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Italian Pages [633] Year 2001
Oscar storia
Vasilij Grossman e Il'ja Erenburg
Il libro nero Il genocidio nazista nei territori sovietici 1941-1945 Traduzione di Luca Vanni Edizione a cura di Arno Lustiger In Appendice, saggi di Jl'ja Al'tman, Yitzhak Araci, Albert Einstein,
Shmuel Krakowski e Arno Lustiger
© bv Irina Erenburg & Amo Lusliger © 1994 bv Rowohlt Verlag GmbH, Reinbek bei Hamburg litolo orÌginale dell'opera: Das Scliwarzbuch © 1999 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
I edizione Le Scie seuembre 1999 I edizione Oscar Storia gennaio 2001 ISBN 88-04-48656-2 Questo volume è stato stampato presso Mondadori Printing S.p.A. Stabilimento NSM - Cles (TN) Stampato in Italia - Printt!d in Italy
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M. Aliger, M. Ahschuler, P.G. Antokol'skij, V.Z. Aprcs_jan, L. Bazarov, O.E. Cemy, A. Derman, A. Ehus, I. Erenburg, S. Epstl"in, I. Fefer, R. Fracrman, J. Gccblman, V. Gerasimova, L. Goldberg, V. Grossman, V. ll'enkov, V. lnbcr, V. lvanov, M. Jelin, J. Jo~sade, V. Kaverin, R. Kovnalor, L. Kl'itko, V. Lidin, B. Mark, S. Mihoel's, G. Munblil, H. O~rovil', L. Ozemv, M. Samba· dal. O. Savi.'.', M. Schcjnman, L. Sc_jfullina, M. Skapskaja, V. Sklovskij, H. Smolar, L Strongin, A. Su1zkeve1~ I. Trainin. Mia 8/es11ra del «Lihro nero» ha11110 coflabora10:
h11p://www.mondadori.com/lihrl
INDICE
IX Introduzione all'edizione tedesca xiv Sul testo dell'edizione tedesca
3 Premessa di Vtisilij Gross1m111 e ll'jn Ere11b11rg
5 Prefazione dì Vnsìlij Grossmnn
UCRAINA
23 35 46 48 49 50 58 59 60 61 71 77 78 79 84 89 91 97 111 117 125 139
Kiev, Babij Jar L'assassinio degli ebrei di Berditev Tal'noe Resistenza a Jarmolincy Come morì la dottoressa Langman Nella città di Hmelnicki Nel borgo di Jarysev Nel villaggio di Zybulevo Nel borgo di Jaltuskov AI paese natio Quel che ho passato a Har'kov Petr è'.:epurenko: un testimone oculare del massacro di Pirjatin La fine dei colcosiani ebrei di Zelenopol' Lettere da Dnepropetrovsk TI 13 ottobre 1941 Lettera dell'ufficiale Granovskij Gli appunti di Sara Gleich Odessa è'.:emovcy durante l'occupazione tedesco-romena Racconto di Rahel Fradis-Milner Lo sterminio degli ebrei di Leopoli Tredici giorni in un nascondiglio
145 147 149 157 159 161
Il mio compagno, il partigiano Jakob Barer Nella foresta di Penjack (lettera di un esploratore) I tedeschi a Radzivilov Lettera di Sjunja Deres Lettere di bambini orfani Le atrocità tedesco-romene a Kisinev BIELORUSSIA
169 208 229 231 236 238 250 254 261 271 273 274 276 277 279 280 281 286
Il ghetto di Minsk Il centro di combattimento clandestino del ghetto di Minsk Le ragazze di Minsk Racconto di un vecchio Nel borgo di Gory L'assassinio degli ebrei di Glubokoe e di altri borghi Racconto della signora Pikman, ingegnere di Mozyr' Racconto della dottoressa Olga Goldfein Brest La tragedia della mia vita Lettera di Hofman, soldato dell'Armata Rossa Nella buca Racconto di una bambina di Bialystok Liozno Lettere di bambini bielorussi Lettera d'addio di Zlata Visnjatskaja La famiglia Temcin di Sluck Dai documenti della Commissione statale straordinaria per l'accertamento e la ricerca delle infamie perpetrate dagli invasori fascisti tedeschi 292 A Bialystok ~01 1 Bre1111cr di Biatystok RUSSIA
307 309 311 313 317 118 319 321 326 328 333 i35
Nei dintorni di Smolensk Krasnyj Il destino di lsaak Rosenberg Rostov sul Don Il dottor Kremenéuzkij «Dove ci portano?» A Stavropol' 1 tedeschi a Kislovodsk Essentuki Racconto di Josif Weingertner, pescatore di Kert Jalta Racconto della signora Fischgoit
340 L'eccidio di Dzankoj 344 Come fu ucciso il dottor Fidelev 347 li pittore Zivotvorskij LITUANIA
353 424 450 467 478 520
li ghetto di Vilnius li diario di A. Jeru~lmi I forti della morte di Kaunas I combattenti del ghetto di Kaunas La dottoressa Elena Kutorgene-Buivydaite La sorte degli ebrei della città di Tegiai LHTONIA
525 Riga 549 Gli appunti dello scultore Rivos 568 Racconto di Sema Spungin LA SOLIDALE UNITÀ DEL POPOLO SOVIETICO
577 579 580 582 586 588 589 590 595 602
Lettera degli ufficiali della guardia Lev~nko, Borisov e Cesnokov La contadina Zinaida Vascisina La colcosiana Julia Kuchta ha salvato bambini ebrei Adottata dalla famiglia Lukinskij Le maestre Golneva, Terechova e Timofeeva Il contabile Sircenko Racconto di F.M. Gontova L'unico superstite Il prete Glagolev Il prete Bronjus Pau~tis CAMPI DI STERMINIO
607 626 630 638 665 671 688
707 718 732 745
Ponary Nel campo di Horol Il campo di Klooga Treblinka I «bambini della strada nera» L'insurrezione di Sobib6r Comunicato della Commissione statale straordinaria per l'accertamento e la ricerca delle infamie perpetrtate dagli invasori fascisti tedeschi e dai loro complici. Gli atroci crimini del governo tedesco ad Auschwitz La ragazza di Auschwitz (n. 74233) Ventisei mesi ad Auschwit-L Racconto di M. Schejrunan, ex prigioniero di guerra L'insurrezione del ghetto di Varsavia
CARNEACI
765 La politica razziale del fascismo hitleriano e l'antisemitismo 770 Un ordine di Himmler APPENDICE
791 Sul Libro nero di Al/Ieri Einslt•in
793 L'olocausto degli ebrei sovietici nei territori dell'URSS occupati di Yitwak Ar,1d
829 TI destino del Libro nero di 1/'ja A/'t11111n
847 li materiale inedito del Libro nero di Sl111111t>I Krakawski
853 La storia del Comitato antifascista ebraico dell'Unione Sovietica di Arno L11stigt•r
859 Postfazione di Irina Eren/111rg
863 Gli autori dei saggi in Appendice 865 Gli autori del Libro nero 873 Indice dei nomi 903 Indice dei luoghi
INTRODUZIONE ALL'EDIZIONE TEDESCA
Forse a nessun libro come a questo si attaglia il motto latino Habent sua fata libelli. Quando il Comitato antifascista ebraico dell'Unione Sovietica decise di preparare l'edizione di un «libro nero» e di pubblicare altri materiali sulla sorte degli ebrei sovietici e sulla loro lotta, il progetto era perfettamente consono alle istanze di un paese duramente attaccato su ogni fronte e impegnato a combattere per la propria sopravvivenza. L'idea del Libro nero si deve ad Albert Einstein. La sua prefazione, qui riprodotta in Appendice, fu però subito rifiutata da Mosca e non venne mai pubblicata: vi si chiedeva la tutela delle minoranze nazionali e la deroga al principio di non ingerenza negli affari interni in caso di violazione dei diritti umani, due assunti in aperto contrasto con le persecuzioni e le deportazioni di interi gruppi etnici disposte da Stalin. L'energico intervento di Einstein in favore dei diritti degli ebrei come gruppo nazionale doveva inoltre incontrare la decisa opposizione degli ebrei comunisti antisionisti. Quando, verso la fine della guerra, l'esercito russo vittorioso liberò tutto il territorio sovietico e occupò gran parte dell'Europa orientale e meridionale e della Germania, si era verificato un radicale mutamento. Alla pubblicazione delle vicende delJa Shoah nell'URSS i dirigenti sovietici non riconoscevano più alcuna priorità. Nonostante la situazione sfavorevole, i due curatori, Il'ja Erenburg e Vasilij Grossman, gli autori e i collaboratori continuarono a lavorare alacremente per ultimare il manoscritto. Anch'essi, come avviene per chiunque si trovi a operare in un regime totalitario, fecero esercizio di autocensura allo scopo di prevenire la censura ufficiale. Ognuno di loro sapeva bene che cosa le autorità non avrebbero lasciato passare. Dal confronto tra il manoscritto originario, compilato nelle circostanze accennate, e la versione censurata, autorizzata, pronta per la stampa, e infine proibita e ritirata, emerge in modo emblematico e toccante la vicenda della ricezione delle notizie sulla Shoah in Unione Sovietica. Le parti censurate ci offrono uno spaccato del mutamento in corso nell'o-
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li libro mw
rizzante strategico dei dirigenti sovietici all'indomani della vittoria sulla Germania. Già nella prefazione di Vasilij Crossman si registrano i primi interventi censori, con l'espunzione del passo in cui viene esposto il significato della resistenza ideologica e intellt.>ttualc degli ebrei come preludio alla lotta armata. Il contributo che apre Il li/m1 nero e che riferisce del più noto crimine perpetrato contro gli ebrei sovietici, il massacro di Babij Jar, fu dimcu..ato; le descrizioni dello stato in cui vennero trovati i luoghi delle esecuzioni capitali dopo la liberazione, eliminate. In molti racconti vennero cassati i passaggi sulla collaborazione di cittadini sovietici allo sterminio degli ebrei. Nel racconto su Hmelnik fu soppressa la narrazione dell'eroica lotta che gli ebrei sopravvissuti intrapresero per liberare la città. Il lettore della versione censurata non doveva sapere nulla delle donne e dei bambini ebrei portati con vaporetti al largo di Odessa e gettati in mare. Allo stesso modo fu eliminata la narrazione dei crimini compiuti dalll' truppe d'occupazione tedesche e romene contro gli ebrei di Cemovcy. Il censore non risparmiò neppure un breve appunto sul disperato tentativo di fuga degli ebrei di Leopoli per unirsi ai partigiani. Nel racconto su Bialystok fu espunto il seguente passo: «Chiunque ha visto in quali terribili condizioni era ridotta a vivere la popolazione ebraica sotto il giogo di Hitler e con quale eroismo essa ha lottato contro i carnefici tedeschi, può capire quale grande contributo abbiano dato gli ebrei alla definitiva sconfitta del fascismo tedesco». Ancora oggi - anche se ci auguriamo sempre meno - la veridicità di questa affermazione viene contestata da alcuni storici dell'Olocausto. Le omissioni di parti del manoscritto originale riflettono il crescente, schizofrenico odio di Stalin contro gli ebrei, che raggiunse il culmine con il «complotto dei camici bianchi»."' Solo la morte improvvisa del dittatore risparmiò agli ebrei sovietici una terribile ondata di persecuzioni e deportazioni di massa dagli esiti imprevedibili. I passi eliminati dalla censura staliniana documentano il mutato atteggiamento del gruppo dirigente sovietico nei confronti degli ebrei, culminato nel veto posto alla stampa del libro e nell'ordine di distruggere le matrici tipografiche ormai pronte. Molti degli autori pagarono con la vita la ferma determinazione a pubblicare comunque il frutto del loro lavoro: furono assassinati in quanto collaboratori del comitato di redazione. • All'inizio del gennaio del 19.53 Stalin dispose l'arresto di nove medici della clinica dl'I Cremlino, imputati di aver ordito un complotto perelimin.ire importanti espom)nti del l'CUS e alti ufficiali dell'Armata Rossa. L'accusa sottolineava con forza il fatto che quasi tutti i medici arrestati erano ~brei, il che fece temere una nuova ondata di persecuzioni antisemite. (MfT)
lntrod11zia11e al/'edi:.ione tedesca
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Uno dei principali artefici del Libro nero fu l'illustre poeta jiddisch Abraham Sutzkever, che come membro dell'Organizzazione partigiana unita del ghetto di Vilnius si era aggregato nel settembre del 1942 al gruppo di partigiani ebrei della foresta di Naroè. Sutzkever mi raccontò come, su richiesta di Erenburg, nel marzo del 1944 volò a Mosca per redigere la parte dedicata alla Lituania. In un albergo della città, Erenburg e Sutzkever lavorarono al manoscritto giorno e notte. Nell'esemplare corretto per la stampa a noi pervenuto il nome di Sutzkever è cassato da una riga tracciata a mano: nel 1947 il poeta aveva abbandonato la patria dei lavoratori per emigrare nell'antica e rinata patria degli ebrei, la Palestina. La sua fede in Sion gli ha salvato la vita. Pochi mesi dopo, il ministro degli Esteri sovietico Gromyko pronunciò un ,icceso discorso filosionista, che favorì la fondazione dello stato di Israele. Dobbiamo a Irina Erenburg, figlia di Il'ja, se p libro 11ero può essere adesso pubblicato nella sua versione integrale. E lei che ci ha messo a disposizione l'esemplare del 1947 corretto e pronto per la stampa, finora creduto distrutto. Ringraziamo Nicolas Iljine, di Francoforte, e Norbert Friedlander, di Amburgo, che dopo numerosi colloqui a Mosca con la signora Erenburg hanno da lei ottenuto il consenso alla pubblicazione. A Yitzhak Arad, storico e presidente del comitato direttivo dell'Istituto Yad Vashem di Gerusalemme, e a Shmuel Krakowski, direttore dell'archivio dello stesso istituto, esprimo la mia gratitudine per aver sostenuto il progetto di cui la presente opera è la realizzazione. Ho un debito di riconoscenza nei confronti degli storici sovietici Al'tman e Lifshits, che ci hanno fornito le ultime informazioni sul piano originario e sulla vicenda del Libro nero, attinte da archivi segreti sinora inaccessibili. Ringrazio Charles Schi.iddekopf, che ha vagliato ogni pagina alla luce delle sue straordinarie competenze di storico dell'età contemporanea e di pubblicista. Ma il ringraziamento più sentito va senz'altro a Ruth e a Heinz Deutschland, che hanno scritto gran parte delle note e si sono prodigati ben al di là del loro compito di traduttori. L'opinione pubblica mondiale ha dovuto attendere trentacinque anni prima che, nel 1980, apparisse a Gerusalemme un'edizione in lingua russa del Libro nera, quindi una versione in inglese nel 1981 a New York, una in jiddisch nel 1984 a Gerusalemme e una in ebraico nel 1991 a Te! Aviv. Tutte le quattro edizioni, pubblicate a cura dell'Istituto Yad Vashem, presentano però notevoli lacune. L'ossessione archivistica dei servizi segreti sovietici ci ha preservato una copia dattiloscritta non censurata, che abbiamo utilizzato per questa edizione accanto all'esemplare predisposto per la stampa nel 1947. Con il presente volume, edito con la collaborazione e l'approvazione dell'Istituto Yad Vashem, vede finalmente la luce, in ritardo di quasi cinquant'anni, la prima versione integrale del Libro nero. E mi sembra importante che questa prima edizione completa dell'opera appaia proprio in lingua tedesca.
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li libro nero
Nonostante l'abbondanza di opere sulla Shoah, sino a oggi si è saputo relativamente poco sullo sterminio degli ebrei sovietici e sulla loro resistenza, e quel poco principalmente sulla scorta dei documenti dei carnefici. li libro nero viene dunque a costituire una delle fonti primarie sull'argomento e ò auguriamo che possa essere un incentivo per ulteriori ricerche.
Arno Lustiger
NOTA SUL TESTO DELL'EDIZIONE TEDESCA
La traduzione del Libro nero si basa su un manoscritto del 1945 e sulle bozze di stampa del 1946 e del 1947, corrette a mano probabilmente da Vasilij Grossman. L'uso simultaneo delle due versioni ha consentito di riconoscere e restituire i passi soppressi dalla censura staliniana (si vedano al riguardo, in questo volume, l'introduzione di Amo Lustiger e la storia del Libro nero di ll'ja Al'tman riportata in Appendice). È stato così possibile, per la prima volta, ripristinare ,a stesura originaria del testo e, al tempo stesso, rendere riconoscibili al lettore tutti i passi censurati, ora singole parole ora interi periodi. Sugli scritti, che raccontano le vicende della «soluzione finale nell'Est» e che sono a un tempo narrazione e documento, non è stata operata alcuna correzione, nemmeno là dove quasi cinque decenni di dibattito storiografico haMo rivelato fatti ed elementi nuovi e più circostanziati. Le integrazioni e le rettifiche necessarie si trovano a disposizione del lettore nelle note a piè di pagina. All'ausilio delle note si è rinunciato soltanto nella prefazione di Vasilij Grossman, poiché il moto di umana indignazione che si leva da quelle pagine rende lo stile e i modi caratteristici dell'epoca particolarmente chiari. La prefazione di Albert Einstein all'edizione americana del Libro nero risale al 1945 ed è riprodotta in Appendice secondo la lezione del manoscritto originale tedesco.• Come illustra, sempre in Appendice, il saggio di Il'ja Altman, si tratta della prima stesura del contributo di Einstein, il quale più tardi attenuò i toni del suo intervento in seguito alle proteste del Comitato antifascista ebraico contro la posizione politica che vi veniva espressa. Le citazioni di Il'ja Al'tman attingono a quest'ultima versione, cosicché, mediante un raffronto testuale, il lettore potrà evincere le richieste di censura del Comitato e le conseguenti modifiche apporta• La pubblicazione è stata autorizzata dall'Archivio Albert Einstein dell'Università ebraica di Gerusalemme.
XIV
I/ libro nero
te da Einstein al testo della prefazione. Ciò vale in particolare per l'ultima parte, che conteneva una presa di posizione sulla questione della Palestina assente nella versione a disposizione di Al'tman. Non tutti i numerosi interrogativi sollevati da questa edizione potevano ricevere una risposta esauriente. È il caso, in primo luogo, dei documenti tedeschi del tempo dell'occupazione citati nel Libro nero, ma non allegati nella lingua originale. Quando la ricerca di alcuni di questi, per esempio avvisi o comunicati delle cosiddette forze di sicurezza o delle autorità tedesche, non ha avuto buon esito, la traduzione è stata condotta secondo il tono e lo stile dei documenti dello stesso genere reperibili. La molteplicità dei gruppi nazionali e delle lingue che in questo libro trovano voce ha in qualche punto lasciato dubbi sulla traslitterazione dei nomi di persona, specialmente di quelli delle vittime. In tutti i casi si è adottata la soluzione che è parsa più plausibile. Simili considerazioni valgono anche per i toponimi. Per quanto riguarda i responsabili tedeschi, quando si tratta di personaggi con grado di servizio elevato l'identificazione è riuscita quasi senza eccezione. Lo stesso vale per i principali collaborazionisti appartenenti ai diversi gruppi nazionali e alle diverse etnie perseguitate. Non di rado il lettore troverà nelle note ragguagli biografici più precisi e indicazioni bibliografiche puntuali. Mentre il manoscritto indica con chiarezza la denominazione delle forze impegnate nella «soluzione finale», come ss, so, Sipo,• Gestapo e c;A (nei pdesi baltici tristemente attive), nell'impiego del concetto dì «polizia» non sempre mostra la stessa precisione. Certamente la Ordnungspolizci (Orpo)U tedesca ha partecipato in modo determinante allo sterminio degli ebrei europei, e nella fattispecie esteuropei, ma non di rado il lt'rmine "Polizia» designa forze autoctone, come dimostra l'intervento della censura sui passi che a tali forze fanno riferimento. Charles Sclzilddekopf
• Pl'r l'so e la Sipo si vedano le ri!:òpettive note a pagina 12. (NJ1) .. l'olili,1 d'ordine. Sotto il comando supremo di Heinrich Himmler, la polizia tedesca t•ra di\'isa in due gruppi: l'Ordn1111,~spoli:ci, la polizia ordinaria in uniforme, e la ~id1,·rll('i/,1~•lizl'i, la polizia di sicure7-7.a. TI comando dell'Ordn11n~poliui era affidato all'Ol~·r,I-Gmp11('11fiìhrslavano giuramento. Ciò che invece rimane indetenninato è se la .. terribile macchina da guerra» in questione fosse un carro armato, un aereo o un lanciarazzi.
GLI APPUNTI DI SARA GLEICH Marjupol'
8 ottobre. I tedeschi sono in città. Tutti sono a casa tranne Fanja, che è in officina. È andata a lavorare stamane. Sarà ancora viva? E se è ancora viva, come farà ad arrivare sin qui, visto che non circolano più tram? Basja è da Ganja, che ha contratto la febbre tifoide. Alle sei di sera Fanja è rientrata a piedi dall'officina, occupata dalle due di pomeriggio dai tedeschi. Operai e impiegati si sono ritirati nel rifugio antiaereo. li direttore ha cercato di organizzare un gruppo di combattimento; ha fatto distribuire delle armi, ma inutilmente. Dicono che i tedeschi hanno assassinato Garber, il segretario del Comitato distrettuale di Molotov, nell'ufficio della presidenza. Uskac, il presidente del soviet cittadino, è riuscito a scappare in tempo. 9 ottobre. In casa non c'è assolutamente nulla da mangiare. In città le panetterie sono state distrutte, non arriva né acqua né luce. La panetteria del porto lavora ancora, ma rifornisce soltanto l'esercito occupante. Ieri i tedeschi hanno affisso un comunicato che ordina a tutti gli ebrei di portare un segno di riconoscimento, una stella bianca a sei punte cucita sul petto, a sinistra; è severamente vietato uscire di casa senza questo contrassegno. Agli ebrei è proibito cambiare alloggio, tuttavia Fanja ha deciso di lasciare l'appartamento della ditta e di portare le sue cose da mamma. Verrà insieme a Tanja, un'operaia. 12 ottobre. Gli ebrei hanno ricevuto l'ordine di eleggere un direttivo della loro comunità, costituito da trenta persone che risponderanno con la vita della «buona condotta della popolazione ebraica», così dice il decreto. Il capo della comunità è il dottor Erber. All'infuori di Fain, non conosco nessuno dei membri della comunità. Gli ebrei devono farsi registrare presso gli uffici della comunità. A ogni ufficio fanno capo più strade. Il nostro si trova in via Puskin n. 64. È diretto dal contabile Boz, dall'avvocato Segelman e da Tomsinskij. Fanja deve andare a farsi registrare in ditta. Il presidente degli uffici aziendali della comunità è il dottor Belopol'skij, mentre Spivakov è membro del direttivo. Sinora non si sono verificati arresti di massa; il
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Il /ibro nero
nostro vicino Traevskij dice che il reparto della Gestapo non è ancora arrivato: quando arriverà, le c0se cambieranno. 13 ottobre. Questa notte abbiamo avuto la visita dei tedeschi. Alle ventuno la contraerea si è messa a sparare. Eravamo tutti vestiti. Vladja stava dormendo. Papà è uscito in cortile per andare a vedere se c'era qualcuno nel rifugio antiaereo ed è incappato in tre tedeschi. Erano lì in cortile, in cere.i di ebrei: con la comparsa di mio padre hanno risolto il loro problema. Papà li ha portati nell'appartamento. Ci hanno minacciati, a~itandoci la pistola sotto il naso. Volevano sapere dove tenevamo il burrn e In zucchero. Hanno mandato in frantumi il vetro dell'armadietto, anche se le ante non erano chiuse; hanno preso tutte le cose di Basja; lei era da Ganja, dove resta giorno e notte. Poi è toccato alla nostra roba. Ci hanno lasciato solo quel che avevamo indosso. Due di loro continuavano ,1d ,H· raffare, quasi senza prendere fiato: hanno portato via tutto, anche il tritacarne. Hanno avvolto tutto in una tovaglia e se ne sono andati. La casa era a soqquadro, gli oggetti sparpagliati per terra, in mille pezzi. Abbiamo deciso di non mettere in ordine: così, se ne verrilnno altri, capiranno subito che da noi non c'è più niente da prendere. Stamane abbiamo saputo che ovunque in città ci sono stati saccheggi. Le razzie sono continuate anche durante il giorno. I tedeschi hanno rubato di tutto: cuscini, coperte, alimenti, vestiti. Agiscono in gruppi di tre o quattm. Non è difficile sentirli arrivare, il passo dei loro stivali rimbomba da lontano. Quando i tedeschi se ne sono andati, mamma si è messa a piangere. «Non ci considerano esseri umani» ha detto. «Siamo spacciati.» 14 ottobre. Stanotte i saccheggiatori sono tornati. Affermando che era roba sua, Tanja, l'operaia della ditta di Fanja, ha salvato quel poco che era rimasto. I tedeschi se ne sono usciti a m,mi vuote. Sono andati d,1gli Schwarz e hanno requisito coperte e cuscini. La Gestapo è già in città. La comunità ha ricevuto l'ordine di raccogliere entro due ore tra la popolazione ebraica due chili di pepe e settanta chili di zucchero. È stata effettuala una colletta, di casa in casa; tutti hanno dato qualcosa, cic1scuno secondo le proprie possibilità; la comunità risponde della «buona condotta della popolazione ebraica». Presso i suoi uffici sono stati regi· strati 9000 ebrei. Il resto della popolazione ebraica ha abbnndonato ·1a città o si è nascosto. 17 ottobre. Oggi è stato reso noto che domani mattina tutti coloro che sono stnti registrati sono tenuti a presentarsi agli uffici e a portare con sé tutti gli oggetti di valore. 18 oltobre. Questa mattina io, mamma, papà e Basja siamo nndati all'ufficio. Abbiamo consegnato tre cucchiai d'argento e un anello. l'oi, però, non ci hanno lasciati più uscire dal cortile. Dopo che tutti gli .ibitanti del quartiere hanno consegnato i loro valori, ci è stato annunciato che entro due ore avremmo dovuto abb,mdonare la città. lntendtm0 tra-
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sferirci nei kolchoz più vicini, che dovremo raggiungere a piedi. Ci hanno ordinato di prendere con noi viveri per tre giorni e abiti pesanti. Dobbiamo radunarci con l'occorrente entro due ore. Per gli anziani e per le donne con bambini saranno predisposti dei camion. Un'ebrea sposata con un russo o un ucraino può rimanere in città, purché il marito si trovi con lei. Se il marito è al fronte o è assente per qualche altro motivo, la moglie e i figli devono lasciare la città. Se una russa è sposata con un ebreo, può scegliere se restare o seguire il marito. I figli possono fermarsi con lei. I Rojanov sono venuti e hanno invitato Fanja ad affidare loro il nipotino. Papà ha insistito perché Fanja e Vladja andassero dai Rojanov. Fanja ha opposto un rifiuto categorico, si è messa a piangere e ha supplicato papà di non mandarla dai Rojanov. «Comunque, senza di voi mi ucciderei, non sopporterei di continuare a vivere: voglio venire con voi» ha detto. Non ha voluto separarsi nemmeno da Vladja e ha deciso di portarlo con sé. Tanja, l'operaia che abbiamo ospitato, ha scongiurato Fanja di dare Vladja ai Rojanov e le ha promesso che se ne sarebbe presa cura personalmente, ma Fanja non ha voluto ascoltarla. Abbiamo aspettato sino a sera in strada. Solo al calar della notte ci hanno condotti in un edificio. Ci siamo sistemati in cantina, un ambiente buio, freddo e sporco. 19 ottobre. Ci è stato comunicato che il trasferimento proseguirà domani mattina: oggi è domenica e la Gestapo deve riposarsi. Tanja, Fedja Beloussov e Uljana sono venute a farci visita; ci hanno portato notizie e viveri. Ieri, nella confusione generale, Fanja ha dimenticato l'orologio sul tavolo. Abbiamo dato a Tanja una chiave di riserva dell'appartamento, in quanto le nostre le abbiamo dovute consegnare all'ufficio della comunità. Su tutti gli alloggi degli ebrei la Gestapo ha affisso degli avvisi che vietano l'ingresso aile persone non autorizzate; perciò è necessario introdursi nr avere qualche breve pausa di riposo fu assai caro: dovemmo dare ai gendarmi quel poco che ci era rimasto. Quando giungemmo a Domanevka non a\'evamo più nulla.» Furono assegnate ai reclusi case semidiroccate, senza porte e senza finestre, fienili, stalle e porcili. La gente era colpita da diverse malattie: dissenteria, tifo, cancrena, scabbia e foruncolosi. Quelli che avevano contratto il tifo rantolavano agonizzanti nei fienili, in preda al delirio, senza alcuna assistenza. Nessuno badava più ai cadaveri. In altri memoriali leggiamo: «L'imbarco viene effettuato alla stazione di Sortirovocnaja. Dentro il vagone siamo stipati in così gran numero che dobbiamo rimanere sempre in piedi, immobili, accalcati gli uni contro gli altri. Il vagone viene
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chiuso ermeticamente dall'esterno con un pesante chiavistello e la gente si trova immersa nel buio. Ma a poco a poco nella penombra si cominciano a distinguere occhi sbarrati, dilatati dal terrore e volti di donne e bambini rigati di lacrime. Il treno si è messo in marcia. Sui volti compare un barlume di speranza. Qualche vecchia esclama: "Dio ci sosterrà!". La gente inizia a convincersi che la destinazione del viaggio è un luogo in cui sarà possibile vivere e lavorare. Il convoglio avanza lentamente. Dov'è diretto? A ogni scossone, a ogni sosta ritorna il terrore. Stanno facendo deragliare il treno? Vogliono forse incendiarlo? La sola speranza è che i tedeschi tengano al materiale ferroviario. Ma allora dove stiamo andando? La gente è intirizzita dal freddo, intorpidita a forza di restare immobile. I bambini piangono, chiedono da bere e da mangiare. Prima i bambini, poi anche gli adulti incominciano a fare i loro bisogni. «All'improvviso un gemito, qualcuno invoca aiuto. Una donna si contrae in preda a forti dolori, ma nessuno può soccorrerla. Infine si sente il fischio della locomotiva e i superstiti vengono tirati giù dai vagoni. Ora procedono a piedi, tra le spinte e i colpi dei gendarmi: una gragnuola di bastonate si abbatte sui deportati, esausti e intirizziti. Hanno un solo desiderio: arrivare al ghetto, fermarsi là e non doversi più muovere. Ma intanto cadono, cadono ... «Per le strade i cadaveri sono ammucchiati uno sull'altro. Tutto ricorda un campo di battaglia, ma qui, è questa la differenza, a terra non ci sono soldati caduti, bensì piccoli corpi di bambini e cadaveri ricurvi di vecchi.» Il piano di espulsione degli ebrei da Odessa era concepito in modo tale da provocare il maggior numero possibile di decessi per «morte naturale». Un gruppo diretto alla regione di Berezovka fu fatto camminare per tre giorni nella steppa, tra la neve e la tormenta, benché i villaggi che erano stati indicati come sedi del ghetto distassero soltanto diciotto chilometri dalla stazione ferroviaria. Nella testimonianza dell'avvocato I.M. Lejenson, che nel maggio del 1944 si trattenne a Odessa, si legge che il «numero degli ebrei uccisi in città si aggira intorno ai 100.000».
II A Lev Rozeckij, scolaro della settima classe presso la scuola numero 47 di Odessa, dobbiamo diversi racconti, canti e poesie. La maggior parte di essi sono stati composti a mente, ma alcuni sono stati messi da Lev per iscritto, su frammenti di carta, tavolette di legno e pezzi di compensato. «Benché così facendo rischiassi la vita, scrissi due canzoni antifasciste: Lassù sopra di noi, nef cielo e Nina (in ricordo di una donna impazzita). Talvolta riuscivo a recitare le mie poesie ai compagni di sventura ed era una grande gioia sentirli cantare le mie composizioni o recitare i miei versi a dispetto del dolore e delle lacrime.»
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Rozeckij racconta di essere stato picchiato a sangue per aver portato con sé alcune liriche di Puskin: «Mi volevano ammazzare di botte, ma a un certo punto se ne sono andati». li ragazzo, quasi un bambino, ha conosciuto numerosi campi della morte e li ha descritti con precisione. I suoi appunti ci forniscono un quadro di quell'inferno, una catena di lager che dal Mar Nero giungeva sino al Bug: Sortirovocnaja, Berezovka, Sirotskoe, Domanevka e Bogdanovka. «Vorrei» scrive Rozeckij «che ogni singola lettera di questi nomi restasse profondamente impressa nella memoria della gente. Questi nomi non devono cadere nell'oblio. In quei luoghi c'erano i campi della morte, dove i fascisti hanno assassinato degli innocenti solo perché si trattava di ebrei.» A Domanevka persero la vita 15.000 ebrei, a Bogdanovka 54.000. Un verbale in proposito fu redatto il 27 marzo 1944 da rappresentanti dell'Armata Rossa, delle autorità e della popolazione. «l'll gennaio 1942» scrive Lev Rozeckij «spedirono a Slobodka mia mamma, me e il mio fratellino Anatolij, che si era appena rimesso dal tifo. Vennero a prenderci alle tre di notte. «Faceva un freddo cane, la neve arrivava al ginocchio. Molti vecchi e molti bambini trovarono la morte già in città o in periferia, quando si alzò la tormenta. I tedeschi ci schernivano e ci fotografavano. Chi riuscì a resistere arrivò alla stazione di Sortirovoènaja. Lungo il percorso fu fatta saltare in aria una diga e coloro che si bagnarono morirono congelati. «Alla stazione di Sortirovocnaja c'era un treno in sosta. Non dimenticherò mai la scena: la banchina era piena di cuscini, coperte, cappotti, stivali di feltro, pentole e altri oggetti. «Gli anziani, irrigiditi dal freddo, non riuscivano a salire sui vagoni; si lasciavano sfuggire solo qualche gemito impercettibile, facevano pena. C'erano madri che perdevano i figli, figli che perdevano le madri; c'erano grida, lamenti, spari. Una madre si torceva le mani e si strappava i capelli: "Figlia mia, dove sei?". La bambina correva lungo il marciapiede e chiamava: "Mamma!". «A Berezovka le porte del vagone si aprirono, con un cigolio; fummo abbagliati dal chiarore di un incendio, il fuoco di un rogo. Vidi degli uomini che bruciavano, avvolti dalle fiamme. Nell'aria un odore pungente di benzina: li stavano bruciando vivi. «Alla stazione di Berezovka la gente veniva uccisa in quel modo. «A un tratto, con un violento scossone il treno si rimise in marcia e si allontanò dai roghi. Ci portavano a morire da un'altra parte.» Tra i vari lager, a quello di Domanevka spetta un «posto d'onore», dice Rozeckij, che ne fornisce una descrizione particolareggiata: «Domanevka è una parola cmdele, una parola di sangue. Domanevka è il centro della morte e delle stragi. La gente vi veniva tradotta in scaglioni di migliaia di persone per esservi assassinata. I gruppi si susseguivano ininterrottamente. Quando lasciammo Odessa, eravamo 3000, a Doma-
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nevka arrivammo in uno sparuto drappello. Domanevka è sede dell' amministrazione distrettuale, è un paese di medie dimensioni, circondato da campi e collinette. C'è anche un ~razioso boschetto. Ancora oggi dai cespugli e dai rami delle piante penzolano stracci e brandelli di vestiti. Ai piedi di ogni albero c'è una tomba ... si vedono scheletri umani.» Alla periferia di Domanevk.1 si trovano due scuderie semidiroccate, chiamate Gor'kij. Era un luogo terrificante, anche in confronto al resto del ghetto. Nei ricordi di Rozeckij leggiamo: «Nessuno poteva abbandonare le baracche; sudiciume, immondizi.i a mucchi. Cadaveri ovunque, come all'obitorio. Tifo, dissenteria, cancrena, morte. «I corpi erano accatastati gli uni sugli altri in cumuli orrendi: vi si scorgevano donne anziane nelle posizioni più diverse; le madri morte tenevano stretti i loro piccoli senza vita; il vento sollevava la barba grigia dei vecchi. «Oggi mi domando come ho fatto a non impazzire. Giorno e notte i cani circolavano in branco. I bastardi di Domanevka erano grassi come montoni. Giorno e notte divoravano carne umana e rosicchiavano le ossa dei morti. L'aria era impregnata di un fetore insopportabile.» [Uno dei poliziotti accarezzò il suo cagnaccio e gli disse: «Allora, Polkan, ti sei rimpinzalo abbastanza di ebrei?».] A venticinque chilometri da Domanevka, sulle rive del Bug, si trova Bogdanovka. I viali di uno splendido pc1rco portano a una fossa, tomba di decine di migliaia di esseri umani. I condannati venivano completamente denudati, condotti alla fossa e costretti a inginocchiarsi con il viso rivolto al Bug. Li fucilavano usandn solo proiettili a espansione e sparando direttamente alla nuca. I cadaveri venivano gettati nella fossa. Il sovchoz Stavki per l'allevamento dei suini sorgeva, per usare l'espressione di Rozeckij, «come un'isola nel deserto della steppa». A Stavki, chi era sopravvissuto a Gor'kij trovava morte sicura. La gente veniva rinchiusa nei porcili e lasciata in mezzo ai liquami sino a che, misericordiosa, la morte poneva fine a ogni sofferenza. «Il campo era circondato da un fossato. Chi si azzardava a varcarlo veniva giustiziato sul posto. Era possibile recarsi ad attingere l'élcqua solo a gruppi di dieci. Una volta un poliziotto notò che la regola era stata violata e sparò all'undicesima persona: era una ragazza. "Aiuto, mamma, mi uccidono!" riuscì a gridare. Il poliziotto si avvicinò e le sferrò il colpo di grazia con la baionetta. Coloro che riuscivano a sopravvivere venivano impiegati per i lavori più faticosi e pesanti. «Ricordo quando ci portarono alle baracche. lo reggevo le redini del cavallo, mamma spingeva il carro. Prendevamo i cadaveri per le brnccia e per le gambe, li gettavamo sul carro a rastrelliera e quando era pieno andavamo alla fossa e vi rovesciavamo dentro il nostro carico.»
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Elisabeth Pikarmer racconta: «Nonostante ci trovassimo in mezzo a una folla di svariate centinaia di persone, la mia vicina, suo figlio e io finimmo per prime davanti alla fossa. All'ultimo minuto, però, comparve un cavalleggero romeno con un foglio in mano e si precipitò verso gli uomini della scorta. I prigionieri fuwno portati pit1 lontano, verso nuove sofferenze. li giorno dopo ci spinsero dentro il fiume; riuscimmo a ottenere il permesso di uscire dall'acqua solo cedendo ai nostri aguzzini quel poco che ci era rimasto. In seguito molti di noi morirono di polmonite.» A Domanevka i fascisti trucidavano i bambini fracassando loro la testa contro le pietre. Alle donne amputavano i seni. Famiglie intere furono sepolte o gettate sui roghi ancora vive. Il vecchio Fuhrman e la diciottenne Sonja Katz furono esortati a ballare insieme, pena la morte immediata. Ma non ottennero che una breve dilazione: due ore dopo pendevano entrambi dalla forca. I condannati si muovevano come automi, perdevano il senno, deliravano, vaneggiavano. Lupescu e Sandu, comandanti romeni del villaggio di Guljaevka, inviavano ogni notte i loro uomini al campo della morte a cercare ragazze graziose e al mattino si deliziavano a guardarle mentre venivano torturate a morte. I malati di tifo petecchiale erano abbandonati a se stessi, senza alcuna assistenza medica. «La morte mieteva vittime a centinaia. Era difficile distinguere un vivo da un morto, un sano da un malato.» Tanja Rekocinsk.ija scriveva al fratello, in servizio nell'esercito: «Mi hanno cacciata fuori di casa con i due bambini; faceva un freddo tremendo. Ci hanno trasferiti a centottanta chilometri da Odessa, sulle sponde del Bug. La piccola, ancora in fasce, è morta durante il trasporto. Il maschietto è stato fucilato insieme agli altri bambini del gruppo. E a me è toccato dover sopportare tutto questo.» Ma gli orrori non ernno ancora arrivati al culmine. L'atmosfera febbricitante del campo della morte, il silenzio, rotto solo dai gemiti e dal rantolo dei morenti, furono scossi da un grido: «Il villaggio è circondato. I romeni e i coloni tedeschi,. sono arrivati da Kartakaevo armati di mitragliatrici». Poliziotti a cavallo riunirono tutti gli ebrei in un granaio e da lì li condussero sino alle fosse della morte. Vi fu chi morì a testa alta, chi non si • Nell'Ucraina meridionale esisteva un ampio territorio popolato da coloni tcdL•schi, discendenti dei contadini che vi si erano insediati durante il regno di Caterina Il o che vi erano immigrati successivamente. La maggior parte di loro subì l'evacuazionl' forzata prima dell'arrivo dellt• truppe tedesche. Alcuni dei coloni tedeschi rima~ti presero parte attiva alle pL'rs..•cuzioni rnntro i loro vicini ebrei. Si ve..fo Meir Buchsweiler, Vo/k,dt'utsche in dcr Ukrame 11111 Voml~'111f 1111d &·g11111 de,; Zweilt·11s Wc/tkril.'g,-,;. Ein fai/ doppelter Loyalitiit, Gerlingen, BkichL•r, 1984.
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abbassò a chiedere pietà e, dinanzi ai carnefici, soffocò la paura della morte. Altri decisero di decretare da sé la propria fine: scapparono e si gettarono nella fossa. I mariti cercavano di calmare le mogli, le madri i figli. Qualcuno dei più piccini rideva. L'allegria dei bambini appare tanto più spaventosa se si pensa al sanguinoso massacro che stava per compiersi. «Mammina, dove ci stanno portando?» chiede con voce limpida una bambina di sei anni. «Ci portano in un'altra casa, piccola mia» la tranquillizza la madre ... Sì, in una casa profonda e umida. Dalle finestre di quella casa la piccina non potrà mai più vedere il sole né il cielo azzurro. Ecco, sono arrivati alle fosse. La procedura dell'omicidio viene messa in atto con meticolosità e precisione tutte tedesche. I tedeschi e i romeni indossano camici bianchi e si infilano i guanti, proprio come chirurghi prima dell'operazione. I condannati a morte vengono disposti lungo le fosse, dopo essere stati completamente spogliati. Stanno lì, in piedi, tremanti, al cospetto dei loro aguzzini e attendono la morte. Per i bambini non si sprecano proiettili: ai piccoli viene spaccata la testa contro i pali o i tronchi degli alberi, oppure vengono gettati ancora vivi tra le fiamme. Le madri non vengono uccise subito: prima devono straziarsi il cuore assistendo alla morte dei figli. Una colona tedesca, una contadina dekulakizzata• del villaggio di Kartakaevo, si mise in luce per la sua particolare efferatezza. «Era come inebriata dalla propria brutalità: lanciando grida selvagge spappolava a colpi di mazza le teste dei bambini, con una tale violenza che i cervelli schizzavano da ogni parte. [Ne/I'estate del 1942 gli abitanti di Domanevka avevano un aspetto così or· ribile che, in occasione della visita del governatore della Transnistria, fu ordina· lo a tutti gli ebrei di abbandonare il paese, portarsi a cinque, sei chilomentri di distanza e rientrare soltanto a sera.] Prima di essere sterminati, i prigionieri dei campi della morte venivano derubati. Per ogni cosa i poliziotti chiedevano in cambio denaro: per un sorso di zuppa, per un'ora di vita, per ogni sospiro, per ogni pa5.50. Nel marzo del 1942 Elisabeth Pikarmer contrasse il tifo petecchiale e fu isolata insieme agli altri malati nell'apposita «discarica». Sei di loro, che non erano più in grado di spostarsi da soli, furono fucilati subito. «Finii anch'io in mezzo al fango» racconta Elisabeth «ma per venti marchi un poliziotto mi rimise in piedi e mi aiutò a salire sulla collina.» 117 maggio 1943 giunse l'ordine di impiegare tutti i superstiti in lavori agricoli. «La nostra situazione conobbe un piccolo miglioramento, poiéhé avevamo la possibilità di bagnarci nel Bug ogni giorno, dopo il lavoro, e di lavare i nostri stracci una volta alla settimana. Con la canapa intrecciavamo gonne, giacche, scarpe ... » • Privata della terra per esproprio. (Nd1)
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Ma la vicinanza al fiume, che nell'estate del 1943 aveva portato a quella gente un po' di sollievo, doveva riservare loro nuove sofferenze. «Il 23 marzo 1944, lungo il Bug avanzò un commando disse noi ebrei fummo condannati alla morte per fucilazione. Non potevamo confidare nell'aiuto di nessuno. Lungo il percorso incrociavamo di continuo altri gruppi, diretti a Tiraspol'. Tutti avevano il viso e le mani gonfi per la fame e il freddo. Non avevamo più la forza di proseguire e scongiuravamo i nostri aguzzini di fucilarci sul posto. Le donne e i bambini vennero caricati su alcuni camion, che partirono per una destinazione sconosciuta. Restarono soltanto venti persone (tra le quali anch'io), che dovevano procedere a piedi scortate da un sottufficiale tedesco. Per due giorni non ci dettero nulla da mangiare. Tremavamo per il gelo. Finimmo per perdere la ragione.» Ma la liberazione era vicina. Il 1° aprile l'Armata Rossa era già sul posto.
rn Nella depressione della steppa, nella regione di Odessa, poco lontano dalla stazione ferroviaria di Kolosovka, sorge il villaggio di Gradovka. Durante l'estate del 1944 il tenente colonnello Sabanov si trovò a passare di là. Ai margini del villaggio vide tre fornaci infestate da cardi ed erbacce. Nei pozzi di combustione dei forni Sabanov trovò avambracci, scapole e vertebre carbonizzate. Camminando sentì scricchiolare sotto la suola degli stivali frammenti di ossa e di crani, che ricoprivano il suolo come conchiglie su una spiaggia. Era quanto restava delle persone bruciate. Gli assassini non ebbero bisogno di costruire appositi forni crematori dotati di speciali dispositivi di tiraggio; per la loro opera sanguinaria bastarono semplici fornaci. In quel territorio i peggiori carnefici furono i coloni tedeschi, che vi abitavano numerosi. Cambiarono i toponimi, che da russi diventarono tedeschi: Milnchen, Rastatt e così via. Insieme ai nomi, i coloni portarono in Russia anche la tipica crudeltà germanica. Quella gente fece affogare nel sangue di vittime innocenti la terra che l'aveva accolta come una vera patria. Come in un giorno di festa si dava convegno ai forni nella steppa. Rubava con gioia e uccideva con sommo piacere. La vicenda dei condannati a morte di Gradovka si concluse in breve tempo. Fu applicato il metodo del ,rei l' l'internamento di oltre 20.000 cl:>rl'i in c;impo di concentranwnto. Dopnsavano lautamente gli informatori [che smascheravano i «falsi orioni»). A volte, però, li ricompensavano anche gli ebrei, con qualche pallottola. In piazza Strelecki una di queste spie invitò a esibire la carta d'identità un giovane ebreo che aveva documenti falsi. Evidentemente l'informatore aveva riconosciuto che il ragazzo era ebreo. A quel punto il giovane ruppe gli indugi e invece dei documenti estrasse una pistola: fece fuoco e si dileguò. Il caso di Lina Gaus, una studentessa del ginnasio ebraico, destò scalpore. Lina viveva in via Jahovièa, come se fosse stata una polacca. Aveva cambiato nome e lavorava in una ditta tedesca. Insospettito, un informatore la seguì sino a casa per controllarne i documenti. Fu trovato morto, con un asciugamano stretto attorno al collo. I tedeschi affissero un comunicato con la foto della giovane omicida, promettendo unaricompensa consistente. Ma inutilmente: Lina Gaus era scomparsa. Accadeva anche che gli ebrei capaci di parlare un buon francese si travestissero da prigionieri di guerra francesi e andassero a vivere nei campi di concentramento a questi riservati. Diversi ebrei si nascosero in casa di polacchi e ucraini. A dispetto degli inesauribili sforzi attuati dai tedeschi per intimidire gli animi con le minacce di morte e le esecuzioni, o di corromperli, incitandoli a tradire in cambio di denaro, non mancarono mai persone oneste e coraggiose, capaci di compiere atti di altruismo. L'intellighenzia polacca salvò molti bambini ebrei. [Per evidenti motivi, tuttavia, veniva offerto riparo soprattutto alle bambine.] Alcuni sacerdoti polacchi accolsero delle piccole ebree e le sottrassero a morte certa nascondendole in istituti ecclesiatici. Un gesto che diversi di loro pagarono con la vita ... Dopo la disfatta tt>desca di Stalingrndo, nel ghetto di Leopoli fu istituito un comitato di resistt'nza incaricato di condurre la lotta armata contro i tedeschi. Ne facevano parte, tra gli altri, i poeti ebrei Jankiel Szudrich e S. Friedman. L'organizzazione stabilì contatti con il comitato polacco e iniziò a pubblicare un giornale clandestino, che circolava di mano in mano. Con i proventi raccolti furono acquistate delle pistole. Alcuni degli ebrei ca-
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stretti a lavorare per istituzioni militari tedesche riuscirono a trafugare qualche arma. Ben presto fu organizzato anche l'addestramento clandestino. Una delegazione del comitato si spinse sino a Brody per entrare in contatto con i partigiani della Voi inia. Vi apparteneva tra gli altri la dl)ttoressa Lina Goldberg, infaticabile attivista del movimento partigiano di Leopoli. Le armi affluivano nel ghetto sempre più copiose, portate, nascoste tra i viveri, dalla gente che rientrava dal lavoro. Una volta, durante un controllo all'ingrL>SSO del ghetto, le ss trovarono un giovane in possesso di un'arma e lo fucilarono sul posto. Da quel giorno le perquisizioni nelle baracche si fecero assai frequenti. In via Lokietka fu trovato un deposito di armi, di cui i tedeschi cercarono invano di scoprire i responsabili. La gente, singolarmente o in gruppo, iniziò a evadere dal ghetto ... Il comitato approfittava di ogni occasione per inviare rinforzi al centro di lotta armata di Brody. Con un notevole esborso di denaro e, dopo aver adottato le dovute precauzioni, furono noleggiati tre camion. I primi tre trasporti furono effettuati senza incidenti. I coraggiosi combattenti del ghetto parteciparono con successo alle azioni dei partigiani. C'erano, tra loro, molti giovani, ottimi conoscitori delle strade e dei sentieri della loro terra natia. I partigiani attaccavano i fondi occupati dai tedeschi e si rifornivano di vettovaglie. Tendevano imboscate ai soldati nemici e si impossessavano delle loro armi. Non furono lasciati soli a condurre la loro battaglia: entrarono in contatto con i partigiani della Volinia, che fornirono loro tritolo e dinamite per compiere atti di sabotaggio. Una volta i partigiani pR'scro d'assai to una postazione tedesca nei pressi di Brody, proprio alconfine tra il Governatorato generale e l'Ostgebief ... Uccisero la sentinella e si impadronirono di mitra e bombe a mano. Nell'intera regione i partigiani divennero per il nemico un vero e proprio incubo. I gendarmi tedeschi fecero di tutto per individuare la base dei combattenti, ma lo stato maggiore dei partigiani non si lasciò mai sorprendere, cambiando continuamente sede. Quando il comitato ebbe notizia che si stava preparando la liquidazione definitiva del ghetto, decise di ritirarsi per continuare la sua lotta nella foresta. Con un gruppo di diciassette persone doveva partire anche il poeta Szudrich. II trasferimento era stato fissato per 1'8 maggio 1943, alle sei del mattino. Sennonché, in via Syblikiewicz l'automezzo che stava trasportando il gruppo fu circondato dalle ss. Quando i partigiani compresero di essere caduti in una trappola, decisero di vendere cara la pelle. Cominrerritorio orientale. (Nd7)
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ciò una sparatoria nella quale alcuni uomini delle 55 rimasero gravemente feriti. Con il sopraggiungere dei rinforzi i tedeschi riuscirono ad aver ragione dei partigiani, che caddero tutti nello scontro a fuoco. All'alba del 9 maggio il bosco di Brody fu accerchiato da un battaglione di fanteria. Lo scontro con le soverchianti forze tedesche si protrasse per tre giorni. Solo qualche partigiano riuscì a rompere l'accerchiamento, a raggiungere la foresta di Lublino e a proseguire la lotta lassù. Tutti gli altri perirono eroicamente con le armi in pugno. Non uno solo di loro si arrese al nemico. Quando i tedeschi sentirono avvicinarsi la fine, accelerarono le operazioni di sterminio degli ebrei. Uno dopo l'altro sparirono tutti i campi di concentramento: Pr7emysl. Sambor, Rudki, Brzezany, Ternopol', Zolkev, Javorov, Przemyslany, Jarysl'V. Prima della liquidazione del ghetto scese su Leopoli una calma improvvisa. Grzimek non si faceva più vedere per strada. [Sparirono le sen· tinelle alle porte del ghetto, a/l'interno del quale i tedeschi organizzarono porti· te di calcio e concerti.] Le ss cessarono di saccheggiare gli alloggi degli ebrei. A tutti, però, era chiaro che quella quiete presagiva una tempesta. 11 25 aprile, a Pjaski, i tedeschi giustiziarono gli ultimi 4000 detenuti del lager di Janovsk. Il 1° luglio 1943, alle tre del mattino, le ss irruppero nel ghetto per portare a termine la sanguinosa azione av\"iata nel 1941. Era la liquidazione finale. [Presero tutti, senza eccezione, anche chi lavorava presso ditte te· desche.) Tutti i certificati timbrati dalle ss e tutte le toppe con la «W» o con la «R» persero ogni validità. La «campagna» di liquidazione del ghetto fu diretta da Katzmann, Engels, Lenard, Willhaus, Jngwart e Scht,nbach. I reparti delle ss e della polizia fascista passarono un'intera giornata a ispezionare tutte le abitazioni, gettando bombe a mano nelle cantine in cui la gente stava nascosta. 11 terzo giorno entrarono nel ghetto i pompieri. I tedeschi cominciarono a bruciare vivi gli ebrei. Intere zone della città furono date alle fiamme: via Lokietka, via Kressova e via Szaraniewìcz. Molti ebrei morivano asfissiati nei loro rifugi, altri si precipitavano in strada all'ultimo minuto. In questa circostanza gli uomini della Gestapo non sparavano alle loro vittime: cercavano di catturarle per ricacciarle vive tra le fiamme. Nei primi giorni si registrò qualche isolata azione di resistenza. Chi possedeva un'arma sparava a dritta e a manca. Due poliziotti rimasero uccisi, diversi soldati delle ss feriti. Ma ciò servì soltanto a rendere ancor più incontenibile la furia dei carnefici. Le donne e i bambini furono picchiati a morte o gettati dai balconi, gli uomini decapitati con le asce. Ovunque, per le strade del ghetto, si vedevano cadaveri. Il cielo era nero, coperto da una coltre di fumo, e nell'aria risuonavano incessanti le grida vane e disperate dei bambini che venivano trucidati.
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Abbiamo raccontato la verità. L'umanità non può rimanere all'oscuro di questi crimini, perpetrati dai fascisti. Gli assassini hanno cercato con ogni mezzo di eliminare tutti i testimoni. Ma qualche testimone è sopravvissuto: Naphtali Nacht, un giovane di Leopoli, che ha combattuto accanto ai partigiani ucraini nei boschi; Leopold Schorr, anch'egli superstite di Leopoli; Uri Lichter, sfuggito ai carnefici e accolto dai partigiani nella foresta di Zolotev; Arthur Rosenstrauch, un bancario di Leopoli; Lilja Herz, che ha resistito tredici giorni in un nascondiglio nel ghetto. li genere umano non può dimenticare questi crimini, né perdonarli. Comunicato da /. Herz e N. Nacht (Preparato per la pubblicazione da R. Fraerman)
TREDICI GIORNI IN UN NASCONDIGLIO Racconto di Liii HerL, Leopoli
Siamo nel nascondiglio. Nelle strade del ghetto si continua a uccidere, udiamo gli spari dei tedeschi e le grida della gente che viene assassinata. li nostro nascondiglio si trova in un sottotetto. Ècomposto da due parti, separate da un tramezzo in muratura. L'ingresso è ben mascherato. Siamo in quaranta, manca l'aria. Non abbiamo acqua. Di notte i tedeschi si riposano, così fino al mattino tutto è tranquillo. Verso le cinque si cominciano a sentire i primi rumori. È come se qualcuno suonasse le campane. All'inizio si tratta di deboli, querule voci, tutte uguali, poi si leva un urlo tremendo, subito coperto dagli spari. Sono le grida di chi viene ucciso. Nel nascondiglio nessuno si muove. Il neonato dei Rosenberg vagisce, flebilmente. Poi si mette a piangere. Siamo in balia di quel piccolo, che con i suoi strilli ci può tradire da un momento all'altro. Diamo alla madre dello zucchero e qualcuno fa saltare fuori persino una bottiglia di latte, pur di riuscire a calmare il bambino. Una notte, sopraggiunto il silenzio, usciamo dal nascondiglio. Gli appartamenti sono aperti. Ci abbandoniamo lì, su un letto, per dormire almeno un paio d'ore e riposarci dopo un'intera giornata di patimenti. Presto, però, riprendono gli spari. Senza perdere un solo istante torniamo nel nostro minuscolo rifugio. Sentiamo avvicinarsi i passi dei poliziotti. Ci cercano, ma non ci trovano. Infuriati per l'insuccesso, ma certi che in casa c'è ancora qualcuno, sbraitano: «Avanti, uscite! Banda d'idioti! Spariamo!». Il bambino inizia a strillare ... ci si gela il sangue: è la fine. Ci troveranno, che cosa possiamo fare? Non usciamo, aspettiamo che sparino. «Fuori! Uscite, di corsa!» I tedeschi non hanno il coraggio di entrare. Hanno paura. Il bebè urla a squarciagola. Do l'addio a mio marito. I tedeschi sono saliti sul tetto e stanno scoperchiando l'edificio, per poterci sparare dall'alto. Sopra di noi le travi scricchiolano. In preda al panico tutti si precipitano verso l'uscita.
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Io cerco di nascondermi. In solaio non c'è più nessuno. Mi infilo sotto un materasso, in un angolo della stanza. Forse se ne andranno. M,1 una mano mi tira per il cappotto. Un attimo dopo mi ritrovo in un piccolo corridoio. Di fronte ,1 me, appoggiato alla parete, il mio amato marito. È pallido e non dice una parola. Gli vado vicino e ci scambiamo ancora una volta il saluto d'addio. Ci stanno contando: uno, due, tre ... otto ... [trentacinque]. D'un tratto una confusione spaventosa. Qualcuno corre per le scale. lska mi fa schermo con il corpo e mi spinge dentro un altro appartamento, la cui porta è aperta. «Cerca di salvarti!» mi sussurra, e sparisce. Attraverso di corsa la cucina e raggiungo la camera. È tutta sottosopra. M'infilo sotto un mucchio di cuscini e di pium,Kci e resto immobile. Non sento nulla, più nulla. 11 mio corpo è come di pietra, solo il cuore continua a battere. Sto soffocando. La bocca è secca. Attendo. Lo so, si accorgeranno chl' manca qualcuno e verranno qui. Mio Dio, che cosa è stato? Uno sparo, vicinissimo. Certaml·nte in cucina. Qualcuno dice in tedesco: «Non c'è niente da scolarsi?». Aprl' l'armadio, cerca della vodka. Poi entra in camera. Guarda in giro, fruga in ogni angolo. Trattengo il respiro. Oh, come vorrei che tutto fosse già passato! Se deve sparare, lo faccia in fretta. Deglutisco a fatica la saliva. Si è chinato; ha dei fogli in mano: sono banconote. li mio piede sporge dal piumaccio; troppo tardi per nasconderlo. Se il tedesco v'inciampa, sono perduta. No! Se ne va. Se ne sta andando davvero. Ancora un minuto di estrema tensione. Ascolto con la massima concentrazione i suoi passi allontanarsi per le scale. Finalmente il silenzio. Mi trascino fuori, non è il momento di riposarsi. Devo t~ovare un buon nascondiglio. Mi alzo. C'è qualcun altro nella camera. E Bronja, la sorella di [ska. «Come sei finita qui?» «Mi ci ha spinto [ska all'ultimo minuto.» Non c'è tempo per perdersi in chiacchiere. Riguadagniamo il sottotetto. Dietro il tramezzo è rimilstil della gente che i tedeschi non hanno scoperto. Sono nostri coinquilini ... Bussiamo. «Fateci entrare! Presto, i tedeschi possono tornare da un momento all'altro!» Nel nascondiglio ci sono ora sedici persone: donne, ragazze, uomini e il piccolo Dsjunja, di tre anni. Nessuno parla. Impietoso, il sole di luglio arroventa il tetto. Poi giunge, tanto sospirata, la notte. Lasciamo il rifugio e riempiamo le bottiglie: facciamo scorta di acqua per iI giorno dopo. Andiamo a dormire in soffitta. [I nostro sonno è pesante come il piombo. I primi raggi di sole filtrano dalle fessure e noi siamo ancora addormentati. Ljusja ci sveglia tutta agitata.
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«Alzatevi! Tutti nel nascondiglio, presto! Sono arrivati i camion dei pompieri.» Rientriamo nella nostra tana. Si odono delle esplosioni. I tedeschi snidano la gente con le bombe a mano. Dopo i boati, gemiti e grida. Sentiamo la voce di un tedesco: «Leonhard, guarda, l'ho fatta fuori al primo colpo, ed era parecchio lontana!». «Dài, dài» grida un altro. «Forza, uccellini, volate fuori! Su ... che vi facciamo arrosto!» «Per l'amor del cielo, sparate, ma non uccideteci con il fuoco» urla una donna a gran voce. Dalle fessure penetra un esile filo di fumo. Ci prende alla gola, già secca per la sete e per la paura. Il piccolo Dsjunja si tappa la bocca con le mani. Sa che non bisogna parlare. Grandi gocce di sudore gli colano dal viso. «Forse faremmo meglio a uscire» dico. «Non è meglio morire fucilati che bruciare vivi?» «Invece non usciremo» dice Bronja. «I tedeschi non incendier,mno questa casa, perché si trova accanto al loro ospedale.» diamo curvi, appoggiandoci ai muri delle case. Qua e là sono stati accesi dei falò, per illuminare il ghetto e scoraggiare i tentativi di fuga. La città dorme. Le persiane alle finestre sono chiuse. Da una casa escono degli uomini ubriachi. Cantano a squarciagola. Ci infiliamo in un androne perché non ci vedano. Ci passano davanti e si allontanano. Poco distante da qui si trova la piccola casa di una mia conoscente, una polacca che certamente ci aiuterà. Busso alla finestra. «Chi è là?» chiede qualcuno. «Sono io, Lilja, apra, la prego, la prego» rispondo sottovoce. La donna ci fa entrare. Prepara del caffè e delle uova e ci apparecchia la tavola. «Vi nasconderò nel fienile, perché c'è un'ordinanza che punisce con la morte chi tiene ebrei in casa» dice. Saremo al sicuro anche nel fienile, l'essenziale è che non ci scovino. Ce ne stiamo lì, sul fieno, a parlare a bassa voce. Verso le dicci di notte vado a trovare la padrona di casa, per sapere se ha notizie di lska. Mi porto sotto la finestra del retro e busso con delicatezza ai vetri. Da dove mi trovo riesco a parlare con la padrona di casa senza che nessuno possa vedermi. Tutt'a un tratto nel cortile entrano dei tedeschi in motocicletta. «È chiaro che qualcuno ci ha traditi» mi viene subito da pensare ... Era andata proprio così. Uno dei tedeschi entra sicuro nel fienile e porta fuori Bronja. « Vi prego, lasciatemi andare, ho solo diciannove anni. A che vi serve la mia vita?» «Chiudi il becco, maledetta canaglia!» Dal mio angolo osservo la scena. Bronja è in piedi, pallida ma a testa alta. «E dov'è l'altra, eh?» chiedono i tedeschi. «Se n'è già andata stamane. Non so dove sia.» «La troveremo.» Con il calcio del fucile spingono avanti Bronja. Cammina barcollando. Per l'ennesima volta qualcuno mi ha salvato la vita. (Preparato per la pubblicazione da R. Fraerman)
IL MIO COMPAGNO, IL PARTIGIANO JAKOB BARER Lettera di Boris Chandros
Sono nato nel 1924. All'età di quattordici anni entrai nel Komsomol. Di tanto in tanto scrivevo poesie. Nel 1941 terminai la decima classe e allo scoppio della guerra mi arruolai come volontario. Durante la difesa di Kiev fui ferito a un piede; una vecchia mi nascose e mi curò. Il fronte era lontano e così ritornai a Pridnestrove, dove insieme alla maestra del villaggio, Tamara Buryk, diedi vita a un gruppo clandestino di resistenza. Riuscimmo a superare la difficile estate del 1942. Ero tornato a combattere contro i tedeschi ... Incontrai Jakob Barer all'inizio del 1944. Era un giovane forte e robusto, che padroneggiava perfettamente il tedesco. Si unì al nostro gruppo e si batté con valore. ll 17 marzo 1944 fui ferito gravemente: un proiettile mi trapassò un polmone. Jakob si espose al fuoco nemico e mi trascinò in salvo. Jakob veniva da Leopoli, era pellicciaio. DaJ 1939• aveva avuto l'opportunità di studiare e si apprestava a entrare in università. Ma poi arrivarono i tedeschi e, come tutti gli ebrei di Leopoli, Jakob si ritrovò condannato all'eliminazione. I tedeschi Jo mandarono a lavorare. Una sera, al suo rientro, non trovò in casa né la nonna né il fratellino di tredici anni: erano stati deportati a Belzec, nell'«officina della morte», dove venivano sterminati gli ebrei di Leopoli, insieme ad altri ebrei polacchi e francesi. Ben presto toccò anche a lui, che però riuscì a salvarsi saltando dal treno. Nell'autunno del 1942 Jakob venne internato in un campo di concentramento nei pressi di Leopoli. Il comandante del lager non faceva mai fucilare gli ebrei. S'intratteneva con le sue vittime, descrivendo i miglioramenti futuri e parlando dell'umanità del Fuhrcr, poi, quando vedeva che nei loro occhi si accendeva un barlume di speranza, le strangolava. Per questo era soprannominato «lo Strangolatore». Su un'altura· aveva • Probabilmente il testo si riferisce al momento del passaggio dell'Ucrain.i occidentale (l..eopoli inclusa) all'Unione Stica in Sl'guito al patto Hitler-Stalin.
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fatto costruire una gabbia di vetro: vi rinchiudeva un ebreo e lo lasciava morire lentamente alla vista di tutti. Lo Strangolatore costringeva gli ebrei a scavare grandi buche e a riempirle di terra. Una volta essi scavarono una di queste buche proprio sul confine esterno del campo. Jakob si nascose, mentre gli altri venivano ricondotti nel lager. Quando, accortosi della sua assenza, il soldato di guardia lo chiamò, Jakob si avventò su di lui e lo uccise con la vanga. Gli tolse l'uniforme e gli prese i documenti: era un certo Max Walier. Tornò quindi alla baracca, che condivideva con il fratello minore e con otto compagni di Leopoli. Alterando la voce al punto che neppure il fratello riuscì a riconoscerlo, ordinò: «Preparatevi!». Nel silenzio generale tutti si prepararono alla loro ultima uscita. La sentinella che presidiava le porte del campo non rilevò nulla di strano: ogni notte, infatti, qualche ebreo veniva accompagnato alla fucilazione. Si limitò a scherzare: «Allora, camerata, vai a prendere un po' d'aria fresca?». Fu il primo successo di Jakob Barer. Jakob decise che bisognava provare ad andare verso est. Raggiunsero uno scalo merci. In un vagone Jakob trovò delle casse di libri dirette a Dnepropetrovsk. I nove ebrei si nascosero dietro quelle casse, mentre Jakob, in divisa da ss, sorvegliava il carico. A Dnepropetrovsk si divisero. Jakob restò con il fratello. Fecero molta strada. Jakob fu costretto a sbarazznrsi dell'uniforme, perché i gendarmi davano la caccia ai disertori. Nel settembre del 1943 i due giunsero a Pervomajsk, dove Jakob strinse amicizia con il vecchio insegnante Mikolaicik. Si procurò una radio, dalla quale ascoltavano insieme i comunicati sovietici e li diffondevano. L'so iniziò a dargli la caccia. Riuscì a fuggire, ma i tedeschi gli assassinarono il fratellino. Ho visto foto e altri documenti dei tedeschi che aveva ucciso, ma Jakob preferiva non parlarne. Gli ricordavano i parenti e gli amici che aveva perduto. All'ospedale da campo ci siamo salutati per l'ultima volta. È partito per l'ovest con l'Armata Rossa. Viveva con un solo pensiero: vedere il ritorno di Leopoli ai sovietici ... 22 luglio 1944 (Preparato per la pubblicazione da I. Ercnburg)
NELLA FORESTA DI PENJACK (LETTERA DI UN ESPLORATORE) M. Perlin, regione di Leopoli
Immersi nella foresta di Penjack sorgono due villaggi, che distano tra loro quattro chilometri. Il villaggio di Huta Penjacka contava centoventi masserie: non se ne è salvata nemmeno una. Vi risiedevano 880 persone, polacchi ed ebrei: non ci sono superstiti. I tedeschi hanno circondato il paese, cosparso di benzina case e stalle e bruciato tutto, abitanti compresi. Delle centoventi masserie del villaggio di Huta Verhobuska, invece, ne sono rimaste due. Quanto agli abitanti, sono tutti morti. Nel bosco, non lontano da quei borghi, io, Matvej Grigor'eviè Perlin, esploratore dell'Armata Rossa, mi sono imbattuto per caso in due tuguri scavati nella terra, dentro i quali vivevano ottanta ebrei. C'erano sia vecchie di settantacinque anni sia ragazzi, ragazze e bambini; la più piccola aveva tre anni. Ero il primo soldato dell'Armata Rossa che incontravano dopo tre anni passati nel terrore quotidiano della morte. Facevano a gara per avvicinarsi il più possibile, stringermi la mano e dirmi qualche parola affettuosa. Per sottrarsi alle persecuzioni erano rimasti nascosti in quelle buche quasi sedici mesi. All'inizio erano parecchi, ma sono sopravvissuti in ottanta. Dei 40.000 ebrei di Brody e Soloèenski ne sono rimasti, stando a quanto dicono, non più di duecento. Come hanno fatto a salvarsi? Sono stati protetti dagli abitanti dei villaggi circostanti. Nessuno, però, ha saputo dirmi con precisione dove si trovano. Ogni volta che lasciavano la «loro» boscaglia o rientravano «a casa», cancellavano le tracce con la neve che spargevano con un setaccio fabbricato allo scopo. Avevano armi, un paio di fucili e qualche pistola, e non perdevano occasione di ridurre il numero delle belve fasciste. Per tre anni interi hanno parlato sottovoce. Persino nei rifugi sotterranei era vietato conversare normalmente. Ma appena sono arrivato hanno iniziato a cantare, a ridere, a gridare. Sono rimasto davvero colpito nel constatare con quale commovente impazienza, con quale incrollabile fiducia questa gente ha aspettato il nostro arrivo, l'arrivo dell'Armata Rossa. Questa speranza era il tema
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dominante delle loro canzoni, delle loro poesie, dei loro racconti e persino dei loro sogni. La piccola Soja, la bambina di tre anni, non sa che cosa significhi vivere in una casa e il primo cavallo che ha visto è stato il mio. Ma se le chiedete chi deve venire, risponderà: «Deve venire papà Stalin, così potremo tornare a casa». (Preparato per la pubblicazione da I. Erenburg)
I TEDESCHI A RADZIVILOV Krasnoarmejsk
l'na meravigliosa mattina d'estate. Tutti gli ebrei di Radzivilov (Krasnoarmejsk) se ne stanno rintanati in casa. Nel cantuccio in cui mi trovo insieme alla mia famiglia non si sente che un inquieto bisbigliare. «Arrivano, arrivano, che cosa facciamo?» I tedeschi entrano in cortile su un camion. Uno di loro smonta e viene a bussare alla porta. Nell'appartamento regna il panico. La vecchia nonna va ad aprire. «Perché ci hai fatto aspettare?» grida un tedt'Sl"O. Un colpo di 11agajka si nbbnttc sulla schiena della nonna, che cade a terra svenuta. Mamma e la zia accorrono portando dell'acqua, mentre il tedesco inizia a perquisire l'alloggio: cerca gli uomini. Quando papà si accorge che si sta mettendo mnlc, esce spontaneamente. Il tedesco lo picchia con la nagajka e lo spinge verso la porta con un calcio: «Fuori, in cortile, pidocchiosa canaglia!» urla. Dalla porta sporge un chiodo e papà si ferisce al volto. Sanguina. Mamma cerca di soccorrerlo, ma il tedesco la allontana violenteme)1te e porta fuori papà. Poi partono. E impossibile descrivere ciò che abbiamo sofferto quel giorno. In casa c'era un silenzio di morte. Si stava già facendo buio, quando qualcuno bussò alla porta. Non riuscii a trattenermi e iniziai a piangere e a singhionare. Mamma apri e balzò indietro lanciando un grido. Sulla soglia c'era papà: ma in quale stato! A piedi nudi, senza giacca, grondante di sangue. Entrò senza dire una parola e si mise a sedere. Mia cugina esclamò: «Zio, dove sono i tuoi stivali?». «Me ne procurerò un altro paio, bambina mia» rispose papà. Quei banditi gli avevano preso giacca e stivali, e gli avevano lacerato i pantaloni a colpi di nagajka. Non gli avevano nemmeno permesso di lavarsi la faccia. Aveva passato una giornata intera a trasportare pietre per costruire delle baracche e gli avevano ordinato di presentarsi al lavoro anche l'indomani. Quello fu il nostro primo incontro con i tedeschi.
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Tuttavia, non sapevamo ancora che le nostre sofferenze erano soltanto all'inizio. Papà lavorava, ma non riceveva alcuno stipendio. Mamma si recava da alcuni contadini suoi conoscenti per vendere loro qualche vestito, dovevamo pur campare. Poi si stabilirono in città le autorità tedesche: la milizia territoriale e la gendarmeria, oltre che i poliziotti. Con il trascorrere dei giorni ci umiliavano sempre più; ci saccheggiavano, prendevano tutto quello che capitava loro sotto mano. In luglio arrivarono le 55, con l'emblema della morte sull'uniforme. Una notte prelevarono alcuni ebrei, sei donne e diciotto uomini, e dopo averli tenuti in carcere per tutto il giorno, la sera li portarono via con un camion. All'indomani una donna che abitava vicino a quattro agenti di polizia raccontò di averli sentiti dire: «Dobbiamo pulirci le mani dal sangue di questi ebrei». Non riuscivamo a credere che quei poveretti fossero stati assassinati, ma presto scoprimmo la verità. Condotti nel bosco di Brody e costretti a scavarsi la fossa, erano stati fucilati e sepolti. Qualche tempo dopo giunse in città il Gebietskommissa,... di Dubno, il quale prese trenta persone e ordinò agli ebrei di raccogliere centomila marchi entro due ore. Se non ci fossero riusciti, gli ostaggi sarebbero stati giustiziati. La gente correva di qua e di là in preda alla disperazione, vendendo oggetti di valore a prezzi irrisori pur di raggiungere la somma richiesta. li Gt•bietskommissar ricevette il denaro e se ne andò soddisfatto. Ma appena quattro giorni dopo si ripresentò, con nuove disposizioni: tutti gli oggetti d'argento, d'oro, di nichel e tutte le pellicce dovevano essere consegnati; nessuno poteva girare per strada senza avere al braccio una fascia con la stella a sei punte. Ci obbligarono a portare sugli abiti due toppe, una davanti e una dietro. Gli ordini furono eseguiti, ma due ostaggi non vennero rilasciati. E per i tedeschi non era mai abbastanza. (Ci costrinsero a cucire sui vestiti delle toppe gialle: una sul petto, l'altra sulla schiena. Quando uscivi con quei contrassegni, anche un ragazzino poteva gri-
darti: «Ebreo, ebreo!» e arrogarsi il diritto di picchiarti, di tirarti dei sassi: non eri considerato un essere umano. I tedeschi, tronfi, si godevano lo spettocolo.] Nel marzo del 1942 fu diramato un nuovo ordine: gli agenti di pubblica sicurezza dovevano requisire dei carri nei villaggi e sottrarre agli ebrei coperte, cuscini, stoviglie e provviste. Portammo le nostre cose al sicuro, da alcune conoscenti: Ana Moros, del borgo di Bogaevka; Lena Mostenfok e la Gubskaja, del borgo di Baran', tutte contadine. • Commissario regionale. (Nd1)
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Quei saccheggi ci sembravano spaventosi, ma allora non sapevamo che se per il momento i tedeschi si limitavano a impadronirsi dei nostri beni, più tardi si sarebbero impadroniti anche della nostra vita. Alla fine di aprile la milizia territoriale di Radzivilov ricevette dal Gebietskommissar nuove istruzioni: gli «ariani» dovevano sgomberare due intere strade, per lasciare che vi si insediassero gli ebrei. Una via era destinata ai lavoratori (gli «specialisti»), ai quali sarebbe stato consegnato un «libretto di lavoro»; l'altra doveva ospitare i «non lavoratori». Le due strade furono chiuse con una recinzione di filo spinato alta tre metri e ricevettero il nome di «ghetto». In quelle due piccole vie si sistemarono alla bell'e meglio 5000 persone. In ogni alloggio erano stipate tre o quattro famiglie. I «non lavoratori» non tardarono a capire che su di loro si stavano addensando nubi di tempesta, sicché si attivarono in ogni modo per ottenere un «libretto di lavoro» e per trasferirsi nell'altra via. ll 24 maggio fu decisa la chiusura del ghetto. Mio padre era appena riuscito a procurarci dei «libretti». Il funzionario ucraino con cui aveva lavorato nell'amministrazione dell'industria forestale gli aveva dato una mano. Ma la nostra angoscia non accennava a diminuire: avevamo paura che ci toccasse qualche nuova sventura. Nella notte tra l'l e il 2 giugno 1942 le autorità locali se ne andarono a sbevazzare nella cantina tedesca insieme alle ss, da poco giunte in città; alle quattro il ghetto fu circondato. [A presidiare la strada dei lavoratori rimasero solo sei miliziani ucraini, mentre circa centotrenta persone, banditi di vario calibro, dai tedeschi ai poliziotti, ai coloni, si portarono nell'altra via.] Alle sei arrivarono i capi, la milizia territoriale e la gendarmeria. Barcollando ubriachi, entrarono nel ghetto e cominciarono a spingere la gente sulla piazza a colpi di nagajka. I bambini piangevano e strillavano, i banditi gridavano come selvaggi: era terrificante. Mi nascosi in casa di una vicina. Dalla finestra potevo vedere ogni cosa. In piazza c'erano bambini, ragazze e anziane. Vidi una mia amica che stava appoggiata alla madre e piangeva disperata. I tedeschi trafiggevano i bambini con la baionetta [, mentre i miliziani ubriachi e il loro comandante se ne stavano lì, a spanciarsi dal ridere]. I bambini più grandicelli venivano picchiati sino a che non cadevano privi di sensi. Molte donne impazzivano: urlavano, ballavano, ridevano come forsennate; alcune si misero a strangolare i propri figli. Era uno spettacolo insopportabile. La mia amica corse verso il reticolato nella speranza di trovare un varco, ma stramazzò a terra, Uccisa da un colpo d'arma da fuoco. Fu il primo sparo. I tedeschi fecero uscire dal ghetto tutta la gente radunata. Chi cercò di fuggire fu ucciso. Gli ebrei furono portati fuori dalla città, che echeggiava ovunque dei loro lamenti e delle loro grida. La folla fu condotta alle tre fosse fatte scavare in precedenza dai prigionieri di guerra, ignari della destinazione di quella loro opera. A tutti fu ordinato di spogliarsi. Due persone furono spinte in una fossa e costrette a
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sdraiarsi: quindi si udirono due colpi. I tedeschi fecero distendere altra gente sopra i cadaveri e spararono; l'operazione continuò fino a che tutte e tre le fosse furono piene. Quindi giunsero degli autocarri, per caricare gli abiti e trasportarli nel ghetto ormai vuoto. A informarci di tutti questi particolari fu una ragazza che, unica su trecento persone, era riuscita a fuggire. Udimmo gli spari e le grida sino alle due del pomeriggio circa. Gli orfani delle vittime vagavano smarriti per la nostra via, chi aveva perduto i suoi cari girava singhiozzando. In costante attesa di subire quella stessa sorte, non riuscivamo a dormire. Una notte mamma mi svegliò. Panico. Tutti erano vestiti. Il ghetto era circondato. I tedeschi entrarono al grido di: «Venite fuori, maledetti ebrei!». Non è difficile immaginarsi il nostro stato d'animo. Emerse poi che i tedeschi avevano solo bisogno di manodopera per riempire di patate sei vagoni. I nostri uomini venivano spinti avanti a colpi di naga;ka, come se fossero capi di bestiame: passammo la notte a piangere, perché credevamo che non li avremmo più rivisti; invece al mattino fecero ritorno. Erano esausti, pieni di lividi e di sangue. Benché si fosse trattato di un falso allarme, vivevamo nella costante attesa della fine. In agosto si diffuse la voce chi.' i prigionieri di guerra erano stati costretti a scavare altre buche. Questa volt,1 la gente non aspettò di finire uccisa in quelle fosse e scappò in vari villaggi. Molti andarono a Sestratin, dove gli ebrei lavoravano alla torbiera. Lì, almeno, il bosco era vicino e c'era una possibilità di fuga, mentre in quel dannato ghetto non c'era scampo. Anche mamma e io ci portammo a Sestratin, nonostante il lavoro alla torbiera fosse assai duro. Papà rimase a casa. Venimmo quindi a sapere che effettivamente per agosto era prevista una nuova ondata di massacri e che quei mostr.i l'avevano rinviata soltanto perché bisognava ancora svuotare otto depositi di patate da spedire in Germania. Quando sembrò tornata una certa tranquillità, la gente iniziò a rientrare alle proprie case. Ma sul finire di settembre il mio vecchio insegnante Schlesinger venne da Dubno e ci avvertì che i prigionieri di guerra avevano ripreso a scavare fosse. Poi venne ancora una volta il rappresentante della milizia territoriale e annunciò che erano state fucilate sessanta persone, colpevoli di aver tentato la fuga. Chi altri ci avesse provato avrebbe fatto la stessa fine. Nella notte del 3 novembre il ghetto fu circondato: pullulava di camion e di motociclette. Alle otto del mattino prese il via il secondo spaventoso massacro. Che cosa non avvenne allora in casa nostra! Le donne piangevano e pregavano Dio. Mio padre mi abbracciava, mi accarezzava e mi baciava, anch'egli pregando ardentemente. All'una di notte qualcuno bussò delicatamente alla finestra. Ci stringemmo gli uni agli altri. Papà aprì la porta e fece entrare due giovani uèraini, Volodja Semenéuk e Kolja Vovk, nostri vecchi amici. Incuranti del pericolo mor-
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tale che stavano correndo, erano venuti a salvarci, proprio all'ultimo momento. Lasciammo la casa, portando con noi solo poche provviste. Malgrado l'avessimo pregata e scongiurata fino alle lacrime, la nonna non aveva voluto seguirci. Procedevamo strisciando a quattro zampe dietro i nostri salvatori e non ci azzardavamo nemmeno ad alzare la testa. In un punto il filo spinato era stato precedentemente tagliato e l'uno dopo l'altro passammo tutti dall'altra parte. Avanzammo carponi per circa un chilometro e mezzo finché non ci trovammo fuori città e finalmente ci alzammo in piedi. «Andiamo a Brody» disse Kolja. La cittadina di Brody distava otto chilometri da Krasnoarmejsk. Laggiù gli ebrei vivevano ancora nel ghetto. Improvvisamente ci si parò dinanzi una figura umana, come sbucata dal sottosuolo. Si avvicinò allo zio e gli disse: ••Jada, non mi riconosci?,,. Era Misa Domanskij, del villaggio di Nemirovka, il miglior amico dello zio. Ci offrì ospitalità per la notte. Da lì a Nemirovka c'erano tre chilometri. Ci dividemmo in due gruppi. Kolja e io proseguimmo con i nostri familiari. Non avevamo ancora percorso un chilometro, quando vedemmo venirci incontro un uomo in bicicletta. Udimmo subito il grido: «Alt!». Kolja si gettò a lato, tra i cespugli; noi, invece, seguitammo a camminare. L'uomo sparò un colpo: il proiettile mi sfiorò la testa. Lanciai un urlo: era uno Sclmtzmann* [, /o conoscevamo); papà gli diede 100 marchi, l'orologio da taschino e la fede nuziale. Soddisfatto, senza dire una sola parola, l'agente montò sulla bicicletta e se ne andò. Kolja ci raggiunse e arrivammo al villaggio sani e salvi. Misa ci condusse a casa sua e ci preparò un giaciglio di paglia nella stalla. Poi i nostri salvatori si accomiatarono. Passammo tutta la notte senza chiudere occhio, poiché sapevamo che in quegli stessi istanti migliaia di innocenti venivano mandati a morire. La famiglia di Misa era numerosa: padre, madre, moglie, figlio, sorella e un fratello più giovane. Al mattino Misa venne con suo padre a portarci la colazione e disse: «Amici, non avete nessun posto in cui andare. Restate qui con noi. Sarà quel che Dio vorrà. Divideremo con voi quel poco che abbiamo». Non riuscimmo a trattenere le lacrime. Lo zio ringraziò e restammo lì. I Domanskij costruirono un nascondiglio nella paglia. Di ritorno dalla città Misa ci riferì che tutti gli ebrei erano stati portati via: erano rientrati solo degli autocarri carichi di vestiti. Iniziò così la nostra nuova vita nel nascondiglio. li generoso Misa si industriava per migliorare in ogni modo le nostre condizioni di vita; riuscì persino a procurarci dei giornali, che tuttavia non ci sollevarono il morale: i tedeschi erano allora alle porte Ji Stalingrado. Misa, però, ci assicurava che ben presto le orde germaniche sarebbero state spazzate via. • Agente di pubblica sicurezza. (NJD
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Poi arrivò l'inverno. Non avevamo abiti pesanti e Mi~ ci portò il suo piumaccio, il suo cuscino e la sua coperta. Agli uomini diede anche qualche capo della sua biancheria. Si prendeva cura di noi come se fosse un nostro parente. [Trascorremmo così otto mesi. Fino a quando Misa rimase con noi fu, /o avremmo compreso in seguito, un buon vivere. A quell'epoca avevano già lotto la loro comparsa gli uomini di Bandera,,. cui fini per unirsi anche il nostro Kol;o. Non so che cosa lo spinse ad agire contro di noi, dopo che ci aveva salvato la vita. Misa ero venuto al corrente del fatto. Kol;a andò da lui e lo invitò a consegnarci, ma non sortì alcun risultato. Mi~o ci trasferì in un altro nascondiglio e poi mostrò a Kol;a quello vecchio vuoto: «E do parecchio che li ho cacciati via/» disse. Allora Kol;a lo lasciò in pace e smise di cercarci, ormai convinto che non fossimo più lì. Eravamo stati messi in salvo per la seconda volta. Ma poi sopraggiunse un'altra disgrazia. La notte del 27 settembre 1943 Kol;a e altri uomini di Bandera vennero da Misa e gli dissero: «Sei un comunista, prega perché ti siano perdonati i tuoi peccati. O ti unisci a noi o ti pianteremo una poi/otto/a in lesto. Pensaci su fino a domani!». Poi se ne andarono. Misa corse da noi. Piangeva come un bambino. Ci diede l'addio, baciandoci tutti, e disse: «Amici, so che mi aspetta la morte. Se potessi restare con voi, attendereste qui l'arrivo dei vostri liberatori; ma oro devo andarmene, non so che cosa accadrà».,.,. Baciò lo zio ancora uno volto e parti. Rimanemmo a lungo smarriti. Avevamo un brutto presentimento. Mia cugina singhiozzavo: nonostante avesse soltanto cinque anni, capiva che per noi la situazione si era aggravato. Ed effettivamente, quando Misa se ne andò capimmo che cosa significa vivere in un rifugio. Il vecchio padre di Misa cercò di prendersi cura di noi come aveva fatto il figlio, ma gli uomini di Bandero avevano trasformato la fattoria in un vero e proprio accampamento. Nel capannone che si trovavo proprio sopra le nostre teste c'ero il loro dormitorio. Non riu· scivamo a chiudere occhio; sorreggevamo le assi per evitare che la paglia cedesse ed essi ci cadessero addosso. Intanto la suocera di Misa, la cui casa ero stato data alle fiamme, si sistemò insieme al figlio presso i nostri ospiti. Giravo continuamente per la carte e ficcava il naso in ogni angolo. Avevamo una gronde paura che ci scoprisse, perché suo figlio apparteneva anch'egli alle squadre di Bandera. Cos,· per la madre di Misa era diventato impossibile rifornirci di cibo e cominciammo o soffrire la fame. Di Misa, intanto, nessuna notizia. A novembre, nel villaggio scoppiò un improwiso conflitto o fuoco tra i tedeschi e gli uomini di Bandera. Dodici tedeschi rimasero uccisi, mentre quelli di Bandero non subirono perdite. Itedeschi recuperarono i loro morti e si tolsero di torno.] • Il testo si riferisce ai nazionalisti ucraini, cosi chiamati dal nome del loro capo Stefan Bandera, i quali prima dell'attacco di Hitler all'Unione Sovietica avev.:ino goduto dell'appoggio dei tedeschi e avevano operato in collaborazione con essi. Bandcra, però, preferi\'a condurre azioni in tot.:ile autonomia, tanto che fu catlurato dall'sD e costretto per qualche tempn agli am>sti domicilari. Rifugiatosi dopo il 1945 nella Germania federale, nel 1959 fu assassinato dai servizi segreti sovietici. •• Nell'originale le parole tra virgolette sono in ucraino.
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Quella stessa notte gli abitanti del villaggio fuggirono nei borghi circostanti per sottrarsi alla vendetta dei tedeschi. Alle tre di notte arrivarono due camion. 1 tedeschi appiccarono il fuoco al villaggio, a partire dalla cerchia più esterna. Rimanemmo lì, nella fattoria numero nove, in attesa della fine. Ma la nostra ora non era ancora giunta. Arrivati all'ottava casa i tedeschi si fermarono e se ne andarono. Eravamo scampati alla morte per la terza volta. Il villaggio rimase disabitato per due giorni, poi gli abitanti fecero ritorno. Quando la nostra padrona di casa trovò la sua abitazione ancora intatta e noi ancora vivi, per festeggiare diede il suo consenso alle nozze della figlia Nadja con il nostro anùco Volodja Semencuk, che da molto tempo ne aveva chiesta la mano. Nadja era una graziosa fanciulla di diciotto anni, Volodja ne aveva allora ventitré. Furono loro a darci la notizia che l'Armata Rossa aveva già liberato Novograd-Volynski. Che immensa gioia! Rimanemmo nel nostro rifugio dal 3 novembre 1942 all'8 febbraio 1944. Quando Dubno era già stata liberata, arrivarono da noi alcuni soldati di Vlasov,"' in compagnia dei tedeschi. Misero la vacca dei nostri contadini nella stalla e nel granaio portarono dodici cavalli, per i quali raccolsero del fieno. Per un soffio non ci scovarono. Dovevamo andarcene al più presto: se ci avessero trovati, avrebbero ucciso anche i nostri ospiti, tanto buoni e generosi. La prima a uscire fui io, 1'8 febbraio. La nostra padrona di casa mi prese con sé. Parlo un buon russo e non ho l'aspetto di un'ebrea. Vissi con lei, che mi procurò un nome e documenti d'identità falsi e mi spacciò per una sua nipote di Zitomir. Mamma e la zia andarono a vivere, anch'esse apertamente, nel villaggio di Levjatin; papà e lo zio in quello di Bogaevka. La figlia della nostra ospite prese con sé la mia cuginetta. Davo una mano nei lavori di casa, ma non riuscivo ancora a sopportare la luce del giorno e ogni tanto brancolavo come una cieca: due anni e mezzo passati al buio in un piccolo buco non sono uno scherzo. Venni a sapere che otto giorni prima dell'arrivo dell'Armata Rossa i tedeschi avevano deportato tutti gli uomini di Bogaevka e che mio padre e mio zio erano stati assassinati. Avevano dovuto patire tutte quelle sofferenze e ora, alla vigilia della liberazione, era toccato loro morire in quel modo atroce. Quattro giorni prima che l'Armata Rossa entrasse a Krasnoarmejsk ricevetti una lettera di mamma, da Sestratin. Mi avvisava che era ancora in vita e mi raccomandava di riguardarnù. La mia gioia fu indescrivibi• Membri della cosiddc-tta «armata Vlasov», una formazione militare sottoposta al comando supremo tedesco e costituita da volontari, disertori e prigionieri di guerra sovietici costretti ad aderirvi. Prendeva nome dal suo comandante, il generale Andrej Vlasov.
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le, ma durò solo un attimo: due giorni dopo ebbi la notizia che anche mamma e la zia erano state uccise. Siamo rimaste solo io e la mia cuginetta, le loro inconsolabili figliole. Poi arrivò il momento, felice, splendido, in cui la nostra cara Armata Rossa ci liberò. (Il mio unico compito ormai è quello di allevare lo mia piccolo cugina. La nostro roba è ancora nascosto dalle contadine Lena Mostenéulc, Ano Moros e Gubskaja. Le ho contattate e ho chiesto loro di restituirmela, ma è stato inutile. Nonostante le mie preghiere e le mie lacrime, non vogliono decidersi a mettersi nella nostro situazione e o renderci ciò che i nostri genitori hanno conquistato a prezzo di duro lavoro. Anche le nuove autorità sovietiche mostrano scorso interesse nei nostri confronti. Il nuovo anno scolastico è già cominciato, mo né io né la mio cuginetta possiamo andare o scuola: semplicemente non ne abbiamo i mezzi. Invece di pensare olla scuola, devo preoccuparmi di trovare qualcosa per sfumarci. Non abbiamo abiti pesanti, sebbene l'inverno sia alle porte. I nostri vestiti li usa altra gente, che non è stata toccata dallo guerra, che non ha perso come noi la sua famiglia. Di Misa si è perso ogni traccio. Il nostro primo salvatore, Volodja, combatte nell'Armala Rosso.] Comunicato da L. Gecl,man (Prcparnlo per l,1 pubblicazione da M. Skapskaja)
LETTERA DI SJUNJ A DERE~ Izjaslav
Salve, zio Misa, Vi scrivo daJ mio paese natio, Izjaslav, che ora è irriconoscibile. [De/ no· slro villaggio non è rimasta che uno scorsa metà. Mo poi perché esiste ancora? So· rebbe stato meglio se non ci fosse mai stato, se tutto questo non fosse mai accadu· to, se io non fossi mai nato. Non sono più il Siun;a che conoscevate.] lo stesso non so più chi realmente io sia. Sembra tutto un sogno, un incubo. A Izjaslav siamo sopravvissuti solo io e Kiva Feldman, il nostro vicino; nessun altro, su 8000 abitanti. Sono tutti morti: la mia amata mamma, il mio caro papà, il mio amato fratello Sjama, Isa, Sarah, Boruch ... Miei cari, che triste destino il vostro! ... Non riesco a riavermi, non riesco a scrivere. Se dovessi raccontare ciò che ho passato, non so se Voi capireste. Sono scappato tre volte dal campo di concentramento e, quando ho combattuto insieme ai partigiani, ho visto più volte la morte in faccia. Poi la pallottola di un crucco mi ha sottratto alla lotta. Ma ora mi sono già ristabilito, la gambn è completamente guarita e mi rimetterò alla caccia del nemico, per consumare la mia vendetta. Vorrei poterVi incontrare, anche solo per cinque minuti. Non sosc sarà possibile. (Perii momento sono ancora acasa;continuo adire «o casa», per quanto più che di una caso in verità si tratti ormai di vn rudere. Ho rice-
vuto uno lettera da Tan;o. Sono felice che qualcuno dei miei amici sia ancora vivo.] Attendo risposta. Miei cari, carissimi, se davvero potessimo vederci presto ... Zio Misa, tieni sempre a mente che i nostri peggiori nemici sono i fascisti, quei cannibali. Che morte atroce è toccata ai nostri!!! Colpisci a morte i fascisti, falli a pezzi! Non cadere mai nelle loro mani. Ho fi. nito per scrivere una lettera sconnessa, come sconnessa, triste [e inutile] è la mia vita. Ma nonostante tutto, vivo ancora ... per vendicarmi. Arrivederci, zio Misa. A presto, al prossimo sospirato incontro! Un saluto a tutti, tutti, tutti! Mi sembra di essere tornato dall'aldilà. Oggi inizia per mc una nuova vita: la vita di un orfano. Come farò? Non lo so neanch'io. Cercate di scrivermi spesso, resto in attesa della Vostra risposta. Perché non scrivono anche zio Shlema, Josef e Gita e gli altri? Vi saluta Vostro nipote Sjunja Deres.
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Il mio indirizzo è sempre lo stesso. E comunque sarò io a ricevere la lettera, qualsiasi cosa scriviate sulla busta: oltre a me, infatti, qui non c'è nessuno. 14 aprile 1944 (Preparato per la pubblicazione da I. Erenburg)
LETTERE DI BAMBINI ORFANI
Nel 1941, quando i tedeschi occuparono l'Ucraina, mandarono a lavorare tutti gli ebrei del villaggio di Kalinovka, regione di Vinnica. Ci torturavano e ci picchiavano con la nagajka. Ci davano da mangiare foglie ed erba. Dei tedeschi aggiogarono al loro carro tre ebrei e li costrinsero a tirarlo, ma i tre non avevano abbastanza forza e così furono picchiati a morte. Nel 1942 ci rinchiusero nel ghetto. Da lì non era permesso uscire. Molti morirono di fame. Poi fummo condotti allo stadio. Ammazzarono i giovani e portarono vecchi e bambini nel bosco, dove ci accerchiarono e al grido di «ebrei!» iniziarono a massacrarci. I bambini più piccoli vennero gettati direttamente nella fossa. Scappai. Un tedesco mi inseguì, ma mi arrampicai su un albero e così non riuscì a trovarmi. Li ho visti assassinare tutti gli ebrei. Per tre giorni la terra ha continuato a muoversi. Allora avevo dieci anni, adesso ne ho dodici.
Njunja Dovtorovic All'inizio della guerra, nel 1941, sono venuti a Mogilev-Podol'skij, hanno preso tutti gli ebrei e li hanno portati nel lager di Pecera, nella regione di Tul'cin. Ci hanno umiliati e hanno fucilato i miei genitori. Ci hanno mandati a lavorare. Le ragazzine sono state obbligate a scavare la torba con le mani nude. Abbiamo lavorato dalle quattro del mattino fino a tarda sera. Un giorno li abbiamo sentiti dire che in estate sarebbe finita: tutti gli ebrei sarebbero stati uccisi. Siamo fuggiti, correndo senza meta, dove ci guidavano le gambe. Ci hanno inseguiti e molti di noi sono stati ammazzati. lo sono stata salvata da un ucraino che mi ha tenuta nascosta. Il vicino, però, ha riferito ai tedeschi che c'era «un'ebrea nella fattoria». Allora è venuto un tedesco per uccidermi, ma l'ucraino si è battuto con lui e io sono riuscita a scappare. Infine ho raggiunto il confine romeno. Rosa Lindvor, 15 anni Sono nata nel piccolo villaggio di Vagii', sul fiume Seret. Ora ho quindici anni. Non ho ancora visto niente di bello. Ci hanno portati tutti nel la-
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ger di Edincy. Ho sofferto molto e ho visto la morte in faccia. Poi ci hanno mandato in Ucraina, questa terra luminosa eppure così cupa per noi. Lì i miei cari genitori sono morti, entrambi lo stesso giorno, lasciando cinque orfanelli. Per poco non sono morta anch'io. Ciò che abbiamo perduto non ritornerà mai più. Enja Walzcr
(Preparato per la pubblicazione da I. Erenburg)
LE ATROCITÀ TEDESCO-ROMENE A KISINEV Moldavia
Il 18 luglio 1941 Kisinev fu occupata dalle orde tedesco-romene. Per prima cosà gli invasori cercarono di accertare il numero degli ebrei e dei comunisti rimasti in città. Pochi giorni dopo, per ordine del comandante della città, il colonnello Tudose,.. fu istituito un ghetto. Comprendeva il mercato Stary, in via Staro-Armjanskaja, una parte di via Armjanskaja (sotto via Charlamovskaja), tutte via lrinpolskaja e Kodinarskaja, e qualche altra strada adiacente al quartiere. li ghetto fu recintato con il filo spinato. C'erano due o tre uscite, presidiate da sentinelle. Il 21 luglio soldati armati di fucile circondarono il mercato lljinskij, la piazza confinante, via Prunkulovskaja, via Pavlovskaja e altre strade in cui abitavano gli ebrei. I soldati entrarono in ogni edificio e cacciarono fuori tutti gli ebrei, senza eccezioni: malati, vecchi, infermi, ciechi, paralitici, donne, bambini. Poi condussero quella folla in piazza Drovjanskaja, facendola passare per via Iljinskaja. Là, alla presenza dì alti ufficiali tedeschi, scattarono alcune fotografie. Pochi giorni dopo l'apertura del ghetto, il colonnello Tudosecomandò di formare un gruppo di giovani, quarantaquattro tra ragazzi e ragazze. Era il fiore della giovane intellighenzia di Kisinev. Li caricarono su dei camion e li portarono fuori città. L'ufficiale ordinò di scegliere dieci persone dal gruppo. Furono messe a lato. Quindi si rivolse agli altri dicendo: «Siete tutti comunisti, perché siete ebrei e venite dalla Bessarabia. Avete desiderato ardentemente l'istituzione del governo dei soviet e ora aspettate che esso venga a salvarvi. È inutile. Vi siete presi gioco degli ufficiali romeni e del loro esercito, quando siamo stati costretti a cedervi la Bessarabia. Finalmente siamo alla resa dei conti. Niente e nessuno vi salverà». L'ufficiale ordinò di fucilare le vittime, dieci per volta. li colonnello Tudose presenziò all'esecuzione ..... • Tu dose ern il direttore del carcere. li comandante, allora, era il colonnello Rudos. •• Gli ostaggi furono fucilati il 1° agosto.
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Non passò molto e il comandante del ghetto fece prelevare un consistente gruppo di persone da destinare alla costruzione di strade. Tra loro c'erano M.N. Jaroslavskij, gli avvocati E.P. Grobdruk e V.N. Zel'nik e altri. Li portarono alle cave di pietra di Gidigic. Durante il cammino li tormentarono in ogni modo, tirando loro addosso mozziconi di sigaretta, prendendoli a bastonate, sputando loro in faccia. Quei poveretti accennarono a protestare, ma furono duramente picchiati dai soldati della scorta. Molti ebbero costole e braccia spezzate, il sangue colò a fiotti. Tornarono al ghetto esausti, affamati e feriti. li giorno seguente furono condotti nuovamente fuori città e fucilati, tutti, più di trecento persone. Nel ghetto gli ebrei erano costretti a portare distintivi particolari, di colori diversi, che dovevano essere cambiati quotidianamente. Ogni volta era molto difficile sapere quale colore bisognasse portare, e chi commetteva anche la più piccola infrazione o distrazione veniva punito con il massimo rigore: veniva tramortito di botte. Nel ghetto non c'erano bagni pubblici e la gente doveva passare intere settimane senza lavarsi. A causa della costante denutrizione e delle precarie condizioni igieniche molti si ammalarono. Scoppiarono epidemie di tifo petecchiale, febbre tifoide e dissenteria. La mortalità nel ghetto era elevatissima, circa trenta persone al giorno. La comunità ebraica, a capo della quale c'era G.S. Landau, una personalità molto rispettata a Kisinev, decise di creare un ospedale. Ma quando stava per entrare in funzione, il comandante del ghetto fece requisire «per le necessità dell'esercito» letti, biancheria e medicine. Con i malati andarono per le spicce: li gettarono giù dai letti e strapparono loro gli abiti di dosso. La comunità aprì un nuovo ospedale. Il dottor Gorenbuch fu nominato direttore, il dottor G. Safir terapeuta, la dottoressa S.I. MicnikLandau, moglie del presidente della comunità, chirurgo, la dottoressa Berman internista. Gli abitanti del ghetto erano letteralmente condannati a morire di fame. Il comandante tedesco aveva proibito agli ebrei di comprare viveri prima delle undici, sennonché dopo quell'ora non si trovava più nulla. Non mancavano tuttavia contadini che, nonostante il notevole rischio, portavano da mangiare ai condannati. Mettendo a repentaglio la propria vita, Vera Platonovna Klimova rifornì il ghetto di generi alimentari: quella donna, umile e generosa, diede un grande aiuto ai reclusi. Di buon mattino romeni e tedeschi venivano a cercare uomini, donne e bambini per impiegarli in lavori domestici. A chi si trovava al loro servizio, però, i datori di lavoro non pagavano alcun salario e non davano da mangiare. Il comandante prendeva nota dei soggetti recalcitranti o insubordinati e si liberava di loro alla prima occasione: i «colpevoli» sparivano da un giorno all'altro. Alle otto di sera nel ghetto non c'era più segno di vita. Ai prigionieri era vietato abbandonare le loro abitazioni; i contravventori venivano fucilati sul posto.
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Di notte arrivavano ufficiali e soldati completamente ubriachi e la facevano da padroni: gridavano, violentavano le ragazze sotto gli occhi dei genitori, depredavano gli appartamenti e sparivano. Nel settembre del 1941 il genera le Antonescu impartì l'ordine, del tutto inatteso, di trasferire a poco a poco sull'altra sponda del Bug tutti gli ebrei del ghetto. Vicino alla stazione di Vistemigen, presso Ryskanovka, fu istituita una «postazione doganale», dalla quale dovevano passare tutti coloro che erano destinati al trasferimento. Chi giungeva a quella «dogana» doveva spogliarsi completamente: gli abiti venivano confiscati insieme a tutto il resto; poi si doveva mettere in marcia con i suoi compagni di sventura: non avrebbe mai raggiunto il Bug. Molti trovarono il riposo eterno nel bosco di Orhej, dove vennero picchiati a morte o fucilati; gli altri furono affogati nel fiume Reut. Durante il trasferimento degli ebrei ai campi di concentramento, simili massacri si verificavano con frequen7.a. Gli occupanti tedesco-romeni si divertivano poi a prendere la gente, debole e sfinita, e a legarla a un carro sul quale si trovavano degli alti funzionari con tutto il loro seguito. Costretta a trainare il carro qua e là, quella gente non sopravviveva a una simile tortura. Alcuni abitanti del ghetto riuscirono a fuggire in città e a riparare presso conoscenti non ebrei. Le autorità ne informarono immediatamente il comando supremo. Fu così che Antonescu diramò l'ordine che i cristiani sorpresi a nascondere ebrei fossero fucilati sul posto insieme ai loro protetti. Subito nella città iniziarono i saccheggi e la situazione si fece sempre più tesa. Il 23 ottobre, correndo notevoli rischi, I.F. Ludmer, una donna intelligente che aveva lavorato presso l'intendenza di finanza sovietica, riuscì a evadere dal ghetto. Si recò da una conoscente, Sofija Konstantinovna Kristi, in via Timirjasev. Sebbene in città le disposizioni di Antonescu fossero note, S.K. Kristi decise di salvare la Ludmer a ogni costo. Quest'ultima restò nascosta sette mesi presso la Kristi; vi furono giorni in cui non uscì per nulla di casa. La Kristi aveva ceduto i propri documenti d'identità alla Ludmer, che era così diventata ufficialmente una Kristi. L'onestà e l'altruismo della Kristi salvarono la vita a quell'ebrea. Il capo della comunità ebraica, G.S. Landau, si occupava dell'approvvigionamento degli ebrei reclusi nel ghetto, nonché della corretta ripartizione dei viveri e degli aiuti finanziari. Vettovaglie e denaro giungevano da Bucarest, poiché la comunità di quella città, sotto la guida del dottor W. Filderman, si era impegnata a sostenere il ghetto di Kginev. Un avvocato di Kisinev, A. Sapirin, si recava a Bucarest per ricevere gli aiuti. Ovviamente la cosa avveniva nella massima segretezza. Travestito da soldato, Sapi rin era condotto fuori dal ghetto senza dare nell'occhio e veniva scortato fino a Bucarest. L'ufficiale che aveva messo a disposizione di Sapirin gli uomini della scorta pretendeva in cambio una somma con-
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sistente. I militari non perdevano mai di vista !,apirin e lo seguiv,mo ovunque, per evitare che scappasse. I responsabili della comunità di Bucarest consegnavano tutto ciò di cui potevano privarsi all'inviato, che quindi rientrava a Kisinev. La comunità di Bucarest, tuttavia, aveva disponibilità limitate. Per ordine di Antonescu, la popolazione ebraica della Romania era tenuta a ver.-are insostenibili contributi. Tutti gli ebrl'i dovevano svolgere lavori di pubblica utilità, per i quali, naturalmente, non ricevevano alcun compenso. La miseria cresceva di giorno in giorno. Alla fine del 1941 Antonescu dispose la chiusura del ghetto di Kisinev. Tutti gli ebrei che vi erano rinchiusi dovettero trasferirsi nei lager dell'Ucraina. Era autunno inoltrato e faceva già piuttosto freddo. Ciononostante il nuovo comandante del ghetto, il capitano Parascivescu, eseguì l'ordine con rigore e crudeltà. Egli poté così vantarsi di aver ucciso di propriJ mano 4000 ebrei. I suoi soldati imperversavano, nel vero senso della parola. Scaraventavano senza pietà i pazienti giù dai letti, costringevano ad alzarsi le donne che avevano appena partorito, caricavano sui camion malati con la febbre a quaranta, separavano i bambini dai genitori. li presidente e i membri della comunità si appellarono alle autorità militari, scongiurandole di rivedere i metodi con cui veniva condotta l'evacuazione: Fu tutto inutile. Nel corso del trasporto sparirono 1200 persone. Erano state uccise. Una delle donne deportate a Balta, Ganja Kiperwasser, riuscì a tornare a Kisinev; riferì agli abitanti del ghetto non ancora trasferiti a Balta che dall'altra parte del Dncstr le strade erano disseminate di cadaveri. Sono morti nel ghetto: A.S. Goldenberg, direttrice del ginnasio femminile; J.W. Oxner, poeta di talento (il suo pseudonimo letterario era Jacques Noir); E.G. Babad, giornalista; la dottoressa L.S. Babiè; il dottor M.A. Talmaskij, insieme alla moglie, al fratello, lo studente P.A. Talmaskij, alla sorella, la studentessa R.A. Talmaskaja, e ai genitori A.I. e R.P. Talmaskij; il dottor S.E. Wasserman, radiologo, c~n la moglie, la figlia e i fratelli, rimasti anch'essi a Kisinev; il dottor G. Safir, con la moglie e il figlioletto; il dottor G.S. Jurkowskij; le famiglie degli avvocati G.F. e L.F. Siskis, con tutti i loro bambini; il dottor Helman, insieme alla moglie; il pittore N.M. Hess; gli avvocati E.P. Grobdruk, L.N. Zel'nik, A. Sapirin, quest'ultimo insieme alla moglie e alla figlia; P.I. Griinfeld, autore di compendi di letteratura nissa, insieme alla moglie e al fratello; la famiglia di G.M. Kresser, il cui ufficio di traduzioni in russo era rinomato in città (sopravvisse soltanto la stenodattilografa E.G. Krcsser); A.I. Koropatonicki; il vecchio medico LA Gisnfiner e suo fratello W.A. Gisnfiner con la famiglia; il giornalista S.E. Puterman, insieme a due sorelle; i dentisti N.O. Stejnberg-Rabinovic e figlio; L. e S. Weinstein, marito e moglie; I.J. Tetelman e la sua famiglia; Galperin e la sua famiglia; il vecchio dentista G.A. Levin, insieme alla moglie; S.G. Malamud; i cantori A.I. Cervinskij e Ch. Zipris; W.N. Weisman, con la moglie e i figli; J.N. Weisman, sua
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moglie e i loro figli; la vedova R.A. Levina, con i suoi bambini; S. Gamsa, insegnante, insieme alla moglie e ai figlioletti; L. Gon-nstein, con la moglie; il farm.:icista M. Roscnblatt; M.G. Grunspun, celebre scultore e filantropo; W.J. Solomonov, socio di cooperativa, con la figlia; l'ingegner A.M. Schwarzman; G.K. Lindenbaum, rappresentante della banca municip.:ile di Kisinev, insieme alla moglie; e molti, molti altri. La dottoressa S.I. Miènik-Landau racconta che, circa tre giorni dopo il loro arrivo in città, gli agenti della Gestapo eliminarono gran parte degli intellettuali ebrei. Arrestarono gli avvocati Aron Roitman e Kleiman, il dottor Kraminskij, l'avvocato Pinè'evskij, il dottor Korimskij, i dottori Milgrom, Miè'ehin, Kaufmann, Markov, Land, Blank ed Efrusi, gli avvocati J.M. Sluckij e Rirkelman. Furono consegnati tutti alla Securitate, che li trattenne qualche ora e li rimise in libertà. Fu detto loro di correre via, ma appena accennarono ad andarsene, furono falciati a colpi di mitra. Non se ne salvò nemmeno uno. Numerosi intellettuali di Kisinev non superarono le traversie che li colpirono nel fisico e nel morale: di fronte all'impossibilità di difendersi dalle crudeltà e dagli arbitri di cui erano fatti segno nel ghetto, posero fine essi stessi ai propri giorni. Tra gli altri, il capo della comunità G.S. Landau, la dottoressa Gifeisman, il dottor W.B. Patin con la moglie, il dottor Singer con la moglie, anche lei medico, la dottoressa S.J. FleksorChasan-Erlich con il marito, di professione agronomo, le dottoresse B.P. Abramova-Vojnova e Sofija Isaakovna Grunfeld, e altri ancora. Secondo guanto accertato dalla commissione cittadina che ha svolto l'inchiesta sugli infami delitti perpetrati dalle squadre tedesco-romene a Kginev, 9299 cittadini sovietici furono messi ai lavori forzati, 879 fucilati al cimitero ebraico, 350 in corso Strasenskij, 2015 in via Prunkulovskaja e 519 in via Sadovaja. Nel ghetto furono uccisi 15.000 cittadini sovietici. La commissione cittadina per l'accertamento delle atrocità compiute dai fascisti ha compilato un elenco dei barbari tedesco-romeni e dei loro complici, responsabili di questi crimini e di queste crudeltà: 1) Antonescu, Ion: maresciallo generale e comandante in capo delle forze armate fasciste, organizzatore delle esecuzioni di massa e dello sterminio di cittadini sovietici e prigionieri di guerra. 2) Alexianu: professore, governatore, organizzatore di esecuzioni di massa. 3) Dumitrescu, Petre: generale, comandante dell'esercito fascista. 4) Ciuperka, N.: generale di corpo d'armata, comandante di distretto militare. 5) Raika-Goria: tenente colonnello, giudice istruttore militare, sostituto procuratore. 6) Chirulescu, Emi!: capitano, giurista, sostituto procuratore militare. 7) Arbore, I.: generale di brigata, capo di stato maggiore. 8) Tudose: direttore carcerario; dispose l'esecuzione di cittadini sovietici, fece torturare esseri umani e seppellire persone ancora in vita.
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9) Pogota, Fedor: tenente colonnello, presidente del tribunale militare. 10) Cosma, Ion: maggiore, giurista, sostituto procuratore militare. 11) Radoga: capitano, sostituto procuratore. 12) L..adesco: maggiore, aiutante del presidente del tribunale militare (questi ultimi quattro sono responsabili di condanne a morte, sevizie e fucilazioni ai danni di cittadini sovietici). 13) Popescu, Luca: capitano, capo della quarta sezione di polizia nella città di Kisinev; dispose l'arresto e la tortura di cittadini sovietici. 14) Lucescu: direttore carcerario; dispose l'arresto e la tortura di cittadini sovietici. 15) Barba lici: capo delle guardie carcerarie; torturò e umiliò i detenuti. 16) Munteanu: maggiore; umiliò i detenuti e dispose l'esecuzione di cittadini sovietici. 17) Dumitrescu: tenente colonnello, comandante del ghetto, responsabile di inumane torture inflitte ai reclusi e della fucilazione di cittadini sovietici. 18) Dardan, K.N.: sostituto procuratore generale; dispose esecuzioni di massa di cittadini sovietici, specialmente tra la popolazione ebraica. Dardan è originario della Bessarabia ed è stato a lungo sostituto procuratore del tribunale di Kisinev. 19) Jonka: sostituto procuratore generale; colpevole degli stessi crimini commessi da Dardan. 20) Catulician: commissario aggiunto, organizzatore di torture e trattamenti degradanti. 21) Pokno: sostituto procuratore; dispose l'esecuzione di cittadini sovietici. 22) Parascivescu: capitano di gendarmeria; torturò i detenuti. 23) Marinescu: sostituto procuratore militare. 24) Vasilescu: sostituto procuratore. 25) Minevici: direttore carcerario. 26) Golitev, Ivan: commissario della Securitate. 27) Morarnu: commissario della Securitate. 28) Dumitrescu: commissario di polizia. 29) lonescu: commissario di polizia. 30) Stoiko: commissario di polizia. 31) Borodin: sostituto procuratore della Securitate. 32) Iogan, Fedor: tenente colonnello, presidente del tribunale. 33) Pogolitan: capitano, sostituto procuratore. 34) Beiu: sostituto procuratore. 35) Constantinescu: segretario del tribunale militare. 36) Mazilo, Ivan: capo del carcere militare. Tutti costoro sono accusati di essere diretti responsabili di torture, maltrattamenti ed esecuzioni ai danni di cittadini e prigionieri di guerra sovietici del tutto innocenti. L. Bazarov
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IL GHETTO DI MINSK
L'8 giugno 1941 lc vie di Minsk rimbombavano del frastuono dei corazzati tedeschi. Erano rimasti a Minsk circa 75.000 ebrei (contando anche i bambini), che non erano riusciti a lasciare la città. La prima ordinanza ingiungeva, sotto pena di morte, che tutti i maschi dai quindici ai quarantacinque anni si recassero agli uffici per farsi registrare. Il 7 luglio 1941 i tedeschi fecero irruzione negli appartamenti, presero i primi uomini che capitarono loro tra le mani, li caricarono sui camion e li portarono via. L'indomani fu emanata una seconda ordinanza, in cui si rendeva noto che nella città e nella regione di Minsk erano stati fucilati cento ebrei a causa dei loro rapporti con i bolscevichi. Non appena i tedeschi occuparono la città, iniziarono gli atti di violenza: saccheggi, maltrattamenti, fucilazioni indiscriminate. Cli ebrei in particolare erano sottoposti a ogni genere di umiliazione. In un grande edificio, al 21 di via Mjaznikov, abitavano oltre trecento persone. La mattina del 2 luglio 1941 la casa fu circondata. Cacciarono in cortile gli inquilini - gli adulti, i vecchi e persino i bambini - senza dare loro alcuna spiegazione e li misero in fila, faccia al muro. Un commando di quaranta uomini li costrinse a rimanere in quella posizione per sei ore, mentre negli alloggi, con il prestesto di una perquisizione per cercare armi, venivano requisiti vestiti, biancheria, coperte, calzature, stoviglie e viveri. Il bottino fu caricato su due camion e portato via. Soltanto quando il saccheggio fu terminato, la gente venne rilasciata e, terrorizzata, se ne poté tornare nei propri appartamenti. Di notte i tedeschi si rifecero vivi, in gruppi di quattro o cinque, per proseguire la loro opera di devastazione. Visitarono i Creiver, i Rapoport e i Kleonski, intimando loro di consegnare ciò che era rimasto. «Qui c'erano dei cucchiai d'argento ... Dove s~1no gli abiti? Dov'è finita la seta?» urlavano quei banditi. Sempre in via Mjaznikov c'era un altro grande edificio, che ospitava una scuola, e poiché le sue finestre davano sul cortile di un condominio, era possibile vedere l'interno degli appartamenti di fronte. I tedeschi ac-
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quartierati nella scuola decisero di procurarsi un po' di svago e di divertirsi a spese degli inquilini. Passarono intere giornate a tirare al bersaglio dalle finestre della scuola, mirando a specchi, mobili e persone. Obbedendo all'ordinanza di cui si è detto, la popolazione andò a farsi registrare. Erano centinaia, migliaia di persone. Furono portati nel lager di Drozdy, umiliati e picchiati, bielorussi, russi ed ebrei, senza distinzioni. I russi furono rilasciati dopo breve tempo, mentre gli ebrei dovettero rimanere nel lager. Vennero divisi in due gruppi, gli intellettuali e i manovali. I primi furono caricati su dei camion, portati via e trucidati con i mitra: in tutto circa 3000 persone, tra cui diversi esponenti di rilievo dell'intellighenzia, come l'ingegner Eisenberg, l'ingegner Pritykin e il matematico Priklad, docenti dell'istituto politecnico, e molti altri. Il secondo gruppo, formato essenzialmente da operai specializzati, fu riportato in città sotto stretta sorveglianza e rinchiuso in prigione. Mentre passavano per le strade, donne e bambini corsero loro incontro per cercare parenti e amici; le guardie non esitarono ad aprire il fuoco. Una colonna transitò per via Kommunalnaja. Nella speranza di vedere il padre, la figlia quattordicenne di Syskin aprì la porta e si fermò a guardare: uno sparo, e la ragazza cadde a terra priva di vita. Ecco come un partigiano, il compagno Greèanik, descrive ciò che la popolazione maschile di Minsk ha passato nel lager di Drozdy. «Quando la nostra colonna si trovò a circa un chilometro dalla città, i tedeschi ci fecero fermare e ordinarono: "Chi ha con sé coltelli, orologi e rasoi li metta nel suo berretto e li consegni". I più obbedirono, ma i meno sprovveduti nascosero sia orologi sia rasoi. Molti li sotterrarono, pur di non consegnarli ai tedeschi. Ci fecero rivoltare le tasche, presero gli oggetti riposti nei berretti e perquisirono i nostri zaini. Il campo era circondato da sentinelle. Continuavano ad arrivare nuovi gruppi di pri· gionieri. All'aperto di notte faceva freddo. Ci stringemmo gli uni agli altri per scaldarci. Passammo cosl la nostra prima notte al campo. Giun· se il mattino e il nostro numero si era notevolmente accresciuto. Non ci davano nulla da mangiare. La gente chiedeva acqua, ma non ci davano nemmeno quella. E anzi, appena la gente domandava qualcosa, i tedeschi si mettevano a sparare. Così anche la giornata se ne andò e comin· ciò la seconda notte. Ce ne stavamo lì, affamati e infreddoliti, qualcuno ben coperto, altri in camicia. Si fece giorno. La gente continuava ad affluire. Si avvicinò un tedesco con un secchio e distribuì un po' d'acqua. I prigionieri gli si accalcarono attorno, stavano quasi per farlo cadere, allora le sentinelle, quei mostri, spararono nuovamente sulla folla. «Terzo giorno. La gente aveva fame. Era ormai mezzogiorno. Il cielo era sereno e faceva caldo. A un certo punto fece la sua comparsa un uffi· ciale, seguito da un interprete, e annunciò che dalle dieci alle sedici sa· rebbe stato concesso ai parenti dei reclusi di entrare nel campo per portare i viveri. In lontananza si scorgevano donne con dei cesti e bambini
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con delle bottiglie d'acqua. Ma non li lasciarono passare subito, prima li fermarono per controllare che cosa portavano. C'era molto rumore. Ogni prigioniero cercava di raggiungere una donna o un bambino. La gente si rinfrancò un poco. Chi era riuscito a prendere qualcosa da mangiare lo divideva con chi non aveva avuto niente e consumava la sua parte in un attimo. li mormorio cresceva; tutti chiedevano dell'acqua ai bambini. I piccoli accorrevano e così la gente poteva finalmente dissetarsi. Alcune donne, però, scoppiarono in lacrime. Quando fu chiesto loro perché piangessero, risposero: "I nostri mariti e i nostri figli non sono qui, vuol dire che li hanno già uccisi". «Il giorno volgeva al termine. Le donne e i bambini furono allontanati. Scese la quarta notte.• Ci distendemmo sul campo. Udimmo dei passi, le grida dei tedeschi, dei colpi di fucile. I tedeschi portarono al campo dei prigionieri dell'Armata Rossa. Non permisero loro di venire a contatto nin i civili. Mattino del quarto giorno. I soldati dell'Armata Rossa volevano avvicinarsi ai civili, ma quei pochi che ci provarono furono subito fucilati. Nell'arco della giornata ne furono uccisi oltre una decina. Ricomparvero le donne, con il cibo e l'acqua. Anche il quarto giorno passò e giunse la quinta notte. Appena cominciò a fare buio, da ogni parte del campo i militari dell'Armata Rossa iniziarono a muoversi verso i civili. I tedeschi spararono, ma i soldati dell'Armata Rossa non se ne curarono. Corsero da noi e si gettarono a terra. Offrimmo loro pane, acqua e sale. Così i civili trascorsero un'intera nottata, sino all'alba, insieme ai militari. Poi i soldati prigionieri tornarono indietro, sotto il fuoco dei tedeschi. Iniziava il quinto giorno. Il cielo era grigio. Continuava ad arrivare nuova gente, civili e militari. D'un tratto comparve una lunga colonna. Le persone erano vestite più o meno come noi; avevano sacchi e fagotti. Ci mettemmo a parlare con loro. Dissero che venivano dall'ovest, incalzati dall'avanzata dei tedeschi. Avevano lasciato per strada molti caduti. «Riapparvero le donne con le provviste. Alcune ci diedero degli impermeabili. Improvvisamente iniziò a piovere. Faceva freddo ed eravamo fradici. La gente se ne stava a terra. Il giorno finì e cominciò la sesta notte. Con il buio i soldati dell'Armata Rossa si unirono nuovamente a noi. I tedeschi spararono sulla folla. Improvvisamente si udirono ancora delle grida. Preso come noi tutti dalla fame, qualcuno aveva tagliato la sacca di un tizio, ne aveva cavate delle fette biscottate e le aveva mangiate. Sfruttando lo scompiglio provocato da quell'incidente e dal rumore de~li spari, circa cinquanta uomini riuscirono a trascinarsi al limite del campo e a scappare. Quando i tedeschi se ne accorsero aprirono il fuoco con i fucili, ma a causa dell'oscurità riuscirono a colpire solo tre dei fuggiaschi; gli altri si dileguarono. Passò così la sesta notte. • Da qui in poi, il computo della sequen7.a dei giorni e delle notti risulta quanto mai impreciso. (NJn
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«Iniziò il settimo giorno. Quel mattino pioveva. [Do lontono vedemmo avanzare le donne e i bambini. Attendevamo con impazienza. Erano già le dieci, ma i tedeschi non permetfevano o nessuno di entrare e ricacciavano tutti indietro. A quel punto scorgemmo uno colonna muovere in direzione del campa. Ero formato da persone in obiti civili, in pessimo stato, o/cune camminavano a piedi nudi. Quando si trovarono o/l'altezza delle donne che erano venufe o portore da mangiare ai parenti, udimmo delle urlo. Si erano owentoti sulle donne e sui bambini per stroppare loro i cesti. I tedeschi mondarono le donne o cosa e spinsero quello gente nel campo, nello zona dei civili. Solo alloro realizzammo di chi si trottavo: erano detenuti che il regime sovietico avevo condannato oi lavori forzati e ai compi di rieducazione. Poi] vedemmo avanzare da lontano un reparto di agenti della Gestapo, in moto, in bicicletta, sugli automezzi e a piedi. Vennero verso di noi; sentimmo l'ordine: "In fila per qunttro!". Impugnarono i manganelli e ci picchiarono. Prima furono messi in riga i prigionieri di guerra, poi gli altri. Ci fecero uscire dal lager e camminare per i campi per oltre due chilometri. Per terra, lungo il percorso, c'erano dei feriti che urlavano e gemevano, ma non fu permesso a nessuno di lasciare la colonna per soccorrerli. Ci accampammo nei pressi del fiume Svisloc'. l soldati da un lato, i civili dall'altro. Così si concluse anche quella giornata. «L'ottava notte era cominciata. Stavamo distesi al suolo. I tedeschi ci avevano ingiunto di non alzarci, altrimenti avrebbero sparato. Una mitragliatrice aprì ripetutamente il fuoco, poi udimmo gridare: "Lo hanno ucciso!". Avevano mirato alle persone che si erano alzate per fare i propri bisogni e un uomo era stato colpito: un proiettile gli era entrato nella schiena ed era uscito dall'altra parte, trapassandogli l'intestino. Era ancora vivo e chiedeva che qualcuno prendesse nota del suo indirizzo per comunicare a sua moglie e ai suoi figli come era stato ucciso. Allora si avvicinò un tedesco e domandò divertito: "Chi gli ha dato una coltellata nel ventre?". Terminò così l'ottava notte. «Nono giorno. Potemmo smettere di mendicare un sorso d'acqua: il fiumiciattolo ci offrì tutta quella di cui avevamo bisogno. ln piedi sulla riva c'era un tedesco, che ci permise di bere, a turno. Sentimmo sopraggiungere un'auto. Il traduttore urlò alcuni nomi con il megafono. Nomi di medici, cuochi, operai specializzati del pastificio statale, elettricisti e idraulici. Li invitò ad avvicinarsi alla vettura, promettendo che se fossero stati disposti a lavorare, sarebbero potuti tornare a casa. «Si avvicinò al campo un'altra automobile, nella quale c'erano dei tedeschi con una cinepresa. Gettarono delle fette biscottate ai prigionieri di guerra, che ovviamente levarono le braccia per cercare di prenderle al volo. La scena fu filmata. All'improvviso si udirono alcune raffiche di mitra: dall'auto un ufficiale sparava alle mani dei soldati dell'Armata Rossa che cercavano di afferrare il cibo. L'ufficiale scese dalla vettura e ispezionò le mani. Separò coloro che risultavano feriti di striscio da quelli che avevano le mani fratturate dai proiettili. Bendò i primi e fu-
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cilò i secondi sotto gli occhi di tutti. Fece consegnare dei badili ai prigionieri e comandò loro di seppellire i morti. «Cominciò la decima notte. Era buio pesto. I militari dell'Armata Rossa ci raggiunsero nuovamente. Approfittando del rumore delle voci e degli spari, molti di loro, circa trecento, riuscirono a guadagnare l'altra sponda del fiume, dove iniziava la boscaglia. All'improvviso da quella riva giunse l'eco di uno sparo. Su tre lati si accesero i fari, che illuminarono la gente e il fiume; poi le mitragliiltrici aprironn il fuoco. Sentimmo le pallottole passare sopra le nostre teste e cercammo di schiaccinrci al suolo. Chi aveva guadagnato un dnsso, si affrettò a scendere carponi. Frattanto, però, quasi tutti i fuggiaschi erano riusciti a passare il fiume e a sparire nel bosco. Soltanto due di loro erano stati colpiti e non ce l'avevano fatta. Cessò il fuoco e i fari si spensero. I prigionieri tornarono al loro posto. La notte finì. «Cominciò l'undicesimo giorno. li tempo era brutto. Erano arrivati degli ufficiali. Vòlevano parlarci. le guardie ristabilirono l'ordine. Sull'altra riva del fiume c'era una sentinella seduta che si bagnava i piedi. D'un tratto udimmo il rombo di un aeroplano e poi alcune esplosioni. La sentinella prese gli stivali e si ritirò nel bosco. Gli ufficiali s'infilarono nell'auto e partirono senza averci potuto parlare. Tutti avevano visto la sentinella raccattare gli stivali e darsela a gambe, e ci fu una risata generale. le donne erano tornate. Portavano viveri e biancheria, e qualcuna anche vestiti pesanti. li giorno vnlgeva al termine. «Dodicesima notte. 1 prigionieri di guerra vennero nuovamente da noi e offrimmo loro qualcosa da milngiare. Molti indnssarono abiti civili e rimasero con noi. Così passò anche quella notte. «Tredicesimo giorno. Erano già le dieci, ma i tedeschi non permettevano alle donne di avvicinarsi. Snpraggiunse un'automobile; ci venne annunciato che i polacchi dovevano sistemarsi a sinistra e i russi a destra. Per gli ebrei fu preparato uno spiazzo, delimitato da alcune corde, vicino al fiume. La gente si divise. «Era pieno di tedeschi con i manganelli: spingevano gli ebrei oltre le corde e li bastonavano. Chi opponeva resistenza veniva picchiato a morte o fucilato. Poi dall'auto ci avvisarono che ci avrebbero rimessi in libertà. Prima i polacchi, poi i russi; a proposito degli ebrei, però, non dissero niente. Iniziarono a rilasciare i polacchi. Intanto il giorno era terminato. «Quattordicesima notte. Era buio e faceva freddo. I prigionieri di guerra corsero da noi. I tedeschi aprirono il fuoco. Improvvisamente dall'altra riva sentimmo una sequenza ininterrotta di spari. Interrogammo i soldati prigionieri. Ci risposero: "Sono i tedeschi che fucilano i commissari politici e gli ufficiali". Gli spari continuarono tutta la notte. «Quindicesimo giorno. Al mattino pioveva. Le donne comparvero un'altra volta e le guardie ne controllarono i cesti: contenevano delle provviste. Una parte di quei viveri fu sequestrata e le donne ottennero il permesso di entrare nel campo. Fu loro indicato dove dirigersi. Alcune
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cercarono i propri parenti, ma non li trovarono: erano stati uccisi il giorno prima. Le donne si allontanarono, in lacrime. Faceva un po' più caldo. Vicino al fiume c'era un tedesco che impediva a chiunque di attingere acqua. Chi ci provava, veniva spinto nel fiume e costretto a immergersi tre volte prima di poter attingere l'acqua. I prigionieri si avvicinavano, il tedesco ordinava loro di tuffarsi e li scherniva. Nel campo il numero dei polacchi era diminuito. Passò anche la giornata. «Sedicesima notte. Era buio e pioveva. I soldati dell'Armata Rossa tornarono a trovarci. Offrimmo loro da mangiare e molti si misero in abiti civili. « Terminò anche quella notte, sotto una pioggia battente. «Diciassettesimo giorno. Alle dieci del mattino giunse un'auto con a bordo l'interprete. Fu dato l'annuncio che tutti gli ingegneri, i medici, i tecnici, i contabili e gli insegnanti ebrei, tutti gli intellettuali ebrei, insomma, dovevano farsi registrare. Sarebbero stati rilasciati e mandati a lavorare. Le pratiche ebbero inizio. Si trattava di registrare circa 3000 persone. Più tardi saremmo venuti a sapere che gli intellettuali erano stati fucilati. Tornarono le donne con i viveri. C'era un forte acquazzone. Eravamo tutti inzuppati. Qualcuno si stava radendo. Un gruppo di donne si strinse attorno a tre uomini ben rasati. Questi ultimi indossarono ampie vesti femminili, presero sottobraccio le donne anziane e, reggendo cesti di piselli, si avviarono verso l'uscita. Il soldato di guardia non si accorse di nulla. La gente guardava con il fiato sospeso. Gli uomini travestiti oltrepassarono la soglia del campo e tutti tirarono un respiro di sollievo. Evasero così circa venti persone. Intanto tutti gli intellettuali erano stati registrati. Furono allineati e separati dagli operai. Quindi toccò a questi ultimi farsi registrare. Cominciava a imbrunire. Nel campo erano rimasti solo gli ebrei e i prigionieri di guerra. All'improvviso si udì uno sparo. Una guardia aveva riconosciuto un uomo travestito da donna e aveva aperto il fuoco. Allora i tedeschi si scatenarcmo: si precipitarono verso gli ebrei impugnando i manganelli. Cercarono i rasoi e requisirono tazze, orologi e calzature in buono stato. Spinta a destra e a sinistra, la gente tentò di gettare rasoi e oggetti di valore nel fiume senza farsi sorprendere. Così finì la giornata. «Diciottesima notte: buio e pioggia. I prigionieri di guerra tornarono da noi, ma questa volta non si cambiarono d'abito, perché gli unici civili rimasti erano ebrei. Questi ultimi diedero loro da mangiare. I soldati dell'Armata Rossa restarono con noi; ci scaldammo a vicenda. Nell'oscurità sentimmo avvicinarsi degli automezzi. I militari prigionieri riguadagnarono il loro settore. I camion puntarono verso gli intellettuali, che furono caricati e portati via, a lavorare, fu detto loro. Ora sappiamo di che lavoro si trattava. Dalla partenza degli automezzi trascorsero circa venti minuti, poi si udirono raffiche di mitra. Dopo altri quindici minuti i camion fecero ritorno e caricarono il secondo scaglione. E così, a poco a poco, tutti gli intellettuali furono allontanati. Al sorgere del sole
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arrivò un ufficiale. Scelse duecento operai. Li mandò a piedi "a lavorare" e annunciò: "Domani tutti gli ebrei saranno trasferiti. Nel luogo in cui li porteremo fa caldo e non piove. Vi faremo attraversare la città. Riferite alle vostre mogli, ai vostri parenti e ai vostri amici che chiunque cercherà di avvicinarvi sarà fucilato insieme a voi". Cominciarono a condurre fuori dal campo un primo gruppo di prigionieri di guerra. Giunsero le donne con le provviste. Molte piangevano: i loro congiunti, i loro mariti e i loro figli non c'erano più. Comunicammo alle donne che l'indomani ci avrebbero fatto attraversare la città e che non dovevano tentare di avvicinarci, perché altrimenti sarebbero state fucilate. Tornarono a casa in lacrime. Quello fu il nostro ultimo giorno a Drozdy. «Diciannovesima notte. I prigionieri di guerra furono evacuati dal campo alla luce dei fari degli automezzi. Per tutta la notte continuarono a partire soldati dell'Armata Rossa. Rimasero solo gli ebrei. L'indomani arrivò un drappello di agenti della Gestapo, con le loro cravatte di seta rossa. Ci incolonnarono e ci portarono via, noi, gli ebrei più umili. Ai bordi della strada che conduceva alla prigione c'erano delle sentinelle. Ci condussero sino all'ingresso della prigione. Gli uomini della Gestapo aprirono il portone. Entrammo nel cortile. U portone si richiuse alle nostre spalle.» Gli operai trascorsero alcuni giorni in carcere, poi una parte fu rilasciata e inviata al lavoro, l'altra portata fuori città con i camion e giustiziata. Su disposizione delle autorità tedesche l'intera popolazione ebraica fu obbligata a farsi registrare presso un Consiglio ebraico (Judenrat) istituito per l'occasione. La medesima ordinanza stabiliva che, all'atto dell'imminente trasferimento, gli ebrei non registrati sarebbero stati esclusi dall'assegnazione degli alloggi. Nel corso della registrazione venivano annotati nome, cognome, età e recapito. Il Consiglio ebraico era stato creato nel modo seguente: la Gestapo aveva fermato per strada dieci uomini a caso e li aveva portati nella sede dell'amministrazione cittadina, dove aveva spiegato loro: «Voi siete il Consiglio ebraico e perciò siete tenuti a eseguire tutti gli ordini impartiti dalle autorità tedesche. La minima insubordinazione sarà punita con la morte». Quale presidente del Consiglio fu scelto Il'ja Muskin,.. già vicedirettore dell'Ufficio per il commercio dei prodotti industriali di Minsk. ll 15 luglio 1941 la registrazione era conclusa. Fu allora che agli ebrei venne ingiunto di cucire sugli abiti due toppe gialle di determinate dimensioni (10 centimetri di diametro), una sul petto e una sulla schiena, pena la morte. Gli ebrei si videro vietare l'accesso alle vie centrali della città. In tutte le altre strade fu loro proibito camminare sui marciapiedi. • Informazioni sulla vita e sulle attività di ll'ja Mui\kin si trovano in Eberhard Jackel, Peter Longerich e Julius Schocps (a cura di), EnzyklopiiJie J,'S Holoca11sl. Die Verfolg11ng ll11J Er111orJ11ng Ja r11n1piiiscl11·n /11J1•n, Berlin, 1993, voi. II, p. 971.
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Non era consentito salutare conoscenti che non fossero ebrei. Infine le autorità tedesche ordinarono la creazione di un ghetto. Aglì ebrei fu inoltre richiesta una contribuzione, da versare in oro, in argento, in obbligazioni su determinati prestiti di stato,. o in valuta sovietica. Grandi masse di ebrei lasciarono i quartieri dove avevano sempre vissuto, abbandonarono i loro alloggi, i loro mobili, i loro averi, prendendo con sé soltanto lo stretto necessario. Non disponevano di mezzi di trasporto e si caricarono sulle spalle quel poco che riuscirono a portare. Come nuovi alloggi furono assegnati loro spazi di 1,5 metri quadrati per persona (senza tener conto dei bambini). Il trasferimento fu accompagnato da una serie di vessazioni: il ghetto venne circoscritto entro un'area ben precisa, ma non appena la gente riuscì a trovarvi sistemazione, fu emanato un nuovo ordine che sottraeva al ghetto alcune vie e ne aggiungeva altre. Per due intere settimane, dal 15 al 31 luglio 1941, gli ebrei dovettero sopportare simili angherie e spostarsi da un posto all'altro. 111° agosto 1941 il trasferimento ebbe termine. Le coppie miste dovevano regolarsi così: se il padre era ebreo, i figli dovevano seguirlo nel ghetto, mentre la madre rimaneva in città; se il padre non era ebreo, i figli si trattenevano con lui in città, mentre la madre doveva andare nel ghetto. Vi fu il caso di un professore[, Afonskii], un russo che aveva sposato un'ebrea, il quale riuscì a riscattare la moglie al comando tedesco. La donna sarebbe potuta ritornare a vivere in città, fuori del ghetto, con il marito e la figlia a condizione che si fosse fatta sterilizzare. L'intervento fu effettuato dal professor Klumov, sotto il controllo dei tedeschi. Ma si trattò di un'eccezione. Il professore disponeva di un cospicuo tesoro di monete d'oro, che consegnò ai tedeschi insieme alla somma ricavata dalla vendita di tutti i suoi beni. Il ghetto di Minsk comprendeva via Chlebnaja, vicolo Nemigskij, parte di via Republikanskaja e di via Ostrovskij, piazza Jubilejnaja, parte delle vie Obuvnaja, Sornaja e Kollektornaja, il secondo vicolo Opanskij, via Fruktoeaja, via Techniceskaja, via Tankovaja, via Krimskaja e qualche altra strada. Tutte queste vie erano isolate dal centro, dalle ditte di commercio e dalle industrie. In compenso, nel territorio del ghetto era incluso il cimitero. li ghetto era recintato con ben cinque barriere di filo spinato. Chi provava a spingersi oltre gli sbarramenti, veniva ucciso. Ogni contatto con la popolazione russa era punito con la fucilazione. Pena la morte, agli ebrei era proibito svolgere attività commerciali e comprare generi alimentari. [Il rischio della pena capitale entrò a far parte della vita quotidiana degli ebrei.] • Nell'Unione Sovietica erano stati introdotti prestiti di s!Jto destinati a sovwnzionare il processo d'industrializzazione. A tali prestiti operai e impiegati destinavano, sovente in ottemperanza a impegni assunti collctti\'amente, una determinala perct·ntuale del loro stipendio.
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La famiglia di un operaio di nome temo era costituita da sei persone: due adulti e quattro bambini in tenerissima età. La moglie di temo, Anna, non riusciva più a sopportare lo strazio dei figlioletti, tormentati dalla fame. Si spinse oltre il filo spinato per chiedere aiuto ad alcuni amici. Sulla via del ritorno fu fermata dai poliziotti, che le confiscarono tutto ciò che aveva con sé, la portarono in prigione e la fucilarono. La stessa sorte toccò a Rosalija Taubkina, che aveva oltrepassato le recinzioni per incontrare i parenti russi. Non appena il ghetto fu chiuso con il filo spinato, ebbero inizio i saccheggi e le violenze. Giorno e notte i tedeschi entravano nel ghetto, in auto o a piedi; irrompevano nelle abitazioni degli ebrei e la facevano da padroni; non avevano limiti: rubavano e requisivano a loro piacimento. Durante quelle scorribande la gente veniva picchiata, umiliata e non di rado assassinata. Di notte le case degli ebrei erano prese d'assalto e i loro occupanti venivano uccisi. Si trattava di omicidi particolarmente efferati: alle vittime venivano cavati gli occhi, tagliate la lingua e le orecchie, fracassato il cranio. Le zone più colpite erano via Sevèenko, via Selenaja, via Saslavskaja, via Sanitamaja, via Somaja e via Kollektornaja. Gli ebrei si barricavano in casa: installavano doppie porte, lucchetti d'acciaio e, quando quei banditi bussavano, non rispondevano. Organizzarono anche pattugliamenti e squadre di autodifesa. Ma la ragione delle armi finiva sempre per avere il soppravvento; porte e finestre venivano sfondate e i banditi penetravano nelle abitazioni. I tedeschi entrarono nell'alloggio della dottoressa Esfir Margolina, malmenarono gli occupanti e uccisero due persone. La Margolina, raggiunta da quattro proiettili, rimase gravemente ferita. In vicolo Saslavskij, la famiglia Kaplan fu sottoposta a lunghe, crudeli torture: al padre cavarono gli occhi, alla figlia recisero le orecchie, agli altri fracassarono il cranio; alla fine spararono a tutti... In via Simkaja c'era un campo in cui ebrei e prigionieri di guerra russi erano costretti a svolgere lavori pesantissimi. Gli ebrei venivano obbligati a portare sabbia e argilla da un posto a un altro e poi di nuovo indietro, oppure a scavare la terra senza badili. A chi lavorava venivano dati duecento grammi di pane e dell'acqua torbida, spacciata per zuppa. La guardia bianca• Gorodeckij, un ladro, un bruto, un assassino, fu nominato a un tempo comandante del campo e sovrintendente del ghetto. Uno dei medici più eminenti della Repubblica socialista sovietica di Bielorussia, il professor Siterman, non aveva fatto in tempo a fuggire da Minsk. Quando Gorodeckij e la Gestapo vennero a conoscenza del luogo in cui abitava, per il professore ebbe inizio un autentico calvario. Corodeckij entrò in quella casa, requisì tutto ciò che gli piacque e riempì di • Espont>nte delle forze antibolsceviche durante la guerra civile seguita alla rivoluzione d'Ottobre. Qui vale reazionario. (NJT)
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botte il vecchio. Poi toccò alla Gestapo, che prese il professor Siterman e lo costrinse a svolgere i lavori più sporchi e degradanti: lo obbligò a pulire gabinetti e latrine con le mani. Nell'agosto del 1941 fecero entrare Siterman in un gabinetto, gli misero in mano una vanga e lo fotografarono. Una volta dovette ml'ttl'rsi a quattro zampe in mezzo al ghetto; gli misero un pallone sulla schiena e gli scattarono altre fotografie. Qualche giorno dopo lo portarono via con un'automobile, «a una riunione accademica», dissero ai parenti. Nessuno più lo rivide. I registri del dipartimento per il lavoro del Consiglio ebraico contenevano i nomi di tutti gli uomini del ghetto; per questo il dipartimento veniva anche chiamato «borsa del lavoro». Procacciava lavori pesanti presso cantieri militari o nel campo di via ~irokaja. Il 14 agosto si diffuse la voce che gli uomini sarebbero stati portati via. E infatti una parte del ghl'tto fu circondata e molti uomini furono caricati sui camion. La Gestapo spiegò che sarebbero stati inviati a lavorare in cantieri militari. Ma ciò che per la Gestapo si chiamava «lavoro», in tutte le altre lingue si chiamava morte. Il 26 agosto, alle cinque del mattino, numerosi automezzi entrarono a gran velc;cità nell'area del ghetto. Ne scesero agenti della Gestapo, che si precipitarono nelle abitazioni degli ebrei gridando: «Uomini!». Radunarono tutti gli uomini in piazza Jubilejnaja, li picchiarono e li portarono via. Il 31 agosto l'incursione si ripeté. Il ghetto fu nuovamente circondato dagli automezzi. Questa volta, però, furono arrestati non solo gli uomini, ma anche una parte delle donne. Intanto le abitazioni degli ebrei venivano saccheggiate. Gli ebrei catturati nel corso delle tre incursioni furono tradotti in carcere e fucilati (circa 5000 persone). I tedeschi miravano a diffondere il panico tra gli ebrei, a renderli incapaci di pensare e di agire, a fare sorgere in loro l'impressione che tutto fosse perduto e che non esistesse via di scampo. E invece, nell'agosto del 1941 gli ebrei cominciarono a raccogliere le proprie forze per organizzare la resistenza. I comunisti rimasti a Minsk si accordarono per convocare una consultazione di partito per la fine di agosto. U gruppo si incontrò in via Ostrovskij n. 54. Alla riunione presero parte, tra gli altri, Weinhaus, membro del Consiglio dei commissari del popolo della Bielorussia, Schnitman, Cheimovic e Fel'dman, impiegati nell'industria tessile di Minsk, e Smolar, membro dell'Unione degli scrittori sovietici.• Durante la consultazione fu decisa la creazione di un'organizzazione • Su Hersh Smolar (Smoliar, Smoljar) le edizioni Tarbut e lnterbuk riportano la nota che segue: "Smolar lavorò a Bialystok, nella locale agenzia dell'Unione degli scrittori della Bielorussia, sino al luglio del 1941. Nel 1947 pubblicò un libro di ricordi dedicato alla resistenza nel ghetto di Minsk, / 1>cndicalori dt'I ghetto. Attualmente vive in Israele, dove opera nel campo scientifico e in quello letterario». Smolar è l'autore del contributo succL>ssivo, «Il centro di combattimento clandestino del ghetto di Minsk»
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di partito clandestina, che intraprese subito un'infaticabile opera di volantinaggio. I volantini venivano letti con crescente interesse e passavano di mano in mano. Quando la gente si incontrava, anziché salutarsi esordiva chiedendo: «Che cosa c'è di nuovo?». La parola «nejes» (novità) era sulla bocca di tutti. Nei loro fogli i clandestini ebrei diffondevano le ultime notizie di Radio Mosca, ricevute da un apparecchio che tenevano nascosto. Ivolantini venivano riprodotti a mano e distribuiti casa per casa. Li redigeva Weinhaus. Nel settembre del 1941 uno dei dirigenti del gruppo di partito clandestino del ghetto, Kirkae~to, fu assassinato. Ne prese il posto Mihl Gebelev, istruttore del comitato distrettuale del quartiere Kaganovic di Minsk. Gebelev ricevette l'incarico di prendere contatto con i comunisti che si trovavano all'esterno del ghetto, in vista della convocazione di una conferenza generale di partito. Rischiando la vita, Gebelev si spinse in città, per sottrarre ali' arresto i comunisti russi; preparò degli alloggi clandestini e vi nascose i compagni. Alcuni di loro ripararono nelle maliny• del ghetto. A ridosso della recinzione, furono predisposti rifugi d'emergenza che potevano essere agevolmente raggiunti sia dai comunisti del «quartiere russo» sia da quelli del ghetto. A settembre furono stabiliti collegamenti con un reparto partigiano che operava a est di Minsk. I partigiani inviarono alcuni corrieri, che riuscirono a far evadere dal ghetto una ventina di persone, prevalentemente comunisti e persone addestrate alle armi, come Schnitman, Cheimovic, Gordon, Lonja Okun', ecc. L'organizzazione clandestina del partito prese la decisione di assicurare ai partigiani un rifornimento costante di abiti pesanti e vestiti vari, sapone e sale. Pur considerando lo /udenrat, il Consiglio ebraico, nient'altro che uno strumento nelle mani delle autorità occupanti, l'organizzazione riteneva necessario mantenere i contatti con i membri del Consiglio che si fossero dichiarati pronti a sostenere il movimento di resistenza e ad aiutare le famiglie ebree a raggiungere i partigiani. Il primo a essere interpellato fu il presidente dello /udenrat, Muskin, quindi furono coinvolti nelle operazioni di approvvigionamento dei combattenti clandestini i responsabili del dipartimento per le attività produttive, Rudicer e Serebrjanskij, che passarono al direttivo del gruppo del partito scarpe, pelli, biancheria, abiti pesanti, macchine da scrivere, materiale di cancelleria, sapone, medicine, denaro e, in qualche occasione, anche viveri e sale. • Jn russo, malina (pi. mali1111) significa propriamente «lampone». n vocabolo può però essere impiegato per designare il nascondiglio della refurtiva o, come in questo caso, un rifugio clandestino. D'ora in avanti, i vocaboli che nel testo originali! russo compaiono tra virgolette saranno riportati, non tradotti, in carattere corsivo.
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I carnefici fascisti rivoltavano il ghetto da cima a fondo e non concedevano un attimo di tregua alle famiglie degli ebrei. Ciononostante le donne, anche le più anziane, seguitarono ad aiutare i partigiani. Preparavano biancheria, tenute mimetiche, calze di lana. A notte fonda scendevano in cantina e rimanevano a lavorare a lume di candela. La maggior parte dei prodotti fabbricati nei laboratori del ghetto, diretti da Goldin, finiva ai partigiani. I comunisti del ghetto e quelli del «quartiere russo» decisero di convocare una riunione per dare vita a Minsk a un'organizzazione partigiana unita. 1124° anniversario della rivoluzione d'Ottobre si avvicinava. Il 6 novembre nel ghetto si diffuse la voce che in occorrenza di quell'anniversario sarebbe stato effettuato un pogrom. Arrivò Gorodeckij e dispose che gli specialisti più vne «pressa per l.1 stampa ... È ovviamente in quest'ultima accezione che va inteso, qui e oltre, il termine ustamperian .
.. OrganizzJzione giovanile comunista per i fanciulli in età scolare. (NdD
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Fu appiccato il fuoco da ogni lato e la gente fu bruciata viva. Tra le fiamme morirono diverse centinaia di persone. Gli «eroi» dei pogrom, i tedeschi, erano sempre diversi; chi andava e chi veniva. Ma ciascuno di loro, dietro il pretesto di stabilire l'ordine nel ghetto, perseguiva lo scopo di sterminare gli ebrei. Richter, per esempio, poco prima del suo trasferimento decise di controllare se le disposizioni destinate a regolare i lavori forzati degli ebrei fossero applicate a dovere. Fermò i primi tre passanti che incontrò, li condusse alla borsa del lavoro e comandò ai poliziotti di spogliarli. Quindi picchiò i malcapitati sino a tramortirli. Ordinò di portarne uno sullo spiazzo antistante, lo fec1'llgnato agli artisti in Unione Sovietica. (NdT)
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n 1° agosto, dopo quattro giorni di carneficina, in piazza Jubilejnaja furono nuovamente imbanditi i tavoli. Vi presero posto i soliti personaggi. Agli agenti della Gestapo e ai poliziotti fu ordinato di trovare tutti gli abitanti del ghetto ancora nascosti nelle mnlin_11. Quel giorno, l'ultimo del pogrom, la crudeltà dei fascisti susperò definitivamente l'immaginazione umana. [n preda all'alcol. i tedeschi e i poliziotti violentarono le ragazzine e ne mutilarono i genitali con il pugnale, senza provare imbarazzo davanti ai commilitoni o a chiunque altro. Le madri, costrette ad assistere alla scena, impnzzivano o svenivano. Le ragazze furono obbligate ad assumere pose oscene o a farle assumere ai cadaveri. Alle donne, giovani o adulte che fossero, vennero recisi naso, orecchie e seni. Le madri si gettav.ino furiose sui fascisti, ma stramazzavano subito a terra con la testa fracassata. I vecchi infermi furono picchiati a morte con i manganelli di gomma o con le fruste di cuoio. Per l'intera giornata la piazza fu sconvolta da grida strazianti, singhiozzi e maledizioni: nemmeno decine di fisarmoniche sarebbero riuscite a coprire quelle urla. Verso le quindici era tutto finito. Un'ora dopo gli sgherri di Richter lasciarono il ghetto. A massacro consumato, la Gestapo avvisò le ditte presso le quali gli operai ebrei erano stati trattenuti durante i quattro giorni del pogrom che i lavoratori potevano rientnire nel ghetto. Verso sera le colonne degli operai si incamminarono sulla via del ritorno. Avanzavano lentamente, in silenzio, lo sguardo abbassato. Giunsero al posto di guardia del ghetto. Chi avrebbero trovato ad attenderli? Di solito, quando gli operai rientravano dai lavori forzati la popolazione del ghetto correva ad accoglierli al posto di controllo. Madri, mogli, nonni, padri, figli, sorelle e fratelli erano felici di ritrovarsi in vita dopo essere stati separati per quattordici ore. Ma quella volta, alla porta non c'era nessuno in attesa. C'era soltanto la sentinella tedesca, che uscì dalla garitta, batté i tacchi degli stivali ferrati e salutò l'ufficiale che marciava in testa alla scorta. L'ufficiale portò la mano alla visiera e ordinò alla sentinella di aprire la porta. Le colonne entrarono nel ghetto silenzioso. Le strade erano piene di mobili fatti a pezzi, carta strappata, libri e cocci. Le piume dei cuscini e dei piumacci e i frammenti di oggetti d'uso domestico ricoprivano letteralmente marciapiedi e carreggiate. Dalle finestre infrante sporgevano armadi, credenze e tavoli, sospesi come per incantesimo. Ammassati gli uni sugli altri in enormi pozze di sangue i cadaveri di coloro che chi stava tornando aveva tanto sperato di rivedere. Improvvisamente l'ufficiale tedesco che guidava la colonna, al quale evidentemente non si era mai presentata una scena simile, si mise a gridare e, in preda a una crisi isterica, iniziò a battere colpi sulla strada insanguinata. La colonna si fermò e rimase immobile. Poi le donne cominciarono a contorcersi e a singhiozzare in modo convulso, gli
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uomini si colpivano le guance con i pugni e si strappavano i capelli. Dal giorno della sua creazione il mondo non aveva mai visto uno spettacolo così orrendo ... La gente si precipitò come impazzita verso le proprie case, nella speranza di trovare i propri cari sani e salvi nelle maliny. Ma i nascondigli situati sotto le stufe e i pavimenti o negli interstizi delle pareti erano stati devastati dalle bombe a mano. In qualche caso gli operai trovarono nelle maliny i poveri resti dei propri parenti, straziati dalle granate. Più spesso, però, delle persone amate non rimaneva la minima traccia. Erano state portate a Trostjanec e a Tucinka con i dusegubki, spogliate di ogni cosa e gettate nelle fosse, dopo essere state asfissiate nei «camion della morte». Persino il terribile pogrom del 2 marzo impallidiva a fronte del sanguinoso massacro di quel luglio.• Dei 75.000 ebrei del ghetto di Minsk, il 1° agosto 1942 ne rimanevano in vita soltanto 8794. Nel corso di quell'ultimo pogrom furono uccisi anche numerosi ebrei tedeschi: ne morirono 3000 nei dusegubki, le camere a gas semoventi. Avevano ricevuto l'ordine di raccogliere i loro averi e prepararsi per andare a lavorare. Hattenbach e un Obersturmfiihrer tennero un discorso sulla piazza. Poi gli ebrei furono spinti nei duseg11bki e asfissiati. Nel frattempo i carnefici tedeschi si avvicendavano: Richter partì e fu sostituito da Hattenbach, al quale subentrò Fichtel, rimpiazzato a sua volta da Menschel. Ogni arrivo e ogni partenza si accompagnavano a un bagno di sangue. Nel gennaio del 1943 la polizia rinvenne in strada i corpi di due tedeschi. La Gestapo replicò a quell'affronto con feroci rappresaglie. li 1° febbraio, alle tre del pomeriggio, entrarono nel ghetto i dusegubki. Ne scesero gli agenti della Gestapo, guidati dal sanguinario Obersturmfuhrer Miller. Cacciarono la gente fuori di casa, la trascinarono fino ai dusegubki e la costrinsero a salire a bordo. Il mattino seguente la Gestapo poteva contare 400 ebrei in meno. Di lì a breve giunsero nel ghetto cinquantatré ebrei, provenienti da Sluck. Si trattava di lavoratori qualificati, i cosiddetti «specialisti». Riferirono delle atroci t-à che avevano accompagnato la progressiva liquidazione del ghetto di Sluck. Nei loro racconti ricorreva sempre un nome: quello del famigerato agente della Gestapo Rube, uomo di una crudeltà inaudita.*• • Gli ebrei assassinati a Minsk il 2 marzo 1942 furono 5000. 1128 e il 29 luglio le vittime furono circa 10.000, di cui 6500, perlopiù anziani, donne e bambini provenienti dal ghetto di Minsk,(' il l'l'Sto da Vienna, Brema, Berlino e Brno. •• Ha11ptschmfiihrer (maresciallo capo) dell'F.i11.~11t:gmpp,• B, Adolf Riibe fu processato nella Genn,mia froerale e, riconosciuto colTl'Sponsabile del massacro di 00.000 ebrei di Minsk, fu condannato a dieci anni di campo di lavoro. Sulla fiiura di Riibt> si veda, tra gli altri, H. Rosenberg, /ahre des Scltrrckens .. ., cii., p. 43; cfr. inoltre f-i1// 9, Urtrif im ss-Einsat;~ruppt•1111niz.,jl (Sentenza del processo Clmtro gli Ei11si1tz.gruppe11 delle !:-6, caso n. 9), Berlin, p. 223.
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Nella prima metà del febbraio del 1943 fecero la loro comparsa nel ghetto due tedeschi mai visti prima d'allora, che portavano i distintivi della Gestapo. Fermarono una donna, la perquisirono, presero gli 8 marchi che le trovarono addosso e proseguirono la loro strada. Incontrarono un'altra donna, che camminava insieme al figlio di quattro anni. Le chiesero (uno dei due parlava il russo: era l'interprete Michelson)• perché non fosse a lavorare. La donna esibì un certificato medico, allora quelli la afferrarono, la trascinarono al cimitero insieme al figlio e giustiziarono entrambi. Di ritorno dal cimitero, i due s'imbatterono in un ragazzino di circa quindici anni che aveva in mano due ciocchi di legno. «Dove li hai presi?» «Me li ha regalati il mio principale, al lavoro.» Anche quel giovane fu portato al cimitero e fucilato. La sera, quando gli operai rientrarono nel ghetto, gli ebrei di Sluck riconobbero i propri aguzzini. «È Ri.ibe, con il suo interprete Michelson» dissero. «Se è arrivato qui, significa che la liquidazione del ghetto è imminente.» Si trattava proprio dello Ha11ptscharfiihrer dell'so Rube, pluridecorato «eroe» dei pogrom, giunto nel ghetto con il suo braccio destro e interprete Michelson. Dal giorno dell'arrivo di Ri.ibe, gli ebrei non ebbero un solo minuto di requie. Per la sua sanguinosa opera di liquidazione degli ebrei, RUbe poteva contare sulla collaborazione dei suoi assistenti Michelson, Bunge, il Polizeimeister fresco di nomina, e il sostituto di quest'ultimo, il Feldwebe/* .. Scherner. Nel ghetto si sparava dall'alba al tramonto; la gente veniva assassinata senza sosta. Se la faccia di qualcuno non andava a genio a Ri.ibe, fucilazione! Se i vestiti di qualcuno non incontravano il gusto di Rube, fucilazione! Se la toppa gialla non era cucita come piaceva a Ri.ibe, fucilazione! Le strade erano deserte, la gente, terrorizzata, non si azzardava a uscire di casa. Ma ci voleva ben altro per salvarsi. Ri.ibe e la sua banda facevano irruzione nelle case. Se trovavano un tozzo di pane tedesco, fucilazione! Un po' di burro per un bambino malato, fucilazione! Una carta geografica, un libro, fucilazione! Tormentati dalla fame, i bambini ebrei si infilavano sotto la rete di recinzione e uscivano dal ghetto; vagabondavano qua e là, mendicando un po' di pane. La sera erano soliti riunirsi sotto il ponte della ferrovia e '.15pettare il passaggio delle colonne degli operai per rientrare nel ghetto insieme a loro. A febbraio, nel corso di un rastrellamento Ri.ibe riuscì a catturare i bambini che si erano spinti nel «quartiere russo». Li fece caricare sui camion, portare al cimitero ebraico e fucilare. Mentre salivano • Michelson o Mikhelson. Rosenberg (/alrrc des Sclm'Ckzione del ghetto di Bialystok, durante la quale trovò la morte. Nel 1'145 fu decorato alla memoria con la croce di Criinwald di terza classe, una delle più alte onorificenze plll,icche.
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pria vita, come Kalmen Berestovizki e Chaim Lapcinski, che si batté con un'ascia. Leibusch Mandelblit non si sottrasse alla lotta, benché gravemente malato e con la febbre a quaranta. Anche l'artista Mater e centinaia di altre persone non abbandonarono il loro posto di combattimento. [Chiunque abbia visto in quali terribili condizioni era ridotta a vivere la popa· lozione ebraica sotto il giogo di Hitler e con quale eroismo essa abbia lottato con· tro i carnefici tedeschi, può capire quale grande contributo abbiano dato gli ebrei alla definiiiva sconfitta del fascismo tedesco.) Tutta la gente onesta di Biatystok si inchinò davanti all'eroismo dei combattenti ebrei. Molti furom; i polacchi che ci procurarono armi. Wrublewski e Michal Motylewski aiutarono con grande efficacia gli ebrei a equipaggiarsi. [Alcuni calzolai polacchi tennero nascosti nelle loro case attivisti de/l'antifascismo ebraico.] Michal Gruscewski e sua moglie, due polacchi del villilggio di Konnoje, nascosero nel bosco un gruppo di ebrei fuggiti dal ghetto, sostentandoli sino a quando non entrarono in contatto con i partigiani. Il dottor Docha, del villaggio di Sukewicze, e il chirurgo Richard Pilizki prestarono il loro soccorso ai partigiani ebrei feriti. La Gestapo punì duramente gli abitanti della fattoria di Kremonoje, ma non per questo essi cessarono di aiut,1re in tutti i modi i partigiani ebrei. Chi riuscì a scappare dal ghetto di Biatystok, andò nella foresta. I tedeschi effeth1arono rastrelk1menti. [Uno dei fuggitivi, una ragazza, fu coltu· rato e Fucilata.] La guardia forestale Markewicz si appostò sulla strada provinciale e consigliò ai fuggiaschi di evitare Lesniczewka, perché in quella località li aspettava un agguato. Nascose diversi ebrei e portò loroda mangiare fino a che non arrivarono i partigiani. La guardia forestale di Tre colonne, sua moglit? e la loro figlioletta furono spogliati in pieno inverno nel bosco e torturati, ma non tradirono, non rivelarono dove si trovava il rifugio dei partigiani ebrei. Ho raccontato solo alcuni episodi dl'lla storia della lotta antifascista a Bialystok. Ho narrato una minima parte di quanto ho visto con i miei occhi durante la mia partecipazione alla vita e alla battaglia del ghetto. (Preparato per la pubblicazione da R. Kovnator)
I BRENNER• DI BIALYSTOK Racconto degli operai Simon Amiele e Salman Edelman, della città di Bialystok
Non dimenticheremo mai i tenebrosi giorni del ghetto. Non è possibile scordare l'immagine delle vie di Bialystok chiuse dal reticolato, via Kupiecka, via Jurowiecka, via Czçstochowka, via Fabryczna e molte altre, nelle quali la morte ha continuato ad aleggiare per tre lunghi anni. Sul finire del 1943 le strade del ghetto erano ormai deserte: oltre 50.000 dei suoi abitanti erano stati uccisi nelle camere a gas e nei forni crematori di Majdanek e di Treblink11, i campi di sterminio che sorgevano nei dintorni di Bialystok. 11 16 agosto 1943 i tedeschi scelsero trn gli ultimi abitanti del ghetto quarantatré uomini. Tra questi c'eravamo anche noi, due operai di Bialystok. Le persone selezionate furono rinchiuse in prigione. Il giorno seguente ci fu ordinato di forgiare catene di due metri di lunghezza e del peso di dodici chilogrammi, destinate a noi stessi. Restammo in carcere fino al 15 maggio 1944. Tre mesi prima di quel giorno fatale fummo sottoposti a un regime ~pedale. Ogni giorno ci portavano da qualche parte e inscenavano tutti 1 preparativi di un'esecuzione. Ma a poco a poco la paura della morte veniva meno. Ogni speranza di salvezza era svanita. I tedeschi passavano il tempo a umiliarci e a picchiarci. Shlema Gelbort e Abraham Kljaczko persero il loro equilibrio psichico. Iniziarono a rifiutare il cibo (un litro e mezzo di brodaglia mc1leodorante), ad avere allucinazioni e nel giro di una decina di giorni morirono. Sebbene ormai da diversi giorni i due non fossero in grado di intendere e di volere, i tedeschi li picchiavano e li seviziavano, accusandoli di simulare. Tutti gli altri caddero in uno stato di profondo inebetimento. Ognuno vedeva davanti agli occhi la stessa fine. Tre mesi dopo, i condannati avevano perduto ogni sembianza umana. Un giorno, di primo mattino, il comandante in seconda della Gesta'Inceneritori, addetti alla cremazione. (NJD
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po, Macholl, arrivò alla prigione. Ci ordinò di indossare altri vestiti. Su quei nuovi abiti spiccavano due strisce bianche ai ginocchi e una grande banda bianca sulla schiena, visibile a cinquecento metri di distanza. Il rumore delle catene (lunghe due metri) che ci serravano mani e piedi ci ricordava che qualsiasi tentativo di fuga sarebbe stato vano. Fummo caricati su un «camion della morte» (simile a un dusegubka) e partimmo in direzione di August6w. Poi il camion si fermò. Quando smontammo, ricevemmo l'ordine di metterci in riga. Eravamo accerchiati da cinquanta gendarmi armati di mitra, pistole e bombe a mano. Macholl tenne un discorso: disse che eravamo stati destinati a svolgere lavori di costruzione da terminarsi entro tre anni; se tali opere fossero state svolte disciplinatamente, nessuno di noi sarebbe stato fucilato; le catene rendevano insensato qualsiasi tentativo di fuga: se nondimeno qualcuno fosse riuscito a scappare, tutti gli altri sarebbero stati fucilati sul posto. Quindi, sotto la sorveglianza dei gendarmi, ci inoltrammo insieme a lui nel bosco, per raggiungere una collina che dovevamo spianare. Ci furono dati picconi, badili e altri attrezzi. Incominciammo arimuovere la terra e, a circa quindici centimetri di profondità, cozzammo contro dei cadaveri umani. Ci fu comandato di estrarre quelle salme servendoci di ganci e di ammucchiarle su una catasta di legna alta due metri secondo il principio seguente: uno strato di cadaveri, uno strato di legna (quest'ultima dovevamo procurarcela noi stessi nel bosco). Quando le cataste raggiungevano i tre metri d'altezza, il legno veniva cosparso di cherosene o di benzina - talvolta veniva inserito tra gli strati altro materiale infiammabile - e l'intera impalcatura veniva data alle fiamme. Dopo appena un'ora non era più possibile avvicinarsi alle cataste, per· ché già a un metro di distanza i vestiti cominciavano a bruciare. L'incenerimento di una pila di cadaveri richiedeva dalle dodici alle diciotto ore. Le ossa venivano poi separate dalle ceneri e tritate in grandi mortai fino a essere ridotte in polvere. Le ceneri venivano setacciate per recuperare le corone dentarie e gli altri oggetti d'oro e d'argento che si trovavano sul corpo delle vittime. Interravamo le ceneri nelle stesse fosse dalle quali avevamo estratto i cadaveri da incenerire. La Gestapo ci ordinò di livellare la terra che ricopriva le fosse. Quando queste ultime erano state riempite, vi venivano piantati sopra alberi e fiori. Il regime dei lavori era severo. I tedeschi ci sorvegliavano come cerberi, poiché temevano che qualcuno di noi Brenner, come venivano chia· mati gli uomini incaricati di incenerire i cadaveri, riuscisse a fuggire. Nel corso della stessa giornata la Gestapo verificava più volte che tutti i Brenner rispondessero all'appello. . Scambiare qualche parola ci era proibito. Venivamo svegliati alle sei del mattino e condotti di volta in volta sui luoghi nei quali dovevarn° riportare alla luce i cadaveri e cremarli. Le prime tre fosse, in un bosco nei pressi di August6w, contenevano
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circa 2100 corpi. Le persone erano state uccise perlopiù da pallottole di mitra o di carabina. I cadaveri erano vestiti e gli indumenti erano marciti o decomposti. I cadaveri stessi, specialmente quelli negli strati più superficiali, erano già in putrefazione. 1corpi venivano estratti per mezzo di ganci assicurati all'estremità di alcune corde. Uno o due ganci venivano gettati nella fossa e affondati nei cadaveri. I tedeschi controllavano che l'intero contenuto di ogni fossa venisse completamente eliminato. Sin dai primi giorni decidemmo di adottare ogni accorgimento in grado di rivelare al mondo intero quanto stava avvenendo in quei luoghi. Una volta un tedesco mi disse: «Voi non sopravviverete, ma anche se qualcuno di voi rimanesse in vita e raccontasse ogni cosa, non sarebbe comunque creduto da nessuno». Quella frase mi fece una grande impressione e decisi di adoperarmi con tutte le mie forze per lasciare tracce della nostra opera. Così osservavo costantemente le guardie per cogliere il momento in cui la loro attenzione venisse distratta da qualcosa: in quell'istante agganciavo con l'uncino il braccio di un cadavere, una costola o un cranio, lo tiravo a me e poi lo gettavo di nascosto nella fossa e lo coprivo di sabbia. 1 miei compagni facevano altrettanto. Eravamo fermamente convinti che qualcuno di noi si sarebbe salvato e avrebbe potuto raccontare in modo circostanziato dinanzi a un tribunale tutti gli orrori che eravamo statì costretti a vedere. Da August6w fummo portati in altri villaggi, abitati in prevalenza da bielorussi. Accanto a uno di quei villaggi sorgeva una collina sotto la quale erano sepolti gli ebrei assassinati. Era impossibile contare quelle tombe. Dalla mattina fino a tarda sera cremammo tra duecento e trecento corpi e ne sotterrammo le ceneri nelle fosse. A Grodno, vicino all'antica rocca, bruciammo qualche migliaio di cadaveri. Particolarmente numerosi furono quelli che incenerimmo a circa quattordici chilometri da Bialystok, nei borghi di Nowochilowka e di Skidl. Non lontano da Bialystok aprimmo una fossa nella quale erano sepolte settecento donne. Non è difficile immaginarsi le sofferenze che quelle sventurate devono aver patito prima di morire: i corpi erano completamente nudi e molte delle vittime avevano i seni recisi, talvolta gettati anch'essi nella fossa. Uno dei superstiti, Miche! Perelstein, del borgo di Jedwabne, mi ha raccontato che si trovava nel ghetto quando quelle settecento donne erano state scelte e portate via per essere mandate, fu detto loro, a lavorare in un maglificio. Costrette a deviare nel bosco e a denudarsi, dopo atroci sevizie furono fucilate. Nel villaggio di Gekzino, nei pressi di lomza, svuotammo quattro fosse, ciascuna larga cinque metri e profonda quattro. Lì riuscii a nascondere alcune ossa, gambe, un teschio e diverse costole. I tedeschi erano nervosi; dai loro discorsi venimmo a sapere che l'Armata Rossa
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era vicina. La fretta tradita dai tedeschi ci faceva comprendere che i nostri giorni, forse le nostre ore, erano contati. La sorveglianza si era un poco allentata, ma pensare alla fuga era inutile, perché restavamo comunque circondati da sessanta gendarmi armati fino ai denti. Poi giunse quell' a !ba d'estate che mi rimarrà impressa in eterno. Su 1far del giorno iniziammo a riaprire una grande fossa. Non avevamo ancora finito di riportarla alla luce, quando arrivò Macholl; chiamò l'Oberstllrmfiihrer Lika, lo St1m,ifiihrer Schulz e il capobandito, come lo chiamavamo noi, Tiefensohn e prese a consultarsi con loro. Capimmo all'istante che era successo qualcosa di grave. J1 tono nervoso della voce di Macholl e qualche parola che riuscimmo a cogliere ci dicevano che la nostra fine si avvicinava. Gudaiski e Paul ci spinsero a lato con i manganelli e ci ordinarono di scavare una fossa larga quattro metri e profonda due. Era chiaro che questa volta stavamo scavando la nostra tomba.Ognuno di noi si mise a pensare in che modo riuscire a liberarsi dalla stretta della morte. Non riuscivamo a parlare tra noi per consigliarci. La minima parola, anche solo sussurrata, veniva punita a suon di «gomma», vale a dire a colpi di manganello. Quando finimmo di scavare, i tedeschi ci controllarono e ci disposero sull'orlo della fossa, con il viso rivolto a quest'ultima. Macholl fece segno con il guanto e il brigadiere Wacht ordinò: «Nella fossa!». lo gridai: «Salvatevi, scappate, disperdetevi!». In preda a una terribile tensione nervosa tutti si misero a gridare e a correre all'impazzata. Quindi echeggiarono le raffiche dei mitra. Molti di noi furono colpiti, ma anche chi rimase ferito cercò di raggiungere il bosco che si trovava a circa duecento metri dalla fossa. E nel bosco, verso sera, io ed Edelman finimmo per incontrarci. Vagammo per tre giorni e tre notti, nutrendoci di foglie e radici e bevendo l'acqua delle pozzanghere: non osavamo lasciare la boscaglia. Il quarto giorno ci ritrovammo a Grabl'iwka, non lontano da Biatystok, dove venimmo a sapere che quel mattino i Rossi avevano occupato la città. Il cuore sobbalzò per la gioia incontenibile: eravamo salvi. Del nostro gruppo sono sopravvissute nove persone: io, Edelman, Rabinovié, Gerschuni, Felder, Wrubel, Abram Lew, _Schiff e Lipez. Di lì a undici giorni eravamo tutti rientrati a Bialystok. E difficile descrivere esattamente ciò che abbiamo provato quando mettemmo piede sul suolo liberato dall'Armata Rossa. Ma ancora oggi, e così sarà per tutto il resto della nostra vita, sentiamo risuonare nelle orecchie quell'ordine, gridato un istante prima della nostra esecuzione: «In die Grube, marsch!», «Nella fossa, avanti!>,. Comunicato dal maggiore del servizio medie~ Noc/111111 Poli11owsk1 (Preparato per la pubblicazione da V. Grossman)
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NEI DINTORNI DI SMOLENSK ~OVO
Accadde nel borgo di Samovo, distretto di Roslavl', regione di Smolensk. Il 2 febbraio 1942 il sottotenente Krause, comandante di Mstislavl', diramò alla polizia la seguente comunicazione: tutti gli ebrei di Samovo ancora vivi devono essere liquidati. I condannati furono radunati sulla piazza della chiesa. Erano circa cinquecento persone: anziani, anziane, donne con bambini. Alcune ragazze cercarono di scappare, ma i poliziotti spararono e le uccisero. A gruppi di dieci le persone furono condotte al cimitero e fucilate. Tra i condannati c'erano anche le sorelle Simkin. La più giovane, Raisa, studentessa dell'istituto di pedagogia di Leningrado, fu tra le prime a morire. L'altra, Fanja, insegnante, è sopravvissuta. Ecco il suo racconto. «Era il 1° febbraio, verso sera. Mia sorella e io ci eravamo baciate e abbracciate, scambiandoci l'addio: sapevamo che stavamo per morire. Avevo un figlio, Valerik, di nove mesi. Volevo lasciarlo a casa: forse qualcuno si sarebbe preso cura di lui e lo avrebbe allevato; ma mia sorella disse: "È inutile, morirà in ogni caso. A questo punto è meglio che muoia con te". Lo avvolsi in una coperta. Il piccolo stava al caldo. Mia sorella fu tra le prime a essere presa. Udimmo delle urla e degli spari. Poi il silenzio. Con il secondo gruppo toccò anche a me e a mio figlio. Ci portarono al cimitero. Sollevarono i bambini per i capelli o per il collo, come si fa con i gattini e spararono loro alla testa. TI cimitero era tutto un grido. Mi strapparono il bambino dalle mani. Cadde nella neve. Aveva ~eddo e strillava per il dolore. Un colpo mi spinse a terra. Poi aprirono il fuoco. Udii gemiti, imprecazioni e spari e compresi che stavano passando in rassegna i corpi per assicurarsi che non vi fossero superstiti. Fui colpita violentemente due volte, ma non fiatai. Poi cominciarono a svestire i morti. Avevo una vecchia gonna: me la strapparono di dosso. ldificio era attorniato da prati e aiole fiorite. Con gli anni crebbero le acacie, i pioppi, i cipressi ... All'inizio della guerra fascista il dottor Fidelev era primario dell'ospedale municipale di Feodosija. Ben presto le sue camere si riempirono di gente ferita nei bombardamenti delle località circostanti. A Feodosija stessa si udivano in continuazione gli urli delle sirene, il rombo della contraerea e le esplosioni delle bombe. Quando i tedeschi si avvicinarono a Perekop, il dottor Fidclev ricevette il consiglio di sfollare.
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«Non sono mai stato un disertore» rispose «e abbandonare al loro destino centinaia di malati nell'ora del pericolo significa disertare.» Tre giorni dopo la loro entrata a Feodosija, i tedeschi ingiunsero a tutti gli ebrei di presentarsi al carcere municipale «in vista di un trasferimento verso nord,,. Gli appartamenti dove\'ano essere lasciati intatti, era permesso portare con sé soltanto biancheria di ricambio, un cappotto e provviste per alcuni giorni. Anche il dottor Fidelev e sua moglie si recarono alla prigione. Dopo l'accertamento delle generalità, il dottore poté rientrare a casa ... Quella sera Lizikov, il vecchio fabbro dell'area contumaciale, andò di nascosto da Fidelev. «I tedeschi stanno cercando di rimettere in funzione le camere di disinfezione della quarantena» disse «ma non ci riescono. Non hanno gli schemi, e una parte dell'impianto è smontata. Qualcuno ha pensato di rivolgersi a lei. lo, però, ho l'impressione che non intendano ripristinare le camere allo scopo di disinfettare ... Ho visto che per effettuare delle prove hanno chiuso là dentro lsaak Nudelman: poi l'hanno gettato, morto, in mare ... » Effettivamente i tedeschi chiesero a Fidelev di rimettere in funzione le camere di disinfezione. «Vogliamo che prima del viaggio i suoi compagni siano disinfettati» spiegarono. «La mia risposta è: no» esclamò il dottore. Fu arrestato con la moglie; entrambi vennero condotti per la strada principale della città. Un soldato romeno tolse a Fidelev il cappello di pelo dalla testa. Il vento autunnale arruffava i radi capelli del vecchio medico. La gente che lo incrociava (a Feodosija non c'era nessuno che non conoscesse Fidelev) si toglieva in silenzio il copricapo, perché immaginava dove l'anziana coppia venisse portata. I due passarono davanti all'ambulatorio che portava il nome del dottore, davanti alla camera di degenza dello stabilimento del tabacco, allestita grazie all'impegno di Fidelev, davanti agli asili nido un tempo sottoposti alla sua soprintendenza. Non furono tradotti in carcere, ma rinchiusi in una delle cantine dell'ex policlinico. I tedeschi inflissero al vecchio medico le più brutali sevizie, ma Fidelev si rifiutò ostinatamente di aiutarli. Qualche giorno dopo legarono il dottore e sua moglie l'uno all'altra con un cavo telefonico e li gettarono in un pozzo di scarico del cortile del policlinico, dove fu convogliata l'acqua che ristagnava sul pavimento degli scantinati. La buca era enorme e il livello dell'acqua giunse ad altezza d'uomo solo dopo che le pompe ebbero lavorato ininterrottamente per otto ore. Da una fessura della rimessa la donna delle pulizie del policlinico, che abitava nella casa attigua, vide i tedeschi spingere nella buca i due anziani legati; tutta la notte sentì la pompa elettrica sbuffare riversando l'acqua sudicia là dentro ...
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Il dottor Fidelev mori affogato nella melma lurida che riempì quella fossa. Si era dedicato tutta la vita a combattere i nemici del genere umano, le malattie, senza abbandonare il campo quando si era trattatto di tener testa non solo alla peste polmonare o alla peste bubbonica, ma anche alla loro nuova varietà, la peste «bruna».• In Crimea i tedeschi furono sbaragliati e ricacciati in mare; in città il policlinico, che porta il nome del dottor Fidelev, ha ripreso le attività ... Dalla testimonianza di A. Morosou (Preparato per la pubblicazione da A. Derman)
• Nel rapporto operativo n. 150 (2 gennaio 1942) dell'so e della Sic/1er/1eitspoliui si legge: «A Simferopol', Evpatorija, Alu~ka, Karasubauir, Kert e Feodosija, ma anche in altri centri abitati della Crimea occidentale, non c'è più traccia di ebreo. Dal 16 novembre al 25 dicembre (1941) sono stati fucilati 17.646 ebrei, 2604 Krymtaki, 824 zingari e 212 tra comunisti e partigiani. In tutto sono state giustiziate 75.881 persone».
IL PITTORE ZIVOTVORSKIJ
Ho trascorso la mia infanzia e la mia giovinezza a D.zankoj. La gente che vi abita è industriosa, la vita era intensa e gioiosa. li beniamino della città era Naum Zivotvorskij, «l'allegro pittore». Zivotvorskij era un artista straordinario, un lavoratore infaticabile e appassionato. Realizzava manifesti di sicuro effetto, che non potevano passare inosservati, disegnava accattivanti locandine per gli spettacoli cinematografici, inventava decorazioni fantasiose per le rappresentazioni del circolo e con i suoi colori ornava i calessi dei kolchoz e i carri dei contadini così meravigliosamente che parevano preparati per una festa nuziale. Non ho mai visto Zivotvorskij di malumore. Certamente non erano mancati nella sua vita i giorni difficili, ma egli diceva sempre: «La mia tristezza riguarda solo me, mentre alla mia gioia devono partecipare tutti». Amava 1a gente e la gente amava lui. La sera Zivotvorskij era solito uscire con tutta la famiglia a passeggiare per la strada principale, via della Crimea. Gli camminava accanto la moglie, una gaia bellezza dal colorito bruno, e attorno a loro saltellava un drappello di vivaci bambini: quattro ragazzini dalla pelle color bronzo e tre graziose fanciulle, in tut~o somiglianti alla mamma. Zivotvorskij andava fiero della sua famiglia, della sua nutrita prole. Nell'agosto del 1941 passai per Dzankoj, diretto a Perekop. Nel centro della città una bomba tedesca aveva distrutto lo stabile dell'asilo: un muro era caduto e il tetto era crollato; c'erano ovunque lettini fracassati, piccole sedie e tavoli in pezzi, giocattoli sparsi qua e là. Sulle pareti interne che erano rimaste intatte si vedeva ancora, però, tutta la ricchezza della steppa di Crimea rappresentata dalla mano di un artista. Enormi poponi striati mostravano la loro scorza variegata adagiati sulla paglia di un campo, negli orti c'erano pomodori e zucche gialle già maturi e i baccelli scoppiavano, rovesciando a terra i piselli. Sul muro laterale si vedevano due mari, con l'indicazione «Mare d'Azov» e «Mar Nero». Sul pelo dell'acqua, liscio come uno specchio, i pescherecci navigavano con le loro vele oblique, le navi da guerra stavano alla fonda con i loro
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cannoni, mentre il fumo si levava dai tre fumaioli di un enorme battello dal nome Ucraina. Tra i due mari c'era la steppa di Crimea, che ricordava anch'essa un mare. La solcavano le mietitrici, simili a delle giunche, e il frumento dorato tendeva loro le sue spighe mature. «Queste immagini devono aver fatto la gioia dei bambini» disse il mio compagno di viaggio. «Chi li ha dipinte?» «Zivotvorskij» risposi senza esitazione. E non mi sbagliavo. Un abitante di Dzankoj che si trovava a passare di lì disse: «Sì, le ha dipinte lui». Nei tre anni successivi non ebbi notizie di Zivotvorskij. Poi, però, arrivò questa lettera: «Mio caro compaesano! Qualcuno mi ha assicurato di csSt're stato, così ha detto, testimone oculare della Sua uccisione. Invece Lei è vivo, e questo è meraviglioso: non so come manifestarle J.1 mia gioia per questo. «Forse Lei mi ha già dimenticato, ma probabilmente non è così. Lei sa che ho sempre vissuto in mezzo alla gente e che le persone si ricordano di me perché dove c'ero io c'era sempre allegria. Ma oggi non è rimasto pres..o;;oché nulla di quello Zivotvorskij. Ho ricevuto un immenso dolore. Mi meraviglio di essere ancora in vita, di respirare, di mangiare e di intrattenermi con gli amici. «Nell'aprìle di quest'anno ho combattuto a Perekop, ho preso parte all'assalto di Sivai; e sono giunto fino alla nostra città natale, l'amata Dfankoj. «La città era distrutta, ogni cosa ridotta in cenere. Sono andato a cercare la mia casa: era intatta; sulle persiane c'erano i fiori che io stesso avevo dipinto e sulla porta del giardino il cane ringhioso che avevo schizzato malamente. Ho aperto il cancello e sono entrato. In giardino c'era un raga?..Zino che non conoscevo: mi ha guardato e mi ha sorriso; poi mi si è offuscato lo sguardo. L'emozione mi toglieva la vista e mi impediva di mormorare anche solo una parola. «Il cuore era vuoto e freddo, come se un intenso gelo mi avesse assalito; persino le lacrime erano gelide. «Poi, caro compaesano, sono venuto a sapere come i tedeschi hanno assassinato mia moglie, i miei bambini, mia madre malata, il mio anziano padre e le mie sorelle con i loro figli; ho notizie di quarantadue persone in tutto. Sulla sorte degli altri non so nulla. «A quel punto ho deciso che non valeva più la pena di vivere. Stavo per farla finita lì, dove mi trovavo, ma poi ho pensato che non era degno di un soldato finire in quel modo. Quando ho ripreso a combattere contro i tedeschi non avevo la minima paura di morire. Li travolgevo, e quando andavo all'assalto gridavo:" Arriva il giorno del giudizio!". Cosl mi sono spinto fino all'estremità della Crimea, capo Hersones, dove su un'altura vicino a Sebastopoli ho ucciso w1 tedesco: l'ho spinto con i piedi nel mare dicendo: "La sentenza è stata eseguita. Gli altri possono cominciare a tremare. Il giudizio si avvicina: arriverò fino alla vostra Berlino!".
Russia
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«Ho ricevuto una decorazione e il comandante mi ha suggerito di fermarmi a }alta a riposare e di raggiungere il reggimento in seguito. lo, però, ho voluto raggiungere il nuovo settore del fronte insieme al mio reggimento. Adesso ci stiamo spingendo sempre più a ovest: ogni giorno pronunciamo sul campo di battaglia la nostra giusta sentenza. «Il vostro compaesano Naum Zivotvorskij, già "l'allegro pittore".» Comunicato da L Feigin (Preparato per la pubblicazione da A. Derman)
LITUANIA
IL GHETTO DI VILNIUS*
I primi giorni Con il giorno dell'entrata dei tedeschi a Vilnius, ebbe inizio la persecuzione della popolazione ebraica della città, circa 80.000 persone. La polizia fascista cacciò gli ebrei da tutte le ditte e ai commercianti ebrei confiscò la merce. Sui muri delle case apparve questa ordinanza: Agli ebrei è vietato l'uso del telefono. Agli ebrei è proibito servirsi del treno. Agli ebrei è vietato l'accesso ai locali pubblici. Agli ebrei è fatto obbligo di consegnare i loro apparecchi radio. Gli ebrei sono banditi dall'università. In città comparvero i primi cartelli con l,1 scritta: «Vietato l'accesso agli ebrei». Nei giornali vennero pubblicati articoli che contenevano ignobili calunnie contro gli ebrei e istigavano ai pogrom. Il 4 luglio 1941 apparve un comunicato secondo il quale tutti gli ebrei, indipendentemente dall'età e dal sesso, dovevano portare una toppa gialla sul petto e sulla schiena. Tale toppa era un pezzo di stoffa di dieci centimetri per dieci con al centro di un cerchio giallo una stella a sei punte. Era possibile vederne il modello presso tutti i commissariati di polizia. La disposizione entrava in vigore 1'8 luglio 1941. I trasgressori sarebbero stati severamente puniti. Alcuni giorni più tardi il comandante Neumann emanò un nuovo ordine. La toppa gialla fu abolita e sostituita da una fascia con una stella bianca in campo blu da portare al braccio. L'indomani anche quest'ulti• Il primo ordine con l'obbligo di portare la stella gialla fu em:in.1to dal comandante della città von Osten il 3 luglio 1941. Le autorità lituane conformarono le loro disposiiioni a tale ordine. Dopo qualche b>iomo il comandante in seconlfa, il tenente colonnello Zehnpfenning, diramò il comunicato sulla fascia da portare al braccio.
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ma prescrizione fu annullata e tornò a valere la toppa gialla da portare sul petto e sulla schiena.• Il frequente cambio di disposizioni non era frutto del caso. I tedeschi intendevano umiliare, offendere e disorientare gli ebrei quanto più possibile. Questo solo accorgimento bastava per produrre un grande numerodi vittime: la gente, infatti, non era nelle condizioni materiali di poter obbedire a prescrizioni che cambiavano quotidianamente, e per chi portava un segno di riconoscimento diverso da quello previsto scattava l'arresto immediato. Il profluvio di direttive sulla toppa gialla non era ancora terminato, e già compariva una nuova ordinanza: Agli ebrei è proibito intrattenere relazioni e contatti con i non ebrei. Agli ebrei è proibito vendere qualsivoglia articolo. I beni mobili e i beni immobili degli ebrei vengono incamerati dallo stato tedesco; i precedenti proprietari ne mantengono il semplice usufrutto. Costoro sono tenuti a garantire l'integrità di ogni singolo oggetto. Come risulta dall'articolo 1, agli ebrei è fatto divieto di recarsi al mercato. Chi contravverrà a tali disposizioni sarà fucilato. L'8 luglio 1941 arrivò a Vilnius, con la nomina a Gebietskommissar, Hans Christian Hingst.•• Fin dal primo giorno Hingst cominciò a far parlare di sé. In Hospitalstra8e e in Nowogrodeker Stra8e,••• nelle quali risiedevano numerosi ebrei, ebbero luogo terribili pogrom, comandati da Schweinberger e Weils,........ assassini professionisti. Inoltre il nuovo satrapo gravò la popolazione ebraica di un'enorme contribuzione. Giunsero poi nuove disposizioni: In città gli ebrei possono uscire solo fino alle sei di sera. Non possono • 11 racconto sul ghetto di Vilnius, redatto a Mosca nel 194" in jiddisch (F1111 Wilner Ceto) da Abraham Sutzkever (nato nel 1913), fu pubblicato dall'editore Oer Emes nel 1946 e, nello stesso anno, a Parigi. Nel 1947 apparve a Tel Aviv una versione più dettagliata del racconto, sempre in jiddisch. In previsione dell'edizione russa del Libro nen.i, il testo originale di Sutzkever fu volto in russo., ed è su quest'ultima versione che è stata condotta la traduzione tedesca . .,. Nella sua qualità di commissario regionale H.C. Hingst, Sturmbamtfulirl'r delle SA, dirigeva l'amministrazione civile della città di Vilnius. ••• Prima dell'occupazione tedesca le vie di Vilnius venivano indicate dagli abitanti in polacco, in jiddisch, in tedesco e in lituano (Nicmiecka, Deil~he, Deutsche StraBe, Vokieciu gatve), a seconda del gruppo etnico e linguistico cui essi appartenevano. Per assicurare criteri di designazione omogenei, nella nostra traduzione, che si trovava dinanzi alla variante russa dei numi delle strade, questi sono stati costantemente ricondotti alla forma che compare nelle vecchie carte topografiche in lingua tedesca. •••• Horst Schweinberger, Oberscharfùl1l't'r delle ss e capo del S011derko111ma11do dell'sD (Ypatingas burys); diresse le fucilazioni di Ponary fino al 1942. Nel gennaio del 1942 fu richiamato a &>rlino. Martin Weils, Jla11ptscharfii/1rer delle ss e comandante delle carceri di Vilnius, dal giugno del 1942 diresse il So111ierko11111u111do di Ponary e fu soprannominato «il signore di Ponary». Nel 190 lavorò alla sezione ebrei della Gestapo. Pnx."t'SSato nel febbraio del 1950 a Wiirzburg, fu condannato all'ergastolo per gli eccidi di Ponary.
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camminare sul marciapiede, ma soltanto in mezzo alla carreggiata, mentre è loro inibito l'accesso a Mickiewiczstra8e, Wallstralk, Breitenstra8e e SchlosserstraBe, nonché a Kathedralenplatz e a Bahnhofsplatz. Presso la Gestapo di Vilnius esisteva un ufficio speciale, nel quale «professori» tedeschi appositamente convocati, si occupavano, sotto la guida dello Sturmfiihrer Neugebauer," della messa a punto di metodi di tortura della massima efficacia e della pianificazione dello sterminio degli ebrei. Il professor Gothart, uomo di fiducia di Himmler, elaborò un «codice» nel quale il sistema per l'eliminazione in massa di esseri umani veniva esposto in cinquecento paragrafi. Kamermacher, un ebreo di Vilnius che si trovava ai lavori forzati nel cortile della Gestapo, mi riferì, quando eravamo già stati rinchiusi nel ghetto, che per caso era riuscito a dare un'occhiata al codice di Gothart. Si ricordava alcuni passaggi, che suonavano: Fucilare senz'altro un ebreo non significa adempiere il mandato di Himmler. Prima l'ebreo va torturato, e quanto più a lungo lo si tortura, tanto meglio. Nessuna norma stabilisce che l'esecuzione di un ebreo debba avvenire necessariamente per mano di un tedesco. È anzi auspicabile che i tedeschi dirigano le operazioni e che siano altri a eseguire materialmente lo sterminio. La procedura di eliminazione deve essere tenuta segreta, per evitare che chi è rimasto ancora in vita tenti di dileguarsi. Il codice conteneva un particolare capitolo nel quale si leggeva: gli ebrei di Vilnius sono i più pericolosi del mondo. Se anche solo una decina di loro scampassero al lo sterminio, la nostra missione sarebbe da ritenersi fallita. Avere compassione del nemico significa macchiarsi di alto tradimento. Oltre al compito di distruggere la popolazione ebraica, la Gestapo si assunse quello di minarne il morale e condannare all'oblio la storia degli ebrei, un obiettivo non meno importante dell'annientamento fisico. Per l'attuazione delle disposizioni e delle norme emanate dall'ufficio speciale della Gestapo fu istituita un'apposita sezione per gli affari ebraici. L'ufficiale della Gestapo Schweinberger ricevette l'incarico di organizzare i nazionalisti tedeschi di Lituania. L'azione di Schweinberger fu assai decisa. Egli stabilì il suo quartier generale al 12 di Wilnaer StraBe, dove si trovava anche l'organizzazione chiamata «Ypatingas burys» o, in forma abbreviata, «Ypatingi», che vuol dire «gli eletti»,",. e divise gli • Roll Neugebauer, Obcrsturmfiiltrer delle ss e comandante della Gestapo (quarta sezione dello stato maggiore deÌl'so e della Sicltcrheitspolizei) a Vilnius, dal febbraio del 1942 all'ottobre del 1943 diresse l'so e la Sicherht'ilspolizri di Vilnius. Più tardi fu trasferito allo stato maggiore dell'so della Lituania, a Kaunas, e di qui a Budapest. •• Speciale reparto del S011dakonm11mda dell'so di Vilnius, dipendente dall'fi11sntzgr11ppe A e poi dall'5u di Vilnius. Comprendeva tra quaranta e centocinquanta uomini. Nel primo anno di occupazione fu guidato dal tenente colonnello dell'esercito lituano Jus.1s Sidlauskas, quindi dal tenente Billis Norvaisas; in St.>guito il comando cambiò di frequente. Il capo effettivo del So11dnko111111andoera però uno dei membri della Gestapo.
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esponenti di questa organizzazione in due reparti: uno doveva catturare gli ebrei e l'altro giustiziarli. Gli «sgherri»•
Per le strade di Vilnius iniziarono a circolare degli «sgherri». Dovevano scovare gli uomini ebrei e mandarli a lavorare. Ma non era questo in realtà lo scopo dei nuovi padroni. Si trattava soltanto di un subdolo espediente per attirare la popolazione ebraica in una trappola mortale. Per prima cosa i lavoratori ricevevano un certificato, la cui presentazio· ne li metteva al riparo dall'arresto. Presto la popolazione ebraica si trovò divisa tra coloro che andavano a lavorare e coloro che si rifugiavano nelle maliny. Quando gli «sgherri» scoprivano un ebreo nascosto, gli ordinavano di prendere asciugamano e sapone e di seguirli alla prigione di Lukiskis, dove Schweinberger imperversava. Il lavoro degli «sgherri» seguiva regole ben precise. Presso l'organizzazione Ypatingi era stato compilato uno schedario, che veniva aggiornato con nome, cognome, indirizzo e data di nascita del nuovo prigioniero e con il nome dello «sgherro». Sul retro della scheda il segre· tario Norvaisas scriveva con una matita rossa la lettera «L» o la lettera «P». «L» significava che il malcapitato si trovava nel carcere di Lukiskis, «P» significava che il prigioniero era già stato inviato al campo di ster· minio di Ponary. "" Per ogni ebreo arrestato e condannato a morte lo «sgherro» riceveva 10 rubli. Gli «sgherri» erano dei veri maestri del mestiere. Non si accontenta· vano di catturare la gente e di mandarla a morire, ma umiliavano le loro vittime. Alla vigilia dello Yom Kippur*•• portarono ai condannati dei mandolini e li obbligarono a suonare mentre si incamminavano verso la prigione. Nel secondo ghetto**"" si verificò il seguente avvenimento: durante uno dei soliti assalti, l'ebreo Gershon Schmukler si nascose dietro un armadio. Uno «sgherro», tuttavia, lo stanò e lo trascinò in cortile. L'ebreo aveva tre pezzi d'oro da 10 rubli e cercò di comprarsi la libertà. In un primo momento Io ,,sgherro» non ne volle sapere, ma poi cambiò idea. E una volta intascato l'oro esclamò: «È troppo poco, non basta per la tua liberazione». Schmukler, però, non aveva altro denaro e così lo «sgherro» gli ruppe i denti d'oro, li prese e se ne andò. • In jiddisch, /1111111ncs. •• Ponarv, in lituano Paneriai, era un centro di sterminio nazista di grandi dimensioni. ••• ~Gio;..,o di Espiazione,,: la più importante festa penitenziale ebraica, che cnde il decimo giorno del settimo mese (Tishri) dell'anno. (Ndn •••• I tedeschi istituirono due ~hctti; Deutsche Stragl~ SE'gnava il confine tra i due. l1 primo, che aveva in Rudintzker Stra&- la sua via principale, fu denominatll «ghetto degli specialisti»; il secondo, la cui strada principale era Juden-StraBe, era destinato agli anziani e alle persone inabili al lavoro. All'inizio nessuno aveva percepito la dif· ferenza tra i due ghetti. (N,iA)
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Nella notte dell'«azione dei biglietti gialli»,• il 24 ottobre 1941, gli «sgherri», che giravano per il ghetto con i cani, scoprirono una ma/i,ra. Ne ruppero la botola d'ingresso a colpi d'ascia e penetrarono nel nascondiglio. Ll trovarono, sdraiata sulla paglia, una donna gemente con un bimbo appena nato. Il cordone ombelicale non era ancora stato sciolto. La donna li supplicò: «Lasciatemi stare. Siete anche voi esseri umani, avete anche voi dei figli ... ». La sua preghiera rimase inascoltata. Strapparono il cordone ombelicale, gettarono il neonato e la madre su un camion e li portarono a Ponary. Nella prigione di Lukiskis Nessuno sapeva dove andassero a finire le persone arrestate. Venivano subito tradotte nel carcere di Lukiskis, dove erano «registrate per essere iscritte all'ufficio del lavoro,,. Molti vi andavano spontaneamente, perché non volevano vivere nella costante paura di finire nelle mani di uno «sgherro». «Preferisco svolgere i lavori più duri» dicevano tra sé «piuttosto che nascondermi in un buco a morire lentamente.» Ma era proprio là, nella prigione, che incontravano la morte. 1131 agosto 1941 Schweinbergere i suoi aiutanti Wei8 e Hering>• fecero circondare dal battaglione dei tiratori dell'Ypatingi il vecchio quartiere ebraico, che comprendeva JudenstraBe, StraschunastraBe, FleischmarktstraBe, GlaserstraBe, GaonstraBe, DeutschestraBe e Dominikanerstra8e. Da lì furono condotti nella prigione di Lukiskiscirca 10.000ebrei.•*" Mia moglie, che ebbe la sfortuna di finire in carcere ma la fortuna di essere rilasciata, mi raccontò ciò che aveva visto là dentro. • L'espressione «biglielli gialli» stava a indicare i permessi di lavoro. Le «azioni dei biglietti gialli» colpirono soprattutto gli abitanti del ghetto privi di tali permessi. Durante la prima di queste «azioni» i tedeschi distribuirono tremila tessere («biglietti») ad altrettanti artigiani. In ogni «bigli,•tto» potevano essere inseriti il nome della moglie e qlll·lli di due bambini. Cosi nel ghetto di Vilnius rimasero meno di 12.000 persone (non tutti gli artigiani avevano famiglia). Dal 25 al 27 ottobre 1941 furono fucil.1ti a Ponary 3781 ebrei privi di «biglietti gialli». •• August Hering, uomo delle b-S della sezione ebrei della Gestapo, tedesco del Baltico (di Kibartai). Fu capo del Sonderko1111ntmdo dal gennaio al giugno del 1942. Nel 1950 fu processato, insieme a M. Weils, e condannato all'ergastolo per i crimini di Ponary. ••• Si tratta della cosiddetta «grande provocazione». Gli ebrei furono accusati di aver ferito un soldato tedesco. Tutti gli ebrei della zona destinata a divent.ire ghetto furono arrestati e il 2 settembre 1941 (secondo il rapporto ddl'fi11s,1/zkom111mrdo) furono fucilate in tutto 3700 persone. Il t, ~ettembre, nelle abitazioni ormai vuote di quella p.irte della città furono creati due ghi.'tti: un grande ghetto, di circa 29.000 abitanti, e un ghetto più piccolo, di circa 11.000 abitanti. Le fucilazioni non si fermarono: il 12 settembn> caddero 333'4 persone, il 17 settembre 1271 e il 4 ottobre si ebbero altre 1983 vittime (arrestate nel co~o ddl'«azione dellu Yom Icinzioni era minato. Dalle segrete si poteva uscire soltanto attraverso un pnssaggio angusto, presidiato da una sentinella armata di mitra. Il Perimetro del recinto era sorvegliato da uomini delle ss. Inoltre ogni ora e mezzo una pattuglia speciale scendeva nel sotterraneo per verificare lo stato dei ceppi ai" piedi dei prigionieri. Lo Stumifiihn,,.,.• ne doveva ri-
• n testo si riferisce alle persone che, convinte di essere portate a Kaunas, come era stato detto loro, si erano ritrovate in realtà a Ponary, dove erano state assassinate. "Dal tipo di grado indicato (Sliirn1f11hrl'r in luogo di Leut11a11t) risulta che il campo della morte di Ponary era gestito da militari delle ss e delle SA.
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spondere con la propria vita. Non poteva permettere che qualcuno evadesse, che anche un solo testimone sopravvivesse. Perciò a lavori conclusi, avrebbe fucilato gli ottanta detenuti, ne avrebbe bruciato egli stesso i corpi e sarebbe rientrato a Berlino. Quel giorno si avvicinava sempre più. Egli aveva già eliminato 1'0berscharfuhrer Fiedler, che sapeva troppo e che del resto non era più indispensabile. Ma a dispetto di questi ostacoli quasi insormontabili, nel «bunker» c'era chi non aveva smesso di pensare alla fuga. Szloma Gol e lsaak Dogim si misero d'accordo con uno dei prigionieri di guerra sovietici, l'ingegner Julian Farber, coinvolsero altri tre detenuti e insieme a loro iniziarono a scavare un tunnel. Quest'ultimo, la cui lunghezza prevista era compresa tra trenta e trentacinque metri, sarebbe dovuto passare sotto la recinzione di filo spinato e, attraversando il campo minato, sbucare al limitare di una pineta. Lavoravano solo di notte. Iniziarono la loro opera nella cella destinata ai viveri, dove scavarono un pozzo di due metri e mezzo di profondità. Il cunicolo vero e proprio partiva dal fondo di quel pozzo. Nel sotterraneo gli operai non avevano alcun attrezzo. Usavano le mani oppure dei bastoni appuntiti e persino dei cucchiai. Con quei cucchiai scavarono circa dieci metri di tunnel! La terra estratta veniva nascosta sotto i tavolacci, sparsa sul pavimento e, verso la fine dei lavori, inserita tra le lastre di pietra che dividevano lo spazio interno del «bunker». Di giorno in giorno il livello del pavimento cresceva, ma per fortuna le segrete erano alte diversi metri e così nessuno si accorse di nulla. Affinché la galleria non cedesse, i cinque [sic) congiurati, cui in seguito si unirono altri detenuti, puntellarono l'intero percorso. Più di una volta rischiarono di rimanere sepolti vivi; il loro infinito desiderio di vivere, tuttavia, li aiutò a superare ogni difficoltà. Dogim riuscì addirittura a provvedere il tunnel di luce elettrica, allacciandosi all'impianto della guardiola della sentinella tedesca con un cavo mimetizzato. Ciò che risultava più difficile era mantenere la giusta direzione, per evitare di incrociare le fosse con i corpi delle vittime delle «azioni» tedesche. Ricorrendo a qualche espediente, fu possibile sottrarre ai tedeschi una bussola. Allora l'ingegner Farber tracciò un prospetto preciso e stabill con la massima esattezza il percorso da seguire per evadere dal sotterraneo senza incappare nelle fosse. Bisognava inoltre badare che l'u· scita del tunnel non risultasse troppo vicina alla postazione della sentinella. Dopo tre mesi di intenso lavoro il tunnel era finito. Il 15 aprile del 1944, alle quattro di notte, quando il consueto controllo fu terminato e la pattuglia ebbe lasciato il sotterraneo, Dogim svegliò tutti i prigionieri. Erano stati divisi in gruppi di dieci, ciascuno con un comandante. Già qualche giorno prima della fuga i detenuti avevano aperto con un seghetto gli anelli dei ceppi e avevano fissato le catene con del filo di fer· ro, in modo che le guardie non si accorgessero di nulla e nello stesso
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tempo fosse possibile liberarsi rapidamente dalle catene al momento opportuno. Quel moment(l era arrivato. Il primo a infilarsi nel tunnel fu Dogim. Seguirono i gruppi di dieci con i loro comandanti. Dogim tagliò i fili dell'illuminazione e cominciò ad aprire un varco per uscire. L'aria fresca penetrò nel tunnel. In lontananza si distinguevano le fiamme purpuree dei roghi. Non lontano dall'uscita i tedeschi facevano la ronda. All'inizio non notarono nulla, poiché i prigionieri erano scalzi e si muovevano con la massima circospezione. Ma d'un tratto si udì il rumore di un ramo spezzato: un fuggiasco aveva calpestato un legno secco. Una delle sentinelle intuì che stava accadendo qualcosa di strano e aprì il fuoco. Immediatamente furono sparati in aria razzi luminosi e la zona fu rischiarata. I fuggitivi si precipitarono nel bosco, saltarono fosse e filo spinato. Dietro di loro il sibilo dei proiettili. Molti caddero colpiti: soltanto undici persone riuscirono a raggiungere i partigiani della foresta di Rudnica.• A. Sutz/a.'1.'l(!r
(Tradotto dallo jiddisch da M. èambadal e B. è'.:emjak)
• Degli evasi di Ponary sopravvissero in tutto tredici persone. Undici ripararono presso i partigiani, gli altri due riuscirono a passare il fronte.
IL DIARIO DI A JERUSALMI"" Siauliai""""
Nota del curatore
Il documento del quale le pagine che seguono riportano una parte cospicua costituisce una testimonianza affatto particolare nel suo genere. Nelle condizioni che vigevano in un ghetto, tenere un diario era estremamente difficile e pericoloso. Da un momento all'altro i tedeschi avrebbero potuto scoprire il segreto, nel qual caso il quaderno, preservato con tanta cura, sarebbe stato distrutto e il suo autore eliminato. A. Jerusalmi è riuscilo a salvarsi, nonostante le numerose «azioni>· dei tedeschi. t riuscito altresì a salvare il suo diario. Membro dello f11denrat. apparteneva alla ristretta cerchia delle persone meglio informate del ghetto; era al corrente di tutto ciò che avveniva e spesso conosceva in anticipo i piani dei tedeschi. Appena occupavano una città, i tedeschi emanavano provvedimenti razzisti, organizzavano pogrom contro gli ebrei, istituivano ghetti, condannavano allo sterminio decine, anzi centinaia di migliaia di esseri umani, dai neonati alle persone più anziane. Prima di assassinare le vittime, però, cercavano di spremere loro tutto il possibile. Toglievano loro ogni avere, Ob'lli proprietà. Costringevano la gente a svolgere i lavori più duri. Per essere in condizione di saccheggiare cd espropriare con la massima tranquillità, concedevano agli ebrei un'autonomia illusoria. Lo J11de11ral, i cui componenti venivano scelti dai tedeschi tra le personalità più note della città (rabbini, medici, uo· mini di legge e di scienza), era incaricato di mantenere l'ordine nel ghetto, di vigilare sulle condizioni igienico-sanitarie, di distribuire alla popolazione le miserrime razioni alimentari, di rendere esecutive tutte le leggi e le disposizioni emanate dalle autorità di occupazione. Ovviamente rifiutarsi di entrare a fare parte dello fudenrat equivaleva a farsi condannare a una morte immediata e terribile. Costantemente minacciati, i membri dello /udenrat erano di fatto costretti ad aiutare i propri carnefici e a trasformarsi in traditori del proprio popolo. Spesso, però, si servirono della propria posizione per combattere il regime di terrore instaurato dai tedeschi, preannunciare agli abitanti del ghetto imminenti atti di violenza, prendere contatto con le orga· nizzazioni clandestine e con i partigiani. Quando i tedeschi ordinarono allo /11de11mf di Siauliai di consegnare loro cinquan· ta ebrei da destinare a un'esecuzione, i suoi membri opposero, a rischio della propria vita, l'unanime rifiuto di sacrificarne anche uno solo.
• A. (o E. Eliezer) Jerusalmi, Gli a/'p1111ti di Siauliai. Diario di 1111 ghetto litu,mo, 1941-1944, lerusalim, 1958 (in ebraico). La traduzione è stata condotta sul testo russo. •• In russo Sauljaj, in tedesco Schaulen.
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[Nota del curatore•
Il documento del quale le pagine che seguono riproducono una parte cospicua costituisce una testimonianza affatto particolare, forse unica, nel suo gene· re. Nelle condizioni che vigevano nel ghetto, tenere un diario, scrivere più o meno regolarmente degli appunti, era estremamente difficile. Ma soprattutto, l'autore si esponeva a un grande pericolo: qualora la sua opera fosse stata sco· perla, tanto gli appunti quanto chi li aveva scritti sarebbero stati eliminati. Man· cava materiale di cancelleria e spesso mancava semplicemente la luce; non ero possibile trovare la necessaria concentrazione e, ancor meno, la necessario se· renità (in ogni alloggio vivevano numerose Famiglie e si dormiva in brande a più piani); mancava il tempo e mancavano le forze (venivano spesi per il lavoro, massacrante, e per andare a caccia di provviste). Privati di ogni contatto con il mondo esterno, gli abitanti del ghetto non avevano altra informazione che le voci e le menzogne diffuse dai loro carnefici. In simili condizioni un dia· rio correva il rischio di trasformarsi in un registro dei decessi, proprio quando i condannati volevano dimenticare, anche so/o per un momento, lo minaccia costante della morte. Infine era impassibile prevedere se il diario sarebbe sopravvissuto alla scomparsa del suo autore: tutti erano destinati a essere uccisi, c'erano continue perquisizioni e alla fine il ghetto sarebbe stato fatto saltare in aria. Anche se l'autore avesse trovato un luogo sicuro per nascondere in tempo i suc:,i appunti, si sarebbe portato nella tomba il segreto di quel nascondiglio. E per questo che abbiamo a disposizione soprattutto ricordi e non annota· zioni scritte di giorno in giorno. Nel nostro caso sono riusciti o sopravvivere sia il diario sia l'autore, circostanza che dobbiamo considerare davvero eccezionale. Ma non è questo il solo aspetto che rende prezioso il presente diario. A. Jerusalmi aveva maturato un'esperienza pluriennale di insegnante di scuoio media superiore. La sua pre· parazione intellettuale gli permetteva di scegliere i fatti veramente rilevanti e di descriverli con un'obiettività storico non gelida e impassibile, ma neanche an· nebbiato dal dolore. Egli non si presento come un accusatore, bensì come un cronista, nel senso più autentico del termine; e d'altra parte non può non ovver· lire di essere egli stesso un condannato a morte, come i suoi simili, come il suo popolo. Tuttavia egli aveva compreso che assai più delle parole e dei giudizi, sono i latti a scuotere la coscienza dell'uomo. Ma il valore del presente diario non si esaurisce nemmeno in ciò che abbiamo Fin qui considerato. A. Jerusalmi era membro dello Judenrat. Appartenevo perciò alla piccola cerchia delle persone meglio informate del ghetto, era a diretto contatto con i tedeschi, era al corrente di tutto ciò che avveniva nel ghetto e poteva cogliere gli stati d'onimo che circolavano in ambienti diversi; spessa conoscevo in anticipo i pioni dei tedeschi, avendo l'opportunità di accedere a documenti segreti di cui le altre persone dovevano rimanere all'oscuro. • Jl ll•stodella «nota del curatore» sopra riportata è frutto di una revisioni.•, dovuta a motivi di ordine ideolo~iro. Data l'entità di tale revisione. riportiamo integralmente la stesura originale della noia, cosicché il lettore possa mettere le due \'ersioni a confronto.
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Qual era il ruolo dello Judenrat? Quando occupavano una città, i tedeschi iniziavano a scatenare pogrom contro gli ebrei e introducevano le loro leggi razziali. Già primo che il ghetto fosse istituito, gli ebrei sopravvissuti ai primi pogrom si trovavano completamente isolati dal resto della popolazione. Erano sottoposti o uno giurisdizione speciale o, meglio, esposti a uno speciale or· bitrio. I tedeschi non clichiarovano mai di volere sterminare tuffi gli ebrei: pro· cedevano gradatamente. Prima cli assassinare le loro vittime, cercavano di spremerle fino in fondo, impossessandosi non soltanto dei loro averi, mo anche della loro forza lavoro. Per essere in condizione di saccheggiare ed espropria· re, ma anche di svolgere /'attività amministrativa nella massima tranquillità, concedevano agli ebrei un'autonomia illusoria. Lo Judenrot, i cui componenti venivano scelti dai tedeschi tra le personalità più note della città {rabbini, medici, uomini di legge e scienziati), ero incaricato di mantenere l'ordine nel ghetto, di vigilare sulle condizioni igienico-sanitarie, di distribuire allo popolazione le miserrime razioni alimentari, di reperire la manodopera richiesta, in poche po· role: di rendere esecutive tutte le leggi, le disposizioni e le trovate delle autorità tedesche. Ovviamente rifiutarsi di entrare o fare parte dello Judenrot equivalevo a forsi condannare o morie; e d'altra parte divenirne membro voleva dire ri· spandere con la vita dell'adempimento delle proprie incombenze. I membri dello Judenrat si trovavano dunque in uno situazione particolarmente drammatico. Costantemente minacciati di morie, erano costretti ad aiutare i propri carnefici. Intermediari tra gli abitanti del ghetto e i tedeschi, essi avevano il compito di co· municare gli ordini impartiti do questi ultimi. La loro attività merita la più Ferma condanna. Molti furono, tuttavia, i membri di Judenrot che tentarono con ogni mezzo di lenire i dolori dei propri compagni di sventura, cli salvare i condanna· ti, le donne, i bambini e i malati, benché ogni salvataggio riuscito altro non fosse che una dilazione della fine. Non bisogna dimenticare che se eia un lato i tedeschi infliggevano agli ebrei torture fisiche e li precipitavano in un clima di angoscia e cli terrore, dal/'altro cer· cavano cli tenerne deste le speranze. Dopo ogni assassinio, e talvolta anche pri· ma, annunciavano che si trattava del'ultima azione del genere. Ogni volta nega· vano indignati di perseguire lo sterminio sistematico degli ebrei e indirizzavano minacce agli «irresponsabili calunniatori». Continuavano a promettere conclizio· ni meno dure per /'avvenire. All'inizio, anche tra gli ebrei erano molti coloro che si rifiutavano di pensare che milioni di fratelli e sorelle e, in caso di ulteriori inva· sioni, /'intero popolo ebraico fossero condannati allo sterminio. Così anche lo Judenrat di Siauliai cercò cli agire in modo che la mono destra non sapesse ciò che stava facendo lo sinistra, cercò cli eseguire le disposizioni dei tedeschi e nel contempo cli proteggere lo popolazione do/le conseguenze che esse comporta· vano, di sottrarlo cioè allo morte. Mo il tentativo dello Judenrot cli Siaulioi fallì. E non sarebbe potuto anelare altrimenti. Per nulla al mondo gli uomini di Hitler avrebbero desistito dal propo· sito di annientare gli ebrei finiti. nelle loro mani. I membri dello Judenrot cli Siauliai non temevano la morte. Quando i tede· schi ordinarono loro di consegnare cinquanta ebrei del ghetto da destinare a
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un'esecuzione, i componenti c/e//oJudenral furono unanimi nel dichiararsi pron· ti all'estremo sacrificio e si rifiutarono categoricamente di consegnare anche un solo ebreo. A. Jerusalmi fu Ira coloro che presero tale decisione senza un istan· le di esitazione. o. Savie) Breve narrazione dei fatti avvenuti tra il 28 giugno e il 23 dicembre 1941 li ghetto
Già l'indomani dell'occupazione di ~iauliai da parte dell'esercito tedesco, il 28 giugno 1941, per gli ebrei iniziarono i lavori forzati. Gli ebrei venivano cacciati fuori dei negozi di alimentari, venivano spinti giù dai marciapiedi e brutalmente picchiati. Lunedì 30 giugno e martedì 1° luglio i tedeschi procedettero ad arresti di massa. Irruppero come rapinatori nelle abitazioni degli ebrei e arrestarono chiunque capitò loro sotto mano. Contemporaneamente si scatenarono i saccheggi. In quei due giorni furono portati via circa 1000 ebrei.,. Sabato 5 luglio gli arresti in massa ripresero. Quel giorno molti di coloro che fino ad allora erano riusciti a nascondersi, vennero catturati. Inoltre i tedeschi requisirono tutti i vestiti e gli oggetti di valore. Il 15 agosto iniziò il trasferimento degli ebrei nel ghetto.** Furono istituite delle commissioni incaricate di sovrintendere alle operazioni. Ciascuna commissione era formata da un presidente e da diversi membri, uno dei quali, secondo una richiesta dello Judenrat, doveva essere ebreo. Tra i membri lituani c'erano alcuni poliziotti. La commissione effettuava controlli sui bagagli degli ebrei che si trasferivano. Era permesso portare con sé solo una quantità limitata di provviste. Durante i controlli la commissione consegnava a ogni famiglia un foglio con l'ingiunzione di spostarsi nel quartiere di Kaukazas entro ventiquattro ore. Le prime vie a dover essere sgomberate erano via Vilnius e via Tilsit; poi sarebbe toccato alle altre. Nel quartiere di Kaukazas furono concentrate molte più persone di quante l'amministrazione ebraica fosse in grado di sistemarvene. Il quartiere sembrava un piccolo villaggio in preda a un incendio. Le s_trade, i cortili e i vicoli erano pieni di ciarpame di ogni genere e intasati_ da centinaia di persone, tra cui le donne, i vecchi, i malati e i bambini 51 contavano numerosi. Stavano tutti accampati all'aperto, giorno e notte: si udivano ovunque grida e lamenti. Ma nessuno poteva aiutare • Molti dei quali vennero fucilati nel bosco di Kusaj. •• U trasferimento ebbe.luogo tra il 25 luglio e il 15 agosto.
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quella gente. Quando il quartiere di Kaukazas fu pieno fino a scoppiare, l'incaricato Stankus* decise di aggiungere al ghetto anche il quartiere di Trakai.
Oltre ai vicoli Ginkun, Padirsk, Zilvisk ed Ezersk, all'inizio il quartie· re di Trakai doveva comprendere anche la maggior parte di via Trakai. Poi l'area fu ristretta e di via Trakai rimasero all'interno del ghetto solamente due case. Nel giro di due giorni anche il quartiere di Trakai esaurì la sua capienza. Per le strade si verificarono le stesse scene strazianti viste nel quartiere di Kaukazas. Così si pose la questione di trovare un altro quartieIT' da aggiungere al ghetto. L1 scelta cadde sul quartiere di Kalnjukas. Furono individuate le vie adatte alla bisogna e la gente che vi risiedeva fu invitata a tenersi pronta a trasferirsi. Gli abitanti di Kalnjukas però protestarono con tutte le loro forze: non avevano intenzione di lasciare le loro case. Inviarono una delegazione all'amministrazione civile tedesca, appena insediatasi. C'era poi un altro problema: a Kalnjukas si trovava la casa di Stankus. Così i lituani domiciliati nel quartiere gli scrissero, dicendo che se Kalnjukas doveva essere lasciata agli ebrei, allora anch'egli doveva met· tere a disposizione la sua abitazione. Sabato 30 agosto Stankus promise ai rappresentanti degli ebrei che avrebbe assegnato loro Kalnjukas. Li pregò soltanto di non rendere di dominio pubblico quella dt'cisione. I fogli blu recavano la scritta: «Tra· sferire a Kalnjukas». Ma il 1° settembre si venne a sapere che Kalnjukas non sarebbe stata messa a disposizione degli ebrei. Ciò significava che l'amministrazione civile tedesca si era già intromessa nella questione. Il giorno stesso una delegazione composta dagli avvocati Abramovic, Kartun e Leibovic si recò dal borgomastro. Inizialmente questi si rifiutò di riceverli. Li allontanò dal suo studio dicendo: «Che cosa volete da me? Rivolgetevi al vostro ]11de11ml!». I tre, però, non si lasciarono intimi· dire. Si fecero largo con decisione ed entrarono nell'ufficio del borgoma· stro, dove ebbe luogo il seguente scambio di battute: Delegati: «Siamo venuti a chiedere Kalnjukas». Borgomastro: «Non possiamo darvelo». Delegati: «Dove andremo ad abitare allora?,,. Borgòmastro: «Dovrete stringervi un po' e sistemarvi nei granai, fin· ché fa ancora caldo. Più avanti vi forniremo delle baracche». Già allora, tuttavia, il borgomastro sapeva bene che non sarebbe stata costruita nessuna baracca. Fece il nome di Zagare** e rimproverò i delegati di non essere stati capaci di pronunciarsi subito sul luogo in cui avrebbero dovuto essere trasferiti gli ebrei. • Antanas St.mkus, fino al 1940 capitano dell'('St'rcito lituano e, dal 1941 al 1943, vict~ borgom.istro di Si,luliai e addetto agli affari ebraici. •• Cittadina nei pressi di Siauliai. Tra il settembn? e il dicembre del 1941 vi furono dc· port,1ti e uccisi 1000 ebrei.
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All'epoca si riunivano quotidianamente sei commissioni. I loro presidenti ricevettero un nuovo incarico: assegnare a ciascun ebreo la destinazione alla quale trasferirsi; questa poteva essere o il ghetto o la «sinagoga», dove «sinagoga» veniva scritto al posto di «Kalnjukas», ormai cassato. Con «sinagoga» s'intendeva o una casa di preghiera o un ospizio i cui occupanti erano già stati inviati a Zagare. La prima commissione si distinse dalle altre per la crudeltà del suo presidente, Ljuberski. Costui destinò intenzionalmente molti ebrei alla «sinagoga»," cioè alla morte. Anche le altre commissioni, tuttavia, finirono per adottare nei riguardi degli ebrei un atteggiamento più duro. I controlli diventarono più severi, i beni venivano requisiti senza il rilascio di alcuna ricevuta, oltre mille persone furono inviate alla «sinagoga». li trasferimento cominciò martedì 2 settembre. Le case di preghiera e le case di riposo previste erano piene. Uomini, donne, vecchi e bambini furono ammassati in spazi ridottissimi. Non c'era nemmeno posto per sedersi. I reclusi non ricevettero nulla da mangiare e nulla da bere: la gente moriva di fame e di sete, ma le guardie non permettevano a nessuno di uscire. Mercoledì 3 settembre M. Leiboviè e A. Katz visitarono un ospizio e rimasero sconvolti dal quadro che si presentò loro: volti emaciati, segnati dalla paura e dalla sofferenza, braccia tese e grida strazianti: «Salvateci! Non ci danno una briciola di pane, un goccio d'acqua! Salvateci!». I membri dello Jude11rat corsero dall'incaricato Stankus e lo pregarono di avere pietà dei prigionieri. Stankus promise di migliorarne le condizioni. Furono inviati dei funzionari per registrare i reclusi in base all'età, al sesso e alla professione. l funzionari spiegarono che il rilevamento veniva effettuato in vista dell'assegnazione dello spazio abitabile necessario. La registrazione fu completata in gran fretta, gli elenchi furono redatti in duplice copia e consegnati a Stankus, nell'ufficio del quale nessuno poteva mettere piede. I membri dello f udenrat, però, videro alcuni noti scagnozzi dei carnefici entrare nello studio di Stankus e uscirne tenendo in mano delle liste. Allora entrarono di forza nell'ufficio e battendo i pugni sul tavolo chiesero a Stankus di chiarire dove sarebbero stati mandati gli ebrei della «sinagoga».*" Stankus era ubriaco; farfugliò: «Non chiedetemelo. Non lo so. Lo fanno contro la mia volontà». Giovedì Leibovié si recò all'ospizio. Già in cortile c'era un silenzio sospetto. La gente era stata portata via. Leibovié cercò di spingersi all'interno, ma la guardia gli gridò: «Vattene!». • Le sinagoghe nelle quali gli ebrei venivano riuniti erano tre: 1) La sinagoga della città (sinagoga principale). in via Vamju; 2) La sinagoga dei mmmercianti ortofrutticoli, in via Vilnius; 3) La sinagoga degli anziani (dell'ospizio), sempre in via Vilnius. •• Tutti gli ebrei rinchiusi nelle sinagoghe furono portati a K~j e là fucilati.
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Leibovié, però, ebbe il tempo di vedere gli scagnozzi dei carnefici spartirsi i beni lasciati dagli ebrei. I membri dello /11denrat riuscirono a concordare con l'addetto agli affari ebraici che l'ospizio e l'orfanotrofio sarebbero rimasti all'interno del ghetto. li responsabile accettò inoltre di fare rientrare una parte dei reclusi dell'ospizio portati a Zagare. Per ospitare l'orfanotrofio fu scelto un grosso edificio di via Trakai. In città, intanto, vennero effettuati tutti i preparativi per lo spostamento dell'orfanotrofio nel ghetto. E lo Judet1rat era convinto che l'orfanotrofio sarebbe stato spostato. Il trasferimento sarebbe dovuto avvenire in settembre. Bisognava soltanto espletare alcune formalità. Alla vigilia del giorno stabilito, le formalità non erano ancora state sbrigate. D'un tratto, intorno alle sette di sera, si diffuse nel ghetto la voce che i bambini dell'orfanotrofio erano stati portati via. Risultò in seguito che alle sei e trenta di quel 6 settembre era arrivato all'orfanotrofio un autocarro, sul quale erano stati costretti a salire i bambini, l'insegnante Katz e l'economa. Non era stato permesso loro di portare nulla con sé, i bambini non avevano neppure avuto il tempo di vestirsi a dovere. L'autocarro era scortato dalla polizia di sicurezza. Era partito ed era ritornato poco dopo. L'insegnante Katz, l'economa e quarantatré bambini erano stati uccisi. Tra questi ultimi anche i tre figli della signora Kazman, di Zitavian. La poveretta era faticosamente riuscita a sfuggire ai persecutori del luogo; poiché non aveva potuto trovare subito alloggio nel ghetto, su consiglio dello /11de11rat aveva sistemato i tre bambini nell'orfanotrofio. La sua figlia maggiore era così bella che i banditi di Zitavian ne avevano avuto pietà e l'avevano risparmiata. Ma a Siauliai la sua bellezza non ha fermato gli assassini. Domenica 7 settembre arrivò nel ghetto una commissione per effettuare una registrazione degli ebrei. La guidava Ljuberskij, il presidente della prima commissione per il trasferimento nel ghetto. Gli abitanti del ghetto, vecchi e giovani, si fecero registrare senza nutrire alcun sospetto. Molti dichiararono un'età superiore a quella effettiva. Passò qualche giorno; nel ghetto la registrazione era quasi stata dimenticata, quando all'improvviso, nel pomeriggio di mercoledì 10 settembre, arrivarono dei camion carichi di poliziotti armati. n primo edificio a essere circondato fu quello di via Padirsk n. 2, dal quale furono mandate fuori alcune famiglie: la cittadina Feinstein con due bambini, la cittadina Volkov con due bambini, la cittadina Smigl con un bambino, il lattoniere Aleksandrovié con la moglie (i mariti della maggior parte delle donne si trovavano al lavoro in città). Furono tutti portati via. Poi i poliziotti fecero il giro del ghetto e, liste alla mano, scelsero diverse persone anziane e le trascinarono via. Spesso insieme ai vecchi prendevano anche dei giovani. Tutto si svolse in poco tempo, forse una o due ore, e con una tale violenza che la gente non ebbe modo di capire che cosa stava accadendo. Vi furono casi di bambini che pur non figurando negli elenchi vollero seguire i propri genitori. I camion partirono a pieno carico e poco dopo tornarono vuoti.
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Si poteva a buon diritto ritenere che la gente fosse stata scaricata negli immediati paraggi di Siauliai. Quando, tornato dal lavoro, venne a sapere che cosa era accaduto alla sua famiglia, Feinstein corse dal capo dello stato maggiore Schroder. La moglie di Feinstein era in possesso di un certificato che nella confusione generale non era riuscita a esibire. Deciso a recuperare i suoi familiari, Feinstein percorse qualche chilometro in direzione di Zagare, destinazione dichiarata del trasporto. Ma non trovò nessuno. Allora fu chiaro che essi erano stati condotti in un luogo dal quale non sarebbero più tornati. Quel giorno fu portato via anche il benemerito insegnante Eliezer Goldstein, che sei anni prima aveva festeggiato il suo sessantesimo compleanno presso il ginnasio ebraico di Siauliai, nel quale aveva lavorato con abnegazione sin dal 1920. Anche sua moglie fu portata via. La stessa sorte toccò a Taibele Schneider, anch'ella insegnante, e al suo anziano padre. L'indomani, giovedì, gli arresti iniziarono alle nove del mattino. Era un giorno di pioggia. l carnefici andavano di casa in casa con i loro elenchi e facevano uscire i vecchi. Molti dei condannati ebbero il tempo di nascondersi e riuscirono a sai varsi. Tra loro c'era anche chi scrive: era stato avvertito; con la moglie e i due figli aveva attraversato i giardini e si era rifugiato in una ca-,a. In seguito fu depennato dalla lista. Quel triste giorno fu portato via, insieme alla moglie, anche il maestro di musica Moishe Kravec, che da molti anni insegnava nel ginnasio ebraico di Siauliai. Passò qualche ora, poi nel ghetto si diffuse la voce che un fuggiasco era ritornato e si era nascosto presso una delle famiglie rimaste in città. Un membro dello fudenral, Leiboviè, si recò da lui e apprese la terribile verità: erano stati portati tutti in una boscaglia nei dintorni di Bubjai.* Là erano stati assassinati sull'orlo di fosse scavate in precedenza. Benché ferito, il fuggitivo era riuscito a trascinarsi fuori della fossa. Più tardi giunse un altro superstite, che confermò quelle dichiarazioni. ll 13 settembre iniziò una nuova registrazione degli abitanti del ghetto; furono distribuiti dei documenti gialli. Ancora una volta le operazioni vennero condotte da Ljuberskij. Tutti gli abitanti del ghetto dovevano sfilare davanti a lui cd egli decideva a suo talento la sorte di ciascuno: consegnava i documenti a una persona, e destinava un'altra alla «deportazione». Questa volta la gente non si fece cogliere impreparata. I vecchi si nascosero o cercarono di modificare il proprio aspetto, tingendosi i capelli, occultando le rughe e tagliandosi la barba. Mai in precedenza si era avuta una simile ressa dai barbieri e mai i barbieri avevano avuto una clientela del genere: vecchi, malati, gente sofferente e disperata. Ben pochi riuscirono a ingannare il presidente Ljuberski e dalla cancelleria molti finirono direttamente alla «sinagoga». I collaboratori dello/ udenrat fecero rilasciare numerosi documenti di «dubbia» validità. Fu soprattutto • Nome di una collina a quattordici chilometri da Siauliai, sulla quale nel settembri? del 1941 furono fucilate 500 persone.
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Burgin a operare in tal senso. Ritirava agli anziani i loro fogli blu, senza farsi vedere li metteva sul tavolo della cancelleria e dalla finestra li passava a uno degli addetti alla registrazione, che rilasciava il nuovo documento. In tal modo molta gente ebbe salva la vita. Ma già l'indomani il presidente, avendo avuto sentore di qualcosa, effettuò controlli più severi. Rimosse Burgin dall'incarico e lo minacciò di mandarlo alla «sinagoga». Gli fece avere un documento giallo soltanto a registrazione conclusa. Quel giorno venne al ghetto l'incaricato Stankus. Dopo aver visto che cosa accadeva nel ghetto, molti dei suoi abitanti sfollarono nelle campagne, spinti anche dalla paura della fame. Presero accordi con i principali coltivatori e si misero al loro servizio come braccianti. I contratti dovevano essere approvati e firmati dall'addetto agli affari ebraici. Quest'ultimo vi aggiungeva qualche clausola speciale: il datore di lavoro è tenuto a vigilare sul suo operaio ebreo, a consegnarlo alla polizia qualora ne sia richiesto, e così via ... li contratto veniva trasmesso all'Arbeitsamt,"" di cui era richiesta la conferma. Provvista di questi documenti sicuri, la gente raccoglieva i propri averi e andava in campagna, dai contadini. Ma dopo pochi giorni il capo del distretto trasmise ai virsaitisi (i responsabili delle zone agricole) l'ordine di espellere tutti gli ebrei dalle campagne. Chi scrive fu tra coloro che si erano recati nei villaggi; era al servizio del contadino Jonas Aleksandras e si era trasferito in campagna con tutti i propri averi; era partito il 18 settembre. L'ordine di espulsione fu diramato il 23 dello stesso mese. Il brigadiere lo comunicò soltanto il 24. In un primo momento chi scrive cercò di ottenere un giorno di proroga, ma inutilmente: dovette tornare in città; dovette preparare i bagagli in gran fretta e lasciare la maggior parte dei suoi averi dal contadino. In città fu costretto a dare ciò che gli era rimasto alla polizia, per un «controllo». Il giorno seguente era sparita ogni cosa: tutto rubato. A tutti coloro che hanno cercato di salvarsi riparando in campagna è toccata la medesima sorte: quella di tornare indietro «senza il peso» dei loro beni.
Dal diario 4 febbraio 1943. Oggi l'ufficio del lavoro (Arbeitsamt) ci ha ordinato di trovare per domani duecento uomini. Inoltre il contingente degli operai del campo d'aviazione dovrebbe essere rinforzato. Nella riunione congiunta dello /ud,mmt e della sua commisione per il lavoro si è discusso a lungo ~u come reperire la manodopera richiesta, ma non si è approdati a nulla. E sorta spontanea la domanda: che cosa ne è stato dei 480 uomini che in estate sono andati a lavorare alla torbiera? At• Gli ebrei furono m~si al servizio dei contadini per ordine di A. Stankus e del capo del distn:>tto, Noreiki. •• Ufficio del lavoro. (Nd1)
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tualmente vi lavorano 100 persone. Altre 100 sono impiegate al campo d'aviazione, 85 al campo di Linkaiciai, 55 lavoranoalla costruzione di ferrovie, 20 sono a Strala: in tutto 360 persone. Che fine hanno fatto gli oltre cento operai che mancano all'appello? Si erano tutti ammalati. Gran parte di loro aveva riportato danni a carico del cuore, altri avevano contratto un'ernia inguinale, e poi foruncolosi, cancrena, ecc. Metà delle donne non aveva più le mestruazioni e aveva qualche parte del corpo tumefatta. 6 febbraio 1943. Gli avvenimenti precipitano rapidi, come in un film. II giorno della liberazione si avvicina.,. Nello stesso tempo il pericolo cresce. Il commissario regionale ha fatto chiedere al delegato lituano della commissione lavoro dello/w1enrat se negli ultimi tempi gli ebrei non sono stati eccessivamente indisciplinati. 22 feb/1raio 1943. Ieri un ebreo che camminava sul marciapiede è stato arrestato dall'agente di pubblica sicurezza del ghetto, il brigadiere Welkstis. Quest'ultimo ha insultato l'ebreo e gli ha detto tra l'altro: «Vi piace credere che riavrete la libertà, perché i russi si avvicinano. Ma vi sbagliate di grosso; per voi non arriverà mai quel momento: vi sgozzeremo tutti prima». 19 marzo 1943. Nella conceria sono impiegati almeno duecento operai ebrei. Dal commissariato regionale è giunto l'ordine di licenziare alcuni operai in quanto avrebbero commesso infrazioni disciplinari sul lavoro. A prezzo di notevoli sforzi è stato ottenuto l'annullamento della disposizione. Ciononostante Siegel, il sorvegliante, ha fatto il giro dei reparti squt1drando in volto ogni operaio, come se stesse cercando di fissare nella memoria i lavoratori particolarmente affaticati per poi licenziarli. 27 marzo 1943. Un uomo che il 23 marzo ha assistito a un'esecuzione in prigione ha raccontato che un'ebrea che doveva essere giustiziata insieme t1I suo bambino si è opposta con tutte le sue forze: non si voleva lasciare assassinare. L'hanno spinta con il bambino nella fossa, ma lei ne è uscita. Allora l'hanno ricacciata nella fossa e hanno sparato con la milrngliatrice, uccidendola insieme al suo bambino. 29 aprile 1943. È stata aperta in via semiufficiale la scuola elementare del ghl•tto per il quartiere di Trakai. Si trova nell'edificio di una sinagoga, sul matroneo, per una superficie di diciotto metri quadrati. È aperta dalk• nove alle sedici. Vi sono iscritti novanta allievi, divisi in quattro gruppi; ogni gruppo segue un'ora e mezzo di lezione. La scuola del quartiere di Kaukazas è stata inaugurata il 15 luglio. Anch'essa è nello stabile di una sinagoga e dispone di oltre venti metri quadrati. Le lezioni si tengono dalle sette alle venti. I bambini iscritti sono duecento, divisi in sette gruppi. L'iniziativa di dare vita alla scuola è partita da A. Heller, membro dcl_lo f11dl'llrat, e dal suo segretario A. Jerusalmi. E degno di nota il fatto che nonostante le condizioni di vita difficili, i • L'11utorc intende qui la vittoria dell'Annata Rossa. (Nota de'/ c,mitore rus..;o)
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bambini vanno a scuola con gioia e seguono con piacere e attenzione le lezioni. Trentacinque, quaranta bambini stanno l'uno accanto all'altro, seduti o in piedi. In classe c'è silenzio, ma è un silenzo in cui il ghetto torna a vivere. Anche il lavoro dei bambini in giardino ha dato buoni risultati. Divisi in gruppi hanno rimesso in ordine tutti i giardini dello Jude,irat. Attualmente sono impegnati a strappare le erbacce e a curare le piante. I dodicenni si sentono adulti e nel compiere il loro dovere non sono da meno dei grandi. 4 maggio 1943. Oggi il ghetto di Siauliai ha passato una giornata difficile. Già prima dell'ora di pranzo i due poliziotti di guardia all'ingresso hanno fatto capire di essere stati incaricati di effettuare controlli particolarmente severi sulle persone in entrata o in uscita. Intorno a mezzogiorno Papen, un impiegato del commissariato regionale, ha sorpreso Siescl Schwarz in casa di un lituano. Alla domanda: «Che cosa ci fai qui?» I' cbn.>o ha risposto: «Sono venuto a pranzo». Papen si è annotato il suo nome e gli ha chiesto dove lavorava. Schwarz ha risposto che scaricava patate per il campo di Baciunai insieme ad altri operai ebrei. Più tardi Papen è arrivato nel ghetto in compagnia del commissario regionale• e del famigerato Schriwer. Si è messo a ispezionare le colonne degli operai che rientravano dal lavoro. I poliziotti Strupkus e Jurgatavickus hanno effettuato le perquisizioni. Specialmente il secondo ha picchiato gli operai e le operaie, e si è comportato in maniera oltremodo rude. Centinaia di persone sono passate per le porte del ghetto del Kaukazas. Sono state tutte perquisite a fondo. Quindici di loro sono state trovate in possesso di «merce di contrabbando»: tozzi di pane, qualche patata, un po' di carne, una presa di tabacco e simili. I «delinquenti» sono stati obbligati a inginocchiarsi e poi sono stati portati in prigione. Soltanto due ragazzini trovati in possesso di qualche patata sono stati rilasciati dal commissario regionale, che tuttavia ha ordinato ai membri dello Judenrat di dare loro una «buona lezione». I ragazzini sono stati portati nel ghetto. Il commissario regionale non si è dimenticato di chiedere se hanno ricevuto la loro «punizione». Dal ghetto di Kaukazas gli «ospiti» sono andati in quello di Trakai, dove hanno chiamato gli operai impegnati a scaricare patate e li hanno rilasciati tutti, a eccezione di Schwarz. Fuori del ghetto i tre hanno riservato una «festosa accoglienza» alla colonna degli operai di rientro dal campo d'aviazione. Sette delle trecentoventi persone sono state sorprese in possesso di generi alimentari. Anche costoro sono stati costretti a inginocchiarsi e sono stati portati in prigione. In tutto sono state arrestate e tradotte in carcere ventitré persone. • Il commissario regionale era Hans Hewecke, di professione barbiere. Nel 1969 fu condannato dalla camera d'assise di Lubecca a quattro anni e mezzo di reclusione per aver preso parte diretta ali'assassinio di Bezalel Masowiecki.
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6 maggio 1943. Di primo mattino nel ghetto del Trakai è stato annunciato che tutti gli abitanti erano tenuti ad assistere a un'esecuzione. Verso le dieci gli adulti si erano già raccolti a11e porte del ghetto. A1l'infuori che ai bambini non è stato permesso a nessuno di rimanere a casa. La gente sostava in silenzio alla sbarra. Si attendeva l'arrivo degli «ospiti». Alle undici è sopraggiunta un'auto. A bordo c'erano il capo de11o stato maggiore Bub, Papen, Braun, della gendarmeria, Spakauskas, interprete de11a gendarmeria, e Kroll, dell'so. Seguivano l'auto quattro poliziotti armati di mitragliatrice. In mezzo a loro c'era Bezalel,* il condannato, con le manette ai polsi ..... Avanzava con passo deciso e con il sorriso sulle labbra. Forse sperava che lo avrebbero risparmiato all'ultimo minuto. Il condannato è stato condotto al patibolo, dove c'erano due boia e un medico ...,.. Masowiecki ha chiesto che gli venissero tolte le manette, ma non è stato accontentato. Ha chiesto di poter dare l'ultimo saluto alla moglie e al figlio, ma anche questo gli è stato negato. Allora ha detto: rbel ricevettero più di 1000 marchi.
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8 maggio 1943. È arrivata un'ordinanza riguardante le persone agli arresti (intanto il loro numero è salito a ventisette). Domani mattina alle dieci saranno portate dalla prigione al ghetto e battute in pubblico. Gli uomini riceveranno venti colpi, le donne dieci. Questa è la punizione che toccherà a chi aveva cercato di portare nel ghetto un tozzo di pane, un paio di patate o due uova ricevute in regalo. «Avviso. «Per ordine del commissario regionale viene notificato quanto segue: domenica 9 maggio i prigionieri arrestati il 4 maggio per avere tentato di introdurre generi alimentari nel ghetto saranno portati fuori del carcere. Alle ore dieci, nella piazza del ghetto, in via Gelgaud n. 1 (nel parco), sarà inflitta pubblicamente a tutti costoro una punizione corporale, alla presenza delle autorità. La popolazione del ghetto è tenuta a presenziare. Addì 8 maggio 1943.» 10 maggio 1943. Ieri, alle dieci e trenta, i rappresentanti delle autorità Papen, impiegato del Preisiibentmch1mgssfel/e,* e Habermann, sostituto del capo dello stato maggiore (nonché direttore delle scuole dell'arca di Siauliai)- sono andati alla prigione e hanno ordinato di mandare fuori i detenuti. Sotto scorta di polizia questi sono stati condotti nel ghetto del Kaukazas, in piazza (nel parco). Sono stati messi in fila per quattro e ciascuno di loro ha ricevuto dieci colpi di manganello. Soltanto all'ultimo momento i membri dello /11de11rat sono riusciti a convincere i rappresentanti delle autorità a risparmiare alle otto donne e agli uomini malati quella punizione umiliante e a ridurre il numero dei colpi. 12 maggio 1943. Oggi il poliziotto Jurgatavickus si è messo a perquisire a fondo tutte le persone che passavano dalla porta del ghetto. Ha arrestato una donna e l'ha costretta a inginocchiarsi. È rimasta un po' di tempo in quella posizione, poi è stata rilasciata in cambio di mezza bottiglia di vodka. Un'altra donna è stata trovata in possesso di mezza bottiglia di latte. Il poliziotto le ha ordinato di vuotarla. 19 maggio 1943. Oggi nel ghetto c'è stata una nuova incursione. Alle cin· que e trenta il commissario regionale Hcwccke e Papen sono passati davanti al ghetto del Kaukazas, si sono fermati poco più in là e hanno iniziato a esaminare le colonne di passaggio. Schriwer ha perquisito personalmente ogni lavoratore, ispezionandone i vestiti centimetro per centimetro. L'operazione ha portato all'arresto di dieci persone, tra le quali anche un ragazzino di quattordici anni. Tutti gli arrestati hanno dovuto restare in ginocchio sino a perquisizioni concluse. Poi sono stati portati in prigione. ì>erchésonostati messi agli arresti? Ne dà ragione l'elenco di tutta la «merce» confiscata: 2,8 chilogrammi di piselli, 1 chilogrammo di pasta, 0,5 chilogrammi di salsiccia di fegato di maiale, 0,5 chilogrammi di burro, 2 uova, J,25 chilogrammi di carne cotta, 1 chilogrammo di pane, 0,25 chilogrammi di acetosa, 1 chilogrammo di fette biscottate e 1,5 chilogrammi di patate. Servizio di vigilanza sui prezzi. (Ndn
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21 maggio 1943. Ieri i rappresentanti dello /11dr11rat si sono recati al Regierungsrat,• da Bub e Papen. Con riferimento al succitato elenco degli alimenti confiscati, hanno descritto le angherie cui sono sottoposti i lavoratori ebrei: tutti, donne e uomini, si trovc1no in una situazione assolutamente insostenibile. Gli operai, specialmente quelli sorpresi in possesso della maggior pilrte dei viveri, lavornno dalle sette del mattino fino a mezzanotte. Al lavoro portano con sé soltanto cento grammi di pane. Come è possibile sostenere senza mangiare una giomat,1 di duro lavoro tanto lunga? Il Regierrmgsrat ha promesso di liberare gli arrestati. Il vero problema, ha spiegc1to il capo dello stato maggiore Bub, è che è stato trovato del burro. È soltanto a causa del burro che le persone fermate non sono state rilasciate subito. Ora saranno rimesse in libertà, ma sarà loro inflitta una punizione corpornle; e non come quella dell'ultima volta: saranno distesi su una panca e fustigati «coscienziosamente». Sono arrivate informilzioni da Vilnius. La sorveglianza alle porte del ghetto si è fatta severissima. Adesso sono gli ebrei stessi a dovere svolgere le perquisizioni, sotto lo sguardo delle sentinelle tedesche. Si è verificato un caso in cui i tedeschi hanno ispezionato alcune persone già perquisite dagli ebrei e hanno rinvenuto generi alimentari. Le sei persone che avevano effettuato i controlli sono state fucilate. 22 maggio 1943. Oggi Leibovice Katz, membri dello /11dmrat, sono andati al commissariato regionale. Là Papen ha comunicato loro che domenica 23 i detenuti saranno portati nel ghetto del Kaukazas (nove dei dieci arrestati vengono da là) e sottoposti a pubblica fustigazione nel parco di via Gelgaud. Ha aggiunto che questa volta saranno fustigati sul serio, perché alla punizione assisteranno il capo e il suo sostituto. J rappresentanti dello Judenrat hanno chiesto di essere ricevuti dal capo, nella speranza di riuscire a ottenere un alleggerimento della pena. Il capo li ha ricevuti e ha detto loro a voce alta, in modo che tutti potessero sentire, che i «figli di cane» che introducono di nascosto lardo e salsicce nel ghetto devono essere puniti con rigore. Quando i rappresentanti del ghetto hanno obiettato che tra quelle dieci persone c'era anche chi aveva con sé soltanto del pane o qualche patata, il capo ha risposto: «La prossima volta questa gente andrà a finire da qualche altra parte». «Ordinanza. «Su disposizione del commissario regionale viene notificato quanto segue: alle ore undici di domenica 23 corrente mese, tutti coloro che il 19 dello stesso sono stati arrestati per avere tentato di introdurre generi alimentari nel ghetto saranno portati fuori del carcere e nel parco di via Gelgaud n. 1, nel ghetto del Kaukazas, saranno sottoposti a una punizione corporale. Alla popolazione del ghetto è fatto obbligo di assistere al castigo. Schaulen, addì 22 maggio 1943.» 23 maggio 1943. Alle dieci di stamane i dieci detenuti sono stati con• Consiglio amministrativo. (Ndn
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dotti alle porte del ghetto del Kaukazas, accompagnati da Welkstis (l'ex brigadiere della guardia del ghetto) e da un altro poliziotto. l prigionieri sono rimasti in piedi lì all'ingresso un'ora e un quarto. Welkstis agitava un bastone sopra le loro teste e gridava: «State per ricevere quello che vi meritate: perché avete trasportato di soppiatto lardo e perché siete bolscevichi». Si è avvicinato anche alle guardie ebree, le ha importunate e le ha schernite. Continuava a ripetere: «Se per i tedeschi tutto andrà a finire bene, forse sarete lasciati in vita e potrete continuare la vostra inutile esistenza. Ma se le cose si metteranno male, sarete scannati. Ce ne occuperemo io e quelli come me, perché se voi usciste dal ghetto fareste lo stesso con noi». Alle undici e un quarto è arrivata l'automobile del commissario regionale. C'erano a bordo Schriwer, Lipker, Braun e un fascista lituano. Welkstis e gli altri poliziotti hanno portato i detenuti nel parco di via Gelgaud n. 1, dove, in uno spiazzo, c'era un tavolo. Gli abitanti del ghetto si erano raccolti tutt'attorno. All'ultimo minuto i membri dello/ udenrat Leibovié e Katz hanno supplicato le autorità di annullare la pena per il minorenne L., che aveva cercato di nascondere soltanto qualche patata. li ragazzo è stato portato via. Quindi è iniziata l'esecuzione. Prima, però, Katz è stato costretto a parlare alla folla per ricordare a tutti che per gli ebrei è stata fissata una norma (cento grammi di pane per chi non lavora e duecento per i lavoratori) e che non è consentito introdurre nel ghetto alcunché. I detenuti sono stati portati vicino al tavolo; e una volta distesi (quelli che indossavano un cappotto hanno dovuto levarselo) sono stati colpiti con i manganelli di gomma dai poliziotti. Sennonché, non soddisfatto di questa punizione, Welkstis ha assestato ad alcune delle vittime diversi colpi aggiuntivi con una barra di ferro. 26 maggio 1943. Baciunai ci inquieta. Vi sono impiegate a estrarre torba ben trecentoventi persone, molte delle quali, però, sono ormai così malate e deboli che non sono più in grado di recarsi al lavoro. Di fatto laggiù ci sono duecento operai, mentre gli altri sono occupati nell'amministrazione, in cortile o nei laboratori. Con questi operai è possibile formare quotidianamente soltanto sei squadre di venti persone ciasuna. Per costituirne una settima mancano gli effettivi. Ciò è motivo di costanti malintesi tra il direttore della raffineria della torba e lo Judenrat. Il direttore continua a ripetere che con trecentoventi persone si devono ricavare otto o almeno sette squadre, come gli viene richiesto dall'amministrazione economica del commissariato regionale. Lo Judenrat insiste perché le squadre rimangano sei. Certo sarebbe più facile dichiarare che tra i trecentoventi operai ve ne sono molti per i quali l'estrazione della torba rappresenta uno sforzo soverchio e che costoro dovrebbero essere rinviati al ghetto. Lo Judenrat, però, si guarda bene dal riconoscere ufficialmente questa situazione. In primo luogo verrebbe subito richiesto di rimpiazzare i malati con manodopera sana: e dove la si andrebbe a re-
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perire? Ma ciò che più conta è che nel ghetto essere deboli o malati è pericolosissimo. 28 maggio 1943. Poco tempo fa a Kaunas è stato distribuito alla popolazione lituana il seguente avviso: «In considerazione del fatto che sono in preparazione azioni contro gli ebrei del ghetto, invitiamo tutti i veri patrioti a non prendervi parte: simili atti macchiano infatti il buon nome dei lituani». Firmato: «Comitato per il ripristino dell'indipendenza della Lituania». Una copia di questo avviso è stata data da un operaio lituano a un collega ebreo, che l'ha trasmessa a Lifzer, uno dei membri dello /udenrat. 2 giugno 1943. In un memoriale completo sugli ebrei redatto in dieci cartelle dattiloscritte il partito dei nazionalisti lituani, ormai succubo dei tedeschi, scrive tra l'altro (a pagina 5): «Ai battaglioni formati da lituani vengono assegnati compiti che mortificano la Lituania e i suoi soldati: fucilazioni di ebrei e di prigionieri civili bielorussi; se gli ufficiali lituani si rifiutano di compiere tali esecuzioni, vengono minacciati di essere fucilati a loro volta. Durante le fucilazioni vengono scattate fotografie, ma soltanto alle unità lituane: quelle tedesche non vengono inquadrate ... ». 20 giugno 1943. Beuer, il segretario dell'organizzazione fascista, ha trascorso una parte delle sue vacanze in Germania, dove ha visto i bombardamenti inglesi e americani. È infuriato e scaglia tuoni e fulmini contro gli ebrei. Davanti a un operaio ebreo ha raccontato di essere stato a pranzo da un generale, il quale avrebbe detto che nel ghetto ci sono ancora troppi ebrei e che è necessario ridurne il numero. 30 giugno 1943. Oggi, due rappresentanti dell'so,• Krehl e Hof, hanno richiesto una documentazione supplementare sugli abitanti del ghetto. Hanno insistito perché questi ultimi siano classificati in quattro categorie: 1) soggetti sino ai trent'anni di età, maschi e femmine; 2) soggetti occupati in settori di rilevanza strategica; 3) soggetti internati nei campi; 4) soggetti con ridotte facoltà di lavorare. A tali categorie lo/ udenrat ha dovuto aggiungere anche la voce «colonna di riserva», che sta a indicare tutti coloro che non lavorano a tempo Pieno o non lavorano affatto. Vi rientrano le madri con bambini piccoli, gli anziani e le persone che lavorano al campo d'aviazione due o tre giorni la settimana. I rappresentanti dell'so non hanno accettato l'inclusione di un mig~aio di donne in questa colonna e hanno ordinato di mettere a disposizione altre cinquecento persone, tra le quali coloro che lavorano due o tre giorni la settimana. Ciò significa che ora devono lavorare anche malati, minori, bambini e madri con bambini piccoli. Tutto questo sarebbe ~ersino tollerabile se le cose si fermassero qui; sennonché la visita delI so desta ben altre preoccupazioni ... • A partire dal 1° luglio 1943 il ghetto non era più sottoposto all'amministrazione cittadina, bensì alle ss. ·
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9 luglio 1943. Nel n. 154 del giornale «Ateitis» è apparso un articolo del commissario regionale del Kauenland,* il Brigail~fuhrer dell'SA A. Lentzen, intitolato Scniitori degli chrei. «Purtroppo» scrive Lentzen «ancora ai nostri giorni a Kauen e nell'area circostante si vedono le impronte delle zampe d'Israele. Basta osservare i singoli fatti che accadono per strada quando le colonne degli ebrei rientrano nel ghetto. In quei momenti succedono davvero le cose più incredibili. In questi ultimi giorni io stesso ho avuto modo di vedere una signora elegantemente vestita, una lituana, avvicinarsi a una colonna e safutare un ebreo. Gli ha stretto la mano con incredibile cordialità e si è mes,_c;a a parlare con lui. Che legame c'era stato tra loro e che legame c'era ancora? Sono intervenuto e ho interrotto il colloquio. L'ebreo è scappato di gran carriera, la donna, imbarazzata e impaurita, ha cercato di svignarsela. Poiché sfortunatamente non conosco la lingua lituana, non ho potuto rimproverarla a dovere. Ma è chiaro che mi ha capito: lo dimostra il suo comportamento. «È poi dato constatare che in nome di vecchi rapporti d'amicizia gli abitanti della città e dei suoi dintorni riforniscono gli ebrei di generi alimentari. Dalle ispezioni effettuate sulle colonne di operai ebrei simili casi sono emersi in modo assolutamente inequivocabile. Come può accadere che un ebreo o un'ebrea delle colonne dei lavoratori entrino nel!'abitazione di un lituano e s'intrattengano con lui come se fosse un loro pari? Invece di cacciarli fuori, i lituani stanno a chiacchierare con loro e arrivano persino a concludere con loro qualche affare. Non possiamo non rammaricarci nel constatare che questa gente non si comporta come deve e offre un cattivo esempio al proprio popolo. «Ancora più riprovevole è il commercio dei contadini, in periferia. Quando si chiede a un contadino se ha generi alimentari o verdura, egli risponde in modo evasivo; invece agli ebrei li vende "con piacere". Una singolare amicizia. Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. Vorrei che tutti coloro che allacciano relazioni con gli ebrei, li sostengono o cercano di rimanere in contatto con loro, portassero una stella con la scritta "servitore degli ebrei".» 17 luglio 1943. Sabato 17 luglio, due poliziotti di guardia al portone si sono ubriacati e a mezzanotte e trenta hanno fatto irruzione nel ghetto, aggredendo i passanti. Hanno portato un uomo fuori del ghetto, lo han· no picchiato e hanno minacciato di fucilarlo. Erano smaniosi di trovare ragazze ... Il guardiano Genoch Rais, un ebreo, ha provato a intromettersi ed è stato malmenato anch'egli. 26 luglio 1943. Al ghetto la notizia che Mussolini è uscito di scena è stata accolta con incredulità e con gioia. La gente, tuttavia, ha fatto mostra di comportarsi come se nulla fosse: ha imparato che non deve manifestare i propri sentimenti. Che cosa dovremo passare ancora? • Kauen è Kaunas in tedesco. (Ndn
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28 l11glio 1943. Nel n. 165 del giornale «Ateitis» è apparso un nuovo arti.:olo: Cli cbn•i e i loro ~L"'n•ilori. « ... simpatie affatto particolari per gli ehrei nutre l'avvocato Vsevolod Kopp. Potete incontrarlo alle sette del mattino nel parco della città, dove s'intrattiene amichevolmente con loro; quando li lascia, li saluta con un sorriso e con una stretta di mano. ((Sono parecchie le persone cond;mnate per avere commerciato clandestinamente con gli ebrei; tra queste Rosalija Moltene, domiciliata a K;iuen in via Janovsk n. 4/9, e Petronella Rudkauskene del villaggio di Uzlekniai, regione di Kauen. Simili infrazioni vengono punite con pene detentive. Ai sensi delle norme vigenti le persone appena menzionate si trovano agli arresti da oltre un mese.» 31 luglio 1943. Dal campo dell'aeroporto è giunta la notizia che ieri i piloti hanno organizzato una festa da ballo alla quale hanno partecipato il commissariù generale e il commissario regionale. Hanno parlato degli ebrei. L'accento è rnduto su due questioni: 1) gli ebrei non salutano gli ufficiali; 2) gli ebrei devono lavorare anche la domenica. 7° agosto-1943. Oggi il capomastro• del campo d'aviazione ha preso un giovane ebreo che ieri non si era presentato al lavoro; lo ha costretto a correre dietro due biciclette e lo ha picchiato ogni volta che lo ha visto perdere terreno. li capomastro ha legato al collo del giovane una sega e una cassa piena di chiodi (quattro chili di peso), e lo ha fatto camminare per due chilometri a suon di bastonate. Spossato e malconcio, il ragazzo è riuscito a stento ad arrivare a casa. 5agosto 194.3. Oggi alcampod'aviazioneèstatoun giorno difficile. Due sottufficiali, a quanto pare appartenenti alla Gestapo, hanno deciso di «dare una regolata» agli ebrei. Di buon mattino hanno imposto loro l'obbligo di salutare ogni militare tedesco, soldati semplici inclusi. Cinque metri prima di incrociare un sottufficiale tedesco gli ebrei devono togliersi il berretto e lo devono tenere alzato sulla testa per altri cinque metri dal punto dell'incontro. Lo stesso devono fare quando passano davanti a un ufficiale, nel qual caso, però, i dieci metri che precedono e i dieci che seguono il punto dell'incontro devono essere coperti a passo di corsa. Ogni volta che una colonna di operai ebrei incrocia un sottufficiale o un ufficiale, tutti i suoi componenti sono tenuti a sfilare davanti a costoro a passo di corsa con il berretto alzato. I due sottufficiali haimo fatto esercitare una colonna secondo le istruzioni prescritte. Poi sono andati a controllare come procedeva il lavoro. Si sono imbattuti in un operaio che se ne stava seduto senza fare nulla e per punizione lo hanno costretto a correre per un chilometro e mezzo. Hanno cercato di strangolare un secondo operaio, che stava seduto senza camicia e dunque «non portava il contrassegno di riconoscimento degli ebrei». Hanno obbligato un terzo operaio a correre tra le loro bici• Con Polirr, capomastro, si intt'!lde qui la persona addetta alla sorveglianza dei lavoratori e al controllo dei lavori. (l\idD
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elette senza restare indietro. Insomma, hanno tormentato chiunque sia capitato loro sottomano. 10 agosto 1943 (9 av•J. Oggi ci è giunta notizia di importanti cambiamenti. La gioia è grande, benché dissimulata. Nella sinagoga qualcuno ha proposto di interrompere le preghiere tristi, perché la liberazione si avvicina."• 31 agosto 1943. Riunione generale dello fudenrat e dei rappresentanti del ghetto. Erano presenti: M. Leiboviè, A. Heller, P. Rubinstein, A. Katz, Sch. Burgin, A. Abramson, A. Kalfenickij, A. Breloviè, B. Abramoviè, P. Wiz, D. Gez, M. Rubinstein, I. Minor, M. Mii, A. Seigarnik, A. Slesin, Ch. Cemjavskij, A. Gez, A. Gutman, Ch. Zilinskij, K. Uzwen, A. Gens, J. Mordei, Ch.L. Seskin, S. Katz, dr. Burstein, dr. Direktorowicz, dr. Kamber. Presidente: M. Leiboviè. Segretario: A. Katz. Comunicazione dei rappresentanti del ghetto concernente una richiesta della polizia di sicurezza (Gestapo). Il presidente M. Leibovice il membro dello Judenrat A. Katz hanno riferito che alle undici di stamattina il comandante della Gestapo Mack li ha convocati e ha annunciato loro quanto segue: «In considerazione del fatto che gli ebrei violano le disposizioni che proibiscono severamente di introdurre viveri nel ghetto e in relazione a quanto accaduto il 29 agosto 1943, quando dai controlli su una colonna di operai ebrei impiegati in lavori agricoli per conto del Gebietskommissariat è emerso che le persone perquisite portavano con sé un ingente quantitativo di generi alimentari, cosa severamente proibita dalla legge, per punizione domani, 1° settembre 1943, alle ore dodici, lo Judenrat dovrà inviare alla prigione cinquanta ebrei. Se all'ora stabilita questi ultimi non si dovessero presentare, lo Judenrat si assumerà ogni responsabilità». Sapendo bene che cosa significa inviare ebrei alla prigione, i membri dello Judenrat hanno risposto che si sarebbero rifiutati di obbedire a quell'ordine; all'ora stabilita si sarebbe messo a disposizione delle autorità lo Judenrat stesso. Jl comandante della Gestapo ha ribadito che all'ora fissata si sarebbero dovuti presentare cinquanta ebrei: questa era l'unica cosa che lo interessava; chi poi essi fossero era irrilevante. Quando gli è stato chiesto se non fOS-5e proprio possibile annullare la pena o commutarla, il comandante ha risposto: «Le disposizioni che ho ricevuto dal Gebietskommissar sono queste; io devo eseguirle nei tempi previsti». Con queste parole il colloquio ha avuto termine. l rappresentanti dello Judt>r1rat si sono quindi rivolti al dottor Gi.inter,*"'* direttore dell'Arheitsamt, il quale ha promesso loro di «intervenire». • Tradizionale giornata ebraica di lutto e di digiuno in ricordo della distruzione di Gerusalemme da parte dei romani (primo secolo della nostra era). (NdA) •• Ci si riferisce all'offensiva del!' Armata Ros._condo il rapporto del 29 novembre 1941, nel corso della «l•liminazione dal ghetto degli ebrei superflui», la cosiddetta ,,grande azione», furono fucilati 2007 uomini, 2920 donne e 4273 bambini, per un totale di 9200 persone.
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te la prima guerra mondiale erano stati decorati al valore. Furono rinvenuti anche i libri di preghiera di diversi rabbini. Tutti questi oggetti erano stati impacchettati con cura in vista di un lungo viaggio. Quasi ogni bagaglio conteneva anche un vestito da lavoro: un abito da fabbro, pantaloni di fustagno e così via. Secondo la depnsizione rilasciata davanti alla Commissione statale straordinaria dall'ex guardia del IX Forte, I. Naudijunas, questo primo gruppo di ebrei stranieri contava 4000 persone. Il 10 dicembre iniziarono le fucilazioni. Il 16 dicembre arrivò un secondo contingente di 3000 persone, che vennero anch'esse fucilate. Nell'inverno 1941-42 furono portati nel forte altri gruppi di ebrei dalla Germania, dall'Austria, dalla Cecoslovacchia e da altri stati occupati dai fascisti.* li 4 febbraio 1943, dopo l'umili,mte disfatta di Stalingrado, i fascisti scaricarono tutta la loro collera sugli ebrei. Condussero un gruppo di «delinquenti» (chi avt:>va comprato un giornale, chi un pezzo di pane) nel IX Forte e li giustiziarono insieme a mogli e figli. Contemporaneamente, il regime di terrore cui era sottoposta la popolazione civile di Kaunas si inasprì. Chi destava anche il più esile sospetto di avere legami con i partigiani, veniva arrestato e rinchiuso nel IX Forte. Centinaia di antifascisti, operai e intellettuali, vi trovarono la morte.
3. La distruzione delle fosse co1111111i Subito dopo la sconfitta di Stalingrado i tedeschi organizzarono una squadra speciale che avrebbe dovuto aprire le tombe del IX Forte, disseppellire i cadaveri e bruciarli. Dopo due mesi la squadra riuscì a fuggire. Una parte degli evasi si unì ai partigiani. Alcuni sopravvissuti, come Alter Feitelson, lsroel Gitlin, Pinchos Krakinowski, Aron Vilenèuk, Bcrl Gempel e Vladislav Blum, hanno raccontato a chi scrive tutto ciò che hanno visto e vissuto nel IX Forte. Chi scrive ha utilizzato inoltre appunti redatti nel ghetto sulla scorta delle informazioni fomite dal partigiano Aron Maneiskin (anch'egli evaso dal forte). Nell'autunno del 1943 i contadini trasportarono nel forte circa cinquecento metri cubi di legno, un grande quantitativo di benzina e di combustibili ed esplosivi di vario genere. L'area situata sul lato occidentale del forte, quella in cui si trovavano le fosse comuni, fu isolata con una cortina di teloni da campo alta due metri e mezzo. Arrivò quindi una scav,1trice. Attorno al forte, per un raggio di diversi chilometri, furono inalberati cartelli che avvertivano: «Chi si avvicina sarà immediatamente fucilato». A mt•tà del novembre del 1943 la squadra incaricata di bruciare i cadaveri era composta da 72 elementi. Ne facevano parte: • Gli ebrei stranieri che persero la vita a Kaunas, dove arrivarono dalla Germania e da altri paesi europt•i, furono fra i 10.000 e i 15.000.
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1) 34 prigionieri di guerra sovietici; 2) 14 ebrei arrestati mentre cercavano di raggiungere i partigiani (Simen Eidclson, Berl Gempel, Michl Gelbtrunk, Moishe Gerber, Mendi Deit, Aba Diskant, Aron Vilenl'uk, Moishe Simelevié, Shmuel Chononovié, Aron Maneiskin, Alter Feitelson, Pinchos Krakinowski, Schepsel Schmit). 3) 9 ebrei del ghetto, tra cui Moishe Levin, Lachnicki, Meister, Tevje Friedman, Mendèl Jachas, Jsroel Gitlin. 4) 8 ebrei arrestati a Kaunas per i più svariati motivi (per essere usciti senza la toppa gialla, per aver acquistato generi alimentari da lituani, per essersi nascosti presso lituani). Tra loro il dottor Portnoi, Hirsh Schalit, Witkin, Schusterman (un rabbino polacco), Vladislav Blum (un avvocato di Varsavia). 5) 3 fratelli russi sorpresi a preparare un sabotaggio partigiano nei dintorni di Kaunas.,. 6) Una polacca sospettata di essere ebrea. 7) 3 ebree del ghetto. Tra i prigionieri di guerra c'erano: il dottor Najmenov, di sessantadue anni, moscovita, maggiore del servizio medico; il capitano I.L. VasilenkoYeselnickij, ingegnere navale;** il sottotenente German Rubinfeld; un fabbro del Caucaso di nome Sachov; il dottor Aron, capitano del servizio medico; il farmacista Baruch; un carrista e marconista lituano; Anatolij Gran, di Odessa. Il comandante del Sonderkommando della Gestapo incaricato di sovrintendere alla distruzione delle fosse comuni del IX Forte era l'Obersturmfiif1rer Radif. Capo dell'amministrazione del forte era l'agente della Gestapo Ridle, noto per la sua crudeltà, il quale andava spesso a effettuare incursioni nel ghetto di Kaunas. Anche il cuoco era un uomo della Gestapo. La guardia era formata da tedeschi della polizia d'ordine di Kaunas, agli ordini dei poliziotti capo Apel e Litschauer. Per qualche tempo Litschauer ricoprì l'incarico di comandante del ghetto. Prima di unirsi ai pélrtigiani un gruppo di fuggiaschi riparò nel ghetto. Qui essi redassero un verbale che illustrava le atrocità commesse nel IX Forte. Eccone il testo. «Verbale. Kaunas, 26 dicembre 1943. «I sottoscritti, appartenenti a un gruppo di detenuti del IX Forte evasi nella notte tra il 25 e il 26 dicembre dell'anno corrente e rispondenti ai • Si tratta dei fratelli Arsenij, Vasilij e Makar Kurganov. Dopo la fuga, Arsenij e Vasilij finimno nelle mani della Gestapo e furono entrambi uccisi. Makar, invece, si salvò. •• Prima della cattura, Vasilenko (più esattamente Veselnickij, 1907-1989) combatteva nel!' Armata Rossa con i gradi di capitano. Fu tra gli organizzatori della iuga degli ebrei del S011Jakom111a11do 1005 fl dal IX Forte di Kaunas (25 dicembre 1943). Insieme a un wurro di evasi raggiunse il ~hetto di Kaunas e, da lì, i partigiani. Più tardi divenne cnm.inJante di un reparto dclii! brigata partigiana ebraica.
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nomi di I.L. Veselnickij (Vasilenko), A. Diskant, A. Feitelson, M. Gelbtrunk, P. Krakinowski, M. Deié, A. Vilenéuk, T. Pilovnik, B. Gempel, $. Eidelson, A. Maneiskin, mettono a verbale quanto segue: «1) Nel periodo compreso tra il 1941 e il 1942 l'area del IX Forte è stata impiegata dal comando tedesco per effettuare esecuzioni di massa. «2) Per occultare tali crimini il comando tedesco, guidato dal capo della Gestapo di Kaunas, ha disposto l'escavazione delle tombe nelle quali si trovano le vittime delle fucilazioni e ha ordinato la cremazione dt.>i cadaveri. «3) Per la realizzazione di tale opera, tra la fine dell'ottobre e l'inizio del novembre del!' anno in corso la Gestapo ha rinchiuso nel forte 72 persone: 34 prigionieri di guerra [ebre,1 sovietici; 14 partigiani; 3 russi; 4 donne; 17 ebrei del ghetto di Kaunas. «4) li lavoro era organizzato in modo tale che gli abitanti della zona circostante non venissero a sapere ciò che stava accadendo nell'area del IX Forte. Entro il raggio di due chilometri sono stati affissi avvisi che minacciavano di morte chi si avvicinava al forte. il luogo nel quale si svolgevano i lavori è stato isolato per un'area di due o tre ettari mediante teloni da campo. Tutti i membri della squadra di operai erano destinati a non uscire vivi dal forte. Ciò è provato dai fatti seguenti: un ebreo proveniente dal ghetto si era ammalato di appendicite e il 1° novembre è stato fucilato; sette prigionieri di guerra, anziani o invalidi, sono stati fucilati il 13 novembre di quest'anno. Erano rimaste così a lavorare soltanto 64 persone. ,,S) Nel corso dei lavori, e precisamente dal 1° novembre al 25 dicembre (giorno della fuga), sono state aperte quattro fosse e mezzo, ciascuna delle quali aveva una lunghezza compresa tra 100 e 120 metri, una larghezza di 3 metri e una profondità di 1,5 metri. Sono stati dissepolti oltre 12.000 cadaveri di uomini, donne e bambini. Su ogni catasta venivano bruciati trecento corpi. I resti del rogo (ceneri e ossa) venivano ridotti in polvere con dei grandi pali e poi mescolati con la sabbia, in modo che non ne rimanesse traccia. «6) Per scongiurare tentativi di fuga, gli operai venivano costretti a lavorare in catene. Tutt'attorno erano state innalzate torrette di guardia munite di mitragliatrice. Le sentinelle erano armate di mitra e di pistola. «7) Tra i 12.000 cadaveri inceneriti, c'erano i corpi di circa cinquemila ebrei provenienti da Vienna, Francoforte sul Meno, Diisseldorf, Amburgo e altre città tedesche, quelli di circa 150 ebrei sovietici prigionieri di guerra e quelli di circa settemila ebrei di Kaunas. Gli ebrei tedeschi erano stati fucilati vestiti. Gli altri prima dell'esecuzione erano stati costretti a togliersi tutti gli abiti tranne la biancheria. «8) La posizione dei cadaveri indicava che la gente era stata obbligata a entrare a gruppi nella fossa e a sdraiarsi a terra. Solo a quel punto era stata fucilata. Di conseguenza quando sono state seppellite, molte persone non erano nemmeno ferite o erano state colpite di striscio.
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«9) Il giorno della nostra fuga rimanevano da aprire nove fosse e mezzo. I capi della Gestapo contavano di terminare i lavori entro il 1° febbraio. «10) Considerato che dalle quattro fosse e mezzo riaperte sono stateriportate alla luce I 2.000 salme e che restavano da aprire nove fosse e mezzo, si può concludere che nell'area del IX Forte sono state sepolte 40.000 persone, vittime delle terribili efferatezze compiute dai tedeschi contro la popolazione civile. Tale ci fra è stata menzionata anche nelle conversazioni degli agenti della Gestapo.» .. (Seguono quattordici firme) Ed ecco i dettagli riferiti dagli evasi del IX Forte. Ogni mattina alle gambe dei detenuti erano applicate delle catene, che venivano rimosse solo per la notte. Per impedire ogni tentativo di fuga, nei primi tempi i tedeschi avevano incatenato i detenuti a coppie. Ma quando avevano visto che ciò era d'intralcio al lavoro, li avevano separati e li avevano incatenati singolarmente. L'opera di riesumazione delle salme si svolgeva in diverse tappe. Anzitutto la scavatrice rimuoveva un primo strato di terra. Quindi una squadra di lavoratori toglieva la terra che ancora copriva i corpi; giungeva allora un gruppo di , illl'inizio, per approntare una cata:-ta con 250 corpi erano nt>eessari tre giorni e che più tardi, per indebolire la vi· ~ilanza dellt! guardie, in un solo giorno si preparavano tre cataste (circa 750 corpi).
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Gelbtrunk era un attore polacco che si era ritrovato a Kaunas allo scoppio del conflitto tra Germania e Polonia. Durante i lavori continuava a cantare questa canzone: A fiotti scorre il sangue rosso, ancora ventimila morti ... Comprate i giornali, leggete i giornali. Da tutto il mondo queste nuove: Rapina, stragi, fallimento, e scandalo, catastrofe ... A fiotti scorre il sangue rosso, ancora trentamila morti. .. , ccc. Chi lavorava accanto a Gt'lbtrunk, finiva per cantare insieme a lui e cadeva quasi in uno stato di ebbrezza: i ferri ai piedi cigolavano e le labbra sussurravano: «A fiotti scorre il sangue rosso ... ». Di quando in quando qualche commissione della Gestapo o delle ss veniva a verificare lo stato dei lavori. In una commissione venuta da Berlino c'era persino un generale. Questi ordinò di continuare a disseppellire i cadaveri e a bruciarli, ma dispose che, almeno per il momento, le fosse non venissero richiuse. Tale operazione avrebbe richiesto troppo tempo; e per il momento l'importante era incenerire al più presto il maggior numero di corpi ... Un giorno giunse da Vilnius un gnippo di agenti della Gestapo. Aron Maneiskin riuscì a origliare una loro conversazione, nella quale i visitatori sostenevano che a Kaunas i roghi dei cadaveri bruciavano meglio che a Vilnius ...
4. L'emsione dei detenuti dd IX Forte Tutti i detenuti sapevano che al termine del lavoro sarebbero stati giustiziati. L'anziano dottor Najmenov supplicava ogni volta i tedeschi di fucilarlo, ma essi cinicamente gli rispondevano: «No, ebreo! Puoi esserci ancora utile ... Devi lavorare ancora». I quattordici giovani catturati mentre cercavano di raggiungere i partigiani appartenevano a un'organizzazione antifascista, e perciò esortarono i detenuti alla resistenza, invitandoli a mobilitarsi.• I reclusi nominarono una commissione di tre persone: due prigionieridi guerra (Sachov e il capitano Vasilenko) e un esponente del gruppo • L'organizzatore principale era il più anziano del gruppo, il prigioniero Aleksandr Podolskij (Chailovakij), soprannominato «brigadil>re Saska .., un prigioniero di guerra originario di Leningrado. Si trovava nl•l forte dal 1941 e, poiche lavorava come elettricista, godeva di una certa libertà di mtwimento all'interno del forte e ne conosceva ogni angolo.
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dei partigiani (Feitelson).* Fu intrapreso lo scavo di un tunnel. In una delle celle della casamatta c'era un pozzo prosciugato, non particolarmente profondo. I prigionil·ri cominciarono a scavare nottetempo una galleria in direzione della cinta perimdrale, che si trovava a circa dieci, dodici metri dalla casamatta. Dopo essere andati avanti per circa un metro, urtarono contro una barriera impenetrabile di pietre e il progetto del tunnel dovette essere abbandonato. Tuttavia fu elaborato un nuovo piano, che avrebbe aperto la via della fuga a tutti i prigionieri. Di notte i detenuti erano rinchiusi nelle celle di una delle casematte. Al termine del corridoio, una scala di ferro conduceva in un locale pieno di vecchio ciarpame. Oltre la porta di ferro che dava sull'esterno c'era un fossato, costantemente presidiato da una sentinella. Dall'altro lato del fossato (a circa venti metri di distanza) si apriva l'ingresso di una galleria che portava nell'ala nord del forte. La galleria era piena di legname. I prigionieri dovevano dunque: 1) assicurarsi di essere in grado di aprire le loro celle; 2) trovare il modo di uscire dalla porta di ferro; 3) rimuovere il legname dal twmel; 4) fabbricare una scala con cui superare i sei metri di altezza del settore nord della muraglia. Le celle erano separate dal corridoio comune mediante grate e robuste porte di ferro, bloccate dall'esterno. Non di rado i fabbri, Pinchos Krakinowski e Alter Feitelson, restavano all'interno delle casematte per svolgere vari lavori. Benché incatenati, durante il giorno potevano muoversi nella casamatta con relativa libertà.** Per prima cosa fabbricarono le chiavi per le porte delle celle. Una volta trovato il modo di uscire almeno da una cella, sarebbe stato possibile aprire con facilità tutte le altre. A tale scopo Krakinowski allentò la ribaditura metallica di uno dei chiavistelli. Sarebbe bastato spostare di poco la barra di ferro per avere accesso al corridoio e potere così andare ad aprire tutte le altre celle. Ogni giorno due prigionieri avanzavano il pretesto di essere malati per non recarsi al lavoro. Ma al posto dei vari «malati» rimanevano nella casamatta sempre i due fabbri (i tedeschi si limitavano a controllare il numero dei prigionieri assenti dal lavoro). Nella porta di ferro era necessario praticare un'apertura sufficientemente grande da consentire il passaggio di un uomo. Con un piccolo punteruolo, trafugato dall'officina, i fabbri praticarono lungo la linea di demarcazione dell'uscita una fitta serie di piccoli fori. li metallo rimasto tra un foro e l'altro fu rimosso con un temperino trasformato in seghetto. Mentre uno dei detenuti si trovava al piano superiore a preparare la breccia per la fuga, l'altro rimaneva nel corridoio, accanto alla stufa, a fa• Non è nota l'esatta composizione del comitato preposto a organizzare l'evasione. I documenti nominano i seguenti membri: A. Podolskij, I. Veseinickij, T. Pilovnik, A. Diskant, M. Simelevit, R. Sachov, T. Friedman e A. Feitelson. ... All'interno delle casematte i prigionieri non erano incatenati.
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re asciugare gli stracci legati ai piedi. Quando un tedesco si avvicinava alla casamatta, il prigioniero rimasto nel corridoio si metteva a tossire o a cantare ad alta voce, per avvertire il compagno che si trovava di sopra. Alla sera, quando i detenuti rientravano nelle celle, l'opera proseguiva. Per coprire il rumore del punteruolo e quello del seghetto, i detenuti cantavano e danzavano. I tedeschi li lasciavano fare, anzi se ne compiacevano: sul lavoro la gente di buon umore risulta più docile. L'apertura nella porta era quasi pronta. Ora bisognava togliere il legname che ostruiva la galleria. L'anziano dottor Najmenov, un prigioniero di guerra che aveva l'incarico di tenere viva e costante la fiamma dei roghi (i tedeschi lo avevano nominato «Brigademeister»"), fece capire al poliziotto capo Apel che si sarebbero potuti bruciare quotidianamente oltre seicento corpi, se solo fosse stata usata legna secca; e la galleria ne era piena. Il giorno stesso fu dato l'ordine di svuotare la galleria e portare la legna sul luogo dell'incenerimento ... TI falegname Jachas, impiegato in segheria, fabbricò i pezzi necessari all'assemblaggio di una solida scala di sei metri. I preparativi erano terminati: l'evasione fu fissata per la notte tra il 25 e il 26 dicembre 1943. Non tutti i prigionieri erano stati messi al corrente dei preparativi della fuga. Soltanto nella giornata del 25 dicembre gli organizzatori informarono del piano tutti i detenuti. Questi furono divisi in gruppi. Quello delle quattordici persone legate all'organizzazione antifascista clandestina del ghetto decise che si sarebbe rimesso in contatto con essa, in modo da unirsi ai partigiani dopo la fuga. Ventitré reclusi, sei erano ebrei del ghetto, tutti gli altri prigionieri di guerra, scelsero di provare a raggiungere i partigiani della foresta di lben. A capo di questo gruppo fu nominato Moishe Simelevic, un coraggioso antifascista del ghetto di Kaunas. Dodici persone stabilirono di andare nella foresta di Babtei, nella regione di Kaunas. Altri tredici prigionieri, tra cui le donne, decisero di disperdersi in varie direzioni. Il cortile era tutto innevato e le sentinelle avrebbero potuto avvistare facilmente i fuggitivi. Così i prigionieri cucirono due lenzuoli; quattro persone indossarono abiti mimetici bianchi, ricavati da camicie e mutande. I quattro compagni in tenuta mimetica avrebbero sorretto il lenzuolo, protetti dal quale gli altri, a gruppi di otto per volta, avrebbero attraversato il cortile. Ciascun capogruppo aveva in dotazione un lungo coltello che, in caso di necessità, sarebbe stato usato come arma bianca. Sabato 25 dicembre, verso le dieci di sera iniziò l'attuazione del temerario piano. La parte inferiore del chiavistello allentato fu spinta verso l'esterno, uno dei fabbri si portò nel corridoio e con le chiavi preparate in precedenza aprì le porte di tutte le celle. La gente uscì disciplinatamente, secondo l'ordine stabilito. I gradini della scala di ferro che conduceva all'uscita erano stati avvolti con coperte e stracci, per attutire il rumore della • Caposquadra. (NJD
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salita. Il percorso fu rischiarato con accendini e fiammiferi. Era un giorno di festa, le sentinelle si erano fatte una bella bevuta e i pochi rumori prodotti dai fuggitivi furono coperti dal canto e dagli schiamazzi dei tedeschi ubriachi. Per raggiungere la cinta del forte, quando uscirono dalla galleria i fuggiaschi dovettero affrontare una scarpata di diversi metri. Poi assem· blarono la scala e superarono i sei metri di muro. Il filo spinato posto alla sommità della cinta fu reciso con speciali tenaglie. Oltre quel reticolato si apriva davanti a loro la sconfinata distesa dell'inverno, la libertà ... Soltanto quattro ore più tardi i responsabili del forte si accorsero che i prigionieri erano fuggiti. Per riacciuffare gli evasi, furono mobilitati tutti i poliziotti di Kaunas, le ss, la Gestapo e alcuni reparti dell'esercito. Ma fu tutto inutile. Una parte degli evasi riuscì a raggiungere il ghetto, dove fu accolta dall'organizzazione antifascista clandestina. Il gruppo consegnò all'organizzazione qualche corona dentaria d'oro estratta ai morti per ordine dei carnefici e due disegni del prigioniero di guerra sovietico Anatolij Gran. Il primo disegno rappresentava due detenuti che sotto sorveglian· 7.a trasportavano con una barella diversi cadaveri verso una catasta. li se· condo era una caricatura simile a quella che Anatolij Gran aveva affisso alla porta della propria cella prima di fuggire: raffigurava un gigantesco kukis* rivollo a un uomo della Gestapo ... (le corone dentarie e i due dise· gni sono conservati oggi al Museo ebraico di Vilnius).** Fu inoltre consegnato un quaderno con i verbali delle riunioni del gruppo del Komsomol creato nel forte. Appartenevano a tale gruppo: Tevje Pilovnik, Aron Vilencuk, Alter Feitelson, Moishe Simelevic e altri. Non si poteva non rimanere profondamente commossi nel leggere che Aba Diskant era stato accolto nel Komsomol «in considerazione della sua attitudine al combattimento, della sua serietà e delle prove di camerati· smo dimostrate nelle più dure condizioni di detenzione». li verbale diceva inoltre: «Egli è pronto a morire da vero militante del Komsomol». Pur· troppo, fra il 13 e il 14 luglio 1944, quando i tedeschi incendiarono il ghetto di Kaunas, i verbali sono andati distrutti. Nel ghetto gli evasi ricevettero abiti, cibo e un giaciglio. Cinque giorni dopo furono condotti nel· la foresta di Rudnica, nei pressi di Vilnius, dove incontrarono i partigia· ni. 0 • Il gruppo fu guidato personalmente da Chaim Jelin, capo e organizzatore del movimento partigiano del ghetto di Kaunas.••••
• Gesto ingiurioso e sarcastico ottenuto infilando il pollice tra l'indice e il medio. •• Si intende qui il Museo ebraico che esistette a Vilnius dal 1944 al 1949. ••• I fuggiaschi iurono port.iti fuori dal ghetto il 6 gennaio 1944; vi trascorsero dun· que circa due scttim.ine. •••• Su Chaim Jclin (1913-1944) si \'et.fa E11zykli111iltfied1-s Holoa111st ... ,cit., voi. li, pp. 802, 845evol. lll, p.1619.
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5. li IX Forte dopo /'evasione dei prigio11it>ri Dopo l'evasione dt'lla squadra i tedeschi presero cinquanta persone dai diversi campi di lavoro ebraici e le portarono al forte per proseguire i lavori di distruzione dei cadaveri. Furono inoltre impiegati prigionieri del carcere di Kaunas, anch'essi ebrei. Tra costoro, alcuni giovani catturati mentre si stavano recando dai partigiani (Moishe Rezanskij, Leo Siman, Yitzhak Kirkel, Chone Meschkup e Josel Chodos). Al forte furono mandati anche alcuni ,,criminali» sorpresi a camminare per la città senza la toppa gialla o ad acquistare qualcosa dai lituani: Daniel Rybak, Gcnach Scgalovié, Mendclevic e altri. Gli ebrei erano tenuti in catene giorno e notte; non venivano loro tagliati né i capelli nt' la barba. Le fiamme tornarono a rischiarare le notti del IX Forte e, ancora una volta, il vento del nordovest portò nel ghetto odore di carne umana bruciata. Il 27 marzo 1944 i tedeschi effettuarono nel ghetto un' «azione» contro i bambini, gli anziani, gli invalidi e quanti non erano in grado di lavorare. Riunirono 900 persone e le caricarono su vagoni merci. Oggi sappiamo che furono portati ad Auschwitz e uccisi nelle camere a gas. 1128 marzo l'«azione» proseguì: stavolta le vittime furono portate nel IX Forte, fucilate e bruciate. Quel giorno morirono circa 200 esseri umani. 6. Le ultime tracce dl!i crimini
Dopo la liberazione di Kaunas da parte dell'Armata Rossa, nella corte del IX Forte, sul luogo delle esecuzioni, fu trovata una grande quantità di legna, di bidoni di benzina e di olio combustibile, nonché resti di ossa umane carbonizzate e innumerevoli bottoni dì metallo, fibbie, ecc. Sulle pareti del forte furono scoperte decine di scritte lasciate dalle vittime. Una di queste, in jiddisch, diceva: «Arrestato il 12 febbraio a SaìntÉtienne (Francia), sono arrivato a Kaunas il 18 maggio 1944. Eravamo850 ragazzi. Scriverò all'ultimo momento che cosa ne sarà di noi». Naturalmente lo sventurato non ebbe il tempo di aggiungere una sola parola. Ecco alcune tra le centinaia di scritte che si potevano leggere nelle casematte, sulle pareti dei lavatoi e sulle assi delle brande: « 18.V.1944 Willi Grinwald, Nizza». «Tvorecki, Chaim.» «S. Kool, Amsterdam, 18.V.44.» «Widse, distretto di Breslavia. 15.V.44.» ,,zuckerman, Chazkcl, Vilnius.» «Zalekstein, Wolf, di Bruxelles, portato da Drancy il 18.V.44.» E fra le iscrizioni in lingua lituana: «Muoio innocente per mano dei carnefici tedeschi. Velièko Stasis.» «Slamovskij, Leonas è morto qui.» ,,Jakstas, Vladas, prima di essere giustiziato per attività politiche.»
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«1944, VII.7, Dirginsius Antanas. Date la notizia a mio fratello, che si trova nella circoscrizione di Tauragè, distretto amministrativo di Jeclivil, villaggio di Atabannju.» «Hirsh Burstein, portato qui il 7.VII.44. Bruciamo cadaveri e aspettiamo la morte: fratelli, vendicateci!» «Moriamo con coraggio per il popolo ebraico!» «Sologub, Prokovev; date la notizia a Murava.» (Murava è un sobborgo di Kaunas.) «Siamo novecento francesi.» «Grad Morris, Nizza, uno dei novecento portati qui il 18.V.1944.» «8.Vl.44. Un prigioniero di guerra russo fuggito dalla prigione. Vjalkin, Andrej Vasil'evic. Informate mia moglie Marija Vjalkina.» Molte scritte erano state cancellate dai tedeschi. I contadini che risiedevano nei dintorni del IX Forte hanno fornito indicazioni precise sulle stragi che vi venivano perpetrate. L'ex guardia del IX Forte Naudjiunas ha raccontato che nel novembre del 1941 ha visto arrivare cento persone: furono spinte in una fossa, cosparse di benzina e bruciate vive. Dal fuoco giungevano grida strazianti. I tedeschi gettavano bombe a mano nella fossa e sparavano con i mitra sulla gente avvolta dalle fiamme. Il cittadino A.B. Sesno, del viUaggio di Gedraiciai, ha raccontato che i prigionieri venivano condotti nel giardino vicino al forte e costretti a spogliarsi completamente. Da lì venivano mandati alle fosse in gruppi di trecento persone. Quegli sventurati dovevano rimanere a lungo esposti al freddo in attesa che arrivasse il loro turno ... Molti venivano gettati nelle fosse vivi. Si udivano grida e pianti di donne e di bambini. Gli evasi hanno riferito di aver rinvenuto in una delle fosse alcune carte con il nome di un operaio lituano, Sinickasa Vadovasa, che aveva lavorato a Kaunas, nella ditta tessile Drobe. Nella stessa fossa era stato giustiziato un nutrito gruppo di antifascisti, arrestati nell'estate del 1943. Hanno poi raccontato di aver trovato in una cassa i corpi di tre antifascisti che erano stati pubblicamente impiccati a Kaunas nell'autunno del 1941.,. Le scritte lasciate da Stasis Velicko e da Vladas Jakstas sono datate 8 luglio 1944 e suggellano l'ultimo atto della tragedia del IX Forte, quello iniziato il 5 luglio 1944, quando la prigione centrale di via Mickiewica fu liquidata. Prima di ritirarsi i tedeschi liberarono i delinquenti comuni e con dei camion coperti trasportarono i detenuti politici al IX Forte. Qui il 7 e 1'8 luglio furono assassinati i numerosi abitanti della città di Kaunas e dell'area circostante, accusati di nutrire simpatie per i sovietici. La Commissione per l'accertamento dei crimini compiuti dai tedeschi a Kaunas ha appurato che nel IX Forte sono stati uccisi circa 70.000 civili. M. /e/in • Si tratta dei partigiani A. Slap§is, A. Vilimas e B. Baronas, impiccati a Kaunas il 13 di· cembre 1941.
I COMBAlTENTI DEL GHETTO DI KAUNAS
Un giorno d'autunno del 1941, 32.000 ebrei, uomini e donne, vecchi e bambini, furono radunati nella piazza principale. Azzimati ufficiali tedeschi impartivano, frustino alla mano, comandi secchi e brevi: «A destra! A sinistra!». I padri si ritrovavano da un lato, le madri dall'altro, i fratelli a sinistra, le sorelle a destra. Alle madri venivano strappati i bambini dalle braccia. Con il frustino gli ufficiali indicavano: «A sinistra! A sinistra!». Tutto sembrava assurdo, come in un incubo. Le ore non passavano mai. Dalla folla si levava un mormorio sordo, la gente avanzava congetture, non cessava un istante di fare previsioni. «Questi», dicevano, sarebbero stati lasciati lì, nel ghetto di Kaunas, «quelli» sarebbero stati invece portati a estrarre torba a Kédainiai. A destra finirono 20.000 persone; a sinistra, 12.000. I primi furono ricacciati nel ghetto, gli altri furono rinchiusi altrove: non tornarono mai più al ghetto. Furono condotti nel rx Forte in gruppi di centinaia di persone e fucilati. Così si svolse la prima «azione». Qualche mese più tardi ebbe luogo una seconda «azione», di portata più modesta. Sei mesi dopo, i tedeschi effettuarono una terza «azione». La gente era avvilita e affamata. Soltanto i giovani nutrivano in cuore il desiderio di opporre resistenza. [Al loro ritorno coloro che venivano portati quofidianamenfe a lavorare all'esterno del gheffo, raccontavano che i tedeschi esultavano tronfi e che per le
strode veniva annunciata con gli altoparlanti l'imminente «vittoria finale» ... I vecchi scuotevano la testa: «Fa lo stesso... Tanto siamo spacciati!». le madri scoppiavano in pianto, i bambini andavano a rintanarsi impauriti in qualche angolo e rimanevano h, immobili, in silenzio, con le lacrime agli occhi.) Introdurre giornali nel ghetto, e a maggior ragione leggerli, era severamente proibito. Tali reati erano puniti con la morte. Ma per i giovani rimanere completamente privi di informazioni equivaleva a morire. Così, senza badare al pericolo, rimediavano ritagli di giornali lituani e tedeschi, e si applicavano a decifrare la situazione leggendo tra le righe. Nei loro giornali i tedeschi cercarono di passare sotto silenzio la prima sconfitta subita a Mosca, ma i giovani del ghetto non si lasciarono ingannare.
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Comparvero poi notizie come «fatto deragliare convoglio militare ... » o «guarnigione assaltata dai banditi ... ». Al ghetto la gente comprendeva perfettamente che non si trattava di banditi, ma di patrioti.* [Con il possore dei mesi il sospetto che in Lituania esistesse un movimento partigiano andò trasformandosi in certezza. A voce basso, mo con gli occhi scintillanti e pieni di speranza, i giovani si scambiavano racconti sulle audaci imprese dei partigiani che si nascondevano nella foresta e che avevano intro· preso la lotta armata contro l'invasore tedesco.] li regime di terrore che vi-
geva nel ghetto si faceva ogni giorno più aspro. Ogni tanto si veniva a sapere che questo o quel gruppo inviato ,1 lavorare a Kèdainiai o a Geizuni era in realtà stato condotto nel IX Forte e fucilato. Le ultime notizie dal fronte non erano affatto incoraggianti: i tedeschi avevano raggiunto Stalingrado ed erano penetrati in profondità nel Caucaso. Fu allora che un piccolo gruppo di cinque persone decise di lasciare il ghetto e di mettersi in marcia verso est nella speranza di passare la linea del fronte o di incontrare i partigiani e unirsi a loro. Uscirono dal ghetto con una colonna di lavoratori e non fecero rientro. Qualche giorno dopo, la signora Mil'stejn confidò affranta ai vicini che suo figlio lsidor era scomparso. La giovane Davydova diede la medesima notizia al marito. Tra le persone scomparse c'era anche l'operaio loffe, che aveva perso la sua numerosa famiglia durante la prima «azione». L'impresa era un salto nel buio. Quella gente era partita senza am1i e senza provviste .... Perirono tutti e cinque. Dopo qualche tempo nel ghetto si venne a sapere della loro tragica fine: erano stati catturati nei pressi di Kaunas e fucilati. I giovani, tuttavia non si lasciarono scoraggiare da questo primo insuccesso: erano decisi a scappare dal ghetto. Fu allora che iniziarono a preparare la fuga in modo sistematico. Tra loro c'era anche il futuro comandante e organizzatore del movimento partigiano ebreo di Kaunas, il giovane letterato ebreo Chaim Jelin.**• Noto tra le personalità progressiste della scena culturale lituana già al tempo di Smetona,*""" con l'av• Jn quel periodo (1941-1942), in Lituania il movimento partigiano era solo agli esordi. Si sviluppò negli anni successivi. •• In base a ricerche condotte in tempi più recl'nti è stato possibile appurare quanto segue: il gruppo lasciò il ghetto soltanto il 5 agosto del I Y43; ne facevano parte Israel Mil'stejn (in qualità di comandante), 7..alef loffe, J.:i~ Davydov, Moishe Slavjanskij e Mejer Tcjtl, che dovevano rintracciare i partigiani della Lituania orientale per incarico dell"organizzazione. Muniti di pistole, gr.in.ite, carta geografica e bussola, erano stati accuratamente addestrati. •••Cfr. E11~yklopiidicd,·s I Jolocaust ... , cit., voi. III, pp. 1618-1619, secondo Levin, Fighting biiclc .., cit., alla voce ,,Jelin». •••• Antanas Smetona (1874-1944). uomo di stato lituano, nel 1905 fu il presidente del primo grande parlammt,, nazionale. Eletto presidente della Repubblica nel 1919, abbandonò la carica l'anno st'gucnte, per tornare alla presidenza con un colpo di stato nd 1926 e vedersi riconfermare nella carica nel 19.10 e nel 1938. Nel 1940 lasciò il paese per protesta contro l'invasione sovietica e riparò negli Stati Uniti. (Ntfl)
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vento al potere dei sovietici Jelin era emerso come uno dei collaboratori di maggior talento del giornale di Kaunas «Der Emes» («La Verità»). Egli riuscì più volte ad allontanarsi di nascosto dal ghetto e a prendere contatto con l'organizzazione comunista, che all'epoca a Kaunas andava rafforzando la propria attività clandestina. Su iniziativa di Chaim Jelin furono costituite nel ghetto le prime cellule partigiane, che cominciarono ad addestrarsi al combattimento. Ogni cellula era composta da cinque giovani.• Per salvaguardare la clandestinità, inizialmente ciascuna cellula non era stata messa a conoscenza dell'esistenza delle altre. Tale segretez7.a era indispensabile perché se un recluso del ghetto fuggiva, i suoi familiari, i suoi coinquilini e i suoi compagni di lavoro rispondevano per lui con la vita. Ma anche nella cupa atmosfera del ghetto, sotto la minaccia della morte, l'amore per la vita, la sete di vendetta e l'incrollabile fede nel trionfo finale della nostra giusta causa riempirono di fiducia ciascuno dei piccoli gruppi che di tanto in tanto si riunivano nei solai o negli scantinati. In seguito all'ennesima «azione» in ciascun «gruppo di cinque» rimasero soltanto quattro o addirittura tre persone. Ciononostante i superstiti portarono avanti la loro opera con decisione. Chaim Jelin usciva dal ghetto con regolarità, insieme alla colonna di cui faceva parte, e andava a lavorare in città. Nessuno sapeva come e da chi ottenesse i volantini manoscritti che distribuiva quasi ogni giorno ai comandanti delle cellule. I fogli erano intitolati Novità politicl,e e Notizie dalfmntce fornivano puntuali.ragguagli sulla situazione militare, ben diversamente da quanto facevano i locali giornali fascisti. Le informazioni correvano di bocca in bocca, recavano conforto, suscitavano speranze. I futuri partigiani, però, non si limitarono a ricevere soltanto una «formazione» pÒlitica; essi si impegnarono a fondo per diventare dei veri militari. Qualcuno trovò una vecchia pistola, che fece il giro dei gruppi passando di mano in mano e fu studiata in ogni dettaglio. Furono poi fabbricate alcune bombe a mano di legno per le esercitazioni e, grazie a un vecchio manuale di addestramento, fu possibile imparare come eseguire le perlustrazioni, come minare i ponti e come farli saltare in aria. Per lasciare il ghetto e avviare un'autentica lotta partigiana, bisognava an7.itutto armarsi; ma reperire armi all'interno del ghetto era assolutamente impossibile e così fu deciso che un primo gruppo di partigiani sarebbe partito disarmato. Chaim Jelin portò dalla città un itinerario di marcia. Nell'estate del 1942 il piano dell'operazione fu elaborato in dettaglio. Fu stabilito di procedere a piccoli gruppi, di quattro, cinque persone, vestite da contadini, con vecchi abiti rattoppati. Ciascun gruppo avrebbe dovuto contare solo • !l'I in fu a cilpo dell 'org,m iz7,1zione dandcstina del ghetto a partire dai primi del 1942.
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su se stesso; la distanza che i suoi singoli componenti avrebbero dovuto tenere durante la marcia, che si sarebbe svolta esclusivamente durante il giorno, avrebbe dovuto essere tale da consentire loro di vedersi. Sulla base dell'itinerario stabilito, il dottor Volsonok, un noto scienziato, disegnò una cartina dettagliata. Dopo una giornata di lavoro e di fatica, egli, carta alla mano, passava la notte a rivedere con ogni singolo componente dell'organizzazione il percorso completo: aveva W1a pazienza infinita. Costringeva i partigiani a imprimersi nella mente ogni incrocio, ogni boschdto, ogni ruscello, ogni possibile deviazione per evitare i centri abitati: dli voleva lasciare il ghetto doveva coprire un percorso di oltre duecento chilometri senza avere con sé una carta geografica. Finalmente le prime trenta persone furono pronte per partire. Tuttavia rimanevano da risolvere parecchi problemi. Bisognava, per esempio, assicurarsi che non si scatenasse una rappresaglia contro i parenti e conoscenti dei fuggiaschi. Il ghetto era tenuto sotto stretta sorveglianza giorno e notte dagli uomini della Gestapo. Alle porte il servizio di guardia era svolto da esponenti del comando tedesco e da rappresentanti dell' «amministrazione autonoma ebraica» (servizio d'ordine). Il numero dei componenti delle colonne dei lavoratori veniva controllato più volte sia quando esse uscivano dal ghetto sia quando vi rientravano. Se anche fosse stato possibile fare uscire dal ghetto trenta persone, al ritorno delle colonne la loro assenza sarebbe stata facilmente scoperta e si sarebbero avute gravi con· seguenze. Chaim Jelin capì che senza l'aiuto dello /udenrat il gruppo non sarebbe potuto partire. Perciò si risolse a svelare il segreto. Lo Judenrat, diretto da un presidente (Oberjude) nominato dai tedeschi, il dottor EJkes, .. noto medico di Kaunas, decise di sostenere in tutti i modi l'iniziativa dei giovani. I membri dello Judenrat rispondevano di ogni ebreo con la loro vita e sapevano assai bene a quali rischi si trattava di andare incontro. [Ciononostante preferirono sostenere i primi tentativi di
resistenza, piuttosto che offendere passivamente una morte disonorevole per mano dei carnefici fascisti.] Un mattino dell'autunno del 1943 fu presentato alle guardie tedesche che sorvegliavano l'ingresso un documento provvisto di finn.a e timbro tedesdli, nel quale si diceva che i venti «specialisti» in elenco erano stati • Presidente del Consiglio degli anziani del ghetto, chiamato dai tedeschi fudenrat, Elchanan Elkes soste1me il movimento di resistenza. A differenza degli altri membri del Consiglio, seppe dare molte prove di coraggio e di lealtà. Nell'ottobre del 1943 Elkes riusà a spedire ai figli, che si trovavano in Inghilterra, il suo testamento: «Ho udito con le mit! orecchie la lugubre sinfonia di pianti, gemiti e grida di decine di mi· gliaia di uomini, donne e bambini levarsi verso il cielo. Nessuno ha mai udito qualcosa di simile. Insieme a molti di questi martiri ho alzato il mio lamento al nostro Creatore, insieme a loro ho gridato con il cuore straziato: "E Tu taci, Signore?"». Elkes morì nel campo di concentramento di Landsberg il 17 ottobre 1944. Cfr. Enzyklopiidie des Holc1':a11st .. ., cit., voi. I, pp. 404-405 e voi. li, pp. 691 e 805.
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distaccati «a lavorare» a N. Il trucco funzionò e con i loro fagotti le venti persone varcarono le porte del ghetto. Nei fagotti c'erano gli abiti da contadino. Ora non restava che nascondersi in qualche androne, dietro qualche bidone della spazzatura o in qualche rimessa abbandonata e sbarazzarsi del vestito con la stella gialla ... Secondo quanto stabilito ciascuno avrebbe fatto per sé. Se qualcuno fosse stato arrestato, gli altri avrebbero dovuto proseguire comunque il cammino. Tali regole, però, furono osservate solamente nei primi giorni; poi dovettero essere disattese, per vari motivi. Solo meno della metà di coloro che erano fuggiti dal ghetto raggiunse la fitta foresta di August6w e, dopo aver errato a lungo, riuscì a imbattersi nei partigiani. Molti furono catturati dalla Gestapo durante la marcia e torturati. Alcuni persero l'orientamento e si smarrirono. Feingold, un giovane di vent'anni, vagò nel bosco con i suoi compagni per sei giorni e sei notti. Erano andati avanti sino a che la boscaglia non si era fatta impenetrabile, si erano nutriti di radici, erano sfiniti e scoraggiati; ma non incontrarono nessuno. Presi dalla disperazione, rientrarono nel ghetto. Più tardi tornarono altre due persone: Nechemia Endlin e Shmuel Mortkovskij. li loro ritorno suscitò lo sconforto generale.,. Intanto il centro antifascista della città aveva assunto la guida del movimento partigiano. I collegamenti tra Chaim Jelin e il movimento antifascista si consolidarono. Ora i giovani non avrebbero più dovuto inoltrarsi nel folto della foresta e compiere un lungo cammino travestiti da contadini e disarmati, senza sapere se sarebbero riusciti a incontrare i partigiani. I combattenti avrebbero ricevuto le armi ali' interno del ghetto e soltanto in seguito sarebbero stati mandati nel bosco, non senza l'ausilio di una guida. Ma a questo punto sorgeva un interrogativo: dove reperire le armi? Era possibile acquistarle in città, benché a caro prezzo. Le madri cominciarono a vendere le fedi nuziali, gli orologi e tutti gli oggetti domestici di qualche valore, e così alcuni giovani riuscirono a procurarsi delle pistole. Qualche tempo dopo, nove giovani lasciarono il ghetto. Erano armati e avevano un itinerario di marcia preciso, che portava alla foresta di Rudnica, a ovest di Vilnius. Lo /11de11rat era al corrente di quella partenza e diede il suo appoggio. Appartenevano al gruppo Aron Vilenèuk, allievo del ginnasio Shàlom Aleichem di Kaunas (i genitori di Vilenèuk erano stati fucilati in una delle prime «azioni»), l'operaio Judel Scherman, l'impiegato Moishe Upnickij • Finn al 31 ottobre 1943 furono inviati nella foresta di August6w in cerca dei partigiani cento combattenti, quasi disarmati. Tali partenze erano motivate dal timore che il ghetto stesse per subire nuove «azioni» (il 23 ottobre 1943, circa 3000 ebrei furono deportati nei campi di concentramento dell'Estonia). Soltanto Nechemia Endlin e Shmuel Mortkovskij arrivarono .i destinazione. nei pres~i del lago Pruiany. Oltre quaranta combattenti caddero nella mani dei tedeschi e furono uccisi. In seguito, Endlin e Mortkovskij .iiutarnno il Itri gruppi a u~in: dal ghetto.
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e altri. Quella volta giunsero a destinazione e si unirono ai partigiani cinque dei nove fuggiaschi. Due furono intercettati e portati nel IX Forte di Kaunas, un terzo cadde in un impari scontro con gli uomini della Gestapo. Il quarto, Moishe Upnickij, riparò da un contadino lituano e morì in seguito alle ferite riportate in battaglia.* Ma oltre la metà di quei giovani coraggiosi aveva raggiunto la meta: Chairn Jelin ne informò la popolazione del ghetto. I ragazzi ritrovarono il coraggio e la speranza: invece di attendere inoperosi l'inevitabile rovina, scelsero la via della resistenza, decisi a combattere il nemico con le arrni in pugno. Nel ghetto il numero degli attivisti del movimento partigiano cresceva. Chaim Jelin non si concedeva un istante di tregua. Percorreva a piedi centinaia di chilometri per contattare di persona i partigiani. Le sue energie erano inesauribili. Tornava al ghetto e ripartiva per il bosco. Organizzò incontri segreti con il centro antifascista di Kaunas e riunioni con lo /udenrat. Con i giovani discuteva su come trovare le armi, con i sarti ebrei su come confezionare gli indumenti necessari a chi doveva partire per la foresta, con i fabbri ferrai su come creare all'interno del ghetto un'officina illegale per la riparazione delle armi danneggiate ... Migliorare l'equipaggiamento dei ragazzi, era questa la preoccupazione costante di Chaim Jelin. Alla fine le armi furono trovate. Chaim Jelin costituì all'interno del ghetto un gruppo di combattimento incaricato di procurarsi armi con la forza. Di quando in quando il gruppo doveva uscire dal ghetto e tornare con un nuovo bottino di armi. Nella primavera del 1943 il giovane Jankel Birger attaccò in pieno giorno con i suoi compagni un'officina di armi dell'esercito."• L'assalto fruttò undici carabine. Con un analogo colpo di mano un altro gruppo, guidato da ltzok Miklisanskij, si impadronì di ventitré carabine. Chaim Jelin si dedicò all'ampliamento della rete di cellule clandestine. Ormai Jelin si trovava ad affrontare il difficile compito di scegliere, tra coloro che desideravano combattere, i candidati migliori. All'inizio si concentrò su chi non aveva familiari nel ghetto. Ma le persone che rispondevano a tale requisito erano molte: le «azioni» avevano decimato
• n gruppo, partito il 23 novembre, era capeggiato da Elija Olkin e Moishe Upnickij e guidato da tre agenti di collegamento dei partigiani. Dovette percorrere 150-160 chilometri. Durante la marcia subì una grave perdita: Elija Olkin fu ucciso. Solo in seguito si venne a sapere che Moishe Upnickij, ferito gravemente a una mano, fu riportato nel ghetto. Upnickij vive attualmente in Israele. •• Il primo grande assalto diretto a procurare armi ebbe luogo nel gennaio del 1944 contro il deposito dell'ospedale militare tedesco. Parteciparono all'operazione Itzok Miklisanskij, Mendi Moskovit e M. Geguzinskij. J. Levi, I. Miklisanskij, M. M~kovit e due partigiani venuti dalla foresta, S. Mortkovskij e B. Poljanskij, effettuanmo una seconda operazione contro il deposito di anni della rwo. Entrambi gli assalti furono condotti di notte.
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quasi tutte le famiglie; i mariti avevano perso le mogli, le mogli i mariti, i figli i padri, le sorelle i fratelli. Per regolare le partenze per la foresta fu necessario perciò ricorrere a liste d'attesa. Intorno alla metà del 1943 in Lituania il movimento di resistenza si rafforzò considerevolmente. I partigiani uscivano allo scoperto, attaccavano unità delle guarnigioni tedesche, le disarmavano, le mettevano in fuga o le annientavano.• Non sempre gli assalti furono coronati da successo. Anche i partigiani subirono gravi perdite. Quando battevano in ritirata non sempre riuscivano a recuperare i caduti; poiché tra i morti c'erano anche numerosi ebrei, i tedeschi si chiesero: «Da dove vengono? Gli ebrei non sono chiusi nel ghetto?»; e conclusero che gli ebrei del ghetto erano in contatto con i partigiani della foresta. Sul ghE>tto si abbatté allora una nuova ondata di terrore. La sorveglianza fu rinforzata. I controlli su tutte le persone in uscita e in entrata divennero più scrupolosi. Le retate si fecero sempre più frequenti. Con il pretesto di cercare armi, interi gruppi di uomini della Gestapo irrompevano nel ghetto, devastavano le case e arrestavano la popolazione. Ma fu tutto inutile: l'invio di giovani armati nella foresta non si interruppe. Talvolta al mattino giungeva alla porta del ghetto un camion; uno Sturmfilhrer in divisa esibiva i documenti d'identità ed entrava nella sede deilo /udenrat, per poi uscirne con un gruppo di ebrei. I tedeschi che presidiavano le porte del ghetto sogghignavano: «Questi non li rivedremo più». E in un certo senso non si sbagliavano, perché il camion portava quella gente direttamente dai partigiani. L' «uomo della Gestapo», infatti, era in realtà un partigiano ebreo travestito, una guida che recitava la parte a meraviglia. Una volta i tedeschi arrestarono tutti i membri dell'Ord111111gsdie11st ebraico, li accusarono di essere fiancheggiatori del movimento partigiano e li fucilarono ..... I tedeschi li rimpiazzarono con altre persone, che tuttavia non si lasciarono spaventare dalla sorte toccata ai propri predecessori e compirono anch'esse il loro dovere, aiutando i reclusi del ghetto a combattere il nemico. Durante una perquisizione il giovane ebreo Mck fu trovato in possesso di una pistola. Venne immediatamente innalzata una forca in una • Nel 1943 i partigiani lituani si limitarono ad atti di sabotaggio e a operazioni di piemia entità. L'affermazione secondo la quale essi avrebbero disarmato guarnigioni tedesche è una della poche esil)?,C'razioni del testo. 44 Tali fatti avvennero all'inizio del 1944. li 27 e il 28 m,uzo di qul'll'anno, durante !'«azione dei bambini», trentaquattro poliziotti del ghetto furono fucilati. Si trattò di una rappresagliil per l'ilssassinio dell'ilgente della Gestilpo Fein, ucciso dai combattenti clandestini, nonché per il rifiuto opposto dalla polizia del ghetto il Ile richil'Sle di tradire il movimento illegale. I poliziotti furono rimpiazzati da un «servizio d'ordine» posto alle dirette dipendenze degli agenti della Gestapo e scnipolosamcntl' osst.'quioso ddle direttive tedesche.
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delle vie del ghetto. Tutti gli abitanti, giovani e vecchi, furono mandati sul posto dell'esecuzione. Mek fu impiccato e la sua famiglia, la madre e le due sorelle, fucilata ai piedi del patibolo.• Ma gli ebrei del ghetto risposero a quell'.uione con l'invio di un nuovo gruppo di giovani nella foresta. La lotta divenne sempre più aspra. Alla fine del 1943 il ghetto di Kaunas passò dalle mani dell'amministrazione civile tedesca alla giurisdizione della Gestapo. Quale nuovo comandante fu nominato l'Obersturmbannfuhrer Wilhelm Gocke. Le «azioni» si moltiplicarono: 1500 persone furono portate a lavorare nel sobborgo di Aleksotas; 3500 ebrei dovettero salire sui convogli diretti in Estonia. Molti però riuscirono a fuggire. La gente si nascondeva nei profondi fossati che costeggiavano la carreggiata o si dileguava nella foresta. Per fuggire approfittava dei pochi minuti di sosta nelle stazioni intermedie e saltava dalle finestre dei vagoni. Tutti i fuggiaschi si unirono ai partigiani. Un gruppo di ottanta persone fu inviato a estrarre torba nella zona compresa tra i borghi di Kaisiadorys e Kédainiai. Una notte l'intero gruppo scappò nella foresta con l'aiuto dei partigiani lituani che operavano in quell'area e che avevano procurato armi agli ebrei già prima dell'evasione. Quasi contemporaneamente si ebbe l'audace fuga di un gruppo di ebrei dal IX Forte, il forte della morte.,.,. Tra i componenti del gruppo c'erano numerosi giovani catturati dalla Gestapo in periodi diversi mentre tentavano di lasciare il ghetto. Uno di loro era il già menzionato allievo del ginnasio Shalom Aleichem, Aron Vilenéuk, che era uscito dal ghetto con il primo gruppo di combattenti. Uno degli organizzatori dell'evasione fu un prigioniero di guerra ebreo, un capitano, che più tardi si sarebbe distinto anche nella lotta partigiana. Le fughe mandarono i tedeschi su tutte le furie. Le «azioni» ripresero. Ma, soprattutto, fu raddoppiata e poi triplicata la sorveglianza del ghetto. Ormai si poteva uscire soltanto in casi eccezionali e dietro il rilascio di una speciale autorizzazione. Per le strade di Kaunas furono sguinzagliate spie incaricate di arrestare qualsiasi passante sospetto. Nel ghetto fu effettuata una nuova registrazione. • Nella notte del 15 novembre 1942 l'ebreo Mek fu bloccato mentre tentava di fuggire. Prima di es~re arrestato si difese sparando fino a esaurimento delle munizioni. Il 18 novembre Mek venne impiccato davanti alla St.'\ie del Consiglio degli anziani; i tedeschi ordinarono che il suo cadavere rimanesse appeso per ventiquattro ore. La madre e l'unica sorella di Mek furono fucilate il 19 novembre nel IX Forte. •• A Kaisiadorys e a Kèdainiai c'erano due campi di lavoro. Nell'aprile del 194-4, oltre quaranta prigionieri scapparono dal campo di Kaisiadorys e raggiunsero i partigiani. Dal campo di Kèdainiai riuscirono a fuggire soltanto dieci ebrei, gli altri furono catturati e torturati a morte dalla Gestapo. L'evasione dal IX Forte avvenne il 25 dicembre 1'J.O.
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Nonostante tutte queste misure, fu organizzata l'evasione di alcune decine di giovani. Questa volta la direzione del progetto venne affidata a Rachmiel Berman, un attore del teatro di stato ebraico di Kaunas. Una mattina una squadra di operai salì su un camion e lasciò il ghetto. L'autista, un tedesco, era stato comprato. Ogni componente del gruppo aveva una pistola carica. Secondo gli accordi, l'automezzo doveva svoltare in una traversa e prendere la statale per Vilnius. Ma d'un tratto il conducente portò il camion sulla via centrale, si diresse verso un ristorante, si fermò e scese. «Dove vai?» chiesero subito diverse voci dal cassone del camion. «Solo un istante, vado a fare colazione» rispose l'autista. «Preparate le armi!» disse Berman sottovoce. Aveva capito che l'autista li aveva traditi. Nel giro di un secondo, infatti, gli uomini della Gestapo circondarono l'autocarro. Fu esploso un primo colpo. Gli occupanti del camion risposero al fuoco. Gli uomini della Gestapo furono colti di sorpresa. «Fuoco!» ordinò uno dei tedeschi. Iniziò allora un breve, violento scontro. La strada divenne immediatamente deserta. Si udì il vetro di una finestra andare in frantumi. Gli ebrei si trincerarono dietro il camion, i tedeschi nell'atrio. Il gruppo degli ebrei sapeva che le proprie forze erano limitate. Berman comandò: «Quattro uomini restino qui a bloccare il nemico. Gli altri si ritirino!». l combattenti rovesciarono il camion e, facendosene scudo, ripararono nel cortile più vicino. Varcarono la recinzione e si dispersero per i vicoli della città, che conoscevano assai bene. Nel tentativo di permettere ai compagni di guadagnare tempo, i quattro rimasti al camion cercarono di impedire agli uomini della Gestapo di lasciare l'atrio. La Gestapo ricevette rinforzi, e da ogni porta, da ogni finestra, una pioggia di pallottole si abbatté sui quattro, che, armati soltanto di pistole, in quell'impari battaglia finirono per soccombere. Gli altri, guidati da Rachmiel Berman, raggiunsero in pochi giorni la foresta e l'accampamento dei partigiani.* Nella primavera del 1944, pochi mesi prima che l'Armata Rossa liberasse la Lituania, anche Chaim Jelin trovò una morte eroica. Si batté finché ebbe munizioni. Gli uomini della Gestapo volevano catturarlo vivo a tutti i costi, ma ogni tentativo di avvicinarlo veniva pagato a caro prezzo. Finite le munizioni, Chaim Jelin tentò di recidersi il polso della mano sinistra con un temperino. Morì sotto tortura."" • Era il 14 aprile 1944. n gruppo era guidato da Rachmiel Berman, uno dei Funzionari del partito comunista del ghetto; I' ngente di collegamento era Aba Diskant. Circa dieci cnmbattenti persero la vita; gli altri, tra i quali Diskant e Berman, tornarono nel ghetto. •• Era il 6 aprile 1944.
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Il 27 marzo 1944 i tedeschi effettuarono una delle «azioni» più abominevoli: lo sterminio dei bambini e degli anziani. Per quell'«azione» fu scelto uno speciale gruppo di ufficiali. Al momento stabilito gli ufficiali si raccolsero nel ghetto. Erano in alta uniforme, con le decorazioni sul petto, la fascia con la croce uncinata al braccio, le mostrine di ogni colore e i bottoni dorati. Ciascun ufficiale aveva la pistola nella fondina, il mitra a tracolla e un'ascia in mano. Con quella tenuta si present.irono nel ghetto e si addentrarono nelle anguste vie del «quartiere ebraico». Subito si udirono grida strazianti, urla di dolore. È difficile descrivere ciò che accadde in quelle ore terribili. I neonati venivano strappati dalle braccia delle méldri e gettati sui camion. Ai padri, selvaggiamente picchic1ti, venivano sottratti il viva forza i bambini, scaraventati poi sul vano di carico degli autocarri. I ragazzini tentavano di scappare e i tedeschi sparavano; miravano alle gambe, perché sui camion i bambini dovevano C'sscrc caricati ancora vivi. Se una madre cercava di fare scudo ai propri figli, le venivano aizzati contro i cani. Quando le madri, impotenti, Ct>rcavélno di séllire sui camion per raggiungere i propri sventurati bambini, venivano respinte a colpi d'ascia. Secondo gli ordini, i bambini dovevano arrivare al IX Forte vivi. Così furono portate via per essere fucilate 3500 persone, fra bambini e anziani. Dopo questo terribile massacro riuscirono a fuggire dal ghetto quattro giovani, tra cui Sije Verzgovskij e Shmuel Rasin, al quale erano stati uccisi i genitori, le sorelle e i fratelli minori. «Occhio per occhio»: era questo il motto dei partigiani ebrei. li brutale assassinio della famiglia Vilencuk fu vendic.-1to dal figlio Aron, uno dei primi a evadere dal ghetto. Lo sterminio della famiglia loffe fu vendicato dc1 lsrael Milner, un parente degli assassinati. Il partigiano Hirsh Smoljakov, un tempo studentl', vendicò la famiglia Gleser, che era stata portata nel IX Forte, e altre duecento famiglie. La vendetta del partigiano Peisach Stein contro i tedeschi fu spietata. Un giorno di primavera del 1943, quando, con il pretesto di condurli al lavoro, i tedeschi trasportarono nel IX Forte 620 ebrei e li fucilarono, Jankel Birger attaccò con un gmppo di partigiani un convoglio militare e Io fece saltare in aria. Nell'esplosione morirono centinaia di uomini di Hitler. Janker Birger perì durante un'altra azione di sabotaggio. Ma la giovane ebrea Eira Pilovnik lo vendicò e con lui vendicò il proprio fratello e la propria madre. I tedeschi, che alla luce dPl giorno si erano battuti con tanto «coraggio» contro le madri ebree disarmate, durante la notte si guardavano bene dall'c1ggirarsi soli per le strade. Ovunque c'erano partigiani in aggu,1to. Sulla strada statale Vilnius-Grodno erano appostati i fratelli Wolbe, mitraglieri provetti. Lina notte una mano invisibile fece saltare in aria un ponte. La notte seguente un'altra mano invisibile incendiò un depo· sito. David Teper, Alter Feitelson, Lea Port, Shmuel Mitkovskij e decine
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di altri partigiani divennero figli delle madri inermi e dei vecchi indifesi del ghetto. Ne vendicarono il sangue e le lacrime. Sabotatori impavidi furono Boruch Lipjanskij, Simen Bloch e Zodikov. La formazione dei partigiani ebrei prese il nome di «Morte agli occupanti» e si ingrandì fino al punto di dar vita a tre diversi reparti. Gli ebrei combattevano a fianco dei lituani e dei russi. Fraternamente uniti, lottarono come un'unica famiglia contro il nemico, presentandogli il conto di tutti i suoi crimini.
/. /ossade*
• Durante la guerra lo scrittore Jokubas Jossade prestò servizio nella 16a divisione lituana; giunse a Kaunas dopo la liberazione della città. Il contributo fu scritto sulla scorta delle testimonianze dei pochi partigiani sopravvissuti che si trovavano allora in Lituania, il che spiega le imprecisioni e gli errori di natura cronologica.
LA DOTTORESSA ELENA KUTORGENE-BUIVYDAITE
A Kaunas la dottoressa lituana Elena Kutorgene-Buivydaite,. è un'oculista amata e stimata. Dopo aver perfezionato i suoi studi all'Università di Mosca trentadue anni fa, è ritornata in Lituania nel 1922 e ha iniziato a lavorare come medico presso l'osE, 0 che assisteva soprattutto famiglie ebree povere. Già durante i primi tristi giorni dell'occupazione tedesca, tra il giugno e il luglio del 1941, alcuni degli ebrei perseguitati le chiesero aiuto. Si rivolsero a lei non soltanto suoi conoscenti, ma anche persone del tutto sconosciute. Le spietate leggi dei tedeschi imponevano ai non ebrei di troncare le relazioni con gli ebrei, sino allora consuete, e in caso di infrazione minacciavano le pene più severe, persino la pena di morte. La dottoressa Kutorgene non si curava di quelle disumane disposizioni e di giorno in giorno ampliava i suoi contatti con gli ebrei. Finché il ghetto fu aperto, lo visitò quotidianamente. Vi portava viveri e come medico vi prestava il suo aiuto in tutti i modi possibili. Quando il ghetto fu chiuso, la dottoressa prese a recarsi alla recinzione per gettare oltre il filo spinato pacchi di generi alimentari. Più di una volta le sentinelle fasciste la colsero «in flagranza di reato». Quando iniziò lo sterminio sistematico della popolazione ebraica, la dottoressa Kutorgene permise a numerosi ebrei, talora anche a sette, otto persone per volta, di trascorrere la notte nascosti nel suo studio. La sera, con la massima precauzione, i suoi «pazienti» si recavano da lei e rimanevano là fino al mattino. La notte che precedette la grande «azione» del 28 ottobre 1942, lo studio ospitò dodici persone. La dottoressa Kutorgene correva un grandissimo rischio, poiché nel suo appartamento era alloggiato un ufficiale te• Elena lraeliana del l.i/,ro 11rro, p. 278), questi mass,1eri avvennero nel bosco di Rumbula.
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sce da un'altra. Con il calcio del fucile le ss spingevano le persone, nude, sull'orlo della fossa, dove le attendeva il barone Sievers, tedesco del Baltico, che le falciava con brevi raffiche di mitra. Due aiutanti gli sostituivano il caricatore e a turno gli porgevano un'arma pronta per sparare. Benché sempre più insozzato di sangue, Sievers non voleva smettere. In seguito si vantò di avere ucciso, quel 1° dicembre 1941, 3000 esseri umani.[/ fotografi correvano qua e là indaffarati, con le loro macchine scattavano fotografie in continuazione; anche molti uomini delle 55 sfoderarono le loro Leika per fare qualche foto ricordo.] Per umiliare le loro vittime i tedeschi escogitarono vari sistemi. Presero, per esempio, tutti gli anziani con la barba lunga e li fecero svestire; poi li divisero in due gruppi, diedero loro una palla e li costrinsero a giocare a pallone nella neve. I cineoperatori e i fotografi ripresero l'atroce spettacolo. I condannati erano come impietriti. A uno di loro cedettero i nervi e nel bosco echeggiò un grido di disperazione; le donne caddero in preda al panico e allora una certa Malkina salì su un ceppo e gridò: «Ebrei, perché piangete? Credete forse che le lacrime possano commuovere queste belve? Dobbiamo rimanere in silenzio! Non dobbiamo perdere la dignità! [Siamo ebrei/... Ebrei sovietici/ ... ]». E sul bosco scese il silenzio, rotto soltanto dal crepitare dei mitra. [Un uomo delle 5S si awicinò alla colonna e disse in fono sarcastico: «Perché ve ne state muti? Vi restano soltanto pochi minuti di vita: approfittatene! Canta· te qualcosa!». Per tutta risposta] la voce di un vecchio intonò l'Internazionale. All'inizio si aggiunse qualche voce isolata, ma poi tutti si misero a cantare in coro l'inno. A riferire l'episodio è stata la sarta Frieda Fried, l'unica ebrea sopravvissuta all'ecatombe perpetrata quel giorno nel bosco di Bikernieki. La storia della sua fuga e dei tre anni che passò a vagare per le fattorie della Lettonia potrebbe fornire materia per scrivere un libro intero.* «La nostra colonna» racconta Frieda Fried «fu suddivisa in più gruppi. Ricevemmo l'ordine di svestirci. Anch'io mi spogliai; tenni soltanto la biancheria. Ma poi provai vergogna, perché attorno a me c'erano degli uomini e io non indossavo che una sottoveste; cosl raccolsi il mio grembiule da lavoro e me lo infilai. Avevo molto freddo e misi le mani in tasca, per scaldarle. Mi accorsi allora che in una delle tasche c'era un foglio. Vi diedi un occhiata e vidi che si trattava del diploma che attestava la conclusione, con lode, della mia formazione professionale di sarta. Erano quindici anni che lo portavo con me. "Mio Dio" pensai "forse questo foglio mi può salvare!" «Uscii dalla colonna e corsi da un tedesco che mi sembrava alto in • Frieda Fried-Michelson vive in Israele, dove nel 1973 ha pubblicato un libro intitolato lo, Sllpt?rstile di Rumbula.
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grado. Gli dissi nella sua lingua: "Signor ufficiale, perché stanno per uccidermi? lo voglio lavorare. Non dovrei essere uccisa. Guardi, non le sto mentendo, sono diplomata. Ecco il documento". «Mi allontanò con una spinta e caddi a terra. Quando cercai di rialzarmi, mi sferrò un calcio e gridò: "Non mi seccare e non venire a mendicare da me con le tue carte. Portali a Stalin i tuoi documenti". «Così tornai in colonna. Mi misi le mani nei capelli; ne strappai una ciocca senza avvertire alcun dolore. Intanto i tedeschi ci spingevano avanti con il calcio del fucile e la fossa si avvicinava. Mi rivolsi a un poliziotto e cercai di spiegargli che ero una sarta e che volevo lavorare. Gli mostrai il mio diploma. Ma nessuno mi dava retta. Arrivai alla fossa; c'erano alti alberi su ambo i lati e poco più in là iniziava un piccolo sentiero. Uno per volta i condannati lo percorsero e sparirono giù per il pendio; poi solo le raffiche dei mitra, tac-tac, tac-tac. «"È davvero la fine?" mi chiesi. "Tra pochi minuti sarò morta, cesserò di vedere il sole e di respirare? Non può essere vero. Dopotutto i miei documenti sono in ordine, ho lavorato onestamente per tanti anni, i clienti non si sono mai lamentati. Ma questo ai tedeschi non interessa. Non voglio morire! Non voglio!" Rivolta aJI'ufficiale che impartiva gli ordini gridai con voce alterata: "Che cosa vuole farmi? Sono un'operaia specializzata. Ecco i documenti. Sono un'operaia specializzata!". «Mi colpì alla testa con la pistola e caddi a terra vicino alla fossa. Mi rannicchia i e cerca i di rimanere immobile. Circa mezz'ora dopo udii qualcuno dire in tedesco: "Le scarpe, mettetele qui". Ero riuscita a trascinarmi un po' più in là. Socchiusi un occhio e vidi lì accanto una scarpa. Ben presto altre scarpe iniziarono a piovermi addosso. Probabilmente la tela grigia del mio grembiule si confondeva con il colore delle calzature e così nessuno mi aveva notata. Avvertii un leggero tepore: sopra di me si era già formata una montagna di scarpe. Soltanto il mio fianco destro si stava lentamente intorpidendo. Avrei potuto infilarvi sotto qualche scarpa, ma avevo paura di smuovere il mucchio e di farmi così scoprire. Rimasi immobile fino al ca lardella sera emi trasformai in un pezzo di ghiaccio. «Sentivo gli spari, a breve distanza da me; udivo distintamente gli ultimi singhiozzi delle vittime e il gemito dei feriti, che venivano gettati vivi nelle fosse comuni. Morendo, qualcuno malediceva i propri carnefici; altri rivolgevano un estremo pensiero ai figli o ai genitori; altri ancora pregavano a voce alta ... Alcuni chiedevano, all'ultimo momento, il permesso di coprire i propri bambini, perché non prendessero freddo. E io me ne stavo lì, costretta ad ascoltare ogni cosa. Mi giunse più volte all'orecchio la voce di mio fratello; poi quella della mia vicina. In quegli attimi mi parve di impazzire. « Verso sera le armi tacquero. I tedeschi sospesero le operazioni. Tuttavia rimasero diverse sentinelle, a fare la guardia al mucchio dei vestiti. Alcune di loro si piazzarono a pochi passi da me. Fumavano e chiacchieravano. Sentivo le loro voci; erano allegri, contenti: "Abbiamo lavo-
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rato sodo oggi ... ". "Sì, è stata una giornata rovente ... " "Però ne sonorimasti ancora parecchi. Avremo ancora un bel daffare ... " "Be', a domani..." "Sogni d'oro ... " "Non posso lamentarmi, i miei sogni sono sempre stupendi." «Decisi di trascinarmi fuori dal mucchio delle scarpe. Per prima cosa dovevo coprirmi e così mi avvicinai a un altro mucchio, quello degli abiti da uomo. Non potevo permettermi di perdere tempo a scegliere i vestiti: indossai una giacca e i primi pantaloni che mi capitarono sotto mano, e mi riparai la testa con una grande sciarpa. In quell'istante udii il pianto di un bambino salire dalla fossa in cui giacevano i morti: "Mamma, ho freddo ... , perché sei sdraiata, mamma?"." Accada ciò che deve accadere," pensai "salva il bambino!" Ma i tedeschi furono più veloci. Si avvicinarono alla fossa, localizzarono il bambino con le baionette e lo trafissero. "Finora nessuno è uscito vivo dalle nostre mani" esclamò uno di loro. «Capii che quella notte dovevo allontanarmi quanto più possibile da quel luogo di orrore. Ma c'erano sentinelle ovunque. Sulla distesa bianca della neve mi avrebbero individuata facilmente. Mi tornò in mente un film intitolato La g11erra di Finlandia, nel quale avevo visto i soldati mimetizzarsi alla perfezione nella neve con l'aiuto di cappotti bianchi. Notai, poco distante, il cumulo dei panni che le madri avevano usato per fasciare i loro piccoli... Trovai un lenzuolo, me lo avvolsi attorno al corpo e cominciai a strisciare.» La gente rimasta nel ghetto attendeva la prosecuzione del pogrom, ma tutto sembrava essersi placato. Solo occasionalmente si udivano i gemiti di un ferito e, all'istante, i passi rapidi di un poliziotto: tra le pareti delle case l'eco sorda di un colpo isolato di arma da fuoco; poi di nuovo silenzio. Nessuno portava via i cadaveri: non erano state date nuove disposizioni, se non quella di segna lare i feriti. E con i feriti i tedeschi andavano per le spicce, senza eccezioni. Passati cinque giorni, giunse finalmente l'ordine di sotterrare i morti. Fu scavata una grande fossa comune nel vecchio cimitero ebraico, all'interno del ghetto. Un medico venne a deporvi la moglie e i due figlioletti. Qualcuno vi seppellì tutti i propri parenti, gente di diverse generazioni e di diverse età. 6. La ,,deportazione» dal ghetto
Una settimana dopo la prima «azione» fu annunciato che il ghetto di Riga sarebbe stato «deportato». Nessuno intendeva il significato es;itto di quel termine. l tedeschi spiegarono che la «deportazione» si differcnziav~ radicalmente dal «trasferimento»: quest'ultimo comportava l'insedi~mento in un altro luogo, mentre con la «deportazione» ci si limitava ali evacuazione ... Non era, insomma, dato di sapere :-e i «deportati» sarebbero stati sistemati altrove ...
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La sera del 9 dicembre, con venti gradi sotto zero, gli abitanti del ghetto ricevettero l'ordine di radunarsi per la «deportazione». Furono lasciati al freddo e al gelo dalle sette di sera al mattino seguente. I tedeschi avevano già avuto il tempo di saccheggiare il ghetto e di portare via tutti gli abiti pesanti. Molti furono gli anziani che quella notte morirono assiderati. All'alba le colonne si misero in marcia, sotto scorta. Su un binario morto, non lontano dalla stazione di Skirotava, c'erano diversi vagoni, senza locomotiva. I «deportati» dovettero salire su quei carri merci. Quindi i tedeschi li condussero a Bikemieki, il bosco maledetto, e li uccisero con le mitragliatrici. Quel giorno furono assassinati oltre 12.000 esseri umani. Qualche giorno dopo le autorità diedero il solenne annuncio che in occasione della liquidazione del grande ghetto di Riga sarebbe stata tenuta una festa. Ai festeggiamenti presero parte molti tedeschi, civili e militari di ogni arma, poliziotti, gendarmi, criminali di Riga e canaglia fascista degli ambienti nazionalisti lettoni. Si registrarono episodi di inaudita violenza; chi lanciò in aria i bambini piccoli, chi spogliò le ragazze e le costrinse a giocare a pallavolo (la squadra sconfitta veniva fucilata e il gioco riprendeva con una nuova formazione). A soprintendere alla festa fu l'Unterst11rmfiihrer Jager. Era noto per essere stato tra i primi ad aderire al partito fascista: aveva partecipato con Hitler ai preparativi del putsch di Monaco. A festeggiamenti conclusi il ghetto contava soltanto 3800 persone, tra le quali trecento donne e diverse decine di bambini. Ma già il giorno seguente il ghetto di Riga tornò a riempirsi: era arrivato il primo convoglio di ebrei tedeschi. 7. Gli ebrei tedeschi
È difficile spiegarsi perché per sterminare gli ebrei tedeschi sia stata scelta proprio la città di Riga. Una volta l' Untersturm.fiilirer Miege, aiutante di campo del comandante del ghetto, si ubriacò e parlando apertamente fornì la sua spiegazione sulle cause della deportazione degli ebrei tedeschi in Lettonia. I tedeschi non volevano assassinarli in patria perché i singoli carnefici sarebbero stati riconosciuti da troppa gente. [Inoltre affidando una parte delle esecuzioni ai traditori presi tra le file dei nazionalisti locali, intendevano vincolare a sé in un sodalizio criminoso un grande numero di lettoni, il cui appoggio sarebbe tornato utile anche nel tempo a venire.] Gli uomini di Hitler tenevano nascosto il fatto che il fine delle deportazioni era la morte, e così solo all'ultimo momento le povere vittime scoprivano quale sorte le aspettava. A costoro veniva detto che il trasferimento aveva a che vedere con il processo di germanizzazione dei territori orientali; che la Germania continuava a considerare gli ebrei tedeschi suoi cittadini, ma riteneva opportuno insediarli nell'Ost/aud. Ve-
Lettonia
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niva consigliato di portare con sé tutto ciò che nella nuova destinazione sarebbe potuto risultare utile. In tasca a uno degli ebrei assassinati nel ghetto di Riga è stata trovata la seguente comunicazione, relativa alla partenza da Berlino. «Berlino, n. 4, 11 gennaio 1942" «Signor Albert lsrael Unger e Signora. «In seguito a quanto deliberato dalle autorità, la Sua partenza è prevista per il 19 gennaio 1942. La disposizione riguarda Lei, la Sua consorte e i membri non sposati della Sua famiglia che figurano nella Sua dichiarazione dei beni. «1117 gennaio 1942 un funzionario pubblico apporrà i sigilli alla Sua abitazione. Per quella data Ella dovrà avere preparato i Suoi pacchi e il Suo bagaglio a mano. Le chiavi dell'appartamento e quelle delle singole stanze dovranno essere consegnate al funzionario. Con quest'ultimo Ella si recherà al commissariato di polizia del Suo quartiere. Porterà con Sé tanto i colli quanto il bagaglio a mano. Lascerà i primi al commissariato: il nostro reparto spedizioni provvederà a trasportarli con un camion al punto di raduno, in via Levetzov 7 /8. Dopo aver depositato i Suoi pacchi al commissariato, Ella dovrà raggiungere, munito di bagaglio a mano, la sinagoga di via Levetzov 7/8 (ingresso di via Jagov). Per l'occasione potrà servirSi dei mezzi pubblici di trasporto. «Sia sul punto di raduno sia durante il viaggio in treno avremo cura di fornirle i pasti. Tuttavia le suggeriamo di mettere nel Suo bagaglio a mano le provviste di cui dispone in casa, specialmente l'occorrente per una cena. «Saranno garantiti vitto e assistenza medica sia sul punto di raduno sia lungo il tragitto. «Nel foglio di istruzioni allegato troverà tutte le precisazioni necessarie. Tali indicazioni sono da osservare scrupolosamente. I preparativi per il viaggio devono essere svolti con calma e con oculatezza.» I deportati giungevano alla stazione di Riga. A riceverli c'era l'Oberstum!fiihrer Krause"" o un alto funzionario del commissariato generale. li tedesco sorrideva amichevolmente e con parole ricercate augurava il benvenuto al capo del gruppo. Dopo il rituale scambio di gentilezze, il tedesco annunciava con aria desolata che a causa di alcuni imprevisti si era verificato un piccolo contrattempo per quanto concerneva gli automezzi a disposizione per il trasporto: non erano stati predisposti autobus in numero sufficiente. Pregava quindi il capo del gruppo di prendere con sé le donne più in forze e gli uomini e di percorrere a piedi il tratto di strada, tre o quattro chilometri, che i vecchi, i bambini e le altre donne avrebbero invece coperto in autobus. Le operazioni per fare salire la gente a bordo degli autobus erano or• Una comunicazione analoga è pubblicata in Rosenberg, /a/ire des ScJ,reckms .. ., cii. •• SulJ'Obersturmfiilirer Karl Wilhelm Krause cfr. B. Press, Judennrord .. ., cit.
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ganizzate alla perfezione. Sorridendo amichevoli e gentili, i poliziotti e i gendarmi aiutavano le donne e gli anziani a prendere posto; i bambini venÌ\'ano sollevati e porti alle madri con cautela. Gli uomini raggiungevano a piedi il Vorstadt moscovita per sistemar,;i negli appartamenti in cui avevano abitato gli ebrei di Riga. Le donne, i vecchi e i bambini, invece, venivano portati nel bosco di Bikemieki. Là il comportamento dei tedeschi nei loro confronti subiva un repentino mutamento. Quando le porte dell'autobus si aprivano, gli ebrei si trovavano attorniati da poliziotti e gendarmi, come alla stazione. Ma questa volta nessun sorriso, nessuna gentilezza. Alla gente veniva dato l'ordine di spogliarsi, di ammucchiare gli abiti e di dirigersi verso il pendio, dove erano già state scavate le fosse ... Qualche convoglio di deportati finì nel bosco di Bikemieki al completo, o con la sola esclusione delle persone più in for.le. Ben presto il grande ghetto tornò a popolarsi di ebrei. Venivano da Berlino, da Colonia, da Di.isseldorf, da Praga, da Vienna e da altre città europee.* Dopo l'arrivo degli ebrei tedeschi il ghetto di Riga continuò a esistere per un anno. Era diviso in due parti, il grande ghetto e il piccolo ghetto. Nel primo abitavano gli ebrei tedeschi, nell'altro quelli di Riga. I due settori erano separati da un reticolato. Il comandante del ghetto era l'Oberst11r111fiihrer Krausc, cui era stato attribuito il diritto di processare e fucilare i detenuti personalmente. Un ruolo particolare nella liquidazione degli ebrei fu quello svolto dal capo della polizia lettone, lo Standarte11fiilzrer (colonnello) Lange,,.,. cui in Germania era stato dato il soprannome di «dottor Antisemitismo». Tra le restrizioni e le proibizioni che vigevano nel ghetto c'era il divieto di procreare. Quando Krause venne a sapere che Klara Kaufmann, un'ebrea tedesca, stava per dare alla luce un figlio, ordinò di portarla in ospedale. Un'ora dopo il parto furono riunite davanti all'ospedale un centinaio di persone.Sul balcone c'era Krausein alta uniforme; fece cenno a un poliziotto. Il capoguardia Kabnello prese il neonato e lo sollevò in alto per mostrarlo a tutti; quindi lo afferrò per i piedi e gli fracassò la testa contro una sporgenza del tetto. Con un panno bianco Kabnello si tolse gli schizzi di sangue dalla faccia e dalle mani; poi condusse sul balcone la puerpera con il marito. Furono entrambi fucilati davanti al cadavere del loro primogenito. Ecco come veniva accolta nel ghetto la nascita di un bambino. • Tra il 27 novembre 1941 e il 16 febbraio 1942 furono dl'portati a Riga circa 25.000 ebrei, provenienti da Berlino, Norimberga, Stoccarda, Amburgo, Colonia, Dusseldorf, Biell'fl'id, Hannovc-r, Lipsia, Dortmund, Vienna e Thercsicm,tadt (Terezin). •• Rudolf L.ange, Stur111lx11111fiihrcr delle ss, capo della Sichahcit,polizci e dcll'so in Lettonia. Pm,cnziS;li aeroplani sovietici. Fu così che venimmo a sapere che l'Armata Rossa stava avanzando verso ovest. Vivevamo nella speranza che presto sarebbe arrivata la liberazione. I tedeschi mandavano i giovani a scavare trincee o li inviavano in Germania. [Ogni volta che un poliziotto passava davanti a casa nostra, trepidavo. Ma sono stata fortunata e la polente Armata Rossa mi ha liberato. Gli ultimi giorni di occupazione Furono particolarmente duri. Appena fui dimessa da/l'ospedale,] dovemmo fuggire nella foresta, perché prima di ritirarsi i tedeschi incendiarono le case. Nel bosco c'era molta gente, parlavamo sottovoce per non farci individuare dai tedeschi. li 24 settembre i proiettili dell'artiglieria sovietica sibilarono sopra le nostre teste, tra i nostri applausi. 1125 settembre 1943 avvistammo il primo soldato dell'avanguardia sovietica. Corsi a baciarlo con le lacrime di gioia agli occhi. Olga El•Kt'nija Lukinskaja Polina Makarovna Auskc>r (Preparato per la pubblicazione da V. ll'enkov)
• TI ghetto di Smolensk fu liquidato il 15 luglio 19-42. Tutti i 2000 ebrei che vi erano rinchiusi furono uccisi nella boscaglia di Tancovaja.
LE MAESTRE GOLNEVA, TERECHOVA E TIMOFEEVA
Dopo aver concluso i miei studi presso l'istituto di pedagogia di Smolensk, lavorai per tre anni nel distretto di Kaspljansk, regione di Smolensk, prima in una scuola di Enkovsk, poi in una di Kasplja. Consacravo ai bambini tutte le mie conoscenze e tutte le mie forze, i bambini mi amavano e i genitori mi rispettavano. Quando i tedeschi occuparono la regione di Smolensk, mi trovavo nel villaggio di Kasplja, perché non avevo fatto in tempo a sfolJare. I tedeschi iniziarono a registrare gli ebrei e io dovetti nascondermi. Vi riuscii grazie all'aiuto di allievi e di colleghe amiche, soprattutto di Ekatarina Abramovna Golneva e Anna Evseevna Terechova. Girovagai per quattro mesi, trascorrevo il giorno in un luogo e la notte in un altro. Poi la collega Aleksandra Stepanovna Timofeeva, con la quale avevo lavorato due anni presso la scuola di Enkovsk, mi offrì asilo. Mi sistemò nel villaggio di Babincy, in una casetta in cui vivevano una sua sorella, sposata, con due figli e sua madre, Domna Arsentevna. Rischiavano tutte la vita. Ciononostante, Aleksandra Timofeeva mi aiutò con coraggio a restare nascosta. Mi tenevano al riparo da occhi indiscreti, sulla stufa, sotto dei cuscini... Ma un giorno alcuni tedeschi si stabilirono nel villaggio e per me divenne impossibile rimanere a Babincy. Allora Aleksandra Stepanovna mi accompagnò da sua zia, Ekatarina Efimovna Ksendsova, che abitava in un villaggio vicino insieme alla figlia Nina; quest'ultima studiava pedagogia a Smolensk. Gli Ksendsov tenevano già nascosta un'altra ebrea, Sara Veniaminovna Vinz, amica e compagna di studi di Nina. Abitavano nella scuola in cui Ekatarina Ksendsova insegnava da molto tempo. Attrezzammo un passaggio sotterraneo dell'edificio in modo che potesse ospitare sia Sara sia me. Vissi così per sei mesi, un po' dai Timofeev e un po' dagli Ksendsov. A volte mi veniva voglia di farla finita, perché la situazione mi sembrava senza via d'uscita. Ma le mie amiche mi rincuoravano e mi aiutavano a ritrovare il desiderio di vivere. Aiutavano come potevano anche i partigiani del posto. Benché non più giovane Ekatari-
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na Efimovna Ksendsova passava molte ore a montare la guardia per consentire ai partigiani di riposarsi. L'8 maggio 1942 Sara e io visitammo i partigiani, nella foresta. Vitrovammo numerosi conoscenti, tra i quali il segretario del comitato del PCUS(B)• del distretto di Kaspljansk, Volkov, che era il commissario del reparto, e il direttore della sezione per l'istruzione pubblica dell'amministrazione distrettuale, Goldnev. Qualche tempo dopo anche Ekatarina Ksendsova e sua figlia si unirono ai partigiani. Da lì fui portata al sicuro nelle retrovie sovietiche. Poco dopo la cacciata dei tedeschi dalla regione di Smolensk, potei riabbracciare quelle meravigliose donne russe, che mi hanno salvato la vita.
Comunicato da Hanna Efimovna Chodos (Preparato per la pubblicazione da I. Erenburg)
• "B" sta per «bolscevico». (NdD
IL CONTABILE SIRèENKO
Sette famiglie ebree che vivevano nella città di Ordfanikidze, regione di Stalinsk, non erano riuscite a sfollare. Fuggirono e raggiunsero il villaggio di Blagodatnoe, che apparteneva al distretto amministrativo del soviet rurale di Guljai-Polsk, regione di Dnepropetrovsk. Per chi nascondeva ebrei c'era la fucilazione. E Pavel' Sergeevic Sirèenko, contabile del kolchoz, lo sapeva. Ciononostante non consegnò ai tedeschi quegli ebrei. Costoro lavorarono nel kolchoz e il 22 novembre 1943 furono liberati insieme agli altri abitanti del luogo dall'Armata Rossa. È così che si sono potute salvare le famiglie Traiberg, Nuhimovic, Babskij, Kuskovskij, Gontov, Peresedskij e Sabis: in tutto, trenta persone. (Preparato per la pubblicazione da I. Erenburg)
RACCONTO DI F.M. GONTOVA
Nell'ottobre del 1941 vivevo con i miei figli a Enakevo. Mio marito era nell'Armata Rossa. Quando i tedeschi si avvicinarono alla nostra città, io e i bambini ci trasferimmo nella regione di Rostov, dove vivemmo fino al giugno del 1942. Poi i tedeschi si spinsero fin là e il villaggio in cui abitavamo fu investito dalle operazioni belliche. Insieme a qualche altra famiglia di ebrei riparammo nella steppa. Riuscivamo a tenere nascosto il fatto che eravamo ebrei. Erravamo con i carri di borgo in borgo, la morte era sempre in agguato. Continuammo così fino all'autunno. Poi capitammo nei pressi del villaggio di Blagodatnoe, dove lavorava il veterinario G.I. Volkosub. Questi conosceva una donna del nostro gruppo; la accolse calorosamente e aiutò tutti noi a trovare un alloggio e un impiego. Grande sostegno ricevemmo, poi, dal contabile del kolchoz, P.S. Sircenko; Gli raccontammo per filo e per segno la nostra situazione, ed egli, benché così facendo mettesse in gioco la propria vita, ci aiutò a trovare una sistemazione. Rimanemmo a Blagodatnoe fino al giorno felice in cui le belve tedesche si ritirarono sottò i colpi dell'Armata Rossa. (Preparato per la pubblicazione da G. Munblit)
L'UNICO SUPERSTITE Racconto di Evsej Efimovic Gopstein
ll 2 novembre 1941 i tedeschi occuparono Simferopol'. Erano tutti ben rasati, con l'uniforme in perfetto ordine, quasi venissero da una parata militare anziché dalla battaglia di Perekop. Erano i cosiddetti «tedeschi da esposizione», il cui scopo era quello di impressionare psicologicamente la popolazione sovietica; si trattava di un reparto inviato in Crimea dalle retrovie. Gli abitanti della città chiusero le imposte, sprangarono i portoni e bloccarono le porte. Sol tanto nel pomeriggio qualcuno, per rompere lo stato d'incertezza, si avventurò fuori casa e così piccoli gruppi di cittadini si raccolsero agli angoli delle strade e sulle piazze. Tra costoro c'era anche un vecchio, nativo di Sirnferopol', il sessantenne Evsej Efirnovic Gopstein, economo del commissariato del popolo per la Gestione delle risorse cittadine. Suo figlio, pilota decorato ben tre volte, era al fronte. Sua nuora, una professoressa russa che risiedeva anch'ella a Simferopol', era stata evacuata dalla Crimea già in agosto, insieme alle due figlie; aveva convinto la moglie di Evsej Efimovic a partire con lei e con le nipoti. Il vecchio Gopstein era dunque rimasto solo in città, anche se fino al momento dell'ingresso dei tedeschi non si era sentito affatto isolato: a Simferopol' viveva la sua anziana sorella, laureata in chimica e impiegata in uno dei laboratori cittadini. Inoltre aveva numerosi amici di antica data e di varie nazionalità. Uscì di casa in preda allo sconforto: il nemico era penetrato nella fiorente, ricca Crimea. «Era» racconta «una giornata di sole, non ancora autunnale, ma un po' fredda. Camminai per le vie del centro e diedi un'occhiata a via Pu~kin. Vicino al teatro c'era, incorniciato da un bordo rosso vivo, il primo avviso; era scritto in tre lingue: russo, ucraino e tedesco. Alcune decine di persone si accalcarono lì accanto e un uomo lesse il comunicato ad alta voce. La sua pronuncia era chiara e anche se non riuscii a sentire ogni parola, intesi il senso complessivo dell'ordinanz.a. Mi fece un'impressione terribile. Era come se la realtà sovietica nella quale avevamo vissuto fino ad allora venisse troncata con un colpo d'ascia. La popolazione di Simferopol' si compone di diverse nazionalità. La gente viveva
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a fianco a fianco, in pace e in amicizia. Più della metà dell'ordinanza riguardava gli ebrei. Benché la parola "ebreo" non vi comparisse, vi figurava, declinata in tutte le forme possibili, la parola "giudeo". Veniva comunicato che le opere di rinterramento, la rimozione dei cadaveri dei russi e dei tedeschi e quella di ogni sorta di immondizia dovevano essere compiute esclusivamente da "giudei". Il compito di impiegare gli ebrei per simili lavori era affidato agli slarosty (decani), nominati dal comando militare e in parte dalla popolazione. [Smisi di ascoltare e iniziai a scrutare attentamente i volti tra la folla. C'erano armeni, tatari, ebrei e russi. Posso dire senza timore di ingannarmi, perché me ne ricordo bene, che non uno solo di quei volti esprimevo approvazione per /'ordinanza dei tedeschi.) Capo chino e fronte corrugata, la geote ascoltò in silenzio la lettura. E in silenzio se ne andò.» Nei giorni seguenti i tedeschi sommersero la popolazione con una vera pioggia di disposizioni. «l) Gli ebrei e i Krymèaki* devono farsi registrare. Chi non obbedirà sarà fucilato. «2) I suddetti devono portare segni distintivi e stelle a sei punte. Chi non obbedirà sarà fucilato. «3) I russi, i tatari e gli altri abitanti della città devono farsi registrare. Chi non obbedirà sarà fucilato. «4) Dalle cinque di sera vige il coprifuoco. Chi lo violerà sarà fucilato.» Simferopol' si trasformò in una grande prigione, in un orrendo mattatoio. Il 9 dicembre 1941 i tedeschi sterminarono i più antichi abitanti della Crimea, i Krymcaki. L'll, il 12 e il 13 uccisero tutti gli ebrei. A Simferopol' i tedeschi avevano registrato, insieme a 1500 Krymcaki, 14.000 ebrei. Non si trattava tuttavia della popolazione ebraica che risiedeva in città prima della guerra. Gran parte degli ebrei era stata evacuata a guerra iniziata, con l'amministrazione e le industrie, o aveva lasciato Simferopol' di propria iniziativa. In compenso si erano stabiliti in città profughi ebrei provenienti da località come Herson e Dnepropetrovsk. A Simferopol' si era riversata anche la popolazione ebraica dei villaggi della regione di Freidorf e Larindorf e di Evpatorija. Lì, in seno a una grande comunità ebraica, la gente aveva sperato di trovare scampo, e invece aveva trovato la morte. I tedeschi sterminarono i Krymcaki il 9 dicembre, poi in diversi luoghi e in diversi modi eliminarono gli ebrei. Per tre giorni a Sirnferopol' e dintorni non si udirono che i rantoli d'agonia di quella gente. Racconta V. Davydov, operaio russo dell'officina meccanica di Simferopol': «Abitavo in via Puskin n. 78, vicino allo stadio. Dalle finestre del • Popolo di lingua turco-tatara, i Krymtaki erano stanziati principalmente in Crimea e nel Caucaso. La loro origine etnica non è chiara. Secondo l'Enciclopedia soz,ii:tica, essi trarrebbero origine dalla fusione di una popolazione locale con ebrei, turco-tatari e genovesi insediatisi in quelle aree. (NdD
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secondo piano potei osservare ogni cosa. Fin dal primo mattino si raccolsero sulla piazza migliaia di famiglie. Le 55 bloccarono via Salgimaja, via Gogol', via Puskin e via Kooperativnaja, lungo le quali dovevano passare quei poveretti. Poiché non erano convinti che gli ebrei si sarebbero presentati al completo, i tedeschi effettuarono perquisizioni nelle case, in particolare nel quartiere tataro di Subri e nel conservificio di via Karl Marx. Molti operai tenevano nascosti bambini di famiglie ebree e pazienti dell'ospedale. Quando trovavano un ebreo, i soldati lo prendevano a calci e a bastonate. Al calare dell.i sera gli ebrei radunati nella zona del grande parco municipale erano migliaia. Il parco era illuminato a giorno, si sentiva della musica: i soldati e gli ufficiali si stavano divertendo. Verso le dieci i tedeschi diedero il via a un orribile bagno di sangue. Gli anziani vennero raccolti in un gruppo a parte e impiccati nelle strade circostanti, via Lenin, via Salgimaja, via Kirov e vicolo Poctovoi. Tutti gli altri vennero condotti alle scarpate che si trovano vicino ai nuovi bagni pubblici e furono giustiziati con i mitra. Quella notte furono assassinati il noto psichiatra [ebreo] Balaban e l'emerito artista della repubblica Smolenskij [, anch'egli ebreo]. Gli abitanti di quel quartiere ebbero poi a raccontarmi che i bambini erano stati gettati nelle fosse vivi e che alle ragazze erano stati recisi i seni.» «A Simferopol' non è rimasto in vita un solo ebreo», con queste parole si chiude il racconto del compagno Davydov. Ma Davydov si è sbagliato. [Un ebreo è soprawissuto. Uno solo, su 14.000. Si traHa dij Evsej Efimovic Gopstein, [il quale] dopo aver ascoltato la prima ordinanza dei tedeschi in via Puskin, aveva deciso di non farsi registrare. Non poteva tuttavia ignorare le voci che giungevano da ogni parte; circolavano cinque versioni. 1) La popolazione ebraica verrà usata a mo' di scudo dalle truppe tedesche che avanzano su Sebastopoli. 2) Sarà inviata a lavorare in Bessarabia. 3) Andrà a svolgere lavori agricoli nella regione dei distretti di Freiforf e Larindorf, dove non è ancora stata effettuata la semina invernale. 4) Tutti gli ebrei saranno rimandati in UR5.5 dietro la linea del fronte. E infine: 5) Saranno tutti uccisi. All'ultima versione nessun sovietico voleva credere. La sorella di Evsej Gopstein si fece registrare e fu assassinata. Tutti gli amici ebrei del vecchio furono fucilati. Poi toccò ai russi che avevano contratto matrimoni misti e da ultimo ai loro figli e nipoti. Persino l'aria pareva cambiata, sembrava impregnata di orrore e sangue. Nel gennaio del 1942 iniziarono rastrellamenti di vaste proporzioni. I tedeschi effettuavano perquisizioni strada per strada, edificio per edificio, appartamento per appartamento. Quando aveva preso il via la registrazione molti ebrei si erano rifugiati da parenti e amici, ma già nel dicembre del 1942 quasi tutti i nascondigli erano stati scoperti; la gente veniva braccata come sei-
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vaggina in una battuta di caccia. Gopstein viveva da ventotto anni nel medesimo condominio, nel quale c'erano venti appartamenti; vi abitavano russi, tatari ed ebrei. Nessuno lo tradì. Un'insegnante russa, amica della famiglia Gopstein, se lo nascose in camera. Per lui e per la sua salvatrice ebbero inizio giorni e notti di paura. Quando usciva, la donna chiudeva la stanza a chiave. In ogni caso Gopstein non doveva tradire la propria presenza in quella camera, altrimenti avrebbe rovinato sé e la sua salvatrice. (Una volta, durante l'assenza de/l'insegnante, i tedeschi cerca· rono di aprire la stanza.] La porta era robusta e aveva una serratura americana; colpi e spinte dall'esterno non potevano aprirla. Ma improvvisamente Gopstein sentì un cane grattare la porta e rimase impietrito. Dai discorsi che udì, intese che c'era un ufficiale con un pastore tedesco. Al cane non era possibile nascondere che dietro quella porta c'era un uomo. Ma in quell'istante il cane di un inquilino si lanciò per il corridoio e si avventò sul pastore tedesco. I soldati cercarono di separarli, ma temendo che il suo cane avesse la peggio, l'ufficiale lo ritrasse dalla porta e lasciò il corridoio. La stanza adiacente al nascondiglio di Gopstein fu adibita dai tedeschi a mensa per gli uomini della contraerea. Nel corridoio c'era un continuo andirivieni di soldati. L'insegnante fu costretta a trasferire il suo ospite in un ripostiglio. Lo riportò nella camera solo dopo alcune ore. All'alba, quando udì che era iniziata una perquisizione, sistemò Gopstein nel ripostiglio, pieno di armadi, di carte geografiche, di bauli e di libri, chiuse la porta e si mise la chiave in tasca. Ma i tedeschi pretesero a ogni costo di ispezionare la stanza, e il capocasa risultò in possesso di una seconda chiave. Quando i soldati entrarono in camera, Evsej Efimovic, che si trovava in piL•di, schiacciato tra due armadi, non provò più alcuna paura. «Mi ero rassegnato» racconta «all'idea che quel In volta mi avrebbero catturato. Non mi restava altro che chiamare a raccolta tutte le mie forze per affrontare la morte dignitosamente, a testa alta.» Ma i tedeschi non si accorsero che nella penombra di quel ripostiglio pieno di cianfrusaglie si nascondeva un essere umano. Uscirono, presero la chiave e dissero che sarebbero ritornati per portare via alcuni oggetti. Poi si allontanarono e l'insegnante ne approfittò per riportare Gopstein nella propria camera, che ormai era stata perquisita. Nessuno nel condominio sapeva che la donna aveva una copia della chiave del ripostiglio. Gopstein rimase nel suo rifugio per ventotto mesi, fino al 13 aprile 1944. Temeva di impazzire. Leggeva e scriveva. Ogni sua attività doveva svolgersi nel più assoluto silenzio. La fame e ii freddo affliggevano tutta la popolazione, compresa la salvatrice di Evsej Efimovié, che doveva dividere con l'ospite le sue misere provviste. Nei primi tempi i due tirarono avanti con 1 pud di farina, 1,5 prJd di patate, una bottiglia di olio di girasole, 1 chilogrammo di orzo mondato e un barattolo, già aperto, di grasso, che Gopstein aveva ricevuto in dono da un carpentiere russo
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nei primi di dicembre del 1942. All'epoca Evsej Efimovic usciva ancora in strada. Sul ponte Feodosisk aveva incontrato il carpentiere. Non si erano intrattenuti a lungo. Il russo aveva detto soltanto: «Forse posso darle un piccolo aiuto. Ho macellato un montone e le porterò un po' di sego». E infatti verso sera era andato a portargli dello strutto e della carne. Ma poiché non lo aveva più trovato, gli aveva fatto pervenire quell'umile dono tramite alcuni conoscenti. Queste provviste sfamarono due esseri umani per oltre tre mesi. Poi l'insegnante dovette dividere con Gopstein le proprie mi'iere razioni. Eccocomesièsalvato[, unico su 14.000ebrei,] Evsej EfimovicGopstein. (Preparato per la pubblicazione da L. Sejfullina)
IL PRETE GLAGOLEV Testimonianza di I. Minkina-Egoryceva
Le truppe tedesche entrarono a Kiev il 19 settembre 1941. [Uno data nefa-
sta! Il giorno seguente dovetti percorrere il Kreséatik. Quella via, che mi era familiare fin da/l'infanzia, mi parve minacciosa e straniera. L'ingresso di parecchi edifici (tra gli altri quello delle poste} era presidiato da una nutrita guardia di tedeschi. Vidi uno di loro picchiare con la nogojka una donna, colpevole di essersi awicinata troppo a uno degli stabili sorvegliati.] Il 28 settembre (cioè nove giorni dopo la presa di Kiev da parte delle orde fasciste) agli incroci delle vie, sui muri delle case e sulle staccionate fu esposta un'ordinanza: la mattina del 29 settembre tutti gli ebrei residenti a Kiev erano tenuti a recarsi in via Degtjarevskaja, presso il cimitero ebraico; dovevano portare con sé abiti pesanti, denaro e oggetti di valore; gli ebrei che non avessero obbedito a tali disposizioni e i non ebrei che avessero osato nascondere qualche ebreo sarebbero stati fucilati. La gente era sconvolta [, non solo gli ebrei, ma chiunque avesse in sé ancora un po' di umanitq. Tutti cercavano di scoprire che cosa si celasse dietro quegli ordini. In viole Sevcenko por/ai con due ufficiali tedeschi che venivano dalla stazione. Erano assai cortesi. Quando domandai loro che significato avesse quell'ordinanza sugli ebrei, risposero che erano appeno arrivati e che non ne sapevano nulla. Probabilmente, dissero, si trattava di una registrazione, con la distribuzione di fasce da indossare al braccio. Quando sentirono che ero ebrea, tagliarono corta con un «Auf Wiedersehen!» e si allontanarono contrariati. Nessuno sapevo che cosa stesse per accadere agli ebrei, ma non c'era do dubitare che si sarebbe trattato di qualcosa di orribile.) Angustiata da sinistri presentimenti, la gente precipitava nella più cupa disperazione; oppure si aggrappava all'ultimo tenue filo di speranza, come fa chi sta annegando: la popolazione ebraica sarebbe stata portata da qualche parte all'esterno della città (nel luogo in cui gli ebrei avevano l'ordine di convenire c'erano stazioni e linee ferroviarie). [/I pensiero di un'imminente morte violenta, il pensiero della scomparsa di parenti e amici, e specialmente dei bambini più piccoli, faceva troppa paura e tutti cercavano di reprimerlo.] In ogni parte della città si udivano pianti di disperazione.
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A una notte di angoscia seguì una mattina ancora più terribile. Una fiumana ininterrotta di decine di migliaia di ebrei avanzava in direzione del luogo indicato. In quell'oceano di esseri umani c'erano perf.one di ogni età: fanciulli e fanciulle nel fiore degli anni, uomini nel pieno della maturità, anziani curvi e madri con i loro bambini, a volte ancora in fasce. C'erano professori, medici, avvocati, impiegati, artigiani e operai. Affluivano da ogni parte della città e si riversavano come torrenti in un enorme fiume senza fine. Una marea di teste, migliaia e migliaia di fagotti e di valigie. Mai prima d'allora si erano viste strade tanto animate e nel contempo tanto pervase dal gelido terrore dt'lla morte ... La mattina del 29 settembre i miei congiunti si incamminarono per il loro ultimo viaggio. Li accompagnai per un tratto; poi cedetti alle luro insistenti preghiere e tornai indietro, per accertarmi se io e mia figlia fossimo tenute a pn:'sentarci o meno: mio marito, infatti, era russo. Stabilimmo che mi avrebbero aspettata ai giardini di via Dorogomilovskaja. (Mi recai in diversi uffici per ottenere, in quanto moglie di un russo, il per· messo di rimanere ad abitare a Kiev e per scoprire quale fosse la destinazione
degli ebrei. Naturalmente non ricevetti alcuno «autorizzazione» e non venni a capo di nullo. Ovunque i tedeschi mi rispondevano irritali e minacciosi: «Vada al cimitero!».] Accompagnai mia figlia Ira, dieci amù, dalla nonna (la madre di mio marito), dalla quale avevo lasciato anche parte dei miei averi. Verso le cinque del pomeriggio mi diressi al cimitero ebraico. Ai giardini, nel luogo concordato, non trovai più nessuno. [Se n'erano andati, per sempre. Rientrare o cosa non ero possibile.] Così tornai dai parenti di mio marito, dove per circa una settimana mi nascosi in un ripostiglio, dietro una catasta di legna. In breve tempo si venne a sapere che a Babij Jar erano stati barbaramente trucidati 70.000 ebrei. I familiari di mio marito si rivolsero al prete Aleksej Aleksandrovic Glagolev, per chiedergli consiglio e aiuto. Glagolev era figlio di un noto professore di ebraistica dell'accademia religiosa di Kiev, Aleksandr AJeksandrovic Glagolev (già priore della chiesa di Nicola il Buono, a Podol).* A suo tempo il professor Glagolev era intervenuto in sostegno della difesa nel processo Beilis** [provando che il delitto commesso non ero
slcto un omicidio a fini rituali. Padre Aleksej si rivolse al professor Ogloblin, oll'epoco amministratore della città, pregandolo di oiulcrmi. Ogloblin, che conoscevo la nostra famiglia, si ri· volse al comandante tedesco. Ritornò sconvolto, pallido come un cadavere. Il comandante gli aveva detto che le questioni relative agli ebrei erano di esclusi· va competenza dei tedeschi, che le avrebbero risol,e nel modo più opportuno.] La mia situazione era senza vie d'uscita. Rimanere nascosta dai parenti • Come ricorda il testo più avanti, Podol è un quarticn' di Kiev. •• Cfr. nota p. 32.
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di mio marito avrebbe significato esporli al rischio di essere fucilati. Allora Tatjana Pavlovna Glagoleva, moglie di padre Aleksej, ebbe la folle idea di dare a me, Isabella Naumovna Egoryèeva-Minkin,1, la sua carta d'identità e il suo certificato di battesimo. Ricl•vetti il consiglio di recarmi con quei documenti in campagna, da alcuni amici contadini. [Per T.P. Glagoleva privarsi di documenti in un periodo tanto difficile signifi-
cava esporsi a gravi pericoli. Epoi nella carta d'identità bisognavo sostituire la Foto di T.P. Giogo/evo con la mia. Fortunatamente questa operazione risultò Facilitata dal Fatto che durante un incendio divampato nell'apportamento dei Glagolev i bordi del documento era rimasti bruciati. li documento era stato bagnato e cosi il timbro era diventato in· comprensibile. La sostituzione della foto riusci perfettamente. La sera stesso mi re· coi con la carta d'identità e il certificato di battesimo di T.P. Glagoleva in un sobborgo di Kiev, 5talinka (DemeevkaJ. e da li al villaggio di 5lod'evka, dove per otto mesi vissi con il nome di T.P. Glagolevo presso alcuni contadini amici. In quel periodo T.P. Glogoleva, sprowista di documenti, rischiò di essere ar· restato come persona sospetta dagli uomini dello Gestapo, che erano andati a cercare oggetti di valore nel suo apportamento. Si salvò per un soffio, anche grazie alle deposizioni di alcuni testimoni.] La mia permanenza dai contadini, a Slod'evka, non durò a lungo. Le autorità locali mi guardavano con una certa diffidl'nza. Si erano già verificate le prime incursioni partigiane e così tutti i «forestieri» destavano un certo sospetto. Alla fine l'amministrazione del villaggio mi convocò per accertare le mie generalità. Riuscii in qualche modo a cavarmi d'impaccio e mi precipitai a Kiev. Nella tarda serata del 29 novembre arrivai dai Glagolev. Da quel momento vissi con loro, spacciandomi per una parente. Di lì a breve mi raggiunse anche mia figlia Ira. che come ho d('lto aveva dieci anni. Per due anni non ci siamo mai separate dai Glagolev. Ii abbiamo seguiti in ogni spostamento.
[Stavamo rintanate nell'apportamento dei Glagolev o nel campanile della chiesa. La sihJazione ero molto difficile, poiché doveva nascondermi non solo in quanto ebrea, ma anche, data la mia età, in quanto donna tenuta a lavorare ed eventualmente a partire per la Germania. In città erano molle fe persone che mi conoscevano e che avrebbero pohlto tradirmi, sia pure involontariamente.] Oltre a meea mia figlia i Glagolev salvarono la vita ad altri ebrei, tra cui Polina Davidovna Seveleva e sua madre Evgenija Akimovna Seveleva. P.D. Seveleva aveva ventotto anni ed era sposata con un ucraino di nome D.L. Passièny. Vivevano in un grande appartamento al 63 di via Saksaganskij. Quando era comparso il nefasto ordine del 28 settembre 1941, D.L. Passièny aveva chiuso a chiave in casa la moglie e la suocera ed era uscito «in avanscoperta». All'ora indicata agli ebrei si era n.>cato nella Lukjanovka, era stato arrestalo e per poco non era stato ucciso con gli altri. Non gli era stato facile farsi rilasciare. Aveva capito che se si fossero recate al cimitero, P.D. ed E.A. Seveleva vi avrebbero trovato morte sicura. D'altra parte restare a casa non avrebbe condotto a migliore risultato.
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Che fare? Mentre attraversava la città, Passièny aveva incontrato la cantante Egoryéeva, un tempo sua collega. La Egoryéeva gli aveva consigliato di chiedere aiuto a Glagolev. Il sacerdote aveva trovato tra le carte del suo defunto padre alcuni moduli per certificare il santo battesimo. I moduli, da molto tempo privi del valore legale di documenti personali, erano in bianco. Così era stato possibile inserire in uno di essi i dati relativi al battesimo, fittizio, di «Polina Davidovna Seveleva, nata nel 1913 in una famiglia russa ortodossa». A staccare da un vecchio documento il sigillo per il certificato aveva provveduto lo stesso Passièny. Provviste di quell'atto, Polina Davidovna e sua madre si erano recate in segreto in un fondo della chiesa, dove erano state alloggiate in via Pokrovskaja n. 6, in un piccolo edificio gestito dalla parrocchia. In questa altruistica impresa padre Aleksej aveva ricevuto grande aiuto da un collaboratore dell'accademia delle scienze, Aleksandr Gregor'eviè Gorbovskij. Questi si era categoricamente rifiutato di lavorare per i tedeschi e così era diventato amministratore degli immobili della chiesa di Pokrovsk a Kiev-Podol. Nei «suoi possedimenti» offriva asilo agli ebrei, ma anche a molti adolescenti russi che sarebbero dovuti partire per svolgere lavori forzati in Germania. Riuscì persino a procurarsi tessere annonarie per i suoi «inquilini». Molte delle persone nascoste negli edifici ecclesiastici ricevettero documenti che attestavano qualifiche come «corista», «sagrestano», «custode», ecc. Se i tedeschi si fossero accorti che una chiesa così piccola e povera disponeva di un personale tanto nutrito e se fossero riusciti a scoprire l'esistenza di documenti falsi, gli autori di quei certificati sarebbero stati immediatamente fucilati. Nella casetta della chiesa la famiglia di cui ho parlato, i Passièny, rimase nascosta per circa dieci mesi. I Glagolev fecero grandi sforzi per salvare anche la famiglia di Nikolaj Georgevic Germaise. I membri di questa famiglia ebrea avevano ricevuto il battesimo ortodosso prima della rivoluzione. [Nei loro documenti d'identità risultavano di nazionalità ucraina.] N.G. Germaise era insegnante di matematica, mentre sua moglie, Ludmilla Borisovna, era casalinga. Il loro figlio adottivo, Jura, un ragazzo di diciassette anni straordinariamente dotato e vivace, studiava ali' istituto di pedagogia. [/n virtù del suo aspeffo Jura poteva senz'altro spacciarsi per ucraino; i suoi genitori, invece, avevano tratti somatici marcatamente sem;ti, e questo fu /a loro rovina.] Alcuni giorni dopo gli avvenimenti di Babij Jar tutta la popolazione maschile ricevette l'ordine di farsi registrare. Si presentò anche Jura. All'atto della registrazione il suo nome suscitò curiosità: il ragazzo era forse di ascendenza germanica? La risposta di Jura fu ritenuta insoddisfacente, perciò il giovane ricevette l'ordine di ripresentarsi insieme al padre. L'aspetto dell'uomo destò sospetti e alla fine padre e figlio furono portati al cimitero, dopo essere stati selvaggiamente picchiati. Quando aveva saputo che i tedeschi desideravano vedere il padre di Jura, un
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amico del ragazzo e conoscente dei Glagolev era corso immediatamente ad avvertire questi ultimi. li sacerdote si precipitò nella scuola in cui insegnava Germaise [, per reperire tesnmoni che attestassero che il docente non era ebreo]; ma prima ancora che la stesura dei documenti necessari fosse terminata, la tragedia era stata consumata. Adesso bisognava salvare Ludmilla Borisovna. Straziata dal dolore della sua tragedia di moglie e di madre, la donna passò giorni terribili. I Glagolev presero a visitarla con regolarità, sebbene prima d'allora non avessero avuto alcun rapporto con la famiglia Germaise. Un giorno vennero i vicini di Ludmilla Borisovna e raccontarono che la Gestapo aveva arrestato la donna [perché ebreo] e l'aveva portata via. Allora la moglie di Glagolev, munita di una lettera del sacerdote (nella quale si dichiarava che LB. Germaise non era ebrea], corse alla Gestapo, dove venne trattata in malo modo e non fu nemmeno ascoltata. Più tardi si venne a sapere che Ludmilla Borisovna era stata lasciata senza mangiare per cinque giorni e che il sesto giorno sarebbe stata portata a Babij Jar con gli altri ebrei arrestati. Tra questi ultimi c'erano anche diversi bambini che erano stati nascosti da parenti o amici russi. Ma alla fine la Gestapo decise di trattenere la Borisovna e di mandare dalla signora Glagoleva un funzionario inquirente. Costui doveva accertare se la Germaise era davvero ucraina. Dopo essere stata costretta a rilasciare una deposizione giurata, T.P. Glagoleva fu minacciata: se fosse emerso che la signora Germaise era ebrea, sarebbero state fucilate entrambe. [La signora Giogo/evo dichiarò di conoscere da molto tempo i Germaise come fedeli della chiesa già officiata dal padre di suo marito e affermò che sulla nazionalità di quella famiglia non c'erano dubbi.] Soltanto a quel punto Ludmilla Borisovna fu rilasciata. Al suo rientro, però, la signora Germaise doveva ricevere un altro duro colpo. Sua madre, una donna di settant'anni, era stata scovata dai tedeschi e portata a Babij Jar. Tre mesi dopo Ludmilla Borisovna fini nuovamente nelle mani della Gestapo e fu uccisa. Insieme alla famiglia Glagolev passai l'autunno del 1942 e l'inverno 1942-43 sull'altra riva del Dnepr, prima nel villaggio di Tarasovici e poi a Niinaja Dubecnja. A quell'epoca, cioè a partire dall'autunno del 1942, oltre il Dnepr stava prendendo consistenza il movimento partigiano, specialmente nelle zone boscose. Di notte e talvolta anche in pieno giorno i partigiani uscivano allo scoperto e regolavano i conti con gli occupanti e con gli scagnozzi della polizia. Incapaci di avere ragione dei partigiani, i tedeschi cambiarono tattica. Inviavano nei villaggi «ribelli» squadre punitive, che incendiavano le case e fucilavano, impiccavano o gettavano nel fuoco i civili. Molti borghi fiorenti furono ridotti a un ammasso di macerie. Così nei dintorni di Kiev sono stati distrutti i paesi di Piski, Novaja Basan, Novoselica, e in seguito quelli di Ositki, Dneprovskie, Novoselki, Zukin, Cernin e altri.
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Un giorno i Glagolev furono convocati dall'amministrazione del villaggio per una ver-ifica dei documenti d'identità. Fu detto loro senza mezzi termini che il sacerdote, sua moglie, i suoi figli e il sagrestano potevano rimanere, ma che lì «per l'altra parente e per sua figlia», cioè per me e per mia figlia Irocka, «non c'[era] posto. [Dovevano) tornarsene a Kiev e cercare lavoro là».* Tra grandi difficoltà io e mia figlia rientrammo a Kiev e ci rifugiammo ancora una volta nel campanile della chiesa di Pokrovsk. Era il 10 gennaio. A fine mese fece ritorno anche la famiglia Glagolev. Padre Aleksej, però, si era fermato a Niznaja Dubeènja. Il 31 gennaio una spedizione punitiva si abbatté sul villaggio per vendicare il passaggio di un repMto partigiano. Gli uomini di Hitler e i poliziotti passarono la notte a ubriacarsi e all'alba chiusero tre uomini, una donna e un bambino di cinque anni in una capanna, che cosparsero di cherosene e incendiarono. Quando lo venne a sapere, il prete accorse immediatamente sul luogo del delitto, ma non trovò altro che cenere e macerie. L'indomani, una domenica, Glagolev annunciò in chiesa che dopo la messa avrebbe officiato la liturgia funebre per i martiri. Fece seppellire nel cimitero le salme carbonizzate. A quel punto non poté trattenersi oltre al villaggio e tornò a Kiev. Int;.mto ero riuscita a procurarmi un certificato in cui si attestava che lavoravo nella chiesa come donna delle pulizie e che avevo una figlia minorenne a carico. Mi fu così possibile ottenere le tessere annonarie. A quell'epoca ispettori di ogni sorta davano la caccia agli esseri umani per reperire vittime da destinare ai lavori forzati in Germania. Per fortuna quei controllori non penetrarono mai nel nostro «tranquillo chiostro». I miei certificati e le abili manovre di A.G. Gorbovskij ci protessero. Quando, nell'autunno del 1943, al ritorno dell'Armata Rossa i tedeschi annunciarono l'evacuazione di Podol (un quartiere di Kiev), decidemmo di restare nell'appartamento dei Glagolev. Dieci giorni dopo che Podol era stato dichiarato «zona proibita» i gendarmi tedeschi fecero irruzione nell'appartamento, ci cacciarono tuhi, mezzi svestiti come eravamo, in un giardino lì vicino e ci portarono nella Lukjanovka. In seguito dovemmo cambiare abitazione ben tre volte[, perché nessuno di noi voleva lasciare Kiev. l'ultima volta ci sistemammo nella cripta del convento della Vergine (in via Artem). Da lì i gendarmi ci mandarono nel campo di concentra· mento di via Leopoli (l'antico distretto militare). Ci facevano pulire i gabinetti e non ci davano nulla da mangiare). Presto i tedeschi divisero le donne çli1gli uomini e portarono noi detenuti alla stazione. Così ci separarono dalla famiglia di padre Aleksej, e ci perdemmo di vista. Mia figlia, io, A.G. Gorbovskij, sua madre e molte altre persone fummo chiusi nei vagoni, trasportati a Kazatin e là (quando avevamo ormai abbandonato ogni speranza) rimessi in libertà. A Kazatin aspettammo • Nell'originale, il testo riportato tra virgolette è in ucraino.
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l'arrivo dell'Armata Rossa. Tornati a Kiev, ricevemmo la notizia che Glagolev era malato. I tedeschi lo avevano brutalmente picchiato, perché si era rifiutato di lasciare Kiev. In seguito alle percosse aveva riportato una commozione cerebrale e aveva dovuto rimanere a lungo in ospedale. [Per il suo attuale stato di salute padre Aleksej avrebbe bisogno della massi· ma quiete: invece le condizioni nelle quali si trovano ad abitare i Glagolev sono disastrose, e ciò a causa di un'assegnazione degli alloggi mal condotta. In una stanza di passaggio di venti metri quadrati vivono cinque persone, tra cui pa·
dre Aleksej, malato, e un bambino di due anni e mezzo. Anche in base alle norme più rigide e restrittive questa famiglia dovrebbe disporre di uno spazio ben maggiore. Credo che padre Aleksej e i suoi Familiari si siano guadagnati il diritto di vivere in condizioni umane. I Glagolev necessitano di aiuti materiali; soprattutto occorre subito trovare loro uno sistemazione più adeguato.] Tutte le persone che Glagolev ha salvato gli sono infinitamente obbligate e riconoscenti. (Preparato per la pubblicazione da R. Kovnator)
IL PRETE BRONJUS PAUKSTIS
Paukstis, un uomo alto e robusto sulla quarantina, ci ha invitati nel suo studio, che si trova nella più vecchia parrocchia di Kaunas, quella della Trinità, e con dovizia di particolari ci ha narrato gli sforzi da lui profusi per salvare gli ebrei nei giorni dell'occupazione tedesca. Paukstis era in contatto con un monaco, un certo Broljukas/ che gli procurava le carte d'identità necessarie per salvare gli ebrei. Spesso doveva coprire di tasca propria le spese per la produzione delle copie contraffatte (ben 500 marchi). Nella sua qualità di prete Paukstis rilasciava certificati di battesimo ai bambini che erano scappati dal ghetto e potevano essere salvati, e provvedeva personalmente alla loro sistemazione. Dopo che ebbe trovato un rifugio alla piccola Visgardinskaja, la quarta bambina ebrea da lui messa in salvo, venne a sapere che la Gestapo stava indagando su di lui ... «Che cosa potevo fare a quel punto?» ci ha detto Paukstis. «Sparsi in parrocchia la voce secondo cui intendevo visitare i miei confratelli e mi recai in treno dai contadini presso i quali avevo nascosto le mie "figlie" ebree. Credendo che fossi andato a trovare altri sacerdoti, la Gestapo smise di interessarsi a me.» In tutto Paukstis rilasciò centoventi certificati di battesimo ad altrettanti bambini ebrei. Ma Pauk.~tis non aiutò soltanto i bambini. Nelle tenute della sua parrocchia trovarono asilo venticinque adulti. Tra le persone che direttamente o indirettamente gli devono la vita figurano il dottor Tafta, l'avvocato Levitan, le figlie del capo della comunità di Slobodsk, Grodsenskij, Rahel Rosenzweig, Kisseniskaja, il giurista Avram Golub con la sua famiglia, Kapit e altri. •Broljukas, in lituano«fratello»,era l'appellativo di BronjusGotantas(1901-1973). Fino
al momento del suo arresto, avvenuto nel 1944, Gotantas coordinò l'attività di soccorso agli ebrei del ghetto di Kaunas; fornì loro documenti, viveri e alloggio. Morì nella Germania federale.
Lettonia
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Quando qualcuno dei suoi protetti finiva nelle mani della Gestapo, Pauk.-;tis cercava in tutti i modi di corrompere gli agenti, cosa che non di rado gli riusciva. «Certamente voi riterrete» ci ha detto il prete «che io abbia aiutato molte persone; ma io penso con rammarico che avrei potuto salvarne molte di più se a Dio fosse piaciuto donarmi maggior senso pratico.» Paukstis ci ha mostrato una lettera della giovane ebrea Rahel Rosenzweig, che egli aveva soccorso e che ora studia all'università di Kaunas. La iettera, scritta in lituano, si apre con queste parole: «Mio caro padre, mi permetta di chiamarla così, dato che mi ha trattata come un vero padre tratta una figlia. Quando in preda alla disperazione, dopo tante sventure, sono approdata da Lei, Lei mi ha offerto riparo. Senza domandarmi nulla e senza volere niente in cambio ha detto, come se fosse stata la cosa più naturale: "Qui da me potrai trovare un po' di pace, bambina mia ... "». È una lunga lettera, pervasa di affetto e di stima, e il suo contenuto attesta che nella Lituania sovietica, nello spaventoso clima del terrore hitleriano, c'erano uomini giusti, onesti, persone che hanno onorato fino in fondo, con determinazione, il loro dovere di essere umani.•
H. Oserovié (Tradotto dallo jiddisch da M.A. ~mbadal)
• Dopo la guerra, B. Pauk~tis fu perseguitato e condannato a trascorrere dieci anni in isolamento.
CAMPI DI STERMINIO
PONARY Racconto dell'ingegner J. Farber
Di professione sono ingegnere elettronico. Prima della guerra vivevo a Mosca, dove lavoravo in un istituto per la ricerca sulle telecomunicazioni. Avevo il titolo di ricercatore. Sin dal primo giorno di guerra presi servizio nell'Armata Rossa. Nell'autunno del 1941 finii in una sacca. Dopo aver errato a lungo nella foresta, caddi nelle mani dei tedeschi, mentre cercavo di raggiungere i nostri. Un tedesco mi guardò e disse: «A questo i tormenti della prigionia saranno risparmiati, è un ebreo: oggi stesso cesserà di veder tramontare il sole». Sapevo il tedesco e avevo capito tutto, ma non dovevo darlo a vedere. [L'unico coso che potevo fare ero distruggere tutte le corte e tutti i documenti che mi riguardavano. Intanto stavo possondo di là una gronde follo di prigio· nieri. Dovetti incolonnarmi e marciare con loro, sotto scorto... Per strada fummo fermati do uno pattuglia di ss, che senza fornire spiegazioni prese in conse· gno alcuni prigionieri. Fu scelto chi avevo il naso lungo e ricurvo o chi sotto lo camicia nascondeva un petto villoso. Quanto a me, mi lasciarono stare. Bisogna dire che non ho /'aspetto tipico di un ebreo, quando non indosso gli oc· chiali; inoltre parlo un russo privo di inflessioni... ] Il nostro nutrito gruppo di prigionieri fu condotto su un'altura cinta di filo spinato. Rimanemmo in uno spiazzo, a cielo aperto, da ogni lato le mitragliatrici ci tenevano sotto tiro. Tre giorni dopo ci caricarono su dei vagoni merci e ci portarono a Vilnius; il viaggio durò sei giorni e sei notti, durante i quali non ci diedero né da mangiare né da bere e i portelli rimasero sempre chiusi ... In quei vagoni lasciammo moltissimi cadaveri. Nei pressi di Vilnius, a Novovilejka/ c'era un campo nel quale erano rinchiusi 8000 prigionieri di guerra. La gente era accampata in vecchie scuderie prive di porte e di finestre. Le pareti erano scavate nella roccia. E l'inverno era alle porte. ~
A Novovilejka (Naujoi Wilna) tra il 1941 e il 1942 trovarono la morte 13.000 persone. In base a quanto accertato dalla Commissione statale straordinaria, le vittime del campo furono in tutto 60.000.
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Il nostro vitto giornaliero consisteva in un chilo di pane da dividere tra sette persone. Ma spesso i tedeschi non ci davano il pane: gettavano in un pentolone un grumo di patate congelate, sporcizia, ghiaccio, bucce e paglia, e facevano bollire il tutto fino a ottenere una sorta di amido; a ciascun prigioniero toccava mezzo litro di quel pastone. Ogni mattina i cadaveri veni\•ano portati fuori dalle baracche, trascinati alla fossa e cosparsi di cloruro di calcio; non sotterrati, però, perché l'indomani la stessa fossa avrebbe dovuto accogliere una nuova infornata di corpi. C'erano giorni in cui si contavano oltre centocinquanta morti; spesso con loro venivano gettate nella fossa persone ancora vive. I tedeschi ci definivano rifiuti dell'umanità, «subumani». Una volta, per punire un'infrazione risibile, ordinarono a due prigionieri di stendersi ventre a terra in una pozzanghera sulla quale si era formato un sottile strato di ghiaccio. I due dovettero restare così, senza vestiti, tutta la notte, e congelarono. Nella mia mente sono rimaste impresse soprattutto due date: la notte fra il 5 e il 6 e quella fra il 6 e il 7 dicembre 1941. Nella baracca c'era un ucraino di vent'anni di nome Pavel' Kirpoljanskij. Era un mio commilitone. Faceva freddo e così per avere un po' di rnldo io e lui dormivamo l'uno stretto all'altro tra i nostri due cappotti. Eravamo pieni di parassiti, da capo a piedi. Il tifo petecchiale faceva autentiche stragi. Anche quella notte Pavel' e io stavamo dormendo abbracciati. Mi svegliai di soprassalto e mi accorsi che il rag«zzo si divincolava. Gli misi una mano sulla fronte e capii: Pavel' aveva la febbre altissima e nel suo delirio non mi riconosceva più. Non potevo lasciarlo senza cappotto, perciò lo tenni stretto a me ... All'alba morì. Lo portarono alla fossa ... io, però, non mi ammalai di tifo. Nella notte del 6 dicembre avevo ai lilti due compilgni, due giovilni ucraini. Stavamo vicini, l'uno contro l'altro, e a quel tepore sprofondai nel sonno. Quando udii il segnale della sveglia, provai a scuotere il mio vicino Andrej. Non reagì: era morto. Allora cercai di svegli il re l'altro, Mihailicenko, ma anch'egli era morto. Avevo passato la notte tra due cadaveri. Non ho mai smesso di credere che sarei sopravvissuto, che sarei tornato a Mosca. Mi sforzavo di lavarmi e persino di rndermi. Nella nostra baracca c'era un barbiere. Ogni tanto radeva i prigionieri, in cambio di una patata. Quel giorno, il 7 dicembre, ebbi un colpo di fortuna. Nella mia sbobba trovai una patata intera. Allora decisi di farmi radere. Quando porsi al barbiere la patata che avevo pescato nella zuppa, egli mi guardò e disse: «Tienila ... ». «Perché?» domandai. «Tanto morirai nel giro di una settimana, mangiala tu» mi rispose. Passò una settim,1na e tornai a farmi radere. Il barbiere si meravigliò di vedermi: «Tu? Ancora vivo? Va bene, ti raderò un'altra volta gratuitamente, tanto morirai presto». Quando andai da lui la terza volta, il barbiere disse: «Continuerò a raderti gratis fino a quando non morirai». [Fino a quel momento non avevamo ricevuto alcun numero di matricola e
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non eravamo stati classificati. Gli ebrei stavano insieme agli alfri. Ma bastava che qualcuno indicasse una persona qualsiasi e gridasse «ebreo» o «giudeo» e quella persona venivo immediatamente fucilato. Non ero richiesfo alcuno pro· va.] A fine anno non ero più in grado di camminare. Avevo un edema da denutrizione. Le dita dei piedi diventarono nere, poi la carne si staccò lasciando scoperto l'osso. Lo studente di Leningrado Igor Demenev, un prigioniero nominato interprete (più tardi scappò con altri compagni, dopò aver avuto ragione delle guardie tedesche), mi aiutò a entrare nell'infermeria del campo. In una cadente costruzione in mattoni immersa tra le baracche di legno, l'interprete e un pugno di medici cercavano di tener in vita un ospedale per i malati infettivi. Quei medici mi guarirono. Il viceprimario, il dottor Evgenij Michailovié Gutner, di Stalingrado, si occupò di me con sollecitudine e con compassione fraterna. A maggio avevo ripreso a camminare e a giugno ero già in grado di salire fino al secondo piano. L'ospedale era l'unico luogo del campo dal quale i tedeschi giravano alla larga, per paura del tifo e della tubercolosi. Riuscii a rimanere là a svolgere i lavori di pulizia. 11 tr1sso di mortalità era elevatissimo. Rimasi nell'ospedale sino alla fine del 1943. li numero dei prigionieri di guerra continuava a calare. Erano stati internati ottomila uomini e ora non ne rimaneva che una manciata. I tedeschi impiegavano la forza lavoro dei detenuti anche all'esterno del campo. E così cigni tanto i prigionieri potevano ricevere dalla popolazione qualcosa da mangiare. A prezzo di grandi rischi, il medico militare Sergej Fedorovic Martysev cercava di salvare quanta più gente possibile; con vari pretesti tratteneva i prigionieri nell'ospedale e prestava loro tutto il suo aiuto. La notizia di Stalingrado segnò un'importante svolta nel morale dei detenuti e della popolazione civile. Tutti compresero che i tedeschi avevano perso la guerra. Sebbene isolato dal mondo, anche il nostro piccolo collettivo si votò alla lotta contro gli invasori. Ci mettemmo a scrivere volantini destinati agli occupanti; ne scrissi alcuni anch'io, in tedesco. In uno di essi si diceva: «Il Signore ha donato ai tedeschi tre qualità: intelligenza, senso dell'ordine e nazismo; a nessuno di loro, però, è dato possedere più di due di questi doni per volta. Un tedesco intelligente e nazista sarà un individuo disordinato; se sarà intelligente e avrà senso dell'ordine non sarà nazista». Il foglio del giorno seguente diceva soltanto: «Hitler a morte!». Scrivemmo una ventina di volantini, che non passarono inosservati. Diventammo più audaci. Più volte a mezzanotte, a luci spente, intonammo l'I11h'mazim111le. I tedeschi si infuriarono, presero misure repressive, ma non riuscirono mai a trovnre i «colpevoli». Arrivammo persino a picchiare le persone che collaboravann con i tedeschi. [Uno volta, da uno finestra che si affacciava sulla recinzione qualcuno gettò un foglietto in direzione di uno sentinella tedesco. La sentinella se ne accorse,
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ma per mia fortuna esso cadde all'interno della recinzione. La guardia chiamò un prigioniero, Vanja Niinij, e gli ordinò di portarle quel foglietto. Vanja raccolse il messaggio, se lo infilò rapidamente in tasca ed estrasse un altro pezzo di carta, che diede al tedesco. Nel primo foglio c'era scritto: «Liberateci dai giudei. Nel'ospedale si nascondono alcuni ebrei dell'NKVD;'' aspettono il ritorna dei sovietici».]
Le mie condizioni di salute andavano migliorando. Per Sergej Fedorovic si trattava di un miracolo, per me tutto si spiegava con il fatto che ero intimamente e fermamente convinto che avrei visto il giorno della vittoria. Mobilitai tutte le mie forze, fisiche e mentali e mi imposi una ferrea disciplina. Presi a dividere la mia razione di pane, centocinquanta grammi, in venti piccole fette; in seguito arrivai a ricavarne quaranta fette. Ci davano del pane tedesco, di forma ovale. Era fatto con una farina speciale, piena di trucioli di legno. Una pagnotta doveva sfamare sette persone. lo dividevo la mia parte in quaranta fette, sottili come la carta di una sigaretta. Il pane ci veniva distribuito alle cinque di sera e io facevo durare la mia razione cinque ore. Prendevo una fetta, la infilavo su un bastone, la tostavo sulla stufa e la mangiavo. Annesso all'ospedale c'era un piccolo giardino; ma non vi si vedevano né fili d'erba né foglie. Si mangiava persino la corteccia degli alberi. Talvolta ci portavano ai bagni. Là i tedeschi cercavano di individuare gli ebrei. Una volta un soldato si avvicinò a un prigioniero e gli disse: «Tu sei un ebreo». li tedesco prese nota della matricola del prigioniero per trasmetterla ai superiori. Allora Vanja Nii.nij decise di salvare il suo compagno. Attese il momento propizio e, nel giro di un secondo, sostituì il foglio su cui era segnata la cifra. Era tarda sera, come al solito quando andavamo ai bagni. li giorno dopo il delatore rimediò una pessima figura. Il ragazzo che venne chiamato a gran voce era russo, inequivocabilmente, non c'era nulla da fare. Per smascherare gli ebrei, alla fine del 1943 presero il via nuovi controlli. Dovemmo metterci in fila e spogliarci. Poi ai nostri medici fu ordinato di compiere una perizia. Il dottor Sergej Fedorovic oppose un categorico rifiuto: «Uccidetemi, fatemi quello che volete, ma io non effettuerò nessuna perizia!». Gli fecero ogni sorta di minaccia e ciononostante gli altri medici ne seguirono l'esempio. Al campo mi spacciavo per ucraino, mi ero scelto il nome di Jurij Dmitrievic Firsov. Tuttavia i tedeschi riuscirono a scoprire la mia origine. Individuarono sei ebrei, tra i quali c'era anche Kostja Potanin, un russo di Kazan' che nella sua vita non aveva conosciuto un solo ebreo, ma che, dicevano i tedeschi, aveva il naso lungo. Poi venne quel memorabile 29 gennaio 1944. Nel campo dei prigionieri di guerra entrò un autocarro chiuso, il «corvo nero». li comandante consegnò i detenuti ebrei (tra i quali Kostja Potanin). E così partim• La polizia segreta sovietica. (Ndl)
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mo. Improvvisamente l'autocarro si fermò, proprio davanti al carcere di Lukiskis (lo avremmo saputo di lì a breve). Furono caricati altri due ebrei. Erano fuggiti dal ghetto, si erano nascosti, erano stati scovati e portati in prigione. Appena il camion ripartì, quei due iniziarono a piangere. Quando chiedemmo loro perché piangessero, il più giovane, David Kantorowicz, rispose che il camion era diretto a Ponary, un luogo dal quale non c'era ritorno. Ci portarono a Ponary. L'area era chiusa dal filo spinato e all'entrata un cartello ammoniva: «È severamente vietato l'accesso! Pericolo di vita! Mine!». Il camion varcò l'ingresso e dopo circa trecento metri arrivò a una seconda recinzione, dietro la quale c'erano delle sentinelle. Dalla porta uscirono guardie appartenenti a un altro corpo, che si distingueva sia da quello dei soldati che stavano all'entrata sia da quello degli uomini che ci scortavano: tanto agli uni quanto agli altri era vietato l'accesso. Le norme erano rigide: nessuno poteva entrare a Ponary. Le guardie erano alte, imponenti e ben pasciute. Guidato dalla sua nuova scorta, l'autocarro ci portò nel lager. Quest'ultimo era chiuso da due barriere di filo spinato. Come saremmo venuti a sapere in seguito, lo spazio che separava le due recinzioni era minato. Nel reticolato c'era un altro passaggio, piuttosto stretto, attraverso il quale fummo condotti fino al bordo di un'enorme buca. Quest'ultima era lo scavo per una cisterna destinata a contenere petrolio; aveva un diametro di 24 metri e una profondità di 4. Le pareti erano di cemento. Due terzi dello scavo erano coperti da tronchi di legno, un terzo era scoperto. Scorsi una donna sul fondo e compresi che la fossa era abitata. In superficie c'erano due scale. Una delle due era ritenuta ,,pura» e riservata esclusivamente ai tedeschi. Per scendere dovemmo usare quella «impura». Le sentinelle rimasero in superficie. Chiamarono un operaio, il caposquadra Abraham Hamburg, un ebreo di Vilnius che i tedeschi avevano soprannominato «Franz». Poi fecero venire un altro operaio; lo chiamavano «Max», ma il suo nome era Moti. Aveva i ceppi ai piedi. Ricevette l'ordine di applicare le catene anche a noi. Queste avevano gli anelli spessi quasi quanto un dito e venivano fissate sotto il ginocchio, più o meno dove termina il gambale degli stivali; ricadevano fino a toccare terra ed era permesso legarle a metà con uno spago e assicurarle alla cintura, perché non fossero eccessivamente di impaccio. Quando i nuovi venuti furono in catene, arrivò il capo, uno SturmJuhrer. Era un sadico raffinato, sulla trentina, tutto azzimato e profumato, con guanti bianchi di pelle scamosciata e stivali lucidi come uno specchio. Aveva modi arroganti, e non soltanto nei nostri riguardi: anche le guardie tedesche ne avevano un'incredibile paura. Ci fecero mettere in fila e ciascuno di noi dovette dichiarare la propria provenienza. Kostja Potanin e io dicemmo di non capire (non rivelai mai che sapevo parlare tedesco) e l'operaio Franz fece da interprete. Lo Sturmfi'i/irer sapeva lo jiddisch, il polacco e masticava anche un po' di russo. Mi si parò davanti e
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mi chiese: «Da dove vieni?••. Risposi che venivo da Mosca. Allora lo Sturmfiihrer esclamò ridendo: «Da Mosca, nientemeno!», e mi guadrò fisso negli occhi. «Perché, non ti piace Mosca?» replicai. Franz, l'interprete, ebbe un sussulto e tradusse le mie parole in una forma molto edulcorata. Lo Sturmfiilrrer alzò il braccio, come per colpirmi, ma poi non mi toccò. Disse che dovevamo svolgere un'opera di grandissima rilevanza po-litica per lo stato tedesco. «Non provate a togliervi le catene, vengono controllate più volte al giorno. Al minimo accenno di fuga sarete fucilati. Non crediate di potere scappare, perché da Ponary non è mai riuscito a evadere nessuno e nessuno ci riuscirà mai.» Passò quindi a enumerare i comportamenti soggetti a punizione: al minimo accenno di evasione, fucilazione; gli ordini dei comandanti devono essere eseguiti incondizionatamente: alla più piccola infrazione, fucilazione; il regolamento del campo deve essere assolutamente rispettato: in caso di infrazioni, fucilazione; il lavoro deve essere svolto con la massima solerzia: per gli indolenti, fucilazione. Al termine del lungo elenco mi fu chiaro che in quel luogo non era difficile rimetterci la vita. Concluso il suo sermone, lo Sturn!fiihre1· se ne andò, lasciandoci sul fondo della buca. Là sotto trovammo una donna, cui presto se ne aggiunse un'altra, venuta dalla parte più interna della fossa. Iniziammo a interrogarle. Per prima cosa domandammo se i tedeschi ci avrebbero dato da mangiare. «Se è per questo, non dovete preoccuparvi» risposero. «Mangerete, però non uscirete vivi di qui.» Entrammo sotto la copertura, d,e riparava un recinto di legno, chiamato «bunker», e una piccola cucina. Le donne ci raccontarono che nel lager erano stati internati gli ebrei di Vilnius e dintorni che si erano nascosti all'esterno del ghetto ed erano stati scovati; erano stati chiusi in carcere e quindi tradotti al campo. Kantorowicz, del quale ho già parlato (era di Vilnius), stette un poco a chiacchierare con le donne ed esse diedero maggiore confidenza. Dissero che ci trovavamo a Ponary, dove erano stati fucilati non soltanto gli ebrei di Vilnius, ma anche ebrei deportati dalla Cecoslovacchia e dalla Francia. Il nostro compito consisteva nella cremazione dei cadaveri. Era un'operazione coperta da segreto di stato. 1 tedeschi non sapevano che loro ne erano a conoscenza; e anche noi non dovevamo lasciarci sfuggire una sola parola. In presenza dei tedeschi avremmo dovuto dire che iJ nostro lavoro consisteva nel tagliare legna. Avevamo appena finito di ascoltare queste rivelazioni, quando udimmo un fischio e ci fu ordinato di salire per la scala. Giunti in superficie fummo divisi in coppie. Nell'aria c'era un tale fetore che ne eravamo quasi storditi. Il sorvegliante, un uomo dell'so, disse: «Prendete i badili, scavate nella sabbia, e quando trovate delle ossa estraetele». Presi una vanga, la affondai nella sabbia e cozzai immediatamente contro qualcosa. Rimossi la sabbia e portai alla luce un cadavere. La guardia esclamò: «Niente paura, tutto regolare».
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Lì, davanti a noi, c'era una fossa immane, che aveva cominciato ad accogliere cadaveri sin dal 1941. La gente non era stata seppellita, e neppure cosparsa di cloruro di calcio: le stragi si susseguivano a ciclo continuo. I cadaveri giacevano nelle posizioni più diverse, così come erano stati gettati nella fossa. Le persone uccise nel 1941 erano vestite. Nel 1942e nel 1943 erano state organizzate le cosiddette «opere di soccorso invernale», donazioni «spontanee» di abiti pesanti per l'esercito tedesco. Allora prima di essere fucilate le vittime venivano costrette a spogliarsi, potevano tenere indosso solo la biancheria. I loro indumenti veniv.ino trasmessi al fondo per le offerte «volontarie» all'esercito tedesco. Ed ecco il procedimento che dovevamo seguire per cremare i cadaveri. Al limitare della fossa si disponevano tronchi di pino incrociati, per una superficie di sette metri per sette. Al centro dell'area si erigeva un camino, anch'esso in legno di pino. Per prima cosa bisogn.iva rimuovere la sabbia, fino a quando non emergeva una «figura» (così i tedeschi chiamavano le salme). La seconda operazione era eseguita dal «trainatore», termine con il quale veniva designato l'operaio addetto a trascinare i corpi fuori della fossa con l'ausilio di un gancio di ferro. I corpi erano incollati tra loro. Due «trainatori», generalmente si trattava degli uomini più robusti della squadra, gettavano i ganci nella fossa e ne estraevano i cadaveri; di solito i corpi si staccavano a pezzi. Per la terza operazione intervenivano i «portatori». Le salme venivano messe su una barella, e i tedeschi controllavano che la «figura» fosse completa, che avesse cioè due gambe, due braccia, una testa e un tronco. I tedeschi tenevano un registro in cui annotavano il numero dei corpi riesumati. Dovevamo bruciare ottocento cadaveri al giorno. Lavoravamo dall'alba al crepuscolo. I «portatori» collocavano le salme sui tronchi, l'una accanto all'altra, e quando uno strato era completo, lo coprivano con rami di pino; un operaio specializzato, il «fornaiolo» si occupava del combustibile e provvedeva a inserire legna secca nella catasta. Accatastati tronchi e rami, il tutto veniva cosparso di olio combustibile e si passava a sistemare il secondo strato, poi il terzo, e così via. In tal modo si fom1ava una piramide alta quattro metri, se non di più. Quando arrivava a contenere 3500 cadaveri, la piramide era considerata pronta. Veniva quindi irrorata in abbondanza di olio combustibile, sia dall'alto sia di fianco. Sui lati veniva aggiunta legna particolarmente secca, la si impregnava di benzina e da ultimo si collocavano una o due bombe incendiarie. A questo punto veniva appiccato il fuoco. Ogni volta i tedeschi celebravano l'accensione del fuoco come se si fosse trattato di un rito solenne. Per consumarsi, una piramide impiegava generalmente tre giorni e tre notti. Sviluppava una caratteristica fiamma corta e un fumo nero, denso e pesante, che lentamente, quasi a fatica, si alzava in grandi volute caliginose. Accanto al fuoco c'era il «fuochista», il quale, munito di una pala, doveva controllare che dalla catasta non cadesse nulla. Dopo il terzo gior-
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no non rimanevano che i pochi resti delle ossa non carbonizzate e un cumulo di cenere. I vecchi e i più deboli lavoravano ai pali: le ossa residue venivano versate con i badili su un'enorme piastra metallica, e ridotte in polvere con l'ausilio di pali. L'operazione successiva consisteva nel setacciare le ossa tritate. Lo scopo era duplice: l'assenza di scarti nel setaccio metallico indicava che tutto era stato pestato a dovere e nel contempo era possibile recuperare tutti gli oggetti di valore che non erano bruciati, pezzi d'oro e simili. Resta da menzionare un'ultima operazione, che seguiva al recupero dei corpi dalla fossa: c'era un detenuto incaricato di aprire la bocca dei cadaveri con un uncino di ferro; se trovava protesi d'oro o corone dentarie, doveva estrarli e metterli in un apposito recipiente.• Certe fosse contenevano fino a 20.000 cadaveri. Il fetore dava la nausea, faceva venire il voltastomaco. I ritmi di lavoro non prevedevano la minima pausa. La sorveglianza era effettuata da sessanta ss. Erano mastini ben pasciuti, incaricati di impedire che anche un solo prigioniero fuggisse. Stavano in cerchio attorno alla fossa e cambiavano posto ogni quarto d'ora. Avevano a disposizione carne, vino e cioccolata in quantità, ma non potevano lasciare Ponary. Quando non montavano la guardia restavano nei loro alloggi. Ancor peggio delle 55 erano gli uomini dell'so, che controllavano i tempi di lavoro e mantenevano la disciplina. Ricorrevano spesso ai loro manganeJli e non ci perdevano d'occhio un istante. Avevano un lessico alquanto limitato: gridavano «Ran, ran, ran», che in tedesco significa «di corsa», «sbrigati», «muoviti», oppure «predzej», che in polacco vuol dire «svelto». Conoscevano anche i peggiori insulti in russo. Si appostavano sempre in un punto dal quale potevano dominare tutta la fossa e i loro manganelli entravano in azione per la minima inezia. Quando portavamo via i cadaveri, gli uomini delle 55 gridavano: «Avanti, avanti, presto porteranno via anche te!». Già il primo giorno lo Sturmfilhrer venne a ispezionare la fossa. Si mise a sbraitare: «Perché quello di Mosca lavora con la vanga, non può sollevare pesi?». Immediatamente un uomo dell'so si precipitò da me e mi ordinò di prendere una barella. Sollevammo una salma e la deponemmo sulla barella. Era così pesante che le ginocchia mi si piegavano. All'improvviso lo Sturmfilhrer urlò con tutte le sue forze: «Una figura per volta? Questo lo farà a Mosca, qui deve caricarne due!». Dovemmo prendere una seconda salma. Per for• L'eliminazione delle fosse comuni fu condotta con identiche modalità anche in altri luoghi. Nel 1942 Himmlerordinòdi cancellare ogni traccia delle fucilazioni di massa. A tal fine fu istituito il So11derkommamio 1005, agli ordini dello Standartenfiihrer (colonnello) delle ss Paul Blobel. In alcuni casi, come a Babij Jar, nel IX Forte di Kaunas e a Ponary, gli ebrei che lavoravano sotto la sorveglianza di tale reparto riuscirono a fuggire.
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tuna il mio compagno era robusto. Così trasportammo due corpi. Ma Io Sturmfìi/irer tornò a gridare: «Quella barella è troppo leggera: devono caricare ancora una figura!». Al termine della giornata ci contavano e controllavano le nostre catene. Poi ci comandavano di scendere nel «bunker». Quando eravamo tutti là sotto, toglievano la scala. In seguito al nostro arrivo era stato necessario costruire un secondo «bunker» e, se non altro, non potevamo lamentarci per il buio, visto che la nostra buca era provvista di illuminazione elettrica. Pronte ad attenderci, quando rientravamo dal lavoro, trovavamo delle bacinelle con.tenenti una soluzione di manganese, con la quale ci lavavamo accuratamente le mani. Eravamo in tutto ottanta: settantasei uomini e quattro donne. Gli uomini avevano le catene ai piedi, le donne no. Queste ultime avevano il compito di tener pulito il «bunker» e di occuparsi dell'acqua, della legna e dei pasti. La più vecchia di loro, Basja, aveva trent'anni. Era una donna esperta ed era tenuta in grande considerazione a causa dell'enorme influenza che esercitava su Franz, il caposquadra. Le altre tre erano giovani, avevano diciotto, diciannove e vent'anni. Una di loro, Susanna Bekker, apparteneva a una ricca e nota famiglia di Vilnius. Basti dire che persino a Ponary alcuni anziani quando la incontravano si scoprivano il capo. «Questa è la figlia di Bekker,» dicevano «che una volta era proprietario di parecchie case di pietra». La terza ragazza si chiamava Genia ed era figlia di un artigiano di Vilnius. La quarta, Sonja Scheindl, veniva da una famiglia povera; era straordinariamente laboriosa e gentile e si adoperava per migliorare le nostre condizioni: per esempio, ci lavava la biancheria, benché non fosse tenuta a farlo. La maggior parte degli uomini veniva da Vilnius. Tutti costoro trovarono tra i cadaveri il corpo di qualche familiare. Un secondo gruppo era costituito dai prigionieri di guerra sovietici, quindici in tutto, e un terzo da gente originaria di Vievis, un piccolo borgo situato tra Vilnius e Kaunas. Al gruppo di Vilnius appartenevano persone di ogni età e di ogni estrazione sociale; nonostante si conoscessero da molto tempo, non mancavano tra loro inimicizie e discordie. Ogni tanto si rinfacciavano l'un l'altro torti subiti anche dieci anni prima. Vale la pena di menzionare lsaak Dogim e David Kantorowicz. Dogim, un giovane ed energico operaio di Vilnius, stampatore ed elettrotecnico, classe 1914, era quel che si dice un carattere chiuso. Kantorowicz aveva alle spalle un passato particolare. Era un giovane dinamico, spigliato, nato nel 1918. Prima della guerra lavorava come fattorino in una libreria. I tedeschi gli avevano ucciso la moglie. Era stato catturato mentre tentava di raggiungere i partigiani. Moti Seidel era nato in una famiglia povera di ~vencionys. Suo padre e sua madre erano morti ed egli era andato a vivere nel ghetto. Moti, che aveva diciannove anni, era un ragazzo gentile; aveva una bella voce e
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gli piaceva cantare. Dal 1941 era passato da una prigione all'altra; quando narrava le infinite, dolorose peripezie che a\'eva attraversato, non si poteva non rimant're impressionati. Lo chiamavamo «Moti il piccolo», per distinguerlo da «Moti il baffuto». Leiser Ber Ovseicik, di Asmena, e Mackin, di Svenèionys, erano amici inseparabili. Mackin aveva trentacinque anni; un tempo possedeva una bottega ed era stato relativamente ricco. Ovseicik era artigiano. La loro amicizia, a dispetto della differenza di censo, era davvero intima. Ovseièik non mangiava nulla senza dividere la sua razione con l'amico e viceversa. Un personaggio singolare era Szloma Col, un uomo di mezza età, estremamente buono ma molto particolare. Sin dal 1933 sua moglie, militante del partito operaio polacco, era stata perseguitata e rinchiusa nel campo di concentramento di Bereza Kartuska. All'epoca del potere sovietico, avevano entrambi ricoperto ruoli di rilievo a Baranovièi. Szloma Col non parlava mai male di nessuno. Si era votato alla causa dell'evasione. Ma di questo dirò più avanti. Abraham Singer era un compositore assai noto; prima della guerra dirigeva un'orchestra. Era una persona colta, intelligente, aveva un'ottima padronanza dello jiddisch, del russo, del polacco e del tedesco. L'interprete dello Sturmfiihrer era il nostro caposquadra, Franz, ma quando si trattava di tradurre discorsi particolarmente solenni, gli veniva preferito Singer. Questi componeva canti anche nella nostra buca. Una volta ne creò uno su un testo in tedesco. Noi, nella fossa, lo cantavamo; purtroppo, però, lo Stum~fiillrer lo udì, Io trascrisse e lo fece pubblicare a suo nome. In cambio Singer ricevette una sigaretta e cento grammi di marmellata. L'autore ne rimase molto contrariato e si sfogò con me; si sentiva profondamente oltraggiato e mi disse: «Non invento melodie per regalarle ai tedeschi». Nella fossa c'erano anche alcuni religiosi. Ogni tanto officiavano la liturgia dei defunti; erano momenti di grande solennità, ma di altrettanta tristezza ... Prima di pregare tutti effettuavano con scrupolo le dovute abluzioni. Ovseièik pregava due volte al giorno per un paio d'ore, con profonda devozione e con grande ardore. Qualche parola sui prigionieri di guerra. C'erano Petja Sinin, russo di Moldavia, nato nel 1922, di professione infermiere. Dopo l'evasione si unì ai partigiani e diede prova delle sue migliori qualità. Miron Kalnickij, un ebreo di Odessa, fu un compagno di lotta assai prezioso, poiché per qualche tempo aveva lavorato in un campo di prigionia situato nei pressi di Ponary (non si tratta del campo della morte) e conosceva bene i dintorni. Tra i prigionieri di guerra c'era anche Veniamin Juleviè Jakobson, di Leningrado, cinquantaquattro anni, amministratore. Era quel che si dice una «pasta d'uomo» e nei confronti dei detenuti si comportava come un padre. Aveva sempre in tasca qualche pomata, garza e qualche polvere. Godeva di grande autorità: quando scoppiava una lite, era Jakobson a
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rappacificare le parti. Ma aveva un'autentica «fissazione»: era convinto che non saremmo mai stati fucilati. «Non abbiamo nessuna colpa, perché dovrebbero fucilarci?» Lo SturmfiJhrer era una figura sinistra e terribile. La sua comparsa sull'orlo della fossa non preannunciava nulla di buono, lo sapevano tutti. La gente dava fondo alle proprie energie, ma lo Sturmfiihrer non accennava ad andarsene, stava lì a guardare, con le mani incrociate dietro la schiena. Poi, improvvisamente, interpellava qualcuno (ad alcuni di noi aveva affibbiato soprannomi offensivi): «Perché procedi così lentamente, sei malato?». L'interessato rispondeva di essere sano, di non avere alcun problema. Lo Stum~fiil,rer, però, non si arrendeva: «No, non sei sano». C'era, tra noi, un uomo di sessantacinque anni, lo chiamavamo «zio». Lo Sturmfiil,rer gli disse: «Domani andrai in infermeria». Tutti sapevano che ciò significava «sarai fucilato». Fu una sera di strazio e di dolore per la gente del «bunker». Provavamo orrore e vergogna: un uomo anziano stava per andare a morire e noi non eravamo in grado di accorrere in suo aiuto. Cercammo di confortarlo, ma replicò: «Perché mi consolate? Io la mia vita ormai l'ho vissuta». Un giorno eravamo appena arrivati alla buca, di ritorno dal lavoro, quando ecco arrivare lo Sturmfii1irer, di pessimo umore. «C'è qualche malato?» chiese. Naturalmente nessuno si dichiarò malato e così egli ci fece disporre su due file: «Ora provvederò io a trovare i malati» disse. Ci passò in rassegna guardando fisso negli occhi ciascuno di noi: consumava letteralmente la gente con lo sguardo. «Tu sei malato, esci dalla fila» disse a uno di noi, poi ripeté la stessa cosa a un altro. Ma non ne ebbe abbastanza. Si rivolse a un giovane in ottima salute e gli disse: «Sai lavorare con il ferro?». «Sì» fu la risposta. Il ragazzo ricevette l'ordine di uscire dalla fila e gli furono tolte le catene. Tutti sapevano che le persone alle quali venivano levati i ceppi erano votate alla fucilazione. Quindi lo St11r111fiihrer si avvicinò a un quarto uomo e chiese anche a questi: «Sai lavorare con il ferro?». «No» rispose l'uomo. «Non fa niente, imp.irerai; esci dalla fila.» Anche il quarto fu liberato dalle catene e fatto uscire dalla fossa. Qualche minuto dopo udimmo quattro spari. E come se tutto ciò non bastasse, lo Sturmfiihrcr rimproverò il nostro caposquadra: «È inaudito! Non siete capaci di lavare i vostri compagni? Li mandate all'ospedale pieni di pidocchi». Ogni tanto lo Sturmfiihrer ricorreva anche a un altro metodo. Mentre passava in rassegna le file guardando la gente negli occhi, domandava se ci fosse qualcuno che non gradisse lavorare al campo. Dovevamo rispondere tutti in coro che il lavoro ci piaceva molto. Allora si rivolgeva a Singer: «Tu sei un musicista, forse per te è pesante lavorare qui?». Poi arrivava un'altra domanda: «Forse qualche guardia è rude con voi e non vi tratta bene?». Tutti in coro dovevamo rispondere che le guardie ci trattavano bene. Poi ordinava: «Cantate!». Dopo un giorno di duro lavoro ci reggevamo a stento sulla gambe, ma ciononostante dovevamo cantare.