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Italian Pages 260 Year 2008
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Gianfranco Borrelli
Il lato oscuro del Leviathan Hobbes contro Machiavelli
Questo volume è stato pubblicato con finanziamento PRIN 2005/07 assegnato al Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta” dell’Università “Federico II” di Napoli
© 2009 Edizioni Cronopio Calata Trinità Maggiore, 4 - 80134 Napoli Tel./fax 0815518778
www.cronopio.it e-mail: [email protected] ISBN 978-88-89446-41-6
Indice
Avvertenza
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Introduzione
13
CAPITOLO PRIMO
Contentezza/contenzioni: antropologia e politica in Machiavelli
DI
1. Mala contentezza e contenzioni: il malessere del vivere civile, p. 28; 2. Oltre la vile ambizione: virtù e desiderio alla prova della mala contentezza, p. 30; 3. Le fonti classiche per contentus/contentio: Livio, Cicerone, Seneca, Lucrezio, p. 35; 4. Tra prudenza respettiva
e impeto dell’innovazione: mala contentezza e dei tempi, p. 42; 5. Il dispositivo repubblicano verno misto: da Aristotele a Machiavelli, p. 49; la forma di repubblica può contenere conflitti
qualità del go6. Solo e mal-
contenti, p. 55; 7. La storia delle divisioni in Firenze:
tra mala contentezza e contenzioni, p. 61.
CAPITOLO SECONDO Contentment/contention: Hobbes si confronta
con Machiavelli 1. Contentment e contention secondo Thomas Hobbes: i dati del problema, p. 65; 2. Bacon legge Machiavelli, p. 67; 3. Contentment e contention nelle opere di Thomas Hobbes, p. 70; 4. Prime considerazioni critiche, p. 99.
65
CAPITOLO TERZO
Leviathan contro disobbedienza civile: un progetto di esclusione/inclusione
103
1. Le cause della disobbedienza civile: prudenza e malinconia, p. 105; 2. Il fallimento della prudenza politica, p. 108; 3. Una nuova sconvolgente antropologia, p. 113; 4. L’artificio retorico dello stato di natura, p. 117;
5. Le figure dell’esclusione, p. 121; 6. Produzione di poteri e inclusione nella vita civile, p. 127. CAPITOLO QUARTO
Rappresentazioni di sovranità e pratiche
di governamentalità: l’efficacia dei dispositivi di comando-obbedienza
131
1. La saggezza moderna apre all’autodisciplina dei soggetti, p. 133; 2. Interessi privati e pubblico interesse, p. 135; 3. Calcolo degli interessi e rappresentazione politica, p. 141; 4. La natura del contratto: interazione di
forme diverse di obbedienza e obbligazione, p. 144; 5. Pratiche di governamentalità e funzione di sovranità, p. 147; 6. Sovranità: unità politica e separazione funzionale, p. 151; 7. Potere politico e sostanza simbolica del-
la sovranità, p. 155. CAPITOLO QUINTO
Appropriazione e separazione nelle nozioni hobbesiane di sacro e politico
1. Fede e obbedienza. Il problema dei rapporti tra metafisica tradizionale e politico moderno, p. 160; 2. La critica ad Aristotele e alla scolastica aristotelica, p. 165; 3. La definizione di sacro come segno della separazione metafisica, p. 169; 4. Tra sacro e politico: appropriazione divina, uso comune, proprietà privata, p. 174; 5. La separazione come fondamento dell’autonomia del dio mortale, p. 177; 6. Teologia materialistica ed escatologia immanentistica, p. 182.
159
CAPITOLO SESTO Tempi e dispositivi di governo: tra Machiavelli e Hobbes
187
1. Machiavelli: ritorno ai princìpi, contingenza, scarti, p- 188; 2. Scritture e pratiche delle ragioni degli Stati: tecniche e tempi della conservazione, p. 194; 3. I tempi della politica moderna nei dispositivi del Leviathan, p. 201; 4. Brevi annotazioni di differenze, p. 207.
CAPITOLO SETTIMO Dispotismo, conquista, guerra civile:
il carattere doppio dello Stato Leviatano
209
1. Un problema critico: la presenza della categoria di dispotismo in Hobbes, p. 210; 2. Tra conquiste e guerre civili, p. 214; 3. La genesi dello Stato Leviatano tra acquisizione e istituzione, p. 219; 4. Il dispotismo alle radici della ragione moderna di sovranità, p. 23; 5. Sovranità come integrazione tra violenza dell’acquisizione e legittimazione dell’autorità, p. 228.
Note finali su un destino di sovranità politica: Hobbes contro Machiavelli
233
Indice dei nomi
253
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if ever any beauty I did see, which I desir’d, and got, t'was but a dreame of thee
John Donne
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Avvertenza
Le citazioni dell’opera di Thomas Hobbes fanno riferimento alle seguenti edizioni con le sigle riportate: The English Works of Thomas Hobbes (EW) e Opera Philosophica quae Latine scripsit Omnia (OL), ed. Molesworth, London 1839-45 (reprint Aalen 1961);
The Elements of Law Natural and Politic, in EW vol. IV come Human nature, pp. 1-76 e De corpore politico, pp. 77-228; utilizzo ed. T6nnies (1889), London 1969 (E); trad. di A. Pacchi,
Elementi di legge naturale e politica, Firenze 1968; De Cive, ed. Warrender, Oxford
1983: The Latin Version
(CI) e The English Version (Ce); trad. di T. Magri, De Cive, Roma 1979; trad. di N. Bobbio, Elementi filosofici sul cittadino, in Opere politiche, Torino 1959 (it Bobbio);
Leviathan, ed. C.B. Macpherson, Harmondsworth 1968 (L); Leviatano, trad. di G. Micheli, Firenze 1976; Leviatano, a cura
di A. Pacchi, Bari 1989 (it Pacchi); Leviatano, trad. di R. Santi, Milano 2001 (it Santi); De homine, in OL, II pp. 1-132 (77), trad. di A. Pacchi, Bari 1970:
De corpore, ed. K. Schuhmann, Paris 1999 (Co); trad. di A.
Negri, // corpo, in Elementi difilosofia, Torino 1972; Behemoth or the Long Parliament, in EW, VI; utilizzo ristampa ed. Molesworth, New York 1969 (8); Bebemotb, trad. di O. Nicastro, Bari 1979.
Le citazioni dell’opera di Machiavelli fanno riferimento alla raccolta di scritti curata da M. Martelli, Tutte le opere, Firenze
1975, con le seguenti sigle: Principe (P); Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (D); Discursus florentinarum rerum (DFR);
Istorie fiorentine (IF).
La provenienza delle citazioni da altre opere dei due autori viene segnalata nelle note.
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Introduzione
Hobbes dialoga con Machiavelli. Conviene portare alla luce le tracce di questo confronto poiché dalle esperienze delle loro straordinarie intelligenze prendono corpo i linguaggi e le proiezioni teoriche di culture politiche radicalmente differenti. Machiavelli fa lievitare un progetto che resta innervato nella tradizione classica del pensiero greco e latino: la prassi civile coltiva la libertà di corpi/anime e favorisce attivamente l’inclusione dei singoli nelle istituzioni dell’autogoverno cittadino. Hobbes esalta la novità della scienza politica che riconosce la necessità della separazione tra individui e Stato Leviatano: solamente la mediazione del dispositivo politico-giuridico di rappresentanza può garantire ordine alla comunità e sicurezza alla vita dei cittadini. Dopo secoli d’eventi e di dottrine, di speranze e di sofferenze, la civilizzazione occidentale — posta in condizione di difficile comunicazione con le altre civilizzazioni — vive oggi la crisi della politica divisa ed infranta; la futurizzazione sistemica indotta dal dispositivo politico moderno segna il passo ed i soggetti prendono coscienza delle insopportabili lacerazioni inferte alla natura: ai corpi e alla vita. Lo studio di Machiavelli e Hobbes può rivelarsi utile se in queste teorie leggiamo le pratiche fondative ed originarie che si sforzano appunto di restituire ancora una possibilità all’umana contentezza: insieme, lo sforzo teorico deve contribuire a disinnescare per il presente il pericolo di un sistema artificiale dei poteri che pretende sempre maggiore autonomia.
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1. L'ordinamento politico-giuridico di sovranità ed il complesso dell’articolazione logico-espositiva finalizzata a giustificare la necessità della sua fondazione costituiscono il fulcro dell’interrogazione filosofica che attraversa il corpo intero della scrittura ‘politica di Thomas Hobbes. Al centro, sicuramente, il dispositivo teorico presentato nel Leviathan che amplia e riconverte precedenti sforzi riflessivi; in questo luogo prende forma determinata quello che viene da sempre riconosciuto come un effettivo evento teorico. Ed ancora significativamente, l’esposizione del progetto offerta in quest'opera è rivolta a sostenere l’impegno di un programma politico considerato da Hobbes lo strumento più idoneo a porre termine alla guerra civile in Inghilterra!. Il progetto teorico di Hobbes presenta un ‘articolazione espositiva che opera attraverso molteplici livelli. Il registro propriamente filosofico del suo impegno di studio viene via via intrecciandosi con i contenuti dei saperi letterari e storici che il filosofo inglese ha assunto dai testi classici dell’antichità e dalle scritture provenienti dalla cultura del tardo rinascimento italiano, vivissima in terra inglese. Hobbes ha dedicato a queste scritture la parte iniziale della sua formazione, seguendo peraltro quella tradizione di cultura che aveva trovato in Francis Bacon la sua più alta espressione; egli non abbandonerà mai lo studio dei classici, dedicando a questi una cura costante e la greve fatica della versione inglese delle opere di Tucidide e di Omero. Contemporaneamente, l’assillo filosofico diventa problema dell'acquisizione di un metodo rigoroso d’indagine logica e di studio del'feromeni fisici l'obiettivo principale della sua ricerca si rivolge a realizzare un dispositivo epistemologico che possa ren-
! La messa a fuoco del dispositivo teorico hobbesiano nel contesto degli avvenimenti inglesi èoperata da Q. Skinner in una serie di iimportanti contributi, tra i quali sono da segnalare soprattutto: Hobbes on sovereignity: an unknown discussion, in «Political Studies», 13 (1965), pp. 213-218; History and ideology in english revolution, in «The Historical Journal», 8 (1965), pp. 151178; The context of Hobbes* theory of political obligation, in Hobbes and Rousseau, a cura di M. Cranston e R.S. Peters (New York 1972), pp. 109-142.
Sicuramente utile il lavoro di R. Tuck, Philosophy and government (15721651) (Cambridge University Press 1993), pp. 279-345.
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dergli possibile l'esposizione tanto dei contenuti dei saperi naturali, quanto della complessa materia morale e politica. Questo problema delicatissimo del rapporto determinato che Hobbes intende istituire tra il piano della strumentazione logico-epistemologica ed i contenuti della teoria politica costituisce il punto radicalmente originale dell’organizzazione del discorso politico rispetto alla tradizione della filosofia classica: in questo modo viene istituita la pensabilità nuova della politica che assume i caratteri determinati della modernità. Da un lato,
l’impegno critico si applica a decostruire gli aristotelismi che sorreggono ancora una parte notevole dei programmi politici in campo in Inghilterra, sia quelli provenienti dalle parti religiose che quelli messi in campo dalla parte repubblicana; sul versante propositivo, viene esibita l’argomentazione considerata risolutiva per contenuti scientifici e capacità persuasiva: con linguaggio assunto dall’aristotelismo padovano (e da Pomponazzi in particolare), nella prefazione al De Cive, l’autore intende sostenere che — nell’esposizione della nuova teoria di sovranità — l’indago methodi deve convergere positivamente con l’indago ordinis: della novità teorica bisogna offrire un’esposizione particolarissima, per chiarezza di immagini letterarie ed evidenza dimostrativa, capace di convincere l’intelligenza del lettore. Da qui deriva il problema logico-espositivo che regge la struttura del progetto rappresentato nel Leviathan: il complesso dispositivo argomentativo richiama immediatamente l’avviso critico di discernere gli elementi di effettivo avanzamento dei saperi della politica dagli altri percorsi, di natura principalmente retorica, rivolti a persuadere i lettori della necessità dello Stato Leviatano. Per rispondere a questa seconda esigenza Hobbes utilizza proficuamente le conoscenze letterarie che gli provengono dalla lettura dei testi italiani del tardo rinascimento e, principalmente, della letteratura di civil conversazione e delle scritture di ragion di Stato: espressioni ed immagini desunte da quegli autori diventano strumenti per offrire tonalità e colori vivissimi alla stringente giustificazione concettuale dell’esposizione filosofica. Questo mio contributo intende pure approfondire questo debito che Hobbes deve alla cultura italiana; in effetti, nel lavoro di messa
a punto della nuova scienza della politica, Hobbes è costretto a Lis)
confrontarsi con i contenuti che provengono dalla produzione del laboratorio italiano che ha costituito l’avvio di un processo irreversibile di razionalizzazione della politica per l’intera Europa, a partire dagli inizi del secolo decimosesto?. In questo quadro, l’istituzione della sovranità — nella forma concettuale assegnatale da Hobbes — non può essere letta principalmente come ripresa e riutilizzazione di elementi teorici prevalentemente giuridici che il filosofo inglese assumerebbe dalla nozione bodiniana di sovranità?; tantomeno si può riferire centralmente la sua composizione concettuale alla capacità di offrire nuova elaborazione alle teorie classiche del giusnaturalismo. Piuttosto, Hobbes attiva un dialogo serrato con la tradizione della cultura politica fino a quell’epoca più influente: vale a dire con Machiavelli e con la proposta tardo-rinascimentale di una politica di piena autonomia che apre ad un’arte pratica di governo, sicuramente efficace grazie.all’attivazione di strategie complesse di poteri disciplinari.
? Michel Foucault richiama esplicitamente l’importanza del laboratorio italiano per i processi della razionalizzazione politica nell'intera Europa tra Cinquecento e Seicento; al centro del suo interesse l’arte di governo della ragion di Stato, da intendere come tecnologia diplomatico-militare intesa a rafforzare lo stato nelle relazioni internazionali ed il complesso dei dispositivi di polizia che costituiscono i mezzi necessari per far crescere dall’interno le forze dello stato. Dei numerosi scritti che Foucault ha dedicato a questi temi richiamo innanzitutto le lezioni tenute nell’anno accademico 1977-78 (in particolare 8, 15 e 22 marzo), pubblicate a cura di M. Senellart con il titolo Sécuri-
té, territoire, population (Paris 2004); trad. it. a cura di P. Napoli, Sicurezza, territorio, popolazione (Milano 2005). Sull’oggetto ragion di Stato, bisogna ancora ricordare, dapprima, il saggio Omnes et singulatim: Toward a Criticism of Political Reason, in S. Mc. Murrin (a cura di), The Tanner Lectures on Human
Values (University of Utah Press 1981), pp. 223-254; trad. it. a cura di O. Marzocca, Omnes et singulatim. Verso una critica della ragion politica, in Biopolitica e liberalismo (Milano 2001), pp. 107-146. Quindi, la conversazione con M. Dillon, intitolata Foucault Examines Reason in service of State Power, in «Campus Report», n. 6, 24 ottobre 1979; pubblicata con il titolo Studiare la ragion di stato, in O. Marzocca, Biopolitica e liberalismo, cit., pp. 147-156. 3 Il recente contributo di Thomas Berns, Souveraineté, droit et gouvernementalité. Lectures du politique moderne a partir de Bodin (Clamecy 2005), restituisce finalmente la giusta misura critica della serie di relazioni esistenti tra la teoria della sovranità in Bodin e quella di Hobbes.
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2. Innanzitutto, Hobbes deve fare iconti con la figura diabolica di Machiavelli. Egli si confronta con il pensiero del fiorentino, apprende ed elaborai contenuti dell’antropologia machiavelliana e progetta con determinazione di oltrepassarli. Risulta tuttavia difficile ricostruire i passaggi determinati di questo confronto poiché Hobbes non cita mai gli scritti di Machiavelli, praticando in questo modo semplicemente una convenzione di opportunismo degli intellettuali del Seicento (e non solo di quell’epoca). Questo fatto ha posto gli studiosi in una condizione singolare: da un lato, adempiere comunque l’obbligo alla comparazione critica per quelle due esperienze teoriche, sicuramente incidenti in una fase di acuto travaglio della politica in Europa; dall’altro lato, rassegnarsi all’impossibilità di documentare percorsi filologici certi e limitarsi a considerazioni critiche spesso indeterminate, comunque problematiche, nel giudizio comparativo sui due autori. Nel lungo corso della ricerca ho però raggiunto la convinzione che esisteva la possibilità di uno studio di comparazione più diretta dei due pensatori, partendo dall’acquisizione che su alcuni plessi semantici — individuati nelle pieghe dei rispettivi discorsi antropologici — converge un comune sforzo teorico. Si tratta, per Machiavelli, delle nozioni di contentezza e contenzio-
ni che vengono a costituire i termini principali del registro interpretativo e critico degli eventi politici e storici. Dal canto suo, Hobbes utilizza gli sviluppi semantici di contentement e la serie delle espressioni ad esso collegate, che esprimono significati oppositivi, quali content/discontent, contented/discontented; affianco a questo troviamo ancora gli svolgimenti concettuali che designano le dinamiche proprie dei conflitti, contentions. Si può allora istituire un confronto critico tra i modi diversi attraverso cui i due autori utilizzano l’articolazione semantica della coppia contento/malcontento (content/discontent) in relazione con i significati attribuiti alla categoria di conflitti (contentions); secondo Machiavelli, il vivere civile e politico deve farei conti con l’attitudine naturale, umorale, secondo cui i soggetti
vivono gli antagonismi privati e pubblici: nell'esposizione hobbesiana, la teoria dei conflitti funziona come condizione di aper-
tura del processo in cui prendono via via forma le decisioni in194
dividuali di intraprendere il percorso che dallo stato di natura conduce allo stato civile. L’utilizzo dei termini contentment/contention lascia anche spazio all’ipotesi di un consapevole — per quanto coperto — richiamo di Hobbes al dizionario machiavelliano: si potrebbe prendere quindi in considerazione la diretta derivazione da Machiavelli dell’utilizzo hobbesiano di queste nozioni; tuttavia, questo tipo di congettura richiede un approfondimento filologico che non costituisce un obiettivo del presente lavoro. In questa sede intendo soprattutto porre in rilievo gli elementi dell’analisi che scaturiscono dal fatto che quelle nozioni costituiscono le tracce inconfutabili di valenze teoriche che appartengono ad un medesimo campo d’indagine: in breve, facendo interagire i lessici dei due autori, possiamo cogliere differenze specifiche. 3. Certamente esiste un taglio problematico che differenzia di netto il contributo teorico di Hobbes dalla tradizione antecedente del pensiero politico nel contesto europeo. Il punto di partenza che egli assume è la condizione di contesa permanente tra opinioni e costumi degli individui che vivono la stagione delle guerre civili in tutta Europa. Questo sconvolgimento della vita e della natura umana è conseguente innanzitutto alla profonda lacerazione che il cristianesimo riformato ha indotto nell’animo dei credenti, producendo antagonismi inediti ed inconcilia-
bili, a partire da interrogativi fondamentali: come si fa ad obbedire allo stesso tempo a Dio e ad un uomo, quando i loro comandamenti sono contrari l’uno all’altro? come si può costruire la pace, se l'obbedienza che si deve al Signore destituisce di legittimità l’obbligo di obbedienza pattuito con l’autorità? Questa interiore interrogazione differenzia e separa dalla storia passata in modo drammatico le presenti condizioni di vita del credente, al quale è stata pure riconosciuta la possibilità della libera interpretazione dei testi sacri, sola Scriptura. Hobbes pone alla radice della gravissima crisi contemporanea questa urgente questione, che viene riproposta negli snodi principali delle sue scritture politiche (Elements II, 25; De cive XVIII, 1; all’inizio del capi-
tolo XLIII del Leviathan).
Il filosofo inglese interpreta la frattura tra religione e politi18
ca come il luogo definito della crisi della metafisica, vale a dire delle capacità proprie della ragione di offrire senso alla vita umana e di impegnare un discorso di ordine per la convivenza civile: Hobbes interpreta questa crisi come un nuovo tipo di divisione che attraversa ogni forma del vivere e dei saperi. Al fine di rispondere a questa separazione — che pone in tensione estrema le pretese della teologia e l'autonomia della prassi civile — bisogna impegnare una logica ed un linguaggio adeguati, capaci di offrire nello stesso tempo prospettive di rimedio spirituale e d’ordine civile. Hobbes intraprende quindi una ricerca che assume quella nozione di separazione come termine risolutivo su molteplici livelli: in forma decostruttiva, questo intento diventa la critica radicale ed il rigetto per ogni forma di credenza religiosa e di opinione privata che intenda affermare il primato della esclusiva verità; in modo propositivo, Hobbes intende far valere una nuova efficace funzione dell’astrazione idonea ad istruire un progetto pienamente artificiale della politica. Alla rifondazione della metafisica deve corrispondere, da un lato, uno statu-
to completamente autonomo ed unitario dei saperi, idoneo ad offrire supporto alla nuova scienza politica; sull’altro versante, Hobbes progetta il dispositivo di sovranità come rappresentazione politico-giuridica della separazione tra Common-wealth ed individui, che si sottrae completamente a ogni condizionamento teologico: anzi, lo Stato Leviatano è chiamato a funzionare come campo di piena immanenza capace di contenere le lacerazioni indotte di recente da quella rottura tra religione e politica.
4. Non si può dunque isolare, nella considerazione critica, la scrittura del Leviathan dallo sviluppo complessivo degli elementa philosophiae, vale a dire dallo sforzo dell’indagine filosofica che intende offrire giustificazione al discorso politico attraverso la piena utilizzazione del paradigma meccanicistico e la esplicita applicazione di princìpi della geometria euclidea. De corpore — de homine — de cive: dai princìpi primi della logica alla matematica, dai saperi che riguardano la realtà fisica all’antropologia ed alla morale; l’obiettivo centrale è quello di produrre argomentazioni d’inconfutabile sostegno alla nuova scienza po19
litica ed ai dispositivi utili alla convivenza civile degli esseri umani. È pure vero chei criteri logico-espositivi che stanno alla base del Leviathan rendono l’articolazione dei contenuti della teoria politica più autonoma rispetto alle rigide pretese della philosophia prima, appunto i fondamenti del sistema filosofico. Ed in effetti, da un lato, si può con buone ragioni riconoscere che le difficoltà d’impianto del progetto sistematico — congetturato fin dalla prima produzione filosofica secondo il registro dell’unità essenziale dei saperi — tendono a riflettersi negativamente sul piano argomentativo della scienza politica: tuttavia, si può anche sostenere che proprio l’esigenza particolare di argomentare in piena autonomia il progetto del Leviathan produce effetti di verità che a loro volta hanno conseguenze di rilievo sulla ridefinizione dell’intero piano espositivo che Hobbes intende assegnare alla sistemazione unitaria dei saperi. Questo vuole soprattutto significare che l’evento fondativo della moderna scienza politica viene congetturato da Hobbes secondo un determinato registro logico-epistemologico che utilizza e pone in critico collegamento la strumentazione logico-deduttiva con le istanze del procedimento induttivo, i modi dell’argomentazione per via di convenzione con I ragionamenti articolati secondo congetture di carattere ipotetico. Con un contributo di studio di straordinaria portata, già da tempo Arrigo Pacchi aveva posto in evidenza questo delicatissimo problema, decisivo per intendere la provocazione teorica di Hobbes. Pacchi aveva mostrato come Hobbes, nella prima fase della riflessione dedicata ai problemi concernenti il metodo delle scienze, avesse assegnato un’impronta prevalentemente geometrizzante al proprio criterio espositivo, volendo dimostrare l’unità di metodi e contenuti dei diversi saperi soprattutto grazie alla forza generalizzante dell’evidenza geometrica. In seguito, attraverso un itinerario teorico complesso, Hobbes viene via via accentuando l’aspetto concettualistico nel modo di considerare ed esporre la modalità dell’organizzazione dei sape4 A. Pacchi, Convenzione ed ipotesi nella formazione della filosofia naturale di Thomas Hobbes (Firenze 1965).
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ri: da una parte, i princìpi primi della dimostrazione vengono determinati seguendo i criteri arbitrari dell’autoevidenza, in modo tale da giustificare una rigorosa deduzione dell’intero sistema del sapere dalle due principali categorie di corpo e movimento; dall’altra parte, l’istanza deduttiva deve prendere misura
rispetto al metodo conoscitivo e logico che apre ai fenomeni attestati dalla sensazione nei diversi contesti empirici: su quest’altro versante, i dati offerti dalla sensibilità sul piano dell’elaborazione mentale consentono unicamente la funzione di ipotizzare, producono solamente ipotesi relative ai princìpi primi della scienza, che entrano pure in contrasto con le pretese nominalistiche e convenzionali del procedimento deduttivo. Nel periodo che va dall’avvio della composizione del De corpore — la cui stesura richiede molteplici ripensamenti e revisioni per un arco di tempo che dura all’incirca un quindicennio (tra 1640 e 1655) —, attraverso la riflessione che mette capo al De bomine (1658),
si consuma negli scritti di Hobbes il travaglio del problema dell'esposizione logico-epistemologica: in breve il fallimento dell’originario progetto dell’unità dei saperi nel corpo di una scienza unica e totalizzante?. 5. Negli anni della composizione e della pubblicazione (1651) dell’edizione inglese del Leviathan, quella tensione tra ° Sui fondamenti epistemologici del materialismo hobbesiano rinvio centralmente al recente lavoro di A. Lupoli, Nei limiti della materia, Hobbes e
Boyle: materialismo epistemologico, filosofia corpuscolare e “dio corporeo” (Milano 2006); particolarmente utile l’introduzione al volume che sintetizza il dibattito sul materialismo secentesco — nelle due versioni di Hobbes e Boyle — svoltosi negli ultimi decenni: da J.B. Jacob a S. Shapin e S. Shaffer, fino a M. Hunter. Sul ruolo svolto dalla geometria nel sistema hobbesiano dei saperi è da citare il contributo importante di D.M. Jesseph, Squaring the Circle. The War between Hobbes and Wallis (University of Chicago Press 1999); dello stesso autore il saggio The Decline and Fall of Hobbesian Geometry, in «Studies in History and Philosophy of Science», 30 (1999), 3, pp. 425-453. Un lavoro particolarmente utile è quello di E. Sergio, Contro i Leviatano. Hobbes e le controversie scientifiche 1650-1665 (Soveria Mannelli 2001), poiché rende conto dell’attacco rivolto al pensiero matematico e fisico di Hobbes da parte di un ambiente scientifico soprattutto impaurito della proposta politica del Leviathan.
DI
criteri logico- espositivi diversi èpienamente all’ opera, restituendo in concreto — a partire dall’indagine dei contenuti dei saperi morali e politici — la sofferenza del progetto rigoroso che avrebbe dovuto more geometrico offrire integrazione ed unità alle diverse sezioni dei saperi, dalla logica alla fisica, alla morale e fino alla politica. In effetti, il perdurante convenzionalismo, argomentato nel Leviathan in modo non più rigido ed univoco, otfre possibili aperture rivolte ad accogliere registri diversi grazie ai quali rendere conto dell’irrefrenabile emergenza dei vivi elementi che stanno alla base dei comportamenti umani: si tratta del pieno riconoscimento offerto al complesso delle differencies of passions, quali fenomeni attestati direttamente dal senso, che contribuiscono incisivamente alla formazione di quelle opinioni private che inducono gli uomini ai conflitti. In seguito al consistente ridimensionamento del fisicalismo geometrizzante del De Cive, viene allora affermandosi nel Leviathan una concezione maggiormente pragmatica della razionalità: di conseguenza, l’indagine si rende più aperta alle argomentazioni di possibili modificazioni e di autodisciplina dei comportamenti da parte dei singoli individui. Da un lato, la scienza politica intende presentarsi come sapere che in modo arbitrario trae le proprie regole dall’esperienza diretta di chiunque sia in grado di osservare la realtà così come essa si presenta all'immediata acquisizione della per-
cezione ed all’animo di ciascun individuo, secondo il principio del Read thy self, enunciato nell’Introduzione al Leviathan: attraverso questo registro logico, la ragione naturale aiuta ad individuare quei princìpi primi — definiti secondo diritti e leggi di natura — che potranno costituire i fondamenti del processo autorizzativo della sovranità. Allo stesso tempo, la nuova scienza politica — che attinge pure ai dati dell'esperienza sensibile — opera come strumento teorico che si applica ai contenuti di un processo, del tutto convenzionale, che prospetta dunque dispositivi artificiali di governo, dal momento che il corpo impersonale dello Stato Leviatano viene progettato come macchina e procedura di autorizzazione che funzionano con relativa autonomia. Sì rivelano allora nel Leviathan un’inevitabile relazione ed una tensione irriducibile. Da un lato, restano vive le argomentazioni che fanno riferimento alle pratiche di disciplinamento e 22
d’autodisciplina che una nuova arte del governo — che aveva preso avvio dalla fine del secolo decimosesto dal laboratorio italiano per estendersi progressivamente in tutta Europa — dimostrava come specifiche di una razionalizzazione pragmatica ed efficacissima dell’arte politica. A fronte di queste semantiche — che sono presenti nell’articolazione categoriale offerta alle argomentazioni dell’antropologia e dei saperi morali —, da un altro versante, Hobbes intende far valere le ragioni dell’ordinamento politico-giuridico di sovranità quasi come uno svolgimento che esclude relazioni e fondamenti esterni, poiché completamente rivolte a dichiarare ed a confermare l’istanza della necessaria unità politica. Quella tensione assegna la funzione decisiva della mediazione all’articolazione di un’originalissima teoria del contratto che deve operare nel senso della fondazione dell’incontro tra sovrano e soggetti, quindi del riconoscimento dell’innegabile positiva funzione dello scambio tra protezione ed obbedienza. Questa complessa esposizione del sistema artificiale del Leviathan si avvantaggia dell’utilizzo originalissimo che Hobbes fa della nozione di tempo. Infatti, il complesso semantico di tempo/tempi agevola in forma decisiva l’esposizione di eventi, durate, tensioni che tracciano i flussi temporali attivi all’interno dei soggetti: contemporaneamente, temporalizzazioni particolari — che segnano i complicati passaggi della procedura contrattuale — vengono a costituire l’articolazione costruttiva del dispositivo artificiale dello Stato Leviatano. 6. Ai lettori contemporanei del Leviathan — ancora numerosi e, come i lettori del passato, impressionati dai contenuti e dal-
la modalità espositiva di una scrittura straordinariamente avvincente — resta ancora oggi il problema di ricostruire e di comprendere nel dettaglio la pretesa hobbesiana di progettare un sistema di diritto pubblico statuale da intendere come principio e forza di sovranità indispensabili alla produzione di ordine civile e di pace. Nel lavoro della ricostruzione critica di un testo come il Leviathan si possono assumere chiavi ermeneutiche differenti e composite, così come la storia della fortuna del testo pone in evidenza; per quanto mi riguarda, faccio riferimento in breve alle guide principali prescelte. E)
Innanzitutto, intendo richiamare l’importanza dell’indagine delle semantiche che fanno riferimento al tema della representation: intanto, come perno dell’esposizione che fa esplicitamente riferimento ai fenomeni della visione, processo fisico che struttura e condiziona la visibilità della macchina e dei processi politici; ed ancora, in quanto concreta espressione della funzione simbolica assegnata al nuovo dispositivo di rappresentanza, principale cardine della produzione di legittimazione dell’autorità sovrana. La teoria del contratto viene congegnata da Hobbes in modo da porre dinamicamente in relazione — grazie appunto all’uso particolare di temporalizzazioni diverse — la rappresentazione/rappresentanza dell'ordinamento di sovranità con strategie e tecniche di quell’arte razionale di polizia che ha preso rapidamente piede in tutta Europa: l’ordine civile costruito dall’alto per via di convenzione giuridica vuole in ogni modo incontrarsi con le pratiche di autodisciplina che nuovi processi di soggettivazione pongono in éssere, attivando quella serie di poteri/saperi specificamente idonei alla funzionale razionalizzazione del governo degli uomini. Il congegno hobbesiano di sovranità pone in esplicita evidenza questa tensione continua ed irrisolta della ragione politica moderna, puntata a realizzare una pratica efficace relazione di comando/obbedienza: una ragione autofondantesi, pervasiva e tendenzialmente assolutizzante, sicuramente spuria. Questa nuova razionalità intende giustificare una scienza autonoma della politica che considera realizzabile il pieno accordo tra due modalità paradigmatiche diverse: da un lato, l’arbitrarismo di convenzioni e norme prodotte dall’ordinamento di sovranità viene teorizzato e praticato sulla base dei princìpi morali e giuridici condivisi dai singoli cittadini; su di un altro versante, il metodo deduttivo applicato alla filosofia politica deve in permanenza farei conti con il ritorno inevitabile di elementi di prudenza e di saggezza, con l’esercizio permanente di pratiche di disciplinamento e di autodisciplina attivati da governanti e governati. In definitiva, l’unità strutturata dei saperi umani — separati dall’intelligenza vivente dei corpi — viene chiamata da Hobbes a giustificare la genesi di separazione dell’artificio politico di sovranità. Questo inedito meccanismo dovrebbe consentire la con24
servazione delle singole esistenze e rinforzare le energie dei soggetti interessati. Intanto, via via che il potere politico incrementa la propria funzionale tecnologia — grazie all’oggettivazione dei poteri che provengono dai singoli individui — il movimento vitale viene staccandosi dalla materia sensibile dei soggetti per assumere l’identità della persona ficta dello Stato Leviatano.
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CAPITOLO PRIMO Contentezza/contenzioni: antropologia e politica in Machiavelli
Al centro della propria concezione della natura umana, Machiavelli pone in relazione due svolgimenti semantici che riprende dagli autori classici della cultura latina e che fa interagii re in modo creativo e originale: contentezza e contenzioni. Il termine contentezza nomina la condizione di soddisfacimento/autonomia/libertà che il soggetto realizza nella presenza e che viene a costituire il dinamico contenimento dell’identità individuale: il termine contentus deriva dal verbo continere, da intendere
come capacità del singolo individuo di tenere insieme parti/impulsi/comportamenti, pure differenti e confliggenti, di cui è composto. Contentio è sostantivo che richiama il verbo contendere: potremmo tradurre semplicemente con il termine conflitto, al fine di significare i contrasti che in forme diverse lacerano la comunità civile. Questi due svolgimenti semantici operano distintamente ed ancora più significativamente iin modo congiunto: le sofferenze dei soggetti e della comunità sono strettamente legate alla serie dei conflitti che normalmente scorrono nella città. In effetti, la
città è natura viva: le contenzioni aprono a divisioni tra le parti che lacerano corpi e menti dei cittadini. La politica assume questa realtà come il punto sensibile da cui prende origine la propria azione; il registro dei sintomi del malessere individuale e collettivo aiuta a riconoscere le forme particolari dei conflitti che attraversano le relazioni tra i soggetti: mentre la prassi civile tende ad offrire rimedio ai fenomeni diversi della corruzione 27,
degli istituti di governo ed a frenarne l’irrimediabile degenerazione. 1. Mala contentezza e contenzioni: il malessere del vivere civile
Nell’avvio del capitolo trentasettesimo del primo libro dei Discorsi, Machiavelli intreccia le semantiche di mala contentezza
e contenzioni: si tratta dello snodo espositivo che incrocia le riflessioni antropologiche sul malessere dei soggetti — l'incapacità di costruire contentezza — con una determinata teoria dei conflitti. Le considerazioni machiavelliane procedono con toni universalizzanti e perseguono il fine particolare di introdurre narrazione ed interpretazione degli antagonismi accesi tra i cittadini romani dal tentativo di porre finalmente mano alla legge agraria. In questo contesto, la nozione di mala contentezza viene a rappresentare la condizione di sofferenza indotta negli uomini dal limite particolare che la natura impone alla volontà umana; condizione di sofferenza resa poi ancora più acuta in determinate situazioni storiche e politiche: Egli è sentenzia degli antichi scrittori, come gli uomini sogliono affliggersi nel male e stuccarsi nel bene; e come dall’una e dall’altra di que-
ste due passioni nascano i medesimi effetti. Perché, qualunque volta è tolto agli uomini il combattere per necessità, combattono per ambizione; la quale è tanto potente ne’ petti umani, che mai, a qualunque grado si salgano, gli abbandona. La cagione è, perché la natura ha creato gli uomini in modo, che possono desiderare ogni cosa, e non possono conseguire ogni cosa: talché, essendo sempre maggiore il desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la mala contentezza di quello che si possiede, e la poca sodisfazione d’esso. Da questo nasce il va-
riare della fortuna loro: perché, desiderando gli uomini, parte di avere più, parte temendo di non perdere lo acquistato, si viene alle inimicizie ed alla guerra; dalla quale nasce la rovina di quella provincia e la esaltazione di quell’altra (D 119).
Il senso proprio della sofferenza indotta dalla mala contentezza appartiene a ciascun soggetto; attraversa ogni temperamento, respettivo o impetuoso che sia; riguarda il ciclo naturale dello 28
sviluppo e del degrado della vita umana, del corpo naturale; questo è chiaramente visibile, ad esempio, nei comportamenti dei vecchi che diventano invidiosi delle nuove generazioni, così come viene descritto nel proemio al secondo libro dei Discorsi: mancando gli uomini, quando gl’invecchiano, di forze, e crescendo di giudizio e di prudenza; è necessario.che quelle cose che in gioventù parevano loro sopportabili e buone, rieschino poi, invecchiando, insopportabili e cattive; e dove quegli ne doverrebbono accusare il giudizio loro, ne accusano i tempi. Sendo, oltra di questo, gli appetiti umani insaziabili, perché, avendo, dalla natura, di potere e desiderare ogni cosa, e, dalla fortuna, di potere conseguitarne poche; ne risulta una mala
contentezza nelle menti umane, ed uno fastidio delle cose che si posseggono: il che fa biasimare i presenti tempi, laudare i passati, e desiderare i futuri (D 145).
Nel capitolo trentasettesimo del primo libro dei Discorsi, Machiavelli svolge il tema della rovina delle istituzioni repubblicane a Roma, le cui origini sono da riferire appunto agli eventi legati alla legge agraria: questa legge “stette come addormentata infino ai Gracchi; da quali essendo poi svegliata, rovinò al tutto la libertà romana” (D 120). È questo uno dei passaggi cruciali nella costruzione dei Discorsi: qui, infatti, Machiavelli discute le
conseguenze del fallimento estremo delle lotte tra senato e plebe che tanta gloria avevano contribuito a produrre per la libertà dei romani; in questo luogo incontriamo anche il culmine della riflessione teorica machiavelliana sul carattere, sulle funzioni e
sul valore degli antagonismi che prendono corpo all’interno della comunità politica. AI centro dell’argomentazione troviamo le dinamiche delle ambizioni prodotte dalle eccessive pretese della parte plebea, ed insieme la resistenza proveniente dall’ambizione de’ grandi, della parte nobiliare. Da un lato, la plebe romana “cominciò a combattere per ambizione, e volere con la Nobilità dividere gli onori e le sostanze, come cosa stimata più dagli uomini. Da questo nacque il morbo che partorì la contenzione della legge agraria, che infine fu causa della distruzione della Repubblica”; dal-
l’altro, i nobili non sopportarono le dure offese che le pretese dei plebei avevano prodotto: “perché quegli che possedevano 29
più beni non permetteva la legge (quali erano la maggiore parte de’ nobili), ne avevano a essere privi; e dividendosi intra la plebe i beni de’ nimici, si toglieva a quegli la via dello arricchire”
(D 119).
Machiavelli segnala il prevalere dell’elemento economico dello scontro, in forme separate e pericolose; contraddicendo Livio,
egli imputa ai plebei la maggiore responsabilità nel processo che porta alla fine della repubblica a Romaf: costoro sono arrivati al punto di stimare più la roba che gli onori, hanno quindi contribuito a ridurre la contesa politica tra le parti — orientata in modo positivo al rafforzamento del vivere libero e civile — a scontro tra forze, finalizzato unicamente all’acquisizione di maggior potere da parte di gruppi di privati cittadini. Di qui, nella difficoltà dell’intervento da parte delle magistrature pubbliche, il ricorso ai remedi privati: in breve, l’avvio delle guerre civili con Mario e Silla, ed ancora l’inizio dellattirannide di Cesare.
2. Oltre la vile ambizione: virtù e desiderio alla prova della mala contentezza La coppia semantica oppositiva contento/malcontento attraversa l’intero corpo degli scritti machiavelliani — dai rapporti delle legazioni fino alle Istorie fiorentine — per significare l’intersezione problematica tra gli esiti possibili dell’agire virtuoso dei soggetti — nel contesto delle condizioni imposte dalla fortuna — e quelle azioni umane dettate dall’ambizione: in particolare, per gli individui malcontenti, il desiderio che diventa smisurata ambizione comporta alterazione e corruzione degli umori inducendo esaltazione nella mente umana, mentre pure contri-
buisce ad acuire le divisioni sul piano specificamente politico. Innanzitutto, la mala contentezza esprime il fallimento delle azioni umane motivate dalle ambizioni degli individui. Intanto, ° La differenza delle interpretazioni di Livio e Machiavelli — nel merito del ruolo che la plebe ebbe negli eventi relativi alle proposte di legge agraria — viene discussa da Mario Martelli in Machiavelli e gli storici antichi (Roma 1998), pp. 33-35.
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nel riferimento alle dinamiche proprie dell’ambizione — descritte dai luoghi principali di Discorsi I, 37 e II, 19, di Principe III, dell’Asino d’oro (V) — risultano chiari e conseguenti i termini della descrizione fenomenologica fatta da Machiavelli: — l'ambizione costituisce l’illimitato desiderio di acquistare, estendere il proprio potere naturale, “tendenza naturale ad alterare a proprio vantaggio la ripartizione delle ‘risorse’, materiali e morali”, scrive Inglese, commentando i versi del capitolo dedi-
cato all’ambizione’;
— essa viene causata e coltivata da noia e dolore, atteggiamenti originari degli uomini che normalmente “si stuccano nel bene, e nel male si affliggono” (D, I, 37, 119);
— inoltre, la scarsità delle risorse disponibili pone gli esseri umani nelle condizioni di permanenti antagonismi; di qui, i conflitti che sorgono o per necessità, vale a dire per guadagnare i mezzi indispensabili alla sopravvivenza ed alla sicurezza sulla vita fisica: o anche per ambizione degli onori, cioè delle posizioni di preminenza che segnano la gerarchia pubblica dei poteri prodotti dall’azione dei singoli cittadini. Si deve poi subito distinguere l'ambizione dal sentimento che assume le tonalità del furore: questo si esprime nelle differenti complessioni degli individui, ma anche si impianta nelle costituzioni diverse delle città; questa forma degenerata di ambizione ha bisogno di contenimento istituzionale e, a certe condizioni, può essere temperata attraverso l’esercizio della virtù, l’educazione alle armi e le pratiche militari di conquista: Quando una region vive efferata / per sua natura e poi per accidente / di buone leggi instrutta e ordinata, / di Ambizion contro all’esterna gente / usa el furor, che usarla infra se stessa / né leggi né el Re gnene consente; / onde el mal proprio quasi sempre cessa, / ma suol ben disturbar l’altrui ovile, / dove quel suo furor l’insegna ha messaf.
” Per la ricostruzione della categoria d’ambizione decisivo il saggio introduttivo di G. Inglese ai Capitoli (Roma 1981); vedi in particolare le pp. 90-105 dedicate al commento del capitolo sull’ambizione; la citazione è alla p. 91. 8 I versi di questa citazione e della successiva sono tratti dal Capitolo dell’ambitione di Nicolo Machiavelli a Luigi Guicciardini, in Capitoli, cit., pp. 146-147.
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La virtù civile richiede certamente, da un canto, lo stimolo
positivo dell’ambizione: peraltro, il governo politico deve coltivare la virtù dei cittadini al fine di evitare gli effetti negativi scatenati dalle dinamiche delle ambizioni improprie e deviare verso l’esterno della comunità le tensioni negative che possono derivare dai conflitti tra ambizioni di segno opposto. In effetti, la virtù — pure motivata da una produttiva ambizione — è tale se il singolo cittadino si dimostra capace di sacrificare la vita per il bene della città e per la libertà. A parte, è invece l'ambizione prodotta dalla viltà, che si presenta come motivo principale di corruzione nelle situazioni di abbondanza e di facilità dell’acquisito; in questo caso la debolezza naturale degli uomini — e degli stati — che vivono in ozio è fondamentalmente incapace di offrire un’attiva capacità di regola: Fie per avverso quel loco servile, / ad ogni danno, ad ogni iniura esposto, / dove sia gente ambiziosa e vile: / se Viltà e Tristo ordin siede accosto / a questa Ambizione, ogni sciagura, ogni ruina, ogni altro mal vien tosto.
Certamente, la definizione teorica della mala contentezza —
con 1 percorsi semantici specifici di contento/malcontento — acquisisce nella scrittura machiavelliana la concreta efficacia di criterio di descrizione e d’inquadramento di avvenimenti diversi. Le condizioni di mala contentezza si esprimono negli eventi storici e politici ed incidono negativamente nella vita civile: in particolare, nei periodi di crescente corruzione dell’ordine civile e delle leggi, comunque nelle fasi acute del mutamento politico; in breve, in tutte quelle situazioni in cui aumentano l’incer-
tezza e l’inquietudine dei cittadini. La presenza di questa categoria in molteplici luoghi dell’opera machiavelliana attesta, allora, un uso determinato anche su piani scritturali diversi: da un canto, l’intenzione precisa di richiamare il significato filosofico, generale, di mala contentezza come limite naturale, antropico, dell’esistere umano; insieme, con procedura scritturale distinta,
la viva rappresentazione delle sofferenze umane, dei malcontenti, che vengono ad incidere in avvenimenti storici determinati. Alla prima serie di scritture appartengono — oltre i brani citati dei Discorsi — le parti di alcune opere letterarie: in partico32
lare, basterà fare riferimento a brani della Clizia ‘e de L’asino
d’oro?. Per quanto concerne gli scritti che richiamano avvenimenti storici e politici, bisogna innanzitutto ricordare i rapporti della legazione svolta nel luglio del 1499 presso Caterina Sforza, a Forlì: in questo caso, sono presenti entrambii significati dell’essere malcontenti. Intanto, Machiavelli riferisce di una condizio-
ne particolare della principessa sofferente per la malattia del figlio Lodovico: Dipoi questo giorno è stato ad me el Baldraccane, et facto prima excusatione perché Madonna non mi haveva proprio ore facto intendere lo animo suo, allegando sua signoria essere indisposta et in malissima contenteza per la malattia grande in che è incorso Lodovico figliolo suo et di Giovanni de’ Medici, mi expose per parte di sua Excellentia come era contenta, nullo habito respectu, per essersi un tratto rimessa nelle brac-
ce di vostre Excelse Signorie, et in quelle volere confidare et sperare...!0. In altro contesto, Machiavelli mette sulla bocca di Caterina
un giudizio politico che contiene anche spunti critici verso chi governa in Firenze: Questa Illustre Madonna, quando io le comunicai questa mattina la lectera di vostre Signorie, avanti ch’io dicessi alcune cose, dixe: “Io ho
questa mattina una buona nuova, peché io veggho che quelli vostri Signori vorranno fare pure da vero, poiché rachozano le fantarie. Di che io li commendo, et sonne contentissima tanto, quanto prima ne ero male contenta veggiaendo la tardeza loro, parendomi perdessino un tempo inrecuperabile”!!. ? Nella Clizia, le semantiche della mala contentezza sono espresse nei ver“quanto è più propinquo ad uno suo desiderio, più lo desidera, e, non lo 2 maggior dolore sente” (atto I, vv. 1524-25, in Tutte le opere, cit., p. 895). Ancora ne L’asino d’oro: “Quel che ruina de’ più alti colli, più ch’ altro, i regni, è questo: cheipotenti di loro potenza non son mai satolli. Da questo nasce che son mal contenti quei ch’han perduto, e che si desta umore per ruinar quei che restan vincenti; onde avvien che l’un sorge e l’altro muore; € quel ch'è surto, sempre mai si strugge per nuova ambizione o per timore” (V, 1517-25,
ivi, p. 966). 10 Legazione a Caterina Sforza (23 luglio 1499), in Legazioni. Commissa-
rie. Scritti di governo, a cura di F. Cappelli (Bari 1971), vol. I, pp. 214-215. !! Legazione a Caterina Sforza (18‘luglio 1499), ivi, p. 207.
33
Qualche anno più avanti, nel 1512, in riferimento alle manovre poste in essere dal partito degli ottimati nel momento della restaurazione medicea alla fine di quell’anno, Machiavelli esorta i Medici a bene interpretare il malessere del popolo e a diffidare della parte dei grandi, degli ottimati: questi ultimi “vorrebbono purgare questo odio per fare el facto loro, non quello de’ Medici, perché la causa della mala contentezza tra l’universale et e Medici non ne è cagione né Piero né la sua ruina, ma sì bene l’ordine mutato”!2, In questo caso, l’inquietudine diffusa nel popolo viene appunto motivata con il cambiamento degli ordir:, della situazione istituzionale della vita civile. Il registro oppositivo contento/malcontento è presente anche nel dialogo epistolare con Francesco Vettori come criterio di giudizio per argomentare giudizi politici differenti su eventi in COrso: Chi vuol vedere se una pace è o duratura o secura, debbe intra l’altre cose esaminare chi restono per quella malcontenti e da quella mala contentezza loro quello che ne possono nascere. Considerando pertanto la pace vostra, veggo rimanere in quelli malcontenti Inghilterra, Francia et imperatore, perché ciascuno non ha di questi adempiuto il fine suo. Nella mia rimane malcontento Inghilterra, Svizzeri et imperadore per le medesime cagioni. Le male contentezze della vostra possono causa-
re facilmente la rovina d’Italia et di Spagna...!3. Nel Principe, poi, viene descritto che si diventa malcontenti
“o per troppa ambizione o per paura” (P III, 260): compare quindi con chiarezza l’altra causa che produce mala contentezza, la paura da parte di chi teme di soffrire la violenza fisica o anche di perdere la libertà. Qui viene argomentato che i malcontenti si legano facilmente a quelli “che desiderano innovare”;
costoro
2 Ai Palleschi, III, in Tutte le opere, cit., p. 16. 13 Detterà di-Niccolò. Machiavelliva ancora Vettori (10 agosto 1513), ivi, p. 1148. Leggendo la risposta del Vettori a questa lettera di Machiavelli (20 agosto 1513), che riprende le stesse espressioni di riferimento alla mala contentezza, si comprende pure del diffuso utilizzo di un criterio che pone in tensione giudizio morale ed analisi politica (ivi, 1153).
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per le ragioni dette, ti possono aprire la via a quello stato e facilitarti la vittoria; la quale di poi, a volerti mantenere, si tira drieto infinite diffi-
cultà, e con quelli che ti hanno aiutato e con quelli che tu hai oppressi. Né ti basta spegnere el sangue del principe; perché vi rimangono quelli signori che si fanno capi delle nuove alterazioni; e, non li potendo né contentare né spegnere, perdi quello stato qualunque volta venga l’occasione (P IV, 263).
Ancora in questo caso la mala contentezza è rappresentata come indice di squilibrio e di sofferenza in quanti spingono all’introduzione immotivata e pericolosa di novità nelle cose politiche; ne consegue che la mala contentezza prende i soggetti che si dispongono positivamente alla congiura: “chi coniura non può essere solo, né può prendere compagnia se non di quelli che creda esser mal contenti; e subito che a uno mal contento tu hai
scoperto l’animo tuo, gli dai materia a contentarsi, perché manifestamente lui ne può sperare ogni commodità” (P XIX, 285). Con acutissima notazione psicologica, Machiavelli segnala che l’individuo malcontento — reso informato e partecipe del progetto di congiura — vive momentaneamente soddisfatto e rassicurato nel merito dei conflitti e delle difficoltà del tempo a venire; su questo soggetto potrà sicuramente contare per qualche tempo chi ordisce congiura.
3. Le fonti classiche per contentus/contentio: Livio, Cicerone, Seneca, Lucrezio
Collegando la nozione di mala contentezza degli uomini ai comportamenti ed alle azioni che portarono alla contenzione, ai conflitti sulla legge agraria, Machiavelli utilizza i significati determinati che gli autori classici latini avevano assegnato a questi termini; insieme, arricchisce quelle espressioni di altri significati idonei a rappresentare nuove valenze teoriche. Machiavelli riprende certamente da Livio l’accostamento diretto tra le diverse semantiche di contentus e di contentio; si può prendere innanzitutto in considerazione il seguente brano (AL urbe condita, IV 6):
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Plebes ad id maxime indignatione exarsit, quod auspicari, tamquam in-
visi dis immortalibus, negarent posse; nec ante finis contentionum, cum et tribunum acerrimum auctorem plebes nacta esset et ipsa cum eo pertinacia certaret, quam victi tandem patres ut de conubio ferretur concessere, ita maxime rati contentionem de plebeiis consulibus tribunos aut totam deposituros aut post bellum dilaturos esse, contentamque interim conubio plebem paratam dilectui fore!*
Già da questo primo contesto emergono quei tratti semantici che prenderanno posto nella machiavelliana teoria dei conflitti: — il conflitto/contentio tra patrizi e plebei — che si rivoltano poiché, non essendo considerati degni di prendere gli auspici, non possono nemmeno diventare consoli — riguarda questioni di grande rilievo pubblico incentrate sulla richiesta di riconosci‘mento: in questo caso, la posta in gioco è la soluzione del problema del matrimonio tra patrizi e plebei (vedi l’esito siro lex canuleia); ‘ — la soddisfazione della plebe, appunto contenta, per il successo ottenuto su questo punto di grande rilievo pubblico-politico, conferma come
necessaria l’innovazione giuridico-istitu-
zionale che riesce a realizzare il contenimento delle parti in conflitto e ad evitare la diffusione del malessere dovuto agli eccessi propri dell’ambizione; — in breve, Machiavelli assume dalla storia repubblicana di Roma - e dalla lettura dell’opera liviana — la convinzione della 4 “Siccome la plebe, che aveva trovato nel tribuno un difensore accanito dellacausa comune, gareggiava con lui in ostinazione, lo scontro si concluse solo quandoi patrizi cedettero, accettando finalmente una proposta di legge sul diritto di matrimonio; essi erano pienamente convinti che in tal modoi tribuni avrebbero abbandonato definitivamente la questione dei consoli plebei o almeno l’avrebbero rimandata alla fine della guerra, e che la plebe, soddisfatta per il diritto di matrimonio, sarebbe stata disposta ad arruolarsi” (Storia di Roma, trad. di G. Reverdito, Milano 1992, libri, III e IV, p. 239). Contentio assume in Livio significati molteplici in i riferimento ai contesti differenti dei conflitti in atto; le più ricorrenti traduzioni italiane sono: liti, contesa, controversia, contrasto, conflitti, schermaglie, battibecchi, accese discussioni, dispute, scontro, lotte, indecisione, ostacoli, fatica estrema, difficoltà,
opposizione, polemica, discussioni, ostilità, ardori di guerra; contents trova come traduzioni ricorrenti: contento, gara contese.
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sufficiente, bastevole, senza
necessaria funzione dell'innovazione: in modo dinamico ed adattivo, bisogna innovare gli ordini a seconda della trasformazione dei costumi ed in relazione alla serie dei conflitti che attraversano la città.
Ancora un altro brano liviano può essere avvicinato alle semantiche che Machiavelli attribuisce specificamente al nesso contentio/contentus (Ab urbe condita, IV 57): Haec contentio minime idoneo tempore, cum tantum belli in manibus
esset, occupaverat cogitationes hominum, donec ubi diu alternis Iulius Corneliusque cum ad id bellum ipsi satis idonei duces essent, non esse aequum mandatum sibi a populo eripi honorem disseruere, tum Ahala Servius, tribunus militum, tacuisse se tam diu ait, non quia incertus
sententiae fuerit — quem enim bonum civem secernere sua a publicis consilia? — sed quia maluerit collegas sau sponte cedere auctoritati senatus quam tribuniciam potestatem adversus se implorari paterentur. Tum quoque si res sineret, libenter se daturum tempus is fuisse ad receptum nimis pertinacis sententiae; sed cum belli necessitates non expectent humana consilia, potiorem sibi collegarum gratia rem publicam fore, et si maneat in sententia senatus, dictatorem nocte proxima dicturum; ac si quis intercedat senatus consulto, auctoritate se fore contentum!5.
I significati contenuti in questo brano introducono ad altri percorsi semantici che verranno fatti propri da Machiavelli: 15 “Questa disputa, sorta nel momento opportuno, mentre era in corso una guerra importante, aveva i pensieri della gente. Ma quando Giulio e Cornelio a turno ebbero ripetutamente sostenuto che non era giusto che li si privasse del mandato affidato loro dal popolo, essendo sufficientemente idonei a condurre quella guerra, il tribuno militare Servilio Aala disse di aver taciuto per tanto tempo non perché non avesse una*opinione ben ferma (e infatti quale buon cittadino separava il proprio interesse da quello pubblico?), ma piuttosto perché avrebbe preferito che i suoi colleghi cedessero spontaneamente all’autorità del senato, invece di tollerare che si invocasse contro di loro la potestà tribunizia. Anche allora, se la situazione lo avesse permesso, avrebbe dato
ai colleghi il tempo per recedere da quella ostinata presa di posizione. Ma, siccome le necessità della guerra non aspettano le decisioni degli uomini, egli avrebbe anteposto il pubblico interesse al favore dei colleghi; se il senato non cambiava idea, la notte successiva avrebbe nominato un dittatore. Se poi qualcuno si fosse opposto al decreto del senato, lui si sarebbe attenuto alla semplice volontà del senato” (Storia di Roma, cit., p. 371).
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— sempre nel contesto dei conflitti/contentiones tra patrizi e plebei, il tribuno conferma la cura che intende assegnare al bene comune ed insieme la necessità di rispettare il mandato assegnato dal popolo; — il tribuno si dichiara pronto — anche a costo di venire allo scontro con il senato — a nominare un dittatore in considerazione della gravissima situazione dello stato, dichiarandosi attento e soddisfatto/contentus di rispettare la volontà dell’organo senatoriale;
Machiavelli sembra assumere da Livio e dalla storia di Roma quella partizione principale tra forme di governo che risultano possibili in condizioni di conflitti divisibili a fronte di altre modalità di governo che si rendono necessarie in tempi di gravi lacerazioni: i dispositivi resi possibili dal governo repubblicano includono o la forma delle libere istituzioni di governo, oppure impongono dispositivi civili anche duri, dotati di poteri forti, necessari comunque per risolvere.contenzioni estreme. Ancora, un altro punto dell’opera liviana risulta utile per intendere meglio l’elaborazione ulteriore offerta dal segretario fiorentino; in questo caso il riferimento è alla centrale questione della legge agraria ed al diffuso malcontento legato a quella in permanenza (Ab urbe condita, VI 11): His opinionibus inflato animo, ad hoc vitio quoque ingenii vehemens et impotens, postquam inter patres non quantum aequum censebat excellere suas opes animadvertit, primum omnium ex patribus popularis factus cum plebetis magistratibus consilia communicare; criminando patres, alliciendo ad se plebem iam aura non consilio ferri famaeque magnae malle quam bonae esse. Et non contentus agrariis legibus, quae materia semper tribunis plebi seditionum fuisset, fidem moliri coepit: acriores quippe aeris alieni stimulos esse, qui non egestatem modo atque ignominiam minentur sed nervo ac vinculis corpus liberum territent... sed nova consilia Manli magis compulere senatum ad dictatorem creandum!9.
16 “Imbaldanzito da queste idee ed essendo ancheiimpetuoso e violento di carattere, quando si rese conto di non riuscire a emergere tra i senatori come egli riteneva di meritare, fu il primo tra tutti i patrizi a passare dalla parte del popolo e ad accordarsi coi magistrati plebei. Lanciando accuse ai senatori e cercando di attirarsi il favore della plebe, non si lasciava più guidare dal raziocinio ma dall’umore incostante della massa, e preferiva che la sua fama fosse
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Altre espressioni liviane rendono conto della lettura attenta e del proficuo utilizzo svolti da Machiavelli. Basterà qui richiamare le espressioni attraverso le quali Livio descrive la funzione di contenimento svolto dal governo della repubblica: “contenta res publica” (Ab urbe condita, VII 11); la comunità politica deve riconoscere appartenenza e sicurezza a ciascuna delle sue parti, e deve realizzare il consenso civile grazie all’unità offerta dal popolo: “populus... esse potestas omnium rerum” (Ab urbe con-
dita, VIII 33).
Anche le semantiche che Cicerone attribuisce ai termini contentus e contentio possono avere inciso sulla riflessione machiavelliana. Dapprima, conviene considerare le ricche articolazioni che assume il termine contentio: — intanto, continua il riferimento ai conflitti sulla legge agraria che hanno attraversato la storia di Roma: a questo Cicerone dedica un’intera opera, De lege agraria orationes (vedi in particolare, I 27; II 91; III 1); mentre ancora nel De officiis (II 23, 80)
vengono richiamate le agrariae contentiones; — Cicerone caratterizza pure gradi diversi delle contentiones: parva contentio (Brutus, par. 233); magnae contentiones (Epistulae ad Quintum fratrem, I 1, 7); summa contentio (De oratore, II, 107; De re publica, I 25; Epistulae ad familiares, II, 10, 5; Epistulae ad M. Iuninm Brutum, I
14, 1);
vehementes contentiones (Epistulae ad familiares, XI 14, 1);
gravissimae contentiones (Pro P. Sestio oratio, par. 86): queste
vengono pure accostate alle sofferenze prodotte dai sentimenti umani quali libido, ambitio, inimicitia, cupiditas omnium (Cato maior de senectute, par. 49). Ancora, la stessa contesa oratoria viene descritta da Cicero-
ne come una forma di contentio orationis: l’eloquenza è certagrande piuttosto che buona. E non contento delle leggi agrarie che ai tribuni della plebe avevano sempre fornito materia per scatenare disordini, cominciò un attacco sul pubblico credito: a suo dire i debiti erano un tormento ben più fastidioso perché facevano rischiare non soltanto la povertà e il disonore, ma terrorizzavano gli uomini di condizione libera col pensiero della frusta e delle catene... Ma soprattutto le rivoluzionarie idee di Manlio furono la causa principale della nomina, voluta dal senato, di un dittatore” (Storia di Roma, cit., libri V-VI, p. 207).
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mente discorso interiore, discorso dell’anima, ma viene rappresentata come discorso pubblico che deve affrontare opposizioni e contrasti (De officius, II 14, 48). Anche il termine contentus presenta negli scritti ciceroniani nuovi importanti significati: soddisfazione dell’esistenza materiale, in termini di assicura-
zione sulla vita presente: contenti et suo et parvo (De officts, I 21970):
contentezza riferita ai comportamenti morali, per cui virtù è capacità di continere: contentam virtutem (Pro rege Detotaro oratio, par. 37);
soprattutto, soddisfazione della virtù che è premio a se stessa: quindi, autodisciplina come cura di sé che tende al fine della felicità (De finibus bonorum et malorum, V 26, 77: virtù è ad beate vivendum se ipsa contenta); autocontrollo e serenità che la saggezza degli anziani può realizzare: virtus contenta ad beate vivendum se ipsa (Tusculanae disputationes, Il 17, 37; V 1, 1; V
7,18; V 25,71).
Un luogo davvero interessante, dal punto di vista filosofico, merita di essere riportato; è quello che incontriamo nel De fini bus bonorum et malorum, in cui Cicerone tratta della sapienza
in riferimento alla dottrina stoica ed a quella epicurea: Ex cupiditatibus odia, discidia, discordiae, seditiones, bella nascuntur,
nec eae se foris solum iactant nec tantum in alios caeco impetu incurrunt, sed intus etiam in animis inclusae inter se dissident atque discordant; ex quo vitam amarissimam nocesse est effici, ut sapiens solum,
amputata circumcisaque inanitate omni et errore, naturae finibus contentus sine negritudine possit et sine metu vivere. Quae est enim aut utilior aut ad bene vivendum aptior partitio quam illa qua ets usus Epicurus? qui unum genus posuit earum cupiditatum, quae essent et naturales et necessariae, alterum, quae naturales essent nec tamen necessariae, tertium, quae nec naturales nec necessariae. Quorum ea ratio est ut necessariae nec opera multa nec impensa expleantur; ne naturales quidem multa desiderant, propterea quod ipsa natura divitias, quibus
contenta sit, et parabiles et terminatas habet; inanium autem cupiditatum nec modus ullus nec finis inveniri potest. (I, 13, 44-45)!7. 17 “Dalle cupidigie nascono gli odi, le divisioni, le discordie, le rivoluzio-
ni, le guerre, ed esse non si agitano solo all’esterno, non si lanciano con cieco
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Cicerone collega le cupidigie insaziabili (cupiditates insatia-
biles) alle discordie che scorrono ordinariamente in tante forme
nella vita degli umani. Solamente il sapiente — alla maniera stoica O epicurea — riesce a rimanere contento di ciò che la natura offre, essa stessa contenta del proprio essere; invece, i desideri va-
ni non hanno limiti ed inducono sofferenze e paure. Machiavelli condivide certamente questo ragionamento, che incontriamo alla base delle semantiche di contentezza/mala contentezza; co-
me vedremo, Hobbes riconoscerà questi concetti, capovolgendone i riferimenti di valore: collegherà infatti la saggezza dei moderni agli elementi concreti della ricchezza. Per quanto riguarda Seneca, conviene ricordare che la nona delle Epistulae morales ad Lucilium è interamente dedicata al tema dei rapporti tra contentezza e saggezza, attraverso la domanda che Epicuro pone ai filosofi: a quali condizioni il sapiente possa definirsi soddisfatto della propria vita e fare a meno di un amico. Intanto, a partire dalla considerazione che la ricchezza e l’avidità di beni non possono rendere soddisfatti gli uomini (XV 9), l’uomo sapiente deve poter contare solo su se stesso; certamente egli vorrà cercare un amico: realizzerà questo non per motivi di interesse, tuttavia esercitandosi a vivere anche senza il conforto
dell’amicizia: sapientem se ipso esse contentum (IX 5). Quindi, il saggio contento è in grado di affrontare le perdite, compiacersi di ciò che ha, in breve vivere nella presenza: quindi, egli deve evitare di accrescere, anticipare o immaginare la sofferenza (XIII 5). impeto soltanto contro gli altri, ma anche racchiuse nell’intimo dell’anima sono in dissidio e in discordia fra di loro; di conseguenza la vita diventa piena di amarezza, tanto che solo il sapiente, recisa e soffocata ogni vanità ed errore,
contento dei termini naturali, può vivere senza afflizione e senza timore. E quale classificazione è più utile o_più adatta alla felicità della vita che quella usata da Epicuro? egli fissò una prima categoria di desideri: quelli che sono naturali e necessari; la seconda: quelli che sono naturali senza essere necessari; la terza: quelli che sono né naturali né necessari. Le loro caratteristiche sono le seguenti: quelli necessari si soddisfano senza grande fatica o spesa; neppure quelli naturali hanno grandi pretese, per il fatto che la natura stessa ha ricchezze di cui si contenta, facili da procurarsi e limitate; quanto ai desideri vani, per essi non si può trovare né limite alcuno né termine” (/ termini estremi del bene e del male, in Opere politiche e filosofiche di Marco Tullio Cicerone, trad. di N. Marinone, Torino 1976, pp. 106-109).
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In termini sintetici, il complesso della semantiche che si riferiscono a continere/contentus — e che riguardano uno dei punti chiave del programma teorico machiavelliano — proviene dall’elaborazione originale dei luoghi della cultura latina. Potremmo esprimere il senso profondo di quella interrogazione filosofica con un’espressione dell’autore che è particolarmente caro a Machiavelli: la contenta mens di Lucrezio intende significare attenzione e concentrazione dell’intelletto umano impegnato a fare proprio il mondo circostante!8; contemporaneamente, contenta esprime tensione e sforzo in riferimento alle dinamiche pratiche rivolte all’appropriazione dell’oggetto materiale del desiderio, che può trovare a certe condizioni - non sempre favorevoli all’essere umano — soddisfazione nella presenza.
4. Tra prudenza respettiva e impeto dell’innovazione: mala contentezza e qualità dei tempi La nozione di mala contentezza viene dunque ad esprimere lo scarto negativo della tensione del desiderio che vuole realizzare cose importanti e sempre diverse, ma che si scontra con la realizzabilità minima dei progetti umani in rapporto alla limitatissima potenza naturale dell’uomo ed alla scarsità degli strumenti disponibili. La condizione di mala contentezza è prodotta dalla conversione dell’ambizione — le cui pretese originarie sono da considerare in partenza giuste — nel furore che agisce senza limiti e senza freni. Quel malessere viene anche favorito dalle congiunture di crisi politiche, di guerre civili o di conquista; in questo caso l’elemento scatenante è rappresentato dalla paura che prospetta ai soggetti la sofferenza fisica dei corpi, il disfacimento della condizione presente di benessere, l’incertezza della prospettiva futura. !8 De rerum natura, IV 964; leggi pure il contesto: “Et quo quisque fere studio devinctus adhaeret, / aut quibus multum sumus ante morati, / atque in ea ratione fuit contenta magis mens, /in somnis eadem plerumque videmur obire” (vv. 962-965). Può essere utile ricordare lo studio machiavelliano dell’opera lucreziana, copiata a mano quasi sicuramente nel 1495, come si evince dal Codice Rossiano conservato nella Biblioteca Vaticana.
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I malcontenti operano nel senso di introdurre innovazioni ad ogni costo: di qui le contenzioni che normalmente attraversano le città; questi conflitti — che partono da tensioni e dinamiche della sfera privata della comunità — secondo Machiavelli vanno ricondotti e risolti sul piano della divisione principale, quella politico-pubblica, dove si può efficacemente costruire, grazie al contributo di tutti imembri della comunità, un tempo ordinario e duraturo di pace. La mala contentezza segna il limite, la difficoltà degli uomini a governare se stessi, i propri elementi interiori, in rapporto al cambiamento degli ordini e dei tempi delle cose. In questo luogo teorico — che si presenta come argomentazione antropologica preliminare allo stesso discorso politico— precipita l’intersezione problematica tra le dinamiche del riscontro dell’azione umana dettata dall’ambizione rispetto alla qualità dei tempi con l’altro decisivo punto: quello dell’esito possibile dell’agire virtuoso dei soggetti a fronte delle condizioni — esterne ed interne all’uomo — imposte dalla fortuna. noto come in tre differenti luoghi, con scritture vicine e pure in parte differenti, Machiavelli argomenta il rapporto tra virtù e fortuna — misura del successo o della disfatta tra le possibilità dell’agire umano — in rapporto al variare continuo de li ordini e de’ tempi delle cose. Nello scritto cosiddetto dei Ghiribizzi, risalta il tentativo machiavelliano di offrire una spiegazione circa gli esiti, positivi o negativi, dell’azione umana: “donde na-
scha che le diverse operationi qualche volta equalmente giovino o equalmente nuochino, io non lo so, ma desiderrei bene saper-
lo”!?. L'avvio dell’argomentazione discute dell’inevitabile perenne confronto tra temperamenti degli uomini e i tempi che segnano il contesto delle azioni umane: Io credo che, come la Natura ha facto ad l’huomo diverso volto, così li
habbi facto diverso ingegno et diversa fantasia. Da questo nascie che 19 In Tutte le opere, cit., p. 1083. Lo scritto cosiddetto dei Gbiribizziè in effetti il contenuto della lettera inviata da Machiavelli a Giovan Battista Soderini scritta in Perugia in data 13-21 settembre 1506. Per la ricostruzione della storia del testo, sicuramente utile il lavoro di G. Sasso, Niccolò Machiavelli (Bologna 1980), pp. 193-205.
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ciascuno secondo lo ingegno et fantasia sua si governa. Et perché da l’altro canto e tempi sono varii et li ordini delle cose sono diversi, ad colui succedono ad votum e suoi desiderii, et quelloè felice che ri-
scontra el modo del procedere suo con el tempo, et quello, per opposito, è infelice che si diversifica con le sue actioni da el tempo et da l’ordine delle cose.
Qui vengono attivati due vettori concettuali: il primo riguarda la differenza del temperamento individuale, che consiste nelle disposizioni naturali ad operare con ragionamento e con immaginazione; si tratta della complessione fisica che caratterizza la differenza di temperamento per ciascun soggetto. Ancora, l’autore specifica che i caratteri umani si riducono a due: “gli uomini nelle opere loro procedono, alcuni con impeto, alcuni con rispetto e con cauzione” (D III 9, 213); questi due temperamenti — prudente respettivo e impetuoso — risultano decisivi nell’agire di ciascun soggetto: se uno che si governa con respetti e pazienzia, ‘e tempi e le cose girono in modo che il governo suo sia buono, e’ viene felicitando; ma se li tempi e le cose si mutano, e’ rovina, perché non muta modo di proce-
dere. Né si truova uomo sì prudente che si sappi accomodare a questo; sì perché non lo si può deviare da quello a che la natura lo inclina; sì
etiam perché, avendo sempre uno prosperato camminando per una via, non si può persuadere partirsi da quella. E però l’uomo respettivo, quando egliètempo di venire allo impeto, non lo sa fare; donde rovina; ché, se si mutassi di natura con li tempi e con le cose, non si mute-
rebbe fortuna (P XXV, 296).
La seconda serie concettuale offre dunque la specificazione che i tempi sono molteplici e di diversa natura: questi risultano essere vari e di diverso valore così come le forme della realtà circostante. Viene allora proposto il termine del rapporto, positivo o negativo, che può realizzarsi nel confronto tra ciascun indivi-
duo e i tempi diversi: felice è il soggetto “che riscontra el modo del procedere suo con le qualità de’ tempi” (Ghiribizzi 1083); mentre l’infelicità deriva dal fatto che l’agire dell’uomo non può non entrare in un determinato punto in contrasto con il mutato
procedere degli eventi. La qualità de’ tempi risulta decisiva poiché la felicità umana si realizza a seconda delle capacità sogget-
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tive di adattare i comportamenti alle forme nuove e diverse che assumono 2 tempi e li ordini delle cose. Il criterio proposto da Machiavelli per l’interpretazione del successo 0 del fallimento dell’azione del singolo individuo, conseguenti allo svolgimento di percorsi simmetrici o di asimmetrie irrimediabili tra diverse temporalità, assume i caratteri di una tesi essenziale e lineare nella sua formulazione; in effetti, esso si
complica notevolmente in considerazione della serie infinita dei possibili sviluppi che possono emergere in seguito alle relazioni tra la realtà mutevole degli eventi naturali e storici, da una parte, e l'incertezza e l’inquietudine proprie dell’agire umano, dall’altra: Ma, perché e tempi et le cose universalmente et particolarmente si mutano spesso, et li huomini non mutono le loro fantasie né e loro modi di procedere, adcade che uno ha un tempo buona fortuna et uno tempo trista. Et veramente, chi fussi tanto savio che conoscessi e tempi et
l’ordine delle cose et adcomodassisi ad quelle, harebbe sempre buona fortuna o e’ si guarderebbe sempre da la trista, et verrebbe ad essere vero, che ‘l savio comandassi alle stelle et a’ fati. Ma, perché di questi savi non si truova, havendo li huomini prima la vista corta, et non po-
tendo poi comandare alla natura loro, ne segue che la Fortuna varia et comanda gli huomini, et tiègli sotto el giogo suo (ibidem).
Secondo Machiavelli felicità o tristitia sono legati alla capacità dei soggetti di comprendere i cambiamenti del corso dei tempi e di adattare a questi mutamenti la propria azione; peraltro, ciò viene normalmente reso difficile dalla stessa natura umana. L'indagine machiavelliana è in prima istanza dedicata all’approfondimento e allo scandaglio dei movimenti interiori, poiché da queste dinamiche risultano in definitiva possibili le attive trasformazioni poste in essere dagli individui nei confronti della traiettoria vincente della fortuna. Quindi, da un canto, i saperi astrologici e la classica teoria degli umori motivano fortemente Machiavelli nelle argomentazioni relative alla fissità immodificabile dell’ingegno e della fan tasia degli uomini; il cielo, il sole e gli elementi non variano “di
moto, di ordine e di potenza, da quello che gli erono antiquamente” (D I proemio, 76): la natura non cambia, cambiando so45
lo le forme del suo divenire. Di qui pure deriva la ferma convinzione machiavelliana secondo cui l’agire e la virtù dei soggetti rimangono inesorabilmente condizionati dalla fortuna in considerazione del fatto che il carattere individuale è immutabile, quindi sostanzialmente incapace di modificare se stesso in rapporto al variare della fortuna; è questo un limite irrimediabile posto dalla natura stessa nella complessione dell’individuo e rafforzato dalle abitudini sedimentate nei comportamenti: E che noi non ci possiamo mutare, ne sono cagioni due cose: l’una, che noi non ci possiamo opporre a quello che c’inclina la natura; l’altra, che,
avendo uno con un modo di procedere prosperato assai, non possibile persuadergli elle possa fare bene a procedere altrimenti: donde ne nasce che in uno uomo la fortuna varia, perché ella varia i tempi, ed elli non
varia i modi. Nascene ancora le rovine delle cittadi, per non si variare gli ordini delle republiche co’ tempi; come lungamente sopra discorremo, ma sono più tarde; perché le penono più a variare, perché bisogna che venghino tempi che commuovino tutta la republica; a che uno solo, col variare il modo del procedere, non basta (D III 9, 213-214).
Ancora più complesso si presenta questo problema in riferimento alla considerazione secondo cui gli elementi che limitano fortemente l’azione degli individui, piuttosto che ad una fortuna completamente esterna ed estranea agli esseri umani, sono da relazionare alle parti più interne, profonde, della vita umana. Come scrive Sasso, “la fortuna può e deve essere ricondotta alla radice profonda della natura umana, al suo tratto unilaterale e, nel variare delle circostanze, invariabile. E la sua ‘trascendenza’ diviene, in tal modo, una trascendenza interiorizzata: non la tra-
scendenza della provvidenza cristiana, o del fato stoico, ma la
trascendenza di una parte dell'animo umano su questo animo
stesso”29. I tempi delle azioni umane hanno dunque il loro confronto decisivo non solo rispetto ad una realtà naturale completamente esterna agli uomini: piuttosto, ciascun individuo rimane inevitabilmente impegnato nel comprendere e nel governare quel fondo oscuro e imprevedibile costituito dagli impulsi interiori. 20 G. Sasso, Niccolò Machiavelli, cit., p. 395.
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Ecco, allora, che il profondo convincimento machiavelliano circa l’immutabilità della natura umana diventa la chiave per offrire una descrizione di quei cambiamenti che — riconfermata l’inalterabilità dei caratteri della specie — riguardano le uniche modificazioni possibili dei temperamenti: quelle relative alle tensioni interne ai soggetti prodotte dallo sviluppo e dalla corruzione dei corpi; in particolare, gli uomini vivono inquietudini e depressioni — la mala contentezza come interna sensibilità dello scacco irrimediabile di ogni singola esistenza — in forme differenti a seconda delle età diverse della vita umana e nel riferimento ai diversi contesti di vita. A tal punto, poi, le complessioni fisiche determinano con necessità 1 temperamenti degli uomini, che gli umori — di cui i caratteri individuali risultano composti — valgono a costituire non solo la riconoscibile differenza tra i singoli soggetti, ma pure si addensano in grandi entità collettive, incidendo sul complesso della storia delle comunità umane. E tanto viene insegnato dalla storia di Roma: è facile infatti potere constatare che “e’ sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de” grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito in Roma” (DI 4, 82). La costituzione del corpo politico risulta quindi condizionata dalle complessioni naturali, fisiche, dei singoli individui e dalla loro degenerazione. Per questi aspetti, lo Stato è corpo naturale, il cui governo svolge la funzione di reagire ai danni indotti dalla malattia/corruzione delle sue membra: “E però non è cosa che faccia tanto stabile e ferma una republica, quanto ordinare quella in modo che l’alterazione di quegli omori che l’agitano, abbia una via di sfogarsi ordinata dalle leggi” (D I 7, 87). Insieme, l’azione della politica—che deve garantire l’innovazione del-
la linfa vitale e il mantenimento della salute del corpo civile — resta pure condizionata dall’alterazione degenerativa degli umori, dalla corruzione dei comportamenti, dalle NEO di difficoltà e di sofferenza delle singole esistenze?! 21 Per le relazioni tra dinamiche degli umori e conflitti civili vedi il bel la-
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Questo limite umano incide direttamente sulle possibilità proprie dell’agire politico, in riferimento al problema cruciale espresso da Machiavelli come rapporto tra innovazione e mantenimento; per un verso, come si possa dare avvio alla novità attraverso l’impeto: dall’altro, a quali condizioni la prudenza respettiva possa garantire il mantenimento della stabilità del vivere civile. In effetti, chi vive di mala contentezza si rende in permanenza disponibile alla novità: gli uomini sono desiderosi di cose nuove; in tanto che così desiderano
il più delle volte novità quegli che stanno bene, come quegli che stanno male: perché, come altra vota si disse, ed è il vero, gli uomini si stuc-
cano del bene, e nel male si affliggano. Fa, adunque, questo desiderio aprire le porte a ciascuno che in una provincia si fa capo di innovazione; e s’egliè forastiero, gli corrono dietro; s’egli èprovinciale, gli sono intorno, augmentanlo, e favorisconlo: alano
in qualunque mo-
do egli proceda, gli riesce il fare progressi grandi in quegli luoghi (D 11219227)
A fronte della necessità originaria di procedere all’innovazione degli ordini della città — in modo da rimediare al rischio della corruzione e del degrado del vivere libero e civile —, la condizione di malessere, di sofferenza, indotta negli individui dalla mala contentezza spinge sicuramente alla produzione di novità dannose alla città, alla patria, poiché indotte dalla volontà esplicita di approfondire la disunione e la discordia tra le parti della città. A questo punto, abbiamo elementi sufficienti per intendere in modo più approfondito la coppia oppositiva contento/malcontento che Machiavelli utilizza continuamente e con semantiche definite. Intanto, conviene dapprima restituire il significato di contento così come proviene da Principe (P XIX, 284): “qualunque volta alle universalità degli uomini non si toglie né roba né onore, vivono contenti, e solo si ha a combattere con la am-
bizione di pochi, la quale in molti modi, e con facilità, si raffrena”; penso che si possa articolare questa definizione per naturale estensione sul tema decisivo del vivere nella presenza: “li uovoro di Marie Gaille-Nikodimov, Conflit civile et liberté. La politique machiavéllienne entre histoire et médecine (Paris 2004).
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mini sono più presi dalle cose presenti che dalle passate; e quando nelle presenti truovono el bene, vi si godono e non cercano altro; anzi, piglieranno ogni difesa per lui, quando non manchi nell’altre cose a se medesimo” (P XXIV, 294). Secondo Machia-
velli, essere contento significa capacità di vivere il presente nella sicurezza personale della vita, nell’appagamento dei bisogni materiali necessari alla sopravvivenza; grazie a questo vivere civile, la contentezza consiste dunque nell’equilibrio interiore che il soggetto riesce a realizzare nella presenza. Nella condizione del malcontento, invece, il desiderio che
diventa smisurata ambizione o l’improvvisa angoscia derivante dal pericolo di morte comportano alterazione e corruzione degli umori inducendo esaltazione nella mente umana; la fenomenologia di tale sofferenza viene illustrata da Machiavelli attraverso la descrizione dell’uomo che risulta colpito e frammentato nei flussi temporali di cui è composto. L'uomo che vive di | mala contentezza non riesce a sostenere il proprio continuum temporale, è squilibrato rispetto alla situazione presente di vita; questo soggetto non riesce a vivere la realtà effettuale: è portato o ad esaltare la vita passata attraverso la memoria oppure a proiettarsi grazie all’immaginazione verso un futuro carico di incerte aspettative (quest’ultimo atteggiamento è tipico dei giovani): appunto — come è detto nel già citato proemio di Discorsi, II — “biasimare i presenti tempi, laudare i passati, e desiderare i futuri”. Ne derivano inevitabilmente lacerazione interiore, perdita di contatto con la presenza, proiezione del proprio malessere contro il nemico impersonato da coloro che vengono vissuti come causa esterna della sofferenza.
5. Il dispositivo repubblicano del governo misto: da Aristotele a Machiavelli Seguendo il nesso originario ed inscindibile di argomentazione antropologica e teoria politica nel pensiero machiavelliano, si può cogliere la perfetta coerenza che induce il segretario fiorentino a collegare imezzi del rimedio per i danni indotti dalla mala contentezza ad una forma di governo particolare, la re49
pubblica, che funziona come governo misto: modalità specifica di intervento da parte dell’autentica politica che interviene come anticipazione. Machiavelli conosce a fondo il linguaggio che concerne le forme diverse che può assumere il cosiddetto governo misto: come sappiamo, già l’avvio dei Discorsi, con la rassegna dei modi attraverso cui opera “il cerchio nel quale girando tutte le republiche si sono governate e si governano” (D I 2, 80), attesta la conoscenza della nozione di anakuklosis, che Polibio pone alla ba-
se del suo modo di concepire il governo misto. Peraltro, basta voltare qualche pagina per incontrare (dal quinto capitolo in poi) l’altro significato che Aristotele attribuisce alla mixis, alla mescolanza delle forme di governo. Intanto, negli scritti di Machiavelli il termine republica, così come accade per il termine aristotelico di politeia/politia, sta a significare contemporaneamente il termine generico di costituzione del governo di un qualsiasi stato, ed ancora la forma migliore di governo. Nel testo aristotelico della Politica, la politia è la forma di governo che proviene dal confronto e dalla mescolanza delle due forme corrotte di oligarchia e di democrazia (IV, 7). Come leggiamo nelle definizioni principali che incontriamo sia nei Discorsi che nel Principe, il fiorentino utilizza il termine republica, esprimendo nella voce fiorentina la traduzione latina con la quale Leonardo Bruni segnava la nozione aristotelica di politesa/politia: “respubblica (ut simpliciter dicamus) mixtura paucorum gubernationis et popularis”22, Secondo Machiavelli, republica è governo misto in quanto risultato del confronto tra le due parti influenti della città: grandi e popolo; sono questi gli umori principali in permanente 22 Il brano appartiene al libro IV (1293b) della Politica di Aristotele; l’edizione della traduzione latina del Bruni da me utilizzata è Politicorum libri octo commentarij, ex officina Simonis Colinaei, Parisiis 1543, p. 65. Una differente tradizione di discorso politico deriva dalla traduzione latina svolta da Wilhelm von Moerbecke, dove il termine politia viene lasciato non tradotto:
nell’area germanica il termine politia diventerà nel tempo polizei, istruendo quel percorso che porterà alla formazione della Polizeswissenschaft e di un’arte specifica di governo (ma vedi anche il francese police, l’italiano polizia, etc.); su questo tema vedi P. Schiera, Dall’arte di governo alla scienza dello stato. Il Cameralismo e l’assolutimo tedesco (Milano 1968).
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conflitto: coloro che vogliono dominare e quanti non vogliono essere dominati (le definizioni che incontriamo sia nel Principe che nei Discorsi: D, I 5, 83; P IX, 271). Nei Discorsi, in particolare, fin dall’avvio della trattazione, Machiavelli vuole porre in
rilievo che questa nozione di governo misto è strumento concettuale in grado di spiegare la gloria e le sofferenze delle repubbliche: da Roma fino alla storia contemporanea di Firenze. Il criterio aristotelico, che Machiavelli fa proprio, è quello dell'anatomia della citià??: la costituzione del governo rappresenta la serie delle relazioni che vengono dinamicamente ad istituirsi tra le parti della città (ta mere tes poleos), secondo una tassonomia che assume forme differenti nelle diverse poleis, fondata sull’attribuzione dell’autorità propria delle diverse magistrature e sulle finalità normative perseguite dai governi; la costituzione esprime dunque sul piano pubblico-politico la composizione proporzionata delle forze che viene a realizzarsi tra le parti che compongono l’intero (holos) dell’ organismo cittadino. Conviene anche ricordare che la nozione aristotelica di governo misto — secondo quanto illustra splendidamente Chiara Carsana — rappresenta la “fusione di elementi divergenti e contrapposti, dalla quale risulta n composto moderato, con una propria autonoma fisionomia”; si tratta di differenti modalità di mescolanza (tropoi tes mixeos) con riferimento anche alle componenti che oggi chiameremmo specificamente sociali: la costituzione mista è dunque struttura binaria che deve rispondere alla mediazione tra le parti principali che si confrontano nella città. Popolo e grandi costituiscono secondo Machiavelli quelle parti della comunità politica che possono controllare — proprio come argomentava Aristotele — le magistrature supreme della 23 Per l’analisi del modello aristotelico dell'anatomia delle parti della città vedi l’importante contributo di P. Accattino, L’anatomia classica della città nella “Politica” di Aristotele (Torino 1976). 24 Una chiara ed approfondita presentazione dei modelli della costituzione mista negli autori dell’antichità èsvolta da C. Carsana, La teoria della “costituzione mista” nell’età imperiale romana (Como 1990); la citazione riprodottaè a p. 14.
SI
città: demos'e gnorimoi; da questo deriva (come troviamo specificato in Politica III 8, 1279b) che è chiamata oligarchia la costituzione in cui le magistrature supreme (tas arkàs) sono detenute
dai ricchi, mentre si ha democrazia quando le stesse magistrature sono controllate dalle classi più modeste. In effetti, Machiavelli sembra condividere il fulcro dell’argomentazione che Aristotele utilizza per la definizione della politeia come confronto tra le parti diverse della città: non è l’incidenza del numero di quanti governano (l’uno, i pochi, i molti) l’elemento che decide della politia, della forma migliore di governo. In particolare, non è l’attributo numerico dei molti (pletos) che può garantire il governo praticato secondo l’interesse comune; piuttosto, la politia come governo misto costituisce il termine risolutivo della divisione che oppone i due principali umori: appunto, i grandi che esercitano la propria ambizione al fine di comandare ad ogni costo ed il popolo che può costruire il rifiuto organizzato a quel permanente tentativo di dominio (conviene ricordare che il popolo di cui parla Machiavelli è costituito da alcune migliaia di persone che appartengono in prevalenza alle arti minori). Soffermiamoci, per un tratto, su questa forma di republica in quanto espressione specifica secondo Machiavelli della libertà, del vivere libero. Ancora su questo piano appare con evidenza che le considerazioni di Machiavelli sono vicine agli sviluppi argomentativi offerti da Aristotele nella Politica. Aristotele sostiene che non bisogna identificare la democrazia con l’autorità delle magistrature supreme assunte dalla massa, tantomeno bisogna
identificare l’oligarchia con il governo assoluto della minoranza (IV 4, 1290a); piuttosto, specifica Aristotele, “si può dire con maggiore ragione che si ha democrazia quando i liberi governano, oligarchia quando governano i ricchi: e solo per accidente avviene che gli uni siano molti e gli altri pochi, perché i liberi so-
no molti e i ricchi pochi”?5. Seguendo il discorso di Machiavelli, nella situazione normale dello scorrimento dei conflitti nella città, il governo libero e 5 La traduzione che utilizzo per la Politica è quella classica di C.A. Viano, i
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e Costituzione d’Atene (Torino 1955); la citazione è a p. 178.
civile può essere assicurato grazie all’intervento della parte del popolo: tuttavia, conviene riprendere il senso profondo del discorso machiavelliano sulla libertà, secondo il quale la contrapposizione tra i due umori principali riguarda nell’essenza finalità diverse rivolte a perseguire la libertà: tra quanti appartengono alla comunità, scrive Machiavelli (D I 16, 100), “una piccola parte di loro desidera di essere libera per comandare; ma tutti glialtri, che sono infiniti, desiderano la libertà per vivere sicuri”. Si può allora rilevare l'evidente propensione di Machiavelli a vedere nel popolo — una delle componenti principali della città — il soggetto principale che opera al fine di garantire la libertà: ad esso infatti bisogna attribuire la guardia della libertà. In effetti, questa posizione potrebbe essere interpretata come più vicina alla produzione della costituzione democratica, alla modalità di vivere una sorta di gubernatio popularis, come scriveva Leonardo Bruni per la situazione di Firenze in una lettera all’imperatore Sigismondo (l’importanza di questo documento è stata richiamata da Gennaro Sasso?9): in questo testo il valore della giustizia che vive della libertà repubblicana viene argomentato facendo ricorso all’equalitas tra i cittadini, una sorta di tendenziale parità di condizioni tra gli appartenenti alla stessa comunità. E questa sottolineatura dell’incidenza che proviene da diversi contesti di eguaglianza, di equalità, costituisce pure un importante passaggio della teoria politica aristotelica: in III, 12 (1282b) della Politica, scrive Aristotele: se “il bene che la politica si propone di raggiungere è la giustizia, cioè ciò che è utile alla comunità, pare a tutti che la giustizia sia una qualche specie di uguaglianza...; ma deve essere posto in luce tra quali persone debbano intercorrere rapporti di uguaglianza e tra quali invece rapporti di inuguaglianza, poiché anche la soluzione di questo problema spetta alla filosofia politica”?7. Questa serie di relazioni ci porta a sottolineare in modo sintetico alcune particolari caratteristiche del progetto machiavelliano che riguarda appunto la forma politica che si chiama republica: 26 G. Sasso, Niccolò Machiavelli, cit., p. 473. 27 Politica e Costituzione d’Atene, cit., p. 154.
DO
— innanzitutto, il modello di repubblica costituirebbe quella struttura degli ordini capace di attivare il massimo della soddisfazione possibile per entrambi gli umori, quelli rivolti all’acquisizione degli onori e l’altro rivolto alla realizzazione della sicurezza della propria esistenza. Republica (0 semplicemente libertà) è quindi da considerare forma autonoma di governo che non mira a neutralizzare i conflitti di cui normalmente la città vive: piuttosto, in condizioni di equalità tra le parti — vale a dire di non eccessive diseguaglianze di potenza, come invece accade per alcune regioni italiane come Milano e Napoli (D I 17, 102 e I 55, 138) — è possibile impiantare questo vivere politico che per eccellenza è libertà. Sul lato del principato, questa forma di governo deve poter adottare gli strumenti di una forza concentrata, quasi una mano regia indispensabile a contenere gli antagonismi e chiamata a garantire il vivere civile secondo quelle modalità. Certamente, il principe costruirà un ordine simbolico di potere ed utilizzerà tecniche specifiche d’intervento, codificate secondo un codice precettistico di cui deve rendersi abile interprete: tuttavia, il suo intervento può realizzarsi positivamente
soltanto grazie al consenso da parte della moltitudine, che rimane convinta di utilizzare quel dispositivo di governo al fine di evitare che la comunità cada nell’anarchia;
— inoltre, accade in Machiavelli quanto si può attribuire ad Aristotele: esiste una tensione preferenziale per le forme miste di governo, che sarebbero comunque migliori di quelle semplici e quindi da non favorire; in questo senso, in Aristotele — sostiene Andrew Lintott — le forme miste che tendono verso la democrazia assumono il nome dipoliteia?8. Lo stesso accadrebbe per Machiavelli: la republica sarebbe quella forma di governo popolare che dovrebbe consentire il contenimento del potere oligarchico, senza tuttavia inibire ai grandi l’accesso alle ma28 È Pasquale Pasquino a richiamare l’attenzione sullo studio importante di A. Lintott, Aristotle and the Mixed Constitution, in Alternative to Athens, a cura di B. Brock and S. Hodkinson (Oxford University Press 2000), pp. 152-
166. Pasquino ha dedicato un saggio di rilievo al tema dei rapporti tra Machiavelli e il pensiero politico di Aristotele, Machiavelli e Aristotele: le anatomie della città, in «Filosofia politica», XXI (2007), 2, pp. 199-212.
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gistrature supreme; si tratterebbe soprattutto di sottoporre a controllo l'esercizio delle eccessive ambizioni da parte dei nobili. In tale contesto, il popolo viene considerato la parte della città capace di costruire la funzione di mediazione idonea ad offrire una rappresentazione pubblico-politica a tutte le componenti dell’organismo comunitario (si potrebbe dire in termini tecnici: attribuire alle parti della città l’equivalenza isegorica); questa forma di governo renderebbe possibile l’equilibrio politico tra le forze in contrasto e la tendenziale risoluzione dei conflitti privati.
6. Solo la forma di repubblica può contenere conflitti e malcontenti Ancora nel Discursus florentinarum rerum — portato a com-
pimento tra la fine del 1520 e il febbraio dell’anno successivo, presentato quindi a Giulio de? Medici quale suggerimento estremo di una riforma in senso repubblicano degli ordini istituzionali in crisi - Machiavelli individua il motivo principale delle discordie civili di Firenze nelle politiche prodotte dai cittadini malcontenti: La cagione perché tutti questi governi sono stati defettivi è che le riforme di quegli sono state fatte non a satisfazione del bene comune, ma a corroborazione e securtà della parte: la quale securtà non si è anche trovata, per esservi sempre stata una parte malcontenta, la quale è stata un gagliardissimo instrumento a chi ha desiderato variare (DFR 25).
Certamente contrario allo strapotere dei grandi, Machiavelli sostiene pure con coerenza che l’istituzione del governo repubblicano in Firenze può essere resa possibile solo a condizione di introdurre quelle innovazioni politiche e istituzionali idonee a rendere a ciascuna delle parti presenti in città il riconoscimento dovuto alla loro importanza: “gli ordini della città per loro medesimi possino stare fermi; e staranno sempre fermi quando ciascheduno vi averà sopra le mani” (DFR 31). Si tratta di evitare il corto circuito che ha visto sempre contrapposte in città le fazioni aristocratiche e quelle delle parti popolari e plebee: 55
per la difesa della patria comune bisogna combattere l’arroganza dei nobili così come la licenza dell’universale. Bisogna quindi neutralizzare gli effetti negativi dei comportamenti prodotti sotto l’influenza della mala contentezza: molti a’ quali non parendo, stando così, vivere sicuri, non fanno altro
che ricordare che si pigli ordine al governo: e chi dice che si allarghi, e chi che si restringa; e nessuno viene ai particolari del modo del restringere o dell’allargare, perché sono tutti confusi e non parendo loro vivere sicuri nel modo che si vive, come lo vorrebbono acconciare non sanno, a chi sapessi non credono; tale che, con la confusione loro, so-
no atti a confondere ogni regolato cervello (DFR 31).
Dunque, nel Discursus florentinarum rerum, attraverso uno
sforzo ulteriore costituito dall’elaborazione di un nuovo progetto istituzionale, in cui trovino esplicita rappresentazione politica le parti diverse della città — senza alcuna esclusione per gli stessi aristocratici”? —, viene confermato quel principio argomentato nei Discorsi: finalità principale della politica è creare nuovi ordini, introdurre quelle innovazioni intese a confermare il principio libero, il fondamento originario del vivere libero e civile degli ordini istituzionali. In questo contesto, pure, la conferma della funzione decisiva di contenere il malcontento che favorisce la disgregazione politica e il malessere della città; lasciando “sfogare i maligni umori che nascono negli uomini” — aveva scritto Machiavelli nei Discorsi —, la politica deve realizzare le condizioni per il positivo confronto tra queste parti: “non è cosa che faccia più ferma una republica, quanto ordinare quella in modo che l’alterazione di quegli omori che l’agitano, abbia una via di sfogarsi ordinata dalle leggi” (D I 7, 87).
29 In realtà, l’orientamento di aperto convincimento per la piena partecipazione della parte nobiliare al governo misto della città è presente già nei Discorsi, come argomenta F. Bausi, / ‘Discorsi’ dî Niccolò Machiavelli. Genesi e strutture (Firenze 1985); per una modalità diversa di considerare il modello del governo misto — vale a dire nel riferimento tutto politico, polibiano, alla possibilità di commistione delle tre forme classiche di governo — vedi il saggio di G. Cadoni, Libertà, repubblica e governo misto in Machiavelli, in «Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto», XXXIX (1962), p. 474.
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Ancora in questo contesto — siamo tra 1520 e 1521, nel pieno svolgimento della restaurazione medicea -, Machiavelli esprime la più determinata convinzione che bisogna restituire il peso della propria forza attraverso una proporzionata rappresentazione istituzionale a tutte la parti in conflitto: Coloro qualità timi. E dimeno
che ordinano una repubblica debbono dare luogo a tre diverse di uomini, che sono in tutta la città; cioè, primi, mezzani, e ulbenché in Firenze sia quella equalità che di sopra si dice: non-
sono in quella alcuni che sono di animo elevato, e pare loro meritare di precedere agli altri; a’ quali è necessario nell’ordinare la repubblica satisfare: né per altra cagione rovinò lo stato passato che per non si essere a tale umore satisfatto (DFR 27).
Da questo testo risalta con buona evidenza l’adesione di Machiavelli alla teoria aristotelica della politia come governo misto; nel Discursus florentinarum rerum, le parti della città, richiama-
te ad offrire la forma del governo libero repubblicano a Firenze dopo la restaurazione medicea, sono tre — i grandi, i miseri ed i mezzani — proprio come nell’articolazione del discorso della mese politeia del libro IV della Politica; in questo luogo del testo aristotelico (il quarto libro), questa forma di costituzione mista è il risultato del confronto tra le forze messe in campo dalle parti della città, dai ricchi (euporo:) ed i poveri (aporoi): appare evidente come in tale contesto Aristotele introduca la funzione decisiva della parte di mezzo, dei mesoi (appunto coloro che stanno in mezzo), come realtà particolarmente rilevante nelle grandi città3°. Il progetto dettagliatissimo di riforma istituzionale a Firenze, che Machiavelli presenta nel Discursus florentinarum rerum, risponde pienamente alla finalità precipua della funzione che Aristotele aveva assegnato alla mese politesa: la costituzione come struttura che deve offrire ordine alla città stabilendo il 30 A] riguardo scrive Accattino: “Aristotele deve essersi reso conto che le parti della città che in ultima analisi determinano nella stragrande maggioranza delle città l’esito costituzionale, sono gruppi caratterizzati da differenze di ordine economico e che una costituzione buona è fattibile anche senza un appello diretto ai virtuosi come gruppo” (L’anatomia classica della città nella “Politica” di Aristotele, cit., p. 95).
Di
funzionamento di tutte le cariche e dell’autorità sovrana (III, 6,
1278b); quindi l'articolazione istituzionale deve fare in modo di restituire a tutte le parti della città il riconoscimento del peso e dell'incidenza delle forze al fine di garantire il mantenimento della libertà e di evitare minacce e rivolte nei confronti del governo in carica?!. Gli esiti del governo misto dovrebbero in definitiva mettere capo ad una composizione essenzialmente moderata delle forze in campo: tuttavia, per quanto concerne le forme possibili del governo — nella serie delle relazioni che legano discorsi e pratiche di libertà alle differenze indotte da condizioni diverse di equalità tra i cittadini —, secondo Machiavelli non si possono risolvere con il governo repubblicano divisioni che risultano acute tra le parti della città: su questo versante risulta inutile tentare di realizzare ad ogni costo vie di mezzo considerate adeguate a produrre rimedio a situazioni estreme di contenzioni, di antagonismi tra le parti. Questo valeva dire che la moderazione — assunta come principio in sé — non può risolvere ogni genere di
tensione conflittuale tra le forze in campo. In sintesi, la republica viene congetturata da Machiavelli come modello fortemente inclusivo e partecipativo, che tuttavia non nasconde difficoltà insuperabili a fronte di quegli avvenimenti che — provenienti dall’interno o dall’esterno — possono produrre gravissime lacerazioni alla comunità. In tutti gli scritti politici di Machiavelli, incontriamo la consapevolezza teorica dell’impossibilità di poter esercitare bilanciamento per conflitti che sono indivisibili e che piuttosto impongono all’azione politica di rifiutare l’esercizio ad ogni costo della via di mezzo. 3! Conviene anche ricordare che questo luogo aristotelico e machiavelliano costituisce un elemento importante di riflessione e di acquisizione per tutta la letteratura della ragion di Stato, a partire da Botero, che divide il popolo nelle tre parti dei grandi, miseri e mezani: Botero utilizza questo punto ed ancora altri del discorso machiavelliano al fine di assegnare caratteri di funzionale dinamicità ad un progetto di ragionata conservazione politica; vedi G. Botero, Della ragion di Stato (Venezia, Gioliti, 1589; ed. Firpo, Torino 1948), pp.
119-120. Su questo punto richiamo il mio lavoro Ragion di Stato e Leviatano. Conservazione e scambio alle origini della modernità politica (Bologna 1993), pp. 63-94.
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Ecco allora risaltare alcune nette ditterenze rispetto ad Aristotele, ed anche rispetto agli aristotelismi storici: giustizia ed eguaglianza non sono riscontrabili nell’armonia ontologica del tutto, ed ancora nella concordia civile tra le parti della comunità; anzi, nelle situazioni in cui il conflitto risulta di difficile so-
luzione, il governo possibile deve allora essere riconosciuto e ponderato rispetto alle asimmetrie ed alle dismisure che contrappongono — a volte in modo cruento — le forze in campo. Non a caso Machiavelli — nei Discorsi e nel Discursus florentinarum rerum — insiste sulle considerazioni per cui le forme di governo che tentano di realizzare vie di mezzo tra le due forme principali di republica e principato risultano inevitabilmente deboli, quindi da evitare: nessun stato si può ordinare che sia stabile, se non è vero principato o vera repubblica, perché tutti i governi posti in tra questi sono defettivi, la ragione è chiarissima: perché il principato ha solo una via alla sua olazione la qualeè scendere verso la repubblica; e così la repubblica ha solo una via da resolversi, la qualeè salire verso il principato. Gli stati di mezzo hanno due vie, potendo salire verso il principato o scendere verso la repubblica: donde nasce la loro instabilità (DFR 26).
Come scrive Anthony Parel, secondo Machiavelli non esiste alcuna specie di giustizia naturale o di legge naturale cui possa fare riferimento l’agire umano, così come non si può governare facendo unicamente ricorso a comportamenti ed a discorsi di virtù??: a certe condizioni, si può costruire un benessere relativo, anche duraturo, ma non certamente puntando sulla necessa-
ria coincidenza — argomentata da Aristotele per ogni singolo individuo — di comportamento buono e virtù politica. La finalità principale dell’azione politica ha un obiettivo principale che resta ancorato alla soddisfazione materialistica e terrenica del vivere nella presenza — grazie alle risorse materiali disponibili — un benessere che sa riconoscersi come transitorio: è questo l’esser contento, la contentezza cui si oppone la mala contentezza, l’in32 AJ. Parel, The Machiavellian Cosmos (New Haven-London 1992), p. 156.
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soddisfazione del vivere, la depressione malinconica. In definitiva, i princìpi dell’antropologia machiavelliana spiegano che gli uomini — che “possono desiderare ogni cosa e non possono conseguire ogni cosa” — vivono in permanenza dell’instabile equilibrio di contentezza e mala contentezza, del momentaneo (pure
pieno) benessere vissuto nella presenza e del ritorno continuo, inevitabile e ciclico, d’insoddisfazione e malessere spirituale. Secondo Machiavelli, il programma di governo misto rappresenterebbe lo strumento migliore per rendere possibile l’incontro tra le parti diverse della città: tale criterio è completamente immanentizzato ed esalta la componente corporale ed umorale dei conflitti. Machiavelli argomenta in modo inequivocabile la necessità di rispondere all’urgenza dei riconoscimenti d’onore e di gloria richiesti dalle parti malcontente della città: repubblica non è dunque espressione del governo politico della sola parte del popolo, sostenuta magari dalla componente plebea. In definitiva, nel pensiero di Machiavelli, la partecipazione
bilanciata degli umori principali al governo costituirebbe la risposta agli inevitabili antagonismi tra le ambizioni eccessive dei grandi e le paure dei ceti meno abbienti. Il governo misto consentirebbe di rappresentare lo svolgimento positivo dei conflitti in seno alla città: in questo modo i conflitti dovrebbero giovare alla cosa pubblica poiché rivolti a conquistare a vantaggio di una parte, fino a quel punto esclusa, il diritto di essere presente ed attiva nella città; gli effetti positivi di questo governo esalterebbero la libertà dei cittadini, accrescerebbero la partecipazione alla vita pubblica, mobiliterebbero le energie della collettività, che verrebbero quindi rivolte verso conquiste esterne??. Il Discursus 3 Sottolinea giustamente Giuseppe Cambiano che l’espansione veniva considerata da Machiavelli “una necessità ineludibile, se si voleva assicurare la
durata della repubblica, nella quale tutti gli umori potessero trovare adeguato soddisfacimento dei loro bisogni e appetiti” (Polis. Un modello per la cultura europea, Roma-Bari 2000, p. 87). Su questo punto importantissimo vedi i più recenti contributi: V.B. Sullivan, Machiavelli, Hobbes, and a Liberal Republi-
canism in England (Cambridge University Press 2004); M. Hòrnquist, Machiavelli and Empire (Cambridge University Press 2004), ed ancora, il saggio di C. Ion, Conquérir, fonder, se maintenir, in Lectures de Machiavel, a cura di M. Gaille-Nikodimov et Th. Ménissier (Paris 2006), pp. 93-128.
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florentinarum rerum chiude significativamente con l’affermazione che il vivere libero e civile della città consiste nel fatto che “ciascuno saperrà quello ch’egli abbi a fare, e in che gli abbi a confidare; e che nessuno grado di cittadino, o per paura di sé o per ambizione, abbi a desiderare innovazione”. Per introdurre l'effettiva ed utile innovazione — per porre rimedio alla corruzione crescente e finalizzata a mantenere fermi, stabili, gli ordini istituzionali della città — il contributo decisivo del cittadino consiste nell’avere capacità di autodisciplina: solo percorrendo positivamente le possibilità offerte dalla partecipazione alla vita civile si potrà consentire di “ordinare lo stato in modo, che per se medesimo si amministri” (DFR 31).
7. La storia delle divisioni in Firenze: tra mala contentezza e contenzioni
Nelle Istorie fiorentine le semantiche di contento/malcontento costituiscono uno dei criteri principali per descrivere 1 percorsi travagliati della storia di Firenze e le sofferenze interiori dei fiorentini?*. Nel proemio al primo libro, prima di dare avvio alla narrazione storica, Machiavelli differenzia e motiva la propria impostazione storiografica — in particolare, rispetto alle opere di Leonardo Bruni e di Poggio Bracciolini — proprio nell’intendimento di contribuire a rappresentare i danni provenienti dagli antagonismi interni alla città e, per converso, ribadire la necessità del mantenersi uniti: 34 Secondo Hans Baron in quest'opera Machiavelli descriverebbe la storia di Firenze “in the melancholy light in wich it was to appear as the sixteenth century advanced”: vedi Machiavelli: the Republican Citizen and the Author of ‘The Prince’, in In search of Florentine Civc Humanism (Princeton University Press 1988), p. 250: dissento rispetto a questa caratterizzazione malinconica del lavoro storiografico del segretario fiorentino nell’ultima parte della sua vita; in realtà, Machiavelli vive e descrive il senso della mala contentezza,
della stessa depressione malinconica, attraverso le modalità diverse delle semantiche che ho cercato di descrivere come fondamento della sua antropologia; questo accade in tutti i suoi scritti: ancora nelle Istorie fiorentine quel registro critico torna come uno degli elementi centrali di uno straordinario dispositivo storiografico.
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la maggior parte delle altre repubbliche delle quali si ha qualche notizia sono state contente d’una divisione, con la quale, secondo gli accidenti, hanno ora accresciuta, ora rovinata la città loro; ma Firenze, non contenta d’una, ne ha fatte molte...; di Firenze in prima si divisono intra loro i nobili, dipoi i nobili e il popolo, e in ultimo il popolo e la plebe; e molte volte occorse che una di queste parti, rimasa superiore, si divise in due: dalle quali divisioni ne nacquero tante morti tanti esili, tante destruzioni di famiglie, quante mai ne nascessero in alcuna città della quale si abbia memoria (ZF proemio, 632).
La riflessione storiografica rafforza ed arricchisce la riflessione teorica machiavelliana sui conflitti; in particolare, due elementi vengono col tempo a costituire una sicura acquisizione: per un verso, Machiavelli vuole ribadire che solo la contesa costruttiva tra le parti rende possibile il benessere della città ed il suo ulteriore ampliamento attraverso la conquista, così come avvenne per la repubblica romana; peraltro, a fronte dei pericoli provenienti dall’esterno e se non si vuole favorire il nemico, bisogna in tempo porre termine ai conflitti interni.
Nella sua opera storiografica, Machiavelli utilizzerà continuamente le espressioni mala contentezza/malcontento per significare lo scorrimento di quegli umori negativi per la città, attraverso cui si sono consumati sanguinosi conflitti. Nelle Zstorie fiorentine, Machiavelli intende descrivere le profonde divisioni che non consentirono pace e benessere duraturo alla città: “di Firenze in prima si divisono intra loro i nobili, di poi i nobili e il popolo, e in ultimo il popolo e la plebe” (ibidem). In effetti, la presenza di diversi soggetti collettivi, tra loro in conflitto, costituisce la chiave dell’esposizione della storia di Firenze: verso la metà del secolo XIII si dividono guelfi e ghibellini (dopo le battaglie di Benevento e Campaldino); quindi con gli ordinamenti di Giano della Bella (del 1293), la disunione dei nobili spinge il ceto popolare ad un ruolo più attivo; ancora, la contrapposizione tra Ricci ed Albizzi favorisce la divisione tra popolo grasso e popolo minuto; infine, con la rivolta dei Ciompi nel 1378 si consuma la divisione tra arti minori e plebe. Ecco quindi il registro delle sofferenze, della mala contentezza, che incessantemente,
da sempre, assillano la vita dei fiorentini: — nel periodo del conflitto tra Bianchi e Neri, a fine del Due62
cento, “Rimase per tanto in Firenze l’una e l’altra parte, e ciascuna malcontenta: i Neri, per vedersi la parte nemica appresso, temevano che la non ripigliasse, con la loro rovina, la perduta autorità; e i Bianchi si vedevano mancare della autorità e onori loro” (ZF II 20, 670);
— mal contenti sono i Grandi — le famiglie dei Peruzzi, Acciaiuoli, Antellesi e Buonaccorsi — che negli anni Quaranta del secolo seguente operano al fine dell’inasprimento in città della signoria di Gualtieri, duca di Atene; ancora malcontenti sono i Grandi e il popolo minuto negli avvenimenti immediatamente successivi: i primi a causa del cambiamento degli organi di governo operato in favore del popolo, quest’ultimo per la fame conseguente al periodo di carestia; “si sarebbe la città posata, se 1 Grandi — scrive Machiavelli — fussero stati contenti a vivere con quella modestia che nella vita civile si richiede; ma eglino il contrario operavano; perché, privati, non volevono compagni, e ne’ | magistrati volevono essere signori; e ogni giorno nasceva qualche esempio della loro insolenzia e superbia: la qual cosa al popolo dispiaceva” (ZF II, 33 e 40, 681 e 688; II 38, 688);
— negli avvenimenti legati alla rivolta dei Ciompi ed in quelli immediatamente successivi al 1378 gli umori delle parti portano ai tumulti ed ai romori provocati dai soggetti non contenti appartenenti alle Arti ed all’infima plebe (ZF III 9-12, 696-700); — a fine degli anni Novanta, Donato Acciaiuoli si pone contro i provvedimenti imposti da Maso degli Albizzi in quanto, “non poteva intra tanti mali contenti vivere bene contento, né recarsi, come i più fanno, il comune danno a privato commodo”; in seguito, i malcontenti in Firenze affiancano ed appoggiano gli sbanditi di fuora che operano per assassinare Maso degli Albizzi e chiamare il popolo alle armi, anch’esso mal contento (ZF III
Ibi),
— sulla mala contentezza dei prelati e dei baroni fonda Stefano Porcari, a metà Quattrocento, il tentativo non riuscito di riportare lo Stato della Chiesa nello antico vivere (IF VI 29, 785);
— malcontenta, e pure infedele, èquella moltitudine che dapprima appoggia Girolamo Olgiato nella congiura organizzata al fine di uccidere il crudele Duca Galeazzo a Milano, per poi abbandonarlo dopo che la congiura viene scoperta (ZF VII 33, 817). 63
In breve, questi passaggi delle Istorie fiorentine attestano ancora la ferma convinzione di Machiavelli secondo cui gli umori dei malcontenti attraversano la storia di Firenze, mettendo a ri-
schio il bene maggiore della città, la sua libertà. Il giudizioè netto; disunioni e inimicizie in Firenze assumono sempre la forma di sette e fazioni tra loro antagoniste, che operano a danno della città: nelle vittorie del popolo la città di Roma più virtuosa diventava; perché, potendo ipopolani essere alla amministrazione de’ magistrati, degli eserciti e degli imperii con i nobili preposti, di quella medesima virtù che erano quelli si riempievano, e quella città, crescendovi la virtù,
cresceva potenza; ma in Firenze, vincendo il popolo, i nobili privi de’ magistrati rimanevano; € volendo racquistargli, era loro necessario, con i governi, con lo animo e con il modo del vivere, simili ai popolani non solamente essere, ma parere. Di qui nasceva le variazioni delle insegne, le mutazioni de’ tituli delle famiglie, che i nobili, per parere di popolo, facevano; tanto che quella virtù delle armi e generosità d’animo che era nella nobiltà si spegneva, e nel popolo, dove la non era, non si poteva raccendere; tal che Firenze sempre più umile e abietto divenne (ZF III 1, 690-691).
Bisogna allora frenare quegli umori negativi che provocano disunioni e fazioni contrapposte: non con la forza e neppure alla maniera di Cosimo, che ridusse di fatto la libera partecipazione dei cittadini alla vita civile di Firenze, dal momento che face-
va in modo di “lasciare ire la cosa e con il tempo fare a’ suoi amici cognoscere che non a lui, ma a loro propri, lo stato e la reputazione toglievano... Riduttasi pertanto la città a creare i magistrati a sorte, pareva alla universalità de’ cittadini avere riavuta la sua libertà” (ZF VII 1, 793). È importante, i in detiniitiva che gli umori de’ nobili e de’ popolani si quietino, laddove i primi pretendono di governare con la servità e i secondi con la licenza (IF IV 1, 715); non si può affidare il governo agli insolenti o agli sciocchi che intendono innovare solo al fine di incrementare la disunione e il disordine: il risultato sarebbe quello di annullare la funzione importante della politica e far precipitare i contrasti sul piano irrimediabile degli interessi dei privati cittadini.
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CAPITOLO SECONDO Contentment e contention:
Hobbes si confronta con Machiavelli
Per Machiavelli, così come per Hobbes, le semantiche legate ai termini di contentezza/contentment — analizzati in rapporto a quelli di contenzioni/contentions — costituiscono un elemento | centrale della riflessione antropologica: si tratta di indagare a quali condizioni gli individui rendono se stessi contenti, soddisfatti della propria situazione di libertà e di sicurezza nella presenza. Tuttavia, come vedremo, in esplicita contraddizione rispetto agli elementi naturalistici che Machiavelli riprende dalla filosofia classica, il progetto teorico viene indirizzato da Hobbes ad istruire un discorso politico che intende mostrare come risulti possibile contenere gli individui — ed il dannoso esercizio delle private opinions — utilizzando nella produzione della comunità politica l’efficace novità di una strumentazione completamente artificiale. 1. Contentment
e contention secondo Thomas
Hobbes: i
dati del problema Conviene dapprima rimanere informati del quadro complessivo che rappresenta la misura dei richiami che Hobbes fa di quelle espressioni, almeno nelle seguenti opere: Three discourses (TD), Elements of law natural and politic (E), De cive (DC), Leviathan (L); ecco di seguito le presenze di quei termini, a partire da contentment — con le correlate articolazioni oppositive content/discontent e contented/discontented — fino a contention: 65
contentment TD: 47 E: 28, 30
L: XV 203/207, XXVIII 355, XXX 376, XLVII 704 content
TD: 35, 37 (2), 38, 39, 42, 47, 48 (2), 51, 53 DC: 237 L: XI 1615 XIV: 195; XV 211, XXIX :364/369#XLII:557; XIV 677, XLVI 700 discontent Es168 416917041751 I: XII:kZ8, XNVIIILAS6I
182
contented TD: 44, Ed 4097102175 DC: 113
L:.X1-161/162, XIII.184, XIV. 190, XV-208X-VIM:231: 368, XXX 394
DOT
discontented Eat 75
DG:131
L: XIX 240, XXXVIII 489, conclusion 728 contention:
TD: 42, 47 E: 34, 47, 63, 102, 143, 169 DG: 27:(2) 30131, 46,521.80..176 L: V 117, XI 161/163, XII 174, XIV 195, XIX 244 (2), XXVI 321} (XXVI I:L362a DSS 389/390 pg) DDA 4810000 565/583/594, XLV 680, conclusion 718.
66
Three Disc.
Elements
De cive
Leviathan
Contentment Content Discontent
1 11
2 1
5 8 2
Contented Discontented Contention
1
4 1
1
8 3
2
6
8
I,
6
Qualche breve considerazione di partenza: — le due polarità semantiche sono dovunque presenti ed operano secondo forme discorsive interrelate;
— l'utilizzo del complesso contentment/contention assume la forma d’intervento di un dispositivo specificamene retorico, rivolto a sostenere particolari fini argomentativi (innanzitutto, la necessità della costruzione dello Stato Leviatano); non a caso, la
presenza di minore rilievo è quella che incontriamo nel De cive, opera che intende argomentare l’istituzione del potere impersonale di sovranità secondo l’univocità del modello espositivo di tipo geometrico; — lo sviluppo argomentativo legato alla specifica voce di contentement (quindi, content/discontent; contented/discontented) è
diffusa in misura omogenea in tutti gli scritti politici di Hobbes; — l’articolazione e l’arricchimento della voce contention procedono in forma crescente, fino a raggiungere l’utilizzo più numeroso nel Leviathan: forse in corrispondenza del rilievo che Hobbes assegna via via al tema dei conflitti all’interno del proprio discorso politico, motivato dall’urgenza storica imposta dagli avvenimenti inglesi; — nel Leviathan incontriamo il maggiore ed organico utilizzo del dispositivo semantico contentment/contention.
2. Bacon legge Machiavelli Prima di approfondire le semantiche delle categorie di contentment/contention — e lo sviluppo delle loro relazioni — nel 67
pensiero di Hobbes bisogna effettuare un obbligato passaggio attraverso gli scritti di Francis Bacon, il cui contributo teorico fu di enorme importanza per la cultura civile inglese del primo Seicento e decisivo per la formazione del giovane Hobbes. Il testo di riferimento è uno degli Essayes, e particolarmente quello dedicato al tema Of Seditions and Troubles, in cui Bacon tratta delle cause delle rivolte. Seditions, troubles, ma ancora discords,
quarrelle, factions; questi movimenti di rivolta sono diretti contro il government realizzato dall’autorità politica e possono essere ricondotti a due motivi principali: Much Powerty e Much Discontentment>. Troviamo allora nel saggio baconiano il complesso determinato delle semantiche relative alla coppia contentment/discontentment, in cui è facile riconoscere l’utilizzazione
della terminologia machiavelliana di contentezza e mala contentezza. Dunque Bacon riprende i.significati delle categorie machiavelliane; viene pure utilizzata la serie articolata dei termini che si riferiscono alle condizioni specifiche della mala contentezza che provoca sedizioni e rivolte; numerando le presenze: discontentment (7), discontent (1), discontented (Persons, Party) (3). Ancora, nelle diverse edizioni degli Essayes, si rivela la tendenza a sostituire il termine astratto discontentment con espressioni che richiamano gli individui concreti sofferenti (discontentes piuttosto che discontentment). Conviene pure ricordare che le tematiche relative all’uomo discontent sono richiamate nel saggio XXXVI dedicato alla categoria di ambizione (Of Ambition): in questo caso, in perfetta corrispondenza con le semantiche machiavelliane, è scontento l’uomo ambizioso che si trova contrariato nei suoi desideri (desires): questo argomento diventa il punto di partenza per dare espressione ad una precettistica determinata, attraverso cui Bacon problematizza su quale tipo di ambizioso possa
® Per il testo baconiano utilizzo l’edizione critica di Mario Melchionda,
in Gli “Essayes” di Francis Bacon. Studio critico introduttivo, testo critico e commento (Firenze 1979); il saggio XV, Of Seditions And Troubles, è alle pp. 250-256; nella trad. italiana a cura di E. De Mas, Scritti politici, giuridici e storici (Torino 1971), vol. I, pp. 346-354.
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ritornare utile al governo delle cose pubbliche, “good for the Publique”?9, Hobbes legge e commenta questi testi baconiani, affinando contemporaneamente la conoscenza delle opere e del pensiero di Machiavelli; certamente, egli conosce pure gli altri scritti baconiani, ed innanzitutto viene di riferire i due Books of the Proficience and Advancement of Learning (1605), in cui Bacon esprime in più luoghi la propria ammirazione per il segretario fiorentino, anche se questi viene sottoposto ad esplicita critica per la spregiudicatezza dei suoi precetti di governo. Un altro passaggio di sicuro interesse filologico riguarda il testo intitolato Of Ambition inserito nella raccolta di saggi contenuta nel manoscritto ritrovato a Chatsworth (nel Derbyshire, una residenza della famiglia dei Cavendish), pubblicato col titolo Horae subsecivae nel 1620, in forma anonima per interesse di Edward Blount: questo scritto viene pure attribuito a Hobbes, in ogni caso proviene dall’ambiente culturale in cui egli vive. In questo saggio risulta con evidenza la presenza di semantiche relative a contentezza/mala contentezza; infatti, incontriamo le
espressioni contentement e content, e significativamente il soggetto malcontento viene definito malecontent. L’uomo ambizioso è raffigurato come il soggetto dedito all’esercizio della virtù (virtue) e deve fare i conti con la fortuna (fortune): lo scacco dei suoi desideri comporta un’incidenza negativa sulla comunità, che assume le forme delle sedizioni (seditious and trecherous attempts). In modo diretto l’essere malcontento viene collegato allo svolgersi dei conflitti che sono dannosi allo stato: “Conten-
tion is most pernitious to all well ordered governments”?7. Addirittura impressionante è l’avvio del saggio, che riporta a contesti determinati della nuova antropologia hobbesiana; in partenza, l'ambizione viene sinteticamente così definita:
36 Il testo di questo saggio è alle pp. 319-320 del volume di M. Melchionda, Gli “Essayes” di Francis Bacon, cit.; trad. cit. pp. 424-426. 37 Per gli Essayes contenuti nelle Horae subsecivae faccio riferimento all'edizione critica curata da FO. Wolf, in Hobbes neue Wissenschaft (Stutt-
gart-Bad Cannstatt 1969); la citazione sopra riportata è alla p. 142.
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It is an unlimited desire never satisfyed; a Continual proiectinge without stop: an undefatigable ‘search of those thinges wee wish for though want not: no Contentment in a present state eyther fortunate or prosperous. An ambitious man is in a Kind of Continuall perambulation, or perpetuall Courtingeof advancement?8.
Questa espressione appare vicina al testo machiavelliano dei Discorsi (I, 37); in effetti, sembra che Hobbes riprenda le semantiche machiavelliane relative all’ambizione come attività in-
cessante posta in essere dal desiderio; in particolare, il filosofo inglese intende sottolineare l’impossibilità di raggiungere e rendere stabile una condizione pure minima di contentezza.
3. Contentment e contention nelle opere di Thomas Hobbes Three Discourses Ì In uno dei Three discourses pure presenti nelle Horae subsecivae, A Discourse upon the beginning of Tacitus — scritto da attribuire con fondate motivazioni a Hobbes? — pure incontriamo l’utilizzo del complesso categoriale che vede al centro la categoria di contentment; questa viene usata per rappresentare il comportamento dei potenti, senatori e ricchi che, secondo il giudizio di Tacito, preferiscono appoggiare la supremazia politica realizzata da Cesare Augusto, all’indomani della sconfitta di Antonio e Lepido: For Civil War is commodious for none but desperate unthrifts, that they may cut their Creditors’ throats without fear of the gallows; men against whom the Law, and the sword of Justice makes a fearful war,
Ty; D; 139% 39 I Three Discourses, contenuti nelle Horae subsecivae, sono stata curati
da Arlene W. Saxonhouse in un importante lavoro che riproduce pure la ricerca realizzata insieme con Noel B. Reynolds — con strumenti statistici di analisi testuale — al fine dell’identificazione e dell’attribuzione del testo a Hobbes: vedi Th. Hobbes, Three Discourses. A critical Modern edition of Newly Identified Work of the Young Hobbes (University Chicago Press 1995). I discorsi sono A Discourse upon the beginning of Tacitus (abbr. TDT), A Discourse of Rome (abbr. TDR) e A Discourse of Laws (abbr. TDL).
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in time of peace. But the rich, and such as were in love of titles of honor, found more ease and contentment here, than they could expect in
the Civil War, and did accept the present with security, rather than strive for the old, with danger (7DT 47).
AI centro del richiamo all’opera tacitiana è l’attenzione all’evento della guerra civile nella fase di crisi e di cambiamento del governo repubblicano in Roma: quindi, il riferimento alla condizione di contentezza, di soddisfazione, degli uomini potenti e ricchi che trovano preferibile accettare la situazione presente di sicurezza indotta dall’intervento di Augusto, piuttosto che tentare — con il rischio della lotta — di ripristinare le forme del governo repubblicano. Gli elementi semantici utilizzati da Hobbes derivano certamente, da un canto, dalla tradizione interpretativa dei tacitismi sviluppatisi dalla fine del Cinquecento in Italia ed in Europa; su questo versante di discorso politico, in questo stesso testo troviamo una precisa definizione di quell’arte di go. verno (Art of government) costituita dall’elaborazione originale dell’aristotelismo politico, prodotta dalla fine del Quattrocento nelle regioni italiane, che apre alla pratiche ed al lessico della moderna arte dello stato: “the Art of conforming to times, and places, and persons, and consists much in a temperate conversation, and ability upon just cause, to contain and dissemble his passions, and purposes” (7D7 57). Dalla civil conversazione alle tecniche di nascondimento codificate dagli scrittori di ragion di Stato4°: Hobbes dimostra di essere bene informato dei dispositivi dell’arte politica della prudenza, il cui fine principale è quello di contenere (to contain) passioni ed istinti che provengono dagli umori diversi della città*!. Dall'altro lato, ancora in questo preciso contesto, viene richiamato il complesso dispositivo semantico contentezza/contenzioni elaborato da Machiavelli: in effetti, Hobbes specifica che della nuova situazione creata-
4° Anche nell’altro testo appartenente alle Horae subsecivae — A Discourse of Laws — Hobbes dimostra di conoscere bene tempi e percorsi della trattatistica della civil conversazione, che viene esplicitamente richiamata (TDL 107
e 111).
41 Hobbes utilizza il termine humor nelle pp. 37 e 48.
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si in Roma sono contente le stesse province — di cui numero e grandezza costituiscono il fulcro della gloria di Roma — poiché con il nuovo assetto politico possono essere risolti molteplici conflitti indotti dalle regole stabilite dalla costituzione repubblicana: “Therefore it is better for a province to be subject to one, though an evil master, than to a potent, if factious, Republic”
(TDT 48). AI tema del passaggio dalla Republic alla condizione del governo monarchico a Roma è senza dubbio interessato Hobbes a motivo delle tensioni vissute in Inghilterra tra le parti che possiamo sinteticamente definire di King e Parliament. Augusto ha conquistato con la forza il potere, ponendo termine al conflitto interno ed introducendo un’alterazione profonda degli assetti istituzionali: realizza questo obiettivo puntando sul consenso del popolo (love of the people, TDT 38), vale a dire delle parti influenti della città; egli ha profonda consapevolezza che i conflitti maggiori interni alla città sono prodotti dall’insoddisfazione dei miseri, disponibili a qualsiasi impresa che possa migliorare la propria condizione, e soprattutto dall’ insofferenza degli uomini ambiziosi: The manifold miseries that do accompany Civil Wars, and the extreme weakness which follows them, do commonly so deject and expose a State to the prey of ambitious men, that if they lose not their liberty, it is only for want of one that has the courage to take the advantage of their debility. And when a mighty and free people, is subdued to the
tiranny of one man, it is for the most part after some long and bloody Civil War. For civil war is the worst thing that can happen to a State (TDIS7).
Augusto ha introdotto novità con saggezza, evitando inutili pericoli. Egli ha utilizzato gli strumenti propri dell’arte retorica, impegnando tecniche di lessico e di comportamenti finalizzate a “avoid those names of authority” che avrebbero potuto dare eccessivo, e pericoloso, rilievo al profondo cambiamento politico realizzato. Inoltre, Augusto è stato in grado di esercitare quella capacità di “contain himself, and stay for his desires” (DT 43 e 45) che risulta condizionale per contenere gli istinti negativi dei sudditi. Come suggeriva Machiavelli, bisogna introdurre i 72
cambiamenti poco alla volta e perseguendo modalità temperate d’attuazione; soprattutto, si tratta di rendere gli individui contenti della situazione presente di sicurezza e di benessere. Ed in effetti, in questo testo il filosofo inglese utilizza il complesso semantico contentment/contention puntando il proprio interesse sugli elementi della psicologia individuale, considerati come dati preliminari allo svolgimento del discorso politico*. Ancora in un luogo, poi, Hobbes sembra riprendere e tradurre il famoso punto machiavelliano di Discorsi, I, 37, dedicato alla mala con-
tentezza: Every man that followed Augustus in his strenght, now in the declining of his age turn their eyes upon the next change: for those who had fortunes under Augustus, desired the conservation of them at the hand of the next; and those that had none, began now to hope for estates and honors, under his Successor. All men being of this condition, that desire and hope of good more effects them than fruition: for this induces satiety; but hope is a whetstone to men’s desires, and will not suffer them to languish (7D7 55).
Hobbes sembra impegnato in un lavoro di reinterpretazione di Machiavelli, che lo spingerebbe negli scritti successivi a realizzare una distanza ed una diversità di argomentazioni rispetto al pensiero del segretario fiorentino. Egli sostiene che — nella vita ordinaria delle comunità civili - accadono necessariamente eventi di cambiamento in cui i soggetti intervengono con finalità di conservazione dei benefici acquisiti, oppure con l’intento di realizzare ambiziosi progetti e di ottenere quei riconoscimenti non soddisfatti. Ed in effetti, spiega Hobbes — con uno stile che risulta nella forma letteraria vicino a quello machiavelliano — desiderio e speranza di ottenere qualcosa consistono di una vita autonoma che non si accontenta della fruizione di quanto è stato già realizzato, poiché il normale godimento delle cose induce sazietà e noia (stucca gli individui, avrebbe detto Machiavelli); la
speranza infatti accresce ed affina i desideri, e non sopporta che 42 La Saxonhouse segnala l’utilizzo continuo del termine content nel discorso su Tacito, senza peraltro spiegarne i motivi; annota anche che il termine vale a significare satisfaction (TDT 37, nota 17).
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quelli languiscano. Di qui la produzione di desideri eccessivi — exorbitant desires, specificherà Hobbes nel Discowrse of Laws (TDL 107) - da parte degli ambiziosi, di chi esercita a vazrglorious, and uncostaint brain (TDT 45): l'ambizione pone quindi gli individui nella condizione dell’insoddisfazione ed in quello stato di sofferenza mentale che costituisce la principale causa dei conflitti. Nei confronti di questi soggetti bisogna intervenire con una funzione pubblica di contenimento, reprimerne l’audacia (repress audacity), imbrigliarne gli eccessi; ritorna di frequente la classica metafora ippologica dell’inevitabile ricorso alle briglie (bridles) per gli unbridled spirits: There is no doubt but that Laws were at the first invented, as well to
give rules to the good, that they might know how to live peaceably and regularly one with another, as to repress the audacity of those unbridled spirits who, in despite of discipline and reason, do trust themselves into all kinds of outrage and disorder; from wich bad cause notwithstanding, according to old rule, a gdod effect is produced: ex malis, bonae leges oriunture (TDT 111).
Hobbes richiama ancora in questi scritti i percorsi della filosofia politica classica: dalla concezione platonica ed aristotelica della città considerata come un corpo naturale, soggetta quindi a sviluppo, a malattie (diseases, TDL 115) ed alla morte (decay and dissolution; TDL 109), fino alle teorie degli umori che tro-
vavano svolgimento nel pensiero politico degli scrittori del Rinascimento italiano, ed in particolare dello stesso Machiavelli. La funzione di contentment sta quindi a segnalare la necessità del contenimento per gli eccessi nei comportamenti degli ambiziosi: questi si sottraggono alla disciplina della virtù della temperanza, causando i conflitti (contention) principali nella comunità, negando il bene comune e pubblico (public good, TDL 113). Contentment è considerata positiva contentezza se riferita alla condizione di una vita che ciascun soggetto vuole vivere in sicurezza, in pace, ed in più con dotazioni moderate di beni che
4 Ancora nel Discourse of Laws: “In wich respect, Laws be the strongest sinews of human society, helps for such as may overborn, and bridles to them that would oppress” (TDL 110).
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possano garantire la conservazione fisica. In questa fase della riflessione hobbesiana, l’adesione agli sviluppi semantici offerti da Machiavelli al complesso categoriale (mala)contentezza/contentioni appare completa; conviene comunque sottolineare qualche particolare diverso accento che Hobbes imprime ai significati delle connessioni teoriche di contentment/contention. Innanzitutto, l’autore insiste sul carattere interminabile del-
l’attività desiderante, che in permanenza sollecita gli individui verso l'accumulo di quei beni che possono garantire conservazione e sicurezza. Machiavelli restava impegnato a sottolineare gli elementi di aleatorietà e di inanità degli sforzi degli uomini rivolti a desiderare tanto, tuttavia posti in quella condizione esistenziale di potere realizzare una percentuale minima dei propri desideri, ed inoltre denunciava con nettezza la contrapposizione tra il perseguimento dell’utile privato e la realizzazione del bene pubblico comune. Dal canto suo, Hobbes sembra volere argomentare la diversa considerazione secondo cui gli uomini sono “comunque in grado di produrre beni particolari, interessi privati, che possono relazionarsi positivamente alla funzione del bene pubblico comune: The impulsive causes in the making of provisional Laws, are either love of their Country, or desire of glory, or affectation of popularity, or sometimes particular interest, and private respect; for it often happens, that a private good may have connection with the public (TDL
112)*4.
4 Per questi aspetti Hobbes è più vicino all’elaborazione boteriana delle ragioni degli Stati come ragioni degli interessi, che costituiscono il positivo legame tra comunità politica e sfera privata; in particolare per l’opera di Botero vedi il mio lavoro Ragion di Stato e Leviatano, cit., p. 86. Con un suo recente
intervento Noel Malcom offre un ulteriore dato che attesta la sicura approfondita conoscenza hobbesiana delle scritture di ragion di Stato: si tratta della versione in inglese, fatta da Hobbes quasi sicuramente nel 1627, di un pamphlet in lingua latina che circolava in Europa agli inizi della Guerra dei trent’anni, Altera secretissima instructio; vedi N. Malcom, Reason of State, Propaganda, and the Thirthy Years” War (Oxford University Press 2007); il saggio di Malcom ‘Reason of State’ and Hobbes — in verità non molto informato sulla più recente saggistica critica dedicata al tema in oggetto — è alle pp. 92-123.
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Inoltre, in questi scritti, Hobbes sembra essere poco interessato alla distinzione machiavelliana di Repubblica/Principato: piuttosto egli richiama la principale divisione tra Republic e Monarchy (sicuramente per l’attenzione rivolta innanzitutto alle condizioni dello scontro in atto in Inghilterra). Secondo Machiavelli, i processi di realizzazione delle due forme principali di governo sono legati alla misura dell’intensità dei conflitti in atto, per cui — come sappiamo — il Principato diventa forma di governo inevitabile nella presenza di conflitti acuti ed indivisibili, da realizzare peraltro sempre sotto la forma del consenso civile dei sudditi, mentre la forma repubblicana garantisce — grazie alla partecipazione diretta dei cittadini al governo — libertà e sicurezza dell’esistenza. Dal canto suo, Hobbes sembra riferire alla
repubblica (sotto specie della storia repubblicana di Roma) la caratteristica di una debolezza intrinseca, che induce fatalmente
al disordine e che per conseguenza rende inevitabile la concentrazione del potere nel governo monarchico.
Elements Negli Elements, il significato di contentment viene posto all’inizio dello svolgimento dei capitoli dedicati alle pratiche umane, alla filosofia morale, immediatamente dopo aver trattato della categoria di movimento (motion) negli effetti dei procedimenti conoscitivi: Nell’ottava sezione del secondo capitolo si mostra come i concetti o apparimenti non siano nulla di reale, se non moto in qualche sostanza
interna del capo; e poiché tale moto non si ferma lì, ma prosegue fino al cuore, necessariamente esso deve, o assecondarvi o contrastarvi quel
movimento che si chiama vitale; quando lo asseconda è detto piacere, contentezza o diletto (DELIGHT, contentment, or pleasure), che non è nulla di reale se non moto intorno al cuore, così come il concetto non
è altro che moto interno al capo (E 28, it 49).
In una prospettiva concettuale di pieno materialismo, contentment diviene il principale registro semantico di ciò che accade agli uomini allorquando il movimento vitale trova completo appagamento in conseguenza di una sollecitazione esterna che avrà dunque prodotto piacere (delight), appagamento; in riferi76
mento all’oggetto dello stimolo, ne può derivare amore (love) oppure negativamente dolore (pain) a seconda che il moto venga appunto a soddisfare oppure a contrastare il movimento vitale. Di qui gli sviluppi del meccanismo d’appetito (appetite) oppure d’avversione (aversion) che ciascun essere umano vive a fronte delle sollecitazioni provenienti dagli oggetti esterni; inoltre, mentre la presenza dell’oggetto qualifica i sentimenti di love o hatred, l'assenza dell’oggetto rinvia ad un’aspettativa futura che viene a costituire i sentimenti di desire o aversion. Contentment è quindi pienezza di piacere vissuta dai soggetti nel presente, con l’ulteriore articolazione secondo cui tale contentez-
za*> consiste in un processo continuo ed interminabile: Poiché ogni piacere è un appetito, e l’appetito presuppone un fine più lontano, non vi può essere contentezza (contentment) se non nel continuarlo a desiderare: e quindi non dobbiamo meravigliarci, quando vediamo che quanto più gli uomini ottengono ricchezze, onori o altro . potere, tanto più il loro appetito continuamente cresce; e quando essi sono giunti all'estremo grado di un tipo di potere, ne perseguono qualche altro, persistendo in un tipo, fino a che pensino di essere inferiori a qualcun altro (£ 30, it 52).
Hobbes pone le semantiche di contentment alla base delle dinamiche della produzione dei poteri individuali: a partire da questo punto poi viene sviluppata la teoria delle passioni*9; in effetti, contentezza consiste nella condizione di appagamento vissuto dall’individuo che passa dall’acquisizione di un bene all’altro secondo sequenze positive: in breve, processo interminabile ed inarrestabile di produzione di poteri. Risulta qui evidente che il punto di partenza del nuovo discorso antropologico hobbesiano è costituito dall’insoddisfacibilità della cupiditas naturale: il filosofo vuol dire che non vi può essere nell’agire umano una condizione statica, misurata, di contentezza, dal momento che la
felicità umana — come esprimerà con una splendida espressione nel Leviathan — consiste in quella “generall inclination of all 45 Particolarmente riuscita da parte di Pacchi — nella versione italiana degli Elements — la traduzione di contentment come contentezza. 4 Nell’esposizione del Leviathan accadrà esattamente l’inverso.
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mankind, a perpetuall and restless desire of Power after power, that ceaseth onely in Death” (L 161, it 94). La struttura del desiderio consiste nella processualità temporale della tensione permanente che non si pone limiti: contentezza non è dunque acquisizione terminale di una condizione di benessere nella presenza, poiché la felicità consiste appunto nel desiderio interminabile di accrescere il proprio potere. Hobbes collega la capacità naturale di produrre poteri alla condizione di benessere o di turbamento della mente del singolo individuo: contemporaneamente, la produzione dei poteri da parte dei singoli viene considerata un processo temporale indefinito. I poteri stessi acquisiscono le caratteristiche del meccanicismo fondato sui princìpi della categoria di estensione propria della geometria euclidea: i poteri naturali umani, quelli originali, sono continui, omogenei ed isotropici; affianco a questi si apre la serie dei poteri artificiali, acquisiti. Inoltre, èla natura propria di questo processo temporale infinito a costituire la radice delle contentions, dei conflitti:
Per questo potere, io intendo la stessa cosa che le facoltà del corpo e della mente menzionate nel primo capitolo, vale a dire, per il corpo, la nutritiva, la generativa, la motiva; e per la mente, la conoscenza. E ol-
tre a queste, quegli altri poteri, grazie ai quali esse vengono acquisite (cioè) ricchezze, posti autorevoli, amicizia o favore, e buona fortuna;
la quale ultima non è altro che il favore di Dio onnipotente. I contrari di questi poteri sono debolezze, infermità, o difetti rispettivamente dei poteri sopra detti. E poiché il potere di un uomo resiste agli effetti del potere di un altro e li contrasta, il potere assoluto non è altro che l’eccedenza del potere di uno sul potere di un altro. Infatti, uguali poteri si distruggono reciprocamente, e tale opposizione è chiamata conflitto (contention) (E 34, it 58-59).
I conflitti (contentions) sono contrasti, dinamiche oppositive, da intendere come urti tra forze, di potenza eguale ma opposta: essi derivano dalle caratteristiche naturali degli esseri umani, dal momento che ciascun individuo vive della costante tensione a produrre poteri con il consapevole intendimento di imporsi come eccesso e superiorità rispetto agli altri. Ed è il sentimento interiore di piacere per la nostra individuale capacità di produrre poteri a costituire la caratteristica propria dello stimolo positivo del desiderio: 78
La gloria, o sentimento interno di compiacenza o trionfo della merite, è quella passione che deriva dall’immaginazione o concetto del nostro potere, superiore al potere di colui che contrasta (contendetb) con noi
(E 36-37, it 63).
L'origine autentica dei conflitti èquindi da ricercare proprio in questa disposizione interiore, immaginativa o concettuale, a rimanere soddisfatti, contenti, dei poteri che riusciamo a realizzare secondo quel processo interminabile che ci spinge a renderci superiori agli altri: mentre coloro che si rendono consapevoli della propria incapacità soffrono quel turbamento mentale che è vera e propria prostrazione della mente (dejection), che produce timore e diffidenza verso gli altri; da qui provengono quei comportamenti di falsa gloria (false glory) o di vana gloria (vain glory) che pure troviamo alla radice dei conflitti. Nel suo primo scritto sistematico di cose civili, negli Elements, Hobbes ha dunque istruito un dispositivo teorico che utilizza gli elementi del discorso antropologico-psicologico come condizionale per lo svolgimento del progetto politico: una parte definita dell’articolazione espositiva è costituita dal complesso delle relazioni concettuali di contentment/contention. Nell’epistola dedicatoria dell’opera, il filosofo insiste sugli elementi di metodo e di scienza che lo hanno guidato nella presentazione del programma teorico e politico: specificando anzi che sicuramente inferiore è stata la sua attenzione per la retorica, vale a dire per gli sviluppi dello stile e dell’organizzazione espositiva dei materiali. Eppure, le modalità d’utilizzo delle chiavi concettuali sopra esposte ci pongono sull’avviso per alcuni precisi elementi: — nella composizione degli Elements, Hobbes attiva un lavoro costante di integrazione tra scienza e retorica: vale a dire che, da una parte, egli annuncia la novità del procedere geometrico nella costruzione del progetto politico, tuttavia non offre in modo sistematico un’esposizione prevalentemente scientifica dei contenuti della gnoseologia e della morale: piuttosto, l’articolazione espositiva della parte concernente l’uomo utilizza quel complesso di relazioni concettuali che deriva ancora dalla filosofia politica classica, dall’aristotelismo e da Machiavelli; in questo modo il filosofo cerca di offrire una misura n,
espositiva di equilibrio tra la materia retorica concernente la natura della ragione e dei comportamenti degli uomini con quelle istanze geometriche, di risonanza euclidea, che mirano
ad assegnare carattere di scienza geometrica alle argomentazioni civili e politiche; — al centro del percorso antropologico — abbiamo visto — operano gli svolgimenti delle dinamiche di contentment dell’individuo: questi viene considerato dapprima isolatamente come punto-forza di una produzione geometrica ed interminabile di poteri; quindi, ciascun soggetto viene descritto come necessariamente impegnato in relazioni inevitabilmente conflittuali; secondo questa modalità espositiva, la distanza da Machiavelli prende decisamente forma nell’argomentazione del primato assoluto di un individuo razionale, reso astratto dal vissuto con-
creto, umorale, della vita, e produttore di poteri inevitabilmente confliggenti, che traggono origine dalla dimensione naturale e privata delle singole esistenze; da queste singole figure prende avvio il processo del calcolo di ragione — e della stessa esposizione filosofica — che potrà loro consentire di intraprendere e perseguire l’itinerario che sfocerà nella dimensione della vita civile; — in questa scrittura degli Elements, Hobbes è pienamente consapevole di essere fondatore di un’antropologia nuova, che viene posta alla base di un programma politico determinato; si tratta dello sforzo di argomentare nella maniera più congrua un progetto complessivo che possa contribuire a risolvere lo scontro che dilania la società inglese: comincia in effetti qui a prendere forma quella categoria di sovranità che diventa termine della proposta politica finalizzata alle necessità della pace in Inghilterra e che rappresenterà una chiave concettuale di svolta all’interno dei processi di razionalizzazione degli eventi politici nella storia occidentale. Ancora un altro risultato viene realizzato da Hobbes negli Elements tramite l’utilizzo delle semantiche concettuali richiamate dalla categoria di contentment; l’intero capitolo ottavo viene dedicato infatti all’analisi del soggetto discontent considerato la causa principale delle ribellioni e delle guerre civili. L’individuo scontento o malcontento è colpito da una sofferenza corpo80
rale oppure mentale, prodotta dalla paura di un possibile danno futuro; egli infatti consiste o in una sofferenza corporale presente o futura o anche in un turbamento della mente (che è la divisione generale di piacere e dolore, Parte prima, cap. VII, sez. 9). La presenza di una sofferenza
corporale non dispone alla sedizione;lapaura di essa, sì. (E 169, it 238).
Hobbes richiama esplicitamente i fondamenti del discorso di contentment per significare che i soggetti malcontenti soffrono della paura di un danno futuro derivante da un turbamento della mente, e quindi reagiscono in modo preventivo a fronte dell’eventuale sofferenza. Ancora, lo scontento deriva dal senti-
mento di mancanza di potere o di onore di cui il soggetto si rende consapevole: l’altro tipo di scontento che turba la mente di coloro che per altri ri. spetti vivono tranquilli, senza paura di povertà, o pericolo di violenza, sorge unicamente dal senso della loro mancanza di potere (their want of that power), e di quell’onore e testimonianza di esso, che essi stimano sia loro dovuto (E 169, it 239).
Il sentimento di mancanza di potere si concretizza in quegli atteggiamenti di falsa gloria e di vana gloria che innescano le dinamiche di paura o di ambizione che sono alla base dei conflitti: discontent consisting in fear and ambition (E 170, it 240); gli
scontenti si rivolgono contro chi riesce invece ad esplicitare la propria capacità di produrre potere e si armano contro di loro (E 175, it 245). Essendo uomini di modesto giudizio e piuttosto buoni oratori, essi si esercitano nelle tecniche della retorica e so-
lamente nei governi democratici incontrano riconoscimenti alle loro infondate pretese (E 170, it 240). Bisogna quindi eliminare ogni possibile causa di malcontento, in particolare per quanto riguarda l’esercizio ordinario della giustizia, e provvedere al positivo contenimento dei sudditi: Oltre a quelle considerazioni, mediante le quali si previene lo scontento sorgente dall’oppressione, occorrono alcuni mezzi per tenere a fre-
no coloro che sono disposti alla ribellione per ambizione; e questi mezzi consistono principalmente nella costanza di chi detiene il pote81
re sovrano, che deve quindi costantemente onorare e incoraggiare coloro che, essendo abili nel servire lo stato, si mantengono nondimeno nei limiti della modestia (contain themselves within tha bounds of modesty) (E 182, it 253-254).
Hobbes pone quindi in luce la serie delle relazioni che vedono dispiegare le funzioni argomentative del complesso semantico contentement/contentions/discontent, istruito fin d’ora in forma completa: può quindi dedurre significative proposte sul piano direttamente politico. In definitiva, per porre rimedio ai conflitti derivanti dallo scontento,
che diventano
inevitabili
quando le fazioni — eguali nella forza — vengono in guerra, è necessario un monarca assoluto (absolute monarch; E 143, it 208), un potere straordinario (power extraordinary; E 182, it 253) che provveda ad estirpare dalle coscienze degli uomini tutte quelle opinioni che sembrano giustificare.o fornire una pretesa di diritto ad azioni ribelli (“rooting out from the consciences of men all those opinions which seem to justify and give pretence of right to rebellious actions”; E 183, it 254). Da qui segue l’elenco dei tipi di opinioni private che costituiscono secondo Hobbes motivi particolari di conflitto e di guerre civili, e che debbono essere eliminate in forma preventiva dai sovrani. A questo punto la distanza del programma politico hobbesiano rispetto a quello di Machiavelli diventa ancora più netta; non si tratta più di riconoscere gli scorrimenti di umori e sofferenze che provengono dalle parti diverse della città al fine di riportare sul piano della principale divisione politica i conflitti che ne derivano: piuttosto bisogna sottoporre al controllo dell’autorità politica e neutralizzare quelle opinioni degli individui — in particolare le opinioni private derivanti dall’adesione ad una professione religiosa determinata — che possono avere effetti di sedizione e di disordine. Ne deriva anche che non si può immaginare un ventaglio articolato e complesso di forme di governo idonee a rispondere adeguatamente alla misura determinata dei conflitti in atto: viene invece considerata indispensabile la creazione di un potere comune ed impersonale che svolga quelle funzioni di contenimento dei soggetti ribelli e di riconoscimento per gli individui che avranno dimostrato capacità di autodisciplina (to
contain themselves). Negli Elementes vengono dunque annun82
ciate le linee principali di un progetto politico di sovranità che s’intende sottoporre in Inghilterra all’attenzione della parte monarchica, impegnata a contrastare fronti diversi di ribellione. Le STA suscitate dal progetto annunciato in quest'opera convinceranno Hobbes a riparare prudentemente a Parigi. De cive Nell’organizzazione espositiva del De cive, la finalità della necessaria istituzione di un potere straordinario, concentrato in forma d’autorità suprema (Supreme Authority, Supreme Power), pone al centro i complessi risvolti delle relazioni tra comando ed obbedienza: il discorso scientifico è qui impegnato a dimostrare — nei termini oggettivi dello svolgimento proprio della nuova scienza della geometria politica — l’inevitabile produzione dei vincoli di obbedienza che debbono poter operare attraverso i termini giuridico-politici dell’obbligazione (obligation).Ènoto
che l’argomentazione hobbesiana prende avvio da quella forma estrema di paradosso secondo cui il punto di partenza del processo espositivo — posto nel riconoscimento dell’effettuale condizione originaria dell’eguaglianza naturale di tutti gli individui — viene messo in contraddizione con il fondamento della filosofia politica classica secondo cui “man to be born fit for Society”; già fin dalla nascita, secondo Hobbes, gli uomini evidenziano invece lo stato della radicale deprivazione, dell’indigenza, che so-
lo può trovare rimedio tramite le travagliate conquiste della civilizzazione: “man is made fit for Society not by Nature, but by Education” (Ce 44, it 82). Il passo originario è quindi posto nella divaricazione effettiva tra desiderio e capacità di realizzazione: “for it is one thing to desire, another to be in capacity fit for what we desire” (ibidem); diretta è la vicinanza alla nozione machiavelliana di mala contentezza, che viene peraltro sottoposta ad una radicale revisione semantica — come già abbiamo visto negli Elements, in quanto l’umana contentezza viene da Hobbes argomentata in termini di inarrestabile processo di produzione
di poteri. La ratio naturalis offre certamente all’uomo lo strumento per intenderei princìpi fondamentali che possono offrire conservazione e sicurezza alla vita: tuttavia, queste leggi naturali attestano una situazione di libertà originaria inutile ed ineffi83
cace per gli individui poiché solamente l’istituzione artificiale di una misura di giustizia (mensura iustorum et iniustorum) può
consentire di realizzare i benefici conseguenti agli effetti concreti della libertà positiva prodotta dall’autorità assoluta del dominion.
Nel De cive, il progetto politico hobbesiano — che vive della continua tensione tra sforzo dell’invenzione teorica ed attenzione rivolta al bisogno pratico-politico contemporaneo — distingue tra fondamenti di metodo ed esigenze poste dall’esposizione della particolare materia politica: nella prefazione ai lettori, Hobbes ribadisce che tra indago methodi e indago ordinis v'è distanza funzionale, tuttavia la scienza della politica è solo una parte del complesso istitutivo unitario dei saperi; vale a dire che — ancora in contrasto con gli assunti di principio della filosofia politica classica, aristotelica — la geometria politica rimane integrata ed impegnata in quel sistema espositivo unitario della scienza, reso possibile dagli stessi caratteri innegabili della natura fisica degli uomini che sono indotti con necessità geometrica a desiderare tutto quello che risulti di positivo vantaggio alla propria preservation: “ciascuno infatti è portato a desiderare (every man is desirous) ciò che per lui è bene, e a fuggire ciò che per lui è male, soprattutto il massimo dei mali naturali, che è la morte; e questo con una necessità naturale non minore di quella per cui una pietra va verso il basso” (Ce 47, it 84). Non sono sufficienti allora le tecniche puramente retoriche, idonee solamente a sollecitare le passioni verso alcuni interessi, poiché l’esposizione della materia politica deve essere fondata sui princìpi veri della logica propria della saggezza: la saggezza (wisdome) viene qui definita come the true knowledge of things, powerfull eloquence, capace di distogliere il popolo dalle innovazioni pericolose
(Ce 154, it 191).
In questo contesto, il complesso semantico contentment/ contention viene utilizzato secondo percorsi che rifiutano coerentemente la funzione descrittiva di un’antropologia fondata in prevalenza sulla psicologia: piuttosto Hobbes sembra interessato a richiamare quei significati del plesso semantico contenimento/conflitti per processi che prevedono ormai la centralità dell’artificio politico del Supreme Command. Per questo moti84
vo — attraverso il netto oltrepassamento delle argomentazioni tradizionali della politica come disciplina prudenziale del governo di sé/governo del popolo — Hobbes punta a descrivere le dinamiche produttive di un contenimento delle passioni degli individui, che sono appunto descritte come conatus naturali, movimenti di forze vive ed urti infiniti di corpi. Il processo politico artificiale prende fondamento nella stessa natura umana che — assumendo consapevolezza dei danni che possono essere indotti dai conflitti — innesca inevitabilmente movimenti rivolti con necessità alla produzione di un’unità politica che svolga la funzione di contenitore delle singole volontà, differenti e divergenti; allora, dalla moltitudine stessa prende avvio quel processo che porta alla costituzione politica unitaria di quel soggetto particolare che è il popolo: Nel capitolo V, paragrafo 9, lo Stato è definito come persona unica fatta da molti uomini, la cui volontà, in base ai loro patti, deve essere con-
siderata come le volontà di tutti loro... Una persona è unica quando le volontà di molti sono comprese nelle volontà di uno solo (contained in
the will of one; Ce 132, it 170). Le singole volontà dei cittadini sono comprese nella volontà dello stato (contained in the will of the City), così che se lo Stato vuole essere
libero da quell’obbligo, anche i cittadini lo vogliono; e quindi è libero
(Ce 148, it 184).
Contentment è quindi capacità di contenere i singoli individui — nei loro movimenti molteplici e conflittuali — non al fine di consentire libero scorrimento agli umori delle parti della città, dalla cui attiva e positiva competizione dipende la vita civile, come sosteneva Machiavelli; piuttosto, il potere necessariamente assegnato all’autorità suprema di produrre leggi civili rende contento, soddisfatto, il popolo per la realizzata produzione autoritativa che viene incontro alle necessità imposte dall’ordine civile: Se poi nella democrazia il popolo affida ad uno solo o a pochissimi le deliberazioni sulla guerra e la pace, e sulle leggi, accontentandosi della nomina dei magistrati e dei ministri pubblici, cioè dell’autorità senza l’amministrazione, allora si deve ammettere che sotto questo aspetto la democrazia e la monarchia sono eguali (Ce 139, it 176).
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Dunque, il contenitore del potere comune di sovranità vale per qualsiasi forma di governo, che deve riconoscere in essa il fondamento dell’obbligazione giuridico-politica per tutti 1 cittadini. Tanto significa pure che la funzione dell’autorità deliberativa — realizzata grazie alla raggiunta unità della moltitudine nella figura del popolo, impersonata poi in modo equivalente nella figura, persona ficta, del parlamento o del monarca — può rendere scontenti gli individui solo per le modalità contingenti e momentanee dell’amministrazione di governo, ma non consente alcuna azione di disobbedienza o di sedizione da parte della moltitudine nei confronti di quel potere assoluto che di fatto costituisce il popolo, che rende al popolo la propria unità politica: Gli uomini comuni, e gli altri, che non sono venuti affatto a capo di queste cose, parlano sempre di un gran numero di uomini, come del popolo cioè dello Stato; e dicono che lo Stato si è ribellato contro il re (che è impossibile), e che il popolo vuolè e non vuole, quello che vogliono o non vogliono dei sudditi indocili e scontenti, che sotto il pretesto del popolo, eccitano i cittadini contro lo Stato, cioè la moltitudine contro il popolo. Queste, pressappoco, sono le opinioni che rendono inclini al disordine i cittadini che ne sono penetrati (Ce 151-152, it
188).
Non ci si può rivoltare contro il potere supremo strutturato dal popolo stesso per via contrattuale nell’istituzione artificiale del Supreme Command, che può assumere poi le forme amministrative diverse di democrazia o di monarchia: vi può essere certamente disapprovazione per le modalità dell’esercizio ordinario dei governi, ma non può esservi alcun razionale dissenso nei confronti dell’autorità. Il potere concentrato nasce dalla necessità di assegnare rappresentazione politico-giuridica all’incontro di comando ed obbedienza: questo dominio costituisce peri cittadini la regola della giustizia e l'esercizio della libertà civile in condizioni di sicurezza e di benessere. Questo luogo della produzione di legge civile è Reason of the Supreme (Ce 52, it 90), reason of the City (Ce 178, it 214; pure 197, it 233): la di-
stanza specifica dai dispositivi di ragion di Stato viene argomentata grazie alle modalità particolari di legittimazione di quella autorità suprema, lawfull e legitimate, che resta costituita da una 86
concentrazione straordinaria di potere politico sotto forma di ordinamento giuridico. Questa funzione di contenimento— considerata come prerogativa principale del potere supremo — resta sostanzialmente motivata dalla finalità a dover rispondere a conflitti che assumono ormai caratteristiche di antagonismi indivisibili; ecco dunque ancora all’ opera l'indagine scientifica rivolta a conseguire una vera e propria genealogia dei conflitti (contentions): i conflitti sorgono dall’uso individuale e separato della proprietà in origine comune (Ce epistola dedicatoria 66, it 27); i conflitti sono prodotti non solo degli errori, ma soprattutto dell’ignoranza degli individui (Ce prefazione 30, it 69); i conflitti incontrano so-
stanzioso spunto dai dogmi dei filosofi morali (Ce 31, it 70); soprattutto, i conflitti più gravi prendono origine dalla lotta degli ingegni, vale a dire da quelle opinioni private — soprattutto credenze di origine religiose — che rendono impossibili gli accordi tra gli individui (Ce 46, it 84). Ancora in questo caso l’esposi. zione hobbesiana procede come funzione analitica descrittiva di fenomeni che vengono considerati conseguenze di incomprensioni e di comportamenti negativi da parte di individui incapaci di esercitare positivamente le potenzialità della propria dote di ratio naturalis: si tratta degli ambiziosi, dei falsi profeti, degli insegnanti inetti, cioè di tutti gli individui che esercitano in modo vano il potere naturale dell’intelletto e in più — al fine di acquisire in modo fraudolento ulteriore potere — svolgono la funzione perniciosa di indirizzare negativamente le altre menti. In modo significativo le ragioni principali dei conflitti vengono fatte coincidere da Hobbes con alcune delle cause che dall’interno procurano
la dissoluzione dello Stato, motivi indiscutibili di
guerre civili: le opinioni secondo le quali la conoscenza del bene e del male dovrebbe spettare ai singoli; ancora, la critica diffusa ai sudditi che eseguono comunque gli ordini dei principi, anche se considerati unanimemente ingiusti; infine, le gravissime convinzioni di coloro che pensano che la fede e la santità siano ispirate per via soprannaturale, piuttosto che acquisite per via naturale (Ce 146-147 e 150, it 183-184 e 187).
In effetti, in tali coordinate espositive non v’è spazio per uno svolgimento argomentativo autonomo dello scontento (discon87
tent) e delle dinamiche prevalentemente psicologiche relative al malcontento degli individui come cause principali della dissoluzione dello stato, così come era stato reso possibile nella scrittura degli Elements. Da un altro versante, risulta impossibile prescrivere leggi universali (universal! Rules) che possano risolvere tutti i conflitti futuri: per gli elementi conflittuali di difficile soluzione — per i quali non esistono leggi civili scritte — resta unicamente valido il principio cristiano dell’equità naturale (Ce
176; it 212):
Il dispositivo di un comando supremo — che rimanga funzionalmente distinto dalle modalità specifiche del governo — viene congetturato proprio al fine di risolvere conflitti considerati come rigidi e indivisibili antagonismi. A questo punto il programma politico hobbesiano si costringe a dovere rendere conto delle articolazioni complesse che possono efficacemente porre in accordo l’istanza del potere supremo — chiamato a sciogliere quei conflitti civili e religiosi segnati da aitagonismi estremi — con gli svolgimenti di pratiche civili di libertà; in realtà, a fronte dei ca-
ratteri gravissimi dei conflitti contemporanei, non risulta possibile congetturare — alla maniera machiavelliana — governi politici che possano rispondere a forme diverse di conflitti, come la repubblica o il principato. Accade allora che, da un lato, Hobbes segnala le difficoltà strutturali del governo repubblicano: Ma cosa sono le repubbliche, se non tanti accampamenti, munite di difese e di armi l’uno contro l’altro, il cui stato (poiché non sono costretti da una potenza comune, anche se intercorre fra di loro una pace incerta, come una breve guerra) deve essere considerato stato naturale, cioè
stato di guerra? (Ce 140, it 177).
Dall'altro lato, il filosofo argomenta con convinzione la superiorità della forma monarchica, al punto che il progetto di Supreme Command sembra quasi assumere nel De Cive la configurazione di un governo monarchico dotato di potere straordinario, cui resta affidato il compito di fuoriuscire da quella condizione naturale di guerra civile: solo a queste condizioni sarebbe possibile la libertà civile per i singoli. In definitiva, appare evidente l’intendimento hobbesiano di volere argomentare l’inefficacia della forma repubblicana di governo, giudicata inido88
nea di per sé ad affrontare quei contrasti che hanno reso gli stat europei campi militari di parti avverse. i Leviathan Nel Leviathan incontriamo l’utilizzazione più ampia ed articolata del complesso semantico contentment/contention. Qui Hobbes abbandona il geometrico deduttivismo espositivo del De cive: piuttosto, una misura di maggiore equilibrio tra sviluppo retorico ed argomentazione della scienza politica persegue la finalità di un’esposizione che possa rendere al massimo i contenuti determinati del suo programma politico; il rimedio per la guerra civile in Inghilterra è da ricercare nell’impianto del dispositivo di sovranità, che dovrebbe consentire di porre termine ai contrasti irrisolvibili tra forme diverse di governo poiché potrebbe contribuire alla legittimazione di un potere politico artificiale, impersonale e costrittivo, idoneo a sciogliere gli antagonismi tra le parti. È questa una soluzione che può prendere forma attraverso la restaurazione del governo monarchico: tuttavia è giusto ritenere che Hobbes non escluda la possibilità dell’utilizzo del congegno di sovranità da parte dello stesso Parliament repubblicano; non a caso, negli anni successivi alla restaurazione, Hobbes dovrà sforzarsi di contestare le accuse provenienti dalla parte realista e riaffermare la propria lealtà monarchica. In effetti, ciò che sta a cuore a Hobbes è la concentrazione di un
potere politico enorme -— il Leviatano appunto —, idoneo a frenare la serie interminabile di conflitti che provengono dalla sfera privata delle opinioni; l’esercizio ordinario di sovranità può quindi assumere indifferentemente le forme della monarchia o della repubblica, entrambe rese legittime dalle volontà dei citta47 Su questo punto, ampiamente discusso, innanzitutto è da vedere il lavoro di D. Johnstone, The Rbetoric of Leviathan. Thomas Hobbes and the Politics of cultural Trasformation (Princeton University 1986); ancora il saggio di Q. Skinner, Reason and Rbetoric in the Philosophy of Hobbes (Cambridge University Press 1996); acute le poche pagine dedicate a questo problema da M. Foucault in “// faut défendre la société” (Paris 1997; trad. it. a cura di M. Bertani e A. Fontana, Firenze 1990), che raccoglie le lezioni tenute al Collège de France nell’anno accademico 1975-76; vedi in particolare la lezione del 4 febbraio 1976, pp. 75-100.
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dini: forse è giusto prendere in considerazione che queste due forme — richiamate di frequente nel Leviathan da Hobbes come governi amministrati da un solo uomo o da un’assemblea di uomini (one Man or Assembly of men) — corrispondono in sostanza alle forme machiavelliane di principato o repubblica. Conviene dunque dapprima analizzare le molteplici attribuzioni semantiche assegnate alla categoria di contentment in quest’opera, ed intenderne via via le relazioni determinate e strettissime con lo sviluppo di quelle istanze che inducono irrimediabilmente ai conflitti (contentions).
A. Innanzitutto, nell’avvio del capitolo decimoprimo, Hobbes ribadisce i fondamenti della nuova antropologia secondo cui non può esistere una mente soddisfatta (mind satisfied) se non
nella condizione della consapevole capacità di produrre poteri senza soluzioni di continuità; vedremo più avanti le valenze particolarissime — gli effetti di felicità ma anche di terribile sofferenza — che le scansioni temporali di una positiva o negativa capacità di produrre poteri può arrecare agli uomini; qui bisogna innanzitutto sottolineare il nesso imprescindibile che la teoria delle passioni stringe con questo piano determinato della processualità infinita dell’oggettivazione di poteri: l’oggetto del desiderio di un uomo non è quello di gioire una volta sola e per un istante di tempo, ma quello di assicurarsi per sempre la via per il proprio desiderio futuro. Perciò le azioni volontarie e le inclinazioni di tutti gli uomini tendono non solo a procurarsi ma anche ad assicurarsi una vita appagata (contented life); differiscono solo nella via, e ciò sorge in parte dalla diversità delle passioni (diversity of passions) nei diversi uomini, e in parte dalla differenza della conoscenza o dall’opinione che ciascuno ha delle cause che producono l’effetto deside-
rato (L 160-161, it 93-94).
La finalità certa della vita umana è quella di realizzare un’esistenza di piena soddisfazione, laddove tale contentezza viene ad identificarsi con l’esercizio interminabile dell’attività desiderante. La causa di tale restless desire of Power — Hobbes l’aveva preannunciato fin dagli Elementes — non deriva dal fatto che gli uomini non possano accontentarsi di un potere moderato (be 90
content with moderate power): piuttosto, tutti gli uomini — e soprattutto i governanti — hanno bisogno di confermare il potere già acquisito al presente grazie alla realizzazione d’altre quote di poteri; i re tenderanno a nuove conquiste, gli uomini comuni propenderanno a procurarsi maggiori piaceri sensuali o soddisfacimenti intellettuali e spirituali. Da qui deriva la competizione (contention) come inevitabile tensione nella vita presente:
La competizione per le ricchezze, l’onore, il comando o per gli altri poteri, inclina alla contesa (Contention), all’inimicizia e alla guerra,
perché la via che porta un competitore al conseguimento del proprio desiderio è quella di uccidere, sottomettere, soppiantare o respingere l’altro. In modo particolare, la competizione per la lode inclina ad una riverenza per l’antichità, poiché gli uomini contendono (contend) con i vivi, non con i morti, e ascrivono a questi più di quanto sia loro dovuto, per poter oscurare la gloria dell’altro (L 161, it 94).
Ecco strutturata, nei passaggi cruciali di avvio dell’esposi. zione del proprio programma politico, la necessità del nesso contentment/contention: da questo punto prende forma lo svolgimento espositivo che rende conto del positivo impegno degli individui disponibili a realizzare quella civil obedience che risulta condizionale alla creazione di un potere sovrano legittimato; su di altro piano, Hobbes enfatizza l'argomento secondo il quale i soggetti incapaci di impegnarsi nel calcolo dei vantaggi derivanti dall’istituzione dell'ordinamento politico-giuridico di sovranità non riescono a sottrarsi alla originaria situazione di antagonismo e di guerra propria dello stato di natura; il filosofo sottolinea che da questa incapacità assume forza l’inclinazione degli individui a porre in discussione il comando già istituito, prendono quindi corpo i conflitti civili: Gli uomini bisognosi e temprati, al contrario, essendo insoddisfatti
(not contented) della loro condizione presente, come anche tutti gli uomini che ambiscono al comando militare, tendono a far continuare le
cause della guerra, e a fomentare il disordine e la sedizione (L 162, it Santi 163).
Il capitolo decimoprimo — dedicato al tema dell’incidenza delle differenze dei caratteri umani — svolge dunque una funziochi
ne espositiva di grande importanza: radicalizzando la prospettiva dell’antropologia machiavelliana, Hobbes assegna all’ambizione le caratteristiche di un movimento inarrestabile, mentre la
virtù è fatta consistere nella capacità di educarsi al calcolo dei vantaggi che la prospettiva dell’ordine sovrano può offrire. Viene quindi funzionalmente strutturata una tensione discorsiva tra ambizione e virtù riferita agli effetti che possono conseguire le concrete azioni degli uomini, sollecitati dalla paura di rimanere oppressi dagli altri individui: Coloro che non hanno fiducia nella propria sottigliezza, nei tumulti e nelle sedizioni, sono meglio disposti alla vittoria di quelli che si credono saggi e astuti (wise, or crafty). Coloro che hanno una grande opinione della loro saggezza (wisdome) in materia di governo, sono disposti all’ambizione, perché, senza un
pubblico impiego in un consiglio o in una magistratura, si perde l’onore della loro saggezza. Perciò quelli che parlano in modo eloquente sono inclini all’ambizione; l’eloquenza infatti sembra saggezza (wisedome) a loro stessi e agli altri. L’eloquenza con l’adulazione, dispone gli uomini a confidare in coloro che l’hanno, perché la prima è sembianza di saggezza (Wisdome), la seconda sembianza di affezione (L 163-164, it 96-98).
La virtù deve dunque confrontarsi con le condotte degli ambiziosi pure consapevoli della propria inadeguatezza, ma pronti a realizzare poteri ad ogni costo: costoro sono quindi disposti a fingere saggezza, magari esercitando convenientemente eloquenza; peraltro, gli stessi virtuosi — soprattutto nell’ambito politico — non possono fare a meno di produrre ambizione in modo incessante, poiché vogliono che le loro capacità ed i loro meriti vengano onorati. Da queste dinamiche viene ribadito il dato essenziale che la normalità della vita umana consiste nei conflitti prodotti da quanti — per motivi di iignoranza o di credulità — non si rendono disponibili ad offrire a se stessi gli strumenti per l'affermazione di un positivo contenimento. Certamente, non si può pretendere dagli individui di neutralizzare l’inclinazione naturale verso quell’inarrestabile produzione dei poteri; peraltro, ciascun individuo deve praticare una saggia autodisciplina secondo i criteri offerti dalla ragione calcolante che valuta co-
sti/benefici dei comportamenti utili alla produzione del potere 92
comune di sovranità, che unicamente può costituire la positiva misura di giustizia (mensura iustorum et iniustorum). B. Certamente la ragione naturale — scossa dall’urto della paura della morte violenta — interviene in aiuto dell’uomo per offrire un rimedio alle pretese eccessive della cupiditas naturale; in effetti, la seconda legge di natura richiama esplicitamente LI contenimento di quel diritto naturale di ciascuno su tutto, che bisogna riconoscere appartenere ad ogni individuo: che un uomo sia disposto, quando anche gli altri lo sono, per quanto egli penserà necessario per la propria pace e difesa, a deporre questo diritto a tutte le cose; e che si accontenti (be contented) di avere tanta li-
bertà contro gli altri uomini, quanta egli ne concederebbe ad altri uomini contro di lui (L 190, it 125).
La categoria di contentment viene ora ad esplicitare piena.mente la sua complessa valenza; essa non esprime solamente la BS dd ion ey AA cessante avigità del desiderio, dal momento che esibisce pure l’istanza — affermata come necessaria dalla ragione naturale — di rendersi disponibile a ridimensionare gli eccessi dell’attività desiderante: apertura quindi a costruire un passaggio decisivo per poter portare a compimento quella finalità di contenimento. Ed in effetti l’interrogativo estremo che l’uomo folle pone a se stesso — l’esistenza o meno di un criterio di ragionevole giustizia come regola generalizzata dei comportamenti umani - trova al suo centro il riconoscimento di questa funzione di contentment: Lo stolto ha detto in cuor suo che non c’è una cosa come la giustizia e, a volte, lo dice anche con la lingua, aggiungendo seriamente che, poiché la conservazione e la soddisfazione (contentment) di ogni uomo è affidata alla propria cura personale, non può esserci ragione perché ognuno non possa fare quello che conduca ad essa; e, quindi, anche fare o non fare patti, mantenerli o non mantenerli, non era contro ragione, quando conduceva al proprio beneficio (L 203, it Santi 237-239). Non a caso, allora, il punto di arrivo della generazione del
Commonwealth — quel “Common Power that may reduce all their Wills, by plurality of voices, unto one Will” — trova una 93
delle motivazioni principali proprio in quel live contentedly: vale a dire la garanzia per i cittadini di una vita soddisfatta (L 227, it 167); inoltre, l'avvenuta costituzione dell’ordine di sovranità —
tramite l’adesione della maggior parte dei cittadini — allarga quella funzione di dinamico contenimento anche per gli individui in partenza dissenzienti, che solamente a torto possono proseguire con la protesta: Per il fatto che la maggioranza ha, con voci di consenso, dichiarato un sovrano, colui che dissentiva, deve allora consentire con gli altri, cioè
essere contento (de contented) di riconoscere tutte le azioni che farà, oppure essere, giustamente, distrutto dagli altri (L 231, it 172).
A partire dall’istituzione dell’autorità sovrana, le semantiche di contentment contribuiscono a porre in evidenza gli effetti positivi prodotti grazie alla raggiunta unità politica del popolo che ha preso corpo a partire dalle condizioni isolate dei singoli individui, originariamente partecipi dell’informe moltitudine. La forza mostruosa del Leviatano è tale poiché nella sua unica volontà viene a contenere ed a rappresentare le volontà di tanti soggetti ormai determinati alla realizzazione di un potere comune. Questo processo pone un termine consistente ai conflitti, vale a dire che l’autorità sovrana diventa garante di pace e sicurezza: quindi, Hobbes segnalerà con evidenza — nelle prime battute del capitolo trentesimo, dedicato agli uffici (Office) della rappresentanza sovrana — questa funzione principale di contentment come compito complesso che deve restituire ai cittadini la possibilità di un vivere ricco di eventi e di legittime attività, un vivere contento; infatti, tale ufficio consisterà nel procurare la sicurezza del popolo (the safety of the people), ma questa sicurezza deve intendersi in un modo ampio e determinato: per sicurezza non si intende qui la mera conservazione della vita, bensì anche tutte le altre soddisfazioni (Contentments of life) che ognuno acquisirà nel corso di essa con attività legittime e senza pericolo o danno per lo stato (L 376, it Santi 543).
Il termine plurale contentments sta evidentemente a significare quegli scorrimenti di poteri, costituiti originariamente dai 94
conatus che attivano l’interminabile attività desiderante degli individui; i poteri naturali individuali possono ora trovare legittima (lawfull) effettiva realizzazione nel quadro delle attività produttive (Industry) riconosciute dall’autorità sovrana: i soggetti procureranno di vivere contenti (live contendly), con disciplina civile, al fine di perseguire quelle positive soddisfazioni della vita (contentments of life). Ovviamente, per poter realizzare quello che si configura anche come un compito istituzionale, l’autorità sovrana deve attribuire a se stessa un’illimitata capacità di produzione di poteri, e non potrà mai ritenersi soddisfatta di una quota limitata di potere; quest’ultima evenienza viene da Hobbes considerata come la maggiore causa di dissoluzione dello stato: che a volte un uomo, per ottenere un regno, si accontenta (content) di un potere minore di quello che si richiede necessariamente per la pace e per la difesa dello stato (L 364, it Santi 523).
C. L’autorità sovrana, in quanto persona ficta ed artificiale, viene ad assumere in grande le qualità particolari dei caratteri (manners) del singolo individuo: essa deve esercitare potenza
verso ogni direzione e realizzare poteri in modo interminabile ed in forme illimitate; tuttavia, nella nuova condizione civile si
procede pure al riconoscimento dei vantaggi e dei benefici che il singolo cittadino può conseguire in questa determinata istituzione di un potere specificamente politico. Nell’apertura dell’ultimo capitolo del Leviathan (XLVII), dedicato alle specie dei vantaggi (benefit) cui può accedere il credente nel regno oscuro della cattolicità, richiamando un testo di Cicerone, Hobbes ci fa
intendere con chiarezza che unicamente il potere temporale del sovrano — a differenza del potere spirituale — può creare le condizioni per le acquisizioni di benefits da parte dei cittadini: Cicerone menziona in modo onorevole uno dei Cassti, un severo giudice romano,
per la consuetudine che aveva nelle cause priminali,
quando la testimonianza dei testi non era sufficiente, di domandare agli accusatori: cui bono, vale a dire, quale profitto, onore, o altro conten-
tamento (Contentment) l’accusato otteneva o si aspettava dal fatto. Infatti, tra le presunzioni, non ce n’è alcuna che dichiara l’autore in mo95
do così evidente, come la fa il BENEFICIO (BENEFI7) dell’azione (L
704, it 677).
In questo luogo Hobbes vuole significativamente ribadire — come esito delle argomentazioni che ha condotto nelle sezioni terza e quarta del Leviathan — che contentment resta sicuramente da individuare come il complesso dei fini concreti (BENEFIT), oggetti dei desideri umani, ai quali solamente può corrispondere il deus mortalis, non certamente l’autorità ecclesiastica per conto dell’essere supremo. Nel capitolo quarantaduesimo, Hobbes aveva già argomentato che la questione che riguardava il titolare dell’autorità politica terrena aveva già costituito termine di conflitto (contention): a partire dalla discussione tra gli apostoli ai quali Gesù stesso aveva specificato che il dominio sui sudditi era da assegnare a quella figura pubblica che gli ebrei chiamano benefattore (Bountifull) (L 583, it 549); ed ancora nelle contese storiche (contention) tra i vescovi e l'autorità civile (L
565, it 531), viene sostenuto che solo i sovrani — non i vescovi — hanno titolo all’esercizio del potere legittimo (L 565 e 594, it 531 e 561). Hobbes aveva già anticipato questa posizione nella prima parte del Leviathan, allorquando scriveva che l’autorità che frena lo scontento (discontent) deve essere un’autorità civile: tanto
era accaduto esemplarmente nel governo di Roma, che mai proibì il culto d’alcuna religione, ad eccezione di quella degli ebrei, che aveva rappresentato l’unico regno peculiare istituito da Dio sulla terra per via di patto (L 178, it 112). Per il resto, secondo Hobbes, deve essere accolto da tutti che i ministri di Dio non
possono produrre contentment. Solo un potere costituito da una forza straordinaria di coercizione può spingere all’obbedienza individui rivolti a produrre poteri ad ogni costo: quel commom Power deve essere il risultato delle decisioni assunte da tanti soggetti consapevoli che vengono a costituire la maggioranza di molteplici volontà che si costituiscono come volontà politica unitaria e coesa di tutto il popolo. Questo sviluppo argomentativo del Leviathan è da considerare anche il punto di raccordo tra le prime due sezioni — dedicate agli svolgimenti dei temi di antropologia, morale e politica — alle altre due parti dell’opera dedicate alla questione del governo divino sulla terra. In questo 96
modo Hobbes scioglie in maniera definitiva quel problema fondamentale — segnalato a partire dagli Elements — come originario degli antagonismi tra soggetti civili appartenenti a differenti professioni religiose: a quale delle due autorità, divina o terrena, deve obbedire il singolo individuo credente? Questo interrogativo è reso drammatico nell’attualità per quanti prendono parte alla nuova spiritualità resa attiva dalla riforma protestante: lacera dall’interno le coscienze dei credenti riformati che si confrontano in modo diretto con il divino creatore. Ebbene, Hob-
bes perviene a confermare che il dio mortale governa in completa autonomia; finalità e mezzi della sua azione sono del tutto di-
versi rispetto alla domanda di salvezza spirituale che il credente vive nell’interiorità in diretto riferimento al Cristo: Jesus is the Christ. In definitiva, non esiste analogia o contiguità tra le due
sfere, spirituale e politica: tantomeno la Sacra scrittura può imporre regole a sostegno del governo dei rappresentanti di Dio in ‘ terra; gli uomini hanno appreso e praticano modi e tempi di piena immanenza nell’esercizio dell’autogoverno. D. Per ultimo, le finalità espositive e retoriche legate all’utilizzazione del complesso semantico contentment/contention nel Leviathan vengono da Hobbes rivolte — come già era accaduto negli Elements — a trattare del malcontento, di quel fenomeno estremamente dannoso per la comunità civile che pure in Inghilterra aveva visto molti soggetti pronti ad introdurre nel governo del paese pericolose novità, ad imitazione delle nazioni limitrofe: E non dubito che molti uomini siano stati contenti (have been conten-
ted) di vedere i recenti turbamenti in Inghilterra causati dall’imitazione dei Paesi Bassi, supponendo essi che, per accrescere la ricchezza, non ci fosse bisogno di altro che di cambiare, come avevano fatto quelli, la forma del loro governo. La costituzione della natura umana è infatti di per sé soggetta a desiderare novità (to desire novelty); quando perciò si è provocati anche dalla vicinanza di quelli che da essa sono stati arricchiti, è quasi impossibile non essere contenti (not to be content) di quelli che ci sollecitano a cambiare, e non amare il primo ini-
ziare del disordine, anche se si è afflitti quando esso continua (L 368369, it 320-321).
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A fronte della prospettiva di realizzare maggiori interessi è pressoché impossibile evitare che alcuni soggetti, non contenti, tentino di conseguire poteri ulteriori grazie all’ introduzione di novità, salvo poi a soffrire per questi tentativi sciagurati. Contro costoro, fin dall’antichità, l’autorità civile resta impegnata a combattere il malcontento portatore di sedizioni; così si comportavano i Romani, che nei confronti del popolo minuto (common people) attivavano strategie definite di contenimento: essendo intrattenuto con la pompa ed il passatempo di feste e pubblici giochi, fatti in onore agli dei, non c’era bisogno che di pane per tenerlo lontano dallo scontento (discontent), dalla mormorazione e dal tumulto contro lo stato (L 178, it 112).
Con argomentazioni simili, nell’ultima sezione del Leviathan, Rewiev and conclusion, Hobbes pone termine alla scrittura esplicitando che il suo sforzoè stato appunto rivolto ad offrire strumenti di comprensione per quanti sono insoddisfatti della situazione presente di potere. Egli si dichiara fiducioso che la sua opera possa essere riconosciuta e magari insegnata utilmente nelle istituzioni accademiche: E con quel mezzo, la maggior parte degli uomini, conoscendo i propri doveri, sarà meno soggetta a servire l'ambizione di poche persone scontente (discontented persons) nei loro propositi contro lo stato (L
728, it 699).
Ancora in questo contesto finale del Leviathan, Hobbes aveva precedentemente ribadito che nella vita ordinaria degli individui ogni tipo di affare si trova legato a conflitti per la realizzazione di potere su beni presenti: E a considerare il contrasto tra le opinioni e i costumi degli uomini in generale, èè, si dice, impossibile trattenere una costante intesa civile con
tutti quelli con cui gli affari del mondo ci costringono a conversare (to convers), tali affari non consistono quasi in niente altro che in una contesa perpetua (perpetuall contention) per gli onori, la ricchezza e l’autorità (L 718, it 690).
Quindi, con coerente argomentazione espositiva, fino alle 98
ultime battute del Leviathan, Hobbes utilizza quel complesso semantico contentment/contention/discontent: lo svolgimento espositivo se ne serve — con buon equilibrio tra ragione ed eloquenza (Reason, and Eloquence), metodo rigoroso ed efficace retorica — come strumento decisivo per persuadere i lettori ad accoglierela rappresentazione politico-giuridica della loro stessa capacità di autodisciplina; il contentment istituzionale può essere reso possibile attraverso l'educazione e la disciplina dei soggetti (by Education, and Discipline; L 718, it 690). 4. Prime considerazioni critiche
Le semantiche che Hobbes assegna alle categorie di contentment/contention sono molto vicine alle nozioni machiavelliane di contentezza/contenzioni: attraverso l’indagine comparativa, ho cercato di porre in rilievo la serie delle relazioni significative — di prossimità o di differenza — nelle argomentazioni antropologiche e morali dei due autori. Risulta anche interessante — per quanto concerne la specifica elaborazione hobbesiana — prendere nota dell’importante mediazione filosofica offerta da Francis Bacon. Per quanto concerne i dettagli delle angolazioni discorsive dei due autori, si può tentare in modo sintetico di mettere a confronto il progetto machiavelliano con il programma teorico hobbesiano: 1. contentezza/mala contentezza costituiscono in Machiavelli le polarità permanenti della condizione umana: è possibile
per gli esseri umani un’opera di soddisfacimento, di autocontenimento, nella situazione di presenza della vita laddove vengano soddisfatti ibisogni di necessità; peraltro, la presenza vissuta di contentezza resta comunque aleatoria, poiché risulta soggetta inevitabilmente a continue modificazioni. La condizione di relativa e contingente contentezza viene infatti colpita da cause esterne, allorquando eventi politici diversi (guerre di conquista, avvicendamenti di governi, etc.) turbano il normale scorrimento del vivere civile. Esistono anche cause interne alla comunità che turbano la vita contenta dei soggetti, in conseguenza dei contra99
sti tra gli umori delle parti della città: in questi casi, gli individui — che hanno superato le difficoltà derivanti dai bisogni di necessità — vengono sollecitati dall’ambizione a realizzare maggiori successi, riuscendo comunque a stringere poco; per Hobbes, contentment costituisce innanzitutto la condi-
zione del soddisfacimento immediato, punto di un benessere momentaneo che rinvia sempre all’attivazione di altre azioni mirate a produrre ulteriori poteri; secondo Hobbes non esiste una possibile contentezza, nemmeno parziale e limitata nel tempo: non può esistere una sola mente soddisfatta; questo tipo di contentezza rinvia al processo infinito della produzione dei poteri che l’uomo è in grado di attivare. Inoltre, nel contesto hobbesiano, la mala contentezza viene a configurarsi come la malinconia, vera e propria malattia della mente, che colpisce i soggetti incapaci di produrre potere, che restano peraltro consapevoli di tale propria incapacità. In effetti,.gli esseri umani sono impegnati a produrre potere attraverso i flussi di un tempo interminabile, al fine di conservare con il potere futuro il potere realizzato al presente (tale è il principale criterio della saggezza moderna);
2. secondo Machiavelli, la mala contentezza degli individui contribuisce a produrre conflitti e ad aggravare quelli già esistenti, orientandoli pure verso esiti d’irrisolvibilità (vedi la fine della Repubblica a Roma); la teoria machiavelliana dei conflitti ci dice che questa condizione è normale alla vita umana: tutti gli individui vi partecipano con complessioni umorali diverse, che inducono differenti risposte; la politica attrezza sul piano pubblico-istituzionale forme e tempi diversi di governo (repubblica e principato) per rispondere alle caratteristiche diverse che i conflitti assumono, in quanto divisibili oppure irrisolvibili;
Hobbes vede direttamente nel contentment il processo da cui derivano la serie dei conflitti che prendono origine nello stato di natura e lacerano anche nella vita civile gli uomini, sotto forma d’opinioni e di giudizi privati che inevitabilmente vengono a confliggere; dunque il movimento rivolto ad appagare contentment contribuisce a produrre direttamente tensioni e conflitti: nella condizione naturale l’uomo non può trovare alcun mezzo sicuro di contenimento, né in tale condizione si rende 100
possibile l’autogoverno; da questo punto prende avvio il percorso individuale — secondo le pratiche di una ragionevole autodisciplina — rivolto alla produzione della forma impersonale dello Stato Leviatano, che svolge funzioni di contenitore civile;
3. in definitiva, secondo Machiavelli, i conflitti sono permanenti e derivano dall’incontro dei tempi diversi, naturali e storici, della vita umana: prendono origine dalla complessione fisica dei soggetti e dagli eventi prodotti dall’interazione umana; i singoli individui partecipano direttamente alla soluzione dei conflitti civili, grazie all’impegno dell’intelligenza di particolari soggetti (ad esempio, l’opera dei legislatori), ma pure attraverso l’esercizio della forza fisica (vedi le pratiche dei tumulti): sorge qui il problema particolare della qualità dei tempi, della serie delle intersezioni temporali, anche casuali, che decidono della pace o
I
della guerra; in Hobbes non esiste forma di contenimento possibile se non che nella produzione del dispositivo artificiale di sovranità: attraverso la costituzione dello Stato Leviatano viene messo in pratica il progetto di allontanare dalla sfera civile gli antagonismi indivisibili, propri dello stato di natura. Alla sfera pubblico-civile vengono così a partecipare i soggetti che aderiscono alla procedura del contratto, mentre un altro destino attende coloro i quali rifiutano questa possibilità; questi costituiranno la minoranza degli individui discontent, formata dagli individui particolarmente ambiziosi, da quanti presumono di potere esercitare in proprio una possibile contentezza (i folli, iprofeti, gli uomini potenti) e ancora da altri soggetti. In conclusione, Hobbes applica la coppia oppositiva content/discontent alle diverse capacità di utilizzare la ratio naturalis, di esercitare positivamente il principio introspettivo (Read thy self) e di sviluppare la funzione di mind (pervenendo alla maturazione dell’acquired wit by method and education). Content è colui che è in grado di produrrei calcoli mentali che lo convincono a cedere quella parte del diritto naturale all’autogoverno ed a prendere parte al processo di autorizzazione che tramite contratto porterà alla costituzione del potere supremo sovrano; costui accoglierà anche i criteri di verità che la sovranità 101
andrà via via producendo attraverso le leggi civili. Questo soggetto ha contenuto i propri istinti naturali, è riuscito a governare la paura della morte violenta: è quindi capace di autodisciplinarsi al fine di godere beni artificiali che lo stato permetterà di realizzare, riconoscendo e promuovendo per questi individui la capacità soggettiva di produrre poteri (naturali e strumentali). In breve, il nuovo soggetto progettato da Hobbes si realizza — alla maniera del nuovo stoicismo— nel genere di saggezza che viene fondato ora sulla ricchezza, non più sulla sapienza (7 122). Per inverso, discontent ècolui che rimane incapace di utilizzare positivamente le potenzialità proprie della ratio e che soffre di questa incapacità: questo individuo resta condizionato negativamente dalla private Opinion, dal private Spirit e rimane rinchiuso egoisticamente nei tempi interiori; incapace di effettiva comunicazione, mette in dubbio qualsiasi autorità esterna: in breve, diventa asociale e disobbediente. Secondo Hobbes, la ten-
sione content/discontent è alla radice del fenomeno della disobbedienza e della rivolta, produce i danni peggiori alla comunità. L’esplicito progetto hobbesiano è allora quello di lasciare i conflitti negativi — derivanti appunto dall’esercizio negativo delle private Opinions — all’opera nella sola sfera del privato: contemporaneamente, bisogna motivare i singoli individui alla produzione del potere supremo di sovranità — potere comune e pubblico —, in modo da contribuire a risolvere i conflitti che prendono origine nella condizione umana dell’esercizio pieno ed incontrollabile della libertà naturale. Hobbes accoglie dunque il punto di partenza dell’antropologia machiavelliana, progettando comunque di oltrepassarlo; la novità del processo di autorizzazione, via contratto, produce la separazione tra stato artificiale politico e comunità camunila degli uomini: tale separazione verrà resa funzionale e produttiva all’ordine civile ed alla sicurezza dei soggetti grazie ad un dispositivo artificiale di comando,
temporali determinate.
102
strutturato
secondo
dinamiche -
CAPITOLO TERZO Leviathan contro disobbedienza civile: un progetto di esclusione/inclusione
L’autorità politica deve dunque predisporre il necessario | contenimento per attitudini e comportamenti che possono incidere in modo distruttivo sui percorsi delle scelte individuali, che contribuiscono alla costruzione della forma politica: si tratta innanzitutto dei danni gravissimi che opinioni private e credenze religiose stanno producendo in Inghilterra e nell’intera Europa. Nelle forme esasperate che assume tra Cinquecento e Seicento, questo fenomeno rimaneva sconosciuto a Machiavelli, mentre
costituisce la motivazione effettiva del dispositivo teorico-politico di Thomas Hobbes; secondo il pensatore inglese, i giudizi privati costituiscono la causa principale dei tragici contrasti interni all’Inghilterra poiché incrementano quelle pratiche di disobbedienza nei confronti dell’autorità civile che producono il dissolvimento degli stati. La forza distruttiva delle opinioni viene anche rinforzata dalle condizioni determinate di malessere spirituale e di malattia mentale. Secondo una tradizione riconosciuta e ancora diffusissima ai tempi di Hobbes —- che prende fondamento nella filosofia politica occidentale a partirè dalle argomentazioni platoniche e verrà ulteriormente approfondita nella cultura rinascimentale —, una delle principali funzioni della politica è considerata quella di progettare gli scorrimenti idonei alla vita civile per sog103
getti fisicamente e psichicamente differenti, in lotta con sollecitazioni e stimoli che provengono dall’esterno, ma anche impegnati a disciplinare istinti e impulsi che irrompono dall’interno dei soggetti. Anche per il filosofo inglese i percorsi della ragione politica costituiscono il contrappeso determinato a quanto proviene dalla parte delle passioni e degli istinti naturali. Negli scritti hobbesiani v’è attenzione ai temi della sofferenza mentale, della follia e della malinconia, in conseguenza dell’impostazione meccanicistica che organizza l'esposizione del complesso sistema filosofico: coerentemente con i fondamenti dello svolgimento espositivo, i passi preliminari degli sviluppi della teoria etico-politica devono certamente prendere in considerazione i dati semplici, elementari, della costituzione fisica e psichica dei singoli individui’. In effetti, l’analisi sulla follia e sul malessere mentale riveste un posto di particolare rilievo nel complesso dell'esposizione della nuova antropologia hobbesiana: si tratta di indagare in modo preliminare le. affezioni psichiche che — ostacolando la tendenza naturale propria di ciascun individuo rivol-
48 Per i rapporti tra nosografia delle passioni e pensiero politico nella filosofia platonica vedi il saggio di M. Vegetti, Passioni antiche: l’io collerico, in Storia delle passioni, a cura di Silvia Vegetti Finzi (Bari 1995), pp. 39-73; particolarmente interessante il lavoro di Alessandro Biral, Platone e la conoscenza
di sé (Bari 1997). Per gli sviluppi della serie delle relazioni teoriche di malinconia e disciplina in Hobbes, il mio lavoro deve molto ai suggerimenti offerti dalla compianta Anna Maria Battista nel suo importante saggio Nascita della psicologia politica (Genova 1982) ed in modo particolare a Pierangelo Schiera per i suoi preziosi contributi: Melancolia e disciplina: considerazioni preliminari su una coppia di concetti all’alba dell’età moderna, in Studi politici in onore di Luigi Firpo (Milano 1990), vol. I, pp. 257-278; Melancolia e disciplina: riflessioni critiche, in Immaginario e follia, Atti dei seminari di antropologia letteraria, a cura di F. Rosa (Trento 1991); ed ancora Specchi della politica. Disciplina, melancolia, socialità nell’Occidente moderno (Bologna 1999). 4° Per la ricostruzione dell’impianto meccanicistico del sistema filosofico hobbesiano rimane ancora decisivo lo studio di E.Brandt, Thomas Hobbes”
mechanical Conception of Nature (trad. inglese, London 1928); per gli studi italiani, A.G. Gargani, Hobbes e la scienza (Torino 1970). Per quanto concerne i rapporti tra aspetti meccanicistici e argomentazioni antropologiche e psi-
cologiche nel riferimento alla teoria politica in Hobbes, importanti sono sicuramente gli studi di L. Strauss, raccolti nella versione italiana La filosofia politica di Hobbes, in Che cos'è la filosofia politica? (Urbino 1977).
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ta ad estendere il proprio potere su ogni persona e su ogni cosa — agiscono negativamente rispetto al fine dell’uscita dallo stato di natura?°.
1. Le cause della disobbedienza civile: prudenza e malinconia Negli Elements, il malessere mentale viene considerato funzione difettosa dell’immaginazione, collegato a vain Glory ed a vain Dejection. Profezia, furore e pazzia d’amore sono forme particolari attraverso le quali si esprime l’incapacità del soggetto di limitare gli eccessi delle proprie passioni; già in questo scritto compare la critica di Hobbes a quel particolare nesso di follia e false credenze religiose che si rivela nei comportamenti di quanti si considerano ispirati (2spired) da Dio: costoro sono infatti convinti di “avere in sé qualche altro effetto dello spirito santo di Dio più di quanto ne abbiano altri uomini pii” (E 52, it 82).
5° Esiste una considerevole letteratura critica sul tema dei rapporti tra ragione e follia in Hobbes: si tratta degli studi in chiave analitica dedicati al problema della scelta razionale da parte del soggetto che intraprende il percorso di costituzione della comunità politica; questo tipo di ricerca fa perno su quegli aspetti delle argomentazioni hobbesiane relative alle motivazioni che dovrebbero indurre il singolo individuo a produrre una rigorosa e razionale disciplina dei propri comportamenti, idonea all’ingresso nella società civile. In modo certamente discutibile questa prospettiva analitica non prende volutamente in considerazione quelle parti del discorso antropologico in cui Hobbes fa esplicito riferimento alla malattia mentale, riferendo piuttosto le argomentazioni hobbesiane direttamente ai criteri della coerenza degli assunti logici. Di questa tendenza interpretativa richiamo gli studi di maggiore interesse: D.P. Gauthier, The Logic of Leviathan. The Moral and Political Theory of Thomas Hobbes (Oxford 1969); J. Hampton, Hobbes and the Social Contract Tradition (Cambridge 1986); G.S. Kavka, Hobbesian Moral and Political Theory (Princeton 1986). Una critica fortemente negativa di questo tipo di approccio analitico viene espressa da R. Rhodes, Hobbes" Unreasonable Fool, in «The Sou-
thern Review of Philosophy», XXX (1992), 2, pp. 93-102. Ancora, il contrasto tra scienza e prudenza — considerato pure in relazione con i temi della corruzione e della follia — è oggetto dello studio di D.W. Hanson, Science, prudence, and Folly in Hobbes” Political Theory, in «Political Theory», XXI (1993), pp. 643-664.
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Nel Leviathan, in un contesto espositivo certamente più complesso, sono molteplici gli elementi che attestano l’interesse radicato e profondo per il tema della malinconia: vorrei segnalarne almeno due. Hobbes fa qui riferimento agli autori italiani del Cinquecento: si dimostra critico non solo dei trattatisti della piccola morale dei comportamenti (Smal! Moralls), ma anche della letteratura della vanitas, dei moralisti della vana gloria (L 160, it 93)?!; se condo Hobbes, la vain-Glory, detta anche Pride CO o)
selfe-Conceipt — in quanto esagerata autoreputazione che alcuni uomini hanno di sé —, è quell’ eccesso di passione che, assieme alla prostrazione AI mente, è causa principale di follia (L 140, it 72-73). Hobbes ripropone in più luoghi la sua critica dei vanagloriosi con una finalità espositiva precisa: l'ambizione umana non deve rimanere frustrata dall’inerzia della vanagloria e dalla depressione malinconica, ma deve diventare positiva tensione per l’acquisizione di beni, tendenza determinata rivolta all’acquisizione di potere (L 163-164, it 96-97). Su un altro piano, Hobbes pone in evidenza la stretta relazione tra sofferenza interiore, squilibrio mentale e blocco dei percorsi di civilizzazione; in questo contesto semantico l’uomo malinconico viene descritto come l’uomo prudente, che vive di depressione poiché ha perduto le condizioni di assicurazione sul futuro, soprattutto per quanto concerne le credenze religiose
(Belief), sottomesso magari al timore di cose invisibili oppure soggiacente a superstizioni. Scrive Hobbes in un famoso brano del Leviathan: Tutti gli uomini, specialmente quelli che sono troppo previdenti, sono in uno stato simile a quello di Prometeo, poiché come Prometeo (che, interpretato, vale uomo prudente) fu legato al monte Caucaso, luogo
1 Come vedremo, Hobbes conosce bene gran parte della letteratura italiana della civil conversazione, quindi le opere di autori quali Baldassarre Castiglione, Giovanni Della Casa, Stefano Guazzo ed altri ancora. Questi trattati ebbero una diffusione vastissima in Europa; basti considerare l’attenzione che vi dedica Michel de Montaigne (vedi Essais, III, 8); per l’introduzione a questi testi rinvio al mio lavoro “Non far novità”. Alle origini della cultura italiana della conservazione politica (Napoli 2000).
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dall’ampia veduta, dove un’aquila si pasceva del suo fegato, divoran-
done di giorno tanto quanto ne ricresceva di notte, così l’uomo che,
preoccupato per il futuro, guarda troppo lungi davanti a sé, ha il cuo-
re roso, per tutto il giorno, dal timore della morte, della povertà o di
altra calamità, e non trova riposo né pausa alla sua ansietà, se non nel sonno (L 169, it 103).
Questa figura del prudent man, che soffre dell’ansia prodotta dalla prefigurazione di un futuro incerto e carico di sofferenze, è il calco della definizione che Robert Burton - riprendendo da Giglio Gregorio Giraldi — offre dell’uomo malinconico: a melancholy man is that true Prometheus, which is bound to Caucasus, the true 7iti4s, whose bowels are still by a vulture devoured (as
Poets faine) for so doth Lilius Giraldus interpret it, of anxieties, and those griping cares, and so ought it to be understood??. È interessante rilevare, innanzitutto, che l’ansietà colpisce
ciascun uomo in considerazione del fatto — ha scritto poco prima Hobbes — che “è impossibile per un uomo, il quale si sforza continuamente di assicurarsi contro il male che teme e di procurarsi il bene che desidera, non essere perpetuamente sollecito del tempo avvenire” (L 169; it 103); peraltro, la ricerca posta in essere dall’intelletto umano può alleviare gli uomini dall’ansia per l’avvenire, se essa resta finalizzata a costruire un presente positivo: “L’ansietà per il futuro dispone gli uomini a ricercare le cause delle cose, perché la conoscenza di esse li rende meglio capaci di ordinare il presente per il loro migliore vantaggio” (L 167, it 100). In particolari condizioni d’ansia viene invece vissuto il presente 5 In Anatomy of Melancholy, London, 1621, 1.4.1.1, pp. 433-434. Giglio Gregorio Giraldi (Lilius Gregorius Gyraldus) fu scrittore umanista (Ferrara, 1479-Roma, 1552): per l’utilizzazione da parte di Burton vedi N.K. Kiessling, The Library of R. Burton (Oxford 1988). Sul tema della malinconia in Inghilterra — e la relativa ricchissima letteratura — vedi il volume di M. Simonazzi, La
malattia inglese. La melanconia nella tradizione filosofica e medica dell’Inghilterra moderna (Bologna 2004); dello stesso autore è il bel saggio Thomas Hobbes on melancholy, in «Hobbes Studies», XIX (2006), pp. 31-57. Di sicuro interesse il recente volume di D. Weber, Hobbes et le désir des fous. Rationalité, prévision et politique (Paris 2007).
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dall’uomo prudente che pretende di intravedere gli avvenimenti futuri sulla base delle tracce lasciate dalle esperienze passate. Si può allora sostenere che per Hobbes esiste un rapporto interno, non argomentato esplicitamente ma importante nel complesso dell’esposizione della materia politica, tra la prudenza— e l'utilizzo politico della prudenza — e la malinconia; bisogna porre attenzione ai passaggi definiti di questa interrelazione almeno per due principali motivi: — dapprima, al fine di esplicitare come gli effetti della depressione malinconica derivino— nella considerazione hobbesiana — da dinamiche di squilibrio tra i tempi vissuti interiormente dall’uomo prudente, che viene da Hobbes identificato con l’uomo sofferente di malinconia;
— ancora, la possibilità di intendere più a fondo lo sforzo hobbesiano di dimostrare e di oltrepassare il fallimento dell’agire politico fondato sulla prudenza, che'non può certamente produrre obbedienza negli individui oppressi dalla sindrome malinconica.
2. Il fallimento della prudenza politica Conviene allora preliminarmente fermarsi sui significati attribuiti da Hobbes alla categoria di prudenza. Innanzitutto, nella progettazione hobbesiana degli elementa philosophiae si può osservare che una valutazione positiva della prudenza è contenuta negli scritti introduttivi alla Peloponnesian Warre e nella breve composizione De principiis cognitionis*; quindi, il ridimensionamento della sua validità costruttiva sui piani logicoepistemologico ed etico risulta presente già nelle argomentazioni degli Elements (E 16-17, it 31; E 17, it 246). Il giudizio propriamente negativo sulla categoria di prudentia viene reso esplicito nel Leviathan e nel De corpore; in quest’ultima opera la pru-
93 L’Introduzione alla traduzione inglese della Guerra del Peloponneso di Tucidide èin EW, VIII, pp. I-XXXII (trad. it. G. Borrelli, Napoli 1986); il manoscritto De principiis cognitionis, n. 5297 della Biblioteca nazionale del Galles, èstato pubblicato in Italia da M.M. Rossi, in Alle fonti del deismo e del naturalismo moderno (Firenze 1942).
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dentia viene espunta dalla filosofia (L 97, 117, 138, 183-184, 682; it 22-23, 40, 59, 99-100, 538; Co 3, it 71). In quanto costretta nei
limiti della sola notificazione! dell' esperienza, la prudenza non rende possibile alcuna generalizzazione conoscitiva e non consente la fondazione di una misura universalmente valida del giusto e dell’ingiusto; essa vale unicamente a dettare dispositivi di pratico adattamento conservativo in quanto riversa sul presente il vantaggio della memoria delle esperienze passate. Passando al piano specifico della riflessione politica, da un lato, si può cogliere con precisione nella prima progettazione del corpo politico la presenza di elementi prudenziali; quindi gli avanzamenti della teoria politica diventano evidenti proprio in considerazione della critica sempre più stringente portata alla categoria di prudenza politica. Negli Elements, la proposta del patto politico consiste centralmente nell’accostamento di una teoria del consenso alle argomentazioni relative alla necessità di un potere comune coercitivo, in grado di governare le passioni naturali degli uomini: Infatti poiché le volontà della maggior parte degli uomini sono governate soltanto dal timore, ed ove non vi sia potere di coercizione, non vi è timore, le volontà della maggior parte degli uomini seguiranno le loro passioni di avidità, sensualità, collera, e simili, fino ad infrangere quei patti, per cui anche gli altri, che altrimenti li osserverebbero, vengono
posti in libertà, e non hanno legge se non da se stessi (E 111, it 169).
Un posto di rilievo viene allora assegnato alla funzione imprescindibile della forza, che svolge il ruolo prevalentemente negativo di inibire le dinamiche disgregatrici del potere sovrano. La absolute sovereignity offre garanzia di sicurezza ai sudditi, mentre conserva quella decisiva prerogativa di assegnare la punizione?4; ecco allora che il corpo politico è raffigurato come un
54 È interessante notare come in questo scritto Hobbes assegni alla categoria di punishement un rilievo particolare; infatti, la punizione è argomentata in modo complessivo come istituzione voluta da Dio ancora prima del peccato, beneficio dell’umanità in quanto capace di mantenere gli uomini in pace attraverso il terrore, quindi preannuncio di possibile vendetta che configura però un vantaggio futuro (E 99, it 153).
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esercito, il potere assoluto sovrano viene paragonato a quello del generale, la legge civile viene definita come legge marziale; il problema della produzione di obbedienza da parte dei cittadini viene argomentato in modo conclusivo ancora centralmente con la necessità della disciplina militaris (E 117 e 189, it 175 e 262). A partire dal De Cive, come abbiamo visto, con argomentazioni decisamente nuove e complesse, Hobbes pone al centro della propria teoria politica il tema della disciplina civile; intanto, su questo snodo problematico egli progetta di collegare la riflessione teorico-politica sulla categoria di sovranità all’elaborazione propriamente etico-antropologica. In effetti, il discorso sulla disciplina diventa l’avvio dello sviluppo dimostrativo della filosofia civile; questa novità dell’impostazione antropologica può essere rappresentata dall’espressione, già prima riportata, che incontriamo nell’apertura del De Cive: “ad societatem ergo homo aptus non natura sed disciplina factus est” (C/ 92, it 82).
A partire da questo momento, si può con sicurezza ricostruire il percorso attraverso il quale la necessità della disciplina del cittadino viene argomentata da Hobbes in relazione alla teoria dell'obbligazione morale e, successivamente, nel riferimento alle
argomentazioni dell’obbedienza politica: di qui, la teorizzazione del patto politico come processo di duplice obbligazione da parte del suddito costituisce il punto di incrocio tra una teoria del consenso e quelle argomentazioni particolari che possono spingere gli individui ad accogliere le condizioni di un rapporto di attiva obbedienza con l’autorità politica. In effetti, le argomentazioni che collegano la prospettiva della costruzione di obbedienza per il futuro e la necessità della realizzazione del consenso (Consent) attraverso il patto politico sono via via crescenti: consent viene dapprima collegato a future obbedience (Ce 50, it 87); quindi consent è riferito all’artificial Compact, che porta alla costituzione dell’unica volontà sovrana (Ce 87-88, it 125126); consent viene infine posto in stretto legame (tye) con l’au-
torità assoluta, diventando quindi inscindibile obbligazione politica dopo l’avvenuto patto (Ce 105, it 143-144).
Peraltro conviene ricordare che in tre luoghi del De Cive — in contesti anche particolarmente significativi - Hobbes utilizza ancora con ambiguo valore positivo l’espressione Reason of 110
City, volendo con essa intendere il potere razionale ed assoluto della civil Law esercitato dall’autorità del sovrano nell’ambito del corpo politico raffigurato ancora come città (City o Civitas; Ce II, 1, 52; XIV, 17, p. 178 e XV, p. 196; it 90, 214 e 231). Inol-
tre, permangono altri chiari riferimenti ad elementi di tecniche prudenziali: basti considerare l’esplicito richiamo che si fa alla necessità del segreto e delle spie, ‘ed ancora l’argomentazione relativa alla possibilità che i governanti possano comunque esercitare all'occorrenza astuzia e forza (sleight or force) nei confronti degli altri Stati (Ce 138 e 159; it 176 e 195).
Solamente nel Leviathan Hobbes porta a lucido compimento la critica ai modi della funzionalità complessiva della forma della prudentia politica. Secondo l’autore, essa agisce prevalentemente attraverso tecniche di forza e frode; force and fraud: con questa sintetica espressione l’autore riferisce alla letteratura della ragion di Stato i congegni della prudenza politica. Tali dispositivi sono decisamente da rigettare in quanto costituiscono una delle cause principali della dissoluzione dello Stato; argomentazioni e tecniche della prudenza politica non aiutano a risolverei conflitti di potere: anzi, operano esplicitamente al fine di mettere in difficoltà l’autorità assoluta del sovrano. The pretenders to political prudence — scrive Hobbes — tendono comunque ad affermare the liberty of disputing absolute power; questi uomini benché generati per la maggior parte nella feccia del popolo, animati tuttavia da false dottrine si occupano indebitamente e perpetuamente delle leggi fondamentali, con il risultato di molestare lo stato, come i piccoli vermi che imedici chiamano Ascaridi (L 375, it 327).
L’incapacità della prudentia politica per Hobbes è il segno dell’esaurimento completo della funzione di repraesentatio auctoritatis in quegli Stati dove potere temporale e potere spirituale hanno operato ed operano ancora in modo confuso. Forza, frode, astuzia: sono gli esiti estremi e residuali di quei governi che hanno realizzato per il passato il controllo dei comportamenti, del sapere e della devozione, perseguendo il proposito “di rendere più atti all’obbedienza, alle leggi, alla pace, alla carità e alla società civili quegli uomini che contavano su di loro” (L
173, it 107).
Ig:
Il fallimento della prudenza politicaè espressione dell’incapacità della tradizionale politica ecclesiastica di collegareifini di lungo periodo — ed innanzitutto la sicurezza della vita e la salvezza spirituale — con i fini prossimi degli interessi individuali. Ecco perché l’uomo prudente — come abbiamo visto— vive il futuro con ansietà: così l’uomo che, preoccupato del futuro, guarda troppo lungi davanti a sé, ha il cuore roso, per tutto il giorno, dal timore della morte, della povertà 0 di altre calamità, e non trova riposo, né pausa alla sua ansietà, se non nel sonno (L 169, it 103)?9.
L’ansia incontenibile dell’uomo prudente costituisce precisamente il segno che la politica di trascendenza non riesce più a motivare ed a realizzare obbedienza da parte dei credenti. In definitiva, la prudenza pretende di orientare complessivamente la vita umana: ma in realtà essa noh' consegue il positivo conteni-
mento degli uomini; in definitiva, la prudenza è presunzione di spiegare cose passate oppure quanto viene chiamato futuro in
base all’esperienza del tempo passato (L 97, it 26); tuttavia, argomenta Hobbes: solamente il presente esiste in natura e le cose passate esistono solo nella memoria; ma le cose a venire non esistono affatto, poiché il futuro non è altro che una finzione della mente, che applica la sequenza di azioni passate alle azioni che sono presenti; e questo viene fatto con maggiore certezza da chi ha maggiore esperienza, ma non con una suf-
ficiente certezza. E, sebbene si possa parlare di prudenza quando l’accaduto risponde alla nostra aspettativa, tuttavia nella sua natura pro-
9 Esiste una curiosa corrispondenza tra questa raffigurazione hobbesiana dell’uomo prudente e quella descritta per la stessa figura da Virgilio Malvezzi nel Tarquinio Superbo (prima edizione presso Clemente
Ferroni, Bisogna
1632; cito dall’edizione pubblicata presso Giacomo Monti, Bologna 1639, p. 11: “L'huomoè di sua natura libero,nato per comandare, o almeno per non servire; L'huomoè sfrenato nelle sue passioni; Egliè prima animale, che rationale. Il maggior freno, che habbia, è il timore, perchéè il maggior affetto, quando non s’inoltri tanto, che si faccia discacciare da quella disperatione, ch'egli stesso produce. Colui, ch'è disperato della vita, non può temere della ‘morte, perché si tiene già morto, e ‘l futuro è solamente capace di timore”.
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pria non si tratta altro che di presunzione. Perché la lungimiranza sulle cose a venire, che è un prevederle, appartiene soltanto a colui dal cui
volere esse dovranno venire (L 97, it Santi 43).
3. Una nuova sconvolgente antropologia Intervengono a questo punto le novità sconvolgenti dell’antropologia hobbesiana: a differenza della falsa pretesa conservativa della prudenza, secondo Hobbes, “l’uomo non può assicurarsi il potere e i mezzi per viver bene che ha al presente senza acquisirne di maggiori” (L 161, it 94); infatti, “felicità è continuo progredire del desiderio; continuo successo nell’ottenere quelle cose che a volta a volta si desiderano”; in questo mondo non esiste una sola mente soddisfatta (Mind satisfied), è impensabile una perpetua tranquillità (perpetual! Tranquillity of Mind; L 160, it 93). Come abbiamo visto sopra, già negli Elements Hob‘ bes aveva sottolineato l’inappagabilità degli umani desideri: Poiché ogni piacere è un appetito, e l’appetito presuppone un fine più lontano, non vi può essere contentezza se non nel continuarlo a desiderare: e
quindi non dobbiamo
meravigliarci,
quando vediamo che
quanto più gli uomini ottengono ricchezze, onori o altro potere, tanto più il loro appetito continuamente cresce (E 30, it 52).
Appetito e desiderio esprimono una tensione interna al soggetto che è contrassegnata da una temporalità che può assumere strade diverse: “ogni uomo, per naturale passione, chiama bene quel che gli ingenera piacere per il presente, o per il futuro, tanto in là quanto egli possa prevedere, e in modo analogo, ciò che gli ingenera dispiacere, male” (E 93-94, it 145). Il tempo scandisce i ritmi della vita individuale in relazione con l’appagamento dei singoli desideri e al fine della realizzazione di un piacere che non può considerarsi mai finito: qui è la radice del comportamento degli uomini che tendono ad estendere il proprio singolo potere su tutto e su tutti. Viano sottolinea la dinamica decisiva della relazione di potere e tempo: “il potere è la capacità di agire secondo gli stimoli emotivi, ed è l’elemento che si introduce quando la reazione emotiva dell’uomo agli stimoli si organizza T15
lungo una prospettiva temporale. L’ampiezza del potere è determinata dalla sezione temporale che abbraccia? Ma se l’inclinazione generale di tutta l'umanità consiste “in un desiderio perpetuo e senza tregua di un potere dopo l’altro che cessa solo nella morte” (L 161, it 94), la malinconia sta a segnalare che una parte consistente degli uomini vive in modo ne-
gativo queste dinamiche di acquisizione dipoteri; ecco la caratteristica principale della sofferenza malinconica: la prostrazione (Dejection of Mind) assoggetta l’uomo a timori senza causa; è questa una pazzia comunemente chiamata malinconia, che appare anche in maniera diverse, come nel frequentare luoghi solitari e sepolcri, nel comportarsi in modo superstizioso, e nel temere, chi una, chi un’altra cosa particolare (L 140, it 72).
La malinconia non è più considerata da Hobbes come la malattia della mente causata — secondo le spiegazioni della tradizione dei saperi medici ippocratico-galenici che dall’antichità era giunta fino all’epoca rinascimentale — dagli squilibri umorali prodotti dalla bile nera”: piuttosto, la depressione malinconica resta condizionata da dinamiche corporee interne all’uomo, che impediscono il positivo scorrimento degli impulsi naturali, di qui la condizione di sofferenza. In particolare, la categoria di afflizione (Grief) descrive la condizione dell’uomo che soffre dell’aspettativa di conseguenze spiacevoli, del futuro reso incerto dalla propria incapacità; essa si distingue dalla condizione di pena immediata (Payne) per la sofferenza presente di un dispiacere del.senso: Grief deriva in5% C..A. Viano, Analisi della vita emotiva e tecnica della politica nella filosofia di Hobbes, «Rivista critica di storia della filosofia», XVII (1962), 4, p. 373. Rinvio anche al mio lavoro dedicato al tema di Semantica del tempo e ‘politica in Thomas Hobbes, in «Il pensiero politico», XV (1982), 3, pp. 492-513. 57 Impressionanteè la letteratura su questo tema. Mi limito a segnalare testi critici introduttivi: V. Di Benedetto, // medico e la malattia. La scienza di Ippocrate (Torino 1986); R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia (Torino 1983); Rudolf e Margot Wittkower, Nati sotto Saturno (Torino 1963); G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale (Torino 1977); infine, L. Bottani, La malinconia e il fondamento assente (Milano 1992).
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vece dal processo interno alla mente che anticipa l’immagine di una conseguenza negativa della propria azione. Esistono peraltro modi diversi di vivere questa sofferenza interiore, che Hobbes descrive minutamente:
— afflizioneèvana gloria (vaine-Glory) ( consiste nel fingere o NEL supporre abilità, che sappiamo di non avere; — afflizione per la scoperta di qualche mancanza di abilità è la VERGOGNA (Shame) o la passione che si scopre nell’ARROSSIRE e consiste nell’apprendere qualcosa di disonorevole;
— l’afflizione per la disgrazia di un altro èla PIETÀ (Pitty), e sorge dall’immaginare che una disgrazia simile può accadere a noi stessi; — l’afflizione per il successo di un competitore nelle ricchezze, in un onore o in un altro bene, se è congiunta con lo sforzo di rafforzare le
nostre abilità per eguagliarlo o superarlo, viene chiamata EMULAZIONE (Emulation), ma se è congiunta con lo sforzo di soppiantare o di impedire un competitore, INVIDIA (Envie) (L 125-126, it 56-58).
In questi casi, l'individuo non vive la presenza: piuttosto, il soggetto è sbilanciato o dalla memoria verso il passato, oppure viene proiettato— in seguito ad un eccesso dell’immaginazione —
verso quanto viene comunemente pensato/vissuto come possibile futuro. Gli eccessi di passioni e di fantasia condizionano negativamente la mente umana: “tutte le passioni che producono un comportamento strano e inusitato, sono chiamate con il nome generale di pazzia... E se gli eccessi sono pazzia, non c'è dubbio che le passioni stesse, quando tendono al male, sono gradi di essa” (L 140, it 72).
La malinconia è dunque, per Hobbes, una forma di pazzia: la descrizione fenomenologica delle sofferenze da essa indotte nel soggetto malinconico ci fa intendere la perdita della presenza, il suo andamento altalenante tra passato/memoria e futuro/immaginazione, la ciclotimia di entusiasmo e di depressione, di Pride e Dejection: è appunto la bipolar Disease, malattia epocale designata anche col nome di Elizabethan Malady, analizzata da studiosi contemporanei di Hobbes quali Thi-
mothy Bright, Thomas White e Robert Burton?f. 58 Thimothy Bright, A Treatise of Melancholy, London 1586; Thomas
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Oltre l’articolata fenomenologia della sofferenza malinconica, resta ancora da spiegare più in profondità quali sono secondo Hobbes le cause di questa malattia mentale. Il percorso argomentativo hobbesiano è rigoroso e prende inevitabilmente origine dalle capacità, diverse in ciascun individuo, di governare il fondo originario delle proprie passioni: gli uomini, per la differenza delle loro passioni, danno nomi differenti ad una sola e medesima cosa; così quelli che approvano un'opinione privata, la chiamano opinione, ma quelli che non la gradiscono, eresia, e pure eresia non significa nulla più che opinione privata, con solo una maggior tinta di collera (L 165, it 98).
I percorsi del malessere malinconico si legano, da una parte, alla ostinatezza delle passioni (Stubborness ofPassions) che consiste in quella situazione di rigidità che costituisce sicuramente il presupposto del conflitto con gh altri individui poiché produce opinioni non condivise dagli altri: e tanto accade comunemente per le credenze religiose. Principalmente, Hobbes specifica che prostrazione della mente è “l’afflizione che si ha dall’opinione di mancanza di potere” (Grief, from opinion of want of power, is called Dejection of mind; L 125, it 56): come a dire che una delle forme sicuramente più gravi della formazione di quel private Spirit — che consiste appunto nella rigida credenza in qualcosa che non si riesce normalmente a condividere con gli altri e che costituisce la causa prima del malessere malinconico — deriva dall’opinione del singolo individuo di non essere capace di estendere il proprio potere sulla realtà circostante. Conviene Wright, The Passions of the Minde, London 1601 (reprint Hildesheim-New York 1973); per quanto concerne l’opera di Robert Burton vedi sopra. Per la ricerca storica sulla Elizabethan Malady esiste una notevole produzione: L.C. Knights, Seventeentb Century Melancholy, in Drama and Society in the Age of Johnson (London 1937), pp. 315-332; L. Babb, Melancholy and the Elisabethan Man of Letters, in «The Huntington Library Quarterly», 1941, 3, pp. 247-261; M.H. Curtis, The alienated Intellectuals of early Stuart England, iin «Past and Present», 23 (1962): trad. it. in Crisi in Europa, a cura di T. Aston, (Napoli 1968), pp. 395-423; infine, L. Stone, The Causes of the English Revolution. 1529-1642 (London 1975), p. 114. Per l’approfondimento ulteriore della saggistica critica risulta decisamente utile il lavoro sopra citato di M. Simonazzi.
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sottolineare che Hobbes non parla di incapacità comprovata concretamente, ma appunto della convinzione mentale, astratta e magari infondata che l’individuo malinconico coltiva, di non essere in grado di utilizzare gli strumenti naturali e artificiali che pure sono a sua disposizione, utili ad estendere il proprio potere originale. Per quest’aspetto, secondo quanto Hobbes argomenta, la malinconia sembra allora derivare da una vera e propria lesione dell’immaginazione — come sosteneva pure Burton —, che diventa causa dello squilibrio mentale dal momento che oppone gli eccessi di fantasia ai percorsi dell’acquired wit, dell’intelligenza umana che si lascia invece disciplinare attraverso il metodo e l’educazione.
4. L’artificio retorico dello stato di natura La condizione di sofferenza mentale degli uomini è la carat| teristica principale del vissuto umano in quella condizione di esistenza pre-politica che Hobbes definisce stato di natura: è questo un luogo ipotizzato dal pensiero filosofico dove non esiste ordine civile e non risulta quindi strutturato un potere idoneo a contenere le passioni degli uomini. Per definizione, lo stato di natura è lo stato di guerra di tutti contro tutti; in esso, scrive Hobbes, “la vita dell’uomo è solitary, poore, nasty, brutish and short (nell’edizione latina: solitaria, indiga, bruta, brevis):
questa famosa espressione hobbesiana deriva sicuramente dall’opera Z Mondi di Anton Francesco Doni, che descrive l’infelicità della esistenza umana, oppressa da vanità e malinconia: “la vita è breve, caduca, dubbiosa, misera e mortale”5?,
59 Nel Leviathan la famosa espressione hobbesiana si trova nel capitolo XIII (L 186, it 120), nella edizione latina, Opera philosophica, III, p. 100; nel De cive figura in I, 13 (Ce 49, it 87). L'espressione di Anton Francesco Doni è po-
sta in bocca al sazio academico peregrino nell’introduzione al capitolo dei Mondi dedicato al Mondo grande: “in questo nostro Mondo Grande... leggerete l’infelicità di questa breve vita, caduca, dubbiosa, misera e mortale”. L’opera del
Doni viene pubblicata in due parti: la prima, / Mondi. Libro primo, Venezia, Marcolini, 1552; quindi, Inferni. Libro secondo de Mondi, Venezia, Marcolini, 1553; la citazione è tratta dall’edizione curata da P. Pellizzari, I mondi e gli in-
Ti%
Hobbes riprende il canone tardo-rinascimentale di Doni innanzitutto per descrivere i caratteri della follia umana come condizione ordinaria dell’umana esistenza (il mondo è una “gabbiata di matti”, scriveva Doni); ancora egli intende fare riferimento
alla sofferenza del soggetto contemporaneo che vive il contesto tragico delle guerre di religione e degli scontri civili: utilizza quindi questo luogo retorico per significare la minaccia permanente di un tempo miserabile dell’esistere umano che può aprirsi in ogni momento della vita presente. Da questa figura retorica parte il congegno espositivo del Leviathan: l’astrazione metodologica pone l’individuo libero ed eguale come soggetto del diritto naturale all’autoconservazione, eppure immediatamente esposto ai conflitti che minacciano la sua sopravvivenza; questo soggetto è ragione pronta all’esercizio del calcolo efficace, ma intrinsecamente contraddetto dall’angoscia vivida, dalla paura della morte violenta. La finalità espositiva di questi passaggi — che prendono avvio dal capitolò ‘tredicesimo del Leviathan — è la messa in viva evidenza della minaccia che attanaglia alle radici la vita umana; ciascuno è chiamato a sciogliere l’inevitabile opzione: praticare l’assoluta autodeterminazione del giudizio e del governo di sé oppure fare ricorso alle capacità adattive della propria intelligenza (wit) e del proprio corpo. Il progetto politico hobbesiano è centralmente rivolto a congetturare la produzione originale di un ordine politico che contribuisca ad attutire il carattere irrimediabile degli antagonismi — e delle relative sofferenze — che gli uomini vivono nello stato di natura, vale a dire nel contesto delle guerre civili causate dallo scontro radicale tra professioni religiose. L’esemplificazione enfatizzata degli orrori conseguenti prodotti da antagonismi indivisibili viene raffigurata da Hobbes anche attraverso il richiamo alla realtà storica delle condizioni di vita degli indiani d’ Ameriferni (Torino 1994), p. 57. Risulta anche interessante notare che la notissima espressione “homo homini lupus” — altra metafora con la quale Hobbes descrive la condizione dello stato di natura — viene quasi sicuramente presa dall’opera di Stefano Guazzo, La civil conversazione (utilizzo l'edizione a cura di A. Quondam, Modena 1993), vol. I, p. 32; Hobbes conosceva bene l’opera e può
avere tratto da questo luogo la sentenza plautina, peraltro già riutilizzata da Erasmo e da Guicciardini (vedi in op. cit., nota di Quondam, vol. II, p. 84).
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ca, che vivono il permanente pericolo della morte violenta (vi0lent death): ivi, in assenza di un’autorità, di un potere comune, governano unicamente forza e frode (force and fraud). Hobbes mette allora in campo un dispositivo teorico attraverso il quale sottopone ad analisi i livelli delle divisioni che possono diventare antagonistiche, vale a dire irrimediabili (così come si prospetta per le vicende inglesi contemporanee), se non si trovano dispositivi idonei di conversione e di neutralizzazione. A suo modo di vedere, la tipologia delle divisioni che oppongono reciprocamente gli individui nella condizione dello stato di natura e che rendono gli uomini tra di loro nemici (hostes, enemuies) è costituita da tre forme principali: — competition: per fini di guadagno (gain)—di estensione necessaria del proprio potere — gli uomini esercitano violenza (vi0lence) per diventare padroni (masters) degli altri; — diffidence: per fini di sicurezza (safety)—per difendersi anche con anticipazione dall’attacco degli altri — gli uomini non esitano ad applicare mezzi adeguati di violenza; — glory: per fini di reputazione (reputation), gli uomini combattono con estrema determinazione coloro che rendono evidenti opinioni differenti e segni di scarsa valutazione sul loro operato (differents opinion, signe of undervalue) (L 184-185, it
119-120).
L’analisi della natura dei conflitti apre al punto delicato dell’intervento della ragione naturale che agisce in modo da garantire l’esercizio del diritto naturale di selfpreservation, di autoconservazione. La letteratura critica ha però anche intravisto nel processo argomentativo d’autorizzazione della sovranità — finalizzato da Thomas Hobbes alla dimostrazione della necessità di quell’obbligo politico che unicamente può contribuire a sottrarre gli individui alla distruttività della guerra reciproca — i termini di un articolato artificio retorico, i cui principali elementi risulterebbero bene evidenti: una teoria antropologica strutturata sull’inevitabilità dei danni indotti da conflitti inter-individuali induce singoli soggetti alla ragionevole accettazione dell’ordinamento politico-giuridico di sovranità. Certamente può apparire insufficiente e debole la descrizione hobbesiana dei fenomeni cruenti indotti dagli eventi delle guerre civili in Inghilterra e sulTi9
la terraferma europea: tuttavia, da un lato, bisognerà riconoscere a Hobbes come del tutto congrua e corretta l’identificazione del carattere essenzialmente religioso degli antagonismi in campo, che spingono a gettare le esistenze umane nella miserabile situazione dello stato di natura; dall’altro lato, si dovrà rendere merito al pensatore inglese per lo sforzo di rappresentare il congegno di sovranità come strumento di riconversione di quegli antagonismi. La posta in gioco dell’itinerario espositivo intrapreso da Hobbes è quello della validità del congegno artificiale del Leviatano, inteso come macchina destinata ad offrire ordine politico nel contesto degli antagonismi che mettevano in forse la possibilità stessa della convivenza civile in un’epoca drammatica per molte delle regioni europee; in particolare, per il contesto inglese, conquista e guerra civile diventano argomenti che fanno precipitare sul presente il problema antiéo, ma ancora vivo, della dominazione normanna avvenuta tramite la conquista e che si ripropone nella necessità urgente di trovare rimedio alla guerra civile che travaglia la nazione inglese. Foucault ha voluto sottolineare con particolare enfasi questo snodo che non può non impegnare gliinterpreti a leggere lo sforzo teorico hobbesiano - il programma di sovranità — come messa alla prova del dispositivo politico finalizzato alla soluzione della guerra civile in Gran Bretagna®0. Il suggerimento implicito nell’avvio dell'esposizione teorica — che deve costituire il ragionato punto d’arrivo dell'intero svolgimento della materia teorica — è preciso: ogni singolo individuo può rendersi convinto che non si deve fondare la sicurezza della propria vita sull’esercizio dell’opinione privata e dell’autogoverno; questo genere di comportamenti produce separatezza tra gli individui ed accresce inevitabilmente conflitti e sofferenze. Piuttosto, quella tendenza generale dell’umanità rivolta alla produzione incessante di potere può essere orientata positivamente verso la prospettiva del conseguimento dei mezzi per una vita sicura ed agiata. Per realizzare questo fine risulta necessaria l’isti-
9 Vedi di M. Foucault, “Il faut défendre la société”, cit., in particolare la lezione del 4 febbraio 1976, pp. 75-100.
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tuzione sovrana dello Stato Leviatano: ciascun individuo è chiamato a decidere in proprio di tale possibilità.
5. Le figure dell’esclusione Il processo istitutivo della sovranità dello Stato Leviatano vede in campo soggetti diversi che possono dividersi in due grandi categorie: — individui che attivano consapevolmente i propri poteri, naturali ed artificiali, secondo la misura del calcolo razionale di co-
sti/benefici e nel rispetto delle leggi civili: questo tipo di agire contribuisce positivamente all’attivazione dell’ordinamento politico-giuridico di sovranità; — soggetti che in modi differenziati esercitano i propri poteri naturali e strumentali, che tendono però a sottrarsi al rispetto del dettato delle leggi poste dalla sovranità. Ma quali sono questi soggetti che incontrano serie difficoltà nell’aderire alla rinuncia di parte dei propri poteri e nel partecipare al processo di autorizzazione? Innanzitutto, come abbiamo visto, sono destinate all’esclu-
sione nel Leviathan le figure dei malinconici, più generalmente dei folli. Abbiamo visto che i percorsi del malessere malinconico — in quanto si legano all’ostinatezza delle passioni (Stubborness of Passions) — favoriscono quei comportamenti di rigidità che riscontriamo nelle credenze religiose. La sindrome malinconica peraltro non evidenzia con immediatezza la propria pericolosa valenza politica: questo punto della visibilità della sofferenza mentale è particolarmente importante per Hobbes. Infatti, a quest’altezza dell’argomentazione hobbesiana s’innesta il rapporto tra follia, malinconia ed eventi politici; nella dimensione interiore del singolo individuo la sofferenza malinconica si lega all’esaltazione di quel private Spirit, la credenza di essere ispirati direttamente da Dio, che diventa esplicitazione della pazzia solo nel movimento convulso e pericoloso della moltitudine: sebbene l’effetto della follia in coloro che sono posseduti dall’opinione di essere ispirati, non sia sempre visibile in un uomo attraverso 121
qualche azione molto stravagante che proceda da tale passione, pure quando molti di loro cospirano insieme, la rabbia dell’intera moltitudine è abbastanza visibile (L 140, it 72).
Ecco allora tracciato da Hobbes il percorso che disvela le connessioni della trattazione di Madness e Melancholy con il discorso specificamente politico. Infatti, dalla condizione della credenza privata (private Spirit) si passa facilmente alla convinzione di essere ispirati (Inspiration) direttamente da Dio, e di qui poi alla determinazione di conservare a qualsiasi costo — magari anche attraverso la cospirazione (Conspiracy) dei pochi contro tutti — questo stato particolare di privilegio. Il comportamento di chi antepone ad ogni altra cosa la credenza assoluta del private Spirit interviene a confondere pericolosamente il livello della vita civile con quello dell’espressione religiosa. Si tratta di una catena di pratiche e di credenze individuali, private, che possono pericolosamente incidere sul piano pubblico dell’ organizzazione della vita civile con effetti che possono essere tragicamente laceranti dell’unità politica statuale. In effetti, il pericoloso corto circuito tra esperienze di individui malinconici, comunque sofferenti mentalmente, può innescare un movimento collettivo di disgregazione dell’autorità politica in qualsiasi momento: le loro singole passioni diventano parti del “seditious roaring of a troubled Nation” (L 141, it 73). In definitiva, gli elementi diversi dell’interesse di Hobbes per follia e malinconia si condensano in questo punto: dimostrare che Daemoniacks, Energumeni (cioè mossi dagli spiriti) e Spiritati — come vengono chiamati in Italia, precisa il filosofo inglese — sono forme diverse di pazzia (L 142, it 74). Il pericolo rappresentato da questi individui consiste nel fatto che la prostrazione mentale provoca sicuramente la distorsione dei modi normali di vivere le tendenze naturali dell’appagamento del desiderio di potere nel tempo della presenza; tale distorsione favorisce il lato negativo di svolgimento del desiderio/appetitus dell’uomo, dal momento che colui che rimane ancorato all’attuazione del private Spirit, all'errore della falsa credenza, agisce certamente in modo da separare il bene privato da quello comune. In definitiva, i giudizi e gli appetiti particolari, egoistici, rinchiusi su se 122
stessi, non consentono di produrre poteri vantaggiosi, tantomeno la conservazione e la protezione degli individui: gli uomini “essendo distratti nelle opinioni concernenti l’uso migliore e la migliore applicazione della loro forza, non si aiutano, ma si ostacolano l’un l’altro, perciò, non solo sono agevolmente sottomessi dai pochissimi che si accordano tra di loro, ma anche quando non c’è un comune nemico, si fan guerra l’un l’altro per i loro interessi particolari” (L 224-225, it 164-165).
Bisogna dunque intervenire nei confronti di chi coltiva caparbiamente private Spirit, credenze esclusive, dalle quali traggono movenze concrete di inspiration, di orientamento complessivo della propria azione nelle questioni di fede e congiuntamente nei rapporti con gli altri. Si tratta innanzitutto dei falsi profeti: costoro traducono la propria sofferenza mentale in trame oscure, si pongono ai margini della società ed operano segretamente al fine di danneggiare quell’autorità politica che non riconoscono corrispondente alle proprie assolute interiori opinioni; essi si organizzano in sette eretiche che — come scrive Hobbes nel Bebemoth — fondano la propria azione su private opinion e che sono state la causa principale dei tragici avvenimenti inglesi. Ecco dunque all’opera quelle tecniche di frode o di violenza che sono proprie della prudenza politica: questi uomini si arrogano la libertà di disputare contro il potere sovrano, rischiando di far precipitare la comunità nelle tragiche sofferenze dello stato di natura. In definitiva, bisognerà scacciare folli e malinconici dalla società civile, magari rinchiudendoli a Bedlam, l’ospedale di St. Mary of Bethlehem a Londra - citato nel Leviathan — dove si rinchiudono i pazzi, rendendo quindi a tutti visibile la loro pericolosità (L 141, it 73). In questo caso, l’autorità sovrana inter-
viene prendendo atto della volontà di autoesclusione da parte di questi soggetti e procurando di realizzare una reclusione con mezzi istituzionali. Ancora, l’autorità sovrana deve intervenire più generalmente nei confronti dei possibili nemici interni, vale a dire contro gli ostinati, gli asociali e i ribelli: in breve, quelli che non rispettano la compleasance (compiacenza), la quinta legge di natura, nell’ordine del Leviathan; questa è norma che mostra come ogni 123
uomo si sforzi, si ingegni (strive) ad adattarsi agli altri. Per illustrare il contenuto di questa legge, Hobbes ricorre alla metafora delle pietre che noi sappiamo attribuita allo stoico Cleante®!: Per intenderla, possiamo considerare che c’è, nell’attitudine umana al-
la società, una diversità di natura che sorge dalla diversità delle affezioni, non dissimile da quella che vediamo nelle pietre messe insieme per la costruzione di un edificio. Infatti, come quella pietra che, per l’a-
sprezza e l'irregolarità della figura, toglie alle altre pietre più spazio di quanto essa non occupi, e non può, per la sua durezza, essere spianata agevolmente e ostacola per ciò la costruzione, è messa da parte dai muratori come cosa che non giova e che dà fastidio, così pure un uomo,
che per l’asprezza della sua natura, tenderà a ritenere quelle cose che per lui sono superflue e per gli altri necessarie, non potendo, per l’ostinatezza delle sue passioni, essere corretto, deve essere abbandonato o cacciato dalla società (cast out of Society), come cosa ingombrante in essa. Infatti, dato che ogni uomo, non solo per diritto, ma anche per necessità di natura, si suppone che sisfoàzi di fare tutto il possibile per ottenere ciò che è necessario alla sua conservazione, colui che si opporrà per cose superflue, è colpevole della guerra che, per ciò, ne deve seguire; fa quindi ciò che è contrario alla legge fondamentale di natura, che comanda di cercare la pace. Coloro che osservano questa legge, si possono chiamare SOCIEVOLI (i latini li chiamano commodi) gli altri, ostinati, insocievoli, riottosi, intrattabili (Stubborn, Insociable, Forward, Intractable) (L 209-210, it 146-147)92.
9! Su Cleante e sulla categoria di saggezza stoica in quanto funzione di autodisciplina, decisivo è il saggio di Mario Vegetti, La saggezza dell’attore. Problemi dell’etica stoica, in «Aut Aut», nn. 195-196 (1983). Per quanto concerne
l'influenza dello stoicismo sulle teorie morali e politiche secentesche, sono ormai da considerarsi classici i lavori G. Oestreich, Neostoicism and the early modern State (Cambridge 1982); .E. D’Angers, Reberches sur le stoicisme au XVI et XVII siècles (Hildescheim-New York 1976); G. Abel, Stoizismus und
Friihe Neuzett (Berlin-New York 1978). 92 Quasi sicuramente Hobbes ha tratto la metafora delle pietre da Malvezzi nei Discorsi sopra Cornelio Tacito (presso Marco Ginammi, Venetia
1622), p. 62: “nella Repubblica si dovrà procurare ridurre all’egualità ogni cosa, essendo non solo quelli che sopravanzano gli altri; ma anchora quelli, che cascano in troppa miseria pericolosi, in quella maniera, che avviene nelle fabriche, le quali possono venire corrotte tanto da que” sassi, ch’escono troppo in fuori, tanto da quelli, che sono troppo dentro; e però vi vuol sempre il muratore, che vada misurando queste muraglie, ed accomodando le pietre, non col tagliarle ma riducendole al proprio luogo”.
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È interessante notare come la stessa legge sia argomentata negli Elements facendo ricorso alla nozione cristiana di Charity (E 85, it 132). Nel De ave, al posto delle argomentazioni di carità, troviamo la definizione di questa norma come necessità da parte di ciascuno di rendersi corzmodus, disponibile ad accogliere le consuetudini vigenti; affianco alla metafora delle pietre, compare un esplicito riferimento all’ideale stoico di saggezza presente in Cicerone®*. La saggezza propone agli uomini — attraverso la compleasance — di neutralizzare nei propri comportamenti la negatività di quelle passioni che tendono a renderli asociali; suggerisce contemporaneamente di adattarsi agli altri attraverso l’autogoverno delle passioni per realizzare il fine della conservazione della vita; infine, dichiara la necessità di incidere
sui comportamenti collettivi con la minaccia di scacciare dalla società gli ostinati (Ce 66-67, it 103-104). Queste figure — asociali, ostinati, ribelli — esercitano negati-
vamente il potere naturale poiché puntati sulla private opinion; ‘ essi non rinunciano all’esercizio del jus meum regendi meipsum, del diritto di governare se stessi, che è la parte strumentale del diritto naturale di se/fpreservation. Operando in tal senso, questi individui si pongono contro l’istituzione dell’ordine civile e quindi contribuiscono in permanenza a produrre conflitti civili: contro di loro deve intervenire allora la legge civile che li esclude dalla società; facendo questo, l’autorità sovrana semplicemente esegue il dettato della ragione che ha argomentato la necessità dell’esclusione appunto della legge di natura. Infine, un discorso a parte richiedono le figure degli uomini potenti e quelle dei miseri. I potenti puntano sulprivate interest in modo egoistico fino al punto di porsi contro l’autorità sovrana. Secondo Hobbes, i conflitti generati dalle passioni e gli antagonismi suscitati dagli interessi dei potenti rischiano in ogni momento — ancora dopo l’istituzione del patto politico — di vanificare l’opera di saggezza individuale e l’impegno pratico di quanti vorrebbero garantire lo stretto accordo tra legge naturale e legge civile. Hobbes sottolinea con coerenza che gli interessi dei potenti entrano normalmente in conflitto tra loro e contro la 63 Il luogo è stato identificato da T. Magri nel brano presente nell’orazione In Verrem, II, 78 (vedi nota alla trad. it. del De ave, cit., p. 104).
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stessa autorità politica; ed innanzitutto coloro i quali sono detentori di potere e di conoscenza non accetteranno mai di dovere rinunciare del tutto alla propria condizione di privilegio: Tutti sanno che le ostruzioni a questo genere di dottrina non procedono tanto dalla difficoltà della materia, quanto dall’interesse di coloro che debbono apprendere. I potenti (Potent men) difficilmente digeriscono qualcosa che stabilisca un potere per imbrigliare le loro affezioni (to bridle their affections) e i dotti, qualcosa che scopra i loro errori e che per ciò diminuisca la loro autorità, mentre le menti delle persone comuni, a meno che non siano guastate dalla dipendenza dal potente o scribacchiate con le opinioni dei loro dottori, sono come una carta bianca, idonea a ricevere tutto ciò che vi sarà impresso dalla pubblica autorità (Publique Authority) (L 379, it 332).
All’interno della società politica istituita, resta sempre viva la possibilità che fazioni private di interessi intervengano a porre in difficoltà il potere sovrano. D'altra parte, le stesse decisioni sovrane possono essere favorevoli per alcuni sudditi ed invece scontentare gli altri: in definitiva, resta fondato il dubbio che il rappresentante sovrano possa riuscire a garantire indistintamente per tutti i cittadini la corrispondenza tra il proprio comando -— che deve garantire la possibilità di acquisire beni e risorse artificiali particolari per tutti i cittadini — ed il perseguimento della finalità del bene naturale morale dell’assicurazione della vita. A_ queste condizioni, la pretesa teorica di stringere indissolubilmente obbligazione morale ed obbedienza politica risulta in buona parte infondata. In realtà, nella teoria morale e politica di Hobbes, il tentativo d'integrazione di legge naturale e legge civile non elimina conflitti e tensioni: rimane accordo solo in tendenza.
Per l’altro versante, vale a dire nei confronti di quanti non hanno risorse sufficienti alla sopravvivenza, o che magari si dedicano all’ozio, interviene l’invito di Hobbes ad usare esplicitamente la forza. Nei confronti di questi soggetti, tendenzialmente asociali o che tendono a sottrarsi alle leggi civili imposte dallo Stato Leviatano, si tratta di imporre la dura disciplina del lavoro. Su questo punto sembra che Hobbes richiami direttamente gli scritti di Giovanni Botero, che così scriveva nei riguardi dei poveri, considerati pericolosi alla quiete pubblica: “deve dun126
que il re assicurarsi di costoro, il che farà in due maniere, o cacciandoli dal suo Stato, o interessandoli nella quiete di esso...; s’interessano con l’obbligarsi a far qualche cosa, cioè ad attendere, 0 all’agricoltura, o all’arti, o ad altro esercizio, col cui emo-
lumento possano mantenersi”94. Nel Leviathan sembra che Hobbes riprenda le considerazioni di Botero: Ma le cose stanno altrimenti per quelli dotati di fisico forte: vanno forzati a lavorare (forced to work) e per evitare la scusa che non trovano un impiego, dovrebbero esserci leggi che possono incoraggiare ogni tipo di arte, come la navigazione, l’agricoltura, la pesca e tutti i tipi di manifattura che richiedono lavoro (L 387, it Santi 563).
In definitiva, gli uomini potenti e i miseri non producono irrimediabilmente guerre, ma danno origine a conflitti che debbono essere contenuti da parte dell’autorità sovrana; questa può infatti intervenire trovando rimedi con dispositivi prudenziali da imporre anche attraverso la forza.
6. Produzione di poteri e inclusione nella vita civile Conosciamo quanto sia complessa — all’interno della cornice meccanicistica della filosofia hobbesiana — la definizione di potere; volendo brevemente ripercorrere all’interno del Leviathan l'articolazione espositiva che Hobbes offre a questa categoria bisogna dapprima ricordare come il desiderio di potere (Destre of Power; L 139, it 71) viene presentato come la più importante tra le passioni. Sappiamo anche che Hobbes distingue tra poteri naturali (Natural! Power) e poteri strumentali (Instrumentall Power):
— il potere naturale di un individuo viene definito come “his present means, to obtain some future apparent Good”; tale potere agisce diversamente nell’uomo e nella donna; riguarda le facoltà del corpo e della mente, come la forza, la bellezza, la prudenza, l’arte, l’eloquenza, la liberalità;
4 G. Botero, Della Ragion di Stato, cit., IV, vii, p. 172.
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— sono poteri strumentali quei poteri che, acquisiti per mezzo dei primi o della fortuna, sono mezzi e strumenti per acquisirne di più: come Riches, Reputation, Friends, e quel segreto operare divino che gli uomini chiamano Good Luck, la buona fortuna (L 150, it 82; vedi pure in E 14 e 34, it 28 e 58).
Nella definizione hobbesiana dei poteri — meglio parlarne sempre al plurale — bisogna dapprima sottolineare il legame della categoria di potere con la nozione di tempo: su questo punto intervengono le più importanti novità dell’ antropologia hobbesiana; come abbiamo visto sopra, ogni individuo ènormalmente incline ad esercitare un desiderio perpetuo di potere e deve necessariamente obbligarsi a questo poiché l’uomo “non può assicurarsi il potere e i mezzi per viver bene che ha al presente senza acquisirne di maggiori” (L 161; it 94): secondo Hobbes, questo criterio prudenziale è alla base della produzione di ogni specie di potere. Già negli Elements risultano con evidenza sia la denuncia della filosofia aristotelica del sommo bene, sia il rifiuto della prospettiva rinascimentale e machiavelliana della centralità ma anche dei limiti propri della produzione dei poteri da parte degli uomini; Hobbes intende invece sostenere che non vi può essere appagamento poiché la felicità consiste nell’esercizio interminabile di produrre poteri per rafforzare ed incrementare poteri. In particolare, la produzione dei poteri mette capo a due tipi di beni differenti: — quelli di autoconservazione (selfpreservation), che implicano il riconoscimento reciproco finalizzato alla conservazione di sé: gli uomini producono questo bene quando si rendono conto che inutile e vana è la pratica dell’anticipation, “cioè il padroneggiare con la forza o con la furberia quante più persone è possibile, tanto a lungo, finché egli veda che nessun altro potere è abbastanza grande per danneggiarlo” (LZ 184, it 118); si tratta di beni che ciascun soggetto vuole realizzare in modo primario e che non possono essere ridotti al calcolo costi/benefici, premi/sanzioni: nemico è sicuramente colui che si sottrae in forme diverse all’esercizio del reciproco riconoscimento o che esplicitamente colpisce il senso di vain glory che sostiene ciascun soggetto95; 9 La funzione importante che la categoria di riconoscimento svolge nel pensiero politico occidentale è stata giustamente richiamata da Alessandro Piz-
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— l’altro tipo di beni — che si realizza tramite l’esercizio del diritto di proprietà — è quello che viene introdotto in seguito all’istituzione della società civile, e resta attivo grazie alla capacità di ciascun cittadino di calcolare le conseguenze delle proprie azioni sulla base delle regolarità poste dallo Stato-Leviatano. Il potere civile, in quanto potere comune, viene realizzato allorquando gli uomini rimangono persuasi che la possibilità di istituire l'ordine civile impone la rinuncia di gestire il proprio potere naturale: di qui viene affermandosi la convinzione di cedere quella parte strumentale del diritto di selfpreservation che pretende di esercitare in autonomia il governo di se stesso (jus meum regendi meipsum); si afferma dunque la necessità di istituire l’autorità sovrana poiché si vede in essa la garanzia dell’ordine comunitario: quindi prendono avvio il processo di autorizzazione e le complesse procedure contrattuali; ancora, la sovranità viene assunta come criterio del giusto e dell’ingiusto, come | principio stesso di verità per una serie differenziata di effetti. Sul piano delle relazioni tra poteri individuali e potere civile questo processo si può descrivere — usando la felice espressione di Jean Hampton — come conversione dei poteri individuali nel potere civile; questo vuol significare che il soggetto che entra nella società civile si dispone ad accogliere 1 criteri di razionalità che appartengono alla sovranità, rinunciando ai propri. Ciascun individuo che intende intraprendere questo percorso deve essere consapevole di tale rinuncia.
zorno, in Il velo della diversità. Studi su razionalità e riconoscimento (Milano
2007); l’autore fa anche qualche riferimento significativo a Hobbes: vedi pp. 181 e 264. Dedica uno sviluppo critico interessante alla serie delle relazioni tra le categorie hobbesiane di passioni-paura-riconoscimento Elena Pulcini, Passioni e politica, in Seminario di teoria critica, Che cos'è la politica (Roma 2008),
pp. 99-120.
66 Scrive Jean Hampton: “the creation of a sovereign involves quite literally the destruction of all reason but the sovereign’own, where this destruction is to be accomplished by each subject’s conversion to the use of the sovereign’ expected-utility calculation to evaluate the rationality of any course action”, in The Social Contract Tradition, cit., p. 210.
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V! o R! > VI: è vettore temporale che risponde al principio machiavelliano secondo cui “a volere che una setta o una repubblica viva lungamente, è necessario ritirarla spesso verso il suo principio” ° (Discorsi, III, 1: per accidente estrinseco e per pru-
denza intrinseca; Machiavelli richiama pure le innovazioni politiche introdotte a Firenze dal 1434 al 1494);
dunque, prima di tentare cose nuove bisogna riferire la forma politica presente verso i valori originari: quindi, grazie alla capacità di analisi ripercorrere l'impianto di fondazione; questa funzione può essere impegnata dalla semplice virtù d’un uomo oppure dall’intervento degli ordini di governo; 192
questa temporalizzazione pone in rilievo l’incidenza dinamica del passato sul piano del presente/futuro; il passato è qui considerato come il complesso delle virtù e degli ordini delle istituzioni originarie, che nell’attualità sono investiti dalla corruzione;
la comparazione tra preserîte e passato riguarda in modo particolare la serie dei dispositivi di governo esistenti, in particolare quelle magistrature che — a difesa delle parti diverse della città — svolgono la funzione di contrastare le minacce all’ordine istituzionale: se questa funzione risulta indebolita e la corruzione umana avanza, esse debbono essere modificate;
questo passaggio è preliminare e condiziona l’intero processo dell'innovazione fondativa/rifondativa: è pure da intendere — come viene suggerito dall’uso dell’avverbio spesso — permanente funzione di retroattività come controllo dei processi di innovazione, al fine di ridurre i fenomeni della corruzione e riparare alla mala contentezza;
t*: tempi del riscontro: decisione di virtà (V!) da assumere nei contesti di fortuna (F!); in questo scorrimento — che impegna interventi di soggettività nella presenza — viene ad esercitarsi la qualità dei tempi: si tratta del confronto e del conflitto tra complessioni fisiche (gli umori immutabili. impetuoso e respettivo/prudente) e tempi delle cose (eventi di fortuna): dal riscontro deriva il successo o il fallimento della decisione politica; questo tempo costituisce il fulcro del passaggio innovativo poiché dalla confluenza di t? e t* può verificarsi lo scarto (I), l’asimmetria, che introduce la nuova posizione V;
t": rappresenta la serie di dinamiche di tempi politici plurali, differenti, indefiniti, imprevedibili, irripetibili; in questo genere di temporalizzazione politica non esiste il primato di un’unica variabile temporale (passato o presente o futuro), piuttosto le intersezioni dei tempi producono differenze effettuali nella presenza; i vettori temporali derivano da composizioni determinate di eventi, quindi si tratta di temporalizzazioni condizionate e limitate;
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i tempi risultano dilemmatici: aprono in permanenza a possibilità alternative di governo; questi tempi sono tendenzialmente inclusivi: operano nel senso di contenere e di rappresentare le parti della città, attraverso interconnessioni di tempi pure eterogenei. Esistono certamente altri generi di temporalizzazioni per forme di governo che mescolano gli elementi specifici di principato e repubblica (secondo Machiavelli sono le forme peggiori); eccessivi antagonismi tra dinamiche temporali di conservazione o di innovazione inducono all’impossibilità di forme di governo (ne può derivare licenza, cioè anarchia);
esistono tempi umani non detti, inespressi, sottaciuti, da riferire — nelle condizioni del vivere politico — alle condizioni di non visibilità di parti della città, dell’unzversale (il popolo), della plebe, e così via. I
2. Scritture e pratiche delle ragioni degli Stati: tecniche e tempi della conservazione politica. Il governo di ragion di Stato — in quanto complesso delle pratiche e dei saperi che contribuiscono a strutturare una nuova arte razionale del governo tra Cinquecento e Seicento — viene ad operare secondo un’articolazione delle semantiche del tempo politico che presenta caratteri sicuramente inediti; questo tempo politico si può descrivere come indefinito e conservativo, esso esclude il riferimento all’origine e pure rifiuta di porre il problema del tempo finale, il tempo della salvezza. Questa nuova arte di governo si può riferire ad un progetto che è stato giustamente definito sperimentale — su questo convergono molti autori, da Rodolfo De Mattei a Foucault —, alla stessa maniera dei criteri e
delle procedure del metodo galileiano!!!; in effetti, è messa in !!! Su questo aspetto dello sperimentalismo degli scrittori aristotelici — impegnati nella letteratura della ragion di Stato — insiste R. De Mattei, Propaggini del platonismo e trionfo dell’aristotelismo nel pensiero politico italiano del Sercento, in «Maia», III (1950), pp. 106-112, ristampato in //pensiero politico italiano della Controriforma (Milano-Napoli 1984), vol. II. Per le considera-
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campo una riflessione di tipo comparativo, che pone a confronto teorie e codici applicativi con esperienze teoriche e pratiche realizzate nei diversi contesti regionali italiani ed europei, con l’intendimento di migliorare l'efficacia operativa del programma teorico e politico. Nel lavoro della mia ricerca, ho cercato di offrire articolazio-
ne a questo punto per quanto riguarda il discorso politico fondativo in Italia; il progetto di ragion di Stato viene articolato, discusso e sottoposto a sperimentazione lungo un periodo che dura ininterrottamente all’incirca cinquanta anni: dalla sistemazione boteriana delle definizioni di partenza con la pubblicazione del volume Della Ragion di Stato nel 1589, fino all’opera egualmente sistematica e — potremmo dire — descrittiva dei risultati della ricerca di Scipione Chiaramonti (Della ragion di Stato, Firenze, 1635). Le dinamiche e la rete del dibattito sono straordi-
narie: Apollinare de’ Calderini e Federico Bonaventura intervengono quasi immediatamente per polemizzare con Botero; ‘+ Girolamo Frachetta converte la teoria sotto forma enciclopedica, ampliando il discorso alle voci delle ragioni diverse degli stati e producendo quello che si può considerare il primo dizionario di scienza politica moderna in Europa; Giovanni Antonio Palazzo contesta la cattiva ragion di Stato, mentre Scipione Ammirato esorta al libero esercizio della deroga; quindi, interven-
gono gli scrittori tecnici che mettono a punto la strumentazione idonea alla sperimentazione di dispositivi di dissimulazioni e di simulazioni, Andrea Canonieri, Evangelista Sartonio, Gabriele Zinano; ancora, i contributi criticissimi di Lodovico Zuccolo e
Lodovico Settala, i quali intendono tenere disgiunta la politica dal puro esercizio di ragion di Stato, fino a Scipione Chiaramonti che descrive la molteplicità delle ragioni degli Stati, che possono tutte egualmente pretendere autonomia di pratiche applicative. zioni di Foucault sul galileismo presente nelle scritture di ragion di Stato vedi Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 177 ss. Sugli stessi temi rinvio ai miei lavori: Aristotelismo e ragion di Stato in Italia, in Aristotelismo politico e ragion
di Stato, a cura di A.E. Baldini (Firenze 1995), pp. 181-199; ed ancora, Oltre i percorsi di sovranità: il paradigma moderno della conservazione politica,inSui concetti giuridici e politici della costituzione dell'Europa, a cura di S. Chignola e G. Duso (Milano 2005), pp. 306-328.
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Secondo la nota espressione di Botero, ragion di Stato è “notizia de’ mezzi atti a fondare, conservare o ampliare un dominio”, vale a dire, notitia principis, accumulazione di saperi di ogni tipo finalizzati ad una forma differente di politica; quindi, nuova sistemazione dei saperi di governo. Conviene richiamare l’attenzione sull’opera di Botero intitolata Relazioni universali, vera e propria enciclopedia dei saperi per tutti i continenti e le civilizzazioni allora conosciute, che riscosse un successo enorme in Europa e che deve essere immediatamente affiancata al libro Della Ragion di Stato per poter intendere la prospettiva complessiva del progetto boteriano, attento ad accumulare notizie su ogni tipo di tempi: naturali, storici, antropologici, economici, sociali, politici. Il principe è il soggetto di questa nuova arte di governo, ars pratica per eccellenza; egli deve vivere direttamente per via d’esperienza la politica e deve avere notitia di tutti i tempi utili per il maneggio del governo (Botero); i dispositivi prudenziali della decisione politica — che includono normalmente tecniche di dissimulazione e di simulazione — debbono potere operare determinate intersezioni con i tempi idonei all’esecuzione; ed è proprio questo tipo di relazione tra temiche/tempi che costituisce un evento teorico nuovo di particolare rilievo: a partire dall’argomentazione di Guicciardini, una diversa consapevolezza sulla dimensione tempo/tempi apre orizzonti nuovi all’azione politica. Infatti, come ricostruisce Koselleck, già nell’opera di Guic-
ciardini (Ricordi, II, 58) abbiamo un oltrepassamento del di-
scorso aristotelico, che affermava la verità preliminare del principio “de futuris contingentibus non est determinata veritas”. La verità degli eventi futuri rimane incerta, in antitesi a quella che era stata la profezia: prende forma in questa epoca il concetto di previsione razionale, la nozione di prognosi!!2; di qui pure l’affermarsi della consapevolezza di un uso possibile diverso dei saperi storici, che, per quanto rimangano legati al peso condizionante della dimensione degli eventi del passato, tuttavia sono ri11° R. Koselleck, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtilcher Zieten (Frankfurt a.M. 1979); trad. it., Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici (Genova 1986), pp. 21 123;
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chiamati al fine dell’argomentazione di una diversa concezione del tempo futuro. Per un versante, rimane spiazzata la certezza religiosa di un giudizio universale, prossimo venturo, assunto come criterio assoluto nell’alternativa di scelta tra il male ed il bene: ed ancora,
il futuro viene vissuto come un campo di possibilità infinite, che si articola in gradi maggiori o minori di probabilità; ne deriva un suggerimento prezioso al principe: il soggetto detentore del comando può contare su modalità multiformi e discrete di intervento. Per le tecniche politiche della prima età moderna, ancora su un altro punto riporta l’attenzione Luhmann: a partire da questa concezione differente delle temporalizzazioni, il cumulo e la sedimentazione dei saperi diversi utili al governo - storici, politici, economici, giuridici — rendono possibile la codificazione di regolarità operative. Dalla metà del sedicesimo secolo comincia a farsi strada una diversa valutazione del tempo presente attra‘verso una differente interpretazione della conservazione; questa dismette via via l'ancoraggio tradizionale alla caducità temporale e alla nientificazione del presente per accogliere invece la prospettiva di una diversa possibile produzione che sia cumulativa e accrescitiva: “comincia un processo di trasformazione, che si può indicare come cambiamento di valore della caducità in chances della conservazione e dell’accrescimento”!!3. Da questo momento in poi, per la decisione politica viene resa possibile una specie di temporalizzazione puntualizzata del tempo: sulla base della codificazione delle esperienze passate, tenendo ciascun istante nettamente separato dagli altri, si può ridurre l’esperienza difficile della decisione da operare sui tempi brevi attraverso un selezione ordinata di scelte soggettive di comando. L'opportunità del tempo significa riconoscere e tenere frazionati i tempi dei conflitti— isolati dagli altri contesti significativi— secondo una gerarchia di valori: applicare quindi dispositivi tec153 N. Luhmann, Gesellschaftsstruktur und Semantik (Frankfurt a.M. 1980); trad. it., Struttura della società e semantica (Bari-Roma 1975), p. 261; di questa raccolta si veda in particolare il saggio Temporalizzazione della complessità: la semantica dei concetti temporali nell’epoca moderna.
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nici operativi — anche di dissimulazione e simulazione — attraverso lo spettro complesso di interventi istantanei, arresti improvvisi, fulminee accelerazioni, sospensioni durature, riprese repentine. Gli scrittori politici di ragion di Stato operano allora nel senso di offrire ogni tipo di sapere finalizzato ad una forma di governo che è tutta completamente da inventare e da sperimentare. La finalità di questo governo è esplicitamente conservativa, operando nel senso di produrre una particolare verità: la sostanza dinamica dei tempi della conservazione politica, attraverso pratiche attive di produzione di disciplinamento sociale e di gerarchie definite di potere politico. Secondo Foucault, ragion di Stato è evento riflessivo: lo stato entra nella pratica di riflessione di persone, governanti, consiglieri, teorici, amministratori; sudditi, fino al punto di conseguire un effetto pubblico di verità produrre la convinzione che lo stato esiste, e che esso agiscè come forma razionale dell’esercizio di governo, punto di partenza e di arrivo delle pratiche dei governati. Lo stato si pratica appunto: con una splendida espres-
sione scrive Foucault che sono stati proprio questi scrittori “che parlano di stato, che fanno la storia dello stato, della sua evolu-
zione e delle sue pretese a sviluppare un’entità attraverso la storia, finendo per creare un’ontologia di questa cosa che sarebbe lo stato”!!4, Tra le modalità proprie delle procedure governamentali avviate dalla ragion di Stato e le procedure proprie degli ordinamenti di sovranità — che sfoceranno nella costruzione degli apparati istituzionali di governo dello Stato — viene a realizzarsi un’intricata storia costituita dalle modalità delle relazioni e degli intrecci tra queste due dimensioni: l’obiettivo è ovviamente quello di costruire un nuovo tipo di ordine per la travagliata società europea. Non si può, allora, nell'indagine genealogica e critica della nascita del potere politico moderno affermare un presunto primato della sovranità e dei suoi ordinamenti politicogiuridici: in questo modo si ottiene l’effetto di nascondere le 1!4 Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 182.
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pratiche disciplinari che operano attraverso temporalizzazioni determinate. Questo lavoro critico applicato all’indagine sui tempi e sui dispositivi tecnici del governo di ragion di Statoè in grado di mostrare che l’elemento storico, inteso come l’insieme dei processi che producono i soggetti viventi, resta sempre aperto ed in tensione rispetto alle dinamiche delle relazioni tra poteri: sorge qui la serie delle complesse relazioni tra la nuova arte del governo degli uomini e le forme delle rappresentazioni politico-giuridiche che il dispositivo di sovranità intende offrire a quelle pratiche governamentali.
tt: il punto di partenza deve prendere in considerazione i tempi naturali dei corpi, delle parti della città che entrano in relazione potenzialmente conflittuale; si tratta della specifica analisi boteriana relativa ai tre corpi che costituiscono l’oggetto di studio della politica: grandi, miseri e mezani!!;
2: il processo prende avvio dall’azione del principe (P): il coat che proviene dal principe interviene in termini verticali; con tempi diversi — per qualità ed intensità — le decisioni si riversano sull’intera popolazione attraverso l’esercizio di saperi/tecniche; in tali dinamiche debbono restare coinvolti attivamente tutti e tre i corpi: grandi (G), mezzani (Me), miseri (Mi); il movimento che parte dall’alto deve incontrarsi con il
115 Della ragion di stato, cit., IV, i-ii, pp. 119-120.
e)
movimento che proviene dal basso (da G/Me/Mi): la finalità del processo è quella della produzione di obbedienza;
t}: grazie all'intervento di un sapere storico-politico ormai consolidato (che fa pure riferimento al metodo sperimentale), troviamo all’opera una tecnica politica di retroazione temporale (vedi freccia retroattiva); le decisioni ulteriori via via assunte
debbono prendere in considerazione i risultati delle esperienze pregresse: vengono quindi sottoposti a verifica i processi di consenso prodotto dalle parti della comunità; t4: l’incontro riuscito tra quelle dinamiche temporali consente alle capacità virtuose del principe (Pv) di affrontare il contesto degli eventi e di produrre lo scarto dell’avanzamento innovativo (1); tale innovazione produce la conservazione delle posizioni già acquisite; il processo, che produce un positivo rapporto di comando/obbedienza (P > < G/Me/Mi), rende possibile l’itera-
zione della decisione e la progressione conservativa dinamica: Pisipo:
t°: esistono comunque tempi residuali conseguenti al mancato riscontro tra tempi che provengono dalle decisioni del principe e i corpi: sono i tempi fratti ed incontrollabili delle resistenze e delle rivolte da parte dei corpi; si tratta di eccedenze incontrollabili, che producono sottrazione di ordine al sistema di governo, e che possono assegnare qualsiasi tipo di direzione avversa all’autorità vigente; t": iterazione di tempi politici indefiniti e illimitati nel governo interno della comunità;
le temporalità prodotte operano seguendo regolarità e cercano di stabilire codici di normalità comportamentale in modo diffusò: di qui la possibilità di produrre una codificazione delle tecniche politiche con riferimento determinato ai tempi relativi di intervento; la conoscenza di temporalizzazioni diverse — sedimentata in forme di saperi di archivi — rende possibili qualche forma di auto200
riflessività e previsioni parziali per processi che si possono replicare con relativa sicurezza di successo; questi tempi intervengono attivamente nel senso di produrre interconnessioni reticolari tra le parti diverse della città, seguendo comunque il criterio della gerarchia e degli ordini prestabiliti dei poteri; resta permanente la minaccia di decostruire il processo politico di conservazione da parte di soggetti collettivi che intendono far valere differenze (generazionali, sociali, religiose, etniche, etc.);
questi tempi sono calcolatamente inclusivi o esclusivi; il soggetto del comando politico pone in atto dispositivi per favorire l’inclusione del numero più grande di soggetti, che a loro volta attivamente perseguono l’integrazione omogenea alla situazione di conservazione politica: si cerca di produrre ad ogni costo disciplinamento ed assoggettamento nei confronti delle parti della comunità che agiscono in forma conflittuale; nei confronti dei sog| getti e dei corpi inevitabilmente antagonisti scatta l’esclusione.
3. I tempi della politica moderna nei dispositivi del Leviathan Nel contesto espositivo del sistema degli elementa philosophiae di Hobbes, che esalta il compito dell’astrazione scientifica e che mostra contemporaneamente il legame diretto tra l’uso della scienza e la produzione dei poteri, la filosofia naturale offre una precisa definizione fisica della nozione di tempo. Richiamandosi ad Aristotele, Hobbes scrive: “Il tempo è il fantasma del moto; in quanto nel moto immaginiamo il prima e il dopo, o la successione” (Co 77, it 148). Nella definizione hobbesiana, la
nozione di tempo — legata strettamente a quella di movimento — è costruita come assioma scientifico che non ha possibilità di rilievo empirico: “per l’esposizione del tempo non basta che si déscriva una linea, ma occorre anche che ci sia nella mente l’imma-
ginazione di qualcosa di mobile che passi per quella linea; cioè, occorre il moto uniforme, perché il tempo possa dividersi e comporsi tutte le volte che ce n’è bisogno” (Co 110-111, it 189). La definizione scientifica del tempo viene ricondotta al proble201
ma della sua misurazione: essa viene data da chi impone i nomi di giorno, mese, anno ai calcoli della mente umana. Di questi
fantasmi l’uomo può solo attestare una relazione con la successione propriamente spaziale: per questo motivo il tempo è da definirsi il “fantasma del moto” (Co 90, it 164). L’ordine tempo-
rale viene quindi direttamente riferito all’ordine causale proprio della dimensione spaziale; il tempo viene a differenziare effetti anche uguali dei rapporti tra corpi: “se un corpo in un tempo agisce su un altro corpo e poi lo stesso corpo agisce sullo stesso in un altro tempo... è di per sé evidente che gli effetti saranno uguali e simili, diversi unicamente nel tempo” (Co 98, it 174). Hobbes si mostra perfettamente in linea con la nozione fisica di tempo che sarà data dalla scienza moderna lungo tutto il Seicento fino a Newton: la spazializzazione del tempo, il riferimento diretto e la subordinazione alla fisica dei corpi, la netta separazione tra la definizione fisica dall’altra relativa alla vita spirituale del tempo umano. Intanto, viene resa però possibile — grazie anche alla definizione hobbesiana — una concezione del tempo fisico non più ontologica. Scrive Gargani: “attraverso la costruzione degli schemi del tempo e dello spazio come sistemi della mente umana, Hobbes debellava il modulo interpretativo di tipo intuizionistico dello spazio e del tempo”. Derivano da qui la possibilità di dividere all’infinito il tempo sulla base della computatio mentale ed il riconoscimento di tempi differenti, immediati e continui, finiti ed infiniti!!9; in breve, secondo i fonda-
menti del paradigma meccanicistico, l’intelletto come calcolo d’infinite relazioni temporali. Sulla scorta dell’elaborazione offerta dalla filosofia naturale,
Hobbes si accinge all'impresa davvero creativa di nominare quelli che a suo modo di vedere sono le temporalizzazioni proprie dell’agire umano, dapprima come tempo naturale dei soggetti nello stato primigenio dell’umanità - lo stato di natura appunto — e della libertà umana vissuta in questa condizione, per ‘passare poi alla definizione del tempo artificiale della politica e della libertà civile.
116 Aldo G. Gargani, Hobbes e la scienza, cit., pp. 149 ss.
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Due sono gli elementi che sono alla base dei comportamenti umani, cupiditas e ratio: “due postulati certissimi della natura umana, una del desiderio naturale, per cui ciascuno esige l’uso esclusivo delle cose comuni; e il secondo della ragione naturale,
per cui ciascuno si sforza di sfuggire alla morte violenta come il sommo dei mali naturali” (Ce 27, it 67). È dalle relazioni inter-
correnti tra questi elementi che prendono avvio le temporalizzazioni umane — naturali e differenti per ciascun individuo — come tensione contraddittoria tra ricerca del bene presente e di quello futuro: “ogni uomo, per naturale passione, chiama bene quel che gli ingenera piacere per il presente, o per il futuro, tanto in là quanto egli possa prevedere, e in modo analogo, ciò che gli ingenera dispiacere, male” (E 93, it 145). Se, da una parte, naturale è la tendenza degli uomini a conseguire nel tempo presente un dominio sulle persone e sui corpi, ai tempi privati degli individui appartengono forme diverse d’utilizzazione della ratio naturalis; alle modalità positive dell’uso dell’intelletto corrispondono anche inevitabilmente forme perverse di esercizio della ragione naturale: “il bene vero va ricercato guardando lontano innanzi a sé, e questa è opera della ragione, l’appetito afferra il bene presente, senza prevedere i mali maggiori che ad esso sono necessariamente connessi. Quindi esso perturba ed impedisce l’operazione della ragione: per cui giustamente si dice perturbazione” (H 89, it 127). Il discorso antropologico hobbesiano descrive l’insoddisfacibilità della cupiditas naturale, della struttura del desiderio che consiste in una processualità temporale che non si pone limiti; come sappiamo, l’appetito presuppone sempre un fine più lontano: è esso stesso processo interminabile. Per Hobbes, la cupiditas è condizione naturale della realizzazione da parte di ciascun individuo di potere su tutto e su tutti; è questo il tempo unico naturale in cui vengono innestati da Hobbes i rami della nuova antropologia: non v’è appagabilità di potere rispetto al quale gli uomini possano arrestarsi; la mente di ciascun soggetto rimanere in permanenza insoddisfatta, mentre la consapevolezza dell’incapacità di produrre potere e l’assenza di potere che ne deriva pongono questi individui nella stato della prostrazio203
ne mentale, del profondo malessere della mente (dejection of mind; L 140 e 160, it 72 e 93).
In sostanza, Hobbes lega la produzione dei poteri da parte dei singoli a scansioni di carattere temporale: è poi la natura propria di questo processo temporale infinito a costituire la radice dei conflitti, delle contentions. Se poi ai poteri naturali dei singoli individui incapaci di utilizzare positivamente la ratio si deve attribuire la responsabilità prima dell’insorgenza di divisioni e d’antagonismi, questa contraddizione — connotata temporalmente come tensione permanente che obbliga ciascun individuo a scegliere a fronte della contrapposizione tra bene presente individuale versus bene futuro comune — cerca di convincere/persuadere i soggetti a porsi su un piano che va oltre quello dell’esercizio dei poteri naturali: intanto, viene suggerito che la semplice esperienza naturale del tempo passato risulta inefficace alla progettazione razionale della comunità politica; ancora, viene argomentato che gie andare oltre l’esercizio del potere presente come dominio immediato sulle persone e sulle cose (vedi il tempo unico naturale in cui vivono gli indiani d’America); infine, il concetto di potere cerca di dimostrare che esso riesce a produrre solamente se viene applicato nel riferimento diretto ad un tempo artificiale futuro, reso possibile dalla realizzazione dell’autorità sovrana. La ratio politica è allora essenzialmente tecnica astrattiva che spiega la necessità di differimento/conversione dei bisogni/diritti naturali degli individui sul piano completamente diverso dell’Artificiall Eternity of life costituito dallo Stato Leviatano (L 247, it 189). Per parte propria, il governo politico deve funzionare procurando contentment, deve cioè rendere possibile il contenimento dei cittadini aprendo loro un orizzonte di infinito esercizio di poteri, di vivere con soddisfazione il presente e di rinforzare i poteri già conseguiti in passato (come suggerisce la
saggezza moderna). Ed in effetti, il calcolo sui tempi e la capacità di computare secondo una ratio politica — secondo una capacità di previsione e di progettazione sul futuro — rende possibile il conseguimento di poteri strumentali, quali Riches, Reputa204
tions e Friends, vale a dire quei beni di appropriazione resi possibili dalle leggi civili. In sintesi, passato, presente e futuro dell’individuo cittadino trovano una trasvalutazione ed un cambiamento complessivo di senso nella dimensione strutturata del tempo artificiale del Leviatano.
t!: il punto originario di partenza è costituito dai tempi individuali naturali (A, B, C, D, E) che riguardano i corpi dei soggetti (forza e intelletto), ed anche dai tempi interiori (private opinions) che contribuiscono a fissare l’elemento più drammatico degli antagonismi tra gli individui; tà: tempi dei conflitti permanenti rappresentati dalle esistenze dei singoli individui in una condizione temporale pre-politica, lo stato di natura, in cui ciascuno è contro tutti gli altri; questo spazio (logico, immaginario, ma anche fisico) costituisce una rete di scorrimenti di infiniti vettori: qui prende forma la produzione illimitata di poteri come modi di temporalizzazioni umane che vivono nelle aspettative la tensione presente-futuro; il potere politico trova il suo fondamento in questa produzione illimitata di poteri naturali e strumentali da parte di soggetti che apprendono via via a disciplinarsi, e che vengono in permanenza contraddetti da coloro che non producono poteri, e di questo hanno coscienza;
t3: processo di sovranità come struttura artificiale dei tempi civili, composta sistemicamente da temporalizzazioni diverse: — contemporaneità dei tempi del contratto per i tre soggetti che 205
vi partecipano (A, B, E): ogni soggetto s'impegna contemporaneamente con ciascun altro (patto orizzontale) e con l’autorità politica sovrana (S) (contratto verticale);
— ingresso in una serie temporalmente indefinita di scambi di interessi che prendono avvio dal contratto tra ABE e S: S è condizione dell’attivazione di questi scambi, senza tuttavia essere vincolata;
— condizione di cittadinanza è scelta irrevocabile d’adesione al processo d’autorizzazione: la freccia del tempo politico è irreversibile (non si può argomentare la possibilità dell’uscita): stato è sistema politico chiuso; gli avanzamenti di ABE in A!B!'E! rinforzano retroattivamente i soggetti che prendono parte al contratto; — legittimazione giuridica e sistemica delle procedure di attivazione dell’autorità e del complesso delle pratiche disciplinari: le leggi civili offrono fondamento-di validità alle leggi naturali; — condizione principale per l’esercizio dell’unità politica è che esista un’omogeneità valoriale di base tra gli individui; — la sovranità attiva regolarità temporali nelle pratiche disciplinari e nei controlli (S > S! > $°): produce un'eternità artificiale di vita (artificial Eternity of life);
t*: tempi delle esclusioni incontrollabili: da parte di alcuni individui (C, D) si rendono possibili fondi di resistenza, di sottra-
zione all’ordine politico, che possono assumere qualsiasi direzione; t": tempi politici plurali, naturali ed artificiali, illimitati, indefiniti;
— la legittimazione procedurale dell’autorità viene prodotta attraverso scansioni temporali definite e rappresentata attraverso strumenti giuridici; — la regolarità/normalità temporale è garantita dal sistema autoritativo, che assegna al tempo politico la funzione principale di collegamento e di organizzazione degli altri tempi; — funzione fortemente simbolica dei tempi civili con rappresentazioni di omogeneizzazione di tempi anche eterogenei, tendenzialmente contraddittori (religiosi, economici, etnici, etc.); 206
— 1 tempi civili vengono resi inclusivi/esclusivi dal sistema politico artificiale e dalle scelte soggettive; — tempi straordinari possono causare rotture, danni: si può intervenire con tecniche meccaniche adeguate (Hobbes richiama esplicitamente le parti meccaniche dell’orologio). 4. Brevi annotazioni di differenze
Nei seguenti punti possono essere sinteticamente riportate le principali differenze che contrappongono le prospettive teoriche di Machiavelli e di Hobbes:
— Machiavelli: i tempi politici sono molteplici, plurali, contingenti; non viene affermato il primato di uno sviluppo temporale sugli altri tempi; esistono tempi differenti e autonomi: naturali, individuali, storico-istituzionali, etc.;
Hobbes: la dimensione artificiale dell'ordinamento politicogiuridico di sovranità si afferma come principale, assorbente tutti gli altri tempi (metafora dell’orologio nel De cive); affermazione dell’unità politica, che si rende espressione definita di tem-
pi infiniti; in questo senso la razionalità dello Stato Leviatano sussume e trasfigura le temporalizzazioni delle razionalità particolari; il tempo politico trasfigura i tempi naturali (dei corpi); — Machiavelli: i tempi sono indeterminabili, imprevedibili; derivano da composizioni particolari di eventi; i tempi politici sono dilemmatici; aprono in permanenza a possibilità differenti di governo; Hobbes: tempi differenti, tuttavia condizionati nei loro passaggi; fissati grazie alle particolari caratteristiche vettoriali della procedura sistemico--contrattuale; il contratto non è reversibile; esiste una regolarità dei tempi ordinari dell’esercizio dei poteri individuali imposta dal sistema autoritativo; — Machiavelli: itempi della politica sono tendenzialmente inclusivi; operano nel senso di rappresentare e di contenere le par207
ti differenti della città; i tempi civili tentano di connettere tempi tra loro anche eterogenei; Hobbes: i tempi del sistema dell’ordinamento politico-giuridico stabiliscono e attivano criteri definiti di inclusione/esclusione; il processo temporale di sovranità tenta di rendere omogenei tempi tendenzialmente contraddittori (religiosi, economici, etc.); i processi temporali della legittimazione procedurale vengono rappresentati con strumenti giuridici.
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CAPITOLO SETTIMO Dispotismo, conquista, guerra civile: il carattere doppio dello Stato Leviatano
La categoria di dispotismo trova la propria eleborazione teorica nel percorso di scritture politiche che prendono avvio dal 1640 — segnatamente gli Elements of Law Natural and Politic — ‘ed attraverso il De cive giungono al ’51, anno di pubblicazione del Leviathan inglese. Nelle articolazioni di questi tracciati espositivi, Hobbes richiama le semantiche classiche, aristoteli-
che, ed ancora le più vicine elaborazioni dedicate al dispotismo: vale a dire, da un canto, la difinizione bodiniana di puissance seigneuriale, che già aveva operato da provocazione e stimolo per una seria riconsiderazione di questa nozione!!; dall’altro lato,i contributi di quei teorici del diritto delle genti e del diritto naturale che lavorano sul taglio della crisi in cui versano le dottrine politico-giuridiche tra Cinquecento e Seicento. 117 Bodin include nello svolgimento sistematico della République la trattazione della natura del potere dispotico, puissance seigneuriale, come “la puissance du Seigneur envers ses esclaves, et du maître envers ses serviteurs” (I, 5) e della monarchia a carattere dispotico, monarchie seigneuriale, “où le Prince est fait
Seigneur des biens et des personnes par le droits des armes, et de bonne guerre” (II, 2); in tali contesti l’autore riprende esplicitamente la differenza posta da Aristotele tra monarchia dispotica e monarchia tirannica. Conviene ricordare che il termine seigneuriale proviene sicuramente a Bodin dalla traduzione della Politi ca aristotelica realizzata da Loys Le Roy (1568); peraltro è noto che esisteva in Francia la diversa traduzione delle attribuzioni della despoteia aristotelica con il neologismo déspotisme, coniato già da tempo da Nicole d’Oresme: tuttavia questo termine non aveva trovato fortuna nel lessico politico francese.
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Hobbes interviene nel senso di una determinata decostruzione del carico semantico complesso della nozione di dispotismo, contemporaneamente lavorando in modo definito nella direzione della positiva utilizzazione di tratti molteplici dei significati di questa categoria; si tratta di un’argomentazione sistematica, svolta secondo i termini del consueto rigore espositivo, che presenta differenze nelle scansioni che segnano la maturazione della riflessione, e che approda nel Leviathan ad un evento teorico notevole: l’assimilazione in modo sicuramente originale delle argomentazioni del dispotismo nel discorso di sovranità, e di conseguenza l’assegnazione ad esse di un posto di particolare rilievo all’interno del programma teorico hobbesiano che pone al proprio centro i temi di conquista/guerra civile.
1. Un problema critico: la presenza della categoria di dispotismo in Hobbes La funzione che la nozione di dispotismo svolge nel dispositivo teorico hobbesiano — ed in particolare, nell’articolazione argomentativa della categoria di sovranità — ha ricevuto attenta considerazione da parte degli interpreti della teoria politica di Hobbes; ancora più ne ha ricevuto recentemente, in seguito ad orientamenti critici che hanno voluto attribuire con maggiore determinazione la qualifica di dispotismo al complesso della progettazione politica di Hobbes. Faccio riferimento dapprima al saggio di un noto studioso di Hobbes, Charles D. Tarlton, — un lavoro poderoso, apparso in due parti tra il 2001 ed il 2002 — dal titolo The dispotical Doctrine of Hobbes!!8; qui l’autore ricostruisce e sottopone a decisa !!5 Ch.D. Tarlton, The dispotical Doctrine of Thomas Hobbes, in «History of political Thought», Part 1, 22 (2001 Winter), n. 4, pp. 587-618, e Part 2, 23
(2002 Spring), n. 1, pp. 61-89. Di Tarlton bisogna ricordare una serie di interventi dedicati a Hobbes di rilevante interesse critico: Levitating “Leviathan”. Glosses on a theme in Hobbes, in «Ethics», 88 (1977), pp. 1-19, ed ancora, The
creation and maintenance of Government: a neglected dimension of Hobbes” “Leviathan”, in «Political Studies», 26 (1978), pp. 307-327.
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critica il processo di domestication e liberalization dell’opera hobbesiana, prendendo in considerazione — in modo conciso, ed anche approfondito ed efficace — le maggiori interpretazioni novecentesche, da John Austin a George Croom
Robertson, da
Michael Oakeshott a David Gautier, da Deborah Baumgold a Quentin Skinner; si tratta degli autori che — a modo di vedere di Tarlton — avrebbero contribuito ad accreditare per il filosofo inglese l’immagine di an abstract legal positivist or detached contractarian: un astratto giuspositivista o un distaccato contrattualista. La finalità di questo notevole impegno critico è rivolta esplicitamente a contestare l’interpretazione della teoria politica hobbesiana in chiave liberale: Even when Hobbes*s critics have squarely faced his despotic temper, it has been only to revise or suppress it. Hobbes is often made now to look merely like an abstract legal positivist or detached contractarian; his once alarming and despotical doctrines have been transformed into benign and commonplace theory of formal sovereignity or some dispassionate and rational conclusions drawn from game-theory (mis)calculations!!9. Secondo Tarlton, è la stessa nozione di sovranità ad assume-
re quelle attribuzioni di potere politico absolute, arbitrary ed unlimited, che fino ad Hobbes venivano tradizionalmente richia-
mate per caratterizzare la forma politica del dispotismo: “an absolute authority not bounded by consent, law, individual rights (especially the right of property), or the public good”!29, Questo potere assoluto ed arbitrario sarebbe assegnato ad un ordinamento politico-giuridico che risulterebbe giustificato in teoria su due elementi argomentativi: una “moral demand for complete, simple and unquestioning political obedience”, ed ancora sulla pretesa che “no action of the sovereign can ever be unjust or even critized”!2!, In definitiva, la teoria hobbesiana della sovranità
consisterebbe in una vera e propria teoria della conquista: 119 Ch.D. Tarlton, The dispotical Doctrine of Thomas Hobbes,
pp. 588-589.
part 1, cit.,
Wo Iyispart Zi pbb, 121 Ivi, part 1, p. 589.
211
What always mattered most to Hobbes were such things as the principle of the renonciation of rights, the hypothetical necessity of submission to the conqueror and the fictional authorizing of all the sovereign’s actions in an imagined political consent!?2.
In definitiva, l’eliminazione dei giudizi privati e la completa subordinazione delle volontà individuali all’unica volontà del sovrano costituirebbero gli snodi principali di un congegno di sovranità arbitrario e discrezionale, vale a dire essenzialmente
dispotico. Inoltre, nello svolgimento della sua tesi, Tarlton fa risaltare questa lettura decisamente critica della teoria hobbesiana ponendola a confronto con gli elementi principali del pensiero politico di John Locke, utilizzando un canone che ritorna spesso nella letteratura critica dedicata a Hobbes!?. Più interessante si presenta l’intervento di un altro acuto lettore di Hobbes, Sheldon S. Wolin che agli inizi degli anni novanta del secolo scorso pubblicà un saggio dal titolo Hobbes and the Culture of Despotism; nel saggio sopra citato, Tarlton fa centralmente riferimento a questo lavoro di Wolin, dove viene argomentato — come vedremo in seguito, con i raffinati strumenti di una critica realmente efficace — che il complesso della teoria hobbesiana apre all’utilizzo infondato e perverso di una ragione arbitraria e geometrica che tende ad affermare ovunque la propria potenza, contribuendo ad introdurre in Europa una forma nuova di cultura dispotica: Prior to the eighteenth century, despotism had appeared mainly in association with tyranny and has signified a particular mode of exercising power that was absolute, willful, and illegitimate... Ever since antiquity, despotism has exercised a fascination as a potential liberating force, but with modern times, that emancipatory hope has become linked to the theorizing mind and a theorizable wold... This development appears as the intellectualization of despotism. It involves dis-
122 Ivi, part 2, p. 80. 125 Per l'utilizzazione, con intonazioni pure diverse, del confronto Hob-
bes-Locke per significare i differenti percorsi della modernizzazione politica di parte liberale, due testi risultano molto utili: E.J. Eisenach, Two Worlds of
Liberalism, cit., e W. von Leyden, Hobbes and Locke. The politics of Freedom and Obligation (London 1982).
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solving the person of the despot and reconstituting him as an abstraction-absolute reason, a combination of power and reason that disguises power as legislation!?4.
Alla tesi di Wolin — su cui mi soffermerò più avanti— bisogna dedicare una presentazione ed un commento particolari; peraltro, volendo discutere le convergenti considerazioni di Tarlton e ’olin, argomentate comunque attraverso contenuti decisamente diversi, diventa conveniente restituire dapprima l’articolazione complessa che Hobbes offre alla ripresa ed al riutilizzo del tema del dominio dispotico: ed in questo percorso vedremo anche che — immediatamente affianco a quella di dispotismo — altre categorie rimangono centralmente impegnate negli svolgimenti teorici costruiti da Hobbes: in particolare, quelle di conquista e di guerra civile. Ed in effetti bisogna preliminarmente ricordare che la posta in gioco dell’itinerario espositivo intrapreso da Hobbes è quello della validità del congegno artificiale del Levia‘ tano, inteso come macchina destinata ad offrire ordine sociale e
politico nel contesto degli antagonismi che mettevano in forse la possibilità stessa della convivenza civile in un’epoca drammatica per molte delle regioni europee. In particolare, per il contesto inglese, conquista e guerra civile diventano argomenti che fanno precipitare sul presente il problema antico, ma ancora vivo, della dominazione normanna avvenuta tramite la conquista e che si ripropone nella necessità urgente di trovare rimedio alla guerra civile che travaglia la nazione inglese. Foucault ha voluto sottolineare con particolare enfasi questo snodo che non può non impegnare gli interpreti a leggere lo sforzo teorico hobbesiano come messa alla prova del dispositivo politico finalizzato alla soluzione della guerra civile in Gran Bretagna, vale a dire il programma di sovranità!?5: il nostro problema critico diventa allora 124 Sh.S. Wolin, Hobbes and the Culture of Despotism, in Thomas Hobbes and political Theory, ed. by M.G. Dietz (Lawrence-Kansas 1990), p. 16; gli scritti di Wolin dedicati a Hobbes sono di classico riferimento: qui basterà ricordare il già citato Politics and Vision. Continuity and Innovation in western political d0E80 ed ancora Hobbes and the epic Tradition of political Theory (Los Angeles 1970).
125 Foucault ci offre una lettura ed una critica della teoria hobbesiana di
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quello di intendere percorsi e misure dell’utilizzazione della categoria di dispotismo nella articolazione di quel dispositivo.
2. Tra conquiste e guerre civili Negli Elements, Hobbes pone il punto del diritto di conquista al centro della trattazione del corpo politico che si costituisce come dominio dispotico: questo tipo di comando deriva non dall’offerta volontaria della soggezione (volontary offer of subjection), ma dalla resa per costrizione (yielding by compulsion) (E
128, it 188); la prima forma è quella propria del commonwealth by institution che prende origine dal consenso dei soggetti (by the consent of many men together) che mettono capo ad “una creazione dal nulla ad opera dell’ingegno umano” (E 108, it 166: questa qualificazione scomparirà nel Leviathan); la seconda riguarda la costituzione ed il funzionamento della monarchia dispotica, despotical kingdom o anche patrimonial kingdom. Negli sviluppi argomentativi degli Elements, il potere dispotico resta ancora per qualche aspetto collegato alle modalità d’esercizio della forma di governo monarchica; gli elementi che caratterizzano il regno dispotico sono:
sovranità nella lezione svolta al Collège de France il 4 febbraio 1976; secondo l’interpretazione foucaultiana, la messa in campo della categoria di guerra nello stato di natura da parte di Hobbes non risponderebbe alle condizioni effettive delle pratiche di dominazione poste in essere attraverso gli eventi cruenti e sanguinosi delle invasioni e delle conquiste; piuttosto Hobbes offrirebbe un'esposizione delle guerre come représentations calculées, manifestations emphatiques, tactiques d’intimidation entrecroisées: in breve, affrontements aléatoires finalizzati in apparenza a scandalizzare, in sostanza volte a rassicurare il lettore circa la bontà del progetto di sovranità idoneo a neutralizzare gli effetti drammatici della conquista e della guerra civile interna: “Hobbes a conjuré
en replagant le contract derrière toute guerre et toute conquète et en sauvant ainsi la théorie de l’État” (“/! faut défendre la société”, cit., pp. 77-86). Per un'efficace introduzione ai significati diversi che la categoria di guerra assume nel dispositivo teorico hobbesiano vedi di Y.Ch. Zarka, La sémiologie de la guerre chez Hobbes, in La guerre, Cahiers de la philosophie politique et juridique, Actes du Colloque de Mai 1986 (Centre de Publications de l’Université de Caen 1987), pp. 129-146.
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— l’assimilazione del rapporto tra assalitore/vincitore-assalito/vinto alla relazione padrone-servo; si tratta della concezione tradizionale del governo dispotico che dalla Politica di Aristotele, attraverso Tommaso e Marsilio, giunge fino a Bodin; — il vincitore viene ad avere absolute dominion sul vinto e sulle proprietà di quest’ultimo, ha un diritto di dominio che è anche diritto di alienazione della persona e dei beni del servo (E
129, it 189);
Hobbes insiste poi sul punto che gli sta soprattutto a cuore: alla base del governo dispotico è la costituzione del diritto di conquista (Conquest) che consiste in “un patto da parte di colui che è sopraffatto, di non resistere a colui che lo sopraffà (a covenant from him that is overcome not to resist him that overcometh)” (E 128, it 188); a partire da questo momento Hobbes contesterà — non senza qualche contraddizione — ogni tipo di validità al diritto di resistenza!?9;
|
— ancora, il padrone sovrano (master paramount) può disporre anche di padroni subordinati (subordinate masters) (E 129, it 189-190); i servi subordinati — che sottostanno all’autori-
tà dei padroni subordinati — possono essere liberati/manomessi dal loro signore immediato, ma non sono liberati dalla soggezione al loro signore supremo. Con gli Elements Hobbes interviene con la propria proposta di rimedio alla crisi dei rapporti tra re e parlamento, impegnandosi sicuramente a favore della dinastia regnante Stuart: la famiglia dei Cavendish, per conto della quale Hobbes lavora, è in effetti legata da tempo alla politica dello Strafford. In quest'opera troviamo il primo abbozzo del programma della costituzione dell'ordinamento di sovranità come unità di un potere assoluto e illimitato finalizzato a contestare la produzione di quei giudizi
126 In E, II, 1, 7, 111, Hobbes precisa che colui che aderisce al patto deve
rinunciare del tutto al diritto naturale di resistenza a favore di colui al quale si sottomette: tuttavia è stato notato che ancora in questo testo Hobbes riserva al soggetto la possibilità di conservare il diritto per alcuni mezzi che risultano indispensabili alla vita; vedi R. Tuck, Philosophy and government. 1572-1651, cit., p. 309; sulla questione vedi pure le acute notazioni di G. Sorgi, in Quale
Hobbes? Dalla paura alla rappresentanza, cit., pp. 109-111.
Z5
privati che inducono inevitabilmente ai contrasti civili; Hobbes rivolge questo suo programma contro l’altro progetto in campo, quello sostenuto da Herny Ferne e Philip Hunton del mixed government, dell’incontro misurato tra prerogative reali e funzioni legislative da attribuire al Parlamento!7. Conviene ricordare che proprio le reazioni alla pubblicazione di questa opera gli creeranno quei problemi che lo indurranno a riparare a Parigi. A partire da questo periodo, Hobbes mostra con evidenza di volere utilizzare le argomentazioni provenienti da quella che Simone Goyard Fabvre definisce la tradizione francese di sovranità, vale a dire la teoria di Bodin, pure in rapporto alla discussione sul posto che nella genesi del potere sovrano vengono inevitabilmente a ricoprire l’esercizio della forza e le pratiche di conquista!?8: questa riflessione viene quindi estesa ai tragici problemi dello scontro interno all’Inghilterra, con chiaro intento di prevenzione della guerra civile ormai in atto. Nel De cive — l’opera conclusa a Parigi e che entra manoscritta in circolazione dal 1642 — il dominio dispotico viene riferito alla partizione tra due tipi di Stati (Cities, Civitates): naturall o paternall o despoticall City, da una parte, e Politicall City o City by Institution, dall’altra; si tratta delle due modalità costituive originarie degli Stati, per cui i soggetti cedono il proprio 127 Per quanto concerne la decisa avversione di Hobbes al progetto di “king in Parliament” vedi ancora R. Tuck, Philosophy and government. 15721651, cit., pp. 310 ss.; il programma del mixed government, nelle espressioni teoriche di Henry Ferne e di Philip Hunton, è ricostruito accuratamente da H. Fukuda, Sovereignity and the Sword. Harrrington, Hobbes, and mixed Government in the english civil War (Oxford 1997), pp. 22-37. 128 Simone Goyard Fabvre spiega in modo chiaro che Hobbes si trova a dovere scegliere tra due modelli istituzionali di Stato, quello inglese — fondato sulle pratiche di consuetudine e della delibera parlamentare — e quello francese — caratterizzato dall’esercizio del potere assoluto e dall’autorità della legge civile; lo sforzo hobbesiano cerca dunque di integrare due diverse tradizioni: di sicuro, la perspective rationalisante gli perviene sopprattutto dalla République di Bodin, vale a dire da una nozione dell’autorità sovrana che Hobbes — attraverso la realizzazione del contratto politico — fa valere come summa potestas, vale a dire come il modello romano utilizzato da Bodin; in La legislation civile dans l’Etat-Leviathan, in M. Bertman-M. Malherbe, Thomas Hobbes de
la métaphysique à la politique (Paris 1989), pp. 173-192 (vedi in particolare pp.
173-178).
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diritto ad autogovernarsi (jus meum regendi meipsum) o tramite la sottomissione motivata dalla paura di perdere la vita — ed agisce in questo modo chi viene vinto in guerra — , oppure tramite la sottomissione ad un altro da parte di chi non è stato ancora vinto, il quale — proprio al fine di evitare di essere vinto — si affida al sovrano con lo scopo di essere protetto: Da quanto si è detto, risulta chiaro a sufficienza in che modo, e per quali gradi, molte persone naturali si sono strette per paura reciproca in un'unica persona civile, che abbiamo chiamato Stato (City), con l’intento di conservarsi. Ma quelli che si sottomettono a un altro per paura, si sottomettono proprio a chi temono, oppure ad un altro, in cui confidano per essere protetti. Agisce nel primo modo chi viene vinto in guerra, nel secondo, chi non è stato ancora vinto, per evitare di essere vinto. Il primo modo ha inizio dalla potenza naturale, e può essere chiamato l’origine naturale dello Stato (the naturall beginning of a City); il secondo, dall’intento e dal decreto di chi si unisce; e questa è l’origine per istituzione (beginning by institution). Da ciò derivano due generi di Stato: uno naturale, quale il paterno e il dispotico; l’altro istitutivo, che può anche essere detto politico (paternall, despoticall; institutive, politicali). Nel primo, il signore si procura i cittadini di sua volontà; nel secondo, icittadinis’impongono di loro arbitrio un dominio, sia esso un 4omo o un’assemblea di uomini, dotato di potere supremo. Parleremo in primo luogo dello Stato istitutivo (City politicall or by institution) poi di quello naturale (naturale) (Ce 90, Cl 135, it 128-
129)!29,
Grazie alla costituzione di quel potere supremo assoluto e illimitato, che si può definire Supreme Power (Summa potestas: potestà suprema), o Chiefe Command (Summum Imperium: potere supremo), o Dominion (Dominium, potere), entrambe queste forme di Stato hanno carattere di piena legittimità, operano by Right/iure sia per titolo che per esercizio del potere. Lo stato per istituzione (City by Istitution) funziona grazie alle tre forme di governo della partizione tradizionale (three sorts of government/tres species civitatis) e solo attraverso queste: è noto come Hobbes non riconosca le corrispondenti forme 129 Bobbio preferisce tradurre l’espressione City by institution con l’espressione Stato convenzionale (it Bobbio 152).
27
di governo, corrotte ed opposte, così come venivano descritte dalla teoria politica classica; da Hobbes le forme di governo definite come degenerazioni di quelle pure sono considerate unicamente il prodotto del giudizio privato, dell’opinione dei cittadini malcontenti (discontented) che utilizzano questi argomenti per fomentare disobbedienza e rivolta. E proprio per questo motivo, con coerente argomentazione, che la categoria di tiran-
nia non trova alcuna considerazione da parte di Hobbes, che in più luoghi critica aspramente gli autori della classicità che hanno voluto attribuirle concreta autonomia. Il dominio dispotico è natural! and acquired Government: insieme governo naturale ed artificiale; esso viene istituito allorquando Qualcuno, preso prigioniero in guerra, o vinto, o privo di fiducia nelle proprie forze, promette al vincitore, o al più forte (per evitare la morte) di servirlo, cioè di fare tutto quello che comanderà. In questo contratto il bene che riceve chi è vinto, oppure inferiore di forze, è la grazia della vita, che per diritto di guerra, nello stato naturale degli uomini, poteva essergli tolta; e il bene che promette, è il servizio e l’obbedienza (Ce 117, C/ 160, it 155-156).
Conviene sottolineare che entrambe le. versioni italiane del De Cive — mi riferisco a quelle di Bobbio e di Magri — traducono in questo brano con vincitore il termine Conqueror, definito da Hobbes pure come stronger Party; sottolineo questo elemento per dire che Hobbes tiene a delineare una teoria della conquista/vittoria che vuole essere riferita ambiguamente alla condizione della guerra nello stato di natura ed anche alla situazione della guerra civile, allorquando chi è privo di fiducia nelle proprie forze deve decidere se aderire a quella parte più forte (stronger Party) nella condizione attuale della comunità e cedere incondizionatamente a quella parte più forte il diritto all’autogoverno tramite contratto (Contract): In forza di questa promessa il vinto deve al vincitore servizio e obbedienza assoluta, per quanto possibile, e salvo il rispetto delle leggi divine. Infatti chi si obbliga a obbedire ai comandi di qualcuno, prima di sapere quello che costui comanderà, è tenuto ad ogni comando (Commands), assolutamente e senza restrizioni (Ce 118, C/ 160, it 156).
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Nel De cive, il dominio dispotico è termine di una teorizzazione della conquista/vittoria che risulta adesso pienamente innervata all’interno della definizione di autorità sovrana: in particolare, la vittoria deve riconvertirsi in diritto che viene a struttu-
rare formalmente il rapporto tra padrone e servo, anche in riferimento ai conflitti civili interni tra chi può vincere e chi può essere vinto. Vale la pena richiamare che in questo scritto, a differenza però di quanto verrà argomentato nel Leviathan, il sovrano by acquisition esercita il suo formidabile potere senza riguardo al comportamento dei suoi soggetti, può anche costringere con la forza il popolo a sottomettersi con impegno di fedeltà: mentre i soggetti, conquistati o vinti, non hanno alcuna possibilità di sottrarsi a questo destino di soggezione/obbedienza argomentato in modo geometrico, dal momento che la paura della morte incide in modo deterministico sulla formazione del patto. Peraltro nel De cive, Hobbes insiste sulla definizione del-
l’obbligo ad un rapporto di comando/obbedienza che vede perfettamente equiparate le condizioni del cittadino e del servo: Quanto si è prima dimostrato riguardo ai sudditi di uno Stato istitutivo (institutive Government), vale a dire, che chi ha il potere supremo
dello Stato non può commettere torto nei loro confronti, è vero anche riguardo ai servi, perché hanno sottomesso la loro volontà alla volontà del signore (Ce 119, C/ 162, it 157).
3. La genesi dello Stato Leviatano tra acquisizione e istituzione Certamente anche nel Leviathan Hobbes riferisce esplicitamente la teoria della conquista allo stato per acquisizione — ed al governo dispotico — nel quadro del dispositivo complessivo dell’ordinamento politico-giuridico di sovranità. Tale ordinamento prevede due forme di stati, nominati ora con lo stesso termine: Common-wealth by institution e Common-wealth by acquisiton.
L’attributo rappresentativo e quello elettivo sono propri dello stato per istituzione, che risponde al pieno svolgimento della teoria hobbesiana della sovranità: ZA9
Si dice che uno stato è istituito, quando una moltitudine di uomini si accorda e pattuisce, ognuno con ogni altro, che qualunque sia l’uomo o l'assemblea di nomini cui sarà dato dalla maggior parte, il diritto a rappresentare (the Right to Present) la persona di loro tutti (vale a dire, ad essere il loro rappresentante), ognuno, tanto chi ha votato a favore quanto chi ha votato contro, autorizzerà tutte le azioni e 1 giudizi di quell’uomo o di quell’assemblea di uomini, alla stessa maniera che se
fossero propri, al fine di vivere in pace tra loro e di essere protetti contro gli altri uomini (L 228, it 169).
Il Common-wealth by acquisition viene argomentato ancora
una volta attraverso il richiamo diretto alla forma del potere dispotico: Il dominio acquisito per conquista o con una vittoria in guerra è quello che alcuni scrittori chiamano DISPOTICO, da despotes, che signi-
fica signore o padrone ed è il dominio del padrone sul suo servo. Il vincitore acquisisce allora questo dominio quando il vinto, per evitare il colpo mortale al momento, con parole espresse o con altri segni sufficienti della sua volontà, pattuisce che, finché gli saranno concesse la vita e libertà del corpo, il vincitore potrà usufruire a suo piacimento del dominio su di lui (L 255, it Santi 331).
Da questa definizione del dominio dispotico risulta evidente come Hobbes riprenda le posizioni espresse nel De cive, riesponendole anche con maggiore incisività retorica: dapprima articolando la necessità dell’impianto di una teoria giuridica in cui vengano equiparate le argomentazioni di Victory con quelle di Conquest; quindi operando sulla qualificazione di patto (Covenant) del rapporto padrone-servo, con le relative attribuzioni giuridiche delle parti contraenti. Tuttavia, le notazioni poste nella parte conclusiva dell’opera — “A Review, and Conclusion” — ampliano senso e significato del discorso sul dispotismo presentato nel capitolo XX. Nella parte conclusiva dell’opera, la definizione che viene riproposta è certamente la medesima di quella offerta in precedenza: La conquista non è la vittoria in se stessa, ma l’acquisizione, mediante la vittoria, di un diritto sulle persone degli uomini...; la conquista (per 220
darne una definizione) è l’acquisizione del diritto di sovranità mediante la vittoria (L 720-721, it 692).
In effetti, però, il contesto argomentativo vuole fare precipitare l’attenzione del lettore su qualche punto determinato che riguarda la condizione storica presente ed il conflitto civile ancora in atto: Per il fatto che scopro da diversi libri inglesi stampati di recente che le guerre civili non hanno ancora sufficientemente insegnato agli uomini in quale momento un suddito diventa obbligato al suo conquistatore, né cos’è la conquista, né come accade che essa obbliga gli uomini ad obbedire alle sue leggi; perciò, per soddisfare ulteriormente gli uomini, dico che il momento in cui un uomo diventa soggetto a un conquistatore è quello in cui, avendo la libertà di sottomettersi a lui, egli consente, o con parole espresse o con un altro segno sufficiente, ad essere suo-suddito (L 719, it 691).
Queste affermazioni sembrano contenere un cambiamento
del senso politico che Hobbes — dall’esilio parigino — assegna al suo sforzo teorico, motivato
certamente
dal contesto
storico
della vittoria del Parliament. Hobbes vuole segnalare che nei frangenti storici contemporanei — siamo tra il ’50 e il ’51, periodo in cui il Parlamento cerca di rafforzare la sua vittoria e l’esperimento di governo che durerà fino al 1653 — bisogna riferire il discorso politico, svolto in modo ancora più aperto, ai tentativi concreti di sciogliere in forma definitiva la tragedia dello scontro civile. Hobbes offre quindi in queste note conclusive ulteriori termini di articolazione all’esposizione della natura della conquista e del diritto di conquista, in modo da fare risaltare con concretezza il problema dell’adesione da parte di ciascun soggetto al nuovo ordine politico; in breve, pone al centro della scrittura al-
cuni passaggi — a suo modo di vedere importanti — relativi al problema dell’obbligo da parte dei vinti di sottomettersi al conquistatore che proviene dall’interno dello Stato. Certo la vittoria del Parliament si è affermata tramite la forza, ma affinché la sovranità possa rendere fino in fondo attiva la spada della giustizia, essa deve fare opera di integrazione tra le 221
pratiche pure violente di acquisizione con le procedure autorizzative della sovranità fondate sull’obbligazione tramite contratto; vale a dire che la vittoria/conquista deve — ed anche può — convertirsi storicamente nel diritto che viene posto a fondamento della sovranità, del potere legislativo assoluto e sovrano: Tutti vogliono giustificare la guerra con cui hanno acquistato il loro potere al principio, e su cui, e non sul possesso (essi pensano) che dipenda il loro potere. Come se, per esempio, il diritto dei re d’Inghilterra dipendesse dalla bontà della causa di Gugliemo il Conquistatore e dal fatto che discendono da lui in modo lineare e nella forma più diretta. In questo modo non ci sarebbe forse oggigiorno in tutto il mondo alcun legame di obbedienza dei sudditi ai loro sovrani.. Perciò considero uno dei più efficaci germi della morte diCI stato, il fatto che i conquistatori richiedano non solo una sottomissione delle azioni degli uomini a lor per il futuro, ma anche una appro-
vazione delle loro azioni passate, quando non c’è quasi uno stato (Common-wealth) al mondo i cuì inizi possano essere in coscienza giustificati (L 721-722, it 693-694).
I conquistatori non hanno bisogno di richiamarsi ad un diritto di tradizione fondato sul primato dell’esperienza passata per giustificare la conquista: peraltro, la conquista violenta è evento normale nella storia. Piuttosto risulta decisivo che il diritto di conquista, esercitato al fine della costituzione di un nuovo governo — “to the establishing of a new government” (L 726, it 697) — come accade pure per il diritto di successione, contempli quei passaggi pienamente artificiali, giuridici ed istituzionali, che possano contribuire a convertire nel presente il dato naturale della forza in titolo ed esercizio pienamente legittimi. Ecco perché, effettivamente, “la conquista è l’acquisizione del diritto di sovranità mediante la vittoria” (L 720, it 692).
Hobbes indica pure che questo problema —- che potremmo chiamare della gestione sovrana della vittoria — si concretizza nel tempo determinato della scelta in cui ciascuno possa esprimere chiaramente la propria sottomissione al nuovo ordine vittorioso: così si spiega allora l’attenzione ed il richiamo al momento, in modo determinato al point of time, in cui “il suddito diventa obbligato al suo vincitore”; si tratta di una misura imprecisa, tuttavia presente ed ancora possibile, costituita dal periodo in222
certo ed indeterminato dell’affermazione piena della parte vittorosa, in cui ancora nel tempo presente gli inglesi possono decidere sulla sovranità di recente istituita!9, Il parlamento ha il potere (common Power) per governare, ma ora Hobbes richiede — non senza difficoltà di coerenza espositiva — che sia il giudizio privato dei cittadini a decidere in linea definitiva di questa nuova realtà; in effetti, quella istituzione ha
avuto origine attraverso la forza, ha raggiunto la stabilità dell'ordinamento sovrano: deve comunque essere reso legittimo; dal canto loro, i cittadini accetteranno l’obbligazione al rapporto di comando-obbedienza giusto per il tempo che il sovrano garantirà loro protezione; tanto vale appunto anche per il sovrano di acquisizione, al quale ancora nel De cive si riconosceva un potere assoluto, arbitrario e illimitato, vale a dire senza limiti di
tempo.
4. Il dispotismo alle radici della ragione moderna di sovranità Sheldon Wolin rivolge una critica radicale al complesso della teoria hobbesiana, considerata come il punto di partenza di una nuova forma di cultura dispotica che utilizza una razionalità geometrica ormai assunta a spiegazione dell’universo umano. A modo di vedere di Wolin, gli effetti perversi di questa metodologia meccanicistica di interpretazione dei soggetti e degli eventi sarebbero centralmente quelli di operare una sorta di eliminazione di tutte quelle differenze che producono incertezze e pericolo: “Nature? is identified with abstraction rather than with the ‘natural’ differences apparent to common observation”!5!. 130 A. Fukuda pone bene in evidenza questa particolare attenzione di Hobbes a voler indicare i termini concreti — il funzionamento sul piano temporale — della possibilità che si presenta ai connazionali di porre termine al conflitto civile che sconvolge l'Inghilterra attraverso l’accoglimento del dispositivo giuridico di conquista: in Sovereignity and the Sword. Harrington, Hobbes and the mixed Government in the english civil Wars, cit., pp. 65-68. 131 Sh.S. Wolin, Hobbes and the Culture of Despotism, cit., p. 33.
225
Wolin sostiene che Hobbes giungerebbe a questo tipo di teorizzazione attraverso un particolare dispositivo argomentativo che in partenza produce l’esaltazione dell’eguaglianza naturale degli esseri umani e della somiglianza delle passioni, ed in seguito provvederebbe ad eliminare ogni tipo di differenza nei caratteri umani — nelle complessioni psicofisiche individuali così come nelle abitudini dei popoli —, nelle particolarità geografiche e climatiche dei diversi ambienti di vita!5?: in sintesi, si tratta degli elementi che avevano convinto Aristotele — e dopo di lui numerosi altri autori — a considerare il dispotismo una forma di governo autonoma e legittima poiché rispondente alle variazioni delle circostanze dei luoghi, dei caratteri umani e delle diverse forme di civilizzazione. Gli sviluppi assegnati da Hobbes alle argomentazioni del dispotismo sarebbero allora sicuramente inedite e tutte contenute nell’articolazione concettuale della nuova e dirompente antropologia hobbesiana: “The anatomy of human nature embodies a despotic potential, for its quintessence is power”!5; l’uomo per definizione è produzione di una serie di poteri, naturali e strumentali, rivolti alla negatività e distruttività estreme; in questo verrebbe configurata da Hobbes l’essenza della libertà naturale: “Hobbesian liberty is designed to channel and legitimate the dynamics of domination implanted in every individual”!4; da quest’origine prenderebbe anche fondamento l’inevitabile coincidenza di libertà civile e necessità dell’obbligazione politicogiuridica istituita tramite la costituzione dello Stato Leviatano,
destinato a ricomporre nell’ordine conflitti ed antagonismi inevitabilmente conseguenti alle condizioni delle paure originarie degli individui. Si tratterebbe, allora, di una rivalutazione delle semantiche del dispotismo nei termini di un progetto culturale e di un programma politico particolarissimi, la cui principale fina132 Questi elementi della critica di Wolin sono vicinissimi agli svolgimenti interpretativi che Foucault fa della posizione di partenza hobbesiana che vede il diritto naturale di se/fpreservation come attribuzione universale assegnata a tutti gli uomini nella condizione dello stato di natura, avvio dell’intera esposizione teorica; vedi ancora in “// faut défendre la société”, cit., pp. 77-78. 133 Sh.S. Wolin, Hobbes and the Culture of Despotism, cit., p. 28. 154 Ibidem.
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lità sarebbe quella di rendere evidente la necessità della sottomissione all’autorità civile delle private opinions e, corrispondentemente, dei caratteri assoluti e discrezionali dell’ordinamento di sovranità; ecco, allora, gli strumenti centrali di indoc-
trination/education perseguiti dall’attività dello stato!?5 al fine della produzione di contenimento e di disciplina dei cittadini. In breve, il dispotismo del potere assoluto, arbitrario e illi-
mitato, diverrebbe il potere sovrano di vita e di morte del Dio mortale, il Leviatano; la protezione delle leggi civili, strutturate ed esercitate secondo quelle attribuzioni dispotiche del potere sovrano, lascerebbe uno spazio di vita non politica solo per quelle cose su cui non viene espressa la verità del punto di vista sovrano. In effetti, nella teoria hobbesiana, arbitrario risultereb-
be il punto di partenza sia del sistema naturale dei saperi che della scienza politica: in breve, Hobbes aprirebbe ad una stagione fortunata del dispotismo della ragione che pretenderà da questo - punto in poi di costituirsi in infallibile geometria politica. Hobbes rappresenterebbe dunque la forma moderna di legittimazione delle tendenze dispotiche analizzate e descritte fin dagli albori della civilizzazione occidentale: “Hobbes accomplished the legitimation of despotism”!59. Sul piano specifico del discorso politico, questa legittimazione del dispotismo verrebbe sviluppata secondo due mosse argomentative strategiche: da una parte, al potere dispotico verrebbe assegnato l’identico diritto di autorità che viene attribuito ad ogni altra forma di governo; inoltre, dopo questo primo movimento — e questo effetto di ritorno costituirebbe il lato più oscuro della vicenda teorica — ogni forma di autorità politica, democratica, aristocratica o monarchica, per la propria sopravvivenza sarebbe chiamata di necessità ad incorporare quel principio dispotico di un potere di governo definitivo e incontrollabile: “In Leviathan, Hobbes attacked the pariah status of despotism by two distinctive claims: that despotic power was entitled to the same rights of authority as any other form of political rule; and Alva pioli 46 Ti pr 23.
225
that all forms of political authority, whether democratic, aristocratic, or monarchic, had of necessity to incorporate the same despotic principle of a final and uncontrollable rule-making power if they were to survive”157. Peraltro, la forma particolare di questo dispotismo fondativo della ragione moderna di sovranità assumerebbe 1 caratteri dell'autonomia politica, sganciata dalle modalità dell’esercizio tradizionale del comando secondo i canoni teologici, tuttavia puntata a confermare il rilievo assoluto della concentrazione estrema del potere di comando: “The mentality celebrated by Hobbes was described in the language of a new form of despotism in wich truth and power were released from theological language but not from its presuppositions of monotheistic absolutism”!58, A proposito delle attribuzioni inedite del nuovo teorizzato dispotismo, Wolin laneia un ultimo avvertimento; la forma contrattualistica e rappresentativa del processo autorizzativo costituirebbe la novità dell’esercizio di un comando che non viene esercitato esclusivamente e rigidamente dall’alto, ma che utilizza l’angoscia dei soggetti per renderli cittadini produttivi oltre che disciplinati: “Despotism cannot rule society oppressively in the literal sense of weighing it ‘down’. It must repress but not suppress the vital motions of its members. It must manipulate fear while maintaining of its members. It must manipulate fear while maintaining anxiety”!59, certamente utile discutere le tesi di Wolin, accogliendone alcuni elementi ma pure prendendo distanza rispetto al senso complessivo della denuncia. Certamente lo teoria di sovranità in ET Vij pa 251
138 Ivi, p. 18. Argomentazioni vicine a quelle di Wolin - nel merito della qualità dispotica della nuova razionalità illuministica che costituirebbe la base dei processi della razionalizzazione politica di sovranità — sono espresse da A. Adam, Despotie der Vernunft? Hobbes, Rousseau, Kant, Hegel (Freiburg/ Miinchen 1999). All’inverso, J. Waldron legge la teoria hobbesiana — in particolare per quanto riguarderebbe l’importante contributo offerto dal filosofo inglese sul punto del discorso critico di publicity - come un positivo preannuncio del razionalismo illuministico; in Hobbes and the Priciple of publicity, in «Pacific Philosophical Quarterly», 2 (2001), pp. 447-474. 33. vi pid,
226
Hobbes si propone come sforzo di indagine genealogica per giustificare la costituzione dell’unità politica sovrana, che si autorappresenta come ordinamento politico-giuridico necessario per l’ordine della società civile. Il comando assoluto, arbitrario e il-
limitato, deve essere riguardato come parte del titolo e dell’esercizio dell’autorità: ed in questo senso determinato il dispotismo teorizzato da Hobbes riguarderebbe in effetti una modalità particolare di produrre una forte concentrazione di potere specificamente politico che attraverserebbe ogni tipo di forma di governo. Tuttavia, proprio per questo motivo di fondo, non risulta conveniente assegnare alla teoria politica hobbesiana la qualifica di dispotismo, se con questo termine si intende soprattutto richiamare le semantiche concettuali della nozione tradizionale di dispotismo: vale a dire della categoria che acquista autonomia e rilievo teorico a partire dalla Politica di Aristotele (1285, a). In realtà Wolin mostra di essere preoccupato — e pure con buone . argomentazioni — del dispotismo esercitato dall’intervento pervasivo ed esclusivo della ragione nelle cose della politica, dalla geometria politica che istruisce il programma moderno dello
Stato sovrano come macchina artificiale sovraordinata ad ogni altro elemento della vita civile: tuttavia questo uso del termine dispotismo sembra piuttosto porsi sul piano metaforico, mentre la novità eclatante dello strumento statuale congegnato ed attivo in Europa — con architetture e significazioni complesse, ambigue eppure efficaci — impone all’indagine un percorso determinato e particolare di decostruzione critica che abbia ad oggetto non tanto l’esercizio di un dispositivo dagli esiti dispotici, quanto la complessa funzione dell’ordinamento politico-giuridico di sovranità: da questa prospettiva può risultare sicuramente utile sottoporre ad analisi gli effetti negativi dello strumento congetturato da Hobbes, nella considerazione ulteriore che esso ha di-
mostrato di essere in grado di reggere i percorsi della razionalizzazione politica moderna ancora fino ai nostri giorni.
ESA
5. Sovranità come integrazione tra violenza dell’acquisizione e legittimazione dell’autorità Nello svolgimento precedente, abbiamo visto come secondo Hobbes il potere sovrano — che è venuto costituendosi nella traiettoria espositiva che dallo stato di natura e dalle leggi naturali approda al processo di autorizzazione via contratto — venga a consistere dinamicamente nell’attiva integrazione dei due livelli riconosciuti della produzione di autorità legittima: quello istitutivo e giuridico che produce autorizzazione attraverso le modalità contrattuali e rappresentative, e l’altro acquisitivo, che richiede di giustificare e di convertire gli interventi di conquista, realizzati con la forza, sul piano dell’ordinamento giuridico-politico dello stato per istituzione: 1 vinti possono aderire o meno secondo le procedure formali segnate dal diritto di conquista, mentre il vincitore che avrà actolto la richiesta dei vinti dovrà considerare forme e contenuti della nuova relazione come patto di piena istituzione sovrana. È stato giustamente notato come, in definitiva, questo punto della superiorità assoluta del soggetto sovrano si affermi grazie all'elemento che condiziona fin dall’inizio l’uscita dallo stato di natura, ponendo la possibilità originaria della societas civilis: la paura della morte. In effetti, — specifica Hobbes — si tratta di modalità diverse di soffrire quel sentimento di paura: elemento propulsore per la formazione dello stato 4y institution è la paura degli individui che rimane diffusa nei confronti dei consimili esseri umani, mentre per la formazione dello stato by acquisition è all’opera la minaccia di morte che proviene dalla potenza del soggetto vincitore: La paura della morte è, infatti, l’unica motivazione possibile per una
subordinazione di tipo servile. Proprio per la sua natura di legame sociale che assicura al più forte il massimo vantaggio al minimo costo, il dominio rinvia necessariamente alla minaccia del sommo dei mali. Soltanto l’assolutezza del danno minacciato può legittimare l’assolutezza della sottomissione: l’obbedienza del servo è priva di limiti perché non
esiste un male più grande della morte. Una volta in grado di uccidere non esiste azione che non si possa comandare, perché la semplice con228
servazione della vita assicura allo sconfitto un vantaggio superiore a qualsiasi rinuncia!49, Lo stimolo traumatizzante del sentimento acuto di morte,
dell’angoscia della morte, costituisce l’effettivo punto di partenza per l'istituzione della società civile, ed ancora l’elemento principale — secondo la filosofia politica moderna da Hobbes a Hegel — che contribuisce allo scioglimento dell’antagonismo essenziale tra signore e servo; scrive Louis Roux: “Il faudrait une reconnaissance mutuelle, un aboutissement aprés la lutte... Le maître se voit donc objectivement reconnu par l’esclave qui s’est nié pour affirmer la valeur de l’autre. Paradoxalement, le maître n’existe que par la reconaissance de l’esclave: il s’effectue donc un renversement de la relation téléologique”!4!, In definitiva, nel merito delle argomentazioni hobbesiane sulle caratteristiche dei due tipi di stati sovrani — per istituzione ‘e per acquisizione —, bisogna richiamare alcuni elementi che meritano una particolare attenzione: — innanzitutto, risulta implicito nello svolgimento teorico hobbesiano che la costituzione dello stato per via di acquisizione può realizzarsi grazie all’imposizione del patto da parte del conquistatore/vincitore dietro la minaccia: in effetti, Hobbes mostra di considerare che patti estorti da un conquistatore non siano da ritenere non validi, per quanto estorti!*; — ancora, entrambe le tipologie di formazione degli stati rappresentano l’attenzione propria dell’autorità sovrana a potere contare sull’obbedienza convinta di un grande numero di soggetti: vale a dire che la condizione di sicurezza sulla vita impone 140 D. D’Andrea, Prometeo e Ulisse. Natura umana e ordine politico in Thomas Hobbes, (Roma 1997), pp. 143-144. 141 Secondo L. Roux, la teoria dello stato per acquisizione di Hobbes costituirebbe l’antecedente effettivo della dialettica signoria-servo sviluppata da Hegel: in Thomas Hobbes penseur entre deux mondes, (Publications de l’Université de Saint-Etienne 1981), p. 227. 142 Questa acuta considerazione critica viene svolta da F.S. McNeilly, in The Anatomy of Leviathan (New York 1968), pp. 197-199. Sulla centralità della paura della morte violenta nella teoria hobbesiana conviene sempre ricordare l’importante lavoro di Leo Strauss, innanzitutto La filosofia politica di Hobbes, cit., pp. 117-350.
229
la realizzazione di una sorta di scambio tra empowerment del sovrano ed autorizzazione condizionale da parte degli individui!9; — infine, si può ragionevolmente ammettere che tra le due forme originarie di stati non esistono — nei risultati della composizione politica — gradi notevoli di differenza: l’istituzione si afferma attraverso la volontà degli individui che si convincono in modo autonomo della necessità del patto, mentre l’acquisizione originariamente non prevede patti, ma l’esercizio diretto della forza. La proposta hobbesiana dello stato di sovranità costituirebbe, in effetti, una forma intermedia tra le due tradizio-
nali modalità di risoluzione dei conflitti nella società umana: l’utilizzo razionale della mediazione politica!*. Dagli sviluppi di queste considerazioni critiche — che riguardano la complessa teoria hobbesiana della sovranità — derivano alcune importanti conseguenze: — dapprima, bisogna considerare la produzione di sovranità come processo d’integrazione tra origine effettiva, anche violenta, del comando e produzione di legittimazione dell’autorità tramite obbligazione per tutti i cittadini di accettare un rapporto determinato di comando/obbedienza: si tratta di coloro che hanno aderito per via di una scelta razionale individuale al contratto, ed anche dei vinti che hanno manifestato con evidenza la
propria volontà di sottomettersi al vincitore, che resta impegnato ad esercitare il diritto di conquista; — dall’impostazione hobbesiana si evince pure, come elemento non secondario, che applicazione ed esercizio dell’ordinamento di sovranità si rendono necessari nei contesti di conquista o di vittoria: cioè, in conseguenza di invasione/conquista di uno stato da parte di una potenza straniera oppure della vittoria di una delle parti impegnate nel conflitto civile interno alla nazione; l’affermazione dell’autorità sovrana avrebbe segnato all’interno del proprio codice genetico questo inevitabile punto 14 Si sofferma su questo problema T. Sorell, Hobbes (London and New York 1986), p. 123.
144 In questo modo si esprimeJ.Terrel, Hobbes. Materialisme et politique, (Paris 1994), p. 251.
230
di partenza, elemento quindi di fatto condizionale di ogni sua
concreta applicazione; — inoltre, ogni forma naturale, pre-politica o anche storicamente determinata, che appartenga alle sfere del dominio dispotico, paternale o domestico, deve essere comunque ricondotta
alla forma istitutiva di sovranità: si tratta innanzitutto dei rapporti di autorità già teorizzati da Aristotele — padrone/servo, padre/figlio, marito/moglie — per i quali Hobbes argomenta l’inevitabile conversione nella forma dell’ordinamento giuridico che organizza il funzionamento della sovranità; ed ancora il primato di sovranità implica che questo dispositivo politico-giuridico resti comunque sovraordinato ad ogni altra espressione della vita individuale o associata (morale, religiosa, culturale, economi-
ca, e così via)!.
145 Su questo punto conviene riportare la puntuale considerazione di F. Rangeon: “L’Institution étatique constitue le prototype des autres institutions vis-à-vis desquelles elle exerce une fonction paradigmatique. La puissance étatique est telle qu'elle impose son image à l’ensemble du corps sociale... Le mécanisme juridique de la personne publique, appliqué à l'ensemble des institutions sociales, favorise une telle unification. Entre ces diverses institutions, Hobbes établit une veritable hiérarchie. L’État se situe au sommet de cette hiérarchie... Les diverses associations, qu’elles soient publiques ou privées, sont des “organisations sujettes” soumis à la souveraineté de l’État”: in Hobbes. Etat et droit (Paris 1982), p. 156.
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Note finali su un destino di sovranità: Hobbes contro Machiavelli
1. Hobbes realizza la prima compiuta teorizzazione di un sistema di diritto pubblico che pone limiti all’esercizio delle opinioni private, in particolare religiose, attraverso l’istituzione del complesso meccanismo artificiale ed impersonale del potere politico statuale!*. Peraltro, la sovranità statuale non costituisce
| l’unico paradigma politico della modernità: grazie al suo utilizzo Hobbes cerca di offrire una forma organica di rappresentazione politico-giuridica a saperi/pratiche di ragion di Stato, vale a dire alla prima forma di moderna governamentalità. Questo significa innanzitutto che non si può attribuire al dispositivo di sovranità il principale merito di guida esclusiva dei processi della razionalizzazione politica occidentale; in effetti, dalla fine del Cinquecentoè già attiva un’arte di governo che produce efficacemente comando e obbedienza: a quest'arte del governo degli uomini Hobbes vuole assegnare carattere d’ordinamento giuridico, cercando di realizzare in teoria una giustificazione dell’autonomia propria della nuova scienza politica. A questo fine, egli mette a punto un dispositivo teorico del tutto inedito secondo 146 Un’utile definizione di sovranità statuale — per i contesti relativi alla storia ed alla teoria politica di questa categoria della modernità — è data da G. Poggi, in Lo Stato. Natura, sviluppo, prospettive (Bologna 1992); in sintesi, l’autore sostiene che la sovranità — in quanto sistema pubblico di diritto — richiama in modo complementare nozione e pratiche di ratio Status (p. 69). Ancora sulla radicale trasformazione del linguaggio politico moderno di sovranità utile il lavoro di Th. Heerich, Trasformation des Politikkonzepts von Hob-
bes zu Spinoza. Das Problem der Souveranitàt (Wiirzburg 2000).
250
cui la politica di sovranità vive della serie di permanenti relazioni che configurano l’agire combinato di due distinte funzioni: separazione e scambio. Secondo gli sviluppi normali di quel dispositivo, all’istanza decisamente unitaria dell’ordinamento politico-giuridico di sovranità corrisponde un’autorizzazione che proviene dai singoli soggetti; nella sua autonomia, il sistema di diritto pubblico assume attributi di separazione rispetto alla sfera privata, provvedendo a configurare un registro omogeneo di valori condivisi, tutelati attraverso le leggi civili ed il discorso ideologico delle leggi morali. Ecco allora che l’impianto logico-espositivo del Leviathan deve giustificare il progetto di sovranità: definizione nominalistica ed ipotesi concettualistica, deduttivismo rigoroso ed inferenza induttiva, cercano di procedere insieme — in modo forzo-
samente congiunto — con il fine di Costruire in teoria e favorire in pratica il funzionamento delle relazioni tra autorità di decisione e scorrimenti singolari di vita, tra protezione e obbedienza. In breve, la logica argomentativa del Leviathan rivela linee di convergenza e di tensione che restano sottese ed invisibili, tuttavia pienamente attive nella produzione concreta dei poteri politici di sovranità nelle forme istituzionali e nelle pratiche di governo della civilizzazione occidentale. Secondo il movimento deduttivo dell’argomentazione di sovranità, i fondamenti del diritto e delle leggi di natura sostengono il percorso istitutivo di un potere costituito da una forza enorme, assegnata ad un’autorità di diritto pubblico: quest’autorità rappresentativa ab-soluta, definita sovrana, viene quindii incorporata in ogni tipo di governo (monocratico o parlamentare) in quanto carico straordinario di potere, necessario alla sopravvivenza della comunità. Quindi, una concentrazione enorme di potere, materiale e simbolico, attraversa ogni forma di governo; questo genere di comando viene ad operare su un piano di completa immanenza: in prima istanza, esso è definitivamente sganciato dalle modalità dell’esercizio tradizionale del governo che opera secondo 1 canoni della teologia politica, quindi viene configurando spazi/tempi di una vita artificiale autonoma, rendendosi garante della pace comune e della sicurezza per ogni individuo. 234
Quella funzione di sovranità diventa produttiva grazie all’attivazione delle procedure contrattuali; ecco allora l'elemento propriamente induttivo, che dal basso impegna gli individui ad offrire espressione astratta e simbolica alle pratiche d’obbedienza, di disciplinamento delle passioni e dei comportamenti: da queste attinge a piene mani il sistema di sovranità. L'adesione convinta dei singoli individui ad un sistema di poteri disciplinari produce il fondamento autorizzativo al quale un sistema di diritto pubblico dà forma d’obbligo giuridico e concreta coercizione di forza. 2. L'impegno teorico di Hobbes allora si condensa in un punto: l’ordinamento di sovranità consiste nella separazione funzionale tra individui e Stato Leviatano, resa attiva dalla serie
infinita e interminabile degli scambi tra comando dell’autorità pubblica e pratiche disciplinari. Il meccanismo d’autorità, arti. colato secondo le complesse temporalizzazioni di separazione e scambio, funziona a condizione che entrino in stabile relazione
i due diversi movimenti che — per semplicità d’espressione — possiamo chiamare deduttivo e induttivo, compositivo e resolutivo: da un lato, la procedura di rappresentanza produce apparenza d’autorità per un soggetto — monocratico o assembleare — che prende decisioni al posto di tutti; dall’altro lato, i singoli individui producono anticipazioni significative attraverso la rinuncia a pratiche di resistenze e formali enunciazioni di volontà cooperativa. A questo punto il discorso hobbesiano relativo alle diverse valenze delle semantiche dei tempi si complica ulteriormente. Sullo sfondo, troviamo la distinzione tra tempi quantitativamente misurabili della realtà fisica e tempi qualitativamente diversi dei comportamenti umani: la differenza determinata tra filosofia naturale e filosofia civile. Nell’enunciazione di partenza del programma hobbesiano, la scienza del giusto e dell’ingiusto era stata direttamente riferita e vincolata alla logica specifica del metodo geometrico, elemento fondativo del sistema unitario dei saperi: dai princìpi primi della logica aveva preso origine il processo necessario che si proponeva di dare unità di metodo e di contenuto a tutti gli aspetti della vita e degli umani saperi. Nel Le255
viathan, la filosofia civile ha voluto invece affermare il pieno diritto della scienza politica a riconoscersi come scienza autonoma:
da ciò è derivato che la definizione hobbesiana del tempo proprio della politica è andata via via distaccandosi dalla geometrica spazializzazione del tempo; un più articolato e duttile metodo espositivo è stato applicato da Hobbes ai contenuti molteplici del conoscere e dell’agire umani indagati come forme delle complesse temporalizzazioni che riguardano i fenomeni della politica. Negli anni di scrittura del Leviathan, Hobbes arriva alla considerazione che non esiste omogeneità tra le due branche, naturale e civile, del sapere filosofico; anzi si può sostenere — seguendo le preziose aperture critiche di Arrigo Pacchi — che il nuovo modello di intendere ed esporre la filosofia civile può avere influenzato una logica di più ampia differenziazione tra filosofia civile e filosofia naturale e può avere inciso, in particolare, sulla definitiva enunciazione del sistema filosofico dei saperi!#7. Riflessione, quindi, quella hobbesiana sulla semantica nuova del tempo e dei tempi nella dimensione specifica del politico. La nuova scienza civile intende mostrare che il Common-wealth vive di proiezioni temporali articolate: da una parte, la temporali tà specifica dell'autonomia dello Stato Leviatano vive separatamente rispetto ai cittadini; dall’altra parte, questo tempo viene attivato ed alimentato dalle iniziative dei poteri di singoli individui. I tempi naturali delle umane esistenze vengono riconosciuti: tuttavia, il loro sviluppo è garantito a condizione dell’adesione da parte dei cittadini a prendere parte all’eternità artificiale di vita dello Stato Leviatano. Alla sovranità viene riconosciuta una propria autonoma temporalità, che costituisce il risultato delle scansioni temporali delle procedure contrattuali attivate dai soggetti impegnati: da un lato, il potere sovrano respinge ogni misura di vincolo che possa provenire dalle procedure contrattuali; dall’altro lato, l'ordinamento giuridico pubblico s'impegna a non reprimere gli individui; anzi, esso vuole garantire sicurezza e promuovere benessere per i cittadini. Questa serie di comples147 A. Pacchi, Convenzioni ed ipotesi nella formazione della filosofia naturale di Thomas ‘Hobbes, cit., pp. 194-231.
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se relazioni viene suggerendo che le due modalità principali della moderna politica della rappresentazione dei péteri, separazione e scambio, operano in modo differenziato su livelli temporali contigui ma funzionalmente distinti, realizzando pure il riconoscimento reciproco delle relative autonomie d’esistenza. 3. Le intenzioni fortemente progettuali della teoria politica hobbesiana non nascondono tuttavia le forzature argomentative finalizzate a prospettare, grazie all’istituzione dello Stato Leviatano, un approdo sicuro di ordine politico e di disciplina civile. Lo stesso Hobbes segnala le principali difficoltà che possono mettere in dubbio la necessaria costruttiva applicazione di quel dispositivo di comando-obbedienza; questo accade allorquando forme specifiche di impedimento producono il cattivo funzionamento delle procedure di scambio. Hobbes conosce bene questo problema: la sfera artificiale : della politica — costituita per offrire un valido strumento di obbedienza al credente cristiano che ha aderito alla riforma - deve contrastare le cause principali che possono mettere a rischio l’ordine civile di sovranità. In questi casi, il pericolo principale è costituito dagli interventi che provengono dall’esercizio di smisurate ambizioni e dagli eccessi delle paure: il riferimento a Machiavelli è evidente. A questo problema del dissolvimento dello Stato Hobbes dedica in modo determinato alcuni capitoli della seconda sezione del Leviatano. Quindi, da un lato, Hobbes rivolge il suo discorso contro gli uomini eccessivamente ambiziosi, che intendono imporre ad ogni costo i propri giudizi privati al fine di conseguire poteri tali da mettere in pericolo l’autorità pubblica. La struttura artificiale del Leviatano dovrebbe limitare questo pericolo: lo stato è contenitore dei poteri dei singoli individui, che possono esercitarli indefinitamente, ma solo all’interno della cornice determi-
nata dalla sovranità. Da un altro versante, l’ordinamento politico deve combattere gli effetti negativi della paura e del terrore: il timore naturale della morte assilla ordinariamente gli individui nei conflitti reciproci, mentre la paura della morte violenta atterrisce gli animi umani soprattutto nei contesti delle guerre di conquista e nei 237
disordini civili interni allo stato. Le due forme di stato, proget-
tate da Hobbes, in fondo derivano dalla conversione che i soggetti debbono fare di due diversi istinti di morte: questo genere di dominio [lo stato per acquisizione] o sovranità differisce dalla sovranità per istituzione solo in questo, che gli uomini che scelgono il loro sovrano lo fanno per timore reciproco e non di colui a cui danno l’istituzione; in questo caso invece si sottomettono a colui di cui hanno paura (L, it 194).
Per sciogliere la paura della morte violenta, gli individui possono contare su un diritto di guerra che — negli esiti delle conquiste e delle guerre civili - concede loro un tempo ragionevole per decidere se sottomettersi al vincitore; normalmente, negli svolgimenti ordinari dello stato istituito per via contrattuale, grazie alla capacità di previsione della ragione naturale, gli uomini sono spinti dal timore della morte a scegliersi un sovrano per istituzione. Una volta formato l’ordinamento di sovranità, gli individui sarebbero posti in condizione di governare più efficacemente le proprie paure. Infatti, il costituito Commomwealth dovrebbe porre termine ai conflitti reciproci tra i cittadini, proteggere i cittadini dal terrore diffuso dai fautori delle false credenze e dovrebbe pure invalidare quei patti che procedono da promesse estorte per via di minaccia di morte o di violenza. In definitiva, per quanto concerne l’ordine interno alla comunità civile, sono evidenti difficoltà e contraddizioni che tendono a decostruire il progetto di sovranità: di questo Hobbes è consapevole e descrive pure i fenomeni più vistosi che si contrappongono all’istituzione civile. Si può a questo punto intendere come il dispositivo di sovranità viva di un equilibrio delicatissimo: il rapporto comandoobbedienza — che ne costituisce l’anima — è costantemente in bilico tra legittimazione dei processi di government e produzione pragmatica di poteri governamentali. Il congegno di sovranità entra in difficoltà allorquando i due processi di separazione funzionale e di scambio non comunicano ed entrano in distonia: accade allora che viene ad aprirsi un varco, uno strappo, attraverso cui l’autorità sovrana, da un lato, e volontà di soggetti potenti o d’individui terrorizzati, dall’altro, aprono a vicende incon238
trollabili e spesso tragiche. Al fine di rendere comunque attivo il rapporto comando-obbedienza, l’autorità pubblica istituita eserciterà allora ogni forma di governo prudenziale e discrezionale, sottraendosi agli obblighi della legge civile e destituendo di senso le affermazioni delle leggi naturali; dall’altro versante, disobbedienza e rivolte potranno segnare l’impossibilità della comunicazione verticale e del contratto politico. In effetti, in molte situazioni della vita civile del Common-
wealth, l'ordinamento di sovranità non riesce a vanificare gli esiti perversi dell’esercizio di poteri naturali/strumentali da parte degli individui che pongono a rischio l’esistenza del Leviatano; in questi casi ritornano gli elementi di forza e frode, violenza diffusa e pratiche di dissimulazione/simulazione. Intanto, nelle relazioni private della vita civile, “vediamo... che negli stessi Stati, in cui sono istituite leggi e pene contro i malvagi, i singoli cittadini non si mettono in viaggio senza un’arma per difender‘ si, e non vanno a dormire senza avere serrato non solo gli usci contro i concittadini, ma gli armadi e i cassetti contro i domestici” (prefazione al De cive, Ce 32-33, it 71); quindi, nella condi-
zione dello stato civile permane la diffidenza che pone i cittadini l’uno contro l’altro, e che motiva l’utilizzo della forza alme-
no per la difesa della propria vita. Lo sforzo del procedimento deduttivo - fondato su alcuni princìpi di indubitabile evidenza nominati come punti di partenza del percorso teorico — sembra allora destinato ad entrare inevitabilmente in collisione con i conflitti generati dalle differenze delle passioni: gli antagonismi suscitati dagli interessi rischiano, ancora dopo l’istituzione del contratto politico, di va-
nificare l’opera della saggezza individuale e l’impegno pratico di quanti vorrebbero garantire lo stretto accordo tra legge naturale e legge civile. Hobbes difatti riconosce che i singoli interessi entrano normalmente in conflitto tra loro anche nella condizione dello stato politico; ed innanzitutto quanti sono detentori di potere e di conoscenza non accetteranno mai di dover rinunciare del tutto alla propria condizione di privilegio. All’interno dei sistemi politici (politicall systems) è normale la presenza di fazioni o cospirazioni (factions or conspiracies) che operano contro le assemblee legittime al fine di realizzare propri particolari 235
interessi (particular interest); si tratta in concreto degli uomini popolari e ambiziosi (L 374, it 327), dei falsi insegnanti (L 340, it 290), dei potenti (potent men) che difficilmente digeriscono un potere che possa imbrigliare le loro affezioni, dei dotti (learned men) che temono possano essere svelati i propri errori (L 379, it 332), quindi ancora dei folli, dei malinconici e dei profeti, che
non riescono a rendersi positivi produttori di poteri: tutti costoFO costituiscono un permanente pericolo per la società politica e debbono essere in qualche modo sottoposti a controllo, contenuti, oppure emarginati. Nei confronti degli individui considerati asociali e pericolosi per la pace — come abbiamo pure visto in precedenza — Hobbes richiama nel Leviathan princìpi di costrizione e di esclusione; in questi brani, le espressioni hobbesiane sono significativamente vicine alla scrittura della trattatistica della ragion di Stato. Preciso è l’invito da parte di Hobbes di usare esplicitamente la forza nei confronti dei soggetti che tendono a sottrarsi al dispositivo disciplinare ed all’obbligo giuridico-politico: tutti coloro che non accettano quella forma duplice di obbligazione rimangono di fatto emarginati dalle scansioni produttive dello scambio politico. Peraltro, è valida l'osservazione secondo cui i motivi dell’inalienabilità del diritto all’autoconservazione, affermati da
Hobbes come validi per ciascun cittadino sia nello stato di natura che in quello civile, contraddicono l’altro diritto esclusivo del sovrano, che è quello di punire con la spada della giustizia; la strada intrapresa da Hobbes per superare questa grave antinomia interna allo Stato tra la finalità di garantire comunque la vita dei cittadini e la funzione dell’esercizio della forza attraverso decisioni di diritto penale sarebbe, anche in questo caso, il rinvio all’utilizzazione prudenziale dei codici delle leggi!#8, Inoltre, per quanto riguarda il rapporto tra stati sovrani diversi — per ciascuno dei quali bisogna riconoscere eguali diritti alla conservazione, quindi un potere supremo ed eguale (vedi an, 148 A questo interessante argomento è dedicato lo studio di Y.Ch. Zarka, Droit de resistance et droit pénal chez Hobbes, relazione al convegno su “Hobbes oggi” (Università di Milano, marzo 1988) i cui atti sono raccolti in B.
Willms e altri, Hobbes oggi (Milano 1990); il saggio di Zarka è alle pp. 177-196.
240
cora la prefazione al De Cive) - Hobbes viene di fatto a negare la possibilità di un diritto internazionale; l’ordine del Leviatano riguarda la pace civile all’interno del singolo Commonwealth, mentre a livello delle relazioni interstatuali rimane inevitabile lo stato di guerra: su questo piano valgono unicamente i codici di forza propri della Ratio status!4?..
4. A quelle difficoltà Hobbes cerca dunque di rispondere intervenendo con molteplici registri argomentativi. Innanzitutto, egli ripristina le forme di un potere discrezionale del sovrano, il quale viene posto nella condizione di dover agire con la finalità di collegare funzioni di saggezza con tecniche prudenziali. In numerosi luoghi del Leviathan Hobbes afferma che il governo sovrano rimane legato a regole precise di saggezza: — Hobbes scrive che il sovrano saggio utilizza l’aiuto di consiglieri che abbiano esperienza (Experience), da costoro trae co‘noscenza di tutto quanto è necessario per affrontare gli affari di stato e tratta questi dati con recta ratiocinatio (L 307, LI 194, it 255);
— ancora, egli insiste sull'argomento per cui l’ufficio del rappresentante sovrano non può fare a meno del consiglio dei saggi che sono a conoscenza dei saperi particolari di governo (in omni genere negotii publici): “i migliori segni di conoscenza di qualsiasi arte sono la molta pratica in essa e i buoni effetti costantemente ottenuti”: quindi le pratiche e le tecniche prudenziali di governo sono costituite da much conversing: potremmo dire che notitia e conversazione — secondo la precettistica dei codici di prudenza — sono capaci di produrre constant good effects; — conviene pure ascoltare i consiglieri separatamente: “il beneficio del loro consiglio, quando danno il loro avviso e le ragioni di esso separatamente (apart; seorsim), è più grande di quando lo danno in assemblea” (L 392, L/ 252, it 344-345); Hob-
149 Su questo punto si può utilmente consultare il saggio di Simone Goyard-Fabre, Les silences de Hobbes et de Rousseau devant le droit international, in «Archives de philosophie du droit», XXXII (1987), 2; lo stato di guer-
ra è davvero ineluttabile — secondo l’autrice — dal momento che per Hobbes “la vie politique coincide avec la vie étatique” (ivi, p.62).
241
bes insiste su questa condizione di separatezza: “si è meglio consigliati separatamente (apart; seorsim” (L 308-309, LI195;*
256); tanto vuol significare che ogni tecnica o regola di governo deve rimanere 4 parte, segreta, quindi separata dalla vita comune poiché si tratta di percorsi che riguardano l’ambito politico di sovranità; da un lato, il bene del sovrano e quello del popolo debbono rimanere congiunti (cannot be separated), mentre le
funzioni del potere politico debbono essere separate e distanti dalla vita ordinaria dei cittadini (L 388, it 341); — il sovrano deve sempre rimanere popolare (L 393, it 346), mentre la popolarità di un suddito potente è malattia pericolosa (dangerous Disease) da combattere con determinazione (L 374, it 326); in questo caso sembra di trovarsi nel pieno della precettistica prudenziale che impone ai principi di riguardarsi in ogni modo dal pericolo costituito dai grandi; — il mortal God combatte. pure l’ingerenza della religione nell’esercizio del potere temporale — soprattutto delle gerarchie cattoliche — poiché il potere si conserva con le stesse virtù grazie alle quali è stato acquisito, vale a dire, con la saggezza, l’umiltà e la sincerità della conversazione (L 710-711, it 683-684). Anche nel Bebemoth, la categoria di saggezza acquista un ruolo importante nella funzione del governo sovrano: essa viene riferita all’azione necessaria dell’autorità politica che interviene decisamente per perseguire due obiettivi: punire quanti rendono pubbliche le interpretazioni private delle sacre scritture e contrastare i progetti di coloro che sono troppo ambiziosi (8 71 82 e 90, it 65 75 e 83).
In definitiva, in moltissimi luoghi la scienza politica lascia spazio all’intervento d’argomentazioni che provengono da saperi e pratiche di razionalizzazione dell’arte di governo; anzi, for-
se ancora qualcosa in più: le dinamiche dello scambio politico tra protezione e obbedienza si rendono possibili solo a condizione che il sovrano intervenga con tecniche prudenziali di governo a sostegno dei cittadini. 5. L’altro percorso discorsivo grazie al quale Hobbes cerca di affrontare le difficoltà argomentative del congegno di sovranità è quello di offrire maggiore autonomia alla figura del sovrano: accade allora che la teoria politica di sovranità assuma i caratte242
ri di un’ideologia rigidamente meccanicistica che procede suggerendo ai lettori innanzitutto la necessità della separazione completa tra sudditi e sovrano. In particolare, questi aspetti emergono con evidenza allorquando — negli anni della vecchiaia — Hobbes si mostra interessato a ricostruire nel Bebemoth gli eventi che prepararono e che furono propri del periodo rivoluzionario. L’esordio del primo dialogo induce a parecchie considerazioni: Se per il tempo come per lo spazio si potesse parlare di alto e basso, credo davvero che la parte più alta del tempo sarebbe quella compresa tra il 1640 e il 1660. Chi, infatti, da quegli anni, come dalla montagna
del diavolo, avesse guardato il mondo, ed osservato le azioni degli uomini, specialmente in Inghilterra, avrebbe potuto avere un panorama
d’ogni specie d’ingiustizia e d’ogni specie di follia che il mondo era capace di offrire, e constatare come esse erano prodotte dalle loro madri, ipocrisia e presunzione, delle quali l’una è doppia iniquità, l’altra è ‘ doppia follia (8 3, it 5).
Dunque, Hobbes propone un accostamento tra il tempo di quegli avvenimenti e la dimensione del discorso scientifico che riguarda lo spazio: con l’avvertenza immediata, però, che i degrees, i livelli di alto e basso propri del tempo, possono essere riferiti alle grandezze spaziali solo in forma di debole analogia. Hobbes avvicina l’immagine e il significato del tempo a quello dello spazio per operare subito una differenziazione: egli vuole certamente fare intendere che il tempo di quegli eventi non può essere ridotto ad una definizione puramente fisica. Il tempo proprio dell’agire morale e politico degli esseri umani rimane distinto da quello specificamente fisico. Negli anni della crisi della monarchia legittima, ingiustizia e follia hanno spinto il tempo verso i suoi livelli più alti, verso i punti estremi di rottura dell’ordine politico. Ipocrisia e presunzione hanno addirittura messo in pericolo l’esistenza stessa della sovranità autonoma dello Stato. Bebemotb ha sfidato Leviathan: scontro eccezionale, che
ha visto la violenza e l’ideologia della sedizione esercitarsi contro il potere costituito. Vicenda esemplare, da narrare alla luce dei princìpi della scienza del giusto e dell’ingiusto, in quanto essa ha definitivamente ribadito la necessità del mostro Leviatano. 243
AI termine del dialogo di cui è composta l’opera, all’interrogazione finale — rivolta dal convenzionale interlocutore — relativa al punto se, al compimento della sedizione, si sia o meno “semplicemente tornati alla situazione in cui ci trovavamo all’inizio” del conflitto, la figura principale del dialogante (in effetti lo stesso Hobbes) risponde: No, perché, è vero che prima (before that time) di quel tempo, i re d’Inghilterra avevano, in virtù della sovranità, il controllo delle forze armate, senza dispute, e senza alcun particolare atto di parlamento,
emanato appositamente a questo scopo; ma ora, invece, in seguito a questa disputa sanguinosa, il parlamento venuto dopo (cioè quello attuale; present), ha dichiarato in termini precisi ed espliciti, che si tratta
di un diritto esclusivo del re senza il consenso di nessuna delle due Camere del parlamento, e questo atto è più istruttivo per il popolo di qualsiasi argomento tratto dal titolo di sovrano, ed è di conseguenza più adatto per disarmare nel tempo è venire (for the time to come), l’ambizione di tutti i declamatori sediziosi (B 255-256, it 236).
Non solo, quindi, rinnovata esaltazione della monarchia co-
me forma migliore di governo dello Stato sorto per istituzione; in più, Hobbes vuole specificamente suggerire che la freccia temporale del before-present-time to come, superando il vertice del massimo rischio, ha ristabilito i caratteri di continuità e di
normalità propri del tempo artificiale dello Stato. La necessità dell’ordinamento di sovranità viene attestata, scrive Hobbes, da
“quel movimento circolare di potere, dal defunto re a suo figlio, passando attraverso due usurpatori, padre e figlio”, che ha segnato per l’Inghilterra il triste periodo della guerra civile. Circular motion of sovereign power: è questa l'autonomia di un tempo della sovranità (sovereign power) dello Stato, che si è affermata nonostante il tentativo di rottura rappresentato dagli avvenimenti del Long Parliament. Sforzo d’ulteriore giustificazione, quindi, dello Stato Leviatano operato da Hobbes con metodo storiografico che potremmo definire tucidideo, cioè ricostruzione dell’esperienza storica attraverso un punto d’osservazione diretto e pragmatico, che rifiuta qualsiasi tipo di finalismo e mette in rilievo la necessità della sovranità statale come portato indiscutibile della dinamica temporale. Tempo specificamente po-
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litico, dunque, che rende consapevoli gli uomini della necessità del potere statale non tanto attraverso la forma dell’articolazione della nuova scienza politica, quanto piuttosto grazie alla descrizione di un processo oggettivo di avvenimenti — esposto con capace eloquenza — che risulterebbe interiorizzato nelle coscienze dei cittadini ed accolto dallo studio dei saperi storici. Le considerazione espresse nel Bebemoth pongono ancora più in evidenza le difficoltà del progetto politico hobbesiano: l'impossibilità di uno svolgimento pienamente circolare tra indagine deduttiva ed inferenze induttive nella scienza politica; quindi, la necessità del ricorso allo strumento di tipo retorico ed al sostegno del mezzo storiografico come parti imprescindibili del discorso politico. 6. Esiste allora nel programma hobbesiano una zona oscura dove la sovranità esercita prerogative di carattere prudenziale: «dapprima, sul versante d’accesso al sistema politico, operando in modo preventivo attraverso un criterio di esclusione/inclusione, ed in seguito — nelle vicende ordinarie della vita civile — a fronte di ogni genere di difficoltà che possa presentarsi nei confronti del costituito ordine politico. In effetti, secondo il filosofo inglese, il rafforzamento del circolo protezione-obbedienza si raggiunge educando i soggetti ad intendere la necessità del contratto, a non recepire passivamente l’autorità, a produrre costruttiva autodisciplina dei comportamenti. Eppure la libertà civile è resa possibile dallo Stato Leviatano solamente nelle pieghe e nelle pause del suo discorso. In effetti, non esiste libertà individua-
le: la libertà resta delimitata dai silenzi dell’autorità sovrana. Essa può vivere ed essere lasciata intoccata nelle movenze interiori di ciascun individuo: peraltro, legge civile e codice penale vigileranno in continuazione sulla sua indebita estensione!?°. L’obiettivo principale dell’ordinamento politico-giuridico di sovra150 Sul problema della libertà nel pensiero hobbesiano esiste una ricchissima letteratura; per gli interventi più recenti richiamo il lavoro di Q. Skinner, Hobbes and Republican Liberty (Cambridge University Press 2008), ed ancora l'interessante contributo di D. van Mill, Liberty, Rationality, and Agency in Hobbes’ “Leviathan” (State University of New York Press 2001).
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nità — teorizzato da Hobbes - non è quello di produrre indefinitamente libertà civile per i cittadini; più chiara indicazione è invece quella secondo cui i cittadini potranno godere di notevoli benefici solo se interiorizzeranno la separazione politica: portando a realizzazione un processo complesso di riconoscimento dell’autorità, innescando quindi positive dinamiche di scambio e diventando parte di un processo determinato di civilizzazione. In definitiva, non esiste uno specifico discorso di Hobbes su quale debba essere il limite dell’iniziativa del sovrano nei confronti degli individui e di quanto governo l’autorità politica debba farsi carico: da questo punto prende avvio il problema classico del liberalismo che impone ai governati cura e garanzie per la libertà che può essere in tanti modi messa a rischio dallo strapotere politico dei governanti!?!. Quella nozione di separazione — posta da Hobbes alla base della nozione di sovranità — rompe allora irreversibilmente con la figura classica aristotelica, ancora viva in Machiavelli, della politica come sfera del pubblico che scaturisce dal confronto tra le parti diverse della città, forze in permanente conflitto tra chi vuol dominare e chi intende sottrarsi alla dominazione. Secondo Hobbes, a fronte dei conflitti contemporanei — che prendono 151 Pasquino descrive bene i termini del nuovo tipo di minaccia che proviene nei confronti dei governati direttamente dall’interno del sistema politico, differenziandola nettameente dal tipo di conflitto politico che Machiavelli individuava per la città: “En s’appuyant sur une anatomie de la cité de type aristotelicien, Machiavel ne pense pas que la société politique soit une agrégation d’individus égaux (comme on a été habitué à penser depuis Hobbes); il la voit, en revanche, comme un composé instable de deux groupes: les grands et le peuple caractérisés par deux bumeurs differentes... La question centrale pour la théorie liberale est celle de la relation entre ceux qui gowvernent et ceux qui sont gouvernés. En d’autres termes celle du rapport entre la quantité de pouvoir que les premiers ont ou n’ont pas droit d’avoir, d’un còté, et la garantie des droits des citoyens, de l’autre. En revanche, la préoccupation centrale de Machiavel, de mème que pour Aristote, est celle du rapport entre deux forces (sociales): grandi et popolo, où les grands ne sont pas en tant que tels ceux qui gouvernent, ni le peuple, comme pour nous, l’ensemble des citoyens...; dans cette perspective préhobbiene, la menace pour l’ordre politique de la cité vient pour l’auteur des Discowrs de l’ambition des grands”; in P. Pasquino, Liberté et république chez Machiavel, in «Les Annales de Clermond-Ferrand»,
XXXII (1992), pp. 37-38. 246
origine dalla lacerazione interna al credente che non sa a quale delle autorità, divina o terrena, vincolare la propria obbedienza — non è possibile utilizzare alcun criterio di medietà delle passioni umane da porre alla base del governo che opera come mese politeia (su questa critica della mediocrity of the passions of men vedi E 94, it 146 e B 55, it 52).
Nel Leviathan, Hobbes attiva un’articolazione espositiva complessa, teorica e retorica allo stesso momento, motivata da
una profonda convinzione: l’autorità politica deve esibire in astratto, attraverso la rappresentazione simbolica dei poteri, ed esprimere nei registri amministrativi di saperi/pratiche di polizia gli elementi multiformi della vita naturale e civile, riportandoli alla misura dell’unità artificiale fondativa dello Stato Leviatano. L'ordinamento politico-giuridico di sovranità deve costituire visibilmente il tutto piero di spazio/tempo per gli individui che — attraverso il calcolo della ragione — accettano di oggettivare se stessi nella persona ficta del grande artificio del potere politico. Dal canto suo, Machiavelli aveva negato che il vivere civile potesse registrare e contenere stabilmente i flussi molteplici e frammentati dei conflitti: piuttosto, vivere politico è capacità di produrre un vuoto come apertura contingente e permanente alla libertà per quanti vivono e riconoscono i conflitti!52; attraverso scarti e trasformazioni anche impetuose, l’azione politica innova gli ordini istituzionali ed inventa un nuovo inizio per la prassi civile, al fine di porre rimedio al corrompimento fisico ed alla degenerazione spirituale del corpo vivo della città. Contro Machiavelli, Hobbes teorizza quell’ordinamento di sovranità che mira ad escludere i conflitti dalla vita civile ed a confinarli nello stato di natura, descritto come il fondo 152 Riprendo sinteticamente l’interpretazione di Claude Lefort, in Le travail de l’oeuvre de Machiavel, cit. Questa lettura preziosa dell’opera machiavelliana costituisce la base di un progetto interessantissimo di studio dedicato da Lefort — ormai da decenni — ai temi della democrazia; vedi per le traduzioni italiane di alcuni suoi scritti: Les formes de l’histoire. Essais d’anthropologie politique (Paris 1978): Le forme della storia. Saggio di antropologia politica (Bologna 2005); Essai sur le politique. XIX°-XX° siècles (Paris 1986): Saggi sul politico. XIX-XX secolo (Bologna 2007); Ecrire. A l’epreuve du politique (Paris 1992): Scrivere. Alla prova del politico (Bologna 2006).
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imperscrutabile delle sofferenze mentali e corporee; la pienezza della ragione argomenta invece — attraverso i dettagli delle procedure logiche ed i registri dei codici disciplinari di polizia — la conversione vantaggiosa della moltitudine nell’unità artificiale del popolo. 7. Esiste un’altra zona d’ombra indotta dai dispositivi artificiali di sovranità. Si tratta degli altri effetti ai quali può dare origine l’ordinamento pubblico-giuridico, strutturato secondo i criteri della legittimazione autorizzativa: è questo il pericolo cui rimane esposta la comunità allorquando l’autorizzazione dell’ordine del discorso sovrano proviene non tanto dai calcoli ragionevoli dei cittadini, quanto piuttosto dalle proiezioni negative dei loro impulsi ed istinti. La prospettiva di questo rischio non viene enunciata nel quadro problematico e teorico tracciato da Hobbes: tuttavia, gli sviluppi Storici della modernità hanno evidenziato la effettiva drammaticità di questo possibile esito. Questa forma di rischio estremo era stata segnalata in qualche modo da Machiavelli come un prodotto perverso della politica, che prende origine dall’interiorità degli esseri umani. La sua genesi è da ricercare infatti nei tempi interiori, imperscrutabili ed ingovernabili, dell'animo umano; laddove la fortuna costituisce il fondo naturale degli impulsi umani che sospingono eccessive ambizioni e paure estreme. In questi casi, scrive Gennaro Sasso, la fortuna si presenta come “la zona oscura e non virtuosa del carattere, che ogni uomo, anche il più prudente e virtuoso, racchiude, di necessità, in sé: quella situazione, dunque, che,
vietandogli la percezione e il controllo di realtà storiche segnate da tratti non congeniali alla sua mente e al suo carattere, provoca la sua rovina e la sua fine”!5?. Machiavelli è convinto che la politica abbia la finalità principale di combattere — con gli strumenti che caratterizzano la propria autonomia — la corruzione del corpo politico; a tale proposito, nelle ultime battute del Discursus florentinarum rerum, il segretario fiorentino offre una riflessione d’incalcolabile valore: esiste un periodo di tempo de153 G. Sasso, Niccolò Machiavelli, cit., p. 396.
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terminato in cui si rende possibile il rimedio al degrado civile e si può fare in modo che gli ordini della città per loro medesimi possino stare fermi; e staranno sempre fermi quando ciascheduno vi averà sopra le mani; e quando cia-
scuno saperrà quello ch’egli abbi fare, e in che gli abbi a confidare; e che nessun grado di cittadino, o per paura di sé o per ambizione, abbi a desiderare innovazione (DFR 31).
Machiavelli ci pone sull’avviso secondo cui, allorquando il tempo del possibile rimedio alla corruzione della città è stato oltrepassato, cioè quando le eccessive ambizioni e le paure dei cittadini sono andate irreparabilmente molto avanti, innovazioni false o solamente apparenti possono purtroppo indurre il disastro civile. In queste situazioni, l’incapacità dell’immaginazione politica e la mancata invenzione di nuovi ordini provocano la perdita del bene più prezioso, della libertà. In tali contingenze storiche, gli individui proiettano il loro profondo malessere, la mala contentezza, negli scorrimenti della prassi civile; esiste dunque sempre un passo tragico, un vortice d’inabissamento e d’inarrestabile depressione, che può coinvolgere la comunità intera in qualsiasi momento. Non si può dunque argomentare in teoria alcuna rassicurazione che la maggior parte degli individui possa riconoscere, grazie alla ragione naturale, il percorso che condurrà gli esser umani all’approdo sicuro della pace civile; al contrario, esiste un fondo invisibile ed imprevedibile della natura umana, costituito di dolore e sofferenze estreme che rendono
gli individui malcontenti (discontented), che può in ogni momento riversarsi sul piano pubblico e dare vita a fenomeni perversi e ad istituzioni corrotte. Tanto viene pure a significare che l'ordinamento politicogiuridico di sovranità può diventare — anche nel rispetto formale dei dispositivi autorizzativi da parte dei soggetti — causa d’immani tragedie, produzione di orrori inimmaginabili per la comunità civile. In realtà, secondo gli sviluppi espositivi del Leviathan, sembra quasi che — una volta abbandonata la condizione di
sofferenza dello stato di natura — gli uomini possano definitivamente spogliarsi di quegli istinti distruttivi, poiché immessi in un contenitore artificiale d’intangibile sicurezza. Al contrario, può 249
accadere che autorità e comando possano anche affermarsi come il tremendo risultato della produzione dal basso di forme nuove d’obbedienza, assoggettamento, servitù, consentite da individui che soffrono minacce durissime ed angosce incontenibili. In realtà, sofferenze e malessere provengono agli esseri umani dalle condizioni naturali di vita, ed ancora permangono stabilmente nella comunità politica. Abbiamo visto che Hobbes stesso descrive le modalità grazie alle quali impulsi umani, negativi ed incontrollabili, agiscono in permanenza nella vita civile: accresciuti da eventi improvvisi di conquista o di guerre intestine, oppure stimolati dalle false credenze e dai cattivi insegnamenti impartiti dai pulpiti o dalle scuole. In effetti, egli si è soffermato diffusamente a descrivere il malessere dei soggetti come stimolo principale del degrado civile dello Stato. Tuttavia, Hobbes non problematizza fino agli esiti estremi l’incidenza che i comportamenti di soggetti malcontenti potrebbero avere sul piano dell’istituzione civile: il Leviatano come prodotto artificiale dei mostri dell’umana dis-ragione. Si può infine ipotizzare che la terza e la quarta sezione del Leviathan abbiano la finalità espositiva di voler esorcizzare una difficoltà interna alla sua teoria, quasi a voler anticipare la risposta ad un’ipotetica accusa di mancata coerenza. In questo consisterebbe il senso più profondo della funzione di queste parti dell’opera in cui Hobbes porta una critica radicale alle credenze irrazionali ed alle istituzioni ecclesiastiche: l’attribuzione di responsabilità dirette e complessive alla religione — fonte di superstiziosa e totalizzante obbedienza — del malessere civile e del dissolvimento degli stati. La polemica attenzione al fenomeno religioso opera uno speculare rovesciamento: nasconde il lato d’ombra della ragione artificiale della sovranità e consente la preventiva ed implicita assoluzione del mostro Leviatano.
8. Il Leviathan annuncia all’intera Europa un destino di civilizzazione e di progresso. In quanto concentrazione enorme di potere politico — che rappresenta i poteri maggioritari nel popolo—questa forza straordinaria ha la potenza necessaria per separare il movimento artificiale del sovrano dalla vita dei soggetti. La materia naturale viene depotenziata, scarnificata: perdono 250
decisamente vigore quelle differenze di natura che — come aveva splendidamente descritto Giordano Bruno —- sono vita e senso degli esseri umani. Hobbes perviene a tanto grazie all’applicazione spregiudicata dell’ideologia meccanicistica; questo metodo d’indagine, reso interno alla politica, moltiplica all’infinito i tempi: il suo fine non è tanto quello di misurarli e comprimerli, quanto piuttosto l’altro di registrarli, nominarli, segmentarli,
renderli innocui. Il movimento della ragione separata incide allora in profondità nel corpo vivente fino a produrre l’eccesso artificiale: si distacca dalla materia sensibile degli esseri umani, rendendosi autonomo. A questo punto, l’artificio politico — che prende anima dai corpi naturali degli individui — assume in proprio le caratteristiche della volontà collettiva e produce decisioni valide per tutti. Lo Stato moderno diventa quindi principale soggetto storico e fervida ideologia; trattando di esso, la nuova scienza politica descrive i termini di un’autoriflessività interminabile che suona come coazione a ripetere: stato è produzione dei tempi della pace e della sicurezza, condizione positiva delle singole esistenze individuali. L’autonomia dell’ordinamento politico-giuridico di sovranità, sostenuta da Hobbes, vive delle multiformi espressioni che il
processo di razionalizzazione della politica assume in Europa nella prima metà del Seicento: essa testimonia di una genealogia, complessa e certamente non lineare, della politica moderna che intende soprattutto suggerire un’attiva modalità di conservazione dell’ordine civile in Europa. Con argomentazioni aggiornate, il programma politico hobbesiano — congetturato dall’autore come progetto di possibile rimedio per una fase drammatica della storia europea — potrebbe essere ancora richiamato a proposito dei violenti antagonismi indotti dai processi della mondializzazione contemporanea; dal nostro presente osservatorio certamente si possono meglio comprendere quegli elementi che — a partire dalla raffigurazione teorica offerta da Hobbes — hanno costituito alternativamente i successi luminosi e gli angosciosi sprofondamenti di civiltà prodotti dal dispositivo di sovranità. In breve, lo studio genealogico e la critica radicale del Leviathan favoriscono in modo diverso rappresentazione e cura dei processi della soggettivazione politica. Oggi, diffuse resi251
stenze al lato oscuro della sovranità aprono a differenti pratiche di senso: le singolarità si sottraggono al dominio dell’oggetto tecnologico, rifiutano il sistema separato dei poteri, restituiscono libertà alle invenzioni della politica.
202
Indice dei nomi
Abel G., 124 Accattino P., 51, 57 Ackermann T.E, 136 Adam A., 226 Agamben G., 114 Alessio F.,, 157
‘ Althusser L., 189 Aristotele, 49, 50, 52, 53, 56, 165, 166-168, 201
Brandli R., 134 Brandon E., 184 Brandt E.,, 104
Bright Th., 115
Brock B., 54 Bruni L., 50, 53, 61, 190
Bruno G., 251 Burton R., 107, 115, 116
Ascarelli T., 144 Aston T., 116
Cadoni G., 56 Cambiano G., 60
Austin ]., 211
Cappelli F., 33 Carsana 33,51
Babb L., 116
Castiglione B., 106
Bacon EF, 14, 67-69 Baron H., 61
Chabod F, 191
Battista A.M., 104
Baumgold D., 211
Cicerone, 35, 39, 40, 41, 95, 125 Cleante, 124
Bausi F.,, 56
Collins J.R., 151
Benjamin W., 179
Cranston M., 14 Crouch C., 150 Curtis M.H., 116
Berns Th., 16 Bertani M., 89 Bertman M., 216 Biral A., 104 Bobbio N., 11, 143, 150
Chignola S., 195
D’Andrea D., 219 D’Angers J.E., 124
Bodin J., 16, 209, 216
De Angelis E., 167
Borot L., 146
Della Casa G., 106 De Mas E., 68 De Mattei R., 194 Di Benedetto V., 114
Borrelli G., 58, 106, 108, 114, 194 Botero G., 58, 75, 126, 127, 196 Bottani L., 114 Bracciolini P., 61
Dietz M.G., 213
255
Dillon M., 16 Donr'ATES117
Duso G., 195
Eisenach S.J., 136, 212 Elliot J.H., 160 Erasmo, 118
Jacob J.B., 21 Jesseph D.M., 21 Johnson C., 166 Johnstone D., 183 Kavka G.S., 104, 139 Kiessling N.K., 107
Klibansky R., 14 Ferne H., 216 Firpo L., 58, 104 Foisneau L., 140, 162 Fontana A., 85
Foucault
Knights L.C., 116
Koenigsberger H.G., 160 Koselleck R., 141, 196 Kraus J.S., 139
M., 16, 89, 120, 148,
194, 195, 198, 213, 224
Friedrich C.J., 156 Fukuda H., 216, 223
Lazzeri Ch., 140 Lefort C., 189, 247 Leibniz G.W., 144
«. Le Ray L_3209 Gaille-Nikodimov M., 48, 60
Leyden von W., 212
Gargani A.G., 104, 202
Lindblom Ch., 150 Lintott A., 54 Livio T., 35, 38
Gauthier D.P., 105, 139, 211
Giraldi G.G., 107, Goldsmith M.M., 166 Goyard Fabvre S., 216, 241 Grego M., 156
Lloyd S.A., 184 Locke J., 212
Guazzo S., 106, 118, 182,
Lucrezio, 35, 42 Luhmann N., 197
Guicciardini F., 118, 196
Lupoli A., 21
Flampton:]., 1954129139 Hanson D.W., 105
Macgillivray R., 161
Harrington J., 216, 223 Heeric Th., 233
Hegel, 229
Magri T., 11, 125, 146 Malcom N., 75
Malherbe M., 216 Malvezzi V., 112, 124, 134
Herla A., 183, 185 Hill Ch., 185. Hirschmann A.O., 140 Hodkinson S., 54 Hòrnquist M., 60 Hood EC., 164
Marinone N., 41 Martelli M., 12, 30
Hunter M., 21
McNeilly F.S., 229
Hunton Ph., 216
Melchionda M., 68, 69 Ménissier Th., 60 Micheli G., 11 Mill van D., 245
Inglese G., 31 Ion Ch., 60
254
Martinich A.P., 184 Marzocca O., 16 McLean I., 139 McMurrin S., 16
Moerbecke von W., 50
Montaigne de M., 106 Napoli P., 16 Neuendorff H., 140 Nicastro O., 11
Schuhmann K., 11 Seneca, 35, 41
Senellart M., 16 Sergio E., 21 Shaffer S., 21
Shapin S., 21 Simonazzi M., 107, 116
Oakeshott M., 164, 211 Oestreich G., 124 Omero, 14 Pacchi A., 20, 77, 162, 167, 236
Panofsky E., 114 Parel A. J., 52, 189 Pasqualucci P., 143 Pasquino P., 54, 149, 246 Pellizzari P., 117 Peters R.S., 14
Pitkin H., 141
Pizzorno A., 128, 150 Pocock J.C.A., 141, 160, 169
Poggi G., 233 Pomponazzi P., 15 Pulcini E., 129
Skinner Q., 14, 89, 154, 155, 211, 245
Soderini G.B., 43, 190 Sorell T., 230 Sorgi G., 143, 215 Sprat T., 185 Stone L., 116 Strauss L., 104, 166, 169, 172, 183, DIO,
Sullivan V.B., 60 Tacito, 70, 124 Taranto D., 140 Tarlton Ch.D., 210, 211
Terrel J. 230 Tricaud F,, 141 Tucidide, 14 JuckR3142157216
Quondam A., 118 Vegetti M., 104, 124
Rangeon F., 231 Reverdito G., 36 Reynié D., 140
Vegetti Finzi S., 104 Vettori F., 34 Viano C.A., 52, 114
Reynolds N.B., 70 Rhodes R., 105 Robertson G.C., 211 Rosa F.,, 104 Rossi M.M., 108 Roux L., 227
Santi R., 11 Sasso G., 43, 46, 53, 248 Saxl F., 114
Saxonhouse A.W., 70, 73 Schiera P. 50., 104 Schnur R., 140
Waldron J., 226 Weber D., 107 White Th., 115
Wilson C.H., 186 Wittkover M., 114 Wittkover R., 114 Wolf F.O., 69 Wolin S.S., 142, 212, 213, 223, 224, 226x227
Zarka Y.Ch., 156, 160, 214, 240
255
Finito di stampare nel mese di maggio 2009 presso la GraficArte sas — Marano di Napoli (NA)
Nel Leviathan (1651), Thomas Hobbes descrive finalità e strumenti del dispositivo di sovranità: il processo di legittimazione dell’autorità politica viene teorizzato come parte di un complesso sistema filosofico e fondato sui princìpi di una nuova sconvolgente antropologia. In aperta contraddizione con le nozioni machiavelliane di contentezza/contenzioni,
Hobbes
argomenta con le semantiche di contentment/contention la genesi e gli sviluppi produzione dei poteri che costringe gli individui alla costruzione dello Stato Leviatano. Attraverso il meccanismo di rappresentanza, l’unità del potere sovrano viene giustificata secondo le forme della moderna separazione; la materia artificiale politica si distacca dalla vita e dal movimento naturale dei corpi, surrogandone potenza ed energie. Sovranità e governamentalità: nel programma hobbesiano, questi due dun modi di concepire e praticare la politica interagiscono al fine di produrre obbligazione giuridica ed autodisciplina dei comportamenti. Il contratto politico pone quindi in relazione l'ordine civile costruito dall’alto con le strategie e le tecniche di quell’arte di ao che sta prendendo piede in tutta Europa, a partire dal laboratorio italiano: di qui lo stringente confronto del filosofo inglese con gli scrittori di civil conversazione e di ragion di Stato. Esiste nel pensiero politico di Hobbes una zona oscura dove la sovranità esercita in permanenza prerogative di carattere prudenziale: dapprima, operando in modo preventivo sull’accesso al sistema politico e, in seguito, intervenendo verso ogni genere di difficoltà che possa presentarsi nei confronti del costituito ordine politico. Gianfranco Borrelli insegna Storia delle dottrine politiche e Filosofia politica presso l’Università “Federico Il” di Napoli. Ha pubblicato:
n.
di Stato e Leviatano. Conservazione e scambio alle origini
della modernità
politica (1993), “Non far novità”. Alle radici della
cultura italiana
della conservazione politica (2000), Oltre ipercorsi di
sovranità: il paradigma moderno della conservazione politica (2005);
ha curato la traduzione del testo di Thomas Hobbes, Introduzione a “La guerra del Peloponneso” di Tucidide (1984). Da alcuni anni dedi-
ca l’attività di ricerca ai problemi della teoria democratica contempo-
ranea (Governance, 2004; La democrazia di governance tra crisi di
legittimazione e dispositivi d'emergenza, 2008).
Euro 22,00