Il Dolce stil novo 9788884029874, 9788884029492

Il concetto storiografico di Dolce stil novo risale alla "Storia della letteratura italiana" di Francesco De S

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Italian Pages 357/358 [358] Year 2015

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Table of contents :
IL DOLCE STIL NOVO
Presentazione
Frontespizio
Premessa
Tavola delle abbreviazioni e delle edizioni citate
I. Dolce stil novo: un discusso concetto storiografico
II. La voce di Dante
III. Vecchio e nuovo stile
IV. ‘Quando Amor spira’: aspetti e caratteri del Dolce stil novo
V. La tradizione del Dolce stil novo: manoscritti e stampe antiche
VI. Il padre mio e degli altri miei miglior: Guido Guinizzelli
VII. Guido Cavalcanti
VIII. Cino da Pistoia
IX. I minori
X. Ai margini del Dolce stil novo. Per un nuovo canone
Bibliografia essenziale
Indice dei nomi
Indice
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Il Dolce stil novo
 9788884029874, 9788884029492

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DONATO PIROVANO

IL DOLCE STIL NOVO SALERNO EDITRICE

Il concetto storiografico di Dolce stil novo risale alla Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, che per primo lo formulò nel 1870. E tuttavia, benché accolto da molti tanto da figurare ancora nelle storie letterarie e nei manuali scolastici, esso non ha goduto e tuttora non gode di unanime consenso tra gli studiosi della poesia delle Origini. È davvero esistito il Dolce stil novo, oppure è un fantasma storiografico generato dalla poetica dantesca? Questo volume cerca di dare una risposta, attraverso un’analisi puntuale e aggiornata dei testi e lo studio della loro tradizione manoscritta. Ne emerge che la poesia degli ultimi anni del secolo XIII richiama a un repertorio metrico chiuso, a uno stile limpido, piano e trasparente (‘dolce’), a un’esclusività tematica tutta incentrata sull’amore, a un pubblico rigorosamente preselezionato non solo sul piano culturale ma anche e soprattutto sul piano etico. Il volume comprende una prima parte dedicata al problema storiografico e agli aspetti generali della nuova poesia e poi capitoli distinti per i singoli poeti: dai maggiori ai minori, con proposte per un nuovo canone degli stilnovisti. Manca, volutamente, un capitolo dedicato a Dante, perché il protagonista indiscusso del Dolce stil novo aleggia su tutto il volume.

S E S TA N T E

COLLANA DIRETTA DA

AN DREA MAZZ UCC H I CONDIRETTORI

ANTO N I O G ARG AN O E MATTE O PALU M B O

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DONATO PIROvANO

IL DOLCE STIL NOvO

SALERNO EDITRICE ROMA

Composizione presso Grafica Elettronica, Napoli Copertina: Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Chigi L VIII 305, c. 7r: pagina iniziale della Vita Nuova di Dante, snodo importante nella storia del Dolce stil novo Realizzazione tecnica a cura di Grafica Elettronica, Napoli

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edizione digitale: gennaio 2015 ISBN 978-88-8402-987-4

edizione cartacea: gennaio 2015 ISBN 978-88-8402-949-2

Tutti i diritti riservati - All rights reserved Copyright © 2014 by Salerno Editrice S.r.l., Roma

a Enrico

P REM E S SA

Una monografia che accampa nel titolo la formula « Dolce stil novo » richiede una giustificazione. Il concetto storiografico di Dolce stil novo non è recente, visto che risale alla Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis (1870), ma – sebbene sia stato accolto da molti, tanto che figura ancora saldamente nelle storie letterarie e nei manuali scolastici – non ha mai goduto e non gode tuttora di unanime consenso. Si potrebbe dire che quel verso famoso e filologicamente irrisolto – « di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo » (Purg., xxiv 57), la cui lettura è frutto, come noto, di ricostruzione congetturale – continui a diffondere non solo sull’esegesi dantesca, ma anche, e soprattutto, sulla storiografia letteraria che se ne è impossessata, le ombre del dubbio. Il primo capitolo affronta dunque, sinteticamente, la storia del controverso concetto storiografico di Dolce stil novo, mettendone a fuoco le piú discusse problematiche: è corretto isolare nella storia della poesia italiana di fine ’200 e inizio ’300 un gruppo di poeti che si riconosce in una poetica condivisa? è lecito utilizzare i versi danteschi dell’episodio di Purg., xxiv, in funzione di una ricostruzione storico-letteraria? quelle parole sono appropriate solo a una fase circoscritta della poetica dantesca o possono essere estese ad altri rimatori che condivisero veramente un comune ideale e un medesimo modo di poetare? ammessa l’intenzione di coinvolgere in una poetica condivisa alcuni poeti ed escluderne altri, Dante può davvero essere considerato un testimone credibile e imparziale, oppure è piuttosto uno storico interessato, se non addirittura fazioso? E ancora. Una volta accolta – per convinzione critica o per convenzione – la nozione storiografica di Dolce stil novo, chi sono gli “stilnovisti”? I capitoli successivi (ii-iv) tentano un’aggiornata risposta a queste domande, esaminando prima le dichiarazioni di poetica di Dante – con un percorso volutamente a ritroso dalla Commedia alla Vita nuova –, poi le polemiche che contrapposero poeti della vecchia e della nuova maniera negli ultimi anni del ’200, successivamente gli aspetti e i caratteri della nuova poesia e da ultimo i contrasti all’interno dello stesso gruppo. Ne emerge un quadro quanto mai problematico, con un panorama tutt’altro che irenicamente compatto. Se questi nuovi poeti, pochi ma agguerriti e 9

premessa

determinati, richiamano a un repertorio metrico chiuso (canzone, sonetto, ballata), a uno stile limpido, piano e trasparente (‘dolce’), a un’esclusività tematica tutta incentrata sull’amore, a un pubblico rigorosamente selezionato non solo sul piano culturale ma soprattutto sul piano etico, se polemizzano anche vivacemente con un vecchio modo di fare poesia (in particolare contro Guittone e i suoi seguaci), tra loro ci sono evidenti e marcati contrasti, e piú che l’idea di amicizia sembra prevalere il topos del “superamento”, inevitabile conseguenza dell’egocentrismo di personalità rilevanti, dove spiccano in particolare Dante e Cavalcanti. È sembrato poi opportuno (cap. v) indagare la tradizione manoscritta, perché proprio nei codici di fine ’200 e inizio ’300, e poi nelle prime stampe si trovano seriazioni che potrebbero far pensare a una idea acquisita di Dolce stil novo già prima di De Sanctis. I capitoli successivi (vi-ix) – che formano la seconda parte – sono dedicati ai singoli poeti: il riconosciuto padre Guinizzelli, Cavalcanti, Cino da Pistoia, i satelliti Lapo Gianni, Gianni Alfani e Dino Frescobaldi. È il canone che si è imposto nella tradizione editoriale del ’900 e che alcuni studiosi ritengono ormai superato, tanto che negli ultimi anni è stato sottoposto a una serie di trazioni, senza però che si sia ancora giunti a una rettifica condivisa. Ammessa la legittimità della revisione – tanto piú che ultimamente si sono compiuti passi importanti se non decisivi in àmbito codicologico, filologico e linguistico sulla poesia delle Origini –, un nuovo canone potrà nascere in séguito a una riscrittura integrale della storia della lirica del ’200 e del primo ’300, in cui comunque il concetto storiografico di Dolce stil novo potrà ancora avere un senso, nonostante le diuturne contestazioni cui è stato sottoposto. L’ultimo sintetico capitolo (il x) apre a questa possibilità. Non può non colpire l’assenza nella seconda parte di un capitolo intero dedicato a Dante. L’assenza è voluta. Il protagonista indiscusso del Dolce stil novo non ha un suo luogo specifico, che doveva essere necessariamente limitato, perché egli aleggia su tutto il volume. Milano, 24 giugno 2014 D.P. 10

TAVOLA DELLE ABBREVIAZ ION I E DELLE EDI Z ION I C ITATE

1. Edizioni Gianni Alfani, [Rime], in PdDSN, pp. 295-312. La corona di casistica amorosa e le canzoni del cosiddetto “Amico di Dante”, a cura di I. Maffia Scariati, Roma-Padova, Antenore, 2002. Boccaccio, Esposizioni Giovanni Boccaccio, Esposizioni sopra la ‘Comedia’, a cura di G. Padoan, Milano, Mondadori, 1994 (i ed. 1965). Boccaccio, Filocolo Giovanni Boccaccio, Filocolo, a cura di A.E. Quaglio, Milano, Mondadori, 1998 (i ed. 1967). Boccaccio, Vite Giovanni Boccaccio, Vite di Dante, a cura di P.G. Ricci, Milano, Mondadori, 2002 (i ed. 1974). Bonagiunta Bonagiunta Orbicciani da Lucca, Rime, ed. critica e commento a cura di A. Menichetti, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2012. Cavalcanti Guido Cavalcanti, [Rime], in PdDSN, pp. 73-227. Chiaro Davanzati Chiaro Davanzati, Rime, ed. critica con commento e glossario a cura di A. Menichetti, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1965. Cino Cino da Pistoia, [Rime], in PdDSN, pp. 367-760. Commedia Dante Alighieri La ‘Commedia’ secondo l’antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, Milano, Mondadori, vol. i. Introduzione, 1966; vol. ii. Inferno, 1966; vol. iii. Purgatorio, 1967; vol. iv. Paradiso, 1968: « Ediz. Naz. delle Opere di Dante », a cura della Società Dantesca Italiana, vii; « Seconda ristampa riveduta », Firenze, Le Lettere, 1994. Conv. Dante Alighieri, Convivio, a cura di F. Brambilla Ageno, Firenze, Le Lettere, 1995 (« Ediz. Naz. delle Opere di Dante », a cura della Società Dantesca Italiana, iii; to. i, in 2 parti, Introduzione; to. ii, Testo). Dino Compagni Dino Compagni, Cronica, introduzione e commento di D. Cappi, Roma, Carocci, 2013. D.v.e. Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di E. Fenzi, con la collaborazione di L. Formisano e F. Montuori; con una Nota su La geografia di Dante nel ‘De vulgari eloquentia’ di F. Bruni. In appendice: Le rime del ‘De vulgari eloquentia’; De la volgare eloquenzia di Dante, volgarizzamento di G.G. Trissino, Roma, Salerno Editrice, 2012. Frescobaldi Dino Frescobaldi, [Rime], in PdDSN, pp. 313-66. Guinizzelli Guido Guinizzelli, [Rime], in PdDSN, pp. 3-72. Alfani Amico di Dante

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tavola delle abbreviazioni e delle edizioni citate Guittone Lapo Mon. PdDSN PDSN PdSS

Rime

R.v.f. V.n.

Velluti G. Villani

Le rime di Guittone d’Arezzo, a cura di F. Egidi, Bari, Laterza, 1940. Lapo Gianni, [Rime], in PdDSN, pp. 228-94. Dante Alighieri, Monarchia, a cura di P. Chiesa e A. Tabarroni, con la collaborazione di D. Ellero, Roma, Salerno Editrice, 2013. Poeti del Dolce stil novo, a cura di D. Pirovano, Roma, Salerno Editrice, 2012. Poeti del Dolce stil nuovo, a cura di M. Marti, Firenze, Le Monnier, 1969. I Poeti della Scuola Siciliana, ed. promossa dal Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani: vol. i. Giacomo da Lentini, Ed. critica a cura di R. Antonelli; vol. ii. Poeti della corte di Federico II, Ed. critica diretta da C. Di Girolamo; vol. iii. Poeti siculo-toscani, Ed. critica diretta da R. Coluccia, Milano, Mondadori, 2008. Dante Alighieri, Rime, a cura di C. Giunta, in Id., Opere, Ediz. diretta da M. Santagata, vol. i, Milano, Mondadori, 2011, pp. 3-744 (si segue però l’ordinamento Barbi). Francesco Petrarca, Canzoniere, ed. commentata a cura di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996. Dante Alighieri, Vita nuova, a cura di D. Pirovano, in Id., Vita nuova. Rime, a cura di D.P. e M. Grimaldi, Introduzione di E. Malato, Roma, Salerno Editrice, i.c.s. Donato Velluti, La cronica domestica, a cura di I. Del Lungo e G. Volpi, Firenze, Sansoni, 1914. Giovanni Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, Milano-Parma, Fondazione Pietro Bembo-Guanda, 20072 (i ed. 1991).

2. Studi e commenti Poesie dello Stilnovo, a cura di M. Berisso, Milano, Rizzoli, 2006. Dino Frescobaldi, Canzoni e sonetti, a cura di F. Brugnolo, Torino, Einaudi, 1984. Contini Poeti del Dolce Stil Novo, Milano, Mondadori, 1991, estratto da Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, 2 voll. De Robertis Guido Cavalcanti, Rime, con le Rime di I. Cavalcanti, a cura di D. De Robertis, Torino, Einaudi, 1986. Favati Guido Cavalcanti, Rime, a cura di G. Favati, Milano-Napoli, Ricciardi, 1957. Favati, Inchiesta G. Favati, Inchiesta sul Dolce Stil Nuovo, Firenze, Le Monnier, 1975. Fenzi, La canzone E. Fenzi, La canzone d’amore di Guido Cavalcanti e i suoi antichi commenti, Genova, Il Melangolo, 1999. Giunta, La poesia C. Giunta, La poesia italiana nell’età di Dante. La linea Bonagiunta-Guinizzelli, Bologna, Il Mulino, 1998. Berisso Brugnolo

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tavola delle abbreviazioni e delle edizioni citate Giunta, Versi Marti Mengaldo Quaglio

Rea-Inglese

Roncaglia

Tavoni

C. Giunta, Versi a un destinatario. Saggio sulla poesia italiana del Medioevo, Bologna, Il Mulino, 2002. M. Marti, Storia dello stil nuovo, Lecce, Milella, 1973, 2 voll. Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di P.v. Mengaldo, Padova, Antenore, 1968. A.E. Quaglio, Gli stilnovisti, in E. Pasquini-A.E. Quaglio, Lo stilnovo e la poesia religiosa, vol. singolo estratto dalla Letteratura italiana Laterza, dir. C. Muscetta, Bari, Laterza, 1971. Guido Cavalcanti, Rime d’amore e di corrispondenza, revisione del testo e commento di R. Rea; ‘Donna me prega’, revisione del testo e commento di G. Inglese, Roma, Carocci, 2011. A. Roncaglia, Precedenti e significati dello ‘Stil Novo’ dantesco, in Dante e Bologna nei tempi di Dante, a cura della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1967, pp. 13-34. Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di M. Tavoni, in Id., Opere, ediz. diretta da M. Santagata, vol. i, Milano, Mondadori, 2011, pp. 1065-547.

3. Repertori, dizionari, riviste BdT CLPIO

DBI ED

GSLI RSD SD SPCT

StoLI

A. Pillet, Bibliographie der Troubadours, ergäntz, weitergeführt und herausgegeben von H. Carstens, Halle, Niemeyer, 1933. Concordanze della lingua poetica italiana delle Origini, a cura di d’A.S. Avalle e con il concorso dell’Accademia della Crusca, Milano-Napoli, Ricciardi, vol. i 1992. Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960- (consultabile anche in rete all’indirizzo www.treccani.it). Enciclopedia dantesca, dir. U. Bosco, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1970-1978, 6 voll. (consultabile anche in rete all’indirizzo www. treccani.it). « Giornale storico della letteratura italiana », Torino, Loescher-Chiantore, 1883-. « Rivista di Studi danteschi », Roma, Salerno Editrice, 2001-. « Studi danteschi », Firenze, vari edd., poi Le Lettere, 1920-. « Studi e problemi di critica testuale », Bologna, Artigrafiche Tamari, 1970-2004; poi Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2005-2006, quindi Serra, 2007-. Storia della letteratura italiana, dir. E. Malato, Roma, Salerno Editrice, 1995-2005, 14 voll.

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tavola delle abbreviazioni e delle edizioni citate TLIO

Tesoro della lingua italiana delle Origini, a cura dell’Opera del vocabolario-Consiglio Nazionale delle Ricerche, consultabile presso il sito web http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO/. ★

Ringrazio i direttori e in particolare Andrea Mazzucchi per aver accolto questa monografia nella collana « Sestante ». Prezioso è stato per me il fitto scambio di idee con Enrico Malato. Cari amici hanno letto in anticipo questo mio lavoro, alcuni integralmente, altri in parte. A ognuno di loro va il mio grazie sincero: Paolo Borsa, Massimiliano Corrado, Gabriele Costa, Filippo Falbo, Enrico Fenzi, Giovanna Frosini, Marco Grimaldi, Roberto Rea, Maria Gabriella Riccobono. Ritengo, infine, che sia un privilegio poter lavorare durante le complesse fasi redazioni di un libro con Bruno Itri. La sua precisione e la sua acribia sono doni impagabili, e rari nell’attuale mondo editoriale.

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I D OLC E STI L NOVO: UN DI SC US SO CONC ETTO STORIOG RAF ICO

1. Genesi della formula La locuzione Dolce stil novo entra per la prima volta nella storiografia letteraria con Francesco De Sanctis: « Di questo dolce stil nuovo il precursore fu Guinicelli, il fabbro fu Cino, il poeta fu Cavalcanti. La nuova scuola non era altro che una coscienza piú chiara dell’arte ».1 Con questa brillante espressione – non priva di un certo compiacimento retorico come rivelano il parallelismo e la struttura triadica in asindeto – l’illustre critico isola nel secondo capitolo della sua Storia della letteratura italiana dedicato ai « Toscani » un gruppo di poeti di fine ’200, che ebbero, rispetto ai predecessori, una diversa e piú chiara coscienza artistica.2 Nell’affermazione di De Sanctis incuriosisce l’omissione di Dante, ma essa ben si giustifica nell’àmbito della linea argomentativa del paragrafo 10, che tende chiaramente a privilegiare il Cavalcanti, definito poco sopra « il primo poeta italiano, degno di questo nome, perché è il primo che abbia il senso e l’affetto del reale » (De Sanctis, Storia, cit., p. 57); anzi, è proprio per far eccellere Guido che il critico, ricorrendo alla Commedia, scrive: « I posteri potranno applicare a lui quello che Dante disse di sé: “Io mi son un, che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / Ch’ei detta dentro, vo significando” » (ivi, p. 58), citazione da cui scaturirà la formula Dolce stil novo impiegata, infatti, súbito dopo; e nel nome di Guido si 1. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Napoli, Morano, 1870, ii 10 (cito dall’ed. Torino, Einaudi, 1971, p. 58). 2. Dell’impegno dedicato all’argomento e dell’originalità degli esiti di queste sue pagine aveva coscienza il De Sanctis stesso, come dimostra una sua lettera del 1870 a Giuseppe De Luca, edita in F. De Sanctis, Scritti varii inediti o rari, a cura di B. Croce, Napoli, Morano, 1898, 2 voll., ii p. 241: « Io vorrei che leggessi le prime 40 cartelle [della Storia]. È un lavoro interamente nuovo, e a cui ho consacrato piú di sei ore al giorno. Non c’è quasi libro che non abbia letto da capo. Il terzo capitolo, intitolato Lirica di Dante, è un lavoro di cui non c’è esempio nella critica nostra e straniera e l’ho già compiuto ».

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il dolce stil novo

chiude il paragrafo: « Dino Frescobaldi, Rustico di Filippo, Guido Novello, Lapo Gianni, Cecco d’Ascoli sono il corteggio, nel quale emerge la figura di Guido Cavalcanti » (ivi, p. 59). Per questo motivo Dante deve entrare in scena solo nel paragrafo successivo, l’ultimo del capitolo: « Ma ben presto al nome di Guido Cavalcanti si accompagnò quello di Dante Alighieri » (ivi). La presunta assenza viene, dunque, colmata, e proprio in queste ultime pagine De Sanctis approfondisce e completa il discorso sulla nuova scuola toscana, che si distingue dalle precedenti per una coscienza artistica piú chiara e piú sviluppata; infatti, come informa la rubrica premessa al capitolo, gli argomenti di questo paragrafo finale sono: « Le “nuove rime” di Dante e la poetica dello Stil nuovo: il contenuto scientifico e il colore rettorico. L’ideale d’amore e del misticismo filosofico » (ivi, p. 23). In questo modo l’argomentazione è serrata e consequenziale e la disposizione della materia è talmente calibrata, che la conclusione del capitolo si salda perfettamente al successivo dedicato alla « Lirica di Dante ».3 Il concetto storiografico di Dolce stil novo non è, dunque, antico come si potrebbe a prima vista ritenere pensando ai versi dell’episodio di Dante e Bonagiunta di Purg., xxiv. La sua genesi è stata, invece, lenta e complessa. Lo ha messo bene in luce uno studio di Emilio Bigi dedicato alla “preistoria” di questa nozione, prima della sua affermazione in De Sanctis e nella storiografia di fine ’800.4 In precedenza si può parlare, infatti, solo di sporadiche notazioni o di intuizioni, tra le quali spicca per assoluta precocità (siamo al secondo decennio del XIv secolo) una glossa di Francesco da Barberino ai suoi Documenti d’Amore, in cui lo sviluppo della lirica volgare è rappresentato da un catalogo di poeti, che comprende nell’ordine, dopo Giacomo da Lentini e Guittone d’Arezzo, Guinizzelli, Cavalcanti, Dante e Cino, ai quali si aggiunge Dino Compagni: « et de modernis ut notarij Iacobi, Guittonis de Aretio, domini Guidonis Guiniçelli, Guidonis Ca3. Mi pare ingeneroso il giudizio di E. Pasquini, Il « Dolce stil novo », in StoLI, vol. i pp. 649-721 (partic. p. 649): « un’affermazione come quella di De Sanctis (“Di questo dolce stil nuovo il precursore fu Guinicelli, il fabbro fu Cino, il poeta fu Cavalcanti”) non solo pecca per omissione del personaggio-chiave di tale storia – ovviamente, Dante –, ma soprattutto per aver dato luogo a una di quelle triadi speciose che hanno spesso tradíto la verità dei fatti ». 4. Cfr. E. Bigi, Genesi di un concetto storiografico: « Dolce stil novo », in GSLI, vol. cxxxii 1955, pp. 333-71.

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i. dolce stil novo: un discusso concetto storiografico

valcanti, Dantis Arigherij, domini Cini de Pistorio, Dini Compagni et multorum proborum dicta et actus que si non dormieris poteris recenseri ».5 Nel ’400 sono poi significative le valutazioni che il Poliziano inserisce nella lettera proemiale della Raccolta aragonese, un’antologia, tra l’altro, simbolicamente rilevante perché fissa un canone esclusivo e selettivo della poesia italiana, in cui risalta il primato della lirica introspettiva di matrice stilnovistico-petrarchesca sugli altri multiformi registri che avevano caratterizzato la poesia dei primi secoli, che sono di fatto esclusi. Il Poliziano ammette il ruolo di Guittone e soprattutto di Guinizzelli nel rinnovamento della poesia del ’200, mentre sullo sfondo lascia i Siciliani, ma anche Bonagiunta e Onesto, biasimati per l’assenza di « leggiadria » e di « lima », sebbene riconosca loro « gravità » e « dottrina ».6 Tra i continuatori di questo nuovo modo di far poesia, che chiama il « novello stile », spiccano Guido Cavalcanti, presentato in termini elogiativi, e soprattutto i « dui mirabili soli, che questa lingua hanno illuminata: Dante, e non molto drieto ad esso Francesco Petrarca » (Epistola, p. 7). Un ruolo non secondario viene riconosciuto anche a Cino, « il quale primo […] cominciò l’antico rozzore in tutto a schifare » (ivi). Siamo certamente ben lontani da quello che diventerà il concetto di Dolce stil novo, ma c’è già il profilo di una linea evolutiva della lirica italiana due-trecentesca e soprattutto l’identificazione di quelle individualità poetiche che piú ne hanno determinato lo sviluppo.7 Le considerazioni di Poliziano non ebbero séguito, ma nel panorama della critica letteraria e dell’esegesi dantesca del ’500 merita di essere valo5. Francesco da Barberino, I Documenti d’Amore secondo i manoscritti originali, a cura di F. Egidi, Roma, Società Filologica Romana, 1905, 4 voll., i p. 100. 6. Rispetto a Guittone, definito « ruvido e severo, né d’alcuno lume di eloquenzia acceso », Guinizzelli è « piú lucido, piú suave e piú ornato » ed è « il primo, da cui la bella forma del nostro idioma fu dolcemente colorita, quale appena da quel rozzo aretino era stata adombrata » (per la lettera probabilmente scritta da Poliziano, cfr. L. de’ Medici il Magnifico, Epistola a don Federico d’Aragona, in Id., Opere, a cura di A. Simioni, Bari, Laterza, i 1913, p. 6). 7. Giunta, Versi, pp. 502-3: « La Raccolta Aragonese contribuí per la sua parte a trasmettere ai secoli successivi un’idea non falsa ma indubbiamente parziale della poesia del Medioevo […] non dice la verità sul passato, perché ne isola e documenta soltanto un segmento, ma rispecchia alla perfezione gli orientamenti del presente e indovina quelli futuri, la tradizione che resterà ».

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il dolce stil novo

rizzata una nota di commento di Alessandro vellutello dedicata a Purg., xxiv 52-57: Risponde Dante egli esser uno, il quale, quando amore spira, cioè, quando amore ditta ne la mente, nota e va significando, e va scrivendo e mostrando di fuori a quel modo ch’esso amore ditta dentro in essa mente. Per le quali parole, Bonagiunta mostra accorgersi de la cagione, che ’l Notaio, Guittone d’Arezzo, ed egli, che similmente d’amore aveano cantato, non usaro quel dolce e nuovo stile, ch’egli udiva essere stato tratto fuori, la qual cagione si è ch’essi non aveano scritto per essere spirati d’amore, come avea fatto Dante, Guido Cavalcanti, e Guido Guisinelli, da’ quali fu molto elimato questo modo di dir in versi e rime volgari, ma solamente aveano scritto a caso; onde dice: o frate, o fratello, issa, ora vegg’io il nodo che ritenne il Notaio, Guittone, e me di qua dal dolce e nuovo stile ch’i’ odo, che ora s’usa, come vuol inferire.8

Secondo il commentatore lucchese, dunque, i due Guidi e Dante si distinguerebbero dai predecessori per un « dolce e nuovo stile », generato dall’ispirazione d’amore e caratterizzato da una cura formale (« molto elimato »). L’intuizione del vellutello venne recepita solo a grande distanza di tempo, tra la fine del ’700 e l’inizio dell’800. In particolare, il padre Baldassarre Lombardi (1791-1792) scrive: « [Buonagiunta] conferma di veder esso pure, come Dante e i di lui compagni nel nuovo stile (intendendo verisimilmente Cino da Pistoia, Guido Cavalcanti ec.) si tengono nel loro scrivere strettamente attenti alla dettatura d’amore; diversamente da quello ch’esso Buonagiunta e suoi compagni fecero ». Dopo il Lombardi, Luigi Portirelli (1804) afferma, con un lieve margine di dubbio, che « Buonagiunta voglia lodare non pur Dante, ma anche alcuni altri che potrebber essere Cino da Pistoia, Guido Cavalcanti, e Guido Guinicelli ». La triade Dante, Cavalcanti e Cino è presente, poi, nella nota di commento di Raffaello Andreoli (1856), che riassume alcuni commenti precedenti.9 8. A. Vellutello, La ‘Comedia’ di Dante Aligieri con la nova esposizione, a cura di D. Pirovano, Roma, Salerno Editrice, 2006, Purg., xxiv 52-57 (vol. ii pp. 1090-91). I corsivi sono nel testo. 9. Rispettiv. La ‘Divina Commedia’ di Dante Alighieri novamente corretta, spiegata e difesa da F.B.L.M.C. [Fra Baldassare Lombardi, minore conventuale], Roma, A. Fulgoni, 1791, Purg., xxiv 58-60 (vol. ii pp. 353-54); La ‘Divina Commedia’ di Dante Alighieri illustrata di note da L. Portirelli, Milano, Società Tipografica de’ Classici Italiani, 1804, Purg., xxiv 55-63 (vol. ii pp.

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i. dolce stil novo: un discusso concetto storiografico

L’esegesi dantesca contribuí certamente alle acquisizioni della storiografia letteraria, ma è a quest’ultima che occorre riferirsi per cogliere piú specificatamente la genesi della caratterizzazione di De Sanctis. In essa, infatti, giunge a maturazione un’idea critica che si era affermata progressivamente ma lentamente nella storiografia letteraria ottocentesca e che ha il suo punto di partenza nel terzo dei sei discorsi Sulla lingua italiana di Ugo Foscolo (1823), e il suo sviluppo piú significativo prima nello studio Dante et les origines de la langue et de la littérature italienne di Claude Fauriel (1832-1833) e poi, soprattutto, nella Storia della letteratura italiana di Paolo Emiliani Giudici (1844), dove « si coglie la prima veramente consapevole sistemazione storica del Guinicelli, del Cavalcanti, di Cino e di Dante lirico in un raggruppamento ben definito, collocato in un preciso momento della storia della civiltà italiana, e nettamente distinto tanto dai Siciliani e dai Guittoniani quanto dalla lirica petrarchesca e petrarchistica ».10 La stessa rappresentazione desanctisiana del Dolce stil nuovo come una « nuova scuola » non è per nulla inedita. Essa, infatti, era già presente, seppure in modo generico e senza sigla distintiva, all’inizio della terza lezione della Storia della letteratura italiana di Paolo Emiliani Giudici, dove, richiamando le terzine dantesche del canto xxiv del Purgatorio, viene fornita una classificazione storica della poesia del ’200 in cui sono contrapposte due diverse scuole: « Questa scena del Purgatorio […] racchiude la ragione essenziale del progresso di un’epoca della poesia italiana, e rivela il trapasso di una scuola in un’altra. Buonagiunta e gli altri suoi contemporanei appartengono alla prima: Dante, autore delle nuove rime, e i suoi seguaci, alla seconda ».11 L’idea di una classificazione delle tendenze poetiche in scuole, disposte secondo linee di evoluzione naturalistica, era, del resto, tipica degli studi del tardo ’800, come rivelano anche, e soprattutto, le pagine di Giosue Carducci, scritte poco prima della pubblicazione della Storia di De Sanctis. Negli studi su Cino da Pistoia (1862) e sulle Rime di Dante (1865), e nelle le309-10); La ‘Divina Commedia’ di Dante Alighieri con comento compilato su tutti i migliori, e particolarmente su quelli del Lombardi, del Costa, del Tommaseo e del Bianchi da R. Andreoli, Napoli, Giov. Pedone Lauriel e Gabriele Rondinella coeditori, 1856, Purg., xxiv 58 (p. 431). 10. Bigi, Genesi, cit., pp. 362-63. 11. P. Emiliani Giudici, Storia della letteratura italiana, Firenze, Le Monnier, 18552 (18441), pp. 81-82.

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zioni universitarie sui Rimatori bolognesi del sec. XIII (1864-1865) e su Guido Cavalcanti (1864-1865), Carducci, infatti, traccia una linea di evoluzione lungo la quale pone successivamente, dopo la scuola siciliana, una scuola bolognese capeggiata dal Guinizzelli, una scuola di « transizione » (nella quale in un secondo momento, sciogliendo il gruppo bolognese, inserisce anche il primo Guido) e, infine, « la bella e pura scuola toscana che seguí, con notevole coincidenza storica, il gran movimento popolare del 1282 », e della quale indica come « precursore » il Guinizzelli e come componenti, oltre a Dante, Cavalcanti e Cino, anche Gianni Alfani, Guido Orlandi, Jacopo Cavalcanti, Lapo degli Uberti, Dino Frescobaldi e Sennuccio del Bene.12 Fu, però, l’icastica caratterizzazione di De Sanctis a imporsi, come rivela la presenza della sua formula già in Alessandro D’Ancona e in Napoleone Caix,13 e poi, soprattutto, in Adolfo Bartoli, nelle cui pagine si può dire che avvenga la definitiva consacrazione e cristallizzazione della nozione di Dolce stil novo nei termini tracciati da De Sanctis. Chiare in proposito le parole con cui Bartoli apre l’xi capitolo (Svolgimento della lirica) del suo volume I primi due secoli della letteratura italiana: Abbiamo veduto la lirica bamboleggiante, astrusa ed accademica dei Siciliani salire per vie diverse fino alle speculazioni filosofiche del Guinicelli. Il quale può dirsi come precursore della scuola poetica del dolce stil nuovo, che apparisce prima, sebbene ancor debolmente, con Lapo Gianni, che si rafferma poi con Guido Cavalcanti e con Cino da Pistoia, e che finalmente erompe in tutto il suo splendore con Dante. Tutta la novità, tutto il magistero poetico di questa bella e splendida scuola, colla quale ha principio veramente l’arte italiana, consiste in quello che l’Alighieri 12. Bigi, Genesi, cit., pp. 367-68. 13. Secondo Bigi, Genesi, cit., p. 369, il primo a usare la formula Dolce stil novo, dopo il De Sanctis, fu il D’Ancona nella prefazione a Le antiche rime volgari secondo la lezione del codice vaticano 3793, pubblicate per cura di A. D’Ancona e D. Comparetti, vol. i, Bologna, Romagnoli, 1875, p. xiii, dove si parla della « lirica antica italiana, quella almeno che antecede il dolce stil nuovo iniziato dal Guinicelli, e perfezionato dai migliori fiorentini e massimamente da Dante » (corsivi nel testo). La formula è accolta anche dal suo allievo N. Caix, Le origini della lingua poetica italiana. Principii di grammatica storica italiana ricavati dallo studio dei manoscritti con una introduzione degli antichi canzonieri italiani, Firenze, Le Monnier, 1880, p. 11, dove, nella descrizione del codice Laurenziano XC (Inf.) 37, scrive: « segue la lunga serie dei poeti dello stile novo, quali Cavalcanti, Cino da Pistoia, Frescobaldi, Franco Sacchetti ed altri » (corsivo nel testo).

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i. dolce stil novo: un discusso concetto storiografico espresse cosí efficacemente: «[…] quando / Amore spira, noto, ed a quel modo / Ch’ ei detta dentro, vo significando»; significare, cioè, i sentimenti dell’animo, a quel modo che amore li ispira, cioè in maniera appropriata ed elegante; accoppiare forma e contenuto, e fare dell’una e dell’altro tutto un insieme artistico. In questo insieme artistico, in questa opera dello spirito spontanea e riflessa al tempo stesso, sta la preminenza della nostra poesia, e sta la gloria di quella scuola.14

La tesi di Bartoli è condivisa, poco dopo, da Adolfo Gaspary, che nel capitolo La poesia allegorico-didattica e la lirica filosofica della nuova scuola fiorentina, cioè il ix della sua Storia della letteratura italiana – dopo aver elencato tra i poeti nuovi, che seguono il bolognese Guinizzelli, Cavalcanti, Dante, Lapo Gianni, Lupo degli Uberti, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi, Noffo Bonaguide –, cosí scrive: Per opera di questi poeti la cerchia d’idee, che aveva introdotte per primo nella poesia Guido Guinicelli, trovò il suo compimento tipico, si mutò in un vero sistema […]; pure rimane sempre in questa nuova scuola fiorentina un resto piú considerevole di sentimento individuale, e ciò che poi la distingue, è la forza e la maturità crescente della forma.15

Fuori dalla storiografia letteraria la formula e la nozione di Dolce stil novo si ritrovano, chiaramente precisate, anche nella nota di commento a Purg., xxiv 50, di Tommaso Casini (1889), che traccia un sintetico ma limpido profilo della lirica del ’200, meritevole di essere riportato per intero: Per la piena intelligenza di questo passo è da notare che quando Dante incominciò a poetare, circa nel 1283, due scuole di poesia lirica fiorivano in Italia: la scuola siciliana, cosí detta dal luogo ove prima si formò, allargandosi poi assai presto a tutto il mezzogiorno d’Italia e alla Toscana, della quale scuola furono capi, in Sicilia il notaio Giacomo da Lentini (cfr. v. 56) e in Toscana Buonagiunta da Lucca; e la scuola dottrinale, che teorizzò largamente sull’amore, fiorita specialmente in Toscana con Guittone d’Arezzo (cfr. Purg. xxvi 124) e in Bologna con Guido Guinizelli (cfr. Purg. xxvi 92). […] A queste due scuole seguitò la fiorentina, detta del dolce stil nuovo (cfr. v. 57), cui appartennero, oltre Dante, Guido Cavalcanti (cfr. Inf. x 60), Lapo Gianni, Dino Frescobaldi, Gianni Alfani e piú altri. Questi poeti, mo14. A. Bartoli, I primi due secoli della letteratura italiana, Milano, vallardi, 1880, p. 298. 15. A. Gaspary, Storia della letteratura italiana, traduz. di N. Zingarelli, Torino, Loescher, 1887 (i ed. tedesca 1884), pp. 184-85.

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il dolce stil novo vendo dalla teorica del Guinizelli sulla natura dell’amore, considerato come il sentimento proprio delle anime virtuose, crearono tutto un sistema d’idealizzazione della donna, mescolando le speculazioni dottrinali alle imaginazioni geniali della fantasia, e della poesia amatoria fecero per i primi in Italia una vera opera d’arte: poiché alla profondità e novità dei concepimenti seppero far corrispondere uno stile piú franco e perspicuo, una lingua piú naturale e piú efficace, e forme metriche meglio determinate (canzone e sonetto) o raccolte dalla poesia del popolo (ballata). Tale svolgimento della lirica italiana nella seconda metà del secolo XIII è poeticamente rappresentato in questo episodio di Buonagiunta.16

2. Un controverso concetto storiografico Alla fine del XIX secolo, dunque, la nozione di Dolce stil novo come di una scuola ben determinata e distinguibile nell’àmbito della poesia italiana delle Origini è acquisita, tanto da essere impiegata da allora in poi non solo negli studi critici, ma anche nella manualistica scolastica, che contribuí, come è facilmente intuibile, alla divulgazione e alla cristallizzazione della formula e del concetto storiografico. Eppure, già all’indomani della caratterizzazione di De Sanctis e contemporaneamente alla sistemazione storiografica di Bartoli, non mancò una voce di dissenso, e una voce non indistinta e trascurabile, perché proveniente da uno degli allievi piú legati a De Sanctis. Nel suo commento alla Divina Commedia, in nota a Purg., xxiv 56-57, – dunque in un punto di particolare pertinenza –, Francesco Torraca scriveva: Oggi, non senz’abuso, si suol chiamare « scuola del dolce stil novo » tutto un gruppo di poeti toscani, Dante, Guido Cavalcanti (Inf. x 63), Cino da Pistoia, Lapo Gianni e qualche altro. Ma Bonagiunta, cioè Dante, attesta ben chiaramente che le « nuove rime » e il dolce stil novo cominciarono con la canzone Donne che avete, la quale veramente, per altezza d’ispirazione e perfezione di forma, si lasciò di gran tratto addietro tutto ciò, che, fino allora, la lirica amorosa aveva prodotto in Italia.17

16. Divina Commedia, in T. Casini, Manuale di letteratura italiana ad uso dei licei, Firenze, Sansoni, vol. ii 1889, Purg., xxiv 50, p. 437 (corsivi nel testo). Questa nota è letteralmente ripresa in La ‘Divina Commedia’ di Dante Alighieri con commento del Prof. G. Poletto, Roma, Desclée, Lefebvre e C., 1894. 17. F. Torraca, Commento alla ‘Divina Commedia’, a cura di v. Marucci, Roma, Salerno Editrice, 2008, Purg., xxiv 55-57 (vol. ii p. 954).

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Alcuni anni dopo, un’altra autorevole voce dissenziente fu quella di Guido Mazzoni, secondo il quale perfino la designazione « dolce stil nuovo » era frutto d’un equivoco, e dunque non autorizzava i critici a definire sotto quell’etichetta una scuola poetica.18 Tale tesi sfociò nella risoluta affermazione di Francesco Flora, il quale, dedicando un capitolo della sua Storia della letteratura italiana al « Dolce Stil Nuovo », ne intitolava il paragrafo iniziale: « Una ‘scuola’ creata dai posteri »,19 insorgendo perentoriamente contro l’idea di una « scuola poetica »: piuttosto « il dolce stile […] va considerato come un’aura letteraria alimentata da una cultura sensibilissima ed eletta, e volta a forme elaborate ed eleganti, in una ispirazione meditata che ricerca la piú intima voce dell’Amore, e cioè il senso riposto che sotto le parole è celato » (ivi, p. 69). La presa di posizione di Flora, certamente figlia delle concezioni crociane, animò il dibattito attorno al Dolce stil novo e non rimase priva di echi presso la critica successiva, tanto che si arrivò, qualche anno dopo, a risultati divergenti, se non proprio antitetici. Lo dimostrano in modo paradigmatico le conclusioni opposte di due ampie e meritorie monografie edite quasi contemporaneamente, la Storia dello stil nuovo (1973) di Mario Marti e l’Inchiesta sul Dolce Stil Nuovo (1975) di Guido Favati. Marti ritiene che il Dolce stil novo sia « un nodo critico e decisivo della nostra storia letteraria » (Marti, p. 337), e quindi considera legittimo utilizzare la formula per distinguere quel gruppo di poeti toscani che secondo Dante conobbero l’eccellenza del volgare, un insieme riconoscibile sia dai legami di amicizia e di affinità elettive, intellettuali o strettamente letterarie, che univano i membri, sia dai giudizi che se ne espressero e dalle polemiche che li coinvolsero; da una parte e dall’altra, infatti, fu chiara la consapevolezza di una demarcazione che differenziava gli stilnovisti dagli altri rimatori contemporanei (ivi, pp. 46-47). Dunque, secondo lo studioso, 18. Questa tesi, già sostenuta pubblicamente, è sinteticamente espressa in una recensione a un libro di Luigi Tonelli: G. Mazzoni, ‘ Dante et la poésie de l’ineffable’ de Luigi Tonelli, in « Dante. Revue de culture latine », a. iv 1935, pp. 353-56, partic. p. 354: « Et je crois (comme j’ai essayé, il y a plusieurs années, de le démontrer en public) que la désignation même de ’Dolce Stil Nuovo’ n’est que le résultat d’une équivoque, et que la phrase dantesque ne nous donne aucunement, à nous, la faculté de créer une école poétique sous ce titre et de la déterminer nous-mêmes dans le temps, dans l’espace, dans ses caractères propres ». 19. F. Flora, Storia della letteratura italiana, Milano, Mondadori, 1940, pp. 66-69, a p. 66.

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non è per nulla arbitrario riunire questi poeti in una scuola: essa, infatti, connota una realtà storica viva, cosciente e attivamente operante, la quale poggia su argomenti ben piú solidi che non una “scuola” siciliana, e siculotoscana, tanto piú se, com’è necessario, s’intenda una scuola non rigidamente chiusa in schemi teorici e ingabbiata in programmi precisi.20 E, infine, in un altro contributo di storia della critica pubblicato pochi anni dopo, Marti ribadisce che occorre fugare ogni « equivoco intorno al valore ed al significato della parola “scuola”: la quale non intende nulla di accademico, nulla di didattico, nulla di regolistico, ma la comune coscienza di una comunanza di ideologia e di cultura e, si aggiunga, di affetto » (ivi, pp. 5860).21 Sebbene le premesse metodologiche e i documenti di riferimento di Favati siano sostanzialmente simili a quelli di Marti – in particolare, nella prima parte del libro l’esame delle presunte testimonianze che giustificherebbero l’esistenza di una scuola o quantomeno di una poetica condivisa, e nella seconda parte un’analisi piú circostanziata dei singoli poeti –, gli esiti dell’Inchiesta sul Dolce Stil Nuovo sono opposti, come rivela la perentoria conclusione: « uno “stilnovo” non sembra esistere » (Favati, Inchiesta, p. 340). Per Favati « tutto quel che esiste […] è un certo numero di rilevanti personalità, vissute press’a poco in uno stesso felice momento, […] tanto rilevanti, che hanno suscitato uno stuolo d’imitatori o comunque di gente che li riconosceva come maestri pur ingegnandosi di non rinunciare ad una propria personalità, e che ha risentito profondamente di loro » (ivi). Queste due posizioni estreme, pronunciate da studiosi autorevoli che avevano, tra l’altro, offerto un importante contributo anche sul piano esegetico e filologico – Marti con un ampio commento ai Poeti del Dolce stil nuovo (1969), Favati con l’edizione critica delle Rime di Guido Cavalcanti 20. Tale caratterizzazione aveva tra l’altro il conforto di una precedente affermazione di Gianfranco Contini, che nella Introduzione al suo commento alle Rime di Dante (1939) scriveva: « Il dolce stile è la scuola che contiene con maggior consapevolezza e buona grazia il senso della collaborazione a un’opera di poesia oggettiva, e insomma la scuola che piú ha il senso della scuola » (cito da Dante Alighieri, Opere minori, vol. i to. i. Vita nuova, a cura di D. De Robertis, e Rime, a cura di G. Contini, Milano-Napoli, Ricciardi, 19952, p. 255). 21. M. Marti, Sullo « Stil nuovo » e sugli stilnovisti: linee della problematica recente, in « Cultura e scuola », a. xvi 1977, pp. 19-28 (poi in Id., Nuovi contributi dal certo al vero. Studi di filologia e di storia, Ravenna, Longo, 1980, pp. 41-54: la citaz. è a p. 47).

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(1957) –, non potevano non condizionare il dibattito successivo, dove si distinguono sia decisi pronunciamenti nell’una o nell’altra direzione, sia tentativi di mediazione. Raramente, però, si rinuncia alla sigla Dolce stil novo, che viene ormai considerata « una citazione di comodo da mantenere per scopi pratici, visto che è stata assunta da tempo a generale manifesto di poetica » (Quaglio, p. 14). Quella che entra in crisi, nonostante le precisazioni di Marti, è piuttosto l’idea di « scuola », sostituita da espressioni piú generiche come « corrente », « convegno ideale », « circolo », « cenacolo poetico », « movimento letterario », « insieme », « gruppo », o piú caratterizzanti come « avanguardia ». Proprio quest’ultimo termine ha incontrato una certa fortuna, sebbene siano state ritenute necessarie alcune precisazioni, come questa di Francesco Bruni: « se per avanguardia s’intende un gruppo di letterati distinti da un atteggiamento comune di critica alla tradizione, il dolce stil nuovo può definirsi, anche se con una certa cautela, la prima avanguardia della letteratura italiana »; infatti, continua lo studioso: « la nozione di avanguardia va attribuita agli stilnovisti solo in misura limitata, nel senso che essi non rifiutano radicalmente la tradizione precedente, la rinnovano in modo netto ma restano al suo interno».22 E con questo significato l’espressione è accolta anche da Emilio Pasquini che, nell’introduzione al capitolo dedicato al Dolce stil novo per la StoLI, scrive: «Piuttosto che di una “scuola”, si dovrà parlare di una “avanguardia”, le cui dinamiche meglio emergono sul versante “dialogico” delle tenzoni che coinvolsero esponenti della vecchia e della nuova maniera ».23 Sarebbe sbagliato e riduttivo, però, restringere il piú recente dibattito a una mera questione terminologica. In realtà la pubblicazione di edizioni della poesia duecentesca filologicamente piú affidabili – e non solo degli stilnovisti o presunti tali – e il conseguente progresso degli studi con inedite scoperte e nuove acquisizioni critiche, sebbene non sempre condivise dalla comunità scientifica a dimostrazione di una feconda dialettica, con22. F. Bruni, Espressione poetica e orientamenti intellettuali del dolce stil nuovo, in Storia della civiltà letteraria italiana, dir. G. Barberi Squarotti, vol. i. Dalle Origini al Trecento, Torino, Utet, 1990, pp. 391-442 (partic. p. 406). 23. Pasquini, Il « Dolce stil novo », cit., p. 649.

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tinuano ad alimentare l’interesse degli studiosi sul Dolce stil novo. I contrasti sono tutt’altro che sopiti, come dimostra la persistenza di posizioni antitetiche. La tesi scettica sulla sussistenza o sulla legittimità del concetto storiografico può essere esemplificata da un denso profilo di Corrado Calenda, il quale, pur riconoscendo negli ultimi decenni del ’200 i presupposti e i connotati di una nuova poesia, afferma che « non c’è nulla che giustifichi la presunzione di una scuola […]. Ognuno va splendidamente per la sua strada, spesso con conflitti insanabili […]. Rimane, è vero, un gruppetto di rimatori assolutamente non trascurabili, le cui iniziative […] tendono a polarizzarsi intorno a questo o quello dei coetanei maggiori, dando luogo ad aree, peraltro ridotte, di cavalcantismo o di dantismo minore ».24 Sul fronte opposto si schiera Carlo Paolazzi, convinto che « prima di entrare nella storia letteraria come sigla storiografica, quello che Dante ha chiamato “dolce stil novo” è stato una prassi poetica illuminata da un’antica idea dello scrivere ‘ispirato’ e del poetare, nella quale un gruppo di ardimentosi rimatori del Duecento si è specchiato per rinnovare “la mainera / de li plagenti ditti de l’amore” ».25 Nonostante il perdurare nella critica letteraria contemporanea di posizioni opposte, resta il dato, ineludibile, che negli ultimi anni del secolo si reagí nettamente, con un forte richiamo all’ordine, alla stagione poetica che caratterizza la lirica del pieno e tardo ’200, dopo gli esordi piú compatti della « scuola siciliana », e che è ampiamente testimoniata dai grandi collettori – i manoscritti v (Bibl. Apostolica vaticana, vat. Lat. 3793), L (Bibl. Medicea Laurenziana, Redi 9) e P (Bibl. Naz. Centrale di Firenze, Banco Rari 217) – dai quali sono quasi completamente esclusi i poeti del Dolce stil novo.26 La novità di questi lirici si spiega, secondo Marco Grimaldi, « anche in relazione alla stretta connessione tra varietas metricoformale e dulcedo che era probabilmente implicita nella definizione medievale di lirica e che potrebbe essere quindi una delle chiavi per com24. C. Calenda, Il dolce stil novo e Dante, in Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, dir. F. Brioschi e C. Di Girolamo, vol. i. Dalle Origini alla fine del Quattrocento, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, pp. 343-74, a p. 348. 25. C. Paolazzi, La maniera mutata. Il « dolce stil novo » tra Scrittura e ‘Ars poetica’, Milano, vita e Pensiero, 1998, p. 257. 26. Per questa linea cfr. soprattutto: Giunta, La poesia; Id., Versi; e M. Santagata, I due cominciamenti della lirica italiana, Pisa, Ets, 2006.

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prendere anche la genesi dello Stilnovo ».27 L’accentuato valore gnoseologico della poesia e la scoperta dell’interiorità implicano un approfondimento, in particolare della scientia de anima, sia esso di matrice scientifica sia di matrice teologica. E proprio la sottigliezza, cioè il carattere intellettualistico e filosofico, è un aspetto riconosciuto e discriminante della nuova poesia.28 Per creare il nuovo, gli stilnovisti potevano rimanere nell’alveo della tradizione risalendo alla genuinità della poesia trobadorica e della poesia in volgare delle origini, ma dovevano necessariamente sgombrare il campo dalle derive in cui era confluita la lirica del tempo e soprattutto sbarazzarsi dell’indiscusso protagonista, tanto piú ingombrante quanto piú riconosciuto da molti come caposcuola, Guittone d’Arezzo: egli rappresenta, infatti, la parte della tradizione da rifiutare, senza remore e compromessi.29 Questi poeti non formano un gruppo ideologicamente omogeneo, ma si riconoscono in alcuni punti fermi, come, per esempio, la sensibilità del cuore e la ricchezza interiore (Amore e ’l cor gentil sono una cosa) che si traducono in limpidezza espressiva. E sulla base di questa aristocrazia sentimentale, attentamente perseguita e coltivata, vengono sanzionate le infrazioni, come dimostrano i dubbi di Cavalcanti sulla sincerità amorosa di Lapo (Se vedi Amore, assai ti priego, Dante e Dante, un sospiro messagger del core) o i rimproveri di volubilità sentimentale che Dante rivolge a Cino (Degno fa voi trovare ogni tesoro), o, soprattutto, il dissidio ideologico che a un certo punto contrappose Dante e Cavalcanti. 27. M. Grimaldi, Petrarca, il « vario stile » e l’idea di lirica, in « Carte romanze », a. ii 2014, pp. 151-210, a p. 177. 28. F. Bruni, Semantica della sottigliezza, in Id., Testi e chierici del Medioevo, Genova, Marietti, 1991, pp. 91-133, a p. 95: « Proprio nella sottigliezza, e cioè nel carattere intellettualistico e filosofico della nuova poesia, consisteva una delle discriminanti che identificavano l’avanguardia stilnovistica rispetto ai seguaci della maniera provenzaleggiante dei siculo-toscani ». 29. Giunta, La poesia, p. 326: « uno svolgimento coerente con la lezione di Guittone e, piú ancora, di Monte Andrea […] avrebbe assicurato alla lirica italiana una senescenza molto vicina all’estinzione: non stava in questa deriva formalista, del resto, il destino parallelo della poesia provenzale dopo Guiraut Riquier? E non si respirava già, dopo forse trent’anni di poesia toscana, un’aria da basso impero che incoraggiava ad appiattire qualsiasi tipo di contenuto sopra una trama di puri artifici retorico-versificatorî? Lo stilnuovo è questa correzione di rotta ».

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In una poesia che fa dell’interiorità e dell’individualità il proprio quid specifico, le differenze singole sono inevitabili, ma l’esame attento dei testi e le dichiarazioni di poetica piú o meno esplicite rivelano non solo una compattezza contro i detrattori, della prima e dell’ultima ora, ma anche presupposti condivisi che autorizzano a non abbandonare la formula Dolce stil novo, tanto piú che, se è vero che la definizione e l’elaborazione del concetto storiografico risalgono a De Sanctis, già la prima organizzazione editoriale – e, dunque, le inclusioni e le esclusioni di testi che presentano alcuni manoscritti assemblati tra la fine del ’200 e i primi decenni del ’300 – rivela il precoce, se non immediato, riconoscimento della novità di questa poesia o, comunque, dei protagonisti di un nuovo modo di scrivere poesia.30 3. Poetica di Dante o poetica di gruppo? È lecito utilizzare i versi danteschi dell’episodio di Purg., xxiv, in funzione di una ricostruzione storico-letteraria? quelle parole sono appropriate solo a una delimitata fase della poetica dantesca o possono essere estese ad altri che condivisero veramente un comune ideale e un medesimo modo di poetare? e ancora: ammessa l’intenzione di coinvolgere in una poetica condivisa alcuni rimatori ed escluderne altri, Dante può davvero essere considerato un testimone credibile e imparziale o, piuttosto, è uno storico interessato, se non addirittura fazioso?31 Dalla risposta a queste domande è dipeso, e dipende, il riconoscimento o la negazione del concetto storiografico di Dolce stil novo. La divergenza delle risposte ha dato vita fin da súbito a posizioni contrastanti: se, come si è già avuto modo di rilevare, De Sanctis non esitò ad applicare a Cavalcanti le parole di Bonagiunta di Purg., xxiv 52-54, Torraca replicò che quelle parole potevano essere riferite esclusivamente a Dante. Nel corso dell’annoso dibattito critico, sono prevalse per lo piú soluzioni 30. Berisso, p. 45: « Se lo Stilnovo è un parto di Dante, l’ ‘invenzione’ dello stilnovismo spetta in un certo senso agli organizzatori e copisti di quei codici ». 31. Cosí scrive Pasquini, Il « Dolce stil novo », cit., p. 652: « La prudenza suggerisce di diffidare di questo supremo mistificatore, che assegna i ruoli nel gran teatro dello Stilnovo: il padre (Guinizzelli), l’amico indocile (Cavalcanti), il sodale fidato (Cino), magari anche il piú modesto seguace (Lapo), e, di contro, il nemico esorcizzato (Guittone) ».

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discordanti e opposte, ma non sono mancati anche tentativi di mediazione, i quali tuttavia sono risultati episodici. Per esempio, in un saggio del 1930, vittorio Rossi distingue tra uno « stil novo » e un « dolce stil novo »: il primo rappresenterebbe un comune modo di poetare e consisterebbe nell’espressione fedele e diretta degli stati dell’anima lucidamente intuiti dalla fantasia, nell’accordo fra l’interna dettatura e la sua manifestazione a parole, insomma fra il contenuto e la forma; il secondo sarebbe, invece, una particolare gradazione e un’espressione specifica del primo, e dunque caratterizzerebbe solo la poesia dantesca a partire dal cap. xix della Vita nuova, la « matera nuova e piú nobile che la passata », dunque le rime della loda.32 Pochi anni dopo (1933), in un’ampia monografia, Fernando Figurelli, dopo aver criticato la distinzione di Rossi, ne propone un’altra la cui sostanza, però, non risulta dissimile. Lo studioso postula l’esistenza di un « dolce stile », che sarebbe una poetica condivisa da piú poeti, dal quale Dante si distinguerebbe con le nuove rime dello « stile della lode », che costituirebbero invece il « dolce stil novo », ma tali capziose distinzioni furono già rifiutate da Mario Casella in una lucida, e per altri versi preziosa, recensione al libro.33 Un momento decisivo della discussione si ebbe con un breve ma denso articolo di Domenico De Robertis, pubblicato nel 1954, in cui si mette a fuoco il significato dell’episodio del Purgatorio per trarne l’eventuale valore di poetica, individuale o collettiva.34 Secondo lo studioso, Dante affronte32. v. Rossi, Il “dolce stil novo”, in Le opere minori di Dante Alighieri. Letture fatte nella sala di Dante in Orsanmichele nel 1905 da p. G. Semeria, v. Rossi et alii, Firenze, Sansoni, 1906, pp. 33-97, poi ampliato e corredato di appendici in Id., Scritti di critica letteraria, vol. i. Saggi e discorsi su Dante. Con un ritratto e la bibliografia degli scritti dell’autore, Firenze, Sansoni, 1930, pp. 19-90, alle pp. 83-84. 33. Cfr. F. Figurelli, Il dolce stil novo, Napoli, Riccardi, 1933: partic. il cap. i intitolato Cosa intese Dante per “dolce stil novo”, pp. 1-22. E vd. M. Casella, rec. a Figurelli, Il dolce stil novo, cit., in SD, vol. xviii 1934, pp. 105-26. Sul problema ecdotico, tutt’altro che semplice, di Purg., xxiv 57, e sulla sua lettura vulgata, frutto di emendamento congetturale, occorrerà ritornare nel prossimo capitolo. Per ora basti segnalare la nota di commento ad locum di Giorgio Petrocchi (La ‘Commedia’ secondo l’antica vulgata, vol. iii p. 412), non priva di una sottile ironia: « anche questo verso famoso ha sofferto un’ampia sconciatura, che farebbe supporre, per delizia degli storici della letteratura, un dolce stile distinto da uno stil novo!, ammesso che il costrutto sintattico della terzina potesse consentirlo » (corsivi nel testo). 34. Cfr. D. De Robertis, Definizione dello stil novo, in « L’approdo », a. iii 1954, pp. 59-64.

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rebbe con Bonagiunta esclusivamente aspetti della sua poetica. Dunque lo stil novo è la Vita nuova e piú precisamente la poesia delle « nove rime », ed è la Vita nuova come storia di uno stile. Le « nove rime » sono quelle della lode, non toccate dalla passione e dalla guerra degli affetti, e il vecchio stile sono le rime del « gabbo » e dell’impossibilità di sostenere la presenza di madonna.35 Spiegato in questi termini il significato dell’incontro di Purg., xxiv, De Robertis riconosce che la definizione Dolce stil novo ha avuto anche un’altra accezione, meno ristretta, che si è imposta nella storiografia letteraria e nella manualistica scolastica: essa ha assunto un valore pratico convenzionale, e in questo senso potrebbe ancora essere utilizzata. Ma l’analisi della storia interna della poesia di Dante rivela che proprio le nuove rime infrangono il legame che appariva piú solido, cioè quello con il secondo Guido, visto che esse sono un superamento netto della fase piú cavalcantiana della poesia dantesca. Se poi si pensa che altri, come Dino Frescobaldi e Gianni Alfani, non sono mai nominati dall’Alighieri, e che Lapo Gianni e lo stesso Guido Guinizzelli non possono essere certo pienamente coinvolti nell’ideologia e nello stile delle « nuove rime », dei presunti stilnovisti resterebbe solo Cino, che per De Robertis sarebbe « colui al quale il nome di stilnovista par meno inappropriato ». La conseguenza è inevitabile: « restano poche probabilità di serbare la consistenza di una “scuola” ».36 L’analisi e l’argomentazione di De Robertis hanno avuto un certo séguito. Mi limito ad alcuni esempi: si può ricordare la presa d’atto di Silvio Pellegrini: « bisogna francamente riconoscere che il canto xxiv del Purgatorio non fornisce alcun sussidio utile a fissare il valore del concetto storiografico per cui è invalso il nome di dolce stil novo »;37 la convinta e decisa posizione di vittorio Russo: « davvero “per abuso” si è potuto parlare o si può continuare a parlare dell’esistenza di una “scuola del dolce stil novo”, Ma cfr. anche U. Bosco, Il nuovo stile della poesia dugentesca secondo Dante, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, Firenze, Sansoni, 1955, 2 voll., i pp. 77-101. 35. Secondo De Robertis, Definizione, cit., p. 61, fra le « nove rime » vanno però incluse anche le due canzoni Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete e Amor che ne la mente mi ragiona, composte contemporaneamente al libello e scaturite da una stessa disposizione poetica. 36. Per entrambe le citazioni cfr. ivi, p. 63. 37. S. Pellegrini, « Quando Amor mi spira » (‘Purg.’, xxiv, 52-63), « Studi mediolatini e volgari », voll. vi-vii 1959, pp. 157-67, partic. p. 162 (corsivi nel testo).

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per di piú presente nella coscienza critica di Dante e da lui in tali termini enunciata. […] Il “dolce stil novo” fu certamente l’esperienza solitaria di Dante a cominciare da Donne ch’avete »;38 la constatazione piú sfumata di Gianfranco Contini: « le parole della Commedia sono state tratte, non si dice certo per abuso, a definizione di una ‘scuola’, ma sono nate per indicare problemi della poetica dantesca » (Contini, p. 8); la netta asserzione, piú recente, di Corrado Calenda, che, in linea con la sua tesi già sopra ricordata sull’inesistenza del Dolce stil novo, esprime « seri dubbi sul valore collettivo della dichiarazione dantesca », con la convinzione che « la poetica di gruppo pare sempre di piú un’ingegnosa estrapolazione non ingiustificata, certo, ma difficilmente sostenibile in quanto tale, senza le indispensabili distinzioni ».39 Eppure, anche dopo gli studi di De Robertis e di coloro che ritennero fondata la sua tesi critica,40 il dibattito restò e resta aperto, a dimostrazione che non si è ancora trovata una soluzione soddisfacente e condivisa. Non sono mancate, infatti, opinioni da quella dissenzienti. In particolare, Francesco Bruni ha osservato che « non sembra […] fondata la tesi di coloro che nel dolce stil nuovo hanno identificato semplicemente un canone critico escogitato a posteriori da Dante, o una misura applicabile solo a Dante. In realtà la definizione dantesca, sottesa pur nella mutevolezza delle circostanze alla Vita Nuova e al De vulgari eloquentia come alla Commedia, riceve conferme di ogni genere dall’esame dei testi »;41 e sulla stessa linea si colloca anche Carlo Paolazzi: « sulla base degli accertamenti fatti, e visto 38. v. Russo, Il « nodo » del Dolce Stil Novo, in « Medioevo romanzo », a. iii 1976, pp. 23664, poi in Id., Saggi di filologia dantesca, Napoli, Bibliopolis, 2000, pp. 9-37, partic. p. 24. 39. Calenda, Il dolce stil novo, cit., p. 343. 40. Ne prende atto Quaglio, p. 13 (il saggio è del 1971): « Oggi si tende invece, rompendo la compattezza della formula definitoria, a riconoscere in essa una dichiarazione della poetica personale di Dante, attraverso la messa in rilievo della citazione da parte di Bonagiunta di una canzone fondamentale della Vita Nuova e della risposta in prima persona dell’interessato ». E cfr. anche D. De Robertis, Introduzione alla ‘Vita nuova’, in Dante, Opere minori, cit., p. 11: « Che la Vita nuova sia il manifesto dello “stil novo” nell’unica accezione storicamente autentica, quella dantesca, e sia pure sotto forma di narrazione di un’esperienza, ossia in termini di fatto compiuto, e insomma sull’equazione (mutuata – e autorizzata – dalla Scrittura) “vita nuova” = “nove rime” = “stil novo” come costitutiva del libro, sembra oggi acquisito il consenso ». 41. Bruni, Espressione poetica, cit., pp. 405-6.

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l’alto livello di consapevolezza storico-letteraria che caratterizza l’intero episodio purgatoriale, si potrà dunque inferire che l’espressione “I’ mi son un che” usata da Dante protagonista-poeta implica un riferimento intenzionale agli ‘altri’ che hanno rimato fedelmente sotto la dettatura di Amore, come del resto mostra di intendere Bonagiunta, che ne trae immediatamente alcune conclusioni personali e di storia letteraria ».42 La strategia di Dante può sembrare, ed è sembrata, interessata o comunque orientata, ma è assolutamente seria e lontana da ogni intento di mistificazione, che sarebbe tra l’altro contraddittorio rispetto ai princípi costitutivi e morali del viaggio oltremondano, e in particolare della salita del monte del purgatorio. E anche dal punto di vista narratologico non si può non convenire con Paolazzi che afferma: « sembra francamente improbabile che Dante abbia scelto con tanta oculatezza il rimatore-personaggio Bonagiunta, gli abbia messo in bocca domande cosí precise e parole cosí ricche di allusioni a fatti, discussioni e testi poetici di fine Duecento, per poi lasciarlo concludere a ruota libera “in proprio” su problemi tanto delicati, in presunto omaggio al canone – per altri aspetti sicuramente attivo – della “rappresentazione oggettiva” del personaggio ».43 Innanzi tutto, se l’espressione « I’ mi son un », usata da Dante in Purg., xxiv 52, implica una forte individuazione del soggetto e, dunque, sembra piú corretto escludere l’interpretazione ‘io sono uno, fra gli altri, che’,44 tuttavia proprio in questo modo viene compresa da Bonagiunta, che, infatti, poco dopo parlerà di « nostre » e « vostre penne ».45 Inoltre, i giudizi di Dante espressi in altri passi della Commedia e in alcune opere precedenti 42. Paolazzi, La maniera mutata, cit., p. 37 (corsivo nel testo). 43. Ivi, p. 38. 44. F. Brugnolo, Il « nodo » di Bonagiunta e il « modo » di Dante. Per un’interpretazione di ‘Purgatorio’, xxiv, in RSD, a. ix 2009, pp. 3-28 (partic. pp. 15-17). 45. Russo, Il « nodo », cit., pp. 32-37, ha proposto di sostituire l’aggettivo possessivo « vostre penne » di Purg., xxiv 58, con « nove penne », promuovendo a testo una variante presente in alcuni codici dell’antica vulgata come, per es., in Fi (Napoli, Biblioteca Oratoriana dei Girolamini, 4 20, ms. detto « Filippino »), vat (Città del vaticano, Biblioteca Apostolica vaticana, vaticano Latino 3199) e poi, in margine, nel piú tardo ms. LauSC (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, fondo principale [Plutei] Santa Croce 26 sin. 1); la proposta non ha però goduto di sufficiente consenso, anche perché la variante « nove » non è certo poziore a livello stemmatico, e per di piú potrebbe anche essere stata facilmente indotta dal « novo » del verso precedente.

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(in particolare il De vulgari eloquentia), le dichiarazioni di poetica piú o meno esplicite disseminate nei propri testi da altri poeti, e l’acceso dibattito che coinvolse in tempi diversi e con un diverso grado di coscienza critica esponenti della vecchia e della nuova maniera configurano un sistema ineludibile, caratterizzato dalla percezione di una svolta del gusto, ora vista come stacco e rifiuto di una tradizione, ora interpretata come sviluppo e rinnovamento vitale di quella tradizione. L’escussione dei testimoni offre troppe coincidenze che non possono risultare casuali. Il Dolce stil novo, allora, « non è solo frutto di una tarda interpretazione o di una strategia retrospettiva di Dante »,46 ma può essere ritenuto a buon diritto una realtà viva e una delle stagioni piú fervide e feconde della poesia italiana delle Origini. 4. Gli stilnovisti: la formazione di un canone Una volta accolta – per convinzione critica o per convenzione – la nozione storiografica di Dolce stil novo, un’altra questione cruciale è stata quella di riconoscerne i protagonisti. In effetti, alla domanda chi siano gli stilnovisti, le risposte – ieri come oggi – sono state e sono tuttora varie e discordanti. Nell’elenco di De Sanctis, come si è visto, spiccano i nomi di Guinizzelli, Cino, Cavalcanti e Dante, mentre Lapo Gianni e Dino Frescobaldi sono semplicemente compresi nel « corteggio » dal quale emerge la figura del secondo Guido.47 Gianni Alfani non è mai nominato. Adolfo Bartoli nel tomo iv della sua Storia della letteratura italiana, apparso a Firenze nel 1881, include fra gli stilnovisti Guido Orlandi, e a lui dedica ampia trattazione.48 Analogamente, la prima antologia che porta esplicitamente nel titolo la formula – e cioè le Liriche del dolce stil nuovo. Guido Orlandi, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi, Lapo Gianni, a cura di E. Rivalta, venezia, S. Rosen, 1906, chiaramente finalizzata a raccogliere i testi dei « minori » – include tra gli altri Guido Orlandi.49 46. Pasquini, Il « Dolce stil novo », cit., p. 659. 47. De Sanctis, Storia, cit., p. 59. 48. A. Bartoli, La nuova lirica toscana, Firenze, Sansoni, 1881, pp. 1 e 21-36. 49. Sono esclusi i poeti maggiori, ma occorre considerare che lo stesso editore aveva già

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Il mancato accordo si coglie, emblematicamente, negli scritti di Giulio Bertoni, che, ritornato piú volte e in tempi diversi sul problema del Dolce stil novo, ha oscillato a lungo nell’identificazione degli esponenti. In un suo articolo del 1906-1907, egli, considerando Bologna come la città di origine della nuova poetica, accoglie nel movimento non solo il Guinizzelli, ma anche Onesto e altri poeti bolognesi minori, come per esempio Fabrizio Lambertazzi, Gherarduccio Garisendi, Semprebene e Bernardo da Bologna, e ai toscani (Cavalcanti, Dante, Lapo, Dino Frescobaldi e Cino) aggiunge anche Guido Orlandi; inoltre, estende la nuova poesia al veneto includendo Aldobrandino de’ Mezzabati; ma poi nel successivo profilo di storia letteraria per la casa editrice vallardi dedicato al Duecento (1910), esclude Onesto, include ancora l’Orlandi e introduce perfino Dino Compagni; infine, in un altro studio del 1917, che in parte riprende il saggio del 1906-1907, ricompaiono Onesto e i minori bolognesi precedentemente considerati, con la riproposizione della tesi di Bologna come culla dello stil nuovo: in questo elenco sono presenti ancora l’Orlandi e Aldobrandino, ma manca Dino Compagni.50 Insomma, il catalogo era elastico e flessibile: e cosí, se Ruggero Ruggieri, in un articolo del 1936, crede che il cerchio degli stilnovisti possa essere allargato,51 Nicola Zingarelli, in una monografia dedicata a Dante pubblicata nel 1931, restringe, invece, il numero ai soli Dante, Cavalcanti, Cino e Lapo.52 pubblicato, pochi anni prima, un’edizione di Cavalcanti: cfr. Le rime di Guido Cavalcanti, a cura di E. Rivalta, Bologna, Zanichelli, 1902. In quel periodo, poi, non mancarono edizioni delle poesie di Guinizzelli (comprese nella raccolta Le rime dei poeti bolognesi del secolo XIII, raccolte ed ordinate da T. Casini, Bologna, Romagnoli, 1881, pp. 3-73) e di Cino (due volte, a cura di G. Carducci, Firenze, Barbera, 1862, e a cura di E. Bindi e P. Fanfani, Pistoia, Niccolai, 1878). 50. Rispettiv. G. Bertoni, Il dolce stil nuovo, in « Studi medievali », vol. ii 1906-1907, pp. 352-408; Id., Il dolce stil nuovo, in Id., Il Duecento, Milano, vallardi, 19393 (19101), pp. 279-305; Id., Elementi artistici della poesia del “dolce stil nuovo”, in Id., Poesie, leggende, costumanze del Medio Evo, Modena, Orlandini, 1917, pp. 121-43. 51. R.M. Ruggieri, Dante e il Dolce stil novo, in « Giornale dantesco », vol. xxxix 1936, pp. 181-96, partic. p. 192: « non mi pare abbia sufficiente fondamento l’idea che restringe il cerchio dei nuovi poeti a quei cinque o sei di cui si sa – e talvolta soltanto in modo indiretto e occasionale – che ebbero qualche relazione con Dante » (in nota chiarisce che il numero sale a sei se si include, come iniziatore, il Guinizzelli). 52. N. Zingarelli, Dante, Milano, vallardi, 1931 (partic. pp. 60-62, 101-2 e 125-26).

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Il contributo decisivo alla riduzione di queste oscillazioni e alla formazione di un canone degli stilnovisti venne dall’editoria e in particolare dall’antologia Rimatori del Dolce stil novo, a cura di L. Di Benedetto, Bari, Laterza, 1939, pubblicata nella collana « Scrittori d’Italia » (n. 172): essa include Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi, Cino da Pistoia.53 L’assenza dell’indiscusso protagonista del gruppo è giustificata dal fatto che alla Vita nuova e alle Rime di Dante sono destinati libri autonomi e distinti. Colpisce anche la preferenza accordata ai testi d’autore e la conseguente esclusione di componimenti anonimi, sebbene alcune delle poesie incluse nei manoscritti di riferimento meritassero una piú attenta considerazione per la loro vicinanza alle caratteristiche riconosciute e riconoscibili del movimento. Questa scelta fu, dunque, determinante perché il canone stilnovistico avesse da allora in poi un carattere prettamente “autoriale”.54 L’autorevolezza dell’editore e soprattutto il prestigio della collana imposero, infatti, una tradizione editoriale,55 che si rafforzò in séguito alla pubblicazione di altre due antologie già ricordate in precedenza: i Poeti del Dolce Stil Novo (1960) a cura di Gianfranco Contini (sezione dell’ampia raccolta ricciardiana dedicata ai Poeti del Duecento) e i Poeti del Dolce stil nuovo (1969) a cura di Mario Marti. Sebbene Contini dedichi un capitolo al cosiddetto « amico di Dante » e includa anche 4 sonetti di Lippo Pasci de’ 53. In precedenza il Di Benedetto aveva pubblicato un’altra antologia: Rimatori del Dolce stil novo, introduz. e note di L.D.B., Torino, Utet, 1925, edizione piú ridotta ma fornita, rispetto alla laterziana, di scarno commento. In questa raccolta, di Guinizzelli è compresa solo la canzone Al cor gentil. 54. Occorre però considerare che anche i grandi codici della poesia delle Origini, i mss. v, L e P, privilegiano testi d’autore; in particolare, poi, il ms. Chigiano, il codice fondamentale dello Stilnovo, assegna ai testi anonimi quasi soltanto i suoi fascicoli finali. Nella già ricordata Raccolta Aragonese, infine, gli adespoti non saranno piú ammessi. Cfr. Giunta, Versi, pp. 56-57. 55. Cfr. Rimatori del dolce stil novo, a cura di v. Branca, Genova-Roma-Napoli-Città di Castello, Società anonima editrice Dante Alighieri (Albrighi, Segati e C.), 1941; Dolce stil novo, a cura di C. Cordiè, Milano, Bianchi-Giovini, 1942; I Rimatori del Dolce stil novo. Guido Guinizelli, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi, Cino da Pistoia, a cura di G.R. Ceriello, Milano, Rizzoli, 1950; Rimatori del Dolce stil novo, pref. e note di F. Sarri, Bologna, Capitol, 1960; I poeti del « dolce stil novo », a cura di C. Salinari, Milano, Tea, 1994 (vol. estratto da La poesia lirica del Duecento, a cura di C. Salinari, Torino, Utet, 1951).

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Bardi, il canone non viene stravolto.56 Infatti, l’editore, pur scegliendo di includere le 5 canzoni anonime e i 61 sonetti adespoti della « corona di casistica amorosa », presenti nel codice vaticano 3793 (cioè in uno dei grandi canzonieri della lirica duecentesca), afferma che « a nessun patto il nostro scrittore può […] essere considerato uno stilnovista » (Contini, p. 260); dunque, la sua presenza integrale nell’antologia dovrebbe essere utile « a far conoscere un ‘fiancheggiamento’ stilnovistico che rompe il semplicismo degli schemi liceali » (ivi).57 Il canone si stabilizzò con l’edizione Marti del 1969, senza dubbio la piú completa raccolta dei poeti del Dolce stil novo, visto che viene incluso tutto Cino, anche se, in assenza di un’edizione filologicamente affidabile, il corpus delle rime certe e dubbie del poeta pistoiese restò un problema irrisolto.58 Tuttavia, la fortuna di questo canone non dissipò completamente le nebbie del dubbio, e non mancarono tentativi di modifica. In particolare Guglielmo Gorni, partendo dalla constatazione che « il Dolce Stile […] è una funzione diacronica, un modello storico in movimento, non già un canone assoluto, fissato una volta per tutte », aprí nuove prospettive di re56. A proposito delle sue scelte, Contini, p. 10, precisa: « I due Guidi, Lapo, Gianni Alfani sono presenti qui con tutti i componimenti sicuri, il Frescobaldi con una scelta essenziale, Cino con un quarto all’incirca della sua produzione. Testi vicini allo Stil Novo per età, ambiente, amicizia personale, ma ideologicamente remoti, figurano, a integrare la documentazione, in un raggruppamento successivo ». 57. La conferma di questo canone si ha, poi, in G. Contini, Letteratura italiana delle Origini, Firenze, Sansoni, 1976, p. 150: « La definizione del Purgatorio si applica naturalmente in primo luogo all’autore stesso, cioè al Dante attorno alla Vita Nuova; e súbito dopo a colui che nella Vita è vicinissimo a Dante e come suo complice, Guido Cavalcanti. Fondatore della scuola, se di scuola si può parlare, è quel Guinizzelli che, incontrandolo ugualmente nel Purgatorio, Dante chiama “padre” suo e degli altri autori di rime “dolci e leggiadre”. Il catalogo degli stilnovisti toscani si compie, a norma delle citazioni fatte nel De vulgari Eloquentia, con Lapo Gianni e Cino da Pistoia; vi si sogliono aggiungere, per affinità di movenze, i fiorentini Gianni Alfani e Dino Frescobaldi, senza escludere talvolta il contorno di qualche figura minore ». 58. Questo canone è giustificato in Marti, pp. 41-47. L’unico rimatore del quale, stando alla verifica storiografica, si potrebbe con ragione contestare l’appartenenza al gruppo sarebbe, secondo Marti, Dino Frescobaldi. Tuttavia – prosegue lo studioso – il tono, lo stile e i temi delle sue rime, la sua biografia, l’importanza a lui attribuita nel ritrovamento dei primi sette canti dell’Inferno, e, infine, la sua ammirazione per Cavalcanti e per Dante possono essere ritenute prove sufficienti per la sua inclusione tra gli stilnovisti.

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visione, chiedendosi « per quali benemerenze mai un Dino Frescobaldi o un Gianni Alfani […] vengano cooptati nel gruppo », e non, per esempio, anche Sennuccio del Bene, e includendo nell’elenco piuttosto Lippo Pasci de’ Bardi al posto di Lapo Gianni, il cui ruolo venne alquanto ridimensionato: « E, oltre la terna Cavalcanti, Dante e Cino, d’ascendenza dantesca, è il caso eventualmente di altri, pur non inclusi nel canone dei Sette. Dei quali Sette, anche a voler accettare l’idea di un “canone”, piú d’uno è in pericolo. Son proprio in regola le carte di Lapo, poeta cortese quant’altri mai della cerchia fiorentina? ».59 Non mancarono le discussioni, talvolta sfociate in accese polemiche o comunque in decise prese di posizione, e il dibattito si complicò con la chiamata in causa di Lupo degli Uberti, questione intricata sulla quale occorrerà tornare successivamente.60 Per il Dolce stil novo seguí anche un periodo di vuoto editoriale, colmato solo in tempi recenti da un’ampia antologia commentata, innovativa nell’impostazione, curata da Marco Berisso per i classici della Bur e pubblicata nel 2006. Secondo l’editore, il principio di fondo è quello di fornire « un panorama di testi gravitante intorno a una nozione di Stilnovo la piú ampia possibile » (Berisso, p. 47), in cui certamente figurino i testi noti e come tali presenti in ogni antologia scolastica, ma in cui ci siano anche delle significative aggiunte per « sottolineare la problematizzazione del concetto di Stilnovo » (ivi, p. 48). Cosí nella prima sezione, accanto ai testi vulgatamente “stilnovistici” di Guinizzelli, è inserito il sonetto Segnore Dio, come poté venire di Monte Andrea.61 La seconda sezione, intitolata L’eccellenza del volgare, comprende Dante, Cavalcanti e Cino, e si caratterizza per l’inclusione di alcune poesie dantesche, solitamente assenti nelle raccolte stilnovistiche, dove l’Alighieri figura so59. G. Gorni, Lippo contro Lapo. Sul canone del Dolce Stil Novo, in Id., Il nodo della lingua e il verbo d’amore. Studi su Dante e altri duecentisti, Firenze, Olschki, 1981, pp. 99-124, partic. pp. 102, 103 e 106-7; l’articolo era già apparso negli « Studi di filologia italiana », a. xxxvi 1978, pp. 21-37, con il titolo « Guido, i’ vorrei che tu e Lippo ed io » (sul canone del Dolce Stil Novo). 60. Cfr. L. Pagnotta, Un altro amico di Dante. Per una rilettura delle rime di Lupo degli Uberti, in Studi di filologia medievale offerti a d’Arco Silvio Avalle, Milano-Napoli, Ricciardi, 1996, pp. 365-90. 61. Berisso, p. 71: « la sua antologizzazione […] vuole essere un tentativo di sfumare quei confini tra scuole che tanto di frequente sono stati tracciati, magari anche a fini didatticamente onesti, con matite dal tratto troppo spesso e deciso ».

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lo nel ruolo di corrispondente di Cavalcanti e di Cino. La terza sezione (Dopo lo Stilnovo) allarga il canone tradizionale: oltre ai soliti Gianni Alfani e Dino Frescobaldi compaiono, infatti, anche testi di Iacopo Cavalcanti, Noffo Bonaguide e Giovanni Quirini, quest’ultimo a rappresentare la prima ricezione veneta dello Stilnovo. Queste inclusioni sono giustificate dal privilegio accordato da Berisso al codice fondamentale della tradizione stilnovistica, il manoscritto della Biblioteca Apostolica vaticana, Chigiano L vIII 305: « da quella antologia trecentesca nasce comunque la tradizione del nuovo stile, la sua ricezione, persino la sua riduzione a grammatica » (ivi, p. 46). A conclusione del volume compare un’appendice dedicata a quello che viene definito Il caso Lapo, che comprende testi di Lapo Gianni, Lippo Pasci de’ Bardi, del cosiddetto « Amico di Dante » e di Lupo degli Uberti. Prescindendo dal problema delle presenze e delle assenze – per la verità secondario perché ogni antologia ha una sua logica – la raccolta curata da Berisso ha certamente il merito di aver documentato la problematicità del concetto di Dolce stil novo, ma tale proposito rischia anche di ingenerare delle confusioni, soprattutto nei lettori « non necessariamente specialisti » cui il libro è esplicitamente rivolto (ivi, p. 47). Per ovviare a questa complicazione, in quanto editore di un’altra recente raccolta (vd. PdDSN), anch’essa dedicata a un pubblico ampio e non esclusivamente di addetti ai lavori, ho scelto un’impostazione piú tradizionale, inserendo tutte le poesie sicure di Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi e Cino da Pistoia, e rispettando, dunque, il canone vulgato. L’antologia presenta, pertanto, la completezza dei corpora, con l’obiettivo di fornire per ogni poeta tutti i testi attribuiti dai piú accreditati studi filologici, con l’ovvia eccezione di Cino del quale manca ancora un’edizione critica, ma di cui sono comunque inseriti tutti i testi presenti nell’edizione Marti aumentati di qualche unità nella sezione delle rime dubbie.

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II LA VOC E DI DANTE

1. In purgatorio tra i golosi: Dante e Bonagiunta Nelle ultime balze del purgatorio, corrispondenti alla sequenza di canti xxi-xxvi, Dante incontra esclusivamente anime di poeti: Stazio, Bonagiunta Orbicciani, Guido Guinizzelli, Arnaut Daniel; non fa eccezione nemmeno l’amico Forese Donati, che è autore di una tenzone con l’Alighieri (cfr. Rime, lxxiii-lxxviii). Prima dell’incontro con Beatrice – vero e proprio nucleo primitivo e originario della Commedia –1 è come se Dante avesse avvertito « la necessità di ripensare la sua passata esperienza di uomo e di poeta »: 2 fu per quella donna, del resto, che egli « uscí […] de la volgare schiera » (Inf., ii 105), in grazia di un amore che rinnovò profondamente la sua esistenza e la sua poesia. È un ripensamento particolarmente attivo nei canti xxiii, xxiv e xxvi, « i canti forse piú autobiografici del poema », nei quali si affollano ricordi personali e riflessioni sul proprio percorso poetico: è « il decisivo confronto finale con la propria autocoscienza di poeta lirico »,3 che precede l’attraversamento purificatore del fuoco che affina (Purg., xxvii 46-57), l’immersione nel Lete per inghiottirne l’acqua 1. La tesi, già presente in F.A. Ozanam, Dante et la philosophie catholique au treizième siècle, nouvelle éd. corrigée et augmentée, Paris, Lecoffre, 18452 (18391), è ripresa in due saggi da J.J. Borges, L’incontro in un sogno e L’ultimo sorriso di Beatrice, in Id., Nove saggi danteschi, a cura di T. Scarano, Milano, Adelphi, 2001, rispettiv. pp. 87-96 e 97-104. 2. Cfr. L. Azzetta, « Se tu riduci a mente… »: memoria, amicizia e poesia nei canti di Forese, in Esperimenti danteschi. ‘Purgatorio’ 2009, a cura di B. Quadrio, Genova-Milano, Marietti, 2010, pp. 225-52, a p. 225. E cfr. A. Roncaglia, Il canto xxvi del ‘Purgatorio’, Roma, Signorelli, 1951, p. 5: « come se Dante, alla vigilia di sbramare la decenne sete nello sguardo luminoso di Beatrice, volesse ritornare alle sorgenti della sua ispirazione, richiamando e rimeditando i princípi dell’arte sua ». 3. Brugnolo, Il ‘nodo’ di Bonagiunta, cit., pp. 25 e 26. E cfr. anche R. Antonelli, Omero « sire » e « segnor de l’altissimo canto »?, in Posthomerica i. Tradizioni omeriche dall’Antichità al Rinascimento, a cura di F. Montanari e S. Pittaluga, Genova, Darficlet, 1997, pp. 63-83, a p. 81: « Ad ogni incontro di Dante con un poeta volgare corrisponde nella Commedia una rivisitazione (e purgazione) di una parte della propria opera e della propria biografia poeticoculturale ».

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(Purg., xxxi 91-102) e il dolce bere dell’Eunoè (Purg., xxxiii 127-45). Dopo queste esperienze, il passato con le sue colpe – anche letterarie – è definitivamente cancellato, resta solo la memoria del bene: l’uomo nuovo, e il poeta nuovo, è « puro e disposto a salire a le stelle » (Purg., xxxiii 145). In questa rivisitazione del proprio passato e del proprio itinerario poetico, acquista innanzi tutto rilievo il colloquio di Dante con Bonagiunta Orbicciani, inserito nel piú ampio episodio dell’incontro con Forese Donati, con una tecnica a incastro già sperimentata in Inf., x, in occasione dei dialoghi del viator con Farinata degli Uberti e Cavalcante de’ Cavalcanti. Tra i golosi che Forese indica e nomina, colpisce l’enfatica ripetizione del nome del poeta lucchese: « “Questi”, e mostrò col dito, “è Bonagiunta, / Bonagiunta da Lucca” » (Purg., xxiv 19-20), forse per essere ben sicuro che Dante non lo confonda con altri rimatori omonimi come il ser Bonagiunta monaco della Badia di Firenze che fu in corrispondenza poetica con Guido Orlandi e che probabilmente scambiò lettere con Guittone;4 ma quel risalto onomastico si chiarisce poco dopo, visto che tra le anime menzionate è proprio « quel da Lucca » che si mostra piú desideroso di parlare, mormorando tra sé un poco comprensibile « Gentucca », come se volesse attrarre l’attenzione del pellegrino su di sé. Il suo intento riesce perfettamente e infatti Dante si soffermerà a discorrere con lui. A questo punto Forese si fa da parte; sullo sfondo rimangono, silenti, anche i magni poëtae, virgilio e Stazio. La scelta dell’interlocutore viene attentamente studiata. Tra i poeti che avrebbero potuto rappresentare la vecchia maniera, il lucchese Bonagiunta risaltava per la tenzone poetica con Guido Guinizzelli (cfr. Guinizzelli, xviiia-b; oppure Bonagiunta, sonn. 20 e 20a), che aveva goduto di una certa fortuna.5 La linea poetica Bonagiunta-Guinizzelli, fedele alla tradi4. Le sue rime sono comprese nel ms. della Bibl. Apostolica vaticana, vat. Lat. 3214. Cfr. L. Rossi, Canto xxiv, in Lectura Dantis Turicensis. ‘Purgatorio’, a cura di G. Güntert e M. Picone, Firenze, Cesati, 2001, pp. 373-87, a p. 375; e Giunta, La poesia, p. 73. 5. Dei due sonetti (Voi, ch’avete mutata la mainera di Bonagiunta e Omo ch’è saggio non corre leggero di Guinizzelli) maggior fortuna toccò al testo di Guido, che, svincolato dalla proposta, compare spesso anche isolato, come testimoniano, per es., le sue otto attestazioni nei Memoriali bolognesi, comprese tra il 1287 e il 1320. Cfr. Rime due e trecentesche tratte dall’Archivio di Stato di Bologna, ed. critica a cura di S. Orlando, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 2005; e anche S. Orlando, ‘Best sellers’ e notai: la tradizione estravagante delle rime fra

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zione siciliana e caratterizzata da uno stile leu,6 a un certo punto si interrompe per le ardite innovazioni del bolognese, che non esita a mutare « la mainera / de li plagenti ditti de l’amore » spingendosi in territori incogniti e non piú condivisi dal rimatore lucchese. Una nuova strada, che poi porterà allo Stilnovo, era tracciata. È il primo episodio di una serie di polemiche che coinvolsero rappresentanti della vecchia e della nuova maniera, e che approfondiremo nel prossimo capitolo. E di fronte all’affermazione della nuova maniera, Bonagiunta opporrà ancora, a distanza di anni da quel suo primo intervento, gli estremi tentativi di resistenza di un attardato sconfitto e travolto dagli eventi, come dimostrano i due sonetti Gli vostr‹i› occhi, ché m’hanno divisi e Con sicurtà dirò, po’ ch’i’ son vosso – tràditi dal ms. vat. Lat. 3214 –, il primo caratterizzato da un’ostentata parodia della nuova poesia e il secondo da un palese intento canzonatorio nei confronti di Guido Cavalcanti, probabile destinatario.7 Da quelle accese discussioni tutte affidate a tenzoni di sonetti, Dante si era inizialmente tenuto in disparte; anzi, a un certo punto, in sua difesa intervenne probabilmente l’amico Cino, che nel sonetto Bernardo, quel gentil che porta l’arco (Cino, d. v b) ribatté alle accuse di Onesto da Bologna contro la Vita nuova. Una prima, ampia e meditata riflessione che trascende di gran lunga l’occasione contingente, l’Alighieri l’articola nel De vulgari eloquentia, che, come è noto, rimase incompiuto e inedito. L’episodio purgatoriale presuppone, allora, « la non tanto segreta intenzione dell’autore di mettere finalmente il suggello definitivo a un’antica e nutrita polemica »:8 Dante interviene ora in prima persona e, con un’ampiezza di visione storiografica certamente superiore a quella di chi lo aveva preceduto nel diDue e Trecento in Italia, in Da Guido Guinizzelli a Dante. Nuove prospettive sulla lirica del Duecento. Atti del Convegno di Padova-Monselice, 10-12 maggio 2002, a cura di F. Brugnolo e G. Peron, Padova, Il Poligrafo, 2004, pp. 257-70, a p. 266. Sull’eccezionale fortuna del sonetto di Guido, vd. poi anche Giunta, La poesia, pp. 77-78. 6. Cfr. Giunta, La poesia, pp. 121-43. 7. Si rimanda a R. Rea, « Sullo stilnovismo di certo Bonagiunta », in Id., Stilnovismo cavalcantiano e tradizione cortese, Roma, Bagatto Libri, 2007, pp. 55-81. Non condivide questa tesi Aldo Menichetti, in Bonagiunta, p. 232: « tesi forse piú ingegnosa che davvero convincente (il tono del sonetto pare serio) »; vd. anche A. Menichetti, Bonagiunta e lo Stilnovo, in « Testo », a. xxxii 2011, pp. 191-99. 8. Cfr. Paolazzi, La maniera mutata, cit., p. 12.

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battito, traccia un disegno della poesia duecentesca che avrebbe condizionato a lungo le scelte dei lettori e il giudizio dei critici.9 La sfasatura cronologica tra i tempi dell’agens (1300) e i tempi dell’auctor (all’incirca prima metà del secondo decennio del ’300) permette, inoltre, di situare questo intervento dantesco della Commedia a ridosso di quelle polemiche: esso viene a collocarsi, infatti, all’esatto culmine del decennio decisivo della poesia italiana, l’ultimo del ’200, in cui erano state composte la Vita nuova e Donna me prega, per limitarsi al ricordo dei due testi piú rilevanti. Ora, però, il Dante di questo episodio è il Dante della Vita nuova, ma passato attraverso la speculazione filosofica del Convivio, la meditazione linguistica e storico-letteraria del De vulgari eloquentia e approdato alla riflessione totalizzante della Divina Commedia.10 Dopo che Bonagiunta ha chiarito il proprio « mormorare », profetizzando che Lucca sarà gradita a Dante in virtú di una donna che al momento presente è ancora bambina, una marcata congiunzione avversativa, a inizio di verso e di terzina, introduce il cambio di argomento. Bonagiunta ha, infatti, urgenza di parlare d’altro (Purg., xxiv 49-51): Ma dí s’i’ veggio qui colui che fore trasse le nove rime, cominciando Donne ch’avete intelletto d’amore.

La strategia retorica è chiara. Bonagiunta non intende affatto verificare l’identità del suo interlocutore. Sa molto bene con chi sta parlando, visto che gli ha appena fatto una previsione sulla vita futura. La sua richiesta è finalizzata, invece, a coinvolgere Dante in una discussione letteraria.11 La 9. Cfr. Mengaldo, p. lxxxiii: « Di tanto la critica e polemica letteraria del De V. E., e poi del poema, supera il livello delle discussioni tra le varie ‘scuole’ del suo tempo (Bonagiunta e Guinizelli, Cavalcanti contro Guittone, Onesto e Cino, e la stessa battaglia contro gli “alquanti grossi” nella Vita Nuova), sul cui sfondo pure si colloca, di quanto non solo è piú mordente e retoricamente attrezzata, ma acquista il respiro dell’autentica ricostruzione storiografica ». 10. Brugnolo, Il ‘nodo’ di Bonagiunta, cit., p. 23. 11. Riprendendo una notizia già presente in alcuni commentatori antichi come Iacomo della Lana e Francesco da Buti, M. Zaccarello, Rimatori e poetiche « da l’uno a l’altro stilo », in Lectura Dantis Romana, Cento canti per cento anni, a cura di E. Malato e A. Mazzucchi, ii. Purgatorio, Roma, Salerno Editrice, 2014, pp. 712-44, ammette la possibilità di una cono-

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canzone dantesca che il poeta lucchese cita, Donne ch’avete intelletto d’amore, dovette godere di una certa popolarità, ammessa dallo stesso Dante (« questa canzone fue alquanto divolgata tra le genti » scrive a V.n., xx 1) e confermata dalla sua inclusione (c. 99v) nel grande canzoniere vaticano (il ms. vat. Lat. 3793 della Biblioteca Apostolica vaticana) e dalla trascrizione a memoria che nel 1292 – dunque prima della pubblicazione del libello – ne fece il notaio Pietro Allegranza in un memoriale bolognese;12 tuttavia Bonagiunta non intende alludere qui a un singolo componimento – come nella stessa Commedia aveva fatto in precedenza Casella e farà successivamente Carlo Martello, che menzionano rispettivamente gli incipit delle canzoni Amor che ne la mente mi ragiona (Purg., ii 112) e Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete (Par., viii 37) –, ma alla Vita nuova, individuandone il punto cardine.13 Donne ch’avete è la canzone che imprime la svolta decisiva della Vita nuova: essa, infatti, segna l’inizio di una nuova dimensione spirituale, il trionfo dell’amore caritas, che si manifesta nella pura, disinteressata e beatificante lode di Beatrice, e l’esordio di un nuovo stile poetico (V.n., xvii 1). Nel libello il posto di quella canzone ha un deciso rilievo conferitole dall’ampia sezione in prosa che la riguarda, in cui prima si chiarisce la ferma intenzione da parte di Dante di avviare una nuova fase della propria poesia (V.n., xvii), poi si narrano le ragioni di quella novità nel colloquio tra il protagonista e le gentili donne (V.n., xviii), infine si espone il sorgere della nuova ispirazione in un’atmosfera epifanica che avvolge il solitario cammino del poeta lungo il chiaro fiume, l’improvvisa volontà di dire e l’escenza personale e di sonetti scambiati tra Dante e Bonagiunta. Cfr. anche A. Cipollone, Dante and Bonagiunta, in « Journal of the Institute of Romance Studies », a. vi 1998, pp. 61-80. 12. Nel Memoriale 82 (già 100) dell’Archivio di Stato di Bologna, ai piedi di c. 129v, tra una confessio del 28 agosto e un mutuo del 2 settembre 1292, e a mimesi di un ulteriore paragrafo dell’atto precedente, è copiato un frammento (fino al v. 42 e con diversi salti di memoria) della canzone Donne ch’avete, senza precisazione del nome dell’autore. Cfr. Dante Alighieri, Rime, 1. I documenti, a cura di D. De Robertis, Firenze, Le Lettere, 2002, p. 32; e A. Antonelli, Rime estravaganti di Dante provenienti dall’Archivio di Stato di Bologna (con un approfondimento di ricerca sul sonetto della Garisenda vergato da Enrichetto delle Querce), in Le rime di Dante. Atti del Convegno di Gargnano del Garda, 25-27 settembre 2008, a cura di C. Berra e P. Borsa, Milano, Cisalpino, 2010, pp. 83-116. 13. Brugnolo, Il ‘nodo’ di Bonagiunta, cit., p. 14: « Ed è certo alla Vita nuova che Bonagiunta pensa, per sineddoche, quando parla di “nove rime” e cita la canzone centrale del libello ».

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rompere dell’incipit dalla lingua « quasi come per sé stesso mossa » (V.n., xix 2). Nelle parole di Bonagiunta, se l’espressione « nove rime » rimanda alla « matera nuova e piú nobile che la passata » (V.n., xvii 1), il « cominciando » riconduce inequivocabilmente al paragrafo xix della Vita nuova, dove quel verbo e il sostantivo deverbale « cominciamento » sono enfaticamente ripetuti quattro volte in una minima porzione di testo: Queste parole io ripuosi ne la mente con grande letizia, pensando di prenderle per mio cominciamento; onde poi, ritornato a la sopradetta cittade, pensando alquanti dí, cominciai una canzone con questo cominciamento, ordinata nel modo che si vedrà di sotto ne la sua divisione. La canzone comincia: Donne ch’avete (V.n., xix 3: corsivi miei).

Del resto, se l’intento dichiarato dell’Alighieri era quello di far pronunciare al suo personaggio il punto di svolta della poesia di fine ’200, non poteva esserci scelta piú appropriata che fargli citare la Vita nuova. Infatti, all’epoca del viaggio oltremondano, Dante era poeta riconosciuto e riconoscibile proprio in virtú del suo libello. Potrebbe sembrare, ma non è una constatazione irrilevante. Nell’àmbito della poesia degli ultimi anni del ’200 quel libro – e non i singoli componimenti, alcuni dei quali erano già conosciuti in precedenza – ebbe un effetto deflagrante: l’inserimento di ciò che era noto e ora reinterpretato, le eloquenti assenze di testi che avevano avuto una certa diffusione, le poesie (forse) nate per l’occasione e la coerente ricostruzione offerta dalla prosa implicano un cambiamento radicale del sistema letterario dominante e raccolgono i fermenti nuovi in una prospettiva coerente e teleologicamente orientata. Ma c’è di piú. Nelle parole del personaggio Bonagiunta il sintagma in enjambement « fore trasse » riecheggia la locuzione « traier canson’ per forsa di scrittura », l’ultimo verso del sonetto Voi ch’avete mutata la mainera (Bonagiunta, son. 20 14), in cui qualche anno prima il reale Bonagiunta aveva accusato Guinizzelli di aver intrapreso una nuova linea poetica14 con la com14. Da segnalare, tra l’altro, che il sintagma usato da Bonagiunta in Voi ch’avete rimanda a un’espressione di Al cor gentil, ossia la canzone piú sospettata di aver rotto con il passato condiviso e di aver inaugurato un nuovo stile: « poi che n’ha tratto fòre / per sua forza lo sol ciò che li è vile » (Guinizzelli, iv 15-16).

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posizione di canzoni estratte ‘mediante uno sforzo stilistico, o manieristico, anziché in virtú del proprio ingegno naturale’ (cosí spiega Menichetti, in Bonagiunta, p. 275).15 Insomma, la domanda del poeta lucchese – tutt’altro che semplice e ingenua – si proietta su un ben preciso sfondo, quello delle polemiche tra i seguaci della vecchia e della nuova maniera di poetare e, soprattutto, quello delle accese discussioni che si scatenarono all’indomani della pubblicazione « di quell’opera rivoluzionaria che fu la Vita nuova ».16 Alla richiesta non troppo dissimulata di Bonagiunta, Dante risponde con una terzina divenuta celebre (Purg., xxiv 52-54): E io a lui: « I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando ».

La peculiarità della nuova poesia d’amore non consiste affatto – come aveva pensato e come lascia ancora intendere di pensare Bonagiunta – nel comporre « per forza di scrittura », ma nella fedeltà alla voce di Amore che parla nell’interiorità.17 Dice Dante: ‘Io sono proprio uno che, quando Amo15. Secondo L. Pertile, Il nodo di Bonagiunta, in Id., La punta del disio. Semantica del desiderio nella ‘Commedia’, Firenze, Cadmo, 2005, pp. 85-113, a p. 108, nella domanda di Bonagiunta sarebbe implicita una provocazione e Dante risponderebbe dichiarando che « la poesia lui la ‘estrae’, non però dai libri, ma dal cuore, dove è Amore stesso ad imprimerla ». Il riferimento è consono, ma sfumerei l’idea di provocazione, poco congruente con il contesto purgatoriale. Su questa linea cfr. F. Suitner, « Colui che fore trasse le nove rime », in « Lettere italiane », a. xxviii 1976, pp. 339-45, a p. 342; e Rossi, Canto xxiv, cit., pp. 378-79. 16. Brugnolo, Il ‘nodo’ di Bonagiunta, cit., p. 14. 17. Secondo Brugnolo (cfr. ivi, pp. 17-21), la vera novità non sarebbe la “fedeltà” ad Amore, ma il “significare” allo stesso modo in cui Amore detta. Parlando del modo di “significare” il dettato d’Amore, Dante parlerebbe da teorico del linguaggio poetico: Amore dona i simplicissima signa locutionis con i quali il poeta costruisce la propria materia. Questa interpretazione valorizza un’intuizione di R. Pinto, Gentucca e il paradigma poetico del dolce stil novo, in « Tenzone », a. iii 2002, pp. 191-215, che si richiama alle teorie della cosiddetta grammatica speculativa nella fase rappresentata dai logici “modisti” e soprattutto da Boezio di Dacia. La proposta pare, però, poco congruente, anche perché la tesi di una presunta adesione di Dante alla speculazione dei “modisti” è dubbia se non fuorviante, come hanno dimostrato persuasivamente M. Corrado, Dante e la questione della lingua di Adamo (‘De vulgari eloquentia’, i 4-7; ‘Paradiso’, xxvi 124-38), Roma, Salerno Editrice, 2010, partic. pp. 47-57; e Fenzi, in D.v.e., passim; sulla stessa linea interpretativa anche Tavoni.

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re mi parla nell’intimo, ne prendo nota imprimendolo nella mente, e quindi cerco di esprimere quello che egli mi detta dentro con assoluta fedeltà’. Il poeta ha, pertanto, il compito di “scriba”, di trascrittore fedele del dettato di Amore.18 A questo punto occorre chiarire, una volta per tutte, che Amore che « spira » e che « ditta dentro » non è una romantica effusione sentimentale, né ispirazione privata e occasionale. L’ispirazione muove da un principio assoluto e trascendente, e, dunque, si verifica un vero e proprio processo di svelamento che si attua nell’interiorità a partire da quell’immagine femminile che attraverso gli occhi si è formata nella mente: Amore detta nel cuore e il poeta ne ascolta la voce, che risulta tanto piú autentica e vera, quanto piú ricca, intensa e spirituale è la sua interiorità.19 In questo contesto, dunque, Amore va inteso nel senso proprio della parola, e dunque – secondo me – non va interpretato con Dio o lo Spirito Santo, sebbene quest’ultima spiegazione abbia incontrato ultimamente una certa fortuna nell’esegesi dantesca.20 Fatta questa precisazione, bisogna, però, anche dire che l’amore di cui qui si parla non è nemmeno l’amore della tradizione cortese, ma è quel principio universale al quale Dante si appella nella canzone Amor che movi tua vertú dal cielo (Rime, xc).21 In effetti, già nella Vita nuova e in alcune delle Rime, Dante tende a rappresentare l’amore per una creatura terrena non come eros ma come caritas, avviando un itinerario di ricerca intellettuale e spirituale che troverà il suo compimento nella Commedia.22 18. Contini, Letteratura, cit., p. 149: « Il vero autore, dunque (poiché questo vale “dittatore”), è, interiormente, Amore, che lo stilnovista trascrive in segni comunicabili ». 19. Roncaglia, pp. 28-29: « l’interiorità del dettato d’Amore non è l’interiorità romantica del sentimento individuale […]. È invece l’interiorità dell’ “homo interior” contrapposto all’ “homo exterior”, l’interiorità agostiniana che spalanca le porte della trascendenza alla conquista della verità assoluta. “In interiore homine habitat veritas”, e “in interiore homine habitat amor”: nella spiritualità dell’ “homo interior” abita la verità dell’amore ». 20. Per quest’ultima interpretazione cfr. il commento alla Commedia (Purg., xxiv 52-60) di Nicola Fosca, pubblicato in « The Dartmouth Dante Project », 2003-2006, consultabile in rete al sito http://dante.dartmouth.edu. (utile anche per parte della bibliografia pregressa in cui si difende questa tesi). 21. Rimando all’introduzione e al commento di Claudio Giunta a Rime, xc, pp. 384409. 22. Ivi, p. 488: « è […] innegabile che Dante, almeno in alcune delle sue poesie, descrive in termini di continuità, anzi di coessenzialità, quel rapporto tra amore umano come eros e

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Per quanto riguarda, poi, l’immagine di Amore “dittatore”, essa ha avuto una lunga tradizione letteraria, risalente almeno a Ovidio,23 e la sua fortuna può essere confermata anche da un’iscrizione pompeiana: « scribenti mi dictat Amor mostratque Cupido ».24 Tale immagine sopravvisse anche nel Medioevo cristiano, ma all’amore pagano si sostituí la caritas: su questa linea, per esempio, già Notkero il Balbo, in pieno secolo IX, aveva parlato di Amore che detta, intendendo l’amore in senso religioso ed esprimendo l’idea che l’altezza del canto dipende dalla grazia che amore concede: « Talia dictat amor: verus respondet amator. / Ingratus taceat; gratus ad alta canat ».25 Ora, però, per una spiegazione piú pertinente del passo dantesco, invece che risalire a ritroso attraverso un sotteso retroterra culturale tanto piú sfumato e generico quanto piú diacronicamente ampio,26 giova riconoscerne un preciso ipotesto, come ha fatto Mario Casella, che ha richiamato l’attenzione sulla prima pagina dell’Epistola ad Seuerinum de caritate, par. 1: 27 Quomodo enim de amore loquitur homo qui non amat, qui uim non sentit amoris? De aliis nempe copiosa in libris occurrit materia; huius uero aut tota intus est, amore come agape o caritas che la tradizione romanza tende a interpretare invece come conflitto. L’amore per una creatura terrena non è diverso, in essenza, dall’Amore che spira dalla terza persona della Trinità: il mito fondativo della lirica di Dante – la beatrice, inviata dal cielo sulla terra e in cielo destinata a tornare – altro non è se non l’applicazione poetica di questo processo di pensiero » (corsivi nel testo). 23. Per es., Ovidio, Amores, ii 1 38: « carmina, purpureus quae mihi dictat Amor » (‘poesie che mi detta il purpureo Amore’); Epist. ex Ponto, iii 29: « Tu mihi dictasti iuvenalia carmina primus » (‘Sei stato tu [Amore] a dettarmi le mie prime cose giovanili’). 24. ‘Amore mi detta e Cupido mi suggerisce quel che scrivo’ (per questa citazione Roncaglia, p. 29). 25. ‘Tali cose detta l’amore: il vero innamorato risponde. Taccia l’ingrato; il grato canti ad alta voce’ (trad. mia). 26. Infatti, giustamente Roncaglia, loc. cit., scrive: « Non voglio dire che Dante conoscesse il distico di Notkero; voglio soltanto indicare la tradizione cui si ricollegano i suoi versi: tradizione in cui l’immagine classica era già stata reinterpretata dallo spirito cristiano in forme e con un significato da cui Dante non è sostanzialmente lontano ». 27. Casella, rec. a Figurelli, Il dolce stil novo, cit., pp. 108-9. Per il testo e la traduzione dell’Epistola cfr. Trattati d’amore cristiani del XII secolo, a cura di F. Zambon, Milano, Fondazione Lorenzo valla-Arnoldo Mondadori, ii 2008, pp. 422-23.

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il dolce stil novo aut nusquam est, quia non ab exterioribus ad interiora suauitatis suae secreta transponit, sed ab interioribus ad exteriora transmittit. Solus proinde de ea digne loquitur qui secundum quod cor dictat interius exterius uerba componit. Ne mireris igitur si alium audire de hac mallem quam loqui ipse. Illum, inquam, audire uellem, qui calamum linguae tingeret in sanguine cordis, quia tunc uera et ueneranda doctrina est, cum quod lingua loquitur conscientia dictat, caritas suggerit et spiritus ingerit. (‘Infatti in che modo può parlare dell’amore un uomo che non ama, che non sente la forza dell’amore? Su altri argomenti troviamo certo abbondante materia nei libri; la materia di questo, invece, o è tutta dentro di noi o non è da nessuna parte, perché non trasferisce i segreti della sua dolcezza dall’esterno all’interno, ma li invia dall’interno verso l’esterno. Perciò ne parla degnamente solo colui che compone le parole come il cuore gli detta dentro. Quindi non stupirti se preferirei sentirne parlare un altro piuttosto che farlo io stesso. Mi piacerebbe ascoltare qualcuno che avesse intinto la penna della sua lingua nel sangue del cuore, perché si ha dottrina vera e veneranda quando la lingua esprime ciò che detta la coscienza, ispira la carità e insegna lo spirito’).

L’Epistola – a lungo ritenuta di Riccardo di San vittore,28 ma in realtà del meno noto frate Ivo – è uno dei piú fortunati scritti medievali sulla carità.29 Il ragionamento dello scrittore mistico è chiaro: di amore può parlare solo chi sente dentro di sé la forza dell’amore; per altri argomenti si può ricorrere ai libri, non per questo. Facile notare come i versi danteschi ricalchino da vicino i punti cruciali del testo di Ivo: « quando / Amor mi spira (« cum […] caritas suggerit et spiritus ingerit »); « e a quel modo / ch’e’ 28. Probabilmente lo stesso Dante la riteneva composta da Riccardo di San vittore. Forse non è un caso che nel Cielo del Sole, dove Dante incontrerà Riccardo, ci sia un verso che sembra scaturito dalla stessa fonte di questo passo purgatoriale: « Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba; / ché a sé torce tutta la mia cura / quella materia ond’ io son fatto scriba » (Par., x 25-27; corsivo mio). 29. Occorre, tra l’altro, ricordare, come ha opportunamente notato L. Lazzerini, La trasmutazione insensibile. Intertestualità e metamorfismi nella lirica trobadorica dalle origini alla codificazione cortese, in « Medioevo romanzo », a. xviii 1993, pp. 153-205, a p. 201, che il sintagma chiave « dictat interius » non è farina del sacco di frate Ivo, ma compare già, riferito alla caritas, nel cap. xxiii del De natura et dignitate amoris di Guglielmo di Saint-Thierry: « Affectus autem caritatis […] dictat ei interius », ‘il sentimento della carità gli detta dentro’ (per questa citazione e relativa traduzione, cfr. Trattati d’amore cristiani del XII secolo, ed. Zambon cit., i 2007, pp. 100-1).

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ditta dentro vo significando » (« secundum quod cor dictat interius, exterius verbo componit »).30 Nel passo di Ivo colpisce anche l’icastica immagine « qui calamum linguae tingeret in sanguine cordis », desunta probabilmente da un sermone di san Bernardo.31 Il comune ipotesto è il versetto 2 del salmo 44: « Eructavit cor meum verbum bonum; dico ego opera mea regi. Lingua mea calamus scribae velociter scribentis » (‘Effonde il mio cuore liete parole, io canto al re il mio poema. La mia lingua è stilo di scriba veloce’), e si può, infatti, notare come le parole del versetto salmistico (cor - verbum - lingua calamus) ritornino con minime variazioni sia nel testo di Bernardo sia in quello di frate Ivo.32 Ne risalta la metafora continuata della scrittura a significare che è testimone autorevole e credibile di amore quello scriba che intinge la penna della lingua nell’inchiostro-sangue del cuore. Ciò conferma la parafrasi della terzina dantesca che si è prima proposta: il poeta è un fedele scriba di Amore, e dunque l’operazione qui rivendicata da Dante non è dissimile da quella che Beatrice solleciterà al viator in Purg., xxxiii 52-53: « Tu nota; e sí come da me son porte, / cosí queste parole segna a’ vivi ».33 Insomma, l’Alighieri rilegge l’esperienza stilnovistica come attività di uno scriba Amoris, che nel suo specifico caso prefigura lo scriba Dei, di un Dio che è il vero Amore, com’egli sarà nella Commedia. Tra la Vita nuova e il poema non c’è frattura ma continuità.34

30. Pertile, Il nodo di Bonagiunta, cit., p. 110: « Ritroviamo qui [nel passo di frate Ivo] i termini essenziali del dialogo fra Bonagiunta e Dante e della controversia in cui esso s’iscrive: la nuova poesia d’Amore non si trova nei libri, non si compone per forza di scrittura, come crede Bonagiunta, ma viene dettata dal profondo del cuore da Amore stesso » (corsivo nel testo). 31. Bernardo di Clairvaux, Sermones de diuersis, 96: « vtinam autem et linguae meae calamum in eius fonte possem intingere » (‘Magari potessi intingere la penna della mia lingua nella sua fonte’). Lo ha individuato Francesco Zambon nella sua nota di commento all’Epistola di frate Ivo (cfr. Trattati d’amore cristiani del XII secolo, ii, cit., p. 601). 32. Lo ha notato Paolazzi, La maniera mutata, cit., p. 36. 33. Rossi, Canto xxiv, cit., p. 380. E cfr. anche Par., x 25-27, poco fa richiamato. 34. Invece, la tesi della discontinuità è sostenuta in particolare da Z.G. Baran;ski, “Infiata labbia” and “dolce stil novo”. A Note on Dante, Ethics and the Technical Vocabulary of Literature, in Sotto il segno di Dante. Scritti in onore di Francesco Mazzoni, a cura di L. Coglievina e D. De Robertis, Firenze, Le Lettere, 1998, pp. 17-35.

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Nella risposta di Dante se l’espressione pseudoriflessiva « I’ mi son un che » non è una mera variante di ‘Io sono uno che’, ma, anzi, implica « una forte individuazione del soggetto »,35 sembrerebbe piú corretto escludere l’interpretazione corrente ‘io sono uno, fra gli altri, che’, a favore di una piú marcata enfasi sull’io.36 Tuttavia, non solo proprio in senso collettivo l’espressione viene compresa da Bonagiunta, che, infatti, poco dopo parlerà di « nostre » e « vostre penne », ma è verisimile che – stralciato l’ipotesto – anche altri poeti avrebbero sottoscritto quella formula: Guido Cavalcanti, che nel sonetto Di vil matera mi conven parlare (Cavalcanti, lb) conclude perentoriamente che la sua poesia è autentica espressione di Amore, raffinatamente espressa: « Amore ha fabricato ciò ch’io limo » (v. 16); e poi Lapo Gianni, come rivela la Ballata, poi che ti compuose Amore (Lapo, xii), tutta pervasa dall’autentico sentimento del poeta in quanto composta da Amore in persona che risiede nella sua mente, e dunque dotata di gentilezza di modi e di uno stile improntato a dolcezza; e soprattutto Cino da Pistoia, che nel sonetto Merzé di quel signor ch’è dentro a meve (Cino, clx) rivendica la sincerità della propria poesia come risultato di quello spirito d’Amore che parla dentro di lui, tanto che lo stesso stile è aderente all’ispirazione interiore. Il sonetto merita di essere letto integralmente: Merzé di quel signor ch’è dentro a meve nessun non dótto che favelli ’n rima, e che ciò possa dir meo core stima, poi, quando ’l sente, l’uomo intender deve ch’i’ son quel sol che sua vertú riceve: faccio ed acconcio tutto con sua lima, ed ogni motto con lui movo prima ch’i’ ’l porga fra le genti chiaro e breve. Dunque di cui dottar degg’io parlando

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35. R. Ambrosini, s.v. essere, in ED, vol. ii pp. 736-44, a p. 742. 36. Brugnolo, Il ‘nodo’ di Bonagiunta, cit., p. 17: l’espressione serve a « designare una qualità del soggetto, a lui inerente e che lo identifica (come il nome proprio per esempio), non un atteggiamento, un gesto, un modo di fare o di attuare. In questo senso esso sta in rapporto col valore durativo della perifrasi “vo significando”: l’effetto dell’ispirazione e del dettato di Amore permea di sé il soggetto ». In nota lo studioso cita, poi, alcuni es. simili: « ch’i’ mi son Lia » (Purg., xxvii 101), « I’ mi son quel ch’i’ soglio » (Par., xii 123); e, per contro, « vedi che son un che piango » (Inf., viii 36).

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ii. la voce di dante d’Amor? ché dal suo spirito procede, che parla in me, ciò ch’io dico rimando. Non temo lingua ch’adastando fiede; ché l’uom che per invidia va biasmando sempre dice ’l contraro a quel che crede.

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Questo testo di Cino si mostra assai prossimo alla dichiarazione dantesca, un’aderenza confermata da alcune significative coincidenze formali: la rima -ando; la perifrasi col gerundio dico rimando (Dante: « vo significando »); l’espressione i’ son quel sol che (Dante: « i’ mi son un che »); dal suo [d’Amore] spirito procede (Dante: « Amor mi spira »); ch’è dentro a meve […] parla in me (Dante: « ditta dentro »).37 Lo stesso Cino enuncia « il principio della poesia d’amore come espressione di un’esperienza profondamente, intensamente vissuta »38 anche nel sonetto Qua’ son le cose vostre ch’io vi tolgo (Cino, cxxxi), un testo di corrispondenza, che probabilmente risponde a un sonetto perduto di Cavalcanti, in cui il poeta pistoiese era accusato di plagio. Si leggano i vv. 7-8: Queste cosette mie, dov’io le sciolgo, ben le sa Amor, innanzi a cui le squadro

‘io compongo i miei versi nel mio cuore e lo sa bene Amore davanti al quale li squaderno’. Cino ribatte a Guido affermando che l’autenticità della propria poesia è vidimata da Amore in persona e, dunque, è assolutamente infondata l’accusa di plagio. Meno stringente, ma non trascurabile in questo contesto, è un altro passo di Cino, il congedo della canzone L’alta speranza che mi reca Amore (Cino, xlvi 61-64): Tu mi pari, canzon, sí bella e nova, che di chiamarti mia non aggio ardire; dí che ti fece Amor, se vuoi ben dire, dentro al mio cor che sua valenza prova.

37. Come tale non è sfuggito ai critici: cfr. per es., Marti, pp. 193-95; e piú recentemente Paolazzi, La maniera mutata, cit., p. 32, e Brugnolo, Il ‘nodo’ di Bonagiunta, cit., pp. 16-17. 38. E. Malato, Ancora sul « disdegno » di Guido (coinvolgendo Cino), e sul « Dolce Stil Novo », in RSD, a. vi 2006, pp. 113-41, a p. 123.

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Cino afferma che questa sua canzone è talmente bella e straordinaria per ciò che esprime, che la si può ritenere composta da Amore in persona, il quale esercita tutta la sua forza nel cuore del poeta. Insomma, il dibattito è fitto e su di esso dovremo necessariamente ritornare nei prossimi capitoli. Per concludere l’analisi della terzina dantesca, si può affermare che queste dichiarazioni di poetica rivelano una linfa comune, sebbene vada a costituire una sostanziale differenza il fatto che alla piú marcata enfasi conferita da Dante all’attività e all’individualità del soggetto poetante (« I’ mi son un che », « [io] noto », « [io] vo poetando ») corrisponda, invece, una implicita connotazione di passività riscontrabile negli altri testi sopra ricordati di Guido, Lapo e Cino (e cfr., per es.: « Amore ha fabricato », « sua vertú riceve », « dal suo spirito procede », « ogni motto con lui movo », « dí che ti fece Amor »).39 A questo punto la domanda s’impone: cosa ha capito Bonagiunta delle parole di Dante? Dice il rimatore lucchese (Purg., xxiv 55-63): « O frate, issa vegg’ io », diss’ elli, « il nodo che ’l Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo! Io veggio ben come le vostre penne di retro al dittator sen vanno strette, che de le nostre certo non avvenne; e qual piú a gradire oltre si mette, non vede piú da l’uno a l’altro stilo »; e, quasi contentato, si tacette.

La reazione di Bonagiunta è quella di una rivelazione:40 lo dimostra l’iterazione del verbo vedere che il personaggio pronuncia tre volte.41 Egli am39. L’ha indicata Brugnolo, Il ‘nodo’ di Bonagiunta, cit., p. 17. 40. Giunta, La poesia, pp. 84-85: « Forse non è inutile sottolineare quanto eccezionale e quanto estranea alle leggi del poema sia questa vicenda di un’anima che la verità sul proprio passato di poeta e sulla poesia tout court la impara da un vivo di passaggio per il purgatorio. […] l’esclamazione di Bonagiunta, “O frate, issa vegg’io…” ha la stessa portata simbolica di una rivelazione, per l’appunto, ultraterrena ». 41. Secondo Azzetta, « Se tu riduci a mente », cit., p. 246, l’iterazione svelerebbe un’intenzione palinodica. Il sonetto di Guinizzelli Omo ch’è saggio non corre leggero metteva in guardia

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mette ora il superamento di cui non si era reso conto quando era vivo: ha capito, dunque, che la nuova poesia si caratterizza per la ricerca della voce di Amore che parla nell’interiorità, alla quale deve necessariamente corrispondere un forte rinnovamento espressivo. Sottilmente Dante gli mette in bocca un marcato municipalismo, l’avverbio di tempo « issa » (‘adesso’), tipico del toscano occidentale, che sembra « una evocazione intenzionale di un’esperienza letteraria che ora si riconosce sconfitta ».42 Nella tenzone con Guinizzelli il tentativo di mutare « la mainera / de li plagenti ditti de l’amore » era, secondo Bonagiunta, destinato a fallire, e comunque non era esportabile (Bonagiunta, son. 20 5-8): avete fatto como la lumera ch’a le scure partite dà sprendore, ma non quine, ove luce l’alta spera, la quale avansa e passa di chiarore

‘avete fatto come la lucerna, che dà splendore ai luoghi oscuri, ma non qui, a Lucca, dove splende l’alto sole dell’autentica dottrina amorosa, il quale supera e va oltre con la sua luminosità’. Nota acutamente Luca Azzetta43 che, se nel sonetto l’avverbio di luogo « quine » delimitava lo spazio dell’appartenenza poetica di Bonagiunta, allora professata superiore a quella di Guinizzelli, e la linea di demarcazione invalicabile per quei fermenti di novità che arrivavano da Bologna, ora, nelle parole che il poeta lucchese pronuncia nella Commedia, l’avverbio di luogo « di qua » è il segno di una sconfitta e indica la linea di demarcazione che egli non seppe superare. Al di qua rimasero – trattenuti da un nodo – anche Giacomo da Lentini e Guittone d’Arezzo, i due riconosciuti capiscuola della poesia del ’200.44 È l’ammissione da parte di Bonagiunta Bonagiunta dalla certezza di essere il solo a vedere la verità (v. 5: « Foll’ è chi crede sol veder lo vero »); ora il poeta lucchese, che da vivo non vide il segreto della nuova poesia, riprende lo stesso verbo per riconoscere il proprio errore. 42. Ivi, p. 245. Tale avverbio si ritrova tra l’altro nella produzione di Bonagiunta; cfr. il discordo Quando veggio la rivera, v. 31: « issa vo intendete ». 43. Ivi, pp. 245-46. Ma cfr. anche Paolazzi, La maniera mutata, cit., p. 10. 44. La spiegazione del termine nodo non è univoca. Per l’interpretazione tradizionale il « nodo » è ‘l’impedimento, l’ostacolo’ che trattiene e non permette ai rimatori delle genera-

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che un’epoca si era definitivamente chiusa e che se n’era aperta un’altra, il Dolce stil novo, un’espressione che assorbe e sintetizza efficacemente le dichiarazioni di vari poeti, dal verso di Cavalcanti « là dove insegna Amor, sottile e piano » (Cavalcanti, lb 10), alla ballata di Lapo, nata d’Amore, e dunque « dolce savi’ ed intesa » (Lapo, xii 7), alla canzone dello stesso il cui « sembiante sia cortes’ e piano » (Lapo, vi 95), alle parole « nate di sospiri » di Gianni Alfani che parlano « umíle » (Alfani, vi 10), per arrivare, soprattutto, ai due versi di Cino da Pistoia « del qual comanda Amor ch’i’ canti e esalti. / E io ne canterò sí dolce e novo » (Cino, cli 8-9),45 in cui compaiono accoppiati entrambi gli aggettivi che si ritrovano anche nella formula dantesca. Ma Dante ha scritto veramente cosí questa famosa, o famigerata, formula? Prescindendo dalla lezione promossa a testo da Federico Sanguinezioni precedenti di giungere alla nuova poesia (e cfr. A. Mariani, s.v. nodo, in ED, vol. iv pp. 63-64, a p. 63). Di diverso avviso Gorni, Il nodo della lingua, cit., pp. 14-21, secondo il quale il « nodo » di Bonagiunta è il ‘nodo della lingua’ (dunque assenza di ispirazione divina), di evangelica memoria (Mc., 7 32-37: episodio del sordomuto guarito); tale spiegazione è ripresa da Zaccarello, Rimatori e poetiche, cit., pp. 721-22, secondo cui la rievocazione di Bonagiunta echeggia con chiarezza l’episodio evangelico della guarigione del sordomuto, la cui lingua toccata da Gesú non rompe solo il silenzio, ma comincia a parlare, appunto, ‘correttamente’; l’intervento di Gesú scioglie istantaneamente un silenzio che è descritto proprio come groppo, nodo della lingua (in tale significato il solo vinculum, non nodus, è attestato nella Vulgata), e il recte dell’evangelista non deve essere inteso solo come corretta pronuncia, ma come rettitudine di contenuti: al pari di altri miracolati dei vangeli, infatti, al sordomuto spetta lodare Dio per l’ottenuta guarigione; G. Gorni, La canzone xxiii, o il nodo della lingua nel Petrarca, in « Cenobio », a. liii 2004, pp. 303-14, ha poi fornito ulteriori riscontri alla sua tesi, segnalando la presenza della metafora in Agostino e in Petrarca, passi che tuttavia non mi pare modifichino il quadro dell’esegesi dei versi del Purg. Diversa, e a mio giudizio piú debole, l’interpretazione di Pertile, Il nodo di Bonagiunta, cit., p. 97, che riconduce la parola al campo semantico della falconeria, e sarebbe ciò che impedisce al falco di volare liberamente. Infine, S. Sarteschi, ‘Purgatorio’, xxiv 49-53: Dante e il « Dolce stil novo ». Verifica di una continuità ideologica, in « Filologia e Critica », a. xx 1995, pp. 242-77, riconosce nel termine una amphibolia: esso sarebbe il ‘nodo della lingua’ (cfr. interpretazione di Gorni), ma anche il ‘legame’ tenace che i poeti avrebbero dovuto stringere con Amore ispiratore e dettatore. 45. D. Cappi, Emendazioni alla vulgata dei sonetti di Cino da Pistoia, in « Medioevo letterario d’Italia », a. x 2013, pp. 31-69, a p. 59, propone di leggere la clausola del verso 8 « canti e salti », a formare una coppia biblica ‘canti e balli’.

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ti nella sua controversa edizione della Commedia,46 siamo in presenza di una crux testuale, ancora irrisolta, che non ha mancato e non manca di condizionare l’esegesi.47 È noto, infatti, che la lezione che tutti conosciamo « di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo! » è il risultato di un emendamento congetturale. Lo riconosce, come abbiamo già avuto modo di rilevare, Giorgio Petrocchi nella nota di commento a Purg., xxiv 57, della sua edizione (vol. iii p. 412). In realtà il testo-base ricavabile dai manoscritti dell’antica vulgata48 dovrebbe essere: « di qua dal dolce stile il (stilo el) novo chiodo », un complicato enigma già per i copisti e i commentatori antichi a causa delle evidenti difficoltà sintattiche e metriche che si riverberano sulla terzina. Una soluzione – la meno rispettosa del testo – è stata quella di eliminare l’articolo, trasformando cosí « novo » in attributo, insieme a « dolce », di « stile »: tale emendamento è già attivo in uno dei piú antichi codici sopravvissuti della Commedia, il manoscritto Landiano 190 (La) della Biblioteca Comunale Passerini Landi di Piacenza (datato 1336); l’articolo presente nella primitiva stesura viene eraso successivamente.49 È stata la soluzione « baciata dalla fortuna, visto che ha dato origine nientemeno che al dolce stil novo! ».50 L’altra antica soluzione è stata quella di conservare l’articolo e di legge46. Dantis Alagherii Comedia, ed. critica per cura di F. Sanguineti, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2001, Purg., xxiv 57: « di qua dal dolce stil! e il novo ch’io odo! ». 47. E. Fenzi, Dopo l’edizione Sanguineti: dubbi e proposte per ‘Purg.’ xxiv 57, in SD, vol. lxviii 2003, pp. 67-82; R. Coluccia, Sul testo della ‘Divina Commedia’, in « Medioevo letterario d’Italia », a. ix 2012, pp. 35-48, a p. 42; e Zaccarello, Rimatori e poetiche, cit., pp. 725-27. 48. Ma si tratta di un canone superato alla luce delle ricerche di M. Boschi Rotiroti, Codicologia trecentesca della ‘Commedia’. Entro e oltre l’antica vulgata, Roma, viella, 2004. Luca Azzetta – che in una sua recente lettura dei canti xxiii-xxiv affronta sinteticamente il problema di Purg., xxiv 57 – ritiene necessaria in proposito una nuova indagine che riparta dai manoscritti: « la lezione dei piú antichi codici del poema e i rapporti stemmatici che tra essi sarà possibile descrivere dovranno costituire un riferimento imprescindibile per ulteriori considerazioni » (Azzetta, « Se tu riduci a mente », cit., p. 249). va comunque segnalato che lo studio citato di Fenzi allarga già la prospettiva ad altri mss. antichi (oltre cioè quelli dell’apparato Petrocchi) e alle prime stampe del poema. 49. Il ms. è visionabile on line nel sito www.danteonline.it, per la cura scientifica della Società Dantesca Italiana. In proposito non mi pare sia esente da dubbi la lettura « stile » riportata nella trascrizione: piú propriamente si dovrebbe leggere « sale », errore probabilmente generato da difettosa lettura del nesso ti che diventa a. 50. Fenzi, Dopo l’edizione Sanguineti, cit., p. 73 (corsivo nel testo).

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re nella scrittura continua « chiodo », che però non viene per lo piú sciolto nella forma « ch’i’ odo » – anche perché genererebbe difficoltà di ordine metrico (sarebbe un faticoso bisillabo) –, ma viene interpretato come sostantivo ‘chiodo’,51 come rivelano alcuni antichi commenti, la cosiddetta terza versione del Commentarium di Pietro Alighieri, le Chiose cassinesi, e perfino Benvenuto da Imola, incerto tra le due lezioni, cioè quella con il «chiodo» e quella, poi vincente, con l’emendamento congetturale che sopprime l’articolo.52 A complicare e a rendere piú intrigante il problema ha contribuito una recente scoperta che Fenzi attribuisce a Domenico De Robertis e ad Alessandro Montani: il versetto del Qohélet (o Ecclesiaste), 12 11, « verba sapientium sicut stimuli et quasi clavi in altum defixi » (‘le parole dei saggi sono come pungoli; come chiodi ben piantati’), dove compare l’accoppiata «stimulus» (uno strumento acuminato non troppo diverso dallo « stilus ») e « clavus ». Nella terzina dantesca si potrebbe allora non ritenere del tutto fuorviante il « chiodo ». Per questa via il « novo chiodo » sarebbe quello costituito, secondo la metafora biblica, dalle nuove sin lí inaudite parole che Dante ha appena pronunciato. In parafrasi: ‘vedo il nodo che ha trattenuto me, Giacomo da Lentini e Guittone di qua dall’uso dolce dello stilo, e mi si è inchiodata nella mente la verità per me nuova che tu hai pronunciato’.53 Enrico Fenzi, in conclusione del suo studio, propone una sua ricostruzione della complessa terzina cercando di rispettare le testimonianze manoscritte: 51. Ivi, p. 74: « ho la netta impressione che il ‘chiodo’ provochi, a ritroso, la lettura di stile(o) come ‘stilo’, lo strumento scrittorio, lo “stilo ferreo” di Iob. xix 24, e di Ier. xvii 1, secondo un uso ben attestato in Dante stesso […] ma è chiaro che anche l’alternanza il/el diventa a questo punto significativa, dato che con lo stilo occorrerà appunto disporre della congiunzione: e ’l. In tal caso, il ‘chiodo’ sarebbe una sorta di raddoppiamento e rafforzamento, a mo’ di apposizione, di uno stilo siffatto » (corsivi nel testo). 52. Per la documentazione, ivi, pp. 74-77. 53. Ivi, p. 77. Diversa la lettura di Zaccarello, Rimatori e poetiche, cit., p. 727: cosí come un nuovo sentimento amoroso supera e oblitera il precedente, le nove rime ‘scacciano’ la vecchia maniera poetica attraverso un piú dolce stil. Il « chiodo » è infatti ricollegato all’adagio riferito da Cicerone nelle sue Tusculanae disputationes, specificamente riferito al sentimento amoroso (iv 35: « Etiam novo quidam amore veterem amorem tamquam clavo clavum eiciendum putant »), e la metafora è ripresa anche da Petrarca, in TC, iii 62-66, con una sequenza rimica uguale a quella dantesca: modo : nodo : chiodo.

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ii. la voce di dante O frate, issa vegg’io – diss’egli – il nodo che ’l Notaro e Guittone e me ritenne. Di qua dal dolce stil è ’l novo ch’i’odo!

Il problematico sostantivo « chiodo » è messo da parte e viene, dunque, accettata la dura sinalefe « ch’i’ odo »; bisogna ammettere, inoltre, che con questa soluzione il ritmo della terzina si frange e ciò è in contrasto con quello delle altre,54 ma la proposta non stravolge il senso di quella tradizionale, anzi – secondo Fenzi – la migliorerebbe; dice Bonagiunta: ‘dalla parte del dolce stile è la novità che vado ascoltando’. Il nodo, allora, non sarebbe piú ridotto alla mera constatazione che alcuni sono stati esclusi dal Dolce stil novo, ma consisterebbe nel fatto che alcuni, legati a uno stile vecchio, e non adeguato, non sono stati in grado di seguire un “dittatore” del quale non parlavano e non capivano la lingua, né si erano sforzati di farlo. A essi dunque è rimasta preclusa la novità.55 Il nuovo tentativo di lettura di Fenzi non fuga tutti i dubbi, e lui stesso ne è consapevole, ma valeva la pena di illustrare sinteticamente i risultati del suo studio, per dimostrare le molteplici questioni testuali ed esegetiche sottese a Purg., xxiv 57. Spezza una lancia a favore del « chiodo » – ritenendola lectio difficilior – anche Francesco Fioretti, il quale modifica la punteggiatura vulgata e propone di leggere (Purg., xxiv 55-63): « O frate, issa vegg’ io » diss’ egli « il nodo che ’l Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil; e ’l novo chiodo io veggio ben: come le vostre penne di retro al dittator sen vanno strette, che de le nostre certo non avvenne! ».

Bonagiunta dunque ripeterebbe simmetricamente, e sintatticamente a chiasmo, l’espressione col verbo vedere alla prima persona: issa vegg’io […] il nodo (avverbio-verbo-soggetto-accusativo) e ’l novo chiodo io veggio ben (accusativo-soggetto-verbo-avverbio). Il lucchese replicherebbe a Dante di aver 54. Azzetta, « Se tu riduci a mente », cit., p. 248. 55. Cfr. Fenzi, Dopo l’edizione Sanguineti, cit., pp. 79-81.

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visto finalmente il nodo a un’estremità della fune, il novo chiodo all’altra: nodo e chiodo che vincolano le penne (‘ali’) dei poeti delle generazioni precedenti al terreno, impedendo loro di volare come Dante e i suoi all’altezza del dittatore Amore.56 Dopo questo necessario excursus, torno alle parole di Bonagiunta, che, in attesa di una nuova sistemazione filologica del verso 57, per prudenza continuo a interpretare secondo la versione vulgata. Il poeta lucchese dice: « Io vedo bene come le vostre penne seguono rigorosamente Amore che detta dentro, cosa che certamente non è avvenuto delle nostre ». voi, riconosce Bonagiunta, avete saputo ascoltare la voce di Amore che parla nell’intimo e la vostra poesia è il risultato della fedele trascrizione del suo dettato. viene, dunque, ripresa la metafora di Amore “dittatore”. A questo punto il contesto e l’ipotesto di frate Ivo con le sue implicazioni bibliche dovrebbero, secondo me, orientare l’interpretazione di « penne » nel senso di ‘strumenti per scrivere’,57 tuttavia tale spiegazione non gode di unanime consenso: alcuni, infatti, preferiscono interpretare « penne » con ‘ali’,58 altri

56. F. Fioretti, Ethos e leggiadria. Lo Stilnovo dialogico di Dante, Guido e Cino da Pistoia, Roma, Aracne, 2012, p. 85. 57. L’immagine è cara a Dante, e infatti compare anche in Mon., iii 4 11: « O summum facinus, etiamsi contingat in sompnis, ecterni Spiritus intentione abuti! Non enim peccatur in Moysen, non in David, non in Iob, non in Matheum, non in Paulum, sed in Spiritum Sanctum qui loquitur in illis. Nam quanquam scribe divini eloquii multi sint, unicus tamen dictator est Deus, qui beneplacitum suum nobis per multorum calamos explicare dignatus est » (‘Travisare a bella posta l’intenzione dello Spirito eterno sarebbe il peggiore dei peccati perfino se fosse commesso in sogno! Non è un peccato contro Mosè, o contro David, o contro Giobbe, o contro Matteo, o contro Paolo, ma è un peccato contro lo Spirito Santo, che parla per bocca di costoro. Molti sono infatti gli scrittori sacri, ma uno solo è l’autore: Dio, che si è degnato di comunicare espressamente a noi la sua volontà usando la penna di molti’). 58. La proposta esegetica è già in E. Levi, Piccarda e Gentucca. Studi e ricerche dantesche, Bologna, Zanichelli, 1921, p. 42; e poi in M. Musa, Le ali di Dante (e il Dolce stil novo). ‘Purg.’ xxiv, in « Convivium », a. xxxiv 1966, pp. 361-67. È stata rilanciata soprattutto da Pertile, Il nodo di Bonagiunta, cit., p. 99, e ha avuto un certo consenso. Da ultimo cfr. Brugnolo, Il ‘nodo’ di Bonagiunta, cit., pp. 9-10.

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hanno pensato a un’anfibologia,59 e altri alla ‘lingua del poeta’.60 Anche la spiegazione dell’aggettivo possessivo « vostre » non è pacifica, ma mi pare che il ragionamento di Bonagiunta (e di Dante) implichi che esso sia da intendere come un vero plurale e non come un plurale di cortesia. Esso sottende, infatti, una pluralità di voci, come in due testi del carteggio poetico tra Onesto da Bologna e Cino da Pistoia, uno scambio di sonetti che non doveva essere sconosciuto all’Alighieri dal momento che lo riguardava direttamente: cfr. di Onesto « Mente » ed « umíle » e piú di mille sporte (Cino, cxxxiiia) e la risposta di Cino Amor che vien per le piú dolci porte (Cino, cxxxiiib), in cui il poeta pistoiese si fa corifeo di altre voci, oltre naturalmente alla sua, in sintonia col nuovo modo di poetare.61 Conclude Bonagiunta: « E chi si spinge piú oltre nell’apprezzamento, non riuscirebbe a vedere piú nitida di quanto la veda io, ora, la differenza tra i due stili ».62 E se accettiamo – con Zaccarello – quest’accezione tecnica per il verbo gradire, il cerchio potrebbe chiudersi: Dante impiega un verbo che si direbbe formulare della “lode” cortese e pagana, del rituale vacuo e convenzionale evocato dalla rimeria amorosa delle vecchie scuole. Ecco che chi da oggi si ostina, si spinge oltre, nell’impiegare il linguaggio adulatorio della tradizione, non potrà mai cogliere il grande spartiacque che lo divide dalle nove rime, e in particolare dallo stile della loda, dove l’omaggio

59. Tra essi cfr. soprattutto M. Ciccuto, Reperti allusivi nel canto xxiv del ‘Purgatorio’, in Id., Il restauro de ‘L’Intelligenza’ e altri studi dugenteschi, Pisa, Giardini, 1985, pp. 123-38; e Sarteschi, ‘Purgatorio’, xxiv 49-53, cit., p. 271. 60. Favati, Inchiesta, p. 131: l’ipotesto già segnalato di Ps., 44 2, « consente di addirittura smaterializzare il significato di “penna” pel fatto stesso che essa indica metaforicamente la lingua del poeta: la quale dunque può essere veduta come il diretto organo elocutivo di Amore », con rimando a V.n., xix 2, dove Dante scrive che la sua « lingua parlò quasi come per se stesso mossa ». 61. Lo ha notato Brugnolo, Il ‘nodo’ di Bonagiunta, cit., pp. 14-15. 62. L. Lazzerini, Bonagiunta, il nodo e la vista recuperata, in Operosa parva. Per Gianni Antonini, a cura di D. De Robertis e F. Gavazzeni, verona, Edizioni valdonega, 1996, pp. 41-54, a p. 53. In linea con la propria proposta, intesa a privilegiare nel passo la metafora ornitologica « penne » ‘ali’, è la lettura di Pertile, Il nodo di Bonagiunta, cit., p. 104: « e chi cerca di oltrepassare il grado gerarchico naturale che gli è proprio, cioè di procedere al di là di quel che natura ha prestabilito per lui, si preclude la possibilità di vedere la differenza tra i due stili ». Mi pare meno convincente per i motivi poco fa esposti a proposito della spiegazione aviaria di « penne ».

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alla donna non è piú cerimonioso e retorico, ma suggerito, insufflato dal dittator, senza schermi né infingimenti.63 Ora, Bonagiunta ha riconosciuto che lui, Giacomo da Lentini e Guittone sono rimasti al di qua di quella innovativa esperienza poetica, ma chi ci sia e in quale misura al di là di quella linea di demarcazione non lo ha compreso: egli « quasi contentato, si tacette »; il « silenzio, vagamente enigmatico, di Bonagiunta […], suggella il fitto e sostenuto dialogo ».64 In effetti, se il rimatore lucchese ha còlto gli aspetti comuni e condivisi della nuova poesia, gli sfuggono troppi particolari per illuminare quel terreno, per lui incognito, che è tutt’altro che omogeneo e compatto, e dunque difficilmente riducibile a sistema; e Dante non glieli dice. 2. In purgatorio tra i lussuriosi: Dante e Guinizzelli (e Arnaut) Il discorso sulla poesia continua nel canto xxvi, il quale, pertanto, può, anzi deve essere considerato strettamente legato al xxiv. Il paesaggio della settima cornice si distingue per grande potenza fantastica. La parete rocciosa del monte proietta in fuori vampe di fuoco e il vento che spira dal margine le risospinge indietro, consentendo cosí a Dante, Stazio e virgilio uno stretto e rischioso passaggio tra le fiamme e l’orlo. Le leggi della fisica oltremondana hanno prerogative proprie: del resto già nella landa infuocata infernale gli argini del fiume erano riparati dalla pioggia ignea (cfr. Inf., xv 1-3). Dentro le fiamme camminano espiando la loro colpa i lussuriosi, etero e omosessuali, perché qui – a differenza di quanto avviene nell’inferno – non viene marcata differenza di pena e di collocazione. È quasi il tramonto; l’aspetto del cielo da celeste si tramuta in bianco, e 63. Per questa spiegazione del verbo gradire, ‘apprezzare, gradire’ – e non raro latinismo gradior, ‘procedo’ –, vd. Zaccarello, Rimatori e poetiche, cit., p. 731; vd. inoltre, p. 732, dove l’autore ritiene che in connessione con la spiegazione del « chiodo » del v. 57 si è di fronte a una doppia novità: « Nessun dubbio pertanto, come da tempo autorevolmente ribadito, che siamo di fronte a una doppia “novità”, la prima rappresentata dall’avvento di un nuovo repertorio stilistico nella rimeria d’amore in volgare, simboleggiato dalla rinnovata dignità del volgare (“uso moderno”) e dai “dolci detti” del Bolognese (Purg., xxvi 112-13), la seconda, quella piú autenticamente dantesca e diciamo pure stilnovistica, incarnata nel radicale rinnovamento tematico dello “stile della loda” ». 64. Brugnolo, Il ‘nodo’ di Bonagiunta, cit., p. 5.

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Dante con la sua ombra fa sembrare piú rovente la fiamma. Le anime espianti prestano attenzione con intensità sempre crescente a un indizio cosí stupefacente:65 colui che « non par corpo fittizio » (Purg., xxvi 12) è, infatti, al centro del loro ansioso e ardente interesse. Nessuna curiosità, invece – diversamente da quanto era avvenuto nella cornice precedente –, suscitano Stazio e virgilio, che gli camminano davanti, egualmente protetti dalle fiamme.66 Eppure anch’essi non dovrebbero lasciare indifferenti: si tratta pur sempre di un’anima dell’inferno che passeggia con speciale immunità per la cornice, e di un’anima ormai del paradiso che stranamente tarda la propria ascesa al cielo. Nonostante la straordinarietà di quelle presenze, prevale il mistero di un vivo che vaga nel regno delle ombre: l’attenzione è tutta rivolta a Dante. Tuttavia, se i magni poëtae virgilio e Stazio, come già era avvenuto nel canto xxiv, rimangono per tutto il tempo muti, in questo episodio dedicato alla poesia il loro altissimo canto non può restare silente e, infatti, lascia visibili tracce di sé: la similitudine delle formiche (Purg., xxvi 31-36) – pur con le innegabili differenze – rinvia all’Eneide;67 la similitudine delle gru (Purg., xxvi 43-48) e quella dei figli di Isifile (Purg., xxvi 94-99) rimandano alla Tebaide.68 65. Per l’emistichio « e pur a tanto indizio » (Purg., xxvi 8), accolgo la spiegazione di M. Marti, Il xxvi del ‘Purgatorio’ come omaggio d’arte: Guinizzelli e Daniello nel cammino poetico di Dante, in Id., Dante Boccaccio Leopardi. Studi, Napoli, Liguori, 1980, pp. 67-93, alle pp. 71-72. Spiega diversamente L. Blasucci, Autobiografia letteraria e costruzione narrativa nel xxvi del ‘Purgatorio’, in « Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa », s. iii, a. xviii 1988, pp. 1035-65, a p. 1041: « Intenderei il tanto del v. 8 […] come ‘cosí lieve’, e il pur come ‘soltanto’: lieve l’indizio, ma enorme l’inferenza. Coloro che attribuiscono a tanto il valore di ‘cosí straordinario’ unificano indebitamente i due aspetti, a scapito della suspense narrativa che nasce proprio dalla loro divaricazione » (corsivi nel testo). 66. Forese volle sapere anche delle anime che facevano scorta all’amico (cfr. Purg., xxiii 52-54) e Dante gli rispose (cfr. Purg., xxiii 118-33). 67. Virgilio, Aen., iv 402-7. Nota Roncaglia, Il canto xxvi del ‘Purgatorio’, cit., p. 11: in virgilio « prevale il gusto descrittivo […]; la comparazione dantesca poggia invece sull’elemento affettivo ». 68. Rispettivamente per la prima Stazio, Theb., v 11-16 e xi 113-16, e per la seconda v 719-22, già riconosciute da G. Savarese, Dante e il mestiere di poeta (Intorno al xxvi del ‘Purgatorio’), in « La rassegna della letteratura italiana », a. xc 1986, pp. 365-81, a p. 372. Sulle gru, considerate per lunga consuetudine animali letterati, cfr. G. Gorni, “Gru” di Dante. Lettura di ‘Purgatorio’ xxvi, in « Rassegna europea di letteratura italiana », a. iii 1994, pp. 11-34.

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Il proscenio è, dunque, tutto riservato ai poeti moderni e ai colloqui di Dante con Guido Guinizzelli e con Arnaut Daniel.69 Il primo interlocutore, che inizialmente si fa portavoce dell’istanza collettiva di conoscere se il viator sia effettivamente vivo, rimane a lungo anonimo. Egli, infatti, si presenta solo dopo la liturgia penitenziale (« son Guido Guinizzelli, e già mi purgo »: Purg., xxvi 92) che s’intromette improvvisamente e spezza il dialogo in due segmenti. Di Arnaut, inizialmente mostrato col dito da Guinizzelli, Dante apprenderà il nome solo alla fine (« Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan »: Purg., xxvi 142). L’agnizione ritardata è, quindi, comune denominatore del canto xxvi e determina effetti di suspense. Tuttavia, se le fiamme – barriera invalicabile –70 impediscono di riconoscerne i volti e se i nomi di Guido e di Arnaut vengono pronunciati tardi, parla la loro poesia che, sedimentata nel tessuto della Commedia, solletica la memoria del lettore avviando un suggestivo processo di rivelazione intertestuale, che in un certo modo anticipa e partecipa all’agnizione dei due personaggi. Già nelle prime parole dello spirito ancora anonimo si avverte l’inconfondibile voce poetica di Guido. L’endecasillabo « rispondi a me che ’n sete e ’n foco ardo » (Purg., xxvi 18) richiama « parlar non posso, ché ’n pene io ardo », il verso 8 del sonetto Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo (Guinizzelli, vi): stesso schema accentuativo con cinque arsi giambiche, stessa disposizione di « ardo », che pare sporgersi nel verso, aggettato dalla dialefe. L’indubbia allusione diretta – come ha notato Folena – è « tanto piú significativa perché quel verbo, già metafora amorosa, torna qui in senso pro-

69. Registro, sebbene non ne condivida la tesi, un articolo di P. Canettieri, Il miglior fabbro, il men famoso Arnaldo e altre notizie dal Purgatorio (consultabile all’indirizzo internet http://knol.google.com/k/il-miglior-fabbro-il-men-famoso-arnaldo-e-altre-notiziedal-purgatorio), in cui si sostiene, con un’argomentazione comunque tutt’altro che peregrina, che l’Arnaut di Purg., xxvi, sia Arnaut de Maruelh. Contro questa tesi vd. anche P. Gresti, Dante e i trovatori: qualche riflessione, in « Testo », a. xxxii 2011, pp. 175-190, partic. pp. 183-84. 70. Cfr. l’attenzione da parte delle anime a non evadere dallo strumento di pena, in Purg., xxvi 13-15: « poi verso me, quanto potëan farsi, / certi si fero, sempre con riguardo / di non uscir dove non fosser arsi »; e la precauzione di Dante a evitare il contatto con le fiamme: Purg., xxvi 94-96, 102: « Quali ne la tristizia di Ligurgo / si fer due figli a riveder la madre, / tal mi fec’ io, ma non a tanto insurgo […] né, per lo foco, in là piú m’appressai ».

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prio a indicare, in una sorta di contrappasso semantico, il tormento del fuoco reale che purifica quel fuoco della passione ».71 Ancora piú interessante, perché decisamente connotata, è la terzina in cui Guido, ancora anonimo, riprende il dialogo con Dante, dopo l’intermezzo della liturgia penitenziale (Purg., xxvi 73-75): « Beato te, che de le nostre marche », ricominciò colei che pria m’inchiese, « per morir meglio, esperïenza imbarche! ».

I rari rimanti marche : imbarche derivano direttamente dal sonetto di Guinizzelli ‹O› caro padre meo, de vostra laude,72 testo che sotto la lode apparente, che a lungo ha sviato gli interpreti, nasconde un intento ironico e antifrastico, se non addirittura una mordente critica di Guittone accusato di avidità (Guinizzelli, xixa 1-6; corsivi miei):73 ‹O› caro padre meo, de vostra laude non bisogna ch’alcun omo se ’mbarchi, ché ’n vostra mente intrar vizio non aude, che for de sé vostro saver non l’archi. A ciascun rëo sí la porta claude, che, sembr’, ha piú via che venezi’ ha marchi.

Ora, però, tali rimanti hanno un precedente significativo, ed esso è tanto piú rilevante quanto piú quella serie rimica risulta peregrina nella lirica italiana del ’200: essa si ritrova nella canzone Si·m fos Amors di Arnaut Daniel (BdT, 29 17, vv. 3, 11, 35),74 proprio l’altro protagonista di questo canto 71. G. Folena, Il canto di Guido Guinizzelli, in GSLI, vol. cliv 1977, pp. 481-508, a p. 486. 72. G. Contini, Dante come personaggio-poeta della ‘Commedia’ (1957), in Id., Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino, Einaudi, 20073 (19761), pp. 33-62, alle pp. 59-60. 73. Per questa interpretazione cfr. P. Borsa, La tenzone con Guittone d’Arezzo, in Id., La nuova poesia di Guido Guinizelli, Firenze, Cadmo, 2007, pp. 13-59. 74. Per questo rimando M. Braccini, Paralipomeni al « personaggio-poeta » (‘Purgatorio’ xxvi 140-7), in Testi e interpretazioni. Studi del seminario di filologia romanza dell’Università di Firenze, Milano-Napoli, Ricciardi, 1978, pp. 169-223, a p. 209; N. Del Sal, Guittone (e i guittoniani) nella ‘ Commedia ’, in SD, vol. lxi 1989 (ma 1994), pp. 109-52, a p. 125; e Borsa, La nuova poesia, cit., p. 197. Nuove prospettive apre a riguardo R. Rea, Guinizzelli ‘praised and explained’ (da ‘[O] caro padre meo’ al xxvi del ‘Purgatorio’), in « The Italianist », a. xxx 2010, pp. 1-17, a p. 5.

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dantesco, e colui che è definito impegnativamente da Guido « miglior fabbro del parlar materno » (Purg., xxiv 117): ja de mos jorns no·m calgra far embark […] don si belh dig mi tenon de joi larc […] que per vos son estrag caval e marc.

La presenza di queste rime è solo un indizio di « quel gusto energicamente inventivo della rima espressiva »75 da parte di Dante sul quale ha influito il trobar car del trovatore perigordino, un ideale stilistico che, pur ereditando soluzioni dell’antico trobar clus, esprime contenuti limpidi e diretti, in una sorta di superiore sintesi tra i procedimenti classici (trobar clus e leu) della lirica trobadorica.76 Non manca, infatti, in questo canto la preferenza per le rimas caras, riscontrabile, ad esempio, nelle serie maestro : destro : cilestro (vv. 2-6); indizio : inizio : fittizio (vv. 8-12); dopo : uopo : Etïopo (vv. 17-21); trascorra : Gomorra : corra (vv. 38-42); Pasife : Rife : schife (vv. 41-45); ecc. E non mancano anche altri procedimenti arnaldiani, sui quali ha già richiamato l’attenzione Luigi Blasucci: certe dittologie martellate, energicamente scandite in fine di verso, piú spesso con la congiunzione né (il provenzale ni), ma anche con la disgiuntiva o oppure semplicemente con la copulativa e: per esempio, « non son rimase acerbe né mature » (v. 55); « che Letè nol può tòrre né far bigio » (v. 108); « che d’acqua fredda Indo o Etïopo » (v. 21); « col sangue suo e con le sue giunture » (v. 57); ecc. Un altro lascito arnaldiano può essere riconosciuto nell’uso di perifrasi ingegnosamente allusive e insieme verbalmente ricche che spesso hanno il loro fulcro nella parola rima difficile:77 « il nome di colei / che s’imbestiò ne le ’mbestiate schegge » (vv. 86-87); « di ciò per che già Cesar, trïunfando, / “Regina” contra sé chiamar s’intese » (vv. 77-78); « chiostro / nel quale è Cristo abate del collegio » (vv. 128-29); ecc. Sono procedimenti attivi in tutto il poema, ma in questo canto xxvi risaltano maggiormente per il fatto che tra i personaggi è presente proprio il « miglior fabbro » Arnaut Daniel. La scelta degli interlocutori di questa conversazione letteraria, com’era 75. Blasucci, Autobiografia letteraria, cit., p. 1059. 76. Rea, Guinizzelli ‘praised and explained’, cit., p. 10. 77. Blasucci, Autobiografia letteraria, cit., p. 1063.

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già avvenuto nel canto xxiv, è, dunque, accuratamente ponderata, tanto piú che a essi, e soprattutto a Guido, Dante affida impegnativi giudizi di critica letteraria (e non solo). Guinizzelli, infatti, viene attentamente selezionato non soltanto perché è colui che ha mutato « la mainera de li plagenti ditti de l’amore », suscitando il rimprovero di Bonagiunta e meritando la stima dell’Alighieri, ma anche perché è colui che non si era mai assoggettato ai dettami del suo contemporaneo Guittone e che in un panorama letterario dominato dall’ingombrante personalità dell’aretino aveva saputo mantenere una sua linea indipendente, sia quando aveva rivitalizzato secondo un suo gusto personale l’esperienza poetica trobadorica e siciliana, sia quando, e soprattutto, aveva tentato di rinnovare piú decisamente la tradizione precedente; un’indipendenza che non poteva non fruttargli le aspre critiche di Guittone, che nel sonetto S’eo tale fosse ch’io potesse stare lo accusa di « laido errore » (v. 4), con riferimento inequivocabile a Vedut’ ho la lucente stella diana e Io vo’[glio] del ver la mia donna laudare (rispettiv. Guinizzelli, vii e x), cioè due tra i testi piú innovativi del, pur esiguo, corpus di Guido. La netta contrapposizione risulta ben evidente nel sonetto ‹O› caro padre meo, de vostra laude (Guinizzelli, xixa), in cui il poeta bolognese prende l’iniziativa per attaccare l’avversario: sotto l’epidermide elogiativa si nascondono caustiche accuse di avarizia e ipocrisia; viene corrosa quell’aura di magister, poeticamente imperiosa ed eticamente irreprensibile, di cui il frate Gaudente amava circondarsi. Nella risposta per le rime, Figlio mio dilettoso, in faccia laude (Guinizzelli, xixb), Guittone, con ampio sfoggio di virtuosismi e di abilità retorica, mostra di aver ben compreso l’artificiosa lode dell’interlocutore, e si guarda bene, del resto, dall’impegnarsi nella correzione della canzone inviatagli, probabilmente Al cor gentil (Guinizzelli, iv).78 La ripresa dei rimanti marche : imbarche che abbiamo già rilevato è la spia che Dante conosceva bene quel carteggio poetico, e che, soprattutto, lo aveva letto correttamente, senza farsi sviare, come tanti altri interpreti successivi, da quelle lodi apparenti. Il Guinizzelli di Purg., xxvi, non pronuncia, dunque, nessuna palinodia e non ha bisogno di nessuna ritrattazione 78. Per questa interpretazione della tenzone Guinizzelli-Guittone su cui si dovrà tornare nel prossimo capitolo, cfr. soprattutto Borsa, La nuova poesia, cit., pp. 13-59.

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per meritarsi il titolo di « padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre » (Purg., xxvi 97-99). La condanna di Guittone gli spetta di diritto, e, pronunciata qui, avrà corso normativo, se non performativo, visto il bando letterario secolare che ha subíto l’aretino (Purg., xxvi 124-32): Cosí fer molti antichi di Guittone, di grido in grido pur lui dando pregio, fin che l’ha vinto il ver con piú persone. Or se tu hai sí ampio privilegio, che licito ti sia l’andare al chiostro nel quale è Cristo abate del collegio, falli per me un dir d’un paternostro, quanto bisogna a noi di questo mondo, dove poter peccar non è piú nostro ».

Ho volutamente riportato tutta la parte finale del discorso di Guido, compresa la richiesta a Dante di pregare in suo favore, quando sarà in paradiso, perché in questi versi compare una serie rimica (pregio : privilegio : collegio) che, con una minima differenza, ha un’altra sola occorrenza in tutta la Commedia, in Inf., xxiii 88-93, cioè nella bolgia degli ipocriti, dove Dante incontra Catalano dei Malavolti e Loderingo degli Andalò, membri dello stesso ordine di Guittone, il quale, tra l’altro, aveva impegnativamente definito Loderingo « padre dei padri » suoi (corsivi miei):79 « Costui par vivo a l’atto de la gola; e s’e’ son morti, per qual privilegio vanno scoperti de la grave stola? ». Poi disser me: « O Tosco, ch’al collegio de l’ipocriti tristi sè venuto, dir chi tu sè non avere in dispregio ».

La coincidenza è nient’affatto casuale: i sottili fili della poesia consentono al personaggio Guinizzelli di ribadire qui l’accusa di ipocrisia già sottil79. Guittone, canz. xl 1-6: « Padre dei padri miei e mio messere, / fra Loderigo, doglia e gioi m’adduce / grave tanta sor voi tribolazione: / doglia in compassione / di frate e padre e signor meo savere / che nocimento ha tanto e nullo noce ».

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mente presente nel sonetto ‹O› caro padre meo. Con piena approvazione di Dante. Ancora. Abbiamo notato che nei rimanti marche : imbarche ripresi dal sonetto di Guido è riconoscibile la filigrana di Arnaut Daniel. In realtà l’intero tessuto rimico di quel componimento è riconducibile al trovatore perigordino.80 Questa enfatica presenza del trobar car di Arnaut nel sonetto polemico contro Guittone non deve stupire. Recenti ricerche hanno messo in luce una buona ricezione nella poesia toscana del pieno e tardo ’200 del modello poetico di Arnaut.81 Ad esso non restò insensibile Guinizzelli. Chi invece sembra sordo o comunque piú restio ad accogliere quell’ideale stilistico è proprio Guittone. La scelta dell’aretino è, infatti, diversa. Le sue poesie tese all’oscurità del dettato pospongono il piú recente trobar car di Raimbaut d’Aurenga e di Arnaut Daniel al primitivo trobar clus, privilegiando il piú marcato, anche ideologicamente, Marcabru.82 Il Guinizzelli di Purg., xxvi, è, dunque, pienamente autorizzato ad additare a Dante il suo compagno di espiazione Arnaut e a pronunciare questa impegnativa valutazione (Purg., xxvi 115-20): « O frate », disse, « questi ch’io ti cerno col dito », e additò un spirto innanzi, « fu miglior fabbro del parlar materno. versi d’amore e prose di romanzi soverchiò tutti; e lascia dir li stolti che quel di Lemosí credon ch’avanzi.

Del miglior fabbro è taciuto, per riverenza, pure il nome.83 Con una perifrasi è indicato anche Giraut de Bornelh (« quel di Lemosí »). L’antica vi80. Cfr. Rea, Guinizzelli ‘praised and explained’, cit., pp. 4-7. E vd. il prossimo capitolo. 81. Cfr. G. Santini, Rime care: il ‘trobar clus’ italiano e il modello rimico danielino, in Ead., Tradurre la rima. Sulle origini del lessico rimico nella lirica italiana del Duecento, Roma, Bagatto Libri, 2007, pp. 141-210. 82. Rea, Guinizzelli ‘praised and explained’, cit., p. 11; e Guittone d’Arezzo, Canzoniere. I sonetti d’amore del codice laurenziano, a cura di L. Leonardi, Torino, Einaudi, 1994, pp. xix-xxi. 83. Folena, Il canto di Guido Guinizzelli, cit., p. 501: « il binomio versi d’amore e prose di romanzi […] indica sinteticamente, in termini simili a quelli usati nel De vulg. eloq., tutta l’esperienza letteraria dell’amore cortese, francese per le prose di romanzi fatali a Francesca, provenzale ma anche italiana per la lirica d’amore » (corsivi nel testo).

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da provenzale lo esaltò come il miglior trovatore tra quelli ch’erano stati prima e furono dopo di lui (« meiller trobaire que negus d’aquels qu’eron estat denan ni foron apres lui »), per cui fu chiamato maestro dei trovatori (« fo apellatz maestre dels trobadors »). E Dante nel D.v.e., ii 2 7-8, lo ricorda come autore illustre della rettitudine, e lo associa a se stesso: Quare hec tria, salus videlicet, venus et virtus, apparent esse illa magnalia que sint maxime pertractanda, hoc est ea que maxime sunt ad ista, ut armorum probitas, amoris accensio et directio voluntatis. Circa que sola, si bene recolimus, illustres viros invenimus vulgariter poetasse, scilicet Bertramum de Bornio arma, Arnaldum Danielem amorem, Gerardum de Bornello rectitudinem; Cynum Pistoriensem amorem, amicum eius rectitudinem.84

Il cambio di giudizio, se lo è veramente, non deve scandalizzare. Nel poema è completamente mutata la prospettiva rispetto al trattato.85 Ora non si attua piú nessuna distinzione. E ciò è anche l’estremo superamento del programma ideologico e letterario di Guittone, colui che piú di ogni altro aveva nettamente cercato di separare poesia erotica e poesia morale. Nella Commedia l’acquisizione definitiva della dimensione dell’amore come caritas permette di armonizzare in suprema sintesi ciò che per l’universo poetico si squaderna. Se Dante ha saputo trascendere la prospettiva e l’etica dell’eros cortese in una visione cristiana dell’amore – essenza di Dio, principio creatore e ordinatore dell’universo e dell’essere umano –, in quest’ultimo canto dedicato alla poesia prima della salita al paradiso terrestre dove rivedrà Beatrice non poteva mancare, allora, l’omaggio a coloro che gli avevano salato il sangue. Al « padre » Guinizzelli e al « fabbro » Arnaut sono, dunque, ri84. ‘Perciò queste tre cose, salvezza, amore e virtú, si rivelano come i grandi contenuti che debbono essere trattati nel modo piú alto possibile: cioè lo saranno – meglio – gli argomenti che ad essi sono soprattutto connaturati, come la prodezza nelle armi, la passione amorosa e la volontà diretta al bene. Mi risulta, se ho visto bene, che solo di questi argomenti hanno poetato in volgare i piú famosi, come Bertran de Born delle armi, Arnaut Daniel dell’amore, Giraut de Bornelh della rettitudine, Cino da Pistoia dell’amore e l’amico suo della rettitudine’. 85. Mengaldo, p. xc: nel poema Giraut deve essere rimpiazzato « come esemplare di una virtus la cui concezione è ora rettificata in profondità rispetto a quella sostanzialmente mondana che era stata del D.v.e., come pure del Convivio ».

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servati gli ultimi posti tra gli spiriti incontrati prima degli spazi paradisiaci, e come estremo omaggio al trovatore – il cui debito letterario non può riduttivamente esaurirsi alla fase delle rime petrose – è dato il piú ampio inserto alloglotto della Commedia, otto versi in provenzale, che, se sono deludentemente poco arnaldiani, esprimono quella tensione spirituale che ora, unica, muove lo spirito (Purg., xxvi 140-47).86 Ancora non ci siamo chiesti direttamente quali siano i peccati che Guido e Arnaut devono espiare nella settima cornice del purgatorio. Gli esigui dati biografici che il tempo e gli archivi hanno restituito non offrono nessun appiglio. E per fortuna la piú recente esegesi dantesca ha smesso di scartabellare le loro poesie alla ricerca di particolari piccanti che giustificassero l’accusa di lussuria. La condanna dantesca – ha scritto persuasivamente Luigi Blasucci – « non è aneddotica, ma ideologica; di qui la scelta non di due comprimari, ma di due maestri della lirica amorosa ».87 Allora, credo che si possa convenire con Giunta, La poesia, p. 56, quando sostiene che il fuoco della cornice – questo incendio senza metro che brucia ma non consuma – purifichi la poesia d’amore. Dante personaggio non ne è esente. Rispondendo a Guido che gli chiedeva se fosse veramente vivo, egli dice (Purg., xxvi 58-60): Quinci sú vo per non esser piú cieco; donna è di sopra che m’acquista grazia, per che ’l mortal per vostro mondo reco.

Mi pare che quel « cieco » sia densamente connotato, perché rimanda a quei maestri d’amore, o sedicenti tali, che pur essendo ciechi si ergono a duci (Purg., xviii 16-18): 86. Folena, Il canto di Guido Guinizzelli, cit., p. 506: « Il discorso provenzale di Arnaldo nella Commedia è potuto apparire singolarmente deludente a chi si aspettava di trovarvi, come invece si trovano in quello di Guido, echi diretti della sua esperienza stilistica, quell’incandescenza passionale bloccata nel cristallo della forma perfetta […]. Questo ultimo inquilino del fuoco che comincia a parlare liberamente, spontaneamente, è un Arnaldo proprio antiarnaldiano »; e p. 507: « C’è dunque nel dettato di Arnaldo una sorta di contrappunto o contrappasso penitenziale al suo linguaggio amoroso ». 87. Blasucci, Autobiografia letteraria, cit., p. 1053; e cosí continua: « La condanna è nei riguardi di un eros che, per quanto ispirato a un’etica raffinatamente cortese, non seppe elevarsi al di sopra delle sue premesse irrazionali e passionali ».

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il dolce stil novo « Drizza », disse, « ver’ me l’agute luci de lo ’ntelletto, e fieti manifesto l’error de’ ciechi che si fanno duci.

Chi parla qui è virgilio che sta esponendo a Dante la concezione cristiana dell’amore e lo mette in guardia dall’errore, sempre incombente, di credere che «ciascun amore» sia «in sé laudabil cosa» (Purg., xviii 36). Tra questi ciechi ci sono soprattutto poeti, e in particolare – come ha dimostrato Enrico Malato – Guido Cavalcanti, ma non è solo.88 E che questi maestri siano pericolosi lo dimostra nella Commedia l’appassionata e pietosa vicenda di Francesca, che ancora all’inferno proclama quell’amore che ha condizionato la sua vita (Inf., v 100-8); in quelle parole certamente struggenti e piene di passione c’è in filigrana un preciso codice culturale e letterario (e che responsabilità ha Guinizzelli!),89 che è alquanto insidioso perché è l’esito di una concezione sbagliata che porta alla dannazione: quella passione irrefrenabile e irresistibile, ascrivibile proprio a quei falsi maestri i quali – pur essendo ciechi – si riconoscono il ruolo di duci, l’ha travolta per sempre. Dante conosceva le lusinghevoli insidie della passione e della poesia d’amore; è vero che fin dalle origini aveva sempre cercato di amare sotto « ’l fedel consiglio de la ragione » (V.n., ii 9), ma il pericolo era sempre incombente come rivelano la canzone Doglia mi reca nello core ardire (Rime, cvi), la canzone “montanina”, Amor, da che convien pur ch’io mi doglia (Rime, cxvi), e il sonetto a Cino, Io sono stato con Amore insieme (Rime, cxi), nel quale si dice chiaramente che chi tenta di opporre alla forza irresistibile di Amore « la

88. Cfr. almeno E. Malato, « Sí come cieco va dietro a sua guida / per non smarrirsi […] ». Lettura del canto xvi del ‘Purgatorio’, in RSD, a. ii 2002, pp. 225-61 (poi in Id., Studi su Dante. « Lecturae Dantis », chiose e altre note dantesche, Cittadella, Bertoncello Artigrafiche, 2005, pp. 216-57); Id., Dante e Guido Cavalcanti. Il dissidio per la ‘Vita nuova’ e il « disdegno » di Guido, ii ed. con postfazione, Nuove prospettive degli studi danteschi, Roma, Salerno Editrice, 2004. 89. Oltre alle note citazioni esplicite dalla canzone Al cor gentil (vd. Inf., v 100: « Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende ») si può ricordare la serie rimica martiri : sospiri : disiri di Inf., v 116-118-120, che replica Guinizzelli, vii 10-12-14, come ha notato R. Antonelli, Subsistant igitur ignorantie sectatores, in Guittone d’Arezzo nel settimo centenario della morte. Atti del Convegno internazionale di Arezzo, 22-24 aprile 1994, a cura di M. Picone, Firenze, Cesati, 1995, pp. 337-49, a p. 343.

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virtú o la ragione »90 si comporta come colui che durante la tempesta suona le campane credendo di attenuare gli scontri di vapori nella regione dell’atmosfera dove si generano i tuoni. Insomma agisce invano. Consapevole di ciò, Dante, al termine del racconto della giovane riminese, sviene, uno dei rarissimi svenimenti in tutto il viaggio, e certamente il piú drammatico, visto che cade « come corpo morto » (Inf., v 142). Ora nella cornice purgatoriale dei lussuriosi, dove si purifica soprattutto la poesia volgare – non a caso gli unici due penitenti nominati sono poeti – Dante dichiara che sta salendo per non essere piú « cieco ». È una cecità che può ancora comportare dei rischi, se la guida (e ragione) virgilio si mostra particolarmente attento a difendere e proteggere il viator. Giunti all’« ultima tortura », la guida consiglia speciale cautela perché è facile errare, e dunque è assolutamente necessario tenere ben a freno gli occhi (Purg., xxv 118-20): Lo duca mio dicea: « Per questo loco si vuol tenere a li occhi stretto il freno, però ch’errar potrebbesi per poco »,

avvertimenti insistentemente ripetuti lungo il cammino (Purg., xxvi 1-3): Mentre che sí per l’orlo, uno innanzi altro, ce n’andavamo, e spesso il buon maestro diceami: « Guarda: giovi ch’io ti scaltro ».

Questa sollecitudine di virgilio ricorda quella attiva nella cornice degli iracondi ottenebrata dal denso e materico fumo (Purg., xvi 10-15): Sí come cieco va dietro a sua guida per non smarrirsi e per non dar di cozzo in cosa che ’l molesti, o forse ancida, m’andava io per l’aere amaro e sozzo, ascoltando il mio duca che diceva pur: « Guarda che da me tu non sia mozzo ». 90. Cosí commenta Giunta a Rime, p. 588: « per virtú bisogna intendere la “vertú che vole” (Amor, da che convien, 33), cioè la capacità di fare ciò che il libero arbitrio dice di fare »; la ragione qui sta per il sapere (e cita S. Bernardo, De gratia, viii 24: l’uomo è libero di volere ma non può ciò che vuole, se la sua volontà, come accade, non è retta dal sapere).

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Il medesimo solerte comportamento, segnalato dai due endecasillabi pressoché identici (Purg., xvi 15 e xxvi 3), permette di stabilire un altro suggestivo collegamento, oltre a quello già messo in luce,91 tra i canti xvi, xviii, xxvi, incentrato sull’immagine della cecità, e – lo abbiamo visto – « cieco » è soprattutto colui che incautamente si erge a maestro d’amore. Dante è ben attento ai rischi e segue la sua guida: guarda gli spiriti ma anche i propri passi « compartendo la vista a quando a quando » (Purg., xxv 126). Neppure l’euforia determinata dal sentire tra le fiamme il nome di Guinizzelli e neppure la « contemplazione silenziosa, ma intimamente sconvolgente »,92 di camminare presso il « padre » distolgono la sua attenzione: a differenza dei figli di Isifile sa frenare il suo slancio (« ma non a tanto insurgo »: Purg., xxvi 96), e nel suo prolungato meditare, pur continuando a rimirare Guido,93 si tiene prudentemente lontano dal fuoco (vv. 100-2): e sanza udire e dir pensoso andai lunga fïata rimirando lui, né, per lo foco, in là piú m’appressai.

Insomma né il « padre » Guido né, dopo il lui, il « fabbro » Arnaut – anch’essi maestri ciechi – possono ora attrarre Dante nel fuoco, distraendolo dal suo cammino dietro la guida di virgilio. Eppure quella barriera di fiamme deve essere varcata, perché anche le colpe poetiche di Dante-personaggio possano essere definitivamente espiate e la sua poesia possa rinascere, completamente purificata. Per convincere il viator atterrito e in preda a un immobilizzante attacco di panico « qual è colui che ne la fossa è messo » (Purg., xxvii 15), però, non bastano nemmeno le rassicurazioni di virgilio, sebbene fondate su incontrovertibili dati memoriali ed esperienziali. Occorrerà che la guida pronunci il nome di Beatrice, quel nome che nella mente sempre rampolla. È lei, del resto, la

91. Per il collegamento tra i canti xvi e xviii del Purgatorio cfr. Malato, « Sí come cieco va dietro a sua guida », cit., pp. 230-34; Id., Dante e Guido Cavalcanti, cit., pp. 168-72. 92. Savarese, Dante e il mestiere, cit., p. 377. 93. Blasucci, Autobiografia letteraria, cit., p. 1048: « Il senso della durata è reso stupendamente dal prolungarsi della parola [fïata] in dieresi ».

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donna che di sopra gli acquista grazia (Purg., xxvi 59).94 Ora Dante è uscito, per sempre e totalmente, dalla volgare schiera. La volgare schiera, appunto. È tempo di riprendere il discorso sul Dolce stil novo e capire se in questo canto xxvi si possano trovare indizi preziosi in linea con quanto già anticipato nell’episodio di Bonagiunta analizzato in precedenza. Non si può non iniziare dalla « dichiarazione seria e tremendamente impegnativa »95 che Dante pronuncia quando sente il nome di Guido Guinizzelli: « il padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre » (Purg., xxvi 97-99).96 È un vero e proprio altorilievo, modellato dal forte enjambement. Le rime d’amore dolci e leggiadre rimandano inequivocabilmente alle parole di Bonagiunta e anche in questa soluzione è sedimentata la densità semantica che il Dante maturo conferisce a quegli aggettivi, ma su tale aspetto si dovrà necessariamente ritornare nei prossimi capitoli. Il plurale usato da Bonagiunta – le « vostre penne » – risulta confermato, anche se qui nella variante ‘io e quelli della mia parte’. Ancora una volta Dante non fa i nomi, ma per deduzione possiamo tentare di liberare qualcuno dall’anonimato. Chi per primo ha intuito le potenzialità e i fermenti di novità della poesia di Guinizzelli è stato Guido Cavalcanti,97 colui che 94. L’identificazione di questa « donna » è tuttavia dubbia, dal momento che alcuni hanno pensato a Maria, altri a Beatrice. Preferisco identificarla con Beatrice. vd. anche R. Antonelli, Il destino del personaggio-poeta. Lettura del canto xxvi del ‘Purgatorio’, in RSD, a. xii 2012, pp. 361-87, alle pp. 370-71. 95. Gorni, Il nodo della lingua, cit., p. 24. 96. Antonelli, Il destino, cit., pp. 377-78: « Il verso non va dunque letto in ordo naturalis ma, conformemente del resto allo stile di tutto il canto, in ordo artificialis: meglior non va coordinato con l’immediato antecedente miei, ma, in iperbato, una figura retorica che crea sempre qualche difficoltà ai commentatori, ma ben rappresentata nello stile alto, specie lirico, Guinizzelli compreso. Sarà da leggere ‘il padre migliore di me e dei miei’, con miei da intendere ‘quelli della mia parte, del mio gruppo’, come in altri luoghi della Commedia (e come tuoi e suoi), proprio in abbinamento con mio, e come in antico-italiano, a norma di Renzi (ma già in Fornaciari) ». 97. Ormai non ci dovrebbero essere piú dubbi sulla responsabilità cavalcantiana della prima scoperta di Guinizzelli nell’ambiente fiorentino: cfr. E.G. Parodi, Il « dolce stil nuovo » [1906], in Id., Poesia e storia nella ‘Divina Commedia’, a cura di G. Folena e P.v. Mengaldo, vicenza, Neri Pozza, 1965, pp. 135-46; M. Picone, I due Guidi: una tenzone virtuale, in Guido Cavalcanti laico e le origini della poesia europea, nel 7° centenario della morte. Poesia, filosofia, scienza e ricezione. Atti del Convegno internazionale di Barcellona, 16-20 ottobre 2001, a cura di R.

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ha affondato piú decisamente il colpo contro l’imperante Guittone – non è forse suo l’attacco piú violento e piú sprezzante contro l’aretino (Da piú a uno face un sollegismo: cfr. Cavalcanti xlvii)? –, che ha promosso la novità di una poesia di ricerca interiore raffinatamente espressa, che ha enfatizzato la potenza dell’essere femminile e dei suoi sconvolgenti esiti sul soggetto, e che ha rinnovato la tradizione poetica con uno sguardo privilegiato rivolto ai grandi predecessori occitanici. Su questa via mosse i primi passi Dante, e con lui altri “minori”, almeno Lapo e Gianni Alfani, affascinati dalla potente personalità di Cavalcanti; e su questa via si incamminò anche Cino da Pistoia, l’unico non fiorentino, al quale l’Alighieri riconobbe il privilegio di poetare « dolcius subtiliusque », ‘con piú squisita acutezza’ (D.v.e., i 10 2). Per alcuni di loro la residenza bolognese è stata decisiva, e grazie a loro Guinizzelli varcò l’Appennino, con buona pace di Bonagiunta e del suo «quine», da cui si irradia una luce sempre piú fioca. Nel firmamento della poesia di fine ’200 e di inizio ’300 l’« alta spera », sorta a Bologna, brilla a Firenze. La dichiarazione che abbiamo esaminato è narrativizzata e potenziata dalla lunga e silenziosa contemplazione del « padre ».98 A questa riverente gestualità reagisce Guido, mosso dalla curiosità (Purg., xxvi 106-11): Ed elli a me: « Tu lasci tal vestigio, per quel ch’i’ odo, in me, e tanto chiaro, che Letè nol può tòrre né far bigio. Ma se le tue parole or ver giuraro, dimmi che è cagion per che dimostri nel dire e nel guardar d’avermi caro ».

Dante pronuncia un’impegnativa lode (Purg., xxvi 112-14): E io a lui: « Li dolci detti vostri, che, quanto durerà l’uso moderno, faranno cari ancora i loro incostri » Arqués, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004, pp. 9-26; L. Leonardi, Guinizzelli e Cavalcanti, in Da Guido Guinizzelli a Dante, cit., pp. 207-26; R. Rea, La lezione di Guinizzelli, in Id., Cavalcanti poeta. Uno studio sul lessico lirico, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2008, pp. 111-37. 98. Roncaglia, Il canto xxvi, cit., p. 17: l’appellativo “padre” « è tenuto fuori dal discorso diretto, dunque in un ambito di risonanza tutta interiore ».

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la cui risonanza si riconosce se messa in rapporto alla non troppo dissimile lode rivolta al « padre » virgilio, all’inizio del viaggio (Inf., ii 58-60): O anima cortese mantoana, di cui la fama ancor nel mondo dura, e durerà quanto ’l mondo lontana.

Alla lode di Dante, Guido umilmente si schermisce e da anima espiante addita il « miglior fabbro » Arnaut,99 ma non si esime dal pronunciare un giudizio letterario, che – l’abbiamo già detto – gli spetta di diritto, sebbene sia perfettamente consonante con l’opinione di Dante-personaggio il quale, infatti, lo ascolta in silenzio e senza bisogno di replicare di là dal fuoco (Purg., xxvi 121-26): A voce piú ch’al ver drizzan li volti, e cosí ferman sua oppinïone prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti. Cosí fer molti antichi di Guittone, di grido in grido pur lui dando pregio, fin che l’ha vinto il ver con piú persone.

Dice dunque Guinizzelli: gli stolti (Purg., xxvi 119: « e lascia dir li stolti ») si volgono all’effimera fama corrente piú che alla verità, e cosí stabiliscono la loro opinione già prima di aver considerato l’autentico valore artistico o un ragionevole criterio di giudizio. Allo stesso modo si comportarono molte persone della generazione precedente riguardo a Guittone d’Arezzo, continuando a esprimere nei suoi confronti una lode che pedissequamente si trasmetteva di bocca in bocca, finché l’ha vinto la verità grazie all’opera di poeti superiori.100 Ancora un plurale – « piú persone » –101 a ulteriore conferma delle « vo99. Antonelli, Il destino, cit., p. 379: « Guinizzelli riprende palesemente la dichiarazione pensata da Dante personaggio e scritta da Dante autore ai vv. 97-99, dichiarando che non è lui il “migliore” ma un altro, quello che egli indica col dito: per confermare l’assunto riprende di nuovo un rimante del canto xi, grido, al v. 126 (di grido in grido), per opporre la verità all’opinione degli stolti, che ben presto saranno indicati per nome ». 100. A proposito di Purg., xxvi 126, scrive Giunta, La poesia, p. 28: « Sorprende che nella lunga discussione sullo stilnuovo a questo verso sia stato dato cosí scarso rilievo ». 101. La parafrasi « persone », ‘poeti’, non è univocamente accettata. Alcuni, come per es.

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stre penne » di Bonagiunta. Guinizzelli non fa i nomi di questi poeti che hanno seppellito l’effimera fama guittoniana, ma tutto lascia intendere che siano i poeti nuovi, Dante e « i suoi miglior », coloro, insomma, che sono completamente sciolti dal nodo. Quell’endecasillabo, pesante come un macigno, che chiude la requisitoria di Guido è letteralmente prelevato dal sonetto con cui anni prima il vero Guinizzelli rispose a Bonagiunta Orbicciani: « infin a tanto che ’l ver l’asigura » (cfr. Bonagiunta, son. 20a 4), e ciò avvalora ulteriormente la tesi che un unico e coeso discorso incolli tenacemente i canti xxiv e xxvi del Purgatorio. Il Guinizzelli personaggio della Commedia non è, allora, per nulla un pallido portavoce di idee altrui,102 ma è costruito, in pieno rispetto del criterio di verosimiglianza, secondo il suo reale punto di vista cosí come affiorava dai suoi testi.103 3. Critica e storiografia letteraria nel De vulgari eloquentia Se consideriamo il piano dell’agens, la dimensione purgatoriale non può che conferire un eccezionale valore aggiunto ai giudizi critici e alle considerazioni di storiografia letteraria pronunciati sulle ultime balze della montagna.104 In ogni caso, se passiamo al piano dell’auctor, che è quello che Marti, Il xxvi del ‘Purgatorio’, cit., p. 91, ritengono che queste « piú persone » rappresentino l’opinio communis moderna antiguittoniana, la quale s’è sostituita a quella filoguittoniana dei « molti antichi ». 102. Ivi, p. 86: « la sovrapposizione di Dante sulla figura del Guinizzelli in questi versi è piena e totale ». 103. Borsa, La nuova poesia, cit., p. 196: « È probabile che anche l’estrema sistemazione critica di Dante, affidata nel Purgatorio ai cosiddetti canti dei poeti, sia realizzata in larga misura a partire da un punto di vista guinizelliano ». 104. In una tenzone di sei sonetti che secondo alcuni – ma poco persuasivamente – coinvolse Cino (cfr. L.C. Rossi, Una ricomposta tenzone (autentica?) fra Cino da Pistoia e Bosone da Gubbio, in « Italia medioevale e umanistica », a. xxxi 1988, pp. 45-79), l’autore di Infra gli altri diffetti del libello ritiene grave e rilevante, tra gli altri difetti della Commedia, l’assenza del poeta bolognese Onesto (Cino, d. xxiia, 5-8: « L’un è che ragionando con Sordello / e con molti altri de la dritta lima, / non fece motto a Onesto di ben cima, / ch’era presso ad Arnaldo Danïello »), dimostrando inequivocabilmente un’interpretazione in chiave letteraria degli episodi purgatoriali: piú che luoghi di espiazione sono considerati circoli di eccellenza poetica. E cfr. Giunta, La poesia, pp. 54-55.

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qui piú interessa, la fortuna del poema li ha resi sentenze esecutive difficilmente appellabili. Forse non è azzardato sostenere che a tanto non poteva ambire un trattato di linguistica e di critica letteraria scritto in prosa e in lingua latina, nemmeno se fosse stato portato a termine. Che Dante ne avesse o no consapevolezza, resta il dato, incontrovertibile, che il De vulgari eloquentia è rimasto incompiuto e che la sua tarda fortuna è ancillare rispetto alla Commedia. Come è noto, il trattato « de vulgaris eloquentiae doctrina » tràdito dai codici si interrompe bruscamente nel mezzo del xiv capitolo del secondo libro.105 A giudicare dalle intenzioni programmatiche e dagli accenni strutturali qua e là disseminati, il non scritto è quantitativamente e qualitativamente rilevante. In conclusione del primo libro si dice, infatti, che la trattazione avrebbe compreso anche i volgari inferiori fino a quello di una sola famiglia: Et quia intentio nostra, ut polliciti sumus in principio huius operis, est doctrinam de vulgari eloquentia tradere, ab ipso tanquam ab excellentissimo incipientes, quos putamus ipso dignos uti, et propter quid, et quomodo, nec non ubi, et quando, et ad quos ipsum dirigendum sit, in inmediatis libris tractabimus. Quibus illuminatis, inferiora vulgaria illuminare curabimus, gradatim descendentes ad illud quod unius solius familie proprium est (D.v.e., i 19 2-3).106

Inoltre, da altre tre intenzioni programmatiche si viene a sapere che i libri dovevano essere almeno quattro e che nel quarto si sarebbero affrontati il volgare mediocre e umile, e i generi metrici a esso consoni, la canzonetta, la ballata e il sonetto: 105. Secondo Tavoni, p. 1116, la brusca interruzione potrebbe essere stata determinata da un evento drammatico, connesso al rovesciamento del regime bianco bolognese nel febbraio 1306. Dante, che a Bologna aveva trovato rifugio, fu costretto alla fuga. Nella nuova situazione quel trattato, scritto a Bologna e per Bologna, divenne sostanzialmente inservibile, e venne lasciato incompiuto. Contro questa tesi vd. però gli argomenti di Enrico Fenzi, in D.v.e., pp. xxiii-xxiv. 106. ‘Poiché il mio scopo, come ho promesso al principio di quest’opera, è quello di insegnare l’arte dell’eloquenza volgare, comincerò da questo volgare, che è il migliore di tutti, e nei libri che immediatamente seguono dirò chi io credo sia degno di usarlo e per quali argomenti, e come e dove e quando, e a chi debba rivolgersi. Chiarito tutto ciò, mi preoccuperò di illustrare i volgari inferiori, scendendo per gradi sino a quello che è proprio di una sola famiglia’.

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il dolce stil novo […] modum ballatarum et sonituum ommictentes, quia illum elucidare intendimus in quarto huius operis, cum de mediocri vulgari tractabimus (D.v.e., ii 4 1).107 Si tragice canenda videntur, tunc assumendum est vulgare illustre, et per consequens cantionem ligare. Si vero comice, tunc quandoque mediocre quandoque humile vulgare sumatur: et huius discretionem in quarto huius reservamus ostendere. Si autem elegiace, solum humile oportet nos sumere (D.v.e., ii 4 6).108 Quod autem dicimus “tragica coniugatio” est quia, cum comice fiat hec coniugatio, cantilenam vocamus per diminutionem: de qua in quarto huius tractare intendimus (D.v.e., ii 8 8).109

È ipotesi ragionevole di Francesco D’Ovidio e di Pio Rajna che il terzo libro, mai nominato, avrebbe dovuto contenere la trattazione della prosa illustre:110 il proposito di parlarne è ricavabile da D.v.e., ii 1 1, dove Dante afferma che il volgare illustre può legittimamente essere usato sia in prosa che in versi; ed è stata notata una certa trasfusione di moduli ed esperienze tra prosa e poesia che circola per tutto il trattato (Mengaldo, p. xxi). L’interruzione del progetto, dunque, ha lasciato per sempre inappagata la curiosità di conoscere, nella struttura definitiva del De vulgari eloquentia, la valutazione globale della novità dell’esperienza stilnovistica in cui risultano rilevanti metri come la ballata e il sonetto, e in particolare della Vita nuova, che non solo presenta il binomio prosa-poesia, ma che anche intreccia e mescola i generi metrici: tuttavia, che quest’ultima opera sia ben presente al Dante teorico è innegabile, visto che nella parte composta

107. ‘[…] trascurando per ora le forme della ballata e del sonetto, che intendo illustrare nel quarto libro di quest’opera, là dove tratterò del volgare mediocre’. 108. ‘Se ciò che si deve cantare richiede lo stile tragico, allora occorre assumere il volgare illustre e di conseguenza comporre una canzone. Se lo stile è comico, si assuma allora il volgare mediocre e talvolta l’umile (quanto ai criteri di scelta, ne riservo la trattazione al quarto libro). Se invece è elegiaco, saremo obbligati ad assumere solo il volgare umile’. 109. ‘Se parlo di “composizione in stile tragico”, è perché questa composizione, quando è realizzata in stile comico, la chiamiamo con il diminutivo di ‘canzonetta’: di essa ho intenzione di trattare nel quarto libro di quest’opera’. 110. vd. D.v.e., p. 135 (con bibliografia pregressa). Secondo un’ipotesi ricostruttiva di Tavoni, p. 1363, il De vulgari eloquentia avrebbe potuto avere anche un quinto libro dedicato alla prosa.

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del trattato sono citate, anche piú di una volta, due delle tre canzoni del libello. Ciò nonostante, quello che rimane del De vulgari eloquentia – che comunque non è poco – credo sia sufficiente a svelare il sistema assiologico di riferimento, il progetto culturale ideato da Dante, e, conseguentemente, il profilo della lirica italiana laica delle Origini (nel D.v.e., cosí come nei tre grandi canzonieri duecenteschi P, L e v, non c’è traccia della poesia religiosa duecentesca, capitolo tutt’altro che trascurabile della letteratura italiana delle Origini) secondo la ricostruzione storiografica dell’autore.111 Del resto, il genere metrico della canzone – cui è dedicato il secondo libro – è senza dubbio quello privilegiato, quello attorno al quale sono imperniati i libri di poesia del tempo, i tre grandi canzonieri duecenteschi (v, L e P). In questi la canzone non solo occupa sempre i primi fascicoli, ma essa è anche il segno distintivo che rivela la strategia libraria e il disegno critico e storiografico implicito nella selezione, nell’ordinamento e nella mise en page delle intere raccolte.112 Dante stesso ne è perfettamente consapevole, quando dichiara a D.v.e., ii 3 7: Preterea: que nobilissima sunt carissime conservantur; sed inter ea que cantata sunt, cantiones carissime conservantur, ut constat visitantibus libros: ergo cantiones nobilissime sunt, et per consequens modus earum nobilissimus est.113

L’Alighieri era certamente tra coloro che frequentavano assiduamente i libri di poesia (« visitantibus libros »), ma quali? Scambi di testi erano consueti e ne è prova lampante la caratterizzante cifra dialogica e di corrispon111. Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di P.v. Mengaldo, in Id., Opere minori, a cura di P.v. Mengaldo et alii, to. ii, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979, Introduzione, p. 15: « nel De vulgari costituzione di un canone, ricostruzione storiografica e atteggiamento critico “militante” si implicano a vicenda ». 112. R. Antonelli, Struttura materiale e disegno storiografico del Canzoniere Vaticano, in I canzonieri della lirica italiana delle origini. Studi critici, a cura di L. Leonardi, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2007, pp. 3-23, a p. 16: « non è probabilmente un caso se in tutti e tre i grandi libriantologia toscani duecenteschi la sezione dei sonetti è sempre quella meno coerente ». 113. ‘Ancora, le cose piú nobili sono quelle che vengono conservate con maggior cura; di tutto ciò che viene cantato in poesia, sono proprio le canzoni ad essere accuratamente conservate, come sanno quelli che hanno dimestichezza con i libri, e perciò le canzoni sono piú nobili e di conseguenza il loro metro è il piú nobile di tutti’.

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denza della poesia duecentesca, come ha persuasivamente dimostrato il libro di Giunta, Versi; proseguendo sulla strada aperta dalle tenzoni, doveva essere normale tra i poeti lo scambio di raccolte occasionali, se non dei rispettivi canzonieri (vd. Giunta, La poesia, p. 39): su questi scambi, del resto, si costruivano le aree di influenza e le zone d’ombra. Tuttavia, un progetto storiografico e critico come quello dantesco, per giunta non asettico, anzi, permeato dagli umori del critico militante, doveva necessariamente presupporre una tipologia libraria piú ampia, strutturata e complessa, analoga a quella delle antologie canonizzanti v, L e P. Questi preziosi canzonieri sono oggi i relitti scampati all’inevitabile naufragio che travolse le testimonianze manoscritte (impossibile stabilire quante) della lirica duecentesca,114 ma certamente non furono unici.115 Di essi, il codice piú antico P116 – copiato a Pistoia o piú verosimilmente confezionato a Firenze da un copista pistoiese intorno alla metà degli anni Ottanta del ’200 –117 presenta un ordinamento tripartito (canzoni, ballate e sonetti) che rimanda a D.v.e., ii 3 5, un passo adiacente a quello che 114. A. Petrucci, Il libro manoscritto, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, vol. ii. Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 1983, pp. 499-524, a p. 509: « la “canonizzazione libraria” della poesia volgare avrà dovuto contare a lungo su sillogi manoscritte vicine, per la qualità materiale, piuttosto al ‘mercantesco’ canzoniere vaticano che ai due “libri cortesi di lettura” L e P: quindi di consumo piú immediato, di piú facile deperibilità ». 115. Lo dimostra il frammento Magl. II III 492 – scoperto da Enrico Rostagno nel 1895, e conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze – che nei pochi fogli superstiti dimostra di essere copia di v (Antonelli, Struttura materiale, cit., p. 22). E cfr. anche il Riccardiano 2533, latore di testi guittoniani, la cui datazione, sulla base di recenti valutazioni paleografiche, andrebbe decisamente anticipata alla fine del ’200 (Il canzoniere Riccardiano di Guittone. Biblioteca Riccardiana, Ricc. 2533, a cura di L. Leonardi, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2010). 116. Non solo P è il codice piú antico, ma tra i tre canzonieri della lirica delle Origini è anche quello di concezione piú arcaica. Cfr. M.L. Meneghetti, Il corredo decorativo del canzoniere Palatino, in I canzonieri della lirica italiana, cit., pp. 393-415, a p. 413. 117. G. Savino, Il canzoniere Palatino: una raccolta ‘disordinata’?, in I canzonieri della lirica italiana, cit., pp. 301-15, a p. 301; ma cfr., nello stesso volume, la conclusione piú prudente, alla luce del suo studio codicologico e paleografico, di T. De Robertis, Descrizione e storia del canzoniere Palatino, pp. 316-50, a p. 338: « La datazione alla fine del Duecento rimane ancora, con quel tanto di indeterminato e di insoddisfacente, la piú corretta ». Sulla localizzazione Savino propende per Pistoia (cfr. ivi, pp. 313-14); Meneghetti, Il corredo decorativo, cit., pp. 412-13, ritiene piú economica l’ipotesi di un prodotto fiorentino, seppure « liminare ».

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abbiamo letto poco fa.118 Ci sono poi altri particolari, come l’esclusiva inclusione in P (e non in L e v) della canzone Ancor che l’aigua di Guido delle Colonne e una lezione di un incipit di Rinaldo d’Aquino che sembrerebbero avvicinarlo ulteriormente al De vulgari eloquentia, come ha sostenuto Claudio Giunta.119 Osta a questa ipotesi la fisionomia storico-culturale del Palatino ed, eventualmente, del suo immediato antecedente. Ammessa la tripartizione per generi metrici, l’ordinamento monotematico nel quale emerge il primato guittoniano,120 le cui canzoni contornano una sequenza di componimenti scandita per la maggior parte dall’ordine alfabetico, è non solo lontano dalle valutazioni dantesche – argomento, come vedremo tra poco, di minor rilevanza –, ma è soprattutto poco congruente, in positivo e in negativo, con il progetto del trattato di Dante. Ancora piú distante, sia per concezione sia per tipologia libraria, è il canzoniere Laurenziano, approntato in ambiente pisano tra il 1294 e i primissimi anni del nuovo secolo:121 esso risulta, infatti, una raccolta d’auto118. D.v.e., ii 3 5: « ergo cantiones nobiliores ballatis esse sequitur extimandas, et per consequens nobilissimum aliorum esse modum illarum, cum nemo dubitet quin ballate sonitus nobilitate modi excellant » (‘ne consegue perciò che le canzoni devono essere considerate piú nobili delle ballate e che la loro forma è piú nobile di ogni altra, dal momento che nessuno può dubitare che le ballate siano superiori ai sonetti quanto a nobiltà di metro’). 119. La canzone di Guido delle Colonne citata a D.v.e., i 12 2 e ii 6 6, è presente in P (n. 104) e assente in v (probabilmente andò perduta perché era alla fine dell’antigrafo). Per quanto riguarda l’incipit di Rinaldo d’Aquino, Dante scrive Per fino amore vo sí letamente (D.v.e., i 12 8 e ii 5 4); nei mss. abbiamo: P048 = Per fino amore vao sí allegramente; v030: Per fin amore vò sí altamente. Cfr. Giunta, La poesia, pp. 37-39; ma si vedano i contro rilievi di Antonelli, Struttura materiale, cit., pp. 6-7. 120. Savino, Il canzoniere Palatino, cit., p. 306: « I tre settori dell’antologia concorrono ad un’unità organica […] ma è nel settore privilegiato delle canzoni che si avvera l’intenzione primaria del progetto, cioè l’offerta, nella forma lirica piú eminente, di un breviario laico da recitare per devozione e in lode d’Amore, organizzato giustapponendo una selezione non neutrale dei migliori prodotti disponibili sul mercato della poesia e associandovi in parallelo la realizzazione di un conveniente programma iconografico ». 121. Si rimanda a S. Zamponi, Il canzoniere Laurenziano: il codice, le mani, i tempi di confezione, in I canzonieri della lirica italiana, cit., pp. 215-45, il quale riconosce per L « condizioni di lavoro congruenti con la metafora dello scrittoio » che « esige una comunità di scriventi vicini a Guittone » (p. 243), localizzabile in ambiente pisano. Per quanto riguarda la datazione « il limite cronologico piú alto si assesta a cavallo degli anni in cui Guittone morí (1294),

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re122 allestita nel piú stretto entourage guittoniano, finalizzata a un’altisonante celebrazione del poeta aretino. Nel manoscritto, infatti, non solo la presenza di Guittone è largamente maggioritaria (232 testi lirici su 434), ma attorno a lui si costruiscono anche le due sezioni antologiche di canzoni e sonetti, secondo « un percorso orientato attraverso la tradizione lirica precedente e coeva, includendovi in particolare una scelta della piú fedele sequela guittoniana, e privilegiando decisamente la produzione autoctona pisana ».123 Indubbiamente piú prossimo a Dante è il grande canzoniere vaticano, che con i suoi circa mille componimenti è la piú vasta antologia della lirica italiana delle Origini. La sezione principale, quella della mano i e dei suoi diretti collaboratori e addizionatori, è decisamente fiorentina e databile a un’epoca che si colloca tra l’ultimo decennio del ’200 e i primi anni del ’300. L’ordinatore principale della silloge vaticana (la mano i) segue un rigoroso ordinamento storico-geografico « comprensivo anche di elementi critico-valutativi »,124 che traccia un ampio, articolato e coerente disegno della poesia italiana dalle sue origini siciliane alle piú recenti novità. Per la ricchezza di documentazione e per la caratterizzante linea storiografica, l’antologia vaticana intende rappresentare, dunque, la tradizione sia dal punto di vista materiale sia dal punto di vista formale, come rivela in particolare la normalizzazione toscana o fiorentina dei poeti siciliani. Non stupisce, allora, se esso, o meglio un suo antecedente, sia stato considerato il manoscritto di riferimento di Dante.125 Ora, però, il progetto culturale del vaticano risulta quanto mai antitetico rispetto al pensiero dantesco, e non c’è dubbio che questo codice rapla data piú tarda si affaccia senza problema alcuno, almeno per il versante paleografico, agli anni iniziali del nuovo secolo » (p. 244). 122. Per il significato di questa espressione si rimanda a Leonardi, Il canzoniere Laurenziano, cit., pp. 155-60. 123. Sull’influenza di Guittone in ambiente pisano e sul cosiddetto “triangolo guittoniano” Arezzo-Firenze-Pisa, cfr. F. Mazzoni, Tematiche politiche fra Guittone e Dante, in Guittone d’Arezzo nel settimo centenario della morte, cit., pp. 351-83, citaz. a p. 196. 124. Antonelli, Struttura materiale, cit., p. 10. 125. Ivi, p. 6: « Dante, nel De vulgari eloquentia, fa notoriamente ricorso, almeno per la Scuola siciliana e per la tradizione storico-culturale prestilnovistica, proprio ad un affine del nostro manoscritto », con la precisazione che « per “affine” occorre intendere, con ogni probabilità, un manoscritto non gemello del vaticano ma antecedente ».

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presenti per l’Alighieri un rivale ben piú pericoloso rispetto ai monotematici e monografici P ed L, ammesso e non concesso che egli li abbia compulsati. L’ordinatore dell’antologia vaticana si arroga, infatti, il diritto di costruire la tradizione offrendo un canone chiaramente orientato. Basta sfogliare l’indice degli autori e dei componimenti di v per accorgersi che Guittone ha una posizione di rilievo nella silloge: a lui, infatti, sono riservati due interi fascicoli nella sezione delle canzoni (vii e viii), e a lui è concesso ampio spazio nel fascicolo xix, che, infatti, riporta ottanta sonetti dell’aretino. Se Guittone è il vertice prefiorentino per quantità di reperti, Chiaro Davanzati e Monte Andrea « sono il fine ultimo cui tende l’intera antologia »:126 insomma, dei due filoguittoniani fiorentini è antologizzata quasi l’intera produzione. Prescindendo dal numero delle inclusioni, il dato assiologico è evidente: secondo il compilatore della silloge vaticana la scuola guittoniana rappresenta il vertice della lirica italiana di un intero secolo, ed essa è il naturale e miglior frutto di un’esperienza poetica che era sbocciata in Sicilia sul tronco florido della tradizione trobadorica: in questa direzione piú che eloquente, infatti, è la canzone di apertura dell’intera antologia, la lentiniana Madonna, dir vo voglio, che riprende una canzone di Folchetto di Marsiglia (A vos, midontç, voill retrair’ en cantan). Invece, la nuova poesia stilnovistica è completamente assente. E l’inclusione, adespota,127 di Donne ch’avete intelletto d’amore (v306),128 copiata dalla terza mano di v, non può che essere l’eccezione che conferma la regola: è uno schiaffo in faccia all’autore, visto quanto è detto di lei in V.n., xx 1 (« questa canzone fue alquanto divolgata tra le genti ») e soprattutto considerata la posizione di rilievo che Dante le aveva riservato nel libello. Un denso silenzio avvolge, poi, gli altri poeti della nuova stagione: Guido Cavalcanti e Cino da Pistoia, per non parlare di altri minori come Lapo 126. Ivi, p. 13. 127. La rubrica « dante » scritta sul margine superiore della c. 99v è un’aggiunta successiva della dodicesima mano (v12): cfr. A. Petrucci, Le mani e le scritture del canzoniere Vaticano, in I canzonieri della lirica italiana, cit., pp. 25-41, a p. 36. 128. Di questa canzone, scrive D. De Robertis nella sua Introduzione alle Rime di Dante, p. 1202: « non si dà tradizione estravagante, nel senso che lo stesso testo riprodotto in v1, anteriore alla compilazione del libro, non presenta varianti che possano definirsi di tipo redazionale ».

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Gianni, Gianni Alfani e Dino Frescobaldi. È presente – e in posizione di spicco, dato che con le sue canzoni inizia il fascicolo vi –, Guido Guinizzelli, ma colui che per Dante assurgerà al ruolo di « padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre » (Purg., xxvi 97-99) viene assorbito nell’ideologia di fondo e certamente non letto come eversore ma come continuatore dell’eredità siciliana in sintonia con la predominante ortodossia guittoniana: in questo senso può spiegarsi, allora, l’assenza in v della tenzone Guittone-Guinizzelli, tràdita invece da L, che forse non aveva riconosciuto la sottile implicita polemica del sonetto di Guido, e lo aveva letto – allo stesso modo di tanti altri interpreti successivi – come deferente omaggio al caposcuola aretino. I tempi e il luogo di confezione del canzoniere vaticano coincidono perfettamente con il cronotopo della poesia stilnovistica. Come si è detto, Dante si era inizialmente sottratto alle vivaci polemiche intorno alla vecchia e nuova maniera di poetare, e non era sceso in campo nemmeno a difendere la Vita nuova, tanto che in sua vece intervenne Cino, ma ora, agli inizi del nuovo secolo – sollecitato anche dalla bruciante esperienza biografica dell’esilio che gli imponeva di ridefinire il proprio ruolo nella società e il proprio paradigma intellettuale,129 e con sullo sfondo un orizzonte piú ampio del municipio fiorentino in cui promuovere l’esperienza lirica sua e di chi aveva attuato insieme a lui la svolta alla poesia del tempo – il suo impegno attivo e la sua partecipazione agonistica non potevano essere piú differiti.130 In questo senso il De vulgari eloquentia è un’opera di promozione e di politica culturale antitetica rispetto alla silloge vaticana, o comunque ai suoi affini, oggi perduti o sopravvissuti in forma particellare, come il ricordato Magl. II III 492. I dati sono gli stessi, ma l’ideologia di fondo e la linea storiografica sono ribaltate: quello che per v è il « centro e il culmine della raccolta (Guitto129. In proposito ha scritto pagine persuasive U. Carpi, Un incontro con Guittone, in Id., La nobiltà di Dante, Firenze, Polistampa, 2004, pp. 580-622. Già nei primissimi mesi dell’esilio Dante entrò in contatto presso i suoi ospiti – i conti Guidi di San Godenzo e quelli di Romena – con un ambiente di radicata tradizione guittoniana. 130. Del resto, se, giusta la tesi di Tavoni, il D.v.e. è scritto a Bologna e per Bologna, occorre ammettere che all’inizio del ’300 l’ambiente letterario felsineo, nonostante Guinizzelli, è ancora zona di egemonia guittoniana, piuttosto refrattario alle novità stilnovistiche, come dimostra la tenzone tra Onesto e Cino.

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ne e i grandi fiorentini, Chiaro e Monte, la cultura toscana prestilnovistica), per Dante è un momento di crisi e di decadenza (“municipale”) rispetto alla curia Ytalorum, i cui valori sono evidentemente ripresi soltanto da una linea che culmina proprio negli Stilnovisti, Cino e Dante in particolare ».131 E infatti, nel De vulgari eloquentia sui protagonisti di v scende uno sprezzante silenzio o una critica corrosiva. La damnatio memoriae di Chiaro e di Monte è totale: nel trattato essi non sono mai nominati, nessun loro testo è citato. Il bando coinvolge pure la poesia di Guittone, anche se il nome dell’aretino è ricordato due volte, ma in due dure condanne tra l’altro enfatizzate dalla strategica posizione in rilievo, la prima all’inizio e la seconda alla fine di due capitoli decisivi, in quanto elencano – come vedremo meglio piú avanti – i toscani che si sono distinti nell’eccellenza del volgare (D.v.e., i 13) e le teste di serie della migliore tradizione poetica romanza (D.v.e., ii 6): Post hec veniamus ad Tuscos, qui propter amentiam suam infroniti titulum sibi vulgaris illustris arrogare videntur. Et in hoc non solum plebeia dementat intentio, sed famosos quamplures viros hoc tenuisse comperimus: puta Guittonem Aretinum, qui nunquam se ad curiale vulgare direxit, Bonagiuntam Lucensem, Gallum Pisanum, Minum Mocatum Senensem, Brunectum Florentinum: quorum dicta, si rimari vacaverit, non curialia sed municipalia tantum invenientur (D.v.e., i 13 1).132 Subsistant igitur ignorantie sectatores Guictonem Aretinum et quosdam alios extollentes, nunquam in vocabulis atque constructione plebescere desuetos (D. v.e., ii 6 8).133

131. Antonelli, Struttura materiale, cit., p. 19. 132. ‘Dopo di che veniamo ai Toscani che, rimbecilliti dalla loro mancanza di cervello, pretendono per sé il titolo del volgare illustre. In ciò non è solo la plebaglia ad avanzare sciocche pretese: si sa bene, infatti che vari personaggi famosi hanno avuto la stessa opinione, come per esempio Guittone d’Arezzo, che peraltro non si è mai proposto come obiettivo il volgare curiale, Bonagiunta da Lucca, Gallo Pisano, Mino Mocato da Siena, Brunetto da Firenze, le poesie dei quali, se ci fosse il tempo di analizzarle per bene, si rivelerebbero non già di livello curiale ma soltanto municipali’. 133. ‘Smettano dunque i seguaci dell’ignoranza di esaltare Guittone d’Arezzo e altri come lui, che nel lessico e nella costruzione non si sono mai liberati di quello che avevano di plebeo’.

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Subsistant igitur ignorantie sectatores: è uno pseudoanonimato. Se il De vulgari eloquentia fosse stato pubblicato, i lettori non avrebbero avuto difficoltà a identificare gli « ignorantie sectatores » con chi tra fine ’200 e inizio ’300 continuava a seguire pedissequamente o stimare esclusivamente il verbo guittoniano senza accorgersi della novità stilnovistica. E l’attacco contro di loro non si esaurisce nel trattato, ma mantiene intatto il suo impeto nel tempo, se – come abbiamo visto – anche in Purg., xxvi 124-26, sono severamente sanzionati gli « stolti » che hanno lodato Guittone, finché non sono stati travolti dalla verità grazie all’opera dei nuovi poeti. I due brani del De vulgari eloquentia citati poco fa potrebbero far pensare esclusivamente agli aspetti formali della poesia di Guittone e dei suoi seguaci: il difetto linguistico di non aver saputo raggiungere il livello curiale della lingua poetica, e il limite stilistico del lessico e della sintassi. Ma l’offensiva non è ristretta a queste due sole stroncature; anzi, è possibile ricostruire un reticolato intertestuale che dimostri il continuo fuoco incrociato cui sono sottoposti i bersagli preferiti dall’Alighieri.134 Tra questi135 merita di essere ricordato questo attacco (D.v.e., ii 4 11): Et ideo confutetur illorum stultitia qui, arte scientiaque immunes, de solo ingenio confidentes, ad summa summe canenda prorumpunt; et a tanta presumptuositate desistant; et si anseres natura vel desidia sunt, nolint astripetam aquilam imitari.136

Stolti e presuntuosi sono i poeti che, sopravvalutando arrogantemente il proprio ingegno e prescindendo da un’opportuna preparazione tecnica e culturale, si precipitano sui sommi temi, i quali vanno cantati in forma 134. Mengaldo, p. ci; Antonelli, Subsistant, cit., pp. 337-49; e Giunta, La poesia, pp. 301-27. 135. D.v.e., ii 1 8: « Et sic non omnibus versificantibus optima loquela conveniet, cum plerique sine scientia et ingenio versificentur, et per consequens nec optimum vulgare » (‘Cosí, non a tutti quelli che fanno versi s’addice la lingua migliore, poiché molti li fanno senza dottrina e ingegno, e dunque ad essi neppure s’addice il volgare migliore’). 136. ‘Sia perciò svergognata la stoltezza di quelli che, privi di tecnica e di cultura e fidando solo nella loro naturale disposizione, si buttano su argomenti sommi, che dovrebbero essere cantati solo in forme sublimi: la smettano dunque d’essere tanto presuntuosi, e se per natura o per loro pigrizia sono oche, non pretendano di imitare l’aquila che s’innalza verso le stelle’.

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somma. Non c’è dubbio che Dante si stia riferendo ai magnalia: salus, amor e virtus, ossia i temi propri della canzone. Questo passaggio – ha visto bene Antonelli – consuona perfettamente con quello letto poco fa (vd. D.v.e., ii 6 8):137 l’ignorantia è un altro nome della stultitia e dell’immunità da arte e scienza; e si noti l’esortativo subsistant che corrisponde a desistant. Un discorso sul rapporto tra ars, scientia e ingenium porterebbe lontano, perché è un tema complesso, tra l’altro ricorrente piú volte in Dante, e non solo nel De vulgari eloquentia;138 basti qui osservare che la critica a Guittone – e dietro di lui a quanti si ostinano a poetare sul suo esempio – non riguarda solo la municipalità linguistica139 e l’inadeguatezza stilistica, ma si estende piú in generale a sanzionare un modus poetandi fondato sull’insipienza, per giunta venata da presunzione e arroganza: secondo Dante, infatti, senza ars e scientia è rischioso e azzardato avventurarsi nei summa summe canenda (‘argomenti sommi, che dovrebbero essere cantati solo in forme sublimi’).140 E l’allusione è meno sfocata di quanto possa sembrare per il suo apparente anonimato, perché in filigrana è possibile riconoscere il sottile riferimento a due passi di Guittone de solo ingenio confidens (‘che si fida solo del suo ingegno’).141 Innanzi tutto l’avvio della canzone La gioia mia, che de tutt’altre è sovra (vv. 1-8), dove l’ingegno del poeta è messo al servizio di un poetare volutamente “chiuso” e selettivo:

137. Cfr. Antonelli, Subsistant, cit., pp. 339-40. 138. Per un primo approccio, si possono leggere le voci dell’ED: arte (a cura di F. Salsano, vol. i pp. 397-99); ingegno (a cura di v. Valente, vol. iii pp. 441-43); scienza (voce non firmata, vol. v pp. 74-77); ma cfr. anche Giunta, La poesia, pp. 303-10. 139. Sulla lingua di Guittone e in particolare sul carattere ibrido della sua morfologia linguistica cfr. G. Frosini, Appunti sulla lingua del canzoniere Laurenziano, in I canzonieri della lirica italiana, cit., pp. 247-97; Ead., Note linguistiche sul manoscritto Riccardiano 2533 di Guittone, in Il canzoniere Riccardiano di Guittone, cit., pp. 59-92. 140. Significativa, e tutt’altro che priva di allusioni polemiche, quest’altra dichiarazione programmatica, proprio in apertura del capitolo quarto del secondo libro (cfr. D.v.e., ii 4 1): « antequam migremus ad alia modum cantionum, quem casu magis quam arte multi usurpare videntur, enucleemus; et qui hucusque casualiter est assumptus, illius artis ergasterium reseremus » (‘prima di passare ad altre questioni esaminerò a fondo la forma della canzone, che molti usano a caso senza seguire regole precise. Di tale forma, sin qui assunta in maniera approssimativa, rivelerò dunque la tecnica costruttiva’). 141. Lo ha riconosciuto Giunta, La poesia, pp. 309-10.

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il dolce stil novo La gioia mia, che de tutt’altre è sovra, en sua lauda vol ch’eo trovi, no ’n sovro de suo piacer; ma fallo ad essa, s’ovro la canzon mia, sí ch’a ciascuno s’ovra. Già di ragion però non credo s’ovri, per che l’engegno m’è ’n piacere s’ovri en sottil motti e ’n dolzi e alti, sovre de ciò che chereme sua corte s’ovre.

E, poi, anche un passo della canzone Tuttor, s’eo veglio o dormo (vv. 61-66), dove l’oscurità del dettato poetico è giustificata nell’àmbito della ricerca di un pubblico di “intendenti” alla conquista del quale l’aretino impiega tutto il suo ingegno: Scuro saccio che par lo mio detto; ma’ che parlo a chi s’entend’ ed ame; ché lo ’ngegno mio dà me che me pur prove ’n onne manera, e talent’honne.

Tra l’altro, nel primo passo citato, non può sfuggire l’espressione « en sottil motti e ’n dolzi e alti ». Per l’Alighieri dolcezza e sottigliezza sono le divise distintive della nuova poesia, su cui si fonda la lingua piú dolce e piú perfetta. Non deve stupire, allora, se Dante in D.v.e., i 10 2, sottragga quei panni all’indegno Guittone e di essi rivesta se stesso e l’amico Cino: Tertia quoque, ‹que› Latinorum est, se duobus privilegiis actestatur preesse: primo quidem quod qui dulcius subtiliusque poetati vulgariter sunt, hii familiares et domestici sui sunt, puta Cynus Pistoriensis et amicus eius.142

Ma torniamo all’attacco contro Guittone e i suoi seguaci. Nei loro confronti la censura dantesca è netta e inequivocabile, e la condanna è impietosa e sistematica, senza alcuna possibilità di appello, come dimostra quest’altro brano, sotto il cui pseudoanonimato è ormai facile riconoscere dei volti (D.v.e., ii 6 3): 142. ‘Infine la terza lingua, quella degli italiani, basa il proprio primato su due prerogative: la prima, che coloro che hanno poetato in volgare con piú squisita acutezza appartengono alla sua famiglia e sono al suo servizio, come Cino da Pistoia e l’amico suo’.

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ii. la voce di dante Pudeat ergo, pudeat ydiotas tantum audere deinceps ut ad cantiones prorumpant: quos non aliter deridemus quam cecum de coloribus distinguentem.143

I fili si dispongono e la trama svela il disegno. A questo ordito va aggiunto un ultimo filo, che si trova nelle ultime pagine del trattato (D.v.e., ii 13 13): Tria ergo sunt que circa rithimorum positionem potiri dedecet aulice poetantem. Nimia scilicet eiusdem rithimi repercussio, nisi forte novum aliquid atque intentatum artis hoc sibi preroget, ut nascentis militie dies, qui cum nulla prerogativa suam indignatur preferire dietam. Hoc etenim nos facere nisi sumus ibi: Amor, tu vedi ben che questa donna; secundum vero est ipsa inutilis equivocatio, que semper sententie quicquam derogare videtur; et tertium est rithimorum asperitas, nisi forte sit lenitati permixta: nam lenium asperorumque rithimorum mixtura ipsa tragedia nitescit.144

Il passo ha valore precettistico. Nell’àmbito della rima, secondo Dante, vanno evitati l’eccessiva ripetizione di uno stesso suono (se non in contesti eccezionali), il gusto dell’aequivocatio e la trafila seriale delle rime aspre, laddove non sia controbilanciata dall’inserimento di suoni piú dolci. Ancora una volta non è difficile riconoscere la riprovazione del modus poetandi di Guittone e dei suoi seguaci. Gli esempi non mancano. Basta leggere la prima stanza della canzone La gioia mia, che de tutt’altre è sovra, che abbiamo riportato poco fa, per ritrovare, assommati e amplificati, tutti i difetti condannati da Dante: durezza dei suoni aspri senza alcuna distensione, equivocità esasperata, iterazione ossessiva di solo tre rime derivative.145 È 143. ‘Si vergognino dunque, si vergognino gli ignoranti che hanno la sfrontatezza di mettersi continuamente a fare canzoni! Io rido di loro come farei d’un cieco che pretendesse di distinguere i colori’. 144. ‘Tre, dunque, sono le cose relative alla posizione delle rime delle quali è sconveniente che il poeta aulico si serva: la martellante ripetizione della stessa rima, a meno che questo artificio non pretenda d’eccellere in una tecnica nuova e mai prima tentata, cosí come il giorno in cui si diventa cavalieri non lo si può far passare senza qualche singolare prova di eccellenza. E questo io ho tentato di fare in Amor, tu vedi ben che questa donna. La seconda cosa da evitare è l’inutile esercizio dell’equivocazione, che, poco o tanto, sempre toglie chiarezza al pensiero. La terza è l’asprezza delle rime, a meno che non sia mescolata a soavità: è proprio nella mescolanza di rime soavi e aspre, infatti, che lo stile tragico splende’. 145. Cfr. Giunta, La poesia, pp. 312-13.

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un vero e proprio groviglio metrico, che tende a un virtuosismo tanto eccessivo quanto fine a se stesso, con l’obiettivo di ottenere il plauso di pochi e selezionati intendenti, secondo un programma in cui vige l’equivalenza eccesso tecnico = bravura poetica. Tale progetto per Dante è sbagliato e, infatti, la parte precettistica del De vulgari eloquentia che codifica la nuova legislazione metrica e stilistica è sostanzialmente costruita sulla nuova poesia stilnovistica.146 Di Guittone e dei suoi non solo vengono banditi gli estremismi, ma anche la loro ricerca di obscuritas cede il campo a soluzioni piú piane e piú regolari sia sul versante metrico sia sul versante stilistico. Gli eccessi di Guittone, pur lodati dagli « ignorantie sectatores » e dai compilatori engagés delle antologie del tempo, sono, invece, per l’Alighieri un difetto di ipervalutazione del proprio ingegno, non temprato da un’adeguata, e imprescindibile, preparazione tecnica e culturale. Ancora. Nel brano già letto contro i paladini dell’ignoranza (« ignorantie sectatores »), dopo aver elencato esempi di canzoni illustri per il loro eccellente costrutto, Dante scrive (D.v.e., ii 6 7): Nec mireris, lector, de tot reductis autoribus ad memoriam: non enim hanc quam suppremam vocamus constructionem nisi per huiusmodi exempla possumus indicare. Et fortassis utilissimum foret ad illam habituandam regulatos vidisse poetas, virgilium videlicet, Ovidium Metamorfoseos, Statium atque Lucanum, nec non alios qui usi sunt altissimas prosas, ut Titum Livium, Plinium, Frontinum, Paulum Orosium, et multos alios quos amica sollicitudo nos visitare invitat.147

Non è il momento né ha senso dedicarsi ora al gioco delle presenze e delle assenze, come se ciò possa servire a misurare la cultura latina di Dante 146. Cfr. ivi, p. 213. Rispetto a Guittone, la generazione fiorentina súbito successiva, cioè quella di Cavalcanti, Dante e Cino, riporterà le misure metriche dei testi a dimensioni piú contenute. Per quanto riguarda poi il discorso metrico in generale si può condividere la tesi di Giunta secondo cui l’esperienza stilnovista promuove un “richiamo all’ordine”. 147. ‘Non stupirti, lettore, di tanti poeti richiamati alla memoria: questa che ho definito come costruzione suprema non posso mostrarla se non attraverso esempi di tal fatta. E per appropriarsene in modo assolutamente naturale sarebbe utilissimo cominciare a leggere i poeti regolati, cioè virgilio, l’Ovidio delle Metamorfosi, Stazio e Lucano, insieme ad altri che hanno usato una prosa elevatissima, come Tito Livio, Plinio, Frontino, Paolo Orosio e molti altri ancora, che un sollecito e affettuoso interesse ci spinge a frequentare’.

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ai primi anni del ’300;148 quello che è importante rilevare è, invece, questo inserto di letteratura latina, posizionato tra la lista delle teste di serie della poesia romanza e l’attacco finale, e frontale, contro gli « ignorantie sectatores ». Del resto, il riconoscimento del valore paradigmatico del latino era già avvenuto in un punto decisivo del De vulgari eloquentia, là dove l’Alighieri aveva sostenuto la superiorità della lingua del sí sulle sorelle d’oc149 e d’oïl, non solo perché i suoi poeti piú rappresentativi (lui stesso e l’amico Cino) si erano distinti per speciale dolcezza e profondità – e lo abbiamo già visto (vd. D.v.e., i 10 2) –, ma anche perché il volgare italiano mostra di appoggiarsi maggiormente alla grammatica che davvero è comune a tutti (« magis videtur initi gramatice que comunis est »), ovvero di aderire di piú alla forma della lingua latina. Secondo Dante, l’argomento di grandissimo peso che appare chiaro a chi osservi razionalmente è, dunque, il privilegio dei migliori poeti italiani di utilizzare uno strumento linguistico che possiede intrinsecamente piú delle altre lingue romanze l’universalità e la regolarità del latino, dal momento che proprio queste sono le prerogative della « gramatica », come chiarito a D.v.e., i 9 11.150 All’effettiva egemonia del francese e del provenzale, Dante contrappone un « gravissimum argomentum » – un decisivo elemento razionale –, la maggiore potenzialità di sviluppo del volgare italiano. Ora, quanto lo studio dei poeti regolati sia determinante nella formazione delle graduatorie dantesche è difficile stabilirlo, anche perché pro148. A quest’altezza cronologica Livio, Plinio e Frontino sono una rarità, ma Dante può averli letti nella Biblioteca Capitolare di verona; infatti, proprio nella città scaligera l’Alighieri aveva risieduto dalla tarda primavera del 1303 ai primi mesi del 1304: vd. M. Santagata, Dante. Il romanzo della sua vita, Milano, Mondadori, 2012, pp. 158-60. 149. Del resto, il primato poetico della lingua d’oc viene ridotto nel trattato a essere tale solo in senso cronologico. 150. D.v.e., i 9 11: « Hinc moti sunt inventores gramatice facultatis: que quidem gramatica nichil aliud est quam quedam inalterabilis locutionis ydemptitas diversibus temporibus atque locis. Hec cum de comuni consensu multarum gentium fuerit regulata, nulli singulari arbitrio videtur obnoxia, et per consequens nec variabilis esse potest » (‘Gli inventori della grammatica sono partiti proprio da qui: la grammatica, infatti, non è altro che una inalterabile identità di linguaggio attraverso luoghi e tempi diversi. Questa lingua della grammatica ha ricevuto le proprie regole dall’unanime consenso di molte genti, e non è perciò soggetta all’arbitrio del singolo né di conseguenza può essere variabile’).

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prio su questo punto lo stretto vincolo Dante-Cino sembra per la verità allentarsi, e dunque è piú che probabile che l’Alighieri pensi soprattutto a se medesimo: del resto non è lui lo stesso che qualche mese prima – o dopo qualche mese, se si preferisce il piano dell’auctor –,151 là dove il sol tace, aveva impegnativamente pronunciato davanti a virgilio « Tu sè lo mio maestro e ’l mio autore, / tu sè solo colui da cu’ io tolsi / lo bello stilo che m’ha fatto onore » (Inf., i 85-87)? A tacere d’altri, è certo, comunque, che chi non aveva voluto riconoscere la cultura latina come modello formativo irrinunciabile per la nuova poesia era stato Guido Cavalcanti, che coerentemente e autorevolmente perseguí un programma poetico tutto volgare e romanzo, senza avvertire la necessità di studiare « regulatos poetas ».152 Ma è tempo di esaminare, come già anticipato, le due liste di poeti eccellenti. Nella prima (D.v.e., ii 5 4), Dante elenca una serie di canzoni illustri – sette e tutte d’amore – che iniziano con l’endecasillabo, il « superbissimum carmen ». Troviamo Giraut de Bornelh, il re di Navarra, Guido Guinizzelli, Guido delle Colonne, Rinaldo d’Aquino, Cino da Pistoia e Dante. I primi tre poeti erano già stati ricordati a D.v.e., i 9 3, a rappresentare la concordia delle tre lingue romanze in molti vocaboli, esemplificata con la parola amore. A essi si aggiungono due rappresentanti della scuola siciliana e infine i due poëtae novi Dante e Cino. Piú lunga la lista del capitolo successivo (D.v.e., ii 6 6), che elenca undici canzoni illustri per il grado di costruzione piú eccellente (« gradum constructionis excellentissimum »). È un punto decisivo del trattato, e infatti, si può essere d’accordo con Mario Pazzaglia che considera la sintassi come l’aspetto piú originale del De vulgari eloquentia.153 In questa lista, precede tutti, ancora una volta, Giraut de Bornelh, seguíto dal re di Navarra, Folchetto di Marsiglia, Arnaut Daniel, Aimeric de Belenoi, Aimeric de Peguilhan, Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Guido delle Colonne, Ci151. Come è noto, l’inizio della stesura dell’Inferno non dovette essere molto posteriore a queste pagine del De vulgari eloquentia. 152. G. Contini, Cavalcanti in Dante, in Id., Un’idea di Dante, cit., pp. 143-57, a p. 149: « Cavalcanti dunque incoraggia questo inedito esperimento di prosimetrum in lingua italiana [la Vita nuova], ma attesta anche quell’ostilità stilistica al latino che, almeno in veste di totale estraneità, è flagrante nella sua opera ». 153. M. Pazzaglia, Il verso e l’arte della canzone nel ‘ De vulgari eloquentia ’, Firenze, La Nuova Italia, 1967, p. 208.

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no da Pistoia e Dante.154 In questa seconda lista troviamo un solo troviere, cinque trovatori, un rappresentante della scuola siciliana e tutti gli stilnovisti maggiori, secondo la tradizione alla quale ci hanno abituato le moderne antologie.155 Questa linea genealogica sottolinea, innanzi tutto, i rapporti di continuità fra la lirica provenzale e la poesia italiana. Dante non prende in considerazione i trovatori delle prime generazioni e punta decisamente sui poeti della stagione classica della civiltà trobadorica, evitando la tendenza di molta parte della lirica italiana del ’200 a riallacciarsi piuttosto ai minori e agli epigoni di quella tradizione.156 Tra i siciliani eccelle Guido delle Colonne – presente anche in altri punti del trattato (D.v.e., i 12 2 e ii 5 4) –, stimato da Dante per la ricca e preziosa qualità del lessico e della rima, per la robustezza delle arcate sintattiche e per la raffinatezza delle immagini.157 Un posto di rilievo è riservato a Guido Guinizzelli, presente in entrambe le liste, sempre come primo degli italiani.158 Se nel capitolo riservato al volgare bolognese (D.v.e., i 15 1-6), l’eccellenza del « maximus Gui154. Per i problemi filologici legati a questa serie vd. il ragionamento di Fenzi in D.v.e., pp. cxv-cxvii. 155. Thibaut, Iv conte di Champagne e I re di Navarra (1201-1253), è l’unico troviero nominato da Dante nel trattato, ma la canzone citata Ire d’amor que en mon cor repaire è di Gace Brulé. Probabilmente Thibaut fu privilegiato perché nei canzonieri francesi compare frequentemente colle sue canzoni, e spesso al primo posto, proprio con l’antonomasia « Li roi de Navarre » da cui deriva il « Rex Navarre » dantesco. Cfr. P.v. Mengaldo, oïl, in ED, vol. iv pp. 130-33. 156. Cfr. P.v. Mengaldo, oc, in ED, vol. iv pp. 111-17. A proposito del probabile canzoniere provenzale usato da Dante, esso è stato individuato (con la dovuta cautela che occorre in questi casi) in un affine delle sillogi siglate ADIK, tra l’altro precisamente aperte da Peire d’Alvernha, poeta nominato a D.v.e., i 10 2, tra gli antichi maestri. Di Peire non sono citate poesie nel trattato. 157. Mengaldo, p. xcv. Guido è probabilmente anche l’autore della Historia destructionis Troiae: « Forse questa stessa statura latina del personaggio (coerente con la complessità sintattica attribuitagli, ai sensi di ii 6 7) può averlo fatto spiccare agli occhi di Dante » (Tavoni, p. 1265). 158. A livello metodologico, va comunque sottoscritta questa osservazione di Mengaldo, p. lxxxvii: « citazioni che intendono esemplificare fatti tecnici particolari, o addirittura peculiarità di langue, sono evidentemente da distinguere da quelle che comportano una tavola precisa di valori, in relazione a giudizi di eccellenza tematica o stilistica (ciò basti a dichiarare ingenua ed elementare la misurazione delle preferenze dantesche in base al mero computo dei luoghi citati di questo o quel poeta) ».

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do Guinizelli » può avere valore relativo tra i poeti bolognesi (comunque « doctores […] illustres et vulgarium discretione repleti », ‘maestri insigni e guidati da ottimi criteri di giudizio nel campo delle parlate volgari’),159 non c’è dubbio che la sua già ricordata menzione di D.v.e., i 9 3, a rappresentante degli italiani – sebbene in una particolare circostanza di trattazione lessicale – e, soprattutto, queste due collocazioni in posizione iniziale rappresentino un omaggio alla sua funzione di promotore del modo moderno di poetare. Dopo il « padre », seguono Cavalcanti, Dante e Cino, il triumvirato stilnovista. Una prospettiva cosí deformante – che, negando l’evidenza storica, sopprime l’esperienza dei siculo-toscani e di chi maggiormente aveva contribuito a trapiantare nell’Italia settentrionale e centrale i moduli della scuola siciliana, ed esclude arbitrariamente, se non proditoriamente, Guittone e i suoi – non può che giustificarsi come il risultato di un’intenzione di politica culturale. Detto questo, sarebbe tuttavia eccessivo accusare Dante di aver stravolto faziosamente la realtà. In questi capitoli la logica antologica prende il sopravvento sulla verità di storiografia letteraria. Dante non sta scrivendo un manuale, semmai un’antologia, come i compilatori del manoscritto vaticano. In questa prospettiva, egli seleziona dei “fiori” poetici e ricostruisce, secondo lui, una linea di eccellenza che collega i trovatori a sé e a Cino, passando per i tre Guidi. La lista dei poëtae novi era già stata anticipata nel capitolo del primo libro riservato ai toscani, e non poteva essere diversamente, vista la localizzazione tutta fiorentina, con la sola propaggine pistoiese, dello Stilnovo (D.v.e., i 13 4): Sed quanquam fere omnes Tusci in suo turpiloquio sint obtusi, nonnullos vulgaris excellentiam cognovisse sentimus, scilicet Guidonem, Lupum et unum alium, Florentinos, et Cynum Pistoriensem, quem nunc indigne postponimus, non indigne coacti.160 159. A proposito del termine « doctores », annota Tavoni p. 1216, riprendendo una nota di Mengaldo: « il titolo designa i poeti romanzi; “ doctor”, nel senso di ‘maestro d’eloquenza’ o precisamente ‘poeta’, appartiene alla tradizione provenzale, “doctor (de trobar)”, e italiana antica ». 160. ‘Ma anche se quasi tutti i Toscani restano ciechi e sordi entro il loro turpiloquio, sono tuttavia convinto che alcuni di loro hanno conosciuto l’eccellenza del volgare, come Guido, Lupo e un altro, tutti Fiorentini, e Cino da Pistoia, che metto qui ingiustamente per ultimo, costretto come sono da una non ingiusta ragione’.

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Una volta riconosciuto, come universalmente ammesso, che « unum alium » è Dante stesso, ritroviamo qui il triumvirato precedente: Dante, Guido e Cino. Ma con loro c’è un altro poeta fiorentino. L’edizione Fenzi del D.v.e. ha modificato il « Lapum » della vulgata, promuovendo a testo la lezione « Lupum », trasmessa concordemente dai tre codici del De vulgari eloquentia (nel Trivulziano 1088, con la prima u modificata da altra mano – forse quella di Trissino che usò il codice per la sua traduzione – in a). Sarebbe ancora confortante intravedere dietro la fortunata congettura « Lapum » il Lapo Gianni – tra l’altro mai piú nominato in tutto il trattato – del sonetto dantesco Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io (Rime, lii), e fissare cosí « la costellazione “stilnovistica”, quale rimane, con pochi incrementi, presso la storiografia moderna ».161 Il problema è allora piú che mai aperto, soprattutto dopo che Linda Pagnotta, non senza argomenti, ha avanzato per questo « Lupum » la candidatura di Lupo degli Uberti.162 Ragioni di prudenza convincono a contemplare nel cielo stilnovista disegnato nel De vulgari eloquentia le tre stelle maggiori, in attesa che la filologia fornisca gli strumenti per identificare meglio l’astro Lupum/Lapum, in ogni caso – lo si è detto – dotato di luce fioca. Eppure, non si può non osservare che nel trattato solo due stelle brillano fulgidamente: Dante e Cino. Non c’è dubbio, infatti, che la stella cavalcantiana irraggi una minor luce. Il binomio Dante-Cino è – lo abbiamo visto – sistematicamente presente (7 volte),163 e spicca soprattutto nel già riportato passaggio di D.v.e., i 10 2, nel quale i due poeti e amici sono riconosciuti come coloro che conferiscono uno speciale valore alla lingua del sí sulle due sorelle d’oc e d’oïl, perché « dulcius subtiliusque poetati vulgariter sunt », giudizio ribadito, e in un certo senso amplificato, nell’impegnativa valutazione di D.v.e., i 17 3, che emerge nell’importante e notissimo capitolo, in cui Dante definisce i caratteri del volgare, illustre, cardinale, regale e curiale: Magistratu quidem sublimatum videtur, cum de tot rudibus Latinorum vocabulis, de tot perplexis constructionibus, de tot defectivis prolationibus, de tot rusti161. Dante, De vulgari eloquentia, ed. Mengaldo cit., Nota di commento, p. 111. 162. Pagnotta, Un altro amico, cit., pp. 365-90. 163. A parte D.v.e., i 13 4, Dante usa sempre la formula « Cynus Pistoriensis et amicus eius ».

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il dolce stil novo canis accentibus, tam egregium, tam extricatum, tam perfectum et tam urbanum videamus electum ut Cynus Pistoriensis et amicus eius ostendunt in cantionibus suis.164

Al tempo della composizione del trattato la consonanza tra Dante e Cino è stretta, il loro rapporto è saldo e particolarmente attivo (è la fase del massimo scambio di rime tra i due), e consolidato da diversi anni. Lo dimostrano i rispettivi canzonieri e soprattutto le rime di corrispondenza: per entrambi l’altro è, infatti, l’interlocutore privilegiato (anche per il numero dei testi).165 Ma questa consonanza non è però priva di ombre, ed esse si riconoscono maggiormente proprio nei testi di questo periodo. Nel sonetto Degno fa voi trovare ogni tesoro, che l’Alighieri indirizza a Cino a nome del marchese Moroello Malaspina (Rime, cxiii), mentre si apprezzano gli aspetti formali (« Cynus dulcius », dunque), si avanza il sospetto della sua volubilità sentimentale e, in conseguenza, dell’insincerità della sua poesia. Dante torna sul tema dell’incostanza in amore di Cino in un altro sonetto di proposta (Io mi credea del tutto esser partito: Rime, cxiv): gli riconosce ancora la grazia formale, ma ribadisce che quella volubilità tradisce l’essenza profonda della poesia stilnovistica, che consiste nella sincerità dell’ispirazione amorosa. E Cino nella risposta (Poi ch’i’ fu’, Dante, dal mio natal sito: Cino, cxxxb) si sforza di difendere la propria costanza in amore, affermando che la sua è una mutabilità apparente, perché nelle altre donne cerca la somiglianza con l’unica e vera amata. A rafforzare quel vincolo potrebbero aver influito anche circostanze biografiche, del resto suggerite dal frequente ricorso nel trattato all’espressione « Cynus Pistoriensis et amicus eius » – e, lo sappiamo, l’amicizia è un

164. ‘Esso appare sublime nella sua funzione educativa, dal momento che da tanti rozzi vocaboli italiani, da tante confuse costruzioni, da tante pronunce sbagliate, da tanti rustici accenti lo vediamo emergere cosí nobile, cosí limpido, cosí perfetto ed elegante, come Cino da Pistoia e l’amico suo mostrano nelle loro canzoni’. 165. Secondo Tavoni, p. 1095, Cino assume un ruolo importante nel progetto culturale del D.v.e. Egli, infatti, di formazione bolognese e ben introdotto nell’ambiente felsineo, può agevolare l’inserimento di Dante nell’ambiente universitario e poetico della città, nella quale e per la quale Dante scrive il trattato.

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valore che attraversa tutta l’opera dantesca dalla Vita nuova alla Commedia –; nella comune e drammatica esperienza dell’esilio il legame potrebbe essersi particolarmente rinsaldato, tanto che gli accenni del De vulgari eloquentia a quella triste e difficile esperienza possono valere per entrambi.166 Sono ragioni che, però, si indeboliscono se rapportate all’intento di fondo di scrivere un trattato scientifico, conformato ai criteri dell’ars e della scientia. Ciò nonostante – e lo si è detto piú volte – il De vulgari eloquentia è anche un testo di critica militante e di politica letteraria, particolarmente rivolto al momento presente e con bersagli ben precisi e individuabili. Si è visto, infatti, che nella pars destruens l’attacco è indirizzato ai contemporanei «ignorantie sectatores», come dimostrano i congiuntivi esortativi subsistant, desistant, pudeat messi in rilievo nei passi già esaminati, e, inoltre, l’intento precettistico è tutt’altro che secondario nell’opera. Ora, se questo è vero, morto Cavalcanti ormai da qualche anno ed esclusi i poeti-satelliti dei quali si perdono presto le orbite (Lapo, Alfani, Frescobaldi), agli inizi del ’300 solo Dante e Cino avevano le carte in regola per continuare a promuovere, soprattutto fuori dai confini fiorentini e pistoiesi, la nuova poesia.167 E in questo senso mi pare che si giustifichino i rilievi mossi dall’Alighieri all’amico nei sonetti sopra ricordati: è necessaria una stretta comunanza di intenti e una ferrea coerenza perché il progetto culturale non fallisca. Che poi esso sia parso velleitario allo stesso Dante, e sia di fatto imploso dall’interno, lo dimostra l’interruzione del trattato.168 I motivi letterari e biografici e le ragioni tattiche di cui si è detto non sono indifferenti, ma certamente non fugano tutti i dubbi. C’è soprattutto un brano che lascia inquieti. Lo abbiamo già riportato per un altro scopo, ma ora conviene rileggerlo (D.v.e., ii 2 7-8):

166. Poco dopo l’impegnativo giudizio sopra riportato, Dante scrive (D.v.e., i 17 6): « Quantum vero suos familiares gloriosos efficiat, nos ipsi novimus, qui huius dulcedine glorie nostrum exilium postergamus » (‘Del resto, io personalmente so bene quanto esso renda degni di gloria quelli che lo [il volgare illustre] servono: io che per la dolcezza di una gloria siffatta non mi curo neppure del mio esilio’). E cfr. anche D.v.e., i 18 3. 167. In proposito meritano particolare attenzione le belle pagine di Carpi, Un incontro con Guittone, cit., pp. 580-622. 168. Ma, come detto in precedenza, l’interruzione potrebbe essere stata determinata anche da un evento politico drammatico.

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il dolce stil novo Quare hec tria, salus videlicet, venus et virtus, apparent esse illa magnalia que sint maxime pertractanda, hoc est ea que maxime sunt ad ista, ut armorum probitas, amoris accensio et directio voluntatis. Circa que sola, si bene recolimus, illustres viros invenimus vulgariter poetasse, scilicet Bertramum de Bornio arma, Arnaldum Danielem amorem, Gerardum de Bornello rectitudinem; Cynum Pistoriensem amorem, amicum eius rectitudinem.169

Dante sta parlando dei temi piú consoni al genere metrico piú degno, cioè la canzone, e fornisce nel libro il primo canone fondamentale di poeti illustri, costituendolo su base appunto tematica.170 Ammessa la triade provenzale,171 e constatata l’assenza in Italia di un poeta illustre per le armi, egli riserva a se stesso il ruolo di cantore della rettitudine, lasciando a Cino il posto privilegiato di poeta erotico.172 Non stupisce la posizione di Dante, visto che qui l’amore è inteso esplicitamente come « venus » e « amoris accensio », una concezione che Dante aveva superato nella Vita nuova, dove si era già indirizzato verso la « caritas ».173 Che poi l’Alighieri, proprio negli anni di composizione del De vulgari eloquentia, si sentisse tutt’altro che si169. ‘Perciò queste tre cose, salvezza, amore e virtú, si rivelano come i grandi contenuti che debbono essere trattati nel modo piú alto possibile: cioè lo saranno – meglio – gli argomenti che ad essi sono soprattutto connaturati, come la prodezza nelle armi, la passione amorosa e la volontà diretta al bene. Mi risulta, se ho visto bene, che solo di questi argomenti hanno poetato in volgare i piú famosi, come Bertran de Born delle armi, Arnaut Daniel dell’amore, Giraut de Bornelh della rettitudine, Cino da Pistoia dell’amore e l’amico suo della rettitudine’. 170. Dante, De vulgari eloquentia, ed. Mengaldo cit., Nota di commento, p. 153. 171. In proposito occorre, però, specificare che Giraut era considerato superiore ad Arnaut non solo per la poesia morale, ma anche per quella d’amore, coltivate entrambe e in relazione l’una con l’altra. Può essere proprio questa sua doppia identità di poeta d’amore e di poeta morale ad avere colpito Dante nella fase del D.v.e. Che Dante non dimentichi la componente erotica della produzione di Giraut è, infatti, svelato da un prezioso indizio: in D.v.e., i 9 3, è una sua canzone (Si·m sentis fizels amics), e non una canzone di Arnaut o di altri, che esemplifica per la lingua d’oc la comune parola « trifaria » amor (si veda Tavoni, p. 1393). 172. Tuttavia, non va trascurato il fatto che delle nove canzoni dantesche menzionate nel trattato ben sei sono d’amore. 173. Nel D.v.e. cambia anche la dimensione della salus, che viene intesa nel senso di salus corporalis, e dunque è ben diversa dal concetto di « salute » della V.n. Dunque, come fa notare Tavoni, p. 1388: « Si deve prender atto dell’oggettiva valenza anti-stilnovistica insita nella scelta combinata di questi due termini-chiave, salus e venus ».

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curo dalle tentazioni della « venus » e tutt’altro che certo di un percorso inflessibilmente coerente lo dimostra il sonetto Io sono stato con Amore insieme (Rime, cxi), che smentisce colui che « credea del tutto esser partito / da queste nostre rime, messer Cino » (Rime, cxiv 1-2). Nel breve catalogo, tanto piú significativo perché riservato a eccellenze assolute nella lirica d’oc e del sí, si consumano i reati di parricidio e di usurpazione ai danni di Guido Cavalcanti. Non c’è nessun dubbio, infatti, che il ruolo di poeta d’amore spettasse di diritto all’autore di Donna me prega (a tacere il resto della sua produzione). E in questo contesto di valori sommi le ragioni tattiche di incidenza sul presente e sul futuro non valgono. Il dissidio Dante-Guido, sul quale si sta indagando da tempo con sorprese suggestive,174 ha qui un altro punto chiave. Per concludere il discorso sul De vulgari eloquentia, nelle schegge rimaste emerge sia nella pars destruens sia nella pars construens la consapevolezza da parte di Dante della svolta impressa alla poesia italiana del ’200 da un gruppo ristretto di rimatori, che operarono nella tradizione, ma contrapponendosi nettamente alle involuzioni di Guittone e dei suoi sodali. Questi nuovi poeti, che si muovono sulle orme del padre Guinizzelli, non trattenuti da nessun nodo, si collocano allora al di là della linea di demarcazione riconosciuta in Purg., xxiv 57, da Bonagiunta Orbicciani. 4. Rimatori e poeti nella Vita nuova Il nostro cammino volutamente a ritroso attraverso le opere di Dante si conclude con la Vita nuova, dunque in piena stagione stilnovistica. Sul libello si dovrà tornare ancora nelle pagine successive; qui ci limitiamo a esaminare il paragrafo xxv, interamente occupato da un’ampia digressione che contiene importanti dichiarazioni di poetica. In apertura sembra che l’intento sia limitato, dal momento che Dante dichiara di voler giustificare perché nel sonetto precedente (Io mi senti’ svegliar dentro a lo core: cfr. V.n., xxiv 7-9) abbia personificato Amore « come se fosse una cosa per sé », cioè una sostanza, e non l’abbia ritenuto per quello che veramente è, ossia una passione, che è una qualità (« uno accidente in sustanzia »). 174. Obbligatorio il rimando agli studi di Enrico Malato. Cfr., almeno, Id., Dante e Guido, cit.

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Tuttavia, l’apologia della rappresentazione di Amore ipostatizzato parte da una riflessione di storia della poesia, che sottintende obiettivi ben piú ambiziosi (V.n., xxv 3-4): A cotale cosa dichiarare, secondo che è buono a presente, prima è da intendere che anticamente non erano dicitori d’amore in lingua volgare, anzi erano dicitori d’amore certi poeti in lingua latina: tra noi dico (avvegna forse che tra altra gente addivenisse, e addivegna ancora) sí come in Grecia, non volgari ma litterati poete queste cose trattavano. E non è molto numero d’anni passati, che apparirono prima questi poete volgari; ché dire per rima in volgare tanto è quanto dire per versi in latino, secondo alcuna proporzione; e segno che sia picciolo tempo, è che se volemo cercare in lingua d’oco e in quella di sí, noi non troviamo cose dette anzi lo presente tempo per cento e cinquanta anni.

Non poteva esserci autolegittimazione e autopromozione piú audace. Dante conia l’inaudito sintagma « poete volgari »,175 marcato tra l’altro dal latinismo morfologico « poete », e giunge ad affermare che « dire per rima in volgare tanto è quanto dire per versi in latino ». Per la prima volta alla poesia volgare, o meglio a certi poeti volgari, viene riconosciuta una dignità pari a quella dei poeti latini. È vero che la rivoluzionaria e sorprendente definizione viene súbito attenuata (« secondo alcuna proporzione »), ma – come chiarirà qualche anno dopo un punto decisivo del D.v.e., ii 4 2-3, a questa strettamente connesso –, secondo Dante, il gap può, e deve, essere colmato regolarizzando la poesia in volgare: Revisentes igitur ea que dicta sunt, recolimus nos eos qui vulgariter versificantur plerunque vocasse poetas: quod procul dubio rationabiliter eructare presumpsimus, quia prorsus poete sunt, si poesim recte consideremus: que nichil aliud est quam fictio rethorica musicaque poita. Differunt tamen a magnis poetis, hoc est regularibus, quia magni sermone et arte regulari poetati sunt, hii vero casu, ut dictum est. Idcirco accidit ut, quantum illos proximius imitemur, tantum rectius poetemur. Unde nos doctrine operi impendentes doctrinatas eorum poetrias emulari oportet.176 175. Utile in proposito la ricerca lessicale di M. Tavoni, Il nome di poeta in Dante, in Studi offerti a Luigi Blasucci dai colleghi e dagli allievi pisani, a cura di L. Lugnani, M. Santagata, A. Stussi, Lucca, Pacini Fazzi, 1996, pp. 545-77. 176. ‘Ritornando su quanto è stato detto, osservo che spesso ho definito “poeti” tutti quelli che hanno composto versi volgari, e non c’è dubbio che mi sono spinto a pronuncia-

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Il titolo di poeti volgari spetta a tutti coloro che hanno utilizzato la lingua materna, ma il breve excursus di storia della poesia fa anche trapelare una netta distinzione, con la finalità non troppo dissimulata di promuovere se stesso e i propri compagni di strada, e in particolare Guido Cavalcanti. Innanzi tutto, la poesia volgare romanza, in lingua d’oc e in lingua di sí, è essenzialmente poesia d’amore ed è recente, visto che la sua storia non oltrepassa i centocinquant’anni, cronologia che esclude la prima generazione trobadorica.177 Questa giovane età implica – secondo un tema topico – il pericolo della rozzezza artistica, tanto che l’unico privilegio che i primi rimatori in lingua di sí possono vantare è quello cronologico (V.n., xxv 5): E la cagione per che alquanti grossi ebbero fama di sapere dire, è che quasi fuoro li primi che dissero in lingua di sí.

Tra i « poete volgari » è possibile, allora, per Dante già distinguere degli « alquanti grossi », non identificati, ma tutt’altro che irriconoscibili; e il pubblico intendente non dovrà certo aspettare la dichiarazione che Bonagiunta pronuncerà in purgatorio per individuarli. Ma – prosegue l’Alighieri – perché a un certo punto i rimatori mutarono lo strumento linguistico, preferendo la lingua materna a quella grammaticale (il latino)? L’essenza fondamentalmente amorosa della nuova poesia romanza178 comporta un allargamento del pubblico, ed è un moti-

re questa parola per una buona ragione, visto che in effetti certamente sono poeti, se ben consideriamo che la poesia non è altro che un prodotto d’invenzione calato nelle forme della retorica e della musica. La maggior parte di loro, tuttavia, ha poetato a caso, come ho detto, differenziandosi dai grandi poeti, cioè da quelli regolari che, grandi com’erano, lo hanno fatto in una lingua e secondo una tecnica soggetta a regole ben precise. Onde avviene che quanto piú da vicino imitiamo costoro, tanto piú correttamente sapremo poetare, e che io, dedicandomi a un’opera di natura dottrinale, dovrò ispirarmi all’aspetto tecnico della loro arte poetica’. 177. Del resto anche in D.v.e., i 10 2, il trovatore piú antico è Peire d’Alvernha, la cui attività è documentata fra il 1149 e il 1170. La sua cronologia coincide quasi esattamente con la ricostruzione della V.n. E cfr. Mengaldo, oc, cit., pp. 111-17. 178. Lo abbiamo già detto a proposito del D.v.e. e dei tre grandi canzonieri delle origini: la tradizione si fonda sulla poesia amorosa; gli altri generi (didattici, religiosi, paraliturgici, ecc.) della poesia delle Origini sono esclusi.

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vo « tutt’altro che risibile »,179 vista l’importanza che lo stesso Dante attribuisce ai destinatari in tutta la sua produzione letteraria (V.n., xxv 6): E ’l primo che cominciò a dire sí come poeta volgare si mosse, però che volle fare intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d’intendere li versi latini; e questo è contra coloro che rimano sopr’altra matera che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d’amore.

Dante, poi, coglie l’occasione per scagliare il suo strale contro Guittone, ed è il primo di una lunga serie – ormai la conosciamo –, che arriverà fino agli episodi di Bonagiunta e di Guinizzelli nel Purgatorio. All’altezza cronologica della Vita nuova il “dittatore” aretino non viene nominato, ma non c’è dubbio che sia lui quello che rima « sopr’altra matera che amorosa », visto il battage con cui sbandierò la propria conversione esistenziale e letteraria, soprattutto nella canzone Ora parrà s’eo saverò cantare. Dante traccia un solco profondo nella storia recente della poesia volgare, e al di là della linea di demarcazione c’è niente meno che il piú acclamato poeta del tempo. È tra l’altro opportuno precisare che la netta censura del Guittone « morale » è iscrivibile nel progetto dantesco, tutto amoroso, del libello giovanile: il « cantor rectitudinis », come vorrà essere riconosciuto l’Alighieri nel De vulgari eloquentia, non è ancora apparso all’orizzonte. Nel prosieguo del suo ragionamento, in cui si riconosce la struttura argomentativa del sillogismo, Dante porta a termine il suo intento iniziale di legittimare l’ipostasi di Amore. Ai poeti è stata concessa maggiore licenza, soprattutto in chiave retorica, rispetto ai prosatori (e lo conferma l’autorità di Orazio, Ars poetica, 9-10: « pictoribus atque poetis / quidlibet audendi semper fuit aequa potestas », ‘pittori e poeti hanno sempre goduto del giusto diritto di tentare qualsiasi strada’); i rimatori in volgare sono a pieno titolo poeti; dunque anche a loro è concesso l’utilizzo delle figure retoriche come ai poeti latini. L’esemplificazione di supporto è tratta da virgilio, Lucano, Orazio (che include anche Omero), Ovidio, ed è una lista che corrisponde esattamente (un caso?) alla « bella scola / di quel segnor de l’altissimo canto » (Inf., iv 94-95), che Dante vedrà radunarsi nel limbo. 179. G. Contini, La poesia rusticale come caso di bilinguismo, in La poesia rusticana nel Rinascimento. Atti del Convegno di Roma, 10-13 ottobre 1968, Roma, Accademia dei Lincei, 1969, pp. 43-72, a p. 50.

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Il paragrafo si conclude con un nuovo attacco contro bersagli apparentemente anonimi (V.n., xxv 10): E acciò che non ne pigli alcuna baldanza persona grossa, dico che né li poete parlavano cosí sanza ragione, né quelli che rimano deono parlare cosí non avendo alcuno ragionamento in loro di quello che dicono; però che grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace intendimento. E questo mio primo amico e io ne sapemo bene di quelli che cosí rimano stoltamente.

Ma i particolari per disegnare gli identikit ci sono. Infatti, proprio il primo amico della Vita nuova è coinvolto, suo malgrado, in una polemica avviata da Guido Orlandi, che lo accusa di aver fatto piangere Amore, insomma di averlo ipostatizzato. E in una seccata e sprezzante risposta, l’astioso Cavalcanti afferma che l’Orlandi è insensibile alla voce di Amore, che, parlando « sottile e piano », non può essere compreso da tutti (cfr. Cavalcanti, lb). L’Orlandi, dunque, ha tutta l’aria di essere una « persona grossa » che « pigli alcuna baldanza » come scrive Dante in questa sua conclusione, tra l’altro riprendendo un aggettivo ben connotato, se lo si ricollega agli « alquanti grossi » di V.n., xxv 5.180 Ancora. Cavalcanti è impegnato anche su un altro fronte, certamente piú arduo e spinoso, vista l’autorevolezza del nemico. Nel sonetto Da piú a uno face un sollegismo (Cavalcanti, xlvii), infatti, sferra un duro attacco contro Guittone – ed è il « Guittone morale » già entrato nell’ordine dei frati Gaudenti (cfr. « fra », v. 8) –, accusandolo di ignoranza, di incompetenza dialettica, perfino dell’elementare struttura argomentativa del sillogismo, di imperizia metrica e di improprietà espressiva, con probabile allusione alla corona di sonetti contro il carnale amore del codice Escorialense (e III 23), nota anche come Trattato d’amore. Allora, il periodo con cui Dante chiude V.n., xxv 10 (« E questo mio 180. Mi pare poco convincente l’ipotesi di Irene Maffia Scariati, secondo la quale Dante intenderebbe qui colpire non Guittone o Guido Orlandi, ma Lapo Gianni, che « di questo artificio [ipotiposi] sostanzia quasi ogni suo testo » (I. Maffia Scariati, « Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi… »: su un’intricata questione attributiva, in SPCT, vol. lxiv 2002, pp. 5-61, alle pp. 58-59).

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primo amico e io ne sapemo bene di quelli che cosí rimano stoltamente »), potrebbe contenere un’allusione proprio a Guittone, se pensiamo tra l’altro che l’avverbio stoltamente è ricollegabile alla « illorum stultitia » di D.v.e., ii 4 11, e al « lascia dir li stolti » di Purg., xxvi 119, cosicché questa proposizione pare il capo di quel filo rosso di polemica antiguittoniana che, sotterraneo, percorre l’opera dantesca, come abbiamo già visto nel corso di questo capitolo. Dunque, nella ricostruzione della lirica amorosa in volgare di V.n., xxv, l’Alighieri segna nettamente uno stacco tra la poesia sua e del suo primo amico non solo rispetto a quella dei poeti delle generazioni precedenti (i « grossi »), ma anche rispetto a contemporanei come Guido Orlandi e Guittone, portavoci di un modus poetandi che va decisamente superato se non avversato. Dante associa a sé Cavalcanti e cerca la sua approvazione, se non la sua complicità, ma all’alto ingegno di Guido non poteva sfuggire la sottile pretenziosità del discorso, tanto piú che si innestava sul tronco di quel paragrafo xxiv dove la sua Giovanna-Primavera è resa semplice precorritrice di Beatrice-Amore, per tacere d’altro di quel libello tanto innovativo quanto specioso. Sarà lui, allora, a dover marcare le distanze dall’Alighieri e a tracciare un solco ben piú profondo. E la sua risposta non si farà attendere – « Donna me prega, per ch’eo voglio dire / d’un accidente che sovente è fero / ed è sí altero ch’è chiamato amore » (Cavalcanti, xxviib 1-3; corsivo mio) –, e partirà probabilmente anche da qui: « Amore non è per sé sí come sustanzia, ma è uno accidente in sustanzia » (V.n., xxv 1; corsivo mio). Ma su questo dovremo necessariamente ritornare nelle prossime pagine (pp. 231-40).

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III VECC H IO E N UOVO STI LE

1. La tenzone tra Bonagiunta e Guinizzelli In Omo ch’è saggio non corre leggero, Guido Guinizzelli replica all’accusa che il poeta lucchese Bonagiunta Orbicciani gli aveva rivolto nel sonetto Voi, ch’avete mutata la mainera (Bonagiunta, sonn. 20 e 20a). Che questi due testi avrebbero potuto suscitare ampio clamore probabilmente non era nelle intenzioni né nelle aspettative dei due contendenti. Eppure la loro risonanza fu estesa e duratura. In particolare, come già detto (p. 40), piú arrisero le carte alla replica di Guido, la quale – anche in virtú del suo tono sapienziale – ebbe una circolazione autonoma, testimoniata da attestazioni singole, svincolate dal testo di proposta e indipendenti anche rispetto al corpus principale delle poesie dell’autore.1 Meno fitta ma comunque cospicua la fortuna del sonetto di Bonagiunta, presente in due dei tre grandi canzonieri duecenteschi (v ed L: nel Laurenziano è copiato due volte, L323 e L413, sempre accompagnato dalla risposta di Guido), e poi incluso nella Raccolta Aragonese e nella Raccolta Bartoliniana (pp. 264-65), a dimostrazione che il suo destino si era in qualche modo legato indissolubilmente alla poesia stilnovistica. A orientarne la ricezione e la sorte, contribuí in maniera decisiva Dante, che in quella tenzone volle riconoscere il mito fondante della nuova poesia.2 Ma ora si deve cercare di leggere la tenzone senza il filtro dantesco. Negli anni del guittonismo imperante, Bonagiunta e Guido si erano faticosamente ritagliati uno spazio di relativa autonomia, caratterizzato da una continuità tematica e ideologica con la tradizione siciliana e da una presa di distanza rispetto alle recenti tendenze della lirica contemporanea sempre piú condizionata dal poeta aretino, soprattutto dopo la svolta della sua conversione e il suo fermo programma di poesia morale alternativa 1. Cfr. d’A.S. Avalle, La tradizione manoscritta di Guido Guinizzelli, in « Studi di filologia italiana », a. xi 1953, pp. 137-62; Bonagiunta, pp. 279-81; Giunta, La poesia, pp. 77-81. 2. Giunta, La poesia, p. 84: « La tenzone con Guinizzelli si offriva dunque a Dante coi requisiti di un mito di fondazione troppo seducente per non essere raccolto ».

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a quella amorosa. Pur non completamente sordi al fascino del trobar clus (si legga, per es., Guinizzelli, v), il lucchese e il bolognese privilegiavano un registro leu, e l’analisi delle loro rime ha fatto emergere tratti comuni – idee, immagini, stilemi, strutture metriche e ritmiche –, per cui si è potuto parlare di una linea Bonagiunta-Guinizzelli (vd. il libro di Giunta, La poesia). A un certo punto, però, l’Orbicciani percepisce un pericoloso strappo e lancia la sua accusa (Bonagiunta, son. 20): voi, ch’avete mutata la mainera de li plagenti ditti de l’amore de la forma dell’esser là dov’era, per avansare ogn’altro trovatore, avete fatto como la lumera, ch’a le scure partite dà sprendore, ma non quine ove luce l’alta spera, la quale avansa e passa di chiarore. Cosí passate voi di sottigliansa, e non si può trovar chi ben ispogna, cotant’è iscura, vostra parlatura. Ed è tenut’ a gran dissimigliansa, ancor che ’l senno vegna da Bologna, traier canson’ per forsa di scrittura.

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Guinizzelli viene esplicitamente rimproverato di aver snaturato l’essenza leggiadra della poesia d’amore, alla quale ha conferito un eccesso di sottigliezza con l’unico scopo di superare ogni altro rimatore, ma le sue novità dovranno accontentarsi di scarsa risonanza locale, perché non saranno esportabili, e soprattutto non potranno ottenere alcun successo a Lucca dove brilla incontrastato il sole dell’autentica lirica amorosa. Il nuovo corso della poesia di Guido è cosí oscuro che risulta impossibile trovare chi sia in grado di farne l’expositio. Sebbene Bologna sia notoriamente (ma anche famigeratamente) dotta, è una stravaganza comporre una canzone mediante uno sforzo stilistico o manieristico anziché in virtú del proprio ingegno naturale. Non tutto è perspicuo, e l’interpretazione di alcuni particolari è ancora controversa. Innanzi tutto la contrapposizione tra lumera e alta spera (vv. 5 e 7) è stata riferita a poeti (e per l’« alta spera » si è pensato a Guittone, 106

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Chiaro Davanzati, Bonagiunta stesso), ma pare piú probabile che essa riguardi i diversi modi di fare poesia. Se « l’alta spera » è metaforicamente Amore, il fioco lume di Guinizzelli non può illuminare Lucca dove riluce appunto Amore stesso, rappresentato dalla poesia di Bonagiunta. Ma le due immagini luminose si possono anche riferire alle donne-luce di Guido e di Bonagiunta, e allora la comparazione tra le rispettive rappresentazioni della donna è in definitiva una sfida tra due maniere poetiche.3 In effetti, al motivo diffuso della donna-luce, caro a Bonagiunta, Guinizzelli imprime una novità per meglio far risaltare l’epifania della propria donna.4 Nel sonetto Vedut’ ho la lucente stella diana, la donna è identificata con la stella del mattino che diffonde il suo splendore prima dell’alba (si veda Guinizzelli, vii 1-4); inoltre, nella quarta strofa della canzone Tegno de folle ’mpres’, a lo ver dire, la donna, se appare di notte, manda luce splendente come il sole di giorno (cfr. Guinizzelli, i 31-40). Questo potere della donna di illuminare le tenebre non ha precedenti nella poesia italiana. Pochi ma autorevoli antecedenti si incontrano nella lirica trobadorica, ma non c’è dubbio che la metafora abbia un’origine biblica, cosicché Guinizzelli conferisce alla propria donna un attributo della luce divina.5 Bonagiunta legge in chiave antagonistica le immagini guinizzelliane, e ciò sembrerebbe 3. La bibliografia su questa crux esegetica è molto ampia. Mi limito a segnalare alcuni recenti contributi, che riportano comunque anche la bibliografia pregressa: Giunta, La poesia, pp. 100-14; R. Rea, « Avete fatto como la lumera » (sulla tenzone fra Bonagiunta e Guinizzelli), in « Critica del testo », a. vi 2003, pp. 933-58; Borsa, La nuova poesia, cit., pp. 103-45; Bonagiunta, pp. 273-74; A. Cipollone, I quattro sensi della scrittura di Bonagiunta. Ancora sulla tenzone con Guinizzelli, in Intorno a Guido Guinizzelli. Atti della Giornata di studi, Univ. di Zurigo, 16 giugno 2000, a cura di L. Rossi e S. Alloatti Boller, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2002, pp. 99-135. 4. Una conferma di questa interpretazione potrebbe venire dal sonetto La splendïente luce, quando apare di Chiaro Davanzati, che mostra evidenti coincidenze con il sonetto di Bonagiunta. Il fatto che Chiaro riutilizzi l’immagine luminosa di Voi, ch’avete mutata la mainera per lodare la propria donna lascia pensare che i contemporanei intesero cosí la metafora (cfr. Rea, « Avete fatto como la lumera », cit., pp. 951-53). 5. Per la poesia trobadorica, cfr. ivi, p. 943; per quella religiosa, Rea (ivi, p. 957) rimanda soprattutto a Ps., 138 12 (« quia tenebrae non obscurabuntur a te et nox sicut dies inluminabitur sicut tenebrae eius ita et lumen eius », ‘nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte è chiara come il giorno; per te le tenebre sono come luce’), e Is., 58 10 (« orietur in tenebris lux tua et tenebrae tuae erunt sicut meridies », ‘allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio’).

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testimoniato da alcune coincidenze tra questi due testi di Guido e Voi, ch’avete mutata la mainera.6 L’implicazione scritturale dell’immagine e, di conseguenza, l’apertura al sacro della poesia guinizzelliana sarebbero, quindi, il vero punto di svolta sanzionato dal poeta lucchese. In questo senso, allora, sarebbe consequenziale intendere la « scrittura » del v. 14 – l’altra crux esegetica del sonetto – come Sacra Scrittura e parafrasare il verso finale: ‘comporre una canzone a colpi di stile scritturale’.7 L’ipotesi è suggestiva, ma non convince del tutto. Se pensiamo a quei due testi (Guinizzelli, i e vii), infatti, non si capisce dove stia la « sottiglianza » e perché il dettato di Guido sia giudicato cosí oscuro da essere incomprensibile. Il sonetto Vedut’ ho la lucente stella diana è limpido e perspicuo, un trionfo del trobar leu. E, poi, dove sarebbe l’intento di sopravanzare ogni altro poeta? La canzone Tegno de folle ’mpres’, a lo ver dire non è di certo eterodossa rispetto alla tradizione maestra della poesia italiana del ’200 che fa capo ai siciliani. Invece, se c’è un testo di Guinizzelli davvero dirompente, quello non può essere che la canzone Al cor gentil rempaira sempre amore (Guinizzelli, iv). Essa, infatti, si caratterizza per « sottiglianza », come rivelano l’utilizzo della dialettica aristotelica potenza-atto, gli ardui nessi logici, le immagini desunte dalla fisica, l’apertura metafisica in cui alla donna è conferito il potere di elargire una redenzione laica all’innamorato. È stato notato, poi, che quattro delle cinque rime del sonetto di Bonagiunta si ritrovano nella canzone di Guido,8 ma bisogna ammettere che la corrispondenza è su uscite piuttosto ricorrenti, e dunque in questo caso è giusto attenersi al « caldo invito alla prudenza » suggerito da Claudio Giunta.9 Analoga cautela occorre avere nel valutare l’eventuale connessione tra l’explicit del sonetto e i versi 15-16 di Al cor gentil: « poi che n’ha tratto fòre / per sua forza 6. Rea, « Avete fatto como la lumera », cit., p. 944: « Il sonetto Voi, ch’avete mutata presenta infatti il sintagma “dà sprendore” in rima con “chiarore” (vv. 6 : 8), che Guinizzelli adopera con identico rimante nell’immagine della donna-luce di Tegno de folle ’mpres’ (vv. 36 : 39; e si noti anche l’uso del verbo “lucere”, al v. 7 in Bonagiunta e al v. 33 in Guinizzelli), e con altri rimanti in quella di Vedut’ho la lucente (v. 4 “dea splendore”). All’altezza della polemica questi richiami sono abbastanza esclusivi e, quindi, riconoscibili come tali ». 7. Per questa interpretazione cfr. soprattutto Gorni, Il nodo della lingua, cit., p. 41. 8. Ivi, p. 33. 9. Giunta, La poesia, p. 91.

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lo sol ciò che li è vile »,10 vista la diversità di senso e, soprattutto, considerato che il sintagma « forza di scrittura » ha una storia piú ampia che affonda le sue radici nella lirica trobadorica.11 In ogni caso, credo che nella sua circostanziata accusa il poeta lucchese abbia certamente in mente un bersaglio preciso ed esso sembra proprio essere la canzone iv di Guinizzelli, che per il suo dettato loico e filosofeggiante si distingue nell’esiguo corpus dell’autore. Di contro ai tentativi di innovazione proposti da Guido, che apre la lirica d’amore alle nuove istanze filosofiche ben vive nell’ambiente bolognese, Bonagiunta resta ancorato alla tradizione anche a costo di perpetuare motivi sclerotizzati e stanchi clichés. Dunque, ben prima di Dante, che volle far scaturire da quella sorgente l’acqua limpida e pura della nuova poesia, la novità di Al cor gentil fu colta dai contemporanei, e frastornò chi con Guido aveva condiviso un tratto di strada.12 La replica di Guinizzelli non è propriamente una risposta per le rime. Infatti, sebbene lo schema sia analogo, viene ripresa dalla proposta la sola rima in -ura. La corrispondenza non è obbligatoria e, infatti, la sua mancanza non è isolata nelle tenzoni duecentesche; ora, però, se i manoscritti non denunciassero il legame tra i due sonetti, la consequenzialità non sarebbe immediatamente riconoscibile, perché alle accuse circostanziate del lucchese e all’intento metaletterario della proposta non corrisponde una risposta esplicita. Guido rinuncia a scendere « a livello di rissa »13 e mantiene un superiore distacco (Bonagiunta, son. 20a): Omo ch’è saggio non corre leggero, ma a passo grada sí com’ vol misura: 10. Gorni, Il nodo della lingua, cit., p. 34. 11. Cfr. Giunta, La poesia, pp. 94-100. 12. Tra l’altro la canzone suscitò l’ammirata solidarietà dei rimatori toscani della generazione successiva: in particolare di Monte Andrea e di Chiaro Davanzati, prima ancora che del Cavalcanti e dell’Alighieri. Anche coloro i quali polemizzarono apertamente con Guido, ad esempio Pucciandone Martelli, ne furono soggetti. Echi immediati di singoli passi della canzone si ritrovano pure in Meo Abbracciavacca e in Neri de’ visdomini. Cfr. G. Guinizzelli, Rime, a cura di L. Rossi, Torino, Einaudi, 2002, p. 31; e S. Carrai, La lirica toscana del Duecento, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 39-40 e 71. 13. Giunta, La poesia, p. 90, che riprende – ma ribaltandone il senso – l’espressione di Favati, Inchiesta, p. 69.

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il dolce stil novo quand’ ha pensato, riten su’ pensero infin a tanto che ’l ver l’asigura. Foll’ è chi crede sol veder lo vero e non pensare che altri i pogna cura: non se dev’ omo tener troppo altero, ma dé guardar so stato e sua natura. volan ausel’ per air di straine guise ed han diversi loro operamenti, né tutti d’un volar né d’un ardire. Dëo natura e ’l mondo in grado mise, e fe’ despari senni e intendimenti: perzò ciò ch’omo pensa non dé dire.

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Il tono è sottilmente ironico, come dimostra súbito in apertura la citazione dell’emistichio iniziale di un sonetto di Bonagiunta.14 Dice Guido: ‘il saggio non corre precipitosamente, senza riflettere, ma procede con prudenza a piccoli passi, cosí come consiglia il senso di responsabilità e di equilibrio retto dalla ragione. Quando ha pensato, egli trattiene per sé il proprio pensiero, finché la verità non lo rende certo nelle sue convinzioni. Dunque è folle chi crede di vedere lui solo la verità e non pensa che anche altri se ne curi. Non ci si deve comportare con troppo orgoglio, ma si deve considerare la propria condizione e il proprio essere. Nell’aria volano uccelli di diversa natura e hanno diversi modi di comportarsi, né dunque hanno le stesse forme di volo e lo stesso grado di ardimento (il paragone tra uccelli e poeti, già presente nella cultura classica, era frequente nel Medioevo). Dio ordinò gerarchicamente la natura e il mondo, e creò dissimili le intelligenze e le facoltà intuitive: perciò non si deve anticipare il momento del dire quando ancora si dovrebbe pensare’.15 Guido vola alto, sciorinando una serie di citazioni bibliche e filosofiche, ma anche riprendendo un ben preciso precedente trobadorico, il serven14. Evidente ripresa dell’incipit di ‹Omo› ch’è sag‹g›io ne lo cominciare (Bonagiunta, son. 6). 15. Per la parafrasi del v. 14 vd. Bonagiunta, p. 283. Segnalo la diversa interpretazione di Avalle (CLPIO, pp. lxxxi-lxxxii) ripresa da Brugnolo: ‘non si deve dire esplicitamente ciò che si pensa’, che, dunque, sarebbe una giustificazione di quell’oscurità poetica su cui verte il rimprovero di Bonagiunta (cfr. F. Brugnolo, Spunti per un nuovo commento a Guinizzelli, in Intorno a Guido Guinizzelli, cit., pp. 37-56, a p. 55).

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tese D’entier vers far ieu non pes di Bernart Marti:16 dal momento che Dio ha creato il mondo prevedendo intelligenze diverse, è sempre consigliabile un atteggiamento di prudenza, anzi è folle chi crede di arrogarsi il possesso esclusivo della verità. Dietro l’invito alla cautela, però, Guinizzelli fa trapelare la propria superiorità e, soprattutto, chiude la bocca al suo avversario. Il dialogo riprenderà – artefice e giudice Dante – nella finzione del Purgatorio. 2. Guittone e Guinizzelli A differenza di Bonagiunta, Guittone non può certamente dirsi compagno di strada di Guinizzelli, e, almeno in un primo tempo, l’aretino si mostrò indifferente alla voce poetica – probabilmente dal suo punto di vista flebile – del bolognese. A un tratto, tuttavia, qualcosa dovette colpirlo, tanto da sfiorare la sua snobistica superiorità. Il sonetto S’eo tale fosse ch’io potesse stare, da includere entro il perimetro della poesia erotica di Guittone, come conferma la dislocazione nel testimone unico (v430), si presenta come una critica rivolta a un innominato rimatore, che nel lodare la propria donna commette il « laido errore » di equipararla a elementi inanimati a lei ontologicamente inferiori: S’eo tale fosse, ch’io potesse stare sanza riprender me, riprenditore, credo farebbi alcuno amendare certo, a lo mio parer, d’un laido errore; che, quando vol la sua donna laudare, la dice ched è bella come fiore, e che di gemma o ver di stella pare, e che ’n viso di grana ave colore. Or tal è pregio per donna avanzare, ched a ragione maggio è d’ogni cosa che l’omo pote vedere o toccare?

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16. Lo ha messo in luce Giunta, La poesia, pp. 110-14, che, però, conclude la sua analisi ridimensionando lo scambio di sonetti tra Guinizzelli e Bonagiunta. Esso, infatti, essendo costruito su un tessuto di immagini e di contenuti codificati, in particolare il cifrario del gap e del contro-gap trobadorico, « ben difficilmente […] può aspirare al ruolo che gli toccò in sorte presso i posteri, di spartiacque tra ‘vecchia maniera’ e dolce stil nuovo » (p. 114).

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il dolce stil novo Ché natura né far pote né osa fattura alcuna né maggior né pare, for ched alquanto l’om maggior si cosa.

Sebbene non si possa ritenere completamente immune da un simile errore, Guittone considera riprovevole formulare la lode della donna servendosi di equiparazioni tratte da elementi, pur belli, del mondo naturale. Non sarebbe un’esaltazione, ma la degradazione di un essere che la Natura ha collocato, per perfezione e valore, superiore alle altre creature, a eccezione dell’uomo.17 Secondo un’intuizione di Francesco Torraca, poi ripresa e precisata da vari esegeti,18 questo testo è accostabile a due sonetti di Guido Guinizzelli, Vedut’ ho la lucente stella diana e Io vo’[glio] del ver la mia donna laudare (rispettivamente Guinizzelli, vii e x), i quali dunque sarebbero il diretto bersaglio polemico dell’aretino. In particolare, è stata notata la corrispondenza rimica tra i tre testi,19 ma per la verità in questo caso occorre anche ammettere che essa non può ritenersi dirimente, vista la facilità delle rime -ore e -are.20 I legami lessicali tra i tre sonetti sono, però, precisi e ben individuabili. Il v. 5 di S’eo tale fosse, « che, quando vol la sua donna laudare », ricalca indubitabilmente l’incipit di Guido: « Io vo’[glio] del ver la mia donna laudare ». Inoltre, il v. 6, « le dice ched è bella come fiore », sembra voler ridurre ad unum le similitudini floreali dei versi 2 e 6 di Io vo’[glio] del ver: « ed asembrarli la rosa e lo giglio » e « tutti color’ di fior’, giano e vermiglio », deducendo forse l’aggettivo « bella » dal v. 4 « e ciò ch’è lassú bello a lei somiglio ».21 17. Nella canzone Ahi lasso, che li boni e li malvagi, vv. 62-72, Guittone con riferimento al cap. ii del Genesi, considera, comunque, l’origine femminile superiore a quella maschile, perché la donna è generata dalla costola dell’uomo e non dalla terra (« de limo terrae »). 18. F. Torraca, Fra Guittone (1907), in Id., Studi di storia letteraria, Firenze, Sansoni, 1923, pp. 108-52, a p. 11; per una bibliografia recente cfr. Borsa, La nuova poesia, cit., p. 62. 19. Favati, Inchiesta, p. 71. 20. La rima -are, dei versi dispari delle quartine e delle terzine di S’eo tale fosse, trova corrispondenza nelle rime dei versi dispari delle quartine di Io vo’[glio] del ver la mia donna laudare; la rima -ore, dei versi pari delle quartine del sonetto guittoniano, segna analogamente i versi pari delle quartine di Vedut’ ho la lucente stella diana. 21. M. Picone, Guittone, Guinizzelli e Dante, in Intorno a Guido Guinizzelli, cit., pp. 69-84, a p. 72.

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Ancora. Il v. 7 di S’eo tale fosse, « e che di gemma o ver di stella pare », combina l’incipit di « vedut’ ho la lucente stella diana, / ch’apare anzi che ’l giorno rend’ albore », con il v. 3 (« piú che stella dïana splende e pare ») e con il v. 7 (« oro ed azzurro e ricche gioi per dare ») di Io vo’[glio] del ver. Il termine « gemma » (‘pietra preziosa’) sembrerebbe riassumere l’enumerazione di oggetti preziosi di Guido, e nel generico « stella » sfumerebbe la « stella diana ».22 Infine il v. 8 del sonetto guittoniano (« e che ’n viso di grana ave colore ») riproduce quasi esattamente il v. 5 di Vedut’ ho (« viso de neve colorato in grana »): al bicromatismo del testo di Guinizzelli (sul pallore soffuso del volto dell’amata si accende il rosso delle labbra e delle gote) corrisponde il monocromatismo del testo di Guittone. Le connessioni individuate sono tante e tali da autorizzare la sovrapposizione delle carte, ma la filigrana intertestuale è piú intricata e stratificata, cosicché il discorso si fa piú complesso. In una densa e persuasiva relazione letta al convegno guinizzelliano di Monselice del 1976, Furio Brugnolo ha dimostrato la fitta rete intertestuale – che definí « intertestualità forte » –, la quale lega il sonetto di Guinizzelli Vedut’ ho la lucente stella diana ad una costellazione di testi, tanto da creare una linea poetica ben riconoscibile nella tradizione. Pertanto – scrive Brugnolo –, « parafrasando e attaccando Guinizzelli, Guittone attacca e parafrasa simultaneamente […] tutto il sistema dei testi […] ‘leggibili’ in Guinizzelli », cosicché quello di Guittone può essere considerato « un tiro incrociato ».23 Proseguendo per questa via, dunque, il riconoscimento del sostrato retorico e stereotipato di questa “maniera” della lode finisce col depotenziare l’attacco guittoniano, e S’eo tale fosse non potrebbe essere interpretato come « un testo di natura seriamente e sinceramente polemica »; anzi, secondo Claudio Giunta, « proprio perché questa è ormai una langue consolidata che fa tutt’uno con la tradizione, e non una somma di atti individuali di parole, Guittone può 22. Per questa analisi cfr. ivi, pp. 72-73, e, in precedenza, Marti, p. 31. Picone fa anche notare che, sempre a proposito del v. 7 del sonetto guittoniano, la lezione « pare » non va intesa nel modo in cui la intende la vulgata continiana, cioè come aggettivo (col valore di ‘uguale’: ciò che provocherebbe una rima identica col v. 13), ma come verbo (‘appare’), esattamente come attestato nei luoghi paralleli guinizzelliani. 23. F. Brugnolo, “Parabola” di un sonetto del Guinizzelli: ‘ Vedut’ ho la lucente stella diana’, in Per Guido Guinizzelli. Il Comune di Monselice (1276-1976), Padova, Antenore, 1980, pp. 53-105, citaz. rispettiv. alle pp. 82 e 83.

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sfruttarla in blocco non già come referente polemico ma come trampolino per una lode ‘piú alta’ ».24 L’analisi di Brugnolo e le deduzioni di Giunta sono limpide, ma, secondo me, i contatti lessicali tra S’eo tale fosse e i due sonetti di Guinizzelli sono talmente precisi, che ritengo piú corretta e condivisibile l’intuizione di Torraca: l’aretino ha in mente un obiettivo ben definito e, da parte nostra, individuabile, cosicché penso che la sua critica si possa considerare indirizzata proprio a Guido. Del resto, è propriamente nei sonetti Vedut’ ho la lucente stella diana e Io vo’[glio] del ver la mia donna laudare che il poeta bolognese compie uno scarto rilevante rispetto alla tradizione e alla sua stessa linea poetica precedente: la laus mulieris risulta condotta non secondo il consueto tipo retorico del sopravanzamento, ma attraverso l’equiparazione della donna alle altre creature.25 Proprio questo procedimento analogico sembra stigmatizzare Guittone, il quale nelle terzine di S’eo tale fosse sanziona quello stile della lode, che comporta la regressione delle donne a creature inanimate ontologicamente inferiori. E non si tratta solo di una questione poetica: la problematica è ben piú seria perché ha conseguenze metafisiche. Per lodare l’amata Guinizzelli si serve di un modulo proprio della poesia religiosa, come rivelano i puntuali rimandi al Cantico dei Cantici e al Siracide. Inoltre, anche le virtú femminili che Guido esalta nella sua donna si spiegano solo nell’ottica del sacro, e sono aspetti tanto piú marcati e appariscenti quanto piú l’autore dichiara súbito all’inizio di svolgere il tema secondo verità (« del ver »: Guinizzelli, x 1). Lo scarto, allora, sta nelle implicazioni ontologiche e teologiche del modulo analogico. Il rinnovamento della tradizione non è solo un problema di retorica. La poesia piú originale di Guido – quella agli occhi di Guittone piú pericolosa – si apre alla metafisica. Saranno i poeti della generazione successiva, in primis Cavalcanti e Dante, a intuirne le potenzialità. Poste queste premesse, è sinceramente imbarazzante sottoscrivere l’interpretazione tradizionale della tenzone tra Guinizzelli e Guittone. Alla proposta del bolognese ‹O› caro padre meo, de vostra laude l’aretino rispo24. Entrambe le citaz. da Giunta, La poesia, p. 195, ma cfr. tutto il paragrafo dedicato al sonetto: pp. 187-200. 25. Borsa, La nuova poesia, cit., pp. 61-102.

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se per le rime con il sonetto Figlio mio dilettoso, in faccia laude (Guinizzelli, xixa-b): ‹O› caro padre meo, de vostra laude non bisogna ch’alcun omo se ’mbarchi, ché ’n vostra mente intrar vizio non aude, che for de sé vostro saver non l’archi. A ciascun rëo sí la porta claude, che, sembr’, ha piú via che venezi’ ha marchi;26 entr’ a’ Gaudenti ben vostr’ alma gaude, ch’al me’ parer li gaudî han sovralarchi. Prendete la canzon, la qual io porgo al saver vostro, che l’aguinchi e cimi, ch’a voi ciò solo com’ a mastr’ accorgo, ch’ell’ è congiunta certo a debel’ vimi: però mirate di lei ciascun borgo per vostra correzion lo vizio limi.

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Scrive Guido: ‘Mio caro padre, non è necessario che qualcuno si sobbarchi all’impresa di lodarvi, dal momento che nella vostra mente non osa entrare vizio che il vostro sapere non saetti fuori di sé, espellendolo come freccia da un arco. Cosí il vostro sapere chiude la porta a ogni peccato, dei quali vizi, a quanto sembra, ve ne sono piú di quanti marchi abbia venezia; tra i frati Gaudenti, che a parer mio hanno gaudî sovrabbondanti, la vostra anima gode bene. Prendete la canzone, che io porgo al vostro sapere, affinché esso l’avvinca e la ripulisca del superfluo – infatti l’affido solo a voi quale autentico maestro – poiché essa è stretta certo con deboli legami:27 perciò, badate che ogni sua parte emendi la sua imperfezione per mezzo della vostra correzione’. Figlio mio dilettoso, in faccia laude non con descrezïon, sembrame, m’archi: 26. marchi: allusione alla diffusione del nome nella città lagunare o, meglio, alla moneta veneziana (Giunta, La poesia, p. 186). 27. I vimi e l’aguinchiare rientrano nella sfera semantica della tessitura e dunque rimandano alla consueta metafora tessile del componimento letterario, il testo appunto. Per vimi vale l’accezione traslata dei vimina latini (‘legami, vincoli’); per aguinchi si potrebbe pensare al provenzale jonher, ‘unire, congiungere’ (ivi, p. 187).

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il dolce stil novo lauda sua volonter non saggio l’aude, se tutto laudator giusto ben marchi; per che laudar me te non cor me laude, tutto che laude merti e laude marchi: laudando sparte bon de valor laude, legge orrando di saggi e non di marchi. Ma se che degno sia figlio m’acorgo, no amo certo guaire a te dicimi, ché volonteri a la tua lauda accorgo. La grazia tüa che ‘padre’ dicimi, ch’è figlio tale assai pago, corgo, purché vera sapienzia a poder cimi.

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Risponde Guittone: ‘Figlio mio diletto, tu mi saetti in faccia una lode, mi sembra, indiscreta: il non saggio ascolta volentieri la propria lode, quandanche un giusto lodatore colpisca nel segno; per la qual cosa il mio cuore non giudica degno che io ti lodi, sebbene tu meriti lodi e segni a tuo vantaggio lode; la lode, lodando, divide il bene dal valore, se si vuole seguire la legge dei saggi e non quella degli stolti. Ma se mi accorgo che tu sei degno figlio, non desidero affatto sminuirti, per cui accorro volentieri alla tua lode; la grazia che mi fai dicendomi “padre” accolgo, assai appagato di avere un figlio tale, purché, per quel che puoi, tu coltivi la vera sapienza’. A lungo la critica ha considerato ‹O› caro padre meo come il deferente atto di omaggio di un giovane poeta all’indiscusso protagonista della poesia contemporanea, il quale accetta la tenzone ma si guarda bene dall’impegnarsi nella correzione della canzone inviatagli. Una simile interpretazione sarebbe autorizzata dalla facies dei due testi e anche dalla loro particolare testimonianza manoscritta. La tenzone, infatti, è tràdita esclusivamente dal codice Laurenziano, ossia, come già sappiamo, dall’antologia duecentesca allestita nel piú stretto entourage guittoniano con l’obiettivo non troppo dissimulato di fornire un’altisonante celebrazione del poeta aretino: se i compilatori avessero sospettato di ambiguità quei due componimenti o li avessero ritenuti tutt’altro che elogiativi nei confronti di Guittone, la logica compositiva avrebbe imposto la loro esclusione. La posizione nel manoscritto della tenzone (cc. 125r-v: L277 e L278), e la rubrica (« messer Guido Guinizzelli a frate Guittone » e « frate Guittone 116

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risposta al soprascritto ») ci informano anche che questa tenzone appartiene al periodo successivo all’ingresso dell’aretino (circa 1265) nell’ordine religioso della milizia di Maria vergine Gloriosa, piú noto come l’ordine dei frati Gaudenti. Sebbene sia esercizio arduo se non vano fissare una cronologia precisa del corpus guinizzelliano (e guittoniano),28 in questo caso, tuttavia, si può approvare la cronologia relativa ed essere abbastanza sicuri che la tenzone segua e non preceda S’eo tale fosse. Le domande e i dubbi, però, si accavallano. Perché Guido, precedentemente sanzionato da Guittone, avrebbe dovuto scrivergli un testo deferente e soprattutto avrebbe dovuto riconoscerlo idoneo correttore di una sua canzone, e probabilmente della sua canzone piú eccellente e innovativa? Perché Guido, che si è sempre mantenuto indipendente dal magistero guittoniano, avrebbe ora bisogno di consigli da parte dell’aretino? Perché Guido, per nulla giovane e inesperto poeta in cerca di una prestigiosa paternità,29 avrebbe dovuto rivolgersi umilmente a un simile e ingombrante « padre »? E ancora, « è mai possibile che l’elogio di un frate gaudente giunga proprio da un bolognese (che degli emiliani gaudenti doveva ben conoscere l’atteggiamento), laico e per giunta ghibellino? ».30 Un’altra perplessità, tutt’altro che irrilevante, riguarda la canzone per la quale Guinizzelli chiede l’expertise. Dovendo scegliere tra cinque pezzi sicuri, la critica si è orientata verso Lo fin pregi’ avanzato (Guinizzelli, v), che sarebbe piú fortemente indiziata per la sua tessitura “guittoniana”. La congettura, che risale almeno a Contini, è stata poi precisata da Guglielmo Gorni, secondo il quale i « debel’ vimi » del sonetto (Guinizzelli, xixa 12) potrebbero alludere ai « legami lassi della testura, dunque le rime irrelate » di quella canzone.31 Lo fin pregi’ avanzato è certamente un testo di difficile interpretazione per le invenzioni lessicali, per le rime identiche ed equi28. Certamente condivisibile il richiamo di Gorni, Il nodo della lingua, cit., p. 27: « salvo l’accertamento di circostanze storiche inoppugnabili, a mio avviso è anche metodologicamente impropria ogni illazione diacronica sulle rime del Guinizzelli ». 29. Da un aggiornato esame delle fonti archivistiche (cfr. piú avanti, il cap. vi) si evince che Guido Guinizzelli nacque probabilmente intorno al terzo decennio del ’200 e, dunque, risulta essere piú anziano di Guittone, che nacque in un anno imprecisabile tra il 1230 e il 1240. 30. Borsa, La nuova poesia, cit., p. 25. 31. Gorni, Il nodo della lingua, cit., p. 29. Ma è argomento specioso, perché nasce da un

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voche e per una diffusa tendenza alla equivocatio spinta all’estremo, che rappresenta un esempio di complessità, però – come ha riscontrato e accertato Claudio Giunta – « piú ‘panucciana’ che ‘guittoniana’ ».32 Del resto, anche quando, come in questo caso, Guinizzelli abbandona la privilegiata linea leu in favore di uno stile piú complicato, il suo modello di riferimento non è l’oscurità guittoniana, ma – come abbiamo già visto (p. 67) – il trobar car di Raimbaut d’Aurenga e, soprattutto, di Arnaut Daniel.33 Perché, allora, Guido avrebbe dovuto sottoporre a Guittone proprio quella canzone? Francamente, è difficile trovare una risposta persuasiva, cosicché è forse meglio pensare a un altro testo piú pertinente. Negli ultimi tempi sono, infatti, decisamente salite le quotazioni dell’ipotesi Al cor gentil (Guinizzelli, iv), supposizione avanzata inizialmente, e con motivazioni diverse, da vincent Moleta e da Marian Papahagi, e successivamente accolta e avvalorata da altri.34 In proposito, la rarissima rima di probabile origine arnaldiana (-aude) è parso argomento in piú, e non irrilevante, a favore di Al cor gentil, visto che nei tre canzonieri delle Origini, ad eccezione del sonetto di Guittone Temperanza di corpo (L242), compare solo nella tenzone Guittone-Guinizzelli e nel congedo di Al cor gentil.35 Se l’ipotesi è giusta, l’allegazione e la richiesta di correzione hanno tutta l’aria di essere un’irriguardosa provocazione di Guido nei confronti dell’aretino. Peccare è umano, perseverare è diabolico. La canzone, infatti, non solo si iscrive nel clima di novità dei due sonetti a suo tempo stigmatizzati da Guittone, ma porta anche alle estreme conseguenze il già censurato modulo analogico.36 Nella quinta stanza di Al cor gentil Guinizzelli fraintendimento della nota continiana. Le rime irrelate della canzone non sono, infatti, numerose. Cfr. anche Borsa, La nuova poesia, cit., p. 58. 32. Giunta, La poesia, p. 196. 33. Cfr. Rea, Guinizzelli ‘praised and explained’, cit., pp. 10-11. 34. Cfr. v. Moleta, “Al cor gentil”: canzone pre-dantesca o post-guittoniana?, in SPCT, vol. xiii 1976, pp. 24-46; e Id., Guinizzelli in Dante, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1980; M. Papahagi, Guido Guinizzelli e Guittone d’Arezzo: contributo a una ridefinizione dello spazio poetico predantesco, in Guittone d’Arezzo nel settimo centenario della morte, cit., pp. 269-93. Per le recenti adesioni a questa ipotesi cfr. Borsa, La nuova poesia, cit., pp. 58 e 181-92. 35. Borsa, La nuova poesia, cit., p. 181. 36. Sul procedimento analogico, definito piuttosto “omologia strutturale”, si veda S.

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istituisce una vera e propria analogia tra Dio e madonna, paragonando il rapporto che intercorre tra Dio e le intelligenze angeliche a quello esistente tra la donna e il proprio fedele innamorato. Al tempo di S’eo tale fosse, Guittone aveva considerato l’equiparazione della donna alle creature inanimate un « laido errore » per incommensurabilità ontologica. Ebbene, ora Guido la innalza fino al cielo e nel congedo immagina una scenetta paradisiaca in cui il poeta è chiamato a difendersi per aver rivolto ad una creatura le lodi che necessariamente sono riservate a Dio e a Maria; il punto forte della sua arringa davanti al Padre celeste è che quella donna aveva l’aspetto di un angelo e di conseguenza, se a lei ha indirizzato il suo amore, il suo non può essere considerato un peccato. Ora, però, una volta entrato nell’ordine della milizia della beata Maria vergine Gloriosa, Guittone ha fatto di tutto per sbandierare la propria conversione esistenziale e poetica: non piú poeta d’amore, ma poeta della rettitudine. Il suo intento esplicito è ora quello di separare nettamente materia erotica e materia morale, tanto che perfino ogni minimo tentativo di conciliazione non può che considerarsi peccaminoso. Ciò nonostante, Guinizzelli gli sottopone un testo erotico in cui, a prescindere dalle per altro non inedite tesi sulla nobiltà d’animo e sulla consustanzialità di amore e cor gentile, si propone un’ardita riabilitazione sul piano etico della nozione cortese della fin’amors, tanto che si giunge a conferire alla donna un potere salvifico in una sorta di redenzione laica dell’amante. Si deve prendere atto che nella sua risposta Guittone stende il velo del silenzio su quella canzone e rifiuta l’ambigua proposta di fornirne l’expertise. Del resto, la sperticata lode dell’aretino che si estende alle due quartine, e per di piú enfatizzata da una serie di artifici retorici, ha tutta l’aria di essere ironica se non parodica.37 E Guittone lo ha capito perfettamente, co-

Hartung, Guido Guinizzelli e la teologia della grazia, in Da Guido Guinizzelli a Dante, cit., pp. 147-70. 37. Su questa linea si sono mossi recentemente alcuni critici: per es. Guinizzelli, Rime, ed. Rossi, cit., p. 68: « altrettanto indubbio è che l’arma scelta da Guido sia quella della parodia » (p. 68); A. Borra, Guittone d’Arezzo e le maschere del poeta. La lirica cortese tra ironia e parodia, Ravenna, Longo, 2000, p. 10, si è spinto fino a definire il sonetto una « irrispettosa parodia »; anche R. Antonelli, Dal Notaro a Guinizzelli, in Da Guido Guinizzelli a Dante, cit., pp. 107-46, a p. 144, privilegia una lettura « sotto il segno dell’ironia ». Cfr., infine, J. Stein-

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me rivela l’attacco della sua risposta: « Figlio mio dilettoso, in faccia laude / non con descrezïon, sembrame, m’archi » (Guinizzelli, xixb 1-2). Se poi si entra piú in profondità nel tessuto rimico del sonetto, si può riconoscere meglio la sottile strategia di Guido. Nel capitolo precedente (pp. 63-64) ho già rilevato, sulla scorta di un’analisi di Roberto Rea, che la rima -archi (la rima B delle quartine) si ritrova nella canzone Si·m fos Amors di Arnaut Daniel. Aggiungo ora che anche l’altra rima delle quartine, quella in -aude, presenta tre rimanti su quattro (laude : non aude : claude: vv. 1, 3, 5) riconducibili ad Arnaut, En breu brizara (BdT, 29 9, vv. 9, 17, 33): Amors es de pretz la claus […] Falhirs emendatz es laus […] Tan dopti que per non-aus

Dirimenti sono, però, i rimanti delle terzine, là dove si trova la provocatoria richiesta di correzione: cimi : vimi : limi. La serie ha, infatti, un puntuale riscontro nella arnaldiana Canso do·ill mot (BdT, 29 6, vv. 2-3, 12-14): fas pus era botono·ill vim, e l’aussor sim […] obri e lim motz de valor ab art d’Amor

Si tratta, tra l’altro, di una serie rimica che « riveste un ruolo cruciale nella lirica di Arnaut, perché veicolata alla personale rivendicazione di una superiore maestria tecnica ispirata dal diretto magistero di Amore ».38 La filigrana arnaldiana del sonetto di Guinizzelli è cosí appariscente, che non può essere casuale, anzi può essere decrittata come un ulteriore attacco contro Guittone. Insomma, per riprendere la conclusione di Roberto Rea, berg, Accounting for Dante. Urban Readers and Writers in Late Medieval Italy, Notre Dame, Univ. of Notre Dame Press, 2007. 38. Cfr. Rea, Guinizzelli ‘praised and explained’, cit., p. 6, articolo al quale rimando anche per l’analisi – da me qui riproposta – della struttura rimica del sonetto di Guido.

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« Guido non si lascia sfuggire l’opportunità di denunciare come ormai ‘superata’ l’obscuritas rigida e artificiosa del trobar clus guittoniano, additandogli la limpida e raffinata plasticità del trobar car arnaldiano ».39 Nella tenzone con Bonagiunta, Guinizzelli per la sua risposta aveva scelto come ipotesto un serventese di Bernart Marti, ora, di contro a Guittone, dialoga sottilmente con Arnaut Daniel. I modelli prescelti sono indicativi di un ben preciso disegno poetico e sono un segnale non solo dell’indipendenza culturale di Guido, per nulla impressionato dall’imperante figura dell’aretino, ma anche della continua ricerca di nuove vie. Forse, però, ‹O› caro padre meo riserva altri significati. Una recente lettura di Paolo Borsa ha messo in luce, sotto l’apparente lode del presunto « padre », una mordente critica dell’avversario, che sarebbe accusato di avidità e di avarizia, e di cui sarebbe stigmatizzata l’ambigua condizione di frate Gaudente. La replica dell’aretino sarebbe non elusiva ma a tono, incentrata su una puntuale replica ai rimproveri di Guinizzelli: Guittone difenderebbe le giuste ricchezze del suo ordine e orgogliosamente riaffermerebbe la propria superiorità poetica e morale. L’interpretazione è suggestiva e ben argomentata. Stupisce, però, la collocazione della tenzone nel canzoniere Laurenziano, il monumento poetico a Guittone, costruito dai suoi sodali in puro granito senza crepe. Forse chi lo ha inserito non ha capito fino in fondo «il carattere bifronte del sonetto guinizzelliano»,40 o, meglio, ha valutato esauriente la risposta alle obiezioni del bolognese, tanto da divenire un ulteriore riconoscimento del «saver» guittoniano, in grado di rintuzzare ogni attacco. Bisogna anche aggiungere che negli ultimi anni del ’200, al tempo della compilazione di L e degli altri due canzonieri v e P, l’attaccante Guinizzelli godeva – prescindendo ora dalle opinioni degli stilnovisti – di un’indubbia posizione di prestigio, come dimostra la collocazione delle sue canzoni ad apertura del sesto fascicolo del vaticano, quello che inaugura la serie dei rimatori dell’Italia centrale dopo i primi quaderni dedicati all’esperienza poetica della Magna Curia. Guinizzelli appare, infatti, un grande contemporaneo di Guittone,41 con 39. Ivi, p. 11. 40. Borsa, La nuova poesia, cit., p. 45. 41. Tra l’altro L. Rossi, Ripartiamo da Guinizzelli, in Da Guido Guinizzelli a Dante, cit., pp. 25-58, a p. 41, riprende l’ipotesi di Salvatore Santangelo, secondo la quale possa riconoscersi

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una sua propria cifra stilistica:42 una pronta e ben argomentata risposta a quel poeta, allora, non sminuirebbe ma avvalorerebbe il magistero guittoniano. Forse i compilatori di L hanno ragionato cosí; è certo, comunque, che quella tenzone ha a lungo sviato gli interpreti e, probabilmente, non ha ancora esaurito le sue sorprese.43 3. Cavalcanti e Guittone Non fu certamente sviato Guido Cavalcanti. Anzi, l’attacco contro Guittone fu un motivo in piú per fargli apprezzare il suo omonimo bolognese, del quale aveva già intuito e ammirato la novità nel panorama poetico del tempo. Se, tuttavia, Guinizzelli aveva dissimulato la sua critica dietro la maschera del registro ironico e parodico, Cavalcanti affonda il colpo e lo fa con impeto giovanile e altezzosa consapevolezza del proprio ingegno. Il fioretto non è la sua arma preferita. Per la verità non è un’idiosincrasia assoluta, perché se ne servirà in altre circostanze e con altri avversari, ma ora, contro un simile antagonista, sceglie un’arma decisamente piú pesante. Il sonetto Da piú a uno face un sollegismo indirizzato a frate Guittone è, infatti, un’accusa aperta e sfacciata, venata di sarcasmo e irrisione. Cavalcanti non ha scrupoli di deferenza e rispetto. Di contro alla sua innovativa poesia, che prorompe nel contesto contemporaneo con tutta la carica aggressiva e irruente della personalità forte e sdegnosa del suo autore, il vecchio Guittone rappresentava il passato da avversare e superare. L’attacco di Guido è mirato: la corona di sonetti contro il carnale amore, proprio in Guinizzelli, e non in Bernart de ventadorn, il bersaglio polemico della canzone guittoniana Ora parrà s’eo saverò cantare. Sarebbe un ulteriore riconoscimento di Guido « om tenuto saggio » (v. 5). 42. Antonelli, Struttura materiale, cit., p. 13. Nell’incartamento del dissidio GuittoneGuinizzelli occorre inserire anche la canzone iii (Donna, l’amore mi sforza), che rimanda fittamente a Madonna, dir vo voglio di Giacomo da Lentini e che si iscrive anche in un dibattito sull’idea di amore che coinvolge vari poeti del tempo. Contro la concezione di Guittone espressa in Amor tanto altamente, Guido – e con lui altri interlocutori in un vero e proprio circolo dialogico – pare recuperare la centralità della lezione lentiniana, collocandola sotto il segno di un destino drammatico (cfr. Antonelli, Dal Notaro a Guinizzelli, cit., pp. 107-46). 43. Tende a sminuire l’importanza della tenzone Giunta, La poesia, pp. 179-87, che provocatoriamente intitola il paragrafo che la riguarda: « Due testi non poi cosí cruciali ».

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conosciuta anche col titolo piú generico di « Trattato d’amore ».44 Lo ha dimostrato, a mio giudizio persuasivamente, Roberta Capelli45 avvalorando un’ipotesi di Contini, per altro già argomentata da Marcello Ciccuto,46 e confutando altre proposte di identificazione.47 Il ciclo è costituito da 15 componimenti – 12 sonetti e una cobbola di Guittone con l’aggiunta di due sonetti di risposta composti da Federigo dall’Ambra – sul tema dell’amore carnale, tràditi in attestazione unica dal codice Escorialense (E = e III 23 della Real Biblioteca di San Lorenzo dell’Escorial, Madrid), un manoscritto di area veneta copiato tra la fine del ’200 e i primissimi anni del ’300 e discendente da un antigrafo composto verosimilmente tra il 1285 e il 1290.48 La collana poetica è coesa da elementi paratestuali come le rubriche e la decorazione, ed è organizzata intorno alla figura da collocare tra il primo e il secondo testo, la quale dovrebbe raffigurare Amore secondo l’iconografia tradizionale del fanciullo alato, nudo, cieco, armato di faretra e frecce. In realtà l’immagine, pur essendo prevista – come confermereb44. Tale dicitura si deve a Francesco Egidi che pubblicò per la prima volta il ciclo poetico nel 1931, e lo inserí poi nella sua edizione delle opere di Guittone del 1940: cfr. F. Egidi, Un “Trattato d’Amore” inedito di Fra Guittone d’Arezzo, in GSLI, vol. xlvii 1931, pp. 49-70; Guittone d’Arezzo, Rime, a cura di F. Egidi, Bari, Laterza, 1940. 45. Si rimanda all’introduzione di Roberta Capelli e all’Appendice 2, Guido Cavalcanti contro frate Guittone, in Guittone d’Arezzo, Del carnale amore, a cura di R. Capelli, Roma, Carocci, 2007, rispettiv. pp. 9-59 e 135-47. 46. vd. Contini, p. 121, e M. Ciccuto, Da piú a uno face un sollegismo, in Id., Il restauro, cit., pp. 13-47. 47. Alcuni interpreti avevano pensato alle Lettere di Guittone (in particolare la i a Gianni Bentivegna); altri alla canzone Poi male tutto è nulla, incentrata sulla necessità dell’esistenza di Dio; altri alla celebre e altezzosa dichiarazione di poetica che chiude la canzone Altra fiata aggio già (vv. 159-69); altri al “canzoniere” dell’aretino individuato nel codice Laurenziano. 48. La presenza di Guittone in questo canzoniere prevalentemente stilnovista può stupire e apparire eccentrica. Si tratta, però, di un codice organizzato su base tematica in cui i materiali poetici, soprattutto poesie d’amore, sembrano ruotare attorno al filo conduttore del « vezer », secondo un’impostazione antologica normalizzante e attardata (cfr. alcuni canzonieri trobadorici) rispetto a canzonieri di poco posteriori come v, L e P (cfr. la già citata introduzione di R. Capelli a Guittone d’Arezzo, Del carnale amore, cit., pp. 11-12; e cfr. anche S. Carrai, Fisionomia poetica del canzoniere escorialense, in Il Canzoniere escorialense e il frammento marciano dello stilnovo, a cura di S. Carrai e G. Marrani, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2009, pp. 3-10, a p. 3). Nel codice non è compreso il sonetto di Cavalcanti, Da piú a uno.

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be la presenza della didascalia per il miniatore e di uno spazio bianco –, non è stata realizzata nell’Escorialense.49 Un simile progetto – didatticamente studiato e retoricamente elaborato ma che mascherava dietro la novità macrostrutturale una prospettiva antiquata e per di piú viziata da un moralismo greve e ipocrita – non poteva che attrarre gli strali di Guido (Cavalcanti, xlvii): Da piú a uno face un sollegismo: in maggiore e minor mezzo si pone, che pruova necessario sanza rismo; da ciò ti parti forse di ragione? Nel profferer che cade ’n barbarismo, difetto di saver ti dà cagione; e come far poteresti un sofismo per silabate carte, fra Guittone? Per te non fu giammai una figura; non foria, posto il tuo, un argomento; induri quanto piú disci; e pon’ cura, ché ’ntes’ ho che compon’ d’insegnamento volume: e fòr principio ha da natura. Fa’ ch’om non rida il tuo proponimento!

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‘Ricavare da piú premesse un’unica proposizione costituisce un sollegismo: fra il termine maggiore e il minore se ne interpone uno medio, che dimostra la necessità della conclusione senza bisogno di veste poetica;50 da questo procedimento logico ti allontani forse con una precisa ragione? L’igno49. Secondo R. Capelli, Nuove indagini sulla raccolta di rime italiane del ms. Escorial e.III.23, in « Medioevo letterario d’Italia », i 2004, pp. 73-113, alle pp. 99-100, per le caratteristiche codicologiche e soprattutto per la particolare impaginazione della c. 74 dell’Escorialense in cui è copiato l’intero ciclo, la miniatura non doveva essere materialmente eseguita, ma solo segnalata e descritta in previsione di essere in séguito realizzata in altri eventuali manoscritti derivati da esso. 50. Al v. 3 rismo è la lezione dei codici, che si può spiegare come ‘ritmo, rime, testo in versi’, ma è lezione non accolta da tutti. C. Giunta, Una parola di Guido Cavalcanti: « orismo »?, in « Lingua e stile », a. xli 2006, pp. 101-8, ha proposto la congettura « orismo », ‘definizione’; e De Robertis, p. 185, « arismo », ‘numero’ nel senso di ‘cumulo di auctoritates’ messe in campo da Guittone nella sua lettera a Gianni Bentivegna, che il commentatore ritiene la causa scatenante del sonetto.

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ranza è la causa del tuo modo di esprimerti che scivola nel barbarismo; e come potresti fare un sofismo in versi, fra’ Guittone? 51 Per opera tua non s’ebbe mai una rappresentazione; se si accettasse il tuo modo di argomentare, verrebbe meno il ragionamento dimostrativo;52 diventi sempre piú ottuso quanto piú credi di imparare;53 stai attento, perché ho sentito dire che stai componendo un volume di insegnamenti: e sarebbe un principio fuori di natura, sarebbe insomma fuori delle tue possibilità. Fa’ che non si derida il tuo progetto!’. Innanzi tutto osserviamo che lo schema metrico del sonetto (ABAB ABAB CDC DCD) coincide con quello della tenzone Guinizzelli-Guittone, ma ha anche, e soprattutto, significative corrispondenze di rima e di parole rima con la corona guittoniana.54 Dunque, la scelta da parte di Cavalcanti di abbandonare nella fronte del sonetto la privilegiata rima incrociata in favore di quella alternata ha tutta l’aria di essere un’indicazione segnaletica. Per quanto riguarda il lessico, poi, il volutamente ambiguo sollegismo (v. 1)55 è certamente decifrabile come un affondo contro la presunta organiz51. Il sofismo è un’affermazione controintuitiva che può essere con pari diritto considerata vera o falsa; nelle università medievali è un esercizio logico molto vicino alla quaestio che viene presentato, discusso e determinato in occasioni particolari dell’anno accademico (Giunta, Una parola, cit., p. 107). 52. Per la modifica a testo cfr. A. Menichetti, Una nuova edizione delle ‘Rime’ di Cavalcanti, in « Aevum », a. lxi 1987, pp. 389-97, a p. 397, che propone di restare fedeli al ms. Chigiano (Ch), modificando il testo De Robertis, p. 186: « non for’ aposto il tuo in argomento », ‘non sarebbe mai addotto ad argomento il tuo’, costruito sulla base di una precedente intuizione continiana; ora Rea-Inglese, p. 249, promuovono: « non fori’ aposto il tüo argomento », ‘non sarebbe adatto il tuo ragionamento’. 53. Segnalo che G. Desideri, « Da piú a uno face un sollegismo » (v. 11, e 6 e 12), in « Critica del testo », a. iv 2001, pp. 469-80, e poi Berisso, p. 200, propongono di tornare alla tradizione manoscritta, « induri quando piú dissi » (la lezione De Robertis, p. 186, è congettura del Di Benedetto): e spiegano ‘quanto piú ti dissuado tanto piú ti ostini in questa direzione’; Rea-Inglese, p. 249, mettono a testo « induri quando piú dici », ‘diventi tanto piú oscuro quando piú ti esprimi’. 54. Cfr. Guittone d’Arezzo, Del carnale amore, cit., p. 136. 55. Il termine sollegismo ha una voluta ambiguità, come dimostrato da G. Desideri, Sed rideret Aristotiles si audiret… « Da piú a uno face un sollegismo », in Alle origini dell’io lirico. Cavalcanti o dell’interiorità, vol. monogr. di « Critica del testo », a. iv 2001, pp. 199-221. Esso, infatti, non

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zazione del ciclo guittoniano, che apparentemente sembra concepito come una specie di « sillogismo espanso »: se Amore è una passione irrazionale travolgente e deprecabile e l’amante è malato di amore, allora l’amante è degno di biasimo; dunque occorre assolutamente evitare di essere irretiti dal desiderio amoroso. Inoltre, almeno epidermicamente, quasi ogni componimento della corona sembra essere costruito attorno a una struttura di tipo sillogistico.56 In realtà, la logica della collana di Guittone è alquanto lasca, perché mescola sconclusionatamente e disordinatamente il procedimento dimostrativo con affermazioni assiomatiche e stantie interpretazioni di etimologie e simboli tradizionali. Ne deriva un cortocircuito logico che non può non suscitare la disapprovazione, e la derisione, del « loico » Cavalcanti. Per l’identificazione del bersaglio sono indizi rilevanti anche il vocabolo figura (v. 9), che nel duplice significato di ‘immagine dipinta’ e di ‘rappresentazione simbolica’ è il termine chiave della corona di sonetti contro il carnale amore; e l’argomento (v. 10), che rimanda precisamente ad un sonetto del ciclo guittoniano, Appresso che fatt’agio discernensa, ix 7-8: « de le quai prima snodrò la sentensa / de l’ale soe per argumento vivo »; ma il ragionamento « vivo » che dovrebbe provare la tesi, in realtà si configura successivamente come la ripresa di un cliché interpretativo di un simbolo consunto. All’identificazione proposta non osta nemmeno la parola volume (v. 13). Spiega, infatti, in proposito Roberta Capelli: « l’entità material-fascicolare del ciclo contro il carnale amore, ipoteticamente trascritto secondo criteri di mise en page da codice “di lusso”, potrebbe essere pari a un ternione (con miniatura a tutta pagina sul recto della prima carta e tre sonetti per lato di carta), ossia un’unità-editoriale compatibile alla definizione di volumen ».57 indicherebbe solo e propriamente il ‘sillogismo’, il noto metodo della logica, ma anche il ‘solecismo’, errore nella costruzione delle frasi sanzionato dalla retorica. L’ambiguità “solecismo/sillogismo” deriverebbe dagli Elenchi sofistici, testo allora diffusissimo perché incluso nei programmi di istruzione del tempo. La studiosa interpreta il face come una 2a persona singolare che avrebbe il « tu » (fra’ Guittone) soggetto. 56. Cfr. Guittone d’Arezzo, Del carnale amore, cit., pp. 136-37. 57. Ivi, pp. 137-38.

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Il sonetto Da piú a uno face un sollegismo stigmatizza, dunque, un progetto anacronistico dovuto alla stanca « plume d’un moraliste morose et vieillissant ».58 Nonostante il prestigio e il séguito di cui godeva anche a Firenze presso gli stolti che continuavano a dargli pregio « di grido in grido » (Purg., xxvi 125), Guittone è per Cavalcanti un poeta definitivamente sorpassato. La caustica critica di Guido non riguarda, però, la fenomenologia di Amore – perché sulla psico-patologia distruttiva della passione erotica poteva esserci anche una base di accordo –, ma la metodologia argomentativa e la poetica dell’aretino. La logica arruffata, il metodo apodittico, la consunta e stereotipata interpretazione tropologica di immagini tradizionali, per di piú congiunti all’obscuritas del dettato, a una sintassi aggrovigliata e alle anomalie metriche,59 sono i segni difettosi di un passato che i nuovi poeti, in primis Cavalcanti e Dante, vogliono superare.60 La nuova poesia d’amore, di cui si fanno antesignani, si fonda, al contrario, su un approfondimento speculativo e scientifico del sentimento, fondato sullo studio delle piú avanzate scoperte della scientia de anima e dell’antropologia contemporanea, su una limpidezza argomentativa, su un radicale sfrondamento degli eccessi retorici, metrici e stilistici, con il preciso obiettivo di raggiungere una chiarezza espressiva, perché la sottigliezza del ragionamento non equivale, come era tradizionalmente inteso, a esoterismo. La via giusta l’aveva indicata Guinizzelli, che aveva cercato di conferire una nuova e piú meditata legittimazione teorica, per non dire scientifica, alla metafisica amorosa su cui si fondava la lirica volgare, una legittimazione ispirata alla logica e alla fisica aristoteliche e sorretta da una solida preparazione universitaria,61 e aveva nei suoi testi piú innovativi raffinato il suo privilegiato trobar leu in un modello di stile nitido e cristallino. La stra58. C. Margueron, Recherches sur Guittone d’Arezzo, sa vie, son époque, sa culture, Paris, Puf, 1966, p. 94. 59. Il ciclo presenta spesso irregolarità accentuative degli endecasillabi, con anche ictus in quinta sede (cfr. Guittone d’Arezzo, Del carnale amore, cit., pp. 55-56). 60. V.n., xxv 10: « però che grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace intendimento ». Nel brano dantesco, già analizzato (p. 103), colpisce l’espressione « figura », che è, come abbiamo visto, il fulcro della corona guittoniana contro il carnale amore. 61. Rossi, Ripartiamo da Guinizzelli, in Da Guido Guinizzelli a Dante, cit., p. 32.

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da della nuova poesia era tracciata, ma era necessario distruggere definitivamente i retaggi, o le carcasse, della vecchia maniera. Una di queste carcasse potrebbe essere l’ultima stanza della canzone di Guittone Altra fiata aggio già, donne, parlato, vv. 159-70, che Guido Favati ha proposto di leggere come probabile risposta a Da piú a uno face un sollegismo, come rivelerebbe il « duro » del v. 165, collegabile a « induri » (v. 11) del sonetto cavalcantiano:62 Ditt’aggio manto e non troppo, se bono: non gran matera cape in picciol loco. Di gran cosa dir poco non dicese al mestieri o dice scuro. E dice alcun ch’è duro e aspro mio trovato a savorare; e pote essere vero. Und’è cagione? che m’abonda ragione, perch’eo gran canzon faccio e serro motti, e nulla fiata tutti locar loco li posso; und’eo rancuro, ch’un picciol motto pote un gran ben fare.

Alla circostanziata accusa di Guido, l’aretino risponderebbe con una compiaciuta autoincensazione. Riconosce il suo stile « duro » e « aspro », ma non lo giudica difettoso: la ragione sta nella difficoltà di serrare nell’ordito di una canzone la copiosità di argomenti che zampillano nella sua mente. Per la verità, se il sonetto di Cavalcanti, come credo, è esplicitamente diretto contro la corona del carnale amore, si allenta il collegamento notato, visto che esplicitamente Guittone parla di canzone. In ogni caso, tra i due poeti non ci può essere dialogo: la barriera che li separa è invalicabile. Nelle intenzioni di Cavalcanti, allora, la miccia accesa alla corona guittoniana deve produrre un incendio ben piú vasto che si allarghi a bruciare le secche sterpaglie della poesia dell’aretino, dei suoi sodali e della parte piú stantia della tradizione. 62. Favati, Inchiesta, pp. 82-83. L’accostamento, ma in direzione inversa – la canzone di Guittone precederebbe il sonetto di Guido – era stato notato anche da Mengaldo, p. xcix.

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4. Guido Orlandi e Cavalcanti Guittone non è il solo a provare la sferza della penna di Guido. Ne sa qualcosa anche il fiorentino Guido Orlandi.63 A partire dagli studi di Ezio Levi, sembra ormai identificabile con un figlio di Orlando di Guido di ser Orlando della famiglia magnatizia fiorentina dei Rustichelli.64 Nacque intorno al 1264. Iscritto alla potente Arte di Calimala (una delle Arti maggiori di Firenze), Guido ricoprí incarichi pubblici a partire dal 1290. All’inizio del ’300 è apertamente schierato con i Guelfi Neri e nel 1313 compare nella lista dei Neri fiorentini dichiarati ribelli dall’imperatore Enrico vII.65 Il suo nome compare ancora nel 1333 in uno strumento privato.66 Morí senz’altro prima del 1338.67 Delle tre tenzoni tramandate dai codici, in due occasioni è Cavalcanti ad avviare lo scambio, stuzzicando l’interlocutore con insinuazioni ammantate da un ironico e superiore distacco (Cavalcanti, xlviiia-b e xlixab).68 Nella circostanza in cui, invece, è chiamato a rispondere alle accuse dell’avversario,69 Cavalcanti replica con il fastidio snobistico dell’intellettuale che, suo malgrado invischiato in una polemica con un interlocutore indegno, una volta presa la penna in mano non lesina la sua causticità e mordacità. In Per troppa sottiglianza il fil si rompe (Cavalcanti, la), Guido Orlandi taccia Cavalcanti di eccesso di sottigliezza, un’accusa ben connotata, consi63. Di lui si sa ben poco. Nato intorno al 1265 e morto tra il 1333 e il 1338, fu guelfo di parte Nera – dunque politicamente rivale di Cavalcanti – e ricoprí incarichi pubblici tra il 1290 e il 1296. Per l’edizione delle sue rime cfr. v. Pollidori, Le rime di Guido Orlandi (edizione critica), in « Studi di filologia italiana », a. liii 1995, pp. 55-202. 64. E. Levi, Guido Orlandi. Appunti sulla sua biografia e sul suo Canzoniere, in GSLI, vol. xlviii 1906, pp. 1-35. Si veda ora M. Grimaldi, Orlandi, Guido, in DBI, vol. lxxix 2013, pp. 516-18. 65. Cfr. Delizie degli eruditi toscani, di Fr. Ildefonso di San Luigi, Firenze, G. Cambiagi, 1770-1789, 24 voll., vol. xi p. 131. 66. Ivi, vol. xvi pp. 101-2; Levi, Guido Orlandi, cit., p. 11. 67. Cfr. Delizie degli eruditi toscani, cit., vol. xvi p. 398, per la citazione dei suoi eredi. 68. Non affronto qui la questione di Onde si move, e donde nasce Amore? (Cavalcanti, xxviia), per cui vd. p. 299. 69. Ma l’accenno di Cavalcanti, lb 15, a un « sonetto primo » potrebbe far presupporre una proposta non conservata, e dunque una possibile iniziativa di Cavalcanti anche in questo caso (De Robertis, p. 198).

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derato il rimando certo tutt’altro che casuale alla nota tenzone Bonagiunta-Guinizzelli.70 Il capo d’imputazione è l’ipostasi di Amore, « Amor sincero non piange né ride » (v. 7), come mettono in evidenza anche le rubriche dei manoscritti.71 Ed è una questione all’epoca tutt’altro che irrisoria, la quale – come già sappiamo – venne discussa anche da Dante nel xxv paragrafo della Vita nuova: Per troppa sottiglianza il fil si rompe, e ’l grosso ferma l’arcone al tenèro; e se la sguarda non dirizz’al vero, in te forse t’avèn, che cheri pompe; e qual non pon ben diritto lo son pe’ traballa spesso, non loquendo intero; ch’Amor sincero – non piange né ride: in ciò conduce spesso omo o fema, per segnoraggio prende e divide. E tu ’l feristi e non li par la sema? Ovidio leggi: piú di te ne vide! Dal mio balestro guarda ed aggi tema.

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Sebbene non ci sia pieno accordo tra gli studiosi,72 il piú probabile luogo del reato è la canzone monostrofica Poi che di doglia cor conven ch’i’ porti (Cavalcanti, xi), che nel ms. vat. Lat. 3214 precede, come detto, proprio il componimento dell’Orlandi: al v. 8 di quella canzone, infatti, Cavalcanti scrive inequivocabilmente « fare’ne di pietà pianger Amore ».73 Ad avvalorare l’ipotesi potrebbero contribuire alcuni particolari rilevati nel suo 70. A proposito della sottiglianza riferita alla tenzone Bonagiunta-Guinizzelli è significativo che nel ms. vat. Lat. 3214 proprio questo scambio preceda la canzone cavalcantiana xi, tra l’altro incongruentemente collocata tra i sonetti, e poi la serie tra Orlandi e Cavalcanti. 71. I testimoni sono concordi a indicare che il testo dell’Orlandi sarebbe stato inviato al Cavalcanti perché fece « piangere Amore ». In proposito De Robertis, p. 198, opina che la rubrica potrebbe derivare dalla risposta finale dell’Orlandi: cfr. Cavalcanti, lc 8-10. E cfr. anche G. Tanturli, La terza canzone del Cavalcanti: ‘Poi che di doglia cor conven ch’i’ porti’, in « Studi di filologia italiana », a. xlii 1984, pp. 5-26, a p. 17. 72. Sulla questione cfr. la nota introduttiva al testo di Pollidori, in Le rime di Guido Orlandi, cit., pp. 123-26. 73. Per Rea-Inglese, p. 263, però « l’impressione è […] che le accuse contenute nel sonetto […] riguardino l’intera maniera cavalcantiana, e non un suo specifico componimento ».

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commento da valentina Pollidori, secondo i quali l’Orlandi stigmatizzerebbe la canzone di Cavalcanti, ritenendola imperfetta e capovolgendo di fatto le intenzioni del suo autore, che, invece, la interruppe consapevolmente:74 in proposito il v. 5 di Per troppa sottiglianza, «e qual non pon ben diritto lo son pe’ », ‘e chi non pone ben dritto il suo piede’, potrebbe essere un riferimento tecnico – si pensi al termine metrico « piede » – e metaforico alla fronte di Poi che di doglia; il successivo v. 6, « traballa spesso, non loquendo intero », ‘non può che balbettare senza riuscire a concludere la sua esposizione’, sembrerebbe ancora un rimando accusatorio alla canzone interrotta di Cavalcanti, che, a detta dell’Orlandi, non sarebbe riuscito a portare a termine la propria composizione poetica, impedito dalla complicazione intellettualistica che la contraddistingue (v. 1) e anche dalla grossolanità della materia e specificatamente dall’ipostasi sotto accusa (v. 2: « e ’l grosso ferma l’arcone al tenèro »).75 E, sempre per la Pollidori, anche la stessa mutilazione del testo orlandiano, che è un inedito sonetto contratto con fronte intenzionalmente ridotta a sei versi, potrebbe essere vista come rappresentazione iconografica e polemica dell’interruzione di Poi che di doglia.76 Secondo una consuetudine dei testi di corrispondenza, alle terzine è riservato il punto cruciale dell’attacco. Scrive l’Orlandi: ‘ Caro Cavalcanti, il vero Amore non piange né ride, semmai è causa di pianto e riso negli innamorati. E tu avresti ferito Amore?77 e dov’è la cicatrice? Ti conviene ritornare ai fondamenti: leggi Ovidio, che ne sa piú di te! Guardati e abbi timore delle mie frecciate’. Ce n’è abbastanza per suscitare la risposta infastidita e risentita del piú noto Guido (Cavalcanti, lb): 74. È ormai passata in giudicato la tesi a suo tempo avanzata da Giuliano Tanturli: « c’è tuttavia un’altra ipotesi: che intenzionalmente la canzone si fermasse al proemio, applicando alla lettera ciò che lí era dichiarato, l’impossibilità di svolgere la materia proposta » (Tanturli, La terza canzone, cit., p. 21). 75. In effetti, entrambe le immagini del distico iniziale rimandano ad azioni interrotte per eccesso o difetto degli elementi che contribuiscono alla loro attuazione. 76. Pollidori, in Le rime di Guido Orlandi, cit., p. 125. 77. Probabile il riferimento a Cavalcanti, ix 36-39, in cui Amore tra i sospiri dice: « Io ti dispero, / però che trasse del su’ dolce riso / una saetta aguta, / c’ha passato ’l tuo core e ’l mio diviso ».

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il dolce stil novo Di vil matera mi conven parlare ‹e› perder rime, silabe e sonetto, sí ch’a me ste‹sso› giuro ed imprometto a tal voler per modo legge dare. Perché sacciate balestra legare e coglier con isquadra arcale in tetto e certe fiate aggiate Ovidio letto e trar quadrelli e false rime usare, non pò venire per la vostra mente là dove insegna Amor, sottile e piano, di sua manera dire e di su’ stato. Già non è cosa che si porti in mano: qual che voi siate, egli è d’un’altra gente: sol al parlar si vede chi v’è stato. Già non vi toccò lo sonetto primo: Amore ha fabricato ciò ch’io limo.

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Quasi a voler accentuare la distanza rispetto all’interlocutore, Cavalcanti non riprende nessuna rima della proposta. Sempre dal punto di vista metrico, colpisce la coda finale di due versi – caso unico nel corpus delle Rime di Guido e rarissimo nella poesia del tempo –,78 inserita come se si volessero compensare i due versi vacanti della proposta;79 tenuto conto del fastidio con cui Cavalcanti dice di aver preso la penna in mano, quest’aggiunta ha tutta l’aria di essere una dura replica alle insinuazioni dell’Orlandi a proposito di questioni tecniche: insomma, secondo Cavalcanti, è meglio che l’Orlandi lasci perdere gli affari metrici, nel qual campo ha solo da apprendere, e tanto. Dopo un’intera fronte spesa a dire il fastidio di rispondere a un simile proponente, che può solo vantarsi di aver letto qualche volta Ovidio e di colpire con la sua balestra facili bersagli,80 lanciare freccette e mettere fati78. È di fatto uno dei primi esempi di coda nella storia del sonetto italiano. Schema quasi identico, con analogo distico a rima baciata in coda, ha il sonetto attribuito a Dante, Iacopo, i’ fui nelle nevicate alpi (Rime, dubbia vii). Sulla questione cfr. G. Gorni, Dante prima della ‘ Commedia ’, Firenze, Cadmo, 2001, pp. 212-16; e C. Giunta, Due saggi sulla tenzone, Roma-Padova, Antenore, 2002, p. 152. 79. Cfr. C. Calenda, ‘Di vil matera’: ipotesi esplicativa di una ipertrofia testuale, in Id., Appartenenze metriche ed esegesi. Dante, Cavalcanti, Guittone, Napoli, Bibliopolis, 1995, pp. 61-71. 80. Il v. 6 significa ‘e colpire ad angolo retto la trave di capriata di una tettoia stando su

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cosamente insieme rime stravaganti, Cavalcanti afferma inequivocabilmente che l’indegno Orlandi è insensibile alla voce d’Amore, il quale, parlando «sottile e piano», non è comprensibile a tutti. L’insegnamento di Amore, infatti, può essere compreso solo da chi possiede raffinate doti intellettuali e la capacità di tradurlo in una forma chiara ed elegante. Non si può non intravedere in questa risposta una dichiarazione di poetica. La sottigliezza – con buona pace dell’Orlandi che, tra l’altro, non ha capito nulla dell’artificio di Poi che di doglia – non è un difetto, ma un pregio, ed è un carattere discriminante della nuova poesia tanto da divenire un rigoroso criterio di selezione; infatti, « la subtilitas è innanzitutto la capacità di approfondimento concettuale del tema amoroso, che deve tradursi in novità di linguaggio ».81 Cavalcanti sa bene che Amore è una realtà puramente mentale e non una sostanza visibile: non ha certo bisogno che glielo dica l’Orlandi, del quale basta il modo di esprimersi per capire che è fuori – per incapacità intellettuale e imperizia formale – dal novero dei veri poeti d’Amore. Cavalcanti non ha, dunque, nessuna paura delle frecciate dell’interlocutore, e non necessita di auctoritates, sebbene prestigiose. La sua poesia è autentica espressione di Amore, raffinatamente espressa. Amore ha fabricato ciò ch’io limo: la metafora finale, come abbiamo già visto (p. 120), tramite Guinizzelli risale fino ad Arnaut Daniel, colui che poi Dante definí il « miglior fabbro del parlar materno » (Purg., xxvi 117).82 Forse è azzardato, ma è comunque suggestivo, pensare che l’Alighieri, al tempo della composizione del dittico “stilnovistico” di Purgatorio, xxiv-xxvi, tenesse ben ferma nella memoria questa risposta di Cavalcanti.83 In ogni un tetto’, a dire un facile bersaglio colpito da breve distanza; arcale è congettura di Contini accolta da De Robertis, p. 202; la lezione dell’unico ms., il vat. Lat. 3214, è « archile » che alcuni commentatori (per es. PDSN, p. 254) spiegano ‘grossa madia per conservare il grano’ (« arcile »), in ogni caso confermando l’idea di un bersaglio facile, colpito a breve distanza. 81. Malato, Ancora sul « disdegno », cit., pp. 128-29. 82. Per questa immagine e per i suoi antecedenti vd. la nota di Rea-Inglese, p. 269. 83. Contini, p. 128: « È la concezione del “dittator” nell’episodio dantesco (Purg., xxiv) »; PDSN, p. 254: « Sintesi della poetica cavalcantiana e, in genere, stilnovistica, affine alla piú famosa caratterizzazione di Purg., xxiv 52-54 »; e, in modo meno deciso, De Robertis, p. 201: « proprio nella coda si consegna per la prima volta quell’idea di Amore che “detta dentro” e di cui il poeta non è che lo scriba […], che troverà piena voce nella risposta di Dante a Bonagiunta nel xxiv del Purgatorio; anche se qui la battuta ha piuttosto il tono di ricorso all’ ‘autorità’, per chiudere la bocca all’interlocutore ».

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caso, bisogna riconoscere che in tale dichiarazione è apertamente rivelato, probabilmente per la prima volta, il marchio distintivo della nuova lirica ed è svelata l’identità peculiare del poeta stilnovista. Pur nella diversità della concezione dell’Amore che progressivamente si allarga e a un certo punto creerà un’insanabile frattura, Dante e Guido sono certamente tra coloro che sanno sentire la voce di colui che insegna « sottile e piano » (e cfr. p. 103), e non è un caso che nel De vulgari eloquentia, ii 6 6, Dante riserverà un posto di eccellenza proprio alla canzone Poi che di doglia – e se avesse voluto includere in quella lista un altro eccellente testo di Cavalcanti non gli sarebbe mancata la materia –, comprendendo perfettamente quanto era precluso al poco intendente Orlandi: quella canzone monostrofica meritò, dunque, di esemplificare il « gradum constructionis excellentissimum » per l’aspetto retorico, per l’esemplare solennità del proemio e anche, e soprattutto, per il «supremo artificio, nel quale, solo, il testo viene in definitiva a esistere ».84 Guido Orlandi provò a ribattere per le rime – ma su schema variato nelle quartine, dove la rima alternata si sostituisce a quella incrociata, e nella seconda terzina che ha la sequenza ECD contro DCE – con il sonetto caudato Amico, i’ saccio ben che sa’ limare (Cavalcanti, l c), ribadendo l’accusa già formulata nel suo precedente testo e circondandola da una serie di ironiche allusioni e di non troppo velate insinuazioni contro la poesia e la persona stessa di Cavalcanti; ma è una replica che ottiene il solo scopo di confermare quel profilo di persona ottusa riscontrabile anche nelle altre due tenzoni (Cavalcanti, xlviiia-b e xlixa-b). Certamente l’altro Guido non gli avrebbe mai piú risposto. 5. La Vita nuova: un libro dirompente Chi sull’ultimo scorcio del ’200 ebbe tra le mani quel libello fu preso da grande stupore.85 Incipit vita nova: non poteva esserci titolo piú appropria84. Tanturli, La terza canzone, cit., p. 22. E cfr. anche E. Auerbach, Studi su Dante, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1963, p. 52: « Doveva piacergli [a Dante] in questi versi [Poi che di doglia] il tono di passione e di confessione, l’arditezza della collocazione di alcune parole, la brevità quasi superba e l’oscurità delle antitesi ». 85. Davvero appropriata in proposito la definizione di Dante. Cfr. Conv., iv 25 5: « Ché lo stupore è uno stordimento d’animo per grandi e maravigliose cose vedere o udire o per

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to. Nessuno aveva mai tentato un simile esperimento poetico. Dante sceglie 31 sue liriche, che i lettori piú aggiornati già conoscevano perché erano circolate in precedenza,86 e le salda insieme con una prosa che crea una storia e che orienta l’interpretazione. Poesia, racconto, autocommento: tutto in uno, perfettamente fuso, frutto di una « mente sistematica » che «mira all’organicità e alla coerenza».87 E, infatti, il risultato sconcertò, e sconcerta ancora chi abbisogna di paradigmi. Ma in proposito occorre farsene una ragione: ogni tentativo di definire il genere letterario della Vita nuova è come costruire un letto di Procuste.88 La nuova barrique della prosa affina il vino vecchio delle poesie. Si degusta contemporaneamente la storia di un amore e la storia di un dire d’amore in rima.89 Innanzi tutto, il racconto di un amore. La poesia entra nella dimensione del tempo che contraddistingue la narrativa, ma è un tempo di grazia, kairós non krònos.90 L’intreccio di eventi abituali e ordinari della vita umana scandisce e fa progredire il racconto – celebrazioni liturgiche, passeggiate, pranzi di nozze, riti funebri –, ma è un realismo sfumato: lo spazio è riconoscibile (Firenze), ma non determinato, i personaggi sono alcuno modo sentire: che in quanto paiono grandi, fanno reverente a sé quelli che le sente; in quanto paiono mirabili, fanno voglioso di sapere di quelle ». 86. Ancora aperta la discussione sulla genesi della Vita nuova e sulla modalità della sua stesura. Non è detto che tutte le poesie siano precedenti la stesura della prosa e non si può escludere che qualche testo sia stato scritto successivamente alla concezione del libro. In proposito cfr. soprattutto R. Leporatti, Ipotesi sulla ‘ Vita Nuova’ (con una postilla sul ‘ Convivio’), in « Studi italiani », a. iv 1992, pp. 5-36; e S. Carrai, Il rapporto poesie-prosa e la genesi del prosimetro, in Id., Dante elegiaco. Una chiave di lettura per la ‘Vita nova’, Firenze, Olschki, 2006, pp. 77-112. 87. Cfr. M. Santagata, Introduzione a Dante, Opere, cit., vol. i pp. xi-cxxxii, a p. xi. 88. Cfr. M. Santagata, Dal sonetto al canzoniere. Ricerche sulla preistoria e la costituzione di un genere, Padova, Liviana, 19892, p. 148: «È comunque un libro subdolo, che non si lascia afferrare per intero: in esso infatti confluisce una raggera di tradizioni e di influenze che rende quasi impossibile la sua ascrizione ad un genere individuato da criteri piú interni rispetto alla esteriore nozione di prosimetrum. Romanzo, trattato, autobiografia letteraria e spirituale, allegoresi e, perché no, canzoniere; sono tutti aspetti presenti, ma nessuno di essi è egemonico». 89. Santagata, Introduzione a Dante, Opere, cit., vol. i p. liii: « Dante sta facendo una storia di quelle che noi oggi chiameremmo le sue poetiche ». 90. C. Paolazzi, La ‘ Vita Nuova’. Legenda sacra e historia poetica, Milano, vita e Pensiero, 1994, p. 49: « Il ‘tempo’ della Vita Nuova non è pura cronologia di accadimenti terreni, ma è innanzitutto tempo segnato da misteriosi numeri divini, ‘tempo sacro’ ».

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individuabili, ma, tranne Beatrice e Giovanna, non nominati.91 Tutto concorre a creare un’atmosfera indefinita in cui si compie il miracolo di un amore salvifico e “razionale”, e come tale, dunque, esemplare e di portata universale.92 Ci si salva nella storia amando, ma questo amore che redime è caritas non eros.93 La poesia d’amore per la prima volta sfida la morte dell’amata, che non è piú il tragico punto di arrivo di una storia – e come tale capace solo di generare poeticamente la monocorde voce del trobadorico planh –, ma diventa il punto cruciale della storia, perché Beatrice morta continua a infondere la sua grazia e a essere soggetto di sempre nuova poesia. La sua morte è in realtà un’assunzione al cielo, ed ella di fatto è viva anche piú di prima: è figura gloriosa (« gloriosa donna de la mia mente », V.n., ii 1) e mitica, ed è un mito potente,94 perché incarnato e ben inserito nella storia. Ha scritto bene Auerbach: « per quanto evanescenti e appena sfiorate, la vita e la passione terrena di Beatrice esistono; noi sentiamo il profumo della sua persona umana, che era giovane e meravigliosa; aveva sofferto ed era morta; assistiamo al suo incielarsi, e nella trasfigurazione dell’aldilà vediamo mantenuta e potenziata la sua contingente figura terrena ».95 A questa donna si addice la lode, che non è la consueta e consunta esal91. Il nome della « gentilissima » ricorre nel libello 19 volte nella prosa e 3 volte in poesia; nel conteggio non si calcola l’occorrenza « beatrice » che compare nel sonetto Deh, peregrini, che pensosi andate, v. 12, perché non è nome proprio, ma nome ridotto « alle sue funzioni etimologiche », come scrisse Contini, Letteratura, cit., p. 333. A questo elenco va aggiunta la variante « Bice » che compare in rima nel sonetto Io mi senti’ svegliar dentro allo core (V.n., xxiv 8), abbinata a « monna vanna », il nome della donna di Guido, presente due volte – nello stesso par. xxiv – anche nella forma piena « Giovanna ». Sbagliati dunque i calcoli di Gorni (4 in prosa e 17 in poesia), per i quali cfr. Dante Alighieri, Vita Nova, a cura di G. Gorni, Torino, Einaudi, 1996, p. 6. 92. D. De Robertis, Il libro della ‘ Vita Nuova’, Seconda edizione accresciuta, Firenze, Sansoni, 1970 (19611), p. 36: « In questo sottofondo razionale riposa il valore esemplare del libro, la possibilità di fare assurgere la favola sentimentale a significato universale ». 93. H.U. von Balthasar, Dante, in Id., Gloria. Una estetica teologica, iii. Stili laicali. Dante, Giovanni della Croce, Pascal, Hamann, Solov’ëv, Hopkins, Péguy, trad. di G. Sommavilla, Milano, Jaka Book, 1976, pp. 1-93, a p. 28: « solo essa [Beatrice] porta dall’eros all’agape, o è quell’eros che trasfigura se stesso in agape ». 94. Santagata, Introduzione a Dante, Opere, cit., vol. i p. xvi: « Il mito piú potente, com’è ovvio, è quello di Beatrice ». 95. Auerbach, Studi su Dante, cit., p. 57.

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tazione della bellezza dell’amata, ma è « matera nuova e piú nobile che la passata » (V.n., xvii 1), vero e proprio « canticum novum », mosso da un mutato atteggiamento interiore e da una nuova concezione dell’Amore, il quale ha posto tutta la beatitudine del cantore « in quello che non […] puote venire meno » (V.n., xviii 4). Quando il poeta riconosce che per lui la materia è troppo alta, in quel momento avviene la grazia, che consiste nel rinnovamento intimo operato dall’amore: solo allora la lingua può parlare « come per sé stesso mossa » (V.n., xix 2). Dante delinea la storia di questa sua fondamentale acquisizione dell’autonomia del messaggio poetico e del primato della creazione artistica,96 che avviene nel tempo attraverso il progressivo superamento delle esperienze poetiche precedenti e anche attraverso la distinzione rispetto alle voci piú alte della lirica di fine ’200, in primo luogo quella di Guido Cavalcanti, l’unico al quale un libro cosí innovativo e dirompente come la Vita nuova poteva essere dedicato. Ed è una storia che non si ferma alla fase della lode, perché la nuova poesia dantesca si deve confrontare anche, e soprattutto, con l’evento cruciale della morte, o meglio dell’assunzione al cielo dell’amata: « E questo dico, acciò che altri non si maravigli perché io l’abbia allegato di sopra, quasi come entrata de la nova materia che appresso viene » (V.n., xxx 1; corsivo mio). Il vero amore, e conseguentemente la poesia che lo esprime, deve saper valicare la barriera suprema della morte – ben piú ardua di quelle dell’indifferenza femminile e della ricompensa negata (episodio del mancato saluto) – e deve saper vincere la tentazione di una possibile e facile compensazione (episodio della « donna pietosa »). Questo amore che rinnova e redime non può essere un possesso geloso ed esclusivo dell’io. La grazia va condivisa e comunicata. La Vita nuova è pervasa da un forte desiderio di comunione.97 Beatrice è ecumenica,98 ma 96. Giunta, Versi, p. 391: nella lirica « entra in gioco l’ispirazione. Cosí, all’immagine tipicamente medievale del poeta artefice, padrone della tecnica, si affianca quella piú moderna del poeta toccato dalla grazia […] Cino e Dante rivendicano un primato non nell’ordine dell’esperienza ma in quello della creazione artistica ». 97. Auerbach, Studi su Dante, cit., p. 33: « quasi tutti i componimenti di Dante, fin dal primo giorno, sono intesi non solo a piacere all’ascoltatore e ad ottenerne l’applauso, ma a incantarlo e a irretirlo nella sua magia; e il suo tono, nelle poesie piú belle, non è quello di una comunicazione, ma di uno scongiuro, di un invito alla comunanza dell’intimo essere, di un comando a seguirlo ». 98. Santagata, Introduzione a Dante, Opere, cit., vol. i p. lxxxvii: « La somiglianza si

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il suo miracolo si compie attraverso la poesia perché è il suo cantore che ha il compito di coinvolgere le altre persone in questa esperienza di grazia, come dimostra, per esempio, l’episodio dei « peregrini » diretti a Roma (cfr. V.n., xl). Non può stupire, allora, la continua insistenza del poeta – evidente soprattutto nelle allocuzioni iniziali e nei congedi delle sue liriche – ai destinatari di questa sua nuova poesia. Per essere pienamente coinvolto e perché la comunione sia possibile, il pubblico è attentamente ricercato e selezionato. Si legga, per esempio, l’incipit della fondamentale canzone Donne ch’avete intelletto d’amore: il criterio di selezione non è intellettuale ma etico. La sensibilità del cuore, il nobile sentire, il saper ascoltare nell’intimo la voce di Amore – di un nuovo amore, si badi bene, che salva e dona vita – sono gli elementi necessari e irrinunciabili perché possa avvenire la condivisione del messaggio. Si crea una nuova élite, ma ben diversa da quella voluta dai poeti precedenti, e in particolare da Guittone.99 A questi nuovi lettori sono rivolte in primis le didascalie e le « divisioni », quella forma di autocommento che infastidí Boccaccio,100 ma che per Dante è indispensabile a creare il codice della nuova poesia, orientando teleologicamente il messaggio. Questo sforzo e questo impegno del poeta non hanno solo una funzione conativa, ma nascondono anche un intento normativo e un’azione legislativa. La potente personalità dantesca101 scrive la carta costituzionale della nuova poesia, ma se all’assemblea costituente non potevano essere invitati i rappresentanti della vecchia maniera, si deve registrare anche l’esclusione dei delegati piú autorevoli del nuofonda sul fatto che entrambe sono figure ecumeniche: Cristo è il Dio incarnato che porta a tutti, senza distinzioni, la salvezza; Beatrice è la donna che per sua singolare forza virtuosa genera amore negli uomini a prescindere dalla loro nobiltà ». 99. Cfr. Giunta, La poesia, pp. 317-27. 100. Nei due codici vergati di sua mano, lo Zelada 104 6 della Biblioteca Capitolare di Toledo e il Chigiano L v 176 della Bibl. Apost. vaticana, Boccaccio scorporò dal testo vero e proprio della Vita nuova le divisioni confinandole ai margini. Si legga la sua postilla giustificativa, riportata in D. Pirovano, Boccaccio editore della ‘Vita nuova’, in Boccaccio editore e interprete di Dante. Atti del Convegno internazionale di Roma, 28-30 ottobre 2013, a cura di L. Azzetta e A. Mazzucchi, Roma, Salerno Editrice, 2014, pp. 113-35, a p. 125. 101. Auerbach, Studi su Dante, cit., p. 27: Dante « fin dal primo giorno è una voce nuova; una voce umana cosí forte e cosí piena, che nessuno dei contemporanei può misurarsi con lui per la suggestione che esercita ».

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vo corso, tanto che la dedica a Cavalcanti diviene una sorta di provocazione, perché Dante non poteva ignorare che il primo amico non avrebbe mai sottoscritti i princípi fondamentali di quella costituzione. E infatti, la Vita nuova fu un testo di rottura che ebbe effetti dirompenti fuori e dentro il perimetro della nuova poesia. Ci occuperemo qui dell’inevitabile scontro con chi il nodo tratteneva « di qua dal dolce stil novo », e riserveremo al quinto paragrafo del prossimo capitolo l’analisi della drammatica implosione al di là di quella linea di demarcazione. 6. Cino e Onesto di fronte alla Vita nuova La detonazione piú fragorosa fu innescata a Bologna e generò un ripetuto scambio di sonetti tra Onesto degli Onesti e Cino dei Sinibuldi: ancora una volta un bolognese ed un toscano, ma rispetto alla tenzone Bonagiunta-Guinizzelli, le parti si invertono, perché questa volta è il felsineo Onesto a farsi portavoce della vecchia maniera e il pistoiese Cino a difendere la nuova. L’obiettivo per i neòteroi del dolce stile è tutt’altro che irrilevante, perché Bologna era dal punto di vista culturale un luogo strategico e cruciale, sia per la presenza dell’Università e per la conseguente vivacità dello scambio intellettuale, sia per l’industria e il mercato editoriale, sia per la sua invidiabile posizione di “porta” verso il Nord, e in particolare verso l’area veneta. Conquistare Bologna equivaleva a un’affermazione decisiva per gli stilnovisti, tutti di passaporto fiorentino con l’unica eccezione di Cino. Il terreno era, però, alquanto insidioso per la presenza di Guittone, che si trovava nei dintorni della città felsinea a partire dal 1285 e che morí nel 1294,102 il probabile anno – mese piú mese meno – di pubblicazione della Vita nuova.103 102. Resta ignoto il luogo del decesso, tradizionalmente identificato in Firenze, ma non è mancato chi ha pensato a Bologna in virtú di un necrologio stilato nel convento camaldolese di S. Cristina nei pressi della città emiliana (vd. M. Cerroni, Guittone d’Arezzo, in DBI, vol. lxi 2004, pp. 545-51). 103. La cronologia del libello è incerta. La tesi di Michele Barbi, che fissa la composizione tra il 1292 e il 1293, è stata abbassata da altri fino al 1295-’96. Sulla base dell’incrocio dei dati interni al testo con quelli del Convivio, si può ragionevolmente pensare al 1294 circa (Paolazzi, La ‘ Vita nuova ’, cit., pp. 2-3). Se la corrispondenza Onesto-Cino che stiamo esaminando è collocabile attorno alla metà dell’ultimo decennio del ’200, la precoce circola-

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Occorre, però, riconoscere che, se l’aretino e i suoi seguaci formavano un gruppo decisamente agguerrito, esso non fu mai completamente egemonico sotto l’ombra della Garisenda. La società letteraria bolognese era, infatti, vivida e varia, e la voce del « maximus Guido Guinizelli » (D.v.e., i 15 6) a due decenni dalla morte era tutt’altro che spenta.104 Lo conferma soprattutto Onesto,105 il poeta felsineo piú rilevante di questo scorcio di secolo, il quale fu tutt’altro che allineato su posizioni guittoniane ortodosse.106 Il suo corpus di rime annovera 28 pezzi,107 prevalentemente sonetti di corrispondenza, con i quali entra in relazione sia con poeti romagnoli come Tommaso da Faenza e Ugolino “Buzzola” dei Manfredi anch’egli nativo di Faenza,108 sia con poeti toscani come Terino da Castelfiorentino e forse il fiorentino Monte Andrea.109 Tra i suoi interlocutori ci fu anche zione della Vita nuova a Bologna è incontrovertibilmente testimoniata da un documento del 1306 relativo alla sottrazione di un manoscritto: « unum librum qui vocatur Vita Nova scriptum in cartis pecudinis et quasdam rationes diversas, ligatas cum ipso in duabus assidibus de ligno » (F. Forti, Bologna. Tradizione manoscritta e commentatori, in ED, vol. i pp. 664-67, a p. 664). 104. Con le dieci trascrizioni, parziali o integrali, dei sonetti Omo ch’è saggio non corre leggero (otto presenze) e Io vo’[glio] del ver la mia donna laudare (due presenze), Guinizzelli è il poeta che dopo Dante ha il maggior numero di attestazioni nei Memoriali bolognesi. 105. Su di lui cfr. A. Antonelli, Nuove su Onesto da Bologna, in « I Quaderni del m.ae.s », a. x 2007, pp. 9-20; e, in precedenza il profilo di M. Marti, Onesto da Bologna, lo Stil nuovo e Dante, in Dante e Bologna, cit., pp. 35-51. Una sintesi si legge nella voce, scritta dallo stesso Marti, per l’ED, vol. iv pp. 153-54. 106. In D.v.e., i 15 6, è nominato due volte. Onesto è poi rievocato, insieme ai due Guidi, da Petrarca, Triumphus Cupidinis, iv 34-36: « ecco i duo Guidi che già fur in prezzo, / Honesto Bolognese, e i Ciciliani, / che fur già primi, e quivi eran da sezzo »; e questa menzione gli fruttò una relativa fama in séguito (Marti, Onesto da Bologna, cit., p. 36). In proposito merita di essere ricordato di nuovo (cfr. p. 76) il sonetto Infra gli altri diffetti del libello, in cui l’anonimo autore ritiene grave e rilevante, tra gli altri difetti della Commedia, l’assenza del poeta bolognese Onesto che meriterebbe, a suo dire, di figurare accanto ad Arnaut Daniel. 107. Il corpus tràdito comprende in particolare 3 canzoni, 1 ballata e 24 sonetti (gli ultimi 4 sono adespoti e attribuiti a Onesto senza una certezza assoluta). Non è stata conservata la canzone citata nel D.v.e., i 15 6: Piú non attendo il tuo soccorso, amore. Per i suoi testi cfr. Le rime di Onesto da Bologna, ed. critica a cura di S. Orlando, Firenze, Sansoni, 1974. 108. Su di lui cfr. A. Antonelli, Manfredi, Ugolino, in DBI, vol. lxviii 2007, pp. 740-43. 109. Antonelli, Nuove su Onesto, cit., p. 16: « Non è invece certificabile attraverso documenti la presunta conoscenza di Onesto con il poeta fiorentino Monte Andrea, perché frutto di un errore di lettura dello Zaccagnini, anche se è quanto mai plausibile credere che

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Guittone, al quale rispose riverentemente,110 ma il corrispondente privilegiato fu senza dubbio Cino, che era di circa trent’anni piú giovane, e che probabilmente Onesto conobbe nell’ultimo decennio del ’200, quando il pistoiese dimorò a Bologna come studente di diritto.111 Lo scarto generazionale si sente tutto, ma la voce poetica di Onesto non è affatto sclerotizzata e monocorde, tanto che alcuni interpreti gli hanno riconosciuto una « atmosfera prestilnovista, o addirittura parastilnovista »,112 con « repentini lampeggiamenti in una notte bruna »,113 che hanno fatto pensare a Cavalcanti ma che si possono spiegare facilmente, e meglio, se rapportati alla comune matrice guinizzelliana. Ciò nonostante, l’irrompere all’orizzonte poetico contemporaneo della nuova maniera stilnovista e in particolare della Vita nuova, e la presenza a Bologna dell’“infiltrato” Cino lo disorientarono e lo preoccuparono. La sua reazione si può, innanzi tutto, intravedere nel sonetto Bernardo, quel dell’arco del Diamasco (Cino, d. va): Bernardo, quel dell’arco del Diamasco potrebbe ben aver miglior discenti che quei che sogna e fa spirti dolenti, ché non si può trar buon vin di reo fiasco. So che m’intendi ben, perch’io no masco né aggio cura di novi accidenti, sí aggio messo in un miei pensamenti; tegnamene che vuol, savio o pur vasco. ver è che di tormenti sol mi pasco perché Mercé no intende i mie’ lamenti; anzi, com’ piú la prego, piú m’infrasco

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i due avessero avuto modo di conoscersi e frequentarsi nella guelfa Bologna di fine Duecento ». 110. Cfr. il sonetto Vostro saggio parlar, ch’è manifesto, in risposta a Credo savete ben, messer Onesto, inviato dall’aretino. 111. La data di nascita di Onesto è fissata approssimativamente intorno al 1240, quella di morte ai primi mesi del 1303. Per altre notizie biografiche con recenti acquisizioni da documenti d’archivio si può rimandare ad Antonelli, Nuove su Onesto, cit.; in precedenza cfr. Marti, Onesto da Bologna, cit., pp. 36-40, con anche la bibliografia pregressa. 112. Marti, Onesto da Bologna, cit., p. 43. 113. Cfr. I rimatori bolognesi del secolo XIII, ed. critica a cura di G. Zaccagnini, Milano, vita e Pensiero, 1933, pp. 28-29.

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il dolce stil novo e ciascun giorno de la vita casco, e di ciò porria dar molti guarenti quella c’ha per me ben senno in guasco.

Ad esso rispose Cino con il sonetto Bernardo, quel gentil che porta l’arco (Cino, d. vb):114 Bernardo, quel gentil che porta l’arco non pon senza cagion mano al turcasso, e quei che sogna scrive come Marco: e’ van sí alto ch’ogn’uom riman basso. Non è chi a lor maniera prenda varco, ed i’ ’l conosco, ché di sotto passo; ma nol conosce quei che è sí carco, che piú che « Mercé! » chiama spesso « lasso! ». Grazie ne rendo a chi ver’ lui sibilla che ’l vino del suo fiasco è peggio ch’acqua, e ’l servir tale che mercé non li apre. Gran foco nasce di poca favilla, cos’è che turba quanto piú si sciacqua, e molte genti belan come capre.

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Nonostante la diversità dello schema metrico, il legame tra i due testi è indubitabile.115 Per una piú corretta decodificazione della polemica si desidererebbe avere informazioni piú precise circa il ruolo del destinatario di entrambi i componimenti. Per quanto riguarda la sua identificazione, dovrebbe trattarsi di Bernardo da Bologna, che figura anche come corrispondente di Guido Cavalcanti (cfr. Cavalcanti, xliva-b) e al quale Cino inviò un altro sonetto, Bernardo, io veggio ch’una donna vène (Cino, cxl). Non è chiaro, tuttavia, se questa tenzone tra Onesto e Cino avvenga per inter-

114. Lo scambio è tràdito dal ms. Chigiano e, in attesa della tanto auspicata edizione critica del poeta pistoiese, è ancora incluso tra le rime dubbie, sebbene non ci siano argomenti plausibili contro la paternità registrata dal testimone unico. 115. R. Rea, « Quel dell’arco del Diamasco »: Cavalcanti nella polemica fra Onesto e Cino, in Id., Stilnovismo cavalcantiano, cit., pp. 83-97, a p. 84: « mi sembra che le connessioni tematiche e formali documentino in modo inequivocabile che Cino abbia composto il suo sonetto avendo sotto gli occhi quello di Onesto, alle cui accuse replica in maniera puntuale ».

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posta persona,116 oppure se entrambe le poesie rispondano a un sonetto di Bernardo, ora perduto, che innescò lo scambio.117 A favore di questa seconda ipotesi concorrerebbero sia la reazione stizzita di Onesto – rilevabile dal v. 8 che si può spiegare ‘per questo mi si ritenga come si vuole, saggio o sciocco’ – sia quella compiaciuta di Cino,118 che nella prima terzina del suo sonetto sembrerebbe riferirsi a un testo precedente: ‘sono grato a chi lo fa oggetto di derisione, perché il vino del suo fiasco è peggio che acqua’; insomma, fuori di metafora, mi compiaccio con chi deride Onesto, visto che le sue qualità poetiche sono nulle e la sua poesia è insignificante. Che l’attacco di Onesto sia mirato e ad personam lo si ricava súbito dalla prima quartina. Ma chi è sotto accusa? L’interpretazione corrente, precisata e argomentata da Furio Brugnolo, ritiene che l’imputato sia Dante.119 L’identikit si traccia sul v. 3, perché l’espressione « quei che sogna e fa spirti dolenti » sintetizza efficacemente due aspetti macroscopici della Vita nuova, la fitta dimensione onirica120 e l’ossessiva vivisezione psichica resa attraverso la proliferazione degli « spiriti ». Tale nozione, ripresa dai trattati di psico-fisiologia del tempo e trasferita alla poesia, è, infatti, un’idea fissa dello Stilnovo, certamente frequente in Cavalcanti, e ben attestata anche nel libello, in particolare nel secondo paragrafo (ma vd. oltre, pp. 205-6), dove Dante racconta la sua reazione psicologica alla prima visione di Beatrice, narrazione che precede quella del primo sogno riportata nel terzo paragrafo: e questo binomio (V.n., ii-iii) corrisponde specularmente ma perfettamente alla parodia di Onesto.121 116. È l’ipotesi di Zaccagnini, I rimatori bolognesi, cit., p. 122, poi accolta da altri. 117. Per questa ipotesi, poi accolta da altri, cfr. M. Barbi, Fra testi e chiose, in « Rassegna bibliografica della letteratura italiana », a. v 1915, pp. 216-42, alle pp. 223-24. 118. F. Brugnolo, Appendice a Cino (e Onesto) dentro e fuori la ‘Commedia’. Ancora sull’intertesto di ‘Purgatorio’ xxiv 49-63, in Leggere Dante, a cura di L. Battaglia Ricci, Ravenna, Longo, 2003, pp. 153-70, a p. 155. 119. Ivi, p. 156: « Chi è l’oggetto di questo polemico attacco? Che si tratti di Dante non c’è alcun dubbio ». 120. Nella dimensione onirica della Vita nuova si possono annoverare tre visioni vere e proprie (cfr. V.n., iii, xii, xlii), tre immaginazioni (cfr. V.n., ix, xxiv, xxxix), una fantasia (cfr. V.n., xxiii) e un rapimento fuori dal mondo sublunare (cfr. V.n., xli). 121. Tra l’altro, Brugnolo, Appendice a Cino, cit., p. 157, ha fatto notare che, sebbene l’aggettivo « dolente » sia caro a Guido, il sintagma « spirito dolente », al singolare, si trova solo

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La prima quartina si può, allora, parafrasare cosí: ‘Bernardo, Amore potrebbe avere discepoli migliori di colui che sogna e rappresenta spiriti dolenti, infatti non si può ricavare il vino buono da un fiasco scadente’, e, fuori dell’immagine enologica, ‘non si può scrivere buona poesia se manca una genuina ispirazione’. Se questa spiegazione è giusta, l’attacco di Onesto è pesantissimo, perché, al di là della caricatura del libello, va a colpire il cuore della nuova concezione dantesca, che – l’abbiamo visto – si basa sul primato della creazione poetica fondata sul rapporto privilegiato tra Amore e il poeta, quel primato già rivendicato nella fase centrale della Vita nuova (par. xix), e che, poi, all’altezza della Divina Commedia sarà icasticamente espresso dalla nota formula « quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando » (Purg., xxiv 52-54). Tale interpretazione presuppone, però, un intervento congetturale al decisivo v. 3. Infatti, il ms. Chigiano ha la lezione: « e quei che sogna e fa spirti dolenti ». Per evitare l’intervento editoriale si è allora profilata un’altra soluzione, intravista da Guido Favati e precisata da Roberto Rea, secondo la quale gli imputati sarebbero in realtà tre, Dante, Guido Cavalcanti e Cino, insomma il triumvirato della nuova poesia.122 Si dovrebbe, pertanto, intendere cosí: ‘Bernardo, quello dell’arco di Damasco (Guido Cavalcanti) e quello che sogna e raffigura spiriti dolenti (Dante) potrebbero senz’altro avere migliori discepoli: infatti non si può ricavare buon vino da un fiasco scadente (Cino)’. Secondo questa lettura, Onesto lancerebbe i suoi strali ironici all’Alighieri e al Cavalcanti, e riserverebbe la freccia velenosa al pistoiese, il cattivo discepolo di quei due maestri. Se è metodologicamente condivisibile il rispetto della lezione del testimone unico, è, tuttavia, anche doveroso riconoscere che in questo modo la sintassi della quartina risulta alquanto faticosa a causa del netto stacco dei due soggetti coordinati (il primo al v. 1 e il secondo al v. 3), una costruzione « tutt’altro che inammissibile o incomprensibile »,123 ma in controtendenuna volta nel corpus di Cavalcanti: « per la qual passa spirito dolente » (cfr. Cavalcanti, xix 21). Il sintagma al plurale ha invece una precisa corrispondenza in Dante, Rime, li 11-12: « onde dolenti / son li miei spirti per lo lor fallire », cioè il sonetto “bolognese” della Garisenda che doveva essere ben noto a Onesto. 122. Favati, Inchiesta, p. 115; e Rea, Stilnovismo cavalcantiano, cit., pp. 88-97. 123. Rea, « Quel dell’arco del Diamasco », cit., p. 89. Non mi pare, comunque, dirimente l’esempio petrarchesco allegato a supporto della tesi.

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za rispetto alla linea sintattica piana di questo componimento e in genere della poesia di Onesto. Anche la perifrasi dell’arciere di Damasco riferita a Cavalcanti, come vorrebbero Favati e Rea,124 non è improbabile, se si considera che in un’occasione (ma quanto pubblica?) Guido non rinuncia a vestire i panni di arciere faretrato: « E però èccome apparecchiato, sobarcolato, e d’Andrea coll’arco in mano, e co gli strali e co ’ moschetti » (cfr. Cavalcanti, xliii), che gli erano stati attribuiti da Gianni Alfani: « portavi pien di ta’ saette un sacco » (Alfani, vii 13). Tuttavia proprio Guido, quando nelle sue rime utilizza l’immagine di arcieri di chiara fama come i siriani (Cavalcanti, xx 6 e xxi 7), pensa ad Amore in persona. È vero che in nome dell’ironia, che è il registro scelto da Onesto nel suo sonetto, sono ammissibili arditi intrecci, ma, francamente, mi sembra piú economica l’interpretazione tradizionale, e, dunque, ritengo che ci sia un unico imputato, cioè Dante, che sarebbe il cattivo discepolo di Amore. Lo confermerebbe anche il prosieguo del componimento, dove il bolognese evidenzia in positivo alcuni tratti portanti della sua poetica, contrapponendola a quella dell’Alighieri, alla quale allude nella seconda quartina tramite sottili ammiccamenti intertestuali, messi in luce nel già citato studio di Brugnolo.125 Dice Onesto: ‘Bernardo, so che mi intendi bene, perché io non fingo né mi occupo di strani accidenti, perché sono uno che riconduce a unità i suoi pensieri amorosi, e non m’importa se mi si considera, per questo, saggio o sciocco’. Se il primo emistichio del v. 5 « So che m’intendi ben » potrebbe rimandare al sonetto finale della Vita nuova, in cui l’espressione risuona come un leitmotiv,126 e se i « novi accidenti » potrebbero richiamare la definizione di Amore di V.n., xxv 1, « ché Amore 124. Ivi, pp. 92-93. 125. Cfr. Brugnolo, Appendice a Cino, cit., pp. 157-60. 126. Cfr. V.n., xli 9-14 (sono le due terzine di Oltre la spera che piú larga gira): « vedela tal, che quando ’l mi ridice, / io no lo intendo, sí parla sottile / al cor dolente che lo fa parlare. / So io che parla di quella gentile, / però che spesso ricorda Beatrice, / sí ch’io lo ’ntendo ben, donne mie care » (corsivi miei). Tra l’altro, per l’apparente contraddizione tra “intendere” e “non intendere” il sonetto Oltre la spera aveva già attirato l’attenzione di Cecco Angiolieri (cfr. Dante Allaghier, Cecco, ’l tu’ servo e amico), un’altra voce che si deve aggiungere al vivace dibattito sorto in séguito alla pubblicazione della Vita nuova. Tuttavia, credo che sul significato del sonetto di Cecco abbia ragione Giunta, Versi, p. 276, quando scrive: « non è in alcun modo lecito dedurre da questo attacco personale (se tale lo si vuol considerare) un intento polemico nei confronti della poesia stilnovista ».

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[…] è uno accidente in sustanzia »,127 risulta particolarmente convincente il collegamento intertestuale scoperto da Brugnolo tra il v. 7 e il paragrafo xiii del libello, dove Dante parla della battaglia dei diversi pensieri che non si accordano tra di loro. Il « mettere in uno » di Onesto corrisponde sinteticamente, ma puntualmente al dantesco « cercare una comune via di costoro, cioè là dove tutti s’accordassero » (V.n., xiii 6), cosicché « siamo già nei paraggi della parodia ».128 Nel suo sonetto Cino rintuzza l’attacco, prima parando le accuse, poi sferrando l’affondo. L’accusato non solo è assolto, ma anche esaltato. Cosí scrive, innanzi tutto, a Bernardo: ‘Amore non mette le mani invano alla faretra, e dunque ispira solo chi è degno; Dante non è per nulla un sognatore, anzi scrive come un evangelista. Entrambi volano cosí in alto che chiunque altro resta sotto. Di fronte a una simile altezza poetica è ragionevole mantenere un atteggiamento di umiltà: non c’è chi prenda il volo alla loro maniera e occorre riconoscerlo’. A questo punto Cino contrattacca: ‘Onesto non riconosce e non ammette la sua inferiorità perché è cosí gravato dal peso della materia poetica (gli sfugge pure il sumite materiam di Orazio, Ars poetica, 38!), che le sue invocazioni e i suoi lamenti, piú che essere d’amore, sono di rammarico e rabbia per la sua incapacità a spiccare il volo’. Poi, dopo essersi compiaciuto – come abbiamo già visto sopra – con chi ha deriso il poeta bolognese, prepara l’artiglieria pesante: ‘nemmeno il suo servizio amoroso gli vale la corrispondenza del sentimento’, insomma anche come poeta dell’amor cortese tradizionale Onesto non vale nulla. La terzina finale è un fuoco ripetuto: ‘basta una piccola scintilla a provocare un grande incendio; ci sono cose che quanto piú sono sciacquate tanto piú diventano torbide; e molte persone belano come capre’. Dunque, con tutta la forza della sapienza paremiologica: ‘basta poco a combinare grossi guai; certi poeti come Onesto quanto piú cercano di abbellire il proprio linguaggio tanto piú lo rendono insopportabilmente ripetitivo e noioso; la loro poesia è un animalesco belato’. Le perifrasi della prima quartina necessitano, però, di un chiarimento. Se non c’è alcun dubbio su « quei che sogna », che è certamente Dante, 127. Ma questa corrispondenza non è dirimente, perché non si può ignorare l’« accidente fero e altero » dell’attacco di Donna me prega. 128. Brugnolo, Appendice a Cino, cit., p. 159.

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l’immagine dell’arciere mantiene un’intrinseca opacità. Nel suo già citato studio, Roberto Rea insiste su Guido Cavalcanti,129 un’ipotesi corroborata dal fatto che i due chiamati in causa sono collocati sullo stesso piano e volano alla stessa altezza, irraggiungibile per tutti e anche per lo stesso Cino che riconosce umilmente la propria inferiorità; secondo lo studioso, un indizio rilevante sarebbe, poi, « lor maniera » del v. 5, riferito ai due personaggi della prima quartina, un termine fortemente connotato in senso tecnico, perché porta nel suo codice genetico l’incipit di quella che fu la madre di tutte le battaglie, Voi ch’avete mutata la mainera (Bonagiunta, son. 20).130 Dunque, conclude Rea, le perifrasi indicano due poeti, che non possono essere che Dante e Guido. Tuttavia, c’è un altro indizio che, mi pare, orienti decisamente verso l’ipotesi Amore, ed è l’aggettivo « gentil » del v. 1. Nel corpus del pistoiese troviamo, infatti, piú volte il sintagma: « Amor gentil dentro da li occhi sui » (Cino, xxvii 4); « quello gentile Amor che va con lei » (Cino, ci 4);131 « quanto mi tien distretto / gentile amore, e di qual donna trovo » (Cino, cli 12-13). In Cino, « gentile » può essere la donna, il cuore, la virtú, il desiderio, appunto Amore, ecc., mai però un uomo, e dunque tanto meno Cavalcanti. Quindi, ritengo che anche in questo sonetto la perifrasi indichi Amore. Se cosí è, Cino intende innalzare a tal punto l’Alighieri, che non solo lo fa “volare” insieme ad Amore sopra chiunque, ma anche riconosce nella « lor maniera » l’indissolubile legame Amore-poeta, cioè l’essenza del nuovo stile dantesco in cui la lingua ispirata d’Amore parla « come per se stesso mossa » (V.n., xix 2). L’esaltazione di Dante rifulge anche, e soprattutto, nella similitudine « scrive come Marco » (v. 3). Nella sua nota di commento, Marti (PDSN, p. 888) ha pensato a « Marco Tullio Cicerone, il grande oratore e prosatore latino, autore tra l’altro del Somnium Scipionis, considerato anche nell’ultimo Medioevo il retore per eccellenza ».132 Osta, però, a questa ipotesi il 129. Rea, « Quel dell’arco del Diamasco », cit., pp. 86-88. 130. Rea (cfr. ivi, p. 87) fa notare che il vocabolo è usato da Onesto nello stesso senso tecnico anche in « Mente » ed « umíle » e piú di mille sporte, v. 13: « cangiar donque maniera fa per voi » (cfr. Cino, cxxxiiia 13). 131. Brugnolo, Appendice a Cino, cit., p. 161, citando questo verso, ritiene che la perifrasi indichi senza dubbio Amore. 132. Accoglie questa interpretazione Rea, « Quel dell’arco del Diamasco », cit., p. 86.

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fatto che nel Medioevo Cicerone era normalmente indicato con il nome gentilizio « Tullio ».133 È ammissibile che l’urgenza della non facile rima -arco possa aver costretto Cino a ricorrere al prenome, ma è una forzatura che rende opaca l’immagine. Si deve prendere atto che, corpus TLIO alla mano, se non si scrive « Tullio », lo scrittore latino è nominato « Cicerone », « Marco Tullio Cicerone », « Marco Cicerone », mai « Marco » da solo. Confesso, allora, di preferire l’altra ipotesi, avanzata da Guido Favati e rilanciata da Brugnolo, secondo la quale il Marco della similitudine sarebbe l’evangelista, il cui simbolo, tra l’altro, era un leone alato.134 Il paragone potrebbe essere in odore di blasfemia, ma in questo modo Cino dimostrerebbe anche di aver colto pienamente il carattere trascendente della nuova poesia: la verità del poeta ispirato da Amore è assimilata alla verità della parola biblica.135 In ogni caso, entrambe le soluzioni convergono verso un prosatore, dimostrando – se ancora ce ne fosse bisogno – che l’oggetto principale del contendere è la Vita nuova. È tempo di fare un passo avanti e di leggere un’altra tenzone tra Onesto e Cino. Il bolognese si riserva ancora la prima mossa, e questa volta si rivolge direttamente al pistoiese (Cino, cxxxiiia):136 « Mente » ed « umíle » e piú di mille sporte piene di « spirti » e ’l vostro andar sognando mi fan considerar che, d’altra sorte, non si po’ trar ragion di voi rimando. Non so chi ’l vi fa fare, o vita o morte, ché, per lo vostro andar filosofando, avete stanco qualunqu’è ’l piú forte ch’ode vostro bel dire imaginando. Ancor pare a ciascuno molto grave vostro parlare in terzo con altrui,

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133. Cfr. Favati, Inchiesta, p. 118; e con lui Brugnolo, Appendice a Cino, cit., p. 160. 134. Brugnolo, Appendice a Cino, cit., p. 160. Faccio notare che il corpus TLIO registra anche occorrenze senza il « san », che secondo Rea « Quel dell’arco del Diamasco », cit., p. 86, sarebbe richiesto per precisare il nome dell’evangelista. 135. Cfr. Brugnolo, Appendice a Cino, cit., pp. 160-61. 136. Cappi, Emendazioni, cit., p. 54, propone di leggere il v. 5 sulla base della lezione del Chigiano: « Non so chi ’l vi fa far, s’è vita o morte », ‘non capisco se chi vi ispira sia per voi vita o morte’.

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iii. vecchio e nuovo stile e ’n quarto ragionando con voi stessi; ver’ quel de l’uom ogni pondo è soave: cangiar donque maniera fa per voi; se non ch’i’ porrò dir: « Ben sète dessi! ».

Onesto sanziona gli aspetti a suo giudizio piú macroscopici della nuova poesia: il lessico ripetitivo (« Mente » ed « umíle » e piú di mille sporte piene di « spirti »), l’eccessiva dimensione onirica (’l vostro andar sognando), un sottile e forzato filosofeggiare (vostro andar filosofando), l’insopportabile tendenza all’ipostasi (vostro parlare in terzo con altrui, e ’n quarto ragionando con voi stessi), caratteri che la rendono monotona e indisponente anche per il lettore piú compiacente. La critica riguarda i poeti nuovi (ecco le « vostre penne » del Bonagiunta purgatoriale: cfr. p. 59), ma tra le righe si intravede un preciso attacco alla Vita nuova,137 come dimostrano i vv. 9-12: ‘il vostro parlare ad altri come se foste in tre, e parlare con voi stessi come se foste in quattro’ è un’iperbolica parodia del « parlare in seconda persona » di V.n., xii 17;138 e dunque, rispetto al fastidio che toccherebbe a chi volesse entrare in discussione con voi (e particolarmente con Dante), ogni altro fastidio è giudicato da Onesto un’inezia. Nella sua risposta per le rime Cino, con abile e marcata ripresa di ciò che il bolognese denunciava, difende la nuova poesia, fondata su una spiritualità e su un’interiorità piú afflitta e tormentata, che non si potrebbe esprimere con lo stereotipato e consunto armamentario retorico, ma che implica un rinnovamento lessicale e stilistico. Questa novità rompe gli orizzonti d’attesa di un pubblico ancora educato ai vecchi schemi, e richiede ascoltatori sensibili e aperti,139 che sappiano davvero comprenderla e apprezzarla (Cino, cxxxiiib):140 137. Lo ha notato Brugnolo, Appendice a Cino, cit., pp. 161-62. 138. Cfr. ivi, p. 162, dove si coglie anche un forte legame nel segno di una « pesante ironia » tra il v. 12 (« ver’ quel de l’uom ogni pondo è soave ») e l’inizio del comma della V.n., xii 17: « Potrebbe già l’uomo opporre contra me » (corsivi miei). 139. Cfr. ivi: Cino si è accorto benissimo che Onesto alludeva precisamente al par. xii della Vita nuova, e sottilmente riprende la stessa citazione, quasi completandola. Infatti, il v. 13 (« parliam sovente, non sappiendo a cui ») rimanda a V.n., xii 17: « Potrebbe già l’uomo opporre contra me e dire che non sapesse a cui fosse lo mio parlare in seconda persona » (corsivi miei). 140. Per una nuova lettura della i terzina di questo sonetto vd. Cappi, Emendazioni, cit., p. 54: ‘perciò diciamo tra noi che la sua sentenza e i suoi frequenti colpi ci affliggono’.

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il dolce stil novo Amor che vien per le piú dolci porte, sí chiuso che nol vede omo passando, riposa ne la mente e là tien corte, come vuol, de la vita giudicando. Molte pene a lo cor per lui son porte, fa tormentar li spiriti affannando, e l’anima non osa dicer « tort’è », c’ha paura di lui soggetta stando. Questo cosí distringe Amor che l’ave in segnoria; però ne contiam nui ch’elli sente alta doglia e colpi spessi; e senza essempro di fera o di nave, parliam sovente, non sappiendo a cui, a guisa di dolenti a morir messi.

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Questa dichiarazione di Cino è davvero importante, anche perché egli usa in risposta alla seconda persona plurale dell’attacco di Onesto un’inequivocabile prima persona plurale, che pare sottintendere un gruppo unito da una poetica comune. Quanto, però, essa sia veramente condivisa si dovrà capire nel prossimo capitolo. Conviene avanzare fin da súbito, tuttavia, il sospetto che Cavalcanti non abbia firmato a Cino alcuna delega. La rilevantissima rima franta « tort’è » (v. 7) ha il marchio inconfondibile di Donna me prega (Cavalcanti, xxviib 39), ma il pesante prelievo e il suo riuso in questo sonetto di polemica scritto da chi è considerato un « vil ladro » (Cino, cxxxi 2) ingenerano piú domande e perplessità che certezze. Si dovrà necessariamente ritornare (cfr. pp. 243-48). Dedico solo un cenno a un’altra tenzone (cfr. Cino, cxxxvia-b).141 Nel sonetto Siete voi, messer Cin, se ben v’adocchio,142 Onesto accusa l’interlocutore di volubilità in Amore, riprendendo un rimprovero contro Cino tanto dif141. Nell’unico testimone, il solito ms. Chigiano, questo scambio segue immediatamente quello dei due sonetti diretti a Bernardo. Rea, « Quel dell’arco del Diamasco », cit., p. 92, avanza l’ipotesi che i 4 pezzi componessero un’unica tenzone, e ciò potrebbe essere confermato dall’esordio Siete voi, messer Cin, se ben v’adocchio, che sembra presupporre un precedente scambio di sonetti « di tipo insolito », nel quale il mittente Cino non si era esplicitamente dichiarato a Onesto. 142. Schegge di questo sonetto sono disseminate in piú punti della Commedia a dimostrazione che il carteggio Cino-Onesto era ben presente a Dante, del resto protagonista in absentia di tutta questa corrispondenza. Cfr. F. Brugnolo, Cino (e Onesto) dentro e fuori la

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fuso che può essere considerato una sorta di leitmotiv: ed è bene sempre ricordare che l’inautenticità del sentimento nasconde anche l’accusa dell’insincerità della produzione poetica. Del sonetto, di non facile decodificazione, merita di essere segnalata la terzina finale (Cino, cxxxvia 12-14): Ah cieco è chi folli’ a dir s’accorda! Alor non par che la lingua si morda, né ciò mai vi mostrò Guido né Dante.

Nei versi immediatamente precedenti Onesto aveva detto che per tirare un asino serviva una lunga corda, ossia occorreva lunga pazienza a persuadere un ignorante come Cino. E cosí conclude: ‘Ah, è cieco di mente chi si ostina a dire cose folli. Dal momento che non sembra saper tenere a freno la propria lingua, né cosí gli hanno mai insegnato Guido e Dante’. Prescindendo ora dall’insulto, resta il dato che, secondo Onesto, i maestri, o quanto meno i punti di riferimento, di Cino sono Cavalcanti e l’Alighieri, ai quali, tuttavia, il testardo pistoiese non sembra prestare ascolto. Questo finale può essere letto come l’ulteriore riconoscimento da parte di un autorevole rappresentante della vecchia guardia di un sodalizio poetico ben caratterizzato nell’àmbito della poesia contemporanea.143 Nella sua risposta per le rime (Io son colui che spesso m’inginocchio), Cino contesta le accuse, ritenendole false e per di piú provenienti da chi ha difetti ben maggiori, e non lesina insulti. Di fronte ai rumori poetici di un maiale come Onesto (« ed in sembiante / siete dell’animale che si lorda »: vv. 10-11), meglio chiudere le orecchie; solo chi esprime la verità merita di essere ascoltato (Cino, cxxxvib 12-14): e non crediate che ’l tambur mi storda, ché sí credeste a chi li amici scorda; chi mostra ’l vero intendo, e so’ gli amante. ‘ Commedia’, in Omaggio a Gianfranco Folena, Padova, Editoriale Programma, 1993, 3 voll., i pp. 369-86, alle pp. 382-83. 143. Secondo Pasquini, Il « Dolce stil novo », cit., p. 655, le polemiche di Onesto, inquadrabili entro l’ultimo decennio del ’200 e in particolare all’indomani della pubblicazione della Vita nuova, presuppongono che l’avanguardia stilnovistica abbia ormai assunto una fisionomia complessiva e che siano ben chiari i contorni del gruppo, come richiede del resto il procedimento della parodia.

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Cino, per la verità un po’ stizzito e risentito, pare voglia chiudere il conto. Prima di riporre l’incartamento, però, resta da esaminare un ultimo documento di Onesto, Non so s’è per mercé che mi vien meno, un sonetto di sedici versi con un’aggiunta di un distico dopo la seconda quartina, schema che si fonda sulla base della rielaborazione di un modulo caro a Monte Andrea:144 Non so s’è per mercé che mi vien meno, od è ventura o soverchianza d’arti che per la donna mia il luni e ’l marti e ciascun dí ch’ om ragiona apieno, piú d’om vivente crudel vita meno; né mai mi disse: « da la morte guarti ». Merzé, voi che sognate i spirti sparti e che n’avete stanco ogn’om tereno, pregatela per me, cui no rafreno, sol mi menasse per le vostre parti. E se forza d’Amor con vera prova mi conducesse d’umiltà vestita ch’ i’ la trovasse, sol un’ora stando, fora tanto gioiosa la mia vita che qual mi conoscesse, riguardando, vedrebe ’n me d’amor figura nova.

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Rispetto a tutti gli altri testi che abbiamo esaminato, questo non ha una sua risposta. Escluderla ab origine perché non tràdita è, però, metodologicamente sbagliato: chi considera la percentuale del perduto della lirica italiana antica sa bene che la prudenza impone di non lasciarsi andare a giudizi affrettati e di non emettere sentenze definitive. Preso atto di questa mancanza, riconosciamo súbito che il componimento di Onesto è tutt’altro che irrelato e che anzi rientra pienamente nel dossier. L’autore gli ha impresso due inconfondibili marchi di fabbrica. Al v. 7 l’espressione « voi che sognate i spirti sparti » rimanda senza dubbio al v. 3 di Bernardo, quel de l’arco del Diamasco: « che quei che sogna e fa spirti dolenti ». E l’adiacente v. 8 « n’avete stanco ogn’om tereno » riproduce perfettamente « avete stanco qualunqu’è ’l piú forte », cioè il v. 7 di « Mente » ed « umíle » e piú di 144. Monte però utilizza costantemente la rima alternata sia nelle due quartine sia nell’aggiunta. Qui Onesto innesta un distico a rima alternata su una fronte a rima incrociata.

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mille sporte.145 È piú che sufficiente per riconoscere l’obiettivo di questo nuovo attacco. Il mosaico con l’effigie dell’Alighieri è, però, completato e reso inequivocabile da altre due tessere. Innanzi tutto, il secondo emistichio del v. 12 « d’umiltà vestita » è perfettamente identico al secondo emistichio del v. 6 di Tanto gentile e tanto onesta pare (V.n., xxvi 6): « benignamente d’umiltà vestuta ». Ed è una tessera talmente evidente – anche per l’importanza di quel sonetto dantesco – che basterebbe lei sola a suffragare la tesi. Di piú. I due versi conclusivi del testo di Onesto richiamano la prima quartina di Con l’altre donne mia vista gabbate (V.n., xiv 11): e non pensate, donna, onde si mova ch’io vi rassembri sí figura nova quando riguardo la vostra beltate.

Considerati la miniera del prelievo – siamo in pieno episodio del « gabbo » – e il riuso del materiale, non c’è dubbio che Onesto stia toccando, e non con tocchi leggeri, le corde dell’ironia. Si può anche aggiungere che con i metalli di questa cava sembra essere forgiata l’evidentissima paronomasia « spirti sparti ». È vero che gli « spiriti » che tanto infastidivano il bolognese zampillano in molti luoghi della Vita nuova – e poco fa ho avanzato sospetti sul paragrafo ii (cfr. p. 143) –, ma il prelievo che abbiamo riconosciuto fa convergere decisamente il quadro indiziario verso gli « spiriti paurosi » del sonetto Con l’altre donne e verso la marcata vivisezione psichica del paragrafo xiv. Dunque, di nuovo il libello, e non un componimento estravagante. L’identificazione dell’anonimo interlocutore favorisce, a questo punto, la decodificazione del sonetto. Pur senza saper precisare la causa – mancata grazia, sventura, potente sortilegio –, Onesto soffre tutti i giorni a causa della crudeltà della sua amata, e per di piú la donna non l’ha messo in guardia dall’eventualità della morte. In questa situazione disforica è invocata l’intercessione di Dante. Se in virtú di questo intervento benefico, Onesto potesse ottenere, anche solo per poco tempo, un atteggiamento piú umile da parte della propria donna, la sua vita e la sua stessa persona si trasformerebbero euforicamente. 145. Per il riconoscimento di questi contatti cfr. Marti, Onesto da Bologna, cit., pp. 48-49, e Brugnolo, Appendice a Cino, cit., p. 158.

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Non si può non riconoscere il tono pesantemente ironico di tutto il componimento, accentuato dall’intento parodico. Se il vecchio bolognese non sogna spiriti frazionati, è, però, continuamente attraversato dai suoi fantasmi e dalle sue ossessioni polemiche. Con tutta la cautela del caso, si può avanzare l’ipotesi che questa volta non ci sarebbe stata nessuna risposta poetica. Bisogna ammettere che è proprio Onesto quello che ha « stanco ogn’om tereno ». 7. Le parodie di Bonagiunta Chiudiamo a cerchio questo capitolo tornando ancora a Bonagiunta dal quale eravamo partiti. Il ms. cinquecentesco vat. Lat. 3214, « esempio limpido di recentior non deterior sbocciato dal fiore della filologia umanistica »,146 alla carta 130v riporta questo sonetto (Bonagiunta, son. 14): « Gli vostr‹i› occhi, ché m’hanno divisi li spiriti che son dentro nel core? ». E’ escon fuor con sí grande tremore ch’i’ ho temensa che non sieno ancisi; e poco stando, un sospiro sí mi si parte, c’hai messa l’anima in errore. E ben sembra ne la virtú d’amore guardando gli atti suoi cosí assisi. Ella è saggia e di tanta beltate che qual la vede conven che allora mova sospiri di pianto d’amore. Però lo dico, chi ha gentil core, che tegna mente com’ella onora ciascuna gente, c’ha in sé nobiltate.

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Un’accurata analisi di Roberto Rea – alla quale certamente rimando – ha evidenziato come il tessuto di questo componimento sia tutto tramato con fili danteschi e cavalcantiani.147 Nel sonetto, infatti, sono sciorinati alcuni motivi cardine della poesia di Dante e di Guido, dall’ipostatizzazione 146. C. Bologna, Tradizione e fortuna dei classici italiani, vol. i. Dalle origini al Tasso, Torino, Einaudi, 1993, p. 109. 147. Rea, Stilnovismo cavalcantiano, cit., pp. 55-81.

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delle facoltà vitali alla drammatizzazione della dimensione interiore, dalla potenza dello sguardo femminile allo stravolgimento dell’equilibrio psicofisico del poeta, dalla trascendente perfezione della donna ai suoi effetti nobilitanti. Rimandano poi all’esperienza stilnovista gli aspetti formali: su tutti, l’opzione per la rima incrociata nelle quartine, alcune indubitabili parole-chiave (spiriti, tremore, sospiri) e l’andamento piano della sintassi. Insomma, un testo cristallino che ben figurerebbe in un’antologia del Dolce stil novo. A creare offuscamento è, però, la rubrica del codice, che assegna inequivocabilmente il sonetto a Bonagiunta Orbicciani: « ser bonagiunta dalluccha ». La prima reazione potrebbe essere quella di dubitare della didascalia, ma questa ipotesi allo stato attuale delle nostre conoscenze non ha molto margine di verifica: il vat. Lat. 3214 è testimone unico e « nemmeno avrebbe senso istituire un confronto puntuale fra il sonetto e la restante produzione di Bonagiunta, giacché è proprio l’evidente eccezionalità del componimento a suscitare perplessità ».148 E tra l’altro, tra le pieghe del testo non mancano indizi a favore della paternità di Bonagiunta, confermati da Aldo Menichetti che include il sonetto tra le rime certe.149 I critici che, dando fede al manoscritto, hanno difeso l’attribuzione del sonetto al poeta lucchese, non hanno, però, potuto esimersi dal fornire una spiegazione dell’eccentricità di Gli vostr‹i› occhi nell’àmbito della produzione di Bonagiunta, e vi hanno riconosciuto la prova di una sua tarda conversione alla maniera stilnovista, oppure vi hanno intravisto germi di stilnovismo.150 Dunque, o il vecchio poeta, giunto all’ultima e picciola vigilia dei suoi sensi, è salito sul carro dei vincitori, o egli ha cooperato a fondare la nuova « mainera ». Entrambe le ipotesi sono, però, deboli, e soprattutto lo è la seconda. Infatti, la densità e la quantità dei riscontri sono tali che « se davvero questo sonetto anticipasse la nuova maniera cavalcantiana e dantesca, Bonagiunta potrebbe a buon diritto essere considerato l’inventore dello stilnovo ».151 Ne consegue necessariamente che la palinodia pro148. Cfr. ivi, p. 61. 149. Cfr. ivi, pp. 61-62, e Bonagiunta, pp. 231-35. 150. Sintetizzano le posizioni della critica Menichetti, in Bonagiunta, pp. 231-35, e Rea, Stilnovismo cavalcantiano, cit., pp. 55-56, e passim; a favore dello stilnovismo di certo Bonagiunta si è espresso anche Giunta, La poesia, pp. 336-40. 151. Rea, Stilnovismo cavalcantiano, cit., p. 63.

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nunciata dal personaggio Bonagiunta nella sesta cornice del purgatorio sarebbe una clamorosa mistificazione, e anche che la sentenza di condanna che lo riguarda in D.v.e., i 13 1, sarebbe un terribile abbaglio. Queste due conseguenze gravano per la verità pure sull’ipotesi del tardo arruolamento stilnovistico, e a essa vanno aggiunte riserve anagrafiche e ideologiche, le prime onestamente non insormontabili se il lucchese visse, come pare, fino all’inizio degli anni Novanta del XIII secolo, le seconde piú resistenti: perché quest’abiura in limine mortis? Di fronte a simili difficoltà mi pare che l’ipotesi piú economica sia quella avanzata da Roberto Rea, che legge il sonetto come una parodia della maniera stilnovista.152 A corroborare questa tesi contribuiscono da un lato l’eccessiva e ostentata cifra stilnovista, dall’altro la presenza non troppo dissimulata di « anomalie metrico-ritmiche e sintattico-tematiche » spiegabili congruentemente se rapportate a una « volontà parodica di fondo ».153 Dunque, il vecchio lucchese porta avanti fino all’ultimo, e con perfetta coerenza, la sua poetica. Se circa vent’anni prima, ai tempi della tenzone con Guinizzelli, aveva reagito stigmatizzando l’avversario, armato della consapevolezza che la « mainera mutata » non avrebbe avuto fortuna, ora preso atto della realtà storica e constatato con amarezza che anche il suo argine (il « quine » di Bonagiunta, son. 20 7) è crollato, gli resta l’arma della parodia, strenuo ma patetico tentativo di resistenza, perché ogni parodia porta in sé il riconoscimento dell’affermazione dell’avversario. Se cosí è, troverebbe una spiegazione ragionevole, e meno irrelata, anche il sonetto che nel vat. Lat. 3214 segue immediatamente Gli vostr‹i› occhi (Bonagiunta, son. 15): Con sicurtà dirò, po’ ch’i’ son vosso, ciò ch’adivene di vossi dettati: ch’i’ ’nd’ho sonetti in quantità trovati

152. Cfr. ivi, p. 66: « sorge allora il sospetto che una cosí manifesta imitazione sia intenzionalmente messa in atto per distorcere in parodia la misura del sincero tributo ». Poco convinto di questa tesi è Menichetti (vd. Bonagiunta, p. 232), per il quale il tono del sonetto pare serio. 153. Cfr. ivi, p. 70. Rea individua alcune peculiarità metrico-ritmiche che sembrano deliberatamente tese a debordare la normalizzazione promossa dagli stilnovisti, e alcune ambiguità anche sul piano tematico e sintattico. Si veda la sua dimostrazione alle pp. 67-70.

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iii. vecchio e nuovo stile che di malvagi spiriti hanno adosso; per la pietà de’ quali i’ mi son mosso ed a la Nossa Donna gli ho menati e con divossïon raccomandati, e raccomando sempre quanto posso. Ma non son certo perché s’adovegna che per mei preghi partiti non sono; se peccato che sia in lor non nòce u perché mie preghiera non sie degna; però vi prego, se ’nde fate alcuno, che li facciate il segno de la croce.

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Secondo Contini, seguíto poi da altri, l’innominato destinatario dovrebbe essere Guido Cavalcanti « anche in considerazione dei “malvagi spiriti” eterodossi ».154 La poesia del Cavalcanti è cosí intasata di « malvagi spiriti » che serve una raccomandazione presso la Madonna, e per ottenerla, Bonagiunta – che si autodichiara devoto di Guido – si prodiga con tutte le sue forze. Ma l’esito è cosí incerto che a Cavalcanti converrebbe fare sui suoi sonetti il segno di croce. Il tono del componimento è marcatamente ironico, l’intento sfacciatamente beffardo. Il vecchio lucchese, dunque, non rinuncia fino all’ultimo alle sue posizioni. Semmai la consapevolezza della sua sconfitta lo rende piú aggressivo e canzonatorio. Cavalcanti, ovviamente, non lo degnò di una risposta. Tuttavia, Bonagiunta, forse anche per questa sua tenace resistenza, si meritò un posto nel purgatorio, e che posto! Dante gli affidò il riconoscimento e la consacrazione della nuova poesia, e cosí gli garantí una fama straordinaria. E le parole che pronuncia sono talmente decisive che, ascoltandolo, il lettore del poema sembra quasi dimenticare il volto pallido e trasfigurato, la pelle consumata e modellata sulle ossa, gli occhi oscuri e infossati.

154. Cfr. Poeti del Duecento, cit., p. 277. A proposito di Guido come possibile destinatario, Rea (cfr. Stilnovismo cavalcantiano, cit., p. 72) nota che nello stesso vat. 3214 sopra il sonetto n. 120 (c. 144v), Chi se medeximo, si legge la didascalia « Questo mando ser bonagiunta da luccha a Guido cavalchanti di firenze ». Tale didascalia, indubbiamente fuori posto, potrebbe derivare proprio da uno dei due sonetti che si stanno esaminando piuttosto che da un altro perduto componimento di Bonagiunta.

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Iv QUAN D O AMOR S P I RA: AS P ETTI E CARATTERI DEL D OLC E STI L NOVO

Secondo l’autore della Vita nuova i poeti volgari devono scrivere d’amore: « E questo è contra coloro che rimano sopr’altra matera che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d’amore » (V.n., xxv 6). L’affermazione è cosí tranchant da sfiorare l’impudenza. Ma lo stretto vincolo che per Dante unisce il poeta in lingua volgare alla materia amorosa è una delle cifre distintive e, dunque, piú riconoscibili della nuova poesia: gli stilnovisti, infatti, rimano esclusivamente d’amore. Sfogliando l’insieme delle loro liriche può capitare anche di imbattersi in temi diversi, ma questi testi sono talmente sporadici da risultare delle eccezioni, che non possono minimamente intaccare il quadro complessivo, sostanzialmente monotematico. va detto súbito che questa scelta cosí monolitica non era scontata nella stagione poetica multiforme del pieno e del tardo ’200, anche a prescindere dalla netta e sbandierata opzione di Guittone per la poesia morale (cfr. Ora parrà s’eo saverò cantare); anzi in quegli anni e proprio a Firenze, la culla geografica del dolce stile, erano piú che diffuse le poesie dedicate ad altri argomenti.1 Ovviamente la preferenza accordata all’amore non è di per sé caratterizzante, visto che esso è il tema per eccellenza della poesia di ogni tempo e di ogni luogo. Quando parla d’amore, però, lo stilnovista si rende riconoscibile e trasmette al suo lettore un’impressione di coesione se non di coralità, che ha poi contribuito a generare le famigerate etichette storiografiche o le discusse formule critiche, di cui si è detto nel primo capitolo. In effetti, un’aristocrazia sentimentale costantemente perseguita e gelosamente difesa, un minuzioso scavo nell’interiorità dove risuona sottilmente la voce di Amore, una forma controllata e raffinata anche a costo di una inevitabile restrizione delle tipologie metriche, delle costruzioni sintatti1. Si vedano soprattutto i due libri di Giunta, La poesia, e Giunta, Versi; e pure l’Introduzione di R. Coluccia a PdSS, vol. iii. Poeti siculo-toscani, in partic. alle pp. lvi-lvii. Per la situazione fiorentina, cfr. anche Carpi, La nobiltà, cit., pp. 590-94.

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iv. quando amor spira: aspetti e caratteri del dolce stil novo

che e del lessico, una rigorosa selezione del proprio pubblico non possono non destare la sensazione di una poetica condivisa, se non di gruppo, tanto piú che tra questi poeti la circolazione di immagini, metri, forme, vocaboli è massima. Tale coesione e tale sodalizio hanno determinato un’immagine vulgata di Dolce stil novo, in cui ha avuto fortuna la brillante idea, formulata da Contini, dell’amicizia come cifra distintiva di questi poeti (cfr. Contini, p. 7). Tuttavia, un attento esame dei testi rivela un’armonia tutt’altro che serena; anzi esso fa trapelare profondi dissidi e ampie fratture tra i componenti del gruppo. Al di là del «nodo» di Bonagiunta il terreno non è per nulla compatto, ma assai accidentato e, dunque, le posizioni sono meno allineate di quanto ci si potrebbe immaginare a prima vista.2 Prima di analizzare distintamente i singoli rappresentanti, maggiori e minori, tradizionalmente ascritti al Dolce stil novo, occorrerà, allora, esaminare alcuni aspetti e caratteri generali per verificare la presunta compattezza del gruppo. Non si può non partire, ovviamente, dalla concezione dell’amore. 1. Il dibattito intorno all’origine e alla natura d’Amore « Quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando » (Purg., xxiv 52-54). L’impegnativa dichiarazione che Dante pronuncia davanti a Bonagiunta rivela l’intima essenza del Dolce stil novo. E infatti – lo abbiamo già visto in precedenza (p. 54) –, essa può essere sottoscritta anche da altri sodali: per Guido Cavalcanti, per Cino, ma anche in certa misura per Lapo, Gianni Alfani e Dino Frescobaldi, la poesia è autentica espressione di Amore, che parla nell’interiorità. Questa stretta comunione di amore e canto poetico rende piú che mai attraente per gli stilnovisti la ricerca intorno all’origine e alla natura di amore: scoprire il mistero di amore significa, infatti, non solo comprendere un aspetto affascinante dell’essere umano, ma anche svelare la genesi profonda della propria poesia. D’altro canto il tema della natura di amore è un tema privilegiato della

2. Cfr. Malato, Ancora sul « disdegno », pp. 140-41.

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lirica italiana del ’200:3 per alcuni di questi poeti l’amore non è solo un evento emotivo e un’esperienza da rappresentare, ma è « anche un concetto intorno al quale si sviluppa una filosofia, e un’affezione della psiche e del corpo che va descritta col linguaggio della fisiologia ».4 Lo dimostra la tenzone tra Giacomo da Lentini e l’Abate di Tivoli, che inaugura emblematicamente la sezione dei sonetti del grande codice vaticano (fascicolo xviii).5 Lo stesso Notaro (cfr. Amor è uno disio che ven da core) intervenne, in séguito, in un’altra tenzone sull’ontologia e la fenomenologia amorosa, che vide coinvolti anche Iacopo Mostacci (cfr. Solicitando un poco meo savere) e Piero della vigna (cfr. Però ch’Amore no si pò vedere).6 Il dibattito è, comunque, fitto e diuturno, e appassiona molti poeti, che per lo piú dialogano tra loro, ma che scrivono pure autonomamente. Si può ricordare, per esempio, la tenzone anonima, di evidente àmbito lentiniano, costituita dai sonetti Non truovo chi mi dica chi sia Amore e Io no lo dico a voi sentenziando,7 ai quali va probabilmente aggiunto il sonetto Dal cor si move un spirito, in vedere. Quest’ultimo, poi, può essere messo in relazione con un altro sonetto del ms. vaticano, Uno piacere dal cor si move, e anche con un sonetto tràdito dal ms. Palatino, Amor discende e nasce da piacire. 3. Cfr. S. Santangelo, Le tenzoni poetiche nella letteratura italiana delle origini, Genève, Olschki, 1928; B. Nardi, Filosofia dell’amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante, in Id., Dante e la cultura medievale. Nuovi saggi di filosofia dantesca, Bari, Laterza, 19492, pp. 1-92, partic. alle pp. 1-18; E. Malato, Amor cortese e amor cristiano da Andrea Cappellano a Dante, in Id., Studi su Dante. «Lecturae Dantis», chiose e altre note dantesche, Cittadella, Bertoncello Artigrafiche, 20062, pp. 571657, partic. alle pp. 586-96; Fenzi, La canzone, pp. 74-78 (testi) e 134-38 (note di commento). 4. Giunta, in Rime, p. 22 (corsivi nel testo). 5. La corrispondenza in versi, databile con un certo margine di dubbio intorno al 1241, comprende 5 sonetti, tre dell’Abate (cfr. Ai deo d’amore, a te faccio preghera; Qual om riprende altrui spessamente; Con vostro onore facciovi uno ’nvito) e due di Giacomo (cfr. Feruto sono isvarïatamente; Cotale gioco mai non fue veduto). 6. Questa tenzone, che per certi versi è una sorta di sviluppo della precedente, è invece tràdita dal ms. trecentesco, di area veneta, Barberiniano lat. 3953 della Biblioteca Apostolica vaticana. Su di essa cfr. M. Picone, La tenzone ‘De amore’ fra Jacopo Mostacci, Pier della Vigna e il Notaio, in Id., Percorsi della lirica duecentesca. Dai Siciliani alla ‘Vita Nova’, Firenze, Cadmo, 2003, pp. 47-67. 7. Per questa tenzone, che tra l’altro nel ms. vaticano segue immediatamente quella tra il Notaro e l’Abate di Tivoli, cfr. R. Antonelli, « Non truovo chi mi dica che sia amore ». L’ ‘Eneas’ in Sicilia, in Studi di filologia e letteratura italiana in onore di Maria Picchio Simonelli, a cura di P. Frassica, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1992, pp. 1-10.

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Insomma, un filo rosso sotterraneo collega questi testi, e generalmente chi interviene nel dibattito mostra di conoscere le idee e le posizioni di chi lo ha preceduto. Cosí, la tenzone poco fa ricordata tra Giacomo da Lentini, Iacopo Mostacci e Piero della vigna è piú volte ripresa durante la seconda metà del ’200, come attesta per es. la corrispondenza in rima tra Chiaro Davanzati e Pacino di ser Filippo. In particolare, Amor è uno disio che ven da core, che traduce in versi la fortunata definizione dell’amore formulata da Andrea Cappellano,8 assume un valore paradigmatico, a tal punto che esso viene ripetutamente citato.9 La concezione di Giacomo è, infatti, quella prevalente: amore non è un dio né una sostanza, tanto è vero che non ha corpo, ma è un accidente, cioè una passione suscitata nel cuore dalla bellezza di una donna percepita attraverso gli occhi. La rappresentazione di Amore come una divinità è, dunque, una personificazione, cioè un espediente retorico, di cui si sono serviti e si servono i poeti a rendere icasticamente la forza irresistibile della passione o a dire un mistero arduo e inconoscibile. Alle proprie spalle, pertanto, gli stilnovisti avevano una tradizione autorevole e consolidata, ma nel presente sclerotizzata. Le idee e le posizioni sono, infatti, facilmente riassumibili e riducibili, come dimostra questo limpido sonetto, ancora compreso tra le rime dubbie di Dante, sebbene il piú recente editore si mostri favorevole ad attribuirlo all’Alighieri (cfr. Rime, d. xxix):10 Molti volendo dir che fosse amore disson parole assai, ma non potero di lui dir cosa che sembrasse il vero, 8. A. Cappellano, De amore, i 1: « Amor est passio quaedam innata procedens ex visione et immoderata cogitatione formae alterius sexus » (‘l’amore è una passione naturale che procede dalla visione e dall’incessante pensiero di persona d’altro sesso’). 9. Cfr. Malato, Amor cortese e amor cristiano, cit., pp. 586-96. 10. vd. Dante Alighieri, Rime, edizione commentata a cura di D. De Robertis, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2005, p. 556: « A Dante il tema non disdirebbe, e qui l’assegnazione è a lui o il silenzio (ma significherà in ogni caso che non poteva essere che lui) ». Diverso il parere di Fenzi, La canzone, p. 142: « Se posso dirlo in maniera grossolana: il pur abile e gradevole sonetto mi sembra troppo cinico e senz’ombra di appassionata eleganza per essere di un Dante giovane, e troppo unilaterale e privo di profonde risonanze emotive e speculative per essere di un Dante maturo ».

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il dolce stil novo né diffinir qual fosse il suo valore. Ben fu alcun che disse ch’era ardore di mente imaginato per pensiero, e alcun disse ch’era disidero di voler nato per piacer del core. Io dico che amor non è sustanza né cosa corporal ch’abbia figura, anzi è passïone in disïanza, piacer di forma dato per natura sí che ’l voler del core ogni altro avanza: e questo basta fin che ’l piacer dura.

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Il ragionamento è piano. Nella seconda quartina l’autore affronta un punto nodale del problema, cioè quale sia la sede delle passioni, se il cuore o il cervello, questione tutt’altro che irrilevante, vista la diversità di posizioni anche all’interno del coevo dibattito medico e filosofico.11 Le terzine ripropongono la consueta tesi dell’amore come passione, e negano l’idea della sostanzialità di amore, che non è un corpo percepibile e raffigurabile (v. 10). Fuori dai confini della poesia la discussione era, però, tutt’altro che spenta e bloccata. Nella seconda metà del ’200, l’argomento appassionava – allora come sempre – filosofi, teologi e medici. L’origine e la natura di amore erano, infatti, temi prediletti della contemporanea scientia de anima, e a essi erano stati dedicati trattati specifici o capitoli importanti all’interno di una riflessione antropologica piú ampia: diverse le finalità e la metodologia, comuni la serietà e la scientificità dell’indagine. A queste aggiornate 11. Mentre la tradizione medica, a partire da Galeno, propendeva per il cervello, Aristotele e i suoi commentatori ritenevano che la sede della passione d’amore fosse il cuore. Il disaccordo è confermato da una nota di Dino del Garbo a Donna me prega, 29: « Dixit autem hic auctor quod consequitur appetitum sensitivum qui est in corde: nam iste loquitur imitans Aristotilem philosophum, qui posuit quod appetitus et omnis virtus sensitiva habet esse in corde. Sed medici posuerunt quod habet esse in cerebro, que autem opinio num sit vera non est presentis intentionis discutere » (‘Precisa inoltre l’autore che l’appetito sensitivo che si sviluppa ha sede nel cuore, e parla dunque seguendo Aristotele, il quale ha sostenuto che l’appetito e ogni altra facoltà dei sensi ha sede nel cuore, mentre i medici hanno sostenuto che l’abbia nel cervello: ma non è ora il caso di discutere se questa opinione sia vera o no’). Cfr. anche M. Ciavolella, La « malattia d’amore » dall’Antichità al Medioevo, Roma, Bulzoni, 1976, partic. pp. 20 e 27.

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ricerche non sono sordi Cavalcanti e Dante, tanto piú che, dietro le orme del primo Guido, essi non esitano a « traier canson’ per forsa di scrittura » (Bonagiunta, son. 20 14). Il « senno » viene da Bologna – l’aveva capito anche Bonagiunta, son. 20 13 –, ma anche dalla Toscana. Il dibattito era, infatti, particolarmente fervido nella prestigiosa città universitaria, dove alcuni indizi obbligano a ritenere ragionevolmente sicura la presenza sia di Cavalcanti sia di Dante giovane,12 e assolutamente certa quella di Cino, che frequentò lo Studio agli inizi degli anni Novanta; ma la discussione era vivace anche nelle scuole teologiche fiorentine, che Dante per sua stessa ammissione frequentò (cfr. Conv., ii 12 7), dove insegnavano alcuni dei piú autorevoli teologi e filosofi del tempo: tra gli altri – mi limito qui a ricordare – il provenzale Pietro di Giovanni Olivi, che tra il 1287 e il 1289 fu professore di teologia presso il convento francescano di Santa Croce, e il fiorentino Remigio dei Girolami, che negli ultimi decenni del XIII secolo e nei primi anni del successivo fu autorevole e influente lettore nello Studio domenicano di Santa Maria Novella.13 Le Questiones super Viaticum di Pietro Ispano14 e il recente (ca. 1270-1280) trattato De amore heroico di Arnaldo da villanova15 avevano contribuito a rinnovare con una piú serrata metodologia scientifica il dibattito sull’ori12. Per il primo basti ricordare che Iacopo da Pistoia, professore dello Studio bolognese, dedica a Cavalcanti – « dilecto et pre aliis amico carissimo » – la sua Quaestio de felicitate, circostanza che getta luce sull’ambiente filosofico di riferimento e sulla formazione di Guido. Per un soggiorno dell’Alighieri giovane a Bologna mi limito a citare il cosiddetto sonetto della Garisenda (Rime, li), tra l’altro trascritto in un Memoriale bolognese sotto l’anno 1287 dal notaio Enrichetto delle Querce (cfr. Antonelli, Rime estravaganti di Dante, cit.). 13. Ancora valide le voci dell’ED: cfr. R. Manselli, Olivi, Pietro di Giovanni, vol. iv pp. 135-37; O. Capitani, Girolami, Remigio dei, vol. iii pp. 208-9. 14. È bene ricordare che Pietro Ispano, poi papa Giovanni XXI, aveva insegnato medicina a Siena intorno alla metà del XIII secolo. Come è noto, Dante lo include tra gli spiriti sapienti del Cielo del Sole (cfr. Par., xii 134-35). 15. Arnaldo è stato sicuramente un punto di riferimento per le idee psico-fisiologiche di Pietro di Giovanni Olivi, che lo aveva personalmente conosciuto e frequentato presso la corte di Aragona. Per il tramite dell’Olivi, dunque, è lecito ritenere che le concezioni del grande medico catalano fossero penetrate nella cultura fiorentina del tempo. Cfr. N. Tonelli, ‘De Guidone de Cavalcantibus physico’ (con una noterella su Giacomo da Lentini ottico), in Per Domenico De Robertis. Studi offerti dagli allievi fiorentini, a cura di I. Becherucci, S. Giusti, N. Tonelli, Firenze, Le Lettere, 2000, pp. 459-508, a p. 489.

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gine e sulla natura di amore, aggiornando il mai pretermesso De amore di Andrea Cappellano,16 libro sempre ben presente, e in modo particolare ai poeti, nonostante la condanna parigina del 1277.17 Come ha validamente dimostrato Natascia Tonelli,18 è in questo fertile humus culturale che nasce un gioiello poetico come Donna me prega (Cavalcanti, xxviib). Nella canzone dottrinale, sulla quale si dovrà necessariamente ritornare, Guido si impegna con intenti dichiaratamente scientifici a dimostrare che l’amore è una passione travolgente, smisurata e ottenebrante, che si coagula attorno a un’immagine interiore della donna nata da un’appercezione sensibile: essa ha sede propria, ed esclusiva, nell’anima sensitiva, in quell’anima che è perfezione dell’individuo. Ben diverso il piano della conoscenza, quell’intelletto possibile, separato e unico per tutta la specie umana, in cui amore non può nulla. Lo iato tra la sfera della passione e quella intellettiva è netto e senza possibilità di contatto. Escluso dalla dimensione della pura speculazione, sottratto a ogni possibilità di controllo e di misura della ragione umana, l’amore è per definizione l’irrazionale assoluto che stravolge l’equilibrio psicofisico, determinando instabilità di giudizio e ottenebrando l’amante fino a fargli perdere il controllo su di sé. L’amore ha la forza di alienare e di trasformare l’innamorato, e non si placa finché non ottiene da se stesso appagamento: « For d’ogne fraude dico, degno in fede, / che solo di costui nasce mercede » (Cavalcanti, xxviib 69-70). Questa perentoria conclusione permette di apprezzare ulteriormente l’asettico rigore dell’argomentazione di Guido. La questione della 16. Del resto Andrea imposta la sua problematica principale in maniera scientifica e risente molto dell’influenza degli studi dei medici medievali, letti direttamente o filtrati attraverso testi enciclopedici (cfr. Ciavolella, La « malattia d’amore », cit., pp. 101-7). 17. A proposito della mai tramontata stella del libro di Gualtieri – come era spesso nominato il De Amore di Andrea Cappellano con allusione al nome del dedicatario –, piace ricordare qui lo scambio tra Gianni Alfani, vii, e il « mottetto » di Guido Cavalcanti, xliii. Sulla fortuna del trattato nella poesia italiana del ’200, cfr. Malato, Amor cortese e amor cristiano, cit., pp. 586-96. 18. Cfr. Tonelli, De Guidone, cit.; ed Ead., Fisiologia dell’amore doloroso in Cavalcanti e in Dante: fonti mediche ed enciclopediche, in Guido Cavalcanti laico, cit., pp. 63-117. In precedenza cfr., almeno, B. Nardi, L’amore e i medici medievali, in Id., Saggi e note di critica dantesca, MilanoNapoli, Ricciardi, 1966, pp. 238-67; G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 1977, pp. 130-45; e Ciavolella, La « malattia d’amore », cit., pp. 137-38.

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« mercede » è la pointe finale di un discorso speculativo esclusivamente concentrato sulla natura di amore e, dunque, non si apre al tema, potenzialmente assai vasto, del rapporto amoroso.19 Se alcuni punti del ragionamento di Cavalcanti mostrano evidenti analogie con i contemporanei e diffusi trattati sull’eccezionale, aristocratico e patologico amore ereos,20 occorre, tuttavia, anche riconoscere che questi ipotesti da soli non esauriscono la ferrea e complessa trattazione di Donna me prega, nella quale, infatti, entrano altri fondamentali riferimenti culturali di natura propriamente filosofica.21 Comunque, l’agguerrita riflessione di Guido, nata nell’ultimo scorcio del secolo XIII e frutto della piú recente e aggiornata scientia de anima, si staglia all’orizzonte dell’annoso dibattito duecentesco sull’origine e sulla natura di amore. Anche il giovane Dante ha respirato la stessa aria. Il par. xxv della Vita nuova si apre con parole inequivocabili: Potrebbe qui dubitare persona degna da dichiararle ogni dubitazione, e dubitare potrebbe di ciò, ch’io dico d’Amore come se fosse una cosa per sé, e non solamente sustanzia intelligente, ma sí come fosse sustanzia corporale: la qual cosa, secondo la verità, è falsa; ché Amore non è per sé sí come sustanzia, ma è uno accidente in sustanzia (corsivo mio). 19. In questa conclusione si può ben valutare la distanza di Guido rispetto a un trattato come il De amore. Cfr. Tonelli, De Guidone, cit., p. 485: « Gli argumenta del Cappellano […] sono molto sbilanciati a favore dell’interesse ‘sociale’, piuttosto che individuale, della passione ». E cfr. anche Fenzi, La canzone, p. 53: a Cavalcanti « non interessa affatto parlare del ‘rapporto d’amore’ e tanto meno del teatro sociale in cui questo rapporto si recita ». 20. Nella tradizione scientifica l’amore ereos si distingue per la sua eccezionalità e per la sua aristocraticità nel senso che è una passione di un determinato ceto esclusivo, sia esso connotato in senso sociale sia esso connotato in senso intellettuale. « Malattia da ricchi, insomma o, comunque, per chi se lo possa permettere » (Tonelli, De Guidone, cit., p. 501). È questa l’unica “concessione sociologica” che trapela in studi di serrata argomentazione psico-fisiologica. 21. In proposito la bibliografia è sterminata. Cfr., almeno, Fenzi, La canzone, pp. 44-52; e i “classici” B. Nardi, L’averroismo del « primo amico » di Dante, in Id., Dante e la cultura medievale, cit., pp. 93-129; M. Corti, Scritti su Cavalcanti e Dante, Torino, Einaudi, 2003. Ad essi si possono aggiungere, anche per l’elencazione della ricca bibliografia pregressa, gli atti di tre convegni organizzati in occasione del centenario della morte di Cavalcanti: Guido Cavalcanti laico, cit.; Alle origini dell’io lirico, cit.; Guido Cavalcanti tra i suoi lettori. Atti del Convegno di New York, 10-11 novembre 2000, a cura di M.L. Ardizzone, Firenze, Cadmo, 2003.

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Il termine tecnico « accidente » indirizza inconfondibilmente verso i recenti trattati dei medici piú che verso la «passio quaedam innata» della definizione di amore formulata da Andrea Cappellano.22 Bastino due esempi; nelle Questiones super viaticum Pietro Ispano aveva scritto: « omnia accidentia anime sunt passio cordis […]. Sed amor hereos est accidens. Ergo est passio cordis » (‘tutti gli stati accidentali dell’anima sono passioni del cuore […]. Ma l’amore ereos è un accidente. Dunque è una passione del cuore’); lo stesso vocabolo compare anche nel De amore heroico di Arnaldo da villanova: « Amor igitur […] dicetur proprie accidens et non morbus » (‘Dunque l’amore è propriamente un accidente, non una malattia’).23 Prescindendo ora dagli ipotesti, il termine « accidente » ci permette, poi, di individuare una suggestiva interrelazione tra l’asserzione dantesca e l’incipit della canzone dottrinale di Cavalcanti: « Donna me prega, per ch’eo voglio dire / d’un accidente che sovente è fero / ed è sí altero ch’è chiamato amore » (Cavalcanti, xxviib 1-3: corsivo mio). Se, come sono propenso a credere, la Vita nuova precede Donna me prega,24 nella correlazione individuata è Dante che ha imbeccato Guido, il quale, chiamato direttamente in causa non solo in questa sezione del libello, ma anche capziosamente coinvolto in un sistema di pensiero radicalmente lontano dalle sue idee e dalla sua poesia, sentí il dovere e l’onere della prova. E, infatti, penso che non a caso la sua prodigiosa risposta inizi proprio con la qualificazione di quell’« accidente » che era rimasto imprecisato nella definizione di Dante; per Cavalcanti, dunque, amore è sí un accidente ma fero e altero, 22. È stata opportunamente notata la corrispondenza tra l’incipit di V.n., xxv, e le terzine del già citato sonetto attribuito a Dante, Molti volendo dir che fosse amore. Rimando al commento di Giunta, in Rime, pp. 740-44. 23. Le due citazioni sono in Tonelli, De Guidone, cit., rispettiv. alle pp. 486 e 474. 24. Sulla complessa problematica interpretativa e storica di Donna me prega, approdata alla recente ipotesi che essa sia la sottilmente polemica risposta di Guido a Dante, il quale gli aveva dedicato la Vita nuova, affermandovi un concetto positivo, edificante, dell’amore, agli antipodi dalla concezione cavalcantiana, vd. Malato, Amor cortese e amor cristiano, cit., pp. 605-14; Id., Dante e Guido Cavalcanti, e partic. Nuove prospettive degli studi danteschi, cit.; cfr. inoltre G. Tanturli, Guido Cavalcanti contro Dante, in Le tradizioni del testo. Studi di letteratura italiana offerti a Domenico De Robertis, a cura di F. Gavazzeni e G. Gorni, Milano-Napoli, Ricciardi, 1993, pp. 3-13; e Fenzi, La canzone, pp. 30-35. Questi riferimenti bibliografici sono utili anche per la segnalazione delle tante altre voci che sono intervenute nel fitto dibattito, tutt’altro che spento.

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cosí impetuoso e travolgente, che è solo una fallace e vana illusione ritenere che esso possa essere temprato sotto il fedele consiglio della ragione.25 Quello che, però, inquieta e che, dunque, merita ora di essere messo a fuoco è la formula dantesca « Amore non è per sé sí come sustanzia, ma è uno accidente in sustanzia », nonché, soprattutto, la sua collocazione nella Vita nuova. Nell’ampia digressione che costituisce il par. xxv, in cui il dialogo con il « primo amico » è ostentatamente perseguito, infatti, essa svela il suo ruolo tattico all’interno di una mirata strategia argomentativa: insomma, per “ragionare d’amore” con Guido, Dante sembra voler ricercare una base di accordo e di condivisione, esibendo fin dall’esordio gli stessi riferimenti culturali se non gli stessi ipotesti. Ora, però, nel piano di un libro come la Vita nuova, il cui profondo e vero significato, espresso già nel titolo, è il rinnovamento interiore del protagonista e della sua poesia,26 quella definizione, pur scientificamente ineccepibile, risulta discrepante, e a questa altezza del racconto già superata. Nell’adiacente par. xxiv 5, Dante non aveva forse detto che Beatrice è amore? E anche mi parve che [Amore che parla nel cuore di Dante] mi dicesse, dopo queste parole: « E chi volesse sottilmente considerare, quella Beatrice chiamerebbe Amore per molta simiglianza che ha meco »;

identità ben evidente negli ultimi due versi del collegato sonetto Io mi senti’ svegliar, che, tra l’altro, è esplicitamente diretto « a lo mio primo amico » (V.n., xxiv 9 vv. 13-14): Amor mi disse: « Quell’è Primavera, e quell’ha nome Amor, sí mi somiglia ».

25. Questo è un punto cardine della concezione d’amore di Dante, come dimostra V.n., ii 9: « E avvegna che la sua imagine, la qual continuamente meco stava, fosse baldanza d’Amore a segnoreggiare me, tuttavia era di sí nobilissima vertú, che nulla volta sofferse ch’Amore mi reggesse sanza ’l fedel consiglio de la ragione in quelle cose là ove cotal consiglio fosse utile a udire ». 26. Cfr. Roncaglia, p. 33: il titolo Vita nuova ha soprattutto « il valore simbolico di “vita rinnovata dalla rivelazione d’amore” »; cfr. anche A. Casadei, Incipit vita nova, in « Nuova Rivista di letteratura italiana », a. xiii 2010, pp. 11-18.

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E questa consustanzialità non era forse stata arditamente dimostrata con una proporzione evangelica, secondo cui la bellissima Giovanna, l’amata di Guido, sta al precursore Giovanni Battista come Beatrice sta a Cristo che è l’incarnazione dell’amore divino? (V.n., xxiv 3-4): E poco dopo queste parole, che lo cuore mi disse con la lingua d’Amore, io vidi venire verso me una gentile donna, la quale era di famosa bieltade, e fue già molto donna di questo primo mio amico; e lo nome di questa donna era Giovanna, salvo che per la sua bieltate, secondo che altri crede, imposto l’era nome Primavera, e cosí era chiamata. E appresso lei, guardando, vidi venire la mirabile Beatrice. Queste donne andaro presso di me cosí l’una appresso l’altra, e parve che Amore mi parlasse nel cuore, e dicesse: « Quella prima è nominata Primavera solo per questa venuta d’oggi, ché io mossi lo imponitore del nome a chiamarla cosí Primavera, cioè prima verrà lo die che Beatrice si mosterrà dopo la imaginazione del suo fedele. E se anche vòli considerare lo primo nome suo, tanto è quanto dire ‘prima verrà’, però che lo suo nome Giovanna è da quello Giovanni lo qual precedette la verace luce, dicendo: ‘Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini’ ».

Ora, è vero che – lo abbiamo visto poco fa – nella successiva digressione del par. xxv Dante si sforza di voler fugare ogni dubbio circa la sostanzialità di Amore che gli era apparso e che gli aveva parlato, e lo fa illustrando la figura retorica della personificazione e chiamando in correità il primo amico, ma questa sua dimostrazione non smentisce affatto il teorema precedentemente espresso, e ormai vincente nel libello, che identifica « l’essenza o la ‘natura’ d’amore con la ‘natura’ dell’oggetto amato ».27 E ciò non significa che ogni donna è per sua intima e propria natura amore – e, infatti, non lo è nemmeno la bellissima Giovanna –, ma significa che solo Beatrice è amore. Questa equazione è tanto piú audace e provocatoria quanto piú Dante pretende di estenderne il valore, attribuendole un significato assoluto e sovraindividuale: Beatrice è amore non solo per lui Dante, ma per tutti. Ella può, dunque, essere chiamata Amore, perché è l’epifania dell’autentico amore. Solo lei ha il potere miracoloso di diffondere universalmente gli effetti beneficanti e soteriologici del vero amore. E infatti, finita la digressione del par. xxv, la narrazione riprende e pro27. Fenzi, La canzone, p. 29.

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segue sull’onda di questa acquisizione ormai inconfutabile nel libello, come limpidamente emerge dalla prosa introduttiva del par. xxvi, che precede i celebri sonetti Tanto gentile e tanto onesta pare e Vede perfettamente onne salute (V.n., xxvi 1-4): Questa gentilissima donna, di cui ragionato è ne le precedenti parole, venne in tanta grazia de le genti, che quando passava per via, le persone correano per vedere lei, onde mirabile letizia me ne giugnea. E quando ella fosse presso d’alcuno, tanta onestade giungea nel cuore di quello, che non ardia di levare li occhi né di rispondere al suo saluto; e di questo molti, sí come esperti, mi potrebbero testimoniare a chi nollo credesse. Ella coronata e vestita d’umiltade s’andava, nulla gloria mostrando di ciò ch’ella vedea e udia. Diceano molti, poi che passata era: « Questa non è femina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo ». E altri diceano: « Questa è una maraviglia; che benedetto sia lo Segnore, che sí mirabilemente sa operare! ». Io dico ch’ella si mostrava sí gentile e sí piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano comprendeano in loro una dolcezza onesta e soave, tanto che ridire nollo sapeano, né alcuno era lo quale potesse mirare lei, che nel principio nol convenisse sospirare. Queste e piú mirabili cose da lei procedeano virtuosamente.

E Guido? Il suo insistito coinvolgimento in questo punto della Vita nuova (par. xxv) è, allora, tanto singolare quanto capzioso, perché egli – mai nominato e per giunta sempre definito impegnativamente « primo amico » – è chiamato in causa in un contesto ambiguo e per lui inaccettabile se non provocatorio, in cui la possibile complicità e sintonia di posizioni sulla definizione scientifica di amore come accidente risulta assolutamente fragile, laddove tutto il resto concorre a liquidare definitivamente la sua concezione d’amore. Nonostante la dedica, dunque, è all’altezza della Vita nuova che – credo – si stia consumando lo strappo di Dante da Cavalcanti,28 una frattura

28. M. Picone, ‘Vita Nuova’ e tradizione romanza, Padova, Liviana, 1979, p. 67: « L’ortodossia cavalcantiana della Vita Nuova, sostenuta di recente con grande autorità da Contini, esiste fino ad un certo livello dell’esperienza poetica dantesca; livello che però viene superato almeno all’altezza della raccolta dei materiali poetici, o della glossa rivelatrice del loro significato: all’altezza cioè della prosa che trasforma i dati documentari relativi al joven in tappe successive di un’altissima avventura spirituale ».

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dolorosa perché tra i due c’erano state reciprocità e comunanza d’intenti nel segno di un rinnovamento della poesia d’amore. Del resto, che nelle vene di Dante scorresse sangue salato29 da Guido è un dato assodato e inconfutabile: sono lí a dimostrarlo, nei primi paragrafi della Vita nuova, i turbamenti psicofisici del protagonista all’apparizione della « gentilissima » e, soprattutto, l’episodio di corposa densità cavalcantiana del « gabbo » (V.n., xiv-xvi); ma la crisi della concezione d’amore cara al primo amico inizia proprio da qui. Il dubbio si insinua nella mente di Dante per opera dello stesso personaggio Amore, significativamente « consigliato da la ragione »30 (V.n., xv 1): Appresso la nova trasfigurazione mi giunse uno pensamento forte, lo quale poco si partia da me, anzi continuamente mi riprendea, ed era di cotale ragionamento meco: « Poscia che tu pervieni a cosí dischernevole vista quando tu sè presso di questa donna, perché pur cerchi di vedere lei? Ecco che tu fossi domandato da lei: che avrestú da rispondere, ponendo che tu avessi libera ciascuna tua vertude in quanto tu le rispondessi? ».

Nella mente di Dante l’immediata risposta è un pensiero ancora contrassegnato dalla penna di Guido, come rivelano certi inconfondibili vocaboli, quali « uccide », « distrugge », « passioni » (qui ‘angosce’, ‘sofferenze’) (V.n., xv 2): Ed a costui rispondea un altro, umile, pensero, e dicea: « S’io non perdessi le mie vertudi, e fossi libero tanto ch’io le potessi rispondere, io le direi che sí tosto com’io imagino la sua mirabile bellezza, sí tosto mi giugne un disiderio di vederla, lo quale è di tanta vertude, che uccide e distrugge ne la mia memoria ciò che contra lui si potesse levare; e però non mi ritraggono le passate passioni da cercare la veduta di costei » (V.n., xv 2).

Leggendo queste parole, pare, infatti, di ascoltare il Cavalcanti di Quando di morte mi conven trar vita (Cavalcanti, xxxii). Tuttavia, poco oltre, quando a riformulare la domanda è una delle donne che hanno intelletto d’amore, questa risposta non convince piú (V.n., xviii 3): 29. Si riprende la fortunata metafora di Contini. Cfr. G. Contini, Cavalcanti in Dante, in Id., Un’idea di Dante, cit., pp. 143-57, a p. 157: « Cavalcanti aveva salato il sangue a Dante ». 30. V.n., xv 8: « che ne la prima [divisione del sonetto] dico quello che Amore, consigliato da la ragione, mi dice quando le sono presso ».

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iv. quando amor spira: aspetti e caratteri del dolce stil novo A che fine ami tu questa tua donna, poi che tu non puoi sostenere la sua presenza? Dilloci, ché certo lo fine di cotale amore conviene che sia novissimo.

Per Dante questa domanda smaschera inesorabilmente la crisi della concezione cavalcantiana di amore come passione eletta ed esclusiva, ma al contempo patologica e intimamente distruttrice dell’io. Ora, ciò che Dante sta mettendo a nudo non è solo un’aporia speculativa, ma è anche un morbo poetico. Infatti, per l’intimo connubio che secondo gli stilnovisti lega amore e poesia, si evidenziano qui i gravi sintomi di una materia poetica certamente raffinata, ma che porta intrinsecamente il germe della « ripetitiva sterilità »31 con il conseguente e letale rischio dell’afasia (V.n., xvii 1, corsivo mio): Poi che dissi questi tre sonetti, ne li quali parlai a questa donna però che fuoro narratori di tutto quasi lo mio stato, credendomi tacere e non dire piú però che mi parea di me assai aver manifestato, avvegna che sempre poi tacesse di dire a lei, a me convenne ripigliare matera nuova e piú nobile che la passata.

Affinché una voce si levi da questo silenzio poetico è necessaria ora una « matera nuova e piú nobile che la passata », una nuova concezione d’amore e una nuova poesia. Il paragrafo xvii – che nella sapiente divisione di Michele Barbi è stato lasciato brevissimo – è, pertanto, una netta linea di demarcazione.32 Dietro restano le ceneri di un passato che deve essere superato. In primo luogo, brucia una concezione di amore, di impronta cortese, che si esaurisce nelle finzioni delle donne-schermo e nella negazione del saluto da parte di Beatrice; per dirla grossolanamente: perché l’amore autentico deve nascondersi? e perché deve dipendere esclusiva31. Fenzi, La canzone, p. 20. 32. L’articolazione del libello in 42 paragrafi – già ottocentesca (la inaugurò Alessandro Torri nell’edizione livornese del 1843 per i tipi di Paolo vannini; in essa i paragrafi erano però 43) e promossa da Barbi nelle sue edizioni (1907, 19212 e 19323) – è stata discussa e modificata da Guglielmo Gorni nella citata ed. einaudiana della Vita Nova (1996), ora riedita (ma con alcuni ammodernamenti) in Dante, Opere, vol. i, cit., pp. 745-1063. La divisione supposta originaria in 31 paragrafi non ha però il sostegno della tradizione manoscritta come credeva Gorni, e dunque è controproducente modificare la paragrafatura vulgata: cfr. D. Pirovano, Per una nuova edizione della ‘Vita nuova’, in RSD, a. xii 2012, pp. 248-325, alle pp. 319-25.

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mente dalla « mercede » della donna? In secondo luogo brucia la concezione di amore, di impronta cavalcantiana, ossessivamente concentrata su un io che, sottoposto al furore di una parossistica passione, si autoconsuma e si autodistrugge;33 ancora grossolanamente: ma il vero amore è vita o morte? In entrambi i casi, amore è per sua natura uno stato accidentale dell’anima e non ha altra realtà che il desiderio del soggetto, insomma « è il mero nome di questo desiderio»,34 ma in entrambi i casi questa passione irrazionale è tanto smodata ed eccessiva quanto effimera.35 Sono i tratti, inconfondibili, di eros, non necessariamente riducibile alla sua estrema variante patologica di ereos. La nuova concezione, che Dante annuncia alle donne che hanno intelletto d’amore, presenta, dunque, aspetti esattamente opposti, beatificanti e duraturi (V.n., xviii 4): lo mio signore Amore, la sua mercede, ha posta tutta la mia beatitudine in quello che non mi puote venire meno.

Questa nuova idea di amore disinteressato,36 che poeticamente si esprime « in quelle parole che lodano la donna mia » (V.n., xviii 6), a lungo e con fatica cercata,37 prorompe improvvisamente in un’atmosfera sacrale ed epi33. Fenzi, La canzone, pp. 58-59: « Ogni possibile descrizione [della concezione d’amore di Guido] non farebbe però che girare attorno a un cono d’ombra, a un nucleo oscuro costituito da un volere tanto misterioso nel suo puro e semplice porsi come tale, quanto evidente nei suoi effetti, riassumibili in una dimensione esistenziale di ‘dismisura’, fortemente squilibrata dal lato del soggetto e dunque conflittuale e dolorosa » (corsivo nel testo). 34. Ivi, p. 57 (corsivo nel testo). 35. L’aspetto precario della concezione cortese fondata su “amare per avere” e legata alla concessione della donna è evidente. A proposito del carattere momentaneo della passione nella concezione di Cavalcanti, Nardi, Filosofia dell’amore, cit., p. 35, scrive: « Per il Cavalcanti, invece, l’aspetto piú doloroso del dramma non è dato tanto da questa lotta fra l’ardore del desiderio e il non ottener mercede, quanto dalla convinzione che, anche ottenuta mercede e soddisfatto il desiderio, l’amore poco soggiorna, per cominciare una nuova battaglia ». 36. Coglie il senso della svolta dantesca Leporatti, Ipotesi, cit., p. 14: « La novità del libro non sta nella scoperta della poesia in lode, ma nella presa di coscienza, maturata a partire dal suo testo piú significativo, Donne ch’avete intelletto d’amore, e realizzata in pieno nel libro stesso, che solo attraverso la lode poteva esprimersi il vero e disinteressato amore ». 37. V.n., xviii 9: « E però propuosi di prendere per matera del mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima; e pensando molto a ciò, pareami avere impresa

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fanica, come mostra il suggestivo par. xix; e il primo esito lirico è la “canzone svolta” Donne ch’avete intelletto d’amore. Nell’inno Beatrice si rivela nella sua vera natura miracolosa. Ella è una grazia celeste, ed è la manifestazione in terra della caritas, dell’amore discendente di Dio, un evento soteriologico, che ha il potere di nobilitare ed elevare spiritualmente chi ne faccia esperienza.38 Che Donne ch’avete sia un segno di svolta del profondo rinnovamento interiore di Dante narrato nella Vita nuova lo dimostra il paragrafo immediatamente successivo (xx), dove, in séguito alla divulgazione della canzone, egli riceve da un imprecisato amico39 la richiesta di spiegare la natura di amore (V.n., xx 1): Appresso che questa canzone fue alquanto divolgata tra le genti, con ciò fosse cosa che alcuno amico l’udisse, volontà lo mosse a pregarmi ched io li dovessi dire che è Amore, avendo forse per le udite parole speranza di me oltre che degna.

La richiesta va collocata in sequenza con le domande delle donne che abbiamo già letto (par. xviii). Il superamento precedentemente dichiarato di altre concezioni erotiche e l’enfatica proclamazione di una nuova materia che si traduce in un canticum novum, infatti, comportano per Dante la necessità di chiarire per la prima volta nel libello il tema dell’origine e della natura d’amore. Leggiamo, dunque, il « sonetto, lo qual comincia: Amore e ’l cor gentil » (V.n., xx 2): Amore e ’l cor gentil sono una cosa, sí come il saggio in su’ dittare pone, troppo alta matera quanto a me, sí che non ardia di cominciare; e cosí dimorai alquanti dí con disiderio di dire e con paura di cominciare ». 38. È vero che Dante aveva già sperimentato la « fiamma di caritade » (V.n., xi 1), intimamente legata all’apparizione e al saluto della gentilissima, ma allora non aveva ancora compreso appieno il mistero, tanto che il suo corpo per « soverchio di dolcezza » ne aveva subíto paralizzanti conseguenze. Cfr. V.n., xi 3: « E quando questa gentilissima salute salutava, non che Amore fosse tal mezzo che potesse obumbrare a me la intollerabile beatitudine, ma elli quasi per soverchio di dolcezza divenia tale, che ’l mio corpo, lo quale era tutto allora sotto ’l suo reggimento, molte volte si movea come cosa grave inanimata ». 39. Egli non può essere Guido Cavalcanti, che a norma del libello è « il primo amico ». Sono state avanzate proposte di identificazione, tutte poco convincenti, per cui conviene rispettare l’indeterminatezza lasciata da Dante.

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il dolce stil novo e cosí esser l’un senza l’altro osa com’alma razional sanza ragione. Falli natura quand’è amorosa, Amor per sire e ’l cor per sua magione, dentro la qual dormendo si riposa tal volta poca e tal lunga stagione. Bieltate appare in saggia donna poi, che piace agli occhi sí, che dentro al core nasce un disio de la cosa piacente; e tanto dura talora in costui, che fa svegliar lo spirito d’Amore. E simil face in donna omo valente.

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L’auctoritas di riferimento è súbito dichiarata nell’incipit, la canzone di Guinizzelli Al cor gentil rempaira sempre amore (Guinizzelli, iv), dove era stata enunciata e sviluppata la tesi, non certo rivoluzionaria, della consustanzialità di amore e cor gentile (‘sensibile’, ‘raffinato’, ‘di nobile sentire’). Le plurime analogie del poeta bolognese, costruite prevalentemente sulla dialettica di matrice aristotelica potenza-atto, sono condensate e al tempo stesso innalzate ontologicamente, laddove Dante afferma già nell’attacco la perfetta coincidenza di amore e cuore gentile (sono una cosa): insomma, da reciprocità a identità. La loro piena corrispondenza e inseparabilità sono avvalorate anche dalla loro comune origine per opera della buona disposizione naturale. Amore giace potenzialmente nella sua propria sede (il cuore) poco o tanto tempo, fino a quando non è risvegliato dalla bellezza di una donna virtuosa, che, attraverso gli occhi, fa nascere il desiderio. Ed esso dura nel cuore, finché fa sorgere il sentimento (lo spirito d’Amore): non basta, dunque, la semplice attrazione; occorre che il desiderio acceso interiormente persista.40 Il medesimo processo è generato in una donna da un uomo di animo nobile. Considerate le aspettative dell’amico, non si può non provare una certa delusione. La risposta rimane stretta nell’alveo della tradizione41 e non 40. Conv., ii 2 3: « Ma però che non subitamente nasce amore e fassi grande e viene perfetto, ma vuole tempo alcuno e nutrimento di pensieri ». 41. A proposito di Amore e ’l cor gentil sono una cosa, annota Leporatti, Ipotesi, cit., p. 16:

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dice granché rispetto alla svolta di Donne ch’avete, le cui « udite parole » avevano generato la richiesta. L’unica sensibile differenza rispetto alle teorie dei medici medievali o del Cappellano, piú volte ripetute dai poeti del ’200, è il mancato riferimento al pensiero eccessivo (« immoderata cogitatio »).42 Nel piano della Vita nuova, dunque, il sonetto non conta tanto per la sua sostanza e la sua novitas speculativa, quanto per il suo indiscutibile omaggio al primo Guido, promosso a “saggio” e autorità di riferimento, nel preciso momento in cui sta definitivamente tramontando dall’orizzonte ideologico di Dante l’astro del secondo Guido. Ma l’attesa risposta non si farà troppo attendere, perché la trattazione d’amore continua e si risolve compiutamente nel capitolo successivo, incentrato sul sonetto Negli occhi porta (V.n., xxi): Negli occhi porta la mia donna Amore, per che si fa gentil ciò ch’ella mira; ov’ella passa, ogn’uom ver’ lei si gira, e cui saluta fa tremar lo core, sí che, bassando il viso, tutto ismore, e d’ogni su’ difetto allor sospira: fugge dinanzi a lei superbia e ira. Aiutatemi, donne, farle onore. Ogne dolcezza, ogne pensero umile nasce nel core a chi parlar la sente, ond’è laudato chi prima la vide. Quel ch’ella par quand’un poco sorride, non si può dicer né tenere a mente, sí è novo miracolo e gentile.

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‘Negli occhi di Beatrice c’è Amore, per cui viene nobilitato tutto ciò su cui ella volge lo sguardo. Là dove avanza, ciascuno si volge a lei come attratto nella sua orbita. A colui che ella saluta fa tremare il cuore, cosicché, abbas« Questo componimento, mi pare, non sfugge al sospetto di una maggiore arcaicità rispetto agli altri ». 42. Malato, Amor cortese e amor cristiano, cit., pp. 615-16: nel sonetto di Dante il principale scarto rispetto alla tesi tradizionale del Cappellano è « la caduta di ogni riferimento alla “immoderata cogitatio”, o anche semplicemente ai “pensieri” incalzanti di Guinizzelli e altri […], cui viene sostituita la durata, il passare del tempo, come elemento propizio alla nascita e allo sviluppo de “lo spirito d’Amore” ».

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sando lo sguardo, totalmente impallidisce, e sospirando sente rammarico di ogni sua mancanza. Davanti a lei fuggono l’orgoglio e la collera. Per celebrarla degnamente occorre l’aiuto delle donne che le sono compagne. Ogni dolcezza, ogni pensiero benevolo nasce nel cuore di chi la sente parlare, perciò è privilegiato chi la vide per primo. Quello che ella è veramente quando accenna un sorriso è inesprimibile e inconcepibile: è un miracolo straordinariamente eccelso’. Nel limpido componimento sono piú che evidenti gli effetti soteriologici dell’amore che risiede negli occhi di Beatrice, ed è un amore che ha i tratti indiscutibili della caritas. Ciò emerge ancora piú chiaramente se si misura lo scarto di questo inno di lode beatriciano rispetto ai suoi modelli intertestuali, i due sonetti di Guinizzelli, Vedut’ ho la lucente stella diana e Io vo’[glio] del ver la mia donna laudare (rispettiv. Guinizzelli, vii e x), e, soprattutto, il suo riconosciuto ipotesto, il cavalcantiano Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira (Cavalcanti, iv). Il sonetto non è concentrato sull’io, ma sulla donna e, infatti, rientra pienamente nelle rime della “loda”. Quello che importa mettere a fuoco è, però, la concezione di un amore non come stato del soggetto, ma come relazione con un oggetto che lo ispira. Siamo al centro della svolta dantesca della Vita nuova, che consiste in primo luogo « nel recupero della “creaturalità” di Beatrice, come pure in un approccio all’Amore centrato non piú sul sentimento, in sé considerato, oppure sulla gioia o sul dolore di colui che lo prova ed esprime poeticamente, ma sulla oggettiva e positiva natura della donna amata, res sacra che richiede, come tale, una lingua poetica rinnovata ».43 In questo senso Dante si distanzia decisamente dall’egocentrismo erotico cavalcantiano.44 Ma il punto decisivo è nella parte introduttiva del par. xxi, che orienta

43. M. Veglia, Due canzoni, il “traviamento” di Dante e la genesi della ‘Commedia’, in Le rime di Dante, cit., pp. 279-306, a p. 300 (corsivo nel testo). 44. E. Fenzi, E’ m’incresce di me sí duramente, in Le rime di Dante, cit., pp. 135-75, a p. 170: per Dante è « essenziale precisamente la qualità e la relazione con l’oggetto che ha ispirato l’amore: un amore che per questa via impegna tutte le risorse dell’intelletto affinché il soggetto possa uscire da sé e comprendere e amare sempre piú una perfezione che lo trascende. Lo stile della loda è la sublimazione coerente di questa impostazione, del tutto anti-cavalcantiana » (corsivo nel testo).

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e reinterpreta un componimento che aveva circolato autonomamente. Nella prosa, infatti, Dante afferma audacemente di volere dire, anche in loda di questa gentilissima, parole per le quali io mostrassi come per lei si sveglia questo Amore, e come non solamente si sveglia là dove dorme, ma là ove non è in potenzia, ella, mirabilemente operando, lo fa venire (V.n., xxi 1).

Il vero e portentoso potere di Beatrice consiste, dunque, nel far nascere l’amore anche nei cuori dove esso non è virtualmente presente. Per questo ella si distingue da qualsiasi altra « saggia donna » del precedente Amore e ’l cor gentil, e in questo senso si potrà, poi, dire di lei « che sia una cosa venuta / dal cielo in terra a miracol mostrare » (V.n., xxvi 6 vv. 7-8). Dal momento che, a norma della fisica aristotelica, nulla può esistere in atto se non ne preesiste la potenza, questa capacità di Beatrice di suscitare amore laddove esso non è potenziale è, infatti, un chiaro attributo divino. Solo Dio può creare dal nulla; e la creazione è teologicamente un atto d’amore, è l’opera mirabile di un Dio la cui essenza è amore: Deus caritas est (1 Io., 4 8). Allora, Beatrice è una grazia e una rivelazione celeste. Ella può creare amore dal nulla, perché è amore. Come già abbiamo visto in Donne ch’avete, Beatrice è un segno miracoloso della caritas divina.45 Per questa via si perviene all’identificazione Beatrice-amore del par. xxiv e alle sue manifestazioni ecumeniche del par. xxvi, che abbiamo già messo in evidenza. L’importante è capire la ragioni che permettono a Dante di sostenere la coessenzialità di amore e Beatrice: esse hanno una chiara valenza teologica, non fisica o psico-fisiologica. Questa concezione deriva da un’acquisizione fondamentale del pensiero teologico medievale, quella che considera il soggetto « intrinsecamente, ontologicamente amoroso: l’amore non è […] soltanto un moto o una espressione dello spirito accanto ad altri, ma è lo spirito umano, la mens, nella sua piú intima essenza, è la imago divina che vi risplende ».46 L’affectus umano, la facoltà amorosa, è stata creata a immagine e somiglianza di Dio, la cui essenza è Amore. Essa è la piú pura impronta di Dio nell’anima dell’uomo. 45. Per un approfondimento rimando al saggio di Ch.S. Singleton, Dall’amore alla “Caritas”, in Id., Saggio sulla ‘Vita Nuova’, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1968, pp. 77-108. 46. Trattati d’amore cristiani del XII secolo, i, cit., p. lxxxvii.

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Quando Dante scrive che Beatrice andrebbe chiamata Amore «per molta somiglianza » che ha con quello (V.n., xxiv 5), intende esprimere che in lei si manifesta compiutamente la carità creata. La caritas, infatti, è insieme realtà divina e dono di Dio agli uomini. Su questo punto i teologi sono concordi. Scrive, per esempio, Guglielmo di Saint-Thierry nel suo trattato De natura et dignitate amoris, 12:47 Amor quippe illuminatus caritas est; amor a Deo, in Deo, ad Deum, caritas est. Caritas autem Deus est: « Deus », inquit, « caritas est ». Breuis laus, sed concludens omnia. Quicquid de Deo dici potest, potest dici et de caritate; sic tamen ut considerata secundum naturas doni et dantis, in dante nomen sit substantiae, in dato qualitatis; sed per emphasim donum etiam caritatis Deus dicatur, in eo quod super omnes uirtutes uirtus caritatis Deo cohaeret et assimilatur.48

Guglielmo distingue la caritas secondo le categorie di « sostanza » (donatore, creatore) e di « qualità » (dono, creatura), ma in conclusione ammette anche che il dono della carità è partecipazione al mistero di Dio. Le stesse categorie – sostanza e accidente – si ritrovano in un passo del De diligendo Deo di san Bernardo, xii 35:49 Nemo tamen me aestimet caritatem hic accipere qualitatem uel aliquod accidens – alioquin in Deo dicerem, quod absit, esse aliquid quod Deus non est –, sed substantiam illam diuinam, quod utique nec nouum, nec insolitum est, dicente Ioanne: « Deus caritas est ». Dicitur ergo recte caritas, et Deus, et Dei donum. Itaque caritas dat caritatem, substantiua accidentalem. vbi dantem significat, nomen substantiae est; ubi donum, qualitatis. Haec est lex aeterna, creatrix et gubernatrix uniuersitatis.50 47. Per il trattato De natura et dignitate amoris (‘Natura e dignità dell’amore’), testo e versione a fronte, cfr. Trattati d’amore cristiani del XII secolo, i, cit., pp. 56-143. 48. ‘L’amore illuminato, infatti, è la carità: la carità è l’amore che viene da Dio, è in Dio e va verso Dio. Anzi, la carità è Dio: « Dio », dice la Scrittura, « è carità ». Una lode breve, ma che comprende tutto. Tutto ciò che si può dire di Dio si può dire anche della carità. In questo senso, però: considerando la natura del dono e quella di chi dona, nel donatore la carità assume il nome di sostanza, in ciò che è donato il nome di qualità. Tuttavia, per enfasi, si può anche dire che il dono della carità è Dio, nel senso che la virtú della carità – superiore a tutte le altre virtú – è unita a Dio e gli è simile’. 49. Il De diligendo Deo (‘L’amore di Dio’) si può leggere, sia in latino sia in traduzione italiana, in Trattati d’amore cristiani del XII secolo, i, cit., pp. 156-235. 50. ‘Nessuno però pensi che io concepisca qui la carità come una qualità o come un

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L’universo è creato per amore ed è tutto pervaso dall’amore di Dio. Mentre in Dio l’amore è sostanza, nelle creature è accidente, nel senso che non può sussistere di per sé, ma solo come azione di grazia del vero amore sostanziale che è Dio. Sono voci cronologicamente lontane dai tempi di Dante,51 ma le teorie degli autorevoli maestri cistercensi hanno inciso profondamente sul dibattito teologico successivo e le loro idee fondamentali sull’origine e la natura di amore erano ancora vitali nella predicazione, nella liturgia e nelle pubbliche lezioni tenute negli Studia fiorentini frequentati dall’Alighieri, in particolare in quello francescano di Santa Croce, laddove l’esperienza mistica cistercense dell’unione diretta con Dio attraverso la contemplazione come risultato di un cammino ascetico si apre anche a considerare l’esperienza del riconoscimento dell’epifania del divino nella storia attraverso un testimone: in questo senso la letteratura francescana è concorde nel riconoscere san Francesco come alter Christus. Il significato profondo della Vita nuova non è lontano: anche Beatrice è « venuta / dal cielo in terra a miracol mostrare » (V.n., xxvi 6 vv. 7-8).52 Il percorso di Dante è la piena acquisizione di questa esperienza teologica: l’amore per la donna-miracolo può portare all’esperienza dell’unione con Dio. Il vero problema è riconoscere, ora, come sia possibile la sintesi di due forme di amore radicalmente diverse e apparentemente inconciliabili come eros e caritas, l’amore per una donna cantato dai poeti e l’amore divino oggetto della riflessione dei teologi.53 qualche accidente – altrimenti affermerei, non sia mai, che in Dio vi è qualcosa che non è Dio –; dico invece che è la sostanza stessa di Dio, affermazione certamente non nuova né insolita poiché Giovanni dichiara: « Dio è carità ». Perciò è corretto dire che la carità è insieme Dio e un dono di Dio. Cosí la Carità dona la carità, quella sostanziale dona quella accidentale. Quando designa il donatore è il nome della sostanza; quando designa il dono è il nome di una qualità. Questa è la legge eterna che crea e governa l’universo’. 51. Il De natura et dignitate amoris va verosimilmente collocato tra il 1121 e il 1123; il De diligendo Deo tra il 1132 e il 1135. 52. Per questo indirizzo di ricerca cfr. soprattutto v. Branca, Poetica del rinnovamento e tradizione agiografica nella ‘Vita Nuova’, in Studi in onore di Italo Siciliano, Firenze, Olschki, 1966, 2 voll., i pp. 123-48. 53. Il dibattito è complesso anche perché coinvolge l’intera esperienza trobadorica. In proposito, se Gilson ha negato ogni rapporto di filiazione tra il pensiero cistercense e la contemporanea fin’amor, non sono mancate altre posizioni, che ammettono possibili influssi

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La risposta può essere trovata in un testo biblico che ha goduto per tutto il Medioevo di una straordinaria fortuna esegetica: il Cantico dei Cantici. L’epitalamio attribuito a Salomone si offriva all’immaginazione medievale come il racconto in versi di un’avventura erotica, interpretata certo in chiave allegorica o tropologica o mariologica, ma in cui non veniva generalmente soffocata la sensualità della lettera. Il Cantico fu ora letto come la calda voce di un’anima che anela a ricongiungersi a Dio, ora come l’intensa espressione di una chiesa che ama e si unisce a Cristo suo sposo, ora in chiave mariana, ma il suo ardente linguaggio erotico non venne sconfessato o misconosciuto, al punto che già in Origene (a monte dell’intera tradizione esegetica cristiana del poemetto) lo stesso termine amor « fu usato per designare due fenomenologie affettive apparentemente inconciliabili, la passione sensuale e la caritas cristiana ».54 Nell’esegesi di quell’affascinante libro si erano cimentati quasi tutti i grandi maestri del pensiero medievale,55 compresi i già citati Guglielmo di Saint-Thierry e san Bernardo, autori rispettivamente di una Expositio super Cantica canticorum e di Sermones super Cantica canticorum, che godettero di larga popolarità. La tradizione medievale del Cantico è un fiume interrotto e dilagante di commenti, di discorsi, di chiose, di glosse, che scorre anche dai pulpiti e nelle aule degli Studia fiorentini al tempo di Dante, come confermano i già ricordati Pietro di Giovanni Olivi e Remigio dei Girolami, che scrissero rispettivamente un’esposizione e alcune postille all’epitalamio. E il Cantico non mancò di suggestionare anche un « loico » come Cavalcanti, come dimostra inequivocabilmente l’incipit di uno dei suoi sonetti piú noti: Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira (Cavalcanti, iv 1). Anche Dante ne subí il fascino. Gli studi sui rapporti tra la Commedia e il Cantico hanno dato esito positivo,56 ma l’incontro del poeta con il poealmeno su trovatori come per esempio Marcabru e Jaufre Rudel. Per questa discussione, di cui qui si fornisce una particola, si può inizialmente rimandare all’introduzione dei Trattati d’amore cristiani del XII secolo, i, cit., partic. pp. lxxxv-lxxxix; e a P. Nasti, La disciplina d’amore, in Ead., Favole d’amore e « saver profondo ». La tradizione salomonica in Dante, Ravenna, Longo, 2007, pp. 43-85, con relativa bibliografia. 54. P. Nasti, La ricezione medievale, in Ead., Favole d’amore, cit., pp. 15-41, a p. 26. 55. Un lungo, e non esaustivo, elenco in L. Pertile, La puttana e il gigante. Dal ‘ Cantico dei cantici’ al Paradiso Terrestre di Dante, Ravenna, Longo, 1998, p. 27. 56. Cfr. Pertile, La puttana e il gigante, cit., passim, al quale si rimanda anche per la bibliografia pregressa.

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metto biblico e la sua secolare esegesi avvenne molto tempo prima, almeno negli anni giovanili della Vita nuova. L’assenza di corrispondenze e di coincidenze ad litteram tra i due testi non esclude, infatti, un’influenza a livello ideologico: indizi sono stati individuati da Paola Nasti in una sua analisi tesa a riscontrare una « relazione strutturale, tematica e narrativa di tipo continuato fra le due opere ».57 I risultati della ricerca, secondo me, non consentono di concludere che « il libello dantesco sia un vero e proprio tentativo di riscrittura dell’epitalamio e della sua glossa in un testo che fonde poesia ed interpretazione »,58 ma alcune tangenze di pensiero mi paiono significative. Nella Vita nuova come nel Cantico dei Cantici il mistero dell’amore divino si rivela nella storia d’amore di un uomo e di una donna. Beatrice rappresenta, infatti, l’incarnazione della caritas, manifestazione evidente (il suo verbo è decisamente apparire) e carnale del mistero di un amore piú alto che viene dal cielo e al cielo ritorna. Progressivamente questo amore si svela nella sua pienezza a Dante, il suo innamorato e il suo cantore, determinando in lui quel profondo rinnovamento interiore che è veramente una vita nuova. È un amore dolce e vitale che trasforma interiormente, come attesta emblematicamente la canzone monostrofica Sí lungamente m’ha tenuto Amore (V.n., xxvii 3-5). Gli effetti sul protagonista sono decisamente positivi e virtuosi,59 e, dunque, opposti rispetto ai paralizzanti attacchi di panico o alle crisi psico-fisiche, di matrice cavalcantiana, che avevano contrassegnato i primi episodi del racconto. Insomma, a questo punto della storia, all’ipotetica domanda di Guido Orlandi, « è vita questo amore, od è morte? »,60 Dante avrebbe risposto esattamente al contrario di Cavalcanti. Ma affinché questa risposta non sia 57. Si legga il capitolo La disciplina d’amore in Nasti, Favole d’amore, cit., pp. 43-85 (la citaz. è a p. 47). In precedenza, cfr. almeno l’intuizione di Branca, Poetica del rinnovamento, cit., p. 145: il Cantico fu « un testo continuamente riecheggiato dalla Vita Nuova nel suo inebriante linguaggio ». 58. Nasti, La disciplina d’amore, cit., p. 84. 59. Nella prosa introduttiva, infatti, l’io narrante si propone « di dire parole, ne le quali io dicessi come mi parea essere disposto a la sua operazione, e come operava in me la sua vertude » (V.n., xxvii 2). 60. Ipotetica, perché, secondo me, il sonetto di Guido Orlandi Onde si move, e donde

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contingente, è necessario che la concezione di questo amore « soave », fecondo ed edificante si misuri con l’evento drammatico della morte della donna che incarna l’amore. La morte di Beatrice, o meglio la sua assunzione al cielo,61 occupa nel libello una posizione centrale, nel senso che è il kerigma attorno al quale ruota tutto il racconto. È, dunque, una morte evangelica, perché come nei vangeli orienta la prospettiva,62 ed è una morte salvifica perché il paradosso dell’amore cristiano consiste in una vita nuova che rinasce dalla morte. L’amore che Beatrice incarna è mistero eucaristico, il quale opera e salva oltre la morte e a partire dalla morte, come ha detto Gesú (Io., 12 24-25): amen amen dico vobis nisi granum frumenti cadens in terram mortuum fuerit ipsum solum manet si autem mortuum fuerit multum fructum adfert (‘in verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto’).

La salvezza riguarda il personaggio Dante, che da quell’evento rinasce a vita nuova reinterpretando tutta la sua esistenza e pervenendo definitivamente a una concezione d’amore che “non puote piú venire meno”, ma riguarda anche il poeta Dante, che da quell’avvenimento inaugura l’« entrata de la nova materia che appresso viene » (V.n., xxx 1). Dopo la morte dell’amata il canto non cessa e non si sclerotizza nel trobadorico planh nasce Amore? (Cavalcanti, xxviia) è a valle e non a monte di Donna me prega (vd. qui, p. 299). La domanda citata a testo è il v. 11. 61. Inequivocabile la seconda stanza di Li occhi dolenti per pietà del core (V.n., xxxi 10): « Ita n’è Beatrice en l’alto cielo, / nel reame ove li angeli hanno pace, / e sta con loro, e voi, donne, ha lassate: / no la ci tolse qualità di gelo / né di calore, come l’altre face, / ma solo fue sua gran benignitate; / ché luce de la sua umilitate / passò li cieli con tanta vertute, / che fé maravigliar l’etterno Sire, / sí che dolce disire / lo giunse di chiamar tanta salute; / e fella di qua giú a sé venire, / perché vedea ch’esta vita noiosa / non era degna di sí gentil cosa ». 62. Nella Vita nuova come nei vangeli tutti i fatti precedentemente accaduti nella narrazione per essere pienamente compresi devono essere interpretati alla luce dell’evento salvifico e tutti i fatti successivi convergono verso quell’evento. Cfr., per esempio, V.n., iii 15: « Lo verace giudicio del detto sogno non fue veduto allora per alcuno, ma ora è manifestassimo a li piú sempici », che ricorda Io., 12 16: « haec non cognoverunt discipuli eius primum sed quando glorificatus est Iesus tunc recordati sunt quia haec erant scripta de eo et haec fecerunt ei » (‘Sul momento i suoi discepoli non compresero queste cose; ma quando Gesú fu glorificato, si ricordarono che questo era stato scritto di lui e questo gli avevano fatto’). E fin dall’inizio sappiamo che Beatrice è « la gloriosa donna de la mia mente » (V.n., ii 1).

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(‘lamento funebre’), come era avvenuto nella tradizione precedente, ma si trasforma.63 Ora che Beatrice è diventata « spirital bellezza grande », il suo amore continua a operare e a fecondare nuova poesia.64 La luce del suo amore si spande per il cielo, come rivelano gli ultimi versi della seconda stanza di Quantunque volte, lasso!, mi rimembra (V.n., xxxiii 8 vv. 20-26): per che ’l piacere de la sua bieltate, partendo sé da la nostra veduta, divenne spirital bellezza grande, che per lo cielo spande luce d’amor, che gli angeli saluta e lo ’ntelletto loro alto, sottile face maravigliar, sí v’è gentile.

‘Perché la sua bellezza, sottraendosi alla nostra vista, è diventata radiosa bellezza di spirito beato, che effonde per il cielo splendore di carità, che beatifica gli angeli, e li fa meravigliare tanto ella è nobile lassú’. Ma, anche post mortem, l’azione di grazia di Beatrice trionfa sulla terra, permettendo a Dante di superare la breve vicenda del vaneggiamento rappresentato dall’episodio della donna pietosa e gentile.65 Dopo la morte della « gentilissima » Dante sembra tornare indietro ricomponendo le tessere di un mosaico che avrebbe la possibilità di innescare il consueto processo dell’innamoramento: una complicità affettiva per giunta solidale nel dolore, la bellezza, la somiglianza, il pensiero ossessivo di una veduta forma. E non a caso sono state individuate in questi sonetti tessere cavalcantiane.66 Ma una indefinita partecipazione al dolore e « un color pallido 63. Cfr. R. Antonelli, La morte di Beatrice e la struttura della storia, in Beatrice nell’opera di Dante e nella memoria europea 1290-1990. Atti del Convegno internazionale di Napoli, 10-14 dicembre 1990, a cura di M. Picchio Simonelli, con la collaborazione di A. Cecere e M. Spinetti, Firenze, Cadmo, 1994, pp. 35-56, partic. pp. 51-56. 64. Cfr. M. Santagata, Il lutto del rimatore, in Id., Amate e amanti. Figure della lirica amorosa fra Dante e Petrarca, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 63-111. 65. Su questo episodio si veda la bella lettura di E. Fenzi, “Costanzia de la ragione” e “malvagio desiderio” (‘V.N.’, xxxix, 2): Dante e la donna pietosa, in La gloriosa donna de la mente. A commentary on the ‘Vita Nuova’, ed. by v. Moleta, Firenze-Perth, Olschki-The Univ. of Western Australia, 1994, pp. 195-224. 66. Cfr. M. Ciccuto, I sonetti di Guido a Dante, in Id., Il restauro, cit., pp. 49-100, partic. pp. 84-86; e Leporatti, Ipotesi, cit., pp. 25-26.

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quasi come d’amore » (V.n., xxxvi 1), che vagamente ricorda lo splendente « color di perle » (V.n., xix 11 v. 47) di Beatrice, non bastano a suscitare un nuovo amore.67 La breve vicenda della donna pietosa e gentile « nasce e muore nell’immaginazione del protagonista, che si rappresenta condizionato da un dolore che lo rende debole e indifeso ».68 L’episodio, piuttosto, sarebbe, come detto poco fa, un ritorno al passato, a una passione accidentale che per Dante non può essere, né è mai stata, amore vitale e beatificante. Dunque, esso non può che essere destinato a fallire: è un episodio a termine che non deve intaccare il significato profondo del libello. In piena coerenza, infatti, la Vita nuova si chiude nel segno di una rinnovata fedeltà al vero amore incarnato da Beatrice e nell’apertura indefinita a nuova poesia.69 Nella Vita nuova anche una passione umanissima come l’amore può essere interpretata in un ordine provvidenziale. Dante riconosce, infatti, nella sua storia d’amore per Beatrice un preciso disegno divino. L’itinerario speculativo che sfocia in questa acquisizione sull’origine e sulla natura del vero amore può essere ricostruito, ovviamente con minor coerenza, pure nelle rime non comprese nel prosimetro, e in particolare in quelle scritte contemporaneamente alle poesie incluse e poi alla loro sistemazione nel libello attraverso il collante della prosa. Un punto di partenza può essere la canzone E’ m’incresce di me sí duramente (Rime, lxvii). Essa ha un chiaro svolgimento narrativo e, infatti, piú che una riflessione sull’amore, è una descrizione di come questa passione fatale e ineluttabile si è scatenata.70 La sua trama e la concezione d’amore 67. Fenzi, “Costanzia de la ragione”, cit., p. 211: « nel momento in cui l’amore diventa il ‘luogo’ metafisico di una scommessa definitiva, ogni considerazione esclusivamente fisiologica del suo nascere e crescere deve lasciare il campo, e l’etica mondana che informava i riti dell’amor cortese è superata ». 68. E. Fenzi, Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete, in Dante Alighieri, Le Quindici Canzoni. Lette da diversi. i, 1-7, Lecce, Pensa MultiMedia, 2009, pp. 29-69, a p. 39. 69. Leporatti, Ipotesi, cit., p. 27: « La fine, il fine del libro sono posti oltre il libro stesso. La Vita nuova è un’opera che certo guarda indietro, volta a riesaminare il “libro della memoria”, ma anche allo stesso tempo tutta protesa in avanti. […] Il libro chiude una stagione e allo stesso tempo ne apre un’altra ». 70. Rimando al cappello introduttivo di Giunta, in Rime, pp. 232-37.

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che la pervade avvicinano questo componimento alla prima parte della Vita nuova, quella che precede la svolta delle rime della “loda”. È un primo tentativo di una storia totale di un’esperienza,71 « documento del piú alto punto d’arrivo di Dante prima della Vita nova – alle soglie della Vita nova – e per vari aspetti quasi lo scrigno dal quale la prima parte del libello ha tratto fuori tanti dei suoi motivi ».72 Piú che evidenti, infatti, sono in questa canzone gli influssi cavalcantiani, ma qui si tratta di « un cavalcantismo anti-cavalcantiano ».73 Soffermiamoci in particolare sulla quinta stanza (Rime, lxvii 57-70): Lo giorno che costei nel mondo venne, secondo che si truova nel libro della mente che vien meno, la mia persona pargola sostenne una passïon nova, tal ch’io rimasi di paura pieno; ch’a tutte mie virtú fu posto un freno subitamente sí ch’io caddi in terra per una luce che nel cuor percosse; e se ’l libro non erra, lo spirito maggior tremò sí forte che parve ben che morte per lui in questo mondo giunta fosse; ma or ne ’ncresce a quei che questo mosse.

‘Il giorno che costei nacque, secondo quanto rintraccio nella mia labile memoria, il mio corpo d’infante (Dante aveva otto mesi) subí un misterioso trauma, tale che rimasi pieno di paura; le mie facoltà vitali furono bloccate con tale repentinità che io caddi a terra per una luce che mi percosse il cuore (e vd. la folgorazione di s. Paolo in Act., 9 3-9); e se il libro della memoria non m’inganna, lo spirito della vita tremò con tanta forza che mi sembrò fosse giunto per lui, in questo mondo, il momento della morte; ma ora Dio, che di tutto fu principio, non vuole che ciò avvenga’. Lo scavo nel libro della memoria penetra oltre l’inizio della storia nar71. Cfr. M. Pazzaglia, E’ m’incresce di me sí duramente, in ED, vol. ii pp. 663-64, a p. 664. 72. Cfr. Fenzi, E’ m’incresce, cit., pp. 161-62. 73. Ivi, p. 172.

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rata nella Vita nuova, a un preciso momento dell’infanzia: tuttavia, qui Dante non parla d’amore, bensí di un evento traumatico che egli ha subíto nell’istante della nascita della donna amata, che, sebbene innominata, non può essere altri che Beatrice. Tale trauma – a norma dei trattati di medicina coevi particolarmente interessati a questi “colpi” bruschi, improvvisi e sconvolgenti – è stato interpretato come « un colpo apoplettico, o una crisi di epilessia ».74 Per questo subitaneo malore si potrebbe pensare a Cavalcanti, ma in esso è iscritto anche qualcosa di soprannaturale, una sorta di folgorazione attraverso la quale Dante vuole presentare fin dalle origini il carattere predestinato, esclusivo e straordinario del suo amore.75 Insomma, l’Alighieri fin dall’inizio pare voler marcare la propria distanza rispetto agli altri innamorati e, soprattutto, rispetto agli altri poeti d’amore. Una potenza superiore, e per ora imprecisata, interviene a qualificare la sua storia d’amore per quella donna che ha nome Beatrice, alla quale è miracolosamente legato da sempre. La passione d’amore sembra presentarsi come un segno arcano e profetico, che rimanda a un piano ultraterreno e metafisico.76 Perché questo amore possa definirsi cristianamente nel segno della caritas occorre una ricerca speculativa e un approfondimento ulteriori. Il percorso non è rettilineo, come del resto dimostra anche l’intreccio della Vita nuova, ma già nell’esempio che abbiamo letto è evidente che Dante intende aprire il suo sguardo a un orizzonte piú vasto. Un altro testo significativo è la canzone Lo doloroso amor che mi conduce (Rime, lxviii), che nell’ordinamento di Michele Barbi segue immediatamente E’ m’incresce di me. Essa sviluppa il tema tradizionale di amore e morte. In proposito colpisce il v. 14, l’ultimo della prima stanza, perché porta iscritto in posizione forte e in un costrutto ossimorico il nome della donna

74. Giunta, in Rime, p. 234. Invece Fenzi, E’ m’incresce, cit., p. 147, parla di « shock emotivo » che determina un improvviso collasso. 75. Questo è il primo esempio delle « marche di eccezionalità » che caratterizzano, secondo Marco Santagata, l’autobiografismo dantesco (cfr. la sua Introduzione a Dante, Opere, cit., i pp. xx-xxvi). 76. Ivi, pp. l-li: « A Dante è estranea l’idea della passione come fenomeno irrazionale e alienante. Se anche per lui si potrebbe parlare di alienazione, è unicamente perché egli interpreta le crisi psicofisiche come il segno tangibile, impresso sul suo corpo, di una predestinazione decretata da una potenza superiore ».

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fatale: « Per quella moro c’ha nome Beatrice ».77 Ora, questa canzone può essere letta come un esempio di « metafisica stilnovista, cioè la creazione di una religione dell’amore », ma qui è ancora una sorta di religione laica di matrice guinizzelliana in cui « non si dà alcuna conciliazione tra l’amore-eros e l’amore-caritas ».78 Come già nella Vita nuova, la svolta decisiva è determinata dalla morte della donna amata e dal profondo ripensamento umano e cristiano, che Dante dice di avere compiuto attraverso precise letture – su tutte, per sua stessa ammissione, la Consolatio philosophiae di Boezio e il De amicitia di Cicerone (Conv., ii 12 2-3) – e attraverso « il lievito […], che stava maturando con la frequentazione delle “scuole delli religiosi” e delle “disputazioni delli filosofanti” (Conv., ii 12 7) ».79 Il primo atto80 di questa sorta di “rito di passaggio” è rappresentato dalla canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete, che Dante concepí fin dall’inizio « come una sorta di snodo o articolazione essenziale del suo percorso intellettuale e poetico »,81 un componimento, dunque, la cui importanza si apprezza non solo per la sua ripresa e reinterpretazione nel secondo trattato del Convivio, ma anche per la sua esplicita citazione nella Commedia (Par., viii 37), privilegio che condivide con soli altri due testi fondanti, come Donne ch’avete (Purg., xxiv 51) e Amor che ne la mente (Purg., ii 112). Voi che ’ntendendo celebra un nuovo amore e lo esalta nei suoi miracolosi effetti salvifici, beneficanti per un io ripiegato su se stesso e paralizzato 77. De Robertis, Il libro, cit., p. 83: « E lo stesso nome di Beatrice […] esprimeva una contraddizione interna: nomina non erant consequentia rerum, la beatitudine e la non-beatitudine erano affermate ad un tempo » (corsivo nel testo). 78. Le due citazioni derivano dal cappello introduttivo alla canzone di Giunta, in Rime, p. 253. 79. R. Leporatti, Le dolci rime d’amor ch’io solea, in Dante, Le Quindici Canzoni, i, cit., pp. 89-117, a p. 107. 80. La canzone è contemporanea alla stesura della Vita nuova. L’indicazione fornita da Dante in Conv., ii 2 1, « la stella di venere due fiate rivolta era […] apresso lo trapassamento di quella Beatrice beata », ha consentito, infatti, di fissare la data di composizione di Voi che ’ntendendo, « alla fine di agosto del 1293 ». Per questa proposta di datazione, discussa da alcuni, accettata dai piú, cfr. Dante Alighieri, Le rime della maturità e dell’esilio, a cura di M. Barbi e v. Pernicone, Firenze, Le Monnier, 1969, p. 377. 81. Le due citazioni sono tratte da Fenzi, Voi che ’ntendendo, cit., rispettiv. pp. 34 e 32.

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in una pericolosa impasse esistenziale e poetica.82 L’origine di questo innamoramento è divina e deriva da un’intelligenza trascendente, che lo riceve direttamente da Dio e a sua volta lo trasmette al creato. Questa forza esterna e superiore, che informa di sé l’anima dell’uomo, non è piú una passione fisiologica, ma è « uno ardore virtuoso », come Dante chiarirà nell’autocommento di Conv., ii 5 14: Per che ragionevole è credere che li movitori del cielo della Luna siano dell’ordine delli Angeli, e quelli di Mercurio siano li Arcangeli, e quelli di venere siano li Troni: li quali, naturati dell’amore del Santo Spirito, fanno la loro operazione, connaturale ad essi, cioè lo movimento di quello cielo, pieno d’amore; dal quale prende la forma del detto cielo uno ardore virtuoso, per lo quale le anime di qua giuso s’accendono ad amore, secondo la loro disposizione.

Qui, in una limpida visione, che mescola emanatismo neoplatonico e dottrina cristiana, Dante afferma che il cielo di venere si muove pieno d’amore, dal quale prende forma appunto « uno ardore virtuoso » che accende le anime ad amare. Di questo tipo di amore l’Alighieri parla a lungo nel Convivio. Per esempio, in Conv., iii 14 6, egli afferma che « la divina vertú sanza mezzo questo amore tragge a sua similitudine »; e poi dice che « dovunque questo amore splende, tutti li altri amori si fanno oscuri e quasi spenti, imperò che lo suo obietto etterno improporzionalmente li altri obietti vince e soperchia » (iii 14 7). Si tratta di una virtú divina, necessariamente positiva, che discende negli uomini come negli angeli e proprio attraverso gli angeli: « E però è manifesto che la divina virtú, a guisa che in angelo, in questo amore nelli uomini discende » (iii 14 8); e in precedenza Dante aveva già chiarito che queste fiammelle celesti sono ardore d’amore e di carità: « E però dico che la biltade di quella “piove fiammelle di foco”, cioè ardore d’amore e di caritade; animate d’un spirito gentile, cioè informato ardore d’uno gentile spirito, cioè diritto appetito, per lo quale e del quale nasce origine di buono pensiero » (iii 8 16). In sintesi, questo tipo di amore non può che essere caritas. Essa non è 82. Per questa canzone e per la sua interpretazione ancora discussa, in particolare se sia stata concepita fin dall’inizio come allegorica, e circa il suo complicato e controverso rapporto con l’episodio della donna gentile della Vita nuova, rimando alla bella e persuasiva lettura di Fenzi, Voi che ’ntendendo, cit.

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semplicemente espressione di qualsiasi amore, bensí di quell’amore, rivelato dal Cristo – e nella Vita nuova, come abbiamo visto, da Beatrice –, che viene acceso nel cuore dell’uomo dalla grazia di Dio attraverso lo Spirito Santo.83 Il trattato fornisce una dilatazione teoretica che, però, affonda le sue origini nei primi anni ’90, al tempo degli studi filosofici, biblici, e delle letture dei testi classici, i cui primi frutti si possono già avvertire nella Vita nuova e nelle canzoni di cui ci stiamo occupando.84 Torniamo, allora, a queste rime. Il nuovo amore cantato in Voi che ’ntendendo, dunque, è una suprema esperienza trascendente, che rifulge anche nella collegata Amor che ne la mente, un « altissimo inno di lode alla nuova donna »,85 e soprattutto trionfa nella vicina Amor che movi tua vertú dal cielo, snodo decisivo lungo la strada che porta prima alle cosiddette “petrose”, dove l’amore cosmico informa di sé l’intero universo, e poi, soprattutto, al Convivio e alla Commedia. Nel bellissimo inno, l’amore è un ardore virtuoso, un principio celeste che irradia con la propria potenza innamorante ogni creatura e che accende maggiormente ciò che trova disposto a ricevere la sua virtú. Questa concezione della natura divina d’amore emerge particolarmente nella prima stanza, costruita secondo il modello retorico dell’innologia latina e, in particolare, sulla filigrana di O qui perpetua mundum ratione gubernas (‘O tu che governi il mondo con stabile norma’), la preghiera del libro terzo del83. Mi permetto di rimandare a D. Pirovano, Dante e il vero amore. Tre letture dantesche, Pisa-Roma, Serra, 2009, pp. 40-43. 84. A partire dalla nuova edizione critica delle Rime di Dante curata da D. De Robertis (Firenze, Le Lettere, 2002) è stata avanzata l’ipotesi di leggere le 15 canzoni “distese” di apertura del corpus come un libro, forse concepito dallo stesso autore. La proposta, inizialmente annunciata in varie sedi (per lo piú recensioni), è stata soprattutto argomentata nella lettura continuata di queste canzoni presso la Società Dantesca Italiana: per le prime 7 cfr. Dante, Le Quindici Canzoni, i, cit.; per le altre: cfr. Dante Alighieri, Le Quindici Canzoni. Lette da diversi. ii, 8-15, con appendice di 16 e 18, Lecce, Pensa Multimedia, 2012. E cfr. anche G. Tanturli, Come si forma il libro delle canzoni?, in Le rime di Dante, cit., pp. 117-34. Questa tesi, tuttavia, ha suscitato anche qualche dubbio. Cfr. Giunta, in Rime, pp. 64-69; e la recensione di M. Grimaldi a Dante, Le Quindici Canzoni, i, cit., in RSD, a. x 2010, pp. 201-7; e ancora M. Grimaldi, Boccaccio editore delle canzoni di Dante, in Boccaccio editore e interprete di Dante, cit., pp. 137-57. 85. Fenzi, Voi che ’ntendendo, cit., p. 43; Leporatti, Ipotesi, cit., p. 29, considera la canzone il « massimo raggiungimento nello stile della lode ». Ma si legga anche la voce di v. Pernicone, Amor che ne la mente mi ragiona, in ED, vol. i pp. 217-19.

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la Consolatio philosophiae di Boezio (iii m. 9), che è senza dubbio uno dei testi piú noti del Medioevo.86 A questo principio universale si appella Dante nei primi versi, che costituiscono « l’invocazione e l’aretalogia »87 della sua preghiera (Rime, xc 1-15): Amor che movi tua vertú dal cielo come ’l sol lo splendore, che là s’apprende piú lo suo valore dove piú nobiltà suo raggio trova, e com’el fuga oscuritate e gelo, cosí, alto signore, tu cacci la viltà altrui del core né ira contra te fa lunga prova; da te convien che ciascun ben si mova per lo qual si travaglia il mondo tutto, sanza te è distrutto quanto avemo in potenza di ben fare: come pintura in tenebrosa parte, che non si può mostrare né dar diletto di color né d’arte.

‘Amore che fai scendere la tua potenza innamorante dal cielo come il sole trae dal cielo il suo splendore, che si concentra piú intensamente là dove il suo raggio trova un oggetto piú propenso ad accoglierlo; e come il sole mette in fuga oscurità e gelo, tu, alto signore, allontani la viltà dai cuori, né la durezza d’animo (ira) davanti a te resiste a lungo; da te deriva necessariamente ogni bene per il quale tutti si affaticano, senza di te è distrutta la nostra potenziale facoltà di operare il bene, come un dipinto che al buio non può essere visto né apprezzato per i suoi colori e la sua tecnica di raffigurazione’. Fino a qui Dante parla di un amore cosmico che informa di sé l’univer86. Rimando, non solo per questa connessione, ma anche per il pregevole commento al cappello introduttivo e alle singole note al testo di Giunta, in Rime, pp. 386-409. Il commento mette pure in evidenza l’innegabile rapporto con la canzone Al cor gentil di Guinizzelli, quel poeta la cui importanza a livello ideologico abbiamo già segnalato a proposito della svolta della Vita nuova. 87. Ivi, p. 398. Giunta, in Rime, p. 389, cosí chiarisce l’aretalogia: espressione di lode che riepiloga le virtú dell’entità cui l’inno si rivolge.

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so, ma già in questo attacco è evidente che « Amore non è accidente che dimora nel cuore dell’uomo in attesa di essere destato da un agente esterno, ma è sostanza, essenza permanente che fa ‘piovere’ dal cielo, come un astro, la sua virtú […] infondendola per sua grazia ».88 Anche l’amore di un uomo e di una donna, dunque, ha origine da questo influsso celeste. Nella seconda stanza, infatti, Dante iscrive il suo innamoramento in questa dimensione metafisica e teologica. La luce di amore è penetrata nel suo cuore e lo porta naturalmente a contemplare ogni cosa bella; in virtú di questa attitudine è entrata nella sua mente l’immagine di una giovane donna che lo ha fatto innamorare (Rime, xc 16-30): Fèremi ne lo cor sempre tua luce come raggio in la stella, poi che l’anima mia fu fatta ancella della tua podestà primeramente; onde ha vita un disio che mi conduce con sua dolce favella in rimirar ciascuna cosa bella con piú diletto quanto è piú piacente. Per questo mio guardar m’è nella mente una giovane entrata, che m’ha preso, e halli un foco acceso, com’acqua per chiarezza fiamma accende; perché nel suo venir li raggi tuoi, con li quai mi risplende, saliron tutti su negli occhi suoi.

‘Mi penetra sempre nel cuore la tua luce cosí come i raggi del sole illuminano le stelle, dal primo momento in cui la mia anima divenne ancella della tua potenza; di qui prende vita un desiderio che, con le sue dolci parole, mi conduce a osservare intensamente ciascuna cosa bella con un piacere tanto maggiore quanto piú è bella. Attraverso questo mio sguardo mi è entrata nella mente una giovane, che mi ha preso, e vi ha acceso un fuoco cosí come l’acqua, in virtú della sua trasparenza, può accendere una fiamma;89 88. C. Molinari, Amor che movi tua vertú dal cielo, in Dante, Le Quindici Canzoni, i, cit., pp. 119-44, a p. 129. 89. Giunta, in Rime, p. 404, riprende un’osservazione di Francesco Maggini: « al tempo

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infatti, mentre ella mi entrava dentro, i tuoi raggi, con i quali ella splende ai miei occhi, si sono concentrati nei suoi occhi’. Nelle stanze successive Dante svolge la lode della donna e la richiesta ad Amore perché l’amata ricambi il sentimento; ma quanto abbiamo letto può bastare per comprendere come l’amore umano sia sussunto in un mistero piú grande che ha la sua origine in Dio che è Amore. In questo senso Amor che movi è il coronamento del Dolce stil novo nella versione di Dante, tanto che, lo abbiamo già detto (p. 46), l’« Amore che spira » della definizione pronunciata davanti a Bonagiunta in Purg., xxiv 52-54, non può che essere Amore-caritas. Leggendo la canzone Amor che movi e confrontandola con la probabilmente contemporanea Donna me prega, si può dire che a questa altezza il solco che separa Dante da Guido è decisamente incolmabile. Un’ulteriore conferma di questa definitiva acquisizione dantesca che, poi, innerverà l’intera Divina Commedia si ha anche in Amor, tu vedi ben che questa donna (Rime, cii), compresa tra le cosiddette “petrose” e, dunque, collocata su un gradino successivo rispetto all’esperienza propriamente stilnovistica. Nella quinta stanza l’io sofferente per la mancata corrispondenza dell’amata si appella ad Amore e dice (Rime, cii 49-50): Però, vertú che sè prima che tempo, prima che moto o che sensibil luce, increscati di me, c’ho sí mal tempo,

qui, nell’angoscia della propria situazione insostenibile, in preda a una passione irresistibile, il poeta non si rivolge al dio d’amore allegorico dei poeti, ma a un principio piú grande, che esiste da sempre, prima ancora della creazione del tempo, del moto e della luce. Questa coeternità con il Padre è un attributo che si predica, a norma delle Scritture, della Sapienza (cfr. Prov., 8 22-31), e delle altre persone della Trinità, di Cristo e dello Spirito Santo. Anche qui, dunque, Dante descrive in termini di coessenzialidi Dante si conosceva già il fenomeno dei raggi che passando attraverso un mezzo rifrangente, come una lente di cristallo o acqua limpida fra vetri, potevano concentrarsi in maniera da produrre calore e incendiare certe sostanze ».

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tà il rapporto tra amore umano come eros e amore divino come caritas, che spesso la tradizione poetica precedente aveva tenuto distinti.90 Abbiamo delineato un percorso rettilineo, estrapolando dal corpus delle Rime alcuni testi che ci sono sembrati piú significativi, ma vogliamo concludere questo itinerario dantesco con la canzone Amor, da che convien pur ch’io mi doglia (Rime, cxvi), piú nota come “canzone montanina”, probabilmente l’ultima canzone scritta da Dante e forse già contemporanea ai primi canti dell’Inferno (ca. 1307). Come è noto, essa è anche accompagnata da una lettera diretta al marchese Moroello Malaspina (Ep., iv), in cui l’Alighieri narra in forma piú piana l’evento rappresentato nella poesia, l’innamoramento repentino e irresistibile per una donna conosciuta tra le montagne casentinesi. La canzone è incentrata su una violenta aggressione di eros, che comporta uno spossessamento e un annientamento dell’io; Dante è in balia di un pensiero ossessivo al quale è difficile sottrarsi e contro il quale la ragione può poco o nulla, come nel sonetto – probabilmente coevo – diretto a Cino, Io sono stato con Amore insieme (Rime, cxi). Siamo certamente cronologicamente lontani dagli anni piú fulgidi dello Stilnovo dantesco, ma piace ricordare qui questa passione dirompente, di cavalcantiana memoria,91 che ancora sconvolge un Dante maturo:92 lo rappresenta meno tetragono e rende meno sorprendente trovarlo improvvisamente, in una notte di primavera, immerso in una selva oscura. Dante e Cavalcanti sono indubbiamente le menti speculative piú limpide del Dolce stil novo, riconosciute come tali già dai sodali. Se Gianni Alfani invita la sua « ballatetta dolente » a entrare nella mente di Guido « perch’ egli è sol colui che vede Amore » (Alfani, iv 19), il cosiddetto Amico di Dante, scrivendo in nome delle « donne che hanno intelletto d’amo90. Giunta, in Rime, p. 488. 91. Cfr. Z.G. Baran;ski, Io sento sí d’amor la gran possanza, in Dante, Le Quindici Canzoni, i, cit., pp. 145-211, alle pp. 168 e 188: fin dai tempi della Vita nuova per Dante volgere lo sguardo su se stesso significa, quasi sempre, anche misurarsi con Guido. 92. Leggendo, dunque, la canzone e la lettera d’accompagnamento in chiave di passionale erotismo, condivido la tesi di Carpi, La nobiltà, cit., pp. 761-62, contro l’ipotesi di chi ritiene la “montanina” una sorta di falso d’autore, ossia una ripresa di una vecchia canzone d’amore recuperata durante l’esilio a fini allegorici non evidenti, e come tale spacciata a Moroello e provocatoriamente indirizzata a Firenze.

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re » nella sua canzone Ben aggia l’amoroso e dolce core, vv. 53-54, celebra l’Alighieri « poichéd egli è infra gli ’nnamorati / quel che ’n perfetto amar passa, e piú gio’ v’à » (‘poiché egli è tra gli innamorati colui che supera tutti in perfetto amore, e piú vi ha gioia’), ed è un elogio significativo perché connesso esplicitamente alla svolta rappresentata dalla canzone Donne ch’avete.93 È certamente meno incline ad approfondimenti filosofici e meno suggestionato da interessi scientifici e ansie metafisiche Cino da Pistoia. Nel sonetto ‹O›mo saccente da maestro sagio (Cino, cxxxixa), Mula da Pistoia94 si rivolge deferentemente a Cino, che ritiene un esperto, per chiedergli un parere circa l’origine, la natura e gli effetti di Amore, ma la sua richiesta resta inevasa. Nel sonetto a esso collegato, Ser Mula, tu ti credi senno avere (Cino, cxxxixb), infatti, Cino accusa aspramente Mula di aver spacciato per suo un testo poetico (o una questione poetica), ma l’inganno è stato facilmente scoperto. Questo sonetto è cosí allotrio che non pare in relazione col precedente, sebbene i codici li tramandino congiunti. Al di là del problema filologico e interpretativo, quello che conta rilevare qui è la mancata risposta di Cino.95 D’altronde, quando Cino pare interessarsi al problema, si limita a replicare le tesi tradizionali o a riprendere motivi topici, come dimostra il sonetto Amore è uno spirito ch’ancide, del quale basta leggere la prima quartina (Cino, xxxvii 1-4): Amore è uno spirito ch’ancide, che nasce di piacere e vèn per sguardo, 93. Nella Corona di casistica amorosa, ai margini dello Stilnovo, si trova anche un sonetto dedicato al tema della natura di amore, I’ sono alcuna volta domandato (è il n. 14). La risposta è nei termini della tradizione che risale al Cappellano, ma il v. 13 ha un evidente contatto in posizione forte, a fine verso, con Donna me prega, 3. Mi limito a riportare le terzine e trascrivo in corsivo il prestito cavalcantiano: « Amore è un solicito pensero / continüato sovr’alcun piacere / che·ll’occhio à rimirato volontero: / sicché, imaginando quel vedere, / nasc’indi Amor, ched è segnore altero / nel cor ch’ò detto ch’à gentil volere ». 94. Ser Mula – appartenente alla famiglia pistoiese de’ Muli, di Parte ghibellina fin dalla prim’ora – è documentato come studente di giurisprudenza a Bologna dal 1290 al 1293, anni in cui frequentava lo Studio anche Cino, col quale entrò in corrispondenza poetica. 95. Per questa presunta tenzone cfr. G. Savino, Un corrispondente pistoiese di Cino, in Id., Dante e dintorni, a cura di M. Boschi Rotiroti, Firenze, Le Lettere, 2003, pp. 197-213.

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iv. quando amor spira: aspetti e caratteri del dolce stil novo e fere ’l cor sí come face un dardo, che l’altre membra distrugge e conquide.

Amore è descritto come un sentimento che uccide, che nasce dalla bellezza e penetra attraverso la vista, e colpisce il cuore come una freccia che distrugge e abbatte le altre membra. La filigrana è intrecciata di fili che rimandano al primo Guido, ma si intravedono anche non troppo dissimulati fili cavalcantiani. Tutto nel segno del secondo Guido è, invece, il sonetto Bene è forte cosa il dolce sguardo, in cui, con non troppo dissimulati rimandi a Donna me prega, Cino descrive il processo dell’innamoramento, che si origina dal dolce sguardo della donna e colpisce il cuore dove si forma l’immagine interiore che suscita il sentimento. La passione è cosí intensa che non può essere moderata dalla ragione. Si leggano, almeno, le due terzine (Cino, xxxv 9-14): Formasi dentro in forma ed in sembianza di quella donna per la qual ei pone lo spirito d’amore in soverchianza. E non può stare in mezzo per ragione (che d’ogni piacer tragge egual possanza) da poi ch’è giunto ed ha perfezïone.96

Dopo che nei versi precedenti Cino ha descritto il consueto passaggio che porta dagli occhi al cuore, ora dice che si forma interiormente l’immagine di quella donna (vd. Cavalcanti, xxviib 21-23) per la quale il dolce sguardo che agisce come dardo invisibile, e di cui ha parlato in precedenza, fa totalmente prevalere nel cuore il sentimento (vd. Cavalcanti, xxviib 43-45). E una volta giunto nel cuore e pienamente sviluppato, esso non può piú essere moderato dalla ragione, che trae una forza proporzionata e controllabile da ogni bellezza, mentre questo sentimento è, come detto, eccessivo e soverchiante (lo ha argomentato Cavalcanti, xxviib 29-37). 96. Cappi, Emendazioni, cit., p. 41, emenda il testo dell’ultima terzina: « ché non po’ stare in mezzo per ragione / e d’ogni piacer tragge igual possanza / da poi ch’è nato ed ha perfezïone ». Le due terzine potrebbero dunque significare: ‘lo sguardo dell’amata dà forma nella mente dell’amante alla bella immagine di lei, grazie alla quale esso (sguardo) fa sí che (nella mente di lui) il pensiero d’amore soverchi tutti gli altri, perché, una volta generato e pienamente sviluppato, non può esser moderato dalla ragione e da ogni bella donna trae uguale forza’.

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La tesi sostenuta non può certo godere dell’approvazione del Dante della Vita nuova, il cui amore è sempre sorvegliato dal fedele consiglio della ragione; ma probabilmente l’Alighieri, se fosse stato messo di fronte a una simile descrizione che non ha nulla di originale, non l’avrebbe degnata di attenta considerazione né si sarebbe scomodato a rispondere. Difficilmente, infine, avrebbe meritato un’autentica patente stilnovistica l’articolata canzone di Lapo Gianni, Amor, nova ed antica vanitate, che, nonostante gli sforzi dell’autore che si prodiga nella ricerca di simmetrie e parallelismi, raccoglie solo ciarpame.97 Ognuna delle cinque stanze introduce, infatti, una rappresentazione vieta e tradizionale del dio: nudo, angelo, cieco, fanciullo, arciere, e tutte queste caratteristiche sono poi ricapitolate nel congedo. La sirma di ogni strofa, che inizia sempre con provo ciò (i e iv stanza), provo ben ciò (iii stanza) o provol (ii e v stanza), intende dimostrare – e non a caso è riconoscibile il modello della quaestio medievale – quanto espresso nella rispettiva fronte sulla base dell’esperienza personale del poeta sofferente per colpa di Amore. Pare di sentire il Guittone della corona di sonetti contro il carnale amore, ma occorre ricordare che contro di essa Cavalcanti aveva già espresso tutta la sua sdegnosa disapprovazione nel duro sonetto Da piú a uno face un sollegismo (Cavalcanti, xlvii). 2. Spiriti d’amore: il processo psicologico e fisiologico del sentimento d’amore I poeti dello Stilnovo sono affascinati dall’attimo dell’innamoramento, quel momento improvviso, traumatico e sconvolgente che modifica lo stato psicofisico dell’individuo. La loro, però, è una poesia d’amore senza corteggiamento. L’innamoramento è un evento per lo piú inaspettato, come una sorta di colpo di fulmine, che nasce da una folgorante attrazione visiva. Nel sonetto Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo, Guinizzelli esprime plasticamente questa folgorazione erotica. L’amore assale, è un sentimento drammatico che vive di istanti, quelli in cui l’io incontra la donna e ne subisce il fascino (Guinizzelli, vi): 97. Duro il giudizio di Nardi, Filosofia dell’amore, cit., p. 36: « l’invettiva contro il crudele dio non manca di patetici accenti umoristici ».

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iv. quando amor spira: aspetti e caratteri del dolce stil novo Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo che fate quando v’encontro, m’ancide: Amor m’assale e già non ha reguardo s’elli face peccato over merzede, ché per mezzo lo cor me lanciò un dardo ched oltre ’n parte lo taglia e divide; parlar non posso, ché ’n pene io ardo sí come quelli che sua morte vede. Per li occhi passa come fa lo trono, che fer’ per la finestra de la torre e ciò che dentro trova spezza e fende: remagno como statüa d’ottono, ove vita né spirto non ricorre, se non che la figura d’omo rende.

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Bello il saluto della donna, dolce il suo sguardo, ma essi sono colpi impetuosi e tremendi per il cuore del poeta. Come un lampo che irrompe in una stanza e distrugge tutto ciò che trova, il saluto e lo sguardo della donna, attraverso gli occhi, penetrano nel cuore e lo devastano: l’innamorato sedotto rimane come inerte statua d’ottone, che presenta soltanto esteriormente l’aspetto della figura umana. Nel sonetto Dolente, lasso, già non m’asecuro, sempre di Guinizzelli, due intense immagini rendono il carattere improvviso e travolgente dell’attrazione e del conseguente innamoramento, che sconvolge il cuore; esso è come il fulmine che fende il muro o il vento che devasta gli alberi con le sue impetuose folate: « come lo trono che fere lo muro / e ’l vento li arbor’ per li forti tratti » (Guinizzelli, viii 5-6). Lo stato d’angoscia in cui si trova l’innamorato fulminato dagli occhi belli della donna, la cui luce è penetrata fino al cuore, è chiaramente espresso nelle terzine, che si concludono con un’altra similitudine traumatica, in cui il cuore è ferito come un uccello colpito da una freccia di balestra (Guinizzelli, viii 9-14): Apparve luce, che rendé splendore, che passao per li occhi e ’l cor ferío, ond’ io ne sono a tal condizïone: ciò furo li belli occhi pien’ d’amore, che me feriro al cor d’uno disio come si fere augello di bolzone.

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Il tradizionale motivo degli occhi viene insistentemente ripetuto, perché essi sono il varco che inaugura l’evento. E se l’amore è causa di angoscia e di turbamento, gli occhi sono i primi responsabili di questa folle passione. Il secondo Guido li ritiene sconsideratamente temerari, perché essi, sfidando l’insostenibile fascino seduttivo della donna, hanno osato mirarla (Cavalcanti, v 1-4): Li mie’ foll’ occhi, che prima guardaro vostra figura piena di valore, fuor quei che di voi, donna, m’acusaro nel fero loco ove ten corte Amore.

L’attrazione visiva diventa, però, innamoramento vero e proprio solo quando l’immagine percepita si fissa nella mente. La psicologia degli stilnovisti, come quella del Medioevo in genere, « concepisce l’amore come un processo essenzialmente fantasmatico, che coinvolge immaginazione e memoria in un assiduo rovello intorno a un’immagine dipinta o riflessa nell’intimo dell’uomo ».98 Nella canzone Amor, da che convien pur ch’io mi doglia, come detto incentrata su un innamoramento repentino tra le montagne casentinesi, Dante descrive come nasce e si aggrava l’ossessione. Ecco i primi versi della seconda stanza (Rime, cxvi 16-21): I’ non posso fuggir ch’ella non vegna nell’imagine mia se non come ’l pensier che la vi mena. L’anima folle, ch’al suo mal s’ingegna, com’ella è bella e ria cosí dipinge e forma la sua pena

L’io non può evitare che la donna venga nella sua immaginazione, cosí come non può evitare il pensiero che ve la porta. La mente folle, che s’adopera per fare il suo stesso male, la dipinge e la plasma bella e malvagia come essa è; in tal modo dà forma al suo tormento. Cavalcanti porta alle estreme conseguenze gli effetti dolorosi di questo ossessivo pensiero. Alcune liriche, allora, si immaginano scritte nel momento in cui l’io sta per soccombere, sono l’esito di uno spasmo del cuore, 98. Agamben, Stanze, cit., pp. 84-104, partic. p. 96.

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il grido estremo che non si può piú trattenere. Si legga l’inizio di una delle sue canzoni piú note (Cavalcanti, ix 1-8): Io non pensava che lo cor giammai avesse di sospir’ tormento tanto, che dell’anima mia nascesse pianto mostrando per lo viso agli occhi morte. Non sentío pace né riposo alquanto poscia ch’Amore e madonna trovai, lo qual mi disse: « Tu non camperai, ché troppo è lo valor di costei forte ».

L’amore non si presenta come sereno possesso – Guido non ha provato né pace né riposo –, ma come tragico sbigottimento, che innesca un processo di intima distruzione. Il cuore è pervaso da acuta sofferenza (tormento), gli occhi mostrano il disfacimento intimo. Questo stato di drammatica emergenza psicofisica è compiutamente espresso anche nel sonetto Voi che per li occhi mi passaste ’l core (Cavalcanti, xiii). Qui l’amore è un’aggressione irresistibile. Attraverso gli occhi, l’assalto viene portato al cuore e nella mente assopita si sviluppa l’ossessivo pensiero, che genera il sentimento. Amore viene raffigurato come un guerriero che si apre la strada massacrando i nemici, e di contro a quest’avanzata nulla possono gli spiriti costretti alla fuga. Del poeta resta solo una parvenza umana, priva della propria interiorità in quanto completamente in potere di Amore, e una fioca voce che può soltanto esprimere l’intimo dolore. vedendo il cuore morto nella sua sede, l’anima trema. È lo stesso urgente allarme che esprime Dante nella canzone Io sento sí d’Amor la gran possanza, come dimostra chiaramente l’attacco (Rime, xci 1-6): Io sento sí d’Amor la gran possanza ch’io non posso durare lungamente a soffrire, ond’io mi doglio, però che ’l suo valor si pur avanza e ’l mio sento mancare, sí ch’io son meno ognora ch’io non soglio.

L’io patisce con tale forza la potenza d’Amore che non può resistere piú a lungo, per cui si lamenta. La forza (valor) di Amore cresce continuamente 199

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e il poeta avverte che la propria capacità di sopportazione sta per venire meno, cosicché si sente sempre piú debole. Ritroviamo la stessa parossistica situazione nel sonetto O voi che siete ver’ me sí giudei di Cino, in cui, tra l’altro, è percepibile la filigrana del sonetto cavalcantiano che abbiamo letto poco sopra (cfr. Cavalcanti, xiii). Si osservino gli ultimi due versi della fronte e le due terzine (Cino, ci 7-14): Or sento si rinfresca e si rinova quella feruta, la qual ricevei nel tempo che de li occhi suoi si mosse uno spirito fero e pien d’ardore, che passò dentro sí che ’l cor percosse; onde i sospiri miei parlan dolore, perché l’alma giamai non si riscosse, che tramortí allor per gran tremore.

La poesia è scritta in un evidente stato di pericolo, nel momento in cui il poeta si accorge del rinnovarsi di quella ferita che ricevette nel punto dell’innamoramento, quando uno spirito d’amore irresistibile e pieno di ardore, attraverso gli occhi, penetrò nel cuore. Per questo i suoi sospiri esprimono dolore, perché l’anima non s’è mai piú riscossa, da quell’istante in cui tramortí per il gran tremore. L’emergenza e la condizione di irresistibilità possono essere provocate anche dal doloroso ricordo. Nella ballata Guato una donna dov’ io la scontrai, Gianni Alfani rivive continuamente e ossessivamente il momento dell’innamoramento, quel saluto che segnò il suo destino di sofferenza. Leggiamo la replicazione e la prima stanza (Alfani, i 1-14): Guato una donna dov’ io la scontrai, che cogli occhi mi tolse lo cor, quando si volse per salutarmi, e nol mi rendéo mai. Io la pur miro là dov’ io la vidi, e veggiovi con lei il bel saluto che mi fece allore; lo quale sbigottí sí gli occhi miei, che li ’ncerchiò di stridi l’anima mia che li pingea di fòre,

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iv. quando amor spira: aspetti e caratteri del dolce stil novo perché sentiva in lui venir umíle un spirito gentile che le diceva: « Omai guata costei! Se non, tu ti morrai ».

Ma il ricordo dell’innamoramento può ingenerare, al contrario, uno stato di dolcezza e di appagamento interiore. Nella ballata Questa rosa novella, la felicità di un amore corrisposto si esprime in parole di ringraziamento. Qui Lapo rivive con gioia l’istante del suo fulmineo innamoramento. Quella volta che il poeta alzò i suoi occhi per fissare la donna, fu catturato dal suo sorriso e dagli occhi splendenti come una stella. E continua (Lapo, xi 15-24): Allor bassa’ li miei per lo tu’ raggio che mi giunse al core entro ’n quel punto ch’io la riguardai. Tu dicesti: « Costei mi piace segnoreggi ’l tuo valore, e servo a la tua vita le sarai ». Ond’ io ringrazio assai, dolce segnor, la tua somma grandezza, ch’i’ vivo in allegrezza pensando cui alma mia hai fatt’ ancella.

Il cuore è interamente dominato dalla passione, ma il poeta vive in uno stato di euforia: amore è il dolce signore della sua anima. La stessa appagante e rasserenante dolcezza dell’innamoramento viene espressa nella ballata Nel vostro viso angelico amoroso, che leggiamo integralmente (Lapo, xv): Nel vostro viso angelico amoroso vidi i belli occhi e la luce brunetta, che ’nvece di saetta mise pe’ miei lo spirito vezzoso. Tanto venne in su’ abito gentile quel novo spiritel ne la mia mente, che ’l cor s’allegra de la sua veduta; dispuose giú l’aspetto segnorile,

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il dolce stil novo parlando a’ sensi tanto umilemente, ch’ogni mio spirit’ allora ’l saluta. Or hanno le mie membra canosciuta di quel segnor la sua grande dolcezza, e ’l cor con allegrezza l’abraccia, poi che ’l fece virtüoso.

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Quello spirito, improntato a grazia, che si muove dagli occhi della donna, penetra attraverso gli occhi dell’amante fino al cuore, dove è accolto con gioia. Ogni spirito interiore e ogni parte del corpo sono toccati dal sentimento. È un’euforia che traspare anche da un sonetto di Dino Frescobaldi, come si può evincere già nella prima quartina (Frescobaldi, xiv 1-4): Questa altissima stella, che si vede col su’ bel lume, ma’ non m’abandona: costei mi die’ chi del su’ ciel mi dona quanto di grazia ’l mi’ ’ntelletto chiede.

Il poeta innamorato è pervaso interiormente da serenità: l’amore annulla ogni vizio e lascia nel cuore una rasserenante dolcezza. E cosí Dino conclude il sonetto (vv. 12-14): Entro ’n quel punt’ogni vizio fu morto ch’io tolsi lume di cotanta pace, ed Amor sa, chéd io ’l ne feci accorto.

Nel cuore dell’io lirico non c’è posto per nessuna crudeltà. Nel preciso istante in cui ricevette quella luce tanto rasserenante, in lui si dileguò ogni vizio. E Amore lo sa, perché il poeta l’ha messo al corrente. Gli stati d’animo non sono, però, quasi mai cosí nettamente contrapposti. Nella fenomenologia dell’amore prevalgono piuttosto l’ambiguità, l’indecisione, il repentino passaggio dall’euforia allo struggimento. Ciò è dovuto non soltanto al mutare degli atteggiamenti dell’amata, ma soprattutto al mutare dello stato d’animo dell’io, diviso tra la passione irresistibile e il desiderio di serenità.99 Questa oscillazione è, per esempio, espressa nel99. Si riprende un’osservazione di Giunta, in Rime, p. 677.

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la ballata Donne, io non so di che mi preghi Amore, compresa tra le Rime dubbie di Dante, iii.100 Si leggano questi versi tratti dalla prima stanza (vv. 4-9): Nel mezzo de la mia mente risplende un lume da’ begli occhi ond’io son vago, che l’anima contenta. ver è ch’ad ora ad ora quindi scende una saetta che m’asciuga un lago del cor pria che sia spenta.

Nella mente splende una luce proveniente dagli occhi attraenti della donna, che appaga l’anima. vero è che progressivamente scende anche un fulmine che, prima di spegnersi, prosciuga un lago di lacrime nel cuore. I testi che abbiamo letto rivelano chiaramente la prospettiva soggettiva e introspettiva dell’amore. Essi, infatti, sono tutti incentrati sull’analisi interiore dell’io lirico, non sul rapporto di una coppia. Lo scambio interpersonale, che aveva caratterizzato tanta parte della poesia trobadorica, nella lirica stilnovista è estremamente ridotto.101 Mancano per lo piú i tempi, gli spazi, i contesti, le circostanze dell’innamoramento, che sfumano in un’atmosfera indistinta, che spesso ha contorni di epifanica sacralità. Il poeta si concentra solo su se stesso, scava dentro di sé e scruta gli effetti della passione. Si odono le voci dell’anima, del cuore e di altre membra. L’interiorità diventa scenario di dialoghi, scontri, battaglie. Ne deriva una particolare insistenza sul corpo. Le emozioni lasciano, infatti, segni indelebili e visibili nella carne. Il poeta descrive plasticamente questo dinamico processo psico-fisiologico, essenzialmente pneumatico, che si fonda sugli spiriti. Secondo la concezione medico-fisiologica medievale essi, composti di materia sottilissima e mobilissima, propagandosi in un organismo, sono gli artefici di ogni sua funzione attiva. Sono di tre tipi: lo spirito naturale, che ha origine e sede nel fegato, si spande in tutto il corpo tramite le vene e apporta la nutrizione; esso è nel contempo la base per la formazione 100. Su questa ballata cfr. G. Marrani, Amoroso galateo dantesco. La ballata ‘Donne, io non so’ e la fortuna trecentesca della ‘Vita nova’, in Le rime di Dante, cit., pp. 59-82. 101. In questo senso gli stilnovisti portano alle estreme conseguenze un progetto lirico già avviato dai siciliani. Cfr. R. Antonelli, Introduzione a PdSS, vol. i. Giacomo da Lentini, pp. xv-lxxviii, a p. l.

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dello spirito vitale che si genera nel cuore, si propaga tramite le arterie, di cui provoca la pulsazione, provvede alla vita dell’organismo ed è parte del processo della respirazione. Dall’ulteriore purificazione, rarefazione e raffreddamento dello spirito vitale deriva lo spirito animale con sede nel cervello. Gli spiriti animali raggiungono tramite i nervi gli organi di senso e assicurano la trasmissione delle sensazioni al cervello, dove, spostandosi da un ventricolo all’altro, mettono in funzione i sensi interni, cioè l’immaginazione, la cogitativa e la memoria.102 Il termine spirito non è inedito in poesia. Entra presto nella lirica italiana, già con Giacomo da Lentini, a ulteriore dimostrazione delle sue aperture alla cultura scientifica coeva.103 Dopo il Notaro merita di essere ricordato, sempre tra i siciliani, Guido delle Colonne, che ne fece la parola-chiave, insistentemente ripetuta, in Ancor che·ll’aigua per lo foco lasse, canzone ben presente a Guinizzelli e particolarmente apprezzata da Dante, che, infatti, la cita due volte nel De vulgari eloquentia, i 12 2 e ii 6 6.104 È, però, nelle poesie degli stilnovisti che gli spiriti traboccano. Essi, che sono gli animatori della scena interiore e l’ipostasi degli affetti e delle passioni, diventano gli indiscussi protagonisti della lirica stilnovista. Mi limito a pochi esempi: parlando a’ sensi tanto umilemente, ch’ogni mio spirit’ allora ’l saluta; (Lapo, xv 9-10) e mostrali lo spirito ch’un strido me trâ d’angoscia del disfatto core; (Alfani, iv 20-21) Queste saette giungor di tal forza, che par ch’ogni mi’ spirito si doglia; (Frescobaldi, vii 9-10) 102. Cfr. P. Mugnai, spirito, in ED, vol. v pp. 387-90, a p. 387. E cfr. anche G. Agamben, « Spiritus phantasticus », in Id., Stanze, cit., pp. 105-20, partic. pp. 112-14; e v. Bartoli, La traccia scientifica e scritturale della polisemia di “cuore” nella ‘Vita nova’, in « Tenzone », a. xii 2011, pp. 11-42. 103. Sugli interessi di ottica di Giacomo da Lentini, espressi particolarmente nel sonetto Or come pote sí gran donna entrare, cfr. Tonelli, De Guidone, cit., pp. 480-84. 104. Sul termine spirito nella poesia siciliana cfr. Antonelli, Introduzione a PdSS, vol. i, Giacomo da Lentini, pp. xlix-li.

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iv. quando amor spira: aspetti e caratteri del dolce stil novo Sta nel piacer de la mia donna Amore come nel sol lo raggio e in ciel la stella, che nel mover de li occhi ’l porge al core, sí ch’ogni spirito smarrisce in quella. (Cino, vii 1-4)

Quanto piú l’analisi introspettiva è minuziosa, tanto piú pullulano gli spiriti, come dimostra il corpus poetico di Cavalcanti, di cui essi sono un vero e proprio leitmotiv. Bastino tre esempi: Deh, spiriti miei, quando mi vedete con tanta pena, come non mandate fuor della mente parole adornate di pianto, dolorose e sbigottite? (Cavalcanti, vi 1-4) la qual degli occhi suoi venne a ferire in tal guisa, ch’Amore ruppe tutti miei spiriti a fuggire; (Cavalcanti, ix 12-14) Questa pesanza ch’è nel cor discesa ha certi spirite’ già consumati. (Cavalcanti, x 13-14)

Il circolo pneumatico è meticolosamente descritto anche dall’Alighieri. Si legga il momento della prima apparizione di Beatrice, l’evento decisivo che segnerà per sempre la vita di Dante (V.n., ii 4-6): In quel punto dico veracemente che lo spirito de la vita, lo qual dimora ne la sacretissima camera del cuore, cominciò a tremar sí fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: « Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur michi ». In quel punto lo spirito animale, lo qual dimora nell’alta camera ne la quale tutti li spiriti sensitivi portan le loro percezioni, si cominciò a maravigliar molto, e parlando spezialmente a li spiriti del viso, sí disse queste parole: « Apparuit iam beatitudo vestra ». In quel punto lo spirito naturale, lo qual dimora in quella parte ove si ministra ’l nudrimento nostro, cominciò a piangere, e piangendo disse queste parole: « Heu miser, quia frequenter impeditus ero deinceps! ».

Di fronte a un simile formicolare di spiriti che riempiono le carte degli 205

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stilnovisti si possono, allora, capire le riserve ironiche di Onesto da Bologna, il quale, come abbiamo visto, li accusa – ma in particolare pensa al Dante della Vita nuova (si veda p. 143) – di infastidire chiunque con le loro « piú di mille sporte piene di spirti » (Cino, cxxxiiia 1-2), ma si possono anche apprezzare gli effetti forse parodici di un sonetto come Pegli occhi fere un spirito sottile (Cavalcanti, xxviii), che merita qui di essere letto integralmente: Pegli occhi fere un spirito sottile che fa ’n la mente spirito destare, dal qual si move spirito d’amare, ch’ogn’altro spiritel fa‹ce› gentile. Sentir non pò di lu’ spirito vile, di cotanta vertú spirito appare: quest’è lo spiritel che fa tremare, lo spiritel che fa la donna umíle. E poi da questo spirito si move un altro dolce spirito soave, che siegue un spiritello di mercede: lo quale spiritel spiriti piove, ché di ciascuno spirit’ ha la chiave, per forza d’uno spirito che ’l vede.

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Nel sonetto il processo dell’innamoramento, dalla sua genesi ai suoi effetti, e il sentimento di dolcezza originato esclusivamente dalla corrispondenza amorosa sono analiticamente espressi attraverso la vistosa ripetizione – 15 volte in 14 versi – della parola « spirito » e del suo diminutivo « spiritello ». Il penetrante sguardo della donna fa destare nella mente l’immagine fantasmatica. Da essa è generato il sentimento d’amore che nobilita ogni altra forza vitale, e dunque tutta la persona. Chi è insensibile non può percepire un tale sentimento perché esso si mostra troppo eccelso; questo è lo spirito che fa tremare, manifestazione consueta dell’innamoramento, ma è anche lo spirito che rende la donna benevola. Infatti, lo spirito dolce e soave, che presiede alla corrispondenza amorosa, effonde energie positive, perché ha il possesso e il controllo di ogni facoltà vitale; e, dunque, la capacità di percepire questa possibile corrispondenza è ciò che veramente può rianimare l’innamorato. 206

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Come ha spiegato Giuliano Tanturli, il sonetto descrive « un processo automatico per il quale chi si innamora si fa gentile, perché se non fosse disposto a gentilezza non s’innamorerebbe (sentir non po’ di lu’ spirito vile), e pertanto non può non essere corrisposto. […] Ridotto cosí alla conclusione ultima, il ragionamento mette in risalto tutta la sua natura di paradosso. Se letta, come si deve, sullo sfondo della restante produzione cavalcantiana, questa rappresentazione dell’amore come meccanismo che produce un’immancabile gratificazione non può intendersi che come ironica ».105 Dunque, il sonetto non è tanto un’autoparodia di una nozione traboccante nella propria produzione,106 ma è forse una ricostruzione sottilmente parodica del processo amoroso quale è stato tante volte rappresentato nella tradizione poetica e di cui Dante, in particolare,107 ha dato una sua descrizione in Amore e ’l cor gentil sono una cosa (V.n., xx) e in altri testi chiave del libello.108 E l’intento parodico può essere confermato dai contatti riscontrabili anche con Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete (Rime, lxxix), visto che il processo amoroso descritto analiticamente da Guido – una sorta di inverosimile automatismo dove gli spiriti funzionano come ingranaggi – è diverso da quello che emerge nella canzone di Dante.109 Pegli occhi fere un spirito sottile entra a pieno titolo nell’incartamento Dante e Guido Cavalcanti, sul quale presto dovremo tornare.

105. Tanturli, Guido Cavalcanti contro Dante, cit., p. 12. E cfr. anche Malato, Dante e Guido, cit., pp. 61-65. 106. Cosí Contini, p. 94: « elegante autoparodia della nozione di spirito ». Condivide questa interpretazione A. Gessani, Su ‘Pegli occhi fere uno spirito sottile’, in Id., Dante, Guido Cavalcanti e l’ “amoroso regno”, Macerata, Quodlibet, 2004, pp. 133-42. Diversa invece la lettura di Rea-Inglese, p. 162: « Il risultato, ancor prima che un’ “elegante autoparodia” (Contini), è una rigorosa trasposizione in termini spiritali delle operazioni psicologiche e fisiologiche relative alla passione, che fa riferimento, anche per questo suo tratto peculiare, ad un modello fornito dalla stessa trattatistica medico-filosofica ». 107. Malato, Dante e Guido, cit., p. 64: « Se la parola è frequente nell’uso di Guido (27 occorrenze, oltre le 15 di questo sonetto), non par dubbio che Dante ne faccia un uso piú insistito e caratterizzato ». Preciso solo che, secondo le concordanze di Guido Cavalcanti calcolate da Letterio Cassata, le occorrenze di spirito nel corpus delle rime sono in tutto 45 (cfr. G. Cavalcanti, Rime, ed. critica, commento, concordanze a cura di L. Cassata, Anzio, De Rubeis, 1993). 108. Malato, Dante e Guido, cit., pp. 64-65. 109. Tanturli, Guido Cavalcanti contro Dante, cit., pp. 12-13.

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3. La donna Nei poeti del Dolce stil novo l’amore è per lo piú esperienza intima, privata e personale. Attorno all’io innamorato sono scomparse quelle figure che avevano caratterizzato la poesia trobadorica e che, come pallidi retaggi di un nobile passato, erano rimaste anche in molti testi italiani del ’200: mariti gelosi, intermediari, rivali, malelingue.110 Con lo stilnovo viene meno, insomma, la dimensione sociale dell’innamoramento.111 Restano – come vedremo oltre parlando del pubblico – poche anime sensibili ed elette (per lo piú un “coro femminile”), rigorosamente selezionate, invocate a condividere o testimoniare le emozioni e gli stati d’animo dell’io lirico. Il carattere centripeto e introspettivo della poesia stilnovista si coglie, però, soprattutto nella rappresentazione e nel ruolo che vengono riservati alle donne amate. Esse preferibilmente non si nascondono dietro uno pseudonimo (il senhal dei provenzali), ma sono chiamate per nome – Beatrice, Giovanna, Alagia, Selvaggia –, nomi che hanno spinto tanti in mezzo alla polvere degli archivi alla ricerca di tracce di vita vissuta. Di alcune, Beatrice e Selvaggia, i loro stessi cantori contribuiscono a rivelare taluni particolari biografici, che vogliono essere indizi concreti di una reale presenza storica, ed essi a noi lettori devono importare non tanto per la loro presunta veridicità, ma per il loro valore poetico, perché ci invitano a dar maggior fede alla sincerità reclamata dagli autori. Eppure la donna non è al centro della lirica stilnovistica, ed è un’affermazione che potrebbe sembrare contraddittoria rispetto al carattere laudatorio che contraddistingue tanta parte di questa poesia. Al centro del discorso c’è sempre l’io lirico. Le figure femminili hanno un fascino irresistibile e una straordinaria potenza seduttiva, ma non si vedono. Del loro aspetto fisico appaiono, infatti, solo poche scintille. A differenza dei trovatori e anche dei poeti sici110. Non è un caso trovare simili personaggi nella prima parte della Vita nuova laddove si è ancora nell’àmbito di una concezione d’amore che poi verrà superata nel corso del libello: « e molti pieni d’invidia già si procacciavano di sapere di me quello ch’io volea del tutto celare ad altrui » (V.n., iv 1). 111. Giunta, Versi, p. 390: «questa personalizzazione dell’esperienza amorosa o, con maggiore precisione, la sua proiezione su uno sfondo di relazioni tutte private, chiude i conti con l’io ‘sociale’ ».

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liani e siculo-toscani, nei cui testi era possibile trovare una descrizione, pur codificata e stilizzata, della bellezza muliebre, gli stilnovisti non ritraggono l’avvenenza delle loro amate.112 Quello che esclusivamente li attrae è l’effetto che il potere fascinoso della bellezza ha sull’animo umano. Della donna innominata di Guido Guinizzelli restano nella memoria l’incarnato e gli occhi scintillanti (Guinizzelli, vii 5-6: « viso de neve colorato in grana, / occhi lucenti, gai e pien’ d’amore »); di Beatrice lo splendente candore perlaceo (V.n., xix 11 vv. 47-48: « Color di perle ha quasi, in forma quale / convene a donna aver, non for misura »), un colore bianco pieno di luce (vd. Conv., iv 22 17), sostanzialmente diverso dal pallore che nella tradizione erotica contrassegna gli innamorati;113 e, forse, nella scelta del veicolo metaforico la perla è stata preferita perché è tenero prodotto del cielo.114 Probabilmente i suoi occhi erano verdi e splendenti come smeraldi, se è giusta l’interpretazione cromatica di Purg., xxxi 116: « posto t’avem dinanzi a li smeraldi », suggerita da vari commentatori e precisata da valeria Bertolucci.115 Alagia ha i capelli biondi raccolti (Lapo, xi 26: « quella c’ha la bionda trezza ») e nel suo angelico viso, che suscita amore, scintillano i suoi begli occhi di colore scuro (Lapo, xv 1-2: « Nel vostro viso angelico amoroso / vidi i belli occhi e la luce brunetta »). Anche Selvaggia è bionda e porta i capelli crespi (Cino, xxv 4: « e ’l bel color de’ biondi capei crespi »), o pettinati a formare due belle trecce (Cino, lxxv 2; cxxi 7; cxxiii 1). I suoi occhi sono chiari, di uno splendente colore azzurro (Cino, liii 1: « Zaffiro che del vostro viso raggia »), o forse verdi, visto che nella ballata Io guardo per li prati ogni fior bianco, Cino parla del bianco della sclera e del verdebruno dell’iride di quegli occhi che lo 112. Giunta, in Rime, p. 31. 113. I. Baldelli, Realtà personale e corporale di Beatrice, in Beatrice nell’opera di Dante, cit., pp. 137-55, a p. 144. 114. v. Bertolucci, Perla celeste, in Ead., Morfologie del testo medievale, Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 189-97, a p. 196: con oculata scelta, orientata forse da Brunetto Latini, Dante individua come veicolo metaforico la perla, « pietra che è non-pietra, né minerale, né terrestre, dal mare accolta, ma tenero prodotto del cielo. […] Pietra viva, naturalmente perfetta (non necessita di lavorazione), unica, perché singola viene generata – il suo nome è anche unio –, porta nel colore il segno della sua discesa, aerea natura » (corsivo nel testo). 115. Cfr. v. Bertolucci, Gli smeraldi di Beatrice, in Ead., Morfologie, cit., pp. 199-207.

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hanno fatto innamorare (Cino, cxx 4-5: « E’ mi rimembra della bianca parte / che fa col verdebrun la bella taglia »). Possiamo dire che tra le donne dei poeti stilnovisti Selvaggia è colei di cui risaltano piú particolari fisici, riuniti dal poeta pistoiese nella prima stanza della canzone Oïmè lasso, scritta per la morte dell’amata (Cino, cxxiii 1-13): Oïmè lasso, quelle trezze bionde da le quai riluciéno d’aureo color li poggi d’ogni intorno; oimè, la bella cera e le dolci onde, che nel cor mi fediéno, di quei begli occhi al ben segnato giorno; oimè, ’l fresco ed adorno e rilucente viso, oimè, lo dolce riso per lo qual si vedea la bianca neve fra le rose vermiglie d’ogni tempo, oïmè, senza meve, Morte, perché togliesti sí per tempo?

La morte prematura si è portata via quelle trecce bionde dal cui riflesso si indoravano i poggi intorno, il bel viso, i dolci sguardi che, come onde che si propagano, si irradiavano dai begli occhi della ragazza, il giovanile, bello e splendente viso, il bel sorriso in cui si vedevano in ogni stagione i denti bianchi come neve tra le labbra vermiglie come rose. È una descrizione topica, che risale a un modello poetico consolidato, come dimostra l’ordine discendente, a partire dai capelli, dei tratti ricordati e la scelta delle immagini.116 Considerata la tradizionale preferenza per i capelli biondi – già prediletti dai trovatori e dai siciliani, come mostra per esempio il verso finale della canzone S’io doglio no è meraviglia di Giacomo da Lentini: « occhi, ahi, vaghi e bronde trezze » (v. 35) –,117 non stupisce che Cino sia attratto dalla 116. Cfr. R. Renier, Il tipo estetico della donna nel Medioevo, Ancona, Gustavo Morelli, 1885; E. Faral, Les Arts poétiques du XIIe et du XIIIe siècle, Paris, Champion, 1924; e Marti, pp. 128-35. 117. E cfr. sempre di Giacomo da Lentini, Meravigliosa-mente, 60: « bionda piú ch’auro fino »; rimando poi alle note dell’ed. Antonelli per altre occorrenze del topos nel Notaro e negli altri siciliani. Ricordo, di passaggio, che bionda e coi capelli crespi è anche la “ donna

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bionda Selvaggia e che s’innamori fulmineamente anche di una bionda pisana di straordinaria bellezza, attrazione che gli viene rimproverata da Guelfo Taviani (cfr. Cino, cxlviii-cxlix). La volubilità in amore, del resto, è un’accusa che gli è mossa da piú parti, e non è priva di fondamento, se si considera che nei sonetti lxxvii-lxxviii il poeta pistoiese confessa di essere stato completamente assoggettato dal fascino di una giovane, questa volta, però, dagli occhi neri e, forse, dai capelli corvini.118 In altri poeti, come Gianni Alfani e Dino Frescobaldi, la bellezza delle donne amate è indefinita e indistinta. Analogamente nessun particolare fisico conosciamo di Giovanna, la quale « era di famosa bieltade », come ammette anche Dante (V.n., xxiv 3). Del suo aspetto fisico l’egocentrico Guido Cavalcanti non fa trapelare nulla. Nei poeti del Dolce stil novo è possibile, allora, riconoscere un modo comune di rappresentare la donna amata: la bellezza femminile, mai descritta o raramente specificata nei suoi tratti corporei, ha generalmente un valore ontologico e trascendentale piú che estetico. Ogni donna si distingue per la sua sublime e impareggiabile perfezione ed è dotata di poteri straordinari. Elle, dunque, piú che vedersi appaiono – un verbo che ha una chiara valenza sacra e religiosa –, per cui si può parlare di vere e proprie epifanie. In Tegno de folle ’mpres’, a lo ver dire, canzone di Guinizzelli caratterizzata ancora da tratti arcaici ma apprezzata da Dante che la cita in D.v.e., ii 6 6, la donna che seduce l’io lirico è un essere superiore, dotata di ogni bellezza e qualità; nessun’altra regge il confronto con lei. Ella è un sole che illumina la notte. Questo splendore miracoloso di origine biblica è ciò che piú caratterizza l’amata di Guido, come dimostra uno dei suoi sonetti piú noti, Vedut’ ho la lucente stella diana, incentrato sull’epifania della donna, vera e propria incarnazione della stella del mattino. Per esprimere la sua bellezza prodigiosa e la sua perfezione, il poeta la equipara alle forme naturali, secondo un modello analogico proprio della poesia sacra.119 Di lei si può, pietra” di Dante: cfr. Cosí nel mio parlar vogli’esser aspro (Rime, ciii 62-65). Sul motivo tradizionale cfr. M.C. Phan-J.L. Flandrin, La metamorfosi della bellezza femminile, in L’amore e la sessualità, a cura di G. Duby, trad. it., Bari, Dedalo, 1994, pp. 409-24, a p. 412. 118. Per i due sonetti cfr. G. Marrani, Cino da Pistoia: profilo di un lussurioso, in « Per leggere », a. ix 2009, pp. 33-54. 119. Cfr. Borsa, La nuova poesia, cit., pp. 84-94.

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dunque, predicare che nel mondo non c’è « cristiana / sí piena di biltate e di valore » (Guinizzelli, vii 7-8). L’epifania femminile nell’altro Guido genera stupore e sconvolge. Nella ballata Fresca rosa novella (Cavalcanti, i), probabilmente un testo giovanile, la donna amata Giovanna, « piacente Primavera », è celebrata nel canto da tutte le creature per la sua straordinaria bellezza. Nel sonetto Avete ’n vo’ li fior’ e la verdura, l’avvenenza straordinaria della donna, evocata piú che descritta, si riverbera sulle compagne, ed esse sono, dunque, chiamate a farle onore e a considerare preziosa la sua superiorità (Cavalcanti, ii 9-14):120 Le donne che vi fanno compagnia assa’ mi piaccion per lo vostro amore; ed i’ le prego per lor cortesia che qual piú può piú vi faccia onore ed aggia cara vostra segnoria, perché di tutte siete la migliore.

L’aristocratico e iperselettivo Guido preclude ai piú la manifestazione della bellezza della sua amata. Nella ballata Posso degli occhi miei novella dire (Cavalcanti, xxv), egli celebra l’epifania di una donna, la cui bellezza è cosí straordinaria da risultare impercettibile e inconcepibile per « gente vile » (v. 9): essa richiede, infatti, « intelletto di troppo valore » (v. 10). La luce dei suoi occhi è riflesso della virtú interiore, ma di fronte a questa potenza innamorante l’unica reazione possibile è lo stupore: il riconoscimento di uno straordinario splendore. Nella ballata Veggio negli occhi de la donna mia (Cavalcanti, xxvi), poi, dalla visione fisica si passa, attraverso un progressivo processo di astrazione, a un’immagine intellettuale di bellezza, sempre piú astratta, che dà serenità interiore: tale « processo di sublimazione conoscitiva » (Contini, p. 85) 120. Il motivo, non ignoto alla tradizione precedente, è particolarmente caro ai poeti dello Stilnovo e, infatti, gli esempi potrebbero essere tantissimi. Mi limito, dunque, a poche citazioni. Si legga V.n., xxvi 8: « dico che questa mia donna venne in tanta grazia, che non solamente ella era onorata e laudata, ma per lei erano onorate e laudate molte »; oppure, sempre di Dante, Di donne io vidi una gentile schiera (Rime, lxix), dove la grazia dell’amata si irradia per prossimità; e cfr. anche Vedete, donne, bella creatura (Cino, iv), dove la straordinaria bellezza dell’amata si riverbera sulle donne che l’accompagnano.

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è pienamente inconoscibile, tanto da essere rappresentato attraverso successive, a volte fulminee, apparizioni di immagini (« mi par », v. 7; « par », v. 11). In questo testo il tremore dell’anima non è indizio di paura, ma di timore reverenziale di fronte a una sublime bellezza. Si leggano i vv. 7-12: veder mi par de la sua labbia uscire una sí bella donna, che la mente comprender no la può, che ’mmantenente ne nasce un’altra di bellezza nova, da la qual par ch’una stella si mova e dica: « La salute tua è apparita ».

Dice Guido: ‘Mi pare di veder provenire dal suo volto un’immagine femminile cosí bella, che la mente non può comprenderla pienamente, e dalla quale súbito nasce un’altra immagine di straordinaria bellezza, da cui pare che si muova una luce, come di stella, che dica: « È apparsa la tua salvezza »’. È un processo di progressiva astrazione: dal volto reale della donna si genera un’immagine, già incomprensibile a pieno sia per la sua elevata bellezza sia per la sovrapposizione, istantanea, di una successiva immagine luminosa puramente intellettuale e ideale, che dà serenità. In altri testi l’epifania femminile è ancora piú sconvolgente. In Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira, la bellezza della donna è umanamente inesprimibile, al punto che solo Amore la può adeguatamente elogiare; e soprattutto è umanamente inconoscibile, cosicché il desiderio e l’ansia di conoscenza non possono che rimanere inappagati (Cavalcanti, iv 12-14): Non fu sí alta già la mente nostra e non si pose ’n noi tanta salute, che propiamente n’aviàn canoscenza.

La nostra capacità intellettiva non fu creata tale né fu posto in noi tanto valore da poter avere di lei adeguata e autentica conoscenza. Considerata la sublime bellezza di monna vanna, dunque, fu alquanto audace Dante, quando nel par. xxiv della Vita nuova, con dedica esplicita a Guido, la subordina a monna Bice in una gerarchia che si immagina formulata da Amore in persona. La promozione di Beatrice non avviene, però, sul piano estetico, ma ontologico ed è legata alla concezione di amore-caritas che lei incarna, come dimostrano anche i benefici effetti ecume213

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nici che la sua persona irradia. Al « supremo aristocraticismo tutto tensione mondana e intellettualistica della dominante biltate cavalcantiana inibita ai noiosi e ai vili »121 si sostituisce una bellezza salvifica e universale. Negli altri poeti dello stilnovo la tendenza è quella di un’esaltazione straordinaria della bellezza femminile. Per Lapo, la donna amata è una creatura celeste (Lapo, iv 1-4): Angelica figura novamente di ciel venuta a spander tua salute, tutta la sua vertute ha in te locata l’alto dio d’amore.

Gianni Alfani, celebrando la sua donna davanti alle donne belle di venezia, afferma che per la sua bellezza ella è una luce d’amore (Alfani, v 15-17): Di costei si può dir ben che sia lume d’amor, tanto risplende la sua bellezza adentro d’ogni parte

Per esprimere la straordinaria bellezza e la potenza innamorante della sua amata, Dino Frescobaldi si serve dell’immagine luminosa della stella. La donna è una giovane che brilla come astro celeste (Frescobaldi, ix 1-4): Un’alta stella di nova bellezza, che del sol ci to’ l’ombra la sua luce, nel ciel d’Amor di tanta virtú luce, che m’innamora de la sua chiarezza.

Nella canzone di Cino, Non che ’n presenza de la vista umana, la donna è una meraviglia, dotata di perfezione e di virtú salvifica, creata da Dio per un suo libero desiderio. Come tale, la sua bellezza non è mai stata vista né udita. Si leggano questi versi della seconda stanza (Cino, lvi 15-22): Tutta vi fece loda vera Iddio, benigno consiglier de la Natura, donandovi in quell’or la Sua vertute quando compose di tanta salute 121. Carpi, La nobiltà, cit., p. 49 (corsivi nel testo).

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iv. quando amor spira: aspetti e caratteri del dolce stil novo la vostra gentilissima figura, sí com’i’ credo, per un Suo desio, ch’altra ragion non se ne pote avere, ché voi fuggite ’nanzi allo ’ntelletto.

La donna è vera lode, perché Dio nell’istante in cui la creò la dotò di straordinaria virtú salvifica. Ella è un libero desiderio del suo creatore: altro motivo non si può trovare perché ella trascende la capacità razionale dell’uomo. La donna è, dunque, un segno celeste (Cino, xlix 58-63): Donna, per Deo, pensate, ched e’ però vi fe’ maravigliosa sovrapiacente cosa, che l’uom laudasse Lui nel vostro aviso; a ciò vi die’ beltate, che voi mostraste sua somma potenza.

Dio l’ha creata meravigliosa e bellissima, affinché l’uomo, contemplandola, lodasse il creatore. A questo scopo le diede la bellezza, affinché lei mostrasse la somma potenza di Dio. Nella stanza precedente di questa stessa canzone, Cino aveva sostenuto che Dio scelse questa donna piú bella fra gli angeli e che per fare cosa mirabile la fece incarnare in figura umana; ella è, dunque, una creatura tanto superiore e nobile, che il mondo deve a lei il proprio stato sereno, solo perché sulla terra abita il suo viso (Cino, xlix 50-57): Com’io credo di piana, v’elesse Dio fra li angeli piú bella, e ’n far cosa novella prender vi fece condizione umana: tanto siete sovrana e gentil creatura, che lo mondo esser vi dee giocondo, sol che tra noi vostra cera soggiorna.

Questi versi di Cino ci permettono di introdurre il tema della donna angelo, universalmente riconosciuto come la cifra peculiare della femminilità stilnovista. Sulla fortuna popolare di quest’immagine – il concetto per 215

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eccellenza che il pubblico dei non addetti ai lavori associa alla poesia del Dolce stil novo – pesano, però, anche evidenti fraintendimenti, basati soprattutto su una diffusa e travisante ricezione decorativa ed estetica piuttosto che filosofica dell’idea di angelo. Sono, allora, necessarie alcune precisazioni sulla scorta, soprattutto, degli studi di Roncaglia, pp. 19-26, e Marti, pp. 147-72. Innanzi tutto, l’angelicazione femminile non è un’invenzione degli stilnovisti, anzi ha una lunga tradizione che risale ai trovatori e poi, tramite loro, passa ai poeti italiani del ’200: insomma, « di donne angeliche formicola già la poesia italiana anteriore allo Stil Novo » (Roncaglia, p. 21), e il motivo è presente anche nel tanto vituperato Guittone.122 Inoltre, contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, non solo l’immagine non compare frequentemente nei testi stilnovistici, ma anche, e soprattutto, ha una densità diversa da poeta a poeta, meno rada in Dante e Lapo, minima in Cino,123 rarissima in Cavalcanti;124 il motivo, infine, risulta del tutto assente in Gianni Alfani e Dino Frescobaldi. Non è, però, un problema di rilevanze numeriche, ma di specificità semantica dell’immagine.125 In sintesi, potremmo dire che la vera novità rispetto al passato e, dunque, la peculiarità stilnovista consiste in un passaggio, o meglio in una promozione del motivo dal piano retorico al piano metafisico. Con il Dolce stil novo, e in particolare con Dante, la metafora tradizionale della donna angelo assume, infatti, un valore ontologico: insomma, Beatrice non è bella come un angelo, ma è un vero angelo venuto « dal cielo in terra a miracol mostrare » (V.n., xxvi 6 v. 8).126 Nella poesia precedente, sia quella trobadorica sia quella italiana del 122. Guittone, Donque mi parto, lasso, almen de dire, 11: « ch’angel di Deo sembrate in ciascun membro ». 123. Il valore numerico di queste presenze (otto, contando sia il sostantivo « angelo » sia l’aggettivo « angelico ») risulta, infatti, irrisorio se valutato in percentuale al corpus di Rime del pistoiese, di gran lunga il piú ampio di tutti i poeti dello Stilnovo. 124. Di Guido si può ricordare, infatti, solo la ballata giovanile Fresca rosa novella, 18: « ché siete angelicata crïatura », con ripresa capfinidas al verso successivo che inaugura la ii stanza: « Angelica sembranza ». 125. Convengo con Marti, p. 150, « che non basta la presenza per se stessa di un’immagine a caratterizzare una poetica o una ideologia ». 126. Cfr. Santagata, Amate e amanti, cit., pp. 13-61.

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’200, l’immagine ha per lo piú, se non esclusivamente, un valore iperbolico per esaltare la bellezza e le virtú dell’amata. Sulla genesi può aver influito la contiguità di poesia sacra e poesia profana o la marcata influenza del sacro e del religioso sulla vita e sulla mentalità medievale,127 ma anche qualche sollecitazione pittorica. Un primo scarto avviene con Guido Guinizzelli, che sussume l’iperbole tradizionale nell’angelologia « teorizzata dai filosofi con l’equazione tra angelo e intelligenza ». La risposta dell’io lirico al cospetto di Dio « tenne d’angel sembianza » (Guinizzelli, iv 58) non significa che la donna era bella come un angelo, ma che ha « una funzione attualizzatrice »128 nel senso che ella traduce in atto, cioè in amore, ciò che è in potenza nel cuore di nobile sentire (cor gentil). Questa interpretazione dei versi finali della canzone Al cor gentil dipende dalla stanza precedente, in cui si propone un’ardita analogia Dio-donna e intelligenza angelica-innamorato (Guinizzelli, iv 41-50): Splende ’n la ’ntelligenzïa del cielo Deo crïator piú che ‹’n› nostr’occhi ’l sole: ella intende suo fattor oltra ’l cielo, e ’l ciel volgiando, a Lui obedir tole; e consegue, al primero, del giusto Deo beato compimento, cosí dar dovria, al vero, la bella donna, poi che ‹’n› gli occhi splende del suo gentil, talento che mai di lei obedir non si disprende.

‘Dio creatore risplende nell’intelligenza angelica, che presiede al movimento del cielo, piú che il sole ai nostri occhi umani: tale intelligenza angelica riconosce immediatamente il proprio creatore nell’empireo, e, nel far ruotare il cielo al quale presiede, prende a ubbidirgli; e ottiene immediatamente dal giusto Dio il compimento della propria beatitudine; allo stesso modo, a dire la verità, la bella donna dovrebbe concedere la sua 127. Roncaglia, p. 22: « tutta la tradizione della lirica provenzale è solcata da un filone di metafore tratte dal mondo della religione, che si affianca all’altro filone di metafore tratte dal mondo feudale cavalleresco ». 128. Per entrambe le citaz., ivi, p. 23.

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grazia amorosa (che corrisponde al « beato compimento » del v. 46) non appena risplende negli occhi del suo nobile amante un desiderio, che non si stacchi mai da una assoluta obbedienza a lei’. Siamo nell’àmbito di una concezione emanatistica dell’universo di origine neoplatonica (penso alla teologia e all’angelologia dello Pseudo-Dionigi) e della metafisica della luce permeata del misticismo speculativo dei francescani, teorie attuali nella colta Bologna ai tempi di Guinizzelli.129 Le aperture del primo Guido ubriacarono i poeti piú legati alla tradizione come Bonagiunta, ma inaugurarono una nuova strada che sfocerà appunto nel Dolce stil novo: « la via verso il nuovo ontologismo e fenomenologismo dell’amore è possentemente aperta » (Marti, p. 164). Tuttavia occorre precisare che in Guinizzelli la metafora della donna-angelo si arricchisce certamente di nuove risonanze semantiche, ma resta ancora un’immagine retorica. Infatti, l’amore cantato dal poeta bolognese non è ancora « spiritualizzato in senso religioso » (Roncaglia, p. 24). Guido giunge a conferire alla donna un potere salvifico in una sorta di redenzione laica dell’amante, e dunque, come si evince dal congedo, è elusa, o comunque lasciata irrisolta,130 la questione della conciliabilità tra amore profano e religione (Guinizzelli, iv 51-60): Donna, Deo mi dirà: « Che presomisti? », sïando l’alma mia a lui davanti. « Lo ciel passasti e ’nfin a Me venisti e desti in vano amor Me per semblanti: ch’a Me conven le laude e a la reina del regname degno, per cui cessa onne fraude ». Dir Li porò: « Tenne d’angel sembianza che fosse del Tuo regno; non me fu fallo, s’in lei posi amanza ».

Il congedo, in cui l’io lirico si rivolge alla donna, è costruito in forma dialogica tra Dio e il poeta, la cui anima salita all’empireo sarà accusata della 129. Ivi, p. 23: « Dietro le immagini luminose […] c’è l’estetica metafisica della luce, che si annette alla poesia della donna-angelo, cosí come s’era sposata nella speculazione filosofica al tema dionisiano dell’illuminazione gerarchica delle intelligenze angeliche ». 130. Cfr. Malato, Amor cortese e amor cristiano, cit., pp. 603-4.

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pretesa di aver cercato come termine di paragone per un amore profano il creatore e di aver esaltato una creatura terrena con lodi che si addicono solo a Dio e a Maria, regina del cielo, per opera della quale scompare ogni azione peccaminosa. Il poeta immagina di poter dire a propria discolpa: « Aveva l’aspetto di un angelo del paradiso; se a lei ho rivolto il mio amore, il mio non fu dunque un peccato ». È ancora un compromesso. La donna di Guido, insomma, non è un angelo, ma somiglia a un angelo. La vera svolta dal piano metaforico al piano metafisico dell’immagine non poteva avvenire con il solipsistico Cavalcanti, le cui ansie metafisiche si arrestano di fronte al mistero inattingibile della donna (cfr. i già ricordati versi di Cavalcanti, iv 12-14), ma con Dante e presuppongono l’apertura all’essenza del cristianesimo, religione rivelata in cui l’incarnazione è uno dei dogmi fondamentali. La donna angelo è una verità ontologica di Beatrice. Come abbiamo piú volte ripetuto, ella è vera incarnazione dell’amore di Dio, una grazia rivelata. Questo valore metafisico si stempera in Cino e in Lapo, privi delle certezze teologiche di Dante e alieni da slanci teoretici. Nelle loro rime l’immagine può replicare, ma stancamente, le acquisizioni dantesche, come dimostra la stanza di questa ballata del poeta pistoiese (si veda Cino, xv 514): A guisa d’angel che di sua natura, stando su in altura, diven beato sol vedendo Dio, cosí, essendo umana creatura, guardando la figura di quella donna che tene ’l cor mio, porria beato divenir qui io: tant’è la sua vertú che spande e porge, avegna non la scorge se non chi lei onora desïando.131

Come l’angelo, per sua natura, nell’alto dei cieli diviene beato con la sola contemplazione di Dio, cosí l’io lirico, essendo una creatura umana, potrebbe diventare beato sulla terra contemplando il viso della donna amata, 131. Cfr. anche i già citati versi di Cino, xlix 50-57.

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tanto è il potere beatificante che ella diffonde; sebbene ne percepisca i benefici effetti soltanto chi, desiderandola, la onora. Leggendo questi versi si ha la sensazione di un ritorno alla redenzione laica di Guinizzelli, cosicché l’immagine della donna angelicata torna a essere un’iperbole che, come nella tradizione lirica precedente e in un certo senso successiva, serve a connotare e a illuminare la bellezza esclusiva e straordinaria delle donne amate. 4. La nobiltà spirituale e il pubblico Un’idea accomuna i poeti del Dolce stil novo: l’identità di amore e nobiltà d’animo.132 Attorno a questo fulcro si instaura tra loro un legame talmente stretto e profondo che li fa sentire idealmente figli dello stesso padre: « Amore e ’l cor gentil sono una cosa, / sí come il saggio in su’ dittare pone» (V.n., xx 3 vv. 1-2). E Guinizzelli, il saggio, è potenzialmente fertile sí da trasmettere il suo codice genetico: lo dimostra la pregnante apposizione parentale, che Dante gli riserverà, quando lo incontrerà tra i lussuriosi espianti: « il padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre » (Purg., xxvi 97-99). A quel “saggio padre” aveva rivolto per primo lo sguardo Guido Cavalcanti133 e dietro il suo esempio si erano aperti con ammirazione gli occhi di Dante e di Cino, ma anche degli altri – almeno Lapo, Gianni Alfani e Dino Frescobaldi – che, magneticamente attratti dalla forza poetica di quei maggiori, concorsero al rinnovamento della lirica italiana sul finire del ’200. La loro attenzione fu attirata in particolare dalla canzone Al cor gentil, quel testo che aveva frastornato Bonagiunta e che aveva già suscitato una vasta eco di reazioni tra i poeti del tempo (vd. p. 109). Nel componimento di Guinizzelli l’amore è il segno per eccellenza di una onorata e privilegiata distinzione umana, vera aristocrazia del cuore e dello spirito. L’élite stilnovista su questo punto è compatta. L’eccellenza 132. Santagata, I due cominciamenti, cit., p. 62: « Che questo sia l’unico dato ideologico comune a tutti (o quanto meno al terzetto che legittima l’uso della categoria di “stil novo”, e cioè Dante, Cavalcanti e Cino) è un fatto che non sarà mai valorizzato a sufficienza ». 133. Cfr. Picone, I due Guidi, cit., pp. 9-26; Leonardi, Guinizzelli e Cavalcanti, cit., pp. 207-26; Rea, Cavalcanti poeta, cit., pp. 111-37.

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individuale si misura su amore e solo su amore. È un’asserzione forte, quasi oltranzista,134 se collocata nel contesto inquieto della guelfa, mercantile e finanziaria Firenze dell’ultimo decennio del XIII secolo, caratterizzato da accesi conflitti socio-economici, da lotte intestine, da spinte propulsive dal basso e da reazioni dall’alto, da aspri provvedimenti restrittivi e da contrastati tentativi di temperamento. E in una simile società politicamente e culturalmente inquieta, aperta alle tematiche etico-civili – valga per tutti l’esempio di Brunetto Latini –, non è, poi, automatico l’apprezzamento della radicalità stilnovista, come a noi lettori cronologicamente e culturalmente lontani e di fine palato letterario sembrerebbe scontato. In proposito, infatti, può essere significativo riportare questo passo scritto da un personaggio che nella Firenze di fine ’200 e di inizio ’300 godeva di una indiscussa autorevolezza, il già citato Remigio dei Girolami: « Unde dicitur in vulgari: Gli amadori sono pieni di dolori. Et omnes cantilene eorum vel quasi incipiunt ab interiectionibus et verbis complanctivis et querulosis, scilicet he lasso! vel ome! Et huiusmodi » (‘Per cui si dice in volgare: Gli amadori sono pieni di dolori. E tutte le loro canzoni o quasi iniziano con interiezioni o parole lamentevoli, come ah lasso! oppure ahimè! E simili’).135 Ciò nonostante, il principio etico della identità di amore e cuore nobile diventa una riservata tessera distintiva e al contempo un mezzo di privilegiato riconoscimento e di appartenenza ideologica.136 Questo principio svetta al primo posto della scala etica promossa dagli stilnovisti e fa scivolare in graduatoria altri valori, sebbene riconosciuti e apprezzati dalla coeva società comunale.137 134. Di « oltranzismo neocortese dello stilnuovo » parla Carpi, La nobiltà, cit., p. 591, motivandolo anche con il rifiuto delle tematiche civili che avevano caratterizzato molta poesia del tempo. 135. Per questa testimonianza cfr. ivi, p. 240. 136. Santagata, I due cominciamenti, cit., p. 63: « quel principio di etica laica [identità di amore e cor gentile] si trasforma nello strumento di individuazione di una nuova élite, in un mezzo per identificarsi e per distinguersi, in una espressione ideologica di separatezza e di chiusura ». 137. Per la situazione fiorentina e soprattutto per la complessa posizione di Dante sul problema della nobiltà e sulle diverse risposte date nel corso della sua produzione letteraria ha scritto pagine fondamentali Carpi, La nobiltà, cit., pp. 11-321. Si veda anche P. Borsa,

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Gelosi della loro aristocrazia sentimentale e intellettuale, e, dunque, decisamente rigorosi nel loro aureo isolamento, gli stilnovisti coltivano un programma poetico alternativo, elitario ed esclusivo, tutto teso alla dimensione della nobiltà interiore, non solo perché amore è suprema esperienza dell’anima, ma anche perché nell’interiorità si realizza la perfezione umana. In ciò si incontrano pure prospettive e itinerari speculativi opposti, la sublimazione e la nobilitazione dell’io nel segno della caritas che caratterizza il pensiero dantesco e la teoria erotica cavalcantiana, in cui l’accettazione di amore implica sofferenza, ma il suo rifiuto comporta la negazione della parte senziente di sé, e, pertanto, il mancato raggiungimento di quella pienezza di sensazioni che sono proprie dell’anima sensibile e individuale. Questo forte richiamo all’interiorità comporta anche una ricerca teoretica e una tensione intellettuale verso un’assoluta verità.138 Per questo l’interiorità di cui parla il poeta stilnovista trascende l’io empirico e si riferisce a un esemplare universale di uomo: « il testo poetico amoroso è l’atto assoluto nel quale prende forma una esperienza che è nello stesso tempo puntuale e universale ».139 L’amore è la manifestazione di una nobiltà spirituale anche perché avvia un processo di conoscenza in cui il poeta riconosce dentro di sé una figura ideale e compiuta di uomo. È un’esperienza singolare e straordinaria e l’io lirico ne percepisce l’emozionante novità – sia essa beatificante e catartica sia essa inquietante e angosciosa ma comunque rivelatrice degli anfratti piú riposti di un’anima che si scruta nel profondo – e la comunica nel momento in cui sente intimamente la dolcezza e la sottigliezza della voce di amore. Dolce e sottile, come vedremo successivamente, denotano i privilegiati caratteri formali della poesia stilnovista, ma questi due termini sono polisemici. La dolcezza indica, infatti, anche la ricchezza del senti« Sub nomine nobilitatis »: Dante e Bartolo da Sassoferrato, in Studi dedicati a Gennaro Barbarisi, a cura di C. Berra e M. Mari, Milano, Cuem, 2007, pp. 59-121. 138. Contini, p. 7: « L’ispirazione è oggettiva e assoluta, e perciò, se il contenuto normale della lirica stilnovistica è il fatto amoroso minuziosamente analizzato e poi ipostatizzato nei suoi elementi, quest’analisi non va già riferita all’individuo empirico, ma, di là da questa sua avventura iniziale, a un esemplare universale di uomo: a un individuo, anch’esso, oggettivo e assoluto ». 139. Santagata, I due cominciamenti, cit., p. 64.

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mento e la pienezza interiore: dunque, Amore parla nel cuore nobile in modo tanto piú intellettualmente raffinato (sottile) quanto piú ricche, profonde ed eccelse (dolce) sono la spiritualità e la cultura del poeta.140 Questa esperienza privilegiata ed esclusiva di anime elette e di nobile sentire non pregiudica la condivisione. Per essere condivisa richiede, però, nell’ascoltatore una piena capacità di sentire all’unisono con l’io lirico e, dunque, di comprendere i moti di quell’anima innamorata. Il poeta cerca un interlocutore che sappia osmoticamente avvertire e provare insieme a lui il mistero di amore: il destinatario ideale non è un discente, ma un confidente o un testimone. Il pubblico è, allora, preselezionato non attraverso il testo e la sua oscurità e artificiosità come in tanta parte della poesia duecentesca, ma su base etica:141 deve possedere un cuore sensibilmente raffinato, perché solo esso è la sede naturale di amore. Non stupisce, dunque, che le donne – ovviamente non tutte, ma solo un coro femminile eletto, spesso indeterminato, di creature sensibili e gentili – siano le interlocutrici privilegiate, come rivelano gli appelli inseriti negli incipit e nei congedi di molti testi.142 Queste donne per loro natura hanno una nobile disposizione d’animo e sono portate a interessarsi d’amore: esse hanno «intelletto d’amore », cioè conoscono la passione che anima il poeta e possono, dunque, riceverne la confessione,143 e magari sentirne gli stessi effetti, come chiarisce ottimamente la prima stanza della canzone Donne ch’avete (V.n., xix 4-5 vv. 1-14; corsivi miei): Donne ch’avete intelletto d’amore, i’ vo’ con voi de la mia donna dire, 140. Marti, pp. 201-2: « La dolcezza stilnovistica non si dissolve in una vaga e vaporosa musicalità edonisticamente perseguita ad accarezzare l’orecchio, ma è il risultato del processo di sublimazione dell’organica complessità e ricchezza dell’intero mondo interiore ». 141. Spiega bene questo punto Giunta, in Rime, p. 46: « lo Stilnovo è un’élite, ma un’élite che si seleziona in base alla comune partecipazione a un’etica (il cuore gentile, la nobiltà dei sentimenti e dei modi, il senso della superiore dignità dell’amante rispetto a chi non ama) e non in base all’acume o alla competenza letteraria » come nella lirica precedente, dove il trobar clus e il gergo specialistico erano stati criteri selettivi del pubblico e presupposti privilegiati del prestigio poetico. E cfr. anche Giunta, La poesia, pp. 317-27; e Santagata, I due cominciamenti, cit., p. 67. 142. Cfr., per esempio, V.n., xix 13-14; Cavalcanti, xix; Lapo, ii; Alfani, v e vi; Frescobaldi, iii; Cino, xxxiv e xxxix. 143. Giunta, Versi, pp. 119-20; e Giunta, in Rime, p. 12.

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il dolce stil novo non perch’io creda sua lauda finire, ma ragionar per isfogar la mente. Io dico che pensando ’l suo valore, Amor sí dolce mi si fa sentire, che s’io allora non perdessi ardire, farei parlando innamorar la gente. E io non vo’ parlar sí altamente, ch’io divenissi per temenza vile; ma tratterò del suo stato gentile a respetto di lei leggeramente, donne e donzelle amorose, con voi, ché non è cosa da parlarne altrui.

La selezione non avviene solo su base sessista. Il « colloquio a corto raggio tra il poeta e il suo pubblico d’elezione »144 si avverte in modo particolare nei testi di corrispondenza,145 e anche in quei componimenti dove affiora una stretta compartecipazione di affetti e di condivisione di una privata esperienza. È il caso – ad esempio – del sonetto Amore e monna Lagia e Guido ed io (Rime, d. i), di difficile interpretazione, tanto che su di esso sono fiorite numerose congetture, non sempre appropriate. Pur non essendo un sonetto palesemente di corrispondenza (manca un destinatario esplicito), il componimento si caratterizza per essere “in cifra”, basato cioè su un codice ristretto proprio di un gruppo esclusivo di amici innamorati, con « un grado estremo di volontaria chiusura ai “non intendenti” ».146 Per questo motivo esso ha stretta familiarità con altri sonetti “di gruppo”, di cui il piú noto è il dantesco Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io (Rime, lii), sul quale dovremo necessariamente ritornare. Per ora basti veder scivolare leggermente in quel mare onirico, indeterminato e senza perturbazioni, la barca a bordo della quale i tre amici – Dante, Guido e Lapo – in compagnia delle loro donne parlano sempre d’amore. Questo gruppo circoscritto e iperselezionato è, dunque, allo stesso tempo mittente e destinatario ideale in una sorta di corto circuito. Il ragionar sempre d’amore è esperienza elitaria e riservata a una comunità di anime scelte, rese affini da una nobi144. Giunta, in Rime, p. 12. 145. Sull’importanza di questo genere della poesia italiana delle origini anche antecedente lo Stilnovo si veda il vol. di Giunta, Versi, cit. 146. Giunta, in Rime, p. 669.

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le disposizione d’animo, da una ricchezza interiore e da una raffinata sensibilità. Altri lettori sembrano non autorizzati o, comunque, ammessi fino a un certo livello di decodificazione, tanto che ancora oggi si fatica a penetrare fino in fondo la lettera del testo, la quale, pur nella forma cristallina, mostra segni di opacità (in primis l’allusione all’amata del poeta, pur nel rispetto del codice cortese di non rivelarne il nome). Ancora piú rigoroso Cavalcanti in Donna me prega, uno dei testi dottrinali per eccellenza del Dolce stil novo, una canzone difficile, caratterizzata da una raffinata struttura argomentativa, sintattica e retorica e da una sapiente tessitura metrica, che ha sfidato nel corso dei secoli l’intelligenza degli interpreti. Fin dall’esordio Guido è esplicito nella selezione del pubblico del suo componimento (Cavalcanti, xxviib 5-10): Ed a presente conoscente chero, perch’io no spero ch’om di basso core a tal ragione porti canoscenza: ché senza natural dimostramento non ho talento di voler provare là dove posa, e chi lo fa creare, […]

Dice perentoriamente Guido: ‘E qui, nella circostanza e materia presente, esigo un interlocutore intelligente e preparato, perché non mi aspetto che un uomo di scarsa sensibilità e di intelligenza mediocre abbia la competenza necessaria per seguire la mia argomentazione: infatti senza i principî della filosofia naturale non ho voglia di dimostrare dove abbia sede amore, quale sia la sua origine’; ecc. Questa esigente selezione è, poi, rimarcata anche nel congedo (Cavalcanti, xxviib 71-75): Tu puoi sicuramente gir, canzone, là ’ve ti piace, ch’io t’ho sí adornata ch’assai laudata sarà tua ragione da le persone c’hanno intendimento: di star con l’altre tu non hai talento.

Guido si rivolge direttamente al suo componimento e gli dice: Canzone, tu puoi andare senza timore dove ti piace, perché io ti ho impreziosita con 225

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una tale orditura sintattica, retorica e metrica che la tua argomentazione sarà assai lodata da chi ha la capacità di comprenderla: di stare con persone non preparate e ottuse tu non hai voglia’. Ha stupito e ha interrogato molti esegeti la contraddizione tra la richiesta di un interlocutore competente ed esperto di filosofia naturale e l’iniziale vocativo « donna », che sembra presupporre geneticamente un iniziale invito femminile: Guido afferma, infatti, di aver scritto la sua canzone-trattato mosso dalla preghiera di un’imprecisata donna.147 Il contrasto non è di facile soluzione, ma piace osservare con Enrico Malato148 lo stretto rapporto tra il testo teoretico di Cavalcanti e Donne ch’avete – la “canzone svolta” della Vita nuova –, indirizzata anch’essa a un pubblico femminile, una relazione che si precisa già nella formula incipitaria cavalcantiana « me prega per ch’eo voglio dire », che sembra rimandare alla prosa del libello, e proprio all’episodio in cui si ricostruisce l’origine, per esplicita richiesta di una innominata donna, della nuova concezione d’amore di Dante (V.n., xviii 6; corsivi miei): E poi che alquanto ebbero parlato tra loro, anche mi disse questa donna, che m’avea prima parlato, queste parole: « Noi ti preghiamo che tu ne dichi dove sta questa tua beatitudine »; ed io, rispondendole, dissi cotanto: « In quelle parole che lodano la donna mia »;

senza trascurare che il congedo di Donna me prega presenta evidenti punti di contatto con il congedo di Donne ch’avete, come dimostrano queste due indiscutibili tessere (corsivi miei): [. . . . .] gir, canzone, là ’ve ti piace, ch’io t’ho sí adornata; (Cavalcanti, xxviib 71-72) Insegnatemi gir, ch’io son mandata a quella di cui loda so’ adornata; (V.n., xix 13 vv. 62-63) 147. Corti, Scritti, cit., pp. 22-23: « Certo sarebbe alquanto strano che Cavalcanti attribuisse a una donna il suggerimento-preghiera di comporre un discorso teorico per súbito dopo affermare che tale discorso non può avere per destinatari che esperti di filosofia naturale, fra i quali non pare possa mettersi una donna ». Cfr. anche Giunta, Versi, pp. 125-29. 148. Cfr. Malato, Dante e Guido, cit., pp. 22-49.

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e senza dimenticare anche che nelle « persone c’hanno intendimento » di Donna me prega, 74, si può cogliere un’eco dell’autocommento di Dante alla sua stessa canzone (V.n., xix 22; corsivi miei): Dico bene che, a piú aprire lo ’ntendimento di questa canzone, si converrebbe usare di piú minute divisioni; ma tuttavia chi non è di tanto ingegno che per queste che sono fatte la possa intendere, a me non dispiace se la mi lascia stare, ché certo io temo d’avere a troppi comunicato lo suo intendimento pur per queste divisioni che fatte sono, s’elli avvenisse che molti le potessero udire.149

Insomma, sono tutti segnali non trascurabili del sottile dialogo polemico tra Dante e Cavalcanti all’indomani della pubblicazione della Vita nuova. La Vita nuova, lo abbiamo visto, è, però, un testo dirompente sotto molti aspetti. Se ne deve aggiungere qui un altro, rilevante: è nel libello dantesco che si sgretola l’istanza tipicamente stilnovista di un pubblico preventivamente selezionato ed elitario, esclusivamente fondato sul cuore gentile. Nel corso della narrazione, infatti, lo spettro dei destinatari si amplifica progressivamente. All’inizio, come noto, la condivisione è riservata ai « fedeli d’amore » e a una privilegiata e limitata cerchia di persone tra cui svetta il primo amico, ma, poi, gradualmente Dante si rivolge a una meno ristretta tipologia di corrispondenti, come dimostra, all’ingresso della terza parte del libro (V.n., xxx 1: « entrata de la nova materia che appresso viene »), la lettera in latino – e come tale non riportata – diretta ai « principi de la terra », cioè ai principali personaggi della città di Firenze;150 e come rivela, in séguito, l’episodio degli « uomini a li quali si convenia di fare onore », i quali nell’anniversario della morte di Beatrice osservano silenziosamente il protagonista mentre disegna un angelo sopra certe tavolette (V.n., xxxiv 1): è proprio a queste persone degne d’onore che è indirizzato il sonetto dal doppio cominciamento Era venuta ne la mente mia (V.n., xxxiv 7-11). Quasi alla fine della Vita nuova, poi, Dante introduce nel racconto « alquanti peregrini […] di lontana parte » (V.n., xl 1-2), i quali attraversano Firenze per andare a Roma, e a loro rivolge il sonetto Deh peregrini che pensosi andate (V.n., xl 9-10). 149. Per questi riscontri cfr. ivi, pp. 47-49. 150. Esiste, tuttavia, anche un’altra spiegazione di quest’espressione di conio biblico: ‘i potenti’, ‘i reggitori del mondo’. Pur essendo possibile e autorizzata dal testo sacro, mi pare, però, meno congrua nel contesto.

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Non si può non notare un’importante modificazione nei presupposti della condivisione. All’inizio del libello i fedeli d’amore sono i destinatari ideali nell’àmbito di una comune ideologia erotica basata su una nobile disposizione d’animo perché solo i cuori sensibili sentono la voce di amore e possono compartecipare l’esperienza dell’io lirico. Alla fine quei pellegrini stranieri in cammino verso Roma con l’obiettivo di venerare l’immagine del volto umano di Gesú impresso sul velo della veronica rappresentano un nuovo e diverso interlocutore. Per sua natura, infatti, il pellegrino si muove con cuore docile e aperto, pronto ad affrontare un viaggio anche difficile e incerto per un obiettivo preciso: egli cammina animato da una intensa spiritualità e, soprattutto, mosso dalla fede. Mi pare che questo sia il nuovo presupposto di condivisione: solo la fede, infatti, rende possibile un dialogo tra sconosciuti sull’amore per una donna che questi nuovi interlocutori non hanno mai visto né udito: e si deve per giunta credere che l’amore per questa donna continui ora che ella, morta prematuramente, vive gloriosamente in cielo tra gli angeli e beata al cospetto di Dio. Questa esperienza d’amore che Dante vuole condividere meraviglia non per intensità erotica, perché sarebbe solo vana curiosità, ma per il suo ardore religioso e i suoi effetti soteriologici. In questo senso, allora, la tappa fiorentina può anche essere per quei pellegrini una crescita umana e cristiana prima della loro meta finale, quando contempleranno a Roma la venerabile reliquia. Inoltre, questi romei, ignari della gentilissima, rappresentano idealmente la ricerca dantesca di un nuovo allargamento fuori dei confini spaziali fiorentini in direzione di una inedita universalità. Nel segno di amore-caritas è avvenuta una sorta di transustanziazione. Come il Cristo continua a vivere e ad essere realmente presente nel mistero eucaristico che per sua natura ha valenza universale perché rinnova e attualizza continuamente al di là del tempo e dello spazio il supremo sacrificio d’amore di Gesú di Nazareth, cosí la poesia per Beatrice e su Beatrice, ora che la fanciulla fiorentina vive nella gloria celeste, è la continua attualizzazione di un mistero d’amore, aperto a una dimensione virtualmente ecumenica:151 è il com151. Santagata, Introduzione a Dante, Opere, vol. i, cit., p. lxxxvi, fa pure notare che il miracolo di Beatrice di risvegliare amore in tutti e non solo in coloro che hanno un cuore nobile abbia un effetto dirompente anche a livello poetico « perché infrange la restrizione

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pimento del programma di apertura universale già in nuce nelle “parole che lodano la donna mia” (V.n., xxvi 4; corsivi miei): Queste e piú mirabili cose da lei procedeano virtuosamente: onde io pensando a ciò, vogliendo ripigliare lo stilo de la sua loda, propuosi di dire parole, ne le quali dessi ad intendere de le sue mirabili ed eccellenti operazioni; acciò che non pur coloro che la poteano sensibilemente vedere, ma gli altri sappiano di lei quello che le parole ne possono fare intendere.

5. Amicizia o sopravanzamento? Sulla nave che naviga magicamente con qualsiasi vento, Dante, Guido e Lapo in compagnia delle loro amate152 parlano sempre d’amore e vivono in piena comunanza di intenti tanto che cresce il desiderio di stare insieme (Rime, lii 7-8): anzi, vivendo sempre in un talento, di star insieme crescesse il disio.

Il fortunato sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io ha trasmesso un’idea di concordia e di armonia tra i componenti del Dolce stil novo; certo manca il non fiorentino e piú giovane Cino, ma sono tante, come abbiamo visto, le attestazioni di amicizia che Dante ripetutamente gli riserva, che idealmente lo si potrebbe immaginare sulla stessa barca. Mai nominati da Dante e, dunque, piú defilati sono Gianni Alfani e Dino Frescobaldi, però la loro orbita nel cielo della poesia stilnovistica è sempre stata giudicata, giustamente, satellitare. elitaria del pubblico: come l’amore può essere provato da chiunque, cosí la poesia può rivolgersi a un pubblico indifferenziato ». 152. La donna amata da Dante non è nominata, cosí da rispettare l’invito alla discrezione tipico del codice cortese. La perifrasi « quella ch’è sul numer de le trenta » (Rime, lii 10) potrebbe alludere alla perduta « pistola sotto forma di serventese » con elencate le sessanta donne piú belle di Firenze (cfr. V.n., vi 2); se la donna di questo sonetto è al trentesimo posto, non può essere Beatrice, che, infatti, nell’elenco stava al suo numero per eccellenza, cioè il nove. Tuttavia, l’espressione « sul… trenta », non proprio perspicua, potrebbe anche significare ‘sopra, piú in alto delle trenta [donne piú belle]’, cioè ‘la piú bella di tutte’, dando a « trenta » valore di numero indeterminato per dire ‘tante, tutte’ (per questa spiegazione cfr. Giunta, in Rime, pp. 169-70).

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Questa idea di amicizia è stata espressa, come già detto, in una nota caratterizzazione di Gianfranco Contini: « Questo spiega come la persona del nuovo trovatore, lungi dall’affermarsi, si dissolva nel coro dell’amicizia; e quest’amicizia, oltre a essere la possibilità generale di quella tale poesia, sia assunta addirittura in veste di motivo poetico iniziale » (Contini, p. 7). Tuttavia, quella navigazione è un desiderio onirico o magico. La realtà dei rapporti che pare emergere dai testi risulta ben diversa. Il novo e il dolce, espressioni di una ricerca interiore, hanno certamente aspetti generalizzati e condivisibili, ma essi sono anche la cifra di irripetibili esperienze di originalità creatrice. Risulta soprattutto comune la pars destruens: il fronte stilnovista – lo abbiamo visto – è concorde contro i detrattori, della prima e dell’ultima ora. La compattezza contro chi sta al di qua del dolce stile non implica, tuttavia, necessariamente omogeneità interna. Infatti, al di là della linea di demarcazione tracciata da Bonagiunta (Purg., xxiv 55-57) non sono pochi i distinguo individuali e i contrasti. Piú che l’idea dell’amicizia, allora, si può affermare che prevalga il topos del “sopravanzamento”, inevitabile conseguenza dell’egocentrismo di personalità rilevanti, animate da un acceso spirito agonistico. Che il principio di superamento fosse in germe nella poesia di Guinizzelli l’aveva già capito il Bonagiunta storico che, nella piú volte citata tenzone (Bonagiunta, sonn. 20 e 20a), sanziona il Guido bolognese che ha « mutata la mainera » con lo scopo di « avansare ogn’altro trovatore », progetto che, però, a suo dire non può realizzarsi nella sua Lucca, dove splende l’alto sole dell’autentica dottrina amorosa: essa è chiara di per sé senza bisogno di inutili complicazioni, come quelle che Guinizzelli avrebbe voluto introdurre in poesia. Se per la prepotente individualità cavalcantiana, nonostante il dialogo con alcuni corrispondenti, si può parlare della ricerca di un esclusivo e snobistico isolamento, l’idea di superamento affiora soprattutto nel pensiero dantesco, a partire dal già ricordato par. xxiv della Vita nuova, per passare, come si è precedentemente dimostrato (cfr. pp. 93-94), attraverso il De vulgari eloquentia e per arrivare, soprattutto, a Purg., xi 97-99: Cosí ha tolto l’uno a l’altro Guido la gloria de la lingua; e forse è nato chi l’uno e l’altro caccerà del nido.

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Oderisi da Gubbio stabilisce una graduatoria nell’àmbito della poesia volgare (« la gloria de la lingua »), in cui Cavalcanti ha sopravanzato Guinizzelli153 ed entrambi potrebbero essere superati da un innominato poeta, che è ragionevole identificare con Dante stesso.154 Riconosciuto ab origine il ruolo di Guinizzelli, iniziatore della nuova poesia, e di Cavalcanti che al bolognese rivolse per primo lo sguardo, ora la gloria spetta all’Alighieri, un primato solo leggermente sfumato dal forse, ben spiegabile, però, nell’àmbito dell’argomentazione del miniatore eugubino e nel particolare contesto purgatoriale in cui è ambientato il dialogo, la cornice dei superbi. I due Guidi sono cacciati entrambi dal nido, ma la risonanza della loro destituzione non è paragonabile, tanto piú che il Guido fiorentino aveva già tolto all’omonimo bolognese « la gloria de la lingua ». Nella terzina si intravede, insomma, che la vera contesa riguarda l’Alighieri e il Cavalcanti. Dante e Guido, dunque: è giunto il momento di intrecciare la trama sull’ordito che in diversi punti del nostro discorso abbiamo già disposto. 5.1. Dante e Guido Nel racconto della Vita nuova Dante pare interessato a marcare il suo esordio poetico nel segno di Cavalcanti: nelle prime pagine egli stesso ammette di conoscere da tempo « l’arte del dire parole per rima » e, dunque, di aver già sperimentato la tecnica di comporre versi, ma fissa il suo debutto “ufficiale” all’età di 18 anni, dopo la seconda “apparizione” di Beatrice, con il sonetto A ciascun’alma presa e gentil core, indirizzato a tutti i fedeli d’amore (V.n., iii 9): Pensando io a ciò che m’era apparuto, propuosi di farlo sentire a molti li quali 153. Rimango fedele all’interpretazione dell’esegesi storica, che ha riconosciuto nei due Guidi il Guinizzelli e il Cavalcanti, contro l’ipotesi di una sequenza Guittone-GuinizzelliDante, formulata da vari interpreti, ma persuasivamente smontata da E. Malato, Il “primato” nella « gloria de la lingua ». Chiosa a ‘Purg.’, xi 97-98: « Cosí ha tolto l’uno a l’altro Guido / la gloria de la lingua », in Id., Studi su Dante, cit., pp. 460-92. Ritengo anche poco convincente la tesi di D. Piccini, Proposta per ‘Purg.’, xi 97-99: l’« uno » e l’« altro » Guido, in « L’Alighieri », a. xlix 2008, pp. 95-111, secondo cui i due Guidi sarebbero Guido delle Colonne e Guinizzelli. 154. In proposito si consideri che nella Commedia tra gli scrittori moderni Dante riserva solo a se stesso il titolo di poeta, restringendo il canone anche rispetto a V.n., xxv. Cfr. Tavoni, Il nome, cit., pp. 568-71.

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il dolce stil novo erano famosi trovatori in quel tempo; e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l’arte del dire parole per rima, propuosi di fare un sonetto, nel quale io salutasse tutti li fedeli d’Amore, e pregandoli che giudicassero la mia visione, scrissi a loro ciò ch’io avea nel mio sonno veduto.

Delle molte risposte ricevute,155 nel libello è registrata solo quella di Cavalcanti, ed essa non è solo la prova di una corrispondenza poetica avviata con la stimata e rilevante personalità di Guido, ma significa anche l’inizio di un rapporto piú profondo,156 che Dante iscrive nel segno dell’amicizia (V.n., iii 14): A questo sonetto fue risposto da molti e di diverse sentenzie: tra li quali fue risponditore quelli cu’ io chiamo primo de li miei amici; e disse allora un sonetto, lo quale comincia: Vedesti, al mio parere, onne valore. E questo fue quasi lo principio de l’amistà tra lui e me, quando elli seppe ch’io era quelli che li avea ciò mandato.

Che Dante fosse particolarmente invogliato a coinvolgere Guido Cavalcanti nella propria vicenda sentimentale e poetica è, poi, testimoniato dal famoso sonetto Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, rivolto proprio al primo amico. Lo abbiamo già ricordato piú volte, ed è ora venuto il momento di leggerlo integralmente (Rime, lii): Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento e messi in un vasel, ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio; sí che fortuna od altro tempo rio non ci potesse dare impedimento, anzi, vivendo sempre in un talento,

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155. Delle molte e varie risposte, conosciamo il sonetto di Guido, esplicitamente citato; il sonetto Naturalmente chere ogni amadore (cfr. Rime, iii), di paternità discussa tra Terino da Castelfiorentino e Cino da Pistoia; e il sonetto Di ciò che è stato sei dimandatore di Dante da Maiano (cfr. Rime, iv). 156. Per la verità Dante sembra allude a una conoscenza e a un rapporto precedente quando scrive « quasi lo principio de l’amistà tra lui e me ». In proposito, scrive E. Malato, Dante, Roma, Salerno Editrice, 20022, p. 123: « il “quasi”, certo non casuale, lascia presumere una conoscenza precedente, che nella stima per il pregevole sonetto ha poi trovato motivo di evoluzione in salda amicizia ». Sulla corrispondenza tra Dante e Cavalcanti cfr. anche Ciccuto, I sonetti di Guido a Dante, cit.

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iv. quando amor spira: aspetti e caratteri del dolce stil novo di stare insieme crescesse il disio. E monna vanna e monna Lagia poi, con quella ch’è sul numer de le trenta, con noi ponesse il buono incantatore: e quivi ragionar sempre d’amore, e ciascuna di lor fosse contenta, sí come credo che saremmo noi.

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Nei termini e secondo il gusto del souhait (‘augurio’) provenzale, ma con evidenti contatti anche con la poesia oitanica, il sonetto esprime un desiderio di evasione che si realizzerebbe, per incantesimo, su un’imbarcazione che naviga – senza una meta fissa e in un tempo indefinito, in un mare indeterminato e senza perturbazioni – mossa esclusivamente dall’unisono desiderio degli occupanti.157 A bordo si avrebbe una piena e armonica comunione di intenti e desideri tra i tre poeti e le loro donne, con la condivisione di discorsi d’amore che darebbero a tutti gioia interiore.158 Da questa ristretta ed eletta cerchia di amici vagheggiata da Dante, Cavalcanti, però, si chiama fuori,159 ed è un’autoesclusione clamorosa, anche perché l’invito ha tutti i presupposti per essere accolto dal pur sdegnoso e aristocratico Guido (Cavalcanti, xxxviiib): S’io fosse quelli che d’Amor fu degno, del qual non trovo sol che rimembranza, e la donna tenesse altra sembianza, assai mi piaceria siffatto legno. E tu, che sè de l’amoroso regno là onde di merzé nasce speranza,

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157. Giunta, in Rime, pp. 163-64, parla di féerie, cioè di una sorta di magica navigazione. 158. Dopo il saggio di G. Gorni, Lippo contro Lapo. Sul canone del Dolce Stil Novo, in Id., Il nodo della lingua, cit., pp. 99-124, è entrato in crisi il canonico terzetto di amici. Tuttavia anche lo sbarco di Lapo Gianni e l’imbarco di Lippo Pasci de’ Bardi proposti dallo studioso non sono stati accolti unanimemente, anzi risultano ipotesi deboli, come vedremo meglio piú avanti (pp. 325-26). Nell’incertezza del saliscendi non sono mancate anche altre promozioni: « È strano che a nessuno sia finora venuto il sospetto che il terzo sodale del vasello possa essere Iacopo Cavalcanti, titolare certo piú di Lapo Gianni e di Lippo Pasci di blasoni che ne fanno un consanguineo di Dante e di Guido » (Maffia Scariati, Non ha Fiorenza, cit., p. 23). Ma perché scrivere l’ipocoristico Lapo? 159. Fenzi, La canzone, p. 14.

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il dolce stil novo riguarda se ’l mi’ spirito ha pesanza: ch’un prest’ arcier di lui ha fatto segno e tragge l’arco, che li tese Amore, sí lietamente, che la sua persona par che di gioco porti signoria. Or odi maraviglia ch’el disia: lo spirito fedito li perdona, vedendo che li strugge il suo valore.

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Nel suo sonetto di risposta (medesimo lo schema ma non tutte le rime), Guido respinge l’invito, come chiarisce súbito la prima quartina tutta fondata su un periodo ipotetico dell’irrealtà. Nessun vagheggiamento, dunque, come desidera Dante, ma lucida consapevolezza della dolorosa afflizione (« pesanza »: v. 7) prodotta nell’io dall’Amore, che tende l’arco che poi scocca la donna. Il poeta si dichiara fuori da quell’amoroso regno, nel quale ci sarebbe, o dice di esservi, l’amico. Guido ha di quell’esperienza soltanto un ricordo. Resta solo un processo irresistibile di annientamento dell’io che paradossalmente, mentre assiste alla distruzione delle proprie forze vitali, sa perdonare la donna che scagliò il dardo. In questo doloroso ripiegamento sull’io non c’è spazio per nessuna positiva evasione né per nessuna condivisione.160 Sulla stessa linea, ma con l’accentuazione del dubbio sulla possibilità di una reale compartecipazione emotiva, si colloca Certe mie rime a te mandar vogliendo, sonetto che secondo una persuasiva ipotesi di Contini sarebbe inviato da Cavalcanti a Dante.161 Qui Amore in persona dissuade Guido dal proposito di mandare all’amico le proprie rime: Dante, infatti, non sarebbe in grado di reggere all’ascolto di una poesia cosí pervasa di angoscioso dolore (Cavalcanti, xxxvi): Certe mie rime a te mandar vogliendo del greve stato che lo meo cor porta, Amor aparve a me in figura morta 160. Sul possibile riconoscimento in questo sonetto di un primo segnale della crisi dei rapporti fra Dante e Guido, cfr. Fenzi, La canzone, pp. 14-15; e Malato, Ancora sul « disdegno », cit., p. 130. 161. La ragionevole ipotesi si fonda sulla constatazione che nel ms. Chig. L vIII 305 (Ch) e nel ms. vaticano 3214, il testo è inserito nella sequenza dei sonetti di corrispondenza tra Dante e Guido (cfr. Contini, p. 107).

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iv. quando amor spira: aspetti e caratteri del dolce stil novo e disse: « Non mandar, ch’i’ ti riprendo, però che, se l’amico è quel ch’io ’ntendo, e’ non avrà già sí la mente accorta, ch’udendo la ’ngiuliosa cosa e torta ch’i’ ti fo sostener tuttor ardendo, ched e’ non prenda sí gran smarrimento ch’avante ch’udit’ aggia tua pesanza non si diparta da la vita il core. E tu conosci ben ch’i’ sono Amore; però ti lascio questa mia sembianza e pòrtone ciascun tu’ pensamento ».

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Scrive Guido: ‘Caro Dante, volevo mandarti alcune mie rime in cui esprimevo lo stato angoscioso che il mio cuore sopporta, quando mi apparve Amore in aspetto mortalmente pallido e mi disse: « Ti dissuado a inviargliele, poiché, se l’amico è quello che penso io, egli non avrà davvero la mente cosí preparata che, all’udire l’ingiusta sofferenza che io ti faccio sopportare costringendoti continuamente ad ardere, egli non provi un violento shock; e, dunque, morirebbe prima ancora di aver finito di ascoltare il tuo opprimente dolore interiore. E tu sai bene che io che ti sto parlando sono Amore; perciò ti lascio questo mio aspetto (la “figura morta” del v. 3) e porto via con me ciascun tuo pensiero »’. Dante, quindi, per fragilità emotiva, non sarebbe in grado di condividere pienamente il dramma sentimentale dell’amico. Resta a Guido – solo e impossibilitato a comunicare la propria « pesanza » – l’immagine mortalmente pallida e ossessiva di Amore. Guido, però, è perfettamente consapevole di essere l’unico che conosce bene la verità su Amore. Una significativa presa di distanza da parte di Guido risulta evidente anche nei sonetti Se vedi Amore, assai ti priego, Dante, e Dante, un sospiro messagger del core (Cavalcanti, xxxix-xl), che coinvolgono ancora Dante, ma che riguardano soprattutto Lapo. Li leggeremo fra poco. Per ora possiamo cominciare a notare che anche in rime certamente inquadrabili nell’àmbito del sodalizio tra Dante e Guido, quest’ultimo, sebbene accetti il dialogo e non rinneghi l’amicizia, tuttavia desidera marcare nettamente i confini, insistendo sull’esclusività della propria concezione d’amore, liquidando idee allotrie e dichiarando la propria indisponibilità ad accettare compromessi. 235

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Queste prime incrinature, però, si allargano decisamente all’altezza della Vita nuova. Non è corretto né lecito dubitare della sincerità di Dante quando tenta di associare a sé Guido nel libello: il progetto del prosimetro era – e abbiamo visto che effettivamente fu – innovativo e rivoluzionario, e il Cavalcanti, che agli occhi di Dante era il miglior rimatore del tempo, ne era il destinatario ideale. Tuttavia, con la pubblicazione della Vita nuova iniziò probabilmente la vera e profonda crisi del loro sodalizio: se alcuni componimenti danteschi, al tempo della prima circolazione sparsa, erano sembrati a Guido non dissonanti, ora, inseriti in un discorso unitario e coerente, chiaramente orientato in una direzione tutt’altro che dissimulata, non potevano che sembrargli ostili, tanto piú che era chiamato in complicità proprio lui:162 si pensi, per esempio, al giudizio che Dante dà a margine delle risposte ricevute al primo sonetto della Vita nuova, tutte perentoriamente liquidate, compresa, dunque, anche quella di Guido, che, tra l’altro, è l’unica effettivamente citata nel testo;163 ma si pensi anche alla sottovalutazione di quella che poteva essere riconosciuta come la fase piú cavalcantiana della poesia dantesca, ossia l’episodio del gabbo (cfr. V.n., xivxvi), che Dante dice di voler superare con « matera nuova e piú nobile che la passata » (V.n., xvii 1). E che dire di Giovanna che diviene precorritrice di Beatrice (V.n., xxiv)? Ce n’è abbastanza. Ma ben piú rilevante è la contrapposizione sul problema cruciale della natura di amore, che abbiamo già messo ampiamente in evidenza nel primo paragrafo di questo capitolo. Nel libello Dante 162. Fenzi, La canzone, p. 19: « a dispetto della sua ostentata buona volontà la distanza aumenta, e quando il contrasto investe le basi stesse del loro mondo intellettuale e oltrepassa la sottile schermaglia dei sonetti, che non sarebbe probabilmente giusto gravare di eccessive responsabilità speculative, finisce per diventare incolmabile. E quando ciò avviene? All’altezza della Vita nuova, senza dubbio, quando Cavalcanti si trova dinanzi non già una serie di componimenti poetici slegati ai quali poteva rapportarsi con le armi del distacco e dell’ironia, ma un discorso coerente e continuo che li organizza e imprime loro una direzione, un significato univoco. Un discorso, di piú, che lo chiamava direttamente in causa, coinvolgendolo ripetutamente in una sostanziale chiamata di correità proprio là dove l’atteggiamento di Dante, nella prosa ma ormai anche, à rebours, nelle liriche, non poteva essere piú radicalmente lontano e avverso al suo pensiero ». 163. Dopo aver esplicitamente citato l’incipit del sonetto di risposta di Cavalcanti (Vedeste, al mio parere, onne valore) Dante chiosa: « Lo verace giudicio del detto sogno non fue veduto allora per alcuno, ma ora è manifestissimo a li piú sempici » (V.n., iii 15).

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battezza la sua nuova concezione e il sacramento cancella il peccato originale di idee erotiche precedenti, tra cui, inconfondibile, è anche quella di Guido. Insomma, in questo rito Cavalcanti non può affatto accettare candidamente il ruolo di padrino di cui lo investe l’Alighieri. Guido non poteva, dunque, tacere e non tacque. Tra le sue risposte abbiamo già considerato il sonetto Pegli occhi fere un spirito sottile (Cavalcanti, xxviii), giocato sul registro dell’ironia e della parodia. Ben piú esplicito il sonetto I’ vegno ’l giorno a te ’nfinite volte, la celebre “rimenata”, come la definí felicemente Francesco D’Ovidio,164 un documento da tempo considerato privilegiato nell’àmbito del dissidio che a un certo punto sorse tra il Cavalcanti e l’Alighieri. Su questo testo difficile, che – per usare un’efficace espressione di Contini – pare resistere alla trazione dell’intensa sollecitazione testuale,165 sono fiorite numerose e anche contrastanti interpretazioni.166 In una situazione di stallo esegetico, può essere valorizzata un’intuizione di Luigi valli, ripresa poi da Domenico De Robertis e precisata da Enrico Malato,167 secondo la quale il sonetto potrebbe essere scritto per la penna di Guido e rivolto a Dante, in persona d’Amore, nel senso, però, “cavalcantiano” di Amore passione travolgente e irresistibile: I’ vegno ’l giorno a te ’nfinite volte e tròvoti pensar troppo vilmente: molto mi dòl della gentil tua mente e d’assai tue vertú che ti son tolte. Solevanti spiacer persone molte; tuttor fuggivi l’annoiosa gente; di me parlavi sí coralemente, che tutte le tue rime avíe ricolte. Or non ardisco, per la vil tua vita,

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164. F. D’Ovidio, La “rimenata” di Guido (1896), in Id., Studi sulla ‘Divina Commedia’, Milano-Palermo-Napoli, Sandron, 1901, pp. 202-14. 165. Contini, Dante come personaggio-poeta, cit., p. 51: « Per quanto intenso possa essere il desiderio di sollecitare i testi, questo mi pare resista alla trazione ». 166. Cfr., almeno, M. Santagata, Lettura cavalcantiana (xli ‘ I’ vegno ’l giorno a te ’nfinite volte ’), in GSLI, vol. cxlviii 1971, pp. 295-308; e A. Balduino, Cavalcanti contro Dante e Cino, in Id., Bufere e molli aurette. Polemiche letterarie dallo Stilnovo alla « Voce », Milano, Guerini e Associati, 1999, pp. 1-19; Malato, Dante e Guido, cit., pp. 54-61, che fanno il punto delle varie interpretazioni precedenti. 167. Malato, Dante e Guido, cit., pp. 54-61.

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il dolce stil novo far mostramento che tu’ dir mi piaccia, né ’n guisa vegno a te, che tu mi veggi. Se ’l presente sonetto spesso leggi, lo spirito noioso che ti caccia si partirà da l’anima invilita.

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Se si accoglie questa ipotesi, il testo potrebbe essere spiegato cosí: ‘Io, Amore(-passione), vengo da te, Dante, infinite volte al giorno e ti trovo immerso in pensieri eccessivamente vili, indegni della tua vivacità intellettuale; mi dispiace molto per la nobiltà del tuo ingegno e per le tue molte facoltà che in questo modo ti sono sottratte. Di solito ti era spiacevole il contatto con la folla, per riservatezza e intimo desiderio di solitudine, condizioni ideali per alimentare la passione; sempre evitavi persone fastidiose, incapaci di cogliere il vero significato di Amore che è irriducibile a “noia” (nella lingua antica è il contrario di “piacere”); parlavi di me con linguaggio cosí profondamente affettuoso e aderente al mio essere che io avevo accolto, e gradito, tutte le poesie che avevi scritto. Ora, per la tua vita presente cosí avvilita da non essere piú consonante con me, non oso piú mostrare apprezzamento per quello che scrivi né vengo piú da te in modo scoperto. Se leggi spesso questo sonetto, lo spirito maligno che ti perseguita lascerà la tua anima sconfortata’.168 Il componimento « acquista un preciso rilievo e trova una inequivocabile collocazione nella fase immediatamente successiva alla pubblicazione della Vita nuova »,169 quando è esploso il contrasto tra Dante e Guido, e, in questo senso, si potrebbe intravedere dietro l’« annoiosa gente » (v. 6) un’allusione alle scuole dei religiosi e alle disputazioni dei filosofanti,170 seguendo le quali Dante avrebbe intrapreso una strada irriducibile al sistema di pensiero di Guido e diretta anche a tradire quei presupposti condivisibili nell’àmbito del comune intento di un rinnovamento della poesia d’amore in volgare. 168. Per questa parafrasi cfr. soprattutto, ivi, p. 56. 169. Ivi, p. 57. 170. È congettura di A. Pagliaro, Il disdegno di Guido, in Id., Saggi di critica semantica, Messina-Firenze, D’Anna, 1953, pp. 355-79, a p. 373; è stata giudicata « buona » da Malato, Dante e Guido, cit., p. 57; e ripresa e approfondita soprattutto da Gessani, Dante, Guido Cavalcanti, cit., pp. 196-202.

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Allora possiamo considerare I’ vegno ’l giorno a te ’nfinite volte una “rimenata” di Guido a Dante o, probabilmente meglio, una sottile provocazione, come pare suggerire l’ultima terzina, che può essere letta come una sorta di formula esorcistica.171 Ben altro impegno Guido profuse nel comporre Donna me prega, di cui abbiamo già parlato e che approfondiremo meglio nel vii capitolo, dedicato a Cavalcanti. Per ora basti rilevare nella canzone dottrinale la radicale contestazione dell’ideologia dantesca espressa nella Vita nuova. Per Guido chi crede in redenzioni spirituali, in vaghi processi di nobilitazione dell’io, chi crede nella possibilità di un amore disinteressato che si esprime in parole di lode, chi crede che l’amore sia compatibile con « ’l fedel consiglio de la ragione » (V.n., ii 9) dice il falso con piena consapevolezza di mentire. L’unica ricompensa che un amante può aspettarsi è la corrispondenza della donna. Ne consegue anche che la chiave per capire l’amore è nel soggetto non nell’oggetto amato, in chi ama e non fuori di lui. Insomma, Amore non è Beatrice, o Giovanna, o qualsiasi altra donna. L’amore è identificabile con un nome, ma esso designa un « accidente » che sovente è « fero » e « altero », non una donna particolare. Dunque nessuna donna, nemmeno la « gentilissima » Beatrice, può essere per sua natura oggetto d’amore con valore universalmente riconoscibile: « oggetto d’amore non lo si è per tutti e in assoluto, ma lo si diventa, e lo si diventa solo per chi arbitrariamente decida che proprio e solo quella è la cosa che egli ama, e solo per il tempo in cui una siffatta singola decisione dura ».172 Il dissidio è manifestamente aperto e le posizioni sono difficilmente conciliabili, tanto piú che Dante dopo la Vita nuova prosegue la sua fervida ricerca intellettuale e poetica in direzione di spazi sempre piú lontani da Guido. E basti citare qui, per esempio, il nuovo pronunciamento dantesco sulla natura di Amore, cioè la canzone Amor che movi tua vertú dal cielo (Rime, xc), per la quale non sembra « azzardato affermare che […] intende o almeno finisce per contrapporsi a Donna me prega ».173 171. Cfr. la nota di De Robertis a spirito noioso (v. 13): « ipostatizzazione (a fine d’esorcismo) della “noia” (ossia della “viltà”) che affligge […] Dante, come uno spirito maligno appunto allogato nell’anima » (cfr. De Robertis, p. 161). 172. Fenzi, La canzone, p. 55 (corsivo nel testo). 173. Molinari, Amor che movi, cit., p. 132.

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Per questa via si arriva alla clamorosa retrocessione di Guido – posposto a Cino, autentico ed esclusivo rappresentante della poesia d’amore, come abbiamo visto analizzando il De vulgari eloquentia (pp. 96-99) – e alla sua impossibilità di accompagnare l’agens nel viaggio supremo della Commedia, con buona pace del tenero padre Cavalcante. Ma per la riconosciuta e mai negata altezza di quel sottile e nobile ingegno, l’ombra di Guido non poteva non aleggiare presso l’auctor di quel poema,174 finché la penna non avrà finito di vergare l’ultima carta.175 5.2. Guido, Lapo (e Dante) Abbiamo visto che nel sonetto di risposta S’io fosse quelli che d’Amor fu degno (Cavalcanti xxxviiib) Guido declina l’invito di Dante a salire sul « vasel ». Quel desiderio onirico proprio non gli piace. Per giunta non lo convincono nemmeno gli invitati a « ragionar sempre d’amore » in una presunta comunione d’intenti. In due sonetti indirizzati all’Alighieri, Guido avanza dei dubbi sull’autenticità del sentimento, e conseguentemente della poesia, del passeggero Lapo Gianni. Nel primo, Se vedi Amore (Cavalcanti, xxxix), Guido chiede a Dante di verificare l’autenticità dell’amore di Lapo. Non basta, infatti, mostrarsi sofferenti per meritare il titolo di amanti, perché la sofferenza potrebbe essere provocata da altre cause. Nel ribadire alcuni punti cardine della propria concezione d’amore, Guido sembra in questo caso prendere le distanze non solo da Lapo, ma anche dall’interlocutore privilegiato Dante:176 174. E si ricordi, come già detto altrove, la canzone “montanina” (Rime, cxvi), tutt’altro che sorda al verbo di Guido. 175. Contini, Un’idea, cit., p. 143: « Nella Commedia la presenza di Cavalcanti aleggia in modo tanto piú inquietante quanto piú indiretto: inquietante per i posteri, non per lo scrittore, i cui silenzî, le cui reticenze, le cui oscurità e ambiguità sono ferree quanto tutto il resto ». Da qui si sono mosse piste di ricerca che hanno illuminato meglio il rapporto Dante-Cavalcanti. La bibliografia che si è accumulata è sterminata. Si rimanda, almeno, agli studi di Malato, Amor cortese e amor cristiano, cit.; Id., Dante e Guido, e partic. Nuove prospettive degli studi danteschi, cit.; Id., Cavalcanti nella ‘Commedia’. Il “dialogo” ininterrotto fra Dante e Guido, in RSD, a. vi 2006, pp. 217-40; e le sue letture di canti della Commedia contenute in Id., Studi su Dante, cit. 176. Fenzi, La canzone, p. 17.

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le persone coinvolte sono sempre quelle di Guido, i’ vorrei, ma l’idea di amore che emerge in questo testo è tragicamente lontana da quel fantastico vagheggiamento: Se vedi Amore, assai ti priego, Dante, in parte là ’ve Lapo sia presente, che non ti gravi di por sí la mente che mi riscrivi s’elli ’l chiama amante e se la donna li sembla avenante, ch’e’ si le mostr’ avinto fortemente: ché molte fiate cosí fatta gente suol per gravezza d’amor far sembiante. Tu sai che ne la corte là ’v’e’ regna om che sia vile non vi può servire a donna che là entro sia renduta: se la sofrenza lo servente aiuta, può di leggier cognoscer nostro sire, lo quale porta di merzede insegna.

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Scrive, dunque, Guido: ‘Dante, se vedi Amore insieme con Lapo, ti prego vivamente di osservare con attenzione e di scrivermi in risposta se Amore lo riconosce veramente per amante, e se la donna alla quale Lapo si mostra strettamente legato gli sembra davvero avvenente; infatti, molte volte, gente come lui suole con il suo aspetto sofferente fingere di essere innamorata. Tu sai che nella corte dove regna Amore un uomo privo di valore, ossia non autenticamente innamorato, non può essere ammesso a servire una donna che là dentro si sia consacrata: Amore, nostro signore, che porta l’insegna del merito ed è, dunque, colui che retribuisce i veri amanti, può conoscere facilmente se la capacità di paziente attesa può giovare a chi ama’. Il sonetto successivo Dante, un sospiro messagger del core (Cavalcanti, xl), evidentemente legato al precedente, esprime in forma di visione ciò che in Se vedi Amore è chiesto a Dante: questa volta è Guido stesso che, mosso da compassione, interroga direttamente Amore. La donna di Lapo è senza dubbio innamorata; è, dunque, l’amante che deve capirlo, guardandola negli occhi. In forma diversa si avanza un nuovo dubbio sull’autenticità dell’innamoramento, e, conseguentemente, sulla presunta sofferenza di La241

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po: come può agire la « veduta forma che s’intende » (Cavalcanti, xxviib 21) se gli occhi non sono in grado di percepirla? Dante, un sospiro messagger del core subitamente m’assalí dormendo, ed io mi disvegliai allor, temendo ched e’ non fosse in compagnia d’Amore. Po’ mi girai, e vidi ’l servitore di monna Lagia che venía dicendo: « Aiutami, Pietà! », sí che piangendo i’ presi di merzé tanto valore, ch’i’ giunsi Amore ch’affilava i dardi. Allor l’adomandai del su’ tormento, ed elli mi rispuose in questa guisa: « Di’ al servente che la donna è prisa, e tengola per far su’ piacimento; e se no ’l crede, di’ ch’a li occhi guardi ».

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Guido dice: ‘Dante, un sospiro che proviene dal cuore, del quale è rivelatore, mi assalí improvvisamente mentre dormivo e io allora mi svegliai temendo che fosse un sospiro d’Amore. Poi mi girai e vidi Lapo, l’amante di donna Lagia, che invocava l’aiuto di Pietà, cosicché mentre piangevo presi tanta forza per la compassione che mi ispirava quel grido di dolore che io raggiunsi Amore che stava affilando le frecce. Allora lo interrogai sulla sofferenza di Lapo, ed egli mi rispose in questo modo: « Dí a Lapo che la sua donna è innamorata di lui e io la tengo sotto il mio dominio perché faccia ciò che a lui piace; e se non lo crede, digli di guardare negli occhi di lei »’. Insomma, come può pretendere Dante di coinvolgere Guido in una affabile conversazione con uno come Lapo al quale non sono chiari i principî stessi dell’innamoramento? L’aristocratico Cavalcanti è quanto mai selettivo e per nulla incline a compromessi nel nome di una presunta amicizia. Ora, uno sguardo cursorio al corpus di Lapo Gianni rivela l’ingenerosità del giudizio di Cavalcanti. Lapo, infatti, fu affascinato e fu certamente condizionato, come dimostrano i numerosi prelievi, dalla potente personalità poetica di Guido. Evidentemente, però, quel gioco leggero e quelle modalità di maniera che lo caratterizzano restano troppo lontani dalla 242

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profondità e dalla sottigliezza della poesia cavalcantiana, anche quando il Gianni si impegna a esprimere la sofferenza d’amore. Ma, probabilmente, pure in questi due sonetti il bersaglio vero è un altro e, come detto, si potrebbe sospettare una sottile polemica rivolta ancora una volta contro l’Alighieri.177 5.3. Guido e Cino Il codice della poesia stilnovista non è compattamente granitico, ma è riconoscibile. Tra questi poeti, infatti, la circolazione di immagini, metri e forme è fitta, e spesso, come abbiamo già riscontrato, alcune riprese allusive possono avere anche valore ironico o parodico. Non può, dunque, non sconcertare la lettura del sonetto Qua’ son le cose vostre ch’io vi tolgo, in cui Cino si difende da un’accusa di plagio mossagli da Guido in un testo non pervenutoci, ma che fino a prova contraria conviene presumere come dato di partenza di questa polemica letteraria tutta interna all’ambiente stilnovista:178 alcune pregnanti espressioni, infatti, rendono piú ragionevole l’ipotesi di una corrispondenza tra i due poeti179 piuttosto che escludere la natura responsiva del sonetto di Cino.180 Ora, prescindendo da constatazioni di ordine generale del tipo che alla fine del ’200 i principî di originalità e di proprietà artistica risultano assai 177. Nella filiera pare da inserirsi anche il già citato sonetto Amore e monna Lagia e Guido ed io (Rime, d. i), in cui si riconoscono tutti o quasi gli stessi personaggi. Su questo testo in cifra, però, le congetture si sono sprecate e, questo sí, pare resistere alla trazione dell’intensa sollecitazione testuale. Mi limito a segnalare il rapporto con i sonetti analizzati anche se esso risulta difficilmente precisabile nel suo significato. Cosí anche Giunta, in Rime, pp. 669-71. 178. Malato, Ancora sul « disdegno », cit., p. 115. 179. Balduino, Cavalcanti contro Dante e Cino, cit., p. 13: « Tutto lascia presumere che vil ladro sia dicitura prelevata alla lettera dalla proposta perduta: sia per l’epiteto, sia per il sostantivo, stante la difficoltà di rima » (corsivo nel testo). 180. I critici sono per lo piú orientati a ipotizzare lo scambio. L. Rossi, Stilnovo, in Antologia della poesia italiana, dir. C. Segre e C. Ossola, Duecento, Torino, Einaudi, 1999, pp. 370-438, dubita, invece, della natura responsiva del sonetto di Cino: « Anche se il componimento ha la forma d’una risposta per le rime, non solo non ci è giunto il sonetto-proposta di Guido, quanto nessuna delle rime utilizzate è rinvenibile nel canzoniere cavalcantiano. Non è escluso, quindi, che si tratti d’una mera esercitazione parodistica » (p. 425).

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diversi da quelli odierni e che quella che oggi chiamiamo intertestualità era prassi costante tra i poeti (ma quando non lo è stata?), l’episodio inquieta non solo perché in un peccato di questa natura nessuno, nemmeno il denunciante, potrebbe sentirsi autorizzato a scagliare la prima pietra e non solo perché un’incriminazione di furto letterario a quell’altezza cronologica è un fatto piú unico che raro,181 ma anche perché Guido dovrebbe sentirsi piuttosto onorato che turbato di avere tra i cultori della nuova poesia un sodale fedele e un imitatore devoto. Qual è, allora, la vera colpa di Cino? Conviene a questo punto leggere e spiegare il testo (Cino, cxxxi): Qua’ son le cose vostre ch’io vi tolgo, Guido, che fate di me sí vil ladro? Certo, bel motto volentier ricolgo: ma funne vostro mai nessun leggiadro? Guardate ben, chéd ogni carta volgo: se dite il vero, i’ non sarò bugiadro. Queste cosette mie, dov’io le sciolgo, ben le sa Amor, innanzi a cui le squadro. Ciò è palese, ch’io non sono artista, né cuopro mia ignoranza con disdegno, ancor che ’l mondo guardi pur la vista; ma sono un uom cotal, di basso ’ngegno che vo piangendo, tant’ho l’alma trista, per un cor, lasso, ch’è fuor d’esto regno.

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Cino scrive: ‘Guido, quali sono le cose vostre che io vi avrei tolto, visto che mi accusate di essere, cosí come avete scritto, un vile ladro? È vero, spesso raccolgo e faccio mia qualche pregevole espressione poetica: ma la vostra poesia si caratterizza per leggiadria e dolcezza di espressione? Badate che sto esaminando con attenzione il mio libro, girando carta dopo carta:182 se 181. Balduino, Cavalcanti contro Dante, cit., p. 16: « In un’epoca in cui, né il culto dell’originalità, né il concetto di proprietà artistica, sussistono in termini paragonabili a quelli invalsi solo a partire dall’età barocca, un’accusa di furto letterario è anzi, per quanto ne so, fatto piú unico che raro ». 182. È la spiegazione di Contini, p. 203: « carta: del mio libro ». PDSN, p. 746, e altri commentatori ritengono, invece, che le carte siano quelle del libro di Guido; Malato, Ancora sul « disdegno », cit., p. 116, unificando le due letture, spiega: ‘rileggo tutte le carte, vostre e

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riconoscete la verità quale apparirà dai documenti, io non risulterò bugiardo. Io compongo i miei versi nel mio cuore e lo sa bene Amore davanti al quale li squaderno, per cui l’autenticità della mia poesia è vidimata da Amore in persona. È evidente che non sono un operatore d’arte,183 e tuttavia non nascondo la mia non conoscenza con un atteggiamento snobistico e spocchioso, sebbene il mondo guardi solo l’apparenza; ma io sono un uomo cosí, di basso ingegno, che piango tanto ho l’anima triste184 per un cuore, il mio, che, ahimè, è fuori di questo mondo perché è morto d’amore’.185 A leggere questa risposta pare che, piú che il dibattimento tra un autore di cui è stato violato il copyright e uno spregiudicato plagiatore, sia in atto lo scontro tra due modi diversi di intendere la poesia d’amore. Infatti, sebbene l’ultima parte sia volutamente infarcita di citazioni cavalcantiane, con evidente tono ironico e parodico se non sfacciatamente provocatorio, Cino rivendica con forza l’autenticità della propria ispirazione poetica – e Amore ne è testimone –, e inoltre la natura di una poesia caratterizzata da dolcezza e leggiadria, espressione di un’esperienza profondamente e intensamente vissuta di contro alle fredde sottigliezze argomentative che caratterizzano il poetare di Guido.186 Insomma le questioni formali e stilistiche sembrano solo un pretesto. mie’: procedo insomma a un riscontro, a una verifica, carta dopo carta, di ciò che è stato scritto. 183. Ma si può leggere anche « non attuo artifizi nelle mie rime » (Malato, Ancora sul « disdegno », cit., pp. 118-24, dove sono anche discusse altre interpretazioni di « artista »). 184. Sono due evidenti tessere cavalcantiane: « che […] piangendo » rimanda, infatti, a Cavalcanti, x 1: « vedete ch’i’ son un che vo piangendo »; « l’alma trista » è certamente sintagma caro a Cino, ma si può ricordare anche Cavalcanti, xv 13: « e all’anima trista è tanto danno ». 185. Malato, Ancora sul « disdegno », cit., p. 121. Diversa la parafrasi dell’ultima terzina proposta da Balduino, Cavalcanti contro Dante, cit., p. 15: « Al contrario di te (o, meglio, di quello che tu vuoi far credere d’essere) io sono soltanto un individuo di preparazione culturale modesta e, soffrendo (ma autenticamente) pene d’amore che mi rattristano l’anima, nella mia poesia posso solo esprimere le lacrime che, misero me, mi sono causate dal cuore insensibile di una che, non essendo soggetta ad Amore, non appartiene al suo regno ». 186. Malato, Ancora sul « disdegno », cit., p. 124: « contro una pretesa, ostentata appunto “con disdegno”, di restare vincolati a un “ingegnoso artificio”, polemicamente esibito come tratto distintivo di un altro e contestato modo di far poesia (e ci fu mai “motto” di Guido che fosse “leggiadro”?) ».

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Qui sono in gioco profonde implicazioni ideologiche.187 Nel gruppo dei “nuovi poeti” è in atto un riallineamento di posizioni e Cino sembra qui collocarsi decisamente a fianco di Dante: e a proposito di graduatorie nell’àmbito della poesia d’amore in “lingua di sí” si pensi a quanto sancito nel successivo De vulgari eloquentia, come già precedentemente abbiamo dimostrato. In questo sonetto e nel già citato Merzé di quel signor ch’è dentro a meve (Cino, clx), il pistoiese mostra la sua sintonia con la poetica dell’Alighieri. Lo confermano anche reciproche allusioni. Se Cino accoglie nella trama del suo discorso fili danteschi,188 non a caso Dante si ricorderà di questi testi quando definirà nell’episodio di Bonagiunta le caratteristiche della nuova poesia. Abbiamo già messo in luce in precedenza le riprese di Merzé di quel signor (pp. 50-51). Notiamo qui, su suggerimento di Enrico Malato, che il verbo sciolgo del v. 7 di Qua’ son le cose vostre può essere messo in relazione col « nodo / che ’l Notaro e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo » (Purg., xxiv 55-57).189 All’altezza del canto xxiv del Purgatorio, dunque, Dante pare « ben “sintonizzato” con Cino nella definizione della ‘nuova poesia (d’amore)’ (“le nove rime”) come frutto di una profonda adesione, ideologica e stilistica, ai dettami di Amore ».190 Ma la mirata strategia allusiva non finisce qui. Due altre evidenti tessere di questo sonetto – « né cuopro mia ignoranza con disdegno » (v. 10) e « ma sono un uom cotal, di basso ’ngegno » (v. 12) – sono puntualmente, e in posizione forte, riprese da Dante nell’episodio di Cavalcante de’ Cavalcanti (Inf., x 58-63; corsivi miei):191 piangendo disse: « Se per questo cieco carcere vai per altezza d’ingegno, mio figlio ov’è? e perché non è teco? ». 187. Ivi, p. 128: « La materia del contendere è in apparenza di mero ordine stilistico, ma non senza implicazioni ideologiche (e morali), laddove l’affermazione del ‘nuovo stile’ risulta strettamente collegato e dipendente dall’atteggiamento del poeta nei confronti di Amore, cui si professa dedizione assoluta ». 188. Per es. le « cosette » di Cino, cxxxi 7, paiono rimandare a V.n., v 4: « feci per lei certe cosette per rima ». 189. Cfr. Malato, Ancora sul « disdegno », cit., p. 124. 190. Ivi, p. 136. 191. Cfr. ivi, pp. 131-32; e, in precedenza, G. Gorni, Cino « vil ladro ». Parola data e parola rubata, in Id., Il nodo della lingua, cit., pp. 125-39, alle pp. 133-35; e Brugnolo, Cino (e Onesto), cit., pp. 373-74.

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iv. quando amor spira: aspetti e caratteri del dolce stil novo E io a lui: « Da me stesso non vegno: colui ch’attende là, per qui mi mena forse cui Guido vostro ebbe a disdegno ».

Su questo vistoso collegamento ha scritto opportunamente Enrico Malato: « Il “disdegno” inteso come ‘negazione’ o ‘rifiuto’ (per altro strumentale al fine di ‘coprire’, di mascherare una ‘ignoranza’, incapacità di capire una verità profonda), e l’ “altezza d’ingegno” come boriosa affermazione di superiorità, che non consentono a Guido – questo sembra il messaggio del sonetto – di attingere la autentica ispirazione d’amore, e dunque i vertici della lirica amorosa, non gli consentiranno poi neanche, nella Commedia, di intraprendere il viaggio della salvezza ».192 Il sonetto di Cino lascia, dunque, tracce in due luoghi di capitale importanza nell’àmbito della teoria letteraria e dei rapporti tra Dante e altri poeti contemporanei all’altezza della Commedia (Inf., x e Purg., xxiv), a dimostrazione di una precisa memoria volontaria. Sono indizi che confermano la densità semantica di Qua’ son le cose vostre e di quel triangolo – si è detto in movimento e in riposizionamento – che ha ai suoi vertici Dante, Guido e Cino.193 La questione di fondo è, pertanto, molto seria, ma, a ulteriore conferma del vivo ricordo di questo testo ciniano all’altezza del poema, l’Alighieri si permette anche di lasciare un’altra, sorniona, tessera allusiva. È stato, infatti, notato194 che la rima difficile ladro : squadro (vv. 2 e 8) compare nella terzina iniziale del canto xxv dell’Inferno: 192. Malato, Ancora sul « disdegno », cit., p. 132. 193. Cfr. C. Calenda, Un’accusa di plagio? Ancora sul rapporto Cavalcanti-Cino, in Da Guido Guinizzelli a Dante, cit., pp. 291-303, a p. 295: « Che il componimento ciniano fosse effetto piuttosto di una inevitabile triangolazione Cavalcanti-Dante-Cino che di una disputa personale tra Guido e il pistoiese, era peraltro conclusione già affiorata in un vecchio saggio di Alberto Corbellini (e citata con favore da Robert Hollander) che vedeva riflessa nell’accusa cavalcantiana l’opposizione nei riguardi di Cino e Dante insieme, e inseriva il sonetto in questione nell’orbita della già citata “rimenata” a Dante, tra i cui motivi scatenanti ci sarebbe stata appunto la nuova amicizia con il pistoiese »; i rimandi interni, e precisati in nota, sono ad A. Corbellini, Dante, Guido e Cino. Tracce sparse di una pagina comune, Pavia, Tipografia e libreria C. Rossetti, 1905; e R. Hollander, Dante and Cino da Pistoia, in « Dante Studies », a. cx 1992, pp. 201-31. 194. Cfr., per es., Gorni, Cino « vil ladro », cit., pp. 138-39; Brugnolo, Cino (e Onesto), cit., p. 374; Balduino, Cavalcanti contro Dante, cit., p. 18.

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il dolce stil novo Al fine de le sue parole il ladro le mani alzò con amendue le fiche, gridando: « Togli, Dio, ch’a te le squadro! ».

È il gestaccio sacrilego di vanni Fucci, il ladro della « sagrestia d’i belli arredi » (Inf., xxiv 138); anch’egli – come Cino – è pistoiese. 5.4. Dante e Cino Abbiamo già visto (pp. 139-48) che Cino non esita ad affilare la sua penna in difesa della Vita nuova nell’ostico ambiente bolognese, e abbiamo già parlato della promozione a cantor amoris per eccellenza che Dante assegna al poeta pistoiese nel D.v.e., dove – lo sappiamo – è piú che mai stretto il binomio « Cynus Pistoriensis et amicus eius ». Forse è azzardato intravedere l’alba di questo sodalizio poetico in Naturalmente chere ogni amadore (Cino, d. xxiv), una delle tre risposte conservate al primo sonetto della Vita nuova: esso è attribuito a Cino dall’autorevole ms. Chigiano e dalla Giuntina di rime antiche (1527); ma la qualità di testimonianza difficilior della rubrica del ms. Magliabechiano vII 1060, la difficoltà anagrafica (Cino l’avrebbe scritto a 13 anni) e il tessuto linguistico-espressivo arcaicizzante indirizzano meglio verso Terino da Castelfiorentino.195 È, però, indubitabile che Cino mostra di interagire in piú occasioni con il libello dantesco, come rivela la canzone Avegna ched el m’aggia piú per tempo (Cino, cxxv), scritta per confortare Dante afflitto per la morte di Beatrice, ma composta sul metro di Donna pietosa (V.n., xxiii 17-28) e infarcita di citazioni della Vita nuova, tanto che, piú che l’amico, Cino sembra voler consolare le rime dolorose di lui;196 e palesa anche il sonetto Grazïosa Giovanna, onora e ’leggi (Cino, lxiii), che ha evidenti contatti con l’episodio di V.n., xxiv.197 La serie di interazioni ciniane con la vicenda narrata nel libel195. È tornato, invece, a sostenere la paternità ciniana M. Picone, Dante e Cino: una lunga amicizia. Prima parte: i tempi della ‘Vita Nova’, in « Dante. Rivista internazionale di studi su Dante Alighieri », a. i 2004, pp. 39-53. 196. D. De Robertis, Cino e le « imitazioni » dalle ‘ Rime’ di Dante, in SD, vol. xxix 1950, pp. 103-77, a p. 166. 197. G. Marrani, Ai margini della ‘Vita Nova’: ancora per Cino ‘imitatore’ di Dante, in La liri-

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lo potrebbe allargarsi se si conteggiasse anche I’ son chiamata nova ballatella (Cino, d. xi), conservata adespota nei manoscritti che la tramandano, ma che alcuni interpreti attribuiscono a Cino per un supposto riferimento a Selvaggia (v. 33) e, soprattutto, per piú cogenti movenze stilistiche. La ballata, che parla in prima persona e rivela alla donna le sofferenze del poeta innamorato, rimanda in particolare a V.n., xii; e non a caso De Robertis sceglie di includerla nella sua edizione critica delle Rime di Dante (2002), in quanto meritevole « d’esser posta in appendice alla ballata della Vita Nova ».198 Del resto « Dante fu per Cino l’ “autore” in senso proprio »,199 colui che contribuí in modo decisivo alla formazione del suo linguaggio poetico, come denuncia la folla di reminiscenze e di riecheggiamenti, e, specialmente, il rifacimento di motivi o di situazioni poetiche: troviamo cosí, per esempio, nel corpus del pistoiese un ciclo di sonetti (Cino, xcii-xcix) dedicato a una donna sensibile e pietosa che consola il poeta, con evidente rimando all’episodio della « gentile donna giovane e bella molto » di V.n., xxxv-xxxix; oppure il sonetto Vinta e lassa era l’alma mia (Cino, clviiia), in cui l’io lirico ha un sogno e chiede che venga interpretato, con chiaro riferimento a V.n., iii; e ancora il sonetto Se voi udiste la voce dolente (Cino, lxiv), da ricondurre decisamente all’episodio del gabbo di V.n., xiv-xvi. A dimostrare ulteriormente quanto sia fitto l’intreccio Dante-Cino si può aggiungere la serie di testi per la quale i pur agguerriti filologi contemporanei non sono ancora riusciti a risolvere la questione attributiva insita nelle rubriche dei testimoni manoscritti, che oscillano tra l’uno e l’altro. Non può stupire, allora, se tra i corrispondenti di Cino il posto privilegiato per la qualità del rapporto e anche per quantità dei pezzi spetti a Dante. I due, per un certo periodo anche provati dalla stessa esperienza dell’esilio, dialogano d’amore, di poesia, della nequizia dei tempi; e soprattutto si cercano, come pare di capire dal sonetto Se tu sapessi ben com’io ca romanza del Medioevo. Storia, tradizioni, interpretazioni. Atti del vi Convegno triennale della Società Italiana di Filologia Romanza, Padova-Stra, 27 settembre-1° ottobre 2006, a cura di F. Brugnolo e F. Gambino, Padova, Unipress, 2009, 2 voll., ii pp. 757-76. 198. Dante, Rime, i. Introduzione, ed. De Robertis cit., p. 1052. 199. De Robertis, Cino e le « imitazioni », cit., p. 111.

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aspetto (Cino, lxxix), in cui, secondo l’interpretazione di Alberto Corbellini ripresa da Contini, p. 215, Cino lamenta il silenzio dell’amico che accresce la sua angoscia di innamorato infelice e sconfortato. La probabile risposta è il sonetto Perch’io non truovo chi meco ragioni (Cino, cxxvia), in cui Dante, dopo essersi scusato per un lungo silenzio, si lamenta del luogo in cui si trova, privo delle condizioni ideali per parlare d’amore e scrivere poesia. Allora, il dialogo sembra riprendere, tanto che Cino risponde al precedente con Dante, i’ non odo in quale albergo soni (Cino, cxxvib), in cui ammette il trionfo del regno del male, ma esorta l’amico a non astenersi dall’operare il bene, e, dunque, a continuare a scrivere d’amore. Un rapporto di amicizia cosí solido e duraturo sembrerebbe privo di incrinature. Colpisce, allora, uno scambio di sonetti databile intorno al 1306-1307, quando l’Alighieri fu ospite in Lunigiana presso Moroello Malaspina di Giovagallo, potente fautore dei Neri toscani, un asilo insolito per un Guelfo bianco, ma probabilmente ottenuto per intercessione di Cino, dopoché Dante dovette lasciare precipitosamente il suo precedente domicilio nell’insidiosa Bologna passata subitamente alla Pars Marchexana (cfr. Tavoni, p. 1116). Nel sonetto Cercando di trovar minera in oro (Cino, cxxixa), indirizzato proprio al marchese Moroello, Cino, costantemente alla ricerca di un amore puro e dunque corrisposto, dice di essersi innamorato ferventemente di una donna – probabilmente una della famiglia Malaspina (cfr. v. 3) – che lo fa intimamente soffrire: questo è il suo triste destino. Per conto del marchese risponde Dante (Cino, cxxixb): Degno fa voi trovare ogni tesoro la voce vostra sí dolce e latina, ma volgibile cor ven disvicina, ove stecco d’Amor mai non fé foro. Io che trafitto sono in ogni poro del prun che con sospir si medicina, pur trovo la minera in cui s’affina quella virtú per cui mi discoloro. Non è colpa del sol se l’orba fronte nol vede quando scende e quando poia, ma della condizion malvagia e croia. S’io vi vedessi uscir degli occhi ploia

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iv. quando amor spira: aspetti e caratteri del dolce stil novo per prova fare a le parole conte, non mi porreste di sospetto in ponte.

Scrive, dunque, l’Alighieri: ‘La vostra voce (ossia la vostra poesia) cosí dolce e limpida vi rende degno di trovare ogni tesoro, ma ve ne allontana il cuore volubile, dove la freccia d’Amore non produsse mai ferita. Io, invece, che sono trafitto in ogni punto del corpo dalla pianta spinosa dell’amore, la cui ferita si medica a costo di sospiri, trovo sempre il minerale in cui si purifica quel sentimento per cui impallidisco, ossia trovo la donna che merita il mio amore. Non è colpa del sole se il cieco non lo vede quando tramonta e quando sorge, ma della sua crudelmente difettosa facoltà visiva. Se anche vedessi uscire dai vostri occhi una pioggia di lacrime per dimostrare la sincerità delle vostre eleganti parole, non riuscireste a fugare i miei sospetti sull’insincerità del vostro amore’. Dante, insomma, apprezza l’aspetto formale della poesia di Cino, confermando il giudizio espresso piú volte nel D.v.e., ma si unisce al non esiguo coro di chi sanzionava la volubilità in amore del pistoiese. vano il lamento di Cino contro gli astri,200 e, soprattutto, criticabile il tono eccessivamente lamentoso delle sue rime: la colpa della mancata ricerca di un vero e puro amore sta in una precisa responsabilità individuale. Dante torna amichevolmente sul tema dell’incostanza in amore di Cino nel sonetto Io mi credea del tutto esser partito (Cino, cxxxa) e questa volta è lui a iniziare lo scambio. Se è giusta la cronologia proposta da vari commentatori (circa 1306), esso non dovrebbe essere lontano dalla corrispondenza poco fa ricordata e, inoltre, tra le righe si potrebbe forse intravedere un’allusione al cominciato, o incipiente, Inferno: Io mi credea del tutto esser partito da queste nostre rime, messer Cino, ché si conviene omai altro camino alla mia nave piú lungi dal lito; ma perch’i’ ho di voi piú volte udito

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200. Cino, infatti, aveva scritto (Cino, cxxixa 7-8): « cotal pianeta, lasso, mi destina / che dov’io perdo volentier dimoro » (‘una stella maligna, ahimè, determina il mio destino che è quello di fermarmi volentieri dove soffro, cioè di innamorarmi di chi non può farmi felice’).

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il dolce stil novo che pigliar vi lasciate a ogni uncino, piacemi di prestare un pocolino a questa penna lo stancato dito. Chi s’innamora sí come voi fate or qua or là, e sé lega e dissolve, mostra ch’Amor leggermente il saetti. Però, se legger cor cosí vi volve, prego che con virtú il correggiate, sí che s’accordi i fatti a’ dolci detti.

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Dante dice all’amico: ‘Messer Cino, credevo di essermi definitivamente allontanato dalle nostre poesie d’amore, perché alla mia nave ormai si addice un’altra navigazione piú lontana dalla riva;201 ma perché ho piú volte sentito dire di voi che siete facile ad abboccare all’amo dell’amore, mi piace prestare un pochino la mia mano stanca a questa penna. Chi si innamora come fate voi ora di una donna ora di un’altra, e si lega e si scioglie, dimostra che Amore lo ferisce con superficialità. Perciò, se un cuore frivolo vi rende cosí volubile, vi prego di correggerlo con una corretta e costante disposizione morale, cosicché i vostri reali sentimenti corrispondano alla dolcezza della vostra poesia’. Insomma, Cino persiste nelle rime del dolce stile – e Dante riconosce l’eleganza formale del pistoiese –, ma ne tradisce l’essenza profonda, che consiste nella sincerità dell’ispirazione amorosa, come poi l’Alighieri suggellerà in modo definitivo nella nota formula di Purg., xxiv 52-54. Nella risposta per le rime, Cino asserisce la propria costanza in amore e la propria fedeltà a quella donna pur insensibile dalla quale è costretto a stare lontano a causa del funesto esilio. La sua è, dunque, un’apparente volubilità, perché nelle altre donne cerca la somiglianza con Selvaggia, la sua unica e vera amata (Cino, cxxxb): Poi ch’i’ fu’, Dante, dal mio natal sito fatto per greve essilio pellegrino e lontanato dal piacer piú fino 201. La metafora potrebbe alludere a una diversa e piú impegnativa forma di poesia: per la datazione bassa del sonetto non sarebbe arbitrario pensare al grande viaggio della Commedia. Per altri la metafora del viaggio si riferisce alla vita umana e, dunque, è piú lontano dalla riva chi è piú anziano (cfr. Giunta, in Rime, p. 602).

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iv. quando amor spira: aspetti e caratteri del dolce stil novo che mai formasse il Piacer infinito, i’ son piangendo per lo mondo gito sdegnato del morir come meschino, e s’ho trovato a lui simil vicino, dett’ho che questi m’ha lo cor ferito. Né da le prime braccia di Pietate, onde ’l fermato disperar m’assolve, son mosso, perch’aiuto non aspetti: ch’un piacer sempre mi lega ed involve, il qual conven ch’a simil di beltate in molte donne sparte mi diletti.

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Cino, dunque, risponde: ‘Dante, da quando fui reso straniero alla mia patria a causa del doloroso esilio e allontanato dalla bellezza piú perfetta che mai abbia creato Dio – che è Bellezza infinita –, io me ne sono andato in giro per il mondo piangendo, cosí misero da essere sdegnato persino dalla morte, e se ho trovato una bellezza simile a quella perfetta, ho detto nei miei versi che questa mi ha fatto innamorare. Non mi sono mai distaccato dalle braccia di quella donna che per prima mi ha fatto innamorare, dalle quali pur mi separa una ferma disperazione, anche perché non mi aspetto alcuna corrispondenza sentimentale da parte sua: pertanto, un’unica ed esclusiva bellezza mi stringe indissolubilmente, la quale è fatale che m’affascini, quando tracce a lei simili io percepisco in molte donne diverse’. L’argomentazione, o la scusa, non è inedita. Basti pensare a quanto scrive Cavalcanti a proposito della giovane donna di Tolosa (cfr. Cavalcanti, xxix). Difficile pensare, tuttavia, che questa giustificazione abbia potuto soddisfare il poeta di Beatrice all’altezza degli esordi del poema sacro. Sono amichevoli screzi o cordiali schermaglie, che, però, non incrinano la solida relazione di amicizia tra Dante e Cino. Ha colpito e colpisce la totale reticenza nella Commedia sul poeta pistoiese, ma il biunivoco rapporto intertestuale è sempre fitto, come è stato da tempo dimostrato.202 Non stupisce, dunque, che dalla penna di Cino esca la canzone Su per la costa, Amor, de l’alto monte (Cino, clxiv), scritta per commemorare la morte di Dante. Le tre stanze, l’ultima delle quali funge da congedo, sono intessute di reminiscenze dantesche, e lo schema metrico è lo stesso di Cosí nel 202. Cfr., soprattutto, Brugnolo, Cino (e Onesto), cit.

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mio parlar voglio esser aspro (Rime, ciii), canzone che in alcuni codici apriva la serie delle distese dantesche.203 Semmai, quello che può meravigliare in questo testo è che, nonostante la Commedia fosse terminata e già in parte, se non tutta, nota, Cino metta a fuoco l’immagine di un Dante cantor amoris.

203. Cfr. la lettura di Tanturli, in Dante, Le Quindici Canzoni, i, cit., pp. 9-28.

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v LA TRADI Z ION E DEL D OLC E STI L NOVO: MANOSC RITTI E STAM P E ANTIC H E

1. Il silenzio dei Canzonieri delle origini e la voce dei Memoriali bolognesi La poesia del Dolce stil novo, con la comprensibile eccezione di Guido Guinizzelli, è assente nei grandi canzonieri antichi: P, L e v. Il firewall non è cronologico ma ideologico (vd. pp. 80-85). La protezione è ferrea, tanto che entrano solo tre testi – uno per ciascun manoscritto –, che sfuggono al filtro per loro particolari peculiarità. In P126 è presente la ballata cavalcantiana Fresca rosa novella (Cavalcanti, i), una lirica « di schema e linguaggio arcaici » (Contini, p. 55), tra l’altro attribuita a Dante, che invece dovrebbe esserne il dedicatario. Un altro testo di Guido, il sonetto Biltà di donna e di saccente core (Cavalcanti, iii), si trova in L310, copiato dalla seconda mano pisana che lavora sul codice. Il componimento chiude la prima serie guinizzelliana e completa la pagina iniziale della sezione (c. 129r): si tratta di un’inclusione che fa « macchia » e « la presenza di Cavalcanti in un contesto cosí marcato […] dalla sequela guittoniana rimane senza spiegazioni, salvo pensare ad un Cavalcanti ancora giovane, alle sue prime prove (ma nulla sappiamo di sicuro sulla cronologia del sonetto incriminato) ».1 Si è poi già ricordata (p. 83) la presenza nel canzoniere vaticano della canzone dantesca Donne ch’avete (v306), seguíta dalla cosiddetta “risposta” dell’Amico di Dante, Ben aggia (v307). Chi le ha esemplate non è il menante che ha inizialmente progettato v, ma una mano successiva (la terza che interviene sul codice), probabilmente di origine tosco-occidentale: 2 Donne ch’avete è trascritta senza rubrica attributiva e l’indicazione « Dante » apposta nel margine superiore della carta appartiene alla tarda mano 12.

1. Leonardi, Il canzoniere Laurenziano, cit., p. 203. 2. Cfr. A. Petrucci, Le mani e le scritture del canzoniere Vaticano, e P. Larson, Appunti sulla lingua del canzoniere Vaticano, in I canzonieri della lirica italiana, cit., rispettiv. alle pp. 31-32 e 93-97.

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Piú consistente la presenza degli stilnovisti nei Memoriali bolognesi, quei registri dove notai appassionati di poesia trascrivevano, spesso affidandosi alla memoria, frammenti o interi componimenti: oltre al felsineo e dunque domestico Guido Guinizzelli (10 presenze ma in realtà solo due testi, cioè Guinizzelli, x e xviiib), il primato delle inclusioni spetta a Dante (6 liriche, oltre a versi della Commedia), seguíto da Cino, ma a debita distanza sebbene abbia studiato a Bologna (3 componimenti, di cui due dubbi), poi Cavalcanti (2 testi) e infine Lapo Gianni (1 poesia).3 Queste testimonianze, a rigore filologico non sempre recensibili come tradizione diretta visto il ruolo della memoria che altera la normale fenomenologia di copia, sono difficilmente valutabili anche per l’ampio arco cronologico: per es. il sonetto No me poriano di Dante (Rime, li) è inserito in un registro del 1287 e Amor, eo chero (Lapo, xvii) in uno del 1321. Indubbia, tuttavia, la loro risonanza culturale non solo per la collocazione geografica – la città dell’università piú importante della penisola –, ma soprattutto per le esclusioni: in essi si devono, infatti, notare le clamorose assenze di Guittone, Chiaro Davanzati e Monte Andrea. 2. La tradizione del Dolce stil novo: il ramo settentrionale Si resta all’ombra della Garisenda con il cosiddetto “frammento marciano dello Stilnovo”, sei fogli membranacei inseriti tra carte di guardia piú tarde, ora conservati nella Biblioteca Marciana di venezia (It. IX 529). Essi sono stati scritti da un’unica mano del primo Trecento, che l’analisi linguistica suggerisce come pistoiese. Il copista è un notaio che impiega la sua scrittura professionale adoperando una pergamena di pessima qualità, non adatta alla produzione di un libro e semmai utilizzabile per uso documentario. L’antologia è incentrata su Cino da Pistoia, inclusi alcuni suoi corrispondenti, e in secondo luogo su rime dantesche, con l’inserimento di pezzi fra i piú consoni all’ispirazione ciniana. Caratteristiche codicologiche e selezione dei testi farebbero pensare che il copista sia un pistoiese emigrato a Bologna che mostra una speciale prossimità a Cino. In ogni

3. vd. ora Rime due e trecentesche tratte dall’Archivio di Stato di Bologna, cit.

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caso, il frammento marciano è un’ulteriore prova dell’esportazione oltre Appennino della poesia stilnovistica a inizio Trecento.4 Per altezza cronologica che intreccia la cronologia del vaticano (fine ’200-inizio ’300), per importanza della selezione e per una fortuna che tocca il primo ’500, spicca nella tradizione settentrionale del Dolce stil novo il canzoniere Escorialense, cioè la sesta e ultima unità codicologica (cc. 73r-87v) di un manoscritto composito, che riunisce fascicoli di vario contenuto e diversa provenienza, età e materia, ora conservato nella Biblioteca Real de San Lorenzo a El Escorial (e III 23).5 Tutte e cinque le mani che lavorano sul codice (siglate con le prime lettere greche: α, β, γ, δ, ε) appartengono all’ambiente notarile, però non allo stesso territorio: sono di aree geo-linguistiche « affini ma distinte, l’una – per le sezioni α (ed ε) – situabile nel veneto centro-meridionale con epicentro in Padova, l’altra – per la sezione β – sconfinante in Emilia con punto di attrazione, forse, in Bologna ».6 Occorre poi rilevare che la silloge dei sonetti e quella delle ballate che compongono il ms. E sembrano avere due antigrafi differenti, rispettivamente tosco-occidentale e umbro. L’antologia comprende numerosi testi di Dante, Cavalcanti e Cino, seguíti dai loro coetanei comico-realistici, i senesi Cecco Angiolieri e Meo dei Tolomei, piú altri poeti minori toscani, emiliano-romagnoli e veneti; alcuni testi sono adespoti. Risalta poi la presenza del cosiddetto Trattato d’amore di Guittone d’Arezzo, con la giunta di Federigo dell’Ambra.7 L’importanza testimoniale del canzoniere Escorialense, già chiara a Michele Barbi,8 consiste nel fatto che esso tramanda parecchie rime di Cavalcanti, Dante e Cino, le quali in assenza di questo codice antico conosceremmo soltanto da manoscritti recentiores: per molte poesie E risulta, infatti, il capostipite di una tradizione veneta che arriva ai cinquecenteschi Marciano 4. Su questo frammento vd. Il canzoniere escorialense, cit. In particolare il manoscritto marciano è studiato da G. Marrani, Identità del frammento marciano dello « stilnovo » (It. IX 529), pp. 153-81, e da T. De Robertis, Un canzoniere breve?, pp. 183-89. 5. vd. Il canzoniere escorialense, cit. 6. R. Capelli, Appunti sulla lingua del canzoniere Escorialense, in Il canzoniere escorialense, cit., pp. 49-119, a p. 49. 7. vd. ora Guittone d’Arezzo, Del carnale amore, cit. 8. vd. M. Barbi, Studi sul canzoniere di Dante. Con nuove indagini sulle raccolte manoscritte e a stampa di antiche rime italiane, Firenze, Sansoni, 1915, pp. 511-27.

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It. IX 191 (il codice esemplato da Isidoro Mezzabarba nel 1509), il suo collaterale Marciano It. IX 364, la stampa veneziana del 1518 – Canzoni di Dante. Madrigali del detto. Madrigali di M. Cino, & di M. Girardo Novello, venezia, per Guglielmo di Monferrato – e la Poetica del Trissino (stampata nel 1529), insomma quella famiglia che il filologo pistoiese chiamò Mc1Tris;9 dallo stesso ceppo deriva anche il collaterale O 63 sup. (siglato Am., perché conservato all’Ambrosiana di Milano), un codice del Xv secolo che raccoglie solo sonetti e che « in parte sopperisce […] alla frammentarietà di E ».10 Dunque il canzoniere Escorialense rimase in veneto fino al XvI secolo, quando venne acquistato dall’arcivescovo di Tarragona, Antonio Agustín, e poi passò nel 1591 alla Biblioteca Real de San Lorenzo. Chi legge nell’attuale seriazione i 184 testi presenti nel canzoniere E ricava un’impressione di disordine, ma – anche in virtú di marcatori marginali apposti in un secondo tempo ai testi degli stilnovisti – si possono proporre congruenti seriazioni.11 A ribadire il ruolo preponderante dei poeti del Dolce stile nel codice contribuisce anche la rubrica scritta sul primo foglio (c. 73r) dalla mano α, alla quale va riconosciuta la responsabilità dell’allestimento primo e dell’avvio del lavoro: « Quisti si he soniti de dante, e gido [sic] chaualcanti, e de messer cino, e no d’altri, et […] ». La presenza in E di testi lirici toscani sia in stile aulico sia in stile comico, cosí come l’inclusione di testi veneti primotrecenteschi, richiama alla memoria un’altra raccolta di datazione alta, allestita a Treviso tra il 1325 e il 1335, nell’ambiente del poeta e notaio Niccolò de’ Rossi, che interviene personalmente nell’attuale Barberiniano lat. 3953 della BAv (siglato B).12 9. vd. ivi, pp. 3-96. Su E sono poi importanti gli studi di Domenico De Robertis, il quale, tra l’altro, ha ritenuto di poter individuare una prima redazione estravagante di alcune poesie della Vita nuova (vd. almeno D. De Robertis, Sulla tradizione estravagante delle rime della ‘ Vita Nuova’, in SD, vol. xliv 1967, pp. 5-84). La tesi andrebbe tuttavia ripensata alla luce delle riflessioni di M. Martelli, Proposte per le ‘ Rime’ di Dante, in SD, vol. lxix 2004, pp. 276-88. 10. vd. L. Leonardi, La poesia delle origini e del Duecento, in StoLI, vol. x. La tradizione dei testi, coordinatore C. Ciociola, Roma, Salerno Editrice, 2001, pp. 5-89, a p. 47. 11. vd. T. De Robertis, Descrizione e storia del canzoniere Escorialense, in Il canzoniere escorialense, cit., pp. 11-48, dove sono discusse anche precedenti proposte di ordinamento avanzate da Mario Casella e Roberta Capelli. 12. vd. ora L. Granata, Nicolò de’ Rossi, in Autografi dei letterati italiani, sez. i. Le Origini e il Trecento, a cura di G. Brunetti, M. Fiorilla, M. Petoletti, to. i, Roma, Salerno Editrice,

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Siamo dunque ancora in veneto, nel primo ’300, e, considerato il periodo, si può ipotizzare che al successo degli stilnovisti in quell’area geografica abbia contribuito anche la presenza di Dante. Colpisce in B l’inclusione del Trionfo d’Amore di Francesco da Barberino, secondo un gusto per la poesia ecfrastica rappresentato anche dall’Escorialense, sebbene il Trattato d’amore di Guittone manchi nel ms. E dell’immagine di riferimento. B si presenta come un’antologia della maggiore poesia toscana, e tra gli stilnovisti emergono per numero di inclusioni Dante e Cino. Non mancano i poeti comico-realistici e, a ritroso, ci sono anche testi dei siciliani, di Guittone e dei guittoniani. Collaterale di B è il ms. 4 della Società Dantesca Italiana (già Ginori Conti e dunque siglato G) allestito nella seconda metà del ’300 in Emilia (forse a Bologna), limitato ora a 52 cc. a causa di una mutilazione; in questo codice la serie delle 21 canzoni è ordinata gerarchicamente: dopo le 11 dantesche di apertura seguono Cavalcanti, Guinizzelli, Cino e Lapo, con due soli inserti (Francesco da Barberino e Giovanni Bonandrea) rispetto al canone dantesco. Piú limitata la sezione dei sonetti, che comprende però alcuni pezzi unici.13 3. La tradizione del Dolce stil novo: il ramo fiorentino Il manoscritto principe del Dolce stil novo è senza dubbio il canzoniere Chigiano, cioè il ms. Chig. L vIII 305 della BAv.14 Il codice non reca indicazione esplicita dell’anno di copia e dunque la sua datazione va ricostruita attraverso l’analisi paleografica. Si possono distinguere 4 mani (A, B, C, 2013, pp. 157-69 (con ampia e aggiornata bibliografia). In precedenza, e non solo per questo codice, vd. la relazione di F. Brugnolo, Il libro di poesia nel Trecento, in Il libro di poesia dal copista al tipografo. Atti del Convegno di Ferrara, 29-31 maggio 1987, a cura di M. Santagata e A. Quondam, Modena, Panini, 1989, pp. 9-23. 13. Per la descrizione del codice e la tavola vd. Dante, Rime, 1. I documenti, ed. De Robertis cit., pp. 427-29. 14. Nella bibliografia critica il ms. è stato identificato con varie sigle, tra le quali ultimamente prevale Ch, utilizzata anche nel volume a esso interamente dedicato della serie Intavulare: vd. « Intavulare ». Tavole di canzonieri romanzi, iii. Canzonieri italiani, 1. Biblioteca Apostolica Vaticana Ch (Chig. L. VIII 305), a cura di G. Borriero, Città del vaticano, Biblioteca Apostolica vaticana, 2006 (con ampia e aggiornata bibliogr.). Una riproduzione fotografica del codice (cc. 1r-121v) è consultabile al sito internet http://vitanova.unipv.it a cura di Simone Albonico.

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D). La mano A è responsabile della copia di 534 su 543 componimenti e di tutta la Vita nuova. La mano B, identificabile con quella di Coluccio Salutati, aggiunge la canzone di Cino da Pistoia La dolce vista e ’l bel guardo soave, a c. 27v, nello spazio di fascicolo rimasto bianco alla fine del prosimetro dantesco. La mano C e la mano D sono coeve e piú tarde e si distinguono nelle ultime carte: la prima esempla 3 sonetti di Petrarca alla c. 120r, la seconda 4 sonetti e una canzone di Petrarca alle cc. 120v-121r. La mano principale A è una mano fiorentina di alto livello formale, riconducibile alla metà del XIv secolo (probabilmente attorno agli anni ’40). Appartiene a un copista di professione, non identificato, contemporaneo e prossimo a quel Francesco di Ser Nardo da Barberino che copiò due importanti codici dell’antica vulgata della Commedia: nel 1337 il Trivulziano 1080 e nel 13471348 il Gaddiano 90 sup. 125 della BML. Nel ms. Ch i componimenti si distribuiscono in 6 sezioni, in cui si alternano canzoni + ballate e sonetti. Nonostante la perturbazione nell’attuale ordinamento sia stata riconosciuta e persuasivamente risolta da Borriero, è certo che il copista abbia seguíto piú di una fonte, come prova almeno la presenza di 5 sonetti ripetuti in sezioni diverse.15 In ogni caso « Ch piú di ogni altra raccolta rispecchia il canone stilnovistico secondo l’impostazione dantesca »,16 e ciò è particolarmente evidente nella sezione iniziale che presenta in successione canzoni e ballate di Guinizzelli, Cavalcanti, Dante (compresa come si è detto tutta la Vita nuova), Cino, Lapo Gianni e Dino Frescobaldi (con pochi inserti allotri); e gli stessi autori tornano nella sezione dei sonetti. L’ortodossia di Ch risalta poi per la clamorosa assenza di Guittone, sebbene nella terza sezione sia distinguibile un percorso cronologico e storiografico che parte dai Siciliani. Al firewall ideologico – opposto a quello dei canzonieri duecenteschi ma altrettanto rigido – sfugge un solo sonetto dell’Aretino trascritto tra l’altro adespoto, Voi che penate di saver lo core (Ch331), che probabilmente ha eluso il filtro per questo incipit di chiaro gusto stilnovista. Il canzoniere Chigiano costituisce, dunque, « l’asse principale della tradizione stilnovistica fiorentina, non solo per l’autorevolezza della sua lezione e per l’abbondanza delle presenze, ma anche per essere stato al cen15. vd. Biblioteca Apostolica Vaticana Ch (Chig. L. VIII 305), cit., pp. 169-90. 16. Leonardi, La poesia delle origini, cit., p. 47.

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tro della ricezione e diffusione di quella poesia in età umanistica ».17 Le note di possesso confermano la sua presenza a Firenze fino a tutto il ’500, ma occorre segnalare che questa tradizione fiorentina si irradiò anche nell’Italia settentrionale, come dimostra il collaterale Triv. 1058 della Biblioteca Trivulziana di Milano, copiato a Treviso nel 1425 da Nicolò Benzoni, originario di Crema: oltre alla Vita nuova riconducibile al medesimo ramo denominato da Barbi k, i due ms. Ch e T contengono una serie di rime chiaramente attinta alla medesima fonte, come rivelano indubitabili sequenze, sebbene T « abbia fatto la sua copia a piú riprese e con criteri personali, aggiungendo rime anche da altre fonti, e sia venuto cosí a turbare l’ordine delle rime comprese nel Ms. donde trasse la Vita Nuova ».18 L’altro testimone importante della tradizione fiorentina è il ms. v2, cioè il vat. lat. 3214 della BAv, copia di un perduto codice di metà ’300 fatta allestire da Giulio Camillo per Pietro Bembo nel 1523. Il copista, identificato con il bolognese Pierantonio Salando, trascrive prima il Novellino e poi un’ampia serie di rime dove campeggiano gli stilnovisti con fitta presenza di testi ciniani.19 v2 oscilla tra la fonte fiorentina comune a Ch (e a P per i testi prestilnovistici) e la tradizione veneta di B ed E. Che anche questa tradizione si sia irradiata verso il nord è confermato dal codice vr1, conservato alla Biblioteca Capitolare di verona con la segnatura CCCCXLv. Il codice è « stato compilato tra la fine del XIv e l’inizio del Xv secolo da un unico copista di area settentrionale (probabilmente veronese), a partire da un antigrafo toscano-fiorentino »;20 leggermente diversa la datazione e la collocazione proposte da Claudio Giunta, per il quale la corsiva cancelleresca responsabile di quasi tutta quest’antologia poetica è databile al 1375-1400 e localizzabile in area padano-veneta.21 17. Ivi, p. 48. 18. Dante Alighieri, La Vita Nuova, per cura di M. Barbi, Firenze, Società Dantesca Italiana, 1907, p. clxxviii. 19. Per l’edizione diplomatica delle rime presenti in v2 cfr. Rime antiche italiane secondo la lezione del codice Vaticano 3214 e del codice Casanatense d. V. 5, Pubblicate per cura del dottor M. Pelaez, Bologna, Romagnoli-Dall’Acqua, 1895. 20. Si veda R. Capelli, Dante, dantismi e canone dantesco: alcuni spunti dal codice Capitolare CCCCXLV, in La lirica romanza del Medioevo, cit., pp. 795-824, a p. 795. La proposta di Roberta Capelli conferma la validità dell’opinione di Barbi (in V.n. 1907, p. xlix), che già collocava il ms. tra la fine del XIv e l’inizio del Xv secolo. 21. C. Giunta, Codici. Saggi sulla poesia del Medioevo, Bologna, Il Mulino, 2005, p. 63. A

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Insieme alla Vita nuova, trascritta alle cc. 1r-16r, il manoscritto contiene una raccolta di rime, tutte composte verosimilmente entro gli ultimi due decenni del ’300 e « la presenza di riferimenti diretti e indiretti a luoghi e personaggi di verona e dintorni induce ad eleggere proprio questo comprensorio come punto di partenza (e/o arrivo) per l’identificazione linguistica del nostro copista ».22 Riconosciuta questa prerogativa locale, secondo una ratio avvertibile anche in altre raccolte coeve, vr1 si caratterizza dal punto di vista del genere metrico per la preponderanza di sonetti e in particolare di tenzoni, e dal punto di vista storiografico quale un canone stilnovistico e soprattutto dantesco, come una sorta di testimonianza del perdurante culto di Dante nella verona di fine ’300.23 E tale disposizione ideologica è confermata dall’assenza sia di testi petrarcheschi sia della serie Dante-Cavalcanti-Petrarca-Boccaccio inaugurata dal fortunato K2 (il ms. Chigiano L v 176 della BAv autografo di Giovanni Boccaccio). 4. La Raccolta aragonese e la Giuntina di rime antiche In pieno ’400 alla « pratica meramente trascrittoria o contaminatrice dei copisti si sovrappone un intento propriamente editoriale, ricostruttivo ».24 Il frutto piú compiuto di questa operazione critico-filologica è la Raccolta aragonese, antologia della poesia italiana in prospettiva fiorentina allestita su iniziativa di Lorenzo de’ Medici con la collaborazione di Angelo Poliziano tra il 1476 e il 1477. Del « Libro di Ragona », inviato al committente Federico d’Aragona figlio del re di Napoli Ferdinando I, si perdono le tracce già nel ’500, ma esso è ricostruibile tramite alcuni derivati.25 La raccolta si apriva con Dante, presente con Vita nuova e rime precedute dalla sostegno della propria ricostruzione geografica e cronologica, Giunta riferisce in nota (l. cit.) un parere di Armando Petrucci. 22. vd. Capelli, Dante, dantismi, cit., p. 801. 23. Per la tavola dei testi antologizzati vd. Capelli, Dante, dantismi, cit., pp. 816-19, e, in precedenza, I manoscritti della Biblioteca Capitolare. Catalogo descrittivo redatto da don Antonio Spagnolo, a cura di S. Marchi, verona, Mazziana, 1996, pp. 441-43. 24. Leonardi, La poesia delle origini, cit., p. 50. 25. Il contenuto è stato ricostruito da Michele Barbi, sulla base di tre manoscritti: il codice Laurenziano XC inf. 37 della BML, il codice It. 554 della Biblioteca Nazionale di Parigi e il codice Pal. 204 della BNCF. vd. Barbi, Studi sul canzoniere, cit., pp. 215-326.

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biografia dantesca scritta dal Boccaccio, e proseguiva con Guinizzelli e Cavalcanti, Cino, Lapo Gianni e altri autori tre-quattrocenteschi, per concludersi con una selezione di testi dello stesso Lorenzo il Magnifico. Non mancano pezzi dei primi Siciliani e non viene escluso Guittone. L’epistola dedicatoria del Poliziano chiarisce l’intento storiografico dell’antologia, «che si presenta come una sistemazione organica della tradizione lirica toscana».26 Tra le fonti si possono riconoscere mss. antichi, e già ricordati, come L e Ch oltre alla silloge autografa di Boccaccio (K2). Si entra in pieno ’500, ma si rimane a Firenze per l’editio princeps della poesia italiana antica, un’operazione ben diversa dalla già citata stampa veneziana del 1518, che si fondava prevalentemente su Dante e Cino. Allestita e pubblicata il 6 luglio 1527 da un gruppo di filologi fiorentini, guidati da Bardo Segni, presso la stamperia dei Giunti, la cosiddetta Giuntina di rime antiche costituisce, infatti, un momento significativo per la tradizione filologica cinquecentesca. L’antologia è suddivisa in 11 libri: su tutta la raccolta si impone Dante, al quale sono riservati i primi quattro libri, cui seguono con un libro ciascuno Cino da Pistoia, Guido Cavalcanti, Dante da Maiano (per il cui corpus la stampa è testimone fondamentale) e Guittone d’Arezzo. Infine, chiudono la silloge il nono libro di Canzoni e ballate di diversi autori dedicato a dodici diversi poeti, ciascuno rappresentato da una canzone o una ballata (da Guinizzelli ad autori minori siciliani e toscani due-trecenteschi), il decimo comprendente Canzoni di autori incerti e Sestine ritrovate in uno antichissimo testo insieme con la sestina di Dante, e un undicesimo che presenta rime di corrispondenza.27 Rispetto al formato in ottavo, tutt’altro che esiguo appare il contenuto del volume, visto che in 142 carte sono raccolti 289 componimenti. Cinque anni dopo la raccolta viene ristampata a venezia: cambia il tipografo, ma la nuova stampa è perfettamente uguale sia nella macrostruttura sia nella prefazione, dove rimane la dedica composta da Bernardo Giunti ai lettori. Considerate le peculiarità dell’editoria cinquecentesca, l’operazione risulta alquanto singolare. Perché Nicolini da Sabbio realizza 26. Leonardi, La poesia delle origini, cit., p. 51. 27. Per un ampio studio della Giuntina e per la sua riproduzione anastatica vd. Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani, a cura di D. De Robertis, Firenze, Le Lettere, 1977, 2 voll.

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una copia perfettamente identica senza modificare nemmeno il paratesto – anche quello solitamente adoperato per ottenere finanziamenti privati, come pure la dedica – e senza lasciare tracce del proprio lavoro editoriale? Si potrebbe supporre che l’edizione del 1532 sia una vera e propria ristampa voluta e finanziata dagli stessi Giunti, i quali, utilizzando un abile ed esperto tipografo attivo a venezia, intendono proporre nella città principe dell’editoria europea cinquecentesca una raccolta poetica che presenta un modello culturale alternativo al canone petrarchesco che si stava imponendo con Pietro Bembo: tempo, luogo, modalità editoriali profumano di sfida.28 Che la Giuntina sia comunque un punto fermo per i cultori cinquecenteschi di rime antiche lo dimostrano sia i molti esemplari postillati, tra i quali spicca la copia L 1144 della Biblioteca Trivulziana di Milano, sia e soprattutto la cosiddetta Raccolta Bartoliniana, concepita come integrazione dell’antologia del 1527. Su un codice cartaceo – l’attuale Bart. 53 della Biblioteca dell’Accademia della Crusca – l’abate e patrizio fiorentino Lorenzo Bartolini allestí una raccolta di rime a partire da tre codici antichi ora scomparsi.29 Il lavoro di copiatura e di collazione fu verosimilmente compiuto a Padova nel 1529 e fu realizzato grazie ai testi prestatigli da Ludovico Beccadelli, Giovanni Brevio e Pietro Bembo. La raccolta è distinta in varie sezioni e in essa i poeti del Dolce stile vantano una cospicua presenza.30 Per ciascuna delle prime dieci sezioni (quelle aperte sin da principio), il Bartolini cominciò col trascrivere poesie dal ms. di Beccadelli; venne poi in possesso del codice del Brevio, e alle poesie già scritte notò in margine, con inchiostro nero, le varianti di questo ms., e delle nuove copiò il 28. Per questa ipotesi vd. C. Giordano, Una stampa cinquecentesca di rime antiche, Tesi di laurea triennale in Filologia italiana, Università degli Studi di Torino, a.a. 2012-2013, relatore D. Pirovano. 29. vd. ancora il fondamentale libro di Barbi, Studi sul canzoniere, cit., pp. 119-206; oltre ai 3 codici di riferimento Bartolini usò in un solo caso un codice appartenuto a Buonarroti, per il sonetto del Petrarca ad Antonio da Ferrara Perché non caggi ne l’oscure cave. Il postillato trivulziano è opera del medesimo Bartolini, come dimostrano le annotazioni manoscritte e anche l’inchiostro rosso che gli serví pure per Bart. 53. La Giuntina trivulziana è una integrazione del lavoro manoscritto compiuto sul codice ora conservato alla Biblioteca dell’Accademia della Crusca. 30. Per la tavola vd. ivi, pp. 133-53.

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testo per esteso dopo le prime, seguendo l’ordine della fonte e aggiungendo in fine altre tre sezioni; avuto finalmente alle mani il testo del Bembo, trascrisse di séguito alle prime e alle seconde altre poesie, e in margine a quelle già trascritte dalle altre fonti notò in rosso nuove varianti: se già le medesime varianti erano state indicate in nero sul testo del Brevio, le sottolineò di rosso, oppure sottolineò di rosso le lezioni del testo fondamentale quando il ms. Bembo, piuttosto che con il ms. Brevio, concordava con il ms. Beccadelli. Abbiamo quindi varianti nere (dal ms. Brevio), varianti in rosso (dal ms. Bembo), varianti in nero sottolineate in rosso (lezioni comuni ai mss. Brevio e Bembo), e anche lezioni del testo fondamentale sottolineate in rosso (lezioni comuni ai mss. Beccadelli e Bembo e differenti da quelle del ms. Brevio).31 Michele Barbi è riuscito a dimostrare con acribia le parentele dei tre manoscritti perduti: il testo base del Beccadelli è un collaterale di v2 e congiunto con alcune sezioni del ms. 1289 della Biblioteca Universitaria di Bologna (Bo1), il ms. del Brevio è un derivato della Raccolta Aragonese e il codice del Bembo è un parallelo di Ch.

31. vd. ivi, pp. 124-25.

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vI I L PADRE M IO E DEG LI ALTRI M I EI M IG LIOR: G UI D O G UI N I ZZ ELLI

1. Vita Alla luce delle recenti ricerche d’archivio è ormai definitivamente tramontata l’ipotesi secondo la quale il poeta Guido Guinizzelli possa essere riconosciuto con un Guido della nobile famiglia bolognese dei Príncipi, identificazione a lungo approvata dagli studiosi sulla base dell’autorevole parere di Benvenuto da Imola: « iste quidem fuit miles bononiensis de clarissima familia principum vocatus Guido Guinicellus. Guinicelli enim fuerunt unum membrum de principibus pulsis de Bononia seditione civili, quia imperiales erant » (‘questi fu invero un cavaliere bolognese dell’illustrissima famiglia dei Príncipi, chiamato Guido Guinicello. I Guinicelli furono infatti parte di quegli influenti cittadini che vennero espulsi da Bologna per sedizione, perché imperiali’).1 Da un aggiornato esame delle fonti archivistiche si evince, infatti, che Guido Guinizzelli nacque, probabilmente intorno al terzo decennio del ’200, da Guinizzello Magnani e Ugolina di Ugolino da Tignano: il poeta era il secondogenito; prima di lui venne alla luce, intorno al 1219, il fratello Giacomo, e dopo Guido la sorella Bartolomea. Successivamente Guinizzello sposò Guglielmina di Ugolino Ghisilieri, dalla quale ebbe altri due figli: vermiglia e Uberto.2 La famiglia faceva parte della piccola nobiltà felsinea. Legati ad altre casate dell’ambiente giuridico, di orientamento filoghibellino e dunque seguaci dei Lambertazzi, i Guinizzelli risiedevano sulla Piazza Maggiore di Bologna e avevano case nella cappella di San Benedetto di Porta Nuova, 1. vd. Benvenuto de’ Rambaldi da Imola, Comentum super Dantis Aldigherij ‘Comoediam’, nunc primum integre in lucem editum sumptibus G.W. Vernon, curante I.Ph. Lacaita, Firenze, Barbèra, 1887, Purg., xxvi 22-24. 2. Per la biografia di Guinizzelli vd. soprattutto A. Antonelli, Nuovi documenti sulla famiglia Guinizzelli, in Da Guido Guinizzelli a Dante, cit., pp. 59-105.

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vi. il padre mio e degli altri miei miglior: guido guinizzelli

oltre che varie proprietà nel contado: si tratta di una precisa strategia politica di coordinamento di famiglie magnatizie tutte di Parte lambertazza, che avvertivano l’urgenza di rafforzare i vincoli parentali in una concentrazione residenziale all’interno e all’esterno della città. Si può interpretare in quest’ottica anche il matrimonio di Guido con Beatrice, figlia di Gruamonte della Fratta: da questa unione nacque Guido, o Guiduccio, intorno al 1260. Le prime informazioni pubbliche riguardanti Guido Guinizzelli risalgono proprio a questi anni e si trovano registrate nei già ricordati Memoriali bolognesi, dove compare come testimone e poi come iudex. Tali documenti attestano, dunque, che Guido seguí la carriera giuridica del padre, di cui dovette condividere le idee, le scelte politiche e la strategia familiare, a differenza, probabilmente, dei fratelli. Altri documenti registrano un’attività di commercio librario, condotta sia da Guinizzello sia dal figlio, fonte di entrata ma anche di diretto e stimolante contatto con il vivace mondo universitario bolognese, e in questo senso sono interessanti – anche in rapporto all’attività poetica di Guido – le occasioni di scambio con studenti provenienti dalle regioni gallo-romanze. Problemi familiari interessarono la famiglia Guinizzelli a partire dal 1269: si produce una lacerazione che porta i tre figli a voler amministrare autonomamente il patrimonio («tanquam patres familias») e la seconda moglie Guglielmina Ghisilieri, di Parte geremea, a lasciare il tetto coniugale, forse per motivi politici o probabilmente a causa di una seria malattia mentale del marito, che in alcuni documenti tardi viene qualificato come « mentecattus ». Frattanto, a partire dal 1270 Guido e la sua famiglia avevano preso casa nella cappella di San Benedetto di Porta Nuova. Nel 1274 lo scoppio violento degli scontri di parte tra Lambertazzi e Geremei e la vittoria di questi ultimi travolge Guido e i suoi familiari. Pare tuttavia che il bando della Parte lambertazza non l’abbia colpito direttamente: nessun documento certifica che Guido Guinizzelli sia stato esiliato a Monselice (PD) o ad Argenta (FE), probabilmente perché, sebbene avesse subíto la condanna, la morte lo colse prima di partire per l’esilio. Egli, infatti, pur comparendo sempre negli elenchi dei Lambertazzi condannati, non figura mai in quelli di coloro che si rifugiarono a Monselice. Guido morí prima del 14 novembre 1276, data di un documento in cui la moglie Beatrice assume la tutela legale del figlio Guiduccio. 267

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2. Guinizzelli nel solco della tradizione L’esame della tradizione manoscritta delle poesie di Guido Guinizzelli rivela il ruolo che gli fu riconosciuto nel delicato passaggio dalla stagione siciliana e siculo-toscana al Dolce stil novo: se la maggior parte dei suoi testi è conservata anche nei tre grandi canzonieri della poesia del ’200 (v, L e P), è proprio con le sue canzoni che comincia la collezione del codice Chigiano (Ch), che come si è visto può essere considerata la silloge canonica della tradizione stilnovista. La presenza di Guinizzelli nelle antologie delle Origini non deve stupire se si pensa alle circostanze anagrafiche: Guido è piú anziano di Guittone d’Arezzo e contemporaneo di Bonagiunta Orbicciani, e muore vent’anni prima di loro; cosí come quasi vent’anni dopo la sua morte venne composta la Vita nuova. Il suo esiguo corpus sopravvissuto – cinque canzoni e quattordici sonetti certi, di cui due di tenzone con Bonagiunta Orbicciani e Guittone, per i quali vd. pp. 105-22 – si innesta prevalentemente in una precisa tradizione, che risale alla poesia provenzale e ai modi siciliani, entrambi ben documentati a Bologna, come dimostra la fitta presenza di studenti oltremontani nello Studio e la lunga prigionia di re Enzo (1249-1272).3 Nella canzone Madonna, il fino amor ched eo vo porto (Guinizzelli, ii), l’amore puro (la fin’amors dei provenzali) è gioia ed esaltazione, ma presto sopraggiunge lo scoramento, inevitabile conseguenza della presa di coscienza degli inganni dell’amore. La donna non ricambia il sentimento, 3. Tra i testi dubbi si devono segnalare i due frammenti attribuiti a Guido e conservati da Francesco da Barberino nel Reggimento e costumi di donna (vd. Guinizzelli, f. i e f. ii); e la canzone di re Enzo S’eo trovasse Pietanza, le cui stanze finali, secondo alcuni, sarebbero state composte con la collaborazione di Guinizzelli, ipotesi non peregrina ma decisamente debole. va ormai esclusa la paternità guinizzelliana a In quanto la natura (di Bonagiunta, vd. Bonagiunta, canz. d. 1); Con gran disio pensando lungamente (probabilmente di Bonagiunta, vd. Bonagiunta, canz. d. 2); Donna, lo fino amore (forse di Guido Ghisilieri); Gentil donzella, di pregio nomata (di Maestro Rinuccino). Forti dubbi suscitano, infine, le due stanze della canzone De fermo sofferire, tràdite dal ms. v2 e attribuite a Simone Rinieri di Firenze, oscuro personaggio del quale non si conoscono altri versi. Il nome di Guinizzelli era stato fatto da Pio Rajna, perché un incipit simile (Di fermo sofferire) è citato da Dante in D.v.e., ii 12 6, e assegnato a Guido in un contesto di evidente impronta felsinea (sono citati 3 poeti bolognesi).

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ma Amore la spinge comunque ad alimentare la passione dell’innamorato, affinché egli muoia disamato. Nel componimento il dialogo con la tradizione occitanica e siciliana è fitto, come dimostra per esempio la v stanza in cui compare l’immagine dei monti della calamita (Guinizzelli, ii 49-60): In quella parte sotto tramontana sono li monti de la calamita, che dàn vertud’ all’aire di trar lo ferro; ma perch’ è lontana, vòle di simil petra aver aita per farl’ adoperare, che si dirizzi l’ago ver’ la stella. Ma voi pur sète quella che possedete i monti del valore, unde si spande amore; e già per lontananza non è vano, ché senz’ aita adopera lontano.

Nel Medioevo si favoleggiava di monti delle regioni settentrionali presso i quali l’aria aveva la proprietà di attirare il ferro. Questa credenza fu presto impiegata nella poesia d’amore e la metafora ebbe enorme fortuna, come dimostrano tra gli altri i poeti provenzali Bernart de ventadorn e Aimeric de Peguilhan, e i poeti siciliani Guido delle Colonne, Pier della vigna e Mazzeo di Ricco. Per Guido, mentre la calamita attrae attraverso il medium dell’aria, la donna opera direttamente, pur a distanza. Questa forza irresistibile della donna risulta centrale anche in Tegno de folle ’mpres’, a lo ver dire (Guinizzelli, i) e in Lo fin pregi’ avanzato (Guinizzelli, v); quest’ultima è una canzone di difficile interpretazione per il lessico, per le rime identiche ed equivoche e per una diffusa tendenza alla equivocatio spinta all’estremo; si legga per esempio la iv stanza (Guinizzelli, v 40-52): D’un’amorosa parte mi vèn voler ch’è sole, che inver’ me piú sòle che non fa la pantera, ched usa in una parte

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il dolce stil novo che levantisce sole: ché di piú olor s’ole su’ viso che pantera. Anche in vo’ i’ spero merzé che non dispero, perch’ è ’n voi pïetate, fin pregio, bon volere, per ch’è a voi voler – lo meo cor pare.

‘Da una persona che sprigiona amore procede nel poeta una volontà che è come un sole, che suole operare su di lui piú di quanto non operi la pantera, che vive nelle regioni in cui sorge il sole. Il viso della donna profuma piú di quello della pantera. L’io lirico non rinuncia all’amore e attende la grazia dalla donna, perché in lei vi sono pietà, perfetto amore e buona volontà di ricambiare il sentimento; per questo il cuore del poeta è costante nel desiderare la donna’. Non occorre pensare a Guittone per giustificare l’oltranza stilistica di questo testo. La canzone rappresenta piuttosto un esempio di trobar clus di ispirazione occitanica. In ogni caso è facile rilevare che metro, forma e immagini sono lontanissimi dalle peculiarità della poesia stilnovistica. Prescindendo dalla marcata oscurità del dettato, si ricorderà, infatti, che Cino si contrapponeva a Onesto e ai poeti piú fedeli alla tradizione scrivendo: « e senza essempro di fera o di nave, / parliam sovente, non sappiendo a cui, / a guisa di dolenti a morir messi » (Cino, cxxxiiib 12-14). Guinizzelli non rinuncia invece a ricorrere al repertorio tradizionale, come in questo caso, in cui riprende dai bestiari il motivo della pantera, la quale attrae con il suo profumo gli altri animali, un’immagine che ebbe una grande diffusione anche nella poesia d’amore, come dimostrano tra gli altri Guido delle Colonne e Chiaro Davanzati. Dunque, anche in un testo retoricamente spinto all’eccesso come il precedente, Guinizzelli non sembra per nulla attratto dall’orbita guittoniana. La sua posizione di indipendenza rispetto al poeta aretino emerge piú limpidamente in Donna, l’amor mi sforza (Guinizzelli, iii), canzone di soli settenari che rimanda fittamente a Madonna, dir vo voglio di Giacomo da Lentini, ma che si iscrive anche in un dibattito sull’idea di amore che coinvolge vari poeti prestilnovisti. Contro la concezione di Guittone espressa in Amor tanto altamente, Guido – e con lui altri interlocutori in un vero e 270

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proprio circolo dialogico – pare recuperare la centralità della lezione lentiniana, iscrivendola sotto il segno di un destino drammatico.4 Rimanda poi direttamente alla poesia occitanica il sonetto Lamentomi di mia disaventura (Guinizzelli, xi), che esprime il destino avverso del poeta irresistibilmente innamorato di una donna non disposta a ricambiare il sentimento. viene, dunque, ripreso il motivo tipicamente cortese dell’amare senza essere riamato, e infatti nel testo si possono cogliere punti chiave della risposta di Chrétien de Troyes a Raimbaut d’Aurenga (cfr. in particolare D’amors qui m’a tolu a moi), spie di un diretto contatto di Guinizzelli con la poesia d’oltralpe.5 In un dialogo fitto con il grande canto cortese e con la stagione siciliana, il motivo che sembra piú caratterizzare la poesia di Guido è quello della luminosità: sole, stelle, fulmine, fuoco, luce, pietre preziose scintillanti, aria luminosa, cielo terso sono cosí densamente presenti, che forse non a caso nel già citato sonetto Voi, ch’avete mutata la mainera, Bonagiunta contrapponeva provocatoriamente la scarsa luce del bolognese all’« alta spera » della sua poesia (Bonagiunta, son. 20 5-8): avete fatto como la lumera ch’a le scure partite dà sprendore, ma non quine, ove luce l’alta spera la quale avansa e passa di chiarore.

Un trionfo di luce è per esempio la iv stanza di Tegno de folle ’mpres’, a lo ver dire (Guinizzelli, i 31-40): Ben è eletta gioia da vedere quand’ apare ’nfra l’altre piú adorna, ché tutta la rivera fa lucere e ciò che l’è d’incerchio allegro torna; la notte, s’aparisce, come lo sol di giorno dà splendore, cosí l’aere sclarisce: onde ’l giorno ne porta grande ’nveggia, 4. Cfr. R. Antonelli, Dal Notaro a Guinizzelli, in Da Guido Guinizzelli a Dante, pp. 10746, partic. p. 135. 5. Cfr. ivi, pp. 137-38.

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il dolce stil novo ch’ei solo avea clarore, ora la notte igualmente ’l pareggia.

Già nella stanza precedente Guido aveva detto della sua donna che era un « lucente sole » e una selezionata e rara pietra preziosa. Ora, riprendendo – secondo la tecnica delle coblas capfinidas – l’immagine dell’« eletta gioia », predica (si ricordi la clausola dell’incipit « a lo ver dire ») della sua donna una superiorità sulle altre, la quale si manifesta in una luminosità che fa risplendere l’aperta campagna (« rivera ») e infonde gioia in tutto ciò che la circonda; il suo potere è tale che, se appare di notte, manda luce splendente come il sole di giorno, paragone di origine biblica, attivo anche in altri poeti come il trovatore Cercamon e l’italiano Chiaro Davanzati.6 Le immagini luminose sono certamente tradizionali, ma l’insistenza di Guido potrebbe anche essere debitrice di un certo interesse per l’ottica – cui fu sensibile già Giacomo da Lentini –,7 e soprattutto per la metafisica della luce di matrice francescana, allora di attualità grazie soprattutto a Bartolomeo da Bologna, che fu maestro di teologia a Parigi e poi successore di Matteo d’Acquasparta come rettore della scuola teologica bolognese nella seconda metà del XIII secolo.8 Nel piccolo corpus prevalentemente d’amore vanno poi ricordati due sonetti di contenuto morale, àmbito tematico ed espressivo che caratterizza anche la già analizzata risposta di Guido alla provocazione di Bonagiunta (vd. pp. 109-11). Simili presenze non devono sorprendere nella poesia delle Origini; anzi proprio l’Orbicciani scrisse vari componimenti su temi etici. Non si deve poi dimenticare che Guido era uno iudex e che 6. Per la Bibbia vd. Ps., 138 12: « quia tenebrae non obscurabuntur a te et nox sicut dies inluminabitur sicut tenebrae eius ita et lumen eius » (‘nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte è chiara come il giorno; per te le tenebre sono come luce’); e Is., 58 10: « orietur in tenebris lux tua et tenebrae tuae erunt sicut meridies » (‘allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio’); inoltre vd. Cercamon, Quant l’aura doussa s’amarzis, 21-22: « Quan totz lo segles brunezis, / de lai on ylh es si resplan »; e Chiaro Davanzati, La gioia e l’alegranza, 21-24: « ché·llà ove fa aparenza / lo scuro fa chiarire, / e face il sol venire / là ovunque è ’n presenza ». 7. vd. per esempio Giacomo da Lentini, Or come pote sí gran donna entrare; e Tonelli, De Guidone, cit., pp. 479-84. 8. Sul ruolo del francescano Bartolomeo, autore del trattato De luce, vd. soprattutto Roncaglia, pp. 23-24.

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spesso è citato con l’epiteto di “saggio”, certamente esperto d’amore, ma non solo. Il sonetto Pur a pensar mi par gran meraviglia (Guinizzelli, xiv) è una riflessione sull’umana tendenza ad accumulare beni terreni, ignorando la morte comune e il destino ultraterreno di ogni uomo. Nel sonetto Fra l’altre pene maggio credo sia (Guinizzelli, xv), Guido si rivolge a un religioso o « a un interlocutore che sembra in procinto di sottomettersi a una rigida regola»,9 per invitarlo a ponderare saggiamente la sua decisione; infatti il servizio a Dio comporta la maggiore delle ricompense, ma esso richiede un atto di consapevole volontà. 3. Guinizzelli comico La compresenza di registri diversi è attiva in molti poeti del ’200. Non stupisce, dunque, se Guinizzelli – e dopo di lui anche Cavalcanti, Dante, Cino e Gianni Alfani (per rimanere nel novero dello Stilnovo canonico) – non disdegni di esperire differenti modalità espressive. Il sonetto Volvol te levi, vecchia rabbïosa (Guinizzelli, xvii) sviluppa il tema tradizionale del vituperio contro la vecchia laida e megera, alla quale sono augurate infauste punizioni, per le quali dovrebbero concorrere eventi atmosferici (vortici, turbini e saette) e uccellacci (avvoltoi, nibbi e corvi). Etica e passione erotica si intrecciano, invece, nel sonetto Chi vedesse a Lucia un var capuzzo (Guinizzelli, xvi), testo di eros violento ed esplicito (in particolare la i terzina), che alcuni hanno individuato come causa dell’« ascrizione dantesca del Guinizzelli ai lussuriosi »:10 Chi vedesse a Lucia un var capuzzo in cò tenere, e como li sta gente, e’ non è om de qui ’n terra d’Abruzzo che non ne ’namorasse coralmente. Par, sí lorina, figliuola d’un tuzzo de la Magna o de Franza veramente; e non se sbatte cò de serpe mozzo come fa lo meo core spessamente. Ah, prender lei a forza, ultra su’ grato, 9. Guinizzelli, Rime, ed. Rossi cit., p. 62. 10. Contini, p. 43. È tuttavia ipotesi debole (vd. quanto già detto alle pp. 69-70).

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il dolce stil novo e bagiarli la bocca e ’l bel visaggio e li occhi suoi, ch’èn due fiamme de foco! Ma pentomi, però che m’ho pensato ch’esto fatto poria portar dannaggio ch’altrui despiaceria forse non poco.

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‘Non c’è nessuno da qui fino all’Abruzzo che non si innamori sinceramente di Lucia quando veda come è elegante con in testa un cappuccio di pelliccia di vaio. Cosí pezzata, sembra davvero figliuola di un tedesco di Germania o di Francia; e non si sbatte cosí frequentemente il capo mozzato di una serpe come fa il mio cuore. Ah, poterla prendere a forza, contro la sua volontà, e baciarle la bocca e il bel viso e gli occhi che sono due fiamme ardenti! Ma mi pento, perché ho pensato che questo fatto potrebbe recare un danno che dispiacerebbe non poco ad altri’. Il sonetto, di evidente registro comico (basti pensare alle rime in -uzzo e all’icastica immagine della serpe mozzata dei vv. 7-8), riprende il diffuso tema dello stupro, ma non vi sono elementi sufficienti a sostenere la tesi di una dipendenza diretta del testo dalla tradizione francese, provenzale o mediolatina in genere: in particolare la riscrittura di Guinizzelli si caratterizza per l’ambientazione cittadina e il pentimento finale, assenti nei modelli d’oltralpe. Per decodificare piú compiutamente il testo risulta innovativa e interessante la proposta di Paolo Borsa,11 secondo la quale la composizione del sonetto potrebbe collocarsi nel periodo in cui Guinizzelli, nella sua qualità di iudex, fu richiesto del proprio parere legale su un caso di stupro avvenuto a Bologna: un tale Manzolo di professione orefice aveva condotto a forza nella propria bottega Giacomina, figlia di Bertolo Bonfiglio, e qui avrebbe ripetutamente abusato di lei per due notti e un giorno. Il colpevole fu processato e bandito. Il parere di Guinizzelli, del marzo 1268, fu trascritto sulla stessa carta che reca la registrazione della condanna dell’orefice, ed è posto a suggello della sentenza definitiva che stabilisce la cancellazione del bando in virtú di un accordo tra le parti, di cui si ignorano i dettagli. Accettando questa ipotesi, è possibile allora datare il testo alla fine del 1268, come confermerebbe anche l’eco di precisi riferimenti storici, quale lo scontro deci11. vd. Borsa, La nuova poesia, cit., pp. 205-37.

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sivo tra gli eserciti di «Magna» e «Franza» avvenuto a Tagliacozzo (in terra d’Abruzzo dunque) il 23 agosto 1268; e forse anche l’immagine della serpe con la testa mozzata potrebbe far «scorgere un sottile riferimento proprio alla decollazione di Corradino di Svevia, ultimo discendente di una dinastia tradizionalmente designata dalla propaganda guelfa come ‘razza di vipere’ (e si osservi che la serpe è associata a Corradino anche da Monte Andrea, esule proprio a Bologna tra il ’67 e il ’74)»,12 tesi che però potrebbe contrastare con la militanza ghibellina di Guinizzelli. 4. La novità di Guinizzelli Compulsando l’esiguo canzoniere, restano pochi documenti per assegnare a Guido la patente di stilnovista o almeno quella di precursore del Dolce stile, tanto piú che dalla metrica egli non può certo guadagnare punti: in questo àmbito, infatti, Guinizzelli si tiene stretto nell’alveo della tradizione come rivelano i frequenti settenari nelle canzoni (Guinizzelli, iii e v sono solo di settenari e nessuna sua canzone è di soli endecasillabi), l’assenza di combinatio e di concatenatio (tranne un caso) – cioè degli elementi poi privilegiati da Dante nella canzone secondo il D.v.e. –, e gli schemi dei sonetti, tutti con rime alternate nella fronte e alternate o replicate nella sirma, cioè i modelli rimici piú antichi; in tale àmbito appaiono ben piú innovatori Guittone e Monte Andrea.13 Non c’è dubbio però che a un certo punto Guido seppe proporre qualcosa di nuovo, che suscitò il fastidio dei contemporanei (per la reazione di Guittone vd. pp. 111-14) e aprí la strada a Cavalcanti e a Dante. Nei sonetti Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo, Vedut’ ho la lucente stella diana, Io vo’[glio] del ver la mia donna laudare (vd. rispettiv. Guinizzelli, vi, vii e x), elementi tradizionali vengono proposti in modo nuovo e con un dettato piú piano. volgendo le figure di “sopravanzamento” della tradizione in inedite equiparazioni, Guinizzelli rinnova il tema della lode della donna e contamina la lirica d’amore con la poesia sacra. Mentre Guittone vuole tenere 12. Ivi, pp. 234-35. 13. Non restano ballate di Guinizzelli, a meno di considerare reliquia di ballata il primo frammento tramandato da Francesco da Barberino (vd. Guinizzelli, f. i): vd. in proposito Giunta, La poesia, pp. 136-38.

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ben distinti i due piani di poesia d’amore e poesia religiosa, Guido propone una dilatazione delle potenzialità semantiche della lirica erotica, cosí da superare l’impasse determinata dalla sempre piú sclerotizzata ripetizione dei clichés cortesi, per mezzo di una poesia aperta alle nuove sollecitazioni culturali. Rimandando alle pp. 196-97 per il sonetto Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo, leggiamo ora Vedut’ ho la lucente stella diana (Guinizzelli, vii): vedut’ ho la lucente stella diana, ch’apare anzi che ’l giorno rend’ albore, c’ha preso forma di figura umana; sovr’ ogn’ altra me par che dea splendore: viso de neve colorato in grana, occhi lucenti, gai e pien’ d’amore; non credo che nel mondo sia cristiana sí piena di biltate e di valore. Ed io dal suo valor son assalito con sí fera battaglia di sospiri ch’avanti a lei de dir non seri’ ardito. Cosí conoscess’ ella i miei disiri! ché, senza dir, de lei seria servito per la pietà ch’avrebbe de’ martiri.

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L’impasto tradizionale di questo componimento è stato indagato in un denso studio di Furio Brugnolo letto al Convegno di Monselice del 1976, in occasione del « centenario ipotetico » del poeta.14 Il sonetto risulta incentrato sull’epifania della donna, vera e propria incarnazione della stella del mattino. Per esprimere la sua bellezza prodigiosa e la sua perfezione, Guinizzelli equipara l’amata alle forme naturali – stella del mattino, neve, fiore di melograno o cocciniglia –,15 secondo un modello analogico proprio della liturgia mariana e della poesia sacra: si ricordino almeno l’antica preghiera dedicata alla Madonna, Ave maris stella, risalente al IX sec., se 14. vd. p. 113. L’espressione è il titolo dell’intervento di Gianfranco Folena che inaugura il convegno: cfr. G. Folena, Un centenario ipotetico, in Per Guido Guinizzelli, cit., pp. 1-8; e cfr. Brugnolo, Parabola, cit., pp. 53-105 15. Per alcuni commentatori « grana » è il colore rosso del fiore di melograno, per altri il rosso carminio estratto dai corpi secchi della cocciniglia.

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non prima; e nella Bibbia, due versetti del Cantico dei Cantici, 5 10: « dilectus meus candidus et rubicundus » (‘il mio diletto è bianco e vermiglio’), e 6 9: « quae est ista quae progreditur quasi aurora consurgens, pulchra ut luna, electa ut sol terribilis, ut acies ordinata? » (‘Chi è costei che sorge come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere a vessilli spiegati?’). Secondo una modalità costante in Guido, la descrizione è un trionfo di luce, cui contribuisce anche l’incarnato e lo scintillio dello sguardo della donna. Di fronte a un simile splendore l’io lirico rimane inebetito ed entra in uno stato di afasia. Restano solo sospiri, ed è reazione che produrrà i suoi effetti sia in Cavalcanti sia nella Vita nuova. Analogamente, nel sonetto Io vo’[glio] del ver la mia donna laudare (Guinizzelli, x), la laus mulieris viene condotta non secondo il consueto modulo del sopravanzamento, ma attraverso l’equiparazione della donna alle altre creature, secondo un modulo tipico della poesia religiosa, come rivelano del resto anche i rimandi al Cantico dei Cantici, 1 8; 2 2; 6 9, e all’Ecclesiasticus, 50 6-10: Io vo’[glio] del ver la mia donna laudare ed asembrarli la rosa e lo giglio: piú che stella dïana splende e pare, e ciò ch’è lassú bello a lei somiglio. verde river’ a lei rasembro e l’âre, tutti color di fior’, giano e vermiglio, oro ed azzurro e ricche gioi per dare: medesmo Amor per lei rafina meglio. Passa per via adorna, e sí gentile ch’abassa orgoglio a cui dona salute, e fa ’l de nostra fé se non la crede; e non le pò apressare om che sia vile; ancor ve dirò c’ha maggior vertute: null’ om pò mal pensar fin che la vede.

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Nelle quartine c’è il ritratto statico della donna. Gli elementi naturali, in un turbinio di luci e di colori, si assiepano a esprimere la sua straordinaria bellezza: l’altro Guido ne trasse frutto per due suoi sonetti (vd. Cavalcanti, ii e iii). Nelle terzine questa splendida donna anonima incede per via, e in questo suo camminare e salutare già si intravede il profilo della Beatrice della Vita nuova. 277

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5. Al cor gentil Possiamo attribuire a Guido la patente di stilnovista soprattutto in virtú del pacchetto di punti guadagnati con Al cor gentil rempaira sempre amore (Guinizzelli, iv). Quel testo eterodosso, che frastornò Bonagiunta e indispettí Guittone (vd. rispettiv. pp. 108-9 e 118-19), suscitò súbito una vasta eco tra i rimatori toscani come Monte Andrea e Chiaro Davanzati, ma la sua fama nacque con Dante, che la citò ripetutamente: V.n., xx 3, Conv., iv 20 7, D.v.e., i 9 3 e ii 5 4, Inf., v 100 e Purg., xxii 10-11. Per la verità quel componimento era tutt’altro che rivoluzionario. Nata in un preciso contesto culturale, animato da un fitto dibattito, e interpretabile in un’ottica intranobiliare con l’intento di confutare le richieste di gruppi sociali, storicamente determinati, di fondare il concetto di nobiltà in base al solo criterio ereditario, la canzone di Guido, infatti, non avanzava tesi sovversive:16 ciò che interessava a Guinizzelli a livello politico e sociale non era tanto promuovere un’idea di nobiltà basata sulla virtú individuale a prescindere dalla classe – Guido era tutt’altro che un anacronistico estremista – quanto, piuttosto, confutare le altezzose pretese ereditarie fondate esclusivamente sul lignaggio e su nessun merito personale; nel rifiuto della pura ereditarietà del titolo non vi era, dunque, nulla di radicale né di sconvolgente, perché Guinizzelli non esprimeva nessuna condanna esplicita della nobiltà di sangue. Anche l’idea guida della coesistenza e della reciprocità di amore e cuore di raffinata sensibilità era tutt’altro che originale. Essa è la sostanza genetica della trobadorica fin’amors, ma le sue radici affondano nei terreni ancora piú profondi del pensiero antico e in particolare dell’etica stoica. Semmai la vera novità di Al cor gentil era proprio la riabilitazione sul piano etico della piú nobile teoria dell’amor cortese (l’«amor purus») – non escluso, lo abbiamo visto (pp. 218-20), un difficile compromesso con la religione –, in un periodo in cui il piú autorevole poeta italiano, Guittone d’Arezzo, aveva perentoriamente chiuso con la poesia d’amore e aveva nettamente separato materia erotica e materia morale. L’altro contributo veramente innovativo di Guinizzelli risiede nel ravvivamento dell’idea fondante della fin’amors grazie a una piú robusta sostanza speculativa, che si avvale del fervido 16. Borsa, La nuova poesia, cit., pp. 147-93.

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dibattito filosofico contemporaneo, dalla dialettica aristotelica potenzaatto alle fulgide immagini desunte dalla fisica, alle aperture metafisiche. Nella canzone, tuttavia, l’armamentario teoretico e scientifico non soffoca, ma esalta il riconoscimento della naturalità dell’amore e del potere nobilitante di eros. L’amore è, infatti, la causa intrinseca « di ogni piú eletta disposizione spirituale dell’uomo » (Marti, p. 234). La naturalità dell’amore prorompe fin da súbito (Guinizzelli, iv 1-10): Al cor gentil rempaira sempre amore come l’ausello in selva a la verdura; né fe’ amor anti che gentil core, né gentil core anti ch’amor, natura: ch’adesso con’ fu ’l sole, sí tosto lo splendore fu lucente, né fu davanti ’l sole; e prende amore in gentilezza loco cosí propïamente come calore in clarità di foco.

‘Amore ritorna sempre come a sua sede naturale al cuore nobile – cioè quello raffinato e sensibile – come l’uccello libero in natura tende a tornare tra le fronde degli alberi. La natura creò simultaneamente l’amore e il cuore nobile: infatti, nel medesimo istante in cui fu creato il sole, fu creata la sua luminosità, né essa fu prima del sole; allo stesso modo l’amore ha la sua sede specifica nella nobiltà d’animo, cosí naturalmente (« propïamente ») come il calore ha la sua sede specifica nello splendore del fuoco vivo’. Al v. 2, il sintagma in selva va inteso come incidentale col significato di ‘nel suo mondo, in natura’; inoltre esso individua l’uccello non domestico, dunque quello il cui libero comportamento è dettato dalla legge di natura, cosí da evidenziare ulteriormente la naturalità della presenza di amore nel cor gentile e del movimento che ve lo conduce.17 Questa spiegazione sembra preferibile rispetto a quella tradizionale, secondo cui Guinizzelli per il suo incipit abbia presente un’immagine boeziana: Cons. phil., iii 2 17-18 e 17. Cfr. S. Asperti, Sull’incipit di Guinizzelli, ‘Al cor gentil…’, in « Nuova rivista di letteratura italiana », a. vii 2004, pp. 81-121, partic. p. 113. A livello testuale Asperti propone per il v. 1 la lezione repaira invece di rempaira, e parafrasa ‘tende verso il cuore gentile e vi si ferma e posa’.

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25-26: « Quae canit altis garrula ramis / ales, caveae clauditur antro […] silvas tantum maesta requirit / silvas dulci voce susurrat » (‘L’uccello che garrulo canta sugli alti rami, è rinchiuso in una gabbia […] ricerca mesto soltanto le selve, le selve sussurra con dolce voce’). L’uccello, infatti, se deve presentare un’analogia con amore, non può essere prigioniero ma libero, « nella sua condizione naturale, primigenia ».18 Le analogie con il mondo naturale continuano nelle stanze successive. Nella ii strofa, Guido afferma che l’amore pervade il cuore nobile già predisposto a riceverlo, come la virtú influenza positivamente una pietra preziosa. I lapidari medievali attribuivano alle pietre determinate virtú, conferite loro dalla corrispondente stella; nel processo amoroso la donna agisce come la stella traducendo in atto una disposizione potenziale già implicita nel cuore. Nella iii stanza la natura di amore presente nel cuore nobile è assimilata a quella del piú puro degli elementi, il fuoco, che per sua natura tende verso l’alto. Il fuoco splende luminoso e puro ed è incompatibile con un cuore ignobile il quale lo spegnerebbe, come fa l’acqua con la fiamma. La sede di amore è naturale come il diamante nel minerale di ferro. Nella iv stanza, si afferma che la vera nobiltà del cuore non deriva per ereditarietà: il sole, infatti, può riscaldare tutto il giorno il fango, ma questo rimane vile e il sole non perde il suo calore. Se il cuore non è predisposto alla virtú, esso non può trattenerla, come l’acqua che si lascia attraversare dal raggio mentre il cielo conserva inalterati le stelle e lo splendore. Come si è già analizzato in precedenza (pp. 217-20), nelle ultime due stanze il discorso si innalza al piano metafisico, tanto che Guido giunge a conferire alla donna un potere salvifico in una sorta di redenzione laica dell’amante. Le ardite analogie Dio-donna e intelligenza angelica-innamorato lasciano comunque irrisolta la questione della conciliabilità tra amore profano e religione. Nemmeno nel suo scritto piú impegnativo Guinizzelli riuscí a risolvere l’annoso problema. Dante considerò Guido come un padre, ma il suo posto nell’aldilà è in purgatorio, nel fuoco che affina i lussuriosi.

18. Ivi, p. 111.

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vII G UI D O CAVALCANTI

1. Vita Guido, figlio di Cavalcante dei Cavalcanti, nacque a Firenze probabilmente negli anni ’50 del XIII secolo. In mancanza di documenti, la sua data di nascita può essere, infatti, ricostruita solo congetturalmente a partire da due eventi pubblici ai quali partecipò: nel 1280 doveva aver raggiunto la maggiore età, ma anche una certa autorevolezza, se figura tra i mallevadori della cosiddetta pace del cardinal Latino (il frate domenicano Latino Malabranca Frangipani) tra guelfi e ghibellini; nel 1284, inoltre e soprattutto, è membro insieme a Brunetto Latini e a Dino Compagni del Consiglio Generale del Comune, magistratura alla quale si poteva accedere non prima dei venticinque anni. La sua era una delle piú cospicue famiglie magnatizie di Firenze: essa aveva, infatti, accumulato una notevole ricchezza da attività mercantili e finanziarie, e soprattutto dalle rendite dei numerosi immobili, che possedeva dentro e fuori Firenze; i Cavalcanti abitavano nel sesto di San Piero Scheraggio (tra Palazzo vecchio, il Mercato Nuovo e l’Arno) ed erano proprietari di quasi tutti i fabbricati di quella zona. Per antica tradizione la famiglia era di Parte guelfa e subí sensibili contraccolpi economici dopo la battaglia di Montaperti (1260). È probabile che il fidanzamento, nel 1267, di Guido con Bice degli Uberti, figlia di Farinata, sia l’esito di un accordo politico che vide coinvolto in prima persona il padre Cavalcante, da poco rientrato a Firenze dopo un periodo di esilio a Lucca.1 Guido e Bice ebbero due figli: Tancia e Andrea. La svolta “popolare” e il clima antimagnatizio che contrassegnano la vita politica fiorentina dell’ultimo decennio del ’200, e in particolare le li1. I consuoceri Farinata e Cavalcante sono per altro collocati nella stessa arca nel noto episodio di Inf., x. Cavalcante morí prima del 1280, perché tra i fideiussores della poco fa citata pace del cardinal Latino, Guido viene indicato come « filius quondam domini Cavalcantis ».

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mitazioni imposte dagli Ordinamenti di Giustizia del 1293 e del 1295, impediscono a Guido l’accesso alle cariche pubbliche, ma questa esclusione non determina in lui un atteggiamento di disinteresse o, come hanno ritenuto alcuni biografi, di sprezzante e snobistico isolamento, dal momento che egli risulta implicato attivamente nella lotta politica e fu protagonista di vari episodi anche violenti, del resto non rari in un periodo caratterizzato da aspre contese e duri conflitti. La sua famiglia era tradizionalmente avversa ai Buondelmonti, tra i piú accesi partigiani dei Donati e della Parte nera; non stupisce, dunque, la scelta di schierarsi con la Parte bianca, capeggiata dai Cerchi, sebbene inurbati e non di nobile e antico lignaggio come i Cavalcanti. Ma avrà influito su questo orientamento politico anche l’accanita inimicizia personale di Guido verso il capo riconosciuto dei Neri, quel Corso Donati, il quale osava chiamarlo sprezzantemente Guido Cavicchia e che tentò di farlo assassinare durante un viaggio a Santiago de Compostela, interrotto a Nîmes. D’altra parte Guido, il quale era in grado di armare una « gran masnada »,2 assalí nel centro di Firenze il rivale, lanciandogli un dardo che andò a vuoto e rimanendo ferito a una mano in séguito alla reazione degli avversari, come racconta Dino Compagni nella sua Cronica (i 20 103-5). Successivamente Cavalcanti partecipò in prima persona ad altri assalti contro le case dei Donati, finché, dopo un’ennesima zuffa avvenuta durante la processione della vigilia di San Giovanni (23 giugno 1300), i priori decisero, come provvedimento di pubblica sicurezza, di esiliare i capi delle opposte fazioni: tra coloro che presero questa decisione c’era anche Dante Alighieri, da poco eletto. Guido, insieme ad altri Bianchi, fu condannato al confino a Sarzana, dove si ammalò probabilmente di febbri malariche, tanto da indurre i nuovi priori entrati in carica alla metà di agosto a revocare il bando. La sua salute era tuttavia già irrimediabilmente compromessa e, infatti, morí poco dopo il ritorno a Firenze, sul finire del mese di agosto 1300. Può essere significativo ricordare – anche per non eccedere nella direzione di un suo presunto oltranzismo antireligioso – che fu sepolto il 29 agosto in Santa Reparata (sul luogo dove ora sorge il duomo fiorentino 2. vd. il sonetto di Dino Compagni a Guido Cavalcanti, Se mia laude scusasse te sovente, v. 14. Il sonetto si può leggere nell’Appendice di Rea-Inglese, pp. 293-95.

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intitolato a Santa Maria del Fiore), cioè in terra consacrata, come attesta l’obituario di quella chiesa (c. 41r). Ben altra sorte era toccata alle ceneri di suo suocero Farinata e a quelle della di lui moglie Adaleta, accusati di eresia: i loro resti mortali vennero infatti disseppelliti e le ceneri disperse.3 2. Il corpus delle rime La moderna tradizione editoriale – che ha i suoi punti fermi nell’edizione critica di Guido Favati (1957) e nelle successive edizioni commentate, ma anche con ritocchi testuali, di Contini (1960, 1966 e 1968), De Robertis (1986) e Rea-Inglese (2011) – ha fissato il corpus di Guido Cavalcanti a 52 testi, di cui 36 sonetti, 11 ballate, 3 canzoni, 1 stanza isolata di canzone e 1 mottetto.4 Ci sono poi due ballate, I’ vidi donne co la donna mia (Cavalcanti, d. 1) e Sol per pietà ti prego, Giovanezza (Cavalcanti, d. 2), che figurano tra le rime dubbie, sebbene alcuni studiosi siano propensi ad attribuirle a Guido.5 Nel corpus colpisce la fitta presenza di ballate di contro all’esiguità del metro per eccellenza della poesia antica, tanto piú che delle tre canzoni 3. I pochi dati della biografia vulgata sono stati messi in discussione da F. Velardi, I “due Guidi” Cavalcanti e la data di morte del necrologio di Santa Reparata, in SD, vol. lxxii 2007, pp. 239-63. Sulla base di una rilettura delle fonti storiche e soprattutto di un esame autoptico, adiuvato anche da mezzi digitali, del registro di Santa Reparata, velardi ritiene che a sposare la figlia di Farinata non sia stato il poeta, ma un omonimo, morto tra l’altro il 29 agosto 1310 (non 1300). Se cosí fosse, tornerebbero nell’ombra la data, il luogo di morte e di sepoltura dello scrittore, cosí come il suo legame con la potente famiglia degli Uberti. 4. Si segnala anche Cavalcanti, Rime, ed. Cassata cit. Piú che una nuova edizione critica è un’edizione criticamente rivista del testo vulgato, che porta qualche innovazione testuale. 5. Per quanto riguarda la prima, la rubrica del ms. Chigiano riporta « Guido Cavalcanti e Iacopo », tanto che il testo è stato per lo piú ritenuto spurio, o collocato tra i componimenti dubbi (PDSN, p. 261), o in appendice tra le poesie frutto di una collaborazione tra i due Cavalcanti (De Robertis, pp. 229-30). La paternità di Guido è stata rivendicata, sulla base di una disamina stilistica, da C. Calenda, Per altezza d’ingegno. Saggio su Guido Cavalcanti, Napoli, Liguori, 1976, pp. 122-28. La seconda ballata fu giudicata a lungo apocrifa. PDSN, pp. 262-63, la colloca tra le rime dubbie di Guido. De Robertis, pp. 231-33, la inserisce in appendice tra le rime frutto di collaborazione tra Guido e Iacopo. La paternità di Guido è stata rivendicata da C. Giunta, La “giovanezza” di Guido Cavalcanti, in « Cultura neolatina », vol. lv 1995, pp. 149-78.

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solo due sono pluristrofiche, perché Poi che di doglia cor conven ch’i’ porti (Cavalcanti, xi) – a lungo ritenuta una stanza isolata di canzone come Se m’ha del tutto oblïato Merzede (Cavalcanti, xiv) – è ora considerata una canzone monostrofica interrotta, incentrata sugli effetti della follia amorosa, la quale ha determinato la perdita di ogni facoltà vitale e ha ridotto il poeta a uno stato di alienazione, rendendo vano perfino il proposito di esprimere la propria sofferenza interiore. Insomma, Guido propone il tema, ma è impossibilitato a svolgerlo.6 Rispetto agli ordinamenti fondati su un criterio di partizione metrica che furono già di Cicciaporci e di Arnone o cronologica come propose Rivalta,7 Guido Favati ha tentato di ricostruire la produzione di Cavalcanti secondo un ordine che vorrebbe riflettere « le tappe ideali del suo sviluppo, non senza aver fatto una sezione a parte delle sue rime di corrispondenza » (Favati, p. 121). Il paradigma di riferimento dichiarato è l’edizione di Jaufré Rudel curata da Casella,8 ma un modello è anche il canzoniere dantesco secondo l’ordinamento di Michele Barbi. Il corpus di Guido è ordinato, dunque, in due sezioni. La prima inizia con le rime meno distanti dai modi tradizionali, contrassegnate da « motivi paesistici e freschi »; dopo le quali sono collocate poesie « in cui s’annuncia, e sia pure spesso in termini che denunciano l’esercizio di scuola e la dipendenza da modelli siciliani, aretini e bolognesi, una prima nota dolente di sbigottimento »; tale gruppo è concluso dalla prima canzone (Cavalcanti, ix), che « segna il punto supremo della ricerca che su quei primi motivi dello sbigottimento amoroso Guido nella sua giovinezza condusse ». Dopo queste liriche inizia la serie dell’« autocommiserazione » e della coralità, che si conclude con Cavalcanti, xviii, il sonetto delle cesoiuzze, 6. Su questa canzone interrotta, cfr. Tanturli, La terza canzone, cit., pp. 5-26. 7. Antonio Cicciaporci presenta prima i sonetti, poi le ballate e infine le canzoni; Nicola Arnone propone prima le canzoni, poi le ballate e infine i sonetti; Ercole Rivalta privilegia blocchi cronologici secondo una divisione però indimostrabile: le rime anteriori al 1290, le rime di epoca incerta, le rime posteriori al 1290. vd. rispettiv. Rime di Guido Cavalcanti edite ed inedite. Aggiuntovi un volgarizzamento antico non mai pubblicato del comento di Dino del Garbo sulla canzone ‘Donna mi prega’ […], per opera di A. Cicciaporci, Firenze, Carli, 1813; Le rime di Guido Cavalcanti, testo critico pubblicato da N. Arnone, Firenze, Sansoni, 1881; Le rime di Guido Cavalcanti, a cura di E. Rivalta, Bologna, Zanichelli, 1902. 8. Jaufre Rudel, Liriche, a cura di M. Casella, Firenze, Fussi, 1946.

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« malinconico insieme e dimessamente ironico ». Segue poi il gruppo della « rappresentazione mentale della donna come oggetto d’amore », entro cui spicca la canzone dottrinale (Cavalcanti, xxviib): questa serie appare, a giudizio di Favati, meno lineare, ed è conclusa dal sonetto parodico degli spiritelli (Cavalcanti, xxviii). vengono dopo « le rime tolosane » e « altre complessamente dolenti, finché non si giunge alla ballata dell’esilio », cioè Perch’i’ no spero di tornar giammai (Cavalcanti, xxxv). La seconda sezione del corpus è costituita dalle rime di corrispondenza, concluse dai sonetti « il cui riso è mordace e sarcastico ». Favati era ben consapevole dell’arbitrarietà dei suoi criteri, tanto da ammettere che altri avrebbe potuto individuare una serie diversa, tuttavia rivendicò di avere impostato un ordine « accettabile e forse non del tutto illogico ».9 La disposizione di Favati certamente non risponde a una seriazione cronologica accettabile – impossibile in assenza (o quasi) di qualsivoglia pezza di appoggio documentaria – ma è « tutt’altro che irragionevole »,10 e merita di essere rispettata per evitare quelle confusioni prodotte da un nuovo ordinamento che sarebbe comunque arbitrario (si pensi a Dante dopo l’edizione De Robertis delle Rime). La tradizione delle rime di Cavalcanti non offre, infatti, serie avvalorabili in sede editoriale come risultato di una possibile volontà d’autore e anche la proposta di Gorni, secondo cui sarebbe riconoscibile una serialità autoriale in 9 sonetti trasmessi dalle cc. 164r-167r del tardo ms. vaticano latino 3214, non ha retto a ulteriori verifiche.11 Prescindendo dall’ordinamento, comunque, un grande poeta come Cavalcanti meriterebbe una nuova edizione critica a decenni di distanza dal lavoro, senz’altro lodevole, di Guido Favati. 9. Per tutte le citazioni di questo paragrafo vd. Favati, pp. 121-23. 10. vd. Menichetti, Una nuova edizione, cit., p. 392. 11. Per la proposta vd. G. Gorni, Una silloge d’autore nelle rime del Cavalcanti, in Alle origini dell’io lirico, cit., pp. 23-39; per le verifiche e i dubbi vd. R. Capelli, Sull’Escorialense (lat. e.III.23). Problemi e proposte di edizione, verona, Fiorini, 2006, pp. 41-42, e soprattutto G. Marrani, Macrosequenze d’autore (o presunte tali) alla verifica della tradizione: Dante, Cavalcanti, Cino da Pistoia, in La tradizione della lirica nel medioevo romanzo. Problemi di filologia formale. Atti del Convegno internazionale di Firenze-Siena, 12-14 novembre 2009, a cura di L. Leonardi, Firenze, Edizione del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2011, pp. 241-66. Di fronte alla possibilità, per quanto allettante, del riconoscimento di macrostrutture d’autore nella seriazione dei canzonieri antichi è condivisibile l’invito alla cautela di S. Carrai, Fisionomia poetica del canzoniere escorialense, in Il canzoniere escorialense, cit., p. 6.

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Per il ruolo che ha svolto nel rinnovamento della lirica delle origini e per la pregevole qualità delle sue rime, Guido Cavalcanti va decisamente valorizzato, potando l’interpretazione della sua poesia da certi pregiudizi che in passato, anche non troppo lontano, hanno finito con il penalizzare o il condizionare unidirezionalmente la sua fortuna critica. L’etichetta di filosofo, appiccicatagli già dai contemporanei, ha infatti schiacciato il suo vario e consistente corpus di rime sotto Donna me prega. La canzone dottrinale è certamente una prova superba e un autentico pezzo di bravura, tanto che fu commentata già nel ’300, ma sarebbe riduttivo interpretare tutto Guido in direzione di quel componimento, sia questa direzione un complemento di moto a luogo sia essa un complemento di moto da luogo. Anche la fama di ateo e di pensatore radicale, se non scettico e blasfemo – alimentata soprattutto da novelle (su tutte Dec., vi 9) e cara ai critici engagés di ieri e di oggi per i quali “incredulità” rima semanticamente piú che foneticamente con “modernità” – potrebbe essere un’illusione ottica12 e andrebbe quanto meno verificata su tutto il corpus (non solo su Donna me prega, sempre che essa stessa regga la tesi), tanto piú che è stata ben dimostrata l’abile mimesi del lessico biblico compiuta da Guido nei suoi testi.13 Su Cavalcanti ha poi pesato il rapporto con Dante. Lo studio delle relazioni tra i due poeti ha dato risultati critici importanti ed è stato, ed è, suggestivo svelare come un sodalizio, a un certo punto spezzato, abbia continuato ad aleggiare negli angoli piú riposti della poesia dantesca anche all’altezza della Commedia, ma l’analisi di questo rapporto deve evitare l’insidioso rischio di comprimere Guido sotto l’imponente personalità dantesca. 3. Il primo Cavalcanti La presenza della ballata Fresca rosa novella (Cavalcanti, i) e del sonetto 12. vd. il saggio di M. Grimaldi, L’incredulità di Cavalcanti, in « Filologia e Critica », a. xxxviii 2013, pp. 3-32; e Fioretti, Ethos e leggiadria, cit., pp. 110-49, in cui la canzone è letta « alla luce della psicologia avicenniana », che costituiva la base dell’insegnamento nelle facoltà di medicina per tutto il XIII secolo. Fioretti sostiene che « non basta nominare l’intelletto possibile per essere averroisti » (p. 127). 13. vd. da ultimo il capitolo di R. Rea, La mimesi del linguaggio biblico, in Id., Cavalcanti poeta, cit., pp. 138-68, con bibliografia pregressa.

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Biltà di donna e di saccente core (Cavalcanti, iii) nei canzonieri delle origini – rispettiv. P126 (c. 70r) e L310 (c. 129r) – sono un indizio non trascurabile della loro precedenza cronologica.14 Nella ballata, la donna amata Giovanna, « piacente Primavera », è un essere sovrannaturale, celebrata nel canto da tutte le creature. La sua eccelsa bellezza, creata da Dio al di là della natura umana, è ineffabile e inconcepibile per il poeta, che si è innamorato di lei. Egli, dunque, non può che augurarsi la dolce benevolenza della donna, dal momento che il suo amore è ineluttabile. Guido si tiene stretto nell’alveo della tradizione trobadorica e siciliana, come mostrano il lessico arcaico e indubbi ipotesti – in àmbito occitano almeno Johan Esteve e Guglielmo IX e in àmbito italiano Rinaldo d’Aquino e Bonagiunta Orbicciani –, eppure la poesia è come proiettata verso il futuro, perché l’immagine tradizionale della primavera, da sfondo o scenario della situazione amorosa, « diventa, originalissimamente, sostanza e ragione della celebrazione stessa in quanto apparizione di madonna e suo avvento » (De Robertis, p. 3). Il sonetto Biltà di donna e di saccente core (Cavalcanti, iii) si struttura sul modello del provenzale plazer – elenco paratattico di cose o situazioni piacevoli –,15 tra cui spicca la suggestiva immagine del v. 6, « e bianca neve scender senza venti », che Dante utilizzerà nel contrasto fuoco-acqua e rosso-bianco della similitudine di Inf., xiv 28-30: « Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento, / piovean di foco dilatate falde, / come di neve in alpe sanza vento ».16 Sono riconoscibili le tessere tradizionali, e in particolare gli echi guinizzelliani, come per esempio il v. 8, « oro, argento, azzuro ’n ornamenti », il cui ipotesto è senza dubbio Guinizzelli, x 6-7: « tutti color di fior’, giano e vermiglio / oro ed azzurro e ricche gioi per dare ». 14. Per la ballata la rubrica del Palatino recita « Dante Alighieri da Firenze », che però ne è il destinatario, come conferma il codice Ch (c. 39r: « Guido a Dante Alleghieri »). 15. Secondo Giunta, Codici, cit., pp. 10-12, il componimento sembra invece rimandare alla struttura e alla funzione della priamel (cfr. per es. Properzio, Elegie, i 14 1-8), cioè una serie di cose belle o considerate piacevoli, ma di minor valore rispetto all’elemento che chiude la serie: la bellezza e il valore della donna. 16. Su questo verso chiave vd. la ricerca di E. Pasquini, Dal plazer stilnovistico-cortese a quello umanistico-cristiano. Storia di un verso-chiave sulla neve, in Studi in memoria di Giorgio Varanini, i. Dal Duecento al Quattrocento, Pisa, Giardini, 1992, pp. 459-83, poi rivisto e con titolo mutato, Fra Dante e Guido: la neve e i suoi segreti, in Id., Dante e le figure del vero. La fabbrica della ‘Commedia’, Milano, Bruno Mondadori, 2001, pp. 48-72.

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È ormai idea critica acquisita il magistero esercitato da Guinizzelli su Cavalcanti (vd. p. 73), il quale « risale la tradizione attraverso il fondamentale snodo guinizzelliano ».17 La lezione del Guido bolognese (per la verità piú quello dei sonetti che della canzone Al cor gentil) è sempre stata molto visibile nel primo Cavalcanti,18 ma essa compenetra «a fondo, senza soluzione di continuità, l’intera esperienza lirica cavalcantiana », tanto da incidere «su alcune delle sue piú importanti scelte lessicali, contribuendo cosí in modo decisivo alla rigenerazione della loro semantica convenzionale ».19 Ciò è particolarmente evidente nelle modalità della laus mulieris. Il sonetto Avete ’n vo’ li fior’ e la verdura (Cavalcanti, ii) – ancora di schema rimico arcaico e decisamente guinizzelliano come rivelano le rime alternate sia nelle quartine sia nelle terzine – sviluppa il motivo della lode femminile, secondo un modulo già presente in Guinizzelli (cfr. soprattutto il già ricordato Guinizzelli, x). La bellezza dell’amata, evocata piú che descritta, si riverbera sulle altre donne che l’accompagnano, ed esse sono dunque chiamate a farle onore e a considerare preziosa la sua superiorità. Il medesimo ipotesto è attivo in uno dei componimenti piú noti di Cavalcanti, il sonetto Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira (Cavalcanti, iv): Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira, che fa tremar di chiaritate l’âre e mena seco Amor, sí che parlare null’omo pote, ma ciascun sospira? O Deo, che sembra quando li occhi gira! dical’ Amor, ch’i’ nol savria contare: cotanto d’umiltà donna mi pare, ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ ira. Non si poria contar la sua piagenza, ch’a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute, e la beltate per sua dea la mostra. Non fu sí alta già la mente nostra

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17. Rea, Cavalcanti poeta, cit., p. 116. 18. A proposito della fitta presenza di Guinizzelli nel primo Cavalcanti, Rea calcola che su 58 riscontri guinizzelliani complessivi segnalati nel commento di De Robertis, ben 22 – cioè poco meno della metà – sono individuati nei primi 4 componimenti del corpus di Cavalcanti (vd. ivi, p. 112). 19. Ivi, p. 113.

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vii. guido cavalcanti e non si pose ’n noi tanta salute, che propiamente n’aviàn canoscenza.

Cavalcanti riprende il motivo della lode della donna di Io vo’[glio] del ver la mia donna laudare (Guinizzelli, x), del quale sono ripetute qui, pur nella diversità dello schema, quattro parole-rima: âre : pare, vertute : salute. L’epifania femminile è sconvolgente: la bellezza della donna è umanamente inesprimibile, al punto che solo Amore la può adeguatamente elogiare; e soprattutto è umanamente inconoscibile, cosicché il desiderio e l’ansia di conoscenza non possono che rimanere inappagati. Secondo Roberto Rea, la lezione di Guinizzelli è stata determinante per Cavalcanti anche ai fini dell’acquisizione del modello biblico come base per il rinnovamento della poesia cortese.20 Non sempre le tessere bibliche sono di facile individuazione, sia per l’abile lavoro di rifunzionalizzazione compiuto dal poeta sia (forse) per quel diffuso postulato critico di un Guido ateo e materialista che ha finito con l’offuscare ciò che invece è profondamente compenetrato nella sua lirica. Nel sonetto Chi è questa che vèn, la nitida allusione iniziale al Cantico dei Cantici – il poemetto biblico dell’amore che influenzò anche Dante (vd. pp. 180-81) –21 colloca l’epifania femminile in una dimensione altra rispetto a quella cortese, ancora riconoscibile nei primi 3 testi, e non a caso Favati segnalò proprio tra Cavalcanti, iii e iv, il primo stacco del suo ordinamento (vd. p. 284). Lessico e movenze annunciano tratti caratteristici del Cavalcanti maggiore. L’apparizione femminile « fa tremar di chiaritate l’âre » (v. 2): è il fenomeno ottico della scintillazione, ben noto alla fisica medievale, per cui l’aria pare tremare per effetto dell’intensità della luce; e resterà traccia di questa immagine di Guido anche in Dante, pur nella diversità dei contesti: « sí che parea che l’aere ne tremesse » (Inf., i 48), lezione promossa a testo da Petrocchi, in luogo di « temesse » che si trovava nell’edizione del 1921.22 20. Ivi, p. 113. 21. vd. CdC, 3 6: « Quae est ista quae ascendit per desertum » (‘Chi è costei che sale dal deserto’); 6 9: « Quae est ista quae progreditur quasi aurora consurgens » (‘Chi è costei che sorge come l’aurora’); e 8 5: « Quae est ista quae ascendit de deserto » (‘Chi è costei che sale dal deserto’); ma per il verbo venire che usa Guido cfr. anche Is., 63 1: « Quis est iste, qui venit de Edom » (‘Chi è costui che viene da Edom’). 22. Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di G. Vandelli, in Le Opere di Dante.

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Questa donna splendida e straordinaria determina nel poeta effetti paralizzanti, tanto che egli, ridotto all’afasia, può solo sospirare. La serie di formule negative denuncia l’ineffabilità e la stessa inconoscibilità di un mistero che trascende l’io lirico. 4. L’esperienza tragica e affascinante dell’amore Il ritornello della ballata Quando di morte mi conven trar vita (Cavalcanti, xxxii 1-4) potrebbe essere inserito a epigrafe dell’intero corpus delle rime di Guido Cavalcanti: Quando di morte mi conven trar vita e di pesanza gioia, come di tanta noia lo spirito d’amor d’amar m’invita?

‘Poiché dalla morte sono costretto a trarre le mie ragioni di vita e dall’opprimente dolore (« pesanza », che è tra l’altro termine chiave di Guido)23 sono costretto a ricavare gioia, come può indurmi ad amare il mio cuore, dove ha sede lo spirito d’amore?’. Insomma, se l’amore è estrema sofferenza interiore, perché amare? La risposta è fatalmente circolare: l’io ama e al contempo soffre, ma dal dolore interiore ricava comunque gioia e in un certo senso ragioni di vita. A questo drammatico destino non c’è scampo: accettare l’amore implica sofferenza, ma rifiutarlo comporta la negazione della parte senziente di sé, e dunque il mancato raggiungimento di quella pienezza di sensazioni, che sono proprie dell’anima sensibile e individuale. L’amore è pura irrazionalità, ma esperienza squisitamente umana. Per Guido l’amore è, infatti, passione travolgente, smisurata e ottenebrante, che si coagula attorno a un’immagine interiore della donna nata da un’appercezione sensibile. Si legga, per es., il sonetto Voi che per li occhi mi passaste ’l core, che esprime gli effetti tragici dell’innamoramento e la conTesto critico 1921 della Società Dantesca Italiana, con un saggio introduttivo di E. Ghidetti, Firenze, Le Lettere, 2011. 23. Rea, Cavalcanti poeta, cit., pp. 380-82.

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dizione di angoscia e di disfacimento psicofisico del poeta (Cavalcanti, xiii): voi che per li occhi mi passaste ’l core e destaste la mente che dormia, guardate a l’angosciosa vita mia, che sospirando la distrugge Amore. E’ vèn tagliando di sí gran valore, che ’ deboletti spiriti van via: riman figura sol en segnoria e voce alquanta, che parla dolore. Questa vertú d’amor che m’ha disfatto da’ vostr’occhi gentil’ presta si mosse: un dardo mi gittò dentro dal fianco. Sí giunse ritto ’l colpo al primo tratto, che l’anima tremando si riscosse veggendo morto ’l cor nel lato manco.

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Dalla visione fisica si passa immediatamente al risveglio della mente assopita: l’innamoramento consiste, infatti, nel sorgere dell’ossessiva immagine mentale della donna, secondo la teoria fantasmatica che caratterizza la concezione erotica medievale.24 Una volta destato, Amore procede nell’interiorità con tanta forza nella sua azione distruttiva, che obbliga alla fuga le funzioni vitali dell’io (gli spiriti), incapaci di reggere a quell’assalto; Amore viene raffigurato come un guerriero che si apre la strada massacrando i nemici, e di contro a quest’avanzata nulla possono gli spiriti; rimane soltanto una parvenza umana, completamente in balia di Amore, e una fievole voce che può solo esprimere il dolore interiore. La rappresentazione della passione è, dunque, incentrata esclusivamente sull’io e sugli effetti che determina in lui l’innamoramento. La donna reale non c’è – e all’invocazione costruita su Geremia non risponderà –,25 manca qualsiasi accenno a una storia d’amore simile a quelle della poesia trobadorica, manca 24. vd. almeno Agamben, Stanze, cit., pp. 84-104. 25. Lam., 1 12: « O vos omnes qui transitis per viam, attendite, et videte si est dolor sicut dolor meus » (‘voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore’), è modulo frequente non solo in Cavalcanti (vd. x 1-4 e xix 1-3), ma anche in V.n., vii 3.

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una qualsiasi forma di relazione, di fatto impossibile dal momento che come abbiamo già riscontrato la donna è inconoscibile (vd. Cavalcanti, iv 12-14; e anche ix 15-22). L’unico evento esteriore è la potenza seduttiva degli occhi femminili (« questa vertú d’amor […] / da’ vostr’occhi gentil’ presta si mosse », vv. 9-10), ma l’oggetto d’amore è esclusivamente il phantasma della donna fisso nella mente dell’io lirico. Tutto si svolge nell’interiorità: l’equilibrio psicofisico dell’io risulta stravolto e annientato, il cuore giace morto nella sua sede naturale e l’anima trema. Guido fotografa spesso l’irrefrenabile e travolgente processo distruttivo interiore determinato dall’innamoramento: Per li occhi venne la battaglia in pria, che ruppe ogni valore immantenente, sí che del colpo fu strutta la mente; (Cavalcanti, vii 9-11) Tu m’hai sí piena di dolor la mente, che l’anima si briga di partire, e li sospir’ che manda ’l cor dolente mostrano agli occhi che non può soffrire; (Cavalcanti, viii 1-4) Io non pensava che lo cor giammai avesse di sospir’ tormento tanto, che dell’anima mia nascesse pianto mostrando per lo viso agli occhi morte. Non sentío pace né riposo alquanto poscia ch’Amore e madonna trovai, lo qual mi disse: « Tu non camperai, ché troppo è lo valor di costei forte ». La mia virtú si partío sconsolata poi che lassò lo core a la battaglia ove madonna è stata: la qual degli occhi suoi venne a ferire in tal guisa, ch’Amore ruppe tutti miei spiriti a fuggire; (Cavalcanti, ix 1-14) Davante agli occhi miei vegg’ io lo core e l’anima dolente che s’ancide,

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vii. guido cavalcanti che mor d’un colpo che li diede Amore ed in quel punto che madonna vide. Lo su’ gentile spirito che ride, questi è colui che mi si fa sentire, lo qual mi dice: « E’ ti convien morire ». (Cavalcanti, xix 4-10)

Si potrebbe continuare, ma questi esempi bastano a delineare la drammatica vicenda psicologica che consegue all’innamoramento. Sottratto a ogni possibilità di controllo e di misura della ragione umana, l’amore per Guido è una passione irresistibile che determina instabilità di giudizio e ottenebra l’amante fino a fargli perdere il controllo di sé. L’amore ha la forza di alienare e di trasformare l’innamorato, ma se non è possibile arrestarne le dinamiche, il poeta ha la capacità di descriverle e la forza di denunciare con lucidità il paradosso di una passione tanto piú violenta quanto piú inappagabile. La drammatizzazione della realtà psichica non comporta astrazione, ma concretezza plastica, un effetto determinato dall’ipostasi delle facoltà interiori (gli spiriti) che parlano, tremano, fuggono, ecc.; vd., per es., il congedo di Io non pensava che lo cor giammai (Cavalcanti, ix 43-56). A questa canzone, esemplata direttamente sui libri d’Amore e quindi fedele e autentica interprete del suo dettato, Cavalcanti affida il compito di andare dalla donna, guidando i propri spiriti – fuggiti dal cuore per evitare il completo annientamento e vaganti soli e pieni di paura –, affinché essi, unica immagine percepibile di una persona che muore sbigottitamente, raffigurino le tragiche e letali conseguenze dell’innamoramento. Nel sonetto Io temo che la mia disaventura (Cavalcanti, xxxiii 9-11) è il sospiro che si rivolge agli spiriti: De la gran doglia che l’anima sente si parte da lo core uno sospiro che va dicendo: « Spiriti, fuggite ».

Ancora piú drammatico il « sottil pensero » che parla nel testo successivo, La forte e nova mia disaventura (Cavalcanti, xxxiv 11-12): vèn, che m’uccide, un‹o› sottil pensero, che par che dica ch’i’ mai no la veggia

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‘giunge un penetrante, letale, pensiero che sembra dire che io non la rivedrò mai piú’. Qui siamo a un punto limite della rappresentazione di Guido. La ballata è, infatti, una riscrittura di una tipica situazione cortese, l’impossibilità per il poeta di rivedere fisicamente l’amata, ma « con sconcertante sostituzione della visione sensoriale con quella immaginativa ».26 La forza distruttiva della passione logora a tal punto la vita del poeta da far eclissare perfino il phantasma interiore della donna. L’io ha il colore della morte, restano solo parole « disfatt’ e paurose », che piene di sospiri e riverenza invocano il nome dell’amata. L’antropomorfizzazione delle facoltà interiori e del pensiero è resa possibile, come si è visto in precedenza (pp. 203-4), dalla stretta interrelazione tra psiche e corpo legittimata dalla scienza medica medievale, per cui gli spiriti sono percepiti come organi corporei sottilissimi in un unico circuito pneumatico. L’antropomorfizzazione raggiunge un punto estremo nel sonetto Noi siàn le triste penne isbigotite (Cavalcanti, xviii), che piacque a Italo Calvino: 27 Noi siàn le triste penne isbigotite, le cesoiuzze e ’l coltellin dolente, ch’avemo scritte dolorosamente quelle parole che vo’ avete udite. Or vi diciàn perché noi siàn partite e siàn venute a voi qui di presente: la man che ci movea dice che sente cose dubbiose nel core apparite; le quali hanno destrutto sí costui ed hannol posto sí presso a la morte, ch’altro non n’è rimaso che sospiri. Or vi preghiàn quanto possiàn piú forte che non sdegniate di tenerci noi, tanto ch’un poco di pietà vi miri.

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26. Rea-Inglese, p. 189. 27. vd. I. Calvino, Lezioni americane, in Id., Saggi. 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, to. i pp. 627-53, a p. 640.

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Il sonetto si fonda sulla prosopopea degli strumenti della scrittura – « penne », « cesoiuzze », « coltellin » sono rispettivamente le penne d’oca, le forbici per tagliarle e il coltellino per appuntirle –, che parlano in prima persona e che sono gli ultimi interpreti, insieme alla mano che li muove, della voce del poeta: di lui infatti, ormai vicino alla morte, restano solo sospiri. In questa drammatizzazione, i temi della distruzione e dell’alienazione, cari a Cavalcanti, sono spinti all’estremo e si sciolgono in un’accorata preghiera al pubblico. La fine della “storia cortese” e l’« eclissi della donna, che sopravvive unicamente nella mente del soggetto come pura proiezione fantasmatica dello stesso desiderio »,28 implica una trasformazione del destinatario ideale della poesia. Nei suoi frequenti appelli, spesso costruiti come si è visto con il modulo biblico che risale alle Lamentazioni di Geremia, Cavalcanti cerca un pubblico che possa comprendere la sua tragica esperienza riconoscendone il valore condivisibile. In questo reciproco riconoscimento tra io lirico e pubblico ideale risiede anche la « legittimazione della nuova parola lirica »,29 che comporta la definitiva emancipazione della poesia dalla “storia cortese”. La nuova istanza implica un perentorio rinnovamento formale, in direzione di una chiarezza espositiva fortemente ricercata: « là dove insegna Amor, sottile e piano » (Cavalcanti, lb 10). La rappresentazione cavalcantiana è, infatti, lucida e nitida, senza derive patetiche o melodrammatiche: per es. nel lessico cavalcantiano sono banditi lasso, ahi, ahimè e simili.30 Guido – spirito magnanimo della famiglia della « gente di valor » (Cavalcanti, xxviib 49) che veramente sente la forza dell’amore – guarda dentro di sé gli effetti tragici dell’amore: l’iteratività delle situazioni analizzate, con minime variazioni di prospettiva, il lessico preciso, selezionato e omogeneo, il ritorno frequente di parole-chiave esprimono compiutamente questa vivisezione dell’esperienza amorosa. Cavalcanti opera sul lessico della tradizione poetica con una precisa e rigorosa selezione dei materiali codificati, in un processo di risemantizzazione e di rigenerazione lessicale, cui collabora come si è detto anche la mi28. Rea, Cavalcanti poeta, cit., p. 39. 29. Ivi, p. 181. 30. In tutto il corpus si registra un’unica occorrenza di « lasso » (Cavalcanti, xxxii 6).

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mesi del linguaggio biblico. Al nitore della rappresentazione contribuisce quindi la ricerca di una sintassi piú limpida, con la drastica potatura delle oscurità e delle preziosità retoriche che avevano contrassegnato la poesia di Guittone e dei suoi seguaci. Ed è proprio sul piano formale che la rivoluzione stilnovista cavalcantiana risulta piú marcata. Eppure se la drammatica esperienza amorosa caratterizza la maggior parte dei testi di Cavalcanti, il suo canzoniere non è monoliticamente compatto dentro questa visione tragica e negativa. C’è un gruppo di testi – che Favati ha riunito (vd. Cavalcanti, xxii-xxvi) – nei quali la tensione si allenta e affiora la potenza gioiosa e vivificante dell’amore, che esalta la parte emotiva dell’io lirico. Cosí nel sonetto Veder poteste, quando v’inscontrai, mentre ormai l’anima triste dell’io lirico è prossima alla morte, tanto da averne già assunto il colore pallido, il percepito « lume di merzede », che proviene dagli occhi della donna, è barlume di rianimazione interiore (Cavalcanti, xxii 9-14): ma po’ sostenne, quando vide uscire degli occhi vostri un lume di merzede, che porse dentr’ al cor nova dolcezza; e quel sottile spirito che vede soccorse gli altri, che credean morire, gravati d’angosciosa debolezza.

Nel sonetto successivo, Io vidi li occhi dove Amor si mise, la visione della donna, e di Amore nei suoi occhi, è motivo di turbamento interiore, con conseguente sensazione di indegnità, ma la percezione, istantanea, di quel sorriso femminile è rivelazione e “intelligenza d’amore”; è uno spirito che si muove dal cielo – con appropriazione dell’episodio evangelico del battesimo di Gesú –31 e si posa nel pensiero del poeta (Cavalcanti, xxiii): Io vidi li occhi dove Amor si mise quando mi fece di sé pauroso, che mi guardâr com’io fosse noioso: allora dico che ’l cor si divise; e se non fosse che la donna rise, i’ parlerei di tal guisa doglioso, 31. La segnalazione è in De Robertis, p. 75.

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vii. guido cavalcanti ch’Amor medesmo ne farei cruccioso, che fe’ lo immaginar che mi conquise. Dal ciel si mosse un spirito, in quel punto che quella donna mi degnò guardare, e vennesi a posar nel mio pensero: elli mi conta sí d’Amor lo vero, che ogni sua virtú veder mi pare sí com’ io fosse nello suo cor giunto.

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E si veda poi l’ultimo componimento della serie, Veggio negli occhi della donna mia, che è una limpida celebrazione della bellezza femminile, in cui dalla visione fisica si passa, attraverso un progressivo processo di astrazione, a un’immagine intellettuale di bellezza, sempre piú astratta, che dà serenità interiore; si leggano la ripresa e la prima stanza (Cavalcanti, xxvi 1-12): veggio negli occhi de la donna mia un lume pien di spiriti d’amore, che porta uno piacer novo nel core, sí che vi desta d’allegrezza vita. Cosa m’aven, quand’ i’ le son presente, ch’i’ no la posso a lo ’ntelletto dire: veder mi par de la sua labbia uscire una sí bella donna, che la mente comprender no la può, che ’mmantenente ne nasce un’altra di bellezza nova, da la qual par ch’una stella si mova e dica: « La salute tua è apparita ».

Guido vede negli occhi della sua donna uno sguardo luminoso pervaso d’amore (cosí V.n., xxi 2), che dà un insolito piacere al cuore, tanto da suscitarvi una gioiosa vitalità. Il poeta non è in grado di sapere, perché impossibilitato a una precisa rielaborazione mentale, cosa gli avvenga in presenza della donna: gli sembra di vedere provenire dal suo volto un’immagine cosí bella, che la mente non può comprendere pienamente, dalla quale súbito nasce un’altra immagine di straordinaria bellezza, da cui pare che si muova una luce, come di stella, che dice: « È apparsa la tua salvezza », 297

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dove l’espressione biblica è impiegata a esprimere il senso tutto terreno di serenità o di sollievo per la liberazione da uno stato di grave prostrazione dell’animo.32 5. Donna me prega In Donna me prega (Cavalcanti, xxviib), Guido espone la sua concezione dell’amore. L’intento speculativo, l’organico e coerente sistema di pensiero e l’uso di un linguaggio tecnico proprio della scientia de anima, dunque di matrice filosofica e medica, si traducono in una raffinata struttura argomentativa, sintattica e retorica e in una sapiente tessitura metrica, riconosciute nel congedo dallo stesso autore (Cavalcanti, xxviib 71-75):33 Tu puoi sicuramente gir, canzone, là ’ve ti piace, ch’io t’ho sí adornata ch’assai laudata – sarà tua ragione da le persone – c’hanno intendimento: di star con l’altre tu non hai talento.

‘Canzone, tu puoi andare senza timore dove ti piace, perché io ti ho impreziosita con una tale orditura sintattica, retorica e metrica che la tua argomentazione sarà assai lodata da chi ha la capacità di comprenderla: di stare con persone non preparate e ottuse tu non hai voglia’. Un simile impegno concettuale e formale ha comportato nei secoli difficoltà filologiche (la canzone è conservata da circa 70 mss. e ha una tradizio32. vd. Tit., 2 11: « apparuit enim gratia Dei Salvatoris nostris omnibus hominibus » (‘è apparsa infatti la grazia di Dio nostro Salvatore per tutti gli uomini’), versetto di una delle letture proprie della liturgia del Natale; e cfr. anche V.n., ii 5. 33. Donna me prega è una canzone di cinque stanze di quattordici versi, e congedo di cinque, tutti endecasillabi, citata da Dante nel D.v.e., ii 12 3, come esempio di eccellenza metrica. A rendere particolarmente raffinata ed elaborata la tessitura metrica contribuiscono le frequenti rime interne e proprio questo « equilibrato ripercuotersi di rime interne e rime al mezzo conferisce uno speciale rilievo ai continui passaggi logici perché isola ed esalta ogni singolo concetto » (Fenzi, La canzone, p. 37). Lo schema rimico delle stanze è: (a5)B(c5)(c9)D(d5)E, (a5)B(c5)(c9)D(d5)E (fronte); F(f3)G(g5)HH, F(f3)G(g5)HH (sirma). Lo schema del congedo è: XY(y5)X(x5)ZZ. De Robertis, p. 94, nota (riprendendo un’osservazione del poeta americano Ezra Pound) che su 154 sillabe per stanza ben 52 risultano obbligate da rima.

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ne indipendente rispetto al resto del corpus di Guido) ed esegetiche, generando una serie di letture, in alcuni punti contrastanti, a partire dal commento del medico fiorentino Dino del Garbo, che deve essere valorizzato per la sua vicinanza cronologica e, per certi aspetti, culturale al poeta.34 Nelle edizioni moderne Donna me prega è preceduta dal sonetto di Guido Orlandi, Onde si move, e donde nasce Amore? (Cavalcanti, xxviia), tutto intessuto da una serie di domande sulla natura di amore. Alcuni commentatori sono propensi a credere che esso sia il « sonetto-quesito » (De Robertis, p. 90) o quanto meno il pretesto o l’occasione accidentale della grande canzone dottrinale. Non c’è dubbio che Guido Orlandi sia autore di altri testi di corrispondenza con Cavalcanti (vd. Cavalcanti, xlviii-l), che qui si rivolga a un « Guido » (v. 13), e che delle 5 rime di questo sonetto 4 si riscontrino anche nella canzone, una per strofa, e che, infine, si possano annoverare 7 parole-rima presenti in entrambi i testi; tuttavia credo piú verosimile l’ipotesi di Guido Favati, e di altri, secondo cui esso sia posteriore alla canzone, composto sulla falsariga e sull’onda del successo di Donna me prega. Allo scopo di chiarire meglio i complessi snodi concettuali del testo ritengo opportuno proporne una parafrasi esplicativa. Essa riproduce in sostanza quella che ho stampato in PdDSN, pp. 139-51. La prima stanza ha la funzione di proemio e, infatti, illustra la ragione, il tema, i destinatari e l’indice degli argomenti che saranno trattati. i stanza (vv. 1-14): Mosso dalla preghiera di una donna, voglio parlare di quella passione accidentale che spesso è travolgente, ed è cosí potente che è chiamata amore: è auspicabile che chi nega ciò che dico possa apprendere la verità! E qui, nella circostanza e materia presente, esigo un interlocutore intelligente e preparato, perché non mi aspetto che un uomo di scarsa sensibilità e di intelligenza mediocre abbia la competenza necessaria per seguire la mia argomentazione: infatti senza i principî della filosofia naturale non ho voglia di dimostrare dove abbia sede amore, quale sia la sua origine, a quale facoltà si riferisca e che cosa possa provocare, inoltre la sua peculiarità, e il suo interno dinamismo, e quel particolare piacere che lo fa chiamare amore, e se sia visibile.

34. Il commento di Dino del Garbo, insieme ad altri antichi commenti (pseudo-Egidio Colonna, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Iacopo Mini e Francesco de’ vieri), si leggono in Fenzi, La canzone.

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Nella seconda stanza Guido inizia la trattazione spiegando dove abbia sede l’amore e quale sia la sua origine. Come si è già anticipato (vd. pp. 164-65), Cavalcanti si muove nell’àmbito della psicologia medievale – di derivazione aristotelica –, che distingue tra l’oggetto reale (la donna in carne e ossa) e l’immagine interiore che si forma nell’anima sensibile dell’innamorato in séguito alla visione della donna: quella di Cavalcanti è dunque essenzialmente una concezione fantasmatica del sentimento. In questa stanza, però, risultano importanti e controversi almeno due passaggi. In primo luogo Guido ritiene che l’amore provenga da una scuritate dovuta all’influsso di Marte (non di venere, come credeva la piú comune tradizione poetica): questo particolare è stato messo in relazione alla virtus irascibilis di Marte, ossia ciò che muove l’uomo a desiderare troppo ardentemente, di contro alla virtus concupiscibilis di venere; ma – come spiega Marco Grimaldi –35 l’influsso di Marte potrebbe anche alludere alla nascita di Cupido da venere e da Marte, e pertanto alla natura violenta dell’amore. Guido poi nei versi finali della strofa contrappone anima sensitiva, dove s’insedia la passione, e intelletto possibile, cioè, secondo la filosofia aristotelica, quella parte dell’intelletto umano dove risiede la capacità di intendere e che si affianca all’intelletto agente, che è invece in grado di attivare tale capacità. Nell’intelletto possibile, infatti, non vi è posto per le passioni, ma solo per una contemplazione continua ed eterna. Questi versi, a partire soprattutto dagli studi di Bruno Nardi,36 sono stati letti come una prova dell’averroismo di Cavalcanti, il quale esprimerebbe l’idea, tipica dell’averroismo radicale – e come tale condannata a piú riprese dalla Chiesa – secondo cui l’intelletto sia unico per tutti gli uomini, con conseguente negazione dell’eternità dell’anima individuale, destinata a morire col corpo. Questa fortunata interpretazione è stata però recentemente messa in discussione da Marco Grimaldi, secondo il quale nella canzone non ci sarebbero elementi conclusivi per considerare Cavalcanti un averroista: per 35. vd. Dante Alighieri, Rime, a cura di M. Grimaldi, in Id., Vita nuova e Rime, a cura di D. Pirovano e M. Grimaldi, Roma, Salerno Editrice, i.c.s. 36. vd. almeno Nardi, L’averroismo del « primo amico » di Dante, in Id., Dante e la cultura medievale, cit., p. 103: Guido « fu sicuramente un averroista, ma non per lo strano misticismo erotico che s’è voluto attribuirgli, sibbene perché siffatta passione risiede, per lui, nell’anima sensitiva che è forma del corpo umano, mentre l’intelletto possibile, che non è forma del corpo, n’è immune ».

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lo studioso tutte o quasi le proposizioni filosofiche della canzone sarebbero, infatti, riconducibili piú genericamente alle teorie aristotelico-scolastiche e non sembrerebbero riflettere le posizioni dell’averroismo radicale duecentesco.37 ii stanza (vv. 15-28): L’amore s’ingenera e risiede nell’anima sensitiva, là dove sta il senso interno della memoria, passando da potenza ad atto per effetto di un’oscurità dovuta all’influsso di Marte, secondo un processo analogo e opposto a quello per cui un corpo diafano passa da potenza ad atto per effetto della luce; egli è creato, deriva dal contenuto della sensazione, è il nome di una disposizione naturale dell’anima sensitiva e di un appetito del cuore. Amore nasce dalla percezione visiva di una donna reale, un’immagine nella quale è impressa una forma che diventa oggetto d’intellezione, e che è dunque naturalmente accolta nel possibile intelletto, sede propria dell’intellezione. Tuttavia non esercita qui nessun potere perché l’intelletto possibile non dipende dalle qualità accidentali del sensibile: nella sua eternità risplende solo della sua energia intellettuale; nella sua impassibilità non è condizionato dal piacere ma è meramente volto alla speculazione; cosí che, nonostante la comune origine dall’elaborazione di una percezione sensoriale, non ci può essere poi nessuna analogia tra conoscenza intellettiva e processo amoroso che avviene nell’anima sensitiva.

Nella terza stanza Guido parla della presunta virtú e poi della potenza dell’amore. I versi iniziali – in cui Guido afferma che l’Amore non è una virtú come per esempio la volontà o la fantasia, ma dipende dall’anima sensitiva che è la perfezione (corrisponde all’aristotelica entelechia) dell’essere umano – sarebbero un’ulteriore conferma dell’averroismo di Cavalcanti; sempre secondo Bruno Nardi: «Se l’anima sensitiva è perfezione dell’uomo, vuol dire che la perfezione non è l’intelletto, che resta una sostanza separata », come volevano gli averroisti.38 In altri termini, l’anima sensitiva, corruttibile, è perfezione dell’uomo individuale, mentre l’intelletto possibile, come detto, è una sostanza separata, incorruttibile e unica per tutta la specie umana. Tuttavia, anche in questo passaggio, Guido non sembra poi allontanarsi molto da Aristotele.39 L’amore è esperienza dramma37. vd. Dante, Rime, ed. Grimaldi cit. 38. vd. Nardi, L’averroismo del « primo amico » di Dante, in Id., Dante e la cultura medievale, cit., p. 119. 39. vd. Dante, Rime, ed. Grimaldi cit.

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tica, ma l’uomo non può farne a meno perché soffocherebbe un suo costituzionale istinto naturale. iii stanza (vv. 29-42): Amore non è una virtú, ma dipende da quell’anima che è perfezione dell’essere umano (perché tale è definita): non quella razionale, ribadisco, ma la sensitiva. Amore interdice, finché dura, un sano e retto esercizio del giudizio perché il contenuto della sensazione, ossessivamente presente come oggetto della passione, prevarica la ragione: colui che è travolto dall’eccesso della passione, che è un vero e proprio vizio, perde ogni capacità di discernimento. Dalla forza travolgente dell’amore deriva spesso la morte, se per caso arriva a soffocare quella virtú razionale che sostiene l’uomo nella vita, sviluppando il suo istinto di conservazione e la sua tensione verso ciò che è proprio del suo essere: questo accade non perché l’amore sia in sé qualcosa di innaturale, ma perché l’uomo che per avventura si allontana dalla vera e propria felicità, che è la sua propria e ultima realizzazione, non si può dire che sia dotato di vita, perché ha perduto il fermo controllo su se stesso. Del resto, in analogo rischio di morte l’uomo può correre se soffoca dentro di sé, facendo violenza alla natura, un istinto naturale cosí forte come l’amore.

Si passa dunque ad analizzare l’essere e il dinamismo dell’amore. L’essenza dell’amore è nella smisuratezza e nell’insaziabile irrequietudine del desiderio. Gli effetti travolgenti che trasfigurano l’innamorato li abbiamo visti frequentemente in altri testi di Guido, ma essi sono tipici della lirica amorosa medievale (e si pensi anche all’episodio del gabbo della Vita nuova, xiv-xvi). Cavalcanti riconosce il carattere elitario di questo tipo di amore, che si troverebbe per lo piú in «gente di valor», gli stilnovistici cuori gentili, dotati di animo sensibile e raffinato. iv stanza (vv. 43-56): L’essere proprio dell’amore è quando il desiderio è cosí travolgente da eccedere ogni misura naturale, dopo di che, oltrepassati quei limiti, non trova mai quiete. Amore, cambiando il colorito dell’innamorato, trasforma il riso in pianto, stravolge l’aspetto esteriore per effetto della paura; è perennemente instabile; inoltre si vede che per lo piú si trova in persone di alto e nobile sentire. Al suo insorgere provoca sospiri e obbliga l’amante a fissare con intenso desiderio verso una situazione indeterminata e dubbiosa40 per cui si desta in lui l’ira che infiamma l’animo (chi non lo prova non può immaginarlo), e non permette che si distolga da tale passione, benché lo si solleciti a farlo, né che, in cerca di 40. vengono in mente i « dubbiosi disiri » di Inf., v 120.

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vii. guido cavalcanti conforto, si rivolga a qualcos’altro, né tanto meno che recuperi una qualche forma di saggezza.

Nell’ultima stanza Guido analizza il piacere amoroso, nega la visibilità dell’amore e conclude perentoriamente che l’unica forma di soddisfazione o ricompensa dell’amore è l’essere ricambiato, a norma della Regula xxvi del De amore: « Amor nil posset amori denegare » (‘l’Amore nulla può negare all’amore’), ripresa, tra gli altri, da Francesca in Inf., v 103: « Amor, ch’a nullo amato amar perdona ». v stanza (vv. 57-70): Dall’affinità tra un amante e un’amata scocca uno sguardo, di intesa e di promessa, che fa sembrare raggiungibile il piacere amoroso: quando è arrivato a questo punto, l’amore non può piú restare nascosto. Le bellezze scatenano la passione, ferendo dolorosamente come un dardo, indipendentemente dalla loro ostilità, perché il desiderio amoroso si sperimenta attraverso l’angoscia: consegue una ricompensa chi è stato colpito dal dardo d’amore. L’amore non si può percepire attraverso la vista: una volta che sia stato accolto nell’anima sensitiva, quell’accidente che si chiama amore perde ogni rilievo cromatico se anche il bianco, cioè il colore visibile per eccellenza, viene meno e diventa pertanto impercettibile; e chi ha seguíto e compreso il mio ragionamento deduce facilmente che senza colore non si può vedere alcuna specifica forma: pertanto l’amore, che procede da ciò che è già di per sé invisibile, non può assolutamente essere visibile. Privo di colore e di sostanza, con sede in una dimensione oscura, egli esclude la luce. Fuori da ogni inganno, asserisco in assoluta buona fede che l’amore è l’unica ricompensa all’amore: dunque l’amore ha come unico appagamento il piacere di un sentimento ricambiato.

6. Il ciclo tolosano. Cavalcanti e la “pastorella” Come abbiamo già detto, Dino Compagni racconta nella Cronica (i 20 103-5) che Corso Donati tentò di far assassinare Guido Cavalcanti mentre questi si stava recando in pellegrinaggio a Santiago de Compostela; sui motivi non propriamente ortodossi di questo viaggio e su un’improvvisa interruzione a Nîmes ironizzò pure l’oscuro poeta Niccola Muscia (Cavalcanti, xxxb).41 Si suole agganciare a questo episodio biografico il ciclo tolosano 41. Anna Bruni Bettarini pensa a Muscia da Siena: vd. A. Bruni Bettarini, Le rime di Meo dei Tolomei e di Muscia da Siena, in « Studi di filologia italiana », a. xxxii 1974, pp. 86-98;

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– costituito da un sonetto e due ballate (Cavalcanti, xxix-xxxi) –, sebbene l’occasione potrebbe anche essere non strettamente legata a quell’itinerario pseudoreligioso. In ogni caso, a Tolosa Guido si innamorò di una giovane e bella donna, il cui dolce sguardo somigliava a quello della propria amata.42 La fenomenologia di questo innamoramento in terra lontana ha i tratti consueti: la paura, l’afasia, i sospiri, la ferita mortale dell’anima provocata da un tagliente dardo. La storia prosegue nella ballata Era in penser d’amor quand’i’ trovai (Cavalcanti, xxxa), in cui Guido sfoga la propria pena d’amore con due giovani contadinelle (« foresette nove »), le quali mostrano negli atteggiamenti e nel dialogo un’intima partecipazione alla sofferenza del poeta. Eccezionalmente per la poesia di Cavalcanti si trovano particolari realistici, come la città dell’innamoramento (appunto Tolosa), il nome della donna (Mandetta o Amandetta, dal nome francese Amande), un dettaglio del suo abbigliamento (« accordellata istretta », ‘col corpetto strettamente allacciato’), l’indirizzo dove la ballata troverà la destinataria (la chiesa di Nôtre-Dame de la Dourade di Tolosa, famosa per i suoi mosaici dorati). La ballata successiva Gli occhi di quella gentil foresetta (Cavalcanti, xxxi) rappresenta un nuovo innamoramento (descritto secondo i soliti moduli drammatici) e l’oggetto d’amore dovrebbe essere una delle due « foresette » della ballata precedente, come autorizza a supporre il dimostrativo dell’incipit.43 Il trittico è significativo non solo perché presuppone una “storia”, che come abbiamo visto risulta insolita nel corpus di Guido, ma anche perché lascia intravedere un contatto diretto tra Cavalcanti e la poesia d’oltralpe. Domenico De Robertis suggerí che da quel viaggio Guido portò come souvenir una raccolta di pastorelle.44 L’ipotesi, non dimostrabile, è comunma vd. contra De Robertis, p. 119: « difficilmente identificabile col Muscia da Siena stante la risonanza strettamente cittadinesca del pettegolezzo ». 42. Potrebbe essere Giovanna se si accogliesse il collegamento tra la giovinezza della fanciulla tolosana e il nome dell’amata Giovanna, proposto da Giunta, La « giovanezza », cit., p. 176. Rea, in Rea-Inglese, p. 165, fa notare che Tolosa è celebrata come luogo di amori già nella lirica trobadorica. 43. vd. Rea-Inglese, p. 175; vd. infatti Cavalcanti, xxxa 30: « la qual mi fece questa foresetta ». Rea fa notare che le due ballate sono consecutive nella Giuntina. 44. vd. De Robertis, p. xvii. A questo proposito, secondo Roncaglia, Guido sarebbe

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que suggestiva, se pensiamo soprattutto alla ballata Era in penser d’amor (Cavalcanti, xxxa), perfettamente iscritta in un genere poco esperito in Italia, che Cavalcanti trasforma in modo assolutamente personale.45 Una pastorella è anche In un boschetto trova’ pasturella (Cavalcanti, xlvia) – con la replica in chiave “gay” di Lapo (o Lupo?) Farinata degli Uberti, Guido, quando dicesti pasturella (Cavalcanti, xlvib).46 Su un tronco transalpino, piú oitanico che occitanico, Guido innesta felicemente elementi originali, ora elidendo il tradizionale contrasto dialogico tra cavaliere e ragazza ora riducendo ai minimi termini i preliminari. Nel corpus per lo piú tragico spicca la conclusione della ballata con il coronamento del reciproco desiderio erotico dei due personaggi, l’io lirico e la bella pastorella dai capelli biondi e ricci, ma è eccezione che conferma la regola, dal momento che il conseguimento erotico è ammesso « solo in tale dimensione sorridente e giocosa ».47 Prescindendo dalle pastorelle, il fitto riuso della poesia transalpina riscontrabile nel corpus di Guido suggerisce comunque la ricerca di un contatto diretto con il grande canto cortese per quella via che era già stata sperimentata dal primo Guido (vd. p. 267). 7. La ballata testamento La cristallina ballata Perch’i’ no spero di tornar giammai (Cavalcanti, xxxv) è uno dei testi piú noti del corpus. Un motivo della sua fama deriva certamente dal fatto che molti lettori, intravedendovi una precisa occasione arrivato davvero a Santiago come dimostrerebbe in alcuni suoi componimenti la presenza di tratti propri della lirica galego-portoghese, ma i riscontri sembrano piú propriamente poligenetici: vd. comunque A. Roncaglia, Ecci venuto Guido ’n Compostello? (Cavalcanti e la Galizia), in O cantar dos Trobadores. Actas do Congreso celebrado en Santiago de Compostela entre os días 26 e 29 de abril de 1993, Santiago de Compostela, Xunta de Galicia, 1993, pp. 11-29. Sulla ripresa del genere transalpino e sulle caratteristiche delle sperimentazioni cavalcantiane, vd. soprattutto L. Formisano, Cavalcanti e la pastorella, in Alle origini dell’io lirico, cit., pp. 245-62, cui si rimanda anche per la bibliografia precedente e per la confutazione della tesi di Roncaglia. 45. Rilevanti sono le riprese delle ballate cavalcantiane nel paradiso terrestre e in genere nella Commedia, come ha dimostrato D. De Robertis, Arcades ambo (osservazioni sulla pastoralità di Dante e del suo primo amico), in « Filologia e Critica », a. x 1985, pp. 231-38. 46. Sull’autore del sonetto vd. Pagnotta, Un altro amico, cit., pp. 365-90. 47. Rea-Inglese, p. 242.

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biografica (l’esilio del poeta a Sarzana), si sono spinti a riconoscere in alcuni punti del testo funesti presentimenti e a considerare la poesia l’ultimo testo di Guido, ormai prossimo alla morte; altri lettori hanno ricollegato la ballata al viaggio verso Santiago de Compostela, che, come si è detto, gode di altre testimonianze storico-poetiche. Per reazione a queste interpretazioni “biografiche” la critica piú recente ha insistito sulla letterarietà del tema con la negazione della verità sentimentale sottesa al testo, ma anche in questo orientamento non sono mancate forzature. In realtà, come ha visto bene Claudio Giunta, al quale si rimanda anche per una sintesi delle posizioni critiche precedenti, una volta collocato il componimento nell’àmbito della concezione medievale della poesia come un sistema altamente formalizzato e non certo paragonabile alla sincerità (vera o presunta) della poesia moderna, questa lirica può essere letta come una ballatatestamento.48 Si legga la ripresa, eccezionalmente esastica (Cavalcanti, xxxv 1-6): Perch’i’ no spero di tornar giammai, ballatetta, in Toscana, va’ tu, leggera e piana, dritt’ a la donna mia, che per sua cortesia ti farà molto onore.

‘Mia carissima ballata (il diminutivo ha valore vezzeggiativo-affettivo), perché io non mi aspetto di tornare mai piú in Toscana, tu, agile nella tua convincente chiarezza, vai direttamente dalla mia donna, che per la sua cortesia ti accoglierà molto onorevolmente’. La ballata è tutta costruita secondo il modulo dell’envoi (‘invio’). La non scontata precisazione geografica del v. 2 fa capire che la donna amata, destinataria del componimento, si trova in Toscana mentre l’io lirico se ne è allontanato. Il motivo della lontananza si associa, nelle stanze (in particolare nella ii e nella iii), a quello della morte. Si vedano per es. i vv. 17-20: 48. vd. C. Giunta, Guido Cavalcanti, ‘ Perch’i’ no spero di tornar giammai’, in Id., Codici, cit., pp. 45-61. Per un’analisi della ballata, che viene ritenuta « composta al culmine dell’esperienza letteraria cavalcantiana, quasi come summa sapientemente dissimulata di temi, immagini, nessi sintattici, figure già precedentemente (e in modo sparso) esperiti », vd. anche Calenda, Per altezza d’ingegno, cit., pp. 33-53, a p. 34.

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vii. guido cavalcanti Tu senti, ballatetta, che la morte mi stringe sí, che vita m’abbandona; e senti come ’l cor si sbatte forte per quel che ciascun spirito ragiona.

Qui il poeta non afferma che sta morendo per amore, ma soltanto che sta morendo. E dunque la ballata « non è, in prima istanza, una poesia d’amore, bensí un planh che il poeta compone pensando alla propria non metaforica morte ».49 Non stupisce allora che siano riscontrabili nel testo moduli che venivano impiegati nel linguaggio testamentario: per es. l’esordio con una proposizione causale non è raro nei normali testamenti, e quasi costante nei testamenti dettati prima di un viaggio.50 L’abilità di Guido sta nel sovrapporre due retoriche per costruire questo suo (ultimo?) biglietto d’amore: in esso l’anima non viene raccomandata a Dio, ma alla ballata che ha il compito di scortarla verso la donna amata. 8. Rime di corrispondenza e testi comici Le testimonianze antiche su Cavalcanti tracciano concordemente un profilo di intellettuale aristocratico, sdegnoso e solitario. Di certo non fu un anacoreta isolato. Iacopo da Pistoia, professore dello Studio bolognese, dedicò a Guido – «dilecto et pre aliis amico carissimo» (‘amato e amico carissimo piú di ogni altro’) – la sua Quaestio de felicitate, una circostanza che getta luce sull’ambiente filosofico di riferimento e, forse, sulla formazione di Cavalcanti. L’idea di assoluto isolamento è poi apertamente smentita dai diversi testi di corrispondenza presenti nel corpus. A questo proposito, tuttavia, occorre ammettere che le risposte date ad alcuni suoi interlocutori poetici confermano quel ritratto che i profili storici, magari un po’ aneddotici, vogliono tracciare: Cavalcanti è fermamente consapevole della singolarità della propria poesia, autentica espressione di Amore, raffinatamente espressa, tanto che a Guido Orlandi dichiara orgogliosamente che « Amore ha fabricato ciò ch’io limo » (lb 16, e vd. pp. 129-34), e non ha remore a rico49. Giunta, Guido Cavalcanti, ‘Perch’i’ no spero’, cit., p. 51 (corsivi nel testo). 50. Ivi, p. 58.

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noscere che l’insegnamento di Amore può essere compreso solo da chi è dotato di raffinate doti intellettuali e possiede la capacità di tradurlo in una forma chiara ed elegante. Il corrispondente príncipe non poteva allora che essere Dante e, infatti, il dialogo tra i due è il piú fitto all’interno del corpus (vd. pp. 231-40); in altri casi, come già analizzato nel iii capitolo, Guido partecipa, suo malgrado, a polemiche (vd. la corrispondenza con Guido Orlandi: Cavalcanti, la-c), o propone scambi su questioni di poesia, ai quali si possono ricondurre il duro attacco contro Guittone (Cavalcanti, xlvii, per il quale vd. pp. 12228) e probabilmente il testo, oggi perduto, in cui Cino sarebbe stato accusato di plagio, come sembra dedursi dalla risposta del pistoiese (vd. Cino, cxxxi, già esaminata alle pp. 243-48). In altri scambi la tensione si allenta. In A quella amorosetta foresella (Cavalcanti, xliva) un non meglio precisato Bernardo da Bologna stuzzica Guido,51 non insensibile (come si è già visto alle pp. 304-5), al fascino delle fanciulle di campagna. Nel sonetto una bella contadinella dell’Appennino bolognese rivela a Bernardo come Guido l’abbia sedotta, anche se le iperboli e le metafore erotiche usate dal poeta innamorato sono state per lei cosí difficili da decifrare che ha ritenuto quelle parole a mala pena credibili. In ogni caso Pinella – questo il nome della ragazza – riconosce e conferma la fama di Guido: egli è davvero un grande esperto in amore; e infatti basta un suo saluto a turbare i bei tratti del viso della donna. Nella risposta Ciascuna fresca e dolce fontanella (Cavalcanti, xlivb), Guido non sta al gioco fino in fondo, perché la sua reazione è quella di un « sostanziale disimpegno » (De Robertis, p. 173), sebbene celebri in chiave iperbolica la bellezza di Pinella. Questo “incontro termale”, avvenuto ai bagni di Lizzano in Belvedere, può essere considerato un’altra variazione della pastorella tradizionale, come dimostrano i contatti con la ballata delle foresette (Cavalcanti, xxxa), messi in luce dagli esegeti (vd. almeno PDSN, p. 234, e De Robertis, p. 170). Maliziosa è anche la proposta erotica avanzata da Gianni Alfani nel sonetto Guido, quel Gianni ch’a te fu l’altrieri (Alfani, vii): una ragazza pisana innamorata di Cavalcanti si rivolge a Gianni per sapere se Guido sia disposto a ricambiare il proprio sentimento; ella sarebbe pronta a raggiungerlo 51. Potrebbe essere il corrispondente di Cino: vd. Cino, cxl e d. va-b.

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e a concedersi in gran segreto, evitando cosí le remore dei propri genitori, ai quali di fronte al fatto compiuto resterebbero solo minacce pronunciate da lontano e quindi per nulla efficaci. Gianni garantisce circa la disponibilità dell’amico. Nella sua risposta (Cavalcanti, xliii), Guido si dichiara pronto a corrispondere ai desideri della giovane pisana e fa presente di essere ben fornito delle armi d’amore, ma, ammiccando, mette in guardia l’amico che si è esposto al ruolo di ruffiano.52 Nel sonetto La bella donna dove amor si mostra (Cavalcanti, xlixa), Guido celebra, con un’infilata di motivi e immagini cortesi ma non senza ironia, le virtú della donna di Guido Orlandi. A quest’ultimo sembrano, tuttavia, sfuggire i particolari ironici della proposta, cosicché in A suon di trombe, anzi che di corno (Cavalcanti, xlixb), utilizzando modalità proprie del souhait (‘augurio’), l’Orlandi gioisce della celebrazione della propria donna fornita dal proponente e a sua volta la esalta, pregando la Madonna affinché la ragazza si mantenga sempre fedele al suo amante, come del resto si addice a lei, che è una campionessa di onestà. Di diverso tenore è un altro scambio con l’Orlandi: la proposta spetta ancora al Cavalcanti (Una figura della Donna mia: Cavalcanti, xlviiia), al quale l’altro Guido risponde con il sonetto rinterzato S’avessi detto, amico, di Maria (Cavalcanti, xlviiib). Il dialogo poetico si riferisce ai miracoli attribuiti a un’immagine della Madonna dipinta in un pilastro della loggia di Orsanmichele – luogo tra l’altro vicino alle case dei Cavalcanti – a partire dal 3 luglio 1292; i fatti sono riportati anche nella Cronica di Giovanni villani (viii 155). Secondo il racconto dello storico, grande fu la devozione popolare, ma essa venne osteggiata dai Domenicani e dai Francescani. Cavalcanti conferma questa devozione e insinua il sospetto che il contrasto dei Francescani sia originato dall’« invidia », cioè dal loro mancato sfruttamento economico del miracolo. Guido Orlandi riconosce le insinuazioni presenti nel sonetto di proposta e, con sfoggio di citazioni scritturali, invi52. Nella rubrica del ms. Chigiano (Ch) – che è testimone unico – si parla di « mottetto ». C. Giunta, Sul “mottetto” di Guido Cavalcanti, in Id., Codici, cit., pp. 207-37, propone di leggere il testo come una « prosa rimata ». Il componimento di Cavalcanti per l’irregolarità dei versi e per la debolezza delle rime è un testo quasi ametrico, in ogni caso fortemente anomalo, che non ha compagni nella poesia duecentesca. Alla prosa riconducono invece gli omoteleuti, le rime perfette e imperfette, il cursus, il bisticcio (« salute : salute ») nel saluto iniziale.

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ta l’amico a un atteggiamento di umile contrizione e al rispetto del clero regolare. La posizione di Cavalcanti, secondo alcuni, tradirebbe un sottile intento di provocazione e di scherno verso il culto mariano, cosicché il sonetto è stato inserito nel dossier di Guido ateo, materialista e irriverente blasfemo che tanto piace a certi critici moderni.53 Tuttavia, come ha spiegato Marco Grimaldi, da questo scambio di testi è difficile dedurre automaticamente l’irreligiosità o l’incredulità del Cavalcanti.54 Alcuni testi di corrispondenza hanno rilevato che Guido è tutt’altro che sordo al registro comico, secondo una compresenza di toni stilistici ricercata dai poeti del ’200, e già evidenziata del resto nell’esiguo corpus di Guinizzelli. Basterebbero le rime in -uzza per ascrivere al registro comico il sonetto Guata, Manetto, quella scrignutuzza (Cavalcanti, li). Il componimento ha un evidente rapporto, anche se è difficile stabilire la priorità, con un sonetto adespoto del ms. Chigiano (Ch), Deh, guata, Ciampol, ben questa vecchiuzza, dove la protagonista è una vecchia. Guido invece si diverte a fornire la caricatura di una gobbetta azzimata, che fa morire dal ridere. Secondo alcuni interpreti,55 nel testo trapelerebbe l’intento parodico di Cavalcanti, in particolare nella ripresa di temi cari allo stilnovo come quello della donna accompagnata, e centrali nella sua concezione d’amore, come quello della patologia erotica che conduce alla morte (qui però di risate). E la parodia sarebbe ben piú marcata e irridente se il destinatario fosse veramente Manetto Portinari, il fratello di Beatrice (e cfr. V.n., xxxii 1-2 e xxxiii 1-3), e la « scrignutuzza » la gentilissima donna di Dante.56 53. vd. per es. Cavalcanti, Rime, ed. Cassata cit., p. 215; e R.L. Martinez, Guido Cavalcanti’s ‘Una figura della donna mia’ and the Specter of Idolatry Haunting the Stilnovo, in « Exemplaria », vol. xv 2003, pp. 297-324. 54. vd. Grimaldi, L’incredulità di Cavalcanti, cit., p. 32. 55. vd. M. Ciccuto, Una figura del disamore in Guido Cavalcanti, in Id., L’immagine del testo. Episodi di cultura figurativa nella letteratura italiana, Roma, Bonacci, 1990, pp. 15-31. 56. Per questa interpretazione vd. G. Gorni, Manetto tra Guido e Dante, in Id., Guido Cavalcanti. Dante e il suo « primo amico », Roma, Aracne, 2009, pp. 63-79 (già edito in Seminario dantesco internazionale. Atti del primo Convegno tenutosi al Chauncey Conference Center, Princeton, 21-23 ottobre 1994, a cura di Z.G. Baran;ski, Firenze, Le Lettere, 1997, pp. 25-40). vd. anche Rea-Inglese, p. 273: « Certo è che le corrispondenze dei v. 4 e 14 con la lode dantesca di Negli occhi porta, 12 e Donne ch’avete, 35-36 sembrano difficilmente controvertibili, e lasciano trapelare per lo meno una disincantata ironia nei confronti dell’operazione

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Di tono ironico e severamente sarcastico, è invece Novelle ti so dire, odi, Nerone (Cavalcanti, lii), indirizzato a un esponente della propria famiglia, accusato di viltà e di un non ben precisato scambio con la famiglia Buondelmonti, notoriamente avversa ai Cavalcanti. Infine, in Se non ti caggia la tua santalena (Cavalcanti, xlv), Guido si rivolge a un’imprecisata persona che si è trasferita in campagna. In tono parodico costui viene messo in guardia dai rischi di quell’investimento, anche perché piú che di un semplice cambiamento di residenza pare trattarsi di un cambiamento di abitudini e di vita, nel quale per di piú è coinvolta, suo malgrado, la moglie Bettina.57

messa in atto da Dante nella Vita nova ». L’identificazione di Manetto Portinari risale comunque a P. Ercole, Guido Cavalcanti e le sue rime. Studio storico-letterario seguito dal testo critico delle rime, con commento, Livorno, vigo, 1885. Questa lettura è certamente suggestiva, ma non priva di dubbi, come ha mostrato Giunta, Versi, pp. 306-21. 57. Su questo testo, di non perspicua lettura, vd. G. Gorni, La ‘santalena’ di Guido (‘Rime’ xlv), in Id., Guido Cavalcanti, cit., pp. 81-85.

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1. Vita Guittoncino de’ Sinibuldi, detto Cino, nacque a Pistoia intorno al 1270. La sua famiglia – registrata nei documenti anche con le grafie Sighibuldi, Sigibuldi e Sigisbuldi – era tra le piú cospicue della città per antica nobiltà e ricchezza, e militava nella Parte nera. Cino seguí per 5 anni la scuola di arti liberali del grammatico Francesco da Colle e iniziò lo studio del diritto sotto la guida di Dino del Mugello, di cui ricorderà spesso con deferenza gli insegnamenti, sempre indicandolo come « praeceptor », « doctor », « dominus meus ». Frequentò l’Università di Bologna, e fu discepolo anche di Francesco d’Accursio e di Lambertino Ramponi. Fu poi in Francia, dove arricchí la sua formazione giuridica alla scuola di Orléans, tanto che ebbe sempre ben presente l’opera dell’insigne maestro del metodo dialettico, il giurista Pierre de Belleperche (12501308). Soggiornò di nuovo nella città felsinea tra il 1297 e il 1301, ma sicuramente non vi conseguí allora il grado dottorale. Ritornato a Pistoia, venne coinvolto suo malgrado nelle lotte intestine tra Bianchi e Neri, e nel 1303 fu costretto all’esilio durato fino al 1306, quando riuscí a rientrare in séguito alla vittoria della Parte nera. Ottenne l’ufficio di assessore alle cause civili, ma due anni piú tardi lasciò nuovamente la città. Per superare il conflittuale contesto socio-politico e la paralizzante situazione economica di Pistoia e degli altri comuni toscani, Cino, come Dante, sperò nel rinnovamento che sembrò apparire all’orizzonte con la discesa in Italia di Enrico vII: e infatti si impegnò in prima persona accettando l’ufficio di assessore di Ludovico di Savoia, il quale era stato nominato senatore di Roma (1310-1311). Tra i progetti c’era anche quello di favorire l’incoronazione imperiale del lussemburghese, ma l’improvvisa scomparsa di Enrico a Buonconvento, presso Siena, il 24 agosto 1313 spense i sogni di quanti credettero in lui. Frutto di questa stagione filo imperiale è la fortunata Lectura in Codicem conclusa l’11 giugno 1314. Nello stesso anno, il 9 dicembre, Cino conseguí il dottorato a Bologna. 312

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L’esame, sostenuto e approvato nella guelfa città emiliana, è un segno di svolta: negli anni seguenti, infatti, egli non solo lavorò come giurista e come docente universitario in ambienti guelfi, ma maturò posizioni curialiste che si intravedono nei suoi scritti giuridici successivi. Fino alla primavera del 1315 fu giudice collaterale – cioè un giurista esperto che fungeva da consigliere e giudice, e talora aveva il ruolo di vicario – a Siena, dove ritornò tra il 1318 e il 1319, dopo una parentesi pistoiese e fiorentina. Dal dicembre 1319 al luglio 1321 fu giudice collaterale di Amelio da Lautrec nella Marca di Ancona, ufficio remunerato con la somma di 100 fiorini d’oro l’anno. Lasciata la Marca, iniziò l’insegnamento universitario di diritto civile nello Studio senese, nell’anno della sua grande espansione favorita dall’emigrazione di docenti e studenti da Bologna. Lo stipendio di Cino era di circa 200 fiorini, e gli fu elevato a 280 nel 1326. Dal 1326 al 1330 insegnò a Perugia, dove ritornò nel 1332, dopo un’infelice esperienza napoletana. Ormai anziano, si ritirò definitivamente a Pistoia. Eletto gonfaloniere il 31 luglio 1334 per il bimestre agosto-settembre, rinunciò alla carica dopo soli 14 giorni. Nel 1336 fu nominato membro del Consiglio del Popolo per il semestre aprile-settembre, ma non si sa se abbia accettato e mantenuto l’ufficio. Effettivamente il 12 dicembre 1336 Cino era già gravemente malato e in pochi giorni il suo quadro clinico precipitò. Il 23 dicembre dettò testamento «sanus mente et intellectu licet corpore languens» (‘sano e lucido di mente sebbene fisicamente debilitato’): il giorno dopo morí. Fu sepolto solennemente nel duomo di Pistoia. Il sepolcro marmoreo fu eseguito dal senese Agostino di Giovanni: al centro del pannello sepolcrale Cino è raffigurato seduto in cattedra, mentre ai due lati sono ritratti gli allievi, con i libri aperti sul banco e con gli sguardi rivolti al maestro. 2. Il corpus delle rime La perdurante assenza di un’edizione critica e l’incerta delimitazione del corpus delle sue rime continuano a penalizzare Cino da Pistoia. Le formule critiche vulgate di “liquidatore dello Stilnovo”, di monotono “ripetitore di stereotipi” e, piú generosamente, di “mediatore tra Dante e Petrarca” andrebbero tuttavia rivedute. Il suo è uno dei canzonieri piú ricchi della lirica delle Origini, che si se313

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gnala anche per la varietà tematica e per il rilevante numero dei corrispondenti. Se si includono pure le 30 rime dubbie, infatti, il corpus di Cino si avvicina quasi ai 200 testi, dieci volte piú grande di quello di Guinizzelli e quattro volte maggiore di quello del secondo Guido. Inoltre, nonostante le riserve di alcuni – tra le quali spicca quella già analizzata di Cavalcanti (vd. Cavalcanti, cxxxi, e pp. 243-48) –, i giudizi dei contemporanei e dei poeti delle generazioni successive sono tutt’altro che negativi: come si è visto alle pp. 95-99, Dante lo nomina piú volte nel suo trattato, dove lo promuove all’impegnativo ruolo di poeta dell’amore per eccellenza (D.v.e., ii 2 8); Petrarca lo cita ripetutamente e ne piange la morte (R.v.f., xcii); Boccaccio riscrive nel Filostrato, v 62-65, la canzone La dolce vista e ’l bel guardo soave (Cino, cxi), uno dei testi piú famosi del corpus ciniano. Del resto anche i plurimi – controversi e non ancora risolti – problemi di attribuzione Dante-Cino sarebbero un dato significativo da non sottovalutare nella formulazione di un giudizio piú equo e circostanziato sulla produzione del poeta pistoiese. Quello che cent’anni fa Michele Barbi definí « il piú disgraziato tra i disgraziati canzonieri antichi »1 si legge ancora per molti pezzi in uno stato testuale del tutto insoddisfacente, con inevitabili ripercussioni sull’esegesi, per non parlare del problema dell’ordinamento dei testi. Meritorie sono state le ricerche di Domenico De Robertis, che ha fissato il testo dei 46 componimenti presenti nell’antologia continiana, ma essi sono circa un quarto del totale.2 Il resto si legge ancora secondo la lezione stabilita in precedenza per le antologie di Guido Zaccagnini (1925) e di Luigi Di Benedetto (1939), entrambe filologicamente inaffidabili.3 Qualche emendamento ha portato recentemente Davide Cappi in uno studio dedicato ai sonetti.4 L’augurio è che possa essere il preludio di quell’edizione critica che un poeta come Cino decisamente merita. 1. M. Barbi, Per una nuova edizione di Cino da Pistoia, in « Il Marzocco », 18 gen. 1914, p. 1. 2. vd. Contini, pp. 193-254, e pp. 373-76 per la Nota al testo. 3. Le rime di Cino da Pistoia, a cura di G. Zaccagnini, Genève, Olschki, 1925; Rimatori del Dolce stil novo, ed. Di Benedetto cit. 4. vd. Cappi, Emendazioni, cit., pp. 31-69. Una riflessione preliminare circa l’edizione delle ballate di Cino offre A. Casu, Strategie attributive e canone della tradizione: per l’edizione delle ballate di Cino da Pistoia, in Percorsi incrociati. Studi di letteratura e linguistica italiana. Atti del Dies Romanicus Turicensis, Zurigo, 23 maggio 2003, a cura di F. Broggi, G. Nicoli, L. Pescia,

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3. Tra Dante e Guido Gli esordi poetici di Cino si collocano probabilmente nell’ultimo decennio del ’200, che come si è piú volte detto è un periodo cruciale e di svolta della poesia italiana antica. Le sue dichiarazioni di poetica in difesa della novità stilnovistica e contro la vecchia scuola – già analizzate alle pp. 139-54 – sono inequivocabili (Cino, cxxxiiib), e in particolare Cino è tra i primi che coglie la novitas della Vita nuova (Cino, cxxv e d. vb). Eppure egli non rimase sordo anche alla lezione di Cavalcanti, tanto piú che cantò a lungo gli effetti tragici e sconvolgenti sull’io di un amore senza mercede. Numerosissimi sono i prelievi – che a un certo punto gli comportarono, si è detto (pp. 243-48), un’accusa di plagio da parte dello sdegnoso fiorentino (Cino, cxxxi) –; il piú delle volte essi non sono neppure troppo dissimulati, come dimostrano ad es. il sonetto xxxv e le canzoni xxxviii-xxxix, che rimandano decisamente a Donna me prega (Cavalcanti, xxviib). In Bene è forte cosa il dolce sguardo (Cino, xxxv), il poeta descrive nei modi consueti il processo dell’innamoramento, che si origina dal dolce sguardo della donna e colpisce il cuore, dove si forma l’immagine interiore che suscita il sentimento. La passione è cosí intensa che, contrariamente a quanto espresso da Dante in V.n., ii 9, non può essere moderata dalla ragione, tesi come sappiamo cara a Guido. La canzone I’ no spero che mai per mia salute (Cino, xxxviii) è citata da Dante nel D.v.e., ii 5 4, tra le « cantiones illustres » per l’uso dell’endecasillabo in apertura di componimento, sebbene l’incipit riportato sia leggermente diverso: Non spero che giamai per mia salute. L’effetto fonico-ritmico è potenziato, come in Donna me prega, dalle frequenti rime interne, in quinta e settima posizione. Cino, come Guido, rappresenta qui una passione d’amore irrefrenabile, sconvolgente e irrazionale. Ne deriva l’inevitabile sofferenza del poeta, visto che il suo amore non è ricambiato dalla donna, la quale è talmente altera nella sua straordinaria bellezza da non concedere all’innamorato alcun cenno di confortante speranza. Cino riprende l’argomento anche nella canzone successiva, L’uom che conosce tegno ch’aggi ardire (Cino, xxxix), dove esprime la tragica ineluttabiT. Stein, Leonforte, Insula, 2004, pp. 11-31. Per aspetti concernenti l’ordinamento cfr. Marrani, Macrosequenze d’autore, cit., pp. 22-29.

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lità dell’esperienza amorosa, quando la passione sboccia irresistibilmente cosí da soverchiare la volontà e dunque la responsabilità individuale, e quando la donna non si mostra disponibile, nemmeno per compassione, a ricambiare il sentimento. Si leggano i vv. 23-28: Cosí fu’ io ferito riguardando; poi mi volsi, tremando – ne’ sospiri; né fïe piú ch’i’ miri – a lui giammai, ancor ch’omaï – non possa campare; ché s’i’ ’l vo’ pur pensare – tremo tutto: di tal guisa il conosce il cor distrutto!

Il cavalcantiano intelligibile immaginare d’amore (Cino, xliii 7) ora sconvolge l’io ora lo appaga, e nel sonetto Ora che rise lo spirito mio (Cino, xlvii 7) – che Contini, p. 222, definí giustamente « una vetta della poesia stilnovistica » – il colloquio euforico con il fantasma interiore dell’amata attrae il poeta in una sorta di delirio psichico, in cui l’illusione positiva di una donna accondiscendente si sostituisce alla dura realtà: Ora che rise lo spirito mio, doneava il pensero entro lo core, e con mia donna parlando d’amore, sotto pietate si covria ’l disio: perché là il chiama la follia ched io vo i‹n›seguendo, e mostrone dolore, e par ch’i’ sogni, e sia com’om ch’è fòre tutto del senno e se stesso ha ’n oblio. Per questo donear che fa ’l pensero, fra me medesmo vo parlando, e dico che ’l suo sembiante non mi dice vero quando si mostra di pietà nemico, ch’a forza par ched el si faccia fero: per ch’io pur di speranza mi nutrico.

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‘Nel momento in cui il mio spirito sorrise, il pensiero conversava d’amore nel cuore, e parlando d’amore con la mia donna, il desiderio si rifugiava nella pietà: la follia d’amore che continuo a inseguire attira il mio pensiero a quella conversazione immaginaria, e di questo vano inseguimento si mostra il dolore, e pare che io sia in una condizione di delirio, alienato da 316

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me stesso e dimentico di me. A causa di questa conversazione amorosa interiore mi dico che l’aspetto esteriore della mia amata mente, poiché pare che esso si sforzi di apparire feroce: perciò continuo a nutrirmi di speranza’. Il dialogo piú fitto e diuturno è però con Dante. Anche senza considerare la discussa risposta al sonetto A ciascun’alma presa e gentil core,5 il sodalizio poetico inizia all’altezza cronologica della Vita nuova e si protrae fino alla morte dell’Alighieri, pianta da Cino nella canzone Su per la costa, Amor, de l’alto monte (Cino, clxiv). A differenza del primo Guido riconosciuto come auctoritas nel sonetto Amore e ’l cor gentil sono una cosa (vd. V.n., xx 3-5) e del secondo Guido cui è dedicato il prosimetro, Cino non entra nel libello. Lo abbiamo già visto tuttavia impegnato nella difesa della Vita nuova (vd. pp. 139-48). Quanto quel libro lo abbia colpito lo dimostrano non solo i numerosi prelievi variamente disseminati nelle sue rime, ma soprattutto l’interazione diretta e la riscrittura di interi episodi, come si è già messo in luce (cfr. pp. 248-54). Benché ammetta esplicitamente di non essere stato sollecito, Cino infatti indirizza la canzone Avegna ched el m’aggia piú per tempo (Cino, cxxv) a Dante per consolarlo della morte di Beatrice, e il testo è cosí infarcito di citazioni dal libello, che va certamente collocato non a ridosso del supposto evento biografico ma in séguito alla pubblicazione della Vita nuova. Il sonetto Grazïosa Giovanna, onora e ’leggi (Cino, lxiii) è stato poi messo in relazione con V.n., xxiv, in cui Dante agens vede venire presso di sé Giovanna e Beatrice. Nel componimento di Cino, Giovanna – che occorre non dimenticare è il nome dell’amata del Cavalcanti – ha il compito di designare entro un corteggio di donne colei che impersona Amore.6 Oltre alle interazioni piú o meno dirette, il riuso di materiali del libello è fitto. Se sonetti come Tutto mi salva il dolce salutare (Cino, ii), Una gentil piacevol giovanella (Cino, iii), Vedete, donne, bella creatura (Cino, iv), Sta nel piacer de la mia donna Amore (Cino, vii) ecc. si possono ritenere una condensazione di stilemi e motivi genericamente stilnovistici, decisamente danteschi sono Se voi udiste la voce dolente (Cino, lxiv), che si riconnette al tema 5. Per il sonetto Naturalmente chere ogni amadore (Cino, d. xxiv), conteso tra Cino e Terino da Castelfiorentino, vd. pp. 232 e 248. 6. Per questo sonetto cfr. soprattutto la lettura di G. Marrani, Ai margini della ‘Vita Nova’: ancora per Cino ‘imitatore’ di Dante, in La lirica romanza del Medioevo, cit., pp. 757-76.

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del gabbo di V.n., xiv-xvi, e soprattutto il ciclo di 8 sonetti dedicati a una donna sensibile e pietosa che consola il poeta (Cino, xcii-xcix), che è una evidente riscrittura dell’episodio della donna gentile del libello (vd. V.n., xxxv-xxxix). Come Beatrice anche Selvaggia – l’amata di Cino, identificata fin dal ’500 con una donna della famiglia pistoiese dei vergiolesi – muore, e il poeta ne canta la dipartita nella canzone Oïmè lasso, quelle trezze bionde (Cino, cxxiii). A differenza però della gentilissima, la cui morte è un’assunzione al cielo, Selvaggia ha una sepoltura, cosicché nel sonetto Io fu’ ’n su l’alto e ’n sul beato monte (Cino, cxxiv), Cino può visitare la sua tomba a Sambuca, presso l’Appennino pistoiese. Questo è un episodio evidente di una storia d’amore che si intravede in vari punti del corpus. In effetti, la ricerca di Cino è un incessante vagheggiamento che si traduce in un continuo viaggio nella memoria, in un elegiaco ascolto dei ricordi, nella rievocazione sofferta di immagini lontane e in un inquieto soliloquio, come emerge nella già ricordata La dolce vista e ’l bel guardo soave (Cino, cxi) la sua canzone piú celebre, costituita da cinque stanze e congedo. Il poeta, lontano da Selvaggia, si dispera e si augura di morire, cosicché la sua anima possa ritornare a Pistoia presso l’amata. Tradizionalmente si interpreta la canzone come espressione del sentimento doloroso di Cino, esiliato da Pistoia tra il 1303 e il 1306 a causa delle lotte intestine tra Bianchi e Neri. Si legga la prima stanza (Cino, cxi 1-9): La dolce vista e ’l bel guardo soave de’ piú begli occhi che lucesser mai, c’ho perduto, mi fa parer sí grave la vita mia ch’i’ vo traendo guai; e ’nvece di pensier’ leggiadri e gai ch’aver solea d’Amore, porto disir’ nel core che son nati di morte per la partenza, sí me ne duol forte.

‘La tenera e affascinante intensità dello sguardo dei piú begli occhi che mai abbiano brillato, e che ora io ho perduto, mi fa apparire cosí angosciosa la mia vita che io continuo a lamentarmi; e invece dei pensieri delicati e lieti ch’ero solito avere da Amore, ho in cuore desideri nati dalla morte, a causa della mia partenza, tanto intenso è il dolore che provo’. 318

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Certamente meno incline ad approfondimenti filosofici e meno suggestionato da ansie metafisiche, quali caratterizzano in particolare Dante e Cavalcanti, Cino insiste sulla interiorità e rivendica la sincerità della propria poesia, prodotto di quello spirito d’Amore che parla dentro di lui, tanto che lo stesso stile è aderente all’ispirazione interiore, ed è uno stile che vuole essere « dolce » e « nuovo » (Cino, cli 9), aggettivi che compaiono, come noto, nella celebre definizione dantesca (Purg., xxiv 57). Dotato di indubbie abilità retoriche e di sapienza metrica, Cino ricerca con insistenza una grazia formale apprezzata in primis da Dante (oltre ai giudizi del D.v.e., vd. anche Rime, cxiii 2), cosicché la sua poesia si contraddistingue per dolcezza e per sapiente musicalità, caratteri che gli furono poi riconosciuti da Francesco De Sanctis: « non gli fa difetto la melodia e l’eleganza, con una certa vena di tenerezza » (Storia della letteratura italiana, ii 10). Piú che all’intensità creativa, Cino punta alla modulazione dei registri: temi e forme – anche dei modelli meno recenti come i siciliani e i prestilnovisti – si combinano in modo inedito e danno vita a una poesia che nella novità del riuso trova la sua essenza. All’orizzonte si intravede la nuova alba petrarchesca.7 Come già Dante e i due Guidi, anche Cino non rinuncia alla varietà dei registri. Lo dimostra per esempio il sonetto comico Voi che per simiglianza amate ’ cani (Cino, cxxii), in cui un mancato dono di un cane da parte di imprecisati amici cinofili fa riflettere il poeta sulla sua sventurata condizione di amante e uomo sfortunato; ma questa volta saprà vendicarsi. Si può ricondurre al medesimo registro anche il sonetto Un anel corredato d’un rubino (Cino, clvii), in cui il pistoiese dichiara di poter regalare al destinatario favolosi gioielli;8 l’iperbolico valore delle pietre fa pensare a un significato ironico, tanto piú che il destinatario potrebbe ritenere « piccolino » 7. Cfr. A. Roncaglia, Cino tra Dante e Petrarca, in Cino da Pistoia. Atti del Colloquio di Roma, 25 ottobre 1975, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1976, pp. 7-31, a p. 31: Cino trasmette a Petrarca una « concezione della poesia come attento artigianato letterario […] un modo di lavorare con amorosa pazienza e delicata sottigliezza sul linguaggio della tradizione […] mediando con discrezione (e sia pure a scapito dell’intensità creativa) tra modelli e impulsi diversi, senza escludere i piú antichi; Cino da Pistoia ha finito col rappresentare meglio d’ogni altro, agli occhi del Petrarca, la continuità e l’unità di quella tradizione ». 8. Per un accenno allo studio dei lapidari da parte del poeta, vd. anche Cino, clvi 9-10: « Ancor, per divenir sommo gemmieri, / nel lapidaro ho messo ogni mio ’ntento ».

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il dono (v. 8); inoltre la virtú dell’elitropia di rendere invisibili potrebbe alludere a comportamenti non proprio solari da parte dell’eventuale futuro possessore. Il tema politico, che traspare anche in testi amorosi – vd. per es. Sí m’ha conquiso la selvaggia gente (Cino, ciii), la già citata La dolce vista e ’l bel guardo soave (Cino, cxi) e Lasso, pensando a la distrutta valle (Cino, cxix) –, innerva la canzone Da poi che la Natura ha fine posto (Cino, clxiii), scritta per piangere la morte dell’imperatore Enrico vII.9 Ferocemente sarcastica è, infine, la canzone Deh, quando rivedrò ’l dolce paese (Cino, clxv). Il poeta si scaglia senza mezzi termini contro Napoli, nel cui Studio insegnò tra il 1330 e il 1331. Si legga il breve congedo che conclude una serie di accuse contro i napoletani mescolate a dure invettive (Cino, clxv 37-39): vera satira mia, va’ per lo mondo, e de Napoli conta che riten quel che ’l mar non vòle a fondo.

La canzone, definita inequivocabilmente « vera satira », viene inviata nel mondo a sparlare di Napoli, sentina che trattiene in sé ciò che neanche il mare risucchia nel suo fondo; l’interpretazione del verso finale non è perspicua, anche se si potrebbe riconoscere una connotazione scatologica, con allusione maliziosa alle lordure scaricate direttamente nelle strade e nei vicoli.10 4. Rime di corrispondenza Nel corpus sono presenti numerosi testi di corrispondenza. Il dialogo piú fitto è quello, già esaminato, con Dante. Frequenti sono poi gli scambi con poeti bolognesi, Onesto degli Onesti, Gherarduccio Garisendi e i non 9. Un altro testo in onore di Enrico vII è anche la canzone L’alta vertú che si ritrasse al cielo (Cino, d. ii), piú ampia di Cino, clxiii. L’attribuzione presente nella rubrica di alcuni mss. è però sospetta. 10. Secondo Contini, p. 239, questa interpretazione « non strappa l’assenso ». Su questa canzone vd. la bella e documentata lettura di M. Corrado, « Vera satira mia, va’ per lo mondo, e de Napoli conta che riten quel che ’l mar non vòle a fondo ». L’invettiva antinapoletana di Cino da Pistoia, in Il viaggio a Napoli tra letteratura e arti, a cura di P. Sabbatino, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2012, pp. 81-124.

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meglio identificati Bernardo (probabilmente lo stesso poeta che è stato in rapporto con Cavalcanti), Picciòlo, Cacciamonte. Altri corrispondenti sono i concittadini Mula dei Muli e Guelfo Taviani, il fiorentino Binduccio, l’ascolano Francesco Stabili, noto anche come Cecco d’Ascoli, il perugino Marino Ceccoli, il reggiano Gherardo, un Meuccio probabilmente senese. Questa apertura geografica non deve stupire, se si considerano i frequenti spostamenti di Cino, motivati ora da ragioni politiche ora da ragioni professionali. Nella corrispondenza poetica Cino è frequentemente accusato di volubilità sentimentale; del resto – nonostante le difese del pistoiese – non si può dimenticare che la sua poesia celebra, oltre a Selvaggia, diverse donne, come dimostrano per es. i sonetti lxxvii-lxxviii, in cui Cino confessa di essere irresistibilmente attratto da una donna dagli occhi neri e forse dai capelli corvini (si ricorderà invece che Selvaggia è bionda e ha gli occhi chiari).11 In genere la tenzone è a due voci, ma non manca un caso di scambio a piú voci. Nel sonetto Vinta e lassa era l’alma mia (Cino, clviiia), Cino ha un sogno e chiede che venga interpretato: il modello è evidentemente l’episodio di V.n., iii. Il codice unico (il ms. Marciano It. IX 529) ha tramandato 8 risposte, 2 di un non meglio identificato Nicola, 3 rimaste anonime, e 3 di poeti già ricordati tra i corrispondenti del pistoiese, Mula dei Muli, Cacciamonte e Picciòlo. La tenzone plurima rientra pienamente nel fecondo filone dell’interpretazione dei sogni in poesia,12 e si caratterizza anche per una serie di artifici retorici e di difficoltà verbali non sempre decifrabili. Giuseppe Marrani ha restituito l’ordine secondo la disposizione del codice, cosicché si può ora apprezzare la serialità del gioco letterario, perché ogni poeta tiene conto delle risposte precedenti, come se avesse vergato il proprio testo di séguito agli altri.13

11. Su questi due sonetti vd. Marrani, Cino da Pistoia: profilo di un lussurioso, cit. 12. vd. Dante, Rime, ed. Grimaldi cit., cappello introduttivo a Rime, i. 13. vd. Marrani, Identità del frammento marciano dello « stilnovo » (It. IX 529), cit., p. 172.

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1. Lapo Gianni Lapo Gianni è figura ancora sfuggente. L’identificazione attualmente piú accreditata è con un ser Lapo di Gianni de’ Ricevuti, fiorentino, « imperiali auctoritate iudex ordinarius et notarius publicus » (‘per autorità imperiale giudice ordinario e pubblico notaio’), come egli stesso firmò in una pergamena autografa datata 2 febbraio 1300. Presso l’Archivio di Stato di Firenze si conservano sue carte – alcune autografe – risalenti a un periodo a cavallo fra ’200 e ’300: il protocollo comprende atti rogati fra il 1298 e il 1328, ma non si può escludere che i suoi rogiti abbiano termine prima, e gli ultimi, del 1327 e 1328, siano da attribuire a un altro Lapo Gianni. I documenti indicano che la sua attività si svolse a Firenze e in Toscana (Cortona e il Casentino), ma anche a Bologna e a venezia. Sappiamo poi da due suoi componimenti (vd. Lapo, vi e vii) che si trovava lontano da Firenze, forse a San Miniato al Tedesco, presso Pisa. Intrattenne relazioni d’affari col poeta e notaio Francesco da Barberino (1264-1348), autore dei Documenti d’Amore e del Reggimento e costumi di donna. L’esiguo corpus di rime di Lapo comprende 17 poesie: 11 ballate, 3 canzoni, 2 stanze di canzone e un sonetto doppio caudato, numeri che rivelano la spiccata preferenza per la ballata e la rilevante assenza del sonetto canonico. Si possono individuare alcuni collegamenti tra i suoi componimenti: un dittico è costituito dalla canzone Donna, se ’l prego de la mente mia e dalla stanza di canzone Se tu, martorïata mia Soffrenza (rispettiv. Lapo, vi-vii), tanto che quest’ultima è parsa a diversi editori come un secondo congedo, mentre – giusta la lettura di Contini, p. 149 – è da intendersi come il testo di accompagnamento della prima. Evidenti sono poi i legami fra le tre ballate Novelle grazie a la novella gioia, Questa rosa novella, e Ballata, poi che ti compuose Amore (rispettiv. Lapo, x-xii), tutte indirizzate alla donna e incentrate sulla gioia dell’innamoramento. L’ultimo componimento della mini serie condensa forme e motivi tipici del Dolce stil novo: pervasa dall’autentico sentimento del poeta perché 322

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composta da Amore in persona che risiede nella mente, dotata di gentilezza di modi e di uno stile improntato a dolcezza, questa ballata-envoi (‘invio’) è chiamata a cogliere il momento favorevole per parlare alla donna, essere superiore per bellezza, valore e facoltà di esprimersi, tanto che le parole di lei paiono angeliche. Un altro trittico è formato dalle prime tre ballate dove, grazie all’intercessione di Amore, Lapo è riuscito a ottenere la benevola disponibilità dell’amata a contraccambiare il sentimento. La prima ballata, Eo sono Amor, che per mia libertate (Lapo, i), è strutturata su un dialogo tra Amore e la donna, ed è caratterizzata da modi e da un linguaggio tradizionali, come rivelano i frequenti provenzalismi entrati in volgare attraverso i siciliani. Alla richiesta di Amore che spontaneamente intercede in favore dell’amante suo servo fedele, la donna acconsente e concede la propria benevolenza, liberando l’innamorato da uno stato di angoscioso dolore. Se però in Amore, i’ non son degno ricordare (Lapo, ii) il poeta ringrazia Amore per quest’opera di mediazione, nella successiva, Gentil donna cortese e dibonare (Lapo, iii), emerge la colpa dell’amante che è giunto a tale folle presunzione da rivelare la gioia d’amore provata, con conseguente disonore della donna: è la trasgressione di uno dei precetti fondamentali dell’amore cortese; di fronte al riconoscimento del peccato e all’intima contrizione, la donna concede un generoso perdono; ciò nonostante ha poi iniziato una nuova guerra, mostrandosi sdegnosa. La ballata Amore, i’ prego la tua nobeltate (Lapo, viii) può pertanto essere riconnessa agli ultimi versi di Lapo, iii – di cui tra l’altro ha la stessa orditura metrica –, dal momento che si riferisce all’atteggiamento ostile della donna, seguíto a un periodo di perfetta intesa; e dunque l’invito ad Amore affinché intervenga nuovamente sull’amata è un chiaro collegamento con il trittico che inaugura il corpus. La suggestione che su Lapo esercitarono in pari grado sia Guido sia Dante si rileva nella coppia Angelica figura novamente e Dolc’è il pensier che mi notrica ’l core (rispettiv. Lapo, iv-v), due ballate che si possono congiungere per opposizione: nella prima Lapo esprime in termini disforici cavalcantiani, come rivelano i numerosi prelievi, gli effetti tragici dell’innamoramento, nella seconda rappresenta, in termini euforici, un’epifania femminile e le conseguenze benefiche e nobilitanti dell’innamoramento, con marcate allusioni al Dante della Vita nuova e delle prime rime. 323

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Si ricollega invece alla tradizione del planh occitano o del complainte oitanico la lunga canzone O Morte, della vita privatrice (Lapo, xiii), costituita da 6 stanze di 16 versi ciascuna e congedo di 7. Lapo mostra chiaramente la volontà di alzare il tono stilistico, come rivelano le ricercate simmetrie e gli evidenti parallelismi. Si può notare, infatti, che in ogni stanza il v. 1 inizia con O Morte; il v. 2 con un o che inaugura un altro vocativo riferito alla Morte (salvo che nella vi stanza dove o è congiunzione disgiuntiva); al v. 5 le strofe pari (con l’eccezione dell’ultima stanza) hanno un iniziale Perché; le dispari Perché tu. Lo stesso impegno retorico si intravede anche in Amor, nova ed antica vanitate (Lapo, xiv), canzone di soli endecasillabi, in cui il tessuto metrico è impreziosito anche da rime interne in posizione variabile. In questa canzone-lamento contro Amore è ancora evidente la ricerca di simmetrie e parallelismi, già segnalata nella canzone precedente. Le 5 stanze iniziano tutte con il vocativo Amor (Amore nella v stanza), che introduce una rappresentazione tradizionale del dio: nudo, angelo, cieco, fanciullo, arciere, e tutte queste caratteristiche sono poi ricapitolate nel congedo anch’esso introdotto dal vocativo Amor. Il secondo piede, che comincia sempre con un deh, si risolve in un’interrogazione (i stanza) o per lo piú in un’esclamazione (stanze ii-v). La sirma – che inizia sempre con provo ciò (i e iv stanza), provo ben ciò (iii stanza) o provol (ii e v stanza) – intende dimostrare, e non a caso è riconoscibile il modello della quaestio medievale, quanto espresso in precedenza sulla base dell’esperienza personale del poeta sofferente per colpa di Amore. viene in mente il già ricordato Trattato d’amore di Guittone, contro cui appuntò i propri strali Cavalcanti; del resto si è già visto in precedenza che Guido non fu tenero nemmeno con Lapo (pp. 240-43). Nella forma del souhait (‘augurio’) francese, cui si può associare anche il noto Guido, i’ vorrei (Rime, lii), è scritto il sonetto doppio caudato Amor, eo chero mia donna in domíno (Lapo, xvii), in cui Lapo esprime una serie di vaghi e fantastici desideri: essi fluiscono in una soave atmosfera, dove si mescolano i particolari cromatici, gli echi di dolci suoni e gli odori di squisiti profumi; si delinea un mondo di pace, in cui il poeta, padrone del cuore dell’amata, diviene quasi figura esemplare al modo dei biblici Assalonne, Sansone e Salomone, con l’ultimo augurio di entrare, al termine di una perfetta vita, nel cielo empireo: dal paradiso in terra, dunque, al paradiso del cielo. La poesia è una delle piú apprezzate di Lapo e « l’Ar324

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no balsamo fino » risulta posto ad epigrafe di una lirica di Eugenio Montale.1 Il dialogo fitto con la tradizione stilnovista si intreccia in Lapo con quello che si allarga alla tradizione poetica precedente, come dimostra la presenza in diversi testi di modi e di un linguaggio risalenti ai siciliani e ai bolognesi (in particolare Guinizzelli), probabilmente perché proprio a Bologna avvenne la sua formazione di giudice e di notaio.2 Ma al di là dei prelievi, occorre rilevare una spiccata propensione per lo stile piano, il trobar leu dei provenzali.3 L’imbarco sul « vasel » di Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io (Rime, lii) ha decisamente influenzato la collocazione storiografica di Lapo e in un certo senso ha favorito la sua fortuna critica. Come si è già anticipato, però, questa identificazione è stata contestata da Guglielmo Gorni, il quale ha promosso, al posto di Lapo, Lippo Pasci de’ Bardi, da identificare per di piú con il cosiddetto “Amico di Dante”, cioè con l’autore di 5 canzoni e di 61 sonetti tràditi da v.4 Si è in séguito aperto un dibattito, anche vivace, che ha opposto la tesi tradizionale alla nuova ipotesi dello studioso, identificazione che ha avuto il suo picco di gloria quando è stata accolta da Domenico De Robertis nella sua edizione critica delle Rime di Dante, anche se, per la verità, l’editore mette a testo « Lippo » e si limita nel commento a escludere il Gianni. Tuttavia, studi successivi hanno dimostrato l’infondatezza della sostituzione, già debole a livello stemmatico: in un denso saggio Irene Maffia Scariati ha persuasivamente messo in crisi il ragionamen1. Cfr. Alla maniera di Filippo de Pisis nell’inviargli questo libro, compresa nella raccolta Le occasioni. Su di essa vd. la lettura di D. Pirovano, Montale e « l’Arno balsamo fino », in Letteratura e oltre. Studi in onore di Giorgio Baroni, a cura di P. Ponti, Pisa-Roma, Serra, 2012, pp. 473-78, con bibliografia pregressa. 2. Per una ricerca intertestuale vd. l’introduzione di Francesco Iovine a Lapo Gianni, Rime, a cura di F.I., Roma, Bagatto Libri, 1989, pp. 3-30. 3. Per quanto riguarda il discusso rapporto tra Dante e Lapo, bisogna constatare che, in mancanza di dati certi sulla cronologia dei componimenti, il terreno risulta insidioso, sebbene alcuni indizi facciano pensare a un Lapo contemporaneo dell’Alighieri, e a una produzione poetica giovanile, senza tuttavia arrivare a determinare linee direzionali univoche Lapo-Dante o Dante-Lapo, come in passato imprudentemente si è fatto. 4. vd. G. Gorni, Lippo contro Lapo. Sul canone del Dolce Stil Novo, in Id., Il nodo della lingua, cit., pp. 99-124. Per l’edizione delle poesie dell’Amico di Dante, vd. La corona di casistica amorosa, cit.

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to di Gorni, rivalutando i rapporti tra Lapo Gianni, Dante e Guido, e di contro svalutando i contatti tra i maggiori stilnovisti e l’Amico di Dante, poeta che tra l’altro in assenza di ulteriori prove è ancora meglio identificare con la generica dizione continiana di Amico di Dante, perché difficilmente sovrapponibile con Lippo Pasci de’ Bardi.5 Con apprezzabile prudenza, in una questione attributiva delicata come questa, la studiosa preferisce non arrivare a conclusioni definitive, ma allo stato attuale delle ricerche, tramontata la stella Lippo (e in attesa di altre non impossibili sorprese), sembra che l’ipotesi tradizionale (Lapo Gianni) goda ancora di un certo, rassicurante, vantaggio.6 Diverso è invece il problema della citazione di D.v.e., i 13 4, dove Lapo sarebbe annoverato tra coloro che hanno raggiunto l’eccellenza del volgare, ma i codici leggono concordemente Lupum (nel Trivulziano 1088, con la prima u modificata da Trissino in a), tanto che è stata avanzata la candidatura di Lupo degli Uberti (vd. p. 95). 2. Gianni Alfani Un velo di oscurità copre ancora il Gianni Alfani o Gianni degli Alfani – in base alla testimonianza del codice Chigiano (Ch) –,7 autore di un esiguo numero di rime, 6 ballate e un sonetto di registro comico inviato a Guido Cavalcanti (Alfani, vii), che risponde in tono burlesco con un « mottetto » (Cavalcanti, xliii). Secondo alcuni studiosi, il poeta potrebbe essere identificato con il fiorentino Gianni Alfani, immatricolato nell’Arte della seta nel 1243 e morto ai primi del ’300: l’innamoramento veneziano e il viaggio fino al Danubio, di cui si accenna nella ballata De la mia donna vo’ cantar con voi (Alfani, v), si accorderebbero bene con l’attività mercantile, ma è un’identificazione debole, perché, accettata questa età anagrafica per 5. « La trama di corrispondenze individuata tra i sonetti che riguardano il servitore di monna Lagia e le rime di Lapo è di gran lunga piú persuasiva di quella che può legare lo stesso manipolo di sonetti al corpus dell’Amico di Dante » (Maffia Scariati, Non ha Fiorenza, cit., p. 60). 6. E cfr. anche le considerazioni di Giunta, in Rime, pp. 166-67, e di Marco Grimaldi, in Dante, Rime, a cura dello stesso, cit. 7. viene chiamato cosí anche nell’edizione Gianni degli Alfani, Rime, a cura di F. Iovine, Roma, Bagatto Libri, 1996.

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Gianni, non si spiegherebbero agevolmente i suoi rapporti con Guido Cavalcanti, troppo piú giovane di lui. Altri studiosi hanno preferito, allora, identificarlo con il fiorentino Gianni di Forese degli Alfani, gonfaloniere di giustizia nell’ultimo bimestre del 1311, dichiarato ribelle da Enrico vII nel 1313: la sua nascita sarebbe da collocare fra il 1272 e il 1283. Tuttavia, come rileva Contini, p. 169, non sono improbabili altre candidature, vista la frequenza della combinazione onomastica. Anche se non mancano riferimenti alla Vita nuova e alle rime giovanili di Dante che tuttavia non lo nomina mai, l’esile canzoniere di Gianni Alfani si colloca decisamente nell’orbita di quel Guido che nella Ballatetta dolente è definito senza mezzi termini « sol colui che vede Amore » (Alfani, iv 19); riconducono a Cavalcanti non solo il ricordato sonetto di corrispondenza e la preferenza spiccata per la ballata, ma soprattutto una tendenza poetica incentrata sugli effetti tragici e angosciosi dell’innamoramento, con nuclei tematici e moduli stilistici che hanno in filigrana il marchio di Guido, ma che, decontestualizzati e riusati, appaiono pallidi riflessi di quell’alta e sottile lezione poetica, come dimostra per esempio questa ballata (Alfani, iii): 8 Quanto piú mi disdegni, piú mi piaci, e quan’ tu mi di’: « Taci », una paura nel cor mi discende che dentro un pianto di morte v’accende. Se non t’incresce di veder morire lo cor che tu m’ha’ tolto, Amor l’ucciderà ’n quella paura ch’accende il pianto del crudel martire, che mi spegne del volto l’ardire, in guisa che non s’assicura di volgersi a guardar negli occhi tuoi: però che sente i suoi sí gravi nel finir che li contende, che non li può levar, tanto li ’ncende.

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8. Su questa ballata vd. l’analisi di Marti, pp. 550-53; lo studioso non esita tra l’altro a definirla « un vero prezioso gioiello di struttura, forse in senso assoluto il suo piú significativo componimento » (p. 551).

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3. Dino Frescobaldi Dino Frescobaldi nacque a Firenze qualche anno dopo il 1271, terzogenito di Lambertuccio e Adimaringa Ruffoli, convolati a nozze in quell’anno. Dino potrebbe essere diminutivo di Orlandino, nome del nonno materno. Il Frescobaldi sposò, in data imprecisata, una « monna Giovanna », dalla quale ebbe due figli, Matteo, nato intorno al 1297, e Lambertuccio, nato intorno al 1298. Ebbe anche un figlio naturale di nome Francesco. Nonostante la famiglia Frescobaldi, guelfa di Parte nera, fosse una delle piú cospicue di Firenze, arricchitasi grazie alle attività mercantili e finanziarie, non ci sono pervenuti documenti e testimonianze sull’attività pubblica di Dino: risulta solo che fu mundualdo – una sorta di tutore – di due donne, una non nominata nel 1304, e una certa Lapa vedova di Ghino Malduri nel 1305. La sua fama è tutta legata all’attività poetica, fra l’altro esercitata anche dal padre, autore di sonetti di stampo guittoniano, e soprattutto dal figlio Matteo.9 Infatti, al di là della veridicità dell’episodio del ritrovamento dei primi sette canti della Commedia secondo il quale il Frescobaldi ebbe un ruolo importante, il Boccaccio – sia nella versione del Trattatello in laude di Dante, parr. 179-82 (i red.) e parr. 116-20 (ii red.), sia nelle Esposizioni sopra la ‘Comedia’, viii 1 3-17 – definisce Dino « famosissimo dicitore in rima » e « uomo di alto intelletto », in grado di comprendere la profondità del contenuto e l’eleganza formale di quei testi casualmente rinvenuti. Il Frescobaldi morí prima dell’8 aprile 1316: in un documento pervenutoci, infatti, i due figli legittimi sono indicati come « quondam Dini ». Questo dato conferma la testimonianza di Donato velluti che, scrivendo tra il 1367 e il 1370, afferma che Dino era ormai morto da cinquant’anni (velluti, p. 93). La produzione poetica del Frescobaldi tramandata dai manoscritti, e in particolare dal codice Chigiano (Ch), è costituita da cinque canzoni e sedici sonetti, di cui due doppi e uno in tenzone con lo sconosciuto verzellino.10 Come ha dimostrato Gabriele Baldassari, che sta approntando una 9. Per le poesie di quest’ultimo vd. Matteo di Dino Frescobaldi, Rime, ed. critica a cura di G.R. Ambrogio, Firenze, Le Lettere, 1996. 10. Questa tenzone rimanda al provenzale joc partit, come ha persuasivamente dimostrato Giunta, Versi, pp. 247-51. verzellino – di lui si conosce solo il nome riportato nella rubrica dei mss. che tramandano questo testo – propone a Dino una questione, non rara

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nuova edizione commentata delle rime di Dino, nei codici si potrebbe intravedere « un’originaria serie macrotestuale di tredici sonetti, articolati in tre quartetti (di segno negativo, positivo, negativo) seguiti da un epilogo costituito da un unico sonetto: le tre serie si aprirebbero sugli occhi (dell’amata, dell’amante, dell’amante ancora, con l’epilogo che tornerebbe sull’amata, con una disposizione chiastica) e si chiuderebbero, in perfetta coerenza, sulla metafora della donna come stella ».11 In fondo a questa sequenza si potrebbero collocare i due sonetti doppi e la tenzone con verzellino. Lo studio di Baldassari porta ulteriori elementi a favore della paternità della canzone Amore, i’ veggio ben, che nelle sillogi del Dolce stil novo figura spesso come dubbia di Cino. Le prove non sono definitive, ma una sua collocazione tra le dubbie di Frescobaldi non risulta affatto peregrina alla luce delle connessioni riscontrate dallo studioso.12 L’assenza della ballata, la rilevante percentuale delle canzoni nel pur esiguo corpus – con una stanza in cui si può riconoscere una tendenza alla fissità piú che allo sperimentalismo metrico –, e ancora, l’esclusivo schema a rime incrociate nella fronte dei sonetti collocano Dino a valle dello Stilnovo, lungo quella corrente che porterà alla poesia fiorentina e toscana del ’300 e in un certo modo anche a Petrarca. Sorprende, per di piú, che di tutti i poeti entrati nel canone vulgato del Dolce stil novo, Frescobaldi sia l’unico di cui non siano documentati rapporti diretti – come per es. rime di corrispondenza, allusioni polemiche o di apprezzamento, ecc. – con gli altri componenti del gruppo.13 In effetti a Dino va riconosciuto non tanto il ruolo di sodale ma piuttosto quello di continuatore, nella Firenze del primo ’300, della lezione di Dante e di Cavalcanti, i suoi indiscussi punti di riferimento, l’uno esiliato e l’altro defunto al principio del secolo. Incapace di sentire all’unisono con quei due grandi la voce di Amore che « ditta dentro » e privo della grazia formale di Cino, suo contemporaneo, il Frescobaldi si serve ampiamente nelle tenzoni della lirica provenzale e francese e della poesia italiana delle origini: è meglio amare una giovane nubile o una donna sposata? La questione sarà ripresa anche da Boccaccio nel Filocolo, iv 51-54. 11. G. Baldassari, Considerazioni sul corpus di Dino Frescobaldi, in « Studj romanzi », n.s., a. ix 2013, pp. 157-211, a p. 195. 12. Ivi, pp. 196-211. 13. vd. Brugnolo, p. v.

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di materiali danteschi e cavalcantiani, che nel nuovo contesto appaiono certamente riconoscibili ma stemperati.14 Si leggano per es. questi versi (risp. i 1-8; ii 16-19; iv 1-4): Un sol penser che mi ven ne la mente mi dà con su’ parlar tanta paura, che ’l cor non si assicura di volere ascoltar quant’e’ ragiona; perch’e’ mi move, parlando sovente, una battaglia forte, aspra e dura, che sí crudel mi dura, ch’io cangio vista, e ardir m’abandona. Io sento piover nella mente mia Amor quelle bellezze che ’n voi vede, e ’l disio, che vi siede, crescer martiri con la sua vaghezza. Donna, dagli occhi tuoi par che si mova un lume che mi passa entro la mente: e quando egli è con lei, par che sovente si metta nel disio ched e’ sí trova.

La donna di Dino è una giovane che brilla come una stella e che a volte si mostra sdegnosamente indifferente. La sua indisponibilità a ricambiare il sentimento genera angoscia e sofferenza interiore con effetti micidiali, tanto che la morte è vista come sollievo e come fine degli inevitabili tormenti. Emblematico è il sonetto Un’alta stella di nova bellezza (Frescobaldi, ix): Un’alta stella di nova bellezza, che del sol ci to’ l’ombra la sua luce, nel ciel d’Amor di tanta virtú luce, che m’innamora de la sua chiarezza. E poi si trova di tanta ferezza, vedendo come nel cor mi traluce, c’ha preso, con que’ raggi ch’ella ’nduce,

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14. vd. ivi, p. xii: « Dino ormai dal di fuori, con assunzione diretta, cioè, non tanto di una poetica (e dei suoi presupposti ‘storici’) quanto di una testualità ».

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ix. i minori nel fermamento la maggior altezza. E come donna questa nova stella sembianti fa che ’l mi’ viver le spiace e per disdegno cotanto è salita. Amor, che ne la mente mi favella, del lume di costei saette face e segno fa de la mia poca vita.

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A questo sonetto, in cui sono evidenti i moduli disforici cavalcantiani (ma non mancano le citazioni dantesche), si contrappone quest’altro, incentrato sulla serenità interiore del poeta, conseguente alla disponibilità dell’amata. Si veda almeno la fronte (Frescobaldi, xiv 1-8): Questa altissima stella, che si vede col su’ bel lume, ma’ non m’abandona: costei mi diè chi del su’ ciel mi dona quanto di grazia ’l mi’ ’ntelletto chiede. E ’l novo dardo che ’n questa man siede porta dolcezza a chi di me ragiona: in altra guis’Amor sa che persona non fedí mai né fedirà né fiede.

Nel corpus, assai compatto ed esclusivamente amoroso, spiccano alcune immagini – i leoni, la fenice, la lupa, la foresta dei martiri, ecc. – che imprimono un certo dinamismo e un colore nuovi.15 A questo proposito alcuni esegeti hanno voluto cogliere in certi particolari della canzone Voi che piangete nello stato amaro (Frescobaldi, iii) una suggestione dei primi canti dell’Inferno, anche se essi possono essere spiegati poligeneticamente.

15. Per la presenza di similitudini da bestiario nella lirica di Dino vd. L. Sala, Note sugli animali nella poesia di Dino Frescobaldi, in « Lingua nostra », a. lxvii 2006, pp. 87-99.

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X AI MARG I N I DEL D OLC E STI L NOVO. P ER UN N UOVO CANON E

Il canone editoriale dei poeti del Dolce stil novo è stato sottoposto negli ultimi anni a una serie di trazioni, senza però che si sia ancora giunti a una rettifica condivisa. Ammessa la legittimità della revisione – tanto piú che ultimamente si sono compiuti passi importanti se non decisivi in àmbito codicologico, filologico e linguistico sulla poesia delle Origini –, un nuovo canone potrà nascere in séguito a una riscrittura integrale della storia della lirica del ’200 e del primo ’300, in cui comunque il concetto storiografico di Dolce stil novo può ancora avere un senso, nonostante le diuturne contestazioni cui è stato sottoposto e di cui si è detto nel primo capitolo.1 In questa prospettiva sembrano scendere le quotazioni di Lippo Pasci de’ Bardi e dello stesso Amico di Dante, che Contini aveva inserito nella sua silloge sotto l’insegna «vicini degli stilnovisti». Se pare ormai in declino l’ipotesi di identificare l’Amico con Lippo Pasci de’ Bardi, l’identikit dell’anonimo è piuttosto quello di un poeta «da situare cronologicamente a non troppa distanza dall’attività di un Dante ancora giovane ma già celebre come rimatore, e che di Dante pare professarsi, in qualche modo, un seguace e un cultore».2 Non si può certo ignorare che l’Amico scrisse Ben aggia l’amoroso e dolce core (Rime, xv), canzone pronunciata per voce di quelle «donne gentili» alle quali Dante si era rivolto in Donne ch’avete. Tuttavia, l’anonimo pare interagire con la canzone non ancora compresa nella Vita nuova e non ancora assurta a quel ruolo chiave che le verrà assegnato nel libello. Del resto non solo Ben aggia, ma l’intera produzione che viene attribuita all’Amico di Dante (5 canzoni e i 61 sonetti della cosiddetta corona di casistica amorosa) sono tràdite da v, canzoniere notoriamente non stilnovista, e tra l’altro in una lezione talmente corretta da far ritenere plausibile l’autografia.3 1. vd. M. Grimaldi, rec. a PdDSN, in GSLI, i.c.s. 2. vd. Dante, Rime, ed. Grimaldi cit., Rime, xv. 3. Secondo Petrucci, si tratta della iii mano che lavora sul codice (vd. Petrucci, Le mani e le scritture, cit., pp. 31-33).

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x. ai margini del dolce stil novo. per un nuovo canone

Per l’insistenza sul campo semantico della dolcezza, l’Amico potrebbe sembrare uno stilnovista, ma egli decisamente si colloca “al di qua”, fortemente trattenuto dal nodo linguistico e stilistico. A parte la fitta presenza di occitanismi e sicilianismi, la poesia dell’anonimo appare, infatti, dal punto di vista sintattico ancora arcaica e ben lontana dagli ideali di chiarezza propugnati da Dante e Cavalcanti. Si determina, quindi, una netta frattura tra il piano lessicale e quello sintattico. Le ragioni non sono difficili da comprendere: era senz’altro piú semplice, per un rimatore della vecchia guardia (quale sembra a tutti gli effetti, dal punto di vista di Dante, l’Amico), recepire le innovazioni tematiche e lessicali, piuttosto che adeguarsi generalmente al dettato dantesco, piú limpido e ricercato sul piano prosodico e sintattico.4 Un’altra canzone anonima che interagisce con Dante e piú propriamente con la Vita nuova è Era ’n quel giorno che l’alta reina (Lapo, d. i). Inserita adespota nell’unico ms. che la conserva – il Magliabechiano vI 143 della BNCF – la canzone è stata associata per lo schema metrico e per altri tenui indizi stilistici al nome di Lapo Gianni. Ragioni di prudenza consigliano di considerarla opera di un epigono di Dante vicino a Lapo, secondo la conclusione di Gorni ripresa da Giuseppe Marrani.5 Oltre a un metro che non dispiacque a Dante – ABC ABC (fronte); CDDE, CDDE, FF (sirma) –, alcuni temi e la rappresentazione si ricollegano ai primi capitoli del libello, con un’accentuata connotazione in chiave mariana, a partire dal giorno dell’apparizione della donna (8 settembre, giorno della natività di Maria), presente nell’incipit. In un nuovo canone del Dolce stil novo il ticket d’ingresso non dovrebbe, invece, essere negato a Lupo degli Uberti, autore di una ballata e di un sonetto doppio di accompagnamento (rispettiv. Movo canto amoroso novamente e Gentil madonna, la vertú d’amore), assegnatigli da un’autorevole tradizione manoscritta, che comprende fra gli altri il príncipe dei codici stilnovistici, cioè Chig. L vIII 305 della BAv. A questi due componimenti si 4. vd. Dante, Rime, ed. Grimaldi cit., Rime, xv. 5. vd. G. Gorni, Metrica e filologia attributiva. Vent’anni dopo, in Carmina semper et citharae cordi. Études de philologie et de métriques offertes à Aldo Menichetti, éd. par M.C. Gérard Zai, P. Gresti, S. Perrin, P. Vernay, M. Zenari, Genève, Slatkine, 2000, pp. 1-11; G. Marrani, Un frammento della fortuna dantesca: la canzone adespota ‘Era ’n quel giorno che l’alta reina’, in « Per leggere », a. iii 2003, pp. 5-24.

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potrebbero aggiungere il sonetto Gentil messere, la virtú sottile – tràdito dal codice cinquecentesco Mezzabarba (ms. It. IX 191 della Marciana) –, attribuito con buoni argomenti a Lupo da Irene Maffia Scariati,6 e forse il sonetto comico Guido, quando dicesti pasturella (Cavalcanti, xlvib), se Lupo è lo stesso del messer Lapo Farinata degli Uberti che compare nella rubrica di Ch (c. 4v).7 Basta leggere i versi iniziali della ballata Movo canto per riconoscere un rimatore non trattenuto dal nodo che separa vecchia e nuova poesia (vv. 1-7): Movo canto amoroso novamente, ch’eo mi son dato a tal per servidore c’ha presa vita in abito d’amore e·ssua beltà piú d’ogni altr’è piacente. Se vai in quella parte ove dimora, eo ti vo’ far sentito, sí che non falli a sua dolce accoglienza.

Questa ballata-envoi (‘invio’) è iscrivibile nel “sistema Vita nuova”, non solo perché riproduce esattamente il metro di Ballata, i’ vo’, unica del libello, ma anche per le frequenti tessere dantesche e per la ricercata chiarezza del dettato. L’Uberti pare dialogare non solo con Dante, ma anche con Lapo Gianni, mentre risultano secondarie le presenze dei due Guidi. E si veda anche la fronte uniproposizionale del sonetto doppio Gentil madonna, dove si mostra ancora ben evidente il dialogo con Dante (vv. 1-12): Gentil madonna, la vertú d’amore, che per grazia discende 6. vd. I. Maffia Scariati, ‘Gentil messere, la virtú sottile’, da assegnare a Lupo degli Uberti, in SPCT, vol. lxvi 2003, pp. 11-21. 7. Pagnotta, Un altro amico, cit., p. 365: « Che i due nomi possano designare uno stesso personaggio non è dimostrabile con certezza, anche se l’esercizio comico di Guido, quando dicesti potrebbe proporsi come perfetto contraltare rispetto alle altre prove, di dichiarata ascendenza stilnovistica, conservate sotto il nome di Lupo, in linea con un atteggiamento di bifrontismo stilistico che attraversa tutta la cultura poetica duecentesca e che vede impegnati sul versante giocoso anche i piú illustri rappresentanti del dolce stile, inserendo inoltre suggestivamente l’Uberti in quella fitta rete di corrispondenze letterarie e umane che Contini indica come “elemento patetico definitorio di stil nuovo” ».

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x. ai margini del dolce stil novo. per un nuovo canone in core umano, se ’l truova gentile, e vene acompagnata di valore (per ch’ogne ben s’apprende), e sentimento dà chiaro e sottile, merzé di voi m’ha fatto tanto onore che m’insegna e difende ch’i’ non aggia in caler mai cosa vile, e vuol che sol di voi sia servidore; ogn’altra mi contende, ed io lo sento al cor dolce ed umíle.

Questa aderenza al verbo dantesco, pur se « nei limiti di un atteggiamento prevalentemente calligrafico »,8 ha riaperto la questione del canone di D.v.e., i 13 4, tanto che Enrico Fenzi ha scelto di lasciare a testo « Lupum », che è la lezione concorde dei tre codici (p. 95). Il dubbio principale su Lupo riguarda la scarsità dei reperti poetici superstiti (ma non sarebbe l’unico caso nel D.v.e., se si pensa a nomi come Fabruzzo de’ Lambertazzi, Tommaso da Faenza, ecc.) in rapporto al giudizio positivo di Dante che lo annovera tra gli eccellenti. Si potrebbe di contro segnalare anche il giudizio di un esperto di poesia antica come il Bembo, che nelle Prose della volgar lingua tributa a Lupo parole di elogio definendolo « assai dolce dicitor […] per quella età senza fallo alcuno » (ii 2). Bembo lesse anche il ms. Trivulziano 1088 che riporta il D.v.e. e non si lasciò turbare né dalla correzione del Trissino che modificò il Lupum in Lapum con un tratto di penna sopra la u, né si lasciò poi condizionare, al tempo della revisione delle sue Prose dalla congettura del medesimo Trissino che nella traduzione scrive Lapω.9 Oltre poi a Iacopo Cavalcanti e a Noffo Bonaguide, già promossi da Berisso nella sua antologia, il nuovo catalogo potrebbe allargarsi a qualche sonetto anonimo del Chigiano, rompendo cosí il canone prettamente autoriale del Dolce stil novo.

8. Ivi, p. 375. 9. Ivi, pp. 376-77.

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BI BLIOG RAF IA E S S EN Z IALE*

1. Edizioni di testi Fra le antologie si segnalano Rimatori del Dolce stil novo, a cura di L. Di Benedetto, Bari, Laterza, 1939; Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, 2 voll., dal quale è stato ricavato il volumetto compreso nella collana « Oscar classici »: Poeti del Dolce Stil Novo, a cura di G.C., Milano, Mondadori, 1991; Poeti del Dolce stil nuovo, a cura di M. Marti, Firenze, Le Monnier, 1969; L. Rossi, Stilnovo, in Antologia della poesia italiana, dir. C. Segre e C. Ossola, Duecento, Torino, Einaudi, 1999 (i ed. Einaudi-Gallimard, 1997), pp. 370-438; Poesie dello Stilnovo, a cura di M. Berisso, Milano, Rizzoli, 2006; Poeti del Dolce Stil Novo, a cura di D. Pirovano, Roma, Salerno Editrice, 2012. Alcuni poeti godono di edizioni monografiche, preziose anche per il commento. Per Dante: D. Alighieri, Rime, a cura di D. De Robertis, Firenze, Le Lettere, 3 voll. in 5 tomi (Edizione Nazionale a cura della Società Dantesca Italiana); Id., Rime, Ediz. commentata a cura di D. De Robertis, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2005; Id., Opere, Ediz. diretta da M. Santagata, vol. i, a cura di C. Giunta [Rime, pp. 3-744], G. Gorni [Vita Nova, pp. 745-1063], M. Tavoni [De vulgari eloquentia, pp. 1065-547], Introduzione di M. Santagata, Milano, Mondadori, 2011; Id., Vita nuova. Rime, a cura di D. Pirovano e M. Grimaldi, Introduzione di E. Malato, Roma, Salerno Editrice, i.c.s. Per Guido Guinizzelli si segnalano: G. Guinizzelli, Poesie, a cura di E. Sanguineti, Milano, Mondadori, 1986; Id., Rime, Premessa e commento di P. Pelosi, Napoli, Liguori, 1998; Id., Rime, a cura di L. Rossi, Torino, Einaudi, 2002. Per Guido Cavalcanti: G. Cavalcanti, Rime, a cura di G. Favati, Milano-Napoli, Ricciardi, 1957; Id., Rime, a cura di M. Ciccuto, Milano, Rizzoli, 1978; Id., Rime, con le rime di Iacopo Cavalcanti, a cura di D. De Robertis, Torino, Einaudi, 1986; Id., Rime, Edizione critica, commento, concordanze a cura di L. Cassata, Anzio, De Rubeis, 1993; Id., Rime. Rime d’amore e di corrispondenza, Revisione del testo e commento di R. Rea. Donna me prega, Revisione del testo e commento di G. Inglese, Roma, Carocci, 2011. Per gli altri poeti: Lapo Gianni, Rime, a cura di F. Iovine, Roma, Bagatto Libri, 1989; Gianni degli Alfani, Rime, a cura di F. Iovine, ivi, id, 1996; D. Frescobaldi, Canzoni e sonetti, a cura di F. Brugnolo, Torino, Einaudi, 1984; Le rime di Cino da Pistoia, a cura di G. Zaccagnini, Genève, Olschki, 1925. * Per Dante, ma anche per gli altri poeti del Dolce stil novo, è preziosa la Bibliografia Dantesca Internazionale a cura della Società Dantesca Italiana, consultabile anche on line (http://domino.leonet.it/sdi/bibliografia.nsf ).

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bibliografia essenziale 2. Tradizione manoscritta Sia nelle antologie sia nelle edizioni di singoli poeti qui sopra ricordate sono presenti le Note al testo che illustrano la tradizione testuale. Per un quadro d’insieme vd. C. Bologna, Tradizione e fortuna dei classici italiani, vol. i. Dalle origini al Tasso, Torino, Einaudi, 1993 (partic. pp. 1-181); e il profilo di L. Leonardi, La poesia delle origini e del Duecento, in StoLI, vol. x. La tradizione dei testi, coordinatore C. Ciociola, Roma, Salerno Editrice, 2001, pp. 5-89 (partic. pp. 53-60). Utili indicazioni si possono poi trarre dagli studi sui canzonieri e sulle stampe antichi: vd. in partic. l’intramontato M. Barbi, Studi sul canzoniere di Dante. Con nuove indagini sulle raccolte manoscritte e a stampa di antiche rime italiane, Firenze, Sansoni, 1915; per la Giuntina vd. Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani, a cura di D. De Robertis, Firenze, Le Lettere, 1977, 2 voll.; e per i canzonieri antichi d’A.S. Avalle, I canzonieri: definizione di genere e problemi di edizione, in La critica del testo. Problemi di metodo ed esperienze di lavoro. Atti del Convegno di Lecce, 22-26 ottobre 1984, Roma, Salerno Editrice, 1985, pp. 363-82. « Intavulare ». Tavole di canzonieri romanzi, iii. Canzonieri italiani, 1. Biblioteca Apostolica Vaticana Ch (Chig. L. VIII 305), a cura di G. Borriero, Città del vaticano, Biblioteca Apostolica vaticana, 2006; I canzonieri della lirica italiana delle origini. Studi critici, a cura di L. Leonardi, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2007; Il canzoniere escorialense e il frammento marciano dello stilnovo, a cura di S. Carrai e G. Marrani, ivi, id., 2009. Il caso piú problematico è quello di Cino per il quale manca ancora un’edizione critica. Offrono utili rilievi contro la tradizione vulgata: A. Casu, Strategie attributive e canone della tradizione: per l’edizione delle ballate di Cino da Pistoia, in Percorsi incrociati. Studi di letteratura e linguistica italiana. Atti del Dies Romanicus Turicensis, Zurigo, 23 maggio 2003, a cura di F. Broggi, G. Nicoli, L. Pescia, T. Stein, Leonforte, Insula, 2004, pp. 11-31; e D. Cappi, Emendazioni alla vulgata dei sonetti di Cino da Pistoia, in « Medioevo letterario d’Italia », a. x 2013, pp. 31-69. Sulle presunte seriazioni d’autore vd. G. Marrani, Macrosequenze d’autore (o presunte tali) alla verifica della tradizione: Dante, Cavalcanti Cino da Pistoia, in La tradizione della lirica nel medioevo romanzo. Problemi di filologia formale. Atti del Convegno internazionale di Firenze-Siena, 12-14 novembre 2009, a cura di L. Leonardi, Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2011, pp. 241-66. Sulla tradizione della Vita nuova vd. D. Pirovano, Per una nuova edizione della ‘Vita nuova’, in RSD, a. xii 2012, pp. 248-325 (con bibliografia pregressa). 3. Studi generali F. De Sanctis, I Toscani, in Id., Storia della letteratura italiana, Napoli, Morano, 1870; F. Figurelli, Il Dolce stil novo, Napoli, Ricciardi, 1933; B. Nardi, Filosofia del-

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bibliografia essenziale l’amore nei rimatori italiani del Duecento e in Dante, in Id., Dante e la cultura medievale. Nuovi saggi di filosofia dantesca, Bari, Laterza, 19492, pp. 1-92; D. De Robertis, Definizione dello stil novo, in « L’approdo », a. iii 1954, pp. 59-64; E. Bigi, Genesi di un concetto storiografico: « dolce stil novo », in GSLI, vol. cxxxii 1955, pp. 333-71; A. Roncaglia, Precedenti e significati dello ‘Stil Novo’ dantesco, in Dante e Bologna nei tempi di Dante, a cura della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1967, pp. 13-34; G. Contini, Dolce stil novo, in Id., Letteratura italiana delle origini, Firenze, Sansoni, 1970, pp. 147-93; A.E. Quaglio, Gli stilnovisti, in E. Pasquini-A.E.Q., Lo stilnovo e la poesia religiosa, vol. singolo estratto dalla Letteratura Italiana Laterza, dir. C. Muscetta, Bari, Laterza, 1971; E. Savona, Repertorio tematico del Dolce stil nuovo, Bari, Adriatica, 1973; M. Marti, Storia dello Stil Nuovo, Lecce, Milella, 1973, 2 voll.; G. Favati, Inchiesta sul Dolce Stil Nuovo, Firenze, Le Monnier, 1975; d’A.S. Avalle, Ai luoghi di delizia pieni. Saggio sulla lirica italiana del XIII secolo, Milano-Napoli, Ricciardi, 1977; G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi, 1977; A. Solimena, Repertorio metrico dello Stil novo, Roma, Società Filologica Romana, 1980; G. Gorni, Il nodo della lingua e il Verbo d’Amore. Studi su Dante e altri duecentisti, Firenze, Olschki, 1981; E. Malato, Amor cortese e amor cristiano da Andrea Cappellano a Dante, in Id., Lo fedele consiglio de la ragione. Studi e ricerche di letteratura italiana, Roma, Salerno Editrice, 1989, pp. 126-227, poi in Id., Studi su Dante. « Lecturae Dantis », chiose e altri studi danteschi, Cittadella, Bertoncello Artigrafiche, 20062 (20051), pp. 571-657; F. Bruni, Espressione poetica e orientamenti del Dolce stil nuovo, in Storia della civiltà letteraria italiana. Dalle origini al Trecento, dir. G. Bàrberi Squarotti, Torino, Utet, vol. i 1990, pp. 391-442; E. Pasquini, Il « Dolce stil novo », in StoLI, vol. i. Dalle Origini a Dante, Roma, Salerno Editrice, 1995, pp. 649-721; S. Carrai, La lirica toscana del Duecento. Cortesi, guittoniani, stilnovisti, Roma-Bari, Laterza, 1997; C. Paolazzi, La maniera mutata. Il « dolce stil novo » tra Scrittura e A ‘ rs poetica’, Milano, vita e Pensiero, 1998; C. Giunta, La poesia italiana nell’età di Dante. La linea Bonagiunta-Guinizzelli, Bologna, Il Mulino, 1998; Id., Versi a un destinatario. Saggio sulla poesia italiana del Medioevo, ivi, id., 2002; M. Picone, Percorsi della lirica duecentesca. Dai siciliani alla ‘Vita Nova’, Firenze, Cadmo, 2003; Da Guido Guinizzelli a Dante. Nuove prospettive sulla lirica del Duecento. Atti del Convegno di Padova-Monselice, 10-12 maggio 2002, a cura di F. Brugnolo e G. Peron, Padova, Il Poligrafo, 2004; C. Giunta, Codici. Saggi sulla poesia del Medioevo, Bologna, Il Mulino, 2005; E. Malato, Ancora sul « disdegno » di Guido (coinvolgendo Cino), e sul « Dolce stil novo », in RSD, a. vi 2006, pp. 113-41; M. Santagata, I due cominciamenti della lirica italiana, Pisa, Ets, 2006; S. Russo, La dolcezza dello « stil novo ». Rileggendo ‘Purgatorio’, xxiv 57, in RSD, a. x 2010, pp. 250-74; G. Polimeni, L’epistola, la ‘transumptio’ e la nascita delle ‘nove rime’. Ipotesi retoriche sul canone dantesco dello Stilnovo, in « versants », vol. lvi 2009, pp. 9-28; F. Fioretti, Ethos e leggiadria. Lo Stilnovo dialogico di Dante, Guido e Cino da Pistoia, Roma, Aracne, 2012.

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bibliografia essenziale 4. Guido Guinizzelli Per Guido Guinizzelli. Il Comune di Monselice, Padova, Antenore, 1980; I. Bertelli, La poesia di Guido Guinizzelli e la poetica del « Dolce stil nuovo », Firenze, Le Monnier, 1983; Malato, Amor cortese, ecc., cit., partic. pp. 156-66 (in Studi, pp. 596-604) e passim; P. Pelosi, Guido Guinizelli. Stilnovo inquieto, Napoli, Liguori, 2000; Intorno a Guido Guinizzelli. Atti della Giornata di studi, Zurigo, 16 giugno 2000, a cura di L. Rossi e S. Alloatti Boller, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2002; A. Antonelli, I Guinizzelli, discendenti di Magnano, residenti nella cappella di San Benedetto di Porta Nuova, in Magnani. Storia, genealogia e iconografia, a cura di G. Malvezzi Campeggi, Bologna, Costa, 2002, pp. 27-43; R. Rea, « Avete fatto como la lumera » (sulla tenzone fra Bonagiunta e Guinizzelli), in « Critica del testo », a. vi 2003, pp. 93358; C. Bologna, Su Guido Guinizzelli. Nuovi passaggi stilnovistici, ivi, pp. 1089-106; P. Borsa, La nuova poesia di Guido Guinizelli, Firenze, Cadmo, 2007; R. Rea, Guinizzelli ‘praised and explained’ (da ‘[O] caro padre meo’ al xxvi del ‘Purgatorio’), in « The Italianist », a. xxx 2010, pp. 1-17. 5. Guido Cavalcanti P. Ercole, Guido Cavalcanti e le sue rime. Studio storico-letterario seguito dal testo critico delle rime con commento, Livorno, vigo, 1885; C. Calenda, Per altezza d’ingegno. Saggio su Guido Cavalcanti, Napoli, Liguori, 1976; G. Contini, Cavalcanti in Dante, in Id., Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino, Einaudi, 1976, pp. 143-57; Malato, Amor cortese, ecc., cit., partic. pp. 166-77 (in Studi, pp. 605-14) e passim; G. Tanturli, Guido Cavalcanti contro Dante, in Le tradizioni del testo. Studi di letteratura italiana offerti a Domenico De Robertis, a cura di F. Gavazzeni e G. Gorni, Milano-Napoli, Ricciardi, 1993, pp. 3-13; E. Malato, Dante e Guido Cavalcanti. Il dissidio per la ‘Vita nuova’ e il « disdegno » di Guido, Roma, Salerno Editrice, 1997 (ii ed. con una postfazione, Nuove prospettive degli studi danteschi, ivi, id., 2004); N. Pasero, Dante in Cavalcanti. Ancora sui rapporti fra ‘Vita nuova’ e ‘Donna me prega’, in « Medioevo romanzo », a. xxii 1998, pp. 388-414; E. Fenzi, La canzone d’amore di Guido Cavalcanti e i suoi antichi commenti, Genova, Il Melangolo, 1999; N. Tonelli, ‘De Guidone de Cavalcantibus physico’ (con una noterella su Giacomo da Lentini ottico), in Per Domenico De Robertis. Studi offerti dagli allievi fiorentini, a cura di I. Becherucci, S. Giusti, N. Tonelli, Firenze, Le Lettere, 2000, pp. 459-508; Alle origini dell’io lirico. Cavalcanti o dell’interiorità, vol. monogr. di « Critica del testo », a. iv 2001, pp. 1-345; A. Gagliardi, Guido Cavalcanti. Poesia e filosofia, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001; Guido Cavalcanti tra i suoi lettori, a cura di M.L. Ardizzone, Firenze, Cadmo, 2003; M. Corti, Scritti su Cavalcanti e Dante, Torino, Einaudi, 2003; A. Gessani, Dante, Guido Cavalcanti e l’ “amoroso regno”, Macerata, Quodlibet, 2004; Guido Cavalcanti

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bibliografia essenziale laico e le origini della poesia europea, nel 7° centenario della morte. Poesia, filosofia, scienza e ricezione. Atti del Convegno internazionale di Barcellona, 16-20 ottobre 2001, a cura di R. Arqués, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004; M.L. Ardizzone, Guido Cavalcanti. L’altro Medioevo, Firenze, Cadmo, 2006; R. Rea, Stilnovismo cavalcantiano e tradizione cortese, Roma, Bagatto Libri, 2007; Id., Cavalcanti poeta. Uno studio sul lessico lirico, Roma, Edizioni Nuova Cultura, 2008; G. Gorni, Guido Cavalcanti. Dante e il suo « primo amico », Roma, Aracne, 2009; M. Grimaldi, L’incredulità di Cavalcanti, in « Filologia e Critica », a. xxxviii 2013, pp. 3-32. 6. Cino da Pistoia D. De Robertis, Cino e le « imitazioni » dalle ‘Rime’ di Dante, in SD, vol. xxix 1950, pp. 103-77; Id., Cino e i poeti bolognesi, in GSLI, vol. cxxviii 1951, pp. 273-312; Id., Cino e Cavalcanti o le due rive della poesia, in « Studi medievali », a. xviii 1952, pp. 55107; M. Corti, Il linguaggio poetico di Cino da Pistoia, in « Cultura neolatina », a. xii 1952, pp. 185-223; Cino da Pistoia. Atti del Colloquio di Roma, 25 ottobre 1975, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1976; F. Brugnolo, Cino (e Onesto) dentro e fuori la ‘Commedia’, in Omaggio a Gianfranco Folena, Padova, Editoriale Programma, 1993, 3 voll., i pp. 369-86; A. Gagliardi, Cino da Pistoia. Le poetiche dell’anima, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001; F. Brugnolo, Appendice a Cino (e Onesto) dentro e fuori la ‘Commedia’. Ancora sull’intertesto di ‘Purgatorio’ xxiv 49-63, in Leggere Dante, a cura di L. Battaglia Ricci, Ravenna, Longo, 2003, pp. 153-70; E. Benzi, Ricerche sintattiche sui sonetti di Cino da Pistoia, Roma, Aracne, 2008; Malato, Ancora sul « disdegno » di Guido (coinvolgendo Cino), cit.; G. Marrani, Ai margini della ‘Vita Nova’: ancora per Cino “imitatore” di Dante, in La lirica romanza del Medioevo. Storia, tradizioni, interpretazioni. Atti del vi convegno triennale della Società Italiana di Filologia Romanza, Padova-Stra, 27 settembre-1° ottobre 2006, a cura di F. Brugnolo e F. Gambino, Padova, Unipress, 2009, 2 voll., ii pp. 757-76; M. Corrado, « Vera satira mia, va’ per lo mondo, e de Napoli conta che riten quel che ’l mar non vòle a fondo ». L’invettiva antinapoletana di Cino da Pistoia, in Il viaggio a Napoli tra letteratura e arti, a cura di P. Sabbatino, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2012, pp. 81-124. 7. I minori D. De Robertis, Il caso Frescobaldi (Per una storia della poesia di Cino da Pistoia), in « Studi urbinati », a. xxvi 1952, pp. 31-63; I. Bertelli, Impegno stilistico e inventivo nell’opera di Lapo Gianni, Milano, Bignami, 1984; L. Pagnotta, Un altro amico di Dante. Per una rilettura delle rime di Lupo degli Uberti, in Studi di filologia medievale offerti a D’Arco Silvio Avalle, Milano-Napoli, Ricciardi, 1996, pp. 365-90; I. Maffia Scariati, « Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi… »: su un’intricata questione attributiva, in

340

bibliografia essenziale SPCT, vol. lxiv 2002, pp. 5-61; L.M.G. Livraghi, Attardati, epigoni, ‘liquidatori’: passaggi di testi fra Cino da Pistoia, Dino Frescobaldi e Sennuccio del Bene, in « Italianistica », a. xlii 2013, pp. 69-88; G. Baldassari, Considerazioni sul corpus di Dino Frescobaldi, in « Studj romanzi », n.s., a. ix 2013, pp. 157-211.

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I N DIC I

I N DIC E DEI NOM I

Abate di Tivoli: 160 e n. Abbracciavacca Bartolomeo (Meo): 109 n. Adamo, primo uomo: 45 n. Agamben Giorgio: 164 n., 198 n., 204 n., 291 n. Agostino di Giovanni (Agostino da Siena): 313. Agostino di Ippona, santo: 54 n. Agustín Antonio: 258. Aimeric de Belenoi: 92. Aimeric de Peguilhan: 92, 269. Alagia (Lagia), donna amata da Lapo Gianni: 208-9, 224, 233, 242, 243 n., 326 n. Albonico Simone: 259 n. Alfani Gianni degli: vd. Gianni Alfani. Alighieri Dante: 9-10, 15 e n., 16 e n., 17, 18 e n., 19 e n., 20 e n., 21, 22 e n., 23 e n., 24 n., 26 e n., 27, 28 e n., 29 e n., 30 e n., 31 e n., 32 e n., 33, 34 e n., 35 e n., 36 n., 37 e n., 39 e n., 40 e n., 41 e n., 42 e n., 43 e n., 44, 45 e n., 46 e n., 47 n., 48 n., 49 e n., 50-53, 54 e n., 55 n., 56 e n., 57, 58 e n., 59 e n., 60, 61 e n., 62 e n., 63 e n., 64-67, 68 e n., 69, 70 e n., 71, 72 e n., 73, 74 e n., 75 e n., 76 e n., 77 e n., 78, 79 e n., 81 e n., 82 e n., 83 e n., 84 e n., 85-89, 90 e n., 91 e n., 92 e n., 93 e n., 94 e n., 95 e n., 96 e n., 97 e n., 98 e n., 99 e n., 100 e n., 101-2, 103 e n., 104-5, 109 e n., 111, 112 n., 114, 118 n., 119 n., 120 n., 121 n., 127 e n., 130, 132 n., 133 e n., 134 e n., 135 e n., 136 n., 137 e n., 138 e n., 139, 140 n., 143 e n., 144 e n., 145 e n., 146-47, 149, 150 n., 151, 153-54, 15759, 160 n., 161 e n., 163 e n., 164 n., 165 e n., 166 e n., 167 e n., 168-69, 170 e n., 171 e n., 172, 173 e n., 174, 175 e n., 176 e n., 177-79, 180 e n., 181-82, 183 e n., 184 e n., 185, 186 e n., 187 e n., 188, 189 n., 190, 191 e n., 192 e n., 193 e n., 194 e n., 196, 198-99, 203 e n., 2046, 207 e n., 209 n., 211 e n., 212 n., 213, 216, 219, 220 e n., 221 n., 222 n., 224, 226 e n.,

227, 228 e n., 229 e n., 231 e n., 232 e n., 233 e n., 234 e n., 235, 236 e n., 237 e n., 238 e n., 239 e n., 240 e n., 241-42, 243 e n., 244 n., 245 n., 246, 247 e n., 248 e n., 249 e n., 25053, 254 e n., 255-56, 257 e n., 258 e n., 259 e n., 260, 261 n., 262 e n., 263, 266 n., 268 n., 271 n., 273, 275, 278, 280, 282, 285 e n., 286, 287 e n., 289 e n., 298 n., 300 n., 301 n., 305 n., 308, 310 e n., 311 n., 312-15, 317 e n., 319 e n., 320, 321 n., 323, 325 e n., 326 e n., 327-29, 332 e n., 333 e n., 334-35. Alighieri Pietro: 56. Allegranza Pietro: 43. Alloatti Boller Sara: 107 n. Amandetta: vd. Mandetta. Ambrogini Agnolo (Angelo), detto Poliziano: 17 e n., 262-63. Ambrogio Giuseppe Renzo: 328 n. Ambrosini Riccardo: 50 n. Amelio di Lautrec, rettore della Marca anconetana: 313. Amico di Dante, poeta: 35, 38, 193, 255, 325 e n., 326 e n., 332-33. Andalò Loderingo degli: 66 e n. Andrea Cappellano: 145, 160 n., 161 e n., 164 e n., 165 n., 166, 175 e n., 194 n. Andreoli Raffaello: 18, 19 n. Angiolieri Cecco: 145 n., 257. Antonelli Armando: 43 n., 140 n., 141 n., 163 n., 266 n. Antonelli Roberto: 39 n., 70 n., 73 n., 75 n., 79 n., 80 n., 81 n., 82 n., 85 n., 86 n., 87 e n., 119 n., 122 n., 160 n., 183 n., 203 n., 204 n., 210 n., 271 n. Antonini Gianni: 59 n. Antonio da Ferrara: vd. Beccari Antonio. Ardizzone Maria Luisa: 165 n. Aristotele: 162 n., 301. Arnaldo da villanova: 163 e n., 166. Arnaut Daniel: 39, 60, 61 n., 62 e n., 63-64, 67,

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indice dei nomi 68 e n., 69 e n., 72, 75, 76 n., 92, 98 e n., 118, 120-21, 133, 140 n. Arnaut de Maruelh: 62 n. Arnone Nicola: 284 e n. Arqués Rossend: 74 n. Asor Rosa Alberto: 80 n. Asperti Stefano: 279 n. Assalonne: 324. Auerbach Erich: 134 n., 136 e n., 137 n., 138 n. Avalle d’Arco Silvio: 37 n., 105 n., 110 n. Azzetta Luca: 39 n., 52 n., 53, 55 n., 57 n., 138 n. Baldassari Gabriele: 328, 329 e n. Baldelli Ignazio: 209 n. Balduino Armando: 237 n., 243 n., 244 n., 245 n., 247 n. Balthasar Hans Urs von: 136 n. Barański Zygmunt G.: 49 n., 193 n., 310 n. Barbarisi Gennaro: 222 n. Bàrberi Squarotti Giorgio: 25 n. Barbi Michele: 139 n., 143 n., 171 e n., 186, 187 n., 257 e n., 261 e n., 262 n., 264 n., 265, 284, 314 e n. Barenghi Mario: 294 n. Baroni Giorgio: 325 n. Bartoli Adolfo: 20, 21 e n., 22, 33 e n. Bartoli vittorio: 204 n. Bartolini Lorenzo: 264 e n. Bartolo da Sassoferrato: 222 n. Bartolomeo da Bologna, frate: 272 e n. Battaglia Ricci Lucia: 143 n. Beatrice (Bice di Folco Portinari): 39 e n., 43, 49, 68, 72, 73 n., 104, 136 e n., 137, 138 n., 143, 145 n., 167-68, 171, 173, 175-79, 181, 182 e n., 183 e n., 184, 186, 187 e n., 189, 205, 208, 209 e n., 213, 216, 219, 227, 228 e n., 229 n., 231, 236, 239, 248, 253, 277, 310, 317-18. Beccadelli Ludovico: 264-65. Beccari Antonio (Antonio da Ferrara): 264 n. Becherucci Isabella: 163 n. Bembo Pietro: 261, 264-65, 335. Bentivegna Gianni: 123 n., 124 n. Benvenuto de’ Rambaldi da Imola: 56, 266 e n.

Benzoni Nicolò: 261. Berisso Marco: 28 n., 37 e n., 38, 125 n., 335. Bernardo da Bologna: 34, 41, 141-46, 150 n., 152, 308, 321. Bernardo di Clairvaux, santo: 49 e n., 71 n., 178, 180. Bernart de ventadorn: 122 n., 269. Bernart Marti: 111, 121. Berra Claudia: 43 n., 222 n. Bertolo Bonfiglio: 274. Bertolucci valeria: 209 e n. Bertoni Giulio: 34 e n. Bertran de Born: 68 e n., 98 e n. Bettina, moglie di un corrispondente di Cavalcanti: 311. Bianchi Brunone: 19 n. Bice di Folco Portinari: vd. Beatrice. Bigi Emilio: 16 e n., 19 n., 20 n. Bindi Enrico: 34 n. Binduccio, corrispondente di Cino: 321. Blasucci Luigi: 61 n., 64 e n., 69 e n., 72 n., 100 n. Boccaccio Giovanni: 61 n., 138 e n., 189 n., 262-63, 314, 328, 329 n. Boezio Anicio Manlio T. Severino: 187, 190. Boezio di Dacia: 45 n. Bologna Corrado: 154 n. Bonagiunta, monaco della Badia di Firenze: 40. Bonagiunta Orbicciani: vd. Orbicciani Bonagiunta. Bonandrea Giovanni: 259. Borges Jorge Luis: 39 n. Borra Antonello: 119 n. Borriero Giovanni: 259 n., 260. Borsa Paolo: 14, 43 n., 63 n., 65 n., 76 n., 107 n., 112 n., 114 n., 117 n., 118 n., 121 e n., 211 n., 221 n., 274 e n., 278 n. Boschi Rotiroti Marisa: 55 n., 194 n. Bosco Umberto: 30 n. Bosone da Gubbio: 76 n. Braccini Mauro: 63 n. Branca vittore: 35 n., 179 n., 181 n. Brevio Giovanni: 264-65.

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indice dei nomi Brioschi Franco: 26 n. Broggi Francesca: 314 n. Brugnolo Furio: 32 n., 39 n., 41 n., 42 n., 43 n., 45 n., 50 n., 51 n., 52 n., 58 n., 59 n., 60 n., 110 n., 113 e n., 114, 143 e n., 145 e n., 146 e n., 147 n., 148 e n., 149 n., 150 n., 153 n., 246 n., 247 n., 249 n., 253 n., 259 n., 276 e n., 329 n. Brunetti Giuseppina: 258 n. Brunetto Latini: 85 e n., 209 n., 221, 281. Bruni Francesco: 25 e n., 27 n., 31 e n. Bruni Bettarini Anna: 303 n. Buonarroti Michelangelo: 264 n. Buondelmonti, famiglia: 282, 311. Cacciamonte, corrispondente di Cino: 321. Caix Napoleone: 20 e n. Calenda Corrado: 26 e n., 31 e n., 132 n., 247 n., 283 n., 306 n. Calvino Italo: 294 e n. Camillo Giulio, detto Delminio: 261. Canettieri Paolo: 62 n. Capelli Roberta: 123 e n., 124 n., 126, 257 n., 258 n., 261 n., 262 n., 285 n. Capitani Ovidio: 163 n. Cappi Davide: 54 n., 148 n., 149 n., 195 n., 314 e n. Carducci Giosue: 19-20, 34 n. Carlo Martello: 43. Carpi Umberto: 84 n., 97 n., 158 n., 193 n., 214 n., 221 n. Carrai Stefano: 109 n., 123 n., 135 n., 285 n. Casadei Alberto: 167 n. Casella, musico fiorentino: 43. Casella Mario: 29 e n., 47 e n., 258 n., 284 e n. Casini Tommaso: 21, 22 n., 34 n. Cassata Letterio: 207 n., 283 n., 310 n. Casu Agostino: 314 n. Cavalcanti, famiglia: 281-82. Cavalcanti Andrea: 281. Cavalcanti Cavalcante: 40, 240, 246, 281 e n. Cavalcanti Guido: 10, 15, 16 e n., 17-19, 20 e n., 21-22, 24, 27, 28 e n., 30, 33, 34 e n., 35 e n., 36 n., 37 e n., 38, 41, 42 n., 50, 51 e n., 52, 54, 58 n., 70 e n., 72 n., 73 e n., 74 e n., 83, 90

n., 92 e n., 94 e n., 95, 97, 99 e n., 101, 103-4, 109 n., 114, 122, 123 n., 124 e n., 125 e n., 12627, 128 e n., 129 e n., 130 e n., 131 e n., 132 e n., 133-34, 136 n., 137, 139, 140 n., 141, 142 e n., 143 e n., 144 e n., 145, 147, 150-51, 154, 157 e n., 159, 163 e n., 164 e n., 165 e n., 166 e n., 167-69, 170 e n., 172 n., 173 n., 175-76, 180-81, 182 n., 183 n., 186, 192, 193 e n., 195-96, 198200, 205-6, 207 e n., 211-13, 216 e n., 219, 220 e n., 223 n., 224-25, 226 e n., 227, 229-30, 231 e n., 232 e n., 233 e n., 234 e n., 235, 236 e n., 237 e n., 238 e n., 239, 240 e n., 241-42, 243 e n., 244 e n., 245 e n., 247 e n., 253, 25557, 259-60, 262-63, 273, 275, 277, 281 e n., 282 e n., 283 e n., 284 e n., 285 e n., 286 e n., 287 e n., 288 e n., 289 e n., 290 e n., 291 e n., 292-94, 295 e n., 296-99, 300 e n., 301-3, 304 e n., 305 e n., 306 e n., 307 e n., 308, 309 e n., 310 e n., 311 e n., 314-15, 317, 319, 321, 323-27, 329, 333, 334 e n. Cavalcanti Iacopo: 20, 38, 233 n., 283 n., 335. Cavalcanti Nerone: 311. Cavalcanti Tancia: 281. Cavicchia Guido, soprannome di Guido Cavalcanti: 282. Cecco d’Ascoli: vd. Stabili Francesco. Ceccoli Marino: 321. Cecere Amalia: 183 n. Cercamon: 272 e n. Cerchi, famiglia: 282. Ceriello Gustavo Rodolfo: 35 n. Cerroni Monica: 139 n. Cesare Caio Giulio: 64. Chiaro Davanzati: vd. Davanzati Chiaro. Chrétien de Troyes: 271. Ciampolo, destinatario di un sonetto anonimo: 310. Ciavolella Massimo: 162 n., 164 n. Cicciaporci Antonio: 284 e n. Ciccuto Marcello: 59 n., 123 e n., 183 n., 232 n., 310 n. Cicerone Marco Tullio: 56 n., 147-48, 187. Cino da Pistoia (Guittoncino de’ Sinibuldi): 10, 15, 16 e n., 17-19, 20 e n., 22, 27, 28 n., 30,

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indice dei nomi 33, 34 e n., 35 e n., 36 e n., 37-38, 41, 42 n., 50, 51 e n., 52, 54 e n., 58 n., 59, 68 e n., 70, 74, 76 n., 83, 84 e n., 85, 88 e n., 90 n., 91-93, 94 e n., 95 e n., 96 e n., 97, 98 e n., 99, 137 n., 139 e n., 141, 142 e n., 143 e n., 144, 145 n., 146 e n., 147 e n., 148 e n., 149 e n., 150 e n., 151-52, 153 n., 159, 163, 193, 194 e n., 195, 200, 205-6, 209-10, 211 e n., 212 n., 214-16, 219 e n., 220 e n., 223 n., 229, 232 n., 237 n., 240, 243 e n., 244, 245 e n., 246 e n., 247 e n., 248 e n., 249 e n., 250, 251 e n., 252, 253 e n., 254, 256-60, 263, 270, 273, 285 n., 308 e n., 312-13, 314 e n., 315-16, 317 e n., 318, 319 e n., 320 e n., 321 e n., 329. Ciociola Claudio: 258 n. Cipollone Annalisa: 43 n., 107 n. Coglievina Leonella: 49 n. Colonna Egidio (pseudo): 299 n. Coluccia Rosario: 55 n., 158 n. Compagni Dino: 16-17, 34, 281, 282 e n., 303. Comparetti Domenico: 20 n. Contini Gianfranco: 24 n., 31, 35, 36 e n., 46 n., 63 n., 92 n., 102 n., 117, 123 e n., 133 n., 136 n., 157, 159, 169 n., 170 n., 207 n., 212, 222 n., 230, 234 e n., 237 e n., 240 n., 244 n., 250, 255, 273 n., 283, 314 n., 316, 320 n., 322, 327, 332, 334 n. Corbellini Alberto: 247 n., 250. Cordiè Carlo: 35 n. Corradino di Svevia: 275. Corrado Massimiliano: 14, 45 n., 320 n. Corti Maria: 165 n., 226 n. Costa Gabriele: 14. Costa Paolo: 19 n. Croce Benedetto: 15 n. D’Ancona Alessandro: 20 e n. Dante Alighieri: vd. Alighieri Dante. Dante da Maiano: 232 n., 263. Davanzati Chiaro: 83, 85, 107 e n., 109 n., 161, 256, 270, 272 e n., 278. Davide, re biblico: 58 n. Del Bene Sennuccio: 20, 37. Del Garbo Dino: 162 n., 284 n., 299 e n.

Del Sal Nievo: 63 n. De Luca Giuseppe: 15 n. De Robertis Domenico: 24 n., 29 e n., 30 e n., 31 e n., 43 n., 49 n., 56 n., 59 n., 83 n., 124 n., 125 n., 129 n., 130 n., 133 n., 136 n., 161 n., 163 n., 166 n., 187 n., 189 n., 237, 239 n., 248 n., 249 e n., 258 n., 259 n., 263 n., 283 e n., 285, 287, 288 n., 296 n., 298 n., 299, 304 e n., 305 n., 308, 314, 325. De Robertis Teresa: 80 n., 257 n., 258 n. De Sanctis Francesco: 9-10, 15 e n., 16 e n., 19, 20 e n., 22, 28, 33 e n., 319. Desideri Giovannella: 125 n. Di Benedetto Luigi: 35 e n., 125 n., 314 e n. Di Girolamo Costanzo: 26 n. Dino del Garbo: vd. Del Garbo Dino. Dino del Mugello (Dino Rosoni): 312. Dionigi l’Areopagita (pseudo): 218. Donati, famiglia: 282. Donati Corso: 282, 303. Donati Forese: 39 e n., 40, 61 n. Donati Piccarda: 58 n. D’Ovidio Francesco: 78, 237 e n. Duby Georges: 211 n. Egidi Francesco: 17 n., 123 n. Emiliani Giudici Paolo: 19 e n. Enrichetto delle Querce: 43 n., 163 n. Enrico vII di Lussemburgo, imperatore: 129, 312, 320 e n., 327. Enzo di Svevia (re Enzo): 268 e n. Ercole Pietro: 311 n. Falbo Filippo: 14. Fanfani Pietro: 34 n. Faral Edmond: 210 n. Fauriel Claude: 19. Favati Guido: 23-24, 59 n., 109 n., 112 n., 128 e n., 144 e n., 145, 148 e n., 283-84, 285 e n., 289, 296, 299. Federico d’Aragona, re di Napoli: 17 n., 262. Federigo dall’Ambra: 123, 257. Fenzi Enrico: 14, 45 n., 55 n., 56, 57 e n., 77 n., 93 n., 95, 160 n., 161 n., 165 n., 166 n., 168 n.,

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indice dei nomi 171 n., 172 n., 176 n., 183 n., 184 n., 185 n., 186 n., 187 n., 188 n., 189 n., 233 n., 234 n., 236 n., 239 n., 240 n., 298 n., 299 n., 335. Ferdinando I d’Aragona, re di Napoli: 262. Ficino Marsilio: 299 n. Figurelli Fernando: 29 e n., 47 n. Filippo de Pisis (Luigi Filippo Tibertelli): 325 n. Fioretti Francesco: 57, 58 n., 286 n. Fiorilla Maurizio: 258 n. Flandrin Jean Louis: 211 n. Flora Francesco: 23 e n. Folchetto di Marsiglia: 83, 92. Folena Gianfranco: 62, 63 n., 67 n., 69 n., 73 n., 151 n., 276 n. Formisano Luciano: 305 n. Fornaciari Raffaello: 73 n. Forti Fiorenzo: 140 n. Fosca Nicola: 46 n. Foscolo Ugo: 19. Francesca da Polenta: 67 n., 70, 303. Francesco da Barberino: 16, 17 n., 259, 268 n., 275 n., 322. Francesco da Buti: 42 n. Francesco d’Accursio: 312. Francesco da Colle: 312. Francesco d’Assisi, santo: 179. Francesco di ser Nardo da Barberino: 260. Frassica Pietro: 160 n. Frescobaldi, famiglia: 328. Frescobaldi Dino: 10, 16, 20 e n., 21, 30, 33-34, 35 e n., 36 n., 37-38, 84, 97, 159, 202, 204, 211, 214, 216, 220, 223 n., 229, 260, 328 e n., 329 e n., 330 e n., 331 e n. Frescobaldi Francesco: 328. Frescobaldi Giovanna, moglie di Dino: 328. Frescobaldi Lambertuccio: 328. Frescobaldi Matteo: 328 e n. Frescobaldi Orlandino: 328. Frontino Sesto Giulio: 90 e n., 91 n. Frosini Giovanna: 14, 87 n. Fucci vanni: 248. Gace Brulé: 93 n.

Galeno: 162 n. Gallo Pisano: 85 e n. Gambino Francesca: 249 n. Garisendi Gherarduccio: 34, 320. Gaspary Adolfo: 21 e n. Gavazzeni Franco: 59 n., 166 n. Gentucca, donna lucchese: 40, 45 n., 58 n. Gérard Zai Marie-Claire: 333 n. Geremei, famiglia: 267. Geremia, profeta: 56 n., 291, 295. Gessani Alberto: 207 n., 238 n. Gesú di Nazareth: 54 n., 182 e n., 228, 296. Gherardo da Reggio: 321. Ghidetti Enrico: 290 n. Ghisilieri Guglielmina: 266-67. Ghisilieri Guido: 268 n. Ghisilieri Ugolino: 266. Giacomina di Bertolo Bonfiglio: 274. Giacomo da Lentini, detto il Notaro (Notaio): 16, 18, 21, 52-53, 56-57, 60, 122 n., 160 e n., 161, 163 n., 203 n., 204 e n., 210 e n., 246, 270, 271 n., 272 e n. Gianni Alfani (Gianni degli Alfani): 10, 2021, 30, 33, 35 e n., 36 n., 37-38, 54, 74, 84, 97, 145, 159, 164, 193, 200, 204, 211, 214, 216, 220, 223 n., 229, 273, 308-9, 326 e n., 327. Gianni di Forese degli Alfani: 327. Gilson Étienne: 179 n. Ginori Conti, famiglia: 259. Giobbe, patriarca biblico: 56 n., 58 n. Giordano Cecilia: 264 n. Giovanna, destinataria di un sonetto di Cino da Pistoia: 248, 317. Giovanna (vanna), donna amata da Guido Cavalcanti: 104, 136 e n., 168, 208, 211-13, 233, 236, 239, 287, 304 n., 317. Giovanni, evangelista, santo: 177, 178, 179 n., 182 e n. Giovanni Battista, santo: 168. Giovanni della Croce: 136 n. Girardo Novello: 258. Giraut de Bornelh: 67, 68 e n., 92, 98 e n. Girolami Remigio dei: 163 e n., 180, 221. Giunta Claudio: 17 n., 26 n., 27 n., 35 n., 40 n.,

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indice dei nomi 41 n., 46 n., 52 n., 69, 71 n., 75 n., 76 n., 80, 81 e n., 86 n., 87 n., 89 n., 90 n., 105 n., 106, 107 n., 108 e n., 109 n., 111 n., 113, 114 e n., 115 n., 118 e n., 122 n., 124 n., 125 n., 132 n., 137 n., 138 n., 145 n., 155 n., 158 n., 160 n., 166 n., 184 n., 186 n., 187 n., 189 n., 190 n., 191 n., 193 n., 202 n., 208 n., 209 n., 223 n., 224 n., 226 n., 229 n., 233 n., 243 n., 252 n., 261 e n., 262 n., 275 n., 283 n., 287 n., 304 n., 306 e n., 307 n., 309 n., 311 n., 326 n., 328 n. Giunti Bernardo: 263. Giusti Simone: 163 n. Gorni Guglielmo: 36, 37 n., 54 n., 61 n., 73 n., 108 n., 109 n., 117 e n., 132 n., 136 n., 166 n., 171 n., 233 n., 246 n., 247 n., 285 e n., 310 n., 311 n., 325 e n., 326, 333 e n. Granata Leonardo: 258 n. Gresti Paolo: 62 n., 333 n. Grimaldi Marco: 14, 26, 27 n., 129 n., 189 n., 286 n., 300 e n., 301 n., 310 e n., 321 n., 326 n., 332 n., 333 n. Gruamonte della Fratta: 267. Gualtieri: vd. Andrea Cappellano. Guglielmo IX d’Aquitania: 287. Guglielmo di Monferrato, editore: 258. Guglielmo di Saint-Thierry: 48 n., 178, 180. Guidi, conti di Romena: 84 n. Guidi, conti di San Godenzo: 84 n. Guido delle Colonne: 81 e n., 92, 93 e n., 94, 204, 231 n., 269-70. Guido Novello da Polenta: 16. Guinicelli Guido: vd. Guinizzelli Guido. Guinizzelli, famiglia: 266-67. Guinizzelli Bartolomea: 266. Guinizzelli Beatrice, moglie di Guido: 267. Guinizzelli Giacomo: 266. Guinizzelli Guido: 10, 15, 16 e n., 17 e n., 1819, 20 e n., 21-22, 28 n., 30, 33, 34 e n., 35 e n., 36 n., 37-39, 40 e n., 41 n., 42 n., 44 e n., 52 n., 53, 60, 61 n., 62, 63 e n., 64 e n., 65 e n., 66, 67 e n., 68, 69 e n., 70 e n., 72, 73 e n., 74 e n., 75 e n., 76 e n., 84 e n., 92-94, 99, 102, 105 e n., 106, 107 e n., 108 e n., 109 e n., 110 e n., 111 e n., 112 e n., 113 e n., 114-16, 117

e n., 118 e n., 119 e n., 120 e n., 121 e n., 122 e n., 125, 127 e n., 130 e n., 133, 139, 140 e n., 156, 163, 174, 175 e n., 176, 190 n., 195-97, 204, 209, 211-12, 217-19, 220 e n., 230, 231 e n., 247 n., 255-56, 259-60, 263, 266 e n., 267, 268 e n., 269-70, 271 e n., 272, 273 e n., 274, 275 e n., 276 e n., 277-78, 279 e n., 280, 287, 288 e n., 289, 305, 310, 314, 317, 319, 325, 334. Guinizzelli Guiduccio (Guido): 267. Guinizzelli Uberto: 266. Guinizzelli vermiglia: 266. Guiraut Riquier: 27 n. Guittone d’Arezzo: 10, 16, 17 e n., 18, 21, 27 e n., 28 n., 40, 42 n., 52-53, 56-57, 60, 63 e n., 65 e n., 66 e n., 67 e n., 68, 70 n., 74-75, 80 n., 81 n., 82 e n., 83, 84 e n., 85 e n., 86, 87 e n., 88-89, 90 e n., 94, 97 n., 99, 102, 103 e n., 104-6, 111, 112 e n., 113-14, 116, 117 e n., 118 e n., 119 e n., 120-21, 122 e n., 123 e n., 124 e n., 125 e n., 126 e n., 127 e n., 128 e n., 129, 132 n., 138, 139 e n., 140, 141 e n., 158, 196, 216 e n., 231 n., 246, 256, 257 e n., 259-60, 263, 268, 270, 275, 278, 296, 308, 324. Güntert Georges: 40 n. Hamann Johann George: 136 n. Hartung Stefan: 119 n. Hollander Robert: 247 n. Hopkins Gerard Manley: 136 n. Iacomo della Lana: 42 n. Iacopo, destinatario di un sonetto attribuito a Dante: 132. Iacopo da Pistoia: 163 n., 307. Ildefonso di San Luigi, frate: 129 n. Inglese Giorgio: 125 n., 130 n., 133 n., 207 n., 282 n., 283, 294 n., 304 n., 305 n., 310 n. Iovine Francesco: 325 n., 326 n. Isifile: 61, 72. Itri Bruno: 14. Ivo, frate: 48 e n., 49 e n., 58. Jaufre ( Jaufré) Rudel: 180 n., 284 e n. Johan Esteve: 287.

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indice dei nomi Lacaita Giacomo Filippo: 266 n. Lagia: vd. Alagia. Lambertazzi, famiglia: 266-67. Lambertazzi Fabrizio (Fabruzzo): 34, 335. Lapa di Ghino Malduri: 328. Lapo Gianni (Lapo Gianni de’ Ricevuti): 10, 16, 20-22, 27, 28 n., 30, 33, 34, 35 e n., 36 n., 37 e n., 38, 50, 52, 54, 74, 83, 95, 97, 103 n., 159, 196, 201, 204, 209, 214, 216, 219-20, 223 n., 224, 229, 232, 233 n., 235, 240-43, 256, 25960, 263, 322-24, 325 e n., 326 e n., 333-34. Larson Pär: 255 n. Lazzerini Lucia: 48 n., 59 n. Leonardi Lino: 67 n., 74 n., 79 n., 80 n., 82 n., 220 n., 255 n., 258 n., 260 n., 262 n., 263 n., 285 n. Leopardi Giacomo: 61 n. Leporatti Roberto: 135 n., 172 n., 174 n., 183 n., 184 n., 187 n., 189 n. Levi Ezio: 58 n., 129 e n. Lia, prima moglie di Giacobbe: 50 n. Licurgo, re di Nemea: 62 n. Lippo Pasci: vd. Pasci de’ Bardi Lippo. Lombardi Baldassarre: 18 e n., 19 n. Lorenzo di Piero de’ Medici, detto il Magnifico: 17 n., 262-63. Lucano Marco Anneo: 90 e n., 102. Lucia, donna bolognese: 273-74. Ludovico di Savoia, senatore di Roma: 312. Lugnani Lucio: 100 n. Maffia Scariati Irene: 103 n., 233 n., 325, 326 n., 334 e n. Maggini Francesco: 191 n. Magnani, famiglia: 266. Magnani Guinizzello: 266-67. Malabranca Frangipani Latino, cardinale: 281 e n. Malaspina, famiglia: 250. Malaspina di Giovagallo Moroello: 96, 193 e n., 250. Malato Enrico: 14, 42 n., 51 n., 70 e n., 72 n., 99 n., 133 n., 159 n., 160 n., 161 n., 164 n., 166 n., 175 n., 207 n., 218 n., 226 e n., 231 n., 232

n., 234 n., 237 e n., 238 n., 240 n., 243 n., 244 n., 245 n., 246 e n., 247 e n. Malavolti Catalano dei: 66. Malduri Ghino: 328. Mandetta (Amandetta): 304. Manetto, destinatario di Cavalcanti: 310 e n. Manfredi Ugolino: 140 e n. Manselli Raoul: 163 n. Manzolo, orefice bolognese: 274. Marcabru: 67, 180 n. Marchi Silvia: 262 n. Marco, evangelista, santo: 142, 147-48. Margueron Claude: 127 n. Mari Michele: 222 n. Maria di Nazareth: 73 n., 119, 157, 219, 276, 309, 333. Mariani Andrea: 54 n. Marrani Giuseppe: 123 n., 203 n., 211 n., 248 n., 257 n., 285 n., 315 n., 317 n., 321 e n., 333 e n. Martelli Iacopo (Pucciandone): 109 n. Martelli Mario: 258 n. Marti Mario: 23, 24 e n., 25, 35, 36 e n., 38, 51 n., 61 n., 76 n., 113 n., 140 n., 141 n., 147, 153 n., 210 n., 216 e n., 218, 223 n., 279, 327 n. Martinez Ronald L.: 310 n. Marucci valerio: 22 n. Matteo, evangelista, santo: 58 n. Matteo d’Acquasparta: 272. Mazzeo di Ricco: 269. Mazzoni Francesco: 49 n., 82 n. Mazzoni Guido: 23 e n. Mazzucchi Andrea: 14, 42 n., 138 n. Mezzabarba Isidoro: 258, 334. Mengaldo Pier vincenzo: 42 n., 68 n., 73 n., 78, 79 n., 86 n., 93 n., 94 n., 95 n., 98 n., 101 n., 128 n. Meneghetti Maria Luisa: 80 n. Menichetti Aldo: 41 n., 45, 125 n., 155 e n., 156 n., 285 n., 333 n. Meuccio, corrispondente di Cino: 321. Mezzabati Aldobrandino de’: 34. Mini Iacopo: 299 n. Mino Mocato da Siena: 85 e n.

351

indice dei nomi Moleta vincent: 118 e n., 183 n. Molinari Carla: 191 n., 239 n. Montale Eugenio: 325 e n. Montanari Franco: 39 n. Montani Alessandro: 56. Monte Andrea: 27 n., 37, 83, 85, 109 n., 140 e n., 152 e n., 256, 275, 278. Mosè: 58 n. Mostacci Jacopo: 160 e n., 161. Mugnai Paolo: 204 n. Muli Mula dei: 194 e n., 321. Musa Mark: 58 n. Muscia da Siena: 303 n., 304 n. Nardi Bruno: 30 n., 160 n., 164 n., 165 n., 172 n., 196 n., 300 e n., 301 e n. Nasti Paola: 180 n., 181 e n. Nicola, corrispondente di Cino: 321. Niccola Muscia: 303. Nicoli Giovanni: 314 n. Nicolini da Sabbio Giovanni Antonio: 263. Noffo Bonaguide: 21, 38, 335. Notaro (Notaio): vd. Giacomo da Lentini. Notkero il Balbo: 47 e n. Novello Girardo: vd. Girardo Novello. Oderisi da Gubbio: 231. Olivi Pietro di Giovanni: 163 e n., 180. Omero: 39 n., 102. Onesti Onesto degli (Onesto da Bologna): 17, 34, 41, 42 n., 59 n., 76 n., 84 n., 139 e n., 140 e n., 141 e n., 142 e n., 143 e n., 144 e n., 145-48, 149 e n., 150 e n., 151 e n., 152 e n., 153 e n., 154, 206, 246 n., 247 n., 253 n., 270, 320. Onesto da Bologna: vd. Onesti Onesto. Orazio Quinto Flacco: 102, 146. Orbicciani Bonagiunta: 16-19, 21-22, 28, 30, 31 n., 32 e n., 39 e n., 40 e n., 41 e n., 42 e n., 43 e n., 44 e n., 45 e n., 49 n., 50 e n., 51 n., 52 e n., 53 e n., 54 n., 57, 58 e n., 59 e n., 60 e n., 65, 73-74, 76, 85 e n., 99, 101-2, 105 e n., 106, 107 e n., 108 e n., 109, 110 e n., 111 e n., 121, 130 e n., 133 n., 139, 147, 149, 154, 155 e

n., 156 e n., 157 e n., 159, 163, 192, 218, 220, 230, 246, 268 e n., 271-72, 278, 287. Origene: 180. Orlandi Guido: 20, 33-34, 40, 103 e n., 104, 129 e n., 130 e n., 131 e n., 132-34, 181 e n., 299, 307-9. Orlando, padre di Guido Orlandi: 129. Orlando Sandro: 40 n., 140 n. Ossola Carlo: 243 n. Ovidio Publio Nasone: 47 e n., 90 e n., 102, 130-32. Ozanam Frédéric-Antoine: 39 n. Pacino di ser Filippo: 161. Pagliaro Antonino: 238 n. Pagnotta Linda: 37 n., 94 e n., 305 n., 334 n. Paolazzi Carlo: 26 e n., 31, 32 e n., 41 n., 49 n., 51 n., 53 n., 135 n., 139 n. Paolo di Tarso, santo: 58 n., 185. Paolo Orosio: 90 e n. Papahagi Marian: 118 e n. Parodi Ernesto Giacomo: 73 n. Pascal Blaise: 136 n. Pasci de’ Bardi Lippo: 35, 37 e n., 38, 233 n., 325 e n., 326, 332. Pasquini Emilio: 16 n., 25 e n., 28 n., 33 n., 151 n., 287 n. Pazzaglia Mario: 92 e n., 185 n. Péguy Charles: 136 n. Peire d’Alvernha: 93 n., 101 n. Pelaez Mario: 261 n. Pellegrini Silvio: 30 e n. Pernicone vincenzo: 187 n., 189 n. Peron Gianfelice: 41 n. Perrin Sonia: 333 n. Pertile Lino: 45 n., 49 n., 54 n., 58 n., 59 n., 180 n. Pescia Lorenza: 314 n. Petoletti Marco: 258 n. Petrarca Francesco: 17, 27 n., 54 n., 56 n., 140 n., 183 n., 260, 262, 264 n., 313-14, 319 n., 329. Petrocchi Giorgio: 29 n., 55 e n., 289. Petrucci Armando: 80 n., 83 n., 255 n., 262 n., 332 n.

352

indice dei nomi Phan Marie-Claude: 211 n. Picchio Simonelli Maria: 160 n., 183 n. Piccini Daniele: 231 n. Picciòlo, corrispondente di Cino: 321. Pico della Mirandola: 299 n. Picone Michelangelo: 40 n., 70 n., 73 n., 112 n., 113 n., 160 n., 169 n., 220 n., 248 n. Piero della vigna: 160 e n., 161, 269. Pierre de Belleperche: 312. Pietro Ispano (Giovanni XXI, papa): 163 e n., 166. Pinella, contadinella: 308. Pinto Raffaele: 45 n. Pirovano Donato: 18 n., 138 n., 171 n., 189 n., 264 n., 300 n., 325 n. Pittaluga Stefano: 39 n. Plinio Gaio Secondo: 90 e n., 91 n. Poletto Giacomo: 22 n. Poliziano: vd. Ambrogini Agnolo. Pollidori valentina: 129 n., 130 n., 131 e n. Ponti Paola: 325 n. Portinari Bice: vd. Beatrice. Portinari Manetto: 310, 311 n. Portirelli Luigi: 18 e n. Pound Ezra: 298 n. Primavera, senhal della donna di Cavalcanti: 104, 167-68, 212, 287. Principi, famiglia: 266. Properzio Sesto: 287 n. Quadrio Benedetta: 39 n. Quaglio Antonio Enzo: 25, 31 n. Quirini Giovanni: 38. Quondam Amedeo: 259 n. Raimbaut d’Aurenga: 67, 118, 271. Rajna Pio: 78, 268 n. Ramponi Lambertino: 312. Rea Roberto: 14, 41 n., 63 n., 64 n., 67 n., 74 n., 107 n., 108 n., 118 n., 120 e n., 125 n., 130 n., 133 n., 142 n., 144 e n., 145, 147 e n., 148 n., 150 n., 154 e n., 155 n., 156 e n., 157 n., 207 n., 220 n., 282 n., 283, 286 n., 288 n., 289, 290 n., 294 n., 295 n., 304 n., 305 n., 310 n.

Renier Rodolfo: 210 n. Renzi Lorenzo: 73 n. Riccardo di San vittore: 48 e n. Riccobono Maria Gabriella: 14. Ricevuti Lapo Gianni de’: vd. Lapo Gianni. Rinaldo d’Aquino: 81 e n., 92, 287. Rinieri Simone: 268 n. Rinuccino da Firenze: 268 n. Riquier Guiraut: vd. Guiraut Riquier. Rivalta Ercole: 33, 34 n., 284 e n. Roncaglia Aurelio: 39 n., 46 n., 47 n., 61 n., 74 n., 167 n., 216, 217 n., 218, 272 n., 304 n., 305 n., 319 n. Rossi Luca Carlo: 76 n. Rossi Luciano: 40 n., 45 n., 49 n., 107 n., 109 n., 119 n., 121 n., 127 n., 243 n., 273 n. Rossi Niccolò de’: 258 e n. Rossi vittorio: 29 e n. Rostagno Enrico: 80 n. Ruffoli Adimaringa: 328. Ruggieri Ruggero: 34 e n. Russo vittorio: 30, 31 n., 32 n. Rustichelli, famiglia fiorentina: 129. Rustico di Filippo (Rustico Filippi): 16. Sabbatino Pasquale: 320 n. Sacchetti Franco: 20 n. Sala Laura: 331 n. Salando Pierantonio: 261. Salinari Carlo: 35 n. Salomone, re biblico: 180, 324. Salsano Fernando: 87 n. Salutati Coluccio: 260. Sanguineti Federico: 54, 55 n., 57 n. Sansone, personaggio biblico: 324. Santagata Marco: 26 n., 91 n., 100 n., 135 n., 136 n., 137 n., 183 n., 186 n., 216 n., 220 n., 221 n., 222 n., 223 n., 228 n., 237 n., 259 n. Santangelo Salvatore: 121 n., 160 n. Santini Giovanna: 67 n. Sarri Francesco: 35 n. Sarteschi Selene: 54 n., 59 n. Savarese Gennaro: 61 n., 72 n. Savino Giancarlo: 80 n., 81 n., 194 n.

353

indice dei nomi Scarano Tommaso: 39 n. Segni Bardo: 263. Segre Cesare: 243 n. Selvaggia: vd. vergiolesi Selvaggia dei. Semeria Giovanni: 29 n. Semprebene da Bologna: 34. Simioni Attilio: 17 n. Singleton Charles Southward: 177 n. Sinibuldi (Sighibuldi, Sigibuldi, Sigisbuldi), famiglia: 312. Sinibuldi (Sighibuldi, Sigibuldi, Sigisbuldi) Guittoncino de’: vd. Cino da Pistoia. Solov’ëv vladimir Sergeevič: 136 n. Sommavilla Guido: 136 n. Sordello da Goito: 76 n. Spagnolo Antonio, don: 262 n. Spinetti Mariarosaria: 183 n. Stabili Francesco (Cecco d’Ascoli): 16, 321. Stazio Publio Papinio: 39-40, 60, 61 e n., 90 e n. Stein Thomas: 315 n. Steinberg Justin: 119 n. Stussi Alfredo: 100 n. Suitner Franco: 45 n. Tanturli Giuliano: 130 n., 131 n., 134 n., 166 n., 189 n., 207 e n., 254 n., 284 n. Tasso Torquato: 154 n. Taviani Guelfo: 211, 321. Tavoni Mirko: 45 n., 77 n., 78 n., 84 n., 93 n., 94 n., 96 n., 98 n., 100 n., 231 n., 250. Terino da Castelfiorentino: 140, 232 n., 248, 317. Thibaut, Iv conte di Champagne e I re di Navarra: 92, 93 n. Tito Livio: 90 e n., 91 n. Tolomei Meo dei: 257, 303 n. Tommaseo Niccolò: 19 n. Tommaso da Faenza: 140, 335. Tonelli Luigi: 23 n. Tonelli Natascia: 163 n., 164 e n., 165 n., 166 n., 204 n., 272 n.

Torraca Francesco: 22 e n., 28, 112 e n., 114. Torri Alessandro: 171 n. Trissino Gian Giorgio: 95, 258, 326, 335. Uberti, famiglia: 283 n. Uberti Adaleta, moglie di Farinata: 283. Uberti Bice di Farinata degli: 281. Uberti Farinata degli: 40, 281 e n., 283 e n. Uberti Lapo degli: 20, 305, 334. Uberti Lupo degli: 21, 37 e n., 38, 94 e n., 95, 305, 326, 333, 334 e n., 335. Ugolina di Ugolino da Tignano: 266. Ugolino da Tignano: 266. valente vincenzo: 87 n. valli Luigi: 237. vandelli Giuseppe: 289 n. vanna: vd. Giovanna (vanna). varanini Giorgio: 287 n. veglia Marco: 176 n. velardi Francesco: 283 n. vellutello Alessandro: 18 e n. velluti Donato: 328. vergiolesi Selvaggia dei: 208-11, 249, 252, 318, 321. vernay Philippe: 333 n. vernon William Warren: 266 n. verzellino, corrispondente di Dino Frescobaldi: 328 e n., 329. vieri Francesco de’: 299 n. villani Giovanni: 309. virgilio Publio Marone: 40, 60, 61 e n., 7072, 75, 90 e n., 92, 102. visdomini Neri dei: 109 n. Zaccagnini Guido: 140 n., 141 n., 143 n., 314 e n. Zaccarello Michelangelo: 42 n., 54 n., 55 n., 56 n., 59, 60 n. Zambon Francesco: 47 n., 48 n., 49 n. Zamponi Stefano: 81 n. Zenari Massimo: 333 n. Zingarelli Nicola: 21 n., 34 e n.

354

I N DIC E

Premessa

9

Tavola delle abbreviazioni e delle edizioni citate

11

I. Dolce stil novo: un discusso concetto storiografico 1. 2. 3. 4.

Genesi della formula Un controverso concetto storiografico Poetica di Dante o poetica di gruppo? Gli stilnovisti: la formazione di un canone

15 22 28 33

II. La voce di Dante 1. In purgatorio tra i golosi: Dante e Bonagiunta 2. In purgatorio tra i lussuriosi: Dante e Guinizzelli (e Arnaut) 3. Critica e storiografia letteraria nel De vulgari eloquentia 4. Rimatori e poeti nella Vita nuova

39 60 76 99

III. Vecchio e nuovo stile 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

La tenzone tra Bonagiunta e Guinizzelli Guittone e Guinizzelli Cavalcanti e Guittone Guido Orlandi e Cavalcanti La Vita nuova: un libro dirompente Cino e Onesto di fronte alla Vita nuova Le parodie di Bonagiunta

Iv. Quando Amor spira: aspetti e caratteri del Dolce stil novo 1. Il dibattito intorno all’origine e alla natura d’Amore 2. Spiriti d’amore: il processo psicologico e fisiologico del sentimento d’amore 3. La donna 355

105 111 122 129 134 139 154 158 159 196 208

indice

4. La nobiltà spirituale e il pubblico 5. Amicizia o sopravanzamento?

220 229

v. La tradizione del Dolce stil novo: manoscritti e stampe antiche 1. Il silenzio dei Canzonieri delle origini e la voce dei Memoriali bolognesi 2. La tradizione del Dolce stil novo: il ramo settentrionale 3. La tradizione del Dolce stil novo: il ramo fiorentino 4. La Raccolta aragonese e la Giuntina di rime antiche

255 256 259 262

vI. Il padre mio e degli altri miei miglior: Guido Guinizzelli 1. 2. 3. 4. 5.

vita Guinizzelli nel solco della tradizione Guinizzelli comico La novità di Guinizzelli Al cor gentil

266 268 273 275 278

vII. Guido Cavalcanti 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

vita Il corpus delle rime Il primo Cavalcanti L’esperienza tragica e affascinante dell’amore Donna me prega Il ciclo tolosano. Cavalcanti e la “pastorella” La ballata testamento Rime di corrispondenza e testi comici

281 283 286 290 298 303 305 307

vIII. Cino da Pistoia 1. 2. 3. 4.

vita Il corpus delle rime Tra Dante e Guido Rime di corrispondenza

312 313 315 320 356

indice

IX. I minori 1. Lapo Gianni 2. Gianni Alfani 3. Dino Frescobaldi

322 326 328

X. Ai margini del Dolce stil novo. Per un nuovo canone

332 336

Bibliografia essenziale Indici Indice dei nomi

345

357