proposizione falsa ne implica qualsiasi altra; infatti, se p è falsa, p implica g, e perciò, se “p c 5 5 + N 134 implica g” implica g, ne segue che g è vera.

Russell non è esplicito in proposito, ma la definizione dev'essere intesa come condizionata: cioè, si definisce “p 0 g” come “(p implica g) implica g” sotto la condizione che p sia una proposizione. Infatti, se p non fosse una proposizione, la proposizione espressa da “p implica g” — secondo la lettura proposta nei Principles — sarebbe falsa, cosicché la verità della proposizione espressa da ‘“‘p implica g° implica g” non implicherebbe più la verità di g. In altre parole, una disgiunzione potrebbe essere vera pur non essendo vero nessuno dei due disgiunti. Tenendo conto di ciò, la trascrizione simbolica della definizione (condizionata) di disgiunzione data nei Principles dovrebbe essere la seguente:

130 Per le definizioni condizionate, v. anche, sotto, cap. 7, $ 4.

131! Russell [1903a], $ 18, p. 16.

132 Ibid.

109 Questo è stato rilevato da Landini ([1998a], $ 2.2, p. 49).

134 Russell [1903a]; $ 19, p. 17.

capitolo 6

376

Pak

>p)>2 (429)

PvaIzap29 29)

che si può leggere: “Per ogni p e ogni g, se p è una proposizione allora, se anche g è una proposizione, p V q è uguale per definizione a (p > g) > g”. La definizione raggiunge il suo scopo perché “(p > q) > q” pone la condizione che, se p non è vera, allora dev'essere vera q — che è proprio ciò che si vuole significhi “p V q”. La definizione più interessante è quella di negazione. Nei Principles, la negazione è definita dopo la congiunzione e la disgiunzione, e — come già osservato — non è usata nel definire la congiunzione e disgiunzione a partire dall’implicazione. La definizione è la seguente: «non-p è equivalente all’asserzione che p implica tutte le proposizioni, ossia che: “7 implica 7° implica “p implica r° qualunque possa essere r». ne La condizione secondo cui p dev'essere una proposizione è tralasciata da Russell ma, anche qui, si deve considerare implicita, se non si vuole ammettere, per esempio, che —a, dove a è un nome proprio qualsiasi, debba essere considerata una proposizione falsa. In simboli, la definizione di negazione è:

P(f>ap> (PaCo

na Pan)

che si legge: “Per ogni p, se p è una proposizione, negare p è la stessa cosa che dire che qualunque proposizione sia r, p implica r°. Dopo i Principles, sotto l’influenza di Frege, Russell proporrà di interpretare “p > g” in un modo un po” diverso da ‘p e q sono entrambe false o entrambe vere, o p è falsa e q vera”, cioè come: “p non è vero oppure g è vero”. Con queste nuove condizioni di verità dell’implicazione — per inciso, le stesse fornite da Frege nei suoi Grundgesetze — non è più necessario che p e g siano proposizioni perché valga la relazione d’implicazione: una proposizione falsa viene a implicare qualsiasi entità (non solo qualsiasi proposizione), un’entità qualsiasi implica qualsiasi proposizione e, infine, un’entità qualsiasi implica un’entità qualsiasi. Questo permetterà a Russell di fare a meno delle definizioni condizionate nel calcolo proposizionale.'* La definizione di negazione diverrà allora la seguente:

p=ap> Mr." Cioè: “p è falso significa che p implica che, per ogni r, r è vero”. Questa definizione è già presente in una lettera È

E

di Russell a Frege datata 12 dicembre 1904.

140

5

xa

x

Aa

c

E

Nella stessa lettera si trova già la seguente definizione di congiun-

zione:

pagra(N(P>(4d2N)23 7);

141

e la seguente definizione di disgiunzione:

DV q=kPD>)I GI 155 Russell [1903a], $ 19, p. 18. 136 Per es., se si assegna Frege come valore a “p”, allora “(r)((r > ») > (P 2)

diventa: “(>

N) > (Frege > r))” — che, date le condi-

zioni di verità di “p > 7”, esprime una proposizione falsa. 137 Questa lettura è già proposta da Russell in una lettera a Frege datata 24 maggio 1903: v. in Frege [1976], p: 241. V. anche Russell [1906b], p. 162. Quando Russell propone di leggere “p > g” come “p non è vero oppure g è vero” si deve intendere come tane le condizioni di verità della proposizione, non una sua parafrasi. In altri termini, “p > 9” — dove “p° e “q° sono nomi di proposizioni — non contiene nessun predicato di verità implicito: per il Russell precedente i Principia Mathematica i connettivi fiancheegiano sempre nomi di

entità. DiPer una discussione più ampia delle definizioni condizionate v. sotto, cap. 7, $ 4. © V. Russell [1906b], p. 200.

140 V_ in Frege [1976], p. 250.

4! V_ ibid. 142 V_ ibid.

-%

I Principles of Mathematics

SJ

In “The theory of implication” (1906), Russell abbandona la definizione di negazione adottata fin dai Princi-

ples, assumendo quella di negazione come idea primitiva. In quest'articolo, Russell menziona dapprima due inconvenienti di tale definizione: quello dell’artificiosità e quello della maggiore difficoltà che assume la spiegazione del simbolismo rispetto alla soluzione di assumere la negazione come idea primitiva.! Ma Russell osserva che artificiosità e difficoltà sono entrambe bilanciate dalla maggiore economia, cioè dal fatto che si fa a meno di un'idea primitiva. La ragione per cui egli abbandona la definizione di negazione dei Principles è un’altra: [...] questo metodo non ci permette di sapere che esiste qualche proposizione fa/sa. Ci permette di provare la verità di qualsiasi cosa possa essere provata con il metodo adottato sopra [cioè il metodo consistente nell’assumere implicazione e negazione come idee primitive], e non ci permette di provare la verità di qualsiasi cosa che in realtà sia falsa. Esso ci permette anche di provare, riguardo

a tutte le proposizioni che possono provarsi false con il metodo precedente, che, se esse fossero vere, allora ogni cosa sarebbe vera;

ma se qualche uomo è tanto credulone da credere che ogni cosa è vera, allora il metodo in questione [cioè quello dei Principles], è

impotente a refutarlo.!4

Russell illustra il problema con il principio di non contraddizione:

PAD); stando alla precedente definizione di negazione, esso assumerebbe la forma:

pA-p)> (dg. che si legge: “p A —p implica che, qualunque sia 9g, q è vero”. Ma ciò non è sufficiente a mostrare che p A —p è effettivamente falso, salvo che non si assuma che sia falso (g) qg. Il problema è che è l’idea stessa di falsità che non fa parte del sistema dei Principles, e questo impedisce per sempre di concludere che (9g) q è falso, a meno di non introdurre, appunto, una nuova idea primitiva. «Ma — nota Russell — una volta che abbiamo introdotto questa nuova idea [l’idea di negazione], è economico farne il maggior uso possibile; e questo porta al metodo adottato sopra». Il metodo cui si riferisce Russell è, naturalmente, quello di servirsi dalla nozione primitiva di negazione, insieme a quella di implicazione, per definire gli altri connettivi. Possiamo ora elencare le proposizioni primitive del calcolo proposizionale dei Principles. Ricaveremo le trascrizioni simboliche di questi assiomi dalla loro enunciazione verbale (v. $ 18, pp. 16-17, dei Principles — nei Principles non si fa uso di un simbolismo logico), facendo seguire ciascuna di esse da commenti offerti da Russell nello stesso luogo dei Principles:

(1) M(A(f299N)2

29):

«qualsiasi cosa p e q possano essere, “p implica g” è una proposizione».

(2) M(A(f299)2> PP): «qualsiasi cosa implichi qualcosa è una proposizione».

3)

MAd(f29)2(42 9):

«qualsiasi cosa sia implicata da qualcosa è una proposizione».

(4)

Dap>qepsi può inferire q (modus ponens):

(Russell scrive: «Un'ipotesi vera in un’implicazione può essere lasciata cadere, e il conseguente asserito»). «Que-

sto è un principio non suscettibile d’enunciazione simbolica formale, e illustrante l'essenziale limitazione del aggiunge che formalismo». Si tratta, diremmo oggi, di una regola di deduzione. Nel $ 38 dei Principles, Russell 143 V. Russell [1906b], p. 201. 144 Ibid. 145 Ibid.

capitolo 6

378

c’è un’altra forma in cui è spesso usato il principio che l’ipotesi vera di un’implicazione può essere lasciata cadere, e il conseguente asserito: «Se @x implica wx per tutti i valori di x, e a è una costante che soddisfa @x, possiamo asserire wa, lasciando cadere l’ipotesi vera pa». Se intendiamo questo principio come applicantesi a funzioni proposizionali contenenti un numero finito qualsiasi di variabili, otteniamo la seguente formulazione: (45

VAT)

0) (AGO

Da)

d)tpuò inferire Y(a1, ..., dn),

CGI

dove “@(a1, ..., an)” e “V(a1, ..., an)” sono il risultato della sostituzione in “@(x1, ..., x) e in “W(1, ..., Xn)” delle variabili “x”, ..., e ‘“x,°, rispettivamente, con le costanti “41”, ..., € “Q,”.

(5) MaA(f>pA(429)> (19)? P): Bogio

ie

3

4

o

=

x

P

ò

147

=

-

«Questo [principio] è chiamato semplificazione,['°'] e asserisce semplicemente che l’asserzione congiunta di due proposizioni implica l’asserzione della prima delle due».

(60) MaAanf2949A(425N>5 pr): «Questo [principio] si dirà sillogismo».!!*

7)

MPaNM(929A(Cr>NAp2(g42nN)>(fA9)27):

«Questo è il principio d’ importazione. [...] Questo principio afferma che se p implica che g implica r, allora r segue dall’ asserzione congiunta di p e q».

(8) M(A)M(f>3p)A(429)> ((fA)29NI5Pp25(G27”))): «Questo [principio] è il converso del principio precedente, ed è chiamato esportazione».

0)

MIAn(f399)Ap>3N>5WwFP2(dA")):

«in altre parole, una proposizione che implica ciascuna di due proposizioni le implica entrambe. Questo è chiamato principio di composizione».

(10) (AP °

>p)A (429) > ((f29)2pap):

à

REC

CA

;

1513.

L-

ò

z

°

LQ

a

7

;

Questo è chiamato principio di riduzione[ * |; ha meno autoevidenza dei principi precedenti, ma è equivalente a molte proposizioni che sono autoevidenti. [...] non possiamo dimostrare senza riduzione o qualche equivalente (almeno per quanto sono stato in grado di scoprire) che po non-p dev'essere vera (la legge del medio escluso); che ogni proposizione è equivalente alla negazione di qualche altra proposizione; che non-non-p implica p; che “non-q implica non-p” implica “p implica 9”; che “non-p implica p” implica p, 0 che “p implica q” implica “q 0 non-p”. Ciascuna di queste assunzioni è equivalente al principio di riduzione, e possono, se va gliamo, essere sostituite ad esso. Alcuni di essi — specialmente il medio escluso e la doppia negazione — sembrano avere di gran lunga più autoevidenza. Ma [...] a scopi formali [...], la riduzione è più semplice di una qualsiasi delle possibili alternative.

Di

Veniamo al calcolo delle classi dei Principles. Riguardo alle classi, Russell scrive:

14° Russell [1903a], $ 38, p. 34. » Il nome si deve a Peano (v., per es., Peano [1901a], $ 1, #3, p.9, e *3.6 (/), p. 10) 8 . . ce_° È 5° È Rae) . . i “sillogismo” principio si trova in Peano *3 p. 9,p.9,e 1a], $$1,1, 43, +3.1, p.p.9). va (v., per es., Peano [1901a], SIDEper questoIPER e *3.1, 9). Peirce , già 19 Log , Sui ce Questo È liDESIO del Hlogiano in Barbara» (Peirce [1885], $ II, pp. 188 (“terza icona”: third icon)). w e denominazioni “Importazione” e “esportazione” sono di Peano (v., per es., Peano [1901a], $ 1, +3, p.9, e *3.3 e *34 p. 10) SALI pa La denominazione è ancora dovuta a Peano (v., per es., Peano [1901a], $ 1, +3, p.9, e *3.2 p. 10) ; ; ate [0 asia [1948], — datagli daa Jan Lukasiewic; z (v. Lukasiewicz °. Il principio è oggi noto con la denominazione Jan Lukas $$ 1, p. 296) — di legge di Peirce

tr denominazione Ù erri

perché fu enunciato per la prima volta da Charles Sanders Peirce, in Peirce [1885], $ II, pp. 189-190 (or icona”: fifth na e citato, È Peirce osserva che la legge «è richiesta per il principio es TÀ ad esso c Si £ pio delde medioIO escluso e altre proposizioni PAESE “irc oni ad esso connesse» (Peirce [1885], $ II, ProF 3 p. 189).

I Principles of Mathematics

SNO

I valori di x che rendono vera la funzione proposizionale «x sono come le radici di un’equazione — infatti queste ultime sono un caso particolare di quelli — e noi possiamo considerare tutti quei valori di x i quali sono tali che gx è vera. In generale, questi valori (0rmano una classe, e di fatto una classe può essere definita come tutti i termini che soddisfano qualche funzione proposizionaIla

Qui Russell sembra voler avanzare, come definizione di “classe”, un assioma di comprensione, ma, consapevole

del paradosso della classe di tutte le classi che non sono elementi di se stesse, egli evita di asserire che ogni enunciato aperto “@x” determina una classe — la classe di tutti gli x per cui che soddisfano “@xX° — e aggiunge: C'è, tuttavia, qualche limitazione richiesta in quest’asserzione [che le funzioni determinano classi], sebbene non sia stato in grado

di scoprire precisamente quale sia la limitazione. Questo risulta da una certa contraddizione [il paradosso di Russell] che discuterò

in una fase successiva (Cap. X).!53

Per il calcolo delle classi, nei Principles sono indicate due proposizioni primitive; definendo il simbolo “=” come doppia implicazione, e leggendo “Fp(@)” come ‘“@ è una funzione proposizionale”, esse possono trascriversi, in simboli:

(11) M(P)(FP(P)>D

E x AP) D PI);

(12) (P)(MW(Fp(p) A FP)

(M(Px= Ya) DIA(PY) =

AVI);

dove “3” si legge “tale/i che” e “x 3(9x)” si legge: “gli x tali che @x” o “la classe degli x tali che gx”. Questa era la simbologia per le classi che Russell usava all’epoca dei Principles," mutuata da Peano, il quale l’aveva introdotta nel 1898 (v. Peano [1897-99], N° 2, punto 13, p. o

(11) e (12) significano dunque, rispettivamente: «[Per

ogni x] se x appartiene alla classe di termini soddisfacenti una [qualsiasi] funzione proposizionale @x, allora @x è vera», e: «[Per ogni funzione proposizionale @ e ogni funzione proposizionale y, se @x e wx sono proposizioni equivalenti per tutti i valori di x, allora la classe degli x tali che @x è vera è identica alla classe degli x tali che wx è vera». !° Russell non lo specifica, ma in (11) e (12) bisogna supporre di assegnare un riferimento qualsiasi (che non sia una proposizione) alle istanze di “@x”, “wx”, “x 3(@9x)” e “x 3(vx)” (per esempio, la classe vuota) nel caso che @

e w non siano funzioni proposizionali, in modo che, sulla base dell’assioma (1), anche quando gli antecedenti di (11) e (12) sono proposizioni false, i loro conseguenti siano proposizioni. Se tralasciamo la peculiarità dovuta all’ipotesi che @ e w siano funzioni proposizionali, in (12) possiamo riconoscere l’assioma (Va) dei Grundgesetze di Frege," ? cioè la direzione destra-sinistra (innocua) dell’assioma (V)

dei Grundgesetze:

(V) N(A(EfE)=à(g0)= (Mr = 80). Nel sistema dei Grundgesetze, dall’assioma (V) e dalla definizione fregeana di “e”:

(A) xe y=a\è(-M0=éf) > (= 0),

158

152 Russell [1903a], $ 23, p. 20. Per un’assunzione analoga, si veda anche Russell [1903a], $ 77, p. 79.

153 Russell [1903a], $ 23, p. 20.

ni

bei

|

154 Nella seconda metà del 1903, Russell sostituirà al peaniano “x 3” il simbolo ispirato a Frege “ x”, che poi rimpiazzerà a sua volta, dal 9 5 1907, con la notazione dei Principia “ x”. 155 Il simbolo “5” è in realtà una stilizzazione — parallela a “e” per il peaniano “e” — della epsilon rovesciata utilizzata da Peano (e anche

da Russell, nei suoi primi scritti dopo il 1900). Peano considerava la relazione tale che come l’inversa della relazione di appartenenza, perché “x e” scritto davanti al nome di una classe dà un enunciato (aperto), mentre “x 3” scritto davanti a un enunciato (aperto) dà il nome di una classe, in modo tale che “x 3 (x € 2)” designa nuovamente la classe a. Prima del 1898, Peano costruiva i simboli di astrazione di classe di “* x£ ” (v. Peano usando “ xe ” al posto di “x 3” (v. Peano [1895a] e [ 1897-99], N° 1, del 1897), ancora prima adoperando “[x£]” al posto [1889]), e inizialmente adoperando “x :” (v. Peano [1888], “Operazioni della logica deduttiva”, $ 4, pp. 7-8).

156 Russell [1903a], $ 24, p. 20.

dI V. sopra, cap. 5, $ 3.

158 w sopra; cap. 5,,$ 1.

capitolo 6

380

è dimostrabile

PMxre è) =), che implica il conseguente della (11) ma anche (a differenza della (11) il paradosso di Russel l Nella (12) compare il simbolo di uguaglianza, che nei Principles è così definito: x=Y=g(0)(xe

159

a> ye d):

‘y appartiene a tutte le classi cui appartiene pro Veniamo infine agli assiomi del calcolo delle relazioni dei Principles. Russell osserva che non c’è bisogno di una nuova proposizione primitiva per definire le relazioni in estensione, a partire dalle relazioni in intensione, analoga a quella che definisce le classi a partire dalle funzioni proposizionali monadiche: Ma non c’è bisogno qui di una proposizione primitiva, come ce n’era bisogno nel calcolo delle classi, per ottenere una relazione che sia determinata quando è determinata l’estensione [ossia, quando è determinato quali siano le relazioni formalmente equivalenti a una relazione data]. Possiamo rimpiazzare una relazione R con la somma o il prodotto logico della classe di relazioni equivalenti a R, ossia con l’asserzione di qualcuna o di tutte queste relazioni; e questo è identico alla somma o al prodotto logico della classe di relazioni equivalenti a R', se R'è equivalente a RIS

Naturalmente questo procedimento — come osserva nel seguito Russell — non si sarebbe potuto applicare per ottenere le classi dalle funzioni proposizionali senza involgere un circolo vizioso. Per il calcolo delle relazioni, nei Principles si assumono otto assiomi. Il primo è spiegato così: «Se R è una relazione, esprimiamo con xRy la funzione proposizionale “x ha la relazione R con y”. Abbiamo bisogno di una proposizione primitiva (ossia indimostrabile) per avere che xRy sia una proposizione per tutti i valori di R».! In simboli, abbiamo dunque:

(13) (R)(Rel(R) > (M0)(xRy > xRy)), dove “Rel” è un termine primitivo. Analogamente a quanto accadeva per gli assiomi (11) e (12), anche qui, e in tutti i successivi assiomi del calcolo relazionale dei Principles, si deve assumere che a un’espressione di forma “aRb” sia assegnato un riferimento arbitrario (che non sia una proposizione) in tutti i casi in cui R non è una relazione, in modo da assicurare che il conseguente del condizionale principale sia sempre una proposizione (anche se falsa), e l'assioma resti vero anche per i valori di “R°° che non sono relazioni. Il secondo assioma asserisce che «ogni relazione ha una conversa, ossia che, se R è una qualsiasi relazione, c’è una relazione R' tale che xRy è equivalente a yR% per tutti i valori di x e y».! In simboli:

(14) (R)(Rel(R) > (AR) (Rel(R') A (AM) ARy = yR)). In (14) abbiamo usato il simbolo “9” come un operatore che vincola variabili. In realtà, all’epoca dei Principles, Russell usava “9” secondo l’uso di Peano, cioè come un predicato applicabile a nomi di classi, asserente che la classe nominata non è vuota. Nel capitolo 2 dei Principles — in cui sono elencate tutte le nozioni. proposizioni primitive e definizioni che riportiamo in questo paragrafo — Russell enuncia la seguente definizione: «a è una classe esistente [existent!®] quando e solo quando qualsiasi proposizione è vera ammesso che “x è un a” la impli-

chi sempre qualunque valore possiamo dare a x».'® La definizione si può rendere simbolicamente come segue:

159 V. sopra, cap. 5, $ 2.

100 ‘©! 02 '63

V_ Russell [1903a], $ 24, p. 20. Russell [1903a], $ 28, p. 24. V_ ibid. V_ Russell [1903a], $ 28, p. 25.

64 Si osservi che, nei Principles, “esistere” è anche il modo di “essere” delle entità concrete.

!°5 Russell [1903a], $ 25, p. 21.

I Principles of Mathematics

381

da=x P)(f>P)3(MKe app). Data la definizione di negazione dei Principles, si ha che la precedente definizione equivale a: da=sa-@M-(e

a):

formula che asserisce che “4a” significa che a è una classe non vuota. Secondo questa definizione, l’assioma (14) si può anche trascrivere così:

(14) (R)(Rel(R) > (A(R'A(Rel(R) A (M)M(xRy=yR%)): “Se R è una relazione, allora la classe delle relazioni R', che valgono tra un y e un x qualsiasi se e solo se vale xRy, non è vuota”. Dopo i Principles, dal febbraio o marzo del 1903, Russell userà “9” come operatore vincolante la o le variabili che lo seguono (l’usuale quantificatore esistenziale),!°° ma non abbandonerà il precedente uso di “4” come predicato, affidandosi al contesto per la disambiguazione. Così, in un manoscritto dei primi mesi del 1903, che rappresenta una prima stesura della parte fondazionale di quel progettato secondo volume dei Principles, che in seguito si sarebbe trasformato nei Principia Mathematica, Russell pone la definizione:

dale)

id) DI x

Nella già citata lettera a Frege del 24 maggio 1903, il simbolo “9” è trattato come un operatore vincolante variabili; la definizione, data da Russell in simboli è:198

(1) PAR) =D - PO). x

Ma in una lettera a Couturat datata 6 marzo 1904, “9” è applicato a nomi di classi; Russell fornisce, infatti, questa definizione simbolica: '°

dalai iano

prop

por DE

osservando che essa è equivalente a: das.)

.x-e-4}

_D£.

Più tardi, nei Principia, i significati saranno distinti anche simbolicamente: “4” sarà adoperato come operatore nel quantificatore esistenziale; il simbolo “4 !’’, invece, sarà applicato a simboli di classe, secondo la definizione: d!la=4a (Ave

AI

identica a quella del 1903, tranne che per l’introduzione di “9!” al posto di “4”. Ma torniamo al calcolo delle relazioni, così com’è spiegato nel capitolo 2 dei Principles. Il terzo assioma del calcolo delle relazioni è:

(15) MMAI(MARyDxRy)D>Dx=x Ay=y): 166 [uso sembra essere stato introdotto da Whitehead in alcuni manoscritti della fine del 1902 o inizio del 1903 (v. l'introduzione di A. Urquhart a Russell [1994a], $ I, p. xvii).

!67 V. Russell, [1903c], *14.3, p. 16. 168 V_ in Frege [1976], p. 241. 169 V_ in Russell [2001a], pp. 363-364.

DI

ae,

li

170 V. [PM], vol. I, *24.03, p. 216. Nei Principia si devono distinguere: il simbolo “4” seguito da una variabile, che indica il quantificatore (v. sotto, cap. 7, esistenziale; il simbolo “E!” applicato a un simbolo di descrizione definita, per Indicare che l’entità descritta c’è ed è unica $ 3.2); il simbolo “4!” applicato a un simbolo di classe, per indicare che la classe non è vuota.

capitolo 6

382

«Per ogni x, x‘, y e y, se xRy implica x'Ry', qualunque sia R, purché R sia una relazione, allora x e x‘, y e y' sono rispettivamente identici».!”! In altre parole: “Se tra coppie di termini sussistono tutte le stesse relazioni, allora le coppie sono identiche”; oppure “Se due coppie di termini non sono identiche, c’è almeno una relazione che le distingue”. In rapporto a quest’assioma, Russell nota un problema: Ma questo principio introduce una difficoltà logica dalla quale siamo stati finora esenti, cioè una variabile con un campo [field] ristretto; perché a meno che R non sia una relazione, xRy non è affatto una proposizione, vera o falsa, e quindi R, sembrerebbe, non

può assumere rutti i valori, ma solo quelli che sono relazioni.!??

Se, nella (15), si considera “R” come variabile non ristretta, per tutti i valori di “R° che non sono relazioni, un simbolo della forma “aRb” non esprime una proposizione. Assegnando però a un simbolo di forma “aRb” un riferimento arbitrario (che non sia una proposizione) per i valori di “R’ che non sono relazioni, per i medesimi valori “aRb> cRd’ esprimerà una proposizione (per l’assioma (1)); ma sarà una proposizione falsa; quindi l’antecedente principale della (15) non sarebbe mai vera per tutti gli R. Il semplice espediente di far precedere all’intero enunciato della (15) la condizione che R sia una relazione non si può ora usare, perché richiederebbe un cambiamento di ambito del quantificatore universale su “R° che darebbe luogo a:

(15%) MMx)0N(R)(Re/(R) > (Ry>xRy)p>Dx=x Ay=y)), che non solo non asserisce la stessa cosa di (15), ma afferma la proposizione falsa: “Ogni relazione è tale che, la sua contemporanea sussistenza, o non sussistenza, per coppie di termini, implica l’identità delle coppie stesse”. Nel capitolo 2 dei Principles, Russell rinvia la discussione del problema a una parte successiva; lo riprende solo nel capitolo 7 ($ 83) osservando che, nel caso in cui si abbia un enunciato aperto della forma “aRb implica @(R), supposto che R sia una relazione”, dove “R” sia una variabile ristretta, si può trasformarlo in un enunciato della

forma seguente:

(i) (R)((Rel(R) > aRb) > (Y(R) > P(R))), dove: (a) “R” è una variabile non ristretta; (b) ad “aRb” è assegnato un riferimento arbitrario (che non sia una proposizione), nel caso che R non sia una relazione; (c) “W(—)” è la condizione (dipendente dall’essere R una re-

lazione) che R deve soddisfare perché “@(R)” sia un enunciato significante. Nel caso, più semplice, in cui “@(R)” sia significante per qualsiasi valore attribuito a “R”°, Russell propone la lettura:

(ii) (R)((Re/(R) > aRb) > (R)), dove (a) “R” è sempre una variabile non ristretta; (b) ad “aRb” è sempre assegnata un’indicazione arbitraria (che non sia una proposizione), nel caso che R non sia una relazione. Riguardo all’antecedente di (i) e (11), Russell os-

serva: [...] l’implicazione materiale “*R è una relazione’ implica aRb”, [...] è sempre una proposizione, mentre aRb è una proposizione solo quando R è una relazione. La nuova funzione proposizionale sarà vera solo quando R è una relazione che effettivamente sussi-

ste tra a e 5; quando R non è una relazione, l’antecedente è falsa e la conseguente non è una proposizione, cosicché l’implicazione è

falsa; quando

R è una

relazione

che

non

sussiste

tra a e b, l’antecedente

l’implicazione è falsa; solo quando sono entrambe vere è vera l’implicazione.'”*

è vera

e la conseguente

falsa, cosicché

ancora

«

Il problema appena esaminato costituisce un caso particolare del problema generale di estendere la dottrina della variabile non ristretta dai casi in cui la variabile compare in posizioni che corrispondono a fermini della proposizione a1 casi in cui essa compare in posizioni che non corrispondono a termini della proposizione. Spiega Russell: i i

!7! Russell [1903a], $ 28, p. 25.

17? Ibid. 19Bt08

a

.

RT

ne

SA

o Si rammenti che, secondo i Principles, p > q è falso per tutti i valori di “p” e “q’” che non sono proposizioni. Russell [1903a], $ 83, p. 87.

I Principles of Mathematics

383

Verbi e aggettivi che compaiono come tali [in una proposizione, cioè, che non sono termini di quella proposizione: es. umano] si distinguono [da quelli che, invece, compaiono come termini di una proposizione: es. umanità] per il fatto che, se essi sono presi come variabili, la funzione risultante è una proposizione solo per alcuni valori della variabile, ossia per quelli che sono rispettivamente verbi o aggettivi.!”5

Per salvaguardare la dottrina della variabile non ristretta, il problema è dunque quello di trasformare una funzione proposizionale che contiene una variabile ristretta in una funzione proposizionale contenente la stessa variabile non ristretta, la quale esprima, cioè, una proposizione per qualsiasi valore attribuito alla variabile e, inoltre, una proposizione vera solo per i valori che rendono vera la funzione di partenza. La soluzione proposta da Russell nei Principles è di sostituire a una funzione proposizionale della forma “x” che esprima una proposizione, vera 0 falsa, solo per alcuni valori di “x” — cioè in cui “x” sia una variabile ristretta — la funzione proposizionale seguente:

(iii) (9x2 90 > px, dove “x” sia una variabile, invece, non ristretta.!”° Si può verificare facilmente che, supposto — come suppone Russell — di assegnare a “@x” un riferimento arbitrario (che non sia una proposizione) per i valori di “x” per cui ‘“@X” non esprime una proposizione, la (iii) (con “x” variabile non ristretta) esprime sempre una proposizione, vera solo per le medesime sostituzioni che rendono vera @x con “x” variabile ristretta.” «In alcuni casi — aggiunge Russell — “@x > @x” sarà equivalente a qualche funzione proposizionale più semplice wx (come “R è una relazione” nell’esempio precedente)».!? Con queste prescrizioni, (15) diverrebbe:

(15) MO)AIOR((ARy > xRy) > xRy) D (x Ry' Dx Ry)>DxRy)>Dx=x'Ay=y), oppure, poiché (xRy > xRy) = Rel(R), più semplicemente: (155)

MAYR) ((Rel(R) > xRy) > (Rel(R) DxRy))Dx=x'Ay=y)

e, considerato che ((Rel(R) > xRy) > (Rel(R)>xRy)) è vera, quando R è una relazione solo se xRy è falsa oppure x'Ry' è vera, e che, quando R non è una relazione, è sempre vera, la (15') equivale a:

(15”) MM AIYI(R)(Rel(R) > (aRy > x Ry)>Dx=x'A1y=y). Gli altri assiomi del calcolo delle relazioni dei Principles sono: (16)

(R)(Re/(R) > Rel(-R)): x

5

-

rd

è:

«la negazione di una relazione è una relazione»;

.179

175 Russell [1903a], $ 22, p. 20, nota. 176 V. Russell [1903a], $ 83, p. 87.

v

maia

sue Dal 177 Infatti, se in (iii) si assegna al simbolo “gx” una denotazione qualsiasi (che non sia una proposizione) per i valori di “x a Ion ° no “x” un enunciato, per questi stessi valori la (iii) diviene falsa (perché asserisce che una proposizione dI antico I

ancora una proposizione); per i valori di “x° che rendono falsa px, la prima implicazione della (iii) diventa vera e la seconda falsa e quindi, una volta, la (iii) diviene falsa. Infine, se @x è vera, la (iii) risulterà vera. Q.E.D.

178 Russell [1903a], $ 83, p. 87. 179 Russell [1903a], $ 29, p. 25.

capitolo 6

384

(17) (K)((Class(K) A (R)(R e K > Rel(R))) > (ES)

(Y)(Rel(S) A (xSy= (R)(R e KD5xRy)))):

.180 " ; } 3 DI; ; ? È A «il prodotto logico di una classe di relazioni (ossia la loro asserzione simultanea) è una relazione»;

(18) (R)(S)(Rel(R) A Rel(S) > (7) (Rel (1) A @)(sTy = (32) (eRz A 25)))). 5

.

.

.

È

5

«il prodotto relativo di due relazioni dev’essere una relazione»; (19)

181

è unarelazione:

“L’implicazione materiale è una relazione”; (20)

e è una relazione:

“L'appartenenza a una classe è una relazione”. Questi sono gli assiomi dei Principles.'# Da essi, e dalle nozioni primitive menzionate, Russell afferma che «possiamo [...] sviluppare l’intera matematica senza ulteriori assunzioni o indefinibili». hi Siamo ora nella posizione migliore per esaminare il significato della definizione con cui si aprono i Principles: La matematica è la classe di tutte le proposizioni della forma “p implica 9g”, dove p e q sono proposizioni contenenti una o più variabili, le stesse nelle due proposizioni, e né p né q contengono nessuna costante eccetto le costanti logiche. vil

Qualche paragrafo dopo, Russell ribadisce il punto: La tipica proposizione della matematica è della forma “@(x, y, z, ...) implica Y(x, y, z, ...), qualsiasi valori possano avere x, y, 2, ..”; dove @(x, y, z, ...) € Y(x, y, z, ...), per ogni insieme di valori di x, y, z, ..., SONO proposizioni. '*°

In un saggio pubblicato nel 1967 dal titolo ‘The thesis that mathematics is logic”, Hilary Putnam scrive: Prima di sposare il Logicismo, Russell difese una concezione della matematica che egli espresse in modo un po’ fuorviante con la formula che la matematica consiste di asserzioni “se-allora”. Ciò che intendeva non era, naturalmente, che tutte le formule ben formate in matematica hanno un ferro di cavallo come connettivo principale! ma che il compito dei matematici è di mostrare che se esiste una struttura che soddisfa tali e tali assiomi (p. es. gli assiomi della teoria dei gruppi), allora questa struttura soddisfa tali e tali altre asserzioni (alcuni teoremi della teoria dei gruppi o altro).

Putnam, nel suo articolo, difende una forma di questa tesi, che egli battezza — con un nome che oggi si è diffuso — “se-allorismo” (if-thenism”). Nell’attribuire questa tesi al Russell dei Principles, è evidente che Putnam si riferisce proprio alla definizione dei Principles citata sopra. J. Alberto Coffa, in un articolo del 1981 intitolato “Russell and Kant”,!*” sostiene che vi sono due ragioni prin-

cipali per cui Russell adottò questa definizione. La prima è connessa con la generalità che, secondo Russell, dev'essere propria delle proposizioni matematiche:

150 Ibid. 15! Ibid. Ricordiamo che il prodotto relativo di due relazioni R e S — in simboli “R |S — è quella relazione che vale tra x e y se e solo se c’è uno z tale che x è nella relazione R con z e z è nella relazione S con y; cioè, in simboli: xR |Sy= (32) (xRz A zSy). 182 Nel resoconto informale fornito da Hao Wang degli assiomi dei Principles in Wang [1974], cap. 3, nota2, p. 129, il nostro assioma (14) non è menzionato e il (15) è distorto nell’asserzione che «tra due termini qualsiasi c'è una relazione che non sussiste tra altri due termini qualsiasi» — un’asserzione che certamente implica (15), ma non ne è implicata.

183 154 185 156 157

Russell [1903a], $ 30, 3 26. Russell [1903a],$ 1, p Russell [1903a], $ 6, p 5 Putnam [1967], $ 3 V. Coffa [19811].

I Principles of Mathematics

385

A una vera proposizione matematica, egli pensava, si deve dare il massimo grado di generalità di cui è suscettibile. È cattiva matematica, per esempio, dimostrare un teorema per questo o quel gruppo quando esso è vero di tutti i gruppi. Come si può ottenere questo desideratum? Sia P una proposizione vera a proposito di qualche oggetto matematico specifico. Poiché il veicolo logico della generalità è la variabile, il primo tentativo ovvio di generalizzazione di P è smaterializzarla rimpiazzando ogni termine-materia o parola non logica (cioè, ogni termine suscettibile di più di una interpretazione) con una variabile. La funzione proposizionale P* che otteniamo come risultato di questo processo, è, pensava Russell, quasi inevitabilmente troppo generale per gli scopi della matematica. La ragione per cui lo pensava era duplice: (i) Russell credeva che la variabile, propriamente detta, non possa avere il suo dominio ristretto in nessun modo (v., per es., 1903, pp. 6-7, 91 [Russell [1903a], $ 7, pp. 6-7, e $ 88, p. 91] [...] e (ii) egli non conosceva nessuna funzione proposizionale che fosse universalmente valida (v., per es. 1903, p. 20 [Russell [1903a], $ 22, p. 20]).

P dice troppo poco, ma P* dice troppo. Ciò di cui si ha bisogno è un metodo di spuntare l'eccessiva generalità di P; un metodo, cioè, in grado di restringere l’ampiezza dell’affermazione di P* senza alterare l’ambito delle sue variabili. L’idea di Russell fu: cerca un’altra funzione proposizionale A valida precisamente (o al massimo) quando è valida P*, e asserisci A > P*. Come risultato [...] Russell ottiene la proposizione più generale associata con la specifica asserzione P, e che è adatta all’inclusione nella matematica. Un sottoprodotto è la concezione condizionale della matematica pura di Russell.!83

La seconda ragione per cui Russell adottò la definizione di “matematica pura” dei Principles — secondo Coffa — «era più profonda e più durevole della precedente»,'° ed è connessa con la volontà russelliana di includere anche la geometria, e non solo l’aritmetica, tra le estensioni della logica: Questa seconda motivazione era connessa con il suo desiderio di risolvere il problema di come sistemare le varie geometrie, apparentemente in conflitto, entro il corpo della matematica. La soluzione di Russell fu considerare ciascuna geometria come asserente

non i suoi teoremi ma le implicazioni dai suoi assiomi a ciascun teorema. In uno spirito simile la teoria dei gruppi, la topologia, la teoria della misurazione e la maggior parte delle teorie matematiche (ma non l’aritmetica) sono naturalmente considerate come asserenti implicazioni (formali) della forma A > 7, dove 7 è un teorema della disciplina corrispondente e A la congiunzione degli assiomi appropriati. Il “Se-allorismo”, come Putnam ha designato quest’aspetto della dottrina di Russell, [...], è una generalizzazione della concezione della geometria di Russell all’intera matematica.!?

Coffa chiama “logicismo condizionale” (conditional logicism) la tesi secondo cui la logica è sufficiente a trarre dalle premesse degli argomenti del matematico tutte le conseguenze che egli è autorizzato a trarre. Il “Se-allorismo” aveva definito l’attività del matematico come (approssimativamente) inferenza, il logicismo condizionale asserisce ora che la logica è sufficiente per svolgere questo compito.!°'

Di seguito, Coffa osserva che, naturalmente, non c’è contraddizione tra il logicismo condizionale e quello standard, e che Russell sostenne il logicismo in entrambe le forme: Nella prima filosofia di Russell [...] queste due dottrine giocarono ruoli complementari: parlando all’ingrosso, quelle teorie matematiche per cui non sembrava esserci alternativa (cioè, l’aritmetica) dovevano essere ridotte a logica nel senso standard; quelle per cui c'erano alternative ugualmente legittime (per es., la geometria) dovevano essere ridotte a logica solo nel senso condizionale.

Nei Principles è ben visibile la differenza di trattamento rilevata da Coffa tra geometria e aritmetica. Nello stesso primo capitolo in cui la matematica è definita come «la classe di tutte le proposizioni della forma “p implica g’» ecc., per esempio, si legge: Le reali proposizioni di Euclide [...] non seguono dai soli principi della logica [...]. Ma dallo sviluppo della geometria non euclidea, è risultato che la matematica pura non ha nulla a che vedere con la questione se gli assiomi € le proposizioni di Euclide valgano O) no nello spazio reale: questa è una questione per la matematica applicata, da decidersi, per quanto una decisione sia possibile, con l’esperimento e l’osservazione. Ciò che la matematica pura asserisce è semplicemente che le proposizioni euclidee seguono dagli assiomi euclidei — ossia essa asserisce un’implicazione: qualsiasi spazio che abbia tali e tali proprietà ha anche tali e tali altre proprietà. Così, trattate sotto l'aspetto della matematica pura, le geometrie euclidea e non euclidee sono egualmente vere: in esse non si afferma nulla se non implicazioni.'?*

188 Coffa [1981], p. 250. 189 Coffa [1981], p. 251.

90 Ibid. 1°! Ibid.

Musile

in

il logicismo in entrambe !92 Coffa [1981], pp. 251-252. Prima di Coffa, anche Alan Musgrave (l 1977], $ 4), argomentò che Russell sosteva Coffa. di quello in citato però è non Musgrave di L'articolo le forme.

193 Russell [1903a], $ 5, p. 5.

capitolo 6

386

Ma riguardo all’aritmetica, nei Principles le cose stanno diversamente: la motivazione di Russell per attribuire alle proposizioni aritmetiche una forma condizionale non risiede in una concezione se-allorista, ma nella necessità di porre delle restrizioni sulle entità che possono essere prese come valori delle variabili che figurano in un enunciato generale: È consuetudine in matematica considerare le nostre variabili come ristrette a certe classi: in Aritmetica, per esempio, sono supposte stare per numeri. Ma questo significa solo che se esse stanno per numeri, esse soddisfano qualche formula, ossia l’ipotesi che esse siano numeri implica la formula. Questo, allora, è ciò che realmente si asserisce, e in questa proposizione non è più necessario che le nostre variabili debbano essere numeri: l’implicazione sussiste ugualmente quando non lo sono. Così, per esempio, la proposisussiste ugualmente se a x e y sostituiamo Socrate e Platone:!?* sia l’ipotesi sia il conseguente, in questo caso, saranno falsi, ma l’implicazione sarà ancora vera. Così in ogni proposizione della mate-

zione “x e y sono numeri implica (x+ p= X4+ 2g + y

matica pura, se pienamente formulata, le variabili hanno un campo [field] assolutamente non ristretto [.. hi

In generale, la forma condizionale delle proposizioni matematiche non è richiesta perché il Russell dei Principles sostenga il se-allorismo — come ritiene Putnam —, ma perché Russell sostiene una teoria logico-matematica che prevede solo l’uso di variabili assolutamente non ristrette. Secondo una tesi che Russell mutua dal pensiero filosofico tradizionale, le proposizioni della logica — e quindi, per la tesi logicista, della matematica pura — devono essere massimamente generali: cioè non devono valere solo in un dominio ristretto di entità, ma per qualsiasi entità. Ciò implica, per Russell, che gli enunciati logici e matematici debbano contenere solo costanti logiche e variabili, e che queste ultime debbano avere nel loro dominio di variazione tutte le entità — cosa che significa, nel

contesto dei Principles, non solo particolari, ma anche classi, qualità, relazioni in intensione e proposizioni. Poiché, in generale, occorre limitare l’ambito dei valori delle variabili per i quali un enunciato aperto si asserisce come vero, e il dominio delle variabili dei Principles è assolutamente non ristretto, si rende necessario premettere

all’enunciato una condizione restrittiva, e asserire finalmente l’implicazione per tutti i valori delle variabili. È un punto, questo, che a mio parere ha visto bene Nicholas Griffin, nel suo articolo “Russell, logicism, and ‘ifCELA

thenism?””:

La vera ragione per cui Russell insiste sulla forma condizionale delle proposizioni della matematica pura è, agli occhi moderni, molto più strana di quella che Coffa gli attribuisce. Essa ha a che fare con le variabili non ristrette che Russell usò nei Principles. [...] Russell non aveva che uno stile di variabile nei Principles ed esso variava sui termini. Particolari, relazioni, proprietà [...] e proposizioni erano tutti termini e tutti potevano essere usati per istanziare variabili.'°°

Russell cercò di catturare la generalità della logica consentendo a un solo stile di variabile di variare senza restrizioni sui termini. [...] Per Russell una formula era necessaria quando dava luogo a una proposizione vera per ogni valore delle sue variabili. La necessità delle formule della logica era stabilita in virtù della generalità delle formule. Con il logicismo questa necessità si sarebbe trasferita alle formule della matematica pura.'’” [...] la forma condizionale sulla quale Russell insistette per le proposizioni della matematica pura è direttamente connessa al fatto che egli aveva un solo stile di variabile nei Principles. [...] La variabile non ristretta soffre di quello che potremmo chiamare “eccesso di generalità”. [...] La risposta al problema dell’eccesso di generalità risiede nella condizionalizzazione.!**

Il “se-allorismo” dei Principles è dunque limitato alla geometria, dove la forma implicazionale garantisce la

possibilità di geometrie diverse da quella euclidea, e non è esteso all’intera matematica. Se in seguito Russell ab-

bandonerà la definizione della matematica proposta nei Principles, non è perché abbia abbandonato il seallorismo — egli lo conserverà sempre in geometria," e non lo sostenne mai in aritmetica —. ma perché egli adotterà teorie logiche — la teoria sostituzionale prima, e quella dei tipi poi — che, come vedremo a suo tempo, gli permetteranno di superare diversamente il problema delle variabili non ristrette. : «La logica», scrive Russell nei Principles, «consiste delle premesse della matematica, insieme con tutte le altre

proposizioni che riguardano esclusivamente costanti logiche e variabili ma non soddisfano la precedente defini-

zione di matematica». Russell osserva che il risultato delle definizioni di “logica” e “matematica” dei Principles

194 È necessario supporre definite l’addizione e moltiplicazione aritmetiche (come si può fare facilmente) cosicché I a precedente formula

resti significante quando x e y non sono numeri. [Nota di Russell.]

!°5 ‘°° '°? !°5

Russell Griffin Griffin Griffin

[1903a], $ 7, pp. 6-7. [2000], p. 123. [2000], p. 124. [2000], pp. 125-126.

199 V. sopra, cap. 3, $ 13.2.

200 Russell [1903a], $ 10, p. 9.

I Principles of Mathematics

387

è che tra le proposizioni logiche ve ne sono alcune — come la proposizione espressa da “L’implicazione è una relazione” (v. sopra, assioma (19)) — che, non avendo forma implicazionale, appartengono solo alla logica, mentre altre, come la proposizione espressa dal principio del sillogismo: «se p implica q e q implica r, allora p implica r°» (v. sopra, assioma (6)), appartengono anche alla matematica.?” Ma in realtà, spiega Russell, il confine così tracciato fra la matematica e la logica è un puro omaggio alla tradizione: Se non fosse per il desiderio di aderire all’uso, potremmo identificare matematica e logica e definire entrambe come la classe delle proposizioni contenenti solo variabili e costanti logiche; ma il rispetto per la tradizione mi conduce piuttosto ad aderire alla precedente distinzione, pur riconoscendo che certe proposizioni appartengono a entrambe le scienze.”

La tesi fondamentale dei Principles è la sostanziale identità tra matematica pura e logica.

4.I CONCETTI DENOTANTI E LA QUANTIFICAZIONE Nei Principles, Russell usa la parola “denotare” (to denote) e derivati in un particolare senso tecnico secondo il quale non sono /e parole a denotare, ma un particolare genere di concetti (ossia d’entità extralinguistiche) da esse indicati, i concetti denotanti (denoting concepts). La nozione di “concetto denotante” è ricavata, nei Principles, dalla nozione di concetto-classe, che Russell

spiega così: «La caratteristica di un concetto-classe [...] è che “x è un w” risulta una funzione proposizionale quando, e solo quando, v è un concetto-classe».?°* Un concetto-classe è dunque l’indicazione di nomi comuni come “uomo” e “cane”, o di espressioni nominali, come “uomo che vive a Parigi” e “cane da guardia”. Sulla natura dei concetti-classe, Russell non si sofferma, ipotizzando tuttavia che i concetti-classe siano la stessa cosa, o quasi,

di quelli che chiama “predicati”, cioè degli attributi monadici che costituiscono l’indicazione di aggettivi come “umano”,

da

‘06.

“mortale”, »3

CC

“canino”, ecc.):

Il concetto-classe differisce poco, se differisce, dal predicato [....].?° E

=

2

O

z

&

Chiamerò umano un predicato, e uomo un concetto-classe, sebbene la distinzione sia forse solo verbale.

206

Il concetto-classe uomo, [...] differisce impercettibilmente, se pure differisce, da umano Perse

Così, per esempio, crate è un uomo”, no”».?* Ho scritto uomo” può essere

la proposizione espressa da “Socrate è un uomo”, in una delle interpretazioni possibili di “Sosecondo Russell è «quasi, se non del tutto, identica a [quella espressa da] “Socrate è uma“in una delle interpretazioni possibili” perché, secondo i Principles, l’enunciato “Socrate è un

interpretato in due modi distinti: come “Socrate è-un uomo” o come “Socrate è un-uomo”;°” in

altre parole, considerando l’articolo “un” tutt’ uno con la copula, o tutt'uno con il predicato. Secondo Russell, nel-

la prima interpretazione l’enunciato esprimerebbe una relazione di Socrate con il concetto-classe uomo; mentre nella seconda interpretazione esprimerebbe un'identità tra Socrate e ciò che è denotato (nel senso tecnico dei Principles) dal concetto denotante un uomo.

201 V. ibid. 202 Ibid. 2

.

Vac

203 Peter T. Geach ([1962], [1980], $ 38) ha osservato che la tesi secondo cui non sarebbero certe parole a denotare, ma il loro “significato — nell’accezione di “senso” — è un’assunzione che Russell condivide con la logica tardomedievale, sebbene i medievali concepissero i

“significati” come contenuti mentali, laddove per Russell essi sono entità extramentali oggettive (sull’argomento della significatio nel me-

dioevo, v. anche Aho e Yrj6nsuuri [2009], $ 3.4). Una concezione per certi versi simile fu sostenuta alla tine del XVII secolo da John

Locke, per il quale le parole (con alcune eccezioni, come le particelle logiche e i termini negativi) significano “idee”

— entità mentali _

libro (v. Locke [1690], libro terzo, cap. 2, $$ 1 e 2), che sono a loro volta concepite come segni di un linguaggio mentale (v. Locke [1690], DIESTO: cap. quarto, libro [1690], Locke (v. cose quarto, cap. 5, $$ 2, 3 e 5) che rappresentano

204 205 206 207

Russell Russell Russell Russell

[1903a], [1903a], [1903a], [1903a],

$ 58, $ 57, $ 58, $ 79,

p. 56. pp. 54-55. p. 56. p. 80.

208 Ibid. 209 V_ Russell [1903a], $ 57, p. 54, seconda nota, e $ 64, p. 64, seconda nota.

dre

; dia. "ER ‘cato. “è-un” esprime la stessa “ps relazione” dell’“è” delladella p predicazione. 210 Naturalmente, se il concetto-classe s’identifica col predicato, ‘“è-un” esprime la stessa “pseudorelazione” dell’“è”

capitolo 6

388

Un concetto denotante, secondo i Principles, è il significato (l'indicazione) di una parola per un concetto-classe preceduta da una delle sei parole: “tutti” (a//), “ogni” (every), “qualsiasi” (any), “uno” (a(n)), “qualche” (some),

sua (the).?!! Così, dal concetto-classe uomo (si badi, non la parola, ma il concetto che è l'indicazione della parola)

otteniamo i concetti denotanti: tutti gli uomini (all men), ogni uomo (every man), qualsiasi uomo (any man), un uomo (a man), qualche uomo (some man). Anche i concetti denotanti sono — secondo la prospettiva sostenuta nei Principles — costituenti delle proposizioni espresse da enunciati in cui compaiono espressioni come “un 4”, “tutti gli a” eccetera, dove a è una parola

che indica un concetto-classe. Tuttavia, osserva Russell, quando in una tante, la proposizione, in generale, non riguarda, non verte sul concetto proposizione espressa da “Ho incontrato Socrate”, oltre ad avere Socrate su di lui, ossia dice qualcosa riguardo a Socrate, la proposizione espressa

proposizione compare un concetto denodenotante stesso. Per esempio, mentre la fra i suoi costituenti, verte effettivamente da “Ho incontrato un uomo”, pur avendo

tra i suoi costituenti il concetto denotante un uomo, non verte su questo concetto, ma piuttosto dice qualcosa a

proposito di un uomo in carne e ossa: Se dico: “Ho incontrato un uomo”, la proposizione non verte su [is not about] un uomo: questo è un concetto che non cammina per le strade, ma vive nel vago limbo dei libri di logica. Quello che ho incontrato era una cosa, non un concetto, un uomo reale con un sarto e un conto in banca o un’osteria e una moglie ubriaca. Ancora, la proposizione “qualsiasi numero finito è pari o dispari” è evidentemente vera; eppure il concetto “qualsiasi numero finito” non è né pari né dispari. Solo i numeri particolari sono pari 0 dispari: non vi è, in aggiunta a questi, un’altra entità, qualsiasi numero, che sia pari o dispari, e se vi fosse, è evidente che non potrebbe essere pari né potrebbe essere dispari?

Un concetto denotante ha quindi la seguente proprietà: quando esso compare in una proposizione, la proposizione, di regola, non verte sul concetto stesso, ma piuttosto su qualcos’ altro, che il concetto denotante denota. Che cosa denotano dunque i concetti denotanti? Russell dice che i concetti denotanti denotano oggetti (objects)! Nel caso di i/ così e così, l’oggetto denotato è un termine, negli altri casi, un complesso di termini. Trascurando, per il momento, il caso di i/ così e così, ciò che costituisce la differenza tra un genere e un altro di concetto denotante non è, per Russell, né il tipo, né la quantità dei termini denotati, ma il modo in cui essi devono o

5

ò

intendersi combinati.’

SOTTANA

ò

ce

Si prenda, come esempio, la proposizione espressa da

d

È

Sa

“Ho incontrato qualche uomo”:

È del tutto certo, ed è implicato da questa proposizione, che quello che ho incontrato era un uomo perfettamente definito, non qualcosa d’ambiguo [...]. Ma l’uomo reale che ho incontrato non costituisce una parte della proposizione in questione, né è denotato in particolare da qualche uomo. Dunque l’evento concreto che è accaduto non è asserito nella proposizione. Ciò che è asserito è semplicemente che si è verificato qualcuno di una classe d’eventi concreti. L’intera razza umana è coinvolta [is involved] nella mia asserzione: se qualsiasi uomo, che è esistito o esisterà, non fosse esistito o non dovesse esistere, il senso [purport] della mia proposizione sarebbe stato diverso.?!°

La conclusione che ne trae Russell è che il concetto qualche uomo non denota Brown, o Smith, o un altro uomo particolare qualsiasi, ma piuttosto una combinazione (combination), un complesso (complex) formato da tutti gli uomini. Ciò che distingue questo complesso da altri complessi che possono essere formati da tutti gli uomini — per esempio, dalla classe di tutti gli uomini — è, secondo Russell, il particolare modo in cui i termini sono combinati tra loro a formare il complesso. Un complesso di termini denotato da un concetto denotante può anche essere infinito. Qui incontriamo un punto d’estrema importanza, perché in esso risiede la motivazione di Russell nell’assumere la sua teoria dei concetti de-

notanti (a parte i concetti denotanti della forma i/ così e così, che hanno una motivazione diversa, di cui parleremo nel prossimo paragrafo): { concetti denotanti permettono di trattare l’infinito attraverso proposizioni che contengano solo un numero finito di costituenti. Ecco come spiega il punto Russell: Si può infatti dire che lo scopo logico assolto dalla teoria del denotare è, di mettere proposizioni di complessità finita in grado di trattare con classi infinite di termini: quest’obiettivo è realizzato da tutti, qualsiasi,

e ogni, e se non fosse realizzato, ogni proposi-

zione generale su una classe infinita dovrebbe essere infinitamente complessa. Ora, per parte mia, non vedo nessun modo possibile

di decidere se siano o no possibili proposizioni di complessità infinita; ma questo almeno è chiaro, che tutte le proposizioni a noi

21! V. Russell [1903a], $ 58, p. 55. 212 Russell [1903a], $ 56, p. 53. È V. Russell [1903a], $ 58, p. 55. Per quanto segue, v. Russell [1903a], $$ 60 e 61. Si noti che i concetti denotanti si distinguono, per Russell, non perché denotano in $ 59)

modo differente, ma perché denotano (in modo identico) differenti combinazioni di termini (v. Russell [1903a],

215 Russell [1903a], $ 62, p. 62.

i

I Principles of Mathematics

389

note (e, sembrerebbe, tutte quelle che possiamo conoscere) siano di complessità finita. È solo ottenendo tali proposizioni vertenti [about] su classi infinite che siamo in grado di trattare con l’infinito; ed è un caso notevole e fortunato che questo metodo abbia successo.

Il problema, naturalmente, non si pone solo con le classi infinite, ma con tutte le classi di cui non conosciamo tutti gli elementi. Secondo Russell, per comprendere un enunciato dobbiamo comprendere il suo significato, che è una proposizione costituita dalle indicazioni delle espressioni contenute nell’enunciato. A Russell pare evidente che non possiamo comprendere una proposizione senza conoscerne i costituenti. Quindi, un enunciato vertente, per es., su ogni uomo che avesse come significato una proposizione avente tra i suoi costituenti tutti gli uomini ci sarebbe incomprensibile, perché di certo non conosciamo ogni uomo che esiste, è esistito, o esisterà. Ma se si suppone che un enunciato come, per es., “Ogni uomo è mortale” abbia come significato proposizione che non ha tra i suoi costituenti ogni uomo, ma solo il concetto denotante ogni uomo (il quale, a sua volta, denota ciò su cui la proposizione verte, cioè ogni uomo), il problema si dissolve, perché per comprendere la proposizione non dobbiamo più conoscere ogni singolo uomo esistente, ma ci basta conoscere il concetto denotante che è indicato da “ogni uomo” .?!? Si noti che la relazione tra un concetto denotante e la sua denotazione non ha, per Russell, nulla a che vedere

con circostanze linguistiche o psicologiche: non ha niente di arbitrario, è una relazione logica tra entità, la quale sussisterebbe anche se nessun uomo fosse mai esistito, o ne fosse mai stato consapevole.?!* Questo spiega l’ultima frase del brano sopra riportato: «ed è un caso notevole e fortunato che questo metodo abbia successo». Ovviamente, non si parlerebbe così di una relazione stabilita da noi: non è affatto, per esempio, un caso fortunato che la parola “Socrate” si riferisca a Socrate, perché la relazione tra i simboli e le entità per cui essi stanno è una relazione stabilita da noi. Il quadro che ci propongono i Principles si può dunque riassumere così: un’espressione per un concetto-classe, preceduta da una delle parole “tutti” (a//), “ogni” (every), “qualsiasi” (any), “uno” (a(n)), “qualche” (some), “il” (the), indica (per convenzione arbitraria) un’entità (quello che Russell chiama un “concetto denotante”) la quale, a sua volta, denota (in modo non arbitrario) un’entità (nell’ultimo caso) oppure (nei primi cinque casi) un complesso d’entità che non è, a sua volta una entità, ma una molteplicità.

Nei Principles, la relazione tra un’espressione e il corrispondente concetto denotante non è distinta in nessun modo da quella tra un nome e il suo portatore: si tratta di una relazione linguistica, e dunque arbitraria, la quale pone in relazione componenti di un enunciato con i componenti della corrispondente proposizione. E vero che una proposizione contenente un concetto denotante non è, di solito, a proposito del concetto stesso; ma ciò non dipende dalla relazione (arbitraria) d’indicazione, ma dalla relazione (logica) di denotazione. Anche se, subito dopo i Principles, Russell assimilerà i suoi concetti denotanti ai “sensi” di Frege (chiamandoli “significati’’), è evidente

che la relazione che, secondo Frege, una parola ha con il suo senso non è identica a quella che un nome ha con il suo portatore, e dunque è differente dalla relazione che, per Russell, un’espressione ha con il corrispondente concetto denotante. Secondo Russell, i complessi denotati dai concetti denotanti (diversi da quelli della forma il così e COSÌ) si di stinguono l’uno dall’altro solo per i/ modo in cui i loro componenti sono combinati. Quali sono, dunque, imodi di combinazione dei complessi denotati, rispettivamente, dai concetti denotanti tutti gli a, ogni a, qualsiasi a, una,

qualche a?!” ?° Per cominciare, secondo Russell, tutti gli a denota gli a tutti insieme, collettivamente, mentre 216 Russell [1903a], $ 141, p. 145. Rilievi simili si trovano in Russell [1903a], $ 72, p. 73, $ 106, p. 106, $ 330, pp. 349-350.

l

|

217 Si osservi che il problema non si pone nella semantica di Frege: egli concepiva infatti i quantificatori come parte dei simboli per concetti di secondo livello; così, per esempio, “Ogni uomo è mortale” sarebbe stato considerato come il nome del valore del concetto di secondo livello (x) (Dx > Py) per gli argomenti: uomo (6) e mortale (6). Non ci si trova di fronte al problema di proposizioni di complessità infinita, nella teoria di Frege, perché in essa non ci sono affatto proposizioni nel senso di Russell.

*

#53:

forzatura del linguaggio ordinario, fatta «per evitare circonlocuzioni», (Russell [1903a], $ 59, p. 56, nota), nel isti “tutti gli a” da “ogni a”, e “un a” da “qualche a”. € dasi sane (i903a], $$ 59.61, pp: 56-59. La palese somiglianza tra questa teoria dei In LADA della di sia si quelle e Russell di teoria la La confronto istruttivo un — 3 cap. [1980], [1962], Geach in rilevata è vali della suppositio che i

tra er

Sese trova, in particolare, nei $$ 44-54. Nel contesto qui pertinente, con il termine suppostitio ( supposizione ) i medievali > per es. Lo ri spie l con span non da pare quanto a — logicales Summulae delle (l’autore Ispano Bacone (1214/20-1292/4), Pietro

rebbe divenuto papa Giovanni XXI — vissuto circa nella prima metà sec. XI), Guglielmo di Sherwood da ta

Burley (n. 1275 ca, m. 1344/5), Guglielmo di Occam

(n. 1280/90, m.

1347/9), Giovanni

Buridano (n. 1290/300, m.

n, 56

ca),

a Si

aa

i

che compare 3 Sassonia (n. 1316 ca, m. 1390), Paolo da Pergola (m. 1455) —, indicavano il rapporto tra un sintagma fornito di SERIE

un enunciato e il suo referente. Per un quadro generale della teoria tardomedievale della suppostitio, si veda Spade [2002], cap. 8 e cap.

9,

390

capitolo 6

ogni a, pur denotando ancora tutti gli a, li denota separatamente. Cioè rutti gli a — che Russell chiama concetto della classe (concept of the class) a, da non confondere con il concetto-classe (class-concept) — denota a; e a € ... € @,, presi insieme: si tratta di quel tipo di combinazione che — dice Russell — è caratteristico delle classi e che egli chiama congiunzione numerica (numerical conjunction), perché è quel genere di combinazione di cui è corretto asserire un numero. Russell dice invece che ogni a denota a; e denota a, e ... e denota ay: egli chiama questo tipo di combinazione congiunzione proposizionale (propositional conjunction) perché la proposizione in cui compare ogni a è equivalente — sebbene, avverte Russell, non sia identica — a una congiunzione di proposizioni. Per Russell, “f(ogni a)” — dove “f()” rappresenta un contesto enunciativo in cui compare “ogni a’ — è equivalente a “f(a1) e f(a) e f(a3) e ...”, dove però è opportuno specificare che la particolare congiunzione che compare tra i membri di “f(a1) e f(a») e f(a3) e ...” è intesa fornire un enunciato che equivale a (un’accezione di) “f(a, e a, e 43 € ...)”. Per esempio, “Giorgio può sposare ogni donna del vicinato” sarebbe — secondo Russell — equivalente a “Giorgio può sposare Lucia e può sposare Maria e può sposare Rosa e ...” — dove Maria, Lucia, Rosa, ecc. siano tutte le donne del vicinato —, inteso però non come sinonimo di un enunciato affermante che a Giorgio è permesso sposare una donna qualsivoglia del vicinato, ma come sinonimo di “Giorgio può sposare Lucia e Maria e Rosa e ...”, cioè come sinonimo di un enunciato implicante che a Giorgio è consentita la poligamia. L’“e” in “f(a, e a. e 43 e ...), considerato come equivalente a ‘f(ogni a)”, deve naturalmente essere interpretato diversamente dall’“e”’ che compare nell’analogo enunciato considerato equivalente a “f(tutti gli a)”: per esempio, “Giorgio può sposare tutte le donne del vicinato” sarebbe inteso da Russell come equivalente all’asserzione che Giorgio può sposare insieme tutte le donne del vicinato — che può sposare, per es., cinquanta donne con un’unica cerimonia. Qualsiasi a ha — per Russell — una denotazione diversa sia da tutti gli a sia da ogni a?! Una proposizione in cui è contenuto il concetto significato da “qualsiasi a’ afferma, per Russell, qualcosa riguardo a un solo a, ma non importa quale, perché ciò che la proposizione afferma sarà vero ugualmente di qualsiasi a. Russell dice che qualsiasi a denota «a; 0 a, 0 ... 0 a,, dove o significa che è irrilevante quale prendiamo». Così, per riprendere il nostro esempio precedente, “Giorgio può sposare qualsiasi donna del vicinato” sarebbe — secondo Russell — equivalente a “Giorgio può sposare Lucia, o Maria, o Rosa, o ...”, ciò che non implica che a Giorgio sia consentito

sposare più di una donna. Il tipo di combinazione denotato da qualsiasi a è chiamato da Russell congiunzione variabile (variable conjunction). Per Russell, “f(qualsiasi a)” equivale dunque a “f(a; 0 a, 0 43 0 ...)”, dove la congiunzione “o” è presa a implicare che ciascuno degli enunciati “f(a;)” e “f(a»)” e “f(a3)”, ecc., è vero.” Anche un a, come qualsiasi a, secondo Russell denota 4; 0 4, 0 ... 0 a,, ma qui “o” significa che non si deve

prendere un a in particolare. Infatti, spiega Russell, una proposizione che sia vera di un a può essere falsa se riferita a ogni a particolare. Un esempio di Russell è: tra due punti dati giace sempre un punto; ma è falso che ci sia un punto che ha la proprietà di cadere tra qualsiasi due punti dati. Quindi una proposizione in cui è contenuto il concetto significato da “un a” non è equivalente a una disgiunzione di proposizioni. Russell chiama il tipo di combinazione denotato da un a disgiunzione variabile (variable disjunction).* Una proposizione in cui è contenuto il concetto significato da “qualche a” afferma anch'essa, per Russell, qualcosa riguardo a un individuo: qui però se ne deve scegliere uno in particolare. Per fare un esempio: mentre “Un uomo è padre d’ogni uomo” significa, secondo Russell, che ogni uomo ha un padre, ma non implica che ci sia un uomo che è padre di tutti gli uomini, “Qualche uomo è padre d’ogni uomo” implica che ci sia un uomo che è padre di tutti gli uomini. Russell dice che qualche a denota a, 0 denota 4; 0 ... 0 denota a, non è irrilevante quale a

sia preso, dovendosene prendere proprio uno in particolare. Russell chiama questa forma di combinazione disgiunzione costante (constant disjunction).® Tutto ciò è esemplificato, nei Principles, considerando i complessi che si possono formare con due esseri umani, Brown e Smith:

2 _—_—,—..] 2 IéÉ—@=ISIOI0ÌIIE $$ A.1 e A_2, pp. 243-298. 221 Nella teoria medievale della suppositio non erano distinti i casi di “ogni a” e “qualsiasi a”, nel senso tecnico attribuito a queste locuzioni nei Principles: l’unico caso preso in considerazione era quello corrispondente al russelliano “qualsiasi a”. Il caso di “tutti eli a” , ancora i nel senso russelliano sopra specificato, non era trattato affatto. >

S Russell [1903a], $ 61, p. 59.

43 Il rapporto di denotazione implicato in questo caso era detto dai medievali suppositio confusa et distributiva. = Il rapporto di denotazione implicato in questo caso era detto dai medievali suppositio confusa tantum. ° Il rapporto di denotazione implicato in questo caso era detto dai medievali suppositio determinata.

I Principles of Mathematics

391

Gli oggetti denotati [denored] da tutti, ogni, qualsiasi, uno € qualche |...] sono rispettivamente coinvolti nelle seguenti cinque proposizioni: (1) Brown e Jones sono due corteggiatori della signorina Smith; (2) Brown e Jones fanno la corte alla signorina Smith; (3) Se era Brown o Jones quello che avete incontrato, era un ardentissimo innamorato; (4) Se era uno dei corteggiatori della signorina Smith, dev'essere stato Brown o Jones; (5) La signorina Smith sposerà Brown o Jones.?°9

In questi esempi — spiega Russell —, abbiamo cinque diversi complessi formati dagli stessi individui Brown e Jones. Supponendo, per semplicità, che Brown e Jones siano i soli corteggiatori della signorina Smith, i cinque esempi sono da analizzare come segue. Nella prima proposizione, si dice che Brown e Jones sono due, «e questo non è vero di uno o dell’altro separatamente; tuttavia non è il tutto costituito da Brown e Jones che è due, perché questo è soltanto uno».°°” Nell’enunciato che indica la prima proposizione “Brown e Jones” indica lo stesso complesso che è denotato dal concetto denotante tutti i corteggiatori della signorina Smith. Nell’enunciato che indica la seconda proposizione, “Brown e Jones” indica lo stesso complesso che è denotato dal concetto denotante ogni corteggiatore della signorina Smith. Questo complesso rappresenta una combinazione dove i termini non sono presi collettivamente, ma distributivamente: la proposizione equivale infatti — sebbene, dice Russell, non sia identica — a quella espressa da “Brown corteggia la signorina Smith e Jones corteggia la signorina Smith”. Nell’enunciato che indica la terza proposizione: “Se era Brown o Jones quello che avete incontrato (si suppone che si sia incontrato un solo individuo), era un ardentissimo innamorato”, “Brown o Jones” indica il medesimo

complesso che è denotato dal concetto denotante qualsiasi corteggiatore della signorina Smith.® Nell’enunciato che indica la quarta proposizione: “Se era uno dei corteggiatori della signorina Smith, dev'essere stato Brown o Jones”, il complesso indicato da “Brown o Jones” è lo stesso che è denotato dal concetto denotante un corteggiatore della signorina Smith. Russell osserva che qui “dev'essere stato Brown o Jones” non equivale alla disgiunzione: “Dev’essere stato Brown, oppure dev'essere stato Jones”, perché entrambi i disgiunti sono falsi. Infine, nell’enunciato che indica la quinta proposizione: “La signorina Smith sposerà Brown o Jones”, il complesso indicato da “Brown o Jones” è ciò che denota il concetto denotante qualche corteggiatore della signorina Smith. Qui, nota Russell, “sposerà Brown o Jones” equivale invece alla disgiunzione: “sposerà Brown oppure sposerà Jones”. Secondo Russell, il fatto che i concetti qualsiasi a, un a e qualche a denotino complessi che devono essere te-

nuti ben distinti, è dimostrato da esempi come i seguenti: 79)

Siano a, b due serie di numeri reali; allora sorgono sei casi [...] [considerando le varie combinazioni di “qualsiasi”, chesle

6

“uno” e “qual-

(1) Qualsiasi a è minore di qualsiasi b, 0, la serie a è contenuta tra i numeri minori di ogni b. (2) Qualsiasi a è minore di un b, o, qualsiasi a prendiamo, c’è un b che è maggiore, o, la serie a è contenuta tra i numeri minori di un termine (variabile) della serie 5. Non ne segue che qualche termine della serie d sia maggiore di tutti gli a. (3) Qualsiasi a è minore di qualche b, 0, c’è un termine di 5 che è maggiore di tutti gli a. Questo caso non va confuso con il (2). (4) Un a è minore di qualsiasi b, ossia qualsiasi 6 prendiamo, c’è un a che è minore di esso. (5) Un a è minore di un b, ossia è possibile trovare un a e un . tali che l’a sia minore di b. Ciò nega semplicemente che qualsiasi a sia maggiore di qualsiasi b.

226 Russell [1903a], $ 59, p. 56. 227 Russell [1903a], $ 59, p. 57.

A:

"

228 La distinzione tra qualsiasi a e ogni a è in qualche modo oscurata dalla spiegazione di Russell secondo cui le proposizioni contenenti il concetto denotante ogni a sono equivalenti a una congiunzione di proposizioni. Infatti, Russell non chiarisce se, nel caso in cui il concetto denotante compaia in una proposizione complessa, cioè composta di diverse proposizioni, la congiunzione in parola debba essere la congiunzione delle varie istanze dell’inzera proposizione complessa, o la congiunzione delle istanze di parte di tale proposizione. In breve,

Russell non specifica quale debba essere l'ambito dell'espressione “qualche a” all’interno di un enunciato complesso. Per esempio, la spiegazione di Russell non chiarisce perché l’enunciato “Se avete incontrato ogni corteggiatore della signorina Smith, avete incontrato un ardentissimo innamorato” sia interpretato come equivalente (nelle ipotesi date) a “Se avete incontrato Brown e avete incontrato Jones, avete incontrato un ardentissimo innamorato”, e non come equivalente a “Se avete incontrato Brown avete incontrato un ardentissimo innamorato REG Dn a “Se avete OO e se avete incontrato Jones avete incontrato un ardentissimo innamorato” — che equivale, piuttosto, I: DEI 1980], [ DO Ccactri Ya proposito, In innamorato”. ardentissimo un incontrato giatore della signorina Smith, avete sE [1980], $ 49) propone una spiegazione un po” diversa da quella di Russell del PliaA di “ogni a 3 qualsiasi a se s adatta

) fa ea agli esempi russelliani; secondo la spiegazione di Geach, ‘f(ogni a) equivale a ‘f(a, Sale ICI) » RIA “f(a) e f(a») e f(a3) e ...”. Naturalmente, questa spiegazione richiede di distinguere tra | e della SLA PRE DiLu 5 dall’“e” della congiunzione equivalente a “f(tutti gli a)” — cosa che abbiamo comunque già VORO gazioni e che non appare problematica nella prospettiva adottata da Russell, il quale già distingue l’“o

POS

nelle NOS: pisa enti spie-

dell a

a)”. valente a uno della forma “f(qualsiasi a)”, dall’“o” dell’enunciato che considera equivalente a uno della forma “f(un

considera equi-

capitolo 6

392

(6) Qualche a è minore di qualsiasi b, ossia c’è un a che è minore di tutti i . Questo non era implicato in (4), dove l’a era variabile, mentre qui è costante.”°°

Russell ammette che la differenza tra ogni a e qualsiasi a non è rilevante negli esempi appena citati (nel senso che se nelle proposizioni precedenti si sostituisce il concetto denotante ogni a al concetto denotante qualsiasi a si ottengono proposizioni equivalenti alle prime). Tuttavia, secondo Russell, anche i concetti denotanti ogni a e qualsiasi a devono denotare complessi differenti.”?! Per fare un esempio che illustri anche la differenza tra ogni a e qualsiasi a, Russell elenca venti enunciati, da cui possiamo trarre le seguenti contrapposizioni (a e b, in quanto segue, sono due classi di classi):”°

(a) (1) Qualsiasi termine di qualsiasi a appartiene a ogni b, ossia la somma logica di a è contenuta nel prodotto logico di d. VS.

(13)

Qualsiasi termine di ogni a appartiene a ogni b, ossia il prodotto logico di a è contenuto nel prodotto logico di d.

(b) (2) Qualsiasi termine di qualsiasi a appartiene a un b, ossia la somma logica di a è contenuta nella somma logica di db. VS.

(14)

Qualsiasi termine di ogni a appartiene a un b, ossia il prodotto logico di a è contenuto nella somma logica di db.

(c) (3) Qualsiasi termine di qualsiasi a appartiene a qualche , ossia c’è un

che contiene la somma logica di a.

VS.

(15)

Qualsiasi termine di ogni 4 appartiene a qualche b, ossia c’è un termine di b in cui è contenuto il prodotto logico di a.

(4) (7) Un termine di qualsiasi a appartiene a qualsiasi b, ossia qualsiasi classe di a e qualsiasi classe di © hanno una parte comune. VS.

(16)

Un (o qualche) termine di ogni a appartiene a ogni b, ossia i prodotti logici di a e di © hanno una parte comune.

Le differenze illustrate attraverso gli esempi di Russell si possono esprimere, nel calcolo dei predicati, ricorrendo

al noto dispositivo delle differenze d’ambito tra quantificatori (universali ed esistenziali). Per esempio, i primi sei enunciati elencati da Russell — quelli in cui sono contrapposte le espressioni “qualsiasi a” “un a” e “qualche a” — sarebbero resi, rispettivamente, come segue:

(1) (2) (3) (4) (5)

(A(b(a (A)lze bye

2),

VS.

(14)

M(@M&e

anye

x) 3 Az)(ze b>oye z));

(€) (3) Eine bAM(A)(PE anze y)aze x),

VS.

(15)

(me

bA (Me

aAze

Vaze

>);

(d) (7)

Me

anye

b) > (Az)(ze x Aze

»),

VS.

(16)

(E)(Mxe

anye

3 (2)(ze

ba ye 2).

Come si può desumere da questi esempi, le espressioni “qualche”, “qualsiasi”, “un” e “ogni”, nell’ordine, corrispondono — per Russell — a quantificatori d’ambito decrescente all’interno di uno stesso enunciato.”** Per esempio, l’enunciato “Qualsiasi uomo ama una donna” sarebbe letto: “Per ogni uomo, c’è una donna che è amata da esso”. Questo perché il quantificatore corrispondente all’espressione che comincia con “qualsiasi” è inteso come avente ambito più ampio di quello corrispondente all’espressione che comincia con “un(a)”. Invece, l’enunciato “Qualsiasi uomo ama qualche donna” sarebbe letto: “C’è una donna che qualsiasi uomo ama”. Questo perché il quantificatore corrispondente all’espressione che comincia con “qualche” èx inteso come avente ambito più ampio di quello corrispondente all'espressione che comincia con “qualsiasi”. A proposito di questa teoria russelliana, Denis Vernant ha scritto: La complessità scolastica della teoria della denotazione del 1903 in cui sono minuziosamente e inutilmente distinte le parole logiche: Il, Tutti, Ogni, Qualche, e Uno ... qualsiasi, testimonia eloquentemente che egli [Russell] non aveva ancora all’epoca la pa-

dronanza della teoria della quantificazione. Nel 1905, egli procedeva ancora all’analisi delle descrizioni definite utilizzando gli operatori: Tutti, Qualche e Nessuno. Bisognerà attendere il 1906 perché egli adotti la teoria e il simbolismo fregeano sull’argomento

(cfr. TI) [il riferimento di Vernant è qui a Russell [1906b]].?89

Ciò non è corretto. Fin dalla seconda metà del 1900 Russell conosceva e adoperava abilmente la teoria della quantificazione, nella sua versione peaniana, e si era impadronito della teoria della quantificazione fregeana alla metà del 1902, tanto che, in manoscritti dell’epoca,” ” egli dà prova di saper tradurre benissimo la simbologia dei Grundgesetze di Frege nella propria, derivata da Peano. Dal febbraio o marzo del 1903,°°° la simbologia russelliana per la quantificazione diviene molto simile a quella che sarà adoperata nei Principia; vale a dire: e

“(4)”, a precedere una formula, è usato come quantificatore esistenziale sulla variabile

“x”, e dapprima

ce__9?

FS 6IA natia

ron LARE a precedere una formula, sono usati come quantificatori esistenziali sulle nau? i a Ì .240, 241 variabili “x” ..., “x, con lo stesso significato di “(4x;), ..., (4x,)” a precedere la medesima formula;

Da Quest’osservazione si deve a Paolo Dau ([1986], pp. 142-150), il quale esamina accuratamente anche le dodici proposizioni del secondo

gruppo di esempi che qui sono state tralasciate.

235 L'esempio è ripreso da Dau [1986], p. 143. 236 Vernant [2005], p. 97. Suva per es., le note manoscritte di Russell sui Grundgesetze di Frege riportate in B. Linsky [2006], pp. 139-164, scritte tra la seconda metà del 1902 e il 1903, e il manoscritto “Frege on the Contradiction” (v. Russell [1903b]), probabilmente redatto nel febbraio del 1903.

238 V_ i tre manoscritti di Russell, dei primi mesi del 1903, pubblicati per ia prima volta in Russell [1994a], pp. 5-73. 3

Dall’agosto-settembre del 1904. In Russell [1904e] —

una sorta di diario logico tenuto da Russell nel 1904 —

ae si trova inizialmente la

notazione “I(x;, ..., xp)” (v. pp. 135-136; ms., ff. 554-555), poi la notazione “(4x1, ..., x)” (da p. 142 (ms., f. 567) in avanti). Il manoscritto pervenuto comincia dal foglio 42, termina con il foglio 888, ed è lacunoso; le prime parti furono scritte verso la metà del 1904, il foglio 591 (pp. 153-154) è datato da Russell “ottobre 1904”, mentre il foglio 841 (p. 255) è datato da Russell “novembre 1904”. Sicuramente, alla metà di luglio del 1904 Russell usava ancora la notazione “x, ...: Xn) (si veda, in proposito, il manoscritto “Outlines of symbolie logic”,

inviato da Russell a Couturat 111 luglio del 1904 e pubblicato per la prima volta in Russell [1994a], pp. 80-84: in particolare, p. 82).

240 Per l'equivalenza tra le notazioni “Ax, *11.03, *11.04, e il commento seguente.

..., Xn) e “Axi), ..., (Ax), per i quantificatori esistenziali, v. le definizioni di [PM], vol. I,

capitolo 6

394

e

ene CEL “(x)”, a precedere una formula, è usato quantificatore universale sulla vd stesso lo con , E . “x” variabili sulle universale quantificatore come adoperato è dere una formula, contesti, dei ni a alternanza, in — formula?” medesima la precedere a ficato di “(x;) ... (x)? convenzione di origine peaniana di porre le variabili quantificate universalmente a pedice del simbolo 66_99?

significano lo stesso, rispettivamente,

plicazione o di equivalenza, cosicché “... D,_,, ---7 €“...

DIE, 243

8

oppure di)

Ode)

dipeso

prece signicon la di im-

Ma

RIA

Nell'articolo pubblicato nel 1905 sulle descrizioni definite — “On denoting” — Russell non usa simboli, per la medesima ragione per cui non li usa nei Principles: pochi filosofi (e quindi pochi tra i lettori di Mind), all’epoca, conoscevano la simbologia di Peano o di Frege; ma in “On fundamentals”, un manoscritto redatto il mese precedente a “On denoting” e non concepito per la pubblicazione, Russell offre in simboli la medesima definizione è spiegata a parole in “On denoting” del significato degli enunciati in cui compare una descrizione definita.?** Quanto al simbolismo di Frege per la quantificazione, Russell non l’adotterà mai — per la semplice ragione che esso è inscindibile dal resto della simbologia bidimensionale fregeana. Tornando ai Principles, sebbene Russell non vi fornisca una trascrizione simbolica dei suoi esempi, egli è ben consapevole della possibilità di esprimere tutti i significati consentiti dalla distinzione tra i diversi concetti denotanti facendo uso di semplici differenze d’ ambito tra quantificatori; egli scrive, infatti: Osserviamo [...] che la menzione esplicita di qualsiasi, qualche, ecc., non l’implicazione formale [formal implication) esprimerà tutto ciò che si richiede.”

è necessario

che compaia

nella matematica:

Come già osservato, l’‘“implicazione formale” era il sistema che Peano aveva ideato e proposto nel suo Formulario per esprimere la quantificazione universale e il suo ambito. Russell continua: Ricorriamo a un esempio [...], in cui a è una classe, e b una classe di classi. Abbiamo:

“Qualsiasi a appartiene a qualsiasi 5” è equivalente a “ ‘x è un a’ implica che ‘u è un b’ implichi ‘x è un w”; “Qualsiasi a appartiene a un b” è equivalente a “ ‘x è un a’ implica: ‘c’è un b, chiamiamolo x, tale che x è un w#”; [...] “Qualsiasi a appartiene a qualche b” è equivalente a “c’è un b, chiamiamolo w, tale che ‘x è un a’ implica ‘x è un u”; e così via [...] sia

In questi esempi, “implica” è preso a significare “implica formalmente”. In una nota al secondo esempio, Russell spiega: «Qui “c’è un e”, dove c è qualsiasi classe, è definito come equivalente a “[per ogni p] se p implica p, e ‘x è un c’ implica p per tutti i valori di x, allora p è vera». Qui “9” è inteso da Russell come un predicato di classi, asserente che c ha almeno un membro, non come un operatore che vincola variabili individuali. La definizione, trascritta in simboli, è la seguente:

Ic=n

(>)

(Me

co pap)!

241 Sigi rammenti che in . questo periodo » «PA . “4” è anche adoperato da Russell — secondo il proprio uso precedente mutuato da Peano — come un predicato che si applica a nomi di classi, cosicché “4a” significa che a è una classe che ha almeno un elemento; in questo significato, “3” sarà rimpiazzato da “4!” nei Principia Mathematica. 242 Per ge VOCI retta at Ri cea irta: RN l’equivalenza tra le notazioni

“(x}, ..., x)

*11.02, e il commento seguente. 243

5

A

Per l’equivalenza traeci “...

Dt

ver

asteniice

@

e

“() ... (x), per i quantificatori universali, v. le definizioni di [PM], vol. I, *11.01,

00 —Erg.

>>

ya©OD,

98 ; rispettivamente,



» “(x1, ..., xm)(...D..)e

“n

(vile

definizioni di [PM], vol. I, #11.05, *11.06, e il commento seguente.

244 V. Russell [1905f], punto 40, p. 384. La definizione è: @il'u.=:(dy):yeu:zeu.D,.z=y:P°y.

24 Russell [1903a], $ 87, p. 89. 240 Russell [1903a], $ 87, p. 90. 247 Ricordando la definizione di negazione data nei Principles:

P(@p>3p)>(p=rMN(C>n5p2”)), che si legge: “Se p è una proposizione, negare p è la stessa cosa che dire che qualunque proposizione sia r, p implica r”, si ha che la definizione di “dc” equivale alla seguente: dce=a-@M-@e 0). V. sopra, $ 3

I Principles of Mathematics

393

Data la definibilità del predicato “9” sulla base dell’implicazione formale, si ha che gli enunciati complessi sono tutti esprimibili attraverso l’uso d’implicazioni formali, proprio come asserisce Russell. Pur riconoscendo l’equivalenza tra gli enunciati del linguaggio comune che contengono “ogni”, “qualsiasi”, “un”, e “qualche” con enunciati simbolici contenenti solo espressioni per implicazioni formali, nei Principles Russell nega che i primi siano sinonimi dei secondi. In altri termini, per il Russell dei Principles, le proposizioni espresse da enunciati del linguaggio comune che contengono “ogni”, “qualsiasi”, “un”, e “qualche” equivalgono a proposizioni espresse da enunciati del linguaggio quantificazionale, ma non sono le medesime proposizioni. Russell dice, per esempio, che “Qualsiasi a è un b” differisce da “x è un a implica x è un b, per tutti i valori di x” perché «qualsiasi a è un concetto denotante soltanto gli a, mentre nell’implicazione formale x non è necessariamente un a».È Secondo il Russell dei Principles, la prima proposizione dice qualcosa degli uomini, mentre la seconda dice qualcosa a proposito di qualsiasi entità dell’universo — dice, di qualsiasi entità dell’universo, che se essa è un a allora è un b. Russell ammette però che «potremmo, in matematica, fare completamente a meno di “Qualsiasi a è un b” e accontentarci dell’implicazione formale»?! anzi, afferma che «questa è, in effetti, dal punto di vista simbolico, la

strada migliore».°® Ma ciò, secondo Russell, non rende superflua la teoria della denotazione dei Principles neppure per il linguaggio ristretto della matematica. Vediamo perché. La base della riduzione è il concetto (finora inanalizzato) d’implicazione formale. Il problema, per Russell, è ora: quali sono i costituenti di una proposizione nella cui espressione verbale compare un simbolo d’implicazione formale? Una proposizione siffatta sembra vertere su tutte le entità dell'universo, ma queste entità non possono essere costituenti della proposizione, perché, se lo fossero, la proposizione avrebbe complessità infinita — e, come abbiamo visto, proposizioni siffatte (siano esse metafisicamente possibili o no) sono, per Russell, epistemicamente intrattabili, cosicché non possono essere le proposizioni cui noi ci riferiamo, negli enunciati generalizzati. La teoria dei concetti denotanti diviene indispensabile, secondo Russell, per spiegare la stessa implicazione formale. Ora, però, non si tratta più di spiegare quella che Russell chiama la ‘variabile ristretta” (restricted variable) — cioè l’indicazione di espressioni come “ogni a”, “qualche a”, ecc., dove a è un determinato concetto-classe — ma di spiegare lo statuto di quella che Russell chiama «la variabile vera o formale» (formaD,”! che è quella che si trova nelle implicazioni formali. La prima risposta, approssimativa, fornita da Russell a questo problema è la più ovvia, nel contesto della teoria dei Principles: la variabile formale sarebbe ciò che è denotato dal concetto denotante qualsiasi termine (any term). Questo concetto denotante sarebbe dunque uno dei costituenti di una proposizione indicata da un enunciato in cui compare una variabile formale. Si presti attenzione al fatto che, nei Principles, abbiamo tre livelli: c’è il simbolo di variabile (ciò che si intende oggi per “variabile”) “x”, c’è un concetto denotante espresso dal simbolo “x°° — che è stato provvisoriamente identificato con il concetto denotante qualsiasi termine — e c’è la denotazione di tale concetto. Russell dice spesso che la variabile è ciò che è denotato dal concetto denotante qualsiasi termine; ma talvolta chiama “variabile” il simbolo,”"* e talaltra (ogni volta che par«6.3?

la di una variabile come costituente di una proposizione) suggerisce che essa sia il concetto denotante stesso, cioè

sia ciò che denota qualsiasi termine.’ Ciò che egli intende sembra essere che, se in un enunciato compare la variabile formale “x”, l’enunciato indica una proposizione che contiene il concetto denotante qualsiasi termine, il

sa) quale denota uno dei termini di una “congiunzione variabile”. Russell osserva però che la soluzione di considerare la variabile come la denotazione del concetto qualsiasi termine, sebbene funzioni nei casi più semplici — come, per esempio, quello della generalizzazione di “x è un uomo” —, non è adeguata in generale. Egli rileva, per esempio, che “@x >, wx” non può essere sinonimo uiSÈ qualsiasi termine è @ allora qualsiasi termine è w°, poiché i due enunciati non sono neppure equivalenti.” Un problema connesso — ancora rilevato da Russell — è che in un enunciato aperto (Russell parla di ‘funzione pro-

248 249 250 251 252 253 254

Russell [1903a], $ 89, p. 91. V. anche ibid., $ 73, p. 74, e $ 77, p. 79. Russell [1903a], $ 89, pp. 91-92. Russell [1903a], $ 89, p. 92. Russell [1903a], $ 88, p.91. V_ ibid. V,, per es., Russell [1903a], $ 86, p. 89; $ 88, p. 91; $ 93, p. 94. v., per es., Russell [1903a], $ 8, p. 7.

255 V_, per es., ibid.

256 V. Russell [1903a], $ 42, p. 38, e $ 89, p. 92.

396

capitolo 6

posizionale”’) possono comparire diverse variabili: ma come distinguere, per esempio, la variabile x dalla variabile y se sia “x” sia “Y”, indicando la denotazione di qualsiasi termine, hanno il medesimo significato???” Russell ne conclude che l’analisi della variabile non ristretta debba essere più complessa. La sua proposta è che la variabile non ristretta sia «non semplicemente qualsiasi termine, ma qualsiasi termine per come entra in una funzione proposizionale [as entering into a propositional function}».* “Funzione proposizionale” è adoperato, nei Principles, in vari sensi, che non è facile districare.?° Secondo l’interpretazione che sostengo, la tesi dei Principles è che un enunciato aperto ‘“@x° indica il concetto denotante qualsiasi (elemento della classe di proposizioni di forma costante) , il quale denota un elemento qualsiasi di tale classe. Russell chiama “funzione proposizionale” sia l’enunciato aperto, sia il concetto denotante, sia la denotazione del concetto, sia la classe di proposizioni di forma costante. “Classe di proposizioni di forma costante” è, nei Principles, una nozione primitiva. Intuitivamente, una classe di proposizioni di forma costante, che Russell simboleggia talora con “@”, talaltra con “@x”, è la classe di tutte le proposizioni (@a, gb, @c, ecc.) che si possono ottenere, da una proposizione data @a, rimpiazzando a con un termine qualsiasi. Russell non considera però questa caratterizzazione come una definizione: il motivo addotto è che, per definire questa classe, si dovrebbe ricorrere a una funzione proposizionale soddisfatta da tutti i suoi membri, ma se — come nei Principles — si definisce una funzione proposizionale servendosi del concetto di “classe di proposizioni di forma costante”, non si può definire quest’ultimo concetto ricorrendo al concetto di “funzione proposizionale” senza involgersi in un circolo vizioso.’ Quindi, scrive Russell: «La nozione di una classe di proposizioni di forma costante è più fondamentale della nozione generale di classe, perché l’ultima può essere definita in termini della prima [attraverso la nozione di “funzione proposizionale”], ma non la prima in ter-

mini dell’ultima».°°'

L’asserzione secondo cui una variabile è «non semplicemente qualsiasi termine, ma qualsiasi termine per come entra in una funzione proposizionale» è anche espressa da Russell con il dire che la variabile x è «l’x in qualsiasi @x, dove @x denota [denotes] la classe di proposizioni risultanti da diversi valori di x»,°°° oppure che « è il termine in qualsiasi proposizione della classe di proposizioni il cui tipo [type] è gx». L’analisi che Russell propone dell’implicazione formale gx >, wx consiste nel trattarla come l’asserzione di qualsiasi elemento della classe di tutte le implicazioni materiali ottenibili sostituendo, nell’implicazione materiale Qa > va, un altro termine qualsiasi al termine a; ecco come Russell spiega il punto: [...] dovremmo partire dall’intera proposizione “Socrate è un uomo implica che Socrate è un mortale”, e variare Socrate in questa proposizione come un tutto. Così la nostra implicazione formale asserisce una classe d’implicazioni, e niente affatto un’implicazione singola. Non abbiamo, in una parola, un’implicazione contenente una variabile, ma piuttosto un’implicazione variabile. Abbiamo una classe d’implicazioni, nessuna delle quali contiene una variabile, e asseriamo che ogni [every] membro di questa classe è vero. 5 | Abbiamo, per cominciare, una classe di proposizioni vere, ognuna delle quali asserisce di qualche termine costante che se esso è un a esso è un b. Quindi consideriamo la variabile ristretta, “qualsiasi proposizione di questa classe”. Noi asseriamo la verità di qualsiasi termine incluso tra i valori di questa variabile ristretta. Ma al fine di ottenere la formula suggerita, è necessario trasferire la variabilità dalla proposizione come un tutto al suo termine variabile. In questo modo otteniamo “x è un a implica x è 6”. Ma la genesi rimane essenziale, perché non stiamo esprimendo una relazione di due funzioni proposizionali “x è un a” e “x è un d”. Se si fosse

espresso questo, non richiederemmo lo stesso x entrambe le volte. È implicata solo una funzione proposizionale, cioè l’intera for-

mula. [...] Abbiamo una classe d’implicazioni non contenenti variabili, e consideriamo qualsiasi [any] membro di questa classe. Se qualsiasi membro [di questa classe] è vero, si indica tale fatto introducendo un’implicazione tipica contenente una variabile. DIA implicazione tipica è ciò che si chiama implicazione formale: essa è qualsiasi membro di una classe d’implicazioni materia-

Lin

297 V. Russell [1903a], $ 93, p. 94.

255 Ibid. 3

sotto, $ 8.

200 V. Russell [1903a], $ 88, p. 91. 20! Russell [1903a], $ 86, p. 89. si Russell [1903a], $ 86, p. 89. Si noti che, in quest’enunciato, il simbolo “@x” è preso con due valori diversi nelle due occorrenze: nella prima occorrenza rappresenta la classe denotata dal concetto denotante, mentre nella seconda rappresenta il concetto de notante stesso. Potremmo dire che nel primo caso il concetto denotante è usato, nel secondo è menzionato.

203 Russell [1903a], $ 93, p. 94. 204 Russell [1903a], $ 42, p. 38. 295 Russell [1903a], $ 89, p. 92.

I Principles of Mathematics

397

Si parte, dunque, da una certa classe di proposizioni di forma costante che si può chiamare, seguendo la simbologia usata da Russell, “9 > Y”; “9x >, vr” significa che qualsiasi elemento di questa classe è vero. Russell 0sserva che non c’è nessun circolo vizioso nel definire la nozione di qualsiasi x attraverso la nozione di qualsiasi @ (dove @ è una classe di proposizioni di forma costante): infatti, la variabile qualsiasi (membro della classe) @ è una variabile ristretta, cosicché si definisce la variabile non ristretta attraverso quella ristretta: «L’x in @x, dove @x è una funzione proposizionale, è una variabile non ristretta; ma il @x stesso è ristretto alla classe che possiamo chiamare @».?°° Il caso di due o più variabili è trattato da Russell per passi successivi: Se la funzione proposizionale @(x, y) dev'essere asserita per tutti i valori di x e y, dobbiamo considerare l’asserzione [assertion], per tutti i valori di y, della funzione proposizionale @(a, y), dove a è una costante. Questa non implica [involve] y, e si può rappresentare con y(a). Variamo quindi a, e asseriamo y(x) per tutti i valori di x. Il processo è analogo alla doppia integrazione; ed è necessario provare formalmente che l’ordine in cui sono fatte le variazioni non fa differenza per il risultato.?9”

«Così», scrive Russell, «qualsiasi termine può denotare termini differenti in posti differenti. Possiamo dire: qualsiasi termine ha qualche relazione con qualsiasi termine; e questa è una proposizione del tutto diversa da: qualsiasi i termine ha qualche relazione con se stesso». La conclusione di Russell è che la nozione di qualsiasi (any), 269 e quindi la teoria del denotare, è presupposta nell’uso del formalismo matematico: «Così sembrerebbe che qualsiasi sia presupposto nel formalismo matematico, ma che qualche e un possano essere legittimamente rimpiazzati dai loro equivalenti in termini d’implicazioni formali».?”®

5. LE DESCRIZIONI DEFINITE NEI PRINCIPLES Non abbiamo ancora parlato dei concetti denotanti del tipo i/ così e così. Dicevamo che il motivo principale che indusse Russell a introdurre i concetti denotanti del tipo tutti gli a, ogni a, qualsiasi a, un a, qualche a, risiedeva nella possibilità di evitare di assumere che si possa avere una relazione epistemica con proposizioni di complessità infinita. Nei Principles, Russell assume che le espressioni del tipo “il così e così” (che chiameremo, seguendo una terminologia che egli adotterà alcuni anni dopo," “descrizioni definite”) significhino anch'esse un concetto denotante il quale denota — se denota — un unico individuo. Perché non affermare semplicemente che tali espressioni indicano un individuo, senza la mediazione di nessun concetto denotante, cioè che sono nomi di quell’individuo?

Dopotutto — viene naturale pensare — una proposizione come, per es., quella espressa da “La montagna più alta della terra supera gli 8000 metri” verte sul monte Everest: perché allora non considerare il sintagma “a montagna più alta del mondo” come un complesso di parole che abbia lo stesso ruolo di un nome proprio, indicando un’entità che sia un costituente della proposizione espressa da “La montagna più alta della terra supera gli 8000 metri”?

970.

:

o

A

È

è

Russell porta due argomenti a favore della sua soluzione.” Il primo è che, se s'intendono le espressioni del tipo ‘il così e così” come nomi propri, cioè come simboli che si riferiscono direttamente all’entità su cui verte la

266 Russell [1903a], $ 88, p. 91. 207 Ibid. Ibid.

È

|

o

stan

269 0 di ogni (every); Russell ammette che l’uso di una o dell’altra di queste nozioni porterebbe agli stessi risultati: nel $ 44 dei Principles (p. 40), Russell dice che, nell’analisi dell’implicazione formale, dev'essere presa come indefinibile la nozione di ogni termine; nel $ 89 p. 92), dice che è fondamentale, allo stesso scopo, la nozione di qualsiasi; infine, nel i) 106 (p. 106), riassumendo ilcontenuto della parte I dei Principles, Russell elenca, tra le nozioni primitive della logica che sono necessarie per rendere conto dell’implicazione formale, quella di

«qualsiasi, o ogni termine». 270 Russell [1903a], $ 89, p. 92. V. anche ibid., $ 93.

att

mei È na n " DR Du Re VO a dove , la tipo del denotanti 271 Nei Principles (v. Russell [1903a], $$ 63 e 64, pp. 62-64) le espressioni Si dani sa e 8, 31 p. g], 903 l [ Russell in phrases) (descriptive descrittive espressioni chiamate saranno Esse tecnica. denominazione una Principia (v. [PM], vol. I, introduzione, cap. 3, pp. 66-71, e *14, sommario, pp. 173-174). Dopo i Principia, Russell Shiaaa Di AR

sioni descrizioni definite, in contrapposizione ad espressioni come “un a”, che saranno dette descrizioni ambigue (annicaoie )Se Pai Russe [1911e], p. 214; Russell [1912a] cap. 5, p. 82; Russell [1919a], cap. 16, p. 167), oppure descrizioni indefinite (indefinite) (v. ancora [1919a], cap. 16, p. 167). 272 V., in proposito, Turnau [1991], pp. 56-57.

capitolo 6

398

proposizione, allora un’asserzione d'identità non può essere informativa.””* Infatti, in tal caso —

argomenta Rus-

sell — un’asserzione d’identità ammonterebbe semplicemente all’affermazione che un termine è uguale a se stesso, che è banalmente vero, o all’affermazione che un termine è identico a un termine diverso da esso, che è una falsità altrettanto banale. Se, invece, si ammette che una proposizione affermante un'identità contenga almeno un concetto denotante, allora tale proposizione può essere realmente informativa, perché fornisce un’informazione non banale sull’oggetto denotato dal concetto denotante in questione. Scrive Russell: Quando è dato un termine, l’asserzione della sua identità con se stesso, benché vera, è perfettamente futile, e non si fa mai all’infuori che nei libri di logica; ma quando s’introducono i concetti denotanti, l'identità si rivela subito significante. In questo caso, naturalmente, è implicata, sebbene non asserita, una relazione del concetto denotante col termine, o di due concetti denotanti

l’uno con l’altro. Ma l’è che compare in tali proposizioni non enuncia questa relazione ulteriore, ma enuncia una pura identità.?”*

Questo genere d’argomentazione sarà più tardi ripreso da Russell anche nell’ambito della sua celebre teoria delle descrizioni definite. In quella teoria — come vedremo (cap. 7, $ 3.5) — l’informatività degli asserti d’identità trova una spiegazione nel fatto che uno, o ambedue i soggetti di un enunciato d’identità siano descrizioni definite, invece che nomi propri. Il secondo argomento è strettamente collegato con il primo, ma riguarda piuttosto l'identità per definizione?” Se una definizione non potesse mai consistere in altro che nella sostituzione di un simbolo con un altro simbolo che si riferisce allo stesso termine — argomenta Russell — le definizioni esaurirebbero tutta la loro portata nella convenienza notazionale e non avrebbero mai significato teorico. Invece, secondo Russell, le definizioni «richie-

dono sempre un ammontare assai vasto di pensiero, e spesso comprendono alcuni dei più grandi risultati dell’analisi».?”° La spiegazione di ciò è fornita — sostiene Russell — dall’ammettere che un termine sia definito facendo uso di un concetto denotante di cui questo termine rappresenta l’unico caso: Un oggetto [la parola “oggetto” (object) qui è usata come sinonimo di “termine”’] può essere presente alla mente, senza che conosciamo alcun concetto di cui quest’oggetto sia /a istanza; e la scoperta di un tale concetto non è un semplice miglioramento della notazione. [...] Nel momento della scoperta, la definizione appare vera, perché l’oggetto da definirsi era già nel nostro pensiero; ma come parte del nostro ragionamento essa non è vera, bensì puramente simbolica, poiché ciò che il ragionamento richiede non è di trattare con quell'oggetto, ma semplicemente di trattare con l’oggetto denotato per mezzo della definizione.?””

Nei Principles, Russell afferma che il concetto denotante i/ così e così è impiegato correttamente solo quando così e così è un concetto-classe che è vero di un unico individuo:”* in questo caso, il concetto denotante denota quell’unico individuo. Esempi di questo tipo di concetto denotante sono significati dalle espressioni “l’uomo più ricco” “la montagna più alta” “l’attuale re d’ Inghilterra”, ecc. Ma che cosa succede nel caso di descrizioni definite che indicano concetti i quali non denotino uno e un solo individuo? cioè nel caso in cui il concetto-classe associato al concetto denotante corrispondente a una descrizione definita sia falso di tutti gli individui, o sia vero di più di un individuo? Russell ammette — in generale — che un concetto denotante possa non denotare nulla: Tutti i concetti denotanti, come abbiamo visto, derivano da concetti-classe; e a è un concetto-classe quando “x è un a” è una fun-

zione proposizionale. I concetti denotanti associati con a non denoteranno alcunché quando e soltanto quando “x è un a” è falsa per

tutti i valori di x. Questa è una definizione completa di un concetto denotante che non denota alcunché; e in questo caso diremo che ” a è un concetto-classe nullo, e che “tutti gli a” è un concetto di una classe nullo.?”°

Questo brano dei Principles è tratto dal capitolo 6, che è dedicato alle classi: Russell sta dunque pensando al

concetto denotante tutti gli a. Ciò spiega il suo /apsus nell’affermare che un concetto denotante collegato al concetto-classe a non denota nulla se e solo se “x è un a” è falso per tutti i valori di “x”. In realtà, può accadere che un concetto denotante del tipo i/ così e così manchi di denotare qualcosa perché a è un concetto-classe che non è vero di un unico individuo, come, per esempio, l’autore dei Principia Mathematica. In ogni modo,la definizione è fa-

273 274 275 270 277 278 279

V. Russell [1903a], $ 64. Russell [1903a], $ 64, p. 64. V. Russell [1903a], $ 63. Russell [1903a], $ 63, p. 63. Ibid. V. Russell [1903a], $ 63, p. 62. Russell [1903a], $ 73, p. 74.

I Principles of Mathematics

399

cile da emendare e il punto è chiaro: secondo Russell concetti denotanti come l’attuale re di F rancia 0 il numero primo pari diverso da 2, non denotano nulla.?*° Sorge allora il problema di quale sia il valore di verità di proposizioni che li contengono, ma esso non riceve nessuna risposta, nei Principles. L’idea più ovvia sarebbe quella di considerare queste proposizioni come uniformemente false. In un brano precedente a quello sopra riportato — laddove cercava una definizione soddisfacente di “concetto denotante che non denota nulla” — Russell adombra, in effetti, l’idea di considerare uniformemente false tutte le proposizioni che contengono concetti denotanti privi di denotazione: È necessario rendersi conto, in primo luogo, che un concetto può denotare anche se non denota alcunché [a concept may denote al-

though it does not denote anything].[?"] Ciò accade quando ci sono delle proposizioni in cui compare il detto concetto, e che non vertono [are not about] sul detto concetto, ma tali proposizioni sono tutte false. O meglio, ciò che precede è un primo passo verso la spiegazione di un concetto denotante che non denota nulla. Non è, comunque, una spiegazione adeguata.?*°

Russell dunque non considera soddisfacente la precedente spiegazione. Egli prosegue, infatti, osservando che proposizioni come quelle espresse da “Le chimere sono animali” o “I numeri primi pari diversi da 2 sono numeri” appaiono vere, eppure non vi sono chimere, né numeri primi pari diversi da 2. Inoltre, come ha osservato Gregory Landini ([1998a], $ 2.7, p. 61), l’idea di considerare uniformemente false

tutte le proposizioni che contengono concetti denotanti privi di denotazione sarebbe in evidente conflitto con la logica bivalente sostenuta nei Principles. Infatti, se si considerano false tutte le proposizioni in cui compare un concetto denotante che non denota, la proposizione espressa da: (1)

L’attuale re di Francia non è calvo

dovrebbe essere considerata falsa. Ma, per la stessa ragione, anche la proposizione espressa da: (2)

L’attuale re di Francia è calvo

si dovrebbe considerare falsa: e questo rappresenta una violazione della legge del terzo escluso, una legge logica che invece Russell assume come valida non solo nei Principles, ma in tutte le sue opere. Il problema dei valori di

verità delle proposizioni che contengono concetti denotanti che non denotano resta dunque, nei Principles, privo di soluzione.?** 280 In manoscritti immediatamente successivi ai Principles Russell lo afferma esplicitamente (v. Russell [1903e], pp. 285-286, e Russell

[1903g], p. 318). | = . 281 Questa frase è formulata in modo molto infelice; ma ciò che Russell intende, nel contesto, è chiaro: “Un concetto può essere un concetto denotante anche se non denota nulla”.

282 Russell [1903a], $ 73, p. 73.

art

tate

sost

283 Landini ([1998a], $ 2.7, p. 61) suggerisce che una soluzione si potrebbe ricercare nell’applicazione di una distinzione d’ambito all'occorrenza di un concetto denotante in una proposizione. Egli osserva che, dato un concetto denotante, si potrebbe distinguere

un’occorrenza secondaria da un’occorrenza primaria di questo concetto in una proposizione. L'idea risale a Russell, che distingue tra occorrenze primarie e secondarie di un concetto denotante in “On fundamentals”, un manoscritto del 1905 di poco precedente “On denoting (v. Russell [1905f], punto 30, (b), p. 378). (Il meccanismo delle distinzioni di ambito sarà poi parte integrante della teoria russelliana delle descrizioni

definite del

1905:

v. sotto, cap. 7, $ 3.1.) La definizione

proposta

da Landini

è la seguente:

«un

concetto

denotante ha

un’occorrenza secondaria in una proposizione g, se compare come concetto in una proposizione p la quale compare ‘come termine in q» (ibid.), altrimenti l’occorrenza è primaria. Landini propone poi il seguente principio, che egli chiama “(Non-Denoting) %

«Qualunque proposizione in cui un concetto denotante che non denota alcunché ha un DOCorninza prliaria è falsa» (ibid.).

n

Quindi, tenendo presente la definizione di “-p” data da Russell nei Principles (v. sopra, $ 3), la proposizione espressa da (1), cioè da

“L'attuale re di Francia non è calvo” diventa quella espressa da: n n ra i (3) (M((r>r) > (L'attuale re di Francia è calvo > r)). è vi non Landini, osserva dunque, e secondaria, è Francia di re l’attuale In quest’ultima proposizione, l’occorrenza del concetto denotante La nessun conflitto con (Non-Denoting) nel considerare vera la proposizione espressa da (1). la Landini osserva che vi sono tuttavia delle difficoltà in questa prospettiva. Applicando (Non-Denoting) si giunge alla conclusione che proposizione espressa da (4)

Tutte le chimere sono animali

dev'essere falsa. Ma dev'essere falsa anche quella espressa da î = ualche chimera non è un animale dì è la contraddittoria della prima. Si potrebbe ancora salvare la legge del terzo escluso — nota Landini (v. [1998a], $ 2.7, * EA la contraddittoria p. 62) — considerando falsa la proposizione espressa da (4) ma non considerando la proposizione espressa da (5) come da: espressa quella della precedente che sarebbe, invece,

400

capitolo 6

Ma c’è di peggio. Nei Principles vi è un conflitto tra diverse parti della teoria della denotazione. Infatti, in quest'opera, Russell sostiene che qualunque cosa possa essere menzionata è un termine e ha una certa forma di essere: L'essere [Being] è ciò che appartiene a ogni termine concepibile, a ogni possibile oggetto può eventualmente comparire in una qualsiasi proposizione, vera o falsa, e [che appartiene] numeri, gli dei omerici, le relazioni, le chimere e gli spazi a quattro dimensioni hanno tutti tà di qualche genere, noi non potremmo costruire proposizioni su di essi [corsivo mio]. È ; 3 Sr SO d’ogni cosa, e il menzionare alcunché è mostrare che esso è. vi

di pensiero — in breve, a tutto ciò che a tutte queste proposizioni stesse. [...] / l’essere, poiché se essi non fossero entiL'essere è quindi un attributo generale

Se è così, tuttavia, è difficile comprendere come sia possibile che un concetto denotante possa non denotare nulla. Prendiamo, per esempio, l’enunciato “Gli dei dell’Olimpo si cibano d’ambrosia”. Il concetto denotante indicato dall’espressione “gli dei dell'Olimpo” dovrebbe essere, si presume, un concetto denotante che non denota nulla. Tuttavia, il più grande degli dei dell'Olimpo è chiamato “Zeus”. Ma “Zeus” è un nome e dunque, stando alla teoria di Russell secondo cui ogni nome si riferisce a un termine, Zeus deve avere una certa forma di essere: forse non esiste, ma certamente è — o, come dice anche Russell, sussiste. Che questo sia giusto, stando alla teoria dei Principles, è confermato dal fatto che, nel brano sopra riportato, gli dei omerici sono esplicitamente riconosciuti tra le entità.” Questo ragionamento si può ripetere nel caso di descrizioni definite come “l’attuale re di Francia”. Sembra ovvio che il concetto denotante indicato da quest’espressione (poniamo, nell’anno 2014) non denoti nulla. Tuttavia, se chiamiamo il supposto re di Francia nel 2014 “Teobaldo I”, abbiamo — stando ai Principles — che Teobaldo I deve avere l’essere. Ma se Teobaldo I ha l’essere, dopotutto, il concetto denotante l’attuale re di Francia non è vuoto, non denoterà un esistente, ma deve in ogni caso denotare un termine, un’entità.?59 C’è dunque una tensione irrisolta, nei Principles, tra la teoria dei termini e la teoria dei concetti denotanti: è in-

coerente sostenere che tutti gli usuali nomi propri si riferiscono a qualche entità e contemporaneamente sostenere che un concetto denotante può mancare di denotare. Si potrebbe obiettare che, dopotutto, è proprio un’idea affine che Russell sosterrà più tardi, nella sua teoria delle descrizioni definite: l’idea, cioè, che una descrizione può essere vuota mentre un nome proprio deve sempre riferirsi a qualcosa. E vero. Ma la teoria più tarda è sostenibile solo perché Russell non identifica più i veri nomi propri con le parole che si presentano grammaticalmente come tali. Per esempio, “Zeus” o “Teobaldo I” non sarebbero considerati veri nomi propri, nella teoria russelliana matura, ma come descrizioni definite “abbreviate”. Invece, nei Principles, Russell sembra sostenere che tutte le parole che

grammaticalmente si presentano come nomi propri sono nomi propri, e si riferiscono a qualche entità che, anche se non esiste, ha comunque l’essere. Russell si rese conto ben presto della difficoltà che abbiamo menzionato. Infatti, non si deve aspettare il 1905, e la nuova teoria delle descrizioni, per trovare un mutamento di prospettiva, da parte di Russell, sui nomi propri: già

in alcuni manoscritti della seconda metà del 1903,°” Russell sostiene che le espressioni che grammaticalmente SÌ presentano come nomi propri, ma sono prive di riferimento, non sono autentici nomi propri, ma descrizioni definite camuffate da nomi. In uno di questi manoscritti, dal titolo “On meaning and denotation”, Russell riassume dapprima la sua teoria della denotazione, nel caso delle descrizioni definite: Un’espressione [phrase] come “l’attuale primo ministro d’Inghilterra” designa [designates] un'entità, in questo caso Mr. Arthur Balfour [Balfour fu primo ministro inglese dal 1902 al 1905], mentre esprime [expresses] un significato [meaning], che è complesso, e, di regola, non include l’entità designata come costituente; la relazione del significato espresso con l'entità designata è quella

—__________________——_—_______k-;: l\lEl'—_rP_——rmÉm£m>+__Ò 6p,rlt-_t__t1z@mÀ4B[@6 WWW (6)

(MN((r2

> (Tutte le chimere sono animali > r).

La proposizione espressa da (6), contenendo il concetto denotante tutte le chimere in un’occorrenza secondaria, potrebbe essere vera in ba-

se al principio (Non-Denoting).

Come abbiamo già osservato prima, tuttavia, nei Principles Russell considera vera la proposizione espressa da “Tutte le chimere sono a-

nimali”, la qual cosa implica il rifiuto di (Non-Denoting).

ua Russell [1903a], $ 427, p. 449. 28° Il conflitto esemplificato è apparente quando Russell dice, da un lato, che il concetto denotante le chimere non denota nulla (v Russell MERA $ 73, p. 73) e dall’altro (nel passo che abbiamo riportato per ultimo) che ci sono chimere. ì “° Se è così, non sorgono problemi riguardo alla verità di “L'attuale re di Francia esiste”: quest’enunciato è evidentemente falso, poiché

Teobaldo I non esiste (pur avendo l’essere). D'altra parte “L'attuale re di Francia è” sarà vero, perché, di fatto, Teobaldo I ha Peste

Ma

sorge un problema quando si considera “L'attuale re di Francia è calvo”, che sembra dipendere dall’essere calvo di Teobaldo I nia cioè di

qualcosa che non esiste.

287 V_ Russell [1903e], p. 285, e Russell [1903g], p. 318.

I Principles of Mathematics

401

di denotare [denoting]. Il significato si può chiamare descrizione dell’oggetto, e l’espressione si può chiamare espressione descrittiva. [...] Espressioni [phrases] come “Arthur Balfour”, “due”, “giallo”, “bianchezza”, “bene”, “diversità”, e le singole parole in genera-

le, designano senza esprimere [un concetto denotante]: in questi casi, c'è solo un singolo oggetto per l’espressione, cioè l’oggetto che essa designa. Ma quando un'espressione [phrase] contiene diverse parole, non semplicemente giustapposte, ma in qualsiasi modo combinate così da acquisire unità [unity], allora l’espressione, di regola, esprime un significato complesso [complex meaning]. In questo caso, può non esserci nessun oggetto designato [designated]: per esempio, “l’attuale re di Francia” esprime un significato, ma non designa un oggetto. Lo stesso vale per “il numero primo pari diverso da 2”, “la radice quadrata razionale di 2”, “il letto in cui morì Carlo Y? [Carlo I morì sul patibolo], o “la differenza tra Mr. Arthur Balfour e l’attuale primo ministro dell’Inghilterra”. In tutti questi casi, il significato espresso è perfettamente intelligibile, ma non si designa nulla.?88

La terminologia che Russell usa qui è un po’ diversa da quella dei Principles — ora un complesso denotante è chiamato “significato”, una variante terminologica, dovuta evidentemente all’influenza di Frege, che resterà nei

manoscritti russelliani fino al 1905 — ma la teoria è la stessa. Russell aggiunge: Nel caso di persone o luoghi immaginari, come Odisseo o Utopia, è vera la stessa cosa. Questi sembrano essere nomi propri, ma di

fatto non lo sono. “Odisseo” può essere preso a significare [mean] “l’eroe dell’Odissea”, quando è coinvolto il significato [meaning) di quest’espressione [phrase], e non l’immaginato oggetto designato [the imagined object designated). Se 1’Odissea fosse storia, e non finzione, sarebbe la designazione ad essere in questione: “Odisseo” allora non esprimerebbe un significato, ma designerebbe una persona, e “l’eroe dell’ Odissea” non sarebbe identico in significato [meaning] a Odisseo, ma sarebbe identico in designazione [designation].®®

Russell non sostiene ancora, come farà poco più tardi,” che tutti quelli che nel linguaggio comune si considerano nomi propri devono essere considerati come descrizioni definite; egli si limita a proporre quest’analisi per i nomi propri privi di riferimento. È tuttavia chiaro che, già a questo punto, l’ontologia lussureggiante dei Principles è drasticamente sfoltita: alle chimere, agli dèi dell’Olimpo, a Odisseo e al nostro Teobaldo I non è più attribuito nessun genere di essere.

6. LA DENOTAZIONE

DEI CONCETTI DENOTANTI

Oltre alla questione dei concetti denotanti che non denotano nulla, un problema rilevante per la teoria della denotazione sostenuta nei Principles è quello dello statuto ontologico degli oggetti che costituirebbero la denotazione dei concetti denotanti — a parte il caso, sotto questo aspetto non problematico, della denotazione di un concetto della forma il così e così. C'è un’ambiguità in quanto Russell afferma a proposito della denotazione di questi concetti denotanti: da un lato dice che essi denotano oggetti — che sono complessi di termini combinati in un certo modo — dall’altro dice che essi denotano i singoli termini di cui questi oggetti sono costituiti. Nel cap. 4 dei Principles si legge che «quando un uomo compare in una proposizione (per es. “Ho incontrato un uomo per strada”), la proposizione non verte [is not about] sul concetto un uomo, ma su qualcosa di completamente differente, qualche bipede reale denotato [denoted] dal concetto». Nel capitolo successivo, si ribadisce che l’enunciato “Ho

incontrato un uomo” «non verte [is not about] su un uomo: questo è un concetto che non cammina per le strade [...]. Quello che ho incontrato era una cosa, non un concetto, un uomo reale con un sarto e un conto in banca 0 4 ca un’osteria e una moglie ubriaca». ogni a, gli (tutti denotante concetto di considerati qui tipi cinque dei D'altra parte, Russell afferma che ciascuno a, qualsiasi a, un a, qualche a) denota un oggetto che è una particolare combinazione di termini; nel cap. 5 si legge: Si consideri ancora la proposizione “Ho incontrato un uomo”. È del tutto certo, ed è implicato da questa proposizione, che ciò che ho incontrato era un uomo perfettamente definito e determinato: nel linguaggio tecnico adottato qui, la proposizione è espressa da “Ho incontrato qualche [some] uomo”. Ma l’uomo reale che ho incontrato non costituisce una parte della proposizione in questione, e non è denotato in modo particolare da qualche uomo. [...] L'intera razza umana è implicata nella mia asserzione; se qualsiasi UOstato diverso. mo che è esistito o esisterà non fosse esistito o non dovesse esistere, il senso [purport] della mia proposizione sarebbe

288 Russell [1903g], p. 318. CA ibid: SOTA partire dal 1905 (v. sotto, cap. 7, SLIDE

29 Russell [1903a], $ 51, p. 47. 292 Russell [1903a], $ 56, p. 53.

402

capitolo 6 [...] Ciò prova che qualche uomo non si può considerare come realmente denotante Smith e realmente denotante Brown, e così via: l’intera processione degli esseri umani attraverso i tempi è sempre rilevante per ogni proposizione in cui compare qualche uomo, € ciò che è denotato essenzialmente non è ciascun uomo separato, ma un genere di combinazione di tutti gli uomini. Questo è più e. . . . . D vidente nel caso di ogni, qualsiasi, e un. E

Qui c’è una difficoltà. Se, infatti, la denotazione del concetto denotante un uomo è un oggetto, cioè una combinazione di termini, e se — come asserisce Russell — la denotazione di un concetto denotante è ciò su cui verte la

proposizione in cui il concetto è contenuto, ne risulta che una proposizione in cui sia contenuto il concetto denotante un uomo dovrebbe vertere su una particolare combinazione formata da tutti gli uomini; ma è evidente che non è così: dicendo, per esempio, “Ho incontrato un uomo” non s'intende affatto dire di aver incontrato una particolare combinazione formata da tutti gli uomini, ma — è lo stesso Russell a rilevarlo — un certo uomo reale. È tuttavia importante, a questo proposito, notare che Russell nega che gli oggetti denotati dai concetti denotanti tutti gli a, ogni a, qualsiasi a, un a o qualche a siano termini. Nel cap. 5, introducendo per la prima volta l’espressione “oggetto” nei Principles, in una nota a piè di pagina egli spiega: «Userò la parola oggetto in un senso più ampio di termine, a coprire sia il singolare sia il plurale, e anche casi d’ambiguità, come “un uomo” ».?°* Poche pagine più avanti si legge: Si deve osservare che queste cinque combinazioni [cioè, quelle denotate da tutti gli a, ogni a, qualsiasi a, un a, qualche a) non producono né termini né concetti, ma strettamente e solamente combinazioni di termini [corsivo mio]. La prima produce molti termini,

mentre le altre producono qualcosa di assolutamente peculiare, che non è né uno né molti. Le combinazioni sono combinazioni di termini, effettuate senza l’uso di relazioni.?”°

Dunque la parola “oggetto”, per Russell, ha un uso più ampio di quello di “termine”: ogni termine è un oggetto, ma vi sono oggetti che non sono termini. Questo è il caso delle pluralità come la denotazione di tutti gli a, sia il caso di “ambiguità”, come la denotazione di un a. Ora, poiché “termine” è usato, nei Principles, come sinonimo

di “entità”, per indicare «qualsiasi cosa possa essere oggetto di pensiero [object of thought] o possa comparire in una proposizione vera 0 falsa», ne deriva che gli “oggetti” denotati dai concetti denotanti, non sono entità, e non possono essere oggetti di pensiero o essere costituenti di una proposizione vera o falsa. Se gli oggetti sono solo combinazioni (molteplici) d’entità, senza essere a loro volta (singole) entità complesse, il duplice modo di esprimersi di Russell riguardo alla denotazione dei concetti denotanti non rappresenta un’inconsistenza: in questo caso, infatti, dire che un concetto denotante denota un oggetto, potrebbe significare lo stesso che dire che il concetto «denota i vari termini della combinazione combinati nella maniera specificata».?’” Il parlare di ‘oggetti’ denotati sarebbe solo — secondo questo punto di vista — un modo di dire. Landini ([1998a]) propende per quest’interpretazione; egli scrive: «l’interpretazione più caritatevole è prendere l’uso russelliano di “combinazioni di termini” semplicemente come un dispositivo euristico per facilitare la chiarificazione dei generi di concetti denotanti».?°* Ma quest’interpretazione obbliga a una potatura del testo dei Principles difficoltosa, in un resoconto storico. Il punto è che parlare d’oggetti denotati dai concetti denotanti non è solo un modo di dire, nei Principles; Russell

sembra Assegnare a questi oggetti un autentico ruolo esplicativo nella sua teoria della denotazione. Nel cap. 5 dei Principles," per esempio, egli si chiede se la differenza tra i vari generi di concetti denotanti consista nella differenza tra i generi d’oggetti che essi denotano o nel fatto che essi denotano in modo diverso. Lasciando da parte il caso, per esempio, di tutti gli uomini, che «sembra essere un oggetto non ambiguo [unambiguous], sebbene sia grammaticalmente plurale», negli altri casi, dice Russell, la questione non è così semplice: «possiamo dubitare se un oggetto ambiguo sia denotato non ambiguamente, o se un oggetto definito sia denotato ambieuamente».30! L'alternativa sembra essere: il concetto denotante qualche uomo, per esempio, denota un oggetto “ambiguo” (una “combinazione di termini”) o denota in modo ambiguo degli uomini determinati? Russell sceglie la prima possibi293 294 295 29° 297 298 299 200 30!

Russell [1903a], $ 62, p. 62. Russell [1903a], $ 58, p. 55. Russell [1903a], $ 59, p. 58. Russell [1903a], $ 47, p. 43. Russell [1903a], $ 59, p. 58. Landini [1998a], $ 2.7, p. 60. V. Russell [1903a], $ 62, pp. 61-62. Russell [1903a], $ 62, p. 62. Ibid.

I Principles of Mathematics

403

lità: dire “qualche uomo” non è un modo di denotare in modo ambiguo uomini precisi, ma un modo non ambiguo di denotare un certo oggetto: D'ESA

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[...] l’intera processione degli esseri umani attraverso i tempi è sempre rilevante per ogni proposizione in cui compare qualche uomo, e ciò che è denotato essenzialmente non è ciascun uomo separato, ma un genere di combinazione di tutti gli uomini. Questo è più evidente nel caso di ogni, qualsiasi, e un. Cè, quindi, un qualcosa [something] [corsivo mio] di definito, diverso in ciascuno dei cinque casi, che deve, in un certo senso, essere un oggetto, ma è caratterizzato come un insieme di termini combinati in un certo

modo, e questo qualcosa [corsivo mio] è denotato da tutti gli uomini, ogni uomo, qualsiasi uomo, un uomo 0 qualche uomo; ed è con questi oggetti davvero paradossali [very paradoxical objects] che hanno a che fare le proposizioni in cui il corrispondente con-

cetto è usato come denotante.?°

La conclusione secondo cui non ci sono modi “ambigui” o “non ambigui” di denotare, ma solo un modo, non ambiguo, e che la differenza tra generi di concetti denotanti dipenda esclusivamente dalla differenza tra i generi d’oggetti denotati, è ribadita nel capitolo successivo dei Principles: «Abbiamo convenuto nel precedente Capitolo che non vi sono diversi modi di denotare [ways of denoting], ma solo differenti generi di concetti denotanti e corrispondentemente diversi generi d’oggetti denotati»." Con questa formulazione, Russell sembra dunque assegnare agli “oggetti” un ruolo diverso da quello di semplici “modi di dire”. Questo è confermato dal fatto che Russell parli di «oggetti davvero paradossali» e, nella già citata nota in cui — nel cap. 5 — chiarisce il suo uso della parola “oggetto”, egli aggiunga: «Il fatto che possa essere escogitata una parola con un significato più ampio di termine solleva gravi problemi logici. Cfr. $ 47».°° Se Russell davvero avesse concepito gli “oggetti” come un semplice dispositivo euristico, come una facon de parler facilmente parafrasabile, non si comprende come avrebbe potuto vedere nel parlare di “oggetti” qualcosa che può sollevare «gravi problemi logici». Più avanti, nel cap. 6 dei Principles, in riferimento alla denotazione di tutti gli a, Russell suggerisce che il problema di avere “oggetti” che non possono essere resi soggetti logici sia solo apparente: Ma possiamo evitare la contraddizione sempre temibile, vedo nessun modo di ricavare una contraddizione precisa era chiaramente un’entità; nel presente caso, abbiamo a [units]. In una proposizione come “A e B sono due”, non

laddove c’è qualcosa che non può essere resa un soggetto logico? Io non in questo caso. Nel caso dei concetti, noi avevamo a che fare con ciò che che fare con un complesso essenzialmente suscettibile d’analisi in unità c’è soggetto logico [there is no logical subject]: l’asserzione [assertion]

non verte su A, né su B, né sul tutto [whole] composto di entrambi, ma strettamente e solamente [strictly and only] su A e B. Così

sembrerebbe che le asserzioni non siano necessariamente su [about] singoli soggetti [single subjects], ma possano essere su molti

soggetti; e ciò elimina la contraddizione che sorgeva, nel caso dei concetti, dall’impossibilità di fare asserzioni su di essi [about them] a meno che essi fossero trasformati in soggetti. Poiché quest’impossibilità è qui assente, la temibile contraddizione non sorge.305

Ma la difficoltà è rimossa solo se un “oggetto” è ritenuto un semplice modo di dire. Altrimenti permane. Possiamo illustrarla con un esempio: la proposizione espressa da “Ciò che è denotato dal concetto denotante qualsiasi numero non è un termine” dovrebbe essere vera, se la denotazione di qualsiasi numero è un oggetto, e gli oggetti sono diversi dai termini; ma ‘ciò che è denotato dal concetto denotante qualsiasi numero” non è altro che la denotazione di qualsiasi numero; dunque la proposizione espressa da “Qualsiasi numero non è un termine” dovrebbe essere vera. Ma, ovviamente, non è così, perché 1, 2, 3, ecc., sono —

stando ai Principles —

dei termini, e quindi

] qualsiasi numero è un termine. dal fatto confermato è euristico dispositivo semplice un come oggetti di parlare il concepisca Che Russell non menzionato: appena problema nel proprio s'imbatta egli sopra, che, subito dopo il brano riportato Possiamo chiederci, come suggerito dalla precedente discussione, che cosa si deve dire degli oggetti denotati da un uomo, ogni uomo, qualche uomo, e qualsiasi uomo. Questi oggetti sono uno 0 molti o nessuno dei due? La grammatica li tratta come uno. Ma a

questo punto di vista, l’obiezione naturale è, quale uno? Certo non Socrate, né Platone, né qualsiasi altra persona particolare. Possiamo concluderne che non è denotato nessuno? Altrettanto bene potremmo concludere che è denotato ognuno, cosa che in effetti è vera del concetto ogni uomo. lo penso che uno sia denotato in ogni caso, ma in una maniera distributiva imparziale. Qualsiasi numero non è 1 né 2 né qualsiasi altro numero particolare, da cui è facile concludere che qualsiasi numero non è un numero qualsiasi, una proposizione a prima vista contraddittoria, ma in realtà risultante da un’ambiguità in qualsiasi, e più correttamente espressa da

328 ibid!

303 Russell [1903a], $ 72, p. 72.

sDene rola 304 Russell [1903a], $ 58, p. 55. Il $ 47 dei Principles è, per l'appunto, quello in cui Russell spiega che la parola “oggetto”. ampia del vocabolario filosofico» (p. 43) — tesi contraddetta con l’introduzione della parola

305 Russell [1903a], $ 74, pp. 76-77.

“termine” “termine”

«è«è lala parolaparola piùpiù

404

capitolo 6 «qualsiasi numero non è qualche numero”. Ci sono, comunque, dei problemi su quest’argomento che non so ancora come risolveme 306

Si presti attenzione qui al fatto che nella prima metà del brano i corsivi sono usati per indicare concetti denotanti, mentre nella seconda metà (a partire da «Qualsiasi numero non è 1 né 2 [...]») sono usati per riferirsi alla denotazione di questi concetti. La discussione che Russell svolge nella seconda metà è indicativa: è evidente che egli ha in mente l’oggetto denotato dal concetto denotante qualsiasi numero come “congiunzione variabile” di termini; è questa “congiunzione variabile” che non è «qualche numero», cioè che non è identica all’oggetto denotato dal concetto denotante qualche numero — che è ciò che Russell chiama una “congiunzione costante”. Ma questo non è che riformulare la difficoltà: infatti, poiché non esistono numeri indeterminati, qualsiasi numero si possa prendere è qualche particolare numero, cosicché la proposizione espressa da “Qualsiasi numero non è qualche numero” è falsa, e non vera, come suggerisce Russell. È probabile che Russell si rendesse conto di non aver risposto, perché, alla fine del passo riportato, egli ammette l’esistenza di problemi, a questo proposito, che non sa come trattare. Due pagine dopo torna brevemente sull’argomento, rinunciando però ancora a offrirne una soluzione: [...] Ogni (o qualsiasi) uomo è mortale. Questa proposizione solleva questioni molto interessanti nella teoria del denotare: perché essa appare asserire un’identità, mentre è chiaro che ciò che è denotato da ogni uomo è diverso da ciò che è denotato da un mortale. Tali questioni, tuttavia, per quanto interessanti, non possono essere discusse qui.”

Se la proposizione espressa da “Qualsiasi numero non è qualche numero” fosse vera — perché gli oggetti in gioco non sono identici —, la proposizione espressa da “Qualsiasi uomo non è un mortale” dovrebbe essere vera per la stessa ragione; ma allora la proposizione espressa da “Qualsiasi uomo è un mortale” dovrebbe essere falsa: una conclusione assurda. Nell’ultimo paragrafo del capitolo 5 (quello dedicato all’esposizione della teoria della denotazione), Russell riassume le sue posizioni e tenta una soluzione al problema. Egli comincia con l’osservare che «le proposizioni in cui compaiono tali concetti [cioè, i concetti denotanti] sono in generale false se riferite ai concetti stessi». Russell intende dire che, per esempio, la proposizione espressa da “Ho incontrato un uomo” sarebbe in generale falsa, se s’identificasse con la proposizione che asserisce che ho incontrato il concetto denotante un uomo. Subito dopo, egli scrive: Nello stesso tempo, è possibile considerare e costruire [make] proposizioni vertenti [abowf] sui concetti stessi, ma queste non sono

le proposizioni naturali da costruirsi impiegando i concetti. “Qualsiasi numero è pari o dispari” è una proposizione perfettamente naturale, mentre “Qualsiasi numero è una congiunzione variabile” è una proposizione da costruirsi solo in una discussione logica. In tali casi [normali], diciamo che il concetto in questione denota. k

Russell afferma che è possibile costruire proposizioni che vertano su un concetto denotante, e non sull’ossetto da

esso denotato. Questo è inevitabile, secondo la teoria dei Principles, perché, se i concetti denotanti sono entità, devono esserci proposizioni che siano vere di essi. Supponiamo che una proposizione vertente su un concetto denotante sia espressa da “Il significato dell’espressione ‘qualsiasi numero’ è un concetto”. Qui (seguendo la teoria di Russell) potremmo dire quanto segue: l’espressione “il significato dell’espressione ‘qualsiasi numero’” indica un concetto denotante del tipo i/ così e così che, a sua volta, denota un oggetto, che è ciò su cui verte la proposizione e che, in questo caso, è un altro concetto denotante. Volendo, nulla impedisce di adottare il corsivo “qual-

siasi numero” come convenzione grafica per menzionare la stessa cosa di “il significato dell’espressione ‘qualsiasi numero””’: avremo così l’enunciato esprimente la proposizione vera: “Qualsiasi numero è un concetto”.

In realtà, leggendo attentamente il brano riportato e ciò che, nei Principles, viene immediatamente prima, si comprende che non è precisamente questo che Russell ha in mente. Nel brano riportato, Russell dice che le proposizioni che vertono sui concetti non sono le proposizioni naturali che si costruiscono impiegando i concetti; in

quanto precede immediatamente, Russell afferma che, quando un concetto denotante compare in una proposizio-

ne, la proposizione di regola (as a rule) non verte sul concetto stesso, ma su un termine (nel caso di il così e COSÌ)

o su un complesso di termini. Sembra dunque che Russell ammetta che i concetti espressi da “tutti gli a”, “qual300 Russell [1903a], $ 75, p. 77. 307 Russell [1903a], $ 77, p. 79. 208 Russell [1903a], $ 65, p. 64. 309 Ibid.

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405

siasi a”, ecc. sebbene, di regola, compaiano in una proposizione come concetti denotanti che denotano, possano comparire in una proposizione in modo tale da non denotare: in questo caso, la proposizione non verterebbe sull’oggetto denotato dal concetto, ma sul concetto stesso. Questa posizione è coerente con la teoria della denota-

zione dei Principles; secondo tale teoria, infatti, un concetto, diversamente da una cosa è essenzialmente suscetti-

bile di un duplice uso nelle proposizioni: può comparire come termine della proposizione o come concetto.?!° Ora, un concetto denotante è un concetto e, come tale, dev'essere suscettibile di questo duplice uso. Se un concetto denotante compare come termine della proposizione, la proposizione deve vertere sul concetto stesso perché, secondo la teoria dei Principles, «i termini di una proposizione sono quei termini, comunque numerosi, che compaiono in una proposizione e possono essere considerati come soggetti sui quali verte [corsivo mio] la proposizione».*!! Il caso in cui un concetto denotante denota qualcosa su cui la proposizione verte non è dunque il caso in cui tale concetto compare come termine della proposizione, ma il caso in cui esso compare come concetto. Se, considerando una proposizione in cui compare un concetto denotante, si adotta la convenzione secondo cui il corsivo indica l’occorrenza del concetto denotante come termine della proposizione, il risultato sarà quello di prima: la proposizione espressa da “Qualsiasi numero è un concetto” sarà una proposizione vera. Fin qui, tutto bene. Russell, tuttavia, non prende come esempio di proposizione vera vertente su un concetto quella espressa da “Qualsiasi numero è un concetto”, ma quella espressa da “Qualsiasi numero è una congiunzione variabile”. Perché? Perché egli spera di evitare la conclusione assurda che qualsiasi numero sarebbe sia pari 0 dispari sta una “congiunzione variabile” di termini dicendo che, la proposizione espressa da “Qualsiasi numero è una congiunzione variabile” — a differenza di “Qualsiasi numero è pari o dispari” — verterebbe sul concetto. Ma è evidente che si tratta di una confusione: la proposizione espressa da “Qualsiasi numero è una congiunzione variabile’” è una proposizione falsa a proposito del concetto qualsiasi numero: per essere vera, la proposizione deve vertere sulla denotazione di tale concetto. L’errore è indicativo dell’oscillazione di Russell, nei Principia, nel pensare agli “oggetti” denotati dai cinque concetti denotanti tutti gli a, ogni a, qualsiasi a, un a o qualche a talora come non entità (semplici modi di dire, come interpreta Landini), talora come particolari tipi di entità. La tensione è palese in una “distrazione” che si trova nel seguente passo del cap. 5 dei Principles: Così abbiamo, per ogni predicato, tre tipi di proposizioni che si implicano reciprocamente, cioè, “Socrate è umano”, “Socrate ha x? umanità”, e “Socrate è un uomo”. La prima contiene un termine e un predicato, la seconda due termini e una relazione (il secondo termine essendo identico al predicato della prima proposizione), [...] mentre la terza contiene un termine, una relazione, e ciò che È 2 Mae: . So: 312 chiamerò una disgiunzione (un termine che sarà spiegato tra poco).

Sebbene, stando alla teoria della denotazione sostenuta nei Principles, sia il concetto denotante un uomo ad essere contenuto nella proposizione simboleggiata da “Socrate è un uomo”, non la denotazione di questo concetto, in questo brano Russell parla del particolare oggetto denotato da un uomo (la “disgiunzione”) come se fosse un costituente di una proposizione, e dunque un termine, un'entità. Ancora. Alla pagina successiva, Russell lamenta che, sebbene i logici abbiano detto molto sulla combinazione di concetti tra loro per formare nuovi concetti, sia stata dedicata scarsa attenzione «alle combinazioni di termini come tali, a formare ciò che per analogia può essere chiamato termini complessi [corsivo mio]». ‘3 Nel contesto, è chiaro che Russell intende riferirsi ai complessi denotati dai concetti denotanti tutti gli a, ogni a, qualsiasi a, un a

o qualche a. Ma se un termine è un’entità, sembra immediato inferirne che un termine complesso debba essere Ò Pra | un’entità complessa. Così, il problema dello statuto ontologico degli “oggetti” denotati dai concetti denotanti tutti gli a, ogni a, qualsiasi a, un a e qualche a, rimane irrisolto dei Principles. Negli anni successivi ai Principles, Russell continuò a

indagare sulle difficoltà della sua teoria dei concetti denotanti, finché giunse, nel 1905, a un argomento cho cOnSsi-

derò come una confutazione della teoria stessa. L'argomento — riportato in un passo del Celebre articolo On de-

noting” — è oggi noto come “argomento Elegy di Gray” (Gray’s Elegy argument). *In “On denoting”, la teoria

310 V_ Russell [1903a], $ 48, p. 45. i affini SPESE dalle ari 312 Russell [1903a], $ 57, p. 54. Qui Russell introduce la seguente nota a piè di pagina: «Ci sono due oi oO x E Da sa a pone; nelle ue si osservazioni precedenti Le uomo”. è-un se parole, cioè “Socrate è un-uomo” e “Socrate 3

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non si indichi il contrario con un trattino o in altro modo, sarà sempre in questione la seconda. La prima esprime l’identità uomo». un individuo ambiguo [ambiguous]; la seconda esprime una relazione di Socrate con il concetto-classe

313 Russell [1903a], $ 58, p. 55.

314 Ne parleremo nel cap. 7, $ 1.

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di Socrate con

capitolo 6

406

dei concetti denotanti è abbandonata — sia a causa delle difficoltà sulle descrizioni definite che non si riferiscono

a uno e un solo oggetto, sia per l’“Elegy di Gray” — a favore della teoria della quantificazione di Frege, supplementata con una nuova teoria sull’analisi delle descrizioni definite. he

7. AMBIGUITÀ DEL LINGUAGGIO TECNICO DEI PRINCIPLES Abbiamo già osservato che i particolari della filosofia del linguaggio sostenuta nei Principles sono spesso resi oscuri dall’abituale trascuratezza di Russell nel distinguere tra segni e cose da essi simboleggiate. Si può prendere come emblematico il seguente passo del cap. 3 dei Principles: Nelle inferenze da “Socrate è un uomo”, è usuale non considerare il filosofo che irritò gli ateniesi, ma riguardare Socrate semplicemente come un simbolo [symbol], siae di essere rimpiazzato da qualsiasi altro uomo, e solo un volate pregiudizio in favore delle proposizioni vere impedisce di rimpiazzare Socrate con un numero, un tavolo o un plum -pudding

Questa trascuratezza si riflette nell’uso ambiguo, nei Principles, di termini tecnici e convenzioni grafiche. Vediamo alcuni esempi. 7.1. Cominciamo con la parola “denotare”. All’inizio del cap. 5 dei Principles Russell dice: C’è un senso in cui noi denotiamo [denote], quando indichiamo [point] o descriviamo, o impieghiamo le parole come simboli per i concetti; questo, tuttavia, non è il senso che voglio discutere. Ma il fatto che la descrizione sia possibile — che noi possiamo, attraverso l’impiego di concetti, designare [to designate] una cosa che non è un concetto — è dovuto a una relazione logica tra alcuni concetti e alcuni termini, in virtù della quale tali concetti intrinsecamente e logicamente denotano tali termini. È questo senso di

denotare che è qui in questione.*!”

Ufficialmente, dunque, Russell dovrebbe usare il termine “denotare” per indicare una relazione logica tra concetti e altre entità, non una relazione pragmatica tra persone ed entità cui esse intendono riferirsi, né una relazione convenzionale tra simboli ed entità cui questi simboli si riferiscono. Questo è, in effetti, l’uso prevalente, nei Prin-

ciples; ma talora si trova la parola “denotare” usata per indicare una relazione tra simboli ed entità cui i simboli si riferiscono —

sebbene, in quest’accezione, nei Principles sia ufficialmente usato il termine “indicare”. Per esem-

pio, nel cap. 4 si legge: Il fatto è, come vedremo, che umano e umanità denotano precisamente lo stesso concetto, queste parole essendo impiegate rispettivamente secondo il tipo di relazione in cui questo concetto sta con gli altri costituenti della proposizione in cui compare.*'*

Nello stesso cap. 5 in cui è proposto l’uso tecnico di “denotare” si legge DE Sei parole, che ricorrono costantemente nella vita quotidiana, sono anche caratteristiche della matematica; queste sono le parole sutti, ogni, qualsiasi, un, qualche e il. |...] È chiaro, per cominciare, che un’espressione [phrase] contenente una delle precedenti sei

parole denota sempre.*!°

7.2. Negli ultimi due brani riportati, possiamo notare anche l’uso del corsivo, da parte di Russell, per riferirsi a simboli. Anche quando Russell scrive: «Gli 0ggDetti denotati [denoted] per mezzo di [by] tutti [all], ogni [every], qualsiasi [any], un [a] e qualche [some] [...]», #20 il corsivo sembra dover essere interpretato come un mezzo per

indicare le parole, poiché, secondoi Principles,” i concetti denotanti tutti gli a, ogni a, qualsiasi a, un a, qualche a, non possono essere scomposti nel concetto-classe a e in un concetto indicato da una delle espressioni “tutti” . “ogni”, “qualsiasi”, “un” o “qualche”; vale a dire che non vi sono concetti indicati da queste parole. "99

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315 V_ sotto, cap.7,$2.

310 3!7 315 319 320 221

Russell [1903a], $ 37, p. 34. Russell [1903a], $ 56, p. 53. Russell [1903a], $ 46, p. 42. Russell [1903a], $ 58, pp. 55-56. Russell [1903a], $ 59, p. 56. V. Russell [1903a], $ 72, pp. 72-73.

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I Principles of Mathematics

407

Tuttavia, molto spesso, il corsivo è utilizzato, nei Principles, per indicare concetti, non simboli. Talvolta, i due

usi del corsivo sono confusi all’interno dello stesso passo; si prenda, per esempio, il seguente brano del cap. 5:

Per il momento, voglio esaminare il significato d’espressioni [phrases] come tutti gli a, ogni a, qualsiasi a, un a, e qualche a. Tutti gli a, per cominciare, denota una congiunzione numerica; questa è definita non appena è dato a. Il concetto tutti gli a è un singolo concetto perfettamente definito, che denota i termini di a presi tutti insieme.?°?

Quando — come in quest’ultimo brano — sono in gioco concetti denotanti, un corsivo può indicare anche la denotazione del concetto denotante; nel brano seguente (che avevamo già riportato più sopra), il corsivo è usato sia per indicare un concetto denotante, sia per indicare la sua denotazione, sia per indicare un simbolo: Possiamo chiederci, come suggerito dalla precedente discussione, che cosa si deve dire degli oggetti denotati da un uomo, ogni uomo, qualche uomo, e qualsiasi uomo. Questi oggetti sono uno o molti o nessuno dei due? La grammatica li tratta come uno. Ma a questo punto di vista, l’obiezione naturale è, quale uno? Certo non Socrate, né Platone, né qualsiasi altra persona particolare. Possiamo concluderne che non è denotato nessuno? Altrettanto bene potremmo concludere che è denotato ognuno, cosa che in effetti è vera del concetto ogni uomo. Io penso che uno sia denotato in ogni caso, ma in una maniera distributiva imparziale. Qualsiasi numero non è | né 2 né qualsiasi altro numero particolare, da cui è facile concludere che qualsiasi numero non è un numero qualsiasi, una proposizione a prima vista contraddittoria, ma in realtà risultante da un’ambiguità in qualsiasi, e più correttamente espressa da «qualsiasi numero non è qualche numero” °°?

Fino a «Io penso che [...]» il corsivo indica concetti denotanti; le tre successive occorrenze di “qualsiasi numero” indicano l’oggetto denotato dal concetto denotante; infine, il “qualsiasî” in «risultante da un’ambiguità in qualsiasi [...]» indica una parola, un simbolo.

A volte, l’uso del corsivo per indicare un concetto denotante è inestricabilmente confuso con l’uso del corsivo per indicare l’oggetto denotato; si prenda, per esempio, il passo seguente: [...] avevamo indicato cinque modi di denotare, uno dei quali abbiamo chiamato congiunzione numerica [numerical conjunction]. Questo era il tipo indicato da tutti. Questo tipo di congiunzione sembra essere quello che è rilevante nel caso delle classi. Per esempio, essendo uomo il concetto-classe, tutti gli uomini sarà la classe. Ma non sarà tutti gli uomini in quanto concetto ad essere la classe, ma ciò che il concetto denota, ossia certi termini combinati nel particolare modo indicato da tutti. Il modo di combinazione è es-

senziale, perché qualsiasi uomo 0 qualche uomo certamente non è la classe, sebbene ciascuno denoti combinazioni di precisamente gli stessi termini.°°*

Qui il corsivo è usato per espressioni, per concetti denotanti, e per le loro denotazioni. Si rilevi, in particolare, l’ambiguità dell’ultima frase; quando Russell dice: «[...] il modo di combinazione è essenziale, perché qualsiasi uomo o qualche uomo certamente non è la classe [...]», è chiaro che sta usando “qualsiasi uomo” e “qualche uomo” per riferirsi agli oggetti denotati; ma, nella seconda parte della frase, egli dice che ciascuno di essi denota combinazioni degli stessi termini: in questo caso è necessario che “qualsiasi uomo” e “qualche uomo” siano intesi riferirsi ai concetti denotanti, non ai corrispondenti oggetti. E un po’ come dire: “Parigi e Roma sono città diverse, sebbene entrambe denotino agglomerati urbani”. 7.3. L'uso delle virgolette è soggetto alla stessa ambiguità. Spesso sono usate per parlare di concetti e di proposizioni, cioè di entità non linguistiche: ‘di A 325 e Se volessimo parlare del concetto, dovremmo indicare il fatto per mezzo del corsivo o delle virgolette. [...] la proposizione “qualsiasi numero finito è pari 0 dispari” è evidentemente vera; eppure il concetto “qualsiasi numero finito” non è né pari né dispari. Solo i numeri particolari sono pari 0 dispari: non vi è, in aggiunta a questi, un’altra entità, qualsiasi numec x D co 326 ro, che sia pari o dispari [...].

Talvolta sono usate per indicare espressioni: “L'attuale re d'Inghilterra” è, secondo Frege, un nome proprio, e

322 323 324 325 320

Russell Russell Russell Russell Ibid.

[1903a], [1903a], [1903a], [1903a],

$ 60, p. 58. $ 75, p. 77. $ 126, p. 131. $ 56, p. 53.

Inghilterra”

è un nome proprio che è parte di esso”.

capitolo 6

408

indicare Talora sono usate, nell’ambito del medesimo passo, sia per indicare un concetto denotante, sia per

un’espressione, come nel seguente esempio: 05 i TO ; I 328 Del concetto “qualsiasi numero” quasi tutte le proposizioni che contengono l’espressione (phrase) “qualsiasi numero” sono false.

7.4. L’ultimo passo riportato costituisce anche uno dei tanti esempi dell’ambiguità nell’uso del termine “proposizione” (proposition).”°° Ufficialmente, nei Principles, una “proposizione” è un’entità non linguistica: «una proposizione», scrive Russell, «a meno che non sia linguistica [cioè, non verta sul linguaggio], non contiene essa stessa delle parole: contiene le entità indicate dalle parole». D’altra parte, “proposizione” è talora usato per riferirsi agli enunciati che esprimono proposizioni. Un altro esempio si trova nel cap. 1 dei Principles: «Troveremo sempre che, in tutte le proposizioni matematiche, compaiono [occur] le parole [the words] qualsiasi [any] o qualche [some] poi

7.5. Anche espressioni come “nome proprio” “aggettivo” e “verbo” sono usate in modo ambiguo, nei Principles. Primariamente, “nomi propri” “aggettivi” e “verbi” sono, naturalmente, simboli: Tra i termini [terms], è possibile distinguere due generi, che chiamerò rispettivamente cose e concetti. I primi sono i termini indicati [indicated] dai nomi propri, i secondi quelli indicati da tutte le altre parole. [...] Tra i concetti, ancora, si devono almeno distinguere

due generi, cioè quelli indicati dagli aggettivi e quelli indicati dai verbi. I primi saranno spesso chiamati predicati o concetti-classe; gli ultimi sono sempre o quasi sempre relazioni.*?°

Ma molto spesso le medesime espressioni sono usate per riferirsi a entità non linguistiche; per esempio: Un nome proprio, quando esso compare in una proposizione, è sempre, almeno secondo uno dei possibili modi d’analisi (dove ce ne sono diversi), il soggetto intorno a cui verte la proposizione o qualche proposizione costituente subordinata, e non ciò che si dice sul soggetto.*33

Siccome “proposizione” è usato talvolta da Russell per indicare un’entità linguistica, quando ci si dice che un “nome proprio” compare in una “proposizione”, restiamo incerti se “proposizione” sia usato nel suo significato proprio d’entità non linguistica e “nome proprio” sia usato, impropriamente, per “termine della proposizione”, o se “nome proprio” sia usato propriamente e “proposizione” sia usato, impropriamente, per designare un’entità linguistica. Rispetto al brano riportato, è la prima interpretazione ad apparire corretta, poiché Russell dice che il “nome proprio” dev'essere il soggetto intorno a cui verte la proposizione: è evidente che un enunciato in cui compare. per esempio, il nome proprio “Socrate” non sarebbe un enunciato che verte sul nome proprio “Socrate”, ma sarebbe un enunciato su Socrate in carne e ossa.*** Quest’interpretazione, secondo cui Russell starebbe usando “nome proprio” come sinonimo di “termine di una

proposizione”, appare indirettamente confermata anche da ciò che Russell scrive subito dopo riguardo agli “aggettivi” e ai “verbi”: 227 Russell [1903a], $ 480, p. 506. 328 Russell [1903a], $ 56, p. 53. 22° La stessa oscillazione tra un uso “ufficiale” del termine “proposition” e un uso introdotto di soppiatto è presente in numerose opere di Russell, appartenenti ai periodi più disparati della sua carriera filosofica. In proposito, si può consultare l'articolo di Alan R. White “Propositions and sentences” (v. White [1979]).

350 Russell [1903a], $ 51, p. 47.

331 Russell [1903a], $ 6, p. 6. Si veda anche, come esempio ulteriore, il $ 55 dei Principles, dove Russell parla (p. 51) del significato [meaning] di una proposizione. nt:

332 Russell [1903a], $ 48, p. 44. 333 Russell [1903a], $ 46, p. 43.

334 Quest’uso di “nome proprio” al 1902 in cui Russell propone, come so nomi propri. Russell scrive: «Io Una classe che sia costituita da più tutto, così per es. i soldati formano si vuole usare la classe come nome

posto di “termine di una proposizione” compare anche in una lettera di Russell a Frege datata 10 luelio via d’uscita al paradosso da lui scoperto, di negare che le classi siano sempre entità designabili TTI credo che non sempre si possano ammettere le classi come nomi propri [als Eigennamen; corsivo mio] di un oggetto in primo luogo non è un oggetto, ma molti. Ora, una classe ordinaria forina certerbénta ua l’esercito. Questa però non mi sembra una necessità del pensiero, tuttavia è proprio l'essenziale quando proprio [corsivo mio]. Credo perciò di poter dire senza contraddizione che certe classi Gai Faà

te, quelle che sono definite per mezzo di forme quadratiche) sono solo molteplicità [Vielheiten)] e in generale non formano un i

ge [1976], pp. 219-220).

z

F

sa

I Principles of Mathematics

409

Aggettivi e verbi, d’altra parte, possono comparire in proposizioni in cui essi non possono essere considerati come soggetti, ma solo come parti dell’asserzione. Gli aggettivi sono contraddistinti dalla capacità di denotare — un termine che intendo usare in un senso tecnico che si discuterà nel Capitolo V.33°

Qui è evidente che Russell sta parlando di “aggettivi” e “verbi” come entità non linguistiche (degli “aggettivi”, infatti, ci si dice che possono denotare nel senso tecnico specificato nel cap. 5 dei Principles, laddove si chiarisce che non sono le parole a denotare, ma i concetti denotanti). Nel corso dello stesso cap. 4 dei Principles da cui sono tratte le precedenti citazioni di questo sottoparagrafo, si trovano molti altri esempi dell’uso di “aggettivi” e “verbi” per designare, in realtà, le indicazioni di aggettivi e verbi, vale a dire, le entità cui aggettivi e verbi si riferiscono. Per esempio: Un singolo concetto può, secondo le circostanze, essere sostantivo o aggettivo.33°

Così potremo dire che “Socrate è umano” è una proposizione avente un solo termine; dei restanti componenti della proposizione, uno è il verbo, l’altro è un predicato.” I predicati, quindi, sono concetti, diversi dai verbi [corsivo mio], che compaiono in proposizioni aventi solo un termine o soggetto.

338

Il verbo, abbiamo visto, è un concetto che, come l’aggettivo, può comparire in una proposizione senza essere uno dei termini della proposizione, sebbene esso possa anche essere reso soggetto logico.??°

7.6. La parola “termine” è talora utilizzata per riferirsi a parole. Un esempio lo abbiamo già trovato in un passo citato poco sopra, laddove Russell dice che «Gli aggettivi sono contraddistinti dalla capacità di denotare — un termine [term] che intendo usare in un senso tecnico che si discuterà nel Capitolo V».#° Quest’uso non è improprio in sé, poiché le parole si possono considerare entità (linguistiche), e dunque sono “termini” nel senso ufficiale dei Principles. Ma laddove si tratta di distinguere tra una parola e l’oggetto da essa indicato, quest’uso si rivela una possibile fonte di confusione (ne vedremo un esempio nel prossimo paragrafo). 7.7. Come si è già accennato, anche la parola “variabile” è usata in modo ambiguo. L’ambiguità emerge già in un passo del cap. 1 dei Principles: Finché qualsiasi termine nella nostra proposizione può essere trasformato in una variabile [can de turned into a variable], la nostra proposizione può essere generalizzata; e finché questo è possibile, è compito della matematica farlo. Se ci sono diverse catene deduttive che differiscono solo quanto al significato dei simboli, cosicché proposizioni simbolicamente identiche risultano suscettibili di diverse interpretazioni, il procedimento corretto, matematicamente, è formare la classe dei significati che è possibile attribuire ai simboli, e asserire che la formula in questione segue dall’ipotesi che i simboli appartengano alla classe in questione. In tal modo, i simboli che stavano per costanti vengono trasformati [become transformed) in variabili, e si sostituiscono nuove costanti, che consistono di classi cui le vecchie costanti appartengono.

In questo brano, Russell parla dapprima di trasformare un termine di una proposizione in una variabile, al fine di generalizzare la proposizione stessa — e qui, poiché termini e proposizioni sono, nei Principles (almeno nell’uso più proprio), entità non linguistiche, sembrerebbe che una “variabile” debba essere, a sua volta, un'entità

non linguistica. Ma, nell’ultima parte del brano, Russell parla di trasformare in variabili i simboli che stavano per ” i rif costanti — e qui una “variabile” risulta essere un simbolo. Nel cap. 8 dei Principles, intitolato “La variabile”, diviene evidente che le “variabili” non sono intese solo come simboli; vi si legge, infatti: DIA

;

[...] x, la variabile, è ciò che è denotato da qualsiasi termine [any term) [....].

335 Russell Ibid 337 Russell pid 339 Russell 340 Russell 341 Russell 342 Russell

[1903a], $ 46, p. 43. [1903a], $ 48, p. 45.

[1903a], [1903a], [1903a], [1903a],

$ 55, p. 52. $ 46, p. 43. $ 8, p. 7. $ 86, p. 89.

342

capitolo 6

410

OZZIOO

CS

o

S n ETRE Qualsiasi termine è un concetto denotante la vera variabile [cioè, quella non ristretta].

343

[...] x è, in un certo senso, l’oggetto denotato da qualsiasi termine Ri

Qui la variabile è identificata con ciò che è denotato dal concetto denotante qualsiasi termine. Si osservi come, nella terza citazione, la variabile sia identificata con l’oggetto denotato da qualsiasi termine: una riprova della problematica tendenza di Russell a vedere gli oggetti denotati dai concetti denotanti in modo più sostanziale di semplici dispositivi euristici, sebbene in modo meno sostanziale dei termini. Ma la variabile, in quanto compare in una proposizione indicata da un enunciato contenente un simbolo di variabile, non può essere un oggetto, perché un oggetto, non essendo un termine, non può essere un costituente di una proposizione. Dunque, la variabile dei Principles, in quanto costituente di proposizioni — che può sostituire un termine di una proposizione, come si dice nel brano citato del cap. 1 dei Principles —, dev'essere il concetto denotante qualsiasi termine. In realtà, nei Principles, Russell chiama “variabile” sia il simbolo, sia il concetto denotante, sia l'oggetto denotato da esso. Si prenda, per esempio, il passo seguente del cap. 8 dei Principles: In origine, senza dubbio, la variabile era concepita dinamicamente, come qualcosa che cambiava con il trascorrere del tempo, 0, come si diceva, come qualcosa che successivamente assumeva tutti i valori di una certa classe. Non sarà mai troppo presto per abbandonare questo punto di vista. Se si dimostra un teorema concernente n, non si deve supporre che n sia una specie di Proteo aritmetico, che è 1 la domenica e 2 il lunedì, e così via. Né si deve supporre che n assuma simultaneamente tutti i suoi valori. Se n. sta

per [stands for] qualsiasi numero intero, non possiamo dire che n è 1, e neppure che è 2, e neppure che sia un altro numero particolare. In effetti, n denota semplicemente qualsiasi numero, e questo è qualcosa di completamente distinto da ciascuno e da tutti i numeri.”

Che cos’è n, nel brano precedente? Un simbolo, un concetto denotante, o la denotazione di questo concetto? Quando Russell dice che n non è un Proteo aritmetico, intende, ovviamente, la denotazione del concetto qualsiasi numero; ma quando dice che, se n sta per qualsiasi numero intero, ecc., può riferirsi solo al simbolo “n”, o al concetto denotante n (qualsiasi numero); subito dopo, però, Russell afferma che non possiamo dire che n è 1, 0 2, 0

un altro numero particolare: qui, il simbolo “n” si deve riferire ancora alla denotazione del concetto qualsiasi termine; infine, Russell dice che n denota qualsiasi numero, e quest’asserzione è appropriata ancora al concetto denotante n, o al simbolo

“n”, non a ciò che il concetto denotante denota.

66)?

7.8. Talora l’ambiguità coinvolge anche l’uso di termini tecnici dei Principles. Per esempio, “concetto-classe” è un termine tecnico introdotto per la prima volta nei Principles, con lo scopo di riferirsi a certe entità non linguistiche; tuttavia lo troviamo usato, inavvertitamente, anche per riferirsi a simboli; per esempio: Un’espressione denotante [denoting phrase], possiamo ora dire, consiste sempre di un concetto-classe preceduto da una delle precedenti sei parole o da un sinonimo di una di esse.

Anche il termine tecnico “concetto denotante” non è sempre usato con un significato chiaro. Si prenda la conclusione del cap. 5 dei Principles: In una discussione completa, sarebbe stato necessario anche discutere i concetti denotanti: i significati reali [the actual meanings] di questi concetti, in quanto opposti alla natura degli oggetti che essi denotano, non sono stati discussi sopra.‘

Questo passo lascia interdetti, perché è a prima vista difficile comprendere quale sia l'argomento che Russell dice di aver trascurato nel capitolo in via di conclusione. Egli ha trattato per tutto il capitolo delle denotazioni dei

243 Russell [1903a], $ 88, p.91. 344 Russell [1903a], $ 93, p. 94. 245 Si ricordi che questa è comunque, per Russell, solo una prima approssimazione. In definitiva egli dice che la variabile «non è sempliceente qualsiasi termine, ma qualsiasi termine per come entra in una funzione proposizionale» (Russell [1903a], $ 93, p. 94). ni O “qualsiasi termine x per come entra nella funzione proposizionale ...x”, secondo la formulazione più accurata di Russell. “°

Russell [1903a], $ 87, pp. 90-91.

248 Russell [1903a], $ 59, p. 56. 24° Russell [1903a], $ 65, p. 65.

I Principles of Mathematics

411

concetti denotanti; ora dice di non discusso i loro “significati”: ma qual è la differenza? Nel capitolo precedente dei Principles, Russell scriveva: Le parole hanno tutte un significato [meaning], nel semplice senso che esse sono simboli che stanno per qualcosa di diverso da se stesse. [...] Ma concetti come un uomo hanno significato [meaning] in un altro senso: essi sono, per così dire, simbolici nella propria natura logica [symbolic in their own logical nature], perché hanno la proprietà che io chiamo denotare. Vale a dire, quando un uomo compare in una proposizione (per es. “Ho incontrato un uomo per strada”), la proposizione non verte sul concetto un uomo, ma su qualcosa del tutto differente, qualche bipede reale denotato dal concetto.3°°

Da questo passo, si ricava che il “significato” dei concetti denotanti altro non è che ciò che essi “denotano”. Ma allora come può Russell — al termine di un capitolo interamente dedicato agli oggetti denotati dai concetti denotanti — dire di non aver parlato del reale significato di questi concetti? L'unica interpretazione possibile è che Russell intendesse affermare di non aver trattato la natura di quelle entità che sono i concetti stessi. Se è così, quando Russell dice che bisognerebbe discutere «i significati reali di questi concetti [denotanti]», sta usando “concetti” al posto di “espressioni indicanti concetti”, oppure sta usando il termine “significato” di un concetto denotante per indicare il concetto denotante stesso, non la sua denotazione. Questa mancanza d’attenzione alla distinzione tra uso e menzione dei segni rende il testo della prima parte dei Principles talora molto confuso; un passo tipico è il seguente: Riassumendo. Quando un concetto-classe, preceduto da una delle sei parole [sic] tutti, ogni, qualsiasi, un, qualche, il, compare in

una proposizione, la proposizione non è, di regola, a proposito [about] del concetto formato dalle due parole insieme [sic], ma a proposito di un oggetto del tutto diverso da questo, in generale niente affatto un concetto, ma un termine o un complesso di termini.: 3

Russell intende dire che, quando un simbolo per un concetto-classe, preceduto da una delle sei parole “tutti”, “ogni”, “qualsiasi”, “un”, “qualche”, “il”, compare in un enunciato, la proposizione espressa dall’ enunciato non verte sul concetto denotante indicato dalle due parole insieme, ma verte su un oggetto del tutto diverso da questo, in generale niente affatto un concetto, ma un termine o un complesso di termini. Qui il senso si recupera senza difficoltà, ma, come vedremo tra poco, ci sono punti dove la ricostruzione del pensiero di Russell diviene più ardua.

8. LE

FUNZIONI PROPOSIZIONALI

8.1. Per la sua notevole importanza — anche per una migliore comprensione delle successive dottrine di Russell — si deve dedicare un certo spazio alla discussione del significato del termine “funzione proposizionale” (propositional function) nei Principles. Russell mutua l’espressione da Peano e la introduce, nel secondo capitolo dei Principles, come segue: Una proposizione [proposition], possiamo dire, è qualsiasi cosa che è vera o falsa. Un'espressione [expression] come “x è un uomo” non è quindi una proposizione, perché non è né vera né falsa. Se diamo a x un qualsiasi valore costante, |espressione diviene [becomes] una proposizione: è quindi come se fosse una forma schematica che sta per [standing for] una qualsiasi di un intera classe di proposizioni. E quando diciamo “x è un uomo implica x è mortale per tutti i valori di x”, non asseriamo una singola implica-

zione, ma una classe d’implicazioni; abbiamo ora una proposizione genuina, in cui, sebbene compaia la lettera x, non c'è una variabile reale [...]. Peano contraddistingue una variabile che compare in questo modo come apparente, poiché la proposizione non dipende dalla variabile; mentre in “x è un uomo” ci sono diverse proposizioni per diversi valori della variabile, e la variabile è quella

che Peano chiama reale. [...] Parlerò di proposizioni esclusivamente dove non vi è nessuna variabile reale: dove ci sono una o più variabili reali, e per tutti ivalori delle variabili l’espressione implicata [invo/ved] è una proposizione, chiamerò l’espressione una

funzione proposizionale. .

Le variabili reali — nel linguaggio di Peano — sono quelle non quantificate, cioè quelle che, in un enunciato, non stanno nell’ambito di un quantificatore; quelle apparenti sono quelle quantificate. Nel brano appena riportato,

Russell dice che «Un’espressione come “x è un uomo” non è [...] una proposizione, perché non è né vera né fal-

con sa». lasciando intendere che l’espressione “Socrate è un uomo” sarebbe una proposizione. Delle due l’una: o C6_.99 “x”, simbolo del ontologico corrispondente un contenente “espressione” Russell intende un’entità non linguistica

350 Russell [1903a], $ 51, p. 47. 351 Russell [1903a], $ 65, p. 64. 352 Russell [1903a], $ 13, pp. 12-13.

412

capitolo 6

oppure “proposizione” è qui usato in senso linguistico. Evidentemente, è vera la seconda ipotesi, perché Russell parla di una proposizione in cui compare /a lettera x. Nel passo riportato, una “funzione proposizionale” è dunque caratterizzata come un enunciato aperto. Poco più avanti — siamo sempre nel cap. 2 dei Principles —, Russell riprende la nozione di “funzione proposizionale” in questi termini: Possiamo spiegare (ma non definire) questa nozione come segue: @x è una funzione proposizionale se, per ogni valore di x, @x è una proposizione, determinata quando è dato x. Così “x è un uomo” è una funzione proposizionale. In qualsiasi proposizione, comunque complicata, che non contiene variabili reali, possiamo immaginare che uno dei termini, non un verbo o aggettivo, sia rimpiazzato da altri termini: invece di “Socrate è un uomo” possiamo porre “Platone è un uomo”, “Il numero 2 è un uomo”, e così via [...] Così otteniamo successive proposizioni tutte uguali tranne che rispetto all’unico termine variabile. Ponendo x per il termine variabile, “x è un uomo” esprime [expresses] il tipo [type] di tutte queste proposizioni. Una funzione proposizionale in generale sarà vera per certi valori della variabile e falsa per altri.

Questo passo è compatibile con un’interpretazione linguistica delle funzioni proposizionali. Ma non si può dire che sia compatibile solo con tale interpretazione, perché tutti i termini chiave qui presenti sono usati, nei Principles, in modo ambiguo: Il simbolo “@x”, nel brano riportato, è senza virgolette; ma abbiamo già visto che, nei Principles, il corsivo è talvolta usato per indicare simboli, e talvolta usato per indicare il loro riferimento. =» l’espressione “x è un uomo” è posta tra virgolette; ma le virgolette sono anch’esse usate, nei Principles, talvol-

ta per indicare simboli, talvolta per indicare entità non linguistiche (come proposizioni in senso extralinguistico e concetti). =» Il termine “proposizione” è usato, nei Principles, sia per indicare entità non linguistiche, sia per indicare enunciati. = Il termine “variabile” è usato, nei Principles, sia per indicare una lettera (come nel penultimo brano riportato), sia per indicare il concetto denotante indicato da questa lettera — nei casi più semplici, il concetto denotante qualsiasi termine —, sia per indicare la denotazione di questo concetto denotante. = Le parole “termine” “verbo” e “aggettivo” sono usate, nei Principles, talora per indicare dei simboli, talora per indicare le corrispondenti entità. Il termine ‘funzione proposizionale” indica enunciati aperti anche in quei brani delle appendici dei Principles in cui, piPonoado la sua prima teoria dei tipi, Russell parla di “funzioni proposizionali” fornite o non fornite di significato.”* Si prenda, per esempio, il seguente passo dell’appendice A dei Principles: In un’implicazione formale, la variabile, non prende, in generale, tutti i valori di cui sono suscettibili le variabili, ma solo tutti quelli che rendono la funzione proposizionale in questione una proposizione. Per gli altri valori della variabile, si deve sostenere che qualsiasi data funzione proposizionale diviene priva di significato [meaningless].}®

Oppure si prenda il seguente passo del primo paragrafo dell’appendice B dei Principles: Ogni funzione proposizionale @(x) — così si sostiene — ha, in aggiunta al suo decorso di valori [range] di verità, un decorso di gi SiE ZI [significance], ossia un decorso di valori entro i quali deve trovarsi x se @(x) dev'essere una proposizione, vera 0 falsa.”

Da quanto abbiamo detto finora, sembra che le funzioni proposizionali dei Principles si possano interpretare come enunciati aperti. Leggendo i Principles, emerge tuttavia un quadro più confuso. Citiamo alcuni passi rilevanti:

35 Russell [1903a], $ 22, pp. 19-20.

354 Oltre Bos SE 3 che nelle due appendici, anche nel testo dei Principles si trovano affermazioni sulla significatività delle ‘funzioni proposizionali”:

v., per esempio,$ 104, p. 104. 299 Russell [1903a], $ 492, p. 518. 356

i

Ho tradotto con “decorso di valori” la parola “range” quando è usata, nei Principles, in questo significato perché “range” è la parola con

cui Russell traduce il fregeano “Werthverlauf” (v. Russell

397 Russell [1903a], $ 497, p. 523.

[1903a], $ 483, p. 511, prima nota).

Y

I Principles of Mathematics

413

(1) «[...] se la variabile è reale [non vincolata], cosicché abbiamo una funzione proposizionale, non c’è affatto

una proposizione, ma semplicemente una sorta di rappresentazione schematica [schematic representation] di qualsiasi proposizione di un certo tipo. [...] una funzione proposizionale, in cui la variabile è reale, rappre-

senta [represents] qualsiasi proposizione di una certa forma, non tutte [all] queste proposizioni [...]». (cap. 2,

SISI P:295) (2) «In “Socrate è un uomo”, possiamo chiaramente distinguere Socrate e qualcosa che si asserisce di lui; potremmo ammettere senza esitazione che la stessa cosa si può dire di Platone o di Aristotele. Così possiamo considerare una classe di proposizioni contenenti quest’asserzione [assertion], e questa sarà la classe di cui un membro tipico è rappresentato [represented] da “x è un uomo”». (cap. 7, $ 81, p. 84.) (3) «Così x, la variabile, è ciò che è denotato da qualsiasi termine [any term], e @x, la funzione proposizionale, è ciò che è denotato da /a proposizione della forma @ in cui compare x». (cap. 8, $ 86, p. 89.) (4) «[...] @x denota la classe di proposizioni risultanti da diversi valori di x». (cap. 8, $ 86, p. 89.)

(5) «Una funzione proposizionale è la classe di tutte le proposizioni che derivano dalla variazione di un singolo termine [...]». (cap. 8, $ 91, pp. 92-93.) (6) «Una funzione proposizionale di una variabile è qualsiasi proposizione di un insieme definito dalla variazione di un singolo termine, mentre gli altri termini rimangono costanti». (cap. 10, $ 106, pp. 106-107.) (7) «Una variabile, abbiamo detto, è i/ termine in qualsiasi proposizione dell’insieme denotato da una data funzione proposizionale». (cap. 10, $ 106, p. 107.) (8) «[...] possiamo denotare con @(a) una proposizione in cui a è un costituente. Possiamo allora trasformare a in una variabile x, e considerare @(x), dove @(x) è qualsiasi proposizione che differisce da @(a), se ne differisce, solo per il fatto che qualche altro oggetto compare al posto di a; @(x) è ciò che chiamiamo una funzione proposizionale». (cap. 63, $ 338, p. 356.)

I passi riportati appaiono in parziale contrasto tra loro. Talora Russell dice che una funzione proposizionale (monadica) rappresenta una qualsiasi proposizione della classe di tutte le proposizioni che derivano dalla variazione di un singolo termine di una certa proposizione (v. (1) e (2)) — cosa che fa pensare alle funzioni proposizionali come enunciati aperti. Talora dice che una funzione proposizionale denota la classe di tutte le proposizioni che derivano dalla variazione di un singolo termine di una proposizione (v. (4) e (7)) — cosa che fa pensare alle funzioni proposizionali come concetti denotanti. Talora dice che una funzione proposizionale è qualcosa di denotato (v. (3)): la classe di tutte le proposizioni che derivano dalla variazione di un singolo termine (v. (5)), o una qualsiasi proposizione di questa classe (v. (3), (6) e (8).

Il motivo principale del contrasto è che Russell chiama “funzione proposizionale” cose diverse. Come ho anticipato nel $ 4 di questo capitolo, secondo la mia interpretazione l’idea di Russell è che un enunciato aperto, “@x”, indica il concetto denotante qualsiasi (elemento della classe di proposizioni) @ — dove @ è quella che Russell chiama una “classe di proposizioni di forma costante””* — il quale concetto denota un elemento di una “congiunzione variabile” di proposizioni. Russell chiama, di volta in volta, “funzione proposizionale” sia l’entità linguistica, sia il concetto denotante, sia la sua denotazione,”° sia la classe @. L’identificazione di una funzione proposizionale con la classe @ — che, si badi, talora Russell chiama anche “@x” — spiega il contrasto tra le asserzioni che descrivono una funzione proposizionale come una classe di proposizioni di forma costante (0 ciò che la denota), e quelle che la descrivono come un elemento qualsiasi di questa classe (o ciò che lo denota).

8.2. Come vedremo nel cap. 11, nei Principia Mathematica “funzione proposizionale” è usato ufficialmente per designare espressioni predicative. Nell’uso dei Principles, invece, le funzioni proposizionali sono intese come enunciati aperti, concetti denotanti significati da questi enunciati aperti, 0 denotazioni di questi ultimi: in ognuno di

questi casi, le funzioni proposizionali dei Principles contengono variabili (in senso linguistico O ontologico non linguistico). Per designare le espressioni predicative, e per designare le supposte entità intensionali che ne costi-

tuirebbero l’indicazione, nei Principles è invece usato soprattutto il termine asserzione (assertion) e, qualche volta, parte funzionale di una funzione proposizionale.

di tutte le proposizioni, 358 Come già accennato (v. sopra, $ 4), una classe di proposizioni di forma costante, (DEI intuitivamente, la classe

pa, gb, ge, ecc., che si possono ottenere, da una proposizione data pa sostituendo un termine n

ni a.

o

venire

riprova della sua tendenza 359 Che Russell identifichi spesso una funzione con la denotazione di un concetto denotante è, a mio avviso, una

euristici. a vedere negli “oggetti” denotati dai concetti denotanti qualcosa di più di semplici dispositivi

414

capitolo 6

| SE ) Di 3 360 Un’asserzione sarebbe, dice Russell, «tutto ciò che rimane della proposizione quando si omette il soggetto». Più dettagliatamente: Possiamo dire, in generale, che ogni proposizione si può dividere, qualcuna in un solo modo, qualcuna in diversi modi, in un termine (il soggetto) e qualcosa che si dice sul [abowf] soggetto, la qualcosa chiamerò asserzione [assertion]. Così “Socrate è un uomo” si può dividere in Socrate e è un uomo. Il verbo, che è la caratteristica distintiva delle proposizioni, resta con l’asserzione; ma l’asserzione stessa, essendo privata del suo soggetto, non è né vera né falsa.?9! In una larga classe di proposizioni, abbiamo convenuto, è possibile in uno 0 più modi, distinguere un soggetto e un’asserzione sul [about] soggetto. L’asserzione deve sempre contenere un verbo, ma eccetto che sotto quest’aspetto, le asserzioni paiono non avere proprietà universali. In una proposizione relazionale, come “A è più grande di B”, possiamo considerare A come il soggetto, e “è più grande di B” come l’asserzione, o B come il soggetto e “A è più grande di” come l’asserzione. Ci sono dunque, nel caso proposto, due modi di analizzare la proposizione in soggetto e asserzione. Laddove una relazione abbia più di due termini [...] vi saranno più di due modi di farne l’analisi. Ma in qualche proposizione, c’è solo un unico modo: queste sono le proposizioni soggetto-predicato, come “Socrate è umano”.39?

Russell non distingue terminologicamente il caso linguistico da quello ontologico; cioè il caso in cui un’“asserzione’ è una successione di simboli, ottenuti omettendo un nome proprio da un enunciato, da quello in cui è una (supposta) entità indicata da questi simboli. Ma questo è proprio un caso in cui viene meno il parallelismo parole-indicazioni che costituisce lo schema di base della semantica dei Principles. Infatti, mentre è ovvio che un enunciato contenente almeno un nome proprio può sempre dividersi — come riconosce Russell nei due brani sopra citati — nel modo indicato, nei Principles si sostiene che una proposizione in senso ontologico non può sempre dividersi in questo modo. In altre parole, secondo i Principles, alle espressioni predicative non corrispondono sempre degli attributi. Vediamo, infatti, che cosa dice Russell nel cap. 7 dei Principles, intitolato “Funzioni proposizionali”. Egli ammette che, in alcuni casi, la scomposizione di una proposizione (in senso non linguistico) in un soggetto e un’asserzione su questo soggetto sia possibile: In “Socrate è un uomo”, possiamo facilmente distinguere Socrate e qualcosa che si asserisce di lui; potremmo ammettere senza esi-

tazione che la stessa cosa si può dire di Platone o di Aristotele. [...] Nel caso delle proposizioni che asseriscono una relazione fissata con un termine fissato, l’analisi appare egualmente innegabile. [...] Così se R è una relazione fissata e a è un termine fissato, ...Ra è un’asserzione perfettamente definita. (Metto dei puntini prima di R, per indicare il posto in cui va inserito il soggetto per formare una proposizione.)

Ma Russell nega che la suddetta scomposizione sia possibile in generale. La difficoltà emerge, secondo Russell, quando si cerca di analizzare secondo lo schema soggetto-asserzione (in senso ontologico) proposizioni come quella espressa da “Socrate è un uomo implica che Socrate è un mortale”: Si otteneva un’asserzione da una proposizione semplicemente omettendo uno dei termini che compaiono nella proposizione. Ma quando noi omettiamo Socrate [nella proposizione espressa da “Socrate è un uomo implica Socrate è mortale”], otteniamo “... è un uomo implica ... è mortale”. In questa formula è essenziale che, nel ricostruire la proposizione, /o stesso termine sia sostituito nei due posti dove i puntini indicano la necessità di un termine. Non importa quale termine scegliamo, ma esso dev'essere identico in entrambi i posti. Di questo requisito, tuttavia, non vi è nessuna traccia nella supposta asserzione, e non ve ne può essere traccia, poiché è necessariamente omessa ogni menzione del termine che vi si deve inserire.)°*

Naturalmente, lo stesso problema sorge tutte le volte che una stessa variabile compare più di una volta in un enunciato aperto. Russell ne ricava la conclusione che: [...] le proposizioni possono avere una certa costanza di forma, espressa nel fatto che esse sono istanze di una data funzione proposizionale, senza che sia possibile analizzare le proposizioni in un fattore costante e in uno variabile.399

Nell’appendice di Princ iples, Russell critica la teoria delle funzioni di Frege (che egli interpreta come la stessa cosa delle sue ‘“asserzioni”’) proprio su questa base: 350 30! 202 303 304 305

Russell Russell Russell Russell Russell Ibid.

[1903a], [1903a], [1903a], [1903a], [1903a],

$ 81, $ 43, $ 48, $ 81, $ 82,

p. 83. p. 39. pp. 44-45. p. 84. p. 85.

I Principles of Mathematics

415

Il motivo per considerare l’analisi in argomento e funzione come non sempre possibile è che, quando un termine viene rimosso da un conta proposizionale, ciò che rimane tende a non avere nessuna sorta d’unità, ma a disgregarsi in un insieme di termini disgiunti.

Russell provvede un esempio: Ticevuole che siano in qualche modo indicati i posti vuoti in cui va inserito l’argomento; così egli dice che in 2x° + x la funzione è 2() + (). Qui però la sua richiesta che i due posti vuoti debbano essere riempiti dalla stessa lettera non può essere indicata: non

c’è modo di distinguere ciò che intendiamo dalla funzione implicata [involved] in 2x8 + vasi

In realtà, la simbologia di Frege distingue tra “2x° + y” e “2x0 + x”: la prima espressione sarebbe infatti ricavata dal simbolo funzionale “2é? + c”, che denota una funzione diadica, mentre la seconda espressione sarebbe ricavata dal simbolo funzionale “2é' + &”, che denota una funzione monadica. Frege non ricava le funzioni, in senso ontologico, dalla sottrazione di entità da altre entità complesse come le proposizioni, come suppone Russell. Non esiste, nella semantica matura di Frege, nulla di simile alle proposizioni russelliane. Un enunciato, per il Frege maturo, non denota una proposizione, ma un valore di verità —

il Vero o il Falso —; esso esprime un pensiero, ma il

pensiero non è composto dalle denotazioni delle parole che compaiono nell’enunciato, ma dai loro sensi. Dunque non esiste, in questa teoria di Frege, un’entità complessa da cui si possa metaforicamente eliminare, per es., Socrate (l’uomo in carne e ossa), per ottenere l’asserzione (in senso ontologico) simboleggiata da ‘“(...) è saggio”. Per Frege, il concetto di “funzione” è primitivo. Perno dell’ontologia che Russell sostiene nei Principles sono invece le proposizioni, come complessi di entità non linguistiche né mentali; egli cerca quindi le parti funzionali delle funzioni proposizionali, o asserzioni, nella scomposizione

delle proposizioni,

trovando, in questo, difficoltà insormontabili. Ma la sua idea secondo cui le

“asserzioni” (come riferimenti dei predicati) non possono essere considerate sempre come entità, è corroborata, nei Principles, anche da argomenti diversi dalla difficoltà di “estrarle’” dalle proposizioni, e connessi piuttosto con il paradosso di Russell e il teorema di Cantor. Vediamo prima l'argomento derivato dal teorema di Cantor, che si trova nel cap. 10 dei Principles. Quest'argomento dimostra che, se le “funzioni proposizionali”, o le “asserzioni”, fossero sempre entità, sarebbero — assurdamente — più dei termini: Qualsiasi metodo con il quale cerchiamo di stabilire una correlazione uno-uno o molti-uno di tutti i termini e tutte le funzioni proposizionali deve omettere almeno una funzione proposizionale. Tale metodo esisterebbe se tutte le funzioni proposizionali potessero essere espresse nella forma ...e u, poiché questa forma correla u con ...e u. Ma l’impossibilità di qualsiasi correlazione simile si dimostra come segue. Sia @, una funzione proposizionale correlata con x; allora, se la correlazione comprende tutti i termini, la negazione di @,(x) sarà una funzione proposizionale, poiché è una proposizione per tutti valori di x. Ma essa non può essere inclusa nella correlazione; perché se essa fosse correlata con a, @,(x) sarebbe equivalente, per tutti i valori di x, alla negazione di @,(x); ma

quest’equivalenza è impossibile per il valore a, perché rende @,(a) equivalente alla sua propria negazione. Ne segue che ci sono più

funzioni proposizionali che termini — un risultato che sembra evidentemente impossibile, sebbene la dimostrazione sia convincente come qualsiasi altra in matematica.

Riferito alle asserzioni, “argomento di Russell si può interpretare così: sia @,(...) l’asserzione correlata con il termine x. Così, per esempio, l’asserzione correlata con il termine a sarà @(...). Allora, “x non soddisfa la funzione con cui è correlato”, cioè “x non è un @,”, si scriverà “—@,(x)”. Quest’enunciato aperto contiene il predicato “... non è un @..), cioè “—@..)(...)”. Si consideri ora la supposta asserzione cui si riferisce questo predicato,

cioè — @..)(...): essa non può essere correlata con nessun termine; infatti, supponiamo che essa sia correlata con il termine a; allora abbiamo che a soddisfa l’asserzione cui è correlato, cioè @(...), se e solo se soddisfa —@.)(...), in altre parole, @,(a) = —@(a): una contraddizione. 1 LE Come dimostra la collazione,’” il brano appena riportato non era presente nel manoscritto dei Principles consegnato all’editore nel maggio del 1902, e fu aggiunto in seguito. L'argomento derivante dal paradosso di Russell — o meglio, dalla necessità di far fronte a questo paradosso — è invece più antico, e si trova già nel manoscritto del maggio del 1902.

366 397 368 36°

Russell [1903a], $ 482, p. 509. Ibid. Russell [1903a], $ 102, p. 103. V. Blackwell [1984], p. 287.

capitolo 6

416

Nei Principles, il paradosso di Russell è ricostruito in riferimento alle classi, ai predicati (si ricordi che, con questo termine, nei Principles sono designati gli attributi monadici), ai concetti-classe, e alle “asserzioni”, o “parti funzionali delle funzioni proposizionali”. Per ora, tralasciamo il paradosso nella versione insiemistica — che riprenderemo nella prossima sezione — e consideriamone le altre forme. Cominciamo con i predicati e i concetticlasse; il passo rilevante è tratto dal cap. 10 dei Principles: Se x è un predicato, x può essere o non essere predicabile di se stesso. Assumiamo che “non predicabile di se stesso” sia un predicato. Allora supporre che questo predicato sia, o non sia, predicabile di se stesso, è autocontraddittorio. La conclusione, in questo caso, sembra ovvia: “la non-predicabilità di se stessi” non è un predicato.

Enunciamo ora la stessa contraddizione in termini di concetti-classe. Un concetto-classe può essere o non essere un termine della propria estensione. “Concetto-classe che non è un termine della propria estensione” sembra essere un concetto-classe. Ma se è un termine della propria estensione, è un concetto-classe che non è un termine della propria estensione, e viceversa. Così dobbiamo

concludere, contro le apparenze, che “concetto-classe che non è un termine della propria estensione” non è un concetto-classe.??°

Dicendo che “non predicabile di se stesso” non è un predicato, o che “concetto-classe che non è un termine della propria estensione” non è un concetto-classe, Russell intende dire che non si possono ammettere delle entità — attributi, universali — che corrispondano a queste espressioni. Si deve osservare che, poiché la distinzione tra predicati e concetti-classe non è nettamente delineata, nei Principles, —

e Russell lascia più volte intendere che

tale distinzione «è forse solo verbale»?”! — queste due forme del paradosso non appaiono nettamente distinguibili: in generale, secondo Russell, la “contraddizione” mostra che «Una proposizione che apparentemente contiene solo una variabile può non essere equivalente a nessuna proposizione asserente che la variabile in questione ha un certo predicato».?”° Nell'ultimo paragrafo del cap. 7 dei Principles, la forma del paradosso di Russell che coinvolge le “asserzioni” (in senso ontologico), è risolto secondo una linea del tutto analoga alla precedente: esso costituirebbe, cioè, una conferma della tesi, già stabilita da Russell in modo indipendente, secondo cui il simbolo ‘“@” in espressioni come “@X” non ha, in generale, alcun’entità come suo riferimento; scrive Russell: [...] il @ in gx non è un’entità separata e distinguibile: essa vive nelle proposizioni della forma @x, e non può sopravvivere a un’analisi [cioè, a una suddivisione in parti della proposizione]. [...] Se @ fosse un’entità distinguibile, ci sarebbe una proposizione asserente @ di se stessa, che potremmo denotare con @(@); ci sarebbe anche una proposizione non-@(@), negante @(@). In questa proposizione [non-@(@)] possiamo considerare @ come una variabile; otteniamo così una funzione proposizionale. Sorge la questione: può l’asserzione in questa funzione proposizionale essere asserita di se stessa? L’asserzione è la non asseribilità di se stessa,

quindi se può essere asserita di se stessa, non lo può, e se non lo può, lo può. Questa contraddizione si evita riconoscendo che la parte funzionale di una funzione proposizionale non è un'entità indipendente.?”?

La forma del paradosso cui fa riferimento Russell è la seguente. Sia F(...) = (...) non è asseribile di se stessa; abbiamo:

(P)(F(0)=-P(P)), da cui, assegnando a “@” il valore F:

F(F) = -F(F). La SIZOSE di Russell consiste qui nel negare che le “parti funzionali” delle funzioni proposizionali (le “asserzioni”, in senso ontologico) siano, in generale, entità indipendenti, cosicché diviene illegittimo usare variabili che variano su di esse.” 370 37! 272 373

Russell Russell Russell Russell

[1903a], [1903a], [1903a], [1903a],

$ 101, p. 102. V. anche ibid., $ 78. $ 58, p. 56. $ 96, p. 98. $ 85, p. 88.

374 Questo non vuol dire che, nei Principles, non siano ammesse variabili per le parti funzionali di funzioni proposizionali.

Esse erano e-

scluse nel manoscritto dei Principles consegnato all’editore nel maggio del 1902, ma, come vedremo (v. sotto, $ 9.2) queste voaiabili sono

reintrodotte in una correzione al testo che Russell inviò all’editore nel giugno successivo. L'idea (che Russell rifiutava nel rnanioseritto del

maggio 1902) è quella di prendere come valori di una variabile funzionale “” classi di proposizioni di forma costante, e di pose oi delle

restrizioni all’uso di tali variabili (vietando la quantificazione all’interno di quelle che egli chiama “forme quadratiche”) in da da non

I Principles of Mathematics

417

Possiamo riassumere le conclusioni a cui siamo giunti dicendo che, nell’ontologia dei Principles, esistono attributi monadici e poliadici, ma essi non sono, in generale, l'indicazione dei simboli di funzione proposizionale in isolamento. Per esempio, secondo i Principles la saggezza è un’entità, ed è un costituente, per es., della proposizione (in senso non linguistico) Socrate è saggio; ma la funzione proposizionale x è saggio non è, secondo i Principles, un costituente della stessa proposizione. Infatti, la funzione proposizionale contiene una variabile, che non è presente nella proposizione Socrate è saggio. Quanto ai simboli predicativi, il Russell dei Principles nega che, in generale, essi corrispondano a entità. Questa conclusione è interessante, perché individua una notevole continuità di pensiero nella filosofia russelliana; infatti, come vedremo più avanti, la concezione secondo cui non esistono, in generale, i corrispettivi ontologici dei simboli predicativi (monadici o poliadici) — pur esistendo attributi monadici e poliadici — è la medesima idea che Russell sosterrà tra il 1905 e il 1907 nel contesto della sua teoria sostituzionale,”° e poi ancora nei Principia Mathematica.?”°

9. LE CLASSI La teoria delle classi è trattata in diversi punti dei Principles, in particolare: nella parte I, capitolo 6 e $$ 103105 del cap. 10; nella parte II, cap. 15 e cap. 16; nei $$ 484-492 dell’appendice A. La trattazione è prolissa, disordinata, e non sempre coerente: in essa s’intrecciano teorie diverse che, per quanto mi sarà possibile, cercherò qui

di districare. Dalle collazioni tra il manoscritto dei Principles consegnato alla Cambridge University Press nel maggio del 1902 e il testo definitivo,°”” si ricava che una di queste teorie delle classi è più tarda, e fu elaborata da Russell nella seconda metà del 1902, sotto l'influenza dello studio dell’opera di Frege. Nel manoscritto del maggio 1902, sono presenti due linee di pensiero in contrasto tra loro: una secondo cui la distinzione fatta da Peano tra una classe di un solo elemento e quel solo elemento non è valida, un’altra secondo cui questa distinzione è valida. Si può presumere che il disaccordo con Peano, su questo punto, abbia preceduto l’accordo, ma non mi è stato possibile stabilire una cronologia precisa. I fatti sono i seguenti. La tesi secondo cui la distinzione di Peano non è corretta è sostenuta nel cap. 6 dei Principles, soprattutto nei $$ 72 e 74. La tesi secondo cui la distinzione di Peano è corret-

ta è invece sostenuta nel cap. 2 dei Principles, $ 26, e nel cap. 15, soprattutto nel $ 126. Che la distinzione di Peano debba essere accettata è anche sostenuto nell’appendice A dei Principles. Poiché tale appendice fu redatta tra il luglio e il novembre del 1902, si potrebbe pensare che la tesi favorevole all’ipotesi di Peano sia stata elaborata dopo il maggio del 1902 e che i passi contraddittori del testo siano dovuti a una revisione troppo frettolosa. Quest’ipotesi tuttavia non regge, poiché, come dimostra la collazione, tutti i passi Lei so. testo sono già presenti nel manoscritto dei Principles consegnato all’editore alla fine di maggio del 1902. Sembrerebbe dunque che Russell abbia cambiato idea, in proposito, prima della fine del maggio 1902. Quando, è impossibile dirlo. Sappiamo che i capitoli 2 e 6, appartenenti, alla parte I dei Principles, furono redatti uno dopo l’altro in un arco di tempo molto breve, nel maggio del 1902." Il cap. 15 appartiene db. parte Il dei Principles, che fu redatta nel in ogni caso, se questa parte è stata rivista giugno 1901 e non ci sono evidenze che sia stata riscritta in seguito; tra il 13 di maggio del 1902 e il momento o riscritta lo dev'essere stata dopo la parte I dei Principles, in qualche 23 dello stesso mese.®*! Lu dale " Nel seguito di questa sezione cercherò dapprima di dipanare le tesi dei Principles sulle classi che sono già presenti nel manoscritto del 1902; poi esaminerò quanto di ciò che è sostenuto sulle classi nei Principles è dovuto a un’evoluzione avvenuta dopo il maggio del 1902.

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incorrere nel paradosso di Russell (v. sotto, $ 9.2).

375 V. sotto, cap. 8, $ 4. 37 V_ sotto, cap. 11,$ 1.

377 378 379 380 381

V_ V. V. v. v.

Blackwell [1984] e Byrd [1987]. Blackwell [1984] e Byrd [1987]. Blackwell [1987], p. 278. Byrd [1987], pp. 62-63. Blackwell [1984], pp. 279-280.

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capitolo 6

418

9.1. LA TEORIA DELLE CLASSI NEL MAGGIO DEL 1902

9.1.1. Nel cap. 6 dei Principles, Russell osserva che le classi non possono essere identificate — secondo un punto di vista che egli attribuisce a Peano — con i concetti-classe: Il migliore trattamento esistente delle classi è quello di Peano.?*° Ma in questo trattamento sono trascurate un certo numero di distinzioni di grande importanza filosofica. Peano, penso non del tutto consapevolmente, identifica la classe con il concetto-classe; così la relazione di un individuo con la sua classe è, per lui, rappresentata da è un. Per lui, “2 è un numero” è una proposizione in cui si dice che un termine appartiene alla classe numero. Nondimeno, egli identifica l’uguaglianza delle classi, che consiste nell’avere gli stessi termini, con l’identità — un procedimento che è del tutto illegittimo quando la classe è considerata come concetto-classe. Per rendersi conto che uomo e bipede implume non sono identici, non è certamente necessario prendere una gallina e privare il povero uccello delle sue piume. [...] Così, quando identifichiamo la classe con il concetto-classe, dobbiamo ammettere che due classi possono essere uguali [sc. avere la stessa estensione] senza essere identiche. Nondimeno, è chiaro che quando due concetti-classe sono uguali, è implicata qualche forma d’identità, perché diciamo che essi hanno gli stessi termini. Così c’è qualche oggetto che è positivamente identico quando due concetti-classe sono uguali; e quest’oggetto, sembrerebbe, è più propriamente chiamato la classe. [...] Quindi non dobbiamo identificare la classe con il concetto-classe, o considerare “Socrate è un uomo” come

esprimente la relazione di un individuo con una classe di cui è membro.3**

In realtà, Peano non identificava affatto le classi con le entità intensionali che Russell chiama “concetti-classe”;

Russell lo suppone perché Peano (come Frege, ma all’epoca Russell non lo sapeva ancora) ammette l’esistenza di una classe vuota e ritiene che una classe di un solo elemento debba distinguersi da quel solo elemento. Ora, queste distinzioni sono concepibili, secondo Russell, quando s’identifica la classe con il concetto-classe, ma non in quella che egli chiama «una visione estensionale [extensional] delle classi».

In realtà, la visione delle classi di Pea-

no è estensionale — nel senso che attribuiamo oggi al termine —: egli ritiene che una classe sia perfettamente determinata una volta che siano dati i suoi elementi. La differenza fondamentale tra il Russell dei Principles e Peano (potremmo dire, anche, tra il Russell dei Principles e Frege) è che Peano concepisce le classi come oggetti astratti e non riducibili alla somma dei loro elementi, mentre Russell concepisce l’estensionalità delle classi come consistente nell’essere formate, composte, mereologicamente, dai loro elementi — che Russell chiama, indifferentemente, membri (members) o termini (terms) della classe. È indicativo che, nei Principles, Russell scriva, per esempio: «Brown e Jones sono una classe, e Brown singolarmente è una classe».

L’identificazione di una classe

con un complesso formato dai suoi elementi non era però una stranezza, all’epoca: si trattava anzi del punto di vista adottato, più o meno consapevolmente, da tutti gli autori precedenti Cantor, Frege e Peano. Un punto di vista simile si può scorgere in Dedekind®*° e, più esplicitamente, in un trattato di Schròder®*” contro il quale reagì vigorosamente Frege. + a Per Russell, dunque, respingere il punto di vista che egli attribuisce a Peano, e adottare quella concezione delle classi che egli chiama estensionale — ma che noi potremmo dire mereologica — ha due conseguenze: La prima conseguenza è che non c’è una cosa come la classe nulla, sebbene vi siano concetti-classe nulli. La seconda è, che una classe che ha un solo termine si deve identificare, contrariamente all’uso di Peano, con quel solo termine.®*

Quando lesse i Principles, ancora nel 1903, Couturat si oppose a questa concezione russelliana SE estensionalità delle classi. In una lettera a Russell datata 12 ottobre 1903 egli scrive, in riferimento ai Principles: 382 Trascurando Frege, che è discusso nell’ Appendice. [Nota di Russell.]

383 Russell [1903a], $ 69, p. 68. 284 Russell [1903a], $ 486, p. 513. 285 Russell [1903a], $ 68, p. 67. 280 Si veda, per esempio, il modo in cui Dedekind introduce gli insiemi all’inizio di Dedekind [1888]: «Capita molto spesso che cose diverse a, b, c..., considerate per qualsiasi ragione da un comune punto di vista, siano messe insieme nello spirito; si dice allora che esse forma-

no [bilden] un sistema [System] S; le cose a, b, c... si chiamano elementi del sistema $, esse sono contenute [enthalten] in S; ni samente S consiste [besteht] di questi elementi. Un tale sistema S (o collezione [Inbegriff], 0 molteplicità [Mannigfaltigkeit], 0 totalità [Gesamtheit]), essendo un oggetto del nostro pensiero, è a parimenti una cosa; esso è completamente determinato se è deretrainato di ogni cosa, se essa è o no un elemento di S. [...] Il sistema S è perciò lo stesso del sistema 7, in simboli S = 7, se ogni elemento di S è ; N anche ele-

MORO di Te se ogni elemento di 7 è anche elemento di S» ($ 1, punto 2).

K

i PNE Schròder [1890-95]. L’opera di Schroder, in tre volumi usciti, rispettivamente, nel 1890, 1891 e 1895, è più volte citata da Russell Do. Principles — anche se solo una volta in connessione con la teoria delle classi ($ 139, p. 142).

mi V. Frege [1895]. Parleremo tra non molto di quest'articolo. "°

Russell, [1903a], $ 69, p. 68.

I Principles of Mathematics

419

Vi confesso che non vedo bene come la concezione dell’estensione possa impedire di ammettere la classe nulla, e obbligare a identificare la classe singolare con il suo termine unico. Si può sempre concepire una sorta di ricettacolo ideale [réceptacle idéal] dove si mette un oggetto, o anche nessuno (come caso limite). Tutti comprendono che un portafogli dove ci sono 0 fr. 0 cent. è un portafogli vuoto. Sarei molto lieto di sapere se avete cambiato opinione su questa difficoltà, che avete mosso in precedenza alla concezione dell’estensione.?°°

Russell purtroppo non rispose a tale questione, e nelle lettere successive Couturat non vi tornò più sopra. Il punto di vista che Couturat espone nel brano citato, con la metafora del portafogli, consiste nell’identificare le classi con oggetti irriducibili al complesso dei loro elementi. Ma non era questo, come abbiamo visto, il punto di vista del Russell dei Principles: è evidente che se — come il Russell dei Principles — si considera una classe come il complesso formato dai suoi elementi, non può esserci una classe vuota: una volta eliminati tutti i suoi membri, una classe cessa di esserci, proprio come un esercito non può sopravvivere all’eliminazione di tutti i soldati. Certo, nei Principles si riconosce che la nozione di “classe vuota” è necessaria in matematica — tra l’altro, essa è proprio la classe che permette la definizione logicista del numero 0 —; il problema è risolto con un artificio tecnico: poiché, secondo Russell, vi sono concetti-classe vuoti — cioè quei concetti-classe, come chimera o unicorno, che non si applicano a nessun oggetto — Russell propone di assumere, al posto della classe vuota, la classe di tutti i concetti-classe vuoti.” Così ridefinita, la classe vuota non è più un complesso privo d’elementi, ma un complesso che ha come elementi tutte le qualità che non sono qualità di nulla. Russell rileva l'analogia tra questa costruzione e altre da lui già adoperate per estendere il concetto di “numero”: «Un procedimento strettamente analogo ricorre costantemente in matematica, per esempio in ogni generalizzazione del numero [...]».}? L'idea che una classe di un solo elemento debba identificarsi con questo solo elemento è all’origine tuttavia di altre difficoltà, che — ancora prima della pubblicazione dei Principles — porteranno Russell a modificare considerevolmente la sua teoria delle classi. Prima di prendere in esame tali difficoltà, dobbiamo però esaminare un tratto centrale della teoria delle classi dei Principles, cioè la distinzione che Russell fa tra classi come uno (classes as one) e classi come molti (classes as many). La distinzione tra una classe come uno e una classe come molti, dice Russell, «è spesso fatta dal linguaggio: spazio e punti, tempo e istanti, l’esercito e i soldati, la marina e i marinai, il gabinetto e i ministri, illustrano tutti la

distinzione».?°* La classe come uno è dunque intesa come un tutto (whole): il tutto formato dai suoi elementi. Una classe come uno è ciò che Russell, nel cap. 16 dei Principles, chiama un aggregato (aggregate): essa è un termine, cioè un’entità — un termine complesso, in quanto costituito di più termini semplici.” L’esigenza di avere “classi come molti”, oltre che classi come uno, s'impone — dice Russell — quando si considerano le asserzioni numeriche: Quando diciamo “A e B sono gialli”, possiamo rimpiazzare la proposizione con “A è giallo” e “B è giallo”; ma questo non si può fa-

re per “A e B sono due”; al contrario, A è uno e B è uno. Così sembra meglio considerare e com’esprimente un definito genere particolare di combinazione, non una relazione, e che non combina A e B in un tutto, che sarebbe uno. Questo genere particolare di

combinazione sarà in futuro chiamato addizione d’individui [addition of individuals]

Questo genere particolare di combinazione è proprio ciò che Russell intende con “classe come molti”. Nel cap. 15 dei Principles, Russell porta un altro esempio: [...] si possono fare delle asserzioni sulle classi come molti, ma il soggetto di tali asserzioni è molti, non uno soltanto come in altre asserzioni. “Brown e Jones sono due corteggiatori della signorina Smith” è un’asserzione sulla classe “Brown e Jones”, ma non su ; z ; 396 questa classe considerata come un singolo termine.

Nel cap. 6 dei Principles, Russell osserva che, quando si trattano classi finite, è sempre possibile definirle attraverso espressioni che del tipo “A e B e C...” dove A, B, C, ecc. sono gli elementi della classe; ma nel caso di classi che hanno infiniti elementi, è impossibile in pratica — non si tratta, per Russell, di un’impossibilità logica — de-

390 391 392 393 39 395 396

In Russell [2001], p. 309. V_ Russell [1903a], $ 73, pp. 75-76. Russell [1903a], $ 73, p. 75. Russell [1903a], $ 70, p. 68. V. Russell [1903a], $ 133, p. 137. Russell [1903a], $ 71, p. 71. Russell [1903a], $ 127, p. 132.

capitolo 6

420

(19562) finirne l’estensione con un’espressione contenente nomi propri uniti dalla congiunzione “e” (laddove “e esprime l'unione dei termini indicati dai nomi in una classe come molti).?” In questi casi è indispensabile ciò che, nei casi finiti, è facoltativo, cioè intendere una classe come molti come definita in modo intensionale. In tal caso, dice Russell, se u è un concetto-classe, la classe degli u (come molti) è ciò che è denotato dal concetto denotante tutti gli u, che Russell chiama — come già sappiamo — concetto della classe (concept of the class) Scrive Russell:

[...] A e B è ciò che è denotato dal concetto di una classe [concept of a class] di cui A e B sono i soli membri. Se u è un concettoclasse [class-concept] di cui le proposizioni “A è un v” e “B è un w” sono vere, ma di cui tutte le altre proposizioni della stessa forma sono false, allora “tutti gli 4” è il concetto della classe i cui soli termini sono A e B; questo concetto denota i termini A, B com-

binati in un certo modo, e “A e B” sono realmente quei termini combinati esattamente in questo modo.*°°

Così, per esempio, la classe degli uomini, come molti, sarà ciò che è denotato dal concetto denotante tutti gli uomini (concetto che, secondo Russell è altrettanto bene espresso dal plurale “uomini”! Questa nozione [la nozione di classe come molti] appare connessa con la nozione del denotare, spiegata nella Parte I, Capitolo V. Qui avevamo indicato cinque modi di denotare, uno dei quali abbiamo chiamato congiunzione numerica (numerical conjunction). Questo era il tipo indicato da fusti. Questo tipo di congiunzione appare essere quello che è rilevante nel caso delle classi. Per esempio, essendo uomo il concetto-classe, tutti gli uomini sarà la classe. Ma non sarà tutti gli uomini in quanto concetto ad essere la classe, ma ciò che il concetto denota, ossia certi termini combinati nel particolare modo indicato da tutti. Il modo di combinazione è es-

senziale, perché qualsiasi uomo 0 qualche uomo certamente non è la classe, sebbene ciascuno denoti combinazioni precisamente degli stessi termini.‘

Riassumendo, una classe come molti è un oggetto (nel senso tecnico dei Principles) denotato da un concetto denotante del tipo tutti gli a; è cioè una congiunzione numerica, o — come dice anche Russell — un’addizione d’individui. Essendo un oggetto, una classe come molti non è, dunque, un termine, ossia un’entità, come la classe

come uno. In contrasto con la parola aggregato, che è usata per le classi come uno, nei Principles Russell usa collezione (collection) per riferirsi alle classi come molti! L’oscurità del concetto di “classe come molti” deriva in gran parte dall’incerto statuto ontologico degli “oggetti” dei Principles, di cui abbiamo già avuto modo di parlare. Tornando al problema dell’identificazione di una classe di un solo elemento con quel solo elemento, si vede ora chiaramente che, nella concezione di Russell, essa è inevitabile. Infatti, un tutto, un aggregato formato, per esempio, dal solo Socrate, non può essere diverso da Socrate stesso; d’altra parte, un’addizione d’individui formata dal solo Socrate, si riduce ancora una volta a Socrate. Russell respinge, dunque, la distinzione di Peano tra una classe di un solo elemento e quel solo elemento: [...] la distinzione di Peano tra un singolo termine e la classe di cui esso è l’unico termine [è] [...] una distinzione facile da afferrare quando s’identifichi la classe col concetto-classe, ma che è inammissibile secondo il nostro punto di vista sulle classi.‘

Qual è la difficoltà, nel sostenere che una classe di un solo elemento sia identica a quel solo elemento? Cerchiamo di chiarirlo. Nel cap. 6 dei Principles, Russell porta un argomento a favore della distinzione tra classi come uno e classi come molti; egli scrive: Vi è una certa tentazione a identificare la classe come molti e la classe come uno, per es., tutti gli uomini e la razza umana. Tuttavia, ogni volta che una classe consista di più di un termine, si può dimostrare che tale identificazione non è ammissibile. Un concetto di una classe, se denota una classe come uno, non è lo stesso di un qualsiasi concetto della classe che esso denota. Vale a dire. classi di tutti gli animali razionali, che denota la razza umana come un termine, è differente da uomini, che denota gli uomini. ossia la razza umana come molti. Ma se la razza umana fosse identica agli uomini, ne seguirebbe che qualunque cosa denoti l'una deve denotare l’altra, e la differenza suesposta sarebbe impossibile. Potremmo essere tentati di inferirne che la distinzione di Peano, tra

un termine e una classe di cui il detto termine sia il solo membro, debba essere sostenuta, almeno quando il termine in questione sia

una classe. [...] Ma è più corretto, penso, inferirne una distinzione fondamentale tra una classe come molti e una classe come uno

per sostenere che i molti sono soltanto molti, e non anche uno.'

297 398 399 400 40! 40° 403

V. Russell [1903a], $ 71, p. 69, e $ 72, p. 72. V. Russell [1903a], $ 67, p. 67. Russell [1903a], $ 71,p.72. Russell [1903a], $ 67, p. 67. Russell [1903a], $ 126, p. 131. V., per es., Russell [1903a], $ 71, p. 69,e$ 130, p. 134. Russell [1903a], $ 72, p. 73.

404

Russell [1903a], $ 74, p. 76. Il manoscritto consegnato all’editore nel maggio del 1902 era qui un po’ diverso,

.

,

.

-

ma non in modo sostan-

I Principles of Mathematics

421

L'argomento di Russell non è limpidissimo; possiamo parafrasarlo come segue: la classe degli uomini (ciò che è denotato dai concetti denotanti uomini, o tutti gli uomini) ha molti elementi, ma la classe che contiene solo questa classe (ciò che è denotato dai concetti le classi di tutti gli animali razionali, o tutte le classi di tutti gli animali razionali) ha un solo elemento; se, tuttavia, s’identifica una classe di un solo elemento con questo solo elemento,

si perviene alla conclusione inaccettabile che la classe degli uomini debba avere, nel contempo, un solo elemento e molti elementi. Questa conclusione paradossale si può evitare — dice Russell — o mantenendo distinta una classe di un solo elemento da quel solo elemento — soluzione che tuttavia, come abbiamo visto, egli respinge — o distinguendo la classe come uno dalla classe come molti: è la classe degli uomini come molti ad avere diversi elementi, ma è la classe degli uomini come uno ad essere l’unico elemento della classe (di tutte le classi di animali

razionali) contenente solo la classe di tutti gli uomini. In questo modo, anche se s’identifica una classe di un solo elemento con quest’unico elemento, la conclusione paradossale, secondo Russell, è evitata. Dopo che il manoscritto dei Principles era già stato consegnato all’editore, nel maggio del 1902, Russell aggiunse una nota a piè di pagina al brano sopra citato, subito dopo la frase che comincia con «Potremmo essere tentati di inferirne...»; la nota dice: «Questa conclusione è effettivamente tratta da Frege per mezzo di un argomento analogo: Archiv fiir syst. Phil. I, p. 444. Vedi Appendice».'° L'argomento di Frege cui fa riferimento Russell era diretto a confutare la concezione sostenuta da Schréder nelle sue Vorlesungen iiber die Algebra der Logik' secondo cui le classi non sarebbero altro che aggregati d’oggetti. L'argomento è il seguente: Frege osserva che, se le classi non fossero altro che aggregati di oggetti, allora una classe che ha un solo elemento dovrebbe essere identificata con quest’elemento; ma ciò condurrebbe a una contraddizione qualora si considerino classi di classi: [...] possiamo prendere P come [...] una classe comprendente un certo numero d’individui [...]. Se ora Q è [...] la classe degli oggetti che coincidono con P, allora Q è una classe unitaria, contenente solo P come individuo. Se ora fosse corretto che una classe

unitaria coincide con l’unico individuo sotto di essa, allora Q coinciderebbe con P. Supponiamo ora che a e b siano oggetti diversi che sono sotto P; allora essi sarebbero anche sotto O; cioè, sia a sia 6 coinciderebbero con P. Di conseguenza a coinciderebbe an-

che con b, contrariamente alla possibile supposizione che essi siano diversi.”

Il ragionamento di Frege è chiaro: l’identificazione di una classe di un solo elemento con quel solo elemento conduce, nel caso delle classi di classi, alla caduta della distinzione tra appartenenza e inclusione o, se tale distinzione

si mantiene, a una contraddizione. Frege ne conclude (come farà poi Peano) che tale identificazione è impossibile. In alcune parti dei Principles, Russell sostiene invece che si possa rispondere all’argomento distinguendo tra classi come molti e classi come uno. A suo modo di vedere, la prospettiva di Peano consiste nell’identificare le classi come molti con le classi come uno, e nel distinguere invece tra una classe di un solo elemento e quel solo elemento. Indicando con “@? una classe qualsiasi, possiamo sintetizzare in simboli la tesi che Russell attribuisce a Peano: (I )

rome uno =

(2)

Ccome uno (o come molti) # {0}.

Ccome molti

Questo risolve il puzzle di Frege, perché supponendo, per tornare all’esempio di Russell, che a sia la classe di tutti gli uomini, ciascun uomo appartiene ad & mentre l'umanità appartiene ad {}, che è una classe diversa da &. Iti sia la distin- i tra i considera i sie la mancata ancata distinzione distinzi ‘ classi 351UCcome uno e classi classi come me.Iti, errori i sia Russell, tuttavia, dunque: propone egli (2) e (1) a zione tra una classe di un solo elemento e quel solo elemento; in contrapposizione

ziale; in esso si diceva: «Tuttavia se la classe come un termine è identica alla classe come molti, sembrerebbe che un concetto-classe che denota ] una deve denotare l’altra. Ma uomo è un concetto diverso da classe di tutti gli animali razionali; “x è un uomo” è una funzione proposizionale soddisfatta da ciascun singolo uomo, mentre “x è una classe di tutti gli animali razionali’ è una funzione proposizionale soddisfatta da un solo valore, cioè la classe uomini. Sostituendo il concetto della classe per il concetto-classe, uomini denota la classe presa termine a termine, ossia la classe come molti, mentre classi di tutti gli animali razionali denota precisamente la stessa classe presa come un singolo termine. Quindi, sembrerebbe, la distinzione tracciata da Peano, tra un termine e una classe di cui il termine in questione è ilsolo membro, dev’ essere ia tenuta, almeno quando il termine in questione sia una classe. O piuttosto, dobbiamo ammettere una distinzione petite tra una classe

[1984], p. 286). come molti e una classe come uno, per sostenere che i molti sono soltanto molti, e non anche uno» (in Blackwell

405 Russell [1903a], $ 74, p. 76, nota.

406 V. Schréòder c i [1890-95], vol. L di una classe di un solo elemento con quel solo elemento sarà l’identificazione contro argomento stesso Lo 444-445. pp. 407 Frege [1895], ripreso da Frege anche nei Grundgesetze: v. Frege [1893-1903], vol. I, $ 10, p. 18, nota 17.

capitolo 6

422

(1 )

Ccome uno # Come molti

(2)

Ccome uno F {a}.

La soluzione di Russell è basata su due tesi: (a) che sia sempre e solo la classe come molti ad avere più elementi; (5) che sia solo la classe come uno a poter essere un elemento di un’altra classe. Supponendo, come prima, che o sia la classe di tutti gli uomini e a sia un uomo qualsiasi, si avrebbe dunque che a appartiene ad ome molti, MENtre Qomeuno (l’umanità) appartiene ad {&}, ma, poiché da (1) e da (2°) si deduce che come molti # {2}, non si può più concludere che a = Qomeuno- Russell pensa così di aver bloccato l’argomento di Frege.!*

Rimane tuttavia un problema, per Russell: secondo i Principles, le classi come molti sono oggetti, ma non sono termini, ossia non sono singole entità. Non essendo singole entità, le classi come molti non possono essere nominate; esse possono essere denotate (nel senso tecnico dei Principles) da un concetto-classe, 0 possono costituire l’indicazione di simboli complessi — come “A e B e C...” — ma non possono costituire l'indicazione di un singolo nome proprio, perché tutto ciò che può essere indicato da un nome proprio, secondo le tesi originali dei Principles, dev'essere un termine, una entità: Russell riassume ciò dicendo che una classe come molti non può essere un soggetto logico. Ciò comporta che, a fianco del simbolo d’appartenenza “e” — che indica, per Russell, una relazione tra entità —, non possa comparire un simbolo che indichi una classe come molti. Dunque, secondo Russell, in “ae @° “@ non può indicare una classe come molti, ma solo un concetto-classe, o una classe come uno. Nel cap. 6 dei Principles leggiamo: Bisogna dire qualcosa riguardo alla relazione di un termine con una classe di cui è membro, e riguardo alle varie relazioni affini. Una delle relazioni affini si chiamerà €, e sarà fondamentale nella Logica Simbolica. Ma è in una certa misura facoltativo quale di esse assumiamo come simbolicamente fondamentale. Logicamente, la relazione fondamentale è quella di soggetto e predicato, espressa in “Socrate è umano” — una relazione che, come abbiamo visto nel Capitolo IV, è peculiare nel fatto che il relatum non può essere considerato come un termine della proposizione. La prima relazione che si origina da questa è quella espressa da “Socrate ha umanità”, che si distingue per il fatto che qui il relatum è un termine [Russell scrive in realtà: “here the relation is a term”, che il senso del passo ci fa interpretare come un trascorso per “here the relatum is a term”]. Poi viene “Socrate è un uomo”. Questa proposizione, considerata come una relazione tra Socrate e il concetto uomo, è quella che Peano considera come fondamentale; e il suo e esprime la relazione è un tra Socrate e uomo.

Finché usiamo concetti-classe per classi nel nostro simbolismo, questa pratica è inappuntabile; ma se diamo a € questo significato, non possiamo assumere che due simboli che rappresentano concetti-classe uguali [cioè, aventi la stessa estensione] rappresentino entrambi una e la stessa entità. Possiamo andare avanti con la relazione tra Socrate e la razza umana, ossia tra un termine e la sua classe considerata come un tutto [...]. Questa relazione potrebbe ugualmente bene essere rappresentata da e. È chiaro che, poiché una classe, tranne quando ha un solo termine, è essenzialmente molti, essa non può essere come tale rappresentata da una singola

lettera: quindi in qualsiasi Logica Simbolica possibile le lettere che servono da classi [which do duty for classes] non possono rapi: le classi come molti, ma devono rappresentare o concetti-classe, o i tutti composti di classi, o qualche altra singola entità affine.

Poiché i concetti-classe sono entità intensionali, e vi sono, in generale, diversi concetti-classe corrispondenti a una sola classe, Russell assume che le lettere indicanti classi non stiano per concetti-classe, ma per classi come uno. Egli assume che ciò sia possibile postulando che a ogni classe come molti corrisponda, in generale, una classe come uno: «qualsiasi cosa sia molti in generale forma un tutto che è uno [...]».!!" Russell sviluppa ancora la sua concezione delle classi nel cap. 16 dei Principles. Qui egli distingue tre diverse relazioni tra parte (part) e tutto (whole): la relazione d'appartenenza; la relazione d’inclusione; la relazione di un termine con una proposizione di cui il termine è un costituente. Ciò che ora c’interessa sono le prime due rela-

#08 Gia tuttavia una forte tensione, nelle spiegazioni di Russell. Si osservi infatti che, poiché Qrome uno appartiene ad { @}, da (2) si ricava che some uno Appartiene ad ome uno Ora, benché Russell affermi che «Un tutto composto di un termine è quel solo termine» (Russell [1903a], $ 75, p. 77), egli sembra negare che una classe di diversi elementi, presa come uno, possa appartenere a se stessa; in un altro punto dello sten

so cap. 6, infatti, leggiamo: «Un'ulteriore ragione per distinguere i tutti dalle classi come molti è che una classe come uno può essere ano dei termini di se stessa come molti, come in “Le classi sono una tra le classi” (l'equivalente estensionale di “Classe è un concetto-classe”) mentre un tutto complesso non può mai essere uno dei suoi propri costituenti» (Russell

che come uno Appartiene ad Qome uno: Russell [1903a], $ 76, pp. 77-78.

1!0 Russell [1903a], $ 71,p.70.

1! V. Russell [1903a], $$ 135-136.

[1903a], $ 70, p-. 69). Ma allora non può esseri

I Principles of Mathematics

423

zioni. Vediamo, innanzi tutto, che cosa dice Russell della relazione di appartenenza nel manoscritto dei Principles del maggio 1902:'!° Ogni volta che abbiamo una qualsiasi collezione [collection] di molti termini [...] questi termini, ammesso che ci sia qualche funzione proposizionale che tutti loro soddisfano, insieme formano un tutto [whole]. Nel precedente Capitolo abbiamo considerato le classi come formate da tutti i termini [classi come molti], ma l’uso non sembra mostrare ragione per cui la classe, ammesso che non sia membro di se stessa, non potrebbe ugualmente essere considerata come il tutto composto di tutti i termini. La prima è la classe come molti, la seconda la classe come uno. Ciascuno dei termini ha con il tutto una certa indefinibile relazione, [...] che è uno dei

significati della relazione di tutto e parte. Il tutto è, in questo caso, un tutto di un genere particolare, che chiamerò un aggregato [aggregate]: esso differisce da tutti gli altri generi perché è definito non appena sono noti i suoi costituenti.*!?

In una nota a piè di pagina inserita dopo «una certa indefinibile relazione», Russell scrive:1!4 Che può, se vogliamo, assumersi come l’e di Peano. Si deve osservare che questo simbolo richiede che il relatum debba essere uno [un°entità]: quindi il relatum dev'essere o il concetto-classe o il tutto formato dai termini della classe, ma non può essere tutti i termini della classe [cioè, la classe come molti].*!°

In questo passo, Russell illustra il significato del simbolo “€” partendo dagli elementi di una classe (come molti): questi elementi hanno, con il tutto che essi compongono, la relazione simboleggiata da “e”. Russell concorda con Peano che questa relazione debba essere accuratamente distinta dalla relazione d’inclusione; subito dopo il

penultimo brano riportato egli scrive infatti (traduco qui dal testo della versione pubblicata, che non presenta variazioni di rilievo rispetto a quello del manoscritto): Ma la precedente relazione [la relazione di appartenenza] vale solo tra l’aggregato [sc. classe come uno] e i singoli termini della

collezione [sc. classe come molti] componente l’aggregato: la relazione con il nostro aggregato di aggregati contenenti qualcuno ma non tutti i termini del nostro aggregato [sc., la relazione che gli aggregati che contengono qualcuno ma non tutti i termini del nostro aggregato hanno con il nostro aggregato], è una relazione diversa, sebbene anch’essa si chiamerebbe comunemente una relazione della parte col tutto. Per esempio, la relazione della nazione greca con la razza umana è diversa da quella di Socrate con la razza umana; e la relazione del tutto dei numeri primi con il tutto dei numeri è diversa da quella di 2 con il tutto dei numeri. Questa distinzione veramente essenziale [most vital] si deve a Peano.!!°

La distinzione che Russell attribuisce a Peano (ma che facevano anche Frege e Cantor, prima di lui) tra appartenenza e inclusione è essenziale per salvaguardare il principio secondo cui una classe è identificata dai suoi elementi — quello che oggi è noto come principio di estensionalità — e, con ciò, la possibilità di attribuire a ogni classe un numero cardinale definito. Russell vorrebbe dunque sia salvaguardare la distinzione tra appartenenza e inclusione, sia utilizzare le classi come uno al posto delle classi come molti. Ma è possibile? Leggendo i Principles, si ha l'impressione che Russell identifichi una classe (come uno) di oggetti fisici dall’oggetto fisico da essi formato. Si prenda, per esempio, il passo, già citato, del cap. 6 dei Principles nel quale Russell spiega la differenza tra classi come uno e classi come molti: La distinzione tra una classe come molti e una classe come un tutto [as a whole] è spesso fatta dal linguaggio: spazio e punti, tempo e istanti, l’esercito e i soldati, la marina e i marinai, il gabinetto e i ministri, illustrano tutti la distinzione.

Lo spazio, evidentemente, è caratterizzato da certe particolari relazioni tra “punti”, così come un esercito è ca-

ratterizzato da determinate relazioni tra soldati (gerarchiche, o d’appartenenza allo stesso (0 a un diverso) reggimento, compagnia, plotone, ecc.); se la classe dei “punti”, come uno, sidentifica con lo spazio, o una classe di soldati, come uno, s’identifica con un esercito, sembra che le classi come uno di oggetti fisici debbano essere con-

412 La versione pubblicata non è molto diversa da quella riportata qui, ma vi è presente un riferimento alle cosiddette “forme quadratiche” mo (v. sotto, $ 9.2). — di cui tra Russell [1903a], $ 135, pp. 138-139, e le varianti registrate in Byrd | 1987], p. 70. una i job: ndei.

ogni 414 Nel testo pubblicato, la seconda frase di questa nota scompare ed è sostituita da: «L’obiezione a questo REMACAO pers è CIR

funzione proposizionale definisce un tutto del genere richiesto. Il tutto differisce dalla classe come molti pei fatto di essere SN i classi tipo dei suoi termini». Russell fa implicitamente riferimento alla sua teoria secondo cui le “forme quadratiche” non definirebbero

come uno (v. sotto, $ 9.2); vi è inoltre un riferimento alla teoria dei tipi (v. sotto, $ 10).

415 J] testo è ricavato da una collazione tra Russell [1903a], $ 135, p. 139, e le varianti registrate in Byrd [1987], p. 70. 416 Russell [1903a], $ 135, p. 139. 47 Russell [1903a], $ 70, p. 68.

424

capitolo 6

cepite come sistemi fisici di oggetti — e quindi come oggetti fisici esse stesse. Oppure si prenda questo passo dell’ appendice B: Ciò che abbiamo chiamato, nel Capitolo VI, classe come uno, è un individuo [individual], ammesso che i suoi membri siano individui: gli oggetti della vita quotidiana, persone, tavoli, sedie, mele, ecc., sono classi come uno. (Una persona è una classe d’esistenti

psichici, le altre sono classi di punti materiali, forse con qualche riferimento a qualità secondarie.)!!*

In questa interpretazione, non è possibile identificare le classi con classi come uno e, nello stesso tempo, salvaguardare la distinzione tra appartenenza a una classe e inclusione in essa. Illustriamo il punto con un esempio. Supponiamo di avere un mucchio di pietre; la classe di tutte le pietre che formano il mucchio e la classe di tutte le molecole formanti queste pietre saranno classi diverse, se considerate come molti: la prima può avere, diciamo, cinquanta elementi, mentre la seconda ne avrà un numero molto più grande. Ma gli elementi di queste due classi, presi insieme, daranno luogo — secondo la presente interpretazione — sempre allo stesso oggetto concreto: il mucchio di pietre. Se è così, secondo ciò che sostiene Russell, dovremmo dire: una delle suddette pietre è un elemento della classe (come molti) delle pietre che costituiscono il mucchio; dunque appartiene alla corrispondente classe come uno: il mucchio di pietre; d’altra parte, la classe di tutte le molecole che formano una determinata pietra è una sottoclasse della classe (come molti) di tutte le molecole formanti le pietre che stanno nel mucchio; dunque è una sottoclasse della corrispondente classe come uno, che è ancora il mucchio di pietre. Ma se la classe (come uno) di tutte le molecole che formano una determinata pietra s’identifica con quella pietra, la stessa pietra è, a un tempo, sia un elemento, sia una sottoclasse della stessa classe. Il risultato è la caduta della distinzione tra

appartenenza e inclusione. L’argomentazione che precede è basata sull’ipotesi che, per Russell, una classe (come uno) di oggetti fisici sia da interpretare come il sistema fisico che questi oggetti formano nella realtà: in quest’interpretazione, il problema è che la relazione che correla ciascuna classe come molti con la corrispondente classe come uno non è biunivoca; infatti, a ogni classe come molti corrisponderà una sola classe come uno, ma la stessa classe come uno potrà corrispondere a diverse classi come molti. Per esempio, la classe (come molti) di tutti gli atomi che formano un mucchio di pietre, la classe (come molti) di tutte le molecole che formano lo stesso mucchio, o la classe (come molti) di tutte le pietre che sono nel mucchio, corrisponderanno alla stessa classe come uno: il mucchio di pietre. Con ciò, se si usano le classi come uno al posto delle classi come molti, tutte le distinzioni tra le classi come molti che corrispondono a una medesima classe come uno vengono a cadere.

È possibile tentare una difesa da quest’obiezione adottando una differente teoria delle classi come uno; una teoria che appare suggerita, per esempio, in un passo del cap. 16 dei Principles che si trova proprio nella pagina successiva a quella in cui Russell considera la differenza tra appartenenza e inclusione in una classe. Riportiamo il testo come compariva nel manoscritto del maggio 1902:'!° Qualsiasi collezione, se definita da una funzione proposizionale, sebbene come tale sia molti, tuttavia compone [composes] un tutto, le cui parti sono i termini della collezione o qualsiasi tutto composto di qualcuno dei termini della collezione. [...] La parola collezione, essendo singolare, si applica più strettamente al tutto che a tutte le parti; ma la convenienza d’espressione mi ha condotto a trascurare la grammatica, e a parlare di tutti i termini come della collezione. Il tutto formato dai termini della collezione lo chiamo un aggregato. Tale tutto è completamente specificato quando sono specificati tutti i suoi componenti semplici; le sue parti non hanno una connessione diretta tra loro, ma solo la connessione indiretta implicata nell’essere parti di uno e dello stesso tutto.*?®

Nell’ultima frase di questo passo, Russell dice che le parti di una classe come uno non hanno una connessione diretta tra loro, ma solo in quanto parti dello stesso tutto. Se si segue questa prescrizione, l'argomento del muc-

chio di pietre, nella forma precedente, è bloccato. Infatti, in una pietra, le molecole sono tenute insieme da particolari relazioni, per esempio, di posizione spaziale reciproca; pertanto, una pietra differisce dalla classe di tutte le molecole che la compongono, anche se si considera la classe come uno. Di conseguenza, non si può dire che il tutto costituito da tutte le molecole che costituiscono le pietre del mucchio sia identico al tutto costituito da tutte le pietre del mucchio: i due tutti sono distinti perché uno è composto di pietre, e l’altro di molecole. Inoltre, nessuno dei due tutti s’identifica con il mucchio di pietre, perché nel mucchio le pietre (o le molecole) hanno. ancora una volta, delle relazioni di posizione, ecc., che nella classe come un tutto non hanno.

4!8 Russell [1903a], $ 497, p. 523. 7h)(CE

RESOR,

I

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3

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L’unica variante rispetto alla versione pubblicata è la sostituzione, nella prima riga, al posto di “una funzione proposizionale” di “una funzione proposizionale non quadratica”.

420

: 7 q Il testo èuaricavato da una collazione tra Russell [1903a], $ 136, p. 140, e le varianti registrate in Byrd [1987],

p. 70

I Principles of Mathematics

425

Anche adottando questo punto di vista, tuttavia, il problema si ripresenta qualora si considerino classi di classi. Supponiamo, per esempio, di avere un mucchio formato di palline bianche e palline nere mescolate insieme. Consideriamo: (1) la classe & di tutte le palline che stanno nel mucchio; (2) la classe f#che ha per elementi: (a) la classe ydi tutte le palline bianche che stanno nel mucchio e (b) la classe dé di tutte le palline nere che stanno nel mucchio. Le classi

@ e f saranno, in quanto classi come molti, classi diverse. Ma i loro elementi, presi insieme, daran-

no luogo, sembra, allo stesso tutto: la classe delle palline come uno. Poiché ciascuna pallina è un elemento della classe a (come molti) delle palline che stanno nel mucchio, seguendo le tesi di Russell avremo che ciascuna pallina apparterrà alla corrispondente classe come uno: la classe delle palline come uno. D'altra parte, poiché sia ysia ò sono elementi di 8 (come molti), essi apparterranno anche alla classe come uno che corrisponde a /8: che è ancora la classe delle palline come uno. Ma ye é sono sottoclassi di @, e dunque sono incluse in &, e pertanto dovrebbero essere incluse nella corrispondente classe come uno: la solita classe delle palline come uno. In conclusione, abbiamo che ye d devono essere sia elementi sia sottoclassi della stessa classe come uno: cosicché la distinzione tra appartenenza e inclusione collassa nuovamente. L'argomento precedente si basa sull’assunto che un aggregato d’elementi sia indistinguibile da un aggregato d’aggregati la cui somma logica ha gli stessi elementi. Se è così, ancora una volta, la relazione che correla ciascuna classe come molti alla corrispondente classe come uno non è biunivoca. Per esempio, la classe (come uno) di tutti gli atomi che formano un mucchio di pietre, corrisponderà sia alla classe (come molti) di tutti questi atomi sta a qualsiasi classe (come molti) avente per elementi delle classi la cui somma logica dia tutti gli atomi che formano il mucchio di pietre. Ancora una volta, tutte le distinzioni tra classi corrispondenti alla medesima classe co-

me uno vengono a cadere. Ciò suggerisce una possibile linea di difesa contro quest’argomento: sostenere che in una classe (come uno) gli elementi siano tenuti insieme da una relazione particolare che fa di questa classe un’unità, proprio come in una pietra le molecole sono tenute insieme da certe relazioni reciproche che fanno della pietra un’unità. Così, tornando all’esempio precedente, nella classe /, le palline bianche (e quelle nere) sarebbero presenti in quanto aggregate in una unità, mentre nella classe @ esse non sarebbero aggregate in unità. Le classi come uno corrispondenti ad Qe a [ sarebbero dunque distinte. Che Russell possa aver avuto quest'idea è suggerito da un brano del cap. 17 dei Principles — intitolato “Tutti infiniti” (Infinite wholes) — in cui egli discute il problema dei costituenti delle proposizioni. Le proposizioni, per Russell, costituiscono delle unità di tipo differente dagli aggregati: la differenza consistendo nel fatto che, mentre un aggregato è completamente specificato quando sono date le sue parti, una proposizione non è completamente specificata dalle sue parti, ma possiede un’unità che va perduta quando la si scompone.” Russell chiama ‘unit’ le unità come gli aggregati (le classi come uno), e chiama “unity” le unità come le proposizioni. Ora, nel cap. 17 si legge: Possiamo osservare, per cominciare, che un costituente di un costituente è un costituente dell’unità [unity, cioè “proposizione”],0ssia questa forma della relazione della parte col tutto, come la seconda [cioè come la relazione di inclusione in una classe come uno], ma diversamente dalla prima forma [cioè, dalla relazione di appartenenza a una classe come uno], è transitiva. Un costituente sem-

plice può ora essere definito come un costituente che non abbia esso stesso nessun costituente. Possiamo assumere, questione concernente gli aggregati, che nessun costituente della nostra unità [uniy] debba essere un aggregato, 0, stituente che è un aggregato, allora questo costituente debba essere preso come semplice. (Questo modo di vedere reso legittimo dal fatto che un aggregato è un singolo termine, e non ha quel genere di complessità che appartiene 422

per eliminare la se se c'è un coun aggregato è alle proposizio-

ni.)

Trasferendo questo discorso dai costituenti delle proposizioni ai costituenti delle classi come uno, si potrebbe dire: o un aggregato non ha nessun elemento che sia un aggregato o, se ha degli elementi che sono aggregati, allora questi aggregati devono essere presi come elementi semplici dell’aggregato iniziale. In questo modo, una classe di classi (come uno) sarebbe distinta dalla classe (come uno) costituita dalla somma logica dei suoi elementi. Tutto bene, dunque? No, perché ci troviamo ancora di fronte la difficoltà esposta da Frege: la classe { 2} che ha come

elemento

una sola classe

@ (come

uno) è costituita da tutti gli elementi

di & aggregati

in un’unità,

e

nient'altro: dunque { @} non è distinguibile da & questa, come sappiamo, è esattamente l’idea sostenuta da Rus sell. Ma ora l’argomento di Frege procede inarrestabile, dimostrando che ì2} e a devono avere gli stessi elementi — cosa che comporta la caduta della distinzione tra appartenenza e inclusione, 0 una contraddizione.

421 V_ Russell [1903a], $$ 135-136, pp. 139-141. 422 Russell [1903a],$ 141, pp. 144-145.

capitolo 6

426

L’unico modo di evitare la conclusione dell’argomento di Frege, in questo quadro teorico, sembra essere quello di rinunciare a parlare di classi di classi. Come illustrazione di questo punto, prendiamo il seguente puzzle, che Russell propone nel cap. 6 dei Principles: compoDue proposizioni appaiono autoevidenti: (1) Due tutti, costituiti da termini differenti, devono essere differenti; (2) Un tutto

sto di un solo termine è quest’unico termine. Ne segue che il tutto composto di una classe considerata come unico termine è questa classe considerata come unico termine, ed è perciò identico al tutto composto dai termini della classe; ma questo risultato contraddice il primo dei nostri principi supposti autoevidenti.*°5

Si tratta, evidentemente, di una versione ante litteram dell’argomento di Frege contro l’identificazione di una classe di un solo elemento con quel solo elemento, applicato alle classi come uno. La soluzione di Russell è la seguente: Il primo dei nostri principi è universalmente vero solo quando tutti i termini componenti i due tutti sono semplici. Un dato tutto è suscettibile, se ha più di due parti, di essere analizzato in una pluralità di modi; e i costituenti che ne risultano, finché l’analisi non è

spinta fin dove possibile, saranno diversi secondo i diversi modi d'analisi. Questo dimostra che insiemi diversi di costituenti possono costituire lo stesso tutto, e così risolve la nostra difficoltà.44

Ma affermare che l’identità di due tutti dipende solo dall’identità dei loro costituenti semplici è come affermare che gli elementi di un tutto — di una classe come uno — sono solo i suoi costituenti semplici. Ma questo rende impossibile parlare di classi di classi: infatti, una classe potrebbe essere solo una sottoclasse, e mai un elemento di un’altra classe. Tuttavia, se si rinuncia alle classi di classi, la possibilità di fondare la matematica sulle classi va

perduta (si ricordi che, per Russell, i numeri sono classi di classi). 9.1.2. Come dicevamo all’inizio di questa sezione, nei Principles esiste — in contrasto con la tesi del cap. Gis secondo cui una classe di un solo elemento deve identificarsi con quel solo elemento — anche un’altra dottrina, secondo cui la distinzione di Peano (e di Frege) tra una classe che ha un solo elemento e quel solo elemento dev'essere salvaguardata. Come già osservato, tutti i passi rilevanti sono già presenti nel manoscritto dei Principles del maggio 1902, e quindi non derivano da correzioni successive.”° Ecco cosa dice Russell in un passo del cap. 2 dei Principles: Se x è un qualsiasi termine, è necessario distinguere x dalla classe il cui solo membro è x: questa può essere definita come la classe dei termini che sono identici a x. La necessità di questa distinzione, che risulta in primo luogo da considerazioni puramente formali, fu scoperta da Peano; vi ritornerò sopra più avanti. Così la classe dei [numeri] primi pari non dev'essere identificata con il numero 2, e la classe dei numeri che sono la somma di 1 e 2 non dev'essere identificata con il numero 3.4”

Questa stessa tesi è ribadita, con maggiore ampiezza di spiegazioni, nel cap. 15: La questione successiva riguarda la distinzione tra una classe contenente solo un membro, e il solo membro che essa contiene. Se potessimo identificare una classe con il suo predicato 0 concetto-classe definente, non sorgerebbe nessuna difficoltà su questo punto. Quando un certo predicato si addice a uno e un solo termine, è chiaro che quel termine non è identico al predicato in questione. Ma se due predicati si addicono precisamente agli stessi termini, potremmo dire che, anche se i predicati sono diversi, le classi che essi definiscono sono identiche, ossia c’è solo una classe che entrambi definiscono. Se, per esempio, tutti i bipedi implumi sono uomini, e tutti gli uomini sono bipedi implumi, le classi uomini e bipedi implumi sono identiche, sebbene uomo differisca da bipede implume. Questo mostra che una classe non può essere identificata con il suo predicato definente. Sembrerebbe che non resti nulla

se non i termini reali, cosicché quando c’è solo un termine, questo termine dovrebbe essere identico alla classe. Tuttavia per molte ragioni formali questo punto di vista non può fornirci il significato dei simboli che stanno per le classi nella logica simbolica. Per esempio, si consideri la classe dei numeri che, aggiunti a 3, danno 5. Questa è una classe che non contiene nessun termine eccetto il numero 2. Ma noi possiamo dire che 2 è un membro di questa classe, ossia ha con la classe quella peculiare indefinibile relazione che i termini hanno con le classi cui appartengono. Questo sembra indicare che la classe è diversa dal suo unico termine. Questo è un punto importante nella Logica Simbolica di Peano, ed è connesso con la sua distinzione tra la relazione di un individuo con la sua classe e la relazione di una classe con un’altra in cui essa è contenuta. Così la classe dei numeri che. aggiunti a 3, danno 5, è contenuta nella classe dei numeri [cioè, è una sottoclasse della classe dei numeri], ma non è un numero; mentre 2 è un numero, ma non è una classe contenuta nella classe dei numeri [cioè, non è una sottoclasse della classe dei numeri]. Identificare le due oa

425 424 425 120 127

Russell [1903a], $ 75, p. 77. Russell [1903a], $ 75, p. 77. V. Russell [1903a], $ 69, p. 68, e $ 72, p. 73. Per il confronto, v. Byrd [1987] e Blackwell [1984]. Russell [1903a], $ 26, p. 23.

I Principles of Mathematics

427

che Peano distingue è portare devastazione nella teoria dell’infinito, e distruggere la precisione formale di molti argomenti e defini-

zioni. Sembra, in effetti, indubbio che la distinzione di Peano sia giusta, e che si debba trovare qualche modo di discriminare un

termine dalla classe contenente solo questo termine.?*

Nel cap. 15 dei Principles, Russell dice che le classi sono essenzialmente congiunzioni numeriche di termini, cioè sono quanto è denotato da concetti denotanti del tipo tutti gli a, dove a è un concetto-classe: classi come molti, dunque.®° In seguito, nello stesso capitolo, Russell sembra affermare che le classi, così concepite, possono essere soggetti logici, sebbene non siano singoli soggetti logici: [...] si possono fare asserzioni circa [abow] le classi come molti, ma il soggetto di queste asserzioni è molti, non uno solo come in altre asserzioni. “Brown e Jones sono due corteggiatori della signorina Smith” è un’asserzione circa la classe “Brown e Jones”, ma non circa questa classe considerata come un singolo termine."

Ciò, tuttavia, non è inteso a revocare quanto si sostiene in altre parti dei Principles, e cioè che le classi come

molti non possono essere soggetti logici. Infatti, la stessa tesi che le classi come molti possono essere soggetti logici, benché non siano singoli concetti logici, è sostenuta anche nel cap. 6 dei Principles (dove, come abbiamo visto prima, Russell è molto deciso nel rifiutare alle classi come molti il ruolo di entità): In proposizioni come “A e B sono due”, non c’è soggetto logico: l’asserzione non è circa [abour] A, né circa B, né circa il tutto composto da A e B, ma strettamente e solamente su A e B. Così sembrerebbe che le asserzioni non siano necessariamente circa [about] singoli soggetti, ma possano essere circa molti soggetti [...].4"

Il punto è che Russell — almeno nel manoscritto dei Principles del maggio 1902 — non ammette affatto che le classi come molti siano soggetti logici: quando egli dice che i/ soggetto su cui vertono le proposizioni circa le classi come molti è molti e non uno, intende dire che una proposizione di questo genere non ha un singolo soggetto logico, ma molti soggetti logici. Il modo ambiguo di esprimersi di Russell deriva dall’ambiguo statuto ontologico di ciò che Russell chiama oggetti. Nel cap. 15 del manoscritto dei Principles del maggio 1902, dopo aver approvato la distinzione di Peano e aver identificato le classi con classi come molti, Russell prosegue osservando che, se le classi sono concepite così, è impossibile distinguere una classe di un solo elemento da quel solo elemento; la soluzione è individuata nel so-

stituire alle classi degli appropriati concetti: Ora in questo modo di vedere le classi [Russell si riferisce alla prospettiva secondo cui le classi sono essenzialmente molti] [...] una classe di un solo termine dev'essere identificata con quel solo termine; quindi se il formalismo richiede che sia fatta una distinzio: SIE 9 : 433 ne, è essenziale sostituire alla classe o il concetto-classe o il concetto della classe.

La difficoltà, nella proposta di sostituire concetti alle classi, è che — per gli scopi della matematica — per ogni classe come molti occorre trovare un concetto che sia univocamente determinato, una volta data la classe. Russell,

naturalmente, vede il problema e ne tenta una soluzione (cito sempre dal manoscritto del maggio 1902): Ma in questo c’è una difficoltà, poiché dobbiamo scegliere, come concetti che devono essere i numeri, dei concetti che siano determinati quando è data la classe. Tali concetti saranno “membro della classe delle coppie” o “delle terne” 0 ecc. Cioe, avendo definito, per mezzo di un qualsiasi predicato, una certa classe u, possiamo formare il concetto-classe “membro di u”, e questo è deter-

minato quando è data u. Devono essere concetti-classe di questa natura, e non le classi stesse, che sono numeri; a meno che, in ef-

428 429 430 431

Russell [1903a], $ 125, pp. 130-131. V. Russell [1903a], $ 126, p. 131. Russell [1903a], $ 127, p. 132. Russell [1903a], $ 74, pp. 76-77.

ue

r

vai

432 I] testo pubblicato dei Principles, in questo punto, appare successivamente corretto da Russell con un riferimento alla più tarda teoria dei

# Byrd [1987], p. 68. Russell parla qui delle classi come molti, ma ovviamente lostesso problema si pone se le cea a da ne a aggregati. Russell se ne rende perfettamente conto, come dimostra che, proprio nell ultimo paragrafo del capitolo 00 come abbiamo visto prima — è proposta un’identificazione delle classi con classi come uno, egli scrive: «Si deve osservare che ciò che

o

definite abbiamo chiamato classi come uno possono sempre, eccetto quando contengono un [solo] termine [corsivo mio] © nessuno, 0 sono

no as“forme di TIZIO sente dal manoscritto del maggio 1902, dove, al posto di «o sono definite da funzioni quadratiche» si leggeva: «O SONO I escludere che variabili». Su tale questione ci soffermeremo nel prossimo paragrafo. Per ora, ciò che interessa rilevare è che Russell sembra le classi che hanno un solo elemento possano interpretarsi come aggregati.

da funzioni quadratiche, essere interpretate come aggregati» (Russell [1903a], $ 138, p. 141 . IL accenno alle

capitolo 6

428

fetti, non si possano trovare altri concetti-classe, definenti la stessa classe, che siano altresì univocamente determinati quando è data la classe.45*

Questo, però, non funziona. Infatti, se il concetto-classe membro di u si distingue dal concetto-classe membro di {u}, allora, esattamente per la stessa ragione, se “v” e “w” sono diversi nomi (o diverse descrizioni definite) di

una stessa classe u, il concetto-classe membro di v sarà diverso dal concetto-classe membro di w e dunque il concetto-classe che indica la classe v non sarà univocamente determinato da u. D'altra parte se, da u= {w} s’inferisse che il concetto-classe membro di u non si distingue dal concetto-classe membro di {u}, i concetti-classe che surrogano le classi u e {u} coinciderebbero, cosicché l'argomento di Frege procederebbe indisturbato a provocare il collasso della distinzione tra appartenenza e inclusione. 9.1.3. Riassumendo: nei Principles s'intrecciano due dottrine: la prima identifica una classe di un solo elemento con quel solo elemento, e cerca di aggirare l’argomentazione di Frege che dimostra il contrario distinguendo tra classi come molti e classi come uno. Ma le classi come molti non sono singole entità, e quindi Russell le surroga con le corrispondenti classi come uno. Ciò, però, vanifica la distinzione tra classi come molti e classi come uno, riaprendo la strada all’argomento di Frege. Nella seconda dottrina, Russell ammette la distinzione tra una classe di un solo elemento e quel solo elemento, surrogando le classi — che, secondo lui, non consentono tale distinzione — con concetti-classe: ogni classe u sarà surrogata dal concetto-classe membro di u. Se, però, il concetto-classe che surroga u, si distingue dal concettoclasse che surroga {u}, pur essendo u= {w}, allora il concetto-classe che dovrà essere preso come rappresentante di una certa classe non sarà univocamente determinato dalla classe stessa. Se, d’altra parte, il concetto-classe che surroga u non si distingue da quello che surroga {u}, allora il vantaggio di sostituire le classi con concetti-classe è perduto, e si ricade nella difficoltà individuata da Frege.

9.2. IL PARADOSSO DI RUSSELL E LA TEORIA DELLE CLASSI Prima di esaminare lo sviluppo della teoria delle classi di Russell intercorso nella seconda metà del 1902, è necessario considerare l’impatto su di essa prodotto dal paradosso di Russell. Il tentativo finale di soluzione presente nei Principles consiste nella teoria dei tipi sviluppata nell’appendice B del libro, di cui parleremo più avanti. Ma già nel manoscritto dei Principles del maggio 1902 si trova un tentativo di soluzione. Alla fine di giugno del 1902 Russell inviò all’editore delle correzioni a questa prima proposta. La versione pubblicata dei Principles contiene le tracce di entrambi i punti di vista che precedettero l'adozione della teoria dei tipi. Nel $ 8.2 di questo capitolo abbiamo visto che la soluzione del paradosso di Russell nella sua forma coinvolgente le “asserzioni”, o “parti funzionali delle funzioni proposizionali” consisteva inizialmente (nel manoscritto dei Principles del maggio 1902) nel sostenere che le “asserzioni” non sono, in generale, entità (posizione che noi potremmo esprimere dicendo che i predicati, monadici o poliadici, di regola non denotano attributi), e che quindi l’uso di variabili per funzioni proposizionali non è ammissibile in generale. Questa stessa soluzione — secondo ciò che è sostenuto nel manoscritto del maggio 1902 — dovrebbe risolvere il paradosso nel caso delle classi. Per comprendere appieno il punto, cominciamo con il riferirci al cap. 10 dei Principles — intitolato “La contraddizione”. Qui, dopo aver enunciato il paradosso in termini di predicati (nel senso di attributi monadici) e di concetti-

classe — e aver proposto la soluzione consistente nel negare che “non predicabile di se stesso” designi un predicato (nel senso russelliano di “attributo monadico”), o che “concetto-classe che non è un termine della propria estensione” rappresenti un concetto-classe —, Russell descrive il paradosso nella sua versione insiemistica: In termini di classi la contraddizione appare ancora più straordinaria. Una classe come uno può essere un termine di se stessa come molti. Così la classe di tutte le classi è una classe; la classe di tutti i termini che non sono uomini non è un uomo, e così via. Le

classi che hanno questa proprietà formano una classe? Se sì, essa è come uno un membro di se stessa come molti o no? Se lo è,allora è una delle classi che, come uno, non sono membri di se stesse come molti, e viceversa. Così dobbiamo concludere zi le classi che come uno non sono membri di se stesse come molti non formano una classe — 0 piuttosto, che esse non formano una

classe come uno, perché l'argomento non può dimostrare che esse non formano una classe come molti.*° 434 ”

:

È

In Byrd [1987], p. 68. Nella versione pubblicata dei Principles,N questo ‘ 2 brano ox è sostituito con un ùaltro che e allude : alla teoriai

luppata da Russell nell’estate del 1902.

45° Russell [1903a], $ 101, p. 102.

.

n

i tipi

acari

svi -

I Principles of Mathematics

429

Poiché la contraddizione sorge qualora ci si domandi se la classe di tutte le classi che non sono elementi di se stesse è o non è un membro di se stessa, e poiché Russell assume che una classe possa essere un elemento di

un’altra classe solo se è una classe come uno, egli ne conclude che la classe di tutte le classi che non sono elemen-

ti di se stesse non può essere una classe come uno. Poco più avanti, nel $ 103 (siamo sempre nel cap. 10 dei Principles), Russell cerca d’indagare la forma che il paradosso assume se lo si riformula considerando le classi come definite da funzioni proposizionali; egli scrive: Tentiamo, in ogni caso, di formulare la contraddizione completamente in termini di funzioni proposizionali. Ogni funzione proposizionale che non è nulla, abbiamo supposto, definisce una classe, e ogni classe può certamente essere definita da una funzione proposizionale. Così dire che una classe come uno non è un membro di se stessa come molti è dire che la classe come uno non soddisfa la funzione per mezzo della quale essa stessa come molti è definita. Poiché tutte le funzioni proposizionali eccetto quelle che sono nulle definiscono classi, saranno usate tutte, nel considerare tutte le classi aventi la proprietà suddetta. Se una qualsiasi funzione proposizionale fosse soddisfatta da ogni classe avente la proprietà suddetta, ce ne sarebbe quindi necessariamente una soddisfatta anche dalla classe w di tutte queste classi considerata come un singolo termine. Così la classe w non appartiene essa stessa alla classe w, e pertanto ci dev'essere qualche funzione proposizionale soddisfatta dai termini di w ma non da w stessa. Così la contraddi‘ zione riemerge, e dobbiamo supporre, sia che non vi sia nessun’entità come w, sia che non vi sia nessuna funzione proposizionale soddisfatta dai suoi termini e non da altri.*”

Per chiarire meglio la formulazione del paradosso proposta in questo passo, ci serviremo della notazione per le classi utilizzata nei Principia Mathematica, secondo la quale, per esempio, “la classe degli z che soddisfano @” si scrive “ 2 (@2)”. Il paradosso di Russell si può dunque ricavare dalla formula seguente:

(1) (P)(Z(pz)e

Z(Fz)= Z(pz)

Z(92)).

(La classe w di cui parla Russell nel passo sopra riportato è la nostra 2 (F2).) Nel brano riportato, Russell parte dal presupposto che sia vero:

(Pa

î(2)= px)

cioè che ogni funzione proposizionale definisca una classe (tralasciamo qui, per semplicità, l'ulteriore condizione posta da Russell che la funzione proposizionale non sia nulla, cioè sia soddisfatta da almeno un termine). Dunque la (1) si può riscrivere così:

(2) (P)(F(Z(92))=-pP(7(92)), formula che, prendendo F come valore della variabile ‘“”, dà origine al paradosso: (3) F(Z(F2))=-F(z(F2).

Lo scopo originario di questa riduzione, evidentemente, consiste nel cercare di riportare la soluzione della “contraddizione” nella sua forma insiemistica a quella già data per la forma del paradosso coinvolgente le funzioni proposizionali. Infatti, nel manoscritto dei Principles del maggio 1902, il $ 103 continua così: La funzione proposizionale che conduce alla difficoltà si può esprimere in diverse forme equivalenti. Ma la forma TESE

sug-

gerisce una possibilità di soluzione sulle stesse linee della soluzione dell’analoga contraddizione discussa nel Capitolo VII

La discussione cui fa riferimento Russell si trova nel $ 85 dei Principles, ed è quella — che abbiamo già descritto

nel $ 8.2 — in cui il paradosso è ricavato dalla formula: 436 La distinzione posta qui da Russell tra classi come uno e classi come molti — le prime che possono essere membri e

dea: le se-

conde che non lo possono mai — richiama indubbiamente quella tra insiemi e classi proprie che sarà tracciata, alla metà Di anni Venti dello scorso secolo, da von Neumann (in proposito, v. sotto, cap. 12, $ 1.1.3). Una delle differenze fondamentali, rispetto alla soluzione di von Neumann, è che Russell non riconosce nelle classi proprie delle molteplicità “troppo grandi”, ma — come vedremo — delle classi definite attraverso particolari “funzioni proposizionali”.

437 Russell [1903a], $ 103, p. 103. 438 In Blackwell [1984], p. 287.

capitolo 6

430

(P(F(P)=-P(P)). Come sappiamo, la soluzione consisteva nel negare, in generale, legittimità alle variabili per funzioni proposizionali (come “asserzioni”, in senso ontologico); ora Russell riprende quest’analisi del paradosso (siamo sempre nel $ 103 del manoscritto del maggio 1902): Si può suggerire che [per ottenere la contraddizione] introduciamo una funzione proposizionale che implica il trattare le asserzioni [assertions] come entità separabili e analizzabili. Se gx è una funzione proposizionale variabile, la funzione proposizionale suggerita è la negazione di @(ky), dove ky denota, per il momento, la classe delle radici di gx [cioè la classe dei valori che soddisfano @x] considerata come un singolo termine. Ora in @(ky) la variabile è @; così noi trattiamo necessariamente l’asserzione @ come separabile. Abbiamo visto prima che questo è sbagliato, e così la contraddizione sembra essere risolta.**°

Russell usa qui il simbolo “ky” per indicare la stessa cosa che abbiamo simboleggiato prima con * Z(@z)”, cioè la classe di tutte le cose che sono @; in questa simbologia, naturalmente, la contraddizione è ricavata dalla formula seguente, che corrisponde alla precedente (2): (0)(F(kp)=-@(kp)).

La contraddizione è risolta negando la possibilità di trattare ‘“@’° come un’autentica variabile. Russell prosegue precisando (cito sempre dal $ 103 del manoscritto del maggio 1902): Possiamo dire in generale che un’asserzione variabile, o una funzione proposizionale variabile, non dev'essere ammessa senza cautela. Una funzione proposizionale non è essa stessa un’entità, ma è o una classe di proposizioni, o qualsiasi membro di questa classe. Quando la si varia, è necessario trattare @ come una variabile: non andrà bene variare gx come un tutto, perché questo ci darebbe tutte le proposizioni, non tutte le funzioni proposizionali. Così parrebbe che “x non è un x” sia una proposizione per ogni valore di x, ma non sia una funzione proposizionale quando x è variabile. Questo risulta intelligibile solo aderendo strettamente alla dipendenza delle classi dalle funzioni proposizionali. Da ciò risulta che, se qualsiasi termine che compare in una proposizione è essenzialmente una classe, non dobbiamo variare questo termine nella proposizione così come sta, ma dobbiamo prima aggiungere qualche ipotesi che rimuova la necessità di considerare il nostro termine come una classe.**°

Può lasciare perplessi, in questo brano, il punto in cui Russell dice: «parrebbe che “x non è un x” sia una proposizione per ogni valore di x, ma non sia una funzione proposizionale quando x è variabile». Secondo l’analisi di

Russell, se x è 7 (2), allora “(x e x)” equivale a “—@( ? (@z))”?. Dire che -(x € x) è una proposizione per ogni .‘ valore di “x” è dunque come dire che —@( 7 (@2)) è una proposizione per ogni valore di ‘“@”: in che senso, allora, ‘“” non può essere considerata una variabile in ‘“—@( (2)? Ciò che Russell intende dire si può comprendere chiaramente solo facendo una distinzione che egli stesso non fa, nei suoi scritti, ma che oggi è divenuta familiare: si tratta della distinzione tra una lettera schematica e un’autentica variabile. Russell intende affermare che, in “—p(Z(@z)), “@” dev'essere intesa come una lettera schematica, non come una variabile: “—@( è (@2))” non è un enunciato aperto, ma è piuttosto uno schema di enunciati; tutte le volte che a ‘“@” si sostituisce, nello schema ‘(2 (z))”, una formula che esprime realmente una funzione proposizionale, otteniamo un enunciato, ma “p” non è una variabile, non ha affatto “valori” e non può essere quantificata. Non è dunque possibile definire la funzione F, perché una formula come la (2) richiede che ‘“@” entri in un quantificatore, cosa che una lettera schematica non può fare. Le espressioni funzionali che possono essere sostituite a “@” in “—( (@2))” rendendo quest’ultima formula vera, definiscono — secondo Russell — delle classi; ma se si ammette che tutte queste classi possano essere prese insieme a formare una nuova classe, la contraddizione riappare: infatti, se la classe di tutte queste classi è, poniamo,

Z(Fz), ci ritroviamo di fronte alla (3). Russell esce dall’impasse negando che le classi ‘definite attraverso

formule funzionali che soddisfano lo schema “-@( î(@z))” costituiscano una classe come uno: queste classi formerebbero soltanto una pura molteplicità, che non potrebbe essere composta in un’unità. Il $ 104 del manoscritto dei Principles del maggio 1902 comincia così:

199 Ibid. 440 In Blackwell [1984], pp. 287-288.

I Principles of Mathematics

431

Forse il modo migliore di formulare la soluzione suggerita è dire che, se una collezione di termini può essere definita solo per mezzo di una funzione proposizionale variabile, allora, sebbene si possa ammettere una classe come molti, bisogna negare una classe come uno. Quando si dà questa formulazione, risulta chiaro che le funzioni proposizionali possono essere variate, purché la collezione risultante non sia mai resa soggetto e così trasformata in un singolo termine. Così se w è la classe di tutte le classi che possono essere rese soggetti singoli, ma tali che non sono membri di se stesse, w sarà solo molti, non uno, e la questione se w come uno sia un membro di w come molti è una questione concernente un’entità che non ha l’essere, di fatto una non-entità.*!

Riassumendo: secondo la soluzione qui tratteggiata del paradosso di Russell, per le funzioni proposizionali (come corrispettivi ontologici dei simboli predicativi) non si possono usare delle variabili, perché le variabili richiedono un campo d'’entità su cui variare, mentre le funzioni proposizionali (in quanto “asserzioni”’) non sono, in generale, delle entità. L’uso di variabili per funzioni proposizionali sarebbe possibile solo nel caso in cui tali funzioni stano entità indipendenti, cioè quando si tratti di predicati (attributi, o concetti-classe). Resta naturalmente possibile usare lettere schematiche che stiano al posto di determinati simboli di funzione proposizionale — anche se essi non rappresentano alcun’entità — ma tali lettere schematiche non possono in nessun modo entrare nei quantificatori. Una tale soluzione per il paradosso di Russell è drastica: la quantificazione sulle classi si riduce a una quantificazione sulle sole classi definibili attraverso predicati (o concetti-classe). In assenza di un assioma che garantisca che ogni classe può essere definita a partire da un predicato, la fondazione logicista della matematica diviene impossibile. Un assioma del genere avrebbe l’aspetto di una versione ante litteram dell’assioma di riducibilità. Ma l’adozione di un simile assioma, nel contesto della teoria dei Principles, sarebbe impossibile, perché, se per

ogni funzione proposizionale vi fosse un predicato avente la stessa estensione, il paradosso di Russell riapparirebbe. Russell si rese conto di questa situazione, e la sua conclusione, nel manoscritto del maggio 1902 è pessimisti-

ca; nel cap. 15 egli scrive: Un’obiezione alla nostra definizione di numero cardinale si può basare sulla conclusione che abbiamo trovato necessaria [...] per la

soluzione della contraddizione. Perché dobbiamo variare classi e relazioni al fine di ottenere la nostra definizione, e quindi non otteniamo necessariamente come numero un’entità che può essere trattata come un singolo soggetto logico. Filosoficamente, questa è un’obiezione seria, perché mostra che dobbiamo trovare un concetto-classe che indica la classe di classi simili [cioè, cardinalmente simili] a una classe data, e questo concetto-classe non può essere derivato dall’effettiva definizione della classe di classi in oggetto, perché questa definizione ha la caratteristica formale [cioè, quella di richiedere variabili per funzioni proposizionali] che le impedisce di assicurare l’esistenza di un corrispondente concetto-classe. Così i numeri, sembrerebbe, filosoficamente anche se non formalmente, devono essere riammessi come indefinibili.44

Questa, naturalmente, sarebbe la bancarotta del logicismo; non sorprende che Russell abbia abbandonato questa posizione quasi subito: il 25 giugno del 1902, la Cambridge University Press ricevette da Russell un brano da aggiungere al termine del $ 103 del manoscritto consegnato alla fine di maggio.'5 In questo passo Russell dice: D'altra parte, è impossibile escludere completamente le funzioni proposizionali riabile o una relazione variabile, abbiamo ammesso una funzione proposizionale su ogni classe e ogni relazione. La definizione del dominio di una relazione, per tuiscono il calcolo delle relazioni, sarebbero spazzate via dal rifiuto di ammettere

variabili. Ogni volta che è presente una classe vavariabile, che quindi è essenziale per le asserzioni esempio, e tutte le proposizioni generali che costiquesto tipo di variazione.

Russell ne conclude che l’uso di variabili per funzioni proposizionali è una necessità insopprimibile. In quanto segue, nello stesso brano del 25 giugno 1902, Russell propone di ammettere la legittimità di variabili per funzioni proposizionali tutte le volte che non ci si trovi di fronte a quelle che egli chiama forme quadratiche (quadratic forms); citiamo dal testo dell’edizione definitiva, segnalando le varianti rispetto al manoscritto del 25 giugno 1902: Così abbiamo bisogno di qualche altra caratteristica per mezzo della quale distinguere due generi di variazione [al posto di “due generi di variazione” il ms. del 25 giugno reca: “una variazione legittima da una illegittima”]. Questa caratteristica si deve trovare, io penso, nella variabilità indipendente della funzione e dell’argomento. In generale, px è essa stessa una FUNZIONE di due variabili,

@ e x; ciascuna di esse può ricevere un valore costante, e ciascuna di esse può essere variata senza riferimento all’altra. Ma nel tipo di funzioni proposizionali che consideriamo in questo Capitolo [al posto di “che consideriamo il testo del ms. del 25 giugno 1902 reca: “che danno origine alle contraddizioni del tipo che consideriamo”], l'argomento è esso stesso una funzione della funzione [1984], p. 288. 441 J] testo è ricavato da una collazione tra Russell [1903a], $ 104, p. 104, e le varianti registrate in Blackwell

442 In Byrd [1987], pp. 68-69.

443 V. Blackwell [1984], p. 288. zia: Blackwell [1984], p. 288. 444 T] testo è ricavato da una collazione tra Russell [1903a], $ 103, p. 104, e le varianti registrate in

capitolo 6

432

proposizionale: invece di gx, abbiamo @{f(@)}, dove f(@) è definita come una funzione di @. Così quando si varia @, varia anche l'argomento di cui si asserisce @. Così “x è un x” è equivalente a: “ si può asserire della classe dei termini soddisfacenti @”, essendo x tale classe di termini. Se qui si varia @, si varia al tempo stesso l'argomento in una maniera dipendente dalla variazione di @. Per questa ragione, 9{f(@)} [al posto di “@{f(@)}” il testo del ms. del 25 giugno reca: “x è un x e ‘x non è un x””] sebbene sia una proposizione definita [al posto di “sia una proposizione definita” il ms. del 25 giugno reca: “siano proposizioni definite”] quando x è assegnato, non è una funzione proposizionale [al posto di “non è una funzione proposizionale” il ms. del 25 giugno 1902 reca: “non sono funzioni proposizionali”], nel senso ordinario, quando x è variabile. Funzioni proposizionali di questo tipo dubbio si possono chiamare forme quadratiche, perché la variabile entra in esse in un modo pressappoco analogo a quello in cui, in algebra, una variabile compare in un’espressione di secondo grado. [Al posto del punto fermo, nel ms. del 25 giugno c’è un punto e virgola, e il testo prosegue.]®

Il testo del $ 103 dell’edizione definitiva dei Principles si ferma qui; dalle spiegazioni che, invece, Russell aggiungeva nel testo del 25 giugno 1902 citiamo quanto segue: Una funzione proposizionale che compare in un’espressione può essere considerata come variabile purché, quando alla variabile è assegnato un valore costante che è una funzione proposizionale, l’espressione in questione divenga una funzione proposizionale, 0 divenga una proposizione concernente un termine costante che è indipendente dal valore assegnato alla funzione proposizionale variabile. [...] Ma se sia l’asserzione sia l’argomento divengono diversi quando si assegna un diverso valore alla funzione proposizionale variabile, allora abbiamo una forma quadratica, ed è possibile che sorgano contraddizioni. Possiamo, in una parola, considerare

varie asserzioni circa un dato soggetto, o la stessa asserzione circa vari soggetti; ma in una forma quadratica, noi cerchiamo di considerare un’asserzione variabile circa ciò che è asserito, e qui non rimane una sufficiente definitezza.**9

L’uso di variabili per funzioni proposizionali non è dunque più respinto in generale, ma solo nelle espressioni della forma “@{f(@)}”. Nei Principles, Russell parla talvolta, invece che di forme quadratiche, di funzioni quadratiche;*"” ma si tratta di un modo di esprimersi improprio: le forme quadratiche sono schemi enunciativi, che non contengono variabili, ma lettere schematiche, e pertanto non sono affatto funzioni. Poiché Russell non distingue tra variabili e lettere schematiche, egli si sforza di chiarire la differenza tra le forme quadratiche, che sono schemi enunciativi, e le funzioni proposizionali (come enunciati aperti) dicendo che le forme quadratiche non sono funzioni proposizionali «nel senso ordinario». Russell ammette che questi schemi (le forme quadratiche) definiscano classi come molti, ma non classi come uno; ecco come risulta corretto nel testo pubblicato l’inizio del $ 104 dei Principles, che abbiamo riportato, nella versione del maggio 1902, un paio di pagine addietro: Forse il modo migliore di formulare la soluzione suggerita è dire che, se una collezione di termini può essere definita solo per mezzo di una funzione proposizionale variabile, allora, sebbene si possa ammettere una classe come molti, bisogna negare una classe come uno. Quando si dà questa formulazione, risulta chiaro che le funzioni proposizionali possono essere variate, purché la collezione risultante non sia mai resa soggetto nella funzione proposizionale originale. In tali casi [cioè, nel caso di forme quadratiche] c’è solo la classe come molti, e non la classe come uno.

Ma com'è possibile che si ammettano variabili per funzioni proposizionali se le asserzioni, in generale, non sono entità? La risposta è data da Russell nel passo dei Principles che, nella versione pubblicata, rimpiazza la seconda parte del $ 103 del manoscritto del maggio 1902 — quella, citata qualche pagina addietro," in cui egli sosteneva che, non essendo le asserzioni, in generale, delle entità, non si possono usare variabili che variano su di

esse. Nella versione definitiva Russell scrive: Si potrebbe pensare di trovare una soluzione negando la legittimità di funzioni proposizionali variabili. Se denotiamo con Ko, per il momento, la classe di tutti i valori soddisfacenti @, la nostra funzione proposizionale è la negazione di P(kp), dove @ è la variabile

445 Russell [1903a], $ 103, p. 104. Per la collazione mi sono servito di Blackwell [1984], p. 288.

440 In Blackwell [1984], p. 288.

.

447 V., per es., $ 492, p. 518: «[...] la classe come uno, o il tutto composto dai termini della classe, è probabilmente una genuina entità eccetto quando la classe è definita da una funzione quadratica [...]». 448 Russell [1903a], $ 103, p. 104. Naturalmente, qui è presente anche l’ambiguità di Russell nel chiamare “funzione proposizionale” talvolfa un enunciato aperto, talvolta il concetto espresso da quest’enunciato aperto. Il brano inizia con le stesse parole: «Forse il modo migliore...».

= Iltesto È ricavato da una collazione tra Russell [1903a], $ 104, p. 104, e le varianti registrate in Blackwell [1984], p. 288.

© Si ti tratta dei brani che cominciano con “La funzione proposizionale che conduce alla difficoltà...”, “Si può suggerire che...” e “Possiamo dire in generale...”.

I Principles of Mathematics

433

La dottrina del Capitolo VII, che @ non è un’entità separabile, potrebbe far sembrare illegittima una tale variabile; ma quest’obiezione si può superare sostituendo a @ la classe delle proposizioni gx, o la relazione di @x con x.

Qui Russell accetta proprio quel punto di vista che aveva respinto nel manoscritto originale, cioè di sostituire

a CR OR cui, qualsiasi cosa sia, è uno: Quodlibet ens est unum.” Ciò è testimoniato da molti c passi 5 deio Principles; per esempio: «Tutto ciò che può essere un oggetto di pensiero, o possa comparire in una proposizione vera o falsa, 0 possa essere contato come uno [corsivo mio], lo chiamerò un termine».'”! Nei Principles, questa prospettiva dava origine a dilemmi come il seguente:

Una classe che ha molti termini dev'essere considerata per se stessa come uno 0 come molti? Prendendo la classe come equivalente semplicemente alla congiunzione numerica “A e B e C e ecc.”, sembra evidente che essa sia molti; tuttavia è assolutamente necessario che possiamo contare le classi ciascuna come una, e abitualmente parliamo di una classe [a class]. Così le classi sembrerebbero essere uno [one] in un senso e molti [many] nell’altro.°?

Questa, per Frege, era semplicemente una confusione. Già vent'anni prima dei Principles,” egli aveva distinto tra due possibili significati della locuzione “essere uno”: cioè “essere qualcosa” o “avere numero cardinale uno”: ogni oggetto, per Frege, è qualcosa," ma solo determinati concetti — quelli sotto cui cade un solo oggetto — hanno la proprietà di avere numero cardinale uno.‘ Più tardi, nei Grundgesetze, Frege modificò appena questa posizione dicendo che il numero cardinale uno si applica all’estensione di un concetto se quest’ultima è la stessa dell’estensione del concetto essere uguale a 0. Frege avrebbe rilevato che, per esempio, Socrate, sebbene sia

un'entità, non ha la proprietà di avere il numero cardinale uno. Socrate è un oggetto fisico, e può essere considerato come composto di due braccia, due gambe, un torso e una testa, così come di un certo numero di molecole, o di atomi; dunque, egli non ha affatto un numero cardinale: se qualcuno indica Socrate e chiede “Quanti sono?””, non si potrà dare una risposta finché non si sappia se s’intende domandare, per esempio, “Quanti esseri umani ci sono qui?” oppure “Quante molecole ci sono qui?” oppure “Quanti chili di carne e ossa ci sono qui?”, ecc. In poche parole: bisogna che si specifichi “Quante cose ci sono qui che cadono sotto il tale e tale concetto (0, che appartengono alla tale e tale classe)?”?. Così, nella prospettiva di Frege, non può essere Socrate, per esempio, ad avere numero cardinale uno; avrà numero cardinale uno, invece, un concetto sotto il quale cade solo Socrate (o la classe che ha Socrate come unico elemento).

Si osservi che la distinzione di Frege è essenziale, per il logicismo russelliano. Trascurandola, la definizione del numero

l data nei Principles," per esempio, diviene circolare: non si può definire 1 servendosi della nozione di

un termine senza distinguere tra il significato di “1” e il significato di “uno” quando è riferito a un termine.” Sotto l’influenza di Frege, Russell si convinse della necessità di tale distinzione già prima della fine del 1902. Nel capitolo 15 dei Principles vi sono due paragrafi — il 128 e il 132 — che furono aggiunti al libro dopo che il manoscritto era stato consegnato all’editore'* nei quali Russell mostra di aver già fatta propria la distinzione fregeana. Nel $ 128 leggiamo: Sembra necessario, tuttavia, fare una distinzione riguardo all’uso dell’uno. Il senso in cui ogni oggetto è uno [every object is one], che è apparentemente implicito [involved] quando si parla di un oggetto [an object], è, come sottolinea Frege, un senso molto sfu-

mato,’ poiché è applicabile nello stesso modo a ogni cosa. Ma il senso in cui si può dire che una classe ha un solo, membro è del tutto preciso. Una classe v ha un solo membro quando w non è nulla, e “x e y sono degli w° implica “x è identico a y” [cioè, ni simboli: ue

1=(Az)(ze

MAMME

uA ye uD x= y)]. Qui l'essere uno [the one-ness] è una proprietà della classe, che può per-

ciò chiamarsi classe-unità [urit-class]. L’x che è il suo solo membro può essere esso stesso una classe di molti termini, e CIÒ mostra che il senso di uno implicito in un solo termine [one term] 0 un termine [a term) non è rilevante per l’Aritmetica, poiché molti ter-

mini come tali possono essere un singolo membro di una classe di classi. Uno, pertanto, non si deve asserire dei termini, ma delle classi aventi un solo membro nel senso sopra definito [...].

490 secondo Landini, la tesi secondo cui quodlibet ens est unum è la «dottrina fondamentale dei Principles» (Landini [1998], $ 2.4, p. 54).

491 492 493 49 495

Russell [1903a], Russell [1903a], V. Frege [1884], V_ Frege [1884],

$ 47, p. 43. $ 74, p. 76. cap. 3, soprattutto $$ 29 e 46. $ 29, pp. 39-40.

> ; x n° nola di tutte le classi che non sono nulle e sono tali che, se x appartiene alla classe, la classe senza x è la classe nulla; oppure tali

V. Frege [1884], $ 46.

Paxt è sE

che, se x e y appartengono alla classe, allora x e y sono identici» (Russell [1903a], $ 123, p. 128).

S2IV anche, sopra, cap. 2, $ 5.1.

veaperianzo DO a editore consegnata originariamente copia la con comune in ha 132 48 V. Byrd [1987], pp. 60-61. Il $ 128 fu interamente aggiunto, il $

nel maggio del 1902 solo le prime due frasi. Hi Calo



a

29] der Arithmetik, Breslau, 1884, p. 40. [Nota di Russell. Il riferimento è a Frege [ 1884], $

500 Russell [1903a], $ 128, pp. 132-133.

442

capitolo 6

Nel $ 132, è lo stesso Russell a rilevare che la definizione del numero 1 diverrebbe circolare, in assenza della

distinzione puntualizzata da Frege: Così il solo punto che rimane è questo: la nozione di un termine [a term] presuppone la nozione di 1? Perché abbiamo visto che tutti i numeri eccetto lo 0 implicano [involve] nelle loro definizioni la nozione di un termine [a term], e se questo a sua volta implica

[involves] 1, la definizione di 1 diventa circolare, e bisognerà ammettere che 1 sia indefinibile. Quest’obiezione al nostro procedi-

mento trova una risposta nella dottrina del $ 128, che un termine non è uno nel senso che è rilevante per l’Aritmetica, o nel senso

che è opposto a molti. [...] Pertanto non vi è nulla di circolare nel definire il numero 1 per mezzo della nozione di un termine [...350

Questa resterà un’acquisizione permanente nella filosofia della matematica di Russell. In una lettera a Couturat del 18 novembre 1903, Russell scrive: Il problema dell’unità e della molteplicità — antico problema! — si risolve come segue. (1) “Ens et unum convertuntur” si applica a un senso di unum che non è in questione in Aritmetica, salvo che non riposi su una confusione di x e Lx [x = la classe che ha x per unico elemento], e che si deve esprimere: “x est ens . > . lx est unum”; ma questo non è un assioma fondamentale, ma una deduzio-

ne. (2) Nel senso proprio, i numeri, 1 così come gli altri, si applicano esclusivamente alle classi; l’idea opposta riposa sulla confusione di x con tx. Lo si vede dal fatto che una classe di molti termini può essere membro di una classe di classi: dunque, se il senso di uno che s’impiega parlando di “un termine” fosse il senso aritmetico, detta classe avrebbe nello stesso tempo il numero 1 e un altro numero, cosa impossibile.?®?

Nei Principia Mathematica si legge: Si deve osservare che, se x è un qualsiasi oggetto, 1 non è il numero cardinale di x, ma quello di t°x [cioè della classe che ha x come unico elemento]. Questo risolve una confusione che può sorgere trattando con le classi. Supponiamo di avere una classe @ che consiste di molti termini; noi diciamo, nondimeno, che è una classe. Così essa sembra essere a un tempo una e molte. Ma di fatto è @

che è molte, e 1°@ che è una. Riguardo allo zero, il punto analogo è ancora più chiaro. Supponiamo di dire “non ci sono re di Francia”. Questo è equivalente a “la classe dei re di Francia non ha membri” o, nel nostro linguaggio, “la classe dei re di Francia è un membro della classe 0”. E ovvio che non possiamo dire “il re di Francia è un membro della classe 0”, perché non c’è un re di Francia. Così nel caso di 0 e 1, come accade con più evidenza in tutti gli altri casi, un numero cardinale spetta a una classe, non ai mem-

bri della classe.”

Il punto è spiegato con maggiore ampiezza in Our Knowledge of the External World (1914): Il fatto è che, come rileva Frege, nessun numero, neppure 1, si può applicare agli oggetti fisici, ma soltanto a termini generali o descrizioni, come “uomo”, “satellite della terra”, “satellite di Venere”. Il termine generale “uomo” è applicabile a un certo numero di oggetti: ci sono al mondo tanti e tanti uomini. L’unità che giustamente i filosofi ritengono necessaria per l’asserzione di un numero è l’unità del termine generale, ed è il termine generale che è il vero soggetto del numero. E ciò si applica ugualmente quando c’è un

oggetto o quando non ce n’è nessuno che cade sotto il termine generale. “Satellite della terra” è un termine che si può applicare soltanto a un oggetto, vale a dire, la luna. Ma “uno” non è una proprietà della luna stessa, che può ugualmente bene essere considerata come molte molecole: è una proprietà del termine generale “satellite della terra”. In modo simile, 0 è una proprietà del termine generale “satellite di Venere”, perché Venere non ha alcun satellite. Qui finalmente abbiamo una teoria intelligibile del numero 0. Es-

sa sarebbe stata impossibile se i numeri fossero applicati agli oggetti fisici, perché ovviamente nessun oggetto fisico potrebbe avere

il numero 0. Così, cercando la nostra definizione di numero siamo arrivati al risultato che i numeri sono proprietà di termini generali o di descrizioni generali, non di oggetti fisici o di eventi mentali. % Invece di parlare di un termine generale, quale “uomo”, come il soggetto di cui si può asserire un numero, possiamo, senza fare nessun cambiamento importante, prendere il soggetto come la classe o la collezione d’oggetti — ossia “umanità” nell’esempio che precede — a cui è applicabile il termine generale in questione. Due termini generali, come “uomo” e “bipede implume”, che sono applicabili alla stessa collezione di oggetti, avranno ovviamente lo stesso numero di esempi; quindi il numero dipende dalla classe non dalla selezione di questo o quel termine generale per descriverla, ammesso che si possano trovare diversi termini generali per Ù descrivere la medesima classe.?*

In My Philosophical Development (1959), il merito di aver posto la questione in modo corretto è. ancora una volta, attribuito a Frege:

20! 502 20 204

Russell [1903a], $ 132, pp. 135-136. In Russell [2001], p. 335. [PM], vol. II, p. 4. Russell [1914a], lecture VII, pp. 206-207 (1° ediz., pp. 201-202).

I Principles of Mathematics La filosofia dell’aritmetica è stata erroneamente molto naturale. Essi pensavano al numero come che sono contate come uno, possono ugualmente di calcio ci sono in Inghilterra?”. Rispondendo a “Quanti membri ha il tale e tale club di calcio?”. sti club, anche se egli prima contava come uno,

443

concepita da tutti gli scrittori prima di Frege. L’errore che tutti loro facevano era risultato del conteggio e s’impelagavano in enigmi senza speranza perché le cose bene essere contate come molti. Prendete, per esempio, la domanda, “Quanti club questa domanda trattate ogni club come uno, ma potreste altrettanto bene chiedere: In questo caso trattate il club come molti. E, se Mr. A è un membro di uno di quepotreste chiedere, altrettanto legittimamente: “Quante molecole costituiscono Mr.

A?”. Ecco che, allora, Mr. A conta come molti. È ovvio, di conseguenza, che ciò che rende qualcosa un’unità dal punto di vista del conteggio non è la sua costituzione fisica, ma la domanda: “Di che cosa questo è un esempio?” [...] Gli Scolastici avevano una

massima secondo cui uno [one] ed essere [being] sono termini intercambiabili [convertible]. Questa massima, finché fu creduta, rese impossibile definire 1. La verità è che essere è una parola inutile [use/ess], e che il genere di cose a cui questa parola inutile è

applicata da coloro che erroneamente la usano sono tanto idonee ad essere molti quanto ad essere uno. Uno è una caratteristica, non

di cose, ma di certe funzioni proposizionali [...].5%

Qui è chiaro che in «tutti gli scrittori prima di Frege» Russell include anche il se stesso del periodo precedente il suo incontro con l’opera del logico tedesco.

10. ESTATE 1902: LA PRIMA TEORIA DEI TIPI 10.1. La già menzionata” lettera di Russell a Frege dell’8 agosto 1902 è importante perché vi si trova il primo abbozzo della teoria dei tipi che sarà di lì a poco sviluppata nell’appendice B dei Principles. Nella sua lettera a Russell del 29 giugno, Frege aveva avanzato (criticamente) un suggerimento: Oppure si dovrebbero

presentare i decorsi di valori [Werrhverliufe]

(estensioni di concetti [Begriffsumfinge], numeri [Zahlen])

come un tipo [Art] particolare di oggetti, dei quali certi predicati non potrebbero né essere affermati né negati? Anche questo tuttavia incontrerebbe sicuramente grosse difficoltà.”

L’8 agosto, Russell riprende il suggerimento di Frege: Si potrebbe risolvere la contraddizione con l’aiuto dell’assunzione che i decorsi di valori [cioè, le classi] non siano oggetti del tipo [Art] usuale; vale a dire che @(x) sia (eccetto che in casi particolari) bisognosa di completamento [erginzungsbediirftig] o per mezzo di un oggetto, o per mezzo di un decorso di valori di oggetti [classe di oggetti], o per mezzo di un decorso di valori di decorsi di valori [classe di classi] ecc. Questa teoria è analoga alla sua sulle funzioni di primo, di secondo, ecc. livello [Stufe].3®* 3%

6

T:509

Russell espone poi il suo paradosso nella forma coinvolgente le relazioni*

È

3

e commenta, in proposito:

Si potrebbe tuttavia sostenere che una relazione [...] tra relazioni debba essere di un tipo [Typus] logico diverso da una relazione tra

oggetti, e per questo (R)R(S) sarebbe un nonsenso [Unsinn].!°

La conclusione di Russell è che: Con ogni funzione g@(x) non vi sarebbe quindi solamente il decorso di valori, ma anche il decorso di quei valori per i quali (x) è 4; ; ; giudicabile, o in generale ha un senso. SII

Russell spiega che, secondo questa teoria, ‘“(x) g(x)” «non significa [bedeutet] l’affermazione @(x) per tutti i valori di x, ma l’affermazione di tutti gli enunciati [.Séitze] della forma PA)».

Nonostante che Russell rilevi come il dispositivo da lui proposto abbia analogie con la gerarchia dei livelli di concetti nel sistema di Frege, la reazione di quest’ultimo fu fredda; il 23 settembre 1902 egli serive a Russell:

505 Russell [1959], cap. 6, pp. 68-69. 5% V_ sopra, $ 9.2. $ 9.2). 507 In Frege [1976], p. 217. Abbiamo già avuto occasione di riportare questo brano (v. sopra,

508 In Frege [1976], 226. Va

sopra, cap. 4, $ 2.2.

510 In Frege [1976], p. 227.

Di Tie 21° Ibid.

444

capitolo 6

Ho riflettuto su alcune possibilità di risolvere la contraddizione, e tra queste anche su quella da lei suggerita, che si debbano concepire i decorsi di valori, e quindi le classi, come un tipo [Art] particolare di oggetti, ai cui nomi non sarebbe permesso comparire in tutti i posti d’argomento del primo tipo. Una classe non sarebbe allora un oggetto nel pieno senso della parola, ma — per così dire — un oggetto improprio [ein uneigentlicher Gegenstand] per il quale il principio del terzo escluso sarebbe invalido, poiché vi sarebbero predicati che non potrebbero essere con verità né affermati né negati di esso. I numeri [Die Zahlen] sarebbero allora oggetti impropri.” i

Ma, secondo Frege, adottare un tale punto di vista renderebbe la teoria logica tanto complicata da essere ingovernabile: Se adesso si aggiungono ancora i decorsi di valori di funzioni come argomenti delle quali possono comparire oggetti sia propri sia impropri, 0 solo impropri, ecc., si ottiene una tale molteplicità di oggetti e funzioni che sarà difficile formulare un sistema completo

di leggi logiche.°!*

Si tratta della prima delle due obiezioni che — come abbiamo visto nel $ 9.2 — sarà mossa nella postfazione al secondo volume dei Grundgesetze (pp. 254-255) alla teoria degli “oggetti impropri” stratificati in tipi. Russell non considererà quest’obiezione come conclusiva: infatti egli procederà a sviluppare più ampiamente la teoria dei tipi nell’appendice B dei Principles (“The doctrine of types”) — completata nel novembre o nel dicembre del 1902. Cercherò ora di esporre la prima teoria dei tipi di Russell facendo riferimento soprattutto a questo testo. Si deve però rilevare che la teoria dei tipi è appena abbozzata, nei Principles — basti dire che, su un libro di 528 pagine, Russell ne dedica solo 6 alla teoria dei tipi: è dunque prevedibile che alcune domande possano restare senza risposta.

L’appendice B comincia con queste parole: La dottrina dei tipi è qui presentata a titolo d’esperimento [tentatively], in quanto fornisce una possibile soluzione della contraddizione; ma essa richiede, con ogni probabilità, di essere mutata in una forma più sottile prima che possa rispondere a tutte le difficol-

tà. Nel caso, comunque, che la si trovasse essere un primo passo verso la verità, mi sforzerò in quest’ Appendice di esporne le linee principali, così come alcuni problemi che essa non riesce a risolvere.!°

La proposta di Russell si articola in tre assunzioni. La prima è espressa così: Ogni funzione proposizionale @(x) [...] ha, in aggiunta al suo decorso di valori di verità [range of truth°'°] un decorso di valori di significanza [range of significance], ossia un decorso di valori [range] in cui deve restare x se @(x) dev'essere comunque una proposizione, vera 0 falsa.?!?

Si tratta dell’assunzione già espressa nella lettera a Frege dell’8 agosto, secondo cui, in corrispondenza di “@(x)”, non esiste solo un insieme di valori di “x” per cui l’espressione è vera, ma anche un insieme di valori di “x” per i quali l’espressione è significante. Dato un oggetto che sta al di fuori di quest’ultimo insieme, l’espressione ottenuta sostituendo a “x”, in “(x)” un nome di tale oggetto, non sarà più un enunciato, e non esprimerà una proposizione (in senso ontologico non linguistico). Un decorso di valori di significanza di un’espressione funzionale (Russell dice: di una “funzione proposizionale”’), cioè l'insieme degli argomenti per cui tale espressione è significante, costituisce ciò che Russell chiama un tipo logico (logical type)!" — o, più semplicemente, un tipo. i La seconda assunzione è che esistano oggetti di diversi tipi minimi (minimum types), e che i tipi minimi di 0ggetti formino delle gerarchie.?!° Il tipo minimo più semplice è quello degli individui — dove un individuo è ora definito come «qualsiasi oggetto [object] che non sia un decorso di valori [range]».”® Il tipo minimo successivo è

213 n Frege [1976], pp. 227-228. 214 In Frege [1976], p. 228. 215 Russell [1903a], $ 497, p. 523. Po ia)

A

appendici A e B dei Principles, Russell usa la parola “range” per tradurre il termine fregeano “Werthverlauf® (“decorso di valo-

217 Russell [1903a], $ 497, p. 523. 218 v., per es., Russell [1903a], $ 102, p. 103;$ 126, p. 131. na V. Russell [1903a], $ 497, pp. 523-525. n Russell [1903a], $ 497, p. 523. Si osservi che questa definizione fa di attributi e relazioni in intensione degli individui, allo stesso titolo

dei a o secondo

Per quest’aspetto, la posizione espressa da Russell nell’appendice B dei Principles è identica a quella sostenuta hel testo

possibile distinguere distineuere due cui een che ceneri [kinds], due generi T%j 43)] èè possibile «tra i termini Ò cose i chi: individui (v. Russell [ [1903a],|, $ 47, p.p. 43)] gli sure RI[cioè ta che chiamerò

I Principles of Mathematics

445

quello delle classi d’individui; quello successivo è quello delle classi di classi d’individui; e così via. Una nuova gerarchia prende origine considerando una coppia ordinata d’individui. Una classe di coppie ordinate, cioè una

relazione (in estensione) costituisce il tipo minimo successivo; una classe di classi di coppie ordinate, cioè una

classe di relazioni, costituisce il tipo minimo ancora successivo; e così via. Nuove gerarchie si possono costituire prendendo come base una tripla, o un’n-upla ordinata d’individui. Non basta: altre gerarchie possono costituirsi prendendo come base una coppia ordinata formata da due classi

d’individui; da un individuo e una classe d’individui; da due relazioni (in estensione) tra individui; e così via. Si

ottiene così, come predetto da Frege, una vertiginosa varietà di tipi minimi. La terza assunzione della teoria dei tipi dell’appendice B dei Principles è che un’espressione come “x e w” abbia un significato solo se v è di un tipo logico immediatamente superiore a x.°?! Lo stesso vale, dice Russell, per le relazioni:?”? cioè, un'espressione relazionale come “xRy” è significativa solo se la relazione R è del tipo immediatamente superiore alla coppia (x, y); in altri termini, “xRy” è significante solo se la relazione R è una classe di coppie ordinate (v, v) dove v è dello stesso tipo di x e v è dello stesso tipo di y.°°* Ciò è sufficiente a sbarrare la strada al paradosso di Russell nella sua forma insiemistica più semplice. Infatti, se w è la classe delle cose che non appartengono a se stesse, l’espressione “x e w” definisce la classe di tutte le cose che appartengono a w, ma w dev'essere di un tipo logico superiore al tipo dei suoi elementi, e quindi non può essere uno dei suoi elementi. Beninteso, non sarebbe falso dire “we

w?”: se lo fosse, ricadremmo nel paradosso,

perché, se w € w, dovremmo dire che w non ha la proprietà che definisce la classe w, e quindi non ha la proprietà di non appartenere a se stessa, cioè -(w #& w). L'espressione “w e w” non è falsa, secondo la teoria appena abbozzata, perché non esprime una proposizione, ma è semplicemente un simbolo privo di senso. Il paradosso, nella sua forma coinvolgente le funzioni proposizionali, può anch'esso essere risolto in conformità a tale dottrina. Russell non ne parla nell’appendice B dei Principles, ma ne troviamo un accenno nell’ appendice A, alla fine del $ 482: Un altro punto di dissenso con Frege, nel quale, tuttavia, egli sembra essere nel giusto, sta nel fatto che io non pongo nessuna restrizione alla variazione della variabile, mentre Frege, secondo la natura della funzione, limita la variabile a cose, a funzioni del primo ordine con una variabile, a funzioni del primo ordine con due variabili, a funzioni del secondo ordine con una variabile, e così via.

Vi sono dunque per lui un numero infinito di generi diversi di variabilità. Questo nasce dal fatto che egli considera distinti il concetto che compare come tale e il concetto che compare come termine [di una proposizione], che invece io ($ 49) ho identificato.??*

L’argomento attraverso cui Russell ora conclude che la stratificazione fregeana sia corretta non è esposto molto chiaramente. Egli comincia con l’identificare una “funzione proposizionale” con una relazione: la funzione proposizionale @(...) è identificata con la relazione che vale tra un termine x e la proposizione @x. Russell poi osserva: [...] il genere di relazioni per mezzo delle quali sono definite le funzioni proposizionali è meno generale della classe delle relazioni molti-uno aventi il dominio coestensivo con i termini e il dominio inverso contenuto nelle proposizioni. Perché in questo modo

qualsiasi proposizione sarebbe, per un’opportuna relazione, il relatum di qualsiasi termine, mentre il termine che è un referente dev'essere, per una funzione proposizionale, un costituente della proposizione che è il suo relatum. [...] Questo punto [...] parrebbe anche mostrare che i differenti generi di variabilità di Frege [per le funzioni proposizionali] sono inevitabili, perché considerando (poniamo) @(2), ove @ è variabile, la variabile dovrebbe avere come suo decorso di valori [range] la precedente classe uirelazioni,

che possiamo chiamare relazioni proposizionali [propositional relations]. Altrimenti, (2) non è una proposizione, ed è in effetti

priva di significato, perché noi stiamo trattando con un indefinibile, il quale richiede che P(2) debba essere il relatum di 2 rispetto a qualche relazione proposizionale. La contraddizione discussa nel Capitolo X [il paradosso di Russell] sembra dimostrare che nella variazione delle funzioni proposizionali si cela qualche mistero; ma per il momento, la teoria di Frege dei diversi generi di variabili-

2 : di BEE tà deve, io penso, essere accettata.

Questo passo si deve interpretare, credo, alla luce della teoria dei tipi esposta nell’appendice B dei Principles, secondo cui le relazioni si dividono in tipi diversi secondo i tipi dei loro primi e secondi termini. Ora, se s’identifica una funzione proposizionale con una particolare relazione tra entità e proposizioni aventi quelle entità come costituenti, allora — applicando la teoria dei tipi — le funzioni proposizionali dovranno essere di tipi diversi secondo i tipi dei loro termini. Così, per esempio, una funzione d’individui sarà una relazione tra individui e

52! 522 523 524 525

V_ Russell [1903a], $ 490, p. 517, e $ 492, p. 518. V_ Russell [1903a], $ 496, pp. 521-522. V_ Russell [1903a], $ 497, pp. 524-525. Russell [1903a], $ 482, pp. 508-509. Russell [1903a],$ 482, p.510.

446

capitolo 6

proposizioni che hanno quegli individui tra i loro costituenti. Invece una funzione di una funzione d’individui sarà una relazione tra funzioni d’individui e proposizioni che hanno funzioni d’individui tra i loro costituenti; in altre parole, sarà una relazione tra relazioni (tra individui e proposizioni) e proposizioni (che hanno relazioni tra individui e proposizioni tra i loro costituenti). Ne segue che una funzione di funzioni dev'essere di un tipo diverso da una funzione d’individui, poiché i loro primi membri sono di tipi logici diversi. Si viene così a creare una gerarchia di funzioni proposizionali simile a quella di Frege. Si noti, tuttavia, che la base filosofica è diversa. Per Frege, i concetti sono autentiche entità, che si dispongono in una gerarchia di livelli a causa di una caratteristica metafisica (rispecchiata nel simbolismo), cioè l’incompletezza che li distingue dagli oggetti. Per il Russell dei Principles, invece, le funzioni proposizionali che si dispongono in una gerarchia di livelli non sono entità affatto, e la gerarchia nasce appunto dalla necessità di rimpiazzare queste pseudoentità con classi o relazioni in estensione, al fine di salvaguardare lo sviluppo logico della matematica. 10.2. Questo è lo scheletro della teoria dei tipi sostenuta nell’appendice B dei Principles. I suoi fondamenti sono nella negazione che le funzioni proposizionali e le classi siano entità. La negazione delle classi come entità — l’abbiamo visto — avrebbe dovuto riposare sull’identificazione delle classi con pure molteplicità (classi come molti), irriducibili a unità. Riportiamo ancora il passo rilevante dell’appendice A dei Principles: La dottrina logica che dunque ci s’impone è questa: Il soggetto di una proposizione può essere non un singolo termine, ma essenzialmente molti termini: questo è il caso di tutte le proposizioni che asseriscono numeri diversi da 0 e da 1. Ma i predicati o i concetti-classe o le relazioni che possono comparire in proposizioni aventi soggetti plurali sono diversi (con qualche eccezione) da quelli che possono comparire in proposizioni aventi termini singoli come soggetti. Sebbene una classe sia molti e non uno, tuttavia vi è identità e diversità tra le classi, e così le classi possono essere contate come se ciascuna fosse un’unità genuina; e in questo sen-

so possiamo parlare di una classe, e delle classi che sono membri di una classe di classi. [...] La dottrina fondamentale su cui si basa tutto è la dottrina per cui il soggetto di una proposizione può essere plurale, e che tali soggetti plurali sono ciò che s’intende per classi che hanno più di un termine.[....] Sarà ora necessario distinguere: (1) termini, (2) classi, (3) classi di classi, e così via ad infinitum; dovremo sostenere che nessun membro di un insieme [sez] [di quelli indicati con (1), (2), (3), ecc.; cioè: nessun membro di un tipo logico minimo] è un membro di

qualsiasi altro insieme [cioè tipo logico minimo], e che x e u richiede che x debba essere di un insieme [cioè, tipo logico minimo] inferiore di uno rispetto all’insieme cui appartiene u. Così x € x diviene una proposizione [proposition] priva di significato [qui, evidentemente, “proposition” non è preso nel suo significato tecnico, ma significa soltanto “espressione”]; e in questo modo si evita la contraddizione.?°°

Ma questa giustificazione per la gerarchia dei tipi si perde quando Russell è costretto ad assumere i “decorsi di valori” di Frege come classi, nel caso delle classi con un solo elemento, e —

nello stesso tempo —

ad assumere

che anche questi “decorsi di valori” siano di un tipo logico essenzialmente diverso dagli individui. A questo punto, non vi è più alcun ostacolo ad assimilare sempre le classi con i decorsi di valori di Frege — e questo è proprio ciò che fa Russell nell’appendice B, dove le classi sono sempre chiamate “decorsi di valori” (ranges). E vero che, in quest’appendice, Russell non rinuncia a parlare di “classi come uno”: Ciò che abbiamo chiamato, nel Capitolo VI, la classe come

uno, è un individuo, ammesso

che i suoi membri

siano individui:

gli

oggetti della vita quotidiana, persone, tavoli, sedie, mele, ecc., sono classi come uno. (Una persona è una classe d’esistenti psichici; gli altri sono classi di punti materiali, con forse qualche riferimento a qualità secondarie.) Questi oggetti, pertanto, sono dello stesso

tipo degli individui semplici.°?”



Ma è chiaro che le “classi come uno” sono qui considerate solo per continuità terminologica con la trattazione delle parti precedenti del volume e non svolgono più alcun ruolo. Esse sono assimilate agli individui, e non hanno più nulla a che vedere con le vere classi, che sono invece i “decorsi di valori” di Frege: sono solo queste ultime ad avere un ruolo nei fondamenti della matematica. Se Russell affermasse che un’espressione funzionale può essere significante solo nel caso che i suoi areomenti

appartengano a un determinato tipo minimo, la teoria dei tipi dell’appendice B dei Principles somiglierebbe molto a quella che oggi è conosciuta con il nome di “teoria semplice dei tipi”. Ma non è questa la via seguita originaria-

mente da Russell. Egli si trova, infatti, di fronte al fatto che vi sono espressioni funzionali che sembrano dar luogo

a enunciati esprimenti proposizioni vere — e quindi, a fortiori, significanti — per argomenti appartenenti a sn minimi diversi. Per esempio, l’espressione: “x ha un numero cardinale” sembra dar luogo a un enunciato vero 0-

°°° Russell [1903a], $ 490, p. 516-517. 927 Russell [1903a], $ 497, p. 523.

I Principles of Mathematics

447

gni volta che al posto di “x” si pone il nome di una classe, 4 qualsiasi tipo minimo essa appartenga. Un altro esempio: l’espressione “x = x sembra dar luogo a un enunciato vero ogni volta che, al posto di “x”, si pone il nome di un oggetto, a qualsiasi tipo minimo quest’oggetto appartenga. Da questi esempi, Russell è indotto a sostenere che l’insieme di tutte le classi forma un tipo, e che l’insieme di tutti gli oggetti (entità o pseudoentità) forma un tipo.??8 Naturalmente, osserva Russell, se l'insieme di tutte le classi forma un tipo, allora l’insieme di tutte le classi dev'essere una classe, e l’espressione “x e x” dev’essere talvolta significante. Questo non ci riporta al paradosso? Secondo Russell, no, purché si neghi che la classe w di tutte le classi che non appartengono a se stesse appartenga al decorso di valori di significanza di “x e x”, cioè si neghi che “w e w?” sia un’espressione significante. Russell osserva anche che l’ammettere che “x e x possa talvolta essere fornita di significato non contraddice la teoria secondo cui “x € u” sia significante solo se x è di un tipo logico inferiore di uno rispetto a u, perché — egli sostiene — “x € x° è significante solo quando x è di un tipo logico transfinito: Poiché tutti i decorsi di valori hanno numeri, i decorsi di valori sono un decorso di valori; di conseguenza x € x è talvolta significante, e in questi casi la sua negazione è anche significante. Conseguentemente c’è un decorso di valori w di decorsi di valori per cui x € x è falso: così la Contraddizione prova che questo decorso di valori w non appartiene al decorso di valori di significanza di x € x. Possiamo osservare che x € x può essere significante solo quando x è di un tipo di ordine infinito, poiché, in x € u, u deve o essere di un tipo più alto di uno di x; ma il decorso di valori di tutti i decorsi di valori è naturalmente un tipo di ordine infinito.

La possibilità di tipi transfiniti, ammessa nella teoria dei tipi dei Principles, sarà esplicitamente negata da Russell nella sua teoria dei tipi matura: quella dei Principia Mathematica® Come le classi, anche i numeri cardinali, secondo Russell, formano un tipo a sé, che infrange le barriere tra tipi

minimi. Infatti, Russell ritiene che un numero cardinale qualsiasi selezioni certe classi all’interno di ogni tipo possibile di classi di classi — selezioni, cioè, quelle classi che hanno precisamente quel numero di elementi.” Si prenda, per esempio, il numero 0. Nei Principles, esso era stato definito come la classe che ha per elemento solo la classe vuota.” Ora, però, non abbiamo più un’unica classe vuota, ma una classe vuota per ogni tipo minimo (tranne quello degli individui): vi sarà, cioè, una classe vuota d’individui, una classe vuota di classi, una classe

vuota di classi di classi e così via. Il numero 0 — secondo il Russell dell’appendice B dei Principles — seleziona una classe vuota all’interno di ogni tipo minimo di classi di classi: esso si trova così ad essere una classe che contiene infinite classi vuote, una per ogni tipo minimo superiore a quello degli individui. La stessa cosa accade, ovviamente, per il numero | e per tutti gli altri numeri cardinali. In generale, Russell sostiene dunque che, oltre ai tipi minimi, esistono altri tipi, i quali risultano dalla somma di

più tipi minimi. Egli avanza, anzi, la congettura che qualsiasi somma di tipi minimi formi, a sua volta, un tipo: [...] sembrerebbe — sebbene su questo abbia dei dubbi — che la somma di qualsiasi numero di tipi minimi sia un tipo, ossia un deDE "( . . sò . COM) e 533 corso di valori di significanza [a range of significance] per certe funzioni proposizionali.

Che i tipi non siano limitati ai tipi minimi ha un vantaggio tecnico che balza immediatamente agli occhi: a dif-

ferenza di ciò che accadrà con la teoria dei tipi dei Principia Mathematica, nella teoria dei tipi dei Principles la dimostrazione dell’esistenza di un insieme infinito??' non è bloccata. Ma consentire la formazione d’altri tipi, oltre

ai tipi minimi, conduce anche a una difficoltà filosofica che, nella sua breve trattazione, Russell non rileva. La dit ficoltà è la seguente: se il criterio in base al quale stabilire se un'espressione funzionale (una “funzione proposizionale”) sia o no significante per certi argomenti non è costituito dal fatto che tutti gli argomenti debbano appar tenere allo stesso tipo minimo, viene a mancare un criterio per decidere per quali argomenti una certa espressione funzionale esprima una proposizione falsa e per quali argomenti sia un segno privo di significato. Si viene insomma a creare una sorta di circolo vizioso: un’espressione funzionale sarà priva di significato tutte le volte che i

suoi argomenti stanno al di fuori del suo decorso di valori di significanza; ma, per stabilire i confini di questo de-

528 V. Russell [1903a], $ 497, p. 525. 529 Russell [1903a], $ 498, p. 525. 530 V. [PM], vol. I, introduzione, cap. 2, $ V, p. 53.

531 V. Russell [1903a], $ 498, p. 525. 532 V. Russell [1903a], $ 123, p. 128. 533 Russell [1903a], $ 497, p. 525. 53 v..sopra; cap. 2, $.6.3.

448

capitolo 6

corso di valori di significanza, dobbiamo già sapere quali argomenti rendano l’espressione significante. È vero che la gerarchia delle classi di Russell richiama la gerarchia dei concetti di Frege; ma vi è una differenza profonda. Nella teoria di Frege la gerarchia dei livelli dei concetti scaturisce da un criterio puramente sintattico, il quale deriva semplicemente dall’assunzione che la caratteristica insaturazione ontologica delle funzioni debba essere rispecchiata nel simbolismo. Se, nella teoria di Frege, se si cerca di violare le restrizioni di livello si ottengono espressioni sintatticamente malformate. Nella teoria di Russell che stiamo esaminando, l’ontologia non suggerisce nessun criterio sintattico del genere, né si saprebbe come introdurlo, permettendo contemporaneamente alla somma di più tipi di formare un tipo. Ma se manca un criterio sintattico per stabilire quali espressioni siano e quali non siano significanti, rimane 0scuro il motivo per cui — pur ammettendo che una classe sia qualcosa di diverso da un individuo, e che una classe di classi d’individui sia fondamentalmente diversa da una classe d’individui — dovremmo concludere che dev'essere privo di senso, piuttosto che semplicemente falso affermare che una classe d’individui appartiene a una classe d’individui. Perché, per esempio, dovremmo dire che è privo di senso — piuttosto che semplicemente falso — affermare che la classe delle cose rosse è rossa? Se l’unica ragione per considerare prive di significato certe espressioni è di sfuggire al paradosso di Russell, bisogna confessare che si tratta di una dottrina del tutto ad hoc. Russell sembra percepire questo, e cercare di sottrarre la sua dottrina dei tipi dall'accusa di essere ad hoc, affermando che «l’opinione difesa qui sembra aderire molto da vicino al senso comune». Probabilmente, Russell si riferisce alla circostanza che, di fronte ad espressioni come: “La saggezza è saggia” o “Il numero 3 è rosso”, la reazione dell’uomo comune sarà quella di dire che stiamo dicendo cose senza senso, non cose false. Tuttavia, non

è possibile basarsi su queste intuizioni per stabilire se una certa espressione funzionale dia o no luogo a un enunciato significativo per certi argomenti: stando al senso comune, espressioni come “Il Monte Bianco è saggio” o “Il tavolo da pranzo è saggio” non suonano meno assurde di quelle citate prima — eppure si tratterebbe di espressioni perfettamente significanti, secondo la teoria dei tipi sopra esposta. Circa trentacinque anni dopo, nell’introduzione alla seconda edizione dei Principles, Russell ripropone il carattere intuitivo della teoria dei tipi, affermando che, sebbene nei dettagli della teoria vi siano difficoltà e complica-

zioni: [...] il principio generale è semplicemente una forma più precisa di un principio che è stato sempre riconosciuto. Nella più vecchia logica convenzionale, era uso rilevare che una forma di parole come “La virtù è triangolare” non è né vera né falsa, ma non si faceva nessun tentativo di giungere a un insieme definito di regole per decidere se una data serie di parole fosse o non fosse significante. La teoria dei tipi realizza questo.?°° x

Tuttavia, Russell non si riferisce più, qui, alla sua teoria dei tipi del 1902, ma alla teoria dei tipi nella formulazione finale dei Principia Mathematica?” In quest’ultima formulazione, la teoria dei tipi fa effettivamente ciò che dice Russell: stabilisce delle regole che decidono se una determinata espressione sia o no fornita di significato. Ma queste regole mancano nella teoria dei tipi del 1902.

11. SETTEMBRE

1902: IL PARADOSSO DELLE PROPOSIZIONI

11.1. La prima teoria dei condo cui qualsiasi cosa Infatti, secondo la teoria . oggetto che non sia un

tipi richiede l'abbandono di uno degli assunti filosofici di base dei Principles: quello sepossa essere menzionata, esista 0 no, ha nondimeno l'essere, sussiste ed è un termine. dei tipi presentata nell’appendice B dei Principles: «Un termine o individuo è qualsiasi : Lalla È 540 Hi : Sor decorso di valori [range]»;"" che vi siano oggetti che non sono termini contraddice

235 Russell [1903a], $ 492, p. 518. 530 Russell [1937a], p.xvill. 937 Una prova di ciò è che — come risulterà dal prossimo paragrafo — espressioni come “La virtù è triangolare”, o “La virtù appartiene alla desi delle cose triangolari”, sarebbero state considerate come espressioni dotate di significato all’interno della teoria dei tipi del 1902 °

Si osservi

comunque che, anche nella formulazione dei Principia, la teoria dei tipi aderisce meno al senso comune di qu anto vogliai qui far credere Russell. Secondo tale teoria, per esempio, un’espressione come “Il tavolo da pranzo è saggio” sarebbe significante, mentre

un'espressione come “Gli attributi non sono esseri umani” sarebbe priva di significato. ©

V., per es., Russell [1903a], $ 47, p. 43.

240 Russell [1903a], $ 497, p. 523.

I Principles of Mathematics

449

l’assunto secondo cui “termine” è «la parola più ampia del vocabolario filosofico».?‘! Questo, tuttavia, poteva essere considerato da Russell un prezzo ragionevole da pagare per far fronte al paradosso da lui scoperto. Il problema vero era che la sua teoria dei tipi non sembrava in grado di risolvere tutte le contraddizioni legate all’applicazione del teorema di Cantor. Già il 29 settembre del 1902 — cioè neppure due mesi dopo aver proposto per la prima volta, nella menzionata lettera a Frege dell’8 agosto 1902, una versione di teoria dei tipi, e diversi mesi prima che i Principles fossero pubblicati — Russell scrisse un’altra lettera a Frege che comincia con queste parole: Egregio collega, La mia proposta sui tipi logici [/ogische Typen] mi sembra ora inadatta a fare ciò che speravo da essa. Dalla proposizione [Satze] cantoriana, che una qualsiasi classe contiene più sottoclassi che oggetti, si possono produrre sempre nuove contraddizioni.

Segue l'esposizione di un nuovo paradosso che — osserva Russell — sopravvive alla sua teoria dei tipi. Quest’antinomia, che — seguendo l’uso in letteratura — chiameremo “paradosso delle proposizioni”, è anche accennata nel $ 349 dei Principles e spiegata nell’appendice B dello stesso libro ($ 500), con il seguente commento: «Sembra dunque derivarne che la Contraddizione richieda ulteriori sottigliezze per la sua soluzione; ma quali esse siano, non so immaginare». Abbiamo visto che, secondo la teoria dei tipi del 1902, un tipo logico non è altro che l’insieme degli oggetti che rendono significante un simbolo di funzione proposizionale. Russell ne trae la conclusione che le proposizioni formano un tipo logico: almeno se è vero, egli argomenta, che solo le proposizioni si possono dire significativamente vere o false.”** Se le proposizioni appartengono a uno stesso tipo logico, possiamo liberamente formare classi di proposizioni. La difficoltà è che si può stabilire — secondo Russell — una relazione uno-uno tra tutte le classi di proposizioni e alcune proposizioni, la quale dimostra che le proposizioni non possono essere meno delle classi di proposizioni, mentre il teorema di Cantor dimostra che ci devono essere più classi di proposizioni che proposizioni. Ne deriva una contraddizione. Il fulcro del paradosso è dunque la supposta esistenza di questa correlazione uno-uno tra tutte le classi di proposizioni e alcune proposizioni. Nel $ 349 dei Principles, Russell asserisce che questa correlazione si ottiene associando a ogni classe non vuota di proposizioni il prodotto logico di tutte le proposizioni che ne fanno parte. All’inizio della sua esposizione del paradosso nell’appendice B dei Principles, Russell propone: [...] una relazione uno-uno che associa ogni proposizione p che non è un prodotto logico con il decorso di valori [range: usato come sinonimo di class nell’appendice B dei Principles] il cui solo membro è p, mentre associa il prodotto di tutte le proposizioni con il decorso di valori nullo di proposizioni, e associa ogni altro prodotto logico di proposizioni con il decorso di valori dei propri fat-

tori. Considerato che, nei Principles, Russell identifica il “prodotto logico” di due proposizioni con la loro congiunzione, °°° il passo riportato si può parafrasare come la descrizione di “una relazione uno-uno che associa ogni proposi-

zione p che non è una congiunzione di proposizioni con la classe il cui solo membro è p, mentre associa la congiunzione di tutte le proposizioni con la classe vuota, e associa ogni altra congiunzione di proposizioni con la classe delle proposizioni congiunte”. Questa descrizione, tuttavia, non dà una correlazione uno-uno tra tutte le classi di proposizioni e alcune proposizioni. Per esempio, nessuna classe avente come unico elemento una proposizione costituita da una congiunzione di proposizioni — come, per es., la proposizione p A q — avrebbe alcun correlato. Forse Russell intendeva dire qualcosa di un po’ diverso da ciò che di fatto dice; forse intendeva dire che possiamo ottenere una relazione uno-uno tra tutte le classi di proposizioni e alcune proposizioni correlando ogni classe che ha come elemento una sola proposizione p con la proposizione p, la classe vuota di proposizioni con la congiunzione di tutte le proposizioni, e ogni altra classe m di proposizioni con la congiunzione di tutte le proposizioni che sono membri di m. Questa sembrerebbe la medesima correlazione proposta nel $ 349 dei Principles, tranne che per l’associazione della classe vuota di proposizioni — che là sembrava non avere alcun correlato -con la congiunzione di tutte le proposizioni. Ma neppure questa è una relazione uno-uno. Per esempio, il prodotto 54! 542 543 544 545 546

Russell [1903a], $ 47, p. 43. In Frege [1976], p. 230. Russell [1903a], $ 500, p. 527. V_ Russell [1903a], $ 498, p. 526. Russell [1903a], $ 500, p. 527. V, Russell [1903a], $ 18, p. 16.

capitolo 6

450

logico della classe che ha per elementi le due proposizioni p e q si identificherebbe con il prodotto logico della classe che ha come unico elemento la proposizione p A q — entrambi sarebbero la proposizione p A g. Ancora, la proposizione associata alla classe vuota di proposizioni sarebbe la medesima di quella associata alla classe di tutte le proposizioni. In una nota al testo della spiegazione iniziale nel $ 500 dell’appendice B dei Principles, Russell sembra offrire un aiuto al lettore perplesso: Si potrebbe dubitare se la relazione di decorsi di proposizioni [cioè, classi di proposizioni] con i loro prodotti logici sia uno-uno 0 molti-uno. Per esempio, il prodotto logico di p e q e r differisce da quello di pg [sc. p A g] e r? Un riferimento alla definizione di prodotto logico (p. 21) metterà a tacere questo dubbio; perché i due prodotti in questione, sebbene equivalenti, non sono affatto identici.°*”

Ma il luogo citato del cap. 2 dei Principles ($ 25, p. 21) non fa nessuna luce sull’argomento: — nel modo consueto — il prodotto e la somma logica di due classi e il prodotto e la somma di classi. Poi scrive: «In maniera simile alla precedente possiamo definire il prodotto e somma di proposizioni»,”* ma nel seguito non fornisce queste definizioni, passando invece subito a

Russell vi definisce logica di una classe logica di una classe discutere il concetto

di esistenza di una classe (identificato con il suo non essere vuota). Qualche pagina dopo, nello stesso capitolo 2 dei Principles ($ 32, p. 28), Russell definisce però “l’ affermazione simultanea di una classe di proposizioni”, che è un buon candidato come “prodotto logico di una classe di proposizioni”; Russell scrive: «Se £ è una classe di proposizioni, la loro affermazione [affirmation] simultanea è l’asserzione [assertion] che “p è un K° implica p. Se è così, tutte le proposizioni della classe sono vere; se non lo è, almeno una dev'essere falsa». Si tratta —

com’è usuale, nei Principles —

di una definizione condizionata, che

x

possiamo trascrivere così, ricordando che “p è una proposizione” è trascritto nella logica dei Principles, come d” 5) DD’:

(p)(pe k> (p2>p)>A‘k=a (@(q € k3 q), dove “A‘K” significa ‘“l’affermazione simultanea di tutte le proposizioni appartenenti a X?. Più rigorosamente, secondo la logica dei Principles, nella formula precedente occorrerebbe specificare che g debba essere una proposizione,” scrivendo dunque:

p)pe

k>3 p>p)>Ak=s(gd((dG29923 (de kK23 9).

Questa definizione è in effetti offerta verbalmente nel cap. 3 dei Principles: «se k è una classe di proposizioni, tutte le proposizioni della classe sono asserite dalla singola proposizione “per tutti i valori di x, se x implica x, allora ‘x è un K implica x”, o, in un linguaggio più ordinario, “ogni & è vero”».? Questa è la definizione di “prodotto logico di una classe di proposizioni” che cercavamo. Infatti, nella seconda parte del $ 500 dei Principles, Russell spiega che la proposizione espressa da “Ogni m è vero” — che egli simboleggia con “A°‘m° — è il prodotto logico della classe di proposizioni m, e, nella sua lettera a Frege del 29 settembre 1902, egli dice che il prodotto logico di una classe di proposizioni m è rappresentato da

“ Demos 3» SSI

che è — come sappiamo — una variante notazionale di “(p)(p e m > p)”. Russell tralascia qui, per semplicità, la condizione che IQIIL una proposizione (‘“p > p”), che si rende necessaria nel sistema dei Principles, ma non in

quello di Frege, "* e che non lo sarà più neppure nel sistema di Russell, di lì a qualche mese.” In tutte le lettere a 247 Russell [1903a], $ 500, p. 527, nota. 548 Russell [1903a], $ 25, p. 21.

549 Nel sistema DIS gi S 3 n i dei Principles la condizione è necessaria perché: (1) tutte le variabili devono essere non ristrette: (2) un’implicazione p > q è considerata sistematicamente falsa se p non è una proposizione o g non è una proposizione.

°° Russell [1903a], $ 39, p. 36.

9 V. in Frege [1976], p. 230.

552 Per Frege, un ; “ 2345 ® enunciato della forma “p A 9” è vero se e solo se p non è falso 0 q è vero. 553 In una ge datata 24 maggio 19033 Russell Russ lettera a Frege propone di leggere “p > g” come “p non è vero oppure gq è vero” (v. in Frege [1976], p. 241) — anziché secondo la lettura dei Principles: “p e q sono entrambe false o entrambe vere, 0 p è falsa e q vera”. Con queste

I Principles of Mathematics

451

Frege, Russell simboleggia il prodotto logico di una classe di proposizioni m con “p € m >y p”, trascurando sempre — come faremo anche noi — la condizione, richiesta nella logica dei Principles, che p sia una proposizione . Possiamo allora interpretare la correlazione intesa da Russell nella prima parte del $ 500 dei Principles così: a ogni classe che ha per elemento solo una proposizione si associa quella proposizione; alla classe vuota di proposizioni si associa il prodotto logico di tutte le proposizioni, cioè la proposizione (falsa) (g) qg, espressa anche, in modo informale da “Tutte le proposizioni sono vere”; a ogni altra classe di proposizioni m si associa il prodotto logico delle proposizioni appartenenti a m, cioè la proposizione (g)(qg e m > q), espressa anche, in modo informale, da “Tutte le proposizioni appartenenti a m sono vere”.??* Questa correlazione è effettivamente uno-uno,’” ma una volta dissipate le nebbie che rischiavano di avvolgere la nozione di “prodotto logico di una classe di proposizioni”, scopriamo che è inutilmente barocca. La strada migliore è quella utilizzata dallo stesso Russell nella seconda parte del $ 500 dei Principles, nel $ 349 dei Principles e nelle lettere a Frege, di ottenere una relazione uno-uno tra tutte le classi di proposizioni e alcune proposizioni associando a ogni classe di proposizioni m il prodotto logico delle proposizioni appartenenti a m, cioè la proposizione (g)(g e m > 9g). In questa seconda correlazione, la classe vuota di proposizioni sarà associata con la proposizione (vera) (9)(qg e A > g) (informalmente: “Tutte le proposizioni appartenenti alla classe vuota sono vere”), non con quella (falsa) (9) g (“Tutte le proposizioni sono Vercani Mantenendo fissa questa correlazione tra classi di proposizioni e proposizioni, la contraddizione si ottiene così.’ La classe problematica è la classe w di tutte le proposizioni che sono correlate a una classe di proposizioni, ma non appartengono all’insieme di proposizioni cui sono correlate. Tale classe w dovrebbe essere correlata con il suo prodotto logico — chiamiamolo “7°. Poiché r è una proposizione e w è una classe di proposizioni, r può essere o non essere un elemento di w. Supponiamo, per cominciare, che r sia un elemento di w. Allora r deve avere la proprietà che hanno in comune tutti gli elementi di w, cioè dev'essere una proposizione che non appartiene all'insieme di proposizioni di cui è il prodotto logico; ma l’insieme di cui r è il prodotto logico non è altro che w: ne segue che r non è un elemento di w. Supponiamo allora che r non sia un elemento di w. Allora dev'essere falso

che r abbia la proprietà che hanno in comune tutti gli elementi di w, cioè dev'essere falso che r non appartenga all’insieme di proposizioni di cui è il prodotto logico; ma l’insieme di cui r è il prodotto logico non è altro che w: ne segue dev'essere falso che r non sia un elemento di w; cioè, che r è un elemento di w. In conclusione, abbiamo dunque la contraddizione “re w=r& w°. Nei Principles Russell non provvede alcuna formulazione simbolica di questa contraddizione, ma ne offre una in una lettera a Frege del 20 febbraio 1903,” da cui ricaviamo la seguente derivazione. Sia

(ge mo 9g) la proposizione correlata a ciascuna classe m di proposizioni. La classe w è pertanto definita così:

(1) w=y PEm(p=(A(ge m>39) Ape mì: “w è la classe di tutte le proposizioni p tali che asseriscono la verità di tutte le proposizioni appartenenti a una « + ara?? 558 classe m cui p non appartiene”. nuove condizioni di verità dell’implicazione — le stesse fornite da Frege nei suoi Grundgesetze — una proposizione falsa viene a implicare qualsiasi entità (non solo qualsiasi proposizione),

un'entità qualsiasi implica qualsiasi "REOPOSAiOne e, infine, vii SALE qualsiasi

imp

un’entità qualsiasi: in questo modo, perché un’implicazione p > g sia vera non occorre più che p e q siano proposizioni. 554 Si rammenti che nella logica proposizionale di Russell, fino all’epoca dei Principia, ai lati dei connettivi devono comparire nomi di proposizioni, non enunciati (v. sopra, $ 3). Quindi, la formula “(9)(qg € m > 9g)” si deve parafrasare:

“(la proposizione) g-appartiene-a-m impli-

Dunque, “Tutte le proposizioni della classe 7 sono ca g, per ogni g” (uso qui il trattino come dispositivo per nominalizzare l’enunciato). ISIS ,; +: U i 4 . LIPSGEABR PRORPIO ”»

5 vere” non rappresenta una vera e propria parafrasi della formula “(9)(g € m > q)”, ma ne costituisce piuttosto la condizione di verità: la er formula è vera se e solo se tutte le proposizioni appartenenti a m sono vere. sia alla classe di tutte le proposizioni, di vuota classe alla sia iogico prodotto stesso lo 95 Si potrebbe sospettare che la correlazione associ

proposizioni. Ma non è così. Detta, infatti, v la classe di tutte le proposizioni, la proposizione ad essa correlata sarebbe quella espressate dai i “(q)(q i € v2> 5 g) — 0, informalmente, da:

“è

amati x ie a v ) sono ATi 1% appartenenti Zi “Tutte le proposizioni vere”

le

classe a < roelata —, me SIntrea quellaACcorrelata alla AS VE

proposizioni siaproposizioni sarebbe quella espressa da “(g) g” — 0, informalmente, da “Tutte le proposizioni sono vere”. Sebbene queste

no equivalenti, dal punto di vista di Russell non sono identiche, perché la prima non afferma che v comprende tutte le proposizioni.

556 V_ Russell [1903a], $ 500, p. 527.

Vai.

in Frege [1976], p.

238

;

:

558 Si osservi il segno di uguaglianza, invece che di equivalenza in (1): la formula

5

Mica

“p = (9)(q € w > 9g)” non significa

Saleen

Il valore di verità di

capitolo 6

452

Il prodotto logico delle proposizioni della classe w è:

(2) (ge w3 9). Chiamiamo ora “7” la proposizione espressa da (2), cioè poniamo:

(3) r=a(9(g9e w2 g): “r è la proposizione Tutte le proposizioni appartenenti a w sono vere”. Da (1) otteniamo dunque che:

(4) re w=(Im)((r=(g)(ge

m2>qg) Are m):

“r appartiene a w se e solo se r asserisce la verità di tutte le proposizioni appartenenti a una classe cui la proposizione r non appartiene”. Per la definizione (3), la proposizione

r=(g(qge m>q) non è altro che:

(5) (9g)(ge wD3 9)=(QA(ge m> q). L’identità di due proposizioni implica l’identità dei loro costituenti, e dunque (5) implica che m = w. Sostituendo allora “w” a “m” in (4) otteniamo: (6) re w=(r=(g(ge

w23 9g) Are

cioè, poiché “7 = (p)(p € w2 (7)

w;

p)” è vero per definizione:

rew=réw.

Una contraddizione. La correlazione proposta è dunque impossibile: che cosa non ha funzionato? Nell’appendice B dei Principles, Russell prende in esame l’obiezione più ovvia: quella di negare che la correlazione tra classi di proposizioni e loro prodotti logici sia davvero uno-uno. Russell scrive: Se m è una classe di proposizioni, il loro prodotto logico è la proposizione “ogni m è vero”, che denoterò con A‘m. Se ora consideriamo il prodotto logico della classe di proposizioni composta di m insieme con A‘m, questo è equivalente a “Ogni m è vero e ogni m è vero”, ossia a “ogni m è vero” ossia a A‘m. Così il prodotto logico della nuova classe di proposizioni è equivalente a un membro della nuova classe, che è lo stesso del prodotto logico di m. Così se identifichiamo funzioni proposizionali equivalenti (essendo n°m una funzione proposizionale di m), la dimostrazione della precedente contraddizione non riesce, perché ogni proposizione della forma A°‘m è il prodotto logico sia di una classe di cui è un membro, sia di una classe di cui non è un membro. Ma questa scappatoia è, in realtà, impraticabile, perché è del tutto autoevidente che funzioni proposizionali equivalenti spesso non sono identiche. Chi vorrà sostenere, per esempio, che “x è un [numero] primo pari diverso da 2” sia identico a “x è una delle azioni

sagge o delle massime stolte di Carlo II?” Tuttavia esse sono equivalenti, se si deve dar credito a un ben noto epitaffio. Il proie uguale a quello di (9) (4 E WI CO ma significa “p è la stessa proposizione di (qg)(q € w > g)”.

°°

Si narra che un giorno il poeta satirico John Wilmot Rochester (1647-1680), amico di re Carlo II d'Inghilterra (1630-1685), avesse scriti È y to sulla porta della stanza da letto del re il seguente epitaffio: “Qui giace nostro Signore Sovrano il Re sulla cui parola nessuno conta; non disse mai una cosa stolta né mai ne fece una saggia”.

I Principles of Mathematics

453

dotto logico di tutte le proposizioni della classe composta di m e A‘m è “Ogni proposizione che è un m o asserisce che ogni m è vero, è vera”. E questo non è identico a “ogni m è vero” sebbene i due siano equivalenti.99°

Qui Russell sembra confondere inestricabilmente l’interpretazione ufficiale secondo cui il prodotto logico di una classe m di proposizioni sarebbe la proposizione espressa da “Ogni m è vero” (più precisamente, “(g)(ge m> g)”), con un’interpretazione secondo cui il prodotto logico di una classe di proposizioni sarebbe — almeno nei casi di classi finite di proposizioni — la proposizione ottenuta dalla congiunzione di tutte le proposizioni che appartengono alla classe. In questo secondo caso, se m avesse per elementi, per es., le proposizioni p e q (e nient'altro), il prodotto logico di m sarebbe la proposizione p A g; il prodotto logico della classe m° avente per elementi le proposizioni p, q € p A q (e nient'altro) sarebbe la proposizione (p A 9) A (p A 9). Sostenere la diversità di questi prodotti logici, sebbene sia possibile, secondo la concezione russelliana delle proposizioni,” non appare intuitivamente plausibile; ma questo importa poco, perché, in ogni caso, non servirebbe a salvaguardare l’asserita corrispondenza uno-uno tra tutte le classi di proposizioni e alcune proposizioni; infatti, secondo questa concezione dei prodotti logici, il prodotto logico, per es., della classe che ha per elementi le due proposizioni p e g (e nient'altro) si identificherebbe — come abbiamo già osservato — con il prodotto logico della classe che ha per unico elemento la proposizione p A g, cosicché due classi diverse avrebbero il medesimo prodotto logico. In realtà, se ci si attiene all’interpretazione secondo cui il prodotto logico di una classe m di proposizioni è la proposizione (9)(g € m > g), l'argomento di Russell diviene più convincente, nella semantica dei Principles. Sia infatti m' la classe cui appartengono tutte le proposizioni appartenenti a m più la proposizione (9g)(qg e m > q) (e nient'altro). Il prodotto logico della classe m* sarà allora la proposizione (g9)(g e m* > 9g), che — sebbene sia certo equivalente a (q)(q € m> q) — sarà diversa da (g)(q e m > q), perché, essendo m # m', le due proposizioni han-

no costituenti diversi. Nei Principles, Russell accenna alla possibilità di risolvere il paradosso negando che le proposizioni appartengano tutte a uno stesso tipo logico: La stretta analogia di questa contraddizione con quella discussa nel Capitolo X [il paradosso di Russell] suggerisce fortemente che tutte e due debbano avere la stessa soluzione, o almeno soluzioni molto simili. E possibile, naturalmente, sostenere che le proposizioni stesse sono di vari tipi, e che i prodotti logici debbano avere proposizioni di un solo tipo come fattori.

Russell sembra suggerire che, se le proposizioni fossero suddivise in tipi, in modo che i prodotti logici di proposizioni avessero fattori di un solo tipo, e questi prodotti logici fossero dello stesso tipo della corrispondente classe di proposizioni, allora espressioni come “re m” o “7 é m”, dove m è una classe di proposizioni e r = (g9)(q € mi g), sarebbero prive di senso, e dunque il paradosso non sarebbe formulabile. Ma immediatamente Russell respinge questo suggerimento come «duro e molto artificiale», concludendo che il paradosso delle proposizioni probabilmente non sia risolvibile con la dottrina dei tipi. 11.2. Russell e Frege continuarono a discutere il paradosso delle proposizioni in tutte le lettere che si scambiarono dal 29 settembre 1902 al 24 maggio 1903, senza giungere mai a un accordo. Le divergenze, e la difficoltà di comunicazione, avevano le loro origini nella profonda diversità tra la semantica di Frege e quella di Russell. Dal punto di vista di Frege, il paradosso precedente, così com’è formulato sopra, è una fallacia; dal punto di vista di Russell si tratta di un paradosso autentico. Vediamo perché, richiamando innanzi tutto, brevemente, alcune delle . . . . 565 concezioni semantiche di Frege. Per Frege, un nome esprime un senso e denota (0 significa) ” un oggetto. Gli enunciati hanno anch'essi un senso e una denotazione: Frege chiama pensiero il senso di un enunciato dichiarativo, mentre ciò che l’enunciato deî

fi

566

1

vi e

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La leggenda dice che, quando il re lo lesse, ammise: “Sì, è vero. La ragione è che le mie parole sono mie, mentre le mie azioni sono quelle dei miei ministri”. per mai ve ia x aa, 590 Russell [1903a], $ 500, pp. 527-528. 5! Nei Principles non sono indicati precisi criteri di identità per le proposizioni: dati due enunciati che SEMIDFARO, FU

Vamento,

se a

l’uno dell’altro o se estessa cosa”, non è sempre possibile decidere, sulla scorta dei Principles, se essi siano semplici varianti notazionali

sprimano proposizioni diverse.

562 Russell [1903a], $ 500, p. 528.

2° Thid. 504 V. ibid.

DA collegati. termini i e Bedeutung tedesco il italiano in tradurre preferisce si 566 Dipende da come 565 Per una trattazione più completa, v. sopra, cap. 5, $ 1.

454

capitolo 6

nota è, secondo Frege, un valore di verità, cioè il Vero o il Falso (che per Frege sono oggetti). Quindi un enuncia-

to dichiarativo (non asserito) è per Frege una sorta di nome: ciò che esso denota è il Vero o il Falso, mentre il suo senso — il pensiero che esso esprime — deriva dai sensi delle parole che lo compongono. Le denotazioni dei nomi (oggetti) si possono legare con le denotazioni dei predicati (concetti), secondo Frege, perché le prime sono entità sature, non bisognose di completamento, mentre le seconde sono entità insature, bisognose di completamento. Lo stesso meccanismo, secondo Frege, spiega come i sensi delle parole che compongono un enunciato si leghino in un pensiero: anche i sensi dei nomi sono entità sature, mentre i sensi dei predicati sono entità insature. La differenza è che un concetto si lega a un oggetto producendo un valore di verità, mentre il senso di un predicato si lega con il senso di un nome producendo un pensiero. Tutti gli enunciati veri denotano, per Frege, la stessa cosa, pur avendo sensi diversi — esattamente come, per Frege, diverse descrizioni o diversi nomi possono denotare lo stesso oggetto pur avendo sensi diversi. È importante rilevare che i sensi non sono affatto, per Frege, qualcosa di psicologico, ma sono entità assolutamente indipendenti dal pensiero umano. Ciò che i parlanti hanno in mente, quando usano un segno, non è il senso, ma ciò che Frege chiama la rappresentazione (0 idea: il termine fregeano è Vorstellung) connessa con il segno: Dalla denotazione e dal senso di un segno si deve distinguere la rappresentazione ad esso collegata. Se la denotazione di un segno è un oggetto sensibilmente percepibile, la mia rappresentazione [Vorstellung] di esso è un’immagine interna [inneres Bild] derivata dai ricordi di impressioni sensibili che ho avuto e di attività, sia interne sia esterne, che ho praticato. La medesima rappresentazione non è sempre coliegata al medesimo senso, neppure nelle stesse persone. La rappresentazione è soggettiva: la rappresentazione di uno non è quella di un altro. [...] La rappresentazione si distingue per questo essenzialmente dal senso di un segno, che può essere

proprietà comune di molti e dunque non è una parte o un modo della mente individuale; poiché non si potrà certo negare che l’umanità abbia un tesoro comune di pensieri che si tramanda da una generazione all’altra. [...] Mentre dunque il parlare semplicemente del senso non è soggetto ad alcuna obiezione, nel caso della rappresentazione si deve a rigor di termini aggiungere a chi appartenga e in quale tempo. [...] Ciò non impedisce che [...] [due persone] afferrino lo stesso senso, ma esse non possono avere la stessa rappresentazione. Si duo idem faciunt, non est idem. Se due persone si rappresentano la stessa cosa, ciascuno ha tuttavia la propria rappresentazione.” id

Nonostante ciò che la parola scelta da Frege inevitabilmente suggerisce, un “pensiero” è dunque, per Frege, un'entità oggettiva, appartenente a un “terzo regno” diverso dal regno degli oggetti della fisica e da quello delle entità mentali (“rappresentazioni”, o “idee”: Vorstellungen): Si deve riconoscere un terzo regno. Ciò che vi appartiene ha in comune con le rappresentazioni [Vorstellungen] che non può essere percepito con i sensi, ma ha in comune con le cose [Dingen] che non ha bisogno di un portatore, ai contenuti della cui coscienza appartenere. Così per es. il pensiero che esprimiamo nel teorema di Pitagora è vero atemporalmente, indipendentemente dal fatto che qualcuno lo ritenga vero. Non ha bisogno di un portatore. Non è vero solo dal momento in cui viene scoperto; come un pianeta, già prima che qualcuno lo vedesse, era in interazione con altri pianeti.

L’oggettività ontologica dei pensieri consente che essi possano diventare la denotazione degli enunciati che li esprimono. Questo accade, secondo Frege, nei contesti indiretti (quelli che sono oggi noti come “intensionali” 0 “opachi”) come, per esempio, nell’enunciato “Copernico credeva che le orbite dei pianeti fossero circoli”. In

quest’enunciato, l’enunciato subordinato “Le orbite dei pianeti sono circoli” non denota, per Frege, il suo valore di verità, come accade quando esso compare da solo, ma denota quello che è il suo senso nei contesti diretti.”

Questo è dimostrato, secondo Frege, dal fatto che l’enunciato “Le orbite dei pianeti sono circoli” non può essere sostituito salva veritate con qualsiasi altro enunciato falso in “Copernico credeva che...”, ma può essere sostituito salva veritate solo con un altro enunciato avente il medesimo senso, come, per esempio, “I pianeti descrivono orbite circolari”. In conformità con questa semantica, l'argomento del paradosso precedente è così esaminato da Frege, in una lettera a Russell del 28 dicembre 1902: Lei designa [bezeichnen] dunque con “p € m >, p” un pensiero [einen Gedanken: cioè, il senso di un enunciato dichiarava e cioè

il pensiero che sutti i pensieri appartenenti alla classe m sono veri, se io comprendo correttamente i suoi segni. Ora però nessuna classe può essere costituente di un pensiero, ma può certo esserlo il senso di un nome di una classe. Lei usa l’enunciato come nel discorso indiretto. Ma nel discorso indiretto (oratio obliqua) ogni parola non ha però il suo usuale (diretto) significato [Bedeutung] ma, come io dico, quello indiretto [ungerade], che coincide con quello che è normalmente

°°? Frege [1892a], pp. 29-30. °05 Frege [1918], p. 69. °°° V,, per es., Frege [1892a], p. 28.

il suo senso. Siano DEE est MLN

I Principles of Mathematics

455

(nel discorso diretto) nomi della medesima classe, cosicché M = N è il Vero. Io assumo però che questi nomi abbiano senso diverso,

in quanto determinano la classe in modo diverso. Nel discorso indiretto non è quindi permesso scambiare M con N, perché i loro significati [Bedewtungen] sono in questo caso diversi. [...] Il pensiero che tutti i pensieri appartenenti alla classe M sono veri è diverso da quello che tutti i pensieri appartenenti alla classe N sono veri; perché qualcuno che non sapesse che M coincide con N potrebbe ritenere vero uno di questi pensieri e falso l’altro. L'espressione “la classe M” non significa [bedeutet] dunque qui, in discorso indiretto, una classe; perché essa significherebbe allora la stessa classe di “N”. Se ora noi diciamo inoltre: “il pensiero, che tutti i pensieri appartenenti alla classe M sono veri, appartiene alla classe M”, “M” ha qui nella seconda occorrenza il suo significato diretto 0 usuale [seine gerade oder gewòhnliche Bedeutung]; esso significa [bedeutet] qui una classe, mentre nella parte sottolineata [qui resa in corsivo] tutto ha significato indiretto [ungerade Bedeutung]. Se nella seconda occorrenza sostituiamo “M” con “N” [s'intenda: solo nella seconda occorrenza], il valore di verità [dell'intero enunciato] rimane lo stesso. Se però facciamo lo stesso

nella parte sottolineata, il valore di verità può essere invertito; perché anche se il pensiero che tutti i pensieri appartenenti alla classe M sono veri appartiene alla classe M, il pensiero che tutti i pensieri appartenenti alla classe N sono veri non necessariamente appartiene alla classe M; perché esso è diverso.??°

L'argomento di Frege è il seguente. Perché dalla definizione della classe w di Russell:

(1) w=u

m> g) Ape m)

PAM(P=(9)(d e

si ricavi un paradosso, è necessario prendere come valori di “p’ e “9g” non dei valori di verità, ma delle entità che devono risultare diverse quando sono espresse da enunciati di senso diverso. Frege ne desume che i valori di “p” devono essere sensi di enunciati, ossia ciò che egli chiama pensieri, e che, conseguentemente, w e m devono essere classi di “pensieri”. Supponiamo ora che s sia un pensiero che appartiene alla classe w, dalla definizione (1) abbiamo dunque:

(8) Em((s=(9(ge m>g) As e m. In quest’enunciato la variabile ‘“m” entra in un quantificatore esistenziale: si dice cioè che c’è un valore di “m” che ha tali e tali proprietà. Ma quali entità dovrebbero essere i valori della variabile “m”? Se s è un pensiero, allora, in “s= (g)(ge m2 q) la variabile “mm” dovrebbe avere come valori delle componenti di pensieri, cioè dei sensi. Per contro, in “s £ m” la variabile ‘“m’ dovrebbe prendere come valori delle classi di pensieri, che non sono

sensi. Nessun valore di ‘mm’ può dunque soddisfare la (8). Supponiamo, per es., che la classe & sia un m che soddisfa la (8). Allora abbiamo la seguente esemplificazione della (8):

(9) (s=(9(ge

029) As

a

Supponiamo ora che la classe & abbia — proprio come Venere, che si chiama anche “Espero” — un altro nome, per esempio “8”. Se usiamo l’altro nome della classe @e lo sostituiamo al simbolo “n” nella (8) otteniamo:

(10) (s=(9(ge B9 9) AS p la (9) e la (10) dovrebbero essere entrambe vere, poiché rappresentano la stessa esemplificazione della (8), che NI è supposta vera. Tuttavia, in generale, il pensiero espresso da “(g)(qg € QD q)” sarà un pensiero diverso da quello espresso da ‘“(q)(qg e B > g)”, esattamente come il pensiero espresso da “Espero è Venere” è diverso dal pensiero

espresso da “Fosforo è Venere”; ma, se è così, la (9) e la (10) non sono equivalenti: può darsi benissimo che la (10) sia falsa perché il pensiero espresso da “(9)(q € ig) appartiene a f}, sebbene la (9) sia vera perché il pensiero espresso da ‘“(q)(q € @ 2 g)” non appartiene ad a (cioè a Dio 570 In Frege [1976], p. 236.

flex pò Lea a ELI di cerca e fallace, è Russell di derivazione alla Frege di l’obiezione che 57! Fuhrmann ([2001], pp. 32-33, e [2002], pp. 207-208), sostiene del termidimostrarlo riproponendo tale derivazione con l’accortezza di segnalare i simboli che stanno per “sensi” (nell’accezione fregeana

ne) ponendoli tra parentesi quadre. Fuhrmann ([2001], p. 33, e [2002], p. 208) parte dalla formula:

le w= (Am(((p]=[(@([g] e m> I) A Ip] € m),

Peo

fam

r a

|

|

che abbiamo svolto nel ppi a una contraddizione senza operare sostituzioni in posizioni non referenziali. Tuttavia, come l’argomento dipendere solo dovrebbe destro lato suo del falsità 0 verità la es., per definito: significato un ha precedente non dimostra, da testo . > la formula 3 È . . . . . SLI 2435 . decide di designare m: si cui in modo dal invece dipende 9)] > m € “[(g)([q] l’espressione designa che ciò ma m; dell’entità dalla scelta A R DE) “ CIT ari ASSICS 3 3 divere ad2) > g)] pe da diverso primo pari se m è la classe vuota, per esempio, “[(g)([q] € x (x è uno gnomo) > I e “[(9)([9] € * (x è un numero

capitolo 6

456

Quindi il paradosso sembra dissolversi. Riassumendo, secondo Frege, l’errore nell’argomentazione che conduce al paradosso delle proposizioni è di considerare un enunciato in cui una variabile quantificata (cioè m) compare due volte, una in un contesto diretto, cioè in una posizione referenziale, un’altra in un contesto indiretto, cioè in una posizione non referenziale.

11.3. Nella sua risposta alla lettera di Frege del 28 dicembre 1902, datata 20 febbraio 1903, Russell ammette che l’argomentazione di Frege sarebbe corretta se, in effetti, una classe non potesse far parte del significato di un enunciato; ma egli è convinto che questa premessa sia falsa: Per quanto riguarda “p € m . >, . p” [cioè: “(p)(( € m) > p)”], credo che la classe m sia essa stessa costituente di questo pensiero. Se ciò è impossibile, la sua critica è giustificata; ma quest’impossibilità non mi è evidente.”

Nella sua replica, datata 21 maggio 1903, Frege mostra di ritenere sconcertante questa posizione di Russell: Può in generale una classe essere costituente di un pensiero? Tanto poco quanto il pianeta Giove. Una classe [...] può essere definita variamente e a un’altra definizione corrisponde un altro senso del nome della classe. Ora, che un oggetto appartenga a una classe definita nel primo modo, è un pensiero diverso dal pensiero che quest’oggetto appartiene alla classe definita nel secondo modo. Di conseguenza la classe non può essere essa stessa parte del pensiero che un oggetto le appartiene (poiché la classe è in entrambi i casi la stessa); ma solo il senso del nome della classe può essere parte di questo pensiero.

In una lettera a Jourdain del gennaio 1914, Frege spiegherà il punto più estesamente: Poniamo che un esploratore veda in un paese inesplorato, all'orizzonte nord, un alto monte nevoso. Domandando ai nativi egli apprende il nome “Afla”. Egli determina nel modo più accurato possibile la sua posizione, per mezzo di rilevazioni da punti diversi, la registra su una carta e scrive nel suo diario: “L’ Afla è alto almeno 5000 metri”. Un altro esploratore vede all’orizzonte sud un alto monte nevoso e apprende che si chiama Ateb. Egli lo registra sulla sua carta con questo nome. Da un confronto emerge in seguito che entrambi gli esploratori hanno visto lo stesso monte. Perciò il contenuto [/nha/f] dell’enunciato “L’Ateb è l'Afla” non è in nessun modo una semplice conseguenza del principio d’identità, ma contiene una preziosa conoscenza geografica. Ciò che è espresso [ausgesprochen wird] nell’enunciato “L’Ateb è I’Afla” non è affatto la stessa cosa del contenuto dell’enunciato “L° Ateb è lAteb”. Se dunque ciò che corrisponde al nome “Afla” come parte di pensiero fosse il significato [Bedeutung] di questo nome, quindi il monte stesso, allora questo sarebbe lo stesso in entrambi i pensieri. Il pensiero espresso [ausgedriickte] nell’enunciato “L’Ateb è l’Afla” dovrebbe coincidere con quello dell’ enunciato “L° Ateb è 1’ Ateb”, cosa che non è in nessun modo vera. Ciò che corrisponde

al nome “Ateb” come parte di pensiero deve dunque essere diverso da ciò che corrisponde al nome “Afla” come parte di pensiero. Questo non può quindi essere il significato [Bedeutung], che in entrambi i nomi è lo stesso, ma deve essere qualcosa che è diverso 75 nei due casi e io dico, conformemente a ciò, che il senso del nome “Ateb” è diverso dal senso del nome “Afla”.?”

Gli argomenti di Frege, tuttavia, non potevano convincere Russell, perché la sua filosofia del linguaggio era

molto diversa da quella fregeana. Proviamo a ricapitolare alcuni punti della semantica dei Principles usando, però, la terminologia fregeana.?”°

designeranno entità diverse, sebbene % (x è uno gnomo) = & (x è un numero primo pari diverso da 2) = A. ST Per comprendere meglio il punto di Frege, possiamo considerare un esempio diverso, che non coinvolga sensi di enunciati, ma solo espressioni verbali. L'esempio è affine a quelli proposti in Quine [1953d] (in particolare, $ 2, pp. 146-147). Supponiamo che Alberto Mora-

via avesse firmato un certo documento scrivendo “Alberto Moravia”; se deduciamo da questo che: i) A»(a="x Axsi firmò a), commettiamo un errore molto simile a quello indicato da Frege. Chiediamoci infatti, chi è l'x che soddisfa quest’espressione? Alberto Moravia? Questo può sembrare corretto, perché, sostituendo il nome “Alberto Moravia” a “x” nella (i), otteniamo l’enunciato vero: (ii) a= “Alberto Moravia” n Alberto Moravia si firmò a; tuttavia Alberto Moravia — l’uomo in carne e ossa — altri non era che Alberto Pincherle; ma se sostituiamo a “x”, nella (i), il nome “Alberto Pincherle” otteniamo: (iii) a= “Alberto Pincherle” A Alberto Pincherle si firmò a, È che è un enunciato falso, poiché Moravia, secondo l’ipotesi iniziale, si firmò “Alberto Moravia”, non “Alberto Pincherle”. Dunque Alberto Moravia, contrariamente a quanto poteva sembrare a un primo sguardo, non è affatto un individuo che soddisfa la (i). Nell articolo menzionato, come in molti altri suoi scritti, Quine insiste sul fatto che è illegittimo quantificare dall’esterno una variabile che si trova all’interno di un contesto non referenziale, cioè di un contesto — come i contesti di citazione, di credenza, o modali — in cui

hanno importanza i nomi con cui ci si riferisce agli oggetti.

273 In Frege [1976], p. 238. 274 In Frege [1976], p. 240. SD Tri Frege [1976], p. 128. La lettera è senza data. 576 V. anche, sopra, $$ 2.2 e 4.

I Principles of Mathematics

457

Secondo il Russell dei Principles, un enunciato dichiarativo non denota un valore di verità, ma un oggetto, che Russell chiama proposizione. Le proposizioni sono oggetti complessi, costituiti dalle entità denotate dalle espressioni linguistiche che compongono gli enunciati i quali denotano tali proposizioni. Le entità che compongono ie proposizioni sono oggetti; alcuni di questi oggetti, quelli denotati da predicati, sono simili a quelli che Frege avrebbe chiamato sensi di predicati:?”” entità intensionali, ma, a differenza che per Frege, entità sature, non bisognose di completamento. Essendo oggetti, le entità denotate dai predicati possono, per Russell, essere denotate anche da nomi propri. La proprietà di essere vere o false è, per Russell, una caratteristica primitiva, non analizzabile delle proposizioni. Sia le proposizioni vere, sia quelle false, possono essere l’oggetto di atteggiamenti proposizionali, come credere, dubitare, credere che non, comprendere, immaginare, desiderare. Secondo Russell non esiste in generale qualcosa di distinto dalla denotazione che, come il senso fregeano, determini la denotazione: oltre a ciò che una parola o un enunciato denota ci sono solo le rappresentazioni individuali: un fatto che riguarda la psicologia, non la logica.” C’è un solo caso in cui, per Russell, le espressioni rinviano a qualcosa che, a sua volta, determina l’oggetto, o gli oggetti, su cui verte un enunciato dichiarativo: il caso di locuzioni come “tutti gli x”, “ogni x”, “un x°, “ciascun x”, “qualche x”, ‘1’ x”, che significano quelli che Russell chiama ‘concetti denotanti”.

Si deve però osservare che per Russell i concetti denotanti sono la denotazione (Bedeutung) di queste espressioni (si rammenti che qui sto utilizzando una terminologia fregeana, non russelliana), nel senso che il rapporto tra ciascuna di tali espressioni e il concetto denotante che essa significa è dello stesso genere, per Russell, del rapporto tra un nome e il suo referente — quel rapporto che Frege chiama appunto “denotazione” (Bedeutung). Gli oggetti denotati dai concetti denotanti, sono dunque, per così dire, denotazioni di secondo grado.” SÈ

La terminologia che Russell usa al tempo dei Principles è naturalmente diversa da quella che abbiamo appena utilizzato; potrà forse essere utile proporre un piccolo schema delle corrispondenze fra la terminologia di Frege e quella usata da Russell all’epoca dei Principles e nel periodo immediatamente successivo:

Frege:

Russell:

significato, denotazione (Bedeutung) leurs gnificato (meaning); indicazione (indication) senso (Sinn) A « (solo in alcuni casi) concetto denotante (denoting concept)

pensiero (Gedanke)

«>

nessun termine corrispondente

rappresentazione, idea (Vorstellung)

«+

idea (idea)

nessun termine corrispondente

«>

proposizione (proposition)

nessun termine corrispondente

«>

denotazione (denotation)

Le differenze terminologiche resero ardua la comprensione tra i due filosofi. Russell cercava di tradurre i propri concetti in termini fregeani, e Frege di tradurre i suoi in termini russelliani. Ne derivò una confusione che impedì a Frege di comprendere la vera portata del paradosso (su questo torneremo tra poco, nel $ 11.4). In paricolate Russell interpretò inizialmente il Gedanke (pensiero) di Frege come la stessa cosa della sua proposition, ma il termine russelliano “proposition” non ha alcun corrispondente nel sistema di Frege — per Frege non esistono “proposizioni” nel senso non linguistico che Russell attribuisce al termine. 577 Si tenga presente che i sensi di Frege sono entità oggettive, non entità mentali.

44 Questo è confermato,

>|

per es.,

=),

pianta

ara

578 V_, per es., Russell [1903a], $ 51, p. 47.

a

dal seguente brano dei Principles: «Le parole hanno tutte un significato [meaning], nel semplice senso che i

E

da

1

È de ; i alcosa di diverso da se stesse a concetti c 3 > hanno significato in uno altro n - Ù e[meaning] esse sono simboli che stanno per qualcosa di diverso da se stesse. [...] Ma spugna come 7 i di fi € n afro rel, vj 4, > ’ I ne "i ‘ "E ‘ Ici 1 1 di sai) i dI anal sa a ‘ ; ogic D° fans in Rea logica natura propria nella senso: essi sono, per così dire, simbolici ssell € OSSErvi come Russell al, $$ 51, p. 47). Sii osservi i denotare» (Russell [1903a], chiamo

delle parole, sia al significato dei concetti denotanti.

ae

stessa paparola ala stessa

usius qui

(mec

2) p S

erirsi S

s1g

2

hi

: 580 I] termine “Bedeutung” è spesso tradotto anche con “significato”, o “riferimento”. essere, a sua volta, può non “Bedeutung” termine il naturalmente, caso, questo In 581 A volte il termine “Sinn” è tradotto con “significato”. Ja CILE x Pd i “significato”. con reso ($ 477, p. Frege di tesi delle discussione alla dedicata Principles, dei A 582 Quest’identificazione è fatta da Russell anche nell’appendice Pe

503).

Li

sH



capitolo 6

458

Infine Russell si rese conto del fatto che ciò che Frege chiama “pensiero” non è affatto la stessa cosa della sua “proposizione”; così, in quella che rimarrà l’ultima lettera del suo epistolario scientifico con Frege, datata 12 dicembre 1904, egli difende la sua argomentazione dalla critica fregeana precisandone meglio il presupposto filosofico: Credo che lo stesso Monte Bianco, nonostante tutte le sue distese di neve, sia un costituente [Bestandtheil] di ciò che propriamente si afferma [behauptet wird] nell’enunciato [Sazze] “Il Monte Bianco è alto più di 4000 metri”. Non si afferma [Man behauptet

nichi) il pensiero [den Gedanken], che è cosa psicologica privata: si afferma [man behauptet] l'oggetto del pensiero, e questo è a mio parere un certo complesso [...] del quale il Monte Bianco stesso è un costituente. [...] Per questo il significato [Bedeutung] dell’enunciato non è per me il Vero, bensì un certo complesso, (un enunciato oggettivo [ein objektiver Satz], si potrebbe dire) di cui il Monte Bianco stesso è un costituente. Nel caso di un nome proprio semplice come “Socrate” non posso distinguere tra senso [Sinn] e significato [Bedeutung]; vedo solo l’idea [/dee], che è psicologica, e l’oggetto. Detto meglio: non ammetto affatto il senso, ma solo l’idea [/dee] e il significato [Bedeutung]. Riconosco la differenza fra senso e significato solo nel caso di complessi che si-

gnificano [bedeuten] un oggetto, per es. il valore delle usuali funzioni matematiche come $+ 1, È ecc

Ma come avrebbe risposto Russell all’obiezione fregeana dell’ Afla e dell’ Ateb (che naturalmente, per ragioni cronologiche, egli non poteva conoscere all’epoca)? La teoria che Russell sostiene nei Principles è in grado di rendere conto della differenza, tra la proposizione espressa da “La montagna che, vista da sud, appare così e così è uguale all’ Ateb” (dove “così e così” è inteso rappresentare una descrizione dell’ Afla, visto da sud) e la proposizione espressa da “L’Ateb è l’Ateb” (oppure, “L’Afla è l’Afla”). Infatti, secondo questa teoria, il concetto denotante espresso da “la montagna che, vista da sud, appare così e così” è un costituente della prima proposizione, ma non della seconda, che ha invece come costituente il solo Ateb (o Afla): dunque le proposizioni espresse dai due enunciati sono diverse. Ma la teoria dei Principles sembra impotente a rendere conto della differenza tra le proposizioni espresse da “L’Ateb è l’Ateb” e da “L’Ateb è l’Afla”. La soluzione, tuttavia, potrebbe essere del tutto simile a quella che lo stesso Russell proporrà

solo due anni più tardi,’*' nell’ambito della sua nuova teoria delle descrizioni definite. In breve, la soluzione potrebbe essere quella di sostenere che “Afla” e “Ateb”, nella storia raccontata da Frege, non sono in realtà veri nomi propri, ma semplici abbreviazioni stenografiche d’espressioni descrittive quali, rispettivamente, “la montagna che, vista da sud, appare così e così” e “la montagna che, vista da nord, appare così e così”. Queste espressioni descrittive indicherebbero concetti denotanti, i quali, a loro volta, denoterebbero una montagna reale. Le proposizio-

ni espresse da “L’Ateb è l’ Ateb” e da “L’Ateb è l’Afla” sarebbero dunque distinte dal fatto che i loro componenti siano (concetti denotanti) diversi, sebbene essi vertano sulla stessa montagna reale.

11.4. Finora, abbiamo appurato che l'argomento che conduce al paradosso delle proposizioni, formulato in termini russelliani, è corretto; invece, così com’è esposto da Russell, si rivela fallace nella semantica di Frege. Potrebbe

sembrare che questo chiuda il discorso con una dimostrazione della maggiore solidità delle concezioni semantiche fregeane rispetto a quelle russelliane. Ma il paradosso corre più profondo di quanto avesse voluto vedere Frege: infatti, se ne può formulare una variante anche nella teoria di Frege, ottenendo quello che potremmo chiamare

“paradosso dei pensieri” (intendendo “pensiero” come Gedanke, nel senso tecnico fregeano). È lo stesso Russell a suggerirlo, quando, in una delle sue lettere a Frege,”” cerca di descrivere il proprio paradosso in termini di sensi degli enunciati: Si deve ammettere che ci sono sensi diversi, e si dovrebbe presumere che le classi di sensi abbiano numeri [Zahlen]. Ora, il senso di pe

(13

m.2.p”

è in relazione uno-uno con m; di conseguenza c’è lo stesso numero [Anzah/] di sensi che di classi di sensi. (Perché

“ea.

ii

L

9%

.

.

m deve essere una classe di sensi, altrimenti “p € m . > . p” non ha nessun senso.)?°

Sappiamo ora che, se ci si riporta in un contesto fregeano, questo non è corretto; si dovrebbe dire, piuttosto, che non VI possono essere meno pensieri che classi di pensieri. Infatti, se m= n, “(Q)(g.e m> ge “(ge n>5 q) esprimono per Frege pensieri diversi, pur essendo in relazione con la stessa classe di pensieri m (= n). Si tratta so983 In Frege [1976], pp. 250-251. Come abbiamo già notato più sopra (alla fine del $ 5), la teoria secondo cui alcune parole che compaiono grammaticalmente come nomi propri — cioè quelle che sembrano nomi di entità inesistenti, come “Omero” o “Utopia” — non sono in realtà tali, risale almeno alla se conda metà del 1903, ; perché è so! sostenuta da Russell ss in manoscritti, ‘ pubblicati all’epoca, È non pubblicati all’epoca, risalenti ris: i a quel periodo ada(v. Russell [1903 0Bel. D.

285, e Russell [1903g], p. 318).

985 Lettera di Russell a Frege datata 12 dicembre 1902.

°80 In Frege [1976], p. 233.

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print;

I Principles of Mathematics

459

lo di una piccola modifica, ma essa è sufficiente per ottenere un paradosso nel sistema di Frege. Possiamo formularlo più precisamente come segue. Definiamo innanzi tutto una relazione R la quale associ ogni classe m di pensieri con pensieri p, tali che mRp se e solo se p è un pensiero che esprime la verità di tutti i pensieri della classe m: per esempio il pensiero espresso da ‘(9)(qg e m> g)”. Come già accennato, la relazione R è uno-molti, non uno-uno (come supponeva Russell), perché una stessa classe m può avere diversi nomi (le descrizioni, per Frege, sono nomi), e la scelta di un nome o di un altro cambia (secondo Frege) il pensiero espresso da “p”. Poniamo la definizione:

(1) w=ar PAM(mRp npe m): cioè, “w è la classe di tutti i pensieri p correlati da R a qualche classe m, ma tali che non appartengono alla classe cui sono correlati”. Il paradosso procede ora inarrestabile. Sia infatti r uno dei pensieri che esprimono la verità di tutti i pensieri appartenenti alla classe w — per esempio, il pensiero espresso da “(9)(qg € w > 9)” —; allora si ha, per definizione di R, che wRr. Poiché r è un pensiero e w una classe di pensieri; possiamo chiederci se r appartiene a w. Supponiamo dapprima che r e w. Abbiamo allora, da (1): (Im)(mRrAre

m).

Poiché wRr è vero, dall’espressione precedente segue: (Im)(wRr

A mRr Are

m),

E quindi, poiché pensieri identici devono essere correlati da R alla stessa classe (la relazione R è uno-molti): (Im)(wamanre

m)

Dacuiré w. Supponiamo allora r £ w. Dalla definizione (1) otteniamo: (m)(mRr>re

m),

e, istanziando:

wRr>re

w,

da cui r € w, e dunque una contraddizione. Se si volessero sollevare obiezioni a proposito del fatto che, in “(g)(q € m > 9g)”, si farebbe riferimento a un implicito predicato di verità, perché altrimenti

“g” dovrebbe una volta (in “ge

m”) denotare un pensiero G

un’altra volta (dopo il segno d’implicazione) esprimere un pensiero (e denotare un valore di verità) — circostanza che, come abbiamo visto sopra ($ 3), non si verifica nella logica pre-Principia di Russell (v. anche sotto, cap. 8, $

4.1.1)?” —, è possibile riformulare il paradosso sostituendo alla definizione della relazione R data sopra la seguente: “Sia R la relazione che associa ogni classe m di pensieri con pensieri p tali che mRp se e solo se p è un

pensiero che esprime l’appartenenza di tutti i pensieri alla classe m: per esempio il pensiero espresso da ‘(g)(q € m”.

re

ù

3

Il paradosso appena enunciato è quello di Myhill, che abbiamo già incontrato nel precedente capitolo (alla fine

del $ 4). Per questo, il paradosso delle proposizioni è anche conosciuto, in letteratura, con il nome di

“paradosso

5 i di Russell-Myhill”. Il paradosso non può essere formalmente derivato, nel sistema dei Grundgesetze, è vero, ma solo perché in que-

sto sistema non esiste un modo di denotare specificamente i pensieri, così da poter definire la relazione R. Nondimeno, la semantica di Frege assume un’ontologia di pensieri, e un'estensione del sistema formale fregeano in liFrege, dove 2gli enunciati sono nomi di valori di verità. ‘etze didi Freg Gr. sistema deidei Grundgesetze non sorge nemmeno nel sistema iezi 587 SiÌ osservi i che l’obiezione

capitolo 6

460

nea con tale semantica rende il paradosso derivabile formalmente.”* Inoltre, essendo il paradosso di RussellMyhill indipendente dalla teoria fregeana delle classi,’ esso non può essere bloccato neppure dal tentativo di soluzione al paradosso di Russell offerto nella postfazione dei Grundgesetze. Si osservi che il paradosso delle proposizioni — sebbene sia intensionale — non è, in Russell, un paradosso semantico, ma logico, poiché riguarda entità la cui esistenza è ammessa dalla teoria senza l'intervento di nessuna nozione specificamente semantica: è vero che le proposizioni sono, per Russell, l’indicazione (il riferimento) degli

enunciati, ma questa circostanza semantica non è utilizzata nella derivazione del paradosso, proprio come non è utilizzata, per la derivazione del paradosso di Russell nella sua versione insiemistica, la circostanza che le classi siano denotate dai simboli di classe. Un rilievo simile vale anche per la teoria di Frege. Il paradosso sopravvive alla teoria dei tipi proposta nell’appendice B dei Principles, e sopravvive alla stratificazione dei livelli di funzioni dei Grundgesetze perché sia le proposizioni russelliane, sia i pensieri fregeani sono entità dello stesso tipo. Russell aveva dunque ragione: le appendici dei Principles e dei Grundgesetze non otfrivano ancora una soluzione ai paradossi logici connessi con il teorema di Cantor.

12. MAGGIO 1903: “HO RISOLTO LA CONTRADDIZIONE” Il 23 maggio del 1903, Russell scrisse nel suo diario: «Quattro giorni fa ho risolto la contraddizione — il sollievo è indicibile». Il 21 maggio aveva comunicato la notizia a Whitehead, che all’epoca stava collaborando con lui a quello che sarebbe dovuto diventare il secondo volume dei Principles of Mathematics, ma che si trasformò, strada facendo, in un’opera autonoma: i Principia Mathematica. Whitehead rispose il giorno stesso con un telegramma: «Le più vive congratulazioni Aristoteles Secundus. Mi compiaccio».”” Il 24 maggio 1903, Russell descrisse la sua “soluzione” a Frege in una lettera che comincia con queste parole: Egregio collega, Ho ricevuto stamattina la sua lettera [del 21 maggio 1903]; rispondo immediatamente poiché credo di aver scoperto che le classi sono completamente superflue.

La “soluzione” trovata da Russell al proprio paradosso nel maggio del 1903 consisteva nel rinunciare alle classi e nel fondare la matematica servendosi solo di “funzioni proposizionali”’, intese qui come attributi monadici 0 poliadici. In un breve manoscritto dello stesso periodo, Russell scrive: Nel linguaggio comune, verbi, preposizioni, e in un certo senso gli aggettivi, esprimono funzioni; le parole che non esprimono funzioni si possono chiamare, con una piccola estensione, nomi propri. Così le funzioni, eccetto che nel caso della funzione il cui valore per l'argomento x è x stesso, che possiamo chiamare funzione identica, sono più semplici dei loro valori: i loro valori sono complessi formati di loro stesse insieme con un termine.?°?

Questa concezione delle funzioni proposizionali, secondo cui le funzioni proposizionali sono costituenti delle proposizioni, è opposta a quella sostenuta nei Principles, secondo cui «il @ in @x non è un'entità separata e distinguibile».??* L’identificazione delle funzioni proposizionali con universali — che rivela l'influenza di Frege su

Russell nel periodo 1903-1904 — sarà abbandonata da Russell poco dopo.

É

Nella lettera a Frege, la spiegazione di Russell è concentrata in pochissime righe in cui egli definisce i concetti d’inclusione, uguaglianza, similitudine cardinale tra funzioni proposizionali, e afferma, infine, che la teoria descritta sembra permettere la derivazione dell’aritmetica, evitando il paradosso di Russell. In una lettera a Jourdain datata 15 marzo 1906 Russell ricorda, in proposito:

°88 v. Klement [2001], pp. 18-24, e Klement [2002], cap. 6, pp. 184-188. °° Vv. Klement [2001], pp. 24-25. V. anche, sopra, cap. 5, alla fine del $ 4.

99? V. Russell [1994], introduzione, p. xx. SAVE Lackey [1972], p. 14, e Russell [1994a], introduzione, p. xx.

°°? In Frege [1976], p. 241. °93 Russell [1903d], p. 51. 2% Russell [1903a], $ 85, p. 88.

I Principles of Mathematics

461

Allora, nel maggio 1903, pensai che avrei risolto l’intera faccenda negando completamente le classi; mantenni ancora le funzioni proposizionali e feci fare a @ la funzione di 2 (@2) [la classe degli z che hanno la proprietà @]. Trattai @ come un’entità. Tutto andò bene finché venni a considerare la funzione W, dove

(P)(MP)=-P(p)). Questo riportò la contraddizione, e mostrò che non avevo guadagnato nulla rifiutando le classi.

Da questo resoconto a Jourdain, sembrerebbe che la proposta di Russell fosse semplicemente quella di rimpiazzare il simbolo di classe “ *(@x)” con il simbolo “@”, cioè di sostituire le supposte classi con qualcosa di simile a quelle che nei Principles erano chiamate “asserzioni” (assertions), “parti funzionali di funzioni proposizionali”’, o

anche “funzioni proposizionali”, in uno dei vari sensi attribuiti al termine.?°° ora trattate, a differenza che nei Principles, come autentiche entità. Sempre basandosi sulla spiegazione fornita a Jourdain, sembra che Russell si

sia reso conto che tale proposta non poteva funzionare non appena scoprì che il suo paradosso poteva essere riformulato in termini di “funzioni proposizionali”. Quest’interpretazione è stata, in effetti, sostenuta da diversi studiosi””” ma, come ha osservato Gregory Landini,”* non può essere storicamente corretta. Vediamo perché. Il 12 dicembre 1904, Russell scrisse a Frege di avere riconosciuto sbagliato il tentativo di sostituire le classi con funzioni proposizionali da circa un anno.” In realtà, sembra che questo sia accaduto prima del dicembre del 1903. Il 9 giugno del 1903, Russell scriveva a Couturat: Ora ho risolto la contraddizione [il paradosso di Russell]; ma ia soluzione consiste nel fare a meno della nozione di classe o d’insieme, servendosi esclusivamente della nozione di funzione. D'ora in poi, quelli che si serviranno di classi o di insiemi commet-

teranno un errore analogo a quello di chi continua a pensare che qualsiasi funzione continua abbia una derivata.

In un’altra lettera a Couturat, del 20 giugno 1903, egli ribadiva: «Quanto alle classi, si possono abbandonare senza fare grandi cambiamenti». Ma due lettere dopo, il 20 ottobre 1903, Russell scrive a Couturat: Ho trovato molte difficoltà con l’idea di funzione e l’idea di classe, a causa principalmente della contraddizione, che richiede teorie

alquanto complicate per evitarla. [...] Ma non posso esporvi brevemente tutte le difficoltà che s’incontrano; ho provato almeno un = . = pelo : 55 e 2; centinaio di teorie diverse, ma prima o poi ci si trova in un’impasse. Tuttavia spero ancora.

Dunque — se la precedente interpretazione della teoria fosse corretta — Russell sarebbe giunto alla formulazione del suo paradosso in termini di ‘funzioni proposizionali”’ tra l’inizio dell’estate e l’ottobre del 1903. Ma questo è impossibile, perché tale paradosso è formulato in termini di “asserzioni”, o “parti funzionali di funzioni proposizionali” non solo nell’ultimo paragrafo del cap. 7 dei Principles ($ 85, p. 88) — che, lo ricordiamo, furono pubblicati all’inizio di maggio del 1903 —, ma già nello stesso luogo del manoscritto dei Principles consegnato alla Cambridge University Press alla fine di maggio del / 902:% esattamente un anno prima che Russell formulasse a Frege la sua proposta di sostituire le “funzioni proposizionali” alle classi. Poiché il paradosso di Russell non sorge, nel sistema di Frege, riguardo ai “concetti” fregeani, si potrebbe pensare che la teoria avanzata da Russell consistesse nell’abolire le classi a favore delle “funzioni proposizionali”, lasciando poi che una gerarchia simile a quella di Frege bloccasse la formulazione del paradosso. Questa sembra essere, in effetti, l’interpretazione che ne diede Frege nella sua lettera di risposta a Russell. Ma un tentativo del genere non poteva funzionare. Infatti, il paradosso di Russell non sorge — nel sistema di Frege = riguardo alle funzioni, perché queste sono considerate entità essenzialmente insature e quest’insaturazione dev'essere rispec-

chiata in un simbolismo logicamente corretto. Usando invece i simboli funzionali in isolamento, al posto dei sim-

boli di classe, Russell fa di essi dei nomi propri, cancellando la gerarchia. A questo punto, il paradosso di Russell

595 In Grattan-Guinness [1977], pp. 78-79. 5% V. sopra, $ 8.2.

59 598 599 600 601 602

V_, per es., Bell [1983], p. 169. V. Landini [1992], pp. 162-163. V. in Frege [1976], p. 248. In Russell [2001a], p. 297. Tn Russell [2001a], p. 300. 7 In Russell [2001a],p.313.

e

Lar

sua au603 Ciò dovrebbe essere accaduto all’inizio dell’estate, almeno se si deve dar credito a quanto Russell scriverà molti anni dopo nella (v. Russell tobiografia riguardo alle estati del 1903 e del 1904, descritte come momenti d'assoluta impasse di fronte alle contraddizioni [1967-69], 1872-1914, cap. 6, p. 154). V. anche, sotto, l’introduzione al cap. 7.

6% pera collazione, v. Blackwell [1984], p. 287.

capitolo 6

462

diviene inevitabile. Ciò spiega la mancanza d’entusiasmo di Frege per la proposta di Russell (si pensi che egli rispose alla lettera di Russell solo dopo un anno e mezzo, il 13 novembre 1904): Non posso considerare riuscito il suo tentativo di rendere del tutto superflue le classi, e precisamente a causa dell’uso isolato delle lettere di funzione [Functionsbuchstaben]. Mi sono espresso in proposito nella nota 2, p. 148, vol. Il dei miei Grundgesetze.

L’isolamento del segno funzionale contraddice la natura della funzione, che consiste nella sua insaturazione [Ungesàttigtheit]. E

proprio per questo che la funzione si distingue dall’oggetto. Per questo anche i nomi di funzione si devono distinguere essenzialmente dai nomi propri, e precisamente per il fatto che essi devono recare con sé almeno un posto vuoto — un posto d’argomento. [...] Nelle sue notazioni [...] “@” e “w” non sono più usate come lettere di funzione, bensì come lettere di oggetti [Gegenstandsbuchstaben].®®

Nel seguito della lettera, Frege mostra senza difficoltà come, usando le lettere funzionali in questo modo, si ottenga nuovamente il paradosso di Russell. Tuttavia, come abbiamo già osservato, all’epoca in cui propose la teoria Russell conosceva già da tempo questa particolare formulazione del suo paradosso, e dunque non si può pensare che gli fosse sfuggita la contraddizione messa in luce da Frege. La teoria proposta da Russell nella sua lettera del 24 maggio 1903 doveva quindi essere più complessa. Vediamo, innanzi tutto, come essa è descritta: Pongo che “p > g” significhi [heisst] “p non è vero, oppure gq è vero” [...]. Poi p=g.=.p 29-92 p Df. (=... Df° è un solo simbolo). @ CW .=. px >: vx DÉ; g Il w.=.@x= wxDf;x 1° y.=. px>y gy Df(1° = identità [/dentitàt]).[9°Y] “Indiv ©)” significa [heisst] ‘“x è un oggetto, cioè non è una funzione”. —-p .=: p .> . (r). r Df (Con “(). px)” designo [bezeichne] il pensiero che @(x) è vero per tutti i valori di x. Quindi —p designa [bezeichnet] “p non è vero”.) u= v.=:. Indiv (uv). >. Indiv (M).ul v: -Indiv (u). >. 1) f) .[...1=:f(,y) .f( 2) ->r,,,:-y=2Df (1>Nc) {).=:f,2).f0,2)->x,,,z-x=y Df (151) ).=.(Nc+1)(f). (1>Ne) (/) Df

Ev. p@ .=.-{() .-9()} DI

gsimy.=.G).[(1+1)f:gx.3_A).{fy).w}:vy.2.E.{f(y). px}] Df9! Nc(p)=y°(9 sim y) Df. Qui Nc(@) significa [bedeutet] il numero cardinale di @. Si ha t:g@simy.=.Nc(@)=Nc(y).

In questo modo si può far funzionare l’aritmetica senza classi. Così, inoltre, mi sembra che si eviti la contraddizione.”

La difficoltà nell’utilizzare, in matematica, gli attributi al posto delle classi è che possono esserci molti attributi

che hanno per estensione la medesima classe. Quindi se, per esempio, vogliamo calcolare le combinazioni che si possono formare con un insieme di oggetti, non possiamo contare gli attributi sotto cui possono cadere questi 0ggetti, invece delle classi che essi possono formare." Come pensava Russell di superare tali problemi, nella sua proposta del maggio 1903? Un'ottima trattazione di questo problema è fornita da Landini ([1992], pp. 179 segg.); nel seguito, mi riferisco, nelle linee essenziali, alle idee esposte in quest'articolo. La chiave consiste nel fatto che, nel brano sopra riportato, Russell definisce un concetto di “uguaglianza” diverso dall’identità. Russell qui denota concetto di “uguaglianza” con il simbolo “=”; tuttavia, per evitare confusioni con l’usuale significato del simbolo, seguirò qui l’uso di Landini di utilizzare, per l’ “uguaglianza”, il simbolo “=”. Russell definisce l’ “uguaglianza” così: (D)

u=v=uqr(Indiv (v) > (Indiv (v) Au 1° v) 1 (-Indiv (4) > (-Indiv (m) Au] v));

°05( In Frege [1976], pp. 243-244. 606

si

Il simbolo



CEL)

“1°”

DE

.

MERITATA

Qua

-

st

S

per l’identità tra individui, mutuato da Schr6der (Schròder usava “1

Se

di diversità), è utilizzato da Russell dall’inizio del 1901 (v. Russell [1901e]) fino al 1904. 607

;

5

BEE

SMCICARRO

5

RERtro

,

per la relazione di identità e “0”” per la relazione &

sE Le sei definizioni seguenti si succedono l’una all’altra, nell originale, senza cambiare riga. [Nota dei curatori di Frege [1976],

p. 241.]

In questa formula, il primo simbolo “>” dev'essere corretto in “>” e il secondo simbolo “>” dev'essere corretto in DI ": le due impliCazioni sono cioè — nel linguaggio che il Russell dei Principles mutua da Peano — formali, non materiali. In Frege [1976], pp. 241-242. GLOSS:

SRO

OASAE

TIE

X

Te

»

.

Caa

x x CRI L’impossibilità di risolvere semplici problemi combinatori è menzionata nei Principles ($ 488, pp. 514-515) come esempio di ostacolo

insormontabile all’utilizzazione di entità intensionali al posto delle classi. Sull’inadeguatezza delle e ntità intensionali in matematica , v. an-

che, sopra, cap. 2,$ 3.2.1, e cap.5,$ 1.

I Principles of Mathematics

463

il lato destro di (D) si può leggere: “Se u è un individuo, allora anche v è un individuo ed è indiscernibile da u; se u non è un individuo allora nemmeno v lo è, e v è equivalente a u”. La relazione espressa da “=” vale dunque tra due individui x e y se essi sono indiscernibili (u 1° v), cioè se:

(P)(PrD PI), ma vale tra due attributi (funzioni proposizionali) @ e y se essi hanno la stessa estensione (u ||| v), cioè se:

M(PxD YI). L’idea fondamentale di Russell è di definire le nozioni basilari dell’aritmetica cardinale in termini di =. Le definizioni di “relazione uno-molti”, “molti-uno”, “uno-uno”, differiscono da quelle usuali perché la nozione

d’“identità” è sostituita da quella di “uguaglianza” (simbolo “=”). Abbiamo quindi:

(Nc31) = MA (fx y) fa 2) > y= 2) (1>N0) = MA (fa 2) AfO, 2) Dx= (1-1) ) =ar (Nc+1) (f) A(1>N0) (f. Ora “@ sim y° è definito nel modo solito:

@ sim yu (af

M(pxrD A) (fx) AYA (vr EIA) A 93)

Queste definizioni fanno sì che, per esempio, due funzioni di funzioni f e g abbiano lo stesso numero cardinale se e solo se all'estensione di ogni funzione che soddisfa f corrisponde una e una sola estensione di una funzione che soddisfa g, e viceversa. In questo modo, sembra possibile fondare l’aritmetica servendosi d'entità non estensionali, e fare del tutto a meno delle classi. Tutto bene allora? No. Il fatto è che — come osserva Landini ([1992], p. 180) — in questo sistema è facile ricavare ancora il paradosso di Russell. È sufficiente definire una funzione W come segue:

W=a AP)(î = PA-PZ),

611

per ottenere immediatamente W(W) = -W(W). Il nuovo sistema, dunque, non funziona. Landini, tuttavia, non si accontenta di questo, ma offre una spiegazione del perché Russell in un primo tempo

avesse pensato che questo sistema fosse in grado di evitare il sorgere di paradossi: non solo del paradosso di Russell, ma anche del “paradosso delle proposizioni” dell’appendice B dei Principles, che si era rivelato resistente sia alla teoria dei tipi proposta da Russell, sia al sistema proposto da Frege nella postfazione dei Grundgesetze.

Nella lettera a Frege del 24 maggio 1903, lo stesso Russell ci fornisce indicazioni su come bloccare il paradosso delle proposizioni: Per quanto riguarda “p e m . >, . p”, lo scrivo ora invece così “@(p) >, p”: cioè “la proprietà 9 non appartiene a nessun oggetto che non sia vero”. [...] La funzione dalla quale sono sorte per me difficoltà è —@{ @(p) >, p}. Ora però queste difficoltà sono supeal suo teorema nella sua Appendice [Anhange], secondo cui +: 4d(p, v). [(P(p)>p p)U (YP)>p P). pp}l.

612

secondo Russell si riferisce al teorema (Y) della postfazione (Nachwort) dei Grundgesetze (vol. II, p. 260), di argomenti come prese che, proposizionali funzioni cui per ogni funzione di funzione proposizionale, ci sono funziocome particolare, in Se, oggetti. stessi gli cadano non questa, danno lo stesso valore, sebbene sotto di esse ne di funzione proposizionale si prende l'estensione della funzione proposizionale @, il teorema implica: »

5

a

i

.

5%

(AP)AM(z(px)=

(42)

.

.

ul

.

613

20)

.

.

x

È

.

A-®)(Px= vx):

611 Je lettere con l’accento circonflesso segnalano i posti di argomento della funzione, secondo la simbologia dei Principia.

612 In Frege [1976], p. 242. HE, sopra, cap. 5, $:3.

.

RI

A

464

capitolo 6

la stessa classe, ma sotto cui non cadono gli stessi oggetti”. “Esistono funzioni proposizionali che definiscono - 614 Lon ; È x = ° $ Russell, reinterpreta questo teorema in riferimento alle funzioni proposizionali:

(7) EPEW(PL YA-M(Px= yo):

615

“Esistono funzioni proposizionali indiscernibili, ma sotto cui non cadono gli stessi oggetti”. Per comprendere bene come fa ciò a bloccare il paradosso delle proposizioni, riprendiamo la dimostrazione simbolica di questo paradosso fornita da Russell nella lettera a Frege del 20 febbraio 1903.9'° Si parte dalla definizione:

(1) w=u dEm)(p=(d(dce m>q) Ape m. Da (1) si ricava: (2) (ge wage w=(Am((d(ge wo gd=(9(gde mag)

(Age w3 9) m).

Si hapoi: (3) ((@(ge w23 9)=(9)(g e mo g)>m=w.

Ma, da (2) e (3) si ottiene: (4) (Age wD ge w=(9g)(gde wD 9) € w, che è una contraddizione. Riformulato nella nuova notazione, il paradosso si deriva come segue:

(1) (2) (3) (4)

W=u DEPP 1° (A)(P(4) 2 9) A-PP)) W(A(Ma)29d)=EP(((A)(Mq) I) 1 (AP) 2 I) A-9 ((A(Wg9) 2 9) ((@(W49) 29) I (9)(p(9) 29) p 1° W W(d)(Mq9) > 9))=-W(A)(Mag) > 9).

In questa derivazione, per passare dalla (3) alla (4), occorre però assumere che sotto funzioni proposizionali indiscernibili cadano gli stessi oggetti. Occorre assumere, cioè: REV

VV:

Ma questo contraddice (T). Dunque, assumendo (1), da @ 1° W, cioè dall’indiscernibilità di @ da W, non possiamo concludere che sotto @ e W cadano gli stessi oggetti; quindi, da @ 1° W non possiamo concludere che, se (9)(W(q)2 q) non cade sotto g, allora non cade sotto W, derivando la (4). Anzi, la contraddizione che altrimenti sorcerebbe mostra che: 5

(40) ((A)(P(9) 239) 1 (AWAY

API

(PA) 3 DA W(A(W9) 2 9),

cosicché, come scrive Russell alla fine dell’ultimo passo riportato, il teorema (Y) della postfazione dei Grundgesetze implica:

(AP)AMWI(9 (9) > 9) 1 (A(Y(9) 3 GAP 04 V_ Landini [1992], p. 169. ©!5 V. Landini [1992], p. 171. 916V_ sopra,$ 11.1.

(P(9) 3) A VD(YV(9 3 DI.

I Principles of Mathematics

465

Il paradosso delle proposizioni è così bloccato. Il paradosso di Russell è bloccato dallo stesso meccanismo, posto che si assumano altre due tesi di Frege. La prima è che un’espressione come “x(x)” dev'essere priva di senso (sintatticamente malformata) se x è un individuo. La seconda è che una funzione deve sempre avere valori per qualsiasi argomento. Questo impedisce di formulare il paradosso di Russell nella forma:

perché l’espressione

“@(@)” diverrebbe un nonsenso qualora il suo argomento fosse un individuo. Queste due assunzioni, da sole, non risolverebbero nulla, perché il paradosso può essere ugualmente ottenuto ponendo:

W=a (A@)(î =PA-@î), che conduce subito a “W(W) = -W(W)”; nel quadro della proposta di Russell, tuttavia, la formula analoga alla precedente: W=ax(A@)(Z1l

p@A-PZ),

non conduce più alla formula contraddittoria “W(W) = -W(W)” perché si ammette che sotto due funzioni proposizionali indiscernibili possono non cadere gli stessi oggetti: dunque, dal fatto che W sia indiscernibile da @ non deriva che, se W non cade sotto @, allora W non cada sotto W stesso. In altri termini, il paradosso di Russell — così

come il paradosso delle proposizioni — è bloccato perché, al contrario dell’usuale “x = y”, “x 1° y” non consente la piena sostituibilità di x con y. Fin qui tutto bene, sembra. Ma la nozione di ‘“‘indiscernibilità” è inadeguata alla fondazione della matematica. Russell ricorre allora alla sua nozione di “uguaglianza” — che abbiamo simboleggiato con “=”. Tale nozione, però, reintroduce il paradosso di Russell anche se si assume che sotto funzioni proposizionali indiscernibili possano non cadere gli stessi oggetti. Ma com'è possibile che Russell non si sia subito accorto di questo? In riferimento alla definizione: (D)

u=v=gr(Indiv (w) > (Indiv (v) A u I v) A (-Indiv (v) > (-Indiv (v) A uv),

Landini (p. 181) nota che c’è un errore nel secondo congiunto del definiens. Infatti, il segno “||]? è definito così da Russell:

® || u=u(Px=

va).

Esso è dunque definito solo quando ricorre tra simboli funzionali: quindi “u ||| v” è privo di significato se w e v non sono funzioni. Così, nel caso in cui v e v siano due individui, la (D) conterrebbe un simbolo malformato. L'errore, osserva Landini, può essere emendato rimpiazzando, nel secondo congiunto di (D), “u || v” con:

AP)EM(ul

pari VIA PW.

La (D) diviene allora:

(D)

u=v=a : A pPAvVI' WA (Indiv (u) > (Indiv (v) A u I v)) A (-Indiv (4) > (-Indiv (mM A(AP(AM((UI

Più semplicemente, se —

una funzione” — si pone:

Indiv ©) =a(9)-( 1° ©),

esplicitando la definizione russelliana di “Indiv (x)” come

P]IWY)).

“x è un oggetto, cioè non è

capitolo 6

466

la (D’) equivale a:

u=v=n(P)-U1 PDPM

PALI MA(EPU1 PAVIA

PIV)

Questa definizione blocca il paradosso di Russell. Se infatti ora si pone:

W=au Ap)(î2 = PA-P È), si può derivare:

WW=fA9)(W= pA-p(M), ma di qui non si può ricavare “W(W) = -W(W)”, perché la circostanza che W sia indiscernibile da una funzione sotto cui cadono gli stessi oggetti che cadono sotto una funzione indiscernibile da @ (che è ciò che afferma l’espressione “W = @”) non prova che sotto W cadano gli stessi oggetti che cadono sotto @, salvo che non si ammetta che sotto due funzioni indiscernibili cadano sempre gli stessi oggetti — la qual cosa è però negata da (T). Questa correzione della (D) blocca dunque i paradossi, ma è inadeguata alla fondazione dell’aritmetica. Vediamo perché. Se torniamo indietro al brano di Russell sopra citato, vediamo che il numero cardinale di @ è definito così: Nc‘@=4y Y'(Q sim Y).

Questa è un’abbreviazione: il simbolo “w’(@ sim W)” è preso a significare “la classe delle funzioni che sono cardinalmente simili a @”. Poiché, secondo la tesi che Russell vuol sostenere qui, non esistono classi, ma solo fun-

zioni proposizionali, è necessario trasformare quest’espressione in un’altra che designi una funzione proposizio-

nale. Inoltre — come abbiamo visto prima — è essenziale al funzionamento della teoria che questa funzione proposizionale sia significativa per qualsiasi argomento. La definizione esplicita del numero cardinale di @ deve quindi essere qualcosa del genere:

Ne‘p=a (AM(È = y 1 gp sim Vv).

617

Questa definizione, però, raggiunge il suo scopo se “=” è definito come in (D), ma non se è definito come in (D)). Infatti, se si accetta (D), il fatto che una certa funzione y sia indiscernibile da una funzione sotto cui cadono gli stessi oggetti che cadono sotto una funzione indiscernibile da w non implica che sotto y cadano gli stessi 0ggetti che cadono sotto w.°* Così, per dirla con le parole di Landini, «due funzioni proposizionali potrebbero allora avere lo stesso numero cardinale pur non essendo simili!» D'altra parte, come abbiamo visto, la definizione (D) è errata, e non blocca i paradossi. Anche se fallito, questo tentativo è storicamente interessante perché rivela che Russell, inizialmente, cercò una via d’uscita dal suo paradosso lungo le linee tracciate da Frege nella postfazione dei Grundgesetze, come egli stesso aveva raccomandato di fare nella seguente nota aggiunta al termine dell’appendice A dei Principles: Nota. Il secondo volume dei Gg. [Grundgesetze], che è comparso troppo tardi per essere menzionato nell’ Appendice, contiene un interessante discussione della contraddizione (pp. 253-250), che suggerisce che la soluzione si debba trovare nel negare che due funzioni proposizionali che determinano classi uguali debbano essere equivalenti. Poiché sembra molto probabile che questa sia la vera soluzione, raccomando vivamente al lettore di esaminare l’argomento di Frege su tale punto.°°

©! V. Landini [1992], p. 180. °!8 A meno di non rifiutare (T), permettendo però così il ritorno del paradosso di Russell.

°'° Landini [1992], pp. 183-184. 920 Russell [1903a], $ 496, p. 522.

I Principles of Mathematics

467

Landini suggerisce’! che Russell ritenesse implausibile ammettere l’esistenza di classi e respingere l’assioma (V) dei Grundgesetze di Frege,°°° ammettendo che esistano concetti sotto cui non cadono gli stessi oggetti, e che tuttavia danno luogo alla stessa estensione. Oltre che implicito nella sua scelta di eliminare le classi, questo risulta esplicitamente da alcuni punti della sua corrispondenza con Frege.®* Tuttavia, osserva Landini: L’analoga situazione con le funzioni proposizionali [...] non fa violenza alle nostre concezioni naturali. Il principio:

(Ind) (9, (9105 M(px= @) può non valere. È di tutto plausibile [...] che per un breve periodo dopo i Principles Russell sia giunto a credere che ciò sia, in effeti, ciò che accade.”

Così, Russell cercò di eliminare le classi con il metodo che abbiamo esaminato. Ma, come abbiamo visto, il metodo non funziona: si trattava di un vicolo cieco.

621 Vv. Landini [1992], p. 170. 622

V. sopra, cap. 5, $ 1.

|

;

(ora in Frege [1976], pp. 233-234). rape sa esempio, la lettera di Russell a Frege del 12 dicembre 1902

624 | andini [1992], p.170.

CAPITOLO 7 LA TEORIA DELLE DESCRIZIONI

Dopo il tentativo della postfazione dei Grundgesetze der Arithmetik, Frege aveva rinunciato a cercare una soluzione del paradosso di Russell che salvasse il logicismo. Russell, invece, vi dedicò tutte le sue energie. In My Philosophical Development, egli rievoca: Quando The Principles of Mathematics fu finito, mi applicai a un risoluto tentativo di trovare una soluzione ai paradossi. La sentivo quasi come una sfida personale e, se necessario, avrei trascorso tutto il resto della mia vita nel tentativo di farvi fronte. Ma per due ragioni trovavo ciò estremamente spiacevole. In primo luogo, l’intero problema mi pareva banale e odiavo dover concentrare l’attenzione su qualcosa che non sembrava avere interesse intrinseco. In secondo luogo, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a fare nessun progresso. Per tutto il 1903 e il 1904, il mio lavoro fu quasi interamente dedicato a quest'argomento, ma senza alcuna traccia di successo.

Anche nella sua autobiografia, Russell descrive il 1903 e il 1904 come anni di totale impasse: Ogni mattina [durante le estati del 1903 e del 1904] sedevo davanti a un foglio bianco. Per tutto il giorno, con un breve intervallo per il pranzo, restavo a fissare il foglio bianco. Spesso quando veniva sera era ancora vuoto. Passavamo gli inverni a Londra, e durante gli inverni non cercavo di lavorare, ma le due estati del 1903 e del 1904 restano nella mia mente come un periodo di blocco

intellettuale completo. Mi era chiaro che non potevo andare avanti senza risolvere le contraddizioni, e avevo deciso che nessuna difficoltà mi avrebbe distolto dal completamento dei Principia Mathematica, ma sembrava molto probabile che tutto il resto della mia vita si sarebbe consumato nel guardare quel foglio bianco.”

In realtà, basta dare un’occhiata al quarto volume dei Collected Papers di Russell,’ che comprende i suoi scritti sui fondamenti della logica del periodo 1903-1905, per constatare che, tra il 1903 e il 1904, di fogli Russell ne riempì parecchi, sull’argomento. Ma è vero che essi non riflettono nessun progresso autentico, rispetto ai Principles, per la soluzione dei paradossi. Fu solo nella tarda primavera del 1905 che Russell scoprì una nuova teoria che gli avrebbe presto suggerito nuove strategie per la fondazione di una teoria logica consistente: si tratta di quella che oggi è nota come la teoria delle descrizioni di Russell.' Di essa ci occuperemo nel presente capitolo.

1. LA FINE DEI CONCETTI DENOTANTI E UNA NUOVA TEORIA

Nei Principles, e negli scritti fino alla metà del 1905, Russell usa la parola denotare (to denote) e derivati in un particolare significato tecnico secondo cui non sono le espressioni linguistiche a denotare, ma determinati concetti, che Russell chiama talvolta “concetti denotanti” (denoting concepts), talvolta (dopo i Principles) “complessi

denotanti” (denoting complexes),° “significati complessi” (complex meanings), o semplicemente “significati” (meanings).* Questi concetti, che sarebbero l'indicazione (nel senso dei Principles) di espressioni come: “tutti gli a”, “ogni a”, “qualsiasi a”, “un a”, “qualche a”, “Ta” dove a è un concetto-classe (un attributo monadico, potremmo dire), secondo Russell denotano nel senso che, quando essi compaiono in una proposizione (come entità non linguistica espressa da un enunciato), la proposizione, di regola, non verte sul concetto, ma su qualcosa di diverso da esso, che il concetto denota. Per esempio, la proposizione espressa da “Frege incontrò un uomo” non afferma che Frege abbia incontrato il concetto un uomo, ma che egli incontrò un particolare essere umano: tuttavia. ' Russell [1959], cap. 7, p. 79. ? Russell [1967-69], 1872-1914, cap. 6, p. 154.

3 V. Russell [1994a].

4 Nella sua autobiografia, Russell scrive che la teoria delle descrizioni «rappresentò il primo passo verso il superamento delle difficoltà che mi avevano ostacolato così a lungo» (Russell [1967-69], 1872-1914, cap. 6, p. 155). V. Russell [1903a], e Russell [1905f], pp. 368-369. Sui “concetti denotanti” v. anche sopra, cap. 6, $ 4.

° V. Russell [1903g], p. 355; [1904c], $ I, p. 87; [190Sf]. " V. Russell [1903f], punto (7), p. 309; [1903g], p. 318 e p. 322.

* V. Russell [1903g], passim.

La teoria delle descrizioni

469

supponendo che Frege avesse incontrato Wittgenstein, la proposizione espressa da “Frege incontrò un uomo” non dice la stessa cosa di quella espressa da “Frege incontrò Wittgenstein”, perché la prima non verte su Wittgenstei n, ma — secondo Russell — su un oggetto che non è un termine, cioè una singola entità, ma un complesso formato da tutti gli uomini che esistono (combinati, in questo caso, in un modo che Russell chiama disgiunzio ne variabile). Tutti i concetti denotanti, secondo questa teoria, denotano oggetti che — con l'eccezione di ciò che è denotato da concetti denotanti del tipo l’a — sono complessi di termini (nel senso tecnico dei Principles) cioè complessi costituiti da tutti i termini dei quali è vero il concetto-classe a che corrisponde ai complessi denotanti designati da “tutti gli a”, “ogni @”, “qualsiasi a”, “un a”, “qualche a”. I concetti denotanti del tipo /’a — secondo ciò che Rus-

sell sostiene nei Principles — si possono usare appropriatamente solo nel caso in cui a è un concetto-classe che si applica a uno e un solo individuo: in questo caso, essi denotano l’unico oggetto di cui è vero il concetto-classe a. Ciò che differenzia un concetto denotante dall’altro — nel caso in cui questi denotino dei complessi di termini — è, per Russell, il modo in cui devono intendersi combinati gli oggetti che formano il complesso denotato (per esempio, un a denota il complesso degli a combinati in quella che Russell chiama una disgiunzione variabile, ossia denota: a, 0 4,0 ... 0 dn).

La teoria dei concetti denotanti aveva l’effetto di salvaguardare un principio epistemologico già implicito nella teoria dei Principles, anche se Russell lo formulerà esplicitamente solo nel manoscritto (non pubblicato all’epoca) “Points about denoting”,’ probabilmente della seconda metà del 1903 o deil’inizio del 1904: il principio secondo cui ogni proposizione che possiamo comprendere dev'essere composta esclusivamente di costituenti nei confronti dei quali abbiamo un rapporto di consapevolezza immediata: che conosciamo — dice Russell — per familiarità (by acquaintance).!° In “Knowledge by acquaintance and knowledge by description” (1911), Russell spiega: Dico che sono in familiarità [acquainted] con un oggetto quando ho una relazione cognitiva diretta con quell’oggetto, ossia quando sono direttamente consapevole dell’oggetto stesso. Parlando qui di relazione cognitiva, non intendo la sorta di relazione che costituisce il giudizio, ma quella che costituisce la presentazione [presentation]. In effetti, penso che la relazione di soggetto e oggetto che chiamo familiarità [acquaintance] sia semplicemente la conversa della relazione di oggetto e soggetto che costituisce la presentazione. Cioè, dire che S ha familiarità con O è essenzialmente la stessa cosa che dire che O si presenta a S [O is presented to S].!!

L'affermazione che vi sia quella relazione cognitiva diretta, cioè non implicante nessuna inferenza o giudizio, che Russell chiama “acquaintance”'° è un elemento portante del rifiuto dell’idealismo da parte di George Edward Moore e di Russell (v. sopra, introduzione). Nell’articolo “The refutation of idealism” (1903), Moore chiama questo genere di conoscenza consapevolezza (awareness) — un termine usato talvolta anche da Russell nello stes-

so significato.'* Scrive Moore: La consapevolezza che ho sostenuto essere inclusa nella sensazione [...] costituisce ogni genere di conoscenza [...]. Non c’è quindi

nessun problema di come dobbiamo “uscire dal circolo delle nostre idee e sensazioni”. Semplicemente avere una sensazione è già . z x Ò » . 15 essere fuori da questo circolo. E conoscere qualcosa che [...] non è parte della mia esperienza [...].

? V. Russell [1903f], punto (5), p. 307.

4a

|

I

!0 Ho reso il russelliano “acquaintance” (faute de mieux) con “familiarità”, accogliendo la traduzione adottata da Sara Marconi per la sua versione italiana di Theory of Knowledge (v. Russell [1913a]). Il termine “familiarità” deve essere inteso — in quest’accezione — come un

termine tecnico spogliato, in particolare, della sua frequente connotazione di abitualità. Ho tradotto “to be acquainted” (usualmente: “conoscere”) con “essere in familiarità”, “to have acquaintance” (ancora, usualmente: “conoscere”) con “avere familiarità” e “to become acquainted” (usualmente, “fare conoscenza”) con “familiarizzare”. La nozione russelliana di “familiarità” sarà ripresa anche più avanti (in questo stesso capitolo, $$ 5.1 e 5.2; nel cap. LOSE

spellcaprili5*sSSM2Xe 4951):

Di Russell [1911e], pp. 209-210. la da i è esso ma 41-42), (pp. [1905c], Russell è “acquaintance’” termine del tecnico uso suo il spiega Russell cui in pubblicato saggio primo I] !? già usato nello stesso senso in alcuni saggi russelliani pubblicati prima del 1905: v., per es., Russell [1903a], prefazione, p. xx (ediz. orig., p. v), e Russell [1904a] (scritto nell’aprile del 1903), $ III, p. 62, punto (5). Come ha rilevato per primo Nikolay Milkov ([2001 I, pp. 230231), Russell acquisì il termine tecnico “acquaintance” da William James, che lo usa, in un senso tecnico molto simile a quello di Russell, DADI nei des voll. di James [1890] (il termine è introdotto nel vol. I, cap. 8, pp. 221-223), e in James | 1892] (il termine è introdotto nel cap.

14). James ereditò a sua volta “acquaintance”, come termine tecnico, dal filosofo inglese John Grote, che ne introduce l’uso in Grote [1865] vol. I, cap. 4, pp. 60-62: un riferimento alla p. 60 di Grote [1865] è presente in James [1890], vol. I, cap. 8, p. 221, nota. na x i in Kremer [1994], Ppp. 250-251. ] Li Questo punto èÈ sottolineato in AT

1528

$ IV, p. per es., Russell [1911e], p. 212, Russell [1912a], cap. 1, p. 17, e Russell [1913a], parte I, cap. 1, pp. 7-8; Russell [1914d],

!5 G. E. Moore [1903], p. 451.

capitolo 7

470

Il principio secondo cui dobbiamo essere in familiarità con tutti i costituenti di ogni proposizione che possiamo comprendere dipendeva originariamente da tre assunzioni, tipiche della semantica di Moore e del Russell dei Principles: (1) che le proposizioni siano l'indicazione (cioè, il riferimento) degli enunciati, costituite dalle indicazioni delle parole in essi contenute; (2) che il significato degli enunciati si identifichi con la loro indicazione; (3) che questo significato sia l’oggetto degli atteggiamenti epistemici — quali comprensione, desiderio, timore, ecc. Ciò implica che i costituenti delle proposizioni che possiamo comprendere debbano essere epistemicamente attingibili: come potremmo, infatti, comprendere, credere, desiderare, temere ecc. delle proposizioni di cui ignoriamo i costituenti? “On denoting” (1905) è il primo scritto pubblicato in cui Russell formula il principio dell’acquaintance; egli lo enuncia così: «[...] in ogni proposizione che possiamo afferrare [apprehend] (cioè non solo in quelle la cui verità o falsità possiamo giudicare, ma in tutte quelle cui possiamo pensare) tutti i costituenti sono in effetti entità con cui abbiamo familiarità immediata [we have immediate acquaintance]».!° La teoria delle proposizioni di Russell si modifica, tra il 1906 e il 1909, ma non in modo da inficiare il principio dell’acquaintance, che nel 1911-12 Russell riformulerà ancora — perlomeno in modo informale — negli stessi termini: «Ogni proposizione che possiamo comprendere dev’essere interamente composta di costituenti con cui siamo in familiarità [we are acquainted|».!” Da questa dottrina segue che dobbiamo avere familiarità con la denotazione di (almeno) alcuni predicati (cioè, con alcuni universali)! e che le entità che compaiono come termini, cioè come soggetti logici (v. sopra, cap. 6, $ 2.2), di una proposizione che possiamo comprendere, devono essere oggetti con cui siamo in una relazione di familiarità. Inoltre, ne segue che dobbiamo essere in una relazione di familiarità con i concetti denotanti che compaiono in ogni proposizione che possiamo comprendere. Nel manoscritto del giugno del 1905 intitolato “On fundamentals”, Russell scrive: [...] [A] meno che non ci accada di essere in familiarità [acquainted] con la denotazione [di un concetto denotante], e di sapere che essa è la denotazione, non possiamo conoscere nessuna proposizione su di essa, sebbene possiamo conoscere numerose funzioni proposizionali che essa soddisfa, e sapere che essa le soddisfa. Questo tema è molto interessante in rapporto alla teoria della conoscenza, perché la maggior parte delle cose ci sono note solo attraverso concetti denotanti. LI

Poco più avanti, Russell aggiunge:

16 Russell [1905c], p. 56. In “On denoting”, il principio è presentato come “un risultato” [resu/] della nuova teoria della denotazione ivi proposta (v. [1905c], p. 56) ma, come abbiamo visto, esso è già esplicitamente formulato in Russell [1903f], nell’ambito della teoria dei

concetti denotanti. Probabilmente, in “On denoting” Russell intendeva solo dire che la sua nuova teoria delle descrizioni preserva il principio dell’ acquaintance. !? Russell [1911e], p. 219, e Russell [1912a], cap. 5, p. 91; corsivo di Russell. Dal 1909 al 1913 Russell sostiene una “teoria del giudizio come relazione multipla” (v. sotto, cap. 10), secondo cui non esistono proposizioni (in senso ontologico non linguistico), cosicché giudizio, comprensione, desiderio, timore, ecc. non consistono più in una relazione diadica tra una mente e un'entità detta “proposizione”, ma, secondo Russell, in una relazione multipla — cioè una relazione n-adica — tra una mente e gli oggetti che, in precedenza, Russell avrebbe considerato i costituenti della proposizione oggetto di giudizio, comprensione, desiderio, ecc. Il principio dell’acquaintance resta tuttavia saldamente al suo posto; richiede solo, precisa Russell, una riformulazione:

«Così il principio che ho enunciato [nella pagina precedente, cioè «Ogni proposizione che possiamo comprendere dev'essere interamente composta di costituenti con cui siamo in familiarità»| si può riformulare come segue: Ogni volta che è presente una relazione di supporre 0 giudicare, i termini con cui la mente giudicante è relata dalla relazione di supporre o giudicare devono essere termini con cui la mente in

VESTE è in familiarità [is acquainted|» (Russell [1911], pp. 220-221; corsivi di Russell). Scrive Russell: «[...] abbiamo anche familiarità con ciò che potremo chiamare universali, vale a dire, idee generali, come bianchezza, diversità, fratellanza, e così via» (Russell [1912a], cap. 5, p. 81). Russell precisa però che con molti universali non siamo in Sasilianee «Molti universali, come molti particolari, ci sono solo noti per descrizione» (v. Russell [191 1e], p. 219, e Russell [1912a], p. 90). In Tha

of Knowledge, Russell ribadisce: «Ciò che è essenziale è che qualche volta abbiamo familiarità con una relazione o con qualche corrispondente entità ugualmente astratta» (Russell [1913a], parte I, cap. 7, p. 85). Secondo Russell, siamo sicuramente in familiarità con eli uni

sali che sono esemplificati nei dati di senso:

«E ovvio, per cominciare, che siamo in familiarità con universali come bianco, rosso, nero, dolce, aspro, pesante, duro, ecc.,

i

ossia con le

qualità che sono esemplificate nei dati di senso [sense-data]. Quando vediamo una macchia bianca, noi abbiamo familiarità si ea

luo-

go, con la macchia particolare; ma vedendo molte macchie bianche, impariamo facilmente ad astrarre la bianchezza che tutte hanno in c0è

mune, e imparando a far questo impariamo ad avere familiarità con la bianchezza. Un processo simile ci renderà familiari con qualsiasi altro universale della stessa sorta. Universali di questa sorta si possono chiamare “qualità sensibili”. Essi si possono afferrare [can he apprehended] con meno sforzo d’astrazione di qualsiasi altro, e sembrano meno distanti dai particolari di quanto siano gli altri universali» (Rus-

sell [1912a], cap. 10, pp. 158-159).

'° Russell [1905f1, pp. 368-369.

La teoria delle descrizioni

471

Ma possiamo conoscere un oggetto come denotato [da un concetto denotante] solo se siamo in familiarità [acquainted] con il concetto denotante; quindi la familiarità immediata [immediate acquaintance] con i costituenti del concetto denotante è presupposta in ciò che possiamo chiamare conoscenza denotativa [denotative knowledge].?®

Ciò che qui Russell chiama “conoscenza denotativa”, è quella che in “On denoting” (1905) e negli scritti pubbli-

cati dal 1911 chiamerà — con una terminologia che aveva impiegato per la prima volta nel manoscritto del 1903 “Points about denoting””! — conoscenza per descrizione (knowledge by description), contrapponendola alla conoscenza per familiarità (knowledge by acquaintance).?* Nell'articolo “Knowledge by acquaintance and knowledge by description” (1911), Russell spiega: Dirò che un oggetto èx “conosciuto per descrizione” quando sappiamo che è(SI “i/ così e così”, ossia quando sappiamo che c’è un 0ggetto, e non di più, che ha una certa proprietà; [...]. [...] Diremo che abbiamo “conoscenza meramente descrittiva” del così e così quando, benché sappiamo che il così e così esiste e benché possiamo eventualmente essere in familiarità con l’oggetto che è, di fatto, il così e così, tuttavia non conosciamo nessuna proposizione “a è il così e così”, dove a è qualcosa con cui siamo in familiarità.”

La teoria dei concetti denotanti spiegava, proposizioni vertenti su entità delle quali non posizione vertente su tutti gli uomini pur non prendiamo la proposizione, secondo Russell,

secondo il Russell dei Principles, come sia possibile comprendere abbiamo conoscenza immediata.”* Per es., comprendiamo una proessendo in rapporto di familiarità con ciascun uomo esistente: comperché essa non contiene tutti gli uomini, ma il concetto denotante

20 Russell [1905f], p. 369. 2! V. Russell [1903f], punto (1), p. 306. (Questo rilievo si deve a Milkov [2001], p. 229.) 22 In “On denoting”, Russell usa “known by description” (conosciuto per descrizione) nel passo seguente: «Per esempio, sappiamo che il centro di massa del sistema solare a un istante definito è qualche punto definito, e possiamo affermare un certo numero di proposizioni su di esso [about it]; ma non abbiamo familiarità immediata [immediate acquaintance] con questo punto, che è da noi conosciuto solo per descrizione» (Russell [1905c], p. 41). Subito dopo, in “On denoting”, Russell sembra identificare la conoscenza per descrizione con un genere di conoscenza che egli chiama conoscenza a proposito di (knowledge about). Egli scrive: «La distinzione tra familiarità [acquaintance] e conoscenza a proposito di [knowledge about] è la distinzione tra le cose di cui abbiamo una presentazione [presentation], e le cose che rag-

giungiamo solo per mezzo di espressioni denotanti». Il passo è tuttavia fuorviante. Per comprenderne la ragione, osserviamo innanzi tutto che Russell distingue due sensi della parola “conoscere”: applicata a verità e applicata a cose. Nel primo uso, come Russell spiega in [1912a], la parola «è applicabile alla sorta di conoscenza che si oppone all’errore, al senso in cui ciò che conosciamo è vero, al senso che si applica alle nostre credenze e convinzioni, ossia a ciò che si chiama giudizi. In questo senso della parola sappiamo che qualcosa è il caso che si dà [something is the case]» (Russell [1912a], cap. 4, p. 69). Russell descrive questa sorta di conoscenza come conoscenza di verità

(Knowledge of truths) (v. ibid.) o conoscenza di proposizioni (knowledge of propositions) (v. Russell [1914a], lecture V, p. 151; 1° ediz. pp. 144-145). La knowledge about è caratterizzata da Russell come una conoscenza di proposizioni: nel caso più semplice, la conoscenza della

proposizione che una certa cosa è tale e tale (v. Russell [1914a], lecture V, p. 151; 1° ediz., pp. 144-145). La contrapposizione tra kKnowledge by acquaintance e knowledge by description riguarda invece — spiega Russell ancora in [1912a] — due diversi generi di conoscenza di cose: la «conoscenza per familiarità [Knowledge by acquaintance| è essenzialmente più semplice di qualsiasi conoscenza di verità, e logicamente indipendente dalla conoscenza di verità, anche se sarebbe avventato assumere che gli esseri umani abbiano mai, di fatto, familiarità [acquaintance] con le cose senza al tempo stesso conoscere alcune verità a proposito di esse. La conoscenza per descrizione, al contra rio, implica [involves] sempre [...] qualche conoscenza di verità come sua origine e fondamento» (Russell [1912a], cap. 5, pp. 72-73). Ciò

spiega il passo riportato sopra di “On denoting”: in esso, ritengo che Russell non intenda identificare knowledge about e knowledge by description, ma semplicemente rilevare che: (1) ogni Knowledge by description è anche una knowledge about: ciò perché conoscere una cosa per descrizione implica la conoscenza della verità che esiste una cosa così e così; (2) nessuna knowledge by acquaintance è, per il solo fatto di essere tale, anche una Knowledge about. Naturalmente, se oltre a (1) fosse vero che ogni Knowledge about è anche una Knowledge by description, le due forme di conoscenza sarebbero equivalenti. Ma non è così: infatti, sebbene una knowledge about implichi talora anche una

knowledge by description, non è sempre così. Se per es. a è un oggetto di acquaintance, la conoscenza di una proposizione espressa da un enunciato della forma “a è identico al così e così” (knowledge about) implica ovviamente (anche) una knowledge by description di a; ma la

l conoscenza, per es., della proposizione espressa da “a è rosso” (Knowledge about) non implica alcuna knowledge by description di a Come ha rilevato Nikolay Milkov ([2001], p. 230), l'opposizione presente in “On denoting” tra acquaintance e knowledge about è ereditata da William James. Milkov osserva che, nel suo Psychology (1892), James introduce la distinzione tra knowledge of acquaintance € knowledge about (v. James [1892], cap. 2, p. 14) — come in Russell, la prima essendo intesa come conoscenza di cose e la seconda come conoscenza proposizionale; la medesima distinzione — aggiungiamo — è introdotta nei Principles of Psychology ( 890) dello stesso James (v. James [1890], vol. I, cap. 8, pp. 221-223). Secondo Milkov [2001], p. 231, James ereditò a sua volta la distinzione dal filosofo inglese John Grote (v. Grote [1865], vol. I, cap. 4, pp. 60-62), il quale distingue tra conoscere «una cosa, Un UOMO, ecc.», € conoscere «tali e tali cose a proposito della cosa [about the thing]»; la prima essendo una conoscenza «as acquaintance or familiarity with what IS known», mentre la seconda «è ciò che esprimiamo nei giudizi e nelle proposizioni», ed «è la nozione di conoscenza più intellettuale» (ibid., p. 60, corsivo di Grote). Che James abbia ereditato la distinzione da Grote mi sembra pressoché sicuro: infatti, proprio laddove James introduce la didi Grote stinzione tra knowledge of acquaintance e knowledge about nei suoi Principles of Psychology compare un riferimento alla p. 60 nota). 221, p. [1865] (v. James [1890], vol. I, cap. 8,

23 Russell [1911e], pp. 214-215, e Russell [1912a], pp. 82-83. 24 V. Russell [1903a], $ 72, p. 73, $ 106, p. 106, $ 141, p. 145, $ 330, pp. 349-350. In proposito, v. anche sopra, cap. 6, $ 4.

capitolo 7

472

tutti gli uomini, con il quale invece abbiamo una relazione di familiarità. Questa teoria lasciava però irrisolti alcusi ni importanti problemi, che abbiamo già incontrato nel precedente capitolo: per esempio, il problema di come nulla,” denota non debba valutare il valore di verità di una proposizione in cui compare un concetto denotante che o quello dello statuto ontologico degli oggetti che costituiscono la denotazione dei concetti denotanti tutti gli a, ogni a, qualsiasi a, un a è qualche a. Che Russell non fosse soddisfatto della sua teoria dei concetti denotanti è testimoniato dai manoscritti immediatamente successivi ai Principles, in cui egli ritorna sovente a interrogarsi su di essa. All’inizio di giugno del 1905, Russell scoprì quello che riteneva essere un argomento contro la supposizione che vi siano concetti denotanti. Esso è esposto in un brano notoriamente oscuro dell’articolo “On denoting”;”” il passo e l’argomento in esso sviluppato sono noti, in letteratura, come passo e argomento dell’“Elegy di Gray” — una designazione derivata da alcuni esempi che vi compaiono.” Che l’argomento dell’“Elegy di Gray” sia diretto innanzi tutto contro la teoria russelliana dei concetti denotanti — e non, come pensarono la maggior parte dei primi interpreti,” contro la semantica fregeana — è chiarito fuor di dubbio dai saggi non pubblicati di Russell scritti tra iPrinciples e “On denoting”. In “On denoting”, l’argomento è rivolto contro l’esistenza” di “significati” (meanings), o “complessi denotanti” (denoting complexes): due modi in cui, come abbiamo osservato, Russell chiama i concetti denotanti già in alcuni manoscritti successivi ai Principles?! Inoltre, in “On fundamentals”, un 25 V. sopra, cap. 6, $ 5. 20:V1: sopra, cap. 6, $ 6.

27 V. Russell [1905c], pp. 48-51. 28 Sull’“Elegy di Gray” c’è oggi una letteratura nutrita. Menzioniamo: Church [1943], p. 302; Butler [1954], pp. 361-363; Searle [1958]; Jager [1960a]; Cassin [1970]; Hochberg [1976]; Blackburn e Code [1978a]; HyIton [1990a], cap. 6, pp. 249-254; Turnau [1991]; Pakaluk [1993]; Wahl [1993]; Kremer [1994]; Makin [1995]; Noonan [1996]; Landini [1998b]; Landini [1998a] $$ 3.1-3.3; Demopoulos [1999], $ 4; Makin [2000], cap. 2 e appendici B e C; Levine [2004]; Levine [2005], $ 3; Salmon [2005]; Simons [2005]; Urquhart [2005]; Brogaard

[2006]. Gli studiosi non hanno raggiunto un accordo né sul bersaglio dell’“Elegy di Gray” (per es., la critica è o non è rivolta principalmente contro la semantica di Frege? è o non è intesa da Russell come applicabile anche alla semantica di Frege?), né sulla sua decifrazione, né sulla sua efficacia. Per ragioni di spazio non mi è possibile discutere in dettaglio le varie posizioni, cosicché, in quanto segue, le mie osservazioni sulle tesi degli autori sopra citati rimarranno piuttosto casuali. Le interpretazioni più vicine a quella che proporrò sono quelle di Gideon Makin e di James Levine; ma voglio sottolineare che tutti i lavori menzionati sono importanti, e contribuiscono a chiarire almeno qualche aspetto del passo dell’ “Elegy di Gray”. 2° V,, per es., Church [1943], p. 302, Butler [1954], p. 361, Searle [1958] e Blackburn e Code [1978a]. Il primo a suggerire che l’“Elegy di Gray” non sia un attacco contro la semantica di Frege, ma contro quella dei Principles, fu Peter T. Geach ([1959], p. 69 e p. 72); il suggerimento di Geach è stato sviluppato per la prima volta in Cassin [1970]. Jager [1960a] sostiene che l'argomento dell’“Elegy di Gray” è rivolto contro una combinazione delle idee di Frege con quelle del Russell dell’epoca dei Principles. 30 Come abbiamo visto nel capitolo precedente (v. sopra, cap. 6, $ 2.2), nei Principles, Russell distingue tra esistenza ed essere (0 sussistenza). Egli continua a sostenere questa distinzione anche dopo i Principia (v., per es., Russell [1911b], p. 410 e p. 412, e Russell [1911c], p. 293). Quindi, propriamente, dovremmo dire che l’argomento dell’“Elegy di Gray” è volto contro l’assunzione che vi siano significati. Seguiremo tuttavia l’uso dello stesso Russell post-1905, il quale, quando non è in questione la differenza tra essere ed esistere, usa “esistere” e “esistenza” nel senso ontologicamente più inclusivo, come sinonimi di “esserci” e “essere”. In particolare, il Russell maturo rende il

significato del quantificatore esistenziale indifferentemente con “c’è” o “esiste”. 3! Il termine “complessi denotanti” concetti denotanti complessi, ossia concetto denotante tutti gli a, dove tità” (v. Russell [1903a], $ 72, pp.

rende opportuno qualche commento. Nei Principles, Russell non considera esplicitamente l’esistenza di costituiti di parti. Sebbene, per esempio, l’espressione “tutti gli a” sia complessa, Russell afferma che il a è un concetto-classe semplice, sia semplice — non ci sia cioè, in esso, un componente separato di “tut72-73). Michael Kremer ha argomentato che ciò sembra implicare che il concetto denotante rutti gli a

non possa essere complesso neppure se a è un concetto-classe complesso; scrive Kremer: «Che dire dei concetti denotanti che coinvolgono concetti-classe complessi, come tutti i numeri primi? Russell dice solo che questo concetto non è più complesso di numero primo. Ma potrebbe essere complesso? Sembra che possa essere complesso solo contenendo primo e numero come costituenti; ma allora questi concetti dovrebbero essere legati insieme in esso in modo differente che nel complesso numero primo. Ciò sarebbe difficile da comprendere a meno che primo e numero non fossero uniti in esso essendo relati a qualche terzo costituente Ma questo terzo costituente non sarebbe l’elemento di tuztità che Russell non riusciva a isolare in tutti i numeri?» (Kremer [1994], La tesi di Kremer è che, dopo i Principles, Russell fosse giunto alla conclusione che tuffi i concetti denotanti siano complessi, accadesse per ragioni legate al principio dell’acquaintance: considerare semplice ogni concetto denotante indubbiamente richiede liarità [acquaintance] con troppe entità (v. Kremer [1994], pp. 271-272). La discussione di Kremer (che scriveva prima che fosse

p. 270) e che ciò

una famipubblica-

to il quarto volume dei Collected Papers di Russell, in cui sono contenuti i suoi manoscritti non pubblicati dell’epoca 1903-1905) prende l’avvio (v. Kremer [1994], p. 270) dalla citazione di un passo di Hylton [1990a] in cui si afferma che in “On fundamentale” — di mano-

scritto non pubblicato di Russell la cui stesura, nel giugno del 1905, precedette di pochissimo quella di “On denoting” —

Russell usa «la parola “complesso” dove noi abbiamo usato “concetto denotante”» (Hylton [1990a], cap. 6, p. 253). A quanto pare, Kremer intetpreta Hylton come se questi asserisse che la locuzione “complesso denotante”, prima di “On denoting”, abbia sostituito la locuzione “concetto LE tante” (un’interpretazione che può essere stata rinforzata dal fatto che in “On denoting” compare solo “complesso denotante”, e non con

cetto denotante”). Gideon

Makin, si è opposto alla tesi di Kremer,

rilevando che ancora

nel manoscritto

“On fuitlamentals* (Russell

[1905f]) sono usate entrambe le locuzioni “complesso denotante” e “concetto denotante” (v. Makin [2000], Appendice C, p. 217, nota 12)

La teoria delle descrizioni

473

manoscritto di Russell di pochissimo precedente “On denoting” in cui Frege non è mai menzionato, la teoria dei concetti denotanti, sostenuta all’inizio, è poi respinta sulla base di un argomento che anticipa la parte più oscura dell’“Elegy di Gray” di “On denoting”. Sebbene in “On denoting” Russell non lo dichiari esplicitam ente, si può però desumere dal contesto che Russell intendesse l'argomento anche come un’obiezione alla distinzion e fregeana tra senso (Sinn) e denotazione (Bedeutung). Infatti, in quest'articolo Russell afferma che la teoria difesa nel cap. 5 dei Principles è «quasi la stessa di quella di Frege»,?° e quattro pagine dopo identifica i suoi “significati” (complessi denotanti) con i sensi di Frege: Frege distingue i due elementi del significato [meaning] e della denotazione dappertutto, e non solo nelle espressioni denotanti complesse. Così sono i significati dei costituenti di un complesso denotante che entrano nel suo significato, non la loro denotazione. Nella proposizione “Il Monte Bianco è alto più di 1.000 metri”, è, secondo lui, il significato di “Monte Bianco” non la montagna reale, che è un costituente del significato della proposizione.?*

Da questo brano si desume che l’unica differenza importante che Russell riconosce tra la sua dottrina dei concetti denotanti e quella fregeana del senso e della denotazione sia la maggiore estensione di quest’ultima — che non è intesa applicarsi solo a determinati sintagmi, ma a tutte le espressioni fornite di riferimento. Se è così, sembra chiaro che Russell ritenesse a fortiori la semantica di Frege vulnerabile all’argomento dell’ “Elegy di Gray”. In effetti, con l’“Elegy di Gray” Russell intende confutare, come scrive Michael Pakaluk, «un genere di teoria, non una teoria particolare»:” cioè il genere di teoria secondo cui esistono significati, distinti dai riferimenti delle parole. L’obiettivo diretto di Russell è la sua stessa teoria dei concetti denotanti perché essa incarna, ai suoi occhi, la posizione minimale (perché non estesa a tutte le espressioni linguistiche) e più plausibile da sostenere, se si vuole distinguere il significato dalla denotazione. Esaminiamo ora il passo dell’“Elegy di Gray” di “On denoting”. Esso comincia proponendo la convenzione di servirsi delle virgolette per designare il significato di un'espressione denotante:° Questo è corretto: troviamo “concetto denotante”, per esempio, alle pp. 368-369 di Russell [1905f].

A Makin, tuttavia, sembra essere sfug-

gito che nello stesso manoscritto Russell afferma: «Un’entità che non è un complesso non ha i due lati [...] [del significato e della denota-

zione]» (Russell [1905f], p. 366). Più avanti, ancora in “On fundamentals”, Russell scrive: «Un’entità che può comparire come significato sarà chiamata concetto. Non tutte le entità sono concetti. Quelle che non sono concetti saranno chiamate cose [things]. Tutti i complessi so-

no concetti, benché [though] essi possano denotare cose» (ibid., punto 30, p. 378; corsivo di Russell). Qui il “benché” suggerisce che un concetto che non sia un complesso non possa essere denotante. Sembra dunque che, all’epoca, Russell considerasse sinonime le locuzioni

“complesso denotante” e “concetto denotante” — in accordo con l’opinione di Kremer, ma non con quella di Makin secondo cui «[i] complessi denotanti sono una sottospecie di concetti denotanti» (ibid.). Possiamo lasciare la questione così, in questo contesto, perché — contrariamente a quanto sostenuto in Kremer [1994], p. 272 — essa non è rilevante per la comprensione del brano dell’“Elegy di Gray”. 32 Russell [1905c], p. 42, prima nota. 33 Russell [1905c], p. 46, prima nota. 34 Questa tesi è confermata anche da altri indizi. Nel 1910, E. E. Constance Jones pubblicò su Mind un articolo dal titolo “Mr. Russell’s obJections to Frege’s analysis of propositions”, in cui trattava l’ argomento dell’“Elegy di Gray” come un’obiezione rivolta anche contro la distinzione fregeana tra Sinn e Bedeutung (v. Jones [1910], pp. 382-386). Ebbene, in “Knowledge by acquaintance and knowledge by description”, Russell dedica alcune pagine a contrastare le opinioni della Jones, ma non contesta l’interpretazione dell’“Elegy di Gray” come Vai ad argomento rivolto anche contro la semantica di Frege. Un altro indizio si trova nella risposta di Russell a una lettera di Ronald Jager che, nell’aprile del 1960, gli chiese chiarimenti su che cosa egli avesse inteso, in “On denoting” con complesso denotante e sull’interpretazione di alcuni passi dell’ “Elegy di Gray” (v. Jager [1960b]). Nella sua lettera, Russell mostra di non ricordare che cosa intendesse allora, e si affida a una rilettura del suo stesso articolo per fornirne un’interpretazione — che resta tuttavia molto vaga, e non aiuta a far luce sull’argomento dell’“Elegy di Gray”. Sulla base di questa rilettura, Russell scrive, tra l’altro: «Io penso che tutto il parlare di complessi [in “On denoting”] sia solo inteso a mostrare che la distinzione tra significato e denotazione come concepita da Frege, e in precedenza da me stesso, non funziona» (Russell [1960], p. 118).

|

35 Pakaluk [1993], p. 41.

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i

36 La convenzione in sé è legittima, ma diviene fuorviante perché lo stesso dispositivo delle virgolette è utilizzato da Russell, anche nello stesso passo dell’“Elegy di Gray”, per menzionare espressioni linguistiche. A proposito dell'uso delle virgolette in “On denoting , è opportuno un caveat. Nel testo dell’articolo Russell usa sia virgolette doppie sia virgolette semplici, e diversi autori, in un arco di circa trentacinque anni, hanno supposto che quest’alternanza, nel passo dell’“Elegy di Gray”, marchi l'opposizione tra il riferimento a espressioni € il ri ferimento a concetti denotanti da esse indicati. Per prima, Chrystine Cassin ha suggerito (v. Cassin |1970], p. 268) che nell “Elegy di Gray Russell adoperi le virgolette semplici per riferirsi a concetti denotanti e le virgolette doppie per riferirsi a espressioni denotanti. Seguendo

Cassin, anche Michael

Pakaluk ha supposto che, in “On denoting”, Russell

un’espressione racchiudendo

introduca la convenzione

di parlare del significato di

l’espressione stessa entro virgolette semplici (una convenzione che Pakaluk chiama «convenzione dle

Single Quotation mark)» (Pakaluk [1993], p. 42). In una nota al testo, evidentemente aggiunta dopo che I articolo era già stato scritto, Pakaluk informa che Kenneth Blackwell gli aveva fatto osservare che «nell’articolo originale di Mind, Russell formulava la convenzione usando virgolette doppie» (Pakaluk [1993], p. 63, nota 19). In effetti, nel testo di “On denoting riportato in Russell [ 1956a] (che è il testo utilizzato sia da Cassin, sia da Pakaluk) — così come in quello riportato in Russell [ 1973] — compaiono virgolette semplici tutte le volte

virgolette che nell’articolo originale (mi riferisco a quello pubblicato su Mind: il manoscritto è perduto) compaiono virgolette doppie, e

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capitolo 7

il modo natuQuando vogliamo parlare del significato di un’espressione [phrase] denotante, in quanto opposto alla sua denotazione rale di farlo è con le virgolette. Così diciamo: Il centro di massa del Sistema Solare è un punto, non un complesso denotante; “I centro di massa del Sistema Solare” è un complesso denotante, non un punto. o ancora, Il primo verso dell’Elegy di Gray[}”"] esprime una proposizione. “Il primo verso dell’Elegy di Gray” non esprime una proposizione. Così prendendo qualsiasi espressione [phrase] denotante, per esempio C, vogliamo considerare la relazione tra C e “C”, dove la differenza tra i due è del tipo esemplificato nei precedenti esempi.**

In questo passo i significati sono identificati con i complessi denotanti — e questa è, in effetti, l’interpretazione definitiva che Russell fornisce nel brano dell’“Elegy di Gray”. Tuttavia, come vedremo, la prima forma di teoria del significato contro cui Russell argomenta nel brano in esame è quella sostenuta inizialmente nel manoscritto “On fundamentals”, secondo cui un complesso denotante sarebbe un'entità con due facce, due aspetti: il significato e la denotazione. Per evitare confusioni, adotterò la seguente simbologia. Userò la “C” maiuscola come una lettera schematica che tiene il posto di un'espressione denotante — come fa spesso Russell nel passo dell’“Elegy di Gray”. Sostituirò le virgolette angolari “{...)” alle virgolette che Russell adopera per designare significati,” riservando le virgolette normali alla designazione di espressioni linguistiche. Continuerò a usare — seguendo una delle convenzioni dei Principles — anche il corsivo di un’espressione per designarne il significato. Userò “C1” per designare il complesso denotante indicato dall’espressione denotante che sta al posto di “C”’, e “C2” per designare un'entità tale che, se compare in una proposizione, la proposizione verte sul significato dell’espressione denotante che sta al posto di “C”?.‘° Per ora non sappiamo altro di C2. Dunque “(C)”, per ipotesi, indica C2, e non si riferisce a C2, a meno che C2 non risulti essere (C), cioè il significato dell’espressione denotante che sta al posto di “C”. Analogamente l’espressione denotante che sta al posto di “C? indica C1 — non si riferisce a C1, ma alla denotazione di C1. Dunque non si può porre (C) = C2, né C= CI. Si deve quindi in parte rifiutare la simbologia del passo dell’“Elegy di Gray”, che vede spesso “C” e “‘C?” (cioè, il nostro “(C)”) usati anche per riferirsi, rispettivamente, alle entità che abbiamo chiamato “C1” e “C2”.

doppie tutte le volte che nell’articolo originale compaiono virgolette semplici. Più recentemente, anche Herbert Hochberg ([2003], $ 2a, pp. 91-92) — che, come Cassin e Pakaluk, si serve del testo di “On denoting” riportato in Russell [1956a] e sembra ignorare che esso inverte l’uso delle virgolette rispetto al testo originale — si è unito al coro attribuendo al Russell dell’“Elegy di Gray” l’uso della convenzione di porre «virgolette singole intorno a un’espressione per formare un’espressione che denota il significato (senso) della frase» (Hochberg [2003], $ 2a, p. 91). Usando invece come testi di riferimento, rispettivamente, l'edizione originale e quella contenuta in Russell [1994], che rispetta la convenzione per l’uso delle virgolette dell’edizione originale, Alasdair Urquhart ([2005], p. 104 e p. 116) e Peter Simons ([2005], p. 125) hanno sostenuto che nell’“Elegy di Gray” Russell si sarebbe servito della convenzione di adoperare virgolette doppie per riferirsi a concetti denotanti, e quelle semplici per riferirsi a espressioni: che è esattamente la stessa idea di Cassin, Pakaluk e Hochbere, adattata all’alternanza virgolette semplici/doppie che si trova nell’edizione originale di “On denoting” rispetto all'uso invertito dell’edizione usata da Cassin, Pakaluk e Hochberg.

In realtà, l'alternanza tra virgolette doppie e singole dell’articolo originale si spiega banalmente con la convenzione secondo cui tutte le virgolette sono doppie, ad eccezione di quelle che compaiono all’interno di altre virgolette, che sono semplici. In Russell [1956a] e [1973] si usa invece la convenzione opposta: tutte le virgolette sono semplici, tranne quelle che compaiono all’interno di altre virgolette, che sono doppie. Russell Wahl ([1993], p. 87, nota 14) attribuisce correttamente l’opposizione tra virgolette semplici e doppie su cui si basa Cassin alla convenzione «che tutte le virgolettature sono semplici, eccetto quelle che compaiono all’interno di virgolette, nel qual caso sono doppie» (ibid.), ascrivendo però erroneamente tale convenzione alla scelta editoriale della rivista Mind, invece che alla scelta degli editori di Russell [1956a] e [1973]. (In realtà, all’epoca, su Mind non era adoperata di default neppure la convenzione opposta: si può suppone che la rivista si attenesse alle scelte originali degli autori, perché da un esame che ho effettuato è risultato che in certi articoli sono usate le vireo-

lette doppie, in altri quelle semplici, in altri ancora entrambe, senza una regola uniforme.) ì Poiché l’edizione di “On denoting” che compare in Russell [1956a] è stata la più utilizzata dagli interpreti, ed è tuttora facilmente acces-

sibile, l’ho adottata come edizione di riferimento. Tuttavia, nei brani riportati, ho ripristinato la convenzione per le virgolette dell’articolo ani comparso su Mind— che è quella abituale in Russell, ed è, del resto, la medesima cui mi sono attenuto generalmente in questo liro. — Russell si riferisce alla poesia “Elegy written in a country churchyard” di Thomas Gray, il cui primo verso è “The curfew tolls the knell ofparting day” (“La campana della sera suona a morto per il giorno che finisce”). ”° Russell [1905c], pp. 48-49. = Seguo qui la simbologia adottata in Makin [1995], e Makin [2000], cap. 2. ssaa FRI

3 Blackburn e Code [1978a] (dove C1 e C2 sono chiamati, rispettivamente, “C;” e “C7”) a-

La teoria delle descrizioni

475

L'ultima frase del brano sopra riportato — sfortunatamente, proprio quella che enuncia lo scopo dell’indagine svolta nell’argomento — è confusa; a prima vista, sembra che Russell voglia parlare della relazione tra un’espressione linguistica e qualcos'altro. Diversi interpreti hanno invece ritenuto che Russell intendesse riferirsi alla relazione tra un complesso denotante qualsiasi e la sua denotazione."! Se è così, nell’ultima frase c’è una confusione tra uso e menzione, perché la prima volta “C” è usata come una variabile che varia su espressioni denotanti, e quindi sta al posto di nomi di espressioni denotanti, mentre nelle due occorrenze successive è usata come una

lettera schematica, che sta al posto non di nomi di espressioni denotanti, ma delle espressioni denotanti stesse. Secondo l’interpretazione che intendo proporre, invece, “C” è usata la prima volta nel modo spiegato, ma nelle due occorrenze successive “C” non è una lettera schematica per enunciati: dicendo «la relazione tra C e “C”, dove la differenza tra i due è del tipo esemplificato nei precedenti esempi», Russell si riferisce alla relazione tra il complesso denotante C1 e il complesso denotante C2. Nel manoscritto “On fundamentals” c’è un passo corrispondente, che suffraga la nostra interpretazione, perché è situato in un contesto in cui Russell sta parlando dei modi in cui i complessi denotanti possono comparire nelle proposizioni (in senso non linguistico); il passo è il seguente: x

“Il centro di massa del Sistema Solare” è un complesso denotante, non un punto. Il centro di massa del Sistema Solare è un punto, non un complesso denotante. [...] [N]el primo caso il soggetto è “C” [il soggetto della proposizione è C2], nel secondo è C [il soggetto della proposizione è C1]. Così sembrerebbe che “C” e C [C2 e C1] siano due entità diverse. In questo caso, qual è la connessione tra esse?!”

In “On denoting”, Russell prosegue: Diciamo, per cominciare, che quando compare C [cioè quando in una proposizione, in senso ontologico extralinguistico, compare CI; oppure: quando in un enunciato compare “C”] è la denotazione ciò di cui parliamo; ma quando compare “C” [cioè quando in una proposizione, in senso ontologico extralinguistico compare C2; oppure: quando in un enunciato compare ‘“(C)”], [ciò di cui si parla] è il significato. Ora la relazione tra significato e denotazione non è puramente linguistica tramite l’espressione: dev’esserci coinvolta una relazione logica, che esprimiamo dicendo che il significato denota la denotazione.**

Nella prima parte del brano, Russell riassume la situazione: una proposizione (come entità non linguistica) contenente Cl verte sulla denotazione di CI, mentre una proposizione contenente C2 verte sul significato dell’espressione denotante che sta al posto di “C”. Se il significato dell’espressione denotante che sta al posto di “C” è il complesso C1, una proposizione contenente C2 verte su C1, se il significato dell’espressione denotante che sta al posto di “C” è il significato di C1, allora una proposizione contenente C2 verte sul significato di C1. Nella seconda parte del passo riportato, Russell dice che la relazione tra un complesso denotante e la sua denotazione non può essere solo linguistica, tramite l’espressione collegata al complesso, ma dev'essere una relazione logica" — dunque non arbitraria e, in generale, indipendente dal linguaggio. Questo perché — secondo la teoria dei Principles sostenuta da Russell fino al 1905 — un’espressione linguistica può riferirsi a un’entità diversa dalla sua indicazione solo se la sua indicazione è un concetto denotante che denota l’entità cui l’espressione linguistica si riferisce; pertanto, il riferimento di un’espressione linguistica, se diverso dalla sua indicazione, presuppone la relazione tra un concetto denotante e la sua denotazione. Ciò è importante perché, dall’analisi che Russell condurrà più avanti, risulterà la relazione tra C2 e C1 è effettivamente quella tra un complesso denotante e la sua denotazione. x Russell prosegue anticipando il risultato della prima parte dell’argomentazione svolta nell Elegy di Gray 3 la 266

difficoltà, egli dice, è che «non possiamo riuscire sia a preservare la connessione tra significato e denotazione sia

a impedire che essi divengano una cosa sola; e anche e il si gnificato non può essere raggiunto se non per Mezzo di espressioni denotanti. Questo accade come segue». ” Russell continua: La stessa espressione [phrase] C dovrebbe avere sia significato sia denotazione. Ma se parliamo di “il significato di C”°, questo ci dà il significato (se c’è) della denotazione. “Il significato del primo verso dell’Elegy di Gray” è lo stesso di “Il significato di ‘The curfew tolls the knell of parting day””, e non è lo stesso di “Il significato di ‘il primo verso dell’Elegy di Gray” [non è lo stesso di “il Vi

per es., Hochberg [1976], p. 11, Turnau [1991], p. 63, Pakaluk [1993], p. 43, Kremer [1994], p. 279.

42 Russell [1905f], punto 38, p. 383.

43 Russell [1905c], p. 49.

LA

da

sa cupi LV concetti, impiegando possiamo, 44 Si confronti con quanto Russell scrive nei Principles: «Ma il fatto che la descrizione è possibile — che tali quale della virtù in termini, alcuni e concetti alcuni tra logica relazione una a designare una cosa che non è un concetto — è dovuto concetti denotano inerentemente e logicamente tali termini» (Russell [1903a], $ 50, p. DO)

45 Russell [1905c], p. 49.

va

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significato di (il primo verso dell’Elegy di Gray)”]. Così per ottenere il significato che vogliamo, dobbiamo parlare non di “il signidenotaficato di C”, ma di “il significato di ‘C’” [il significato di (C)”] che è lo stesso dis@gla(Galida solo.[‘] Similmente “La zione di C” non significa la denotazione che vogliamo, ma significa qualcosa che, se denota, denota ciò che è denotato dalla denosta tazione che vogliamo. Per esempio, sia “C” “il complesso denotante che compare nel secondo dei precedenti esempi” [Russell di C”; gi qui specificando che cosa intende stia al posto della lettera schematica “C” che compare nella descrizione “la denotazione secondo dei precedenti esempi” cui si riferisce Russell sembra essere il suo “*Il primo verso dell’Elegy di Gray’ non esprime una proposizione” che noi abbiamo stabilito di trascrivere: “(Il primo verso dell’Elegy di Gray) non esprime una proposizione”]. Allora C = “il primo verso dell’Elegy di Gray” [cioè: il complesso denotante che compare nel secondo dei precedenti esempi = (il primo verso dell’Elegy di Gray)], e la denotazione di C = The curfew tolls the knell of parting day [la denotazione del complesso denotante che compare nel secondo dei precedenti esempi = “The curfew tolls the knell of parting day”] ma ciò che intendevamo avere come denotazione era “il primo verso dell’Elegy di Gray” [cioè il significato di C1]. Così non siamo riusciti a ottenere quello che volevamo.”

Nel passo riportato vi sono diverse ambiguità: nel primo enunciato “C” è una variabile metalinguistica su espressioni denotanti, mentre subito dopo diviene una lettera schematica che sta al posto di un’espressione denotante; inoltre, le virgolette sono talora usate per menzionare espressioni linguistiche, talora per menzionare complessi denotanti. All’inizio, Russell dice che una stessa espressione denotante C dovrebbe avere sia significato sia denotazione; ma subito dopo — trattando “C’ come una lettera schematica, invece che come una variabile metalinguistica — ragiona come se attribuisse significato e denotazione al complesso C1 indicato dall’espressione denotante che sta al posto di “C”’. Il ragionamento che ne deriva sembra dunque essere il frutto di una banale confusione tra uso e menzione dei segni. In realtà, come abbiamo anticipato, il punto di partenza di Russell è qui lo stesso di x

.

“On fundamentals”, secondo cui un concetto denotante sarebbe un'entità con due facce, due aspetti: il significato

e la denotazione (quest’ultima, in “On fundamentals”, è anche chiamata essere (being) o entità (entity)).!” Russell suppone dunque che non solo l’espressione denotante che sta al posto di “C”, ma anche il complesso denotante che ne costituisce l’indicazione, cioè C1, sia qualcosa che ha significato e denotazione.”® Se è così —

argomenta

Russell — il complesso denotante indicato da “il significato di C”, contenendo Cl come indicazione dell’espressione denotante che sta al posto di “C”, dovrebbe denotare il significato di C1 e, parallelamente, il complesso denotante indicato da “la denotazione di C” dovrebbe denotare la denotazione di C1. Quindi “il significato

di C'” dovrebbe

essere

equivalente

a “(C)”,

e “la denotazione

di C”° dovrebbe

essere

equivalente

all'espressione rappresentata da “C”, da sola. Invece, egli osserva, non è così: perché l’espressione “il significato S

ce

4° Il passo parallelo di “On fundamentals” è il seguente: «Se diciamo “qualsiasi uomo’ è un complesso denotante”, “qualsiasi uomo” sta per “il significato del complesso ‘qualsiasi uomo””, che è un complesso denotante. Ma questo è circolare, perché stiamo usando “qualsiasi uomo” per spiegare “qualsiasi uomo”. E il circolo è inevitabile. Perché se diciamo, “il significato di ogni uomo”, questo starà per il signifi cato della denotazione di ogni uomo, che non è ciò che vogliamo» (Russell [1905f], punto 35, p. 382).

*7 Russell [1905c], p. 49.

45 Diversi interpreti hanno visto nell’“Elegy di Gray” solo il frutto di banali confusioni tra uso e menzione, o notazionali; v., per es.: Church [1943], p. 302; Butler [1954], p. 362; Chateubriand [2005], p. 376-378; Urquhart [2005]. Mentre da parte dei primi interpreti questo è comprensibile, considerato che essi non avevano accesso agli scritti inediti di Russell che possono gettare qualche luce sul passo dell’“Elegy di

Gray”, può sorprendere che la stessa posizione sia sostenuta in tempi recenti da Alasdair Urquhart, il quale è stato il curatore del volume 4 dei Collected Papers di Russell che ne raccoglie molti inediti dell’epoca 1903-1905 (v. Russell [1994a]). La spiegazione è che Urquhart

adotta consapevolmente un metodo interpretativo letteralistico, che intende rendere conto del passo dell’“Elegy di Gray” così come si presenta in “On denoting” — senza cercare di intenderlo alla luce di quanto possiamo conoscere da altri scritti di Russell (Urquhart pone in epigrafe al proprio articolo il motto di Jacques Derrida «Il n°y a pas de hors-texte»). L'idea di interpretazione che mi ha guidato è invece che, quando ci si trova di fronte a un passo dal significato incerto, lo si debba leggere alla luce di quelle che potevano essere le intenzioni dell’autore — che non possono che essere ricavate da altri suoi testi. 4 In “On fundamentals” si legge: «Ogni complesso ha significato ed essere. In quanto significato, non è un’entità, ma un composto di di-

verse entità. I complessi possono differire come significato senza differire come entità [cioè, senza differire quanto a denotazione]» (Russell [1905f], p. 366). Con “complessi”, Russell non intende solo i complessi denotanti, ma anche le proposizioni: in quest'ultimo caso l l’essere di una proposizione sarebbe un valore di verità (v. ibid.). °° Mancando di riconoscere ciò, molti interpreti sono stati fuorviati. Per esempio, Kremer ([1994]) è condotto a un’interpretazione

dell’“Elegy di Gray”, in cui “complesso denotante” significa talora un’espressione linguistica, talora un concetto-denotante. Pawel Turnau ([1991]) e Michael Pakaluk ([1993]) hanno intuito che la prima parte dell’“Elegy di Gray” ha come bersaglio una teoria secondo cui i com-

plessi denotanti hanno sia significato sia denotazione ma, non avendo potuto prendere in considerazione il manoscritto “On fundamentals” interpretano il significato e la denotazione di un complesso come entità separate dal complesso. “On fundamentals” chiarisce però che il punto di vista di Russell era che significato e denotazione siano modi di occorrenza della medesima entità. In altri termini: un complesso, il suo significato e la sua denotazione non sono tre entità — come suppongono Turnau ([1991], p. 59) e Pakaluk ([1993], Di46) — nes snai Si. Nei Principles, Russell sostiene già un punto di vista simile, secondo cui un concetto, in generale, può comparire nelle proposizioni come concetto o come termine. Così, per esempio, il concetto umano, che compare nella proposizione Socrate è umano, e il termine umanità, che compare nella proposizione L'umanità appartiene a Socrate, non sarebbero due entità distinte, ma due modi di occorrenza i della medesima entità (v. Russell [1903a], $ 49, pp. 45-46).

La teoria delle descrizioni

477

di C° e “la denotazione di C” non designano, rispettivamente, il significato e la denotazione di C/ , ma il significa-

to e la denotazione della denotazione di C1. Russell dice che per parlare del significato di C1 dovremmo usare invece l’espressione “il significato di (C)”, che significherebbe la stessa cosa di “C)”, da solo. Ciò può lasciare perplessi: se (C) è il significato di C1, la descrizione “il significato di (C)” dovrebbe designare il significato de/ significato di C1, che sembra essere qualcosa di diverso dal significato di C1. Ma nella lettura russelliana non è così: Russell parla del significato di un significato per intendere il significato stesso. A conferma di ciò, in “On fundamentals”, Russell scrive: «[...] ciò che vogliamo è il significato del significato di C, contrapposto al significato della denotazione di C e alla denotazione del significato di C».?! Come ha osservato Michael Pakaluk, Russell intende “il significato di (C)” all’incirca come: “il significato (C)”.?° L’esempio di Russell riguardo a “la denotazione di C”” è a prima vista confuso, ma si chiarisce se si comprende che qui “C” non è più preso a indicare C1, ma un complesso denotante C2 che denota il significato di C1. L'obiettivo di Russell è quello di parlare del significato di C1, servendosi stavolta di un’espressione della forma “la denotazione di C”°. Ora, quello a cui Russell si riferisce con “il secondo degli esempi precedenti” è la proposizione espressa da: (Il primo verso dell’Elegy di Gray) non esprime una proposizione;

il complesso denotante che compare in questa proposizione denota, per stipulazione, il significato di “il primo verso dell’Elegy di Gray”. Sia C2 l’indicazione di “il complesso denotante che compare nella proposizione precedente”; se il complesso denotante C2 fosse qualcosa che ha significato e denotazione, allora la sua denotazione sarebbe il significato di C1. Dunque, “la denotazione di C”’, dove “C” è preso a indicare C2, dovrebbe darci la denotazione di C2, e cioè il significato di C1. Ma non è così, perché quest’espressione non ci dà il significato di CI], ma la denotazione del significato di C1, che Russell identifica con la stessa denotazione di C1.

Russell individua la difficoltà nel parlare del significato di un complesso nella circostanza che, quando tale complesso compare in una proposizione (in senso non linguistico), la proposizione verte inevitabilmente sulla sua denotazione, e non sul complesso medesimo: La difficoltà di parlare del significato di un complesso denotante si può formulare così: Nel momento in cui mettiamo il complesso in una proposizione, la proposizione verte [is about] sulla denotazione; e se costruiamo una proposizione in cui il soggetto è “il significato di C”, allora il soggetto è il significato (se c’è) della denotazione, che non è ciò che s’intendeva.”

Questa è la difficoltà fondamentale dell’argomento dell’“Elegy di Gray”. Ci soffermeremo su di essa tra non molto; ma prima, per non perdere il filo del discorso, vediamo come prosegue l’“Elegy di Gray”. La difficoltà menzionata conduce Russell a una riformulazione della teoria iniziale (ho interpolato al testo le spiegazioni): Questo ci porta a dire che, quando distinguiamo significato e denotazione, dobbiamo trattare con ilsignificato [dobbiamo trattare con proposizioni in cui compare un significato”: il significato ha denotazione ed è complesso lilsignificato è un complesso denotante], e non c’è altro che il significato che si può chiamare il complesso, ed esser detto avere sia significato, sia denotazione [un complesso denotante non è qualcosa con due aspetti, significato e denotazione]. L'espressione giusta, secondo tale punto di vista, è che alcuni significati [complessi denotanti] hanno denotazione [‘alcuni”, perché non tutti i complessi denotanti denotano qualcosa].

Secondo la nuova formulazione della teoria, il significato non è più un aspetto di un complesso denotante C1, ma è il complesso C1. Russell continua: Ma ciò rende più evidente la difficoltà di parlare di significati. Perché supponiamo che C [C1] sia il nostro complesso; allora dobbiamo dire che C [C1] è il significato del complesso. Tuttavia, ogni volta che C compare senza virgolette [ogni volta che in enunciato compare l’espressione che sta al posto di “C” anziché ROYSA oppure: ogni volta che in una proposizione compare CI invece che C2], ciò che si dice non è vero del significato, ma solo della denotazione, come quando diciamo: Il centro di massa del Sistema Solare è un punto. Quindi per parlare di C [C1] stesso, ossia per formare una proposizione a proposito del significato, il nostro s0g-

51 Russell [1905f], punto 36, p. 382. 5 V. Pakaluk [1993], p. 51.

53 Russell [1905c], p. 49.

Ù LE edizioni è il s1g 54 Si confronti con il seguente passo di “On fundamentals”: «Ogni volta che un concetto denotante compare in una proposizione

cato a comparire, non la denotazione» (Russell [1905f], p. 368).

55 Russell [1905c], pp. 49-50.

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del sigetto non dev'essere C [C1], ma qualcosa che denota C [C1]. Così “C” [C2], che è ciò che usiamo quando vogliamo parlare gnificato, non deve essere il significato, ma qualcosa che denota il significato.

Con “parlare di significati”, Russell non intende, evidentemente, parlare di significati in generale, come farebbe

chi dovesse formulare la teoria che distingue il significato dalla denotazione, ma avere, per ogni complesso denotante dato, proposizioni che vertano su questo complesso denotante. Perché ciò è importante? La risposta è che, se davvero esistono complessi denotanti, per Russell è necessario che esistano proposizioni vertenti su di essi.” Questo dipende dalla teoria della verità che Russell sostiene già nei Principles e ancora all’epoca di “On denoting”. Secondo questa teoria — che Russell riprende dall’amico G. E. Moore — le proposizioni vere non sono tali perché “corrispondano” in qualche modo a “fatti”; la verità è una proprietà primitiva delle proposizioni: semplicemente, alcune ce l’hanno (quelle vere) altre no (quelle false). In una teoria corrispondentista della verità — che identificasse, per esempio, le proposizioni con entità mentali, o linguistiche, le quali possono in qualche modo “corrispondere” o no ai fatti — non sarebbe incoerente sostenere che possano esserci verità le quali non corrispondano a nessuna proposizione; ma la teoria della verità sostenuta da Russell ai tempi di “On denoting” non è corrispondentista: secondo questa teoria, il mondo è un tessuto di proposizioni (in senso ontologico, non mentale né linguistico) vere o false: non ci sono, in aggiunta ad esse, dei fatti con i quali confrontarle. Potremmo anche dire: le proposizioni vere sono esse stesse farti. In questa prospettiva, è impossibile che vi siano entità di cui nessuna proposizione parla: ciò significherebbe avere entità di cui nulla è vero e di cui nulla è falso. Per ogni complesso denotante è dunque necessario, nella prospettiva russelliana, che vi siano proposizioni vertenti su di esso. Il problema che pone Russell nell’ultimo brano citato è lo stesso di prima: quando un complesso denotante compare in una proposizione, la proposizione non verte sul complesso stesso, ma sulla sua denotazione. Da ciò segue che una proposizione vertente su un complesso C1, ora identificato con un significato, non può contenere il complesso medesimo, ma deve contenere in complesso denotante C2, distinto da C1, che denoti CI. E poiché, come abbiamo appena visto, per ogni complesso denotante è necessario che ci siano proposizioni vertenti su di esso, ne segue che, per ogni complesso denotante C1, dev’esserci almeno un complesso denotante C2, distinto da C1, che denoti C1.°*

°° Russell [1905c], p. 50. 2190 questo punto concordo con Gideon Makin (v. Makin [1995], p. 389, e Makin [2000], cap. 2, $ I, pp. 22-23).

58 La necessità che, per ogni complesso denotante C1, vi sia una proposizione vertente su C1, che contiene un complesso denotante C2, diverso da C1, implica un’infinità di concetti denotanti, ognuno dei quali ne denota un altro. Tuttavia — contrariamente a quanto afferma Peter Hylton (v. [1990a], cap. 6, p. 251) — non si tratta un regresso all’infinito di tipo vizioso. Esso è simile a quello implicito nell’assunzione che ogni numero naturale abbia un successore diverso da esso: semplicemente, richiede l’esistenza di infiniti complessi denotanti (per un parere concorde su questo punto, si veda Kremer [1994], pp. 285-287). Hylton presenta il regresso in parola come l’argomento sostenuto da Russell nell’“Elegy di Gray” (v. [1990a], cap. 6, pp. 250-251), ma questa tesi non è supportata da nessuna evidenza testuale (per un parere concorde, v. Makin [1995], p. 409, nota 5); inoltre, lo stesso Russell, nell’appendice A dei Principles, individua come innocuo il regresso menzionato da Hylton: , «Se si ammette, come faccio io [in contrapposizione a Frege], che i concetti possano essere oggetti [possano comparire in una proposizione come termini di essa] e avere nomi propri, sembra abbastanza evidente che i loro nomi propri, di regola, li indicheranno senza avere nessun significato distinto; ma il punto di vista opposto, sebbene conduca a un regresso all’infinito, non sembra essere logicamente impossibile [corsivo mio]» (Russell [1903a], $ 476, p. 502). Un regresso all’infinito di tipo vizioso è effettivamente rilevato da Russell, in connessione con i “significati”, in un passo di “Knowledge by acquaintance and knowledge by description” (1911). Ma non si tratta di niente di simile all’argomento della parte del passo dell’“Elegy

di Gray” che abbiamo esaminato. Nel contesto di “Knowledge by acquaintance...”, Russell sta criticando l’analisi proposta da E. E. Constance Jones secondo cui un asserto di identità come “Scott è l’autore di Waverley” asserirebbe che «l’intensione (‘significato’, connotazione)» di “l’autore di Waverley” si può «assegnare a Scott», cioè asserirebbe un’ «identità di denotazione» tra “Scott” e “l’autore di Waverley”

(Jones [1910], p. 379). Dopo aver argomentato che “l’autore di Waverley” non si comporta semplicemente come un nome proprio, perché

negli enunciati in cui compare è rilevante non solo la sua denotazione, ma il suo significato, Russell obietta così alla tesi della Jones:

«Siamo dunque d’accordo che “l’autore di Waverley” non è un puro nome, ma il suo significato è rilevante nelle proposizioni in cui compare. Così se dobbiamo dire, come fa Miss Jones, che “Scott è l’autore di Waverley” asserisce un'identità di denotazione, dobbiamo considerare la denotazione di “l’autore di Waverley” come la denotazione di ciò che è significato [is meant] da “l’autore di Waverley®”

Chisiolano

il significato [meaning] di “l’autore di Waverley” M. Quindi M è ciò che “l’autore di Waverley” significa [means]. Allora [secondo la teoria

della Jones] dobbiamo supporre che “Scott è l’autore di Waverley” significhi “Scott è la denotazione di M”. Ma qui stiamo enicasnda la nostra proposizione con un’altra della stessa forma, e non abbiamo fatto nessun progresso verso una reale spiegazione [degli asserti d’identità]. “La denotazione di M”, come “l’autore di Waverley”, ha significato e denotazione, secondo la teoria che stiamo esaminando Se chiamiamo il suo significato M', la nostra proposizione diviene “Scott è la denotazione di M”. Ma questo conduce immediatamente a un regresso all’infinito. Quindi il tentativo di considerare la nostra proposizione come asserente un'identità di denotazione fallisce, e diviene

imperativo trovare qualche altra analisi» (Russell [1911e], p. 227). Il regressoè qui vizioso perché, secondo l’analisi di Russell, con ess ss isa la o ne fa i) = sa 10

Lgs I si gi erebbe mai al sienific: i “Scott è 1° ; cî *poi: dio innocuo, v. 0; Russellra [1903a], $x329,pidiliciscenia pp. 348-349).

La teoria delle descrizioni

479

Sviluppiamo meglio questo punto, che è il fulcro di tutta la prima parte dell’“Elegy di Gray”: perché una proposizione che contiene C1 non può vertere su C1? In altri termini, perché C2 dev'essere un’entità distinta da C1? Una proposizione che contiene un complesso denotante C1 potrebbe vertere su CI1 stesso se i complessi denotanti avessero quella duplice possibilità d’occorrenza nelle proposizioni — come termini della proposizione (Russell diceva anche: come soggetti logici), oppure come concetti — che nei Principles è attribuita ai concetti in generale.” Nel primo caso, il concetto non sarebbe denotante, e la proposizione che lo contiene verterebbe su di esso: infatti, lo ricordiamo, i termini di una proposizione sono definiti nei Principles come «quei termini, comunque numerosi, che compaiono in una proposizione e possono essere considerati come soggetti sui quali verte la proposizione [about which the proposition is]».® Si osservi che, nei Principles, Russell assume esplicitamente una posizione del genere, quando scrive, a proposito della teoria di Frege: Questa teoria dell’indicazione è più radicale e generale della mia, come risulta dal fatto che si suppone che ogni nome proprio abbia due facce. A me sembra che solo quei nomi propri che sono derivati dai concetti [dalle espressioni indicanti concetti-classe] per mezzo di i/ possano dirsi avere significato [meaning; qui: “senso”], e che le parole come John semplicemente indichino, senza significare. Se si ammette, come faccio io, che i concetti possano essere oggetti [possano comparire in una proposizione come termini di essa] e avere nomi propri, sembra abbastanza evidente che i loro nomi propri, di regola, li indicheranno senza avere nessun significato distinto [.. 15

Nell’ultima frase riportata, Russell si riferisce ai concetti denotanti come entità che possono essere nominate. Tuttavia, già nel manoscritto “On meaning and denotation”, della seconda metà del 1903, o inizio del 1904, Rus-

sell respinge quest’opinione: [...] [L]'esame diretto sembra mostrare che, se vogliamo parlare del significato di “l’attuale primo ministro d’Inghilterra”, non possiamo trovare nomi per esso se non tali che abbiano essi stessi significato; e questi esprimono qualcos’altro, e raggiungono ciò che vogliamo solo attraverso la relazione del denotare.

Il punto è: per parlare di un significato (concetto denotante) dobbiamo servirci di un altro significato (concetto denotante) che denoti il primo. È ciò che Russell esprime, all’inizio del passo dell’“Elegy di Gray” di “On denoting”, dicendo che «il significato non può essere raggiunto se non per mezzo di espressioni denotanti».* Nel manoscritto ‘On fundamentals”, Russell indaga estesamente sul modo in cui un'entità, soprattutto un complesso (proposizionale o denotante) può comparire in una proposizione, o in un complesso non proposizionale (come un complesso denotante). Come abbiamo già osservato, in “On fundamentals” Russell pensa dapprima ai complessi come entità fornite di due aspetti, significato e denotazione (o significato ed essere). Russell sostiene che un complesso (denotante o proposizionale) può comparire in un altro complesso come significato, oppure come essere — egli dice anche “come entità”. La differenza è spiegata così: Quando un complesso compare come essere [being], qualsiasi altro complesso che ha la stessa denotazione, o la denotazione stessa, DAS DAS » DIE 3 Dda 65 può essere sostituita senza alterare la verità o non verità del complesso in cui il detto complesso compare.

Russell offre il seguente esempio. Prendiamo la proposizione espressa da “La gente era sorpresa che Scott fosse l’autore di Waverley”. Scott, naturalmente, è l’autore di Waverley; ma se nella proposizione menzionata si sostituisce Scott al complesso denotante l’autore di Waverley, si ottiene la proposizione espressa da “La gente era sorpresa che Scott fosse Scott”, che non ha, evidentemente, lo stesso valore di verità della proposizione iniziale. Dunque, secondo Russell, in questo caso il complesso denotante l’autore di Waverley non compare come essere, ma come significato. Poco dopo aver formulato il criterio secondo cui un complesso compare come entità im una 5? V. Russell [1903a], $ 48, p. 45. V. anche, sopra, cap. 6, S22:

60 Russell [1903a], $ 48, p. 45. 6! Russell [1903a], $ 476, p. 502.

si

di

non la proposizione 62 A conferma di ciò, nei Principles Russell afferma che quando un concetto denotante «comparein una proposizione, cui COPRONO è, di regola [corsivo mio], a proposito del concetto [...}», € aggiunge: “Questo sì può vedere dal fatto che le proposizioni in

del tali concetti sono in generale false riguardo ai concetti stessi. AI tempo stesso è possibile considerare e formare proposizioni a proposito

[1903a], $ 65, p. concetto stesso, ma queste non sono le proposizioni naturali [corsivo mio] da formarsi impiegando il concetto» (Russell

64). 63 Russell [1903g], p. 322. 6 Russell [1905c], p. 49. 65

Russell

CATA sa

[1905f], punto 5, p. 369. 5 TU A 2 ; sotto, nota 95. {19051 punto 10, p. 370. Sugli esempi russelliani a proposito dell’autore di Waverley, cioè di Walter Scott, v.

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proposizione quando ad esso si può sostituire la sua denotazione senza alterare il valore di verità della proposizione stessa, Russell ne propone però un altro,” che riformula poi, in un modo più limpido, in un altro punto del testo: Un’entità può comparire in un complesso B in modo tale che si possa sostituire ad A in B qualsiasi entità, semplice o complessa, senza perdita di significato; oppure A può comparire in modo tale da poter essere rimpiazzata significativamente da un'entità di una certa sorta, per es. una proposizione, o un tipo [per “tipo” Russell intende qui il corrispondente ontologico della forma comune agli

enunciati di forma “C(x)”, dove “C” è un predicato monadico] o una relazione. Questa è la divisione più fondamentale dei modi di

occorrenza. Chiameremo i due modi in parola, rispettivamente, occorrenza come entità e occorrenza come significato [... pes

Questa è una semplice variante terminologica della teoria dei Principles, dove si legge: «È una caratteristica dei termini di una proposizione che ciascuno di essi possa essere rimpiazzato da qualsiasi altra entità senza che si cessi di avere una proposizione». Usando la nuova terminologia di “On fundamentals” l’attributo della saggezza, per esempio, comparirebbe come significato nella proposizione espressa da “Socrate è saggio” (infatti, tale attributo non può essere sostituito, per es., da Platone, perché “Socrate Platone” non è un enunciato grammaticale), ma come entità nella proposizione espressa da “La saggezza è una virtù”. In “On fundamentals” Russell non lo specifica, ma un’occorrenza di un complesso come significato, in questo senso, sembra potersi avere solo quando il complesso è usato in funzione predicativa. Che un complesso denotante compaia come entità in una proposizione secondo il criterio appena enunciato non implica però che vi compaia come entità anche nel senso che la sua sostituzione con l’entità da esso denotata preservi il valore di verità della proposizione. Prendiamo, infatti, ancora la proposizione espressa da “La gente era sorpresa che Scott fosse l’autore di Waverley”. Se in essa si sostituisce una qualsiasi entità al complesso denotante l’autore di Waverley, si ottiene ancora una proposizione; ma se si sostituisce Scott a l’autore di Waverley non si ottiene una proposizione avente lo stesso valore di verità. In effetti, proprio discutendo quest’esempio, Russell 0sserva: Quindi parrebbe esserci un terzo modo di occorrenza di un complesso, in cui l’occorrenza è un’occorrenza-entità riguardo al significato, e un’occorrenza significato riguardo alla verità.”

Più avanti, tuttavia, Russell preferisce attenersi — come nei Principles — al criterio di commutazione che preserva la significanza, per distinguere le occorrenze di un complesso come entità da quelle come significato. Sulla base di questo criterio — spiega Russell qualche pagina dopo — in ogni complesso (per es., in ogni proposizione), almeno un costituente deve comparire come significato: In ogni complesso, almeno un costituente compare come significato. È il costituente che compare come significato che dà forma e unità al complesso; altrimenti esso sarebbe soltanto diverse entità staccate. I verbi in un modo non infinito, e le preposizioni, e le congiunzioni, quando compaiono in enunciati [sentences], compaiono normalmente come significati; per farli comparire come entità, è necessario impiegare le virgolette o il corsivo.”

Il «terzo modo di occorrenza» di un complesso menzionato sopra, è ora rubricato da Russell come un’occorrenza-entità in cui il complesso denotante ha — egli dice — un’occorrenza secondaria. Russell scrive: Chiameremo A costituente primario [primary constituent) di B quando solo la denotazione di A è rilevante al valore di verità di B. e chiameremo in questo caso l’occorrenza di A occorrenza primaria [primary occurrence]; altrimenti, parleremo di A come costituente secondario [secondary constituent] e della sua occorrenza come occorrenza secondaria [secondary occurrence].””

Gli esempi di Russell sono, rispettivamente, la proposizione espressa da “Scott era l’autore di Waverley® — dove l’autore di Waverley ha un’occorrenza primaria — e quella espressa da “La sente era sorpresa che Scott fosse l’autore di Waverley? — dove l’occorrenza dello stesso concetto denotante è secondaria. Questa è la prima occa-

9? V. Russell [1905f], punto 9, p. 370. °* °° 7° 7! ??

Russell Russell Russell Russell Russell

[1905f], [1903a], [1905f], [1905f], [1905f],

punto $ 48, punto punto punto

23, (a), p. 374. p. 45. 11, p. 370. 31, p. 380. 23, (b), p. 374.

La teoria delle descrizioni

481

sione in cui Russell individua qualcosa di simile a quello che più tardi chiamerà ambito (scope) di un’espressione denotante in un enunciato. In “On fundamentals” Russell sviluppa le sue analisi individuando altri possibili modi di occorrenza di un complesso in un altro: Un costituente può comparire in un complesso B in modo che la sostituzione del detto costituente con qualsiasi cosa abbia la stessa denotazione non solo lasci immutato il valore di verità di B, ma lasci immutata la sua identità. Questo accadrà se B è un complesso denotante. Per es. “la testa di Arthur Balfour” è identico a “Ia testa dell’attuale Primo Ministro d'Inghilterra” [Balfour fu primo ministro in Inghilterra dall’11 luglio 1902 al 5 dicembre 1905]. [...] Possiamo chiamare un costituente che compare in questo modo costituente-denotazione [denotation-constituent], e la sua occorrenza occorrenza-denotazione [denotation-occurrence]."

E ancora: Un complesso A che sia un costituente primario di un complesso B può comparire in B in modo che i costituenti primari di A (se A è proposizionale) o i costituenti-denotazione (se A è denotante) siano costituenti primari di B, o in modo tale che essi siano costituenti secondari di B. Così in “Scott era l’autore di Waverley”, “l’autore di Waverley” ha costituenti che sono costituenti primari della proposizione. Lo stesso è vero di “Se Scott era l’autore di Waverley, egli combinava i talenti di un poeta e di un novellista”. Ma non è vero di “Scott era l’autore di Waverley” in “La gente era sorpresa che Scott fosse l’autore di Waverley”. Chiameremo la prima sorta di occorrenza analizzabile, la seconda inanalizzabile; e chiameremo il complesso A stesso costituente analizzabile 0 inanaliz-

zabile nei due casi.”

In queste distinzioni sempre più sottili, tuttavia, Russell non include occorrenze di un complesso denotante in una proposizione tali che la proposizione stessa verta sul complesso medesimo. Anzi, già nelle prime pagine di “On fundamentals” — proprio come aveva fatto in “On meaning and denotation” — Russell nega che tali proposizioni esistano.” Per comprendere perché, osserviamo che, stando alla teoria dei Principles, un concetto può comparire

in una proposizione come termine di essa o no secondo le relazioni esterne che esso intrattiene con gli altri componenti della proposizione.” Quindi, perché un concetto denotante compaia in una proposizione vertente sul concetto stesso, occorre che esso occupi, nella proposizione, il posto adatto a un termine della proposizione. Questa tesi è preservata in “On fundamentals”, dove Russell scrive: «Il modo in cui compare un complesso [...] dipende dalla natura del complesso in cui compare», ponendo poi le definizioni seguenti: Df. Una posizione in un complesso è detta posizione-significato [meaning-position] quando, se un complesso compare in questa posizione, il complesso compare come significato. Df. Una posizione in un complesso è detta posizione-entità [entity-position] quando, se un complesso compare in questa posizione, il complesso compare come essere (0 come entità).”*

Perché un concetto denotante compaia in una proposizione vertente sul concetto stesso, occorre — nella terminologia di “On fundamentals” — che esso vi compaia in una posizione-entità. Ma se un concetto denotante compare in una proposizione in una posizione-entità, la proposizione verterà, al contrario, sulla denotazione del concetto. Russell giunge così alla conclusione che non esistano proposizioni in cui compaia un complesso denotante S

o

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3» , 79,80

le quali vertano sul complesso stesso. E la stessa tesi che ritroviamo in “On denoting”.

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SE

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Da ciò segue, in parti-

73 Russell [1905f], punto 23, (c), p. 375. 74 Russell [1905f], punto 23, (d), p. 375. 75 V. Russell [1905f], p. 363. 76 V. Russell [1903a], $ 49, p. 46. V. anche ibid., $ 81, p. 84.

"? Russell [1905f], p. 369. 78 Russell [1905f], punti 7 e 8, p. 370.

Madia

|

79 Blackburn e Code ([1978a], p. 76) vedono in ciò una semplice conseguenza della teoria dei Principles: «La teoria del denotare dei PoM [Principles] rende impossibile nominare direttamente un senso o concetto denotante. Questo perché L...] se un concetto denotante è un costituente di una proposizione, allora la proposizione è a proposito dell’oggetto denotato e non a proposito del concetto denotante. se SUpponiamo che [Russell] fosse giunto a vedere questo al tempo in cui scrisse “On denoting”, abbiamo una spiegazione del fatto che egli insista 6A: i > ora che i sensi debbano essere introdotti per mezzo di descrizioni definite». Principles, DA dei teoria dalla derivi non conclusione questa che invece sostiene Landini ([1998b], pp. 61-64, e [1998a], $ 3.1, pp. 74-76) da una confusione, presente in “On fundamentals”, tra la nozione linguistica e quella ontologica di “soggetto”. Landini ritiene che le ose in cui un complesso renze in cui un complesso denotante denota dovrebbero essere le sue occorrenze come significato, e che le occorrenze

LADRI . denotante è ciò su cui verte una proposizione in cui esso compare dovrebbero essere le sue occorrenze come entità. SeCOnda occuro DAI avere di proprietà la mentre simboli, di proprietà di occupare una “entity position” individua, in realtà, una caratteristica

di Soze rence” (cioè, secondo Landini, un’occorrenza per cui il complesso stesso è ciò su cui la proposizione verte) è una caraliessHea definon linguistici. Landini obietta a Russell che, sebbene un nome possa essere sostituito, senza violare la grammatica, a una descrizione

capitolo 7

482

devono colare, che C2 e C1 non possono essere la stessa entità, che compare ora in un modo, ora in un altro, ma essere due entità distinte, delle quali la prima denota la seconda. In “On fundamentals”, Russell scrive: una posizioQuando un concetto ha significato e denotazione, se vogliamo dire qualcosa circa il significato, dobbiamo metterlo in

non del sine-entità [entity position]; ma se lo mettiamo in una posizione-entità, ci troveremo in realtà a parlare della denotazione,

gnificato, perché è sempre così quando si pone un complesso denotante in una posizione-entità. Così per parlare del significato

dobbiamo sostituire al significato qualcosa che denoti il significato.*' E ancora:

Ciò che si vuole non è un ulteriore modo di occorrenza [di un complesso denotante in una proposizione]. Si consideri “Il centro di massa del Sistema Solare” è un complesso denotante, non un punto.

Il centro di massa del Sistema Solare è un punto, non un complesso denotante. In ciascuno di essi il soggetto compare come entità, non come significato; nel primo caso il soggetto [della proposizione] Li [C2], nel secondo è C [C1]. Così sembrerebbe che “C” e C [C2 e C1] siano due entità diverse.®?

In “On denoting”, eravamo giunti al punto in cui Russell diceva che «“C” [C2], che è ciò che usiamo quando vogliamo parlare del significato, non deve essere il significato, ma qualcosa che denota il significato». Russell prosegue così: E C [C1] non dev'essere un costituente di questo complesso (com’è in “il significato di C'°); perché se C [C1] compare nel complesso, sarà la denotazione, non il significato, che comparirà, e non c’è via di ritorno dalle denotazioni ai significati, perché ogni oggetto si può denotare con un numero infinito di espressioni denotanti. Così sembrerebbe che “©” [C2] e C [C1] siano entità differenti, tali che “C” [C2] denota C [C1];[] ma questa non può essere una spiegazione, perché la relazione di “C?” [C2] con C [C1] rimane del tutto misteriosa; e dove dovremmo trovare il complesso denotante “C?? [C2] che deve denotare C [CHzs

Qui Russell argomenta che C1 non può essere un costituente di C2, perché se C2 contenesse C1, la sua denotazione, che per ipotesi dev'essere CI stesso, sarebbe una funzione della denotazione di C1, e non di C1 — così, per es., il padre dell’autore di “On denoting”, che contiene il complesso denotante l’autore di “On denoting”, denota il padre di Bertrand Russell, Lord Amberley, e non il padre del concetto denotante stesso.” Ma, poiché la relazione tra complessi denotanti e le loro denotazioni è molti-uno, in nessun caso una funzione della denotazione di C1,

distinta da C1, potrà darci C1 stesso.®° Ma, un momento: se la relazione tra complessi denotanti e le loro denotazioni è molti-uno, allora non è corretto parlare — come abbiamo fatto finora seguendo Russell — de/ complesso denotante che denota C1, come se fosse unico. E se questo complesso non è unico, qual è il C2 di cui vuol parlare Russell? Supponiamo di identificare in C2 qualcosa che è correlato a C1 perché è il significato dell’espressione linguistica che sta al posto di “C”. Già nita in una posizione-entità in un enunciato, ciò non implica che le proposizioni corrispondenti abbiano la stessa struttura (cosicché la descrizione occorrerebbe, quando denota, nello stesso modo dell’indicazione del nome, cioè come entità): se le proposizioni avessero la stessa struttura, la proposizione che contiene il concetto denotante verterebbe sul concetto stesso, e non sulla sua denotazione (v. Landini [1998b], p. 63). Tornerò su questo punto più avanti, nel testo. S0 Landini ([1998b], pp. 65-66, e [1998a], $ 3.2, pp. 77-78) sostiene che, se non si ammettono occorrenze di un complesso denotante in

proposizioni vertenti sul concetto stesso, nel quadro della teoria dei Principles i concetti denotanti non possono esistere. Infatti, secondo questa teoria, un’espressione della forma “1a”, indica un concetto denotante che, se denota qualcosa, denota l’unica entità che ha la proprietà a (in proposito, v. Russell

[1903a], $ 73, p. 74). Quindi, riportandoci al nostro caso, abbiamo

che per ogni x, x=

il significato

dell'espressione denotante che sta al posto di “C” se e solo se x è un significato dell’espressione denotante che sta al posto di “C”, ed è uni-

co. Ma, se un concetto denotante

non può comparire

in una proposizione che verta sul concetto stesso, allora “x è un significato

dell’espressione denotante che sta al posto di ‘C’, ed è unico” sarà falso per ogni valore di “x”, cioè si avrà: “-(2x) tale che x è un significa:

to dell'espressione denotante che sta al posto di ‘C°”’. L'argomento è valido, ma non sembrano esserci, nel testo di “On denoting”, elementi

che facciano ritenere che Russell intendesse porre questo problema (né credo che Landini volesse suggerirlo). i i a [1905f], punto 35, pp. 381-382. V. anche, per una spiegazione identica, anche se verbalmente più confusa, Russell [1905f], p.

7 Russell [1905f], punto 38, p. 383. ° Si confronti con il seguente passo di “On fundamentals”: «Non abbiamo ora un complesso con ma due entità, “C”, il complesso, e C, la denotazione di “C”’» (Russell [1905f], n du

84 Russell [1905c], p. 50.

ni

i due aspetti di sionific ani

azi li

85 Nella terminologia di “On fundamentals”, il complesso l’autore di “On denoting” ha un’occorrenza-denotazione nel complesso i/ padre Li È dell’autore di “On denoting”. 86 Per un’interpretazione identica a questa, v. Makin [1995], p. 392, e Makin [2000], cap. 2, $ II, pp. 26-27.

La teoria delle descrizioni

483

Frege, in “Uber Sinn und Bedeutung” (1892), aveva affermato: «Se si vuol parlare del senso di un’espressione [eines Ausdrucks] “A”, si può farlo semplicemente per mezzo della locuzione [Wendung] “il senso dell’espressione ‘A’”».5” Che cosa c’è che non va? Russell, proprio all’inizio del passo dell’“Elegy di Gray”, aveva scritto: «la relazione tra significato e denotazione non è puramente linguistica tramite l’espressione: dev’esserc i coinvolta una relazione logica, che esprimiamo dicendo che il significato denota la denotazione»;5* nel contesto, Russell si riferiva proprio alla relazione tra C2 e C1. Ritengo che con questa frase egli intendesse escludere il linguaggio dalle sue considerazioni; in altre parole, che egli intendesse concentrarsi su una particolare classe di entità che denotano CI, le quali non siano legate a C1 solo da relazioni linguistiche. Per comprendere che questa clas-

se, per Russell, non può essere vuota, basta richiamare la circostanza che — data la teoria della verità sostenuta da

Russell all’epoca di “On denoting” — è indispensabile che, se esistono complessi denotanti, esistano proposizioni vertenti su di essi; e poiché i complessi denotanti, in generale (qualora non contengano entità linguistiche e non denotino entità linguistiche), se esistono, devono esistere indipendentemente dal linguaggio, è necessario che esistano anche proposizioni su di essi le quali non dipendano dall'esistenza di un linguaggio. È dunque necessario che, per ogni complesso denotante C1, che non contenga entità linguistiche e non denoti entità linguistiche, esista almeno un complesso denotante C2 che denoti il primo indipendentemente da qualsiasi linguaggio. Riassumendo: la teoria dei complessi denotanti richiede che per ogni complesso denotante C1 che non contenga né denoti entità linguistiche ce ne sia (almeno) uno, C2, che denota C1 indipendentemente dal linguaggio; ma poiché C2 dev'essere distinto da C1, e non deve contenere C1, la teoria sembra impossibilitata a fornire una rela-

zione sistematica tra ogni complesso denotante C1 e un complesso denotante C2 che lo denoti («la relazione di “C? [C2] con C [C1] rimane del tutto misteriosa»): dunque la teoria dei complessi denotanti richiede l’esistenza di complessi C2 che non dà modo di generare sistematicamente a partire da C1 («e dove dovremmo trovare il complesso denotante “C? [C2] che deve denotare C?»). Questo, a mio avviso, è il nocciolo dell’argomento russelliano dell’ “Elegy di Gray”. Alcuni interpreti” hanno ritenuto che, nella parte del passo dell’“Elegy di Gray” esaminata finora, Russell intendesse porre un problema epistemico, che possiamo esporre servendoci degli esempi: (1) Il primo verso dell’ Elegy di Gray esprime una proposizione. (2) (Il primo verso dell’Elegy di Gray) non esprime una proposizione.

Certamente comprendiamo il primo enunciato. Questo, secondo la semantica russelliana, significa che conosciamo per familiarità i costituenti della proposizione corrispondente, uno dei quali è il complesso indicato da “il primo verso dell’Elegy di Gray”; chiamiamo “C1” questo complesso. Quindi conosciamo per familiarità C1. Se conosciamo per familiarità C1, dovremmo essere in grado di comprendere una proposizione che verta su CI. E, in effetti, usando l’espediente russelliano delle virgolette, siamo perfettamente in grado di comprendere la proposizione espressa da (2). Ma il problema sarebbe ora: se la proposizione espressa da (2) non contiene CI (che, per ipotesi, conosciamo per familiarità) come costituente, ma un’altra entità C2 (che denota CI), per comprendere (2) dobbiamo conoscere per familiarità C2: ma questo è impossibile, perché non abbiamo idea di quale possa essere il complesso denotante CIai 87 Frege

[1892a],

4 Di p. 28. Poiché,

secondo

Frege,

TI pe ? un’espressione

A

SCA?

non

a x ne a ha« lo stesso di

dell’espressione ‘A’”’, a rigore, non determina uno e un solo senso. Ciò che Frege intende, con l’espressione “A” ha nei contesti diretti. 88 Russell [1905c], p. 49. a

Visecavrio Pa Di neti diretti eSa aut nei a COHESa

il senso dell’espressione

ptt che Russell nega non Levine 278-279. pp. [2004], Levine e 288, pp. [1994], Kremer 60-61, 8 V. Turnau [1991], pp.

senso MUGCS na, di

‘A’”, è il senso che

Seencone d0 " intendesse sollevare i

problema metafisico di cui abbiamo parlato (v. Levine [2004], p. 278), ma ritiene che, con la frase «e dove dovremmo trovare il complesso

denotante “€” che deve denotare C?», Russell intendesse sollevare anche un problema epistemico. Anche secondo Pakaluk la oo pane

dell’“Elegy di Gray” intenderebbe sollevare un problema epistemico, ma connesso con una supposta impossibilità di essere in una relazione

| vi pata Di R di acquaintance con la relazione di denotazione (v. Pakaluk [1993], pp. 56-57). 9% A ciò, Kremer ([1994], pp. 289-290) aggiunge che è anche teoricamente impossibile che C2 sia oggetto di ae quaintance. Egli i questa

denoconclusione sull’idea che Russell assuma il principio secondo cui, se possiamo essere in familiarità (acquainted) con Si O che è in SUS cosa wi stesso concetto del proposito a direttamente sia che comprendere possiamo che proposizione una dev’esserci tante, Sa traddizione con il fatto che ogni proposizione in cui compare un complesso denotante C | debba vertere sulla denotazione cise Si Si ma se On a Sea di plegy dell passo del argomento principale il come questo presenta 290) p. e ([1994], p. 268 LA analisi (acc Noonan ([1996], pp. 81-82) e con Levine ([2004], p. 280, nota 68) che non c’è alcuna evidenza twstbale reg di Gray”). ta però anche in Brogaard [2006], p. 54, come la spiegazione corretta della parte principale del passo dell’“Elegy

484

capitolo 7

L’argomento non mi pare convincente. Osserviamo, innanzitutto, che dato un particolare complesso C1 si possono trovare molti modi di parlarne. Un esempio ci è fornito dallo stesso Russell che, in un passo dell’“Elegy di “il Gray” sopra riportato, designa il significato i/ primo verso dell’Elegy di Gray servendosi dell’espressione altri. molti complesso denotante che compare nel secondo dei precedenti esempi”. E se ne possono immaginare Per esempio, potrei ora riferirmi al complesso denotante i/ primo verso dell ’Elegy di Gray servendomi del complesso il complesso denotante cui ho pensato più spesso nell’ultimo mese! Abbiamo però detto che Russell è alla ricerca di una relazione sistematica che, per ogni C1, ci dia un C2 che denota C1. Naturalmente, se tale relazione può essere linguistica, è facile trovare tale C2. Per esempio, se C1 è il complesso denotante indicato da “il primo verso dell’Elegy di Gray” possiamo identificare C2 nel complesso indicato da “il significato, in italiano, di ‘il primo verso dell’Elegy di Gray”, i cui costituenti sarebbero: un’espressione verbale e la relazione convenzionale che lega le espressioni italiane alle loro indicazioni. Data dunque un’espressione che indica CI, possiamo ricavare sistematicamente un C2 che denoti C1 in modo dipendente dal linguaggio: e questa era precisamente la proposta di Frege. Quindi, se non si esclude che la relazione tra C2 e CI sia linguistica, l'argomento epistemologico sopra delineato non funziona. Certo, come abbiamo argomentato in precedenza, dato un complesso denotante che non comprenda entità linguistiche e non denoti entità linguistiche, per Russell deve esistere almeno un complesso denotante che denoti il primo indipendentemente da qualsiasi linguaggio. Ma il problema è: dobbiamo necessariamente avere un accesso epistemico a un tale complesso? Può essere che Russell ritenesse che, se siamo in familiarità con un complesso denotante, dobbiamo poter formare proposizioni su tale complesso che non includano riferimenti ad espressioni linguistiche. Ma, anche così, l’argomento non mi pare cogente: dopotutto, ogni volta che pensiamo un complesso denotante, sembra che possiamo riferirci a esso con la descrizione “il complesso denotante cui ho appena pensato”, che non implica riferimenti a espressioni linguistiche. Inoltre, non ho trovato nessun’evidenza testuale che Russell si sia posto un problema legato all’acquaintance con i complessi denotanti, né nel passo dell’“Elegy di Gray” di “On denoting”, né nei passi paralleli di “On fundamentals”,”° e neppure in “On meaning and denotation”, il primo testo in cui Russell opina che una proposizione che verta su un complesso denotante deve contenere un altro complesso che denoti il primo. Ritengo che — nell’argomento dell’“Elegy di Gray” — Russell non intendesse avanzare nessuna questione epistemica e che, scrivendo «e dove dovremmo trovare il complesso denotante “C” che deve denotare C?», intendesse solo suggerire che, se la teoria dei complessi denotanti non è in grado di suggerire nessun metodo sistematico per ottenere, da ogni complesso C1, un complesso C2 che lo denoti indipendentemente dall'esistenza di un linguaggio qualsiasi, allora l’esistenza di un tale C2 — e anzi, di fatto, l’esistenza di un numero infinito di entità, C2, C3, C4, ..., ciascuna delle quali deve denotare la precedente —

diviene un’assunzione ontologica implausibile.

Secondo quest’interpretazione, Russell non pensava a questa parte del passo dell’“Elegy di Gray” come a una dimostrazione conclusiva dell’impossibilità dei concetti denotanti, ma solo della loro problematicità. In effetti, concludendo questa parte del passo dell’“Elegy di Gray”, Russell non dice: “questo è impossibile”, come se avesse dimostrato per assurdo — fondandosi, per es., sul principio dell’acquaintance — l'impossibilità dei complessi denotanti, ma dice solo «questa non è una spiegazione». ?! Un esempio di Nathan Salmon ([2005], p. 1106) è il complesso denotante che ha dato ai lettori di Russell più mal di testa di ogni altro. Nell’interpretazione di Salmon ([2005], pp. 1104-1106) la difficoltà individuata da Russell nella prima parte dell’’“Elegy di Gray” sarebbe che, poiché vi sono molti complessi denotanti che denotano uno stesso complesso C1 — e, come dice Russell, «non c'è via di ritorno dalle denotazioni ai significati» — dato un complesso denotante indicato dell’espressione denotante che sta al posto di “C” non esiste un modo di selezionare i complesso indicato dal simbolo “(C)”. Nelle parole di Salmon: «Il problema è di identificazione [del complesso indicato da “(C)”]: Quale degli infiniti complessi in questa classe di equivalenza [di complessi denotanti che denotano uno stesso complesso denotante] esso è?» (Salmon [2005], p. 1106). Non potendo identificare il complesso denotante (C), secondo il Russell di Salmon, non saremmo

in

grado di comprendere nessun enunciato in cui compare “(C)”: una cosa assurda (v. Salmon [2005], p. 1105). Quest’interpretazione non mi convince, alla luce del fatto che, nel contesto della sua nuova teoria delle descrizioni, Russell sostiene che i nomi propri ordinari siano abbreviazioni di descrizioni, ma ammette che /o stesso nome proprio possa corrispondere a diverse descrizioni (v. sotto, $ 5.3). Se la mancanza di unicità dell’indicazione, per es., di ‘“{il primo verso dell’Elegy di Gray)” fosse per Russell un problema, dovrébbe esserlo anche il fatto che, per esempio, udendo il nome “Giulio Cesare” non possiamo sapere di quale descrizione esso costituisca un’abbreviazione: ma non è

così: in “Knowledge by acquaintance and knowledge by description” e nei Problems of Philosophy, per es., Russell scrive: «iaclioo la descrizione necessaria a esprimere il pensiero [di chi usa un nome proprio] sarà diversa per persone diverse, o per la stessa persona » tempi

diversi. La sola cosa costante (finché il nome è usato correttamente) è l’oggetto cui il nome si applica» (Russell [1911e], p. 216; Russell [1912a], cap. 5, pp. 84-85). V. anche, in proposito, Russell [1911e], pp. 216-217, e Russell [1912a], cap. 5, p. 86. uleù Si osservi che la nozione di acquaintance è spiegata bene proprio all’inizio di “On denoting”. Se davvero nell’“Elegy di Gray” Russell

intendeva porre un problema legato all’acquaintance con i complessi denotanti, diventa dunque difficile spiegare perché la parola “age

quaintance” sia assente dall’intero passo (così come dalle considerazioni parallele svolte in “On fundamentals”), per ritornare solo alla fine dell’articolo. (Per un rilievo simile, v. Noonan [1996], p. 92.)

La teoria delle descrizioni

485

Possiamo ora comprendere che cosa intendeva Russell quando, all’inizio dell’“Elegy di Gray”, riassumeva le difficoltà che abbiamo esaminato dicendo che «non possiamo riuscire sia a preservare la connessio ne tra significato e denotazione sia a impedire che essi divengano una cosa sola; e anche che il significato non può essere raggiunto se non per mezzo di espressioni denotanti».? Per Russell, l’unico modo chiaro di preservare una relazione sistematica tra C2 e C1 è quello di identificare C2 con C1 (come accadeva nei Principles). Ma se un complesso denotante non può comparire in modi diversi nelle proposizioni, questa maniera di preservare la connessione tra C2 e CI provoca il collasso generale della distinzione tra significato e denotazione. Supponiamo, infatti, che C2 e CI siano la stessa entità. Allora, poiché C1 è un complesso denotante, anche C2 dev'essere un complesso denotante. Se sostituiamo C2 a CI in una proposizione, la proposizione risultante deve vertere su C1, perché questo è appunto il ruolo che abbiamo assegnato a C2. Ma C2 è, abbiamo detto, un complesso denotante, e i complessi denotanti possono comparire in una proposizione solo denotando ciò su cui verte la proposizione. Quindi C2 dev'essere qualcosa che denota C1. Ma siccome abbiamo supposto che C2 sia uguale a C1, e CI denota la denotazione di C1, C2 deve anch’esso denotare la denotazione di C1. Quindi C2 denota sia C1, sia la denotazione di

CI. Poiché la relazione tra concetti denotanti e la loro denotazione è molti-uno (diversi complessi denotanti possono avere la stessa denotazione, ma un complesso denotante non può avere due denotazioni), ne segue che C1 e la denotazione di C1 devono essere la stessa cosa. Quindi, se C2 e C1 sono la stessa entità, e icomplessi denotanti non possono comparire in una proposizione in modo da non denotare, anche C1 e la sua denotazione sono la stessa entità, e ogni distinzione tra significato e denotazione collassa.’* Per impedire il collasso della distinzione tra significati e denotazioni dobbiamo sostenere che C2 è un’entità distinta da C1 («il significato non può essere raggiunto se non per mezzo di espressioni denotanti», cioè di espressioni che indichino un complesso C2, diverso da CI, che denoti C1); ma in questo modo, secondo Russell, rimaniamo senza alcuna spiegazione di quale sia la relazione sistematica tra C1 e C2. Nell'ultima parte del brano dell’“Elegy di Gray”, Russell avanza un argomento supplementare, contro la teoria che distingue significato e denotazione, che non è presente in “On fundamentals”: Inoltre, quando in una proposizione compare [occur] C [C1], non è solo la denotazione [di C1] a comparire (come vedremo nel prossimo capoverso); tuttavia, secondo il punto di vista in questione [la teoria dei complessi denotanti], C è solo la denotazione, il

significato essendo confinato interamente a “C? [(C)]. Questo è un groviglio inestricabile, e sembra dimostrare che l’intera distinzione tra significato e denotazione è stata concepita in modo errato. Che il significato sia rilevante [relevant] quando un’espressione denotante compare in una proposizione è dimostrato formalmente dal puzzle sull’autore di Waverley. La proposizione “Scott era l’autore di Waverley” ha una proprietà non posseduta da “Scott era Scott”, cioè la proprietà che Giorgio IV voleva sapere se essa fosse vera.[°°] Così queste due non sono proposizioni identiche; quin-

di il significato di “l’autore di Waverley? dev’ essere rilevante quanto la denotazione, se aderiamo al punto di vista cui appartiene questa distinzione. Tuttavia, come abbiamo appena visto, finché aderiamo a questo punto di vista, palmo costretti a sostenere che

solo la denotazione possa essere rilevante. Così il punto di vista in questione dev'essere abbandonato.”

L'argomento appare confuso a causa dell’uso delle parole “comparire” e “rilevante” in sensi completamente diversi. ‘“Comparire” in una proposizione è dapprima usato nel senso usuale di “essere un costituente” della proposizione; ma subito dopo non può essere inteso altrimenti che nel senso idiosincratico di “essere rilevante per il va9 Russell [1905c], p. 49. % Questa spiegazione si trova in Makin [1995], p. 391, e Makin [2000], cap. 2, $ II, p. 28. ?

Una

nota

storica

può

forse essere

utile per inquadrare

meglio

questi

|

e

esempi russelliani, che ricorrono

in tutta la letteratura

sull’argomento. Waverley, il primo romanzo di Walter Scott — che segnò la nascita del romanzo storico —, fu pubblicato anonimo nel 1814. Walter Scott era già noto all’epoca come poeta, e temeva il discredito intellettuale che all epoca colpiva gli autori di romanzi. Waverley ebbe tuttavia uno straordinario successo, e la voce che Scott ne fosse l’autore cominciò a circolare. Nel 1815, l’allora principe ESA d'Inghilterra —

conosciuto con il soprannome di “primo gentiluomo d'Europa” per il suo stile atfettato e stravagante, e che poi regnerà

come Giorgio IV dal 1820 al 1830 — invitò Scott a un banchetto durante il quale proclamò un brindisi all autore diWaverley , per indurre Scott ad ammettere la paternità del romanzo, ma senza successo (v. John Gibson Lockhart, Memoirs of the Life of Sir Walter Scott, vol. 33 Boston MA, Otis, Broaders,

1837, cap. 10, pp. 349-350 — edizione in facsimile: Boston MA, Elibron Classics, 2006). Dopo il 1814, il pro-

lifico Scott scrisse ancora molte novelle e romanzi e — sebbene fosse ormai caduta la motivazione originale a mantenere l'anonimato o SI fosse ampiamente diffusa la notizia che egli fosse l’autore di Waverley — continuò per vezzo a lasciare anonime la maggior Pata duo sue e/o opere narrative, firmandole “by the author of Waverley”, talora aggiungendo a “Waverley il titolo di un’altra sua ara MonasSa ( sia (1849): ala he 1 (1815), Mannering Guy sono: caratterizzate così Scott di (Opere “&c.”. semplicemente tery (1820), The Abbot (1820), Kenilworth (1821), The Fortunes of Nigel (1822), Peveril of the Peak (I822), The È irate (1822), Quentin ca Durward (1823), Redgauntlet (1824), Tales of the Crusaders (1825), ( ‘hronicles of the Canongate (1827), I se Di. QiMELIA parte (1827), Anne of Geierstein (1829).) Scott ammise ufficialmente la sua identità di

to per nessuno — solo nel 1827, cinque anni prima della morte.

% Russell [1905c], pp. 50-51.

“autore di Waverley”

— che ormai non era un segre-

capitolo 7

486

lore di verità” della proposizione. La stessa ambiguità si trova nell’uso della parola “rilevante”: in «quindi il significato di “l’autore di Waverley” dev'essere rilevante» essa significa “rilevante per l’identità” di una proposizione, mentre dopo «Tuttavia, come abbiamo appena visto [...]» non può significare che “rilevante per il valore di verità” di una proposizione. Così il secondo capoverso del brano è viziato da una fallacia di equivocazione tra i due sensi di “rilevante”. Il ragionamento dovrebbe avere la forma: “Il significato dev'essere rilevante, ma la teoria dei complessi denotanti implica che non sia rilevante; dunque la teoria dei complessi denotanti è sbagliata”; ma disambiguando la parola “rilevante”, otteniamo questo non sequitur: “Il significato dev'essere rilevante per l’identità delle proposizioni, ma la teoria dei complessi denotanti implica che non sia rilevante per il loro valore di verità; dunque la teoria dei complessi denotanti è sbagliata”. Se “rilevante” significasse uniformemente “rilevante per il valore di verità” di una proposizione, allora sarebbe falso che il significato di “l’autore di Waverley” sia rilevante nella proposizione espressa da “Scott era l’autore di Waverley”. Se “rilevante” significasse uniformemente “rilevante per l’identità” di una proposizione, sarebbe falso che, secondo la teoria dei complessi denotanti, «solo la denotazione possa essere rilevante»: al contrario, tale teoria implica che i/ significato debba essere rilevante; per esempio, secondo la teoria in questione, la proposizione espressa da “Scott è l’autore di Waverley” si distingue da quella espressa da “Scott è Scott” perché nella seconda compare l’individuo Scott al posto del significato l’autore di Waverley. Quest'ultimo punto era sicuramente chiaro a Russell, perché è proprio su questa base che, nei Principles, egli spiega la possibile informatività degli asserti di identità: Perché talora vale la pena di affermare l’identità? Questa domanda trova risposta nella teoria del denotare. Se diciamo “Edoardo VI è il re”, asseriamo un’identità; la ragione per cui vale la pena di fare quest’asserzione è, che in un caso compare il termine reale [cioè, Edoardo VII], mentre nell’altro prende il suo posto un concetto denotante. [...] Spesso compaiono due concetti denotanti, e il termine stesso non è menzionato, come nella proposizione “Il Papa attuale è l’ultimo sopravvissuto della sua generazione”. Quando è dato un termine, l’asserzione della sua identità con se stesso, benché vera, è perfettamente futile, e non si fa mai all’infuori che nei

libri di logica; ma quando s’introducono i concetti denotanti, l’identità si rivela subito significante.”

Russell rinvia esplicitamente a questa spiegazione degli asserti di identità — offerta nel contesto della sua precedente teoria — nello stesso articolo “On denoting”, quattro pagine prima del brano che stiamo esaminando.’ È dunque implausibile che egli potesse davvero avere in mente una presunta difficoltà della teoria dei complessi denotanti nel rendere conto della diversità tra le proposizioni espresse, rispettivamente, da “Scott è l’autore di Waverley” e da “Scott è Scott”. Il problema, per la teoria dei Principles, non è quello di render conto della differenza tra una proposizione che contiene un termine e una proposizione che al suo posto contiene un concetto denotante, ma quello di render conto della possibile differenza dei valori di verità di tali proposizioni. Ritengo che fosse proprio questo il problema che Russell aveva in mente, nell’ultima parte dell’“Elegy di Gray”. Russell punta a questo problema nel primo capoverso del brano in esame, che andrebbe letto all’incirca così: “Quando in una proposizione compare CI (nel senso che C1 è uno dei suoi costituenti) non è solo la denotazione di C1 a comparire (nel senso che non è solo la denotazione di C1 ad essere rilevante per il valore di verità della proposizione); tuttavia, secondo la teoria dei complessi denotanti, è solo la denotazione di C1 ad essere rilevante per il valore di verità della proposizione, perché una proposizione in cui fosse rilevante C1 non conterrebbe C1, ma C2”. Nel secondo capoverso del brano, Russell dovrebbe usare la parola “rilevante” in riferimento al valore di verità delle

proposizioni, ma va fuori strada presentando il problema come se la teoria dei complessi denotanti non potesse rendere conto della differenza tra la proposizione espressa da “Scott era l’autore di Waverley” e quella espressa da

“Scott era Scott”. Si tratta di una svista. Il problema, in realtà, è costituito dai valori di verità di alcune proposizioni di cui le proposizioni menzionate — secondo Russell — sono costituenti. Per esempio, delle proposizioni espresse da “Giorgio IV voleva sapere se l’autore di Waverley fosse Scott” e da “Giorgio IV voleva sapere se Scott fosse Scott”, la prima è vera e la seconda è falsa, ma la teoria dei complessi denotanti non è in grado di distinguerne i valori di verità. Perché, secondo questa teoria, se in una proposizione compare un complesso denotante CI, la proposizione verte sulla denotazione di C1, e dunque il suo valore di verità dipende dalla denotazione di

CI, non da CI stesso (per avere una proposizione per il cui valore di verità fosse rilevante C I, in essa dovrebbe comparire non C1, ma C2).

A quest'argomento, Frege avrebbe replicato che, nell’enunciato “Giorgio IV voleva sapere se Scott era l’autore di Waverley”,

l’espressione

27 Russell [1903a], $ 64, p. 64. 9 V. Russell [1905c], p. 46.

“l’autore

di Waverley”

non

si riferisce a Scott —

come

in “Scott era l’autore di

La teoria delle descrizioni

487

Waverley” —, ma al senso di “l’autore di Waverley”.® Infatti, secondo Frege, nei contesti indiretti (quelli che per Russell sono i contesti di atteggiamento proposizionale), un enunciato subordinato non si riferisce a un valore di verità — come Frege ritiene avvenga nei contesti ordinari — ma al senso (Sinn) che l’enunciato ha nei contesti ordinari, cioè a quello che Frege chiama pensiero (Gedanke) espresso dall’enunciato nei contesti ordinari. Quindi, per esempio, in “Giorgio IV voleva sapere se Scott era l’autore di Waverley”, enunciato subordinato “Scott era l’autore di Waverley”, si riferirebbe al pensiero che Scott è l’autore di Waverley, di cui il senso di “l’autore di Waverley” è un componente. Così, Frege può evitare la difficoltà messa in luce da Russell negando che “l’autore di Waverley” abbia la medesima denotazione in tutti i contesti. Per metterla in un linguaggio russelliano, secondo Frege la stessa espressione denotante può indicare C1 o C2 secondo che l’espressione compaia in un contesto diretto o in un contesto indiretto. Questa soluzione è però impercorribile nella concezione russelliana delle proposizioni come riferimento degli enunciati, costituite (tranne che nel caso dei concetti denotanti) dai riferimenti delle espressioni che compaiono negli enunciati. Dal punto di vista di Russell, sostenere che in “Giorgio IV voleva sapere se Scott era l’autore di Waverley” “l’autore di Waverley” si riferisce al suo significato ordinario sarebbe semplicemente proporre d’interpretare l’enunciato come “Giorgio IV voleva sapere se Scott era il senso di ‘l’autore di Waverley” — che ovviamente non esprime in modo corretto la supposta curiosità di Giorgio IV. Riassumendo, secondo l’interpretazione che abbiamo fornito, l’argomento dell’“Elegy di Gray” si sviluppa come segue: (1) I significati, se ci sono, s’identificano con i complessi denotanti.

(2) Secondo la teoria della verità sostenuta nei Principles, per ogni entità, devono esserci proposizioni che vertono su di essa. (3) Per ogni complesso denotante che c’è indipendentemente dal linguaggio, C1, devono esserci proposizioni, indipendenti dal linguaggio, vertenti su C1. (4) Se in una proposizione compare un complesso denotante, la proposizione verte sempre sulla denotazione del complesso. (5) Dunque, una proposizione su un CI indipendente dal linguaggio non può semplicemente contenere C1 come costituente, ma deve contenere un costituente C2, distinto da C1, che denoti C1 (indipendentemente da qualsiasi linguaggio). (6) Inoltre, C2 non deve contenere C 1, altrimenti (per (4)) C1 sarebbe una funzione della sua denotazione. (7) Dunque, la teoria non fornisce nessun metodo sistematico per trovare C2 a partire da C1: la relazione tra C2 e C1 è misteriosa. pò, (8) Inoltre, la distinzione tra un complesso denotante e la sua denotazione non spiega la possibile differenza in valore di verità tra un enunciato

in cui compare

una descrizione come,

per es., “l’autore di Waverley”,

e

l’enunciato che si ottiene dal primo sostituendo alla descrizione un nome come, per es., “Scott”.

Tutta la prima parte dell’ argomentazione s’impernia sull’asserita impossibilità che una proposizione contenente un complesso denotante verta sul complesso medesimo. Questa difficoltà si può superare se si suppone — diversamente da Russell — che a vertere su qualcosa, o ad essere veri o falsi, siano gli enunciati, e non le proposizioni da essi indicate. Supponiamo, infatti, che le proposizioni espresse da “Il primo verso dell’Elegy di Gray esprime una proposizione” e “(Il primo verso dell’Elegy di Gray) non esprime una proposizione” contengano entrambe il concetto denotante il primo verso dell’Elegy di Gray. Ciò non impedisce che l’'enunciato Il primo verso dell’Elegy di Gray esprime una proposizione” verta sulla denotazione del concetto ilBELGIO Verso dell’Elegy di Gray, e che l’enunciato “Il primo verso dell’Elegy di Gray) non esprime una proposizione verta invece sul concetto denotante stesso. Gli enunciati, infatti, sono distinti, perché il primo contiene una descrizione, mentre il secondo contiene il nome del concetto denotante indicato dalla descrizione. Anche se, come suppone Russell, il concetto denotante i/ primo verso dell’Elegy di Gray denota sempre la sua denotazione (perché la relazione di denotazione è una relazione logica, che non può sussistere o non sussistere secondo le Piet te sia dala prima proposizione, sia nella seconda, ciò non comporta che l’espressione “Il primo verso QGlEISRy di Gray) si riferisca a “The curfew tolls the knell of parting day”. Per chiarire bene il punto, chiamiamo indicazione” la relazione tra i simboli che compaiono in un enunciato e i rispettivi costituenti della proposizione espressa Sol enunciato, G “denotazione” la relazione tra concetti denotanti e le loro denotazioni; simboleggiamo con “+” la relazione e-

°° V. sopra, cap. 5, $ 1.

capitolo 7

488

o tra una spressa da “indica o denota”; chiamiamo “designazione” la relazione tra un nome e il suo riferimento, i descrizione e l’oggetto da essa descritto (se esso esiste); infine diciamo che un enunciato verte sulle designazion così: re schematizza allora può si situazione La contenuti. dei nomi e delle descrizioni definite in esso (A) “Il primo verso dell’Elegy di Gray” + /l primo verso dell’Elegy di Gray > “The curfew tolls the knell of parting day”.

(B) “(Il primo verso dell’Elegy di Gray)” + // primo verso dell’Elegy di Gray > “The curfew tolls the knell of parting day”. Possiamo allora sostenere che (A) implica:

(A) “Il primo verso dell’Elegy di Gray” designa “The curfew tolls the knell of parting day”, ma (B) non implica:

(B’) “(Il primo verso dell’Elegy di Gray)” designa “The curfew tolls the knell of parting day”. È infatti possibile sostenere che “x + y + 2” implica “x designa 2” qualora x sia una descrizione, y un concetto denotante indicato da x, e z la denotazione di y, ma che “x > y + 2” non implica “x designa 7° se x è il nome di un concetto denotante, y è il concetto stesso, e z è la denotazione di y. Inoltre, qualora x sia una descrizione di un complesso denotante, y il concetto denotante da essa indicato, z il concetto denotante denotato da x, e v è la deno-

tazione di z, si può sostenere che “x > y > z + v” implica “x designa 2”, ma non implica “x designa cat Russell, naturalmente, all’epoca riteneva che a vertere su qualcosa, e ad essere portatrici di valori di verità, siano le proposizioni, e avrebbe visto in due enunciati che esprimono la stessa proposizione due espressioni sinonime. Ci si può dunque chiedere se sia possibile modificare la spiegazione appena fornita sostenendo che, per es., il complesso i/ primo verso dell’Elegy di Gray compaia nelle proposizioni in modo diverso, secondo che sia indicato dalla descrizione “Il primo verso dell’Elegy di Gray”, come in (A), o da un nome, come in (B). La difficoltà è che un enunciato in cui una descrizione compaia nella posizione di soggetto, e lo stesso enunciato in cui, al posto della descrizione, ci sia il suo nome, corrisponderanno entrambi a una proposizione contenente lo stesso complesso denotante, che denoterà in entrambi i casi (perché la relazione di denotazione è una relazione logica) la sua denotazione. Se la seconda proposizione verte su qualcosa di diverso dalla prima, non si può sostenere, come nei Principles, che quando un complesso denotante denota, la denotazione è ciò su cui verte la proposizione in cui esso compare. Ma allora come decidere su che cosa verte una proposizione? Che cosa rende conto della differenza tra le proposizioni che vertono sulla denotazione di un complesso denotante e quelle che invece vertono sul complesso stesso? Poiché non si può rispondere ricorrendo agli enunciati che esprimono le proposizioni — perché in questo modo si tornerebbe a fare degli enunciati i fondamentali portatori di valori di verità, mentre le proposizioni (in senso ontologico) verterebbero su qualcosa, e sarebbero vere o false, solo in un senso derivato — la teoria dei complessi denotanti non sembra in grado di offrire nessuna risposta." Ammettendo, però, che una proposizione in cui compare un complesso denotante non possa vertere sul complesso stesso, Russell non dimostra che non possa esistere una relazione sistematica che, per ogni complesso de-

100 Brogaard [2006], pp. 60-64, propone un argomento simile, ma in termini della sola relazione espressa da “+”, che l’autrice identifica con una relazione di denotazione che varrebbe sia tra simboli e concetti denotanti, sia tra concetti denotanti e denotazioni, sia tra simboli e denotazioni dei concetti denotanti da essi simboleggiati. Brogaard afferma che tale relazione soddisferebbe il criterio di transitività nel caso in cui si abbia “x > y +

2” dove x è una descrizione definita, y un concetto denotante indicato da x, e z è la deriotazione di y, mentre la

stessa relazione soddisferebbe il criterio di intransitività se x è il nome di un concetto denotante, y è il concetto stesso, e 2 è la denotazione

di y, oppure se x è un concetto denotante indicato da una descrizione definita, y è un concetto denotante denotato da x, e 2 è la denotazione di y. In breve, “+” esprimerebbe una relazione non transitiva, come quelle espresse da “ama” o “ammira”, per cuì è talora vero che se x ammira y e y ammira z, allora x ammira z, e talora è falso. Il problema, con questa formulazione, è che nel caso in cui x sia una descrizione definita, y un concetto denotante indicato da x, e z la denotazione di y, x starebbe nella relazione + non solo con 2, ma anche con y, e quindi un enunciato in cui compare, per esempio, “l’autore di Waverley” sarebbe sia a proposito di Scott, sia a proposito del concetto denotante l’autore di Waverley. !0! Se lo interpreto correttamente, quella che ho esposto in quest’ultimo capoverso è la posizione sostenuta anche da Landini (v. [1998b]

pp. 63-64, e [1998a], $ 3.1, pp. 74-76).

La teoria delle descrizioni

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notante CI, dia un complesso denotante C2 che denoti C1 indipendentemente dall’esistenza di qualsiasi linguaggio. Infatti, escludere che C2 sia uguale a C1 e che C1 sia parte di C2 non elimina tutte le possibilità teoriche. Per esempio, la possibilità che C2 sia un complesso denotante corrispondente a una descrizione di C1 formulata senza menzionare C1, ma solo i suoi costituenti; qualcosa come: “il complesso che ha per costituenti i soli c;, ... G,, 1e-

lati così e così”.!°° Ma resta che la teoria dei concetti denotanti, anche qui, non offre nessuna risposta al problema della relazione tra C2 e C1. Ed è proprio questa, infine, l’obiezione di Russell: si rammenti che egli scrive «questa non è una spiegazione», non “non è possibile nessuna spiegazione”. Russell poteva tuttavia esimersi dal trovare una soluzione alle difficoltà della semantica dei Principles esposte nel passo dell’“Elegy di Gray” di “On denoting”, perché scoprì una nuova teoria — esposta pubblicamente per la prima volta proprio in “On denoting” — che le eliminava e che sembrava capace di risolvere in modo soddisfacente sia i problemi cui la teoria dei concetti denotanti offriva una risposta, sia quelli che invece essa lasciava irrisolti. Russell abbandonò quindi per sempre i concetti denotanti. “On denoting” fu pubblicato su Mind nell’ottobre del 1905, ma le idee che vi sono contenute risalgono al giugno del 1905. All’inizio del manoscritto “On fundamentals”, che reca, per mano di Russell, la dicitura “Cominciato il 7 giugno”, Russell sostiene ancora la teoria dei concetti denotanti; ma verso la metà delle 53 pagine a stampa del saggio, Russell giunge alla definizione del significato di una descrizione della forma “il così e così” difesa in “On denoting”.' In una lettera datata 13 giugno 1905 all’amica Lucy Donnelly, Russell allude alla scoperta di una nuova teoria delle descrizioni: Per lungo tempo, a tratti mi sono interrogato su quest’indovinello: se due nomi o descrizioni si applicano allo stesso oggetto, qualsiasi cosa sia vera dell’uno è vera anche dell’altro. Ora Giorgio Quarto voleva sapere se Scott era l’autore di Waverley; e Scott era di fatto la stessa persona dell’autore di Waverley. Quindi, mettendo “Scott” al posto di “l’autore di Waverley”, troviamo che Giorgio Quarto voleva sapere se Scott era Scott, cosa che implica un maggior interesse per le Leggi del Pensiero di quanto fosse possibile per il Primo Gentiluomo d’Europa. Questo piccolo puzzle era molto difficile da risolvere; la soluzione, che ora ho trovato, getta molta luce sui fondamenti della matematica e sull’intero problema della relazione del pensiero con le cose.!

L’articolo “On denoting” fu presumibilmente scritto alla fine di luglio del 1905. In una lettera datata 23 luglio 1905, Russell comunicò a Couturat l’esistenza della sua nuova teoria: «A questo riguardo [le espressioni denotanti] ho una nuova teoria che mi piace, e che esporrò in Mind; ma essa è troppo lunga per spiegarla in una lettera». '® L’articolo non era ancora stato scritto perché, alla fine della stessa lettera, Russell scrive: «Quanto all’esistenza, potrò spiegare meglio la mia opinione quando avrò scritto il mio articolo “On denoting phrases”».!°° Il 3 agosto del 1905, l’articolo era completato, come testimonia un passo di una lettera recante questa data a Lucy Donnelly, in cui Russell dice: «Ho scritto un articolo su Giorgio IV per Mind, che apparirà a tempo debito; qui troverai la mi “risposta” [Russell si riferisce ovviamente al puzzle presentato all’amica nella lettera del 13 giugno]».!!” Abbandonati i concetti denotanti, Russell formula la sua teoria parlando di espressioni (phrases) denotanti; in “On denoting” leggiamo: Per “espressione denotante” [denoting phrase] intendo un’espressione come le seguenti: un [a] uomo, qualche [some] uomo, qual

uomo, tutti [a/] gli uomini, l’attuale re d'Inghilterra, siasi [any] uomo, 5 ogni [every] h RASO 5 108 un’espressione è denotante solamente in virtù della sua forma.

l'attuale re di Francia

[...]. Quindi

Che cosa denotano, dunque, le espressioni denotanti? La risposta di Russell rappresenta un mutamento radicale rispetto alla sua posizione precedente: le espressioni denotanti non denotano nulla: «le espressioni denotanti non hanno mai un significato in sé, ma [...] ogni proposizione nella cui espressione verbale esse compaiono ha un si102 Per una considerazione simile, v. Noonan [1996], p. 96. Un'altra possibilità — sempre suggerita da Noonan (ibid.) — sarebbe quella di identificare un concetto denotante (anche se semplice) per sottrazione, identificando un complesso in cui compare (una proposizione) ei suoi costituenti diversi dal concetto stesso. Makin ([2000], cap. 2, $ IV, pp. 39-41) suggerisce che un problema della prima proposta sia

che, dati i costituenti di un complesso, non sia sempre possibile ricostruire il complesso. E basta che ciò non sia possibile io alcuni as Nara pato a perché la proposta in esame non sia in grado di fornire sistematicamente un C2 per ogni C1. Russell, tb to contro questa proposta, che non è fallace in modo ovvio, e che non doveva sembrare tale a Russell, a giudicare dt fatto che egli stesso, 10). dal 1909 al 1913, sosterrà una teoria che dissolve alcuni complessi — le proposizioni — nei loro costituenti (v. sotto, cap.

103 104 105 106 107

V_ [n In In In

Russell Russell Russell Russell Russell

[1905f], punto 40, p. 384. [1967-69], 1872-1914, cap. 6, p. 183. [2001], p. 522. [2001a], p. 524. [1967-69], 1872-1914, cap. 6, p. 184.

108 Russell [1905c], p.41.

capitolo 7

490

gnificato».! Ciò che è fuorviante, facendo pensare che le espressioni denotanti denotino qualcosa, è, secondo Russell, la forma grammaticale degli enunciati in cui esse compaiono. Ecco il perno della nuova dottrina: /a grammatica non è più una guida — come nei Principles — ma è potenzialmente fuorviante. Cominciamo dall’espressione denotante “un a”; scrive Russell: deSupponiamo [...] di voler interpretare la proposizione “Ho incontrato un uomo”. Se questo è vero, ho incontrato qualche uomo finito; ma non è questo ciò che affermo. Ciò che affermo è, secondo la teoria che difendo:

“Ho incontrato x, e x è umano” non è sempre falso”.!!°

Nell’ Introduction to Mathematical Philosophy (1919), Russell spiega il punto con maggiore ampiezza: egli 0sserva che «“Ho incontrato un uomo” e “Ho incontrato Jones” sarebbero tradizionalmente considerate proposizioni della stessa forma [...]»;!!! se però ci si chiede di chi si sta dicendo di averlo incontrato, andiamo incontro a difficoltà: Assumiamo, per il momento, che la mia asserzione sia vera, e che di fatto io abbia incontrato Jones. È chiaro che ciò che asserisco non è “Ho incontrato Jones”. Posso dire “Ho incontrato un uomo, ma non era Jones”; nel qual caso, sebbene io menta, non mi contraddico, come farei se, quando dico che ho incontrato un uomo, intendessi veramente dire che ho incontrato Jones. [...] Possiamo andare oltre: non soltanto Jones, ma nessun uomo reale, entra nella mia affermazione." !°

Non solo; Russell osserva che potremmo dire “Ho incontrato un unicorno”, “Ho incontrato un serpente di mare” e appare ovvio che tali affermazioni non potrebbero vertere su un particolare unicorno o su un particolare serpente di mare, poiché non esistono rappresentanti di tali specie animali.'!5 La conclusione che Russell ne trae è che la forma logica degli enunciati contenenti l’espressione “un 4” non corrisponde alla loro forma grammaticale. Quando si esibisce la vera forma logica degli enunciati in questione, essi, secondo Russell, non contengono più l’espressione “un a”. In generale — scrive Russell in “On denoting” —, se “C(x)” è preso «a significare una proposizione [in una nota inserita a questo punto si legge: «Più esattamente, una funzione proposizionale»] in cui x è un costituente, dove x, la variabile, è essenzialmente e interamente indeterminata», !4 allora:

“C(un uomo)” significa: “E falso che ‘C(x) e x è umano’ è sempre falsa”.!!° In quest’ultimo enunciato non compare più l’espressione “un uomo” e quindi la sua interpretazione non richiede affatto che si trovi un’entità che sia denotata da “un uomo”. Si noti che in “On denoting” — diversamente che nei Principles — Russell considera le espressioni “un a” e “qualche a” come sinonime. Lo stesso vale per le espressioni “tutti gli a’, “ogni a” e “qualsiasi a”: i loro signifi-

cati erano distinti, nei Principles, mentre in “On denoting” esse sono considerate sinonime. Riguardo a “tutti gli a”, in “On denoting” Russell osserva che, per es., la proposizione espressa da “Tutti gli uomini sono mortali” sembra avere una forma soggetto-predicato esattamente come “Socrate è mortale”, ma si tratta di un'impressione 99

ingannevole, perché «[q]uesta proposizione [...] è in realtà ipotetica e afferma che se qualche cosa è un uomo, al-

lora essa è mortale».'!° È probabile che le argomentazioni a favore del trattamento dei giudizi universali come

10° Russell [1905c], p. 43. V. anche Russell [1905c], p. 45 e p. 51. Si confronti con ciò che Frege dice nella Begriffsschrift (1879) dell’espressione “ogni numero intero positivo”: «L'espressione “ogni numero intero positivo” non fornisce, come “il numero 20”; di per sé stessa un’idea indipendente [se/bstindige Vorstellung], ma acquisisce un senso solo attraverso il contesto di un enunciato» (Frege [1879], $ 9, p. 17). Levine ([2005], pp. 88-92), ha richiamato l’attenzione su questo passo, suggerendo che esso possa essere «la fonte della caratte-

rizzazione russelliana delle espressioni denotati come prive di “significato in se stesse” (Levine [2005], p. 91).

!!0 Jpid.

!!! Russell [1919a], cap. 16, p. 168.

112 Russell [1919a], cap. 16, pp. 167-168. 1!3 V. Russell [1919a], cap. 16, p. 168. 114 Russell [1905c], p. 42. In “On denoting” Russell non fornisce altre spiegazioni su che cosa intenda per “funzione proposizionale”. La questione del significato preciso che quest’espressione assume, attraverso i vari scritti di Russell — che ho trattato in diversi punti di questo lavoro (v. sopra, cap. 6, $ 8, e sotto, cap. 9, $ 2.2.2 e cap.

11,$ 1) —, è complessa e importante, ma non direttamente rilevante qui. Per i

scopi attuali, possiamo qui intendere “C” come una lettera schematica che sta al posto di un predicato monadico, e “C@)” come uno| schema che sta al posto di un enunciato aperto contenente la variabile “w”.

!!5 V. Russell [1905c], p. 44. !!° Russell [1905c], p. 43.

La teoria delle descrizioni

491

giudizi ipotetici portate da Bradley nei suoi Principles of Logic (1883)!!” abbiano avuto un ruolo nel mutamento di prospettiva di Russell, al riguardo, perché in una nota a piè di pagina inserita nella frase precedente, subito dopo proposizione”, Russell osserva: «Com'è stato abilmente sostenuto nella Logica di Mr. Bradley, libro I, cap. Il». * In “On denoting”, Russell non dice di più, ma una discussione più ampia del significato della locuzione “tutti gli uomini” si può trovare nel terzo paragrafo dell’articolo “Mathematical logic as based on the theory of types”, scritto da Russell nel 1907, dove è presente ancora lo stesso riferimento ai Principles of Logic di Bradley.!!° Nel luogo citato, Russell individua tre principali obiezioni alla tesi secondo cui “tutti gli uomini” dovrebbe essere visto come un soggetto avente una denotazione. Un’obiezione è la seguente: Se questo punto di vista fosse giusto, sembra che “Tutti gli uomini sono mortali” non potrebbe essere vero qualora non vi fossero uomini. Tuttavia, come ha rilevato Mr. Bradley, [in una nota a piè di pagina inserita a questo punto, Russell si riferisce a «Logic, Parte I, Capitolo II»] “I trasgressori saranno perseguiti” può essere perfettamente vero anche se nessuno trasgredisce [v. Bradley [1883], vol. I, libro I, cap. 2, $ 6, p. 47; 2° ediz., p. 48]; e quindi, come anch'egli sostiene, siamo condotti a interpretare tali proposi-

zioni come ipotetiche, con il significato di “Se qualcuno trasgredisce, sarà perseguito”, dove l’ambito [range] dei valori che x può avere, qualunque esso sia, non è certamente limitato a coloro che realmente trasgrediscono. Similmente “Tutti gli uomini sono mortali” significherà “Se x è un uomo, x è mortale”.!°0

In secondo luogo: Anche se ci fosse un oggetto come “tutti gli uomini”, è chiaro che non è a quest’oggetto che attribuiamo la mortalità quando diciamo “Tutti gli uomini sono mortali”. [...] Così, la supposizione che ci sia un oggetto come “tutti gli uomini” non ci aiuterà a interpretare “Tutti gli uomini sono mortali”. !°!

La terza obiezione è che: Sembra ovvio che, se incontriamo qualcuno che può essere un uomo o può essere un angelo travestito, rientra nel raggio d’azione [scope] di “Tutti gli uomini sono mortali” l’asserire “Se questo è un uomo, esso è mortale”. Così ancora, come nel caso dei trax

sgressori, sembra chiaro che ciò che stiamo in realtà dicendo è “Se qualcosa è un uomo, esso è mortale”, e che la questione se questo o quello sia un uomo non ricade nel raggio d’azione della nostra asserzione, come sarebbe se il tutti si riferisse [referred] a “tutti gli uomini”. aL}

122

Russell ne conclude che “Tutti gli uomini sono mortali” «può essere formulata [stated] più esplicitamente nella RE, x x 128

forma

“E sempre vero che se x è un uomo, x è mortale”».

In “On denoting”, Russell dice che, in generale, se C(x) è una funzione proposizionale (cioè, se “C” è una lette-

ra schematica per un predicato monadico): “C(tutti gli uomini)” significa: SS IS > x ““Se x è umano, allora C(x) è vera’ è sempre vera”.

124

Infine, il significato di “nessun uomo” — sul quale i Principles non si soffermavano — in “On denoting” è ricavato dal significato di “tutti gli uomini”: “C(nessun uomo)” significa: “ CA)”;

“C(nessun uomo)” significa: “(x) (x è un uomo > E! (12) in altre parole, se (7x)(9x) ha una proprietà qualsiasi, allora deve esistere: così, per esempio, se il presidente della repubblica italiana (nel 2014) è calvo, allora esiste uno e un solo presidente della repubblica italiana. Questo teon V. Russell [1905c], pp. 51-52; [PM], vol. I, introduzione, cap. 3, p. 68; Russell [1919a], cap. 16, p. 179. “ [PM], vol. I, #14.01.

236 V. [PM], vol. I, *14.02. 237 V. [PM], vol. I, #14.21.

La teoria delle descrizioni

SID

rema dei Principia è, naturalmente, l’opposto del principio meinonghiano dell’indipendenza dell’essere-così [Sosein] dall’essere [Sein], secondo cui un oggetto può avere proprietà anche se non ha l’essere.??

3.3. Formalmente, gli indicatori d'ambito sono sempre necessari; Russell osserva tuttavia che, se si escludono contesti intensionali, una differenza d'ambito di una descrizione definita può mutare il valore di verità di un enunciato solo se non esiste uno e un solo individuo che abbia la proprietà implicata nella descrizione. Così, per esempio, “Esiste uno e un solo individuo che era presidente della Repubblica italiana nell’anno 2014, ed esso all’epoca non era calvo”, o “Non esiste uno e un solo individuo che era presidente della Repubblica italiana nell’anno 2014 e che all’epoca era calvo”, sono enunciati che hanno sempre il medesimo valore di verità (sono entrambi falsi), poiché, di fatto, esiste uno e un solo individuo che era presidente della Repubblica italiana nel 2014: Giorgio Napolitano, il quale all’epoca era calvo. Il principio illustrato da quest’esempio è espresso nel seguente teorema dei Principia:

(D(Ap=4>fP)=f(4) AE! (0) > FA (PY]

10m) = [1 (PV FA (PI)

Dove la condizione:

P(9dp=I23f)=f(9), esprime il requisito che f sia una funzione estensionale.”*° Naturalmente, questo requisito è sempre soddisfatto per le funzioni proposizionali che interessano la matematica. 238 V. sopra, $ 2.

2 V. [PM], vol. I, +14.3.

|

240 È importante che si escludano i contesti intensionali, perché in tali contesti non è più vero in generale che, se esiste uno e un solo x tale che ha la proprietà @ %, il valore di verità di un enunciato in cui compare la descrizione ‘“(7x)(@x)” resti immutato quale che sia l’ambito

della descrizione. Per esempio, l’ enunciato “Giorgio IV voleva sapere se l’autore di Waverley si chiama Scott” può avere diversi valori di verità a seconda dell’ambito della descrizione, anche se è vero che esiste uno e un solo autore di Waverley. Se l’occorrenza della descrizione “l’autore di Waverley” è intesa come primaria, allora l’enunciato precedente dev'essere interpretato come: “C’è uno e un solo autore di Waverley e Giorgio IV voleva sapere, di quest'uomo, se egli si chiama Scott”. Ma se l’occorrenza della descrizione “l’autore di Waverley” è intesa come secondaria, allora “Giorgio IV voleva sapere se l’autore di Waverley si chiama Scott” dev'essere interpretato come “Giorgio IV voleva sapere se c’è uno e un solo autore di Waverley, il quale si chiama Scott”.

; i i sn Come ha rilevato Arthur F. Smullyan ([1948]), anche nei contesti modali una differenza d’ambito si può ripercuotere sul valore di verità

di un enunciato, anche qualora la condizione che esista uno e un solo oggetto avente la proprietà data nella descrizione sia soddisfatta. Per esempio, l’enunciato “Necessariamente il numero dei pianeti è maggiore di 5” può avere differenti valori di verità a seconda dell ‘ambito attribuito alla descrizione “il numero dei pianeti”. Infatti, se l’occorrenza della descrizione è intesa come primaria, allora abbiamo l’ enunciato

vero: “Esiste una e una sola cosa che è il numero dei pianeti, e questa cosa è necessariamente maggiore di 5” (infatti, il numero 9 è necessariamente maggiore di 5); ma se l’occorrenza è intesa come secondaria, allora abbiamo l’enunciato falso: “Necessariamente esiste una e una sola cosa che è il numero dei pianeti, e questa cosa è maggiore di 5” (non è una necessità logica che i pianeti siano più di SÌ i tori L. Linsky ([1966], pp. 679-680) sostiene che, in almeno tre brani dei Principia si afferma che l’ambito di una descrizione è sempre indifferente, purché esista l’oggetto descritto. Uno di questi brani si trova in sia (vol. I p. 184). Qui — presentando sei teoremi che permettono di considerare indifferente l’ambito di una descrizione — gli autori dei Principia scrivono: «Il proposito delle proposizioni seguenti è mostrare che, quando E!(7x)(@x), l’ambito di (7x)(@x) non ha importanza per il valore di verità di qualsiasi proposizione in cui compare ciano I dt nr; (1x)(@x)». Ma vediamo cosa dice il testo che segue: seguenti Dora «Questa proposizione non si può dimostrare in generale, ma si può dimostrare in ciascun caso particolare. a Ai no il metodo [che si può usare per dimostrare i casi particolari], che procede sempre per mezzo di *14.242, *10.23 e #14.11. La ORI

ne può essere dimostrata in generale quando (7x)(@x) compare nella forma X(1x)(Px), e X( 12) (PX) compare in quella che possiamo chiamare una “funzione di verità”, cioè una funzione la cui verità o falsità dipende solo dalla verità o falsità del suo argomento, o dei suoi ar-

e la dimostrazione del teorema generale 14.3 dei Principia che abbiamo riportato sopra, nel testo. Poi il testo dei ne incipi ue (vol. I, p. 185): i a 0a sorioapplicazioni immediate della precedente. Esse sono, tuttavia, dip date dl ci introduce proposizioni (cioè p, g) come variabili apparenti, cosa che non abbiamo ao ALA, e Don Pasiano are PERNO

3 i 7

l’esplicita introduzione della gerarchia di proposizioni con un assioma di riducibilità come *12.1 [cioè, l’assioma di riducibilità per le funzioni proposizionali monadiche: (4) ()(9x=/!)]». Le proposizioni che seguono mostrano che

E!(1) (92) > (f[(1») (PA

X010 (90) = [1 (PHI YX70(P»))

pdaraacderza

aorlitsri

a

esi

quando f(x) è, rispettivamente: p V x (*14.31), —x (#14.32), p>x (* 14.33), xD p (#14.331 ),p=x(* 14 "5 ep Nx (+14. 4 car -q È sia sono tutte funzioni estensionali di proposizioni, è evidente che gli autori dei Principia non asseriscono che l’ambito di una descrizione

31

capitolo 7

ambito sia Per non dover sempre specificare l’ambito di una descrizione — anche laddove la scelta di qualsiasi e: se convenzion seguente la adotta si ! Principia”! indifferente per il valore di verità di un enunciato — nei stessa, e descrizion la appartiene cui iato l’ambito della descrizione in un enunciato è il più piccolo sottoenunc l’indicatore d'ambito può essere omesso. Così, per esempio,” i due enunciati:

a#(1x)(Px), e

-(4=(10)(PI), saranno interpretati, rispettivamente, come:

[(7») (PA) (a # (12) (P) e come:

017») (P0] (a= (10) (PI). Il primo enunciato significherà:

(A(M)(y=y=) A4#1,); il secondo significherà:

-o(M(y=y=%) A4=2). Così, nel caso non esista una e una sola cosa che abbia la proprietà @ % il secondo enunciato sarà vero, mentre il primo sarà falso. Per esempio, se diciamo (poniamo, nel 2015): “Barack Obama non è l’attuale re di Francia” di-

ciamo qualcosa di vero se con ciò intendiamo: “È falso che vi sia una e una sola cosa che è un attuale re di Francia e che è uguale a Barack Obama”; ma diciamo qualcosa di falso se con ciò intendiamo: “Esiste uno e un solo attuale re di Francia, ed esso non è Barack Obama”. La distinzione d'ambito non ha nessun effetto, invece, quando esiste uno e un solo oggetto che ha la proprietà data nella descrizione. Per esempio, se nel 2015 diciamo: “L’attuale presidente della Repubblica francese non è Barack Obama”, diciamo qualcosa di vero indipendentemente da quale sia l’ambito della descrizione; e se nello stesso anno diciamo: “L’attuale presidente degli Stati Uniti non è Barack Obama” diciamo qualcosa di falso, ancora in modo indipendente da quale sia l'ambito della descrizione “l’attuale presidente degli Stati Uniti”.

sempre indifferente, qualora esista l’oggetto descritto, ma che lo è nei contesti estensionali. Il secondo dei brani menzionati da Linsky si trova alla fine dello stesso *14 (vol. I, p. 186). Dopo aver dimostrato i sei teoremi cui abbiamo accennato prima, gli autori dei Principia affermano: «Bisogna osservare che la proposizione in cui (7x)(9x) ha l’ambito più ampio im-

plica sempre quella corrispondente in cui [la descrizione] ha l’ambito più ristretto, ma l’implicazione inversa vale solo se o (a) abbiamo E!(1x)(@x) o (b) la proposizione in cui (7x)(@x) ha l'ambito più ristretto implica E!(7x)(9x)». La prima implicazione — cioè “la proposizione in cui (7x)(x) ha l'ambito più ampio implica sempre quella corrispondente in cui [la descrizione] ha l'ambito più ristretto” — è in

generale falsa nei contesti intensionali, come mostra chiaramente l’esempio del numero dei pianeti che abbiamo riportato sopra. Ma qui Russell e Whitehead si stanno riferendo palesemente ai contesti dei teoremi precedenti, non a contesti qualsivoglia. Il terzo dei brani citati da Linsky si trova nell’introduzione dei Principia (vol. I, p. 70): «Si vedrà inoltre [sottointeso: “più avanti”; il rife-

rimento è, evidentemente, al #14 dei Principia] che quando E!(7x)(@x), possiamo allargare o restringere l'ambito di (7x)(@x) come ci piace senza alterare il valore di verità di qualsiasi proposizione in cui [la descrizione] compare». Qui è chiaro che gli autori dei Principia sì

stanno riferendo implicitamente alle proposizioni che compaiono nei Principia, che sono sempre estensionali.

Lo stesso Linsky, in ogni caso, precisa (p. 680) che il suo rilievo non intende suggerire che gli autori dei Principia ritenessero indifferente l’ambito delle descrizioni anche nei contesti non estensionali. 24 ! V. [PM], vol. I, #14, sommario, ; ELSE 242 Per quest’esempio, ) ; v. [PM], vol. I, #14, sommario, pp. 173-174.

La teoria delle descrizioni

IS)

Si presti qui attenzione alla differenza, nella teoria di Russell, tra nomi propri e descrizioni definite; mentre gli enunciati: d='b

e a#b sono contraddittori, gli enunciati:

a=(12)(9x) e

a # (12) (x) non lo sono affatto, potendo benissimo essere entrambi falsi. Russell osserva che, qualora due descrizioni abbiano come ambito lo stesso enunciato, è indifferente assumere

l’una o l’altra come avente l’ambito più ampio.” Per esempio, è indifferente, in ogni caso, leggere l’ enunciato:

(72) (Px) = (72) (Y2) come:

[72)(PA)]

[CY]

(12) (Pa) = (10) (Y0)),

o come:

[7 (YI

([A)(PA)] (12) (Pa) = (10) (40):

otterremo sempre la medesima parafrasi. Certo, da un punto di vista formale, è necessario avere anche in questi casi una convenzione esplicita: nei Principia si assume come convenzione quella di considerare come avente È RE E i: 5 È 244 È z È l’ambito più ampio la descrizione che compare tipograficamente per prima.” Dunque, un enunciato di forma:

(72) (Px) = (12) (VW) sarà sistematicamente letto come:

[1 (PA) (72) (YO

(1) (Px) = (10)(V0))).

3.4. Sebbene le descrizioni definite appaiano (preteoricamente) come termini singolari (cioè espressioni il cui ruolo semantico è di designare un oggetto), nella teoria di Russell esse non si possono trattare come se fossero nomi propri, salvo che non si possa dimostrare che sono soddisfatte da qualcosa.” Per esempio, mentre il princi-

pio d’identità stabilisce che, qualsiasi possa essere x, x= x, non è vero che, qualsiasi sia @.*, si abbia che (22)(@x)=

(1»)(@x):

qualora non esista uno e un solo x che abbia la proprietà

(1:)(@x) sarà falso. Infatti, per Russell, esso dev’essere sviluppato così:

24 V. [PM], vol. I, +14, sommario, p. 174.

4 Vi ibidi: 245 V. Russell [1919a], cap. 16, pp. 175-176.

@ x, l’enunciato ‘“(7x)(@x) =

capitolo 7

514

(F2)(M)(0y=y=2)

Az=(10)(9Y),

che, a sua volta, si sviluppa in:

(2) (0)(py=y=2z) A Aw(M(Py=y=wAz=W)):

.246, 247

un enunciato falso, se non è vero che esiste una e una sola cosa che è @ %. Così, per esempio, “L’attuale re di Francia è l’attuale re di Francia” o “Il circolo quadrato è il circolo quadrato”, nonostante il loro aspetto tautologico, sono — nella teoria di Russell — enunciati falsi, non veri. Per Russell — diversamente che per Meinong — se un oggetto non esiste — intendendo “esistere” come sinonimo di “essere” o “sussistere” — non può, a fortiori, avere nessuna proprietà: quindi neppure quella d’essere identico a se stesso. Qualora sia di fatto vero che esiste uno e un solo x che ha la proprietà @ %, allora si ha che (7x)(@x) = (7») (x).

Abbiamo pertanto il seguente teorema dei Principia:

E!(12) (92) = (10) (92) = (10) (po).* 3.5. È ora facile vedere come, seguendo la teoria suesposta, si risolva l’enigma della diversità di contenuto informativo tra l’enunciato “Scott = Scott” e l’enunciato “Scott è l’autore di Waverley”. Il secondo significa: “Esiste uno e un solo individuo che ha scritto Waverley, e quest’individuo è Scott”. Qui abbiamo un enunciato che dice:

(1) qualcuno ha scritto Waverley; (2) un solo individuo ha scritto Waverley (Waverley non è un’opera collettiva, come per es. i Principia); (3) chiunque abbia scritto Waverley è identico a Scott. Si tratta dunque di un enunciato realmente informativo, e non della semplice banalità che Scott è uguale a se stessO.

4. FUNZIONI DESCRITTIVE E DEFINIZIONI

Il problema delle descrizioni non denotanti è pertinente alla logica e alla matematica. Infatti, esso si può presentare con espressioni matematiche comunissime, del genere di “od cen a?” “logx”, “x + y”, ecc., che nei Principia sono dette “funzioni descrittive” perché il loro ruolo semantico è quello di descrivere uno e un solo oggetto ogni volta che si assegni un valore alle variabili che esse contengono.” Per esempio, assegnando il valore 772 alla variabile “x” in “senx”, otteniamo la descrizione definita “il seno di 772”; assegnando, in “x + y”, il valore 1 alla

variabile “x” e il valore 2 alla variabile “y”, otteniamo la descrizione definita “la somma di 1 e 2”. Ma può accadere che una certa funzione descrittiva denoti un oggetto per alcuni valori delle sue variabili indipendenti, ma non

per altri: per questi ultimi valori ci troviamo dunque alle prese con descrizioni definite prive di denotazione. Per esempio, parlando dei postulati di Peano,°”! abbiamo visto che in essi è usata la funzione primitiva espressa da “il successore di x” — in simboli, “s(x)”. Peano tratta l'equivalente, nella sua notazione, dell’espressione “s(x)” come un segno che diviene un nome proprio ogni volta che al posto di “x” si prende il nome di un numero naturale, spiegando che l’equivalente, nella sua notazione, dell’espressione “s(x)” denota il successore di x ogni volta

24 V. [PM], vol. I, #14, sommario, p.174.

247 Si osservi che il simbolo di identità non può essere eliminato dal contesto “(7x)(@x) = (7x)(@x)” — secondo la definizione dei Principia (v. [PM], vol. I, *13.01) “x= y=a4r(@)(p!x>

@!y) — prima di aver eliminato le descrizioni definite, perché nella teoria che stiamo

esponendo le descrizioni definite non sono termini singolari (nomi).

248 V. [PM], vol. I, *14.28. n V. [PM], vol. I, #30. In precedenza, Russell aveva chiamato queste espressioni “funzioni denotanti” (v., per es., Russell [1905e], p. 624). ‘Si

osservi che Russell chiama in questo caso “funzioni” dei simboli cui non necessariamente corrispondono entità; come vedremo

(Vv

sotto, cap. 9, $ 2.2.2, e cap. 11, $ 1.1) questo, insieme ad altri fattori, è un indizio a favore dell’interpretazione delle “funzioni proposiziona= li” dei Principia come simboli, e non come entità intensionali. 251 V. sopra, cap. 2, $ 1.

La teoria delle descrizioni

che x è un numero naturale.°° condo postulato di Peano:

252

DIS

Ma che cosa accade se x non è un numero naturale? Prendiamo, per esempio, il se-

Se x è un numero naturale, allora il successore di x è un numero naturale.

Chiediamoci: ammesso che ogni numero naturale sia effettivamente seguito immediatamente da uno e un solo numero naturale, possiamo dire che l’enunciato in questione è sempre vero? Apparentemente, finché prendiamo come valori di “x” dei numeri cardinali o ordinali (finiti o infiniti), o dei numeri interi con segno, sembra non esserci problema. Prendiamo, per esempio, come x il numero cardinale No. Il postulato dà allora luogo al seguente esempio: “Se Xo è un numero naturale, allora il suo successore è un numero naturale”. Il conseguente di questo condizionale afferma che il successore di No, cioè N}, è un numero naturale: quindi è falso. Nondimeno, il condizionale resta vero, perché è falso anche il suo antecedente “X è un numero

naturale”. Tuttavia, ufficialmente, basandoci sulla spiegazione secondo cui “s(x)” denota il successore di x quando x è un numero naturale, non possiamo dire che cosa denoti “s()” quando x non è un numero naturale. Non sarebbe infatti incoerente dire, per es., che “s(x)” denota il successore di x quando x è un numero naturale, e denota invece il numero 0 per tutti gli altri valori di “x”. Il problema diviene più vistoso quando, come valori di “x”, prendiamo oggetti che, intuitivamente, non hanno

un successore. Se, per esempio, come valore di “x” prendiamo 1/2, il postulato dà origine all’enunciato: “Se 1/2 è un numero naturale, allora il suo successore è un numero naturale”. Qui abbiamo la descrizione definita ‘il suc-

cessore di 1/2”, cui non siamo in grado di dare alcuna denotazione. Quindi ci troviamo con un condizionale con un antecedente falso e un conseguente cui non siamo in grado di attribuire alcun valore di verità. Pertanto, diviene indeterminato anche il valore di verità dell’intero condizionale: infatti, anche se l’antecedente è falso, non possiamo inferirne che il condizionale stesso è vero, poiché (in una logica bivalente) la tavola di verità del condizio-

nale assegna al condizionale un valore di verità solo quando hanno un valore di verità sia l’ antecedente sia il conseguente — non è previsto (in una logica bivalente) il caso in cui l’antecedente sia falso e il conseguente indeterminato. Possiamo infine — seguendo Frege — fare un esempio estremo. Prendiamo, come valore di “x”, la luna.”*} Otteniamo allora: ‘Se la luna è un numero

naturale, allora il suo successore è un numero naturale”. Ma se, come

sembra, “Il successore della luna” non denota nulla, non siamo in grado di attribuire alcun valore di verità al conseguente di questo condizionale e, con ciò, al condizionale stesso. Anche Frege, come Peano, intendeva i segni di funzione come segni che divengono nomi propri una volta che al posto delle variabili siano posti nomi di oggetti. Ma, per evitare problemi come quello che abbiamo esposto sopra, egli insistette sempre che — in un linguaggio logicamente perfetto — questi nomi non potessero mai divenire privi di denotazione. Frege scrive, per esempio: Ogni segno di funzione con un argomento dev’ essere definito in modo che ne risulti una denotazione [Bedeutung] qualunque segno He d’argomento dotato di denotazione [bedeutungsvolles Argumentzeichen] si prenda per completarlo. Ogni segno di funzione con due argomenti dev'essere definito in modo che ne risulti una denotazione qualunque ne sia il completamento per mezzo di qualche segno d’argomento dotato di denotazione.

In “Funktion und Begriff? (1891), riferendosi al simbolo funzionale “x + 1”, Frege scrive: È dunque necessario dare definizioni [Festsetzungen] dalle quali risulti che cosa denoti, per es., jar “@©+1”, se “©” deve denotare il sole. Come dare queste definizioni [estsetzungen] è relativamente indifferente; ma è essenziale che siano

date, che “a + 5” riceva sempre una denotazione, qualunque siano i segni di oggetti determinati che possono essere introdotti al posto di “a” e “5”. [...] Per ogni argomento x, per il quale “x + 1” fosse privo di denotazione [bedeutungslos], anche la funzione x + 1=10 non avrebbe nessun valore, e quindi nessun valore di verità, cosicché il concetto:

ciò che aumentato di 1 dà 10 252 Una spiegazione identica era stata proposta da Padoa nella sua relazione al Primo Congresso Internazionale di Filosofia, Parigi, 1900 (v. E i " 5 i Padoa [1901], $ 20, p. 325). can vol. II, $ 63, p. 75. L'esempio di Frege nel luogo menzionato è l’espressione ‘La metà della pra DIVA a ui.

2 Frege [1914], p. 260. V. anche Frege [1884], $ 74, p. 87; Frege [1891 ], p. 19; Frege [1892d], p. 133; Frege [1893-1903], vol.

11, $ 29, p. 46, $ 31, p. 49, e vol. II, $ 56, pp. 69-70, e $$ 62-65, pp. 74-78.

I, $ 8, p.

capitolo 7

516

non avrebbe confini netti. Il requisito di una netta delimitazione dei concetti comporta quindi per le funzioni in generale che esse : 2 debbano avere un valore per ogni argomento. &

Sei anni dopo, in un articolo

in cui contrappone

la sua “ideografia”

a quella di Peano,

Frege parte

dall’enunciato aperto “(x > 2) D (x° > 2)” e argomenta così: In effetti, diamo a “x” in successione la denotazione 1, 2, 3, otteniamo così in primo luogo

d>2>54° 50) che è vero, perché entrambi i lati della deduzione sono falsi. Otteniamo in secondo luogo

2) che è vero, perché il lato sinistro è falso, mentre il lato destro è vero. In terzo luogo otteniamo

A)

02)

che è vero, perché entrambi i lati sono veri. Qualsiasi cosa possiamo avere per “x”, non si dà mai il caso che il lato sinistro della deduzione sia vero e il lato destro sia falso; e questo è ciò che, che è ciò che intendiamo dire. Si può ancora domandare: che cosa succede se non si inserisce affatto un segno numerico, ma il segno del sole “©”?. Di certo bisogna prendere in considerazione anche questo caso. L’enunciato “© > 2” è falso, perché il sole non è un numero e solo i numeri possono essere più grandi di 2. Pertanto l’enunciato

“«@©>2)2(0?°>2)” dovrebbe essere vero, indipendentemente dal fatto che il suo lato destro sia vero o falso; ma [questo lato destro] dovrebbe essere

l’uno o l’altro dei due. Tuttavia, secondo le spiegazioni usuali della combinazione di segni “x”, esso non ha denotazione. Si deve dunque presupporre qui una spiegazione di “x?” tale che ne risulti sempre una denotazione, qualunque segno sia inserito al posto di “x”, purché questo abbia una denotazione, vale a dire, designi [bezeichnet] un oggetto. Ciò getta luce sulla necessità della mia richiesta che le funzioni siano spiegate in modo che esse acquisiscano un valore per ogni argomento. Nel nostro caso si potrebbe per es. stipulare che la denotazione di “x” debba coincidere con quella di “x”, quando “x” denota un oggetto che non è un numero. Ciò che si stipula è relativamente indifferente, ma è essenziale che per ogni denotazione di “x? sia assicurata una denotazione a «eu signor Peano non sembra riconoscere la necessità di questo requisito.?9°

Gli esempi di Frege, che prendono in considerazione il valore di una funzione matematica per il sole o per la luna come argomenti possono apparire strani. Dipendono dal fatto che Frege — come Russell — concepiva le variabili oggettuali come totalmente non ristrette; in altri termini, faceva coincidere il dominio delle variabili oggettuali della matematica, l’universo di discorso, con l'universo intero. Questa tesi è strettamente collegata con il lo-

gicismo di Frege e di Russell: l’idea è che le verità matematiche sono verità logiche, e le verità logiche non devono valere solo per entità particolari — come le verità, per es., della geografia —, ma devono valere per qualsiasi entità al mondo.” In ogni caso, l’idea di restringere il dominio degli oggetti su cui possono variare le variabili che compaiono negli enunciati aritmetici, in modo da ecludere non solo gli oggetti aritmeticamente “esotici”, come il sole e la luna, ma anche tutti gli altri oggetti per i quali una funzione possa non avere un valore definito, non sarebbe una soluzione. Per esempio, data la spiegazione peaniana di “il successore di x, per evitare la sostituzione di “x”, in questa espressione, con un numerale che non sia un numero naturale — ottenendo così una descrizione non denotante —, dovremmo restringere il dominio delle variabili ai soli numeri naturali. Ma, in questo modo, gli assiomi di Peano non potrebbero più servire allo scopo di isolare, tra altri oggetti possibili, la classe dei numeri naturali — non si potrebbe mai avere una teoria che includa nel suo dominio, oltre ai numeri naturali, definiti dagli assiomi di Peano, anche altri oggetti. I saggi di Frege contenenti le osservazioni che abbiamo riportato facevano parte di quel gruppo di cinque articoli che lo stesso Frege inviò a Russell nel giugno del 1902. Russell si convinse della correttezza della tesi di Frege già nel 1903, dunque prima di elaborare la propria teoria delle descrizioni. In una lettera a Philip Jourdain 15 maggio 1904, Russell scrive: [...] in generale, è un principio essenziale del corretto simbolismo che ogni singola lettera che compare in una proposizione possa assumere qualsiasi valore senza rendere la proposizione priva di significato. Poiché se la proposizione è priva di significato in certi casi, non possiamo affermarlo senza supporre che si attribuisca pur sempre qualche genere di significato alla proposizione in questi casi. Tutto questo è esposto da Frege in maniera conclusiva.?°°

a Frege [1891], pp. 19-20. V. anche Frege [1893-1903], vol. II, $ 64, p. 76, dove Frege argomenta che la questione se (la luna + la luna =

1) deve ricevere una risposta definita.

2°° Frege [1897a], pp. 374-375.

257 V., per es., Frege [1893-1903], vol.È II, $ 56, Russell [1901d], p. 75, Russell [1903a], $ 7, Russell [1919a],a], cap. Dr 5 Cap. 18, » pp.PP. 196-197 i V. sopra, cap. 2, verso la fine del $ 7.1. °° In Grattan-Guinness [1977], p.30. Qui “proposition” indica, ovviamente, un’entità linguistica.

5

La teoria delle descrizioni

51197

L’anno successivo, in “On denoting”, Russell sviluppa così il problema: [...] si consideri una proposizione come la seguente: “Se v è una classe che ha solo un membro, allora quel solo membro è un membro di v”, o come possiamo formularla, “Se u è una classe unità, /’u è un w”. Questa proposizione dovrebbe essere sempre vera, perché la conclusione è vera ogni volta che l’ipotesi è vera. [...] Ora se u non è una classe unità, “lv” sembra non denotare nulla; quindi la nostra proposizione sembrerebbe divenire un nonsenso [nonsense] non appena u non sia una classe unità. Ora è chiaro che tali proposizioni non divengono nonsensi semplicemente perché le loro ipotesi sono false.”

Si prendano, per fare un altro esempio, le definizioni peaniane di addizione e di moltiplicazione tra numeri naturali. Ciascuna di esse consta di due clausole: (a) (b)

se xè un numero naturale, x + 0 è uguale a x; sexe y sono numeri naturali, la somma di x con il successore di y è uguale al successore di x + VA

(a°’) se x è un numero naturale, x x 0 è uguale a 0; (b)) sexe y sono numeri naturali, il prodotto di x per il successore di y è uguale a (x X y) + x.

Queste clausole non consentono di assegnare una denotazione a “x + y” 0 a “x X y” se come valori di “x” e di “y” si prendono entità diverse dai numeri naturali. Peano e la sua scuola facevano largo uso di definizioni della forma precedente, che sono dette definizioni condizionate, o definizioni sotto ipotesi. Una definizione sotto ipotesi è una definizione in cui un simbolo rappresentante una funzione è definito solo a condizione che gli argomenti della funzione siano entità appartenenti a certe classi, o aventi determinate proprietà. Per esempio, in una definizione della forma seguente: DLE

a23fx) af --»s

(0)

PA) 2 FOA) a». si definisce “f(x)” solo a condizione che i valori di “x” siano ristretti a una certa classe & o soddisfino un certo

predicato “P(...)”. Analogamente, in una definizione della forma:

e anye P>fA 9a si definisce “fi(x, y)” solo a condizione che i valori di “x” e di ‘“y” siano ristretti, rispettivamente, a una certa classe ve se Qe a una certa classe 8. Il vantaggio principale che sembrano presentare le definizioni condizionate È quello di poter impiegare lo stesso simbolo per relazioni e operazioni diverse tra entità di genere diverso. Per esempio, si Hus definire dapprima la moltiplicazione “x x y” con l’ipotesi che i valori di “x” e De siano numeri DOGE Mapo! con l ipotesi che i valori di “XY? e “y” siano numeri interi con segno, poi con l’ipotesi che i valori di “x” e ‘“y” siano numeri reali, e così via. Nel suo Formulario del 1908 Peano scrive: 663?

In Mathematica non existe uno definitione p. ex. de “multiplicatione” neque in Formulario existe aequalitate de forma: x = (expressione composito per alios signo). relativo), inter duo R (numero raposts Lg>r du duo n ((numero ann natur: eri naturali], | duo No [numeri iplicati ne inter iti de multiplicatio i definitione Sed existe differente. hypothesis cum y, x x de definitiones 30 que plus inveni de difficile es non MELCI Formulario In etc. tionale),

Ogni definizione condizionata è quindi incompleta, perché, se si È definito, pEracsi

i Senlbcalo si È 5 y

nell’ipotesi che i valori di “x” e “y” siano numeri naturali, non si sa quale sia la denotazione di x a ne nate che i valori di “x” e ‘“y” non siano numeri naturali. Naturalmente, è possibile che sui insieme di SALICE MESU izionate fornisca un quadro completo e coerente delle possibili denotazioni di “x x y”; allora tutte queste definizio200 Russell [1905c], pp. 46-47. 26! Peano [1908], III, $ 4, p. 80. V. anche Peano [1898].

capitolo 7

518

ni si possono riunire in una sola definizione non condizionata completa.” Ma non era questo il modo di procedere dei matematici che adoperavano questo tipo di definizioni. la loro procedura era, per es., quella di definire “x X y” nell’ipotesi che i valori di “x” e “y” fossero numeri naturali, e di cominciare a usare il segno “X” tra numeri na-

turali, prima di aver definito il significato di “x x y” negli altri casi. Tipicamente, il significato di “x x y” nel caso

che i valori di “x? e ‘“y” fossero, per es., numeri reali, si definiva ricorrendo allo stesso segno “X” utilizzato tra numerali naturali. Ma, in tutto questo frattempo, “x x y” non denota nulla, se i valori di “x° e “y” non sono numeri naturali.

Frege aveva mosso una critica generale a quest’uso delle definizioni condizionate. Scrive Frege: Che uno stesso segno primitivo [Urzeichen] sia spiegato più volte è [in Peano] quasi la regola. Molto frequenti sono anche le definizioni condizionate [die bedingten Definitionen]. Io richiedo al contrario che ogni segno sia definito solo una volta e completamente, non più volte e pezzo a pezzo, che l’espressione definente coincida incondizionatamente nella denotazione con quella definita, che la legittimità di una definizione non dipenda da un enunciato da dimostrare. Cosa che accade sempre quando lo stesso segno è spiegato più volte; perché in questo caso è allora necessaria la prova che queste spiegazioni siano consistenti. Di ciò tuttavia non trovo traccia nei lavori del signor Peano.”

Frege ammette che le definizioni condizionate possano essere legittime, ma a condizioni che ne rendono inutile l’impiego, al posto di definizioni complete: Si possono eventualmente ammettere come valide più definizioni condizionate dello stesso segno solo se dalla loro forma risulta chiaramente che insieme coprono tutti i casi possibili e non forniscono determinazioni plurivoche, e se nessuna di queste spiegazioni parziali è impiegata prima che siano date tutte, dunque nemmeno in un’altra spiegazione parziale. Allora si possono riunire tutte formalmente in una sola spiegazione.”

Per evitare le spiegazioni parziali, Frege richiede che non si adoperi mai lo stesso segno per funzioni definite in domini diversi, ma si adoperino segni diversi: E oltretutto è così facile evitare molteplici spiegazioni dello stesso segno. Invece di spiegarlo prima per un dominio limitato e usarlo poi per spiegare se stesso in un dominio più ampio, invece quindi di usare due volte lo stesso, si devono soltanto scegliere segni diversi, circoscrivendo definitivamente il significato del primo al dominio più ristretto, cosicché anche la prima definizione sia completa e tracci confini rigorosi.”

Questa è non solo la procedura adoperata nei Grundgesetze der Arithmetik di Frege, ma sarà anche la procedura adoperata da Russell e Whitehead nei Principia Mathematica. Ciò, di per sé, non risolve il problema principale: cioè quello che un segno definito tra certe entità non renda privi di valore di verità alcuni degli enunciati in compare. Per esempio, anche se si riserva il segno “#” all’addizione tra numeri naturali, impiegando altri segni, ad esempio, per l’addizione tra numeri ordinali o tra numeri reali, resta che il valore di verità degli enunciati in cui compare il segno “+” deve essere definito anche nel caso occorra tra numeri che non sono numeri naturali. Sembra dunque che non si sia fatto alcun passo in avanti, nell’evitare molteplici spiegazioni dello stesso segno. Ma, in realtà, un passo in avanti cruciale è stato fatto. Infatti, adesso, ci interessa attribuire una certa denotazione, per es., al segno “x + y” soltanto quando compare tra numeri naturali — per l’addizione tra numeri reali, per es., adopereremo un altro segno. Quindi, ci basterà stabilire un meccanismo generale arbitrario che assegni a tutti gli enunciati in cui il segno “#° non compaia tra numerali naturali un valore di verità definito, per ottenere una definizione completa. Si può fare ciò, per esempio, stabilenShi Supponiamo, per esempio, di avere le seguenti definizioni: (xe

Q35fA) =arA

(ii) x e B>3fA) =aB e supponiamo che

i xe @e xe / siano casi esclusivi e siano i soli casi possibili (supponiamo, per es., che /8 sia il complemento di @ nel

dominio che si prende in considerazione), allora si possono riunire le definizioni (i) e (ii) in una sola definizione completa non condizionata:

SA su x e ADDA) A (xe B> B). 206 Frege [1897a], pp. 366-367. Frege critica le definizioni condizionate di Peano anche in Frege [1893-1903], vol. II, $$ 57-58. pp. 70-72

e in Frege [1898] (pp. 182-184) (si tratta di una lettera di Frege a Peano del 29 settembre 1896, poi pubblicata nel 1898 sulla Revue de Ma:

thématiques diretta da Peano). Peano replicò a Frege [1898] in Peano [1898a]. La controreplica di Frege è in una lunga nota a piè pagina in Frege [1893-1903], vol. II, $ 58, pp. 70-71.

2% Frege [1893-1903], vol. II, $ 58, p. 71. 255 Erege [1893-1903], vol. II, $ 60, p. 73.

La teoria delle descrizioni

519

do un metodo generale che assegni una denotazione a tutte le descrizioni definite che non denotano uno e un solo oggetto. Questo è il metodo seguito da Frege. Nel 1892, Frege assegnava come denotazione, a tutte le descrizioni definite non soddisfatte da nessun oggetto, o soddisfatte da più di un oggetto, il numero 0:°° secondo tale proposta avremmo, per es., x+ y= 0 ogni volta che x e y non sono numeri naturali. Poco più tardi, Frege assegnò come denotazione a tutte le descrizioni non soddisfatte da nessun oggetto, o soddisfatte da più di un oggetto, /a classe (che può anche, naturalmente, essere vuota) di tutti gli oggetti che soddisfano la descrizione:”°” secondo tale proposta, ogni volta che x e y non sono numeri naturali avremmo x + y = A. Russell aveva usato estensivamente le definizioni condizionate negli scritti del periodo intercorrente tra il suo incontro con l’opera di Peano e dei suoi collaboratori al Primo Congresso Internazionale di Filosofia (Parigi, 1-5 agosto 1900) e il 1903. Dal 1903, sotto l'influenza di Frege, Russell considerò anch’egli illegittime le definizioni sotto ipotesi.”°° In una lettera a Jourdain del 12 aprile 1904, Russell scrive: Una definizione sotto ipotesi, secondo me, è sempre contestabile, poiché le proposizioni con ipotesi dovrebbero valere quando l’ipotesi è falsa, mentre le definizioni sotto ipotesi danno puri nonsensi se l’ipotesi cade.”

Una posizione ripresa da Russell in una lettera a Couturat del 5 luglio 1904: «L’abitudine d’impiegare lo stesso segno in sensi diversi mi sembra cattiva».?”! Il 20 luglio del 1904 Couturat protestò con Russell: [...] perché tenete tanto (come Frege) che una definizione non abbia ipotesi? Questo mi sembra un requisito eccessivo e arbitrario. Si collega a quest'altro, che un’espressione debba sempre avere un senso; ma non vedo neppure la necessità di ciò: se a non è una classe, x € a non è falsa, ma priva di significato [insignifiante]. Quest’ ultima regola vi conduce ad attribuire alle espressioni che sarebbero naturalmente prive di significato dei sensi convenzionali e arbitrari [...].?7?

Il 26 luglio successivo, Russell replicò a Couturat sviluppando l’argomento accennato nel brano della lettera a Jourdain del 12 aprile 1904 che abbiamo riportato poco sopra: se si pone una definizione di forma “xe a23 f() =ar ...” e poi si ha un enunciato di forma “x e 22 @(f(x))”, quest’ultimo diviene privo di significato (denotazione) qualora l’ipotesi non sia vera; ma, scrive Russell, «è un principio fondamentale che ogni implicazione sia vera quando l’ipotesi non è vera».°”? L'argomento russelliano è evidentemente una variante di quello condotto da Frege sul simbolo funzionale “(x > 2) D DE Per lo stesso motivo, ora Russell critica l'attribuzione di un dominio ristretto alle funzioni; in una lettera a Cou-

turat del 22 novembre 1904, Russell scrive: La notazione di Peano per le funzioni mi pare non solo scomoda, ma contraria ai principi del simbolismo. Fx non può avere un dominio’ perché bisognerebbe allora che Fx non avesse alcun senso [corsivo mio] quando x non appartiene al dominio, la qual cosa . . » - 274 comporta le stesse spiacevoli conseguenze che derivano dalle Df con ipotesi.

Dal 1905, la teoria delle descrizioni definite offrirà a Russell un dispositivo per risolvere il problema della denotazione delle istanze delle espressioni funzionali, senza ricorrere al procedimento arbitrario di Frege criticato da Couturat.?”? Secondo la nuova teoria, i simboli di funzione non devono essere intesi, come da Peano e da Frege, come simboli che divengono nomi, quando nei loro posti d’argomento vi sono dei nomi, ma come simboli che divengono descrizioni definite, quando nei loro posti d’argomento vi sono dei nomi. Come descrizione definita,

266 V. Frege [1892a], p. 42, prima nota.

, $ 11,p. 19. vol. I, 267 V. Frege [1893-1903]

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per es., Russell [1901e], [1902a], e [ 1902b]. Le definizioni condizionate sono utilizzate nella memoria presentata al Primo Congres-

so Internazionale di Filosofia dal discepolo di Peano Alessandro Padoa: per es., la definizione “a è uguale a b” è data due volte, la prima

supponendo che a e b siano classi, la seconda che siano individui (v. Padoa [1901], $ 2, p. 3 10). La relazione presentata dallo stesso Peano n RO a quel congresso (v. Peano [1901b]), sulle definizioni matematiche, menzionava le definizioni condizionate. 26° Sebbene già nei primi mesi del 1903 Russell riconosca che le definizioni sotto ipotesi «SOnO

formalmente viziose» (Russell oa

saggio 2, “Relations”, p. 45), egli continua a utilizzarle per «convenienza pratica» (ibid.), ma le abbandonerà completamente dalla metà del 1903 (v. l’introduzione di A. Urquhart a Russell [1994a], $ I, p. xvi).

270 In Grattan-Guinness [1977], p. 29.

271 In Russell [2001a], p. 426. 272 In Russell [2001a], p. 433. 273 In Russell [2001a], p. 435. 274

In Russell [2001a], p. 452.9)

1

cito)

dito

prima di On denoting”. 275 Un procedimento che, come abbiamo visto (v. sopra, $ 2), lo stesso Russell aveva adottato per un certo periodo

capitolo 7

520

un’istanza di un simbolo di funzione non denoterà mai un oggetto, ma dovrà essere sempre interpretato nel contesto dell’ enunciato in cui compare. Già in “On denoting”, Russell porta l'esempio dell’espressione “m — n’ definita come sinonima di “il numero che sommato a n dà m”: Quindi m— n è definito come significante lo stesso di una certa espressione denotante; ma abbiamo concordato che le espressioni denotanti non hanno significato in isolamento. Quindi la ciò che la definizione dovrebbe in realtà essere è: “Qualsiasi proposizione contenente m — n significa la proposizione che risulta dal sostituire a “m — n” “il numero che, aggiunto a n, dà m”. La proposizione risultante è interpretata secondo le regole già date per interpretare le proposizioni la cui espressione verbale contiene un’espressione denotante. Nel caso in cui m e n sono tali che c’è uno e un solo numero x che, aggiunto a n, dà m, c’è un numero x che può essere sostituito a m — n in qualsiasi proposizione contenente m — n senza alterare la verità o la falsità della proposizione. Ma negli altri casi, tutte le proposizioni in cui “m — n° ha un’occorrenza primaria sono false.??°

Nei Principia, naturalmente, la trattazione è più particolareggiata. Limitandoci, per semplicità, alle funzioni descrittive monadiche, esse sono, per Russell, della forma: “l’unico termine (entità) che ha la relazione R con x°: Funzioni di questo tipo significano sempre “il termine che ha tale e tale relazione con x°. Per questa ragione esse si possono chia. . stone . 2 . A . 2? mare funzioni descrittive, poiché esse descrivono un certo termine per mezzo della sua relazione al loro argomento.?””

Russell ammette che da ogni relazione diadica R si possa ricavare una funzione descrittiva che significa: “i/ termine che ha con x la relazione R” — scritta, nei Principia, “R‘x”, che si può leggere anche: “1R di x”. Per esempio, se P è la relazione espressa da “il padre di”, “P‘x°° significherà “il padre di x°; se F è la relazione espressa da “il figlio di” “F‘°x” significherà “il figlio di x’; se “sen” esprime la relazione che vale tra il seno di un angolo x e l’angolo x stesso, “sen‘x’ significherà “il seno di x”. In quando espressione descrittiva, il simbolo “R°x° non ha — secondo Russell — nessun significato (nessuna denotazione) se preso in isolamento: esso può. essere parafrasato solo nell’ambito degli enunciati che lo contengono. La definizione di Russell è la seguente:

[Rx] (VR) =ar [(1) ORO] (V@PORY)® dove ‘“[R‘x]” è l'indicatore d’ ambito. Nei Principia, questa definizione è poi così riformulata: Rx =a (29) GRA)

con la convenzione che quest’ultima formula stabilisca la possibilità di scrivere “R°x” al posto di “(7y) (yRx)” dappertutto, negli indicatori d’ambito come altrove.?° Nei Principia si avverte che questa definizione non implica:

R'x= (1) Rx), poiché quest’ultima formula è equivalente — in base alla definizione — a “(7)) Rx) = (2y)(YRx)”, che è vero soltanto quando E!(7y)(yRx).?"! Questa teoria permette di superare il problema, menzionato sopra, delle espressioni funzionali non denotanti per certi valori delle variabili indipendenti. Per esempio, il secondo assioma di Peano — “Se x è un numero naturale, allora il successore di x è un numero naturale” — si può scrivere come segue:

270 Russell [1905c], p. 55. cu [PM], vol. I, #30, sommario, p. 232. 278

V. [PM], vol. IL #30, sommario, p. 233.

272 V. [PM], vol. I, *30.01. 280 V. [PM], vol. I, #30, sommario, PR2ISI

A

ibid:

La teoria delle descrizioni

52)

x € NC induct > S°x e NC induct,

(laddove ‘“S” denota la relazione tra un numero e il suo successore). Secondo la definizione di funzione descrittiva offerta da Russell, tale enunciato dev'essere interpretato così: x € NC induct > (7y)(ySx) e NC

induct

e dunque — adottando la convenzione dei Principia che l’ambito della descrizione sia, salvo diversa indicazione, il più piccolo sottoenunciato in cui la descrizione compare — si ha: x € NC induct > (42)((y))(Sx=y=z) A ze NC induct);

in parole: “Se x è un numero naturale allora esiste uno e un solo z tale che z è successore di x e z è un numero naturale”. Nessun’istanza di quest’enunciato aperto è mai priva di valore di verità; anzi, tutte le istanze sono vere: nel caso in cui x non è un numero naturale perché, pur essendo falso il conseguente, lo è anche l’antecedente; nel

caso in cui x è un numero naturale, perché è vero il conseguente. In quest’analisi, il secondo postulato di Peano —

che sembra affermare solo una cosa, cioè che il successore di un numero è un numero — in realtà afferma tre cose: (1) che ogni numero naturale ha un successore; (2) che ne ha uno solo; (3) che questo successore è a sua volta

un numero naturale. La teoria delle funzioni descrittive ha, per Russell, l’ulteriore merito di spiegare perché certi asserti matematici d’identità non siano banali. Per riprendere un esempio dei Principia, abbiamo che sen 772 = 1. Tuttavia: [...] le proposizioni in cui compare sen 772 non sono le stesse di quelle che sarebbero se si sostituisse 1 a sen 772. Questo risulta » : dalla proposizione a. “sen 772 = 1”, che comunica > un’informazione 3; ; chiaro, per esempio, preziosa, mentre “« “1 = 1”» èA banale. 282

La spiegazione è, ancora una volta, che le espressioni come “sen 772”, non sono il nome di nulla, non denotano

nulla: «come le descrizioni in generale, non hanno significato [denotazione] per se stesse, ma solo come costituenES Ss 5 SO 283 ti di proposizioni |enunciati]».

5.I NOMI PROPRI E L’EPISTEMOLOGIA

DI RUSSELL

5.1. La teoria russelliana delle descrizioni definite fornisce un dispositivo per rifiutare di ammettere entità descritte da espressioni come

“il massimo

numero

primo”, “l’attuale re di Francia”, “la montagna d’oro”, “il circolo

quadrato”, e così via; ma se si assume che, a differenza delle descrizioni definite, inomi grammaticalmente propri debbano denotare delle entità, il problema degli enunciati che sembrano riferirsi a entità inesistenti riemerge con

nomi come “Omero”, “Zeus” o “Pegaso”. Non solo: se si assume che i nomi grammaticalmente propri denotino entità, il problema dell’informatività degli asserti d’identità si ripresenta con enunciati come “Espero = Fosforo = Venere”: in che cosa quest’enunciato differisce dal banale “Venere = Venere = Venere”? Che ogni nome grammaticalmente proprio debba riferirsi a un’entità —

che può non esistere, ma deve essere

— era una delle assunzioni filosofiche dei Principles. Tuttavia quest’assunzione è in aperto conflitto con un’altra tesi dei Principles, secondo cui è possibile che un concetto denotante non denoti nulla. Nel precedente capitolo abbiamo visto che, già nel 1903,°** Russell pone riparo alla contraddizione menzionata assumendo che quelle parole che, secondo la grammatica, sono nomi propri di pseudoentità, non sono, in realtà, veri nomi propri, ma espressioni che significano concetti denotanti. Riguardo ai nomi grammaticalmente propri che non si asiago a che essi sono, come egli dirà più tardi, “descrizioni sostiene nulla, quindi, già nella seconda metà del 1903 Russell È 2 ce ga . 5 $ to 288 SS 5 4 5 abbreviate” (truncated,° telescoped,"*° o abbreviated””) o “descrizioni celate” (concealed’’°) — cioè, fuor di metafora, che tali nomi tengono il posto di descrizioni definite. n° [PM], vol. I, +30, sommario, p. 232.

283 Ibid. AG

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per es., Russell [1903e], p. 285, e Russell [1903g], p. 318. In proposito, v. sopra, cap. 6, alla fine del $ 5.

285 V. Russell [1918-19], $ VI, p. 243 e p. 245, e Russell [1919a], cap. 18, p. 198. 286 V. Russell [1918-19], $ VI, p. 243.

capitolo 7

Za

In “On denoting”, Russell ignora il problema dei nomi propri ordinari. Si limita a osservare che i nomi di pseudoentità, come “Apollo” e “Amleto”, si devono interpretare come descrizioni definite.’ Tuttavia, già nel manoscritto del giugno 1905 “On fundamentals” (scritto, dunque, il mese precedente “On denoting”), Russell estende la sua precedente analisi dei nomi privi di riferimento a rutti quelli che la grammatica considera nomi propri: [...] [L]a maggior parte delle cose ci sono note attraverso concetti denotanti [ci sono note per descrizione]. Così Jones = la persona che sta nel corpo di Jones [questo, naturalmente è circolare; Russell intende qualcosa come: “la persona che sta nel corpo così e così”, dove “così e così” sta per una descrizione delle impressioni sensoriali che il parlante associa alla percezione del corpo di Jones]. Non abbiamo familiarità [acquaintance] con Jones stesso, ma solo con le sue manifestazioni sensibili. Quindi se pensiamo di conoscere delle proposizioni a proposito di Jones, ciò non è del tutto corretto; noi conosciamo solo funzioni proposizionali che egli soddisfa, a meno che non siamo in effetti Jones. [...] Gli oggetti denotati che ci sono noti solo come denotati si possono identificare, senza un errore grande come in altri casi, con la somma dei loro predicati; perché sono solo i loro predicati che conosciamo, e questiLuni o alcuni di quelli che conosciamo) devono essere da noi intesi [must be meant by us] ogni volta che parliamo di tali oggettl.

Nella prima parte di “On fundamentals” — cui questo passo appartiene — Russell si muove ancora all’interno della teoria dei concetti denotanti dei Principles, secondo cui, se in un enunciato compare una descrizione defini-

ta, la proposizione che esso esprime contiene, in corrispondenza della descrizione, un concetto denotante il quale, a sua volta, denota un oggetto su cui la proposizione verte. Inoltre, egli assume il principio dell’acquaintance (v. sopra, $ 1), secondo cui ogni proposizione che possiamo comprendere dev'essere esclusivamente composta di costituenti nei confronti dei quali abbiamo un rapporto di conoscenza immediata, cioè non implicante nessuna inferenza e nessuna conoscenza di proposizioni. Dunque se — come argomenta Russell — non possiamo essere in familiarità con Jones, a meno di essere Jones, non possiamo, in generale, usare la parola “Jones” come un vero nome proprio, perché vero un nome proprio deve indicare un costituente di una proposizione con cui siamo in familiarità; “Jones” dev'essere dunque, in generale, l’abbreviazione di una descrizione, o di un insieme di descri-

zioni. In altri termini, Russell sostiene qui che i nomi propri ordinari sono in realtà — con l’eccezione del nostro stesso nome per noi stessi — descrizioni definite. Lo stesso punto è spiegato, più ampiamente, sei anni dopo in “Knowledge by acquaintance and knowledge by description”, stavolta nel contesto della teoria delle descrizioni definite di “On denoting”: Facciamo qualche esempio. Prendiamo una qualche asserzione fatta a proposito di Bismarck. Assumendo che ci sia qualcosa come una familiarità diretta [direct acquaintance] con se stessi, Bismarck stesso avrebbe potuto usare il proprio nome per designare quella particolare persona con cui egli era in familiarità [was acquainted). In questo caso, se avesse formulato un giudizio su se stesso, egli stesso avrebbe potuto essere uno dei costituenti del giudizio. Qui il nome proprio ha l’uso diretto che vorrebbe sempre avere, come stante semplicemente per un certo oggetto, e non per una descrizione dell’oggetto. Ma se una persona che conosceva Bismarck avesse formulato un giudizio su di lui, il caso sarebbe diverso. Quello con cui questa persona era in familiarità [was acquainted) erano certi dati di senso [sense-data??] che connetteva (a ragione, supporremo) con il corpo di Bismarck.

Il suo COrpo,

come oggetto fisico, e ancor più la sua mente, erano noti solo come il corpo e la mente connessi a quei dati di senso. Cioè, essi erano conosciuti per descrizione [known by description]. È, naturalmente, una faccenda molto casuale quali caratteristiche dell'aspetto

di un uomo verranno in mente a un amico che pensa a lui; così la descrizione che l’amico di fatto ha in mente è accidentale. Il punto essenziale è che egli sa che le varie descrizioni si applicano tutte alla stessa entità, a dispetto del fatto di non essere in familiarità con l’entità in questione. Quando noi, che non abbiamo conosciuto Bismarck, formuliamo un giudizio su di lui, la descrizione che avremo in mente sarà probabilmente una massa più o meno vaga di conoscenze storiche — molto di più, nella maggior parte dei casi, di quanto sia richiesto per identificarlo.?””

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287 V. Russell [1919a], cap. 16, p. 179, e Russell [1959], cap. 14, p. 168. V. anche Russell [1918-19], $ II, p. 200: «I nomi che usiamo co-

AURA: come “Socrate”, sono in realtà abbreviazioni di descrizioni [abbreviations of descriptions)». 5 » V. Russell [1948a], parte IV, cap. 8, p. 319 (ediz. americana, p. 301). Scrive Russell: «L'intero regno delle non entità, come “il quadrato rotondo”, “il numero primo pari diverso da 2”, “Apollo”, “Amleto” ecc., può essere ora trattato in modo soddisfacente. Tutte queste sono espressioni denotanti che non denotano nulla. Una proposizione sa

Apollo significa ciò che otteniamo sostituendo ciò che il dizionario classico ci dice essere significato da Apollo, per esempio “il ‘dio-soler

Tutte le proposizioni in cui compare Apollo [Apollo occurs; sic] si devono interpretare per mezzo delle suddette regole per le es bs

denotanti» (Russell [1905c], p. 54).

290 Russell [1905f], p. 369; corsivi di Russell. Non è dunque corretto quanto suggerito in Cartwright [2005],

cino considerato i nomi propri ordinari come abbreviazioni di descrizioni prima del 1911. = Approfondiremo tra poco che cosa precisamente Russell intenda con “dati di senso”. “’ Russell [1911e], pp. 216-217, e Russell [1912a], cap. 5, pp. 85-86.

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pur

p. 922: cioè che Russell non

i



La teoria delle descrizioni

523

In “Knowledge by acquaintance and knowledge by description”, e ancora in The Problems of Philosophy Sal Russell ritiene probabile, seppure non certo, che si possa avere conoscenza per familiarità del proprio Io. Da Theory of Knowledge (1913) egli non è più di quest'idea; chiedendosi se l’Io (inteso come soggetto dell’esperienza) sia qualcosa con cui sia possibile avere familiarità in isolamento dalle esperienze che lo stesso Io sta avendo, egli scrive:

Su questa domanda, bisogna confessare che l’introspezione non dà una risposta favorevole. L’incapacità di Hume di percepire se stesso non era peculiare,[°°] e penso che la maggior parte degli osservatori imparziali concorderebbe con lui. Anche se con un grande impegno qualche rara persona potesse afferrare una fugace visione di se stessa, questo non basterebbe; perché “io” è un termine che tutti sappiamo usare, e che deve quindi avere qualche significato facilmente accessibile. Ne consegue che la parola “io”, com’è usata comunemente, deve stare per una descrizione; non può essere un vero nome proprio nel senso logico, poiché i veri no-

mi possono essere assegnati solo a oggetti con cui siamo in familiarità [we are acquainted]»

Per Russell esistono, in effetti, degli autentici nomi propri (o nomi logicamente propri). Deve trattarsi di nomi che non possono mancare d’avere il referente inteso: infatti, trattandosi di nomi propri autentici, il loro referente dev'essere oggetto di familiarità (acquaintance), e poiché la familiarità è una relazione diadica tra un soggetto e un oggetto, «la questione se tale oggetto vi sia non può sorgere».?°° Quali saranno, allora, i possibili oggetti di familiarità? Dal 1911, con “Knowledge by acquaintance and knowledge by description”, Russell sosterrà esplicitamente che i comuni oggetti fisici sono inadatti a rivestire questo ruolo.?”” Ma questo è un esito già implicito nelle assunzioni russelliane del 1903: data la teoria dell’acquaintance, non si può dire qualcosa come “Ho incontrato Jones”, dove “Jones” sia un autentico nome proprio, perché potremmo solo aver sognato di incontrare Jones, 0 aver scambiato qualcun altro per Jones. È possibile un errore. Invece, l’acquaintance è infallibile; nelle parole di Russell: «la questione della verità o dell’errore non può sorgere riguardo ad essa».”’* «Quando siamo in familiarità [acquaintance] con un oggetto», scrive Russell in Theory of Knowledge, «tale oggetto certamente c’è, e la possibilità dell’errore è logicamente esclusa».?” Russell ne deriva che, nel nostro rapporto con il mondo esterno, non siamo in familiarità con gli oggetti fisici ordinari, come, per es., tavoli e sedie, ma con ciò che, dal 1911, Russell chiama dati di senso (sense-data):* forme colorate nel campo visivo, suoni, odori, sapori, ecc.:

29 V. Russell [1911e], pp. 211-212, e Russell [1912a], cap. 5, pp. 78-80, e p. 81. 294 Nel suo Treatise of Human Nature, Hume scrive: «Per parte mia, quando mi addentro più profondamente in ciò che chiamo me stesso,

m’imbatto sempre in una particolare percezione: di caldo o di freddo, di luce o di oscurità, di amore o di odio, di dolore o di piacere. Non riesco mai a sorprendere me stesso senza una percezione e a cogliervi altro che la percezione» (Hume [1739-40], libro I, parte IV, sez. VI,

p. 264). 295 Russell [1913a], parte I, cap. 3, pp. 36-37; Russell [1914b], $ III, p. 164.

2° Russell [1913b], p. 76. 297 Scrive Russell «[...] tra gli oggetti con cui siamo in familiarità [we are acquainted) non sono inclusi gli oggetti fisici (in quanto opposti ai dati di senso [sense-data]), né le menti delle altre persone» (Russell [1911e], p. 214). V. anche Russell [1912a], cap. 5, pp. 74-75.

298 Russell [1913b], p. 76.

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29 Russell [1913a], parte I, cap. 4, p. 49. In Theory of Knowledge, Russell assume tra i principi metodologici: 1 «(1) Gli oggetti di familiarità [acquaintance] non possono essere “illusori” o “irreali”» (Russell [1913a], parte I, cap. 4, p. 48; corsivo di Russell);

uu

«(2) La possibilità di errore in qualsiasi evento [occurrence] cognitivo mostra che l’evento non è un esempio di una relazione duale» (Rus| date ; sell [1913a], parte I, cap. 4, p. 49; corsivo di Russell). Il primo principio implica — come spiega Russell subito dopo averlo enunciato — che anche gli oggetti di familiarità che abbiamo nei sogni e nelle allucinazioni sono reali: «Di fatto, ciò che si chiama irrealtà di un oggetto immediato deve sempre essere in realtà irrealtà di qualche altro oggetto inferito dall’oggetto immediato e descritto riferendosi ad esso» (Russell [1913a], parte È cap. 4, P. 49; corsivo di Rus-

sell). Lo stesso punto era già spiegato in “On the nature of truth and falsehood” (1910): «E vero che ci sono casi in cui la percezione sembra essere in torto, come i sogni e le allucinazioni. Ma io credo che in tutti questi casi lapercezione stessa sia corretta, e ciò che è sbagliato è un giudizio basato sulla percezione» (Russell [1910b], p. 122; corsivo di Russell), e nei Problems of Philosophy: 2315 o, È È Ga 5 È EVE 5 ar descrizioni.’ °In Theory of Knowledge si come usati sono ordinari, fisici oggetti dati di senso immediati, ma degli legge: Ma proprio la stessa parola che, in un momento, è usata come vero nome proprio per un oggetto dato, può essere usata il momento dopo come una descrizione. Possiamo dire “Questo esiste”, intendendo “L’oggetto della mia attuale attenzione esiste”, o “L'oggetto che sto indicando esiste”. Qui la parola “questo” ha smesso di funzionare come nome proprio, ed è diventato una parola descrittiva, in cui un oggetto è descritto dalle sue proprietà, e si può sollevare la questione se ci sia un tale oggetto, poiché possono essere costruite descrizioni cui non corrisponde nulla.*!°

Un punto ripreso qualche anno dopo in “The philosophy of logical atomism”: Le uniche parole che si usano effettivamente come nomi nel senso logico sono parole come “questo” o “quello”. Si può usare “questo” come un nome che stia per un particolare con cui si è in familiarità al momento. Diciamo “Questo è bianco”. Se siete d’accordo che “Questo è bianco”, intendendo il “questo” che vedete, state usando “questo” come un nome proprio. Ma se cercate di comprendere la proposizione che io esprimo quando dico “Questo è bianco”, non potete farlo. Se intendete questo pezzo di gesso come oggetto fisico, allora non state usando un nome proprio. È solo quando usate “questo” in modo assolutamente stretto, cosicché stia per un attuale oggetto di senso, che esso è realmente un nome proprio.”

5.2. Una digressione sull’epistemologia di Russell — che, come si è potuto constatare, è qui particolarmente intrecciata con la sua semantica — aiuterà a comprendere come davvero egli intendesse la sua teoria dei nomi propri.'* Cominciamo con le posizioni sostenute da Russell tra il 1911 e il 1920. Osserviamo, innanzi tutto, che un dato di senso (sense-datum) russelliano — in senso stretto, cioè nel senso di un particolare sensibile che può essere nominato tramite un deittico come “questo” o “quello” — non è «la totalità di ciò che è dato nel senso [sc. in un

singolo senso] a un certo tempo», ma «una parte della totalità tale da poter essere selezionata dall’attenzione: particolari macchie di colore, particolari rumori, ecc.».”°° È di importanza fondamentale rilevare che i dati di sen31! V_ Russell [1913a], parte I, cap. 3, p. 37, p. 40 e p. 44, e cap. 6, p. 65 e p. 69. 312

e 66

In una nota apposta nel 1917 alla frase di

:

wgs

ù

“Knowledge by acquaintance and knowledge by description” riportata poco sopra — in occa-

sione della ripubblicazione dell’articolo in Mysticism and Logic (1918) —, Russell osserva: «Escluderei ora “io” dai nomi propri in senso stretto, e conserverei solo “questo”» (Russell [1911e], p. 224).

31° Russell [1919a], cap. 16, p. 178. 314

p © Russell [1948a], parte II, ncap. 3, p. 94 (ediz. americana, p. 79). 315 ; ic ioni ì In Cartwright [2005], pp. 925-926, Russell è criticato omettendo di rilevare questo punto della sua teoria.

310 Russell [1913a], parte II, cap. 4, p. 138. 2!7 Russell [1918-19], $ II, p. 201.

318 Buone trattazioni DEG0CO delle idee ; . russelliane sulla conoscenza del mondo esterno si trovano in Fritz [1952], in Miah [1998] (periodo consideDO: 1905-1919), e in HyIton [1990a], cap. 8, $ 2, pp. 361-391 (periodo considerato: 1906-1914).

21° Russell [1914d], $ II, p. 147. 320

:

Ibid. Nello stesso luogo, Russell ammette

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la possibilità di assegnare un senso più lato al termine “dati di senso”, che comprenda fatti

complessi, oltre che particolari: «Un fatto complesso osservato, come che questa macchia di rosso è a sinistra di quella macchia di blu, è anch'esso da considerarsi un dato dal ROSTA: uao di vista presente: epistemologicamente, non differisce molto da un dato di senso semplice riguardo alla sua funzione nel

dare conoscenza. La sua struttura logica è molto diversa, tuttavia, da quella del senso: il senso dà familiarità [acquaintance] con particolari ed è quindi una relazione a due termini in cui l’oggetto può essere nominato ma non asserito, ed è inerentemente incapace di verità o falsità, mentre l’osservazione di un fatto complesso, che si può appropriatamente chiamare percezione, non è una relazione a due termini ma implica la forma proposizionale dalla parte dell’oggetto, e dà conoscenza di una verità, non una semplice familiarità con un particolare. Questa differenza logica, per importante che sia, non è molto rilevante per il nostro problema attuale; e sarà conveniente considerare i dati

di percezione come compresi tra i dati di senso per gli scopi di questo saggio. Si deve osservare che i particolari che sono costituenti di un

dato di percezione sono sempre dati di senso in senso stretto» (ibid.; corsivi di Russell).

La teoria delle descrizioni

SI

so russelliani non Ve entità mentali. Nel periodo considerato, Russell distingue tra sensazioni (sensations) e dati

di senso (sense-data),“'

caratterizzando solo le prime come mentali:

Diamo il nome di “dati di senso” alle cose che sono conosciute immediatamente nella sensazione: cose come colori, suoni, odori, durezza, ruvidezza, e così via. Daremo il nome “sensazione” all’esperienza di essere immediatamente consapevole di queste cose. Così, ogni qualvolta vediamo un colore, abbiamo una sensazione del colore, ma il colore stesso è un dato di senso, non una sensazione. Il colore [il sense-datum] è ciò di cui siamo immediatamente consapevoli, e la consapevolezza stessa è la sensazione.3°?

Per una sensazione intendo il fatto consistente nella consapevolezza di un dato di senso da parte di un soggetto. Così una sensazione è un complesso di cui il soggetto è un costituente e che è pertanto mentale. Il dato di senso, d'altra parte, sta in rapporto al soggetto come quell’oggetto esterno di cui il soggetto è consapevole nella sensazione.*?

Si suppone che il tavolo (per esempio) causi i nostri dati di senso della vista e del tatto ma debba [...] essere del tutto diverso dai dati di senso cui dà origine. C’è, in questa teoria, una tendenza a una confusione da cui essa deriva parte della sua plausibilità, cioè, la confusione tra una sensazione come evento psichico [psychical occurrence] e il suo oggetto. Una macchia di colore, anche se esiste solo quando è vista, è tuttavia qualcosa di affatto diverso dal vederla: il vederla è mentale, ma la macchia di colore non lo è.

Una sensazione è dunque per Russell un fatto di cui un soggetto (una mente) e un dato di senso sono costituenti; avendo una mente tra i suoi costituenti, la sensazione è per Russell un fatto mentale.

Contrariamente alle

sensazioni, i dati di senso sono per Russell entità fisiche.??° Ma com'è possibile? Pare evidente che i dati di senso siano soggettivi; per esempio, mi basta chiudere gli occhi, girare le spalle o uscire dalla stanza, perché i miei dati di senso cambino drasticamente, mentre, suppongo, non mi basta chiudere gli occhi, girare le spalle o uscire dalla stanza, per modificare ciò che è reale.??” La risposta di Russell è che i dati di senso si possono dire soggettivi in senso puramente fisiologico, in quanto dipendono dagli organi di senso, dai nervi, dal cervello di un individuo,” ma non sono entità soggettive nel senso di essere mentali, cioè dipendenti dalla mente di un individuo; questo perché, secondo Russell, in condizioni normali i dati di senso non sono altro —

assumendo l’immagine del mondo

del senso comune — che il materiale (fisico) che gli apparati sensoriali (fisici) del nostro corpo (cervello incluso)

presentano alla nostra mente: Considero i dati di senso come non mentali, e come, di fatto, parte del reale oggetto [subject-matter] della fisica. Ci sono argomenti, da esaminarsi tra breve, per la loro soggettività, ma questi argomenti mi sembrano solo dimostrare la soggettività fisiologica, ossia la dipendenza causale dagli organi di senso, dai nervi, e dal cervello. L’apparenza che una cosa presenta a noi è causalmente dipendente da questi, esattamente nello stesso modo in cui è dipendente da una nebbia o da un fumo interposti o da occhiali colora-

+ 329

ua

Il dato di senso [...] sta in rapporto al soggetto come quell’oggetto esterno di cui il soggetto è consapevole nella sensazione. E vero che il dato di senso è in molti casi nel corpo del soggetto, ma il corpo del soggetto è tanto distinto dal soggetto quanto lo sono tavoli e sedie, ed è di fatto semplicemente una parte del mondo materiale. Non appena, pertanto, i dati di senso sono chiaramente distinti dalle sensazioni, e la loro soggettività si riconosce essere fisiologica, non psichica, gli ostacoli principali sulla via del riconoscerli come fisici sono rimossi.*? Quando vedo il bagliore di un fulmine, il mio vederlo [la mia sensazione] è mentale, ma ciò che vedo [il dato di senso], sebbene

non sia proprio lo stesso che qualcun altro vede nello stesso momento, e sebbene sembri ben diverso da ciò che il fisico descriverebbe come un bagliore di fulmine, non è mentale. Sostengo, di fatto, che se il fisico potesse descrivere fedelmente e pienamente tutto ciò che accade nel mondo fisico quando c’è un bagliore di fulmine, esso conterrebbe come costituente ciò che io vedo, e anche ciò che è visto da chiunque altro che sarebbe comunemente detto vedere lo stesso lampo. Ciò che intendo Sì può forse rendere più chiaro dicendo che se il mio corpo potesse rimanere esattamente nello stesso stato in cui è, sebbene la mia mente abbia cessato di per es.: Russell [1912a], cap. 1, p. 17; Russell [1913a], parte I, cap. 5, p. 58, e cap. 6, p. 66; Russell [ 1914a], 1° ediz., lecture III, p. 84-85 (i passi sono modificati nella 2° ediz. del libro, del 1926, perché — come vedremo più avanti — all’epoca Russell non diDp. e 76, iimpicra più tra dati di senso e sensazioni: v., rispettivamente, 2* ediz. inglese, pp. 83-84 e p. 92); Russell [1914d], $ IV, p. 152. I

322 Russell [1912a], cap. 1, p. 17; corsivi di Russell.

323 Russell [1914d], $ IV, p. 152.

324 Russell [1914a], 1° ediz., lecture III, pp. 84-85.

|

gr

325 Scrive Russell: «Chiamerò “mentale” un particolare quando è consapevole di qualcosa, e chiamerò un particolare mentale come costituente» (Russell [1914d], $ IV, p. 150).

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“mentale” È

326 V, per es., Russell [1913b],p.78, Russell [1914d], $ IV, p. 151, e Russell [1915], p. 128, e pp. 130-132. sn AVA “ ediz., p p. 70). V. Russell [1914a], lecture; III, p. 77 (1°e

;

estera

fatto quando contiene

|

e $ IV, 328 V. Russell [1912a], cap. 4, p. 65; Russell [1914a], lecture III, p. 71, e p. 91 (I° ediz., p. 83); Russell [1914d], $ II, pp. 149-150,

pp. 151-152; Russell [1915], p. 131, p. 134e p. 143.

329 Russell [1914d], $ III, p. 149. 330-Ryssell [1914d], $ IV, p. 152. }

capitolo 7

528

esistere, precisamente lo stesso oggetto che io ora vedo quando vedo il lampo esisterebbe, anche se naturalmente non potrei vederlo, perché il mio vedere è mentale.?! Credo che i dati reali nella sensazione, gli oggetti immediati della vista, del tatto o dell’udito, siano extra-mentali, puramente fisici, e tra i costituenti ultimi della materia.?° Non è difficile vedere che colori e rumori non sono mentali nel senso di avere quella peculiarità intrinseca che appartiene a credenze e desideri e volizioni, ma non al mondo fisico.333

Un dato di senso è per Russell un po” come una foto della luna presa attraverso un telescopio: è qualcosa di soggettivo solo nel senso che dipende dalle caratteristiche fisiche del telescopio e della macchina fotografica; ma ciò non significa che la foto della luna sia qualcosa di meno fisico della luna stessa. Così per Russell il dato di senso dipende dalle caratteristiche fisiche dei nostri organi sensoriali, ma non è qualcosa di meno fisico degli altri oggetti fisici. Per Russell, un soggetto direttamente consapevole di un dato di senso — questa consapevolezza diretta essendo la sensazione — è un po’ come l’astronomo che guarda la foto della luna ripresa dal telescopio.** Ma le “illusioni sensoriali”, per esempio, i dati di senso che abbiamo quando sogniamo, 0 quando abbiamo un’allucinazione, sono anch'essi entità fisiche? Per Russell sì. Anche in questo caso, i dati di senso sarebbero in-

fatti — seguendo l’immagine del mondo del senso comune — un output fisico di un’entità fisica: il nostro cervello. Per Russell, essi sono reali quanto i dati di senso che abbiamo in condizioni di veglia normale: Gli oggetti di senso, anche quando compaiono nei sogni, sono gli oggetti reali da noi conosciuti nel modo più indubitabile. Che cosa, allora, fa sì che li chiamiamo irreali nei sogni? Semplicemente la natura insolita della loro connessione con altri oggetti di senso. Sogno che sono in America, ma mi sveglio e mi trovo in Inghilterra senza che siano intercorsi quei giorni sull’ Atlantico che, ahimè! sono inseparabilmente connessi con una “reale” visita in America. Gli oggetti di senso sono chiamati “reali” quando hanno il genere di connessione con altri oggetti di senso che l’esperienza ci ha condotto a considerare normali; quando mancano in questo, sono chiamati “illusioni”. Ma ciò che è illusorio sono solo le inferenze cui essi [i dati di senso dei sogni] danno origine; in se stessi, essi sono in tutto e per tutto reali quanto gli oggetti [qui “oggetti” sta per “oggetti sensibili”, che nel testo da cui citiamo è talora usato al posto di “dati di senso”] della vita da svegli.”

La dottrina dei dati di senso come entità fisiche oggettive consente a Russell di conservare, contro l’idealismo, la sua teoria della familiarità (acquaintance) —

secondo cui possiamo avere un accesso diretto alla realtà fisica,

non mediato da nessuna entità mentale, da nessuna “idea”. I dati di senso sono infatti per Russell costituenti del mondo fisico, e sono “visti” dalla mente, esattamente come sono, senza alcuna mediazione. Scrive Russell: Se abbiamo avuto ragione nelle nostre tesi, i dati di senso sono semplicemente quelli tra i costituenti ultimi del mondo fisico dei quali ci accade di essere immediatamente consapevoli; essi stessi sono puramente fisici, e la sola cosa mentale in relazione ad essi è la nostra consapevolezza di essi, che è irrilevante alla loro natura e al loro posto nella fisica.*>°

Assumendo l’immagine del mondo del senso comune, secondo la teoria di Russell gli apparati sensoriali del corpo del soggetto riceverebbero come input delle entità fisiche (onde elettromagnetiche, ecc.) e fornirebbero entità fisiche come output — i dati di senso — che sarebbero poi “viste” dalla mente del soggetto, la quale verrebbe così a trovarsi in un rapporto di familiarità con esse: La fisica ci dice che certe onde elettromagnetiche partono dal sole, e raggiungono i nostri occhi dopo circa otto minuti. Essi producono perturbazioni nei coni e bastoncelli, quindi nel nervo ottico, quindi nel cervello. Alla fine di questa serie puramente fisica, per qualche strano miracolo, viene l’esperienza che chiamiamo “vedere il sole”, ed è tale esperienza che costituisce l’intera e unica ragione per la nostra credenza nel nervo ottico, nei coni e bastoncelli, nei novantatré milioni di miglia, nelle onde elettromagnetiche e nel sole stesso.*” ; } i

231 Russell [1915],pp. 130-131. 332 Russell [1915], p. 128.

233 Russell [1915], p. 132.

33415 ; L’esempio, naturalmente, dev'essere preso con un grano di sale, supponendo che l’astronomo sia una pura mente, adeguata ad essere in Gu rapporto di conoscenza diretta con gli output del telescopio. © Russell [1914a], lecture III, p. 93 (1° ediz., pp. 85-86). V. anche: Russell [1910b], p. 122; Russell [1912a], cap. 10, p. 172; Russell [1913a], parte I, cap. 4, p. 49; Russell [1914d], $ XII, pp. 176-179; Russell [1918-19], $ VIII, pp. 274-275 sa 2/4-2/9. PP. » x 336 Russell [1915], p. 143

37 Russell [1915], p. 135.

La teoria delle descrizioni

529

Questa teoria della percezione non appare molto convincente: secondo la fisiologia, i nostri output sensoriali

sono nel cervello,3 ma il nostro vedere, per es., qualcosa di giallo, blu o verde, non implica la presenza nel cervello di un’entità fisica gialla, blu o verde (un dato di senso giallo, blu o verde), ma solo di una configuraz ione di

scariche elettriche neuronali suscitata dalla rilevazione sensoriale un oggetto giallo, blu o verde.* Nella teoria russelliana dei dati di nendo che dentro di noi ci sia un homunculus — la mente — che tratta di una di quelle teorie del “fantasma nella macchina” (ghost

Ryle nel suo celebre The Concept of Mind (1949).?°

di radiazioni elettromagnetiche provenienti da senso, la nostra percezione è analizzata suppo“vede” ciò che i nostri sensi gli presentano: si in the machine) contro le quali reagirà Gilbert

Poiché per Russell i dati di senso non sono entità più mentali degli usuali oggetti fisici (supponendo, naturalmente, che esistano gli usuali oggetti fisici), sembrano non esservi ragioni a priori per escludere che questi ultimi possano essere oggetto di familiarità (acquaintance). Si tratta di una conseguenza che Russell effettivamente trae: per Russell è solo un fatto empirico che /e nostre menti siano incapaci di essere direttamente consapevoli di 0ggetti fisici diversi dai dati di senso; cioè non è a priori impossibile che una mente possa essere direttamente consapevole di un usuale oggetto fisico.?*! Sempre perché l’esistenza di un dato di senso «non è logicamente dipendente da quella del soggetto [della mente]»,}* non c’è, per Russell, «nessuna ragione a priori perché un particolare che è un dato di senso non debba persistere dopo che ha cessato di essere un dato, né perché altri particolari simili non possano esistere senza mai essere dati».*** Ancora per lo stesso motivo — l’indipendenza del dato di senso dal soggetto (dalla mente) — è per Russell un puro fatto — un fatto contingente — che due soggetti (due menti) non siano mai direttamente consapevoli degli stessi dati di senso.** Nei Problems of Philosophy, Russell sostiene che sia razionale inferire l’esistenza degli oggetti fisici ordinari dai dati di senso, come cause di questi ultimi: «è razionale credere che i nostri dati di senso [...] siano davvero segni dell’esistenza di qualcosa di indipendente da noi e dalle nostre percezioni». Egli ammette che «non possiamo mai provare l’esistenza di cose diverse da noi stessi e dalle nostre esperienze», e che non sia logicamente im-

possibile che «tutta la vita sia un sogno, in cui noi stessi creiamo tutti gli oggetti che ci vengono innanzi»; ma aggiunge: Ma sebbene questo non sia logicamente impossibile, non c’è alcuna ragione di credere che sia vero; ed è, di fatto, un’ipotesi meno semplice, vista come mezzo di render conto dei fatti della nostra vita, dell’ipotesi del senso comune che ci siano realmente oggetti c

3

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È

7

ci

- 346

indipendenti da noi, la cui azione su di noi causa le nostre sensazioni.

Qualche pagina dopo, parlando della nostra «credenza istintiva che ci siano oggetti corrispondenti ai nostri da-

ti di senso»,” Russell scrive: 338 Russell lo ammette, quando scrive: «Ciò che avviene quando vedo una stella avviene come risultato delle onde luminose che urtano la retina, e che causano un processo nel nervo ottico e nel cervello; pertanto l’evento chiamato “vedere una stella” dev'essere nel cervello» (Russell [1914a], lecture IV, p. 129; il passo è assente nella 1° ediz. del libro).

339 Russell ha tuttavia una risposta a quest’obiezione, che espone in Russell [1927b], cap. 13, pp. 146-147, e in Russell [1948a], parte III, cap. 7, p. 245 (ediz. americana, p. 229). Nella prima opera, immaginando un fisiologo che osservi un cervello vivente, Russell scrive: «È

naturale supporre che ciò che il fisiologo vede sia nel cervello che sta osservando. Ma se stiamo parlando dello spazio fisico, ciò che il fisiologo vede è nel suo proprio cervello» (Russell [1927b], cap. 13, p. 146). Quindi, se il fisiologo non vede, per es., qualcosa di rosso 0sservando il cervello di chi sta avendo un dato di senso rosso, non significa che questo dato di senso non vi sia, ma solo che ne/ cervello del n E india : fisiologo non c’è un dato di senso rosso. menzionamai però senza Mind, of Concept Yhe di 3, $ soprattutto 7, cap. nel a Ryle critica la teoria dei dati di senso e dell’acquaintance re Russell.

Vini

34! Russell [1913b], pp. 78-79.

|

i

34 Russell [1914d], $ IV, p. 152. Scrive Russell: «[...] il solo modo, per quanto ne so, in cui l’esistenza di A può essere logicamente dipendente dall’esistenza di B è quando B è parte di A» (Russell []1914d, $ IV, p. 152; il passo è ripetuto quasi con le stesse parole in Russell [1914a], lecture III, p. 81 (1°ediz., p. 74), dove Russell esemplifica così: «L'esistenza di un libro, per esempio, è logicamente PRI

quella delle sue pagine: senza le pagine non vi sarebbe alcun libro»). Russell ammette anche un genere di dipendenza non logica tra due coDe se, che si ha quando vi sia una «relazione causale tra le due tale che l’una compaia solo come l’effetto dell’altra» (ibid.). ,

343 Russell [1914d], $ IV, p. 152. V. anche Russell [1913b], dove si legge: «E l’idea che le cose che sono date nel senso esistano esse stesse

i in tempi in cui non sono date mi sembra presentare certune difficoltà, sebbene esse non siano di un genere a priori 0 logico» (p. 79). 344 Russell scrive: «[...] per quanto si può scoprire, nessun sensibile [cioè, nessun oggetto del tipo dei dati di senso] è mai un dato di due persone insieme» (Russell [1914d], $ VII, pp. 158-159). Concordo con Hylton [1990a], cap. 8, $ 2, p. 373, nell’interpretare la frase «per nello stesquanto si può scoprire» come implicante che — per Russell — la circostanza che lo stesso dato di senso non si dia a due persone empirico. fatto semplice un ma so tempo non sia una verità a priori,

345 Russell [1912a], cap. 3, p. 42. 346 Russell [1912a], cap. 2, p. 35.



347 Russell [1912a], cap. 2, p. 38; corsivi di Russell.

capitolo 7

530

Poiché questa credenza non conduce a nessuna difficoltà, ma al contrario tende a semplificare e sistematizzare il nostro resoconto un delle nostre esperienze, sembra non esserci nessuna buona ragione per rifiutarla. Possiamo quindi ammettere — anche se con piccolo dubbio derivante dai sogni — che il mondo esterno esiste realmente, e non è interamente dipendente per la sua esistenza dal nostro continuare a percepirlo. L'argomento che ci ha condotti a questa conclusione è senza dubbio meno forte di quanto potremmo desiderare, ma è rappresentativo di molti argomenti filosofici, e vale dunque la pena di considerare brevemente il suo carattere generale e la sua validità. Tutta

la conoscenza, scopriamo, dev'essere costruita sulle nostre credenze istintive, e se queste sono rifiutate, non resta nulla. Ma tra le nostre credenze istintive alcune sono più forti di altre [....].

La filosofia dovrebbe mostrarci la gerarchia delle nostre credenze istintive, e presentare ciascuna di esse nel modo più isolato e libero da assunzioni irrilevanti che sia possibile. Dovrebbe aver cura di mostrare che, nella forma in cui sono infine formulate, le nostre credenze istintive non sono in disaccordo, ma formano un sistema armonioso. Non ci può mai essere nessuna ragione per rifiutare una credenza istintiva se non che essa è in disaccordo [c/ashes] con altre; quindi, se esse risultano armonizzarsi, l’intero siste-

ma diviene meritevole di accettazione.***

Ci sono dunque, per il Russell dei Problems," due importanti giustificazioni per inferire dai dati di senso l’esistenza di una realtà fisica che ne sarebbe la causa: una è che questa fornisce una spiegazione e una sistemazione dei dati dell’esperienza più semplice di altre; l’altra è che si tratta di una credenza istintiva molto forte, che non può essere rifiutata se non perché è in disaccordo con credenze istintive altrettanto, o più forti. L’inferenza dai dati di senso agli oggetti fisici che ne sarebbero la causa è però in grado — secondo il Russell dei Problems — di farci conoscere solo gli aspetti strutturali del mondo fisico, non quelli intrinseci. Scrive Russell: Se un oggetto appare blu e un altro rosso, possiamo ragionevolmente presumere che ci sia qualche differenza corrispondente tra gli oggetti fisici; se due oggetti appaiono entrambi blu, possiamo presumere una similarità corrispondente. .Ma non possiamo sperare di essere direttamente in familiarità [to be acquainted directly] con la qualità nell’oggetto fisico che lo rende blu o rosso. La scienza ci dice che questa qualità è una certa sorta di movimento ondulatorio, e questo suona familiare [familiar], perché pensiamo il movimento ondulatorio nello spazio che vediamo [cioè, nello spazio dei dati di senso]. Ma il movimento ondulatorio deve in realtà essere nello spazio fisico, con il quale non abbiamo familiarità diretta [direct acquaintance]; così il movimento ondulatorio reale non

ha quella familiarità [familiarity] che avremmo potuto supporre. E ciò che vale per i colori è strettamente simile a ciò che vale per gli altri dati di senso. Così troviamo che, sebbene le relazioni tra oggetti fisici abbiano proprietà conoscibili di ogni sorta, derivate dalle loro corrispondenze con le relazioni tra dati di senso, gli oggetti fisici stessi rimangono sconosciuti nella loro natura intrinseca, almeno per quanto si possa scoprire per mezzo dei sensi.°°

I Problems furono pubblicati il 24 gennaio del 1912, ma già all’inizio del marzo successivo Russell non era più convinto dagli argomenti contro lo scetticismo addotti in quel libro.®' In una lettera a Ottoline Morrell del primo di marzo del 1912, Russell scrive: Nella mia lezione di ieri ho cambiato opinione a metà. Ero andato per dimostrare che probabilmente c'è un mondo esterno, ma

l’argomento mi è sembrato fallace quando ho cominciato a esporlo, cosicché ho dimostrato alla mia classe che non c’era ragione di pensare che esista qualcosa, tranne me stesso...*°° .

D

I227 aprile del 10.12: oi comincia la redazione di “On matter”: in questo saggio — terminato il successivo 13 maggio, modificato nell’ottobre successivo, ma poi non pubblicato — egli considera del tutto inefficaci eli ar345 Russell [1912a], cap. 2, pp. 38-39. 24° Per lo sviluppo dell’argomentazione, v. Russell [1912a], cap. 2, pp. 35-40.

350 Russell [1912a], cap. 3, pp. 53-54. 391 Come argomenta in modo convincente Sajahan Miah ([1987], pp. 17-19; [1998], $ 4.4, pp. 102-104) esaminando la corrispondenza di Russell con Ottoline Morrell e con Lucy Donnelly del 1911 e 1912, l'evoluzione delle idee di Russell risentì qui dell’influenza di Ludwig Wittgenstein. Nel 1911, Wittgenstein si era recato in Inghilterra, consigliatone da Frege, per seguire il corso di logica e fondamenti della

matematica che, dall’ottobre 1910, Russell teneva a Cambridge. Russell lo conobbe il 18 ottobre 191 1, poco prima dell’inizio sua prima lezione del corso di quell’anno (v. il loro primo incontro è descritto in una lettera di Russell a Ottoline Morrell dello stesso 18 bitobré 1911

ora in Russell [1992b], pp. 397-398). Dapprima, Russell fu colpito più dal carattere bizzarro di Wittgenstein che dalle sue doti intellettuali, ma dopo aver avuto con lui numerose e lunghe conversazioni, e averne letto alcuni scritti all’inizio del 1912, cominciò a nutrirne iu

Sint

de stima, via via crescente, al punto che nella primavera del 1912 considerava ormai Wittgenstein un filosofo suo pari, più che un alta

Come risulta dalle lettere esaminate da Miah, nel 1911-12 Wittgenstein sosteneva un radicale scetticismo: «Egli»

i

Russell di Witt-

genstein in una lettera alla Morrell del 2 novembre del 1911, «pensa che nulla di empirico sia conoscibile — gli ho chiesto di iinnaned

n non c’era un rinoceronte nella stanza, ma non ha voluto farlo» (il passo è riportato in Miah [1987], p. 17, e in Mia 1998], 352 Brano riportato in Miah [1987], p. 18, e in Miah [1998], $ 4.4, p. 103.

$ 4.4, p

La teoria delle descrizioni

SSIl

gomenti dei Problems a favore dell’inferenza dai dati di senso a una realtà fisica indipendent e. L'argomento della semplicità gli pare ora non avere «assolutamente nessun peso»? perché — egli obietta — il principio secondo cui un'ipotesi più semplice avrebbe più probabilità di essere vera rispetto a una più complessa non ha alcun fondamento.” Lo stesso si dica dell’argomento della credenza istintiva: a Russell ora sembra che poiché «la credenza in oggetti esterni esistenti prima e dopo le nostre sensazioni è altrettanto ben presente durante le sensazioni dei sogni quanto durante quella che siamo pronti a considerare come vita da svegli», la credenza istintiva negli oggetti esterni non può essere posta «tra le più affidabili delle nostre credenze istintive».?°° In “On matter”, Russell suggerisce per la prima volta un’altra possibile soluzione al problema della giustificazione dell’esistenza degli usuali oggetti fisici, secondo la quale questi non sono considerati entità la cui esistenza è inferita dai dati di senso, con l’ausilio di qualche principio generale (per esempio, il principio della validità della spiegazione più semplice), ma sono considerati entità costruite logicamente a partire dal solo materiale dei dati di senso.?°° La «costruzione logica»? degli usuali oggetti fisici proposta da Russell per la prima volta in “On matter” non è altro che una riduzione ontologica degli usuali oggetti fisici a dati di senso. Si tratta, per Russell, di interpretare gli enunciati che in apparenza vertono sugli usuali oggetti fisici senza ammettere riferimenti ad entità diverse dai dati di senso. Se questa strada si rivelasse percorribile, ci sarebbe un importante vantaggio, rispetto alla precedente teoria dell’inferenza: l’accesso epistemico al mondo materiale era reso estremamente problematico nella teoria dell’inferenza, che secondo il Russell dei Problems consentiva sì di riconoscere l’esistenza del mondo

materiale, ma non permetteva di conoscerne altro che le proprietà strutturali; nella teoria proposta in “On matter”, invece, secondo Russell l’accesso epistemico al mondo materiale sarebbe ripristinato, perché esso sarebbe interpretato come costituito di entità con le quali possiamo essere in familiarità (acquaintance).?°* In “On matter”, Russell non specifica come questa riduzione possa essere effettuata, ma indipendentemente dalla tecnica scelta sorge un problema importante. I dati di senso momentanei di un singolo soggetto — dovrebbe trattarsi dei dati di senso momentanei di un singolo soggetto, perché non si possono assumere fin dall’inizio la persistenza del soggetto nel tempo, o l’esistenza di altre persone — non sembrano permettere la costruzione degli usuali oggetti fisici, per la semplice ragione che questi ultimi non sono tutti e sempre oggetti di percezione momentanea del soggetto in questione. Per fare un esempio banale, se a una festa esco da una sala affollata, non ho più alcun dato di senso relativo ad essa; ma la sala e il suo contenuto — esseri umani e arredi —, come entità fisiche, dovrebbero per-

manere anche quando ne esco. Per risolvere questo problema, si potrebbe fare ricorso ai dati di senso di altre persone, assegnando ad essi il compito di salvaguardare la permanenza della sala e del suo contenuto. Ma l’ammissione dell’esistenza dei dati di senso di altre persone, non risolverebbe del tutto il problema, perché si vuole, per es., che la sala e gli oggetti fisici che contiene continuino a esistere anche dopo che, finita la festa, non è rimasto nessuno a percepirli; e si vuole che esistano anche entità che si può presumere nessuno ha mai percepito, come il centro della terra. La via d’uscita a questi problemi che Russell suggerisce in “On matter” — e che poi adotterà dal 1913 — è quella di ammettere, come materiale per la costruzione degli oggetti fisici ordinari, oltre ai dati di senso propri e quelli altrui, anche oggetti della stessa natura dei dati di senso, i quali differiscono dai dati di senso solamente perché non sono dati sensoriali di nessun soggetto. Russell descrive la teoria che ne risulta come 353 Russell [1912f], p. 86.

|

354 V. Russell [1912f], pp. 86-87. Russell ribadirà lo stesso punto, quasi con le stesse parole, in Russell [1921a], lecture VII, p. 132. Witt-

genstein esprime il medesimo scetticismo nel Tractatus (v. Wittgenstein [1921], propp. 6.363 e 6.3631).

$ IT,p. 93. 35 Russell [1912f],

"

LA

2

356 In Our Knowledge of the External World (1914), Russell attribuirà interamente a Whitehead I idea di concepire ilmondo fisico come una costruzione, anziché come un’inferenza dai dati di senso: v. Russell [1914a], prefazione, pp. 7-8 (1° ediz., pp. v-vi). Quest attribuzione sarà confermata da Russell anche in seguito: v. Russell [1914d], $ VI, p. 157, e Russell [ 1959], cap. 1, p. 12, e cap. 9, p. 103. Come abbiamo visto sopra (cap. 3, ultima parte del $ 13.1.2), il 1° di ottobre del 1913 Whitehead aveva fornito a Russell un suo manoscritto in cui era

descritta una tecnica per costruire i punti come classi di volumi e gli istanti di tempo come classi di eventi. In My philosophical Develop-

ment (1959), Russell dichiara: «Il metodo di Whitehead di costruire i punti come classi [...] fu per me di grande aiuto nell’arrivare alla teoria precedente [Russell ha appena finito di descrivere la sua teoria del mondo esterno del 19 14)» da

II cap. 9, p. 108). Ciò però

non spiega l'emergere della teoria costruzionista russelliana in “On matter”, perché questo saggio è del 1912. Miah I LA $ 44, DI 109, discute il ruolo di Whitehead sul costruzionismo russelliano senza trovare conferme oggettive di altre possibili influenze di Whitehead

parte su di esso, né di un ruolo di Whitehead nella sua nascita; concordo con la sua conclusione che Whitehead non ebbe in realtà LAT

que nell’emergere del costruzionismo russelliano in “On matter”. Lo stesso Russell, sempre in My philosophical Development, scrive: «La

of stione della costruzione dei punti-istanti, che fu intrapresa poco dopo [poco dopo il 1911] da Whitehead e sviluppata in Our Knowledge 163). p. 14, cap. 1959], [ (Russell 1911}» in mind my in much very [was 1911 nel the External World, mi era già ben presente p. 84, riga 43. 357 Il termine “logical construction” compare per la prima volta, nell’opera russelliana, in Russell [1912f],

358-V, Russell [1912f], $ II, p. 94.

capitolo 7

532

inclu[...] una teoria che considera un pezzo di materia come consistente interamente di costituenti della natura dei dati di senso, a dendo ogni cosa che potrebbe essere un dato di senso per qualsiasi osservatore possibile [including everything that could be sense-datum to any possible observer].?°

In “On matter”, Russell descrive questa teoria come una versione di realismo ingenuo: La sensazione si mostra essere una relazione tra un soggetto e un dato di senso, che è la stessa cosa di una “qualità”; noi sappiamo che il soggetto può esistere in tempi in cui non sta avvertendo attraverso i sensi [if is not sensating] la particolare qualità in questione, e assumiamo naturalmente che la qualità può esistere in tempi in cui il soggetto non la sta avvertendo attraverso i sensi [is not sensating it). Questo è l'assioma essenziale del realismo ingenuo [naîve realism].®

I dati di senso (reali e possibili) sono per Russell entità fisiche, non mentali. Quindi, secondo Russell, quando siamo direttamente consapevoli dei dati di senso, siamo direttamente consapevoli di costituenti della realtà fisica. Questo configura la teoria di Russell che stiamo descrivendo come una teoria realistica," distinguendola dal fenomenismo — una teoria che a prima vista appare molto simile a quella di Russell, ma è antitetica al realismo. I dati di senso reali e possibili di cui Russell assume l’esistenza per la prima volta in “On matter”, dapprima chiamati “qualità”, nei lavori russelliani a partire dal 1914 saranno detti sensibilia** oggetti sensibili (sensible objects), oggetti di senso (objects of sense) o talora, in modo più informale, aspetti (aspects), °? 0 apparenze (appearances)*® delle cose. In “The relation of sense-data to physics” (1914), Russell descrive i sensibilia come quegli oggetti che hanno lo stesso status metafisico e fisico dei dati di senso senza essere necessariamente dati ad alcuna mente. Così la relazione di un sensibile con un dato di senso è come quella di un uomo con un marito: un uomo diviene un marito entrando nella relazione di matrimonio, e similmente un sensibile diviene un dato di senso entrando nella relazione di familiarità [acquaint369 ance].

Sempre in “The relation of sense-data to physics”, egli spiega che cosa intenda con il seguente esempio: Supponiamo che ci sia un certo numero di persone in una stanza, e che tutte guardino, come esse dicono, gli stessi tavoli e sedie, muri e quadri. Non ci sono due di queste persone che abbiano esattamente gli stessi dati di senso, però c’è una somiglianza sufficiente tra i loro dati da consentir loro di raggruppare insieme alcuni di questi dati come apparenze di una “cosa” ai diversi spettato-

ri, e altri come apparenze di un’altra “cosa”. Oltre alle apparenze che una data cosa nella stanza presenta agli spettatori reali, ci sono, possiamo supporre, altre apparenze che essa presenterebbe ad altri spettatori possibili. Se un uomo dovesse sedersi tra altri due, l’apparenza che la stanza gli presenterebbe sarebbe intermedia tra le apparenze che essa presenta agli altri due: e anche se quest’apparenza non esisterebbe così com’è senza gli organi di senso, i nervi e il cervello, dello spettatore nuovo arrivato, non è tuttavia innaturale supporre che, dalla posizione che egli occupa ora, alcune apparenze della stanza esistessero prima del suo arrivo.”

39° Russell [1912f], pp. 85-86. V. anche, ibid., $ II, p. 94. 360 Russell [1912f], $ II, p. 94. Di Russell descrive la sua teoria come realistica anche in Russell [1915], p. 125.

Il fenomenismo è una teoria epistemologica secondo la quale ciò che possiamo conoscere del mondo esterno sono solo i dati di senso. i quali sono considerati entità mentali. Si tratta dunque di una posizione idealistica. Molti autori hanno attribuito al Russell del periodo costruzionista una posizione fenomenista (v., per es., Broad [1915], p. 227 e passim; Strong [1922], p. 307, p. 313 e passim; Ayer [1972], cap. 3, pp. 72-82; Sainsbury [1979], cap. 7, $ 3, p. 241; Demopoulos e Friedman [1985], p. 622 e p. 623). Tuttavia, già nella discussione che seguì la presentazione orale del saggio di Broad all’ Aristotelian Society, il 12 aprile del 1915, Russell «disse che “fenomenismo” non era il termine che egli stesso usava per denotare la propria teoria. La sua prospettiva non era un fenomenismo dogmatico» (la frase è riportata dal resoconto (redazionale) della seduta in Yhe Athenaeum, n. 4565, 24 aprile 1915, rubrica “Societies”, p. 385, colonna 3; riedito in Russell [1986], pp. 310-311: p. 310); e sette anni dopo, in un articolo in risposta a Strong [1922], Russell ribadisce: «Non mi sono mai detto feno-

menista, ma senza dubbio mi sono talvolta espresso come se questa fosse la mia posizione. Di fatto, tuttavia, non sono un fenomenista» (Russell [1922], p. 480). si siV. Russell [1912f], $ II, p. 94, e Russell [ 1913b], p. 77. Si avverta, tuttavia, che per Russell si tratta di particolari, non di universali. “° V., per es., Russell [1914d], $ II, p. 148 e passim.

3 V., per es., Russell [1914a], lecture II, p. 83 (1° ediz., p. 79), e lecture II, lecture IV, passim. La)V., per es., Russell [1914a], lecture III e lecture IV, passim, e Russell [1915], p. 139.

“°

V., per es.: Russell [1914a], lecture IMI e lecture IV, passim; Russell [1921a], lecture V, pp. 98-99 e passim, e lecture VII p. 125 e pas-

“°

V., per es.: Russell

sim; Russell [1915], p. 139 e passim.

[1914a], lecture III e lecture IV, passim;

ali

Russell

[1914d], passim;

Russell

LIDSlaL, lecture V, pp. 97-98 e passim, e lecture VII, p. 125 e passim. dr Russell [1914d], $ III, pp. 148-149. V. anche Russell [1913b], p. 77.

°

Russell [1914d], $ V, pp. 154-155. V. anche Russell [1914a], lecture II, p. 95 (1° ediz., pp. 87-88).

[1918-19],

$ VII. passim;

È

Russell

La teoria delle descrizioni

533

Secondo Russell, dunque, è naturale supporre che vi siano “apparenze” che la realtà presenta di sé in tempi e luoghi in cui non esiste alcuna mente a percepirle. Queste “apparenze” sono per Russell i sensibilia che non sono attualmente dati di senso; i sensibilia che invece sono percepiti da una mente divengono dati di senso, ma non mutano la loro natura. Scrive Russell: Noi non abbiamo i mezzi per accertare come appaiano le cose da luoghi che non sono circondati dal cervello e dai nervi e dagli organi di senso; ma la continuità rende non irragionevole supporre che essi presentino qualche apparenza in questi luoghi. Qualsiasi apparenza siffatta sarebbe inclusa tra i sensibilia. Se — per impossibile — ci fosse un corpo umano completo senza una mente al suo interno, esisterebbero tutti quei sensibilia, in relazione a quel corpo, che sarebbero dati di senso se ci fosse una mente nel corpo. Ciò cc la mente aggiunge ai sensibilia, di fatto, è soltanto [merely] la consapevolezza [awareness]: tutto il resto è fisico o fisiologico.

L’idea di costruire gli oggetti fisici servendosi di sensibilia, che Russell suggerisce per la prima volta in “On matter”, sarà da lui adottata e articolata nei saggi del 1914 Our Knowledge of the External World"? e “The relation of sense-data to physics”??? In “The relation of sense-data to physics”, dopo aver enunciato il principio del rasoio di Occam nella forma: «Ogni qualvolta è possibile, le costruzioni logiche devono essere sostituite alle entità inferite»,)"* definendolo «la suprema massima della filosofia scientifica»,°”° Russell spiega la sua posizione prendendo esempio dal suo lavoro nei fondamenti della matematica: Qualche esempio della sostituzione di costruzioni alle inferenze nel dominio della filosofia matematica può servire a chiarire l’uso di questa massima. Si prenda prima il caso degli irrazionali. Un tempo, gli irrazionali erano inferiti come i supposti limiti di serie di razionali che non avevano un limite razionale; ma l’obiezione a questa procedura era che lasciava l’esistenza degli irrazionali come puramente ottativa, e per questa ragione i metodi più rigorosi di oggi non tollerano più una tale definizione. Noi ora definiamo un numero irrazionale come una certa classe di rapporti, costruendolo così logicamente per mezzo dei rapporti, invece di arrivare ad esso con un’inferenza dubbia da questi. Si prenda ancora il caso dei numeri cardinali. Due collezioni ugualmente numerose appaiono avere qualcosa in comune: questo qualcosa è supposto essere un numero cardinale. Ma finché il numero cardinale è inferito dalle collezioni, non costruito in termini di esse, la sua esistenza deve rimanere in dubbio, se non in virtù di un postulato metafisico ad

hoc. Definendo il numero cardinale di una collezione come la classe di tutte le collezioni ugualmente numerose, evitiamo la neces-

sità metafisica di questo postulato, e quindi rimuoviamo un elemento di dubbio non necessario dalla filosofia dell’aritmetica. Un metodo simile, come ho mostrato altrove, si può applicare alle classi stesse, che non c’è bisogno di supporre che abbiano nessuna realtà metafisica, ma possono essere considerate come finzioni simbolicamente costruite.??°

Russell sostiene che la stessa operazione si possa fare riducendo le “cose”, cioè gli oggetti fisici ordinari, alle loro “apparenze”, o “aspetti”, cioè ai sensibilia. Come? Riducendole a classi o a serie di apparenze (o aspetti). Si osservi che, poiché queste apparenze sono, per Russell, entità non meno fisiche degli oggetti fisici ordinari, la proposta riduzione non si configura come idealistica. Una prima fase della riduzione degli oggetti fisici ordinari a sensibilia si ha con la riduzione delle “cose” considerate come non estese nel tempo, che Russell chiama “momentanee” [momentary]. Le “cose” momentanee sono identificate da Russell con classi di apparenze, (o aspetti). Più in particolare, una “cosa” momentanea è identificata con la classe di tutte le apparenze, o aspetti, che essa presenta, o presenterebbe, da tutti i “punti di vista” possibili: Poiché la “cosa” [momentanea] non può, senza una parzialità indifendibile, essere identificata con nessuna delle sue singole appa-

renze, essa viene a essere pensata come qualcosa di distinto da esse e soggiacente ad esse. Ma per ilprincipio del rasoio di Occam,

se la classe di apparenze soddisfa gli scopi per i quali la cosa fu inventata dai metafisici preistorici cui si deve il senso comune, l’economia richiede che dobbiamo identificare la cosa con la classe delle sue apparenze. Non è necessario negare una sostanza 0 sostrato soggiacente a queste apparenze; è solo conveniente [expedient] astenersi dall’asserire quest’entità non necessaria. La nostra procedura qui è precisamente analoga a quella che ha spazzato via dalla filosofia della matematica l’inutile serraglio di mostri metafisici dai quali era infestata.??” 371 Russell [1914d], $ III, p. 150.

; À e ra termine tecnico “sensibi372 V. Russell [1914a], lecture III e lecture IV. In Our Knowledge of the External World, però, non è utilizzato il

lia”.

373 V. Russell [1914d].

374 Russell [1914d], $ VI, p. 155; corsivo di Russell. In proposito, v. anche, sopra, cap. 23 93373: é

À

LE

|

— così come con 375 Russell [1914d], $ VI, p. 155. Con “filosofia scientifica”, Russell intende evidentemente la filosofia della scienza

> losofia matematica” (v. Russell [1919a]) intende ciò che oggi chiameremmo piuttosto “filosofia della matematica

‘“fi-

radice

più avanti, nei capitoli 8,$4,9,$ 6, e 376 Russell [1914d], $ VI, pp. 155-156. Sul metodo russelliano per costruire le classi ci soffermeremo

11,83. 371 Russell [1914d], $ V, p. 155.

capitolo 7

534

Naturalmente, perché questa definizione di “cosa” momentanea possa essere formulata in modo non circolare, occorre poter dire quali apparenze possono essere considerate apparenze della stessa “cosa” momentanea senza far riferimento alla “cosa” medesima. Allo scopo, Russell introduce quelle che chiama prospettive (perspectives)."* Una prospettiva è una scena percepita, o percepibile, da un certo “punto di vista” a un tempo fissato: essa è costituita di uno spazio percepito, o percepibile, attraverso una modalità sensoriale, in cui si situano vari sensibilia simultanei, che il senso comune suppone corrispondere a (ossia essere causati da) oggetti fisici ordinari. Lo spazio all’interno di una prospettiva non è dunque lo spazio fisico ordinario, ma è uno spazio sensoriale privato — visivo, uditivo, tattile, ecc. Russell assume l’esistenza di prospettive che non sono percepite da nessun osservatore, e che sono dunque costituite di sensibilia che non sono dati di senso per nessuno;” egli chiama mondi privati (private worlds) le prospettive che sono percepite da qualcuno.*° Secondo Russell, i mondi privati si possono ordinare in uno spazio fisico tridimensionale — lo spazio fisico ordinario —, che Russell chiama spazio delle prospettive (space of perspectives, 0 perspective-space), in cui ciascuna prospettiva è un punto.” Per le prospettive visive, l'ordinamento avviene sulla base delle usuali leggi della prospettiva ottica. Russell non lo dice esplicitamente, nei testi del 1914, ma è chiaro che leggi simili possono ordinare, per es., le prospettive uditive, facendo riferimento — invece che a qualità delle immagini come forma e grandezza — a qualità dei suoni come altezza e volume. Supponendo la continuità nel cambiamento tra i contenuti dei mondi privati, lo spazio delle prospettive è integrato inserendo tra le posizioni occupate dai mondi privati le altre prospettive possibili, che non sono realmente date ad alcuna mente.*** Correlando tra loro apparenze simili che sono parte di prospettive vicine nello spazio delle prospettive, si ottiene, per ogni apparenza, la classe di tutte le apparenze ad essa correlate, che sono tutte apparenze di una certa “cosa”. La classe di tutte le apparenze di una certa “cosa” è identificata da Russell la “cosa” stessa: Possiamo ora definire le “cose” momentanee del senso comune in quanto opposte alle loro apparenze momentanee. Dalla somiglianza delle prospettive contigue, molti oggetti [qui “oggetti” sta per “oggetti sensibili”, uno dei termini che Russell usa nel testo da cui riportiamo per indicare i sensibilia] nell’una possono essere correlati con oggetti nell’altra, ossia con gli oggetti simili. Dato

un oggetto in una prospettiva, si formi il sistema di tutti gli oggetti correlati con esso in tutte le prospettive; questo sistema si può identificare con la “cosa” momentanea del senso comune. Così un aspetto di una “cosa” è un membro del sistema di aspetti che è la “cosa”. Tutti gli aspetti della cosa sono reali, mentre la cosa è una costruzione puramente logica.”

Una cosa fisica consiste, in ogni istante, dell’intero insieme dei suoi aspetti in questo istante, in tutti i diversi mondi; così uno stato momentaneo di una cosa è un intero insieme di aspetti.*** La “cosa” del senso comune può di fatto essere identificata con l’intera classe delle sue apparenze — ove, tuttavia, dobbiamo includere tra le apparenze non solo quelle che sono dati di senso reali, ma anche quei “sensibilia”, se ve ne sono, che, in base a continuità e rassomiglianza, si devono considerare come appartenenti allo stesso sistema di apparenze, sebbene si dia il caso che non vi siano osservatori per i quali essi sono dati.?*°

- V. Russell [1914a], lecture III, pp. 94-95 (1° ediz., pp. 87-88), e Russell [1914d], $ VII, pp. 159-160. no: V. Russell [1914a], lecture III, p. 95 (1° ediz., p. 88), e Russell [1914d], $ VII, p. 160.

UesVANDIdi 3; V. Russell [1914a], lecture IMI, p. 97 (1° ediz., pp. 89-90), e Russell [1914d], $ VII, p. 160. Poiché le prospettive sono tridimensionali, e ciascuna prospettiva è un punto, un elemento, dello spazio delle prospettive, anch'esso tridimensionale, Russell descrive lo spazio fisico noti spazio a sei dimensioni (v., per es., Russell [1914d], $ VII, p. 162, Russell [1915], pp. 138-139, e 143, e Russell [1959], cap. 9, p. È

he V. Russell [1914a], lecture III, pp. 97-98 (1° ediz, p. 90), e Russell [1914d], $ VII, pp. 160-161. © In My Philosophical Development, Russell lo afferma esplicitamente: «Le apparenze di un dato oggetto da luoghi diversi, finché sono “regolari” [Russell chiama qui “regolari” le apparenze di un oggetto quando tra l'oggetto e la sua apparenza non interposta materia: v. ibid.], sono connesse dalle leggi della prospettiva quando sono visivi e da leggi non del tutto dissimili quando sono tali quali sarebbero noi late da altri sensi» (Russell [1959], cap. 9, p. 107). # V. Russell [1914a], lecture II, p. 96 (1° ediz., pp. 88-89).



Russell non lo specifica, ma questa relazione di “correlazione” è evidentemente intesa come una relazione transitiva, sebbene non sia

transitiva la relazione di “similitudine” tra apparenze, perché — essendo tale similitudine solo parziale — si può passare, attraverso una vid

0a ininterrotta di apparenze a due a due simili, da un’apparenza a un’altra affatto dissimile dalla prima. Lo V. Russell [1914a], lecture III, p. 96 (1° ediz., p. 89), e Russell [1914d], $ VII, p. 160.

‘°°

Russell [1914a], lecture III, p. 96 (1° ediz., p. 89).

388 Russell [1914a], lecture IV, p. 117 (1° ediz., p. 111). 25° Russell [1914d], $ V, p. 154.

La teoria delle descrizioni

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Secondo le leggi della prospettiva ottica che ordinano le prospettive visive, tra due prospettive visive contenenti due apparenze di una certa “cosa” momentanea aventi la stessa forma, quella contenente l’apparenza visiva più grande sarà considerata più vicina alla “cosa”.?’ Russell non lo dice esplicitamente, ma è chiaro che qualcosa di simile vale, per es., per le prospettive uditive, dove, tra due prospettive contenenti apparenze uditive di una stessa “cosa” momentanea, quella contenente l’apparenza uditiva con il volume sonoro maggiore sarà considerata più vicina alla “cosa”. Per definizione, la “cosa” si situa, nello spazio delle prospettive, all’intersezione immaginaria del prolungamento di tutte le linee rette i cui punti sono prospettive che si avvicinano sempre più alla “cosa”.?” In sintesi, le “cose” sono sistemate nello spazio fisico proprio laddove prevedono le leggi della prospettiva ottica applicate alle loro apparenze visive. Russell osserva che «non sarebbe conveniente» — sebbene appaia naturale — assumere che le apparenze di una stessa “cosa” momentanea che si trovano in prospettive diverse siano tutte contemporanee.” Egli spiega così il punto: Supponete che A gridi verso B, e B risponda appena oda il grido di A. Allora tra l’udire A il proprio grido e il suo udire quello di B c’è un intervallo; così se rendessimo simultanei tra loro l’udire lo stesso grido da parte di A e da parte di B, avremmo eventi esattamente simultanei con un dato evento [per es., l’udire A il proprio grido e il suo udire quello di B sarebbero entrambi simultanei con l’udire B il grido di A], ma non tra loro. Per ovviare a ciò, assumiamo una “velocità del suono”. Cioè, assumiamo che il tempo

in cui B ode il grido di A sia a metà strada tra il tempo in cui A ode il proprio grido e il tempo in cui ode quello di B. In questo modo si effettua la correlazione.?°3

Le apparenze di una stessa “cosa” momentanea non si devono dunque considerare tutte come contemporanee: Ciò che chiamiamo un suono sarà udito prima da persone più vicine alla sorgente del suono che da persone più lontane da essa, e lo stesso si applica, seppure in minor grado, alla luce. Quindi due apparenze correlate in mondi diversi non devono necessariamente essere considerate come occorrenti allo stesso tempo nel tempo fisico, anche se saranno parti di uno stato momentaneo di una cosa. 394 Il principio generale è che le apparenze, nelle diverse prospettive, che si devono raggruppare insieme come costituenti ciò che è una certa cosa in un certo momento, non sono da considerarsi tutte come esistenti in quel momento. Al contrario esse si diffondono dal: i 395 la cosa con varie velocità secondo la natura delle apparenze. [...] lo stato momentaneo di una “cosa” è una raccolta di “sensibilia”, in diverse prospettive, non tutte simultanee nell’ unico tempo costruito, ma diffondentisi dal “luogo in cui la cosa è” con velocità dipendenti dalla natura dei “sensibilia”. Il tempo a/ quale la 3 a 7 A È 5 s DELE È Ò 396 “cosa” è in questo stato è il limite inferiore dei tempi ai quali queste apparenze compaiono.

Così, per esempio, poiché, secondo la fisica, la luce impiega circa otto minuti a percorrere la distanza tra il sole e la terra, un’apparenza visiva attuale del sole percepita dalla terra sarà messa insieme con un’apparenza visiva del sole di circa quattro minuti fa posta a metà della distanza tra i due corpi celesti a costituire, insieme con altre ap-

parenze appropriate, la classe identificata con il sole momentaneo di otto minuti fa. Scrive Russell: Ciò che la fisica considera come il sole di otto minuti fa sarà un’intera raccolta di particolari, esistenti in tempi diversi, che si dif-

fondono da un centro con la velocità della luce, e che contengono nel loro numero tutti quei dati visivi che sono visti dalle persone che stanno ora guardando il sole. Così il sole di otto minuti fa è una classe di particolari, e ciò che io vedo quando ora guardo il sole 2

;

è un membro di questa classe.

397

In ogni luogo tra noi e il sole, dicevamo, dev’esserci un particolare che deve essere un membro del sole com'era qualche minuto fa 398

390 391 392 393 394 395 396 397 398

V. Russell [1914a], lecture III, p. 98 (1° ediz., p. 90), e Russell [1914d], $ VII, p. 161. v_ Russell [1914a], lecture III, pp. 98-99 (1° ediz., pp. 90-91), e Russell [1914d], $ VII, p. 162. V_ Russell [1914d], $ X, p. 168, e Russell [1914a], lecture IV, p. 128 (1° ediz., p. 121). Russell [1914d], $ X, p. 168. Russell [1914a], lecture IV, p. 128 (1° ediz., p. 121). Russell [1914d], $ X, p. 168. Russell [1914d], $ XI, p. 169. Russell [1915], p. 137. Russell [1915], p. 138.

capitolo 7

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Veniamo ora alle “cose” in senso vero e proprio, cioè considerate come estese nel tempo. Nel 1914 esse sono identificate da Russell con serie di apparenze, o aspetti, delle cose. In Our Knowledge of the External World, Russell scrive: [...] [DJata una qualunque apparenza sensibile, di solito ci sarà, se guardiamo, una serie continua di apparenze connesse con quella data, che conduce attraverso gradazioni impercettibili alle nuove apparenze che il senso comune considera quelle di una stessa cosa. Quindi una cosa può essere definita come una certa serie di apparenze, connesse l’una con l’altra dalla continuità e da certe leggi causali. [...] Considerate, per esempio, una tappezzeria che sbiadisce nel corso degli anni. È uno sforzo non concepirla come una “cosa” il cui colore è leggermente diverso in un tempo da quello che è in un altro. Ma che cosa davvero sappiamo in proposito? Sappiamo che in circostanze adatte — ossia quando siamo, come si dice, “nella stanza” — percepiamo certi colori in un certo schema: non sempre precisamente gli stessi colori, ma abbastanza simili da avvertirli come familiari [familiar]. Se possiamo formulare le leggi secondo le quali il colore varia, possiamo formulare tutto ciò che è empiricamente verificabile; l’assunzione che vi sia un'entità costante, la tappezzeria, che “ha” questi vari colori in vari tempi, è un pezzo di metafisica gratuita. Possiamo, volendo, definire la tappezzeria come la serie dei suoi aspetti. [....] Più in generale, una “cosa” sarà definita come una certa serie di aspetti, cioè quelli che comunemente si direbbero essere aspetti della cosa. Dire che un certo aspetto è un aspetto di una certa cosa significherà semplicemente che esso è uno di quelli che, presi in serie, sono la cosa. Tutto allora procederà come prima: quel che c’era di gole è immutato, ma il nostro linguaggio è interpretato in modo da evitare una superflua assunzione metafisica di permanen-

za.

Perché questa riduzione di una “cosa” alla serie dei suoi aspetti non risulti circolare, occorre poter specificare quali aspetti possono essere considerati aspetti della “cosa” senza presupporre la “cosa” stessa; nelle parole di Russell: «Il problema è: per mezzo di quali principi, selezioneremo certi dati dal caos, e li chiameremo tutti apparenze della stessa cosa?».' Nel passo riportato, Russell anticipa la sua risposta al problema parlando di apparenze «connesse l’una con l’altra dalla continuità e da certe leggi causali». Discutendo il problema poco dopo, Russell afferma che somiglianza e continuità del cambiamento sono criteri generalmente insufficienti,‘ e conclude identificando i principi cercati nelle leggi della fisica: Per rispondere a questa domanda, dobbiamo considerare che cosa sia dimostrato dal successo empirico della fisica. Ciò che è dimostrato è che le sue ipotesi, sebbene inverificabili laddove esse vanno oltre i dati di senso, non sono in nessun punto in contraddizione con i dati di senso, ma, al contrario, sono idealmente tali da rendere tutti i dati di senso calcolabili da una collezione di dati tutti

appartenenti a un periodo di tempo assegnato. Ora la fisica ha trovato empiricamente possibile riunire i dati di senso in serie, ciascuna serie essendo considerata come appartenente a una sola “cosa”, e comportandosi, riguardo alle leggi della fisica, in un modo in cui in generale non si comportano le serie che non appartengono a una sola cosa. Se non dev'essere ambiguo se due apparenze appartengano o no alla medesima cosa, deve esserci solo un modo di raggruppare le apparenze cosicché le cose risultanti obbediscano alle leggi della fisica. Sarebbe molto difficile dimostrare che è così, ma per gli scopi presenti possiamo ammettere il punto, e assumere che ci sia solo un modo. Dobbiamo includere nella nostra definizione di una “cosa” quei suoi aspetti, se ve ne sono, che CARI osservati. Così possiamo porre la seguente definizione: Le cose sono quelle serie di aspetti che obbediscono alle leggi e

ISICA.

Secondo il Russell dell’epoca, le leggi della fisica sono in generale vere, ma, per quanto c’è in esse di empirico, hanno a che fare con dati di senso e con le connessioni causali tra essi, non con supposti oggetti fisici che sarebbero le cause di questi dati di senso: per es., prevedono il darsi di certi dati di senso come conseguenza di certi al- 403 E 5 5 t; È s e tri." Alcune di queste connessioni causali connettono in serie le apparenze che il senso comune considera come na Russell [1914a], lecture IV, pp. 11 1-112 (I° ediz., pp. 106-107); corsivi di Russell. Russell [1914a], lecture IV, p. 113 (1° ediz., p. 108). 40! V. Russell [1914a], lecture IV, pp. 113-114 (1° ediz., pp. 108-109). La ragione per cui, secondo Russell, è insufficiente la somiglianza è che «due cose diverse possono avere qualsiasi grado di somiglianza

[likeness]

fino alla similitudine esatta [exact similarityte

(Rael

[1914a], lecture IV, p. 113 (1° ediz., p. 108), e la ragione per cui lo è la continuità è che «possiamo, per esempio, passare attraverso arada» zioni sensibilmente continue da una qualsiasi goccia del mare a qualsiasi altra goccia» (Russell [1914a], lecture IV, pedi4. (15 eda ) 109). Forse più chiaro, a proposito dell’ esempio delle gocce del mare, è quanto Russell scrive in “The relation of sense-data to physics”: «È vero che in molti casi, come rocce, montagne, tavoli, sedie, ecc., laddove le apparenze cambiano lentamente, la continuità è suffilente; ma in altri casi, come le parti di un fluido approssimativamente omogeneo, ci tradisce del tutto. Possiamo passare attraverso gradazioni sensi: bilmente continue da una qualsiasi goccia del mare a un tempo qualsiasi a qualsiasi altra goccia a qualsiasi altro tempo. Inferiamo i movi-

menti dell acqua del mare dagli effetti della corrente, ma essi non possono essere inferiti dall’osservazione diretta sensibile insieme con l’assunzione di continuità» (Russell [1914d], $ XI, p. 171). Russell rileva inoltre che la continuità nel mutamento delle apparenze di una

stessa “cosa” è ipotetica: anche se essa può essere «quasi verificata», quando osserviamo una cosa con continuità. e i suoi cambiamenti non

sono troppo rapidi, in altri casi, «quando i movimenti sono molto rapidi, come nel caso delle esplosioni, la continuità non è realmente su-

Scettibile di verificazione diretta» (Russell [1914d], $ XI, p. 171; v. anche Russell [1914a], lecture IV, p. 114; 1* ediz., p. 109).

‘ Russell [1914a], lecture IV, p. 115 (1° ediz., p. 110). Un passo quasi identico a questo compare in Russell [1914b], $ XI, pp. 172-173 SaS na 6 n PI "Q ‘tabilire 1 Scrive Russell: «Pensox che si possa stabilire in modo del tutto generale che, per quanto la fisica o il senso comune è verificabile

403

La teoria delle descrizioni

SEI

apparenze dell’evoluzione temporale di una singola “cosa”.‘ Le serie così ottenute sono, per Russell, le “cose” del senso comune. Ci si può chiedere che cosa autorizzi Russell ad assumere, nel contesto della sua teoria, la verità della fisica —

usuali leggi della prospettiva, velocità della luce e del suono, ecc. La risposta è che l’epistemologia di Russell non revoca affatto in dubbio la scienza fisica. Come abbiamo già osservato, Russell non fu mai un fenomenista. Egli non cerca di stabilire se la fisica è vera partendo da un punto di vista di dubbio radicale riguardo a tutto ciò che è diverso dai dati di senso. Ciò che intende fare è — assumendo che la fisica sia in buona parte vera — stabilire quale sia il minimo di assunzioni ontologiche per suffragarne la verità: Non mi sono mai detto fenomenista, ma senza dubbio mi sono talvolta espresso come se questa fosse la mia posizione. Di fatto, tuttavia, non sono un fenomenista. A scopi pratici, accetto la verità della fisica, e mi distacco dal fenomenismo per quanto può essere necessario per suffragare la verità della fisica. Non sostengo, naturalmente, che la fisica è certamente vera, ma solo che ha una possibilità migliore di essere vera di quella che ha la filosofia. Avendo accettato la verità della fisica, cerco di scoprire il minimo di assunzioni richieste per la sua verità, e di avvicinarmi quanto posso al fenomenismo. Ma infine non accetto la filosofia fenomenista come necessariamente giusta, e non penso che i suoi sostenitori si rendano sempre conto di quale distruzione radicale delle creden49 ze ordinarie esso implichi

In “The relation of sense-data to physics”, Russell distingue tra le “cose” — cioè gli oggetti fisici ordinari, come montagne, tavoli e sedie —, e la materia che le costituisce. Una “cosa” (momentanea), non può, osserva Russell, essere identificata con la sua “materia”: Abbiamo definito la “cosa fisica” come la classe delle sue apparenze, ma difficilmente questa si può prendere come una definizione di materia. Vogliamo poter esprimere il fatto che l’apparenza di una cosa in una data prospettiva è causalmente influenzata dalla materia tra la cosa e la prospettiva. Abbiamo trovato un significato per “tra una cosa e una prospettiva”. Ma vogliamo che la materia sia qualcos’altro dall’intera classe delle apparenze di una cosa, al fine di formulare l’influenza della materia sulle apparenze.*°9

Russell si serve della prossimità delle apparenze alla “cosa” (nello spazio delle prospettive, naturalmente) per offrire una definizione provvisoria di “materia”: Assumiamo comunemente che l’informazione che otteniamo a proposito di una cosa è più accurata quando la cosa è più vicina. Da lontano, vediamo che si tratta di un uomo; poi vediamo che si tratta di Jones; poi vediamo che sta sorridendo. L’accuratezza com-

pleta si raggiungerebbe solo come limite: se le apparenze di Jones quando ci avviciniamo la lui tendono verso un limite, si può assumere che questo limite sia ciò che Jones realmente è. E ovvio che dal punto di vista della fisica le apparenze di una cosa da vicino “contano” di più delle apparenze da lontano. Possiamo quindi formulare la definizione tentativa =. La materia di una data cosa è il limite delle sue apparenze al diminuire delle loro distanze dalla cosa.

Russell riconosce che questa definizione «non è del tutto soddisfacente, perché empiricamente non c’è un limite siffatto che possa essere ottenuto dai dati di senso», cosicché «[l]a definizione dovrà essere supplementata doico-

struzioni e definizioni», ma ritiene che «probabilmente essa suggerisca la giusta direzione in cui guardare».

Se-

condo questa definizione, osserva Russell: Ciò che possiamo conoscere empiricamente a proposito della materia di una cosa è solo approssimato, perché non possiamo arrivail limite di queste appare a conoscere le apparenze di una cosa da distanze molto piccole, e non possiamo inferire Ei renze. Ma esso è inferito approssimativamente per mezzo delle apparenze che possiamo osservare.

dev'essere suscettibile d’interpretazione in termini di dati di senso reali soltanto. La ragione di questo è semplice. La verificazione consiste

sempre nella comparsa di un dato di senso atteso. Gli astronomi ci dicono che ci sarà un eclissi di luna: guardiamo la luna È Eoguno l’ombra della terra che ne porta via un pezzo, vale a dire, vediamo un’apparenza del tutto diversa da quella della luna piena solita» (Russell

[1914a], lecture III, pp. 88-89; 1“ediz., p. 81). V. anche, per un’asserzione simile, Russell [1914b], $ I, p. 146. |

n

sari

404 In un altro punto del libro, Russell fa l’esempio del ghiaccio che si scioglie: «( iò che davvero sappiamo è che, in ia

i

i temperatura, l'apparenza che chiamiamo ghiaccio è rimpiazzata dall’apparenza che chiamiamo acqua. Possiamo Sale res! Sa ù gua un’apparenza sarà seguita dall’altra, ma non decine Mi ediz pa105): Ie IVAPpRILO

il pregiudizio per considerarle entrambe come apparenze della stessa so-

ian simile, AHOIA Ii sa molto più tardi in Russell [1944b], p. 700.

della verità della fisica e sugli scopi della sua epistemologia, sarà espres-

406 407 408 409

Russell [1914d], $ IX, pp. 164-165. Russell [1914d], $ IX, p. 165. Ibid. Russell [1914d], $ IX, p. 166.

capitolo 7

538

La “cosa” è distinta dalla sua materia anche quando questa è considerata come estesa nel tempo: Un corpo umano è una cosa persistente per il senso comune, ma per la fisica la sua materia cambia continuamente. Possiamo dire, nelle apparenze alle distanze ordinarie dei dati di senso, all’incirca, che la concezione del senso comune è basata sulla continuità 410 ù Ù

DAT 5 5 : . mentre la concezione fisica si basa sulla continuità delle apparenze a distanze molto piccole dalla cosa.

Naturalmente, anche per la materia Russell infine ritiene che la continuità non sia una condizione sufficiente per

annettere due apparenze successive allo stesso pezzo di materia, considerato come esteso nel tempo: ciò che è necessario allo scopo, oltre alla continuità, — dice Russell — è la conformità con le leggi della fisica.!!! Si deve rilevare che, nelle sue definizioni di “cosa”, Russell non è chiaro come dovrebbe. Nel definire le “cose” momentanee, egli si richiama alle “prospettive”, identificando una “cosa” momentanea con la classe di tutte le apparenze momentanee che essa presenta in tutte le prospettive possibili. In Our Knowledge of the External World, Russell restringe però esplicitamente la sua attenzione alle “prospettive” date dal senso della vista — contenenti, cioè, solo le apparenze visive di una “cosa”.* Ora, sulla base di questa descrizione, non è chiaro come trattare il caso di prospettive relative a sensi diversi. È chiaro che somiglianza e continuità nel cambiamento permettono di includere in una stessa classe le apparenze di una “cosa” appartenenti a prospettive date da un solo senso — per esempio, visive —; ma non permettono di includere in una stessa classe le apparenze di una “cosa” appartenenti a prospettive date da sensi diversi — per es., visive, uditive e tattili. Anche in “The relation of sense-data to physics”, Russell conduce la discussione considerando solo prospettive date dal senso della vista; tuttavia osserva, en passant: Quindi ciascuna persona, per quanto concerne i suoi dati di senso, vive in un mondo privato. Questo mondo privato contiene il suo proprio spazio, 0 piuttosto spazi, perché sembrerebbe che solo l’esperienza ci insegni a correlare lo spazio della vista con lo spazio del tatto e con i vari altri spazi degli altri sensi. Questa molteplicità di spazi privati, tuttavia, anche se interessante per lo psicologo, non è di grande importanza rispetto al nostro problema attuale, perché un’esperienza meramente solipsistica ci consente di correlarli nell’unico spazio privato che abbraccia tutti i nostri dati di senso.‘!*

Russell suggerisce dunque che tutte le prospettive di un singolo osservatore, relative a sensi diversi, ciascuna delle quali contenga un’apparenza di una stessa “cosa” momentanea, si possono comporre, sulla base dell’esperienza, in un’unica prospettiva. Chiamiamo, per chiarezza, una tale prospettiva ‘prospettiva globale”. In “The ultimate constituents of matter” (1915), Russell spiega che nella sua concezione — così come a una prospettiva contenente solo sensibilia relativi al solo senso della vista appartengono tutti i sensibilia che hanno una relazione spaziale diretta con un sensibile visivo dato — a una prospettiva della sorta che noi abbiamo chiamato “globale” (ma che Russell chiama semplicemente “prospettiva”, spiegando che la intende estesa ai diversi sensi) appartengono tutti i sensibilia che sono simultanei [simultaneous] a un sensibile dato.!!* Se pensiamo a una prospettiva globale non solo come costituita di sensibilia, ma in primo luogo come costituita di complessi di sensibilia, ciascuno dei quali costituente quella che potremmo considerare un’“apparenza globale” — visiva, uditiva, tattile, ecc. — di una ‘“co-

sa”, potremmo essere tentati di interpretare Russell identificando una “cosa” la classe di tutte le sue apparenze globali, nelle diverse prospettive globali. L'appartenenza di due apparenze globali a una stessa classe — da identificarsi con una “cosa” — si potrebbe spiegare, dopotutto, in un modo non troppo dissimile da quello descritto da Russell riferendosi alle prospettive visive, sulla base della somiglianza e della continuità nel cambiamento. C*è

però un inconveniente fatale a questa procedura, che si può chiarire con un esempio: supponiamo che io voglia identificare fulmine, oggetto momentaneo della mia esperienza, con una classe di apparenze. Poiché la luce e il suono hanno velocità diverse, il mio vedere il lampo non sarà, in generale, simultaneo al mio sentire il tuono. co-

sicché la luce e il rumore della stessa “cosa” momentanea — il fulmine in parola

— non faranno parte insieme di

nessuna delle mie prospettive globali. Quindi non ci sarà nessuna apparenza globale del fulmine, nella mia espe-

rienza, che raccolga tutte le apparenze (visive, uditive, ecc.) che il fulmine, come oggetto momentaneo, ha per me. Ciò impedisce di definire il fulmine come una classe di apparenze globali. 4!0 Russell [1914d], $ XI, p. 170.

411

; V. Russell [1914d], $ XI, pp. 170-173. Nel passo menzionato, oltre che di «laws of physics [leggi della dinamica]» (pp. 172-173), Rus-

sell parla anche di «laws of dynamics [leggi della dinamica]» (pp. 171-172), intendendo — come risulta dal contesto — la medesima cosa

“ V. Russell [1914a], lecture III, p. 94 (1° ediz., p. 87).

4!3 Russell [1914d], $ VII, p. 159.



414 V. Russell Se: [1915], È AS pp. 140-141. Russell chiarisce che le us: i relazioni spaziali e temporali in questione sono rel azioni che si danno nello spazio e nel tempo di un’esperienza possibile, non nello spazio e nel tempo della fisica.

La teoria delle descrizioni

539

Sembra quindi che, per aderire il più possibile alle spiegazioni di Russell sulla costruzione delle “cose” momentanee, si debbano dapprima formare, usando somiglianza e continuità del cambiamento, varie classi di apparenze di una stessa “cosa” momentanea relative ciascun singolo senso (una classe di apparenze visive, una di apparenze uditive, ecc.); e poi si debbano riunire tutte queste classi in una sola classe di apparenze, raccogliendo insieme tutte le classi di apparenze che identificano una stessa posizione nello spazio delle prospettive a un tempo dato. Un problema interpretativo simile si pone con le definizioni russelliane del 1914 di “cosa” tout court, cioè di un oggetto fisico ordinario esteso nel tempo. Russell identifica sempre la “cosa” con la serie delle sue apparenze, 0 aspetti, nel tempo — come se di queste serie ve ne fosse una sola. Ma è chiaro che non è così. Infatti, ciascuna delle apparenze che il senso comune interpreta come causate da una stessa “cosa” momentanea, in ciascuna delle prospettive che le includono, sarà membro di una diversa serie di apparenze che il senso comune interpreta come causate da una “cosa” temporalmente estesa. Per es. se due persone vedono una stessa “cosa” per un certo tempo da punti di vista differenti, saranno anche differenti le serie di apparenze visive che i due, usualmente, considerano causate dall’evoluzione della “cosa” nel tempo dato. A quanto pare, Russell aveva in mente di identificare una “cosa” estesa nel tempo con /a serie delle sue fasi temporali, cioè con una serie di “cose” momentanee. Questo è suggerito dal brano seguente di Our Knowledge of the External World (1914): “Essere stati di una data cosa” è una relazione transitiva simmetrica; quindi veniamo a immaginare che vi sia realmente una cosa, . . . . . 2;° . 415 diversa dalla serie di stati, che rende conto della relazione transitiva simmetrica.

Naturalmente, Russell intende negare che sia necessario postulare una “cosa”, come entità metafisica distinta dalla serie dei suoi stati.'!° Assumo che qui, con “stati” di una “cosa”, Russell intenda “cose” momentanee, come in un

passo precedente dello stesso libro, che in parte abbiamo già riportato: Una cosa fisica consiste, in ogni istante, dell’intero insieme dei suoi aspetti in questo istante, in tutti i diversi mondi; così uno stato momentaneo di una cosa è un intero insieme di aspetti. Un’ apparenza “ideale” sarà un aspetto semplicemente calcolato, ma non realmente percepito da nessuno spettatore. Uno stato “ideale” di una cosa sarà uno stato in un momento in cui tutte le sue apparenze sono ideali. Una cosa ideale sarà quella i cui stati in ogni tempo sono ideali.*!”

Nel 1915, in “The ultimate constituents of matter”, Russell è esplicito nell’identificare una “cosa” con una serie di “cose” momentanee: Anche l’uomo reale [come l’uomo ripreso da una pellicola cinematografica], credo, [...] è in realtà una serie di uomini momenta-

nei, uno diverso dall’altro, e legati insieme non dall’identità numerica, ma dalla continuità e da certe leggi causali intrinseche. E ciò che si applica agli uomini si applica ugualmente ai tavoli e alle sedie, al sole, alla luna e alle stelle. Ciascuna di queste si deve considerare non come una singola entità persistente, ma come una serie di entità che si succedono l’una all'altra nel tempo, ciascuna durando per un periodo di tempo molto breve, sebbene probabilmente non per un semplice istante matematico.

Nel 1918, in “The philosophy of logical atomism”, Russell riduce una scrivania, intesa come entità temporalmente estesa, a una serie di apparenze: «Ciò che posso conoscere è che c’è una certa serie di apparenze collegate,

415 Russell [1914a], lecture IV, p. 134 (1° ediz., p. 125).

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416 [n quanto segue, Russell sembra suggerire che una “cosa” sia da identificare con la classe dei suoi stati. In realtà, questa classe cu ampo della relazione seriale che per Russell, definisce la “cosa”. Ciò che Russell intende è, a mio avviso, che queta classe sarebbe sati a surrogare la “cosa”, se ci interessasse solo rendere conto della relazione transitiva e connessa espressa da essere stati Ca data e — che invece, secondo il senso comune, si spiegherebbe immaginando che esista una “cosa di cui tutti i membri pala relazione transitiva simmetrica sono manifestazioni. Russell non identifica però questa classe con la “cosa”, perché vuole che, data la “cosa”, Da solo sì possa

stabilire quali sono i suoi stati, ma anche l’ordine di successione temporale in cui essi si danno. Rude egli MIGHT:

sata son la se-

rie (in ordine di tempo) dei suoi stati. In “The philosophy of logical atomism”, Russell si trova di fronte a un punto simile quando propone

tti a serie di esperienze; egli scrive: ; iduzi fa dae che * SR la cioè R, relazione certa una essi tra c’è quando nni ea sono E s dui oa si sono esperienze della stessa persona. Potete definire la persona che ha una certa esperienza come quelle He con quell’esperienza, e sarà forse meglio prenderle come una serie che come una classe [corsivo mio], perché volete sapere quale si Formia nes l’inizio della vita di un uomo e quale sia la sua fine» (Russell [1918-19], $ VII p. 277). ui in che orsapere vuole si perché esperienze, di serie una a ma esperienze, di Qui Russell è esplicito: non si riduce una persona a una classe dine esse si danno.

417 Russell [1914a], lecture IV, p. 117 (1% ediz., p. 111). 418 Russell [1915], p. 129.

capitolo 7

540

°

DE

ò

o 5 e la serie di queste apparenze la definirò come una scrivania». un atomo si deve ridurre a una serie di classi di particolari:

È

È

e

5

c *Alla pagina successiva, tuttavia, egli spiega che

419

e il vostro Se il vostro atomo intende essere utile in fisica, com’è indubbio, il vostro atomo deve risultare essere una costruzione, 3

vo

ò

5

o

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5

- 420

atomo risulterà in effetti essere una serie di classi di particolari.

E, poco dopo, nella stessa pagina, Russell scrive: Le cose che chiamiamo reali, come tavoli e sedie, sono sistemi [systems], serie di classi di particolari, e i particolari sono le cose reali, essendo i particolari dati di senso quando accade che vi siano dati. Un tavolo o una sedia sarà una serie di classi di particolari [locolk 421

Nel 1921, in The Analysis of Mind, una “cosa” è esplicitamente identificata con una serie di “cose” momentanee, e dunque con una serie di classi di particolari: Quindi una cosa momentanea è un insieme di particolari, mentre una cosa (che può essere identificata con l’intera storia della cosa) è una serie di tali insiemi di particolari. I particolari in un insieme sono raccolti insieme dalle leggi della prospettiva; gli insiemi successivi sono raccolti insieme dalle leggi della dinamica.*°”

Concludendo, Russell sembra talora usare “aspetti” o “apparenze” in un senso molto largo, che include anche classi di sensibilia. Queste imprecisioni sono tuttavia di importanza secondaria, considerato che la costruzione logica degli oggetti fisici ordinari è dichiaratamente lasciata da Russell a un livello di semplice abbozzo preliminare, nel quale si offrono indicazioni generali di metodo, non dettagli precisi.** Più importante, invece, è l’uso essenziale, in tutte

queste costruzioni, di sensibilia che sono dati di senso altrui o che non sono dati di senso di nessuno.‘°* Ciò è problematico per più rispetti, anche nel contesto (già problematico) della teoria russelliana dei dati di senso. Secondo quest’ultima teoria, per cominciare, l’unica cosa realmente indubitabile per un soggetto sono i propri dati di senso momentanei. Già assumere che esistano i dati di senso altrui è plausibile, per un soggetto, solo se questi crede che esistano i corpi di altre persone — che non sono affatto per lui un dato, secondo la teoria in questione.’ Assumere poi che esistano “aspetti” che la realtà presenta in posti e luoghi in cui non c’è alcun osservatore è ancora più difficoltoso, perché risulta plausibile solo se si assume l’esistenza dell’usuale mondo fisico, e se, inoltre, non si pretende che questi “aspetti” siano entità dello stesso genere dei dati di senso, come invece è richiesto dalla teoria di Russell. Mi spiego. Il senso comune scientifico certamente ammette che, in un certo punto dello spazio-tempo in cui non siano attualmente presenti osservatori, vi siano nondimeno i possibili input sensoriali che avrebbe un osservatore che fosse collocato in quel punto; ma l’ipotesi che esistano questi possibili input sensoriali è plausibile solo perché si crede, appunto, che esista l’usuale mondo fisico. Inoltre, questi possibili input sensoriali — radiazioni elettromagnetiche, vibrazioni propagate attraverso fluidi o solidi, molecole che possono stimolare il nostro sistema gustativo e olfattivo, ecc. — sono essi stessi entità fisiche il cui statuto ontologico non è certo meno dubbio di quello delle “cose” del senso comune. In effetti, postulando sensibilia che non sono attualmente dati di senso, Russell non intende parlare di questi possibili input sensoriali: questi ultimi non si possono identificare con i

4° Russell [1918-19], $ VIII, p. 273 420 Russell [1918-19], $ VII, p. 274.

121 Ibid.

422 Russell [1921a], lecture VII, p. 126. 423 V. Russell [1914a], lecture IV, p. 106 (1° ediz., p. 101), e Russell [1914d], $ XII, p. 179. V. anche il resoconto (redazionale) della di-

scussione che seguì la lettura di Broad [1915] all’ Aristotelian Society, il 12 aprile del 1915, alla quale intervenne Russell, pubblicato in Yhe

Athenaeum, n. 4565, 24 aprile 1915 (rubrica “Societies”, p. 385, colonna 3 (riedito in Russell [1986], pp. 310-311): dove si legge: «Riguardo alla sua teoria, [Russell disse che] era solo intesa come rudimentale e preliminare [rough and preliminary], non da proporsi come una

cosa finita. Egli non aveva nessun risultato definitivo. Il suo scopo era vedere quanto si potesse fare con la più piccola quantità di materiale; e se il materiale è inadeguato, scoprire dove è inadeguato».

14 V. Russell [1914d], $ VI, pp. 157-158. “i Russell lo riconosce esplicitamente quando, nei Problems of Philosophy, scrive: «E ovvio che è solo ciò che succede nostra propria mente che può essere così immediatamente conosciuto [per familiarità]. Ciò che succede nella mente di altri ci è noto solo attraverso la percezione dei loro corpi, cioè, attraverso i dati di senso in noi che sono associati a i loro corpi. Se non fosse per la nostra familiarità [acquaintance] con il contenuto della nostra propria mente, saremmo incapaci di immaginare le menti di altri, e quindi non potremmo mai giungere alla conoscenza che essi hanno menti» (Russell [1912a], cap. 5, p. 77). V. anche Rus-

sell [1914a], lecture III, p. 79, pp. 89-90, e pp. 102-103 (1* ediz., p. 72, pp. 82-83, e pp. 94-96).

i

pi

La teoria delle descrizioni

541

sensibilia russelliani, perché non si vede come potrebbero dirsi «della natura [nature] dei dati di senso»,*°° «dello stesso genere [kind] dei dati di senso»,'”” avere «tutte le proprietà comuni a tutti i dati di senso, con la possibile n ; 428 E E È ADE : eccezione di essere dati nel senso»,°° avere «lo stesso status metafisico e fisico dei dati di senso», °° come invece richiede la caratterizzazione russelliana dei sensibilia.!°

In realtà, difendendo la plausibilità di sensibilia che non siano dati di senso di alcuna mente, Russell gioca su un’ambiguità. Da un lato, suggerendo che la realtà presenti “aspetti” anche laddove non vi è, di fatto, nessun 0sservatore, induce a pensare ai possibili input sensoriali che avrebbe un organismo che fosse posto in tempi e luoghi in cui, in realtà, non ce n’è nessuno — uno di questi, per es., sarebbero le radiazioni elettromagnetiche di una certa lunghezza d’onda corrispondenti alla nostra percezione del colore rosso. Ma, come abbiamo appena osservato, questi possibili input sensoriali non sono sensibilia russelliani. I sensibilia russelliani devono essere esattamente come i (nostri) dati di senso. Se non lo fossero, non si potrebbero considerare vari sensibilia come appartenenti a una stessa classe, definente un oggetto momentaneo, sulla base di considerazioni di somiglianza e continuità nel cambiamento. I sensibilia che non sono dati di senso non possono dunque essere altro che quelli che sarebbero i dati di senso di un organismo umano che fosse posto in un tempo o un luogo in cui, di fatto, non c’è nessun organismo umano." Ma l’esistenza di entità del genere è semplicemente falsa secondo la fisica corrente e il senso comune — ciò che vi sarebbe solo se vi fosse ciò che di fatto non c’è semplicemente non esiste.” Russell vede — almeno in parte — queste obiezioni. In “The relation of sense-data to physics”, egli giustifica l’assunzione dei dati di senso altrui come un’ipotesi provvisoria: Un’applicazione completa del metodo che sostituisce costruzioni a inferenze dovrebbe esibire la materia interamente in termini di dati di senso, e persino, possiamo aggiungere, di dati di senso di una singola persona, perché i dati di senso di altri non possono essere conosciuti senza qualche elemento di inferenza. Questo, tuttavia, deve rimanere al presente un ideale, da approssimare il più possibile, ma da raggiungersi, se mai, solo dopo un lungo lavoro preliminare di cui adesso possiamo solo vedere l’inizio.'3

Anche riguardo all’assunzione dell’esistenza di sensibilia che non sono dati per nessuno, la difesa di Russell consiste, infine, nell’ affermarne la provvisorietà:

426 Russell [1912f], p. 86, e $ II p. 94; corsivo di Russell nella prima occorrenza. 427 Russell [1912f].$ I, p. 94; corsivo di Russell.

]

ui

428 Russell [1913b], p. 77; corsivo di Russell. “Possibile”, evidentemente, perché non c’è prova che esistano sensibilia che non siano dati di senso di qualcuno — non ve ne sarebbero, per es., se esistesse il Dio di Berkeley.

i

429 Russell [1914d], $ III, p. 148. 450 Si osservi, in proposito, che in “The nature of sense-data. —

A reply to Dr. Dawes Hicks” (1913) lo stesso Russell —

discutendo

un’obiezione di Dawes Hicks relativa a un’altra questione — mostra di assumere che non vi sia né identità né rassomiglianza, ma solo corrispondenza, tra un colore (come dato di senso) e le radiazioni elettromagnetiche che si suppone ne siano i correlati fisici — ossia i suppo-

sti input sensoriali che causerebbero come output il colore (v. Russell [19135], PP. 79-80). Scrive Russell: «[...] lo spazio fisico [lo spazio in cui si ritiene siano collocati gli usuali oggetti fisici] [...] non ha più rassomiglianza [resemblance] con lo spazio visivo [lo spazio in cui sono collocati i dati di senso visivi] di quanto le onde luminose ne abbiano con il colore. [...]. [...] è un caso di corrispondenza, non di identità, proprio come nel caso dei colori e dei loro correlati fisici» (Russell [1913b], p. 79). Nella stessa direzione va quanto sì legge

all’inizio di “The relation of sense-data to physics” (1914): «I supposti contenuti del mondo fisico sono prima facie molto diversi da questi [cioè, dai «dati immediati del senso: certe macchie di colore, suoni, sapori, odori, ecc.» (ibid.)]: le molecole non hanno colore, gli elettroni

non hanno sapore, e nemmeno i corpuscoli odorano» (Russell [ 1914d], $ I, p. 145). i 1 inf rar 4 Russell non considera mai quali potrebbero essere i dati di senso di un essere radicalmente diverso da noi. Se la fisiologia è corretta, i dati di senso, per es., di un pipistrello, che si orienta emettendo ultrasuoni che si riflettono sugli oggetti del suo campo percettivo, devono ‘ pe essere estremamente diversi da quelli di un essere umano situato nello stesso luogo e nello stesso tempo. 432 Si osservi che, nella teoria di Russell, i sersibilia che non sono dati ad alcuna mente non sono solo possibili, ma sono reali: sono reali usa n — costituenti fisici del mondo, alla stessa stregua di quelli che sono dati a qualche mente. Russell scrive, per esempio:

«Ci sono [corsivo mio] pertanto una moltitudine di spazi tridimensionali nel mondo: ci sono [corsivo mio] tutti quelli PAS

da pr

tori, e presumibilmente anche quelli che non sono percepiti, semplicemente perché nessun osservatore è opportunamente situato per percepirli» (Russell [1915], p. 139).

| xi PES A con dt O) spazio sei-dimensionale, classificati in un modo, formano “cose” CA na x dia LI lazioni possiamo ottenere ciò che la fisica può considerare come materia; classificati in un altro modo, essi O

i na grafie” che possono, se accade che esista un opportuno percipiente, formare rispettivamente i dati di senso diua a totale» (Russell [1915], pp. 143-144). (Una “biografia”, nel senso in cui è qui adoperato il termine, è + Nino a AG ue dr

A Don È di er “i DR tamente) prima o dopo, o simultanea a, un dato “sensibile”. Ciò darà una serie di DE SY [ dell’esperienza di una sola persona, sebbene non sia necessario che tutte o alcune di esse debbano realmente esserlo» (Russell

p. 167)). 433 Russell [1914d], $ VI, p. 157.

capitolo 7

542

Si può ritenere mostruoso sostenere che una cosa possa presentare qualche apparenza in un luogo dove non esiste nessun organo di senso e nessuna struttura nervosa attraverso la quale essa possa apparire. Non avverto io stesso la mostruosità; nondimeno considererò queste supposte apparenze solo alla luce di un'impalcatura ipotetica, da usarsi mentre si sta innalzando l’edificio della fisica, sono ma forse suscettibile di essere rimossa non appena l’edificio sia completato. Questi “sensibilia” che non sono dati a nessuno dogmatiparte una come che piuttosto preliminare quindi da prendersi come un'ipotesi illustrativa e come un aiuto nell’esposizione

ca della filosofia della fisica nella sua forma finale.**

Russell ritiene, tuttavia, che inferire l’esistenza di sensibilia che non sono dati di senso sia più giustificabile che inferire l’esistenza degli usuali oggetti fisici, perché reputa che le entità inferite dovrebbero, se possibile, almeno essere simili a quelle la cui esistenza è data: [...] le entità inferite dovrebbero, ogni qualvolta sia possibile, essere simili a quelle la cui esistenza è data, piuttosto 435che, come la Z Ding an sich [cosa in sé’] kantiana, qualcosa di totalmente remoto dai dati che nominalmente supportano l’inferenza.

I sensibilia non esperiti sono per Russell — come abbiamo già osservato — entità dello stesso genere di altre entità effettivamente esperite per familiarità (acquaintance), e quindi soddisfano il criterio. In “The relation of sense-data to physics”, Russell conclude accettando, come base — sia pure provvisoria — per la costruzione del mondo fisico entità inferite di due generi: (a) i dati di senso delle altre persone, in favore dei quali c’è l’evidenza della testimonianza, che riposa infine sull'argomento analogico in favore di menti diverse dalla mia; (5) i “sensibilia” che apparirebbero da posti dove non c’è nessuna mente, e che io suppongo essere reali sebbene essi non siano dati di nessuno.5°

Ma il criterio secondo cui «le entità inferite dovrebbero, ogni qualvolta sia possibile, essere simili a quelle la cui esistenza è data» non sembra suffragare, di per sé, l’esistenza di sensibilia non esperiti. Certamente, l’aver ammesso alcune entità di un certo genere fa sì che l’ammetterne altre dello stesso genere non sia, in sé e per sé, questionabile a priori; ma ciò non significa certo che tale ammissione sia legittima tout court. Dopotutto, le obiezioni a priori riguardo al genere di entità di cui si suppone l’esistenza è solo una delle obiezioni possibili alla loro esistenza. Per fare un esempio banale, se io sono nella mia stanza e, com'è normale, riconosco la mia esistenza di

essere umano, non sono perciò legittimato a supporre che nella stanza accanto vi sia un altro essere umano —

perché, semplicemente, potrei essere solo in casa. Certo, se dichiarassi che nella stanza accanto c’è un marziano verde con le orecchie a imbuto, sarei soggetto agli attacchi a priori di coloro che non credono nell’esistenza di entità siffatte. Supporre invece che nella stanza accanto vi sia un altro uomo non sarebbe considerato implausibile in questo senso ontologico; ma ciò non significa che io sia autorizzato a farlo senza ragioni indipendenti — come, per esempio, l’aver udito un colpo di tosse dall’altra parte del muro. Qualche anno dopo, in The Analysis of Mind (1921), Russell abbandona la distinzione tra dati di senso e sensazioni, come conseguenza inevitabile di quello che, in My Philosophical Development (1959) egli descrive come «ultimo cambiamento sostanziale» della sua filosofia, cioè l’accettazione, avvenuta nel 1918, degli areomenti

del monismo neutro di William James e della sua scuola — in precedenza respinti** — contro l’esistenza del soggetto, cioè dell’ Io cosciente come entità. In My Philosophical Development, Russell ricorda: Durante il 1918 la mia posizione riguardo agli eventi mentali subì un cambiamento molto importante. [...] [In precedenza], pensavo che la sensazione fosse un evento [occurrence] fondamentalmente relazionale nel quale un soggetto è “consapevole” [aware] di un

oggetto. Avevo usato il concetto di “consapevolezza” [awareness: si tratta dello stesso termine che usava Moore per lo stesso con-

cetto: v., per es. G. E. Moore [1903], p. 451] o “familiarità” [acquaintance] per esprimere questa relazione tra soggetto e oggetto.

e

l’avevo considerata come fondamentale nella teoria della conoscenza empirica, ma ero divenuto gradualmente più dubbioso riguar-

do a questo carattere relazionale degli eventi [occurrences] mentali. [...]. Nelle conferenze sull’ Atomismo logico [v. Russell [ 19 18-

454 Russell [1914d], $ VI, p. 158. sadRussell [1914d], $ VI, p. 157. Russell ricorda questa sua posizione in Russell [1959], cap. 9, p. 105.

° Russell [1914d], $ VI, pp. 157-158.

457 Russell [1959], cap. 1, p. 13. 458 La teoria del monismo neutro è analizzata a lungo e respinta in Russell [1913a], parte I, cap. 2 e parte del cap. 3, e in Russell [1914b],

$

II e parte del $ II. Alcuni anni dopo, tuttavia, in [1918-19], Russell si mostra incline ad accettare il monismo neutro: «[N]on professo di

sapere se [il monismo neutro] è vero o no. Mi sento sempre più incline a pensare che possa essere vero. Ho sempre più la sensazione che le difficoltà che compaiono riguardo ad esso siano tutte della sorta che si può risolvere con l’ingegno. Ma nondimeno ci on brrcerto numero

di difficoltà [...]» (Russell [1918-19], $ VII, p. 279; corsivo di Russell). Un anno dopo, in [1919b], Russell accetta oli argomenti del nni

smo neutro contro l’esistenza del soggetto (v. Russell [1919b], $ III, pp. 305-307). Il monismo neutro sarà sostenuto con vigore da Russell nei successivi anni Venti (diffusamente in Russell [1921a]) e non sarà mai da lui definitivamente abbandonato.

x

»

La teoria delle descrizioni

543

19]: le conferenze furono tenute a Londra tra il gennaio e il marzo del 1918] espressi questo dubbio [v. Russell [1918-19], $ VIII,

Pp. 276-277], ma subito dopo aver tenuto queste conferenze mi convinsi che William James aveva avuto ragione nel negare il carattere relazionale delle sensazioni.‘

Russell prosegue spiegando di aver adottato per la prima volta la posizione di James nel suo articolo del 1919 “On propositions: what they are and how they mean”. Ma fu in The Analysis of Mind (1921) — ricorda ancora Russell — che «abbandonai esplicitamente i “dati di senso”».* In un passo di The Analysis of Mind che Russell riporta a questo punto di My Philosophical Development si legge: Le sensazioni sono ovviamente la fonte della nostra conoscenza del mondo. Potrebbe sembrare naturale considerare una sensazione come essa stessa una cognizione, e fino a poco tempo fa la consideravo così. Quando, diciamo, vedo una persona che conosco venirmi incontro per strada, sembra che il semplice vedere sia conoscenza. È naturalmente innegabile che la conoscenza venga attraverso il vedere, ma io [ora] penso che sia un errore considerare il semplice vedere stesso come una conoscenza. Se vogliamo considerarlo così, dobbiamo distinguere il vedere da ciò che è visto: dobbiamo dire che, quando vediamo una macchia di colore di una certa forma, la macchia di colore è una cosa e il nostro vederla è un’altra. Questa posizione, tuttavia, richiede l’ammissione del

soggetto [...]. Se c’è un soggetto, esso può avere una relazione con la macchia di colore, cioè, la sorta di relazione che potremmo chiamare consapevolezza [awareness]. In questo caso la sensazione, come evento mentale, consisterà della consapevolezza del colore, mentre il colore stesso rimarrà interamente fisico, e può essere chiamato dato di senso, per distinguerlo dalla sensazione.‘

Ma ora Russell — che già nel 1913 aveva rinunciato all’idea che siamo in un rapporto di familiarità con il nostro Io — non crede più che esista un’entità come il soggetto, o perlomeno vuole mantenersi agnostico in proposito: Se vogliamo evitare un’assunzione perfettamente gratuita, dobbiamo fare a meno del soggetto come uno degli ingredienti reali del mondo. Ma quando facciamo questo, la possibilità di distinguere la sensazione dal dato di senso svanisce; almeno io non vedo il modo di preservare la distinzione. Di conseguenza la sensazione che abbiamo quando vediamo una macchia di colore è la macchia di colore, un costituente reale del mondo fisico, e parte di ciò di cui si occupa la fisica. Una macchia di colore non è certamente co-

noscenza, e pertanto non possiamo dire che la pura sensazione è cognitiva. Attraverso i suoi effetti psicologici, è la causa di cognizioni, in parte essendo essa stessa un segno di cose che sono correlate con essa, come per es. sono correlate le sensazioni di vista e tatto, e in parte dando origine a immagini e ricordi dopo che la sensazione si è affievolita. Ma in se stessa la pura sensazione non è cognitiva.**

Ora non c’è più un soggetto che è in familiarità con un dato di senso; dove prima c’erano due particolari, il soggetto e il dato di senso, adesso ce n’è uno solo, irriducibile: la sensazione. Le “sensazioni”, tuttavia, non sono

concepite come entità distinte dalle entità fisiche, nel senso che esse — sostiene ora Russell — appartengono «ugualmente alla psicologia e alla fisica», essendo parte di quella sostanza fondamentale di cui è fatto sia il mondo mentale sia il mondo fisico: La sostanza [stuff] di cui è composto il mondo della nostra esperienza non è, a mio parere, né mente né materia, ma qualcosa di più primitivo di entrambe. Sia la mente sia la materia appaiono composte, e la sostanza di cui esse sono composte sta in un certo senso : : 444 tra le due, in un certo senso al di sopra di entrambe, come un antenato comune.

L’immagine del mondo è quella del monismo neutro, che nel 1918 Russell descriveva così: La teoria del monismo neutro sostiene che la distinzione tra il mentale e il fisico è interamente una questione di ordinamento, che il materiale reale ordinato è esattamente lo stesso nel caso del mentale come nel caso del fisico, ma essi differiscono semplicemente nel fatto che quando prendete una cosa come appartenente al medesimo contesto di certe altre cose, apparterrà alla psicologia, mentre quando la prendete in un certo altro contesto di altre cose, apparterrà alla fisica, e la differenza è in quale considerate essere il suo contesto, proprio lo stesso genere di differenza che c’è tra l’ordinare la gente di Londra alfabeticamente o geograficamente. Co-

sì, secondo William James, il materiale reale del mondo può essere ordinato in due modi diversi, uno che vi dà la fisica e l’altro la

psicologia. È proprio come righe o colonne: in un ordinamento di righe e colonne, potete prendere Una voce come un membro di una certa riga o come un membro di una certa colonna; la voce è la stessa nei due casi, ma il contesto è diverso.

439 440 41 442

Russell Russell Russell Russell

[1959], cap. 12, [1959], cap. 12, [1921a], lecture [1921a], lecture

p. 134. Uli p. 135. VIII, p. 141; Russell [1959], cap. 12, p. 135; corsivi di Russell. VIII, p. 142; Russell [1959], cap. 12, p. 136.

443 Russell [1921a], lecture, I, p. 25.

444 Russell [1921a], lecture I, pp. 10-11. 445 Russell [1918-19], $ VII, pp. 277-278.

544

capitolo 7

Ora Russell accetta la tesi secondo cui materia e mente non sarebbero sostanze distinte, ma sarebbero solo due

modi diversi di raggruppare ciò che nel mondo esiste: Fisica e psicologia non sono distinte per il loro materiale [material]. Mente e materia nello stesso modo sono costruzioni logiche; i particolari dai quali esse sono costruite, 0 da cui sono inferite, hanno varie relazioni, delle quali alcune sono studiate dalla fisica, altre dalla psicologia.**° La sostanza [stuff] del mondo, per quanto ne abbiamo esperienza, consiste, secondo la posizione che difendo, di innumerevoli particolari transitori [transient] come quelli che compaiono nel vedere, udire, ecc., insieme con immagini più o meno somiglianti ad essi [...]. Se la fisica è vera, oltre ai particolari che esperiamo, ce ne sono altri, probabilmente altrettanto (0 quasi altrettanto) transitori,

che costituiscono quella parte del mondo materiale che non entra nella sorta di contatto con un corpo vivente che è richiesto per mutarlo in una sensazione.**”

e i particolari transitori Russell, in realtà, non aderisce interamente al monismo neutro: le immagini (images) non esperiti da nessuno (gli eredi dei sensibilia non percepiti da nessuno) che egli menziona nell’ultimo passo riportato sono, rispettivamente, puramente mentali e puramente fisici: La mia opinione [...] è che James abbia ragione nel rifiutare la coscienza come entità, e che i realisti americani abbiano ragione parzialmente, anche se non del tutto, nel ritenere che sia la mente sia la materia siano composte di una sostanza neutra [neutral stuff) che, in isolamento, non è né mentale né materiale. Ammetto questa posizione riguardo alle sensazioni: ciò che è udito o visto appartiene ugualmente alla psicologia e alla fisica. Ma io direi che le immagini appartengono solo al mondo mentale, mentre quelle occorrenze [occurrences] (se ci sono) che non formano parte di nessuna “esperienza” appartengono solo al mondo fisico. Ci sono, mi sembra, prima facie diversi generi di leggi causali, uno appartenente alla fisica e l’altro alla psicologia. La legge di gravitazione, per esempio, è una legge fisica, mentre la legge di associazione è una legge psicologica. Le sensazioni sono soggette a entrambi i generi di leggi, e sono pertanto veramente “neutre” [newtra]] [...]. Ma entità soggette solo alle leggi fisiche, o solo alle leggi psicologiche, non sono neutre, e possono essere dette rispettivamente puramente materiali e puramente fisiche.**°

I metodi di costruzione delle “cose” e della materia proposti in The Analysis of Mind sono in apparenza molto simili a quello degli scritti russelliani del 1914: le “cose” momentanee sono ridotte a classi di aspetti, o apparenze, e le “cose” permanenti a serie di classi di aspetti: Invece di supporre che ci sia qualche causa sconosciuta, il tavolo “reale”, dietro le diverse sensazioni di coloro che sono detti guardare il tavolo, possiamo prendere l’intero insieme di queste sensazioni (insieme forse con altri particolari) come essenti realmente il tavolo. Vale a dire, il tavolo che è neutro nei confronti dei diversi osservatori (reali e possibili) è l'insieme di tutti quei particolari che sarebbero naturalmente chiamati “aspetti” [aspects] del tavolo da diversi punti di vista. [...].t®

Russell prosegue osservando che il problema di riunire i diversi aspetti di una “cosa” non è diverso, sia che si ammetta, sia che non si ammetta l’esistenza della “cosa” stessa: Si può dire: Se non c’è un singolo esistente che sia l’origine di tutti questi “aspetti”, come essi sono collegati insieme? La risposta è semplice: Proprio come lo sarebbero se ci fosse un tale singolo esistente. Il supposto tavolo “reale” che sta sotto le sue apparenze non è, in ogni caso, esso stesso percepito, ma inferito, e la questione se un tale e tale particolare sia un “aspetto” di questo tavolo è da decidersi solo attraverso la connessione del particolare in questione con l’uno o più particolari per mezzo dei quali il tavolo è de-

finito. Vale a dire, anche se assumiamo un tavolo “reale”, i particolari che sono i suoi aspetti devono essere collegati insieme per mezzo delle loro relazioni reciproche, non con esso, perché esso è meramente inferito da queste. Dobbiamo solo, pertanto, notare come essi sono raccolti insieme, e possiamo tenere la collezione senza assumere nessun tavolo “reale” in quanto distinto dalla collezione. Quando persone diverse vedono ciò che chiamano lo stesso tavolo, esse vedono cose che non sono esattamente le stesse, a

causa della differenza di punto di vista, ma che sono sufficientemente simili da essere descritte con le stesse parole, finché non si ricerca una grande accuratezza o minuzia. Questi particolari strettamente simili sono raccolti insieme in primo luogo per la loro

somiglianza e, più correttamente, per il fatto che sono relati l’uno con l’altro approssimativamente secondo le leggi della prospettiva e della riflessione e diffrazione della luce. Suggerisco, in prima approssimazione, che questi particolari, insieme con altri corre-

446 Russell [1921a], lecture XV, p. 307. 447 Russell [1921a], lecture VIII, pp. 143-144. 448 La differenza tra “sensazioni” e “immagini” in Russell è analoga a quella tra “impressioni” e “idee” in Hume: le sensazioni hanno cause

solamente fisiche, mentre le immagini hanno cause mentali (cosa che non esclude che abbiano anche concomitanti cause fisiche): gie vani 497 RISI Un caso in cui l’espressione “disposti aventi la loro origine in un evento della stessa struttura al centro». 487 Russell [1948a], parte VI, cap. 488 Russell [1948a], parte VI, cap. 316): «Chiamo una serie di eventi re nulla riguardo all’ambiente». 489 Russell [1948a], parte VI, cap.

i 9, p. 508 (ediz. americana, p. 489); corsivo di Russell. 9, p. 508 (ediz. americana, p. 489). V. anche Russell [1948a], parte IV, cap. 9, p. 333 (ediz. americana, p. “linea causale”, se dati alcuni di essi, possiamo inferire qualcosa riguardo agli altri senza dover conosce-

9, pp. 507-508 (ediz. americana, p. 489).

490 Russell [1948a], parte VI, cap. 6, p. 490 (ediz. americana, p. 472).

41 492 49 49

Russell Russell Russell Russell

[1948a], [1948a], [1948a], [1948a],

parte parte parte parte

VI, VI, VI, VI,

cap. cap. cap. cap.

9, 9, 9, 9,

p. p. p. p.

509 510 509 510

(ediz. (ediz. (ediz. (ediz.

americana, americana, americana, americana,

p. 490). p. 491). pp. 490-491). p. 491).

495 Russell [1948a], parte VI, cap. 9, pp. 509-510 (ediz. americana, p. 491). SR 496 Russell [1948a], parte V, cap. 5, p. 477 (ediz. americana, p. 459).

497 Russell [1948a], parte VI, cap. 9, p. 511 (ediz. americana, p. 492); corsivo di Russell.

capitolo 7

550

intorno a un centro” ha un significato preciso è il seguente: «Supponete che un dato oggetto sia visto simultaneamente da un certo numero di persone e fotografato da un certo numero di macchine fotografiche. Gli aspetti visivi e le fotografie possono essere disposti per mezzo delle leggi della prospettiva, e per mezzo delle stesse leggi può essere determinata la posizione dell’oggetto visto e fotografato».** «Nel caso di un oggetto fisico visto simultaneamente da un certo numero di persone o fotografato simultaneamente da un certo numero di macchine fotografiche, l’evento centrale originale è lo stato di quell’oggetto fisico al tempo in cui i raggi luminosi che lo rendono visibile lo hanno lasciato».' Russell spiega che anche nel caso di diverse persone che odono un suono il significato di “disposti intorno a un centro” è altrettanto preciso: «perché risulta che i tempi in cui esse lo odono differisce da un tempo dato di quantità proporzionali alla loro distanza da un certo punto; in questo caso, il punto al tempo dato è il centro nello spazio-tempo o l’origine del suono». Ma Russell chiarisce di voler «impiegare l’espressione anche in casi (come gli odori) in cui tale precisione non è possibile».” Riguardo al «è di solito vero» che compare nella formulazione del postulato, Russell aggiunge: «Diciamo che è “di solito” vero, e l’inferenza in un esempio dato è pertanto solo probabile. Ma la probabilità può essere aumentata in vari modi. È aumentata se la struttura è molto complessa (per es. un lungo libro[°°]). È aumentata se ci sono molti esempi della struttura complessa, per es. quando sei milioni di persone ascoltano il Primo Ministro alla radio. È aumentata dalla regolarità del raggruppamento intorno a un centro, come nel caso di un’esplosione molto forte udita da molti osservatori, i quali annotano i) tempo in cui la odono». «Parlando in generale, ciò che il principio asserisce è che le coincidenze oltre un certo punto sono improbabili, e divengono sempre più improbabili a ogni aumento di complessità».

(V) Il postulato di analogia: «Date due classi di eventi A e B, e dato che, ogni volta che possono essere osservate siaA sia B, vi sia ragione di credere che A causi B, allora se, in dato un caso, si osserva A, ma non c’è modo

di osservare se B sia presente o no, è probabile che B sia presente; e similmente se si osserva B, ma la presenza o assenza di A non possa essere osservata». Il postulato può essere applicato solamente, spiega Russell, quando vi sia «qualche ragione di supporre che il fatto inosservabile, se avviene, sarà inosservabile».’°° Per esempio: «Supponete [...] che un cane che abbaia stia correndo dietro un coniglio, e per un momento sia nascosto in un cespuglio. Il cespuglio spiega il vostro non vedere il cane, e vi permette di inferire che l’abbaiare, che ancora sentite, è ancora associato con ciò che avete visto un momento fa. Quando il cane e-

merge dal cespuglio, voi pensate che la vostra credenza sia confermata».

Un’importante applicazione del

postulato è, secondo Russell, nell’inferenza che esistano altre menti: «La non-percezione di altre menti è più

analoga a quella del cane nel cespuglio di quanto generalmente si pensi. Noi non vediamo un oggetto se un corpo opaco è tra esso e noi, ossia se nessuna linea causale porta da esso ai nostri occhi. Sentiamo un tocco in una parte qualsiasi del nostro corpo perché linee causali viaggiano lungo i nervi al cervello dalla parte toc-

cata. Se i nervi sono recisi, non sentiamo nulla: l’effetto è esattamente analogo a quello di un corpo opaco nel caso della vista. Quando è toccato il corpo di qualcun altro non sentiamo nulla, perché nessun nervo viaggia dal suo corpo al nostro cervello. [...] pertanto il fatto che non le osserviamo [le sensazioni fisiche di altri] non è una ragione per supporre che esse non siano presenti»."* Un altro esempio di applicazione del postulato è il seguente: «La parola “duro” è una parola causale: denota quella proprietà di un oggetto in virtù della quale esso causa un certo genere di sensazioni tattili. I nostri precedenti postulati ci pongono in grado di inferire che c’è una tale proprietà, che i corpi possiedono mentre stanno causando le sensazioni appropriate. Ma i nostri precedenti postulati non ci pongono in grado di inferire che i corpi hanno talvolta questa prodo Russell [1948a], parte VI, cap. 9, pp. 510-511 (ediz. americana, p. 492). l Russell [1948a], parte VI, cap. 6, p. 483 (ediz. americana, p. 465). 5 È ; ® Russell [1948a], parte VI, cap. 9, p.511 (ediz. americana, p. 492). 501 Ibid. 502

.

È, : chie ° np i » TS Ò i i accenno a un |lungo lib libro richiama un esempio che Russell porta in un capitolo precedente quello dal quale è tratto il passo riportato sostenendo che il postulato strutturale è all’opera anche quando volumi distinti che coincidono parola per parola non sono considerati somigliarsi per puro caso, ma sono ascritti a una stessa causa comune — l’autore del libro — con una probabilità che aumenta all’ aumentare Sola lunghezza del libro (v. Russell [1948a], parte VI, cap. 6, pp. 484-485; ediz. americana, pp. 466-467). 20° Russell [1948a], parte VI, cap. 9, p. 511 (ediz. americana, p. 492). 504 Si Russell [1948a], parte VI, cap. 6, p. 484 (ediz. americana, pp. 465-466). — Russell [1948a], parte VI, cap. 9, pp. 511-512 (ediz. americana, p. 493); corsivo di Russell 506 Russell [1948a], parte VI, cap. 9, p. 512 (ediz. americana, p. 493). TE

507 Ibid. 508 Ibid.

La teoria delle descrizioni

II

prietà quando non sono toccati. Ma ora troviamo che, quando un corpo è sia visto sia toccato, la durezza è associata con un certo genere di apparenza visiva, e il nostro postulato ci permette di inferire che la durezza è probabilmente associata con quest’apparenza visiva anche quando il corpo interessato non è toccato».

Colpiscono due caratteristiche di questi postulati — che, scrive Russell, «sono volti a giustificare i primi passi verso la scienza, e quanto può essere giustificato del senso comune». La prima è che essi asseriscono solo la probabilità, non la certezza, di certi eventi. La seconda è che tra essi non c’è un principio di induzione per semplice enumerazione. Le due caratteristiche sono connesse. In Human Knowledge, Russell sostiene che «l’induzione [per semplice enumerazione] non è [...] una premessa, ma un’applicazione della probabilità matematica a premesse cui si giunge indipendentemente dall’induzione».”!! L’induzione (per semplice enumerazione), se-

condo la caratterizzazione di Human Knowledge, permette di considerare crescente la probabilità dell’ipotesi che tutti gli A siano B al crescere del numero n di esempi di A che sono B — ammesso che non si dia nessun esempio contrario.”!? Rifacendosi in parte alla teoria dell’induzione elaborata da John Maynard Keynes nel suo A Treatise on Probability (v. Keynes [1921], parte IM),°!' Russell sostiene che tale ragionamento induttivo è valido solo a condizione che l’ipotesi da confermare abbia una certa probabilità iniziale, probabilità che in ultima analisi non

può, pena un regresso all’infinito, essere a sua volta giustificata dall’induzione per semplice enumerazione, e deve dunque esserlo attraverso altri principi.”!* Tali principi, sostiene Russell, devono essere extralogici, ossia devono dunque riferirsi a caratteristiche fattuali del mondo,"° perché, dal punto di vista logico, l’induzione (per semplice enumerazione) «è invalida, e non è, inoltre, ciò che di fatto crediamo».?!° Nel caso in cui l’ipotesi da confermare per via induttiva abbia una certa probabilità finita, secondo l’autore di Human

Knowledge, non occorre nessun

principio extralogico per validare il ragionamento induttivo (per semplice enumerazione): la sua validità deriva semplicemente dalla teoria matematica delle probabilità. Scrive Russell: Dobbiamo dunque cercare principi, diversi dall’induzione, tali che, sulla base di certi dati non della forma “questo A è un B”, la generalizzazione “tutti gli A sono B” abbia una probabilità finita. Dati tali principi, e data una generalizzazione alla quale essi si applicano, l’induzione può rendere la generalizzazione sempre più probabile, con una probabilità che si avvicina come limite alla certezza quando il numero di esempi favorevoli aumenta indefinitamente. In tale argomento, i principi in questione sono premesse, ma l’induzione non lo è, perché nella forma in cui è usata è una conseguenza analitica della teoria delle probabilità come frequenza finita.5!”

I postulati elencati da Russell hanno il ruolo di fornire la base — probabilistica e non basata sull’induzione — sulla quale il ragionamento di induzione per semplice enumerazione possa operare.’'* La necessità di postulati la cui conoscenza «non può essere basata sull’esperienza»,”° anzi, «che l’esperienza non può neppure rendere probabili»,°”° costituisce — secondo l’autore di Human Knowledge — un’essenziale limitazione della validità dell’empirismo,”°! caratterizzato come la tesi secondo cui «tutta la conoscenza sintetica è basata sull’esperienza». °° Concludiamo questa ricognizione osservando che, nelle sue linee fondamentali, la concezione russelliana dei nomi logicamente propri rimane costante anche nelle sue ultime opere. In particolare, l’antica nozione di familia509 Russell [1948a], parte VI, cap. 9, p. 513 (ediz. americana, p. 494).

210 Ibid. >Il Russell [1948a], parte VI, cap. 2, p. 451 (ediz. americana, p. 433). 512 V. Russell [1948a], parte V, cap. 7, B, p. 419 (ediz. americana, p. 401).

513 V. Russell [1948a], parte V, cap. 7, e parte VI, cap. 2. 514 V_ Russell [1948a], parte VI, cap. 2, pp. 452-453 (ediz. americana, 515 V_ Russell [1948a], parte V, introduzione, p. 354 (ediz. americana, 516 Russell [1948a], parte IV, cap. 9, p. 330 (ediz. americana, p. 313). cana, p. 336), parte V, cap. 7, B, p. 419 (ediz. americana, p. 402) e p.

pp. 435-436). p. 336), e cap. 7, E, p. 436 (ediz. americana, p. 418). V. anche Russell [1948a], parte V, introduzione, p. 354 (ediz. ameri422 (ediz. americana, pp. 404-405), e parte V, cap. 7, E, p. 435 (ediz.

stiRussa Avo parte VI, cap. 2, pp. 453-454 (ediz. americana, p. 436). Quella che Russell chiama “teoria della probabilità come frequenza finita” è la teoria frequentista della probabilità che definisce la probabilità che un A sia B come il rapporto tra il numero di A che sono B e il numero totale degli A. 518 V_ Russell [1948a], parte VI, cap. 5, p. 478 (ediz. americana, p. 460), e cap. 10, p. 506 (ediz. americana, p. 487). Rus 51° 320 a

1948a], parte VI, cap. 10, p. 527 (ediz. americana, p. 507). a p. tà (ediz. americana, p. xv). V. anche Russell |1948a], parte VI, cap. 10, p. 527 (ediz. americana, p. ire

507). 521 V. Russell [1948a], parte VI, cap. 10.

522 Russell [1948a], parte VI, cap. 10, p. 516 (ediz. americana, p. 496).

capitolo 7

SI2

rità (acquaintance), entrata in crisi con il rifiuto del soggetto, è recuperata da Russell, in An Inquiry into Meaning and Truth (1940), sotto forma della nozione primitiva del notare (noticing).”? L’idea è questa: quando abbiamo

delle sensazioni, possiamo notarle — cioè prestarvi attenzione — oppure no; se le notiamo, ne siamo coscienti € ne abbiamo conoscenza diretta. Per esempio, ascoltando una sinfonia, possiamo notare l'esecuzione dei violoncelli, ponendo il resto sullo sfondo.

Se è così, abbiamo

una conoscenza

diretta della musica dei violoncelli.??*

Nell’Inquiry, Russell ripresenta la tesi secondo cui non possiamo nominare gli usuali oggetti fisici, ma solo gli oggetti dell'esperienza diretta: Ma se la parola “questo” è da applicarsi come dovrebbe, a qualcosa che esperiamo direttamente, non può applicarsi al gatto come oggetto nel mondo esterno, ma solo al nostro proprio percetto di un gatto. Così non dobbiamo dire “questo è un gatto”, ma “questo è un percetto come quelli che associamo con i gatti”, o “questo è un gatto-percetto”.??°

Le parole “questo” e “io-ora”, osserva Russell, possono essere entrambe usate come nomi propri (rispettivamente, di quella porzione dell’esperienza momentanea che si sta notando, e di tutti gli eventi compresenti con un oggetto che si sta notando), o l’una può essere definita in base all’altra, se quest’ultima si assume come termine primitivo: Quindi in ogni asserzione che contiene “questo” possiamo sostituire “ciò che io-ora noto”, e in ogni asserzione che contiene “i0ora” possiamo sostituire “ciò che è compresente con questo”.929

La suddetta nozione del notare si ritrova in Human Knowledge, dove, come abbiamo visto, quello che Russell

chiama “solipsismo del momento” è caratterizzato come la teoria secondo la quale «la mia intera conoscenza è limitata a ciò che ora sto notando [noticing], ad esclusione del mio passato e probabile futuro, e anche di tutte quelle sensazioni alle quali, in quest’istante, non sto prestando attenzione»,”?” e dove la denotazione della parola “questo” è definita come «qualsiasi parte [...] che sto specificamente notando [noticing]» del complesso di tutte le qualità compresenti «che contiene i contenuti presenti della mia mente»”°* — complesso che rappresenta, secondo il Russell di Human Knowledge, la denotazione di “o-ora”.0??

Quanto al principio dell’acquaintance, esso è sostenuto da Russell ancora nel 1959, in My Philosophical Development, dove è riformulato in termini linguistici: Ho sostenuto un principio, che ancora mi sembra completamente valido, secondo cui, se possiamo comprendere ciò che un enunciato [sentence] significa, esso dev'essere composto interamente di parole denotanti cose con cui siamo in familiarità [we are ac-

quainted] o definibili in termini di tali parole. È forse necessario porre qualche limitazione a questo principio riguardo alle parole logiche — per es. o, non, qualche, tutti. Possiamo eliminare la necessità di questa limitazione confinando il nostro principio a enunciati non contenenti variabili e non contenenti parti che siano enunciati.??°

5.3. Prima di concludere questa sezione, vorrei esaminare brevemente alcune obiezioni influenti che sono state mosse alla teoria russelliana dei nomi propri ordinari. Abbiamo visto che in un passo sopra riportato (v. $ 5.1) da “Knowledge by acquaintance and knowledge by description”, Russell afferma che, quando si formula un giudizio,

per es., su Bismarck, la descrizione che si ha in mente «sarà probabilmente una massa più o meno vaga di conoscenze storiche — molto di più, nella maggior parte dei casi, di quanto sia richiesto per identificarlo».°! Ma che

cosa accade se ciò che in realtà si ha in mente quando si usa il nome “Bismarck” è meno di quello che è necessario per identificarlo? Non è forse vero che si può usare il nome “Bismarck” avendo in mente solo un uomo politico del passato, 0 qualcosa del genere? Si dovrebbe concludere che chi usa il nome “Bismarck” come sinonimo di una descrizione che non individua un unico referente non riesce a riferirsi a Bismarck? Esiste, a questo proposito, un’obiezione

influente, dovuta a Saul Kripke ([1970]), alla teoria dei nomi come

Kripke porta quest’esempio:

523 924 °25 920

V_ Russell [1940], cap. 3, pp. 50-51. V_ Russell [1940], cap. 3, p. 50. Russell [1940], cap. 7, p. 114. Ibid.

A Russell [1948a], parte II, cap. 2, pp. 196-197 (ediz. americana, p. 181). — Russell [1948a], parte IV, cap. 8, p. 322 (ediz. americana, p. 304).

929 V. ibid. 950 Russell [1959], cap. 14, p. 169. °3! Russell [1911e], pp. 217, e Russell [1912a], cap. 5, pp. 85-86.

abbreviazioni

di descrizioni.

La teoria delle descrizioni

DOSI

Considerate Richard Feynman, a cui molti di noi sono in grado di riferirsi. Egli è uno dei principali fisici teorici contemporanei. Chiunque qui (ne sono sicuro!) sa formulare il contenuto di una delle teorie di Feynman così da distinguerlo da Gell-Mann. Tuttavia, l’uomo della strada, senza possedere queste capacità, può ancora usare il nome “Feynman”. Se glielo si chiede dirà: be’ è un fisico 0 qualcosa del genere. Può non pensare che ciò individui qualcuno univocamente. Io penso tuttavia che egli usi il nome “Feynman” come un nome per Feynman.53°

Una risposta a quest’obiezione potrebbe essere che, quando si usa un nome, per es. “Bismarck”, si ha presente — oltre alla descrizione vaga “un uomo politico del passato, o qualcosa del genere” — anche la descrizione ‘l’uomo chiamato ‘Bismarck’”. In effetti, questa sembra essere proprio la posizione di Russell, il quale, in “Knowledge by acquaintance and knowledge by description’(1911), scrive: Ora io ammetto, anzi sostengo, che per scoprire che cosa c’è realmente nella mia mente quando do un giudizio su Giulio Cesare, dobbiamo sostituire al nome proprio una descrizione costituita da alcune delle cose che so di lui. (Una descrizione che servirà spesso a esprimere il mio pensiero è “l’uomo che si chiamava Giulio Cesare”. Poiché qualsiasi altra cosa io possa aver dimenticato di lui, è chiaro che quando lo menziono non ho dimenticato che questo era il suo nome.)?*

Kripke considera questa risposta, obiettando però che intendere, per esempio, il nome “Socrate” come significante ‘luomo chiamato ‘Socrate’”’ conduce a un circolo vizioso: il riferimento del nome non sarebbe mai fissato, perché ogni parlante farebbe, circolarmente, riferimento all’uso degli altri parlanti.??* Quest’obiezione è tuttavia valida solo contro chi volesse sostenere che rutti i parlanti, in tutte le circostanze, usano il nome “Socrate” come sinonimo della descrizione “l’uomo chiamato ‘Socrate’”. Kripke non attribuisce questa tesi a Russell, ma a William

Kneale ([1962], pp. 629-630);”” in realtà, si tratta di una tesi esplicitamente rifiutata da Russell. In The Problems of Philosophy, per es., Russell scrive: Le parole comuni, anche i nomi propri, sono di solito in realtà descrizioni. Vale a dire, il pensiero nella mente di una persona che usa correttamente un nome proprio può in genere essere espresso esplicitamente solo se rimpiazziamo il nome proprio con una descrizione. Inoltre, la descrizione necessaria a esprimere il pensiero sarà diversa per persone diverse, o per la stessa persona in tempi diversi. La sola cosa costante (finché il nome è usato correttamente) è l’oggetto cui il nome si applica.539»537

532 Kripke [1970], lecture II, p. 81.

|

ANS

533 Russell [1911e], p. 221. V. anche Russell [1912f], pp. 83-84, laddove Russell sceglie la descrizione “l’entità chiamata ‘Socrate

999

da so-

stituire al nome proprio apparente “Socrate”.

534 V_ Kripke [1970], lecture I, pp. 68-70. 535 Nel luogo citato da Kripke, William Kneale osserva en passant:

; PA «Mentre può essere informativo dire a qualcuno che il più famoso filosofo Greco era chiamato Socrate, sarebbe ovviamente 021939: dirgli che Socrate era chiamato Socrate; e la ragione è semplicemente che egli non può comprendere il vostro uso della parola “Socrate” all’inizio della vostra asserzione a meno che non sappia già che significa [mean] “l’individuo chiamato Socrate?» (Kneale [1962], p. 050);

Due pagine dopo, Kneale ribadisce: «Se la designazione non è una descrizione definita ma un nome proprio (per es., SREA DE SOLI innanzitutto rimpiazzarlo con una descrizione definita con lo stesso senso [sense] (per es. “la persona chiamata Socrate)» (Kneale [1962], PI6OI2) | vat In Kneale e Kneale [1962], si espone invece una tesi più cauta. Nel cap. 10, $ 3, gli autori spiegano che anche se, per es., il pane proprio

“Socrate” «funziona come» (p. 598) 0 «è equivalente nell’uso» (p. 601) a una descrizione della forma “la cosa chiamata Socrate ; «sarebbe un errore trattarlo come un’abbreviazione per questa descrizione, perché esso è presupposto dall’espressione “chiamata Socrate” ed è quinani pe di ovviamente più primitivo» (p. 601). 536 Russell [1912a], cap. 5, pp. 84-85.; corsivo mio. V. anche Russell [1912f], p. 83, laddove Russell sceglie la descrizione

l’entità chiama-

ta ‘Socrate’” da sostituire al nome proprio apparente “Socrate” «tra un numero indefinito di modi diversi» (ibid.) in cui il nome può essere definito. i CA

537 Può essere interessante rilevare che anche per Frege un nome proprio non ha in genere un senso costante, ma variabile da parlante a parI ina di Frege [1892a] si legge: Srna, a SEACRE teopinioni sul suo senso possono naturalmente Liverpate: Si potrebbe per ‘srassumere [GA È Mer

come tale: l'allievo di Platone e maestro di Alessandro Magno. Chi fa questo assocerà all enunciato Aristotele nacque a Stagira un senso diverso da chi come senso di questo nome assume: il maestro di Alessandro Magno nativo di Stagira. Finché la NEMAIaZoNo cu.

rimane uguale, queste variazioni del senso si possono tollerare, sebbene siano da evitare nella teoria di una scienza dimostrativa e non debbano esistere in una lingua perfetta» (Frege [1892a], p. 27, nota). I a i osizione, questa, che Frege riprende in un saggio del 1918: a nesapplichi si non ciò che e N. N. a 1875 settembre 13 il nato è Lauben [ 1che Herbert Garner sappia che il Dr. Gustav Ea

a sun altro; egli non sa, tuttavia, dove vive ora il Dr. Lauben né sa nient'altro di lui. D'altra parte, Leo Peter Do5 SI

a

1

de non e Sse MIA 13 settembre 1875 a N. N. Allora per quanto riguarda il nome proprio “Dr. Gustav Lauben O. va — + ia apa az Do lo essi perché uomo; stesso lo fatto di [bezeichnen] designino nome questo con stessa lingua, sebbene Garner non associa all’enunciato “Il Dr. Gustav Lauben è stato ferito” lo stesso pensiero che Leo Peter vuole esprimere [ausdriicken

esso. [...] ; eta: = _ 0° RTS SOR. x di esso. Ciò può avve Pertanto, nel caso di un nome proprio, tutto dipende da come è presentata la persona 0 la cosa designata per mezzo »

capitolo 7

554

Nella History of Western Philosophy (1945), Russell spiega più ampiamente: George Washington stesso poteva usare il suo nome e la parola “io” come sinonimi. Egli poteva percepire i suoi pensieri e i movimenti del suo corpo, e poteva pertanto usare il suo nome con un significato più pieno [a fuller meaning] di quanto fosse possibile a qualsiasi altro. I suoi amici, se in sua presenza, potevano percepire i movimenti del suo corpo, e potevano indovinare i suoi pensieri; per loro, il nome “George Washington” denotava ancora qualcosa di concreto nella loro esperienza. Dopo la sua morte essi dovettero sostituire i ricordi alle percezioni, cosa che implicava un cambiamento nei processi mentali che avevano luogo quando essi usavano il suo nome. Per noi, che non l’abbiamo mai conosciuto, i processi mentali sono ancora diversi. Possiamo pensare al suo ritratto, e dire a noi stessi “sì, quell’uomo”. Possiamo pensare “il primo Presidente degli Stati Uniti”. Se siamo molto ignoranti, egli può essere per noi semplicemente ‘l’uomo che era chiamato ‘George Washington”. [...] Questo cambiamento perpetuo del significato delle parole è celato dal fatto che, in generale, il cambiamento non fa differenza per la verità o falsità delle proposizioni in cui le parole compaiono. Se prendete qualsiasi enunciato vero in cui compaia il nome “

5

È

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tit

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-

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La

George Washington”, esso, di regola, rimarrà vero se sostituite l’espressione “il primo presidente degli Stati Uniti”.

SIR

In questa prospettiva, non si può negare che vi siano dei parlanti più esperti di altri (per es. gli storici) i quali potranno fissare il riferimento di “Socrate”, o di “Giulio Cesare”, attraverso descrizioni che non facciano riferi-

mento all’uso di altri parlanti: la circolarità denunciata da Kripke non si presenta, nella teoria di Russell. Kripke sostiene tuttavia che, anche nel caso che un parlante, in una certa situazione, abbia in mente una descrizione

assolutamente

univoca

dell’individuo

di cui usa

il nome,

il nome

non

può essere

considerato

come

un’abbreviazione di questa descrizione. Egli si serve dell’esempio seguente: «Supponiamo che qualcuno dica che Gòodel è colui che ha dimostrato l’incompletezza dell’aritmetica, e che quest'uomo sia abbastanza colto e sia perfino capace di dare un resoconto indipendente del teorema d’incompletezza»;”’° in queste circostanze, se costui si serve del nome

“Gòdel”, intende davvero questo nome

come

un’abbreviazione

della descrizione “colui che ha

scoperto l’incompletezza dell’aritmetica”? Kripke sostiene che non è così: Immaginate la seguente situazione palesemente inventata [...]. Supponete che Gòdel non fosse di fatto l’autore di questo teorema. Un uomo chiamato “Schmidt”, il cui cadavere fu trovato a Vienna in circostanze misteriose molti anni fa, compì in realtà l’opera in questione. Il suo amico G6del venne in qualche modo in possesso del manoscritto ed esso fu da allora attribuito a Gòdel. [...] Così,

poiché l’uomo che ha scoperto l’incompletezza dell’aritmetica è di fatto Schmidt, quando parliamo di “Gòdel”, noi di fatto ci riferiamo sempre a Schmidt. Ma a me non sembra che ci riferiamo a Schmidt. Semplicemente non ci riferiamo a Schmidt.®*°

In effetti, è evidente che alcuni parlanti, in alcune circostanze, useranno il nome “Gòdel” avendo in mente proprio qualcosa di simile alla descrizione “colui che ha scoperto l’incompletezza dell’aritmetica”. In questi casi, se uno di questi parlanti dicesse, per es.: “Gòdel è nato a Vienna”, e la storia raccontata da Kripke fosse vera, egli si riferirebbe in realtà — secondo la teoria di Russell — a Schmidt, non a Gòdel. Una conclusione intuitivamente inaccettabile. L’obiezione di Kripke pone in luce un fenomeno interessante, ma non raggiunge, credo, lo scopo di dimostrare la falsità della tesi che i nomi propri ordinari siano abbreviazioni di descrizioni definite. Il punto è che il puzzle di Kripke può essere replicato senza prendere affatto in considerazione i nomi propri, ma facendo uso solo di descrizioni definite. Supponiamo, per esempio,”' che un certo Jones sia stato arrestato, sulla base di indizi ritenuti molto convincenti, con l’accusa di aver assassinato un certo Smith. Supponiamo che durante il processo Jones abbia un comportamento molto bizzarro, e che questo mi spinga a dire: “L'assassino di Smith è completamente pazzo”. Indubbiamente, in questo caso, la mia intenzione sarebbe di dire qualcosa a proposito di Jones; e quest’'intenzione non cambierebbe se, nonostante i pesanti indizi a suo carico, non fosse stato veramente Jones a uccidere Smith,

ma un’altra persona — diciamo, un tale Ross. Nell’ipotesi menzionata, io non mi riferivo a Ross. ma a Jones. Per

venire all'esempio di Kripke, se l’autore di una biografia di Gòdel si servisse talvolta, per ragioni stilistiche, della descrizione “lo scopritore dell’incompletezza dell’aritmetica”, senza dubbio la sua intenzione sarebbe di continuare a riferirsi a Gòdel, anche se lo scopritore di questo teorema, a sua insaputa, fosse in realtà Schmidt.

nire in modi diversi, e a ognuno di questi modi corrisponde un senso particolare di un enunciato che contiene il nome proprio» (Frege

[1918], pp. 65-66).

938 Russell [1945], libro I, cap. 5, pp. 68-69 (ediz. americana, p. 51).

°° Kripke [1970], lecture II, p. 81. °*° Kripke [1970], lecture II, pp. 83-84.

24! L'esempio è, naturalmente, ispirato a Donnellan [1966], p. 285-286.

La teoria delle descrizioni

999

Il punto è che per errore, pigrizia, ironia, o altri motivi ancora, possiamo usare impropria mente descrizioni definite, nomi propri” — o qualunque altra espressione linguistica — e nondimeno, in un contesto appropriato, riuscire a raggiungere gli scopi della nostra comunicazione. Ma occorre distinguere tra ciò che, in una certa circostanza, intendiamo dire — e che può essere recuperato da un interlocutore caritatevole, o il quale, semplicem ente, condivida i nostri errori — e ciò che, nella stessa circostanza, diciamo con le nostre parole. Perché dovremmo fare

questa distinzione? La risposta è semplice: perché altrimenti non avremmo nessuna possibilità di rubricare una descrizione come impropria. Per riprendere un noto esempio,” possiamo dire a una donna “Suo marito è davvero gentile con lei” ed essere compresi — nelle circostanze opportune — anche se in realtà abbiamo scambiato un amico della donna (che in effetti è con lei molto gentile) per il marito (che, invece, è con lei particolarmente rude). Anche se ciò che abbiamo inteso dire, in questo caso, può essere vero, ciò che di fatto abbiamo detto è indubbia-

mente falso: la descrizione è usata impropriamente — prova ne sia che la donna può correggere il nostro errore senza contestare ciò che abbiamo inteso dire. Tali questioni non riguardano la semantica, ma la pragmatica: una teoria semantica — come la teoria delle descrizioni di Russell — può decidere che cosa, in una certa occasione, significano le nostre parole, non che cosa vogliamo dire usandole in una certa situazione. Ebbene, Kripke è completamente d’accordo sulle tesi esposte nell’ultimo capoverso: egli stesso le sviluppa in modo convincente in un articolo in cui difende la teoria di Russell dalle critiche mosse da Keith Donnellan in Donnellan

[1966]. ppi Kripke, tuttavia, ritiene che tali argomenti non bastino a superare la sua obiezione; infatti,

egli argomenta, quando scopriamo che una descrizione associata a un nome è impropria la revochiamo, ma non revochiamo mai il nome stesso: [...] nel caso di “Suo

marito

è gentile con

lei”, e casi simili, “suo marito”

si può riferire al suo amante,

finché restiamo

nell’equivoco che l’uomo cui ci riferiamo (l’amante) sia suo marito. Una volta che siamo venuti a conoscenza dei fatti, non ci riferiremmo più a lui in questo modo [...]. Analogamente, si può usare “l’uomo che ha dimostrato l’incompletezza dell’aritmetica”, come una descrizione definita referenziale, per riferirsi a Gòdel; potrebbe essere usata così, per esempio, da qualcuno che avesse dimenticato il suo nome. Se l’ipotetica frode fosse scoperta, tuttavia, la descrizione non sarebbe più utilizzabile come strumento per riferirsi a GOdel; di lì in poi essa potrebbe essere usata solo per riferirsi a Schmidt. Ritireremmo ogni precedente asserzione che usasse la descrizione per riferirsi a Gòdel (a meno che non fosse vera anche di Schmidt). Non ritireremmo allo stesso modo il nome “Gòdel”, anche dopo la scoperta della frode; “Gòdel” sarebbe ancora usato per nominare Gòdel, non Schmidt. Il nome e la descrizione, pertanto, non sono sinonimi.°*°

L’obiezione di Kripke è però valida solo contro una teoria che affermi che un nome proprio sia sempre sinonimo di una particolare descrizione. Ma questa è, come abbiamo già visto, una tesi che Russell esplicitamente rifiuta.°‘° Quindi l’obiezione non confuta la teoria di Russell.

. | 9 L'esempio che segue si deve allo stesso Kripke: «Due persone vedono Smith a distanza e lo scambiano per Jones. Hanno un breve colloquio: “Che cosa sta facendo Jones? “Sta rastrellando le foglie”. “Jones”, nel linguaggio comune a entrambi, è un nome di Jones; esso non nomina mai Smith. Tuttavia, in qualche senso, in quest'occasione, chiaramente entrambi i partecipanti al dialogo si sono riferiti a Smith, e il secondo partecipante ha detto qualcosa di vero a proposito dell’uomo cui si riferiva se e solo se Smith stava raccogliendo le foglie con un rastrello (indipendentemente dal fatto che Jones lo stesse facendo o no)» (Kripke [1977], p. 263).

pra

543 V. L. Linsky [1963], p. 80, Donnellan [1966], pp. 298-302, Kripke [1977], pp. 256e260-261.

SA

Kripke [1977]. Molto brevemente:

a

FM

in Donnellan [1966] l’autore sostiene che vi sono due possibili DO), delle descrizioni definite, uno

referenziale e uno attributivo. La differenza tra i due usi può essere chiarita con un esempio. Posso dire:

L'assassino di Smith è pazzo

perché Smith è stato assassinato in circostanze particolarmente efferate. In questo caso, sto usando la descrizione in modo attributivo, per riferirmi a chiunque abbia, di fatto, assassinato Smith. Ma se dico: “L'assassino di Smith è pazzo

perché Jones —

colui che è accusato

dell’omicidio — ha un comportamento molto bizzarro, e io sono convinto che egli sia l'assassino di Smith, uso la descrizione in modo refe-

e Donnellan, dalla renziale, cioè per riferirmi a Jones, non a chiunque, di fatto, abbia ucciso Smith. L'uso attributivo è GR di Smith posassassino “I descrizione della attributivo nell’uso es., per sia”; qualunque) (0 possibilità di inserire la clausola “Chiunque siamo dire: “L’assassino di Smith, chiunque sia, è pazzo”, mentre l’inserzione della stessa clausola non sarebbe appropriata nell’uso refe-

renziale della descrizione. (Che, tuttavia, gli usi attributivi siano così caratterizzabili appare talso: si consideri ] esempio di Searle ([ 1979], p. 202) “Quell’uomo laggiù dal buffo cappello, chiunque sia, sta cercando di forzare la tua auto! , dove si ha un uso referenziale di una > di scrizione nonostante la presenza della clausola “Chiunque sia”.) Donnellan sostiene che la teoria di Russell fallisce perché è in grado rendere conto solo dell’uso attributivo delle descrizioni, non di quello referenziale. A questa tesi, Kripke replica SALE che, in realtà, Nierafioa, l’uso referenziale delle descrizioni definite non è una questione di pertinenza semantica — dipendente, cioè, da un’ambiguità nel ao perfettamente è quindi e pragmatica, pertinenza di questione una è ma —, così” e così “il forma della to delle descrizioni

teoria di Russell. Spiegazioni pragmatiche della distinzione tra attributivo e referenziale nell’articolo menzionato si trovano in Searle [1979] e in Bach [1981b]. 545 7_ : | Kripke [1977], pp. 260-261.

un po’

diverse da quella fornita da

65-66). pe Come abbiamo già osservato, questa stessa tesi è respinta anche da Frege (v. Frege [1918], pp.

Kripke

capitolo 7

556

La teoria che Kripke oppone alla teoria dei nomi di Russell afferma che i nomi propri ordinari non sono in nessun caso abbreviazioni di descrizioni, ma denotano direttamente il loro portatore. Secondo Kripke, in un certo tempo, un oggetto è battezzato con un certo nome: da allora il nome è usato dai vari parlanti come nome di quell’oggetto, e si riferisce a quell’oggetto attraverso un’ininterrotta catena causale che infine riconduce al battesimo iniziale. Questa teoria — che Kripke sostiene con molta abilità ricorrendo soprattutto ad argomenti modali — viene però a trovarsi in difficoltà di fronte al problema dei nomi propri che non denotano nulla, come “Pegaso” o “Babbo Natale”. Poiché non esiste Babbo Natale, “Babbo Natale” non può certo essere un nome di Babbo Natale che rinvii a Babbo Natale attraverso una catena causale che riconduca a un battesimo iniziale. Di fronte a questo problema, si potrebbe optare per una duplice teoria dei nomi secondo la quale solo i nomi grammaticalmente propri di entità inesistenti dovrebbero essere trattati come descrizioni. Questa era, in effetti, la soluzione inizialmente prospettata dallo stesso Russell. C'è però una difficoltà:” non è detto che sappiamo quali nomi grammaticalmente propri siano forniti di denotazione. Nell’Introduction to Mathematical Philosophy Russell fa quest’esempio: Possiamo domandare significativamente se Omero sia esistito, cosa che non potremmo fare se “Omero” fosse un nome. La proposizione “Il così e così esiste” è significante, sia essa vera o falsa; ma se a è il così e così (dove “a” è un nome), le parole “a esiste” sono prive di significato. È solo delle descrizioni — definite o indefinite — che si può affermare l’esistenza [sic]; infatti, se “a” è un nome, deve nominare qualcosa: ciò che non nomina niente non è un nome, e pertanto, inteso come nome, è un simbolo privo di significato, mentre una descrizione, come “l’attuale re di Francia”, non diviene incapace di comparire significativamente solo perché non descrive niente, la ragione di ciò essendo che essa è un simbolo complesso, il cui significato deriva da quello dei simboli costituenti. E così, quando chiediamo se Omero sia esistito, noi usiamo la parola “Omero” come una descrizione abbreviata [abbre-

viated description]: possiamo rimpiazzarla con (diciamo) “l’autore dell’ /liade e dell’ Odissea”. Le stesse considerazioni si applicano a quasi tutti gli usi di quelli che sembrano nomi propri.”

Qui non si tratta di spiegare la semantica di un nome grammaticalmente proprio che sappiamo designare un'entità; né di spiegare la semantica di un nome grammaticalmente proprio che sappiamo non designare nulla. Non siamo certi se Omero sia realmente esistito. Quest’incertezza — secondo Russell — ci costringe a usare “Omero” come una descrizione. Altrimenti, non potremmo assegnare un valore semantico agli enunciati in cui compaia il nome “Omero” finché non avessimo risolto il problema della sua esistenza. Ma ciò che diciamo non sembra poter dipendere da ciò che vi è, sebbene certamente ne dipenda i/ valore di verità di ciò che diciamo.”*° Se però rubrichiamo come descrizioni abbreviate tutti i nomi che possono — per qualche ragione anche remota e improbabile — mancare di denotare, ci troviamo su una strada che sembra condurre a una teoria dei nomi propri ordinari simile a quella di Russell.??®

947 Più di una, in realtà. Una teoria del genere si trova in difficoltà anche nel rendere conto degli enunciati in contesti epistemici: credere che Espero non sia Fosforo, per esempio, non sembra essere la stessa cosa che avere la credenza contraddittoria che Espero non sia Espero; eppure dovrebbe essere così, se il ruolo semantico dei nomi “Espero” e “Fosforo” è semplicemente quello di denotare il loro portatore. Si considerino inoltre enunciati come, per esempio, “Dopo il ritorno dal primo esilio, Napoleone non era più Napoleone”, o “Non sarà Dante, ma è un poeta dignitoso”, che appaiono assurdi se “Napoleone” e “Dante” non si considerano abbreviazioni di descrizioni (che si suppongono ricavabili dal contesto).

545 Russell [1919a], cap. 16, pp. 178-179. 549 Troviamo un’osservazione simile già nel manoscritto di Russell “On fundamentals” (1905), in cui l’autore si muove ancora nel contesto della teoria dei concetti denotanti: «Noi conosciamo il significato di “l’uomo che sta avanzando sulla strada”, ma non conosciamo la denotazione. Così se domandiamo “L’uomo che sta avanzando sulla strada è l’ Imperatore tedesco?”, sembra evidente che è il concetto denotante

“l’uomo che sta avanzando sulla strada” che compare nella domanda, e non ciò che questo complesso denota; perché noi sappiamo ciò che stiamo dicendo, ma non sappiamo ciò che questo concetto denota» (Russell [1905f], p. 368). 55° Concordo dunque con quanto scrivono Francis J. Pelletier e Bernard Linsky in conclusione a un loro articolo sulla teoria delle descrizio-

ni di Frege:

.

«Semplicemente non c’è nessun modo intuitivo, sintattico di distinguere i nomi denotanti da quelli non denotanti nel linguaggio naturale: a “Pegaso” si dovrebbe pertanto dare lo stesso trattamento semantico che a “Benjamin Franklin”, nel senso che la stessa regola setnanticerdì valutazione per i nomi propri si dovrebbe applicare a entrambi. Ci sembra anche che le descrizioni improprie abbiano molto in comune con

i nomi non denotanti come “Pegaso”, e che dovrebbero essere trattate in modo simile. Proprio come non c’è nessun modo intuitivo di di-

stinguere i nomi non denotanti da quelli denotanti nel linguaggio naturale, così non c’è nessun modo intuitivo di distinguere (empiricamenTRL non Sa va proprie. Così, si dovrebbe operare nello stesso modo con tutti questi termini singolari. Se le descrizioni efinite devono essere dissolte nell’analisi à ssell, allora la stess: sedurarsi rebbe sese ee d’altra parte, “Benjamin Franklin” i nine die sein Lé Di a . ia da a dovrebbero esserlo anche i nomi propri come “Pegaso”. E qualunque resoconto Òsi dia perrino ; salt come cnPegaso” asi dovrebbe a 1 nomi non denotanti È i à 3 OE dare anche per le descrizioni improprie [...].» (Pelletier e Linsky [2005], p. 247).

La teoria delle descrizioni

557

6. TEORIA DELLE DESCRIZIONI E LINGUAGGIO ORDINARIO La teoria russelliana delle descrizioni definite ha ricevuto molti consensi: è noto, per esempio, che Ramsey la definì un «paradigma di filosofia».??! I critici — numerosi a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, in concomitanza con l’apogeo, in ambito analitico, della cosiddetta “filosofia del linguaggio ordinario” — si sono concentrati soprattutto sulla supposta inadeguatezza della teoria come analisi del reale funzionamento della semantica del linguaggio comune. Non posso fornire qui un resoconto, neppure a grandi linee, di questa vicenda; ma ritengo opportuno considerare, a titolo d'esempio, una critica dovuta a Leonard Linsky.®°° Si prenda un enunciato di cui Russell si serve nell’articolo “On denoting”, cioè:

(1)

Giorgio IV voleva sapere se l’autore di Waverley è Scott.

Secondo Russell, possiamo dare due interpretazioni di (1).°°*° Possiamo considerare la descrizione “l’autore di Waverley” come avente un ambito primario, e quindi interpretare (1) come: (2)

Uno e un solo individuo ha scritto Waverley e Giorgio IV voleva sapere se quest’individuo è Scott;

oppure possiamo considerare la descrizione “l’autore di Waverley” come avente un ambito secondario e leggere (1) come:

(3)

Giorgio IV voleva sapere se uno e un solo individuo ha scritto Waverley e quest’individuo è Scott.

In “On denoting”, Russell afferma che (2) potrebbe essere adatto se «Giorgio IV avesse visto da lontano Scott (l’autore di Waverley) e avesse chiesto: “Quello è Scott?”?»,°°" ma che, nei casi più comuni, (1) dovrebbe essere interpretato come ee Leonard Linsky ([1966], [1967]) sostiene invece che, nel caso usuale, (3) non sarebbe un’interpretazione accettabile di (1). Ecco la sua argomentazione: (1) è logicamente equivalente a (3)? Mi sembra che non lo sia. Mi sembra che (3) potrebbe essere falso sebbene (1) sia vero. [...]

Richiesto se egli vuole sapere se una e una sola persona ha scritto Waverley ed è identica a Scott, Giorgio IV potrebbe rispondere che questo non è ciò che vorrebbe sapere perché egli sa già che una e una sola persona ha scritto Waverley; ciò che non sa è se

l’autore di Waverley è Scott. Giorgio IV risponde così perché ritiene che il suo interlocutore non avrebbe posto la sua domanda così come fa se non assumendo che egli (Giorgio IV) non sapesse che una e una sola persona ha scritto Waverley. In questo caso (1) è vero e (3) non lo è.î°°

L’argomento di Linsky sarebbe cogente se (3) implicasse qualcosa che (1) non implica, cioè: (4)

Giorgio IV voleva sapere se uno e un solo individuo ha scritto Waverley.

551 Ramsey [1931], p. 263, nota. 552 V. L. Linsky [1966], e L. Linsky [1967], cap. 5.

SS 34 RR

905c],

p . 52-53.

|

x52.Come hanno rilevato Scott Soames ([2003], cap. 5, PP. 121-123) e (forse indipendentemente) Kripke (120051, pp.

1023-1024), quest’asserzione di Russell è problematica. Infatti, se “Scott” è considerato un autentico nome proprio, il RanSi di vista di Russell è qui insostenibile, perché in “C’è uno e un solo x che è autore di Waverley e Giorgio IV voleva sapere Ness Scott x dev essere lo

stesso Scott; ma allora l’enunciato asserisce che Giorgio IV voleva sapere se Scott è uguale a Scott, implicando quell’interesse per il prin-

cipio d’identità che lo stesso Russell considerava implausibile, da parte del primo gentiluomo d Europa (v. usa [ 1905c], p. 48). a abbiamo visto nel paragrafo precedente, già in “On fundamentals” = il manoscritto del 1905 di poco precedente ‘On denoting = e sosteneva che gli usuali nomi propri non siano veri nomi, ma descrizioni abbreviate, perché non possiamo essere in un SIPonio di fami toa aa a rità (acquaintance) con un oggetto fisico ordinario (come Scott). Una posizione che Russell dee negli scritti I vo eva x 1911. Ora, quest’ultima dottrina implica che un enunciato della forma Ti è uno e un solo x che ha scritto Waverley IA

pere se x è il così e così” — che richiede, secondo Russell, un rapporto di acquaintance con Scott — debba essere Di DIDELO a

duplice lettura intuitiva offerta in “On denoting” di “Giorgio IV voleva sapere se l’autore di Waverley è Scott”

(per una discussione

a

di que-

sto punto, mai affrontato da Russell, v. Soames [2003], cap. 5, pp. 123-126). 555 De i Teo, Lora i riferimenti ai numeri degli enunciati presenti nel brano riportato sono stati adeguati a quelli del presente testo.

capitolo7

558

ha scritto Ma, sebbene (3) suggerisca (4) — cioè che Giorgio IV volesse sapere se uno e un solo individuo Waverley — non lo implica logicamente. Notiamo, infatti, che, dati due enunciati p e g, tali che p implichi g, non possiamo, in generale, inferire che, se A voleva sapere se p, allora A voleva sapere se g. Per esempio, “Giovanni ha due automobili” implica sicuramente im“Giovanni ha (almeno) un’automobile”, tuttavia “Giorgio vuole sapere se Giovanni ha due automobili” non già sappia plica “Giorgio vuole sapere se Giovanni ha (almeno) un'automobile”: può darsi benissimo che Giorgio che Giovanni ha (almeno) un’automobile.?°” Per la stessa ragione, anche se “Uno e un solo individuo ha scritto Waverley e quest’individuo è Scott” implica “Uno e un solo individuo ha scritto Waverley”, da ciò non possiamo inferire che (3) implichi (4). In effetti, (3) non implica (4), proprio come: Giorgio vuole sapere se ci sono pesci blu non implica È

o

5

55

Giorgio vuole sapere se ci sono pesci.

i

Linsky dice qualcosa di vero quando afferma che non si porrebbe la domanda di Giorgio IV nella forma (3) se non assumendo che Giorgio IV non sapesse che una e una sola persona scrisse Waverley: nel corso di una conversazione ordinaria, l’uso di (3) al posto di (1) potrebbe suggerire (4). Ma, se (3) non implica logicamente (4), sì deve trattare di un fenomeno pragmatico, non semantico.” Così, la circostanza che l’uso di (3) in una conversazione

possa suggerire cose diverse dall’uso di (1) non suffraga la tesi di Linsky che (3) abbia condizioni di verità diverse da quelle di (1). È impossibile escogitare una teoria semantica delle descrizioni definite che possa spiegare tutti gli usi del linguaggio ordinario, perché negli usi del linguaggio entrano in gioco, oltre a fattori semantici, anche fattori pragmatici. Possiamo illustrare il punto menzionando quella che è forse la più nota delle teorie semantiche delle descrizioni definite che si contrappongono alla teoria di Russell: quella sostenuta da Peter Strawson. In un articolo pubblicato 557 Questo vale, in generale, con i verbi di atteggiamento proposizionale. Per esempio: “Giorgio spera che Giovanni abbia due automobili”

non implica “Giorgio spera che Giovanni abbia un’automobile”. Giorgio potrebbe infatti già essere sicuro che Giovanni ha un’automobile. 558 Obiezioni simili alla critica che stiamo esaminando sono mosse da Stephen Neale ([2005]) e da David Kaplan ([2005]). Stephen Neale

scrive: «L'errore è questo: ‘Giorgio IV si domanda se p e g° non implica “Giorgio IV si domanda se 9°» (Neale [2005], p. 846). David Kaplan scrive: «Alcuni hanno criticato l’analisi di Russell della domanda di Giorgio IV col dire che Giorgio IV non voleva sapere se ci fosse esattamente un autore di Waverley perché lo sapeva già. Ci sono due problemi in questa critica. Primo, l’analisi di Russell della domanda non implica che Giorgio IV volesse sapere se ci fosse esattamente un autore di Waverley. Diogene voleva sapere se ci fossero uomini onesti. Questo

non implica che egli volesse sapere se ci fossero uomini. Secondo, la critica prende le cose a rovescio. Il fatto che l’analisi di Russell non implichi che Giorgio IV sapesse che c’era esattamente un autore di Waverley è una critica dell’analisi [di Russell] [...]» (Kaplan [2005], p.

985). Riguardo al secondo punto menzionato da Kaplan, ritengo che sarebbe sbagliato se l’analisi di Russell avesse come consesuenza che la domanda di Giorgio IV implichi logicamente che egli sapesse che c’è uno e un solo autore di Waverley. La cosa, infatti, è suggerita, ma non implicata da “Giorgio IV voleva sapere se l’autore di Waverley è Scott”. Ci si può benissimo chiedere se il tale sia l'artefice di qualcosa senza essere certi che questo qualcosa abbia un solo artefice e, anzi, senza essere nemmeno certi che questo qualcosa abbia un artefice. Per es., ci si può chiedere se il Dio della Bibbia sia il creatore del mondo senza essere affatto sicuri che il mondo abbia un creatore. O ci si potrebbe chiedere se il commissario Luigi Calabresi fosse l'assassino dell’anarchico Giuseppe Pinelli, pur senza essere certi che una sola persona abbia assassinato Pinelli, e anzi, senza essere affatto certo che Pinelli sia stato effettivamente assassinato. Se “Giorgio TV voleva sapere se l’autore di Waverley è Scott” suggerisce che Giorgio IV sapesse che esiste esattamente un autore di Waverley, ci si trova di fronte a un fenomeno pragmatico e non semantico. Perché accada è — almeno in questo caso — abbastanza chiaro: Waverley è un romanzo e i romanzi hanno sempre un autore che, di solito (a differenza di ciò che accade spesso per la saggistica), è unico (nòn sempre, però, come dimostra il caso di Ellery Queen). Ma Giorgio IV avrebbe potuto benissimo porsi la stessa domanda pur senza essere certo che Waverley fosse stato scritto da un solo autore. La teoria di Russell è una teoria semantica: aspettarsi che, come tale, risolva d’un colpo anche tutte le

questioni pragmatiche riguardo all’uso delle descrizioni definite ammonta ad assumere che, in realtà, tali questioni pragmatiche non esistano.

°59 Riten go che qui ci troviamo di fronte a un caso di quelle che H. Paul Grice ([1975]) chiama implicature conversazionali (conversational implicatures). L'argomento può essere questo: l’uso di un’espressione più lunga e complessa, come (3), al posto di una più breve, come (1), contravverrebbe alla massima del modo di Grice (sottomassima: “Sii breve”) e, pertanto, non dovrebbe essere senza ragione. Siccome (3) al contrario di (1) pone in rilievo la clausola “Uno e un solo uomo ha scritto Waverley” se ne deriva l'impressione che a questa clausola debba

essere attribuita una particolare importanza e, poiché (3) verte su quello che Giorgio IV desiderava sapere, ciò porta a supporre che Giorgio IV avesse dei dubbi particolari sull’esistenza o sull’unicità dell’autore di Waverley.

La teoria delle descrizioni

559

su Mind nel luglio del 1950, dal titolo “On referring”, Strawson attaccò la teoria delle descrizioni definite di Rus-

sell proprio sostenendo che essa non rende correttamente conto dell’uso linguistico.” In contrapposizione a Russell, Strawson propose una teoria che è interessante anche perché risulta, nei suoi lineament i essenziali, una rivisitazione di quella che Frege aveva sostenuto riguardo al funzionamento delle descrizioni definite nei linguaggi naturali. In breve, Strawson sostiene che, quando si usa una descrizione definita, si presuppone l’esistenza di un unico oggetto denotato dalla descrizione definita; se questa presupposizione d’esistenza è falsa, allora ogni uso assertivo di un enunciato in cui figura la descrizione definita non è, secondo Strawson, né vero né falso.” Così, nell’interpretazione di Strawson, usando, ai giorni nostri, gli enunciati “L’attuale re di Francia è calvo” o “L’attuale re di Francia non è calvo”, non si perverrebbe a dire nulla di vero né di falso. Strawson presentò questa teoria come più naturale di quella di Russell. Ma non fu difficile a Russell trovare, proprio nel normale uso del linguaggio, un controesempio alla teoria di Strawson: Supponete, per esempio, che in un certo paese ci fosse la legge che nessuno possa ricoprire cariche pubbliche se considera falso che il Reggitore dell’ Universo è saggio. Credo che un ateo dichiarato, il quale si avvantaggiasse della dottrina di Strawson per dire che ‘non ritiene falsa questa proposizione, sarebbe considerato un personaggio piuttosto disonesto.9°?

Non è vero che, nel linguaggio corrente, tutte le asserzioni che contengono descrizioni definite la cui presupposizione di esistenza non è soddisfatta non siano né vere né false. Talora possono essere vere, proprio come prevede la teoria di Russell. Curiosamente, come è stato notato,’ un esempio del genere ci è offerto in modo involon-

tario dallo stesso Strawson, il quale conclude il suo articolo “On Referring” affermando: Né le regole aristoteliche né quelle russelliane forniscono la logica esatta di un’espressione qualsiasi del linguaggio ordinario; perché il linguaggio ordinario non ha una logica esatta.

Ora, se è vero che, come afferma Strawson, non esiste qualcosa che sia “la logica rio”, allora l’asserzione in cui si fa uso dell’enunciato “Né le regole aristoteliche né la logica esatta del linguaggio ordinario” dovrebbe essere, secondo la tesi sostenuta sa” Applicando invece la teoria di Russell, l’affermazione di Strawson dev'essere

esatta del linguaggio ordinaquelle russelliane forniscono nell’articolo, né vera né falconsiderata come fornita di

560 V_ Strawson [1950]. Un’obiezione simile a questa, ma meno sviluppata nei particolari, si trova in Geach [1950], pp. 84-86. 56! V_ Strawson [1950], [1952] (cap. 6, $ 7, pp. 174-176, $ 10, pp. 184-189, e cap. 8, $ 1, p. 213), e [1954]. Strawson insiste che non sono

gli enunciati (sentences) ad avere la proprietà di essere veri o falsi, ma le asserzioni (statements) che un parlante può fare usandoli. Enunciati ed espressioni — secondo Strawson — hanno significati, in virtù dei quali possono essere usati per fare asserzioni e per riferirsi a cose. Per Strawson, il significato degli enunciati e delle espressioni è definito — wittgensteinianamente — dalle regole per il loro uso. Strawson accusa Russell di attribuire erroneamente la proprietà della verità o della falsità a enunciati. Ma mi pare chiaro che Russell intende gli

enunciati interpretati nelle loro condizioni d’uso; cioè, intende gli enunciati come espressioni di proposizioni, e non nel senso, che gli attri-

buisce Strawson, di “enunciati astratti da qualsiasi contesto d’uso”. E evidente che nulla vieta che lo stesso enunciato possa essere usato per esprimere proposizioni diverse. Questo è tipicamente il caso degli enunciati che contengono indicali. Proprio il fatto che il celebre esempio spesso portato da Russell di una “proposizione” contenente una descrizione vuota, “L'attuale re di Francia è calvo”, contenga un indicale, rivela fuor di dubbio che egli lo intende come un enunciato asserito nel 1905 (o comunque in epoca contemporanea € non, per es., ai tempi del Re Sole). Russell non sostiene l’assurdità che, per es., la successione di parole “L'attuale re di Francia è saggio” debba avere lo stesso valore di verità ai tempi di Luigi XIV (che pare fosse saggio), di Luigi XV (che pare non lo fosse), e nel 1905 (quando non c’era nessun re di Francia); infatti, questa successione di parole esprimerebbe, per lui, proposizioni diverse in queste diverse occasioni. Tutto questo è stato #0

1

colto bene da James W. Austin, che scrive:

st;

ea

«Russell, come logico, tratta con proposizioni, non con enunciati. Egli non vuol sostenere L...] che tutti gli enunciati o stringhe > paio senza riguardo al contesto, senza riguardo alla forma grammaticale o logica, senza riguardo all uso O) alle circostanze, debbano avere un Valore di verità. Una nozione del genere sarebbe assurda. Strawson dice “Non possiamo parlare dell’ enunciato come vero 0 falso, ma solo de suo essere usato per fare un’asserzione vera 0 falsa”. Russell concorderebbe interamente, anche se naturalmente preferirebbe il termine “proposizione” ad “asserzione”’» (Austin [1978], p. 533).

562 Russell [1957b], pp. 243-244. 563 Per la prima volta da Bar-Hillel ([1954], $ VII, p. 376). 2564 4 Strawson [1950], $S IV, p. 344.



:

n

sega

565 In Strawson [1954], l’autore ammette che «in certi casi e circostanze può essere del tutto naturale e corretto assegnare un valore di verità definite] (dire si è a a un’asserzione di uno di questi generi [asserzioni, cioè, fatte usando enunciati che contengono descrizioni

Dee che che è vera), anche se la condizione riferita [cioè la condizione di esistenza] non è soddisfatta» i 20), e porta Seui esempi da cao sac per SSUPPOnI Aso dell SL sul Russell di quello a equivalente (Al) uno quali i tra 225-227), pp. e B3, a0 i i o Strawson, «che io stia cercando di vendere qualcosa e dica a un potenziale acquirente: L’inquilino della Pregio di

pio di quella somma”, quando non vi è nessun inquilino della porta accanto cio lo so. Sembrerebbe Pacs A RALE cina acquirente replicare, “Questo è falso”, e dare come ragione il fatto che non c'è un inquilino eo Strawson riconosce: «Chiaramente [...] questo caso richiede qualche modifica della mia tesi» (p. 226). Infine, tuttavia,

SE siesi OCO pi Da ;

Strawson si

2

capitolo 7

560

x

È

3

: NS 5 valore di verità. È interessante osservare, inoltre, che Russell considera vera l’affermazione di Strawson:"°

.566

Rus-

sell, dunque, non intendeva affatto la sua teoria delle descrizioni definite come un resoconto dell’uso linguistico.” Nel prossimo paragrafo, cercheremo di stabilire come egli effettivamente concepisse la sua teoria delle descrizioni.

7.SIGNIFICATO E IMPORTANZA DELLA TEORIA DELLE DESCRIZIONI 7.1. Come intendeva Russell la sua teoria delle descrizioni?’ In Meaning and Necessity, Rudolf Carnap sostiene che le diverse interpretazioni delle descrizioni definite date da Russell e da Frege s” [...] non sono da intendersi come asserzioni intorno al significato delle espressioni della forma “il così e così” in italiano, ma come simbolici. Pertanto, sistemi nei descrizioni le proposte per un’interpretazione e, di conseguenza, per regole deduttive, concernenti non C’è una questione teorica di giusto o sbagliato fra le varie concezioni, ma solo la questione pratica della rispettiva convenienza di diversi metodi.°°°

Carnap non presenta questo punto di vista come una tesi filologica sul significato che la teoria delle descrizioni aveva per Russell o per Frege; egli indica piuttosto il terreno sul quale, a suo parere, è opportuno confrontare le diverse teorie delle descrizioni. Ma Russell non intendeva la sua teoria delle descrizioni definite come un artificio meramente convenzionale per approntare un linguaggio logicamente rigoroso. Ne è prova, per esempio, il fatto che egli respinga il suggerimento di Frege di assegnare una denotazione convenzionale alle descrizioni definite che non descrivono un unico oggetto, con l'argomento che questo procedimento — anche se non conduce a errori logici — è “artificioso”.?° Con “artificioso” Russell può qui intendere soltanto “artificioso rispetto al nostro uso ordinario delle descrizioni definite”: l’obiezione non sarebbe comprensibile, se egli avesse avuto in mente soltanto di costruire un linguaggio artificiale adatto alle esigenze della logica e della matematica. Ma, sebbene Russell non intendesse la sua teoria come una semplice costruzione di un linguaggio artificiale, sarebbe un errore vedere in essa una teoria linguistica descrittiva, mirante cioè a fornire frasi del linguaggio ordinario le quali non contengano descrizioni e che possano essere immediatamente riconosciute da un parlante competente come sinonime di altre frasi del linguaggio ordinario contenenti descrizioni. Quest’interpretazione — suggerita, tra gli altri, da Max Black"! — è esplicitamente respinta da Russell che, in occasione di una replica a Strawson, spiega: La mia teoria delle descrizioni non si è mai proposta di essere un’analisi della disposizione d’animo di coloro che pronunciano frasi contenenti descrizioni. [...] il mio scopo era trovare un pensiero più accurato e analizzato per rimpiazzare ì pensieri piuttosto confusi che la maggior parte delle persone ha in testa per la maggior parte del tempo.?”?

In sintesi: la teoria delle descrizioni di Russell propone un modo formalmente ben definito di intendere le descrizioni: in questo senso è normativa; ma al tempo stesso vuole essere in buon accordo con l’uso corrente delle descrizioni nel linguaggio comune. Si osservi che ciò non è affatto strano: è proprio in questo modo che Alfred Tarski intenderà la sua celebre definizione di “vero”??? qualificare la sua tesi dicendo che, sebbene le regole semantiche da lui stabilite valgano per gli usi consueti — che egli chiama primari — delle parole “vero” e “falso”, tali regole hanno eccezioni, dovute ad altri usi — secondari — di queste parole (pp. 229-230). 566 «Concordo, in ogni modo, con l’asserzione di Mr. Strawson [...] che il linguaggio ordinario non ha una logica esatta» (Russell [ 1957b], p. 244). °97 Laddove Strawson intendeva invece la propria teoria proprio in questo modo: «Io mi rappresenterei come uno che cerca cerca didi descrivere descrivere le

reali caratteristiche logiche del linguaggio ordinario [...]» (Strawson [1954], p. 230). È. Su quest’argomento, si vedano anche Clack [1969], pp. 50-53, e il $ 6 di Rodrîguez-Consuegra [1989b]. “° Carnap [1947], $ 7, p. 33.

N

570 V_ Russell [1905c], p. 47.

57! V. Black [1944], pp. 243-244. 572 Russell [1957b], p. 243. Nello stesso spirito, in “The cult of ‘common usage’”, Russell scrive: «Discutere senza fine che cosa intendano

persone sciocche quando dicono cose sciocche può essere divertente ma non è certo importante» (Russell [1953], p. 305; Russell [1956b]

p. 169).

\

973 Scrive Tarski: «Ogni volta che si spiega il significato di un termine qualsiasi tratto dal linguaggio quotidiano, si dovrebbe tenere presente che lo scopo e lo status logico di una tale spiegazione possono variare da un caso all’altro. Per esempio, la spiegazione può essere na come un resoconto dell’uso effettivo del termine in questione, ed è quindi soggetta alla domanda se il resoconto sea effetti corretto Qual-

che altra volta una spiegazione può essere di natura normativa, cioè, può essere proposta come suggerimento di usare il termine in uniche

modo definito, senza affermare che il suggerimento si conformi al modo in cui il termine è effettivamente usato; una tale spiegazione può

La teoria delle descrizioni

561

Per comprendere il senso della teoria russelliana, è essenziale prestare attenzione al genere di problemi cui Russell intende rispondere attraverso la sua analisi delle descrizioni. Vi sono almeno due modi importanti in cui possiamo dire di conoscere il “significato” di un'espressione. Da un lato, si tratta di conoscere come questa può esse-

re usata correttamente nelle diverse situazioni; dall’altro, si tratta di sapere come l’espressi one si connetta con il

mondo extralinguistico e con altre asserzioni sul mondo extralinguistico. Qualsiasi parlante competent e ha una conoscenza del significato delle espressioni della sua lingua nel primo senso, poiché è in grado di usarle correttamente in condizioni standard; ma questo non implica che un parlante competente abbia sempre una conoscenza del significato anche nel secondo senso. In “On propositions: what they are and how they mean” (1919), Russell scrive: Non è necessario per “comprendere” [understanding] una parola che una persona debba “sapere che cosa significa” [know what it means”], nel senso di essere in grado di dire “questa parola significa così e così”. Una parola ha un significato, più 0 meno vago; ma il significato si deve scoprire solo osservando il suo uso: l’uso viene per primo, e il significato è distillato da esso. La relazione di una parola con il suo significato [sc. “riferimento”] è, di fatto, della natura di una legge causale, e non c’è più ragione perché una persona che usa una parola correttamente debba essere cosciente del suo significato di quanta ve ne sia per un pianeta che si muova correttamente di essere cosciente delle leggi di Keplero.??4

A Russell interessa il significato delle espressioni nella seconda delle accezioni di cui abbiamo parlato. Il suo interesse non è linguistico, ma logico-ontologico: egli vuol fare chiarezza su che cosa diciamo sul mondo usando il linguaggio; su quali siano le entità di cui implichiamo l’esistenza e, inoltre, su quali siano le inferenze corrette che possiamo condurre usando il linguaggio. La forma logica di un enunciato è, per Russell, proprio ciò che esibisce chiaramente quali siano le sue compromissioni ontologiche e le sue valenze implicazionali. Quest’interesse logico-ontologico di Russell era, in origine, strettamente legato al suo interesse per i fondamenti della matematica. Ne è una prova “On fundamentals”, il manoscritto del 1905 in cui Russell scopre la sua teoria delle descrizioni; perché qui il problema del significato (in senso ontologico) delle espressioni linguistiche è continuamente intrecciato al problema di identificare quali entità vi siano, in modo da decidere quali possano essere i valori delle variabili quantificate. E quest’ultimo problema era chiaramente connesso con il tentativo di trovare una via d’uscita ai paradossi, che mostravano insostenibile un’ontologia ingenua di classi e attributi. Russell ritenne sempre che vi sia «una relazione svelabile tra la struttura degli enunciati e la struttura degli eventi [occurrences] cui gli enunciati si riferiscono»,)”°e quindi che «in parte per mezzo dello studio della sintassi, possiamo giungere a una ragguardevole conoscenza riguardo alla struttura del mondo».°”° Ma, secondo il Russell post-1905, per fare questo è necessario un linguaggio logico che, pur rispettando gli usi del linguaggio ordinario, ne elimini vaghezze e imprecisioni, con un procedimento non troppo diverso — anche se più drastico — da quello normalmente seguito per adattare il linguaggio comune agli usi scientifici o giuridici: Questo mi porta a una divergenza fondamentale tra me e numerosi filosofi [...]. Essi sono convinti che il linguaggio comune sia sufficientemente buono, non solo per la vita quotidiana, ma anche per la filosofia. Io, al contrario, sono convinto che il linguaggio comune sia pieno di vaghezza e imprecisione, e che ogni tentativo di essere preciso e accurato richieda modificazioni del linguaggio comune, sia riguardo al vocabolario sia riguardo alla sintassi. [...]

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Per intenti tecnici, i linguaggi tecnici che differiscono da quelli della vita quotidiana sono indispensabili. [...] In filosofia è la sintassi, ancor più del vocabolario, che ha bisogno d’essere corretta.

dare pel caessere valutata, per esempio, dal punto di vista della sua utilità ma non della sua correttezza. Isa La spiegazione che vogliamo so presente [la spiegazione del significato del termine “vero”] è, in una certa TUISurA, dicarattere misto. Ciò che si proporrà si può Lrauare in linea di principio come suggerimento di un modo definito di usare il termine “vero , ma la proposta sarà accompagnata dalla convinzione agli che essa sia in accordo con l’uso prevalente di questo termine nel linguaggio quotidiano» (Tarski [ 1969], p. 63). 574 Russell [1919b], p. 300. La medesima posizione è espressa da Russell, quasi con le stesse parole, in The Analysis of Via Russell (p. 35, nota I che i n [1921a], lecture X, pp. 197-198). Nicholas Griffin, nell’introduzione di Griffin (ed.) [2003] suggerisce

genstein possa aver ricavato la sua celebre tesi “Il significato è Russell, ancora vent'anni dopo, nell’/nquiry into Meaning and nell’usare le parole in modo appropriato, e nell’agire in modo ciò che significa [means] una parola più di quanto lo sia per un ti» (Russell [1940], cap. 1, p. 26).

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l’uso” proprio dalla lettura dell Analysis of Mind. Sue tesi Sa pico a pae Truth (1940), dove si legge: «E ovvio che a i vi appropriato quando esse sono udite. Non è SARO Sd da giocatore di cricket conoscere la teoria matematica dell'impatto e dei proiet-

575 Russell [1940], cap. 25, p. 341.

deo PATRON 576 V. Russell [1940], cap. 25, p. 347. DN del senso colinguaggio il cambiare vuole «Nessuno spiega: Russell usage’”, ‘common of cult STI Russell [1957b], pp. 241-242. In “The

270

ritengono migliore un linguaggio mune, non più di quanto vorremmo smettere di parlare del sole che sorge e tramonta. Ma gli astronomi [ p [1956b],|. p p. 170). [1953], Russell (Russell 306; p. 53]. filosofia» in 3S migliore filosofie sia n i migliore diverso sia io diverso | e io i sostengo che un linguaggio diverso, tha

capitolo 7

562 In un’altra occasione, Russell aggiunge:

le mie Senza dubbio i miei suggerimenti su come si dovrebbe costruire un linguaggio filosofico esprimono in misura considerevole opinioni. Ma questo non prova che dovremmo, nei nostri sforzi verso il pensiero serio, ritenerci soddisfatti del linguaggio ordinario, nostri con le sue ambiguità e la sua sintassi abominevole. Rimango convinto che l’ostinato attaccamento al linguaggio ordinario nei una traduzione in pensieri privati sia uno dei principali ostacoli al progresso in filosofia. Molte teorie correnti non tai nessun linguaggio esatto. Io sospetto che questa sia una ragione dell’impopolarità di tali linguaggi 0”

La teoria russelliana delle descrizioni vuole dunque essere un dispositivo per precisare le implicazioni logicoontologiche delle frasi contenenti descrizioni definite,””” rispettando il più possibile l’uso linguistico ordinario, cioè discostandosi il meno possibile da quelle che sono le nostre intuizioni preteoriche.

7.2. La teoria delle descrizioni definite ha un'importanza cruciale nello sviluppo della filosofia della matematica di Russell. Il motivo può non apparire subito evidente,’ ma è lo stesso Russell a spiegarlo, nel seguente passo di “My mental development” (1944): Ciò che fu importante in questa teoria [delle descrizioni] fu la scoperta che, analizzando un enunciato [sentence] significante, non si

deve assumere che ciascuna parola o espressione separata abbia un significato [meaning] di per sé. “La montagna d’oro” può essere parte di un enunciato significante, ma non è significante in isolamento. Presto fu chiaro che i simboli di classe potevano essere trattati come le descrizioni, cioè, come parti non significanti di enunciati significanti. Questo rese possibile vedere, in modo generale, come poteva essere possibile una soluzione delle contraddizioni. La particolare soluzione offerta in Principia Mathematica aveva vari difetti, ma in ogni caso mostrava che il logico non si trova di fronte a un’impasse completa.?!

Con la teoria delle descrizioni definite, Russell abbandona l’idea —

che caratterizzava i Principles —

che la for-

ma grammaticale di un enunciato ne rispecchi fedelmente la forma logica.’** La reinterpretazione degli enunciati problematici provvede a Russell un modo di eliminare la necessità di ammettere l’esistenza di entità problematiche cui la forma superficiale di tali enunciati fa apparentemente riferimento.”** Russell applicherà questa strategia eliminativa nella filosofia della matematica, interpretando i riferimenti a certe entità, apparentemente presenti negli enunciati logico-matematici, come, appunto, solo apparenti. Dopo le descrizioni definite, Russell interpreterà come simboli incompleti dapprima i simboli di classe e di funzione proposizionale (in una teoria che assumeva proposizioni come entità denotate dagli enunciati), poi anche gli enunciati (con la teoria del giudizio come relazione multipla). Si osservi che, proprio come la teoria delle descrizioni definite non costituisce, per Russell, un resoconto della metafisica implicita nella psicologia di coloro che usano descrizioni definite, l’eliminazione del riferimento, per esempio, alle classi, non vuol essere un’analisi delle disposizioni mentali dei matematici che usano espressioni

che (in apparenza) si riferiscono alle classi. Ma non si tratta nemmeno di formulare un linguaggio del tutto nuovo, senza relazioni con quello usuale. Si tratta invece, anche qui, di conservare il più possibile dell’abituale modo di esprimersi dei matematici, fornendone però una parafrasi logico-ontologica che non implichi l’esistenza di classi. Il punto mi sembra ben colto da Chihara ([1973]), il quale osserva: [...] Russell non sempre è interessato a rappresentare ciò che intendiamo dire; egli è a volte più impegnato nel rappresentare ciò che dovremmo voler dire (o che possiamo legittimamente voler dire), e quest’ultimo obiettivo deriva dal suo desiderio di correggere oltre che di chiarire ciò che intendiamo dire. [...] Un esame dei paradossi rende ovvio agli occhi di Russell che le nostre idee di classe

e proposizione hanno bisogno di essere corrette, cosicché egli non si sente costretto a spiegare solo ciò che vogliamo dire. Russell non avrebbe abbandonato la sua analisi delle classi solo perché essa dava una spiegazione distorta, in certi punti, di ciò che dicono i matematici, ed egli era perfettamente pronto ad ammettere, come conseguenza della sua analisi, che i matematici talvolta dicono dei nonsensi, quando parlano di classi. Ma sebbene Russell fosse pronto ad ammettere che la sua analisi “devia” dalla pratica matematica, egli evidentemente pensava che ogni analisi adeguata debba almeno soddisfare un criterio di conservazione: \'analisi

75 Russell [1944b], p. 694. 579

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Non è un caso che, verso la fine di

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“On denoting”, Russell applichi immediatamente la sua teoria delle descrizioni definite a un proble-

nei logico-ontologico celeberrimo: la prova ontologica dell’esistenza di Dio. V. Russell [1905c], p. 54

Li ; 2 DPTAMNTÀ » : Nicholas 58 Per esempio, Griffin (in Russell [1992b], p. 277), dopo aver rilevato che, nella sua autobiografia, Russell dice che la sua teoria

delle descrizioni fu il primo passo verso la soluzione dei paradossi (v. Russell [1967-69], 1872-1914, cap. 6, p. 155), commenta: «Gli storici della filosofia non sono stati in grado di convenire su come le due cose fossero connesse» 581 Russell [1944a], pp. 13-14. i °2 Nelel suo suo Tractatus Trac atus Logico-Philosophicus, Logico-Philosophicus, Wittgenstein Wittgenstein scrive: ito didi Russell èì aver mostrato che la forma scrive: «Merito Î logica apparente di un SOUTICIAtO [Satzes] non deve necessariamente essere quella reale» (Wittgenstein [1921], prop. 4.0031).

“°° Per un’analisi simile, v. Hylton [1990a], cap. 6, pp. 264-267.

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La teoria delle descrizioni

563

dev'essere tale che il grosso delle verità matematiche accumulate nel corso dei secoli possa essere salvaguardato. Per Russell, quindi, vi erano due condizioni che la sua analisi doveva soddisfare per essere soddisfacente: (1) doveva soddisfare il criterio di conservazione, e in modo tale che (2) la matematica che si era preservata avesse un solido fondamento, libero da contraddizione.8*

I paradossi non costituivano però l’unico motivo per cui Russell era spinto a eliminare i supposti riferimenti alle classi. Un'altra importante ragione consisteva nel fatto che Russell finì per trovare oscura la nozione di “classe”, a causa dell’argomentazione di Frege volta a dimostrare che le classi non possono essere identificate con l’aggregato (classe come uno) o la molteplicità (classe come molti) dei loro elementi.?*° Nel precedente capitolo?” abbiamo riportato i passi di due lettere di Russell a Frege in cui già emerge questa difficoltà: il 24 luglio 1902, Russell scrive: Mi è difficile comprendere che cosa sia realmente una classe, se non è costituita da oggetti e deve tuttavia essere la stessa per due concetti che abbiano la stessa estensione. Riconosco tuttavia che l’argomento che lei fa valere contro la concezione estensionale [die extensive Ansicht] sembra irrefutabile [...].?8”

Il 28 luglio 1902, Russell ribadisce: Comprendo ora la necessità di trattare i decorsi di valori non semplicemente come aggregato [Aggregat] di oggetti, come sistema [System]. Ancora però mi manca completamente l’intuizione diretta [die directe Anschauung], la conoscenza RIO [die directe Einsichi], di ciò che lei chiama decorso di valori: logicamente è necessario, ma rimane per me un’ipotesi giustificata.°

La medesima difficoltà è ancora menzionata come nell’ Introduction to Mathematical Philosophy, del 1919:

uno dei motivi

di sospetto nei confronti

delle classi

Non possiamo prendere le classi nel puro senso estensionale come semplicemente mucchi o agglomerati. Se tentassimo di farlo, troveremmo impossibile comprendere come possa esservi una classe come la classe nulla, che non ha membri affatto e non può essere considerata come un “mucchio”; troveremmo anche molto difficile comprendere come possa accadere che una classe che ha un solo membro non sia identica a quell’unico membro.°

Nel prossimo capitolo vedremo come, forte del risultato secondo cui la forma superficiale di un enunciato non ne rispecchia necessariamente la forma logica, Russell sia tornato a volgersi il problema dei paradossi.

584 Chihara [1973], cap. 1, pp. 12-13. 585 V. sopra, cap. 6, $ 9.1. 586 V. sopra, cap. 6, $ 9.2.

587 In Frege [1976], p. 221. 588 In Frege [1976], p. 226. 589 Russell [1919a], cap. 17, p. 183.

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