Il disagio della simulazione 9788895994710, 889599471X

"La simulazione è facile da amare e difficile da mettere in dubbio. Essa traduce i materiali concreti della scienza

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Il disagio della simulazione
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il disagio della simulazione

Sherry Turkle con saggi di William J. Clancey, Stefan Helmreich, Yanni A. Loukissas e Natasha Myers. Prefazione di John Maeda

Ledizioni

Negli ultimi vent'anni le tecnologie per la simulazione e la visua­ lizzazione hanno cambiato il nostro modo di rapportarci con il mondo. In Il disagio della simulazione, Sherry Turkle esplora gli aspetti di questo cambiamento epocale: studenti di architettura che non disegnano più a mano, scienziati e ingegneri che ammettono che le simulazioni al computer sembrano più reali degli esperimenti nei laboratori. La simulazione richiede che ci si immerga nel suo mondo, ed i be­ nefici sono chiari: gli architetti possono anticipare edifici impensa­ bili, gli scienziati manipolano la struttura delle molecole in uno spa­ zio virtuale, i medici apprendono l'anatomia su corpi umani digitali. Ma una volta immersi siamo più vulnerabili. Ci sono pro e contro. Gli scienziati più anziani descrivono i giovani come "ebbri di co­ dice", mentre i giovani cercano in tutti i modi di carpire la cono­ scenza tacita dei più anziani. Da entrambe le parti si avverte un di­ vario generazionale: c'è il timore che con la simulazione qualcosa sfugga per sempre.

SH ERRY TURKLE è Abby Rockefeller Mauzé Professar of the Social Studies of

Science and Technology at MIT e fondatrice e direttrice della MIT Initiative on Technology and Self. È una delle più lucide analiste del rapporto fra tecnologia, identità e società. Tra i molti saggi, articoli e monografie ricordiamo, oltre a La vita sullo schermo. Nuove identità e relazioni sociali nell'epoca di Internet, edito da Apogeo, La vita nascosta degli oggetti tecnologici, edito da Ledizioni nel2009.

Euro 22,00

9 788895 99471 o

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TECNOLOGIA E SOCIETÀ- 4 collana diretta da Paolo Ferri

Il disagio della simulazione

Sherry Turkle con saggi di William J. Clancey, Stefan Helmreich, Yanni A. Loukissas e Natasha Myers.

Prefazione di John Maeda

© 2011 Edizioni Ledizioni LediPublishing

Via Alamanni 11 Milano http://www.ledizioni.it e-mail: [email protected] Prima edizione: Luglio 2011 Traduzione a cura di Nicola Cavalli e Immacolata Franco Tradotto dall'originale inglese SHERRY TURKLE, Simulation and its discontents, 2009 edito da MIT Press Massachusetts lnstitute of Technology. Copertina e progetto grafico: GrafCo3 , Milano Stampato in Italia ISBN 978-88-95994-71-0

Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da Ledizioni, Via Alamanni 11-20141 Milano, e-mail: [email protected]

A David Riesman e Donald Schon, due mentori, due amici.

INDICE

Prefazione all'edizione italiana Black Box Mauro Panzeri -

11

Prefazione-]ohn Maeda

13

Premessa e Ringraziamenti

IL DISAGIO DELLA SIMULAZIONE

-

Sherry Turkle

19

COSA VUOLE LA SIMULAZIONE?

ZS

LA VISIONE DEGLI ANNI OTTANTA

59

DESIGN E SCIENZA ALLA FINE DEL MILLENNIO

91

NUOVI MODI PER CONOSCERE l NUOVI MODI PER DIMENnCARE

SITI DELLA SIMULAZIONE: CASI STUDIO

109

SPAZIO COSMICO E PROFONDITÀ SOTTOMARINE

111

DIVENTARE UN ROVER-

1 J3

PERCEZIONI INTERIORI- Ste/an

157

COSTRUZIONI E BIOLOGIA

159

CUSTODI DELLA GEOMETRIA-

177

RIPRODURRE IL RIPIEGAMENTO PROTEICO- Natasha

19 7

Autori

William]. Clancey Helmreich

Yanni A. Loukissas Myers

PREFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA BLACK BOX

Mauro Pam:eri

When objects are lost, subjects are /ound. Sherry Turkle

La ricerca e la scrittura di Sherry Turkle sono un incontro speciale. Tra sociologia ed etnologia, antropologia e psicoanalisi, il viaggio nelle strutture e nei contenuti delle sue ricerche è per il lettore ita­ liano un affascinante processo di formazione. Abituati come siamo a una critica spesso aprioristica, l'apparente semplicità e il rigore del suo procedere lasciano il segno. Sherry Turkle è da molti anni interessata a un aspetto specifico della ricerca sulle tecnologie: la condizione relazionale tra queste, gli individui e i gruppi sociali. L'autrice dirige il M. I. T Initiative on Technology and Self (che si po­ trebbe considerare un felicissimo esempio di ingegneria inversa) e, nel cuore dello storico istituto di ricerche tecnologiche avanzate di Boston, alimenta con le sue ricerche un atteggiamento critico tutto interno al progetto tecnologico focalizzando l'attenzione su quella che potremmo definire una "risorsa a rischio" (la simulazione), da monitorare costantemente nei suoi effetti sull'individuo e sul grup­ po. Sherry Turkle utilizza una tecnica di bricolage (sia nel progetto di ricerca che nel risultato della scrittura); quel bricolage antropo­ logico che le viene dagli studi parigini di Lévi-Strauss, ma anche di Lacan e Foucault. La propone a gruppi di lavoro estesi, coinvolti e partecipi del processo-oggetto di studio, con osservatori e inter­ vistatori di cui è coordinatrice, che registrano e decifrano le trame complesse che si instaurano nel tempo (e quindi si modificano) tra i vari attori. Si tratta contemporaneamente di case study e fotografie

Il

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IL DISAGIO DELLA SIMULAZIONE

in progress di strutture relazionali, siano essi di formazione o di ana­ lisi del disagio psicologico (psicoterapia), piuttosto che di operativi­ tà nel mondo del lavoro; centrati comunque sempre sul soggetto e la sua identità. Pubblica i suoi lavori come " a cura di", senza pretesa di manifesta autorialità, riconoscendo ai ricercatori la vera sostan­ za dell'apporto. Anche per questo i suoi libri non hanno una fine (come la ricerca o l'analisi) e non esprimono sentenze definitive ma si rimandano l'un con l'altro in un continuo gioco di specchi. Così Sherry Turkle risponde aJohn Benditt, direttore di Tech­ nology Review, che le chiede se sia pro o contro le tecnologie: (. ..) "

non mi piace pensare alle cose in termini di ottimismo o pessimismo, perché sembra che uno si metta a scommettere se la tecnologia avrà un tipo di effetto o un altro. Penso che moltissimo dell'effetto della tecnologia dipenderà da ciò che le persone faranno con essa. Dobbia­ mo considerare invece di essere in una posizione di influenza pro/onda sugli esiti futuri. Insidiare o colpire violentemente la tecnologia pone l'enfasi sul suo potere. Sto invece tentando di porre l'attenzione sugli individui e sulle scelte umane. Noi ci facciamo molte domande, ope­ riamo molte scelte, tentiamo di assimilare la tecnologia. In definitiva, c'è un limite ai tipi di soddisfazione che la gente può avere on-line. Noi viviamo nei nostri corpi. Noi siamo fisic� menta/t; siamo cognitivi e emotivi. Il mio ottimismo deriva dal credere che le persone trove­ ranno dei modi di utilizzare la vita sullo schermo per esprimere tutti questi aspetti di se stesse". E in altro punto della stessa intervista: "Sono molto preoccupata che la tecnologia possa favorire una passività intellettuale, alimentata da una accettazione culturale dell'ignoranza sul funzionamento delle cose. Sono preoccupata dalla sensazione co­ mune che tutto ciò sia fondamentalmente magico." Il tema sotteso alle sue pubblicazioni è legato alla possibilità di decostruzione dell'oggetto (open the hood and see inside); l'autri­ ce auspica un uso consapevole delle tecnologie, in particolare del computer (il simulatore) , vero centro dell'osservazione. E ricorda, dal 1984 per precisione (anno che coincide con l'introduzione del Macintosh), quanto le regole del gioco siano cambiate: da quel mo-

BLACKBOX

l

mento un'ipnosi collettiva fatta di icone, click e effetti speciali ha pervaso il sociale. Queste scatole, nate trasparenti, sono divenute black box (gli ingegneri così descrivono un congegno il cui contenu­ to non è visibile a tutti) e hanno cominciato a funzionare senza che dovessimo conoscere "come". In questo recente volume c'è qualcosa di nuovo per senso e prospettiva. Abbandonate provvisoriamente le elencazioni tipiche degli ultimi testi (dedicati agli oggetti quotidiani), l'autrice traccia nel saggio iniziale (che occupa circa la metà del volume), una storia del suo lavoro, avvincente e poco conosciuta. È una storia interessante perché raccontata dal centro e riguar­ da tutti noi (periferia, soprattutto in quegli anni '80 di fortissimo ri­ tardo). Narra cioè di un dibattito acceso (non esclusivamente tecni­ co) sull'introduzione dei nuovi strumenti tecnologici, sull'umanità degli attori in scena, della vita in cambiamento, dei giovani e degli anziani. Noi europei, che abbiamo parzialmente saltato il passaggio, e abbiamo accolto la simulazione elaborata già in forma opaca, pos­ siamo qui scoprire quel "dietro le quinte". n dibattito italiano in campo formativo e professionale non è stato molto forte, anzi. Le vecchie generazioni di progettisti hanno mantenuto un atteggiamento molto cauto nei confronti dell'intro­ duzione dei computer nei loro studi; hanno continuato a utilizza­ re la matita. L'ingresso di giovani progettisti ha di certo provocato cambiamenti, ma nel rispetto dei ruoli tradizionali: agli uni lo schiz­ zo, il progetto di massima, la parola, agli altri il trasferimento, "la modellazione" o l'esecuzione. Si è così creata una vera e propria rottura generazionale, mai sanata, che ha negato il dibattito e aperto un conflitto sottile. Prova ne è la generazione di mezzo, quella cioè che ha vissuto prima l'approccio "manuale" e poi si è trovata a do­ versi "convertire" al mezzo. A un certo punto questa generazione si

è ritrovata con un mestiere letteralmente da ricostruire; ma sul quale non era mai stata fatta alcuna riflessione. La mancanza di una rico­ struzione storica di questo passaggio, lento e incerto, ha favorito un approccio disfunzionale. Ecco perché l' opacità di cui parla Sherry

ffi

IV

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IL DISAGIO DELLA SIMULAZIONE

Turkle è stata vissuta come "naturale", da tutti, a parte la genera­ zione di mezzo. Accenniamo anche al fatto che l'innovazione tecno­ logica ha profondamente modificato il mercato del lavoro, creando nuove professioni e chiudendone altre; ha moltiplicato speranze e delusioni; ha creato una moltitudine di nuovi operatori emergenti, scarsamente consapevoli (e di questo è responsabile una formazione poco attenta, al traino dei poteri economici in campo). Mentre i vecchi hanno abbandonato e la generazione di mezzo ne ha sofferto, i giovani invece, cresciuti nella pratica e nell'autoformazione, han­ no vissuto il passaggio senza scosse ma, fondamentalmente, senza consapevolezza. Compito della generazione di mezzo sembrerebbe proprio questo: narrare questa storia ai più giovani, quelli "nati con il computer" . Sherry Turkle lavora in questa direzione. "li disagio della simulazione" narra quindi degli studi che Sherry Turkle ha condotto dagli anni Ottanta al primo decennio del 2000 (dal progetto Athena del 1983 a CAVE): è un'indagine sulla simulazione dominante nelle identità scientifiche e progettuali in mutamento. Nel Progetto Athena le facoltà universitarie venne­ ro finanziate per redigere software educativi. L'esperienza Athena fu la prima svolta nelle tecnologie della simulazione e della visua­ lizzazione. Nel saggio sono raccolti i dubbi sollevati da coloro che l'autrice ha incontrato lungo il percorso: architetti, ingegneri, fisici, microbiologi, per la maggior parte docenti M.I.T.. Narra del loro disagio, della relazione con gli studenti, dei nodi che l'avvento di nuove tecnologie pose all'attenzione dei formatori. Narra anche di una rottura generazionale.

Vent'anni dopo, Sherry Turkle sente ancora l'eco di questo disagio iniziale, anche se oggi le polemiche sono finite e tutti usano la simulazione, accettandone l' opacità. Paradossalmente la perfetta risoluzione di un rendering lo fa "reale". definitivo. n virtuale ci è fa­ miliare, ci mette a nostro agio; riesce a acquietare l'ansia di essere "al­ tro". E qui Sherry Turkle indica: software opachi, scetticismo vigile. Perché simulazione e seduzione vanno di pari passo. La simulazione richiede l'immersione; e l'immersione ci rende vulnerabili, dice.

BLACKBOX

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A completare il volwne, Sherry Turkle sceglie quattro case study particolarmente rivelatori: il primo dedicato all'identità di un gruppo che guida a distanza un rover in esplorazione sulla superfi­ cie di Marte; il secondo a un gruppo di ricercatori delle profondità marine; il terzo dedicato all'architettura e ai sofware di progetta­ zione 3D; il quarto alla microbiologia. Case study aggiornati che si incrociano per tematiche comuni: l'essere tutt'uno con la macchina, il possedere un'estensione protesica e sentirsi padroni del proprio corpo, la proiezione del sé, la telepresenza. Legate a professioni in mutamento profondo dovute all'introduzione delle tecnologie di si­ mulazione, queste narrazioni differenti condividono soprattutto un nodo, esplicitato in una breve frase di straordinaria efficacia: "Nella

simulazione, l'ebbro beato mostra meno giudizio ma pensa di/are me­ glio" (pag. 93) , che chiosa di fatto il volwne.

Nota: Sherry Turkle è stata poco pubblicata in Italia. Recente­ mente Ledizioni ha dato alle stampe La vita degli oggetti tecnologià, 2009; un suo libro tuttora importante del '95 è La vita sullo scher­ mo. Nuove identità e relazioni sociali nell'epoca di Internet, Apogeo, 1 997; introvabile invece è n secondo io. Il computer e l'uomo: convi­ vere, amarsz; capirsi, Frassinelli, 1985. La sua bibliografia completa, che consta di numerose pubblicazioni, è facilmente rintracciabile in rete insieme a nwnerosi estratti, paper, interviste e recensioni.

V

PREFAZIONE

John Maeda

Alla metà dell'Ottocento si diceva che ci fosse l'oro "in quelle colli­ ne" della California, e centinaia di migliaia di coloni accorsero per accertarsene di persona. Non c'è niente di meglio di una nuova op­ portunità tutta da sfruttare per attrarre i curiosi. Accade talvolta che il mondo ci metta davanti a nuove possibilità che possiamo cogliere al volo . . . o lasciar andare per sempre. li World Wide Web ai suoi esordi si è presentato come un'altra sorta di corsa all'oro. Io ero uno di quelli che alzava le spalle dubbioso quando gli amici, colti dalla "febbre dell'oro" che traspariva sui loro volti, cercavano di con­ vincermi "Devi avere anche tu una homepage ! " "Una homepage? " ribattevo ironicamente "No, grazie, non m i serve" . Così all'inizio ne restai fuori. Ma presto anch'io entrai in questo mondo. Per fortuna. Oggi trascorro la maggior parte del mio tempo a lavorare in rete, e almeno una volta a settimana acquisto un nuovo nome di dominio su "whatever.com", visto che questo sembra essere il passatempo preferito di ogni magnate del mondo digitale. Essendo saltato sul treno del Web appena in tempo, giurai a me stesso che non mi sarei lasciato scappare nessun'altra opportunità che si fosse presentata successivamente. E questa arrivò puntuale nelle vesti di "Second Life". Ho scelto "Second Life" perché sembra incarnare esattamen­ te la tesi della Turkle secondo cui siamo tutti immersi in un'onda gigantesca di cambiamento, quella dei "mondi virtuali", che però non si è ancora manifestata apertamente. Fedele alla mentalità della corsa all'oro e ricordando i miei dubbi iniziali sul Web, nel momen­ to di maggior voga ho acquistato un'isola di Second Life per qual­ che migliaio di dollari. Cinque mesi dopo l'ho ceduta ad un amico perché mi sono reso conto di non sapere che farmene. Leggendo le varie testimonianze di malcontento storico riportate dalla Turkle, mi rendo conto solo ora del perché ho lasciato andare la mia isola. E mi rendo anche conto che forse un giorno la rivorrò indietro.

12

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IL DISAGIO DELLA SIMULAZIONE

Per coloro che cercano di capire l'importanza di quell'alone di dubbio che circonda l'adozione di realtà simulate, basta guar­ dare alla popolarità corrente di Facebook per intuire che in effetti sta accadendo qualcosa che sembra assumere le sembianze di una migrazione di massa verso il mondo virtuale. I concetti esposti dal­ la Turkle in questa breve ricostruzione storica tracciano un chiaro percorso dalla tecnologia in laboratorio al paesaggio virtuale in cui prosperiamo oggi. "ll sapere rende le cose più semplici" secondo la quarta legge della semplicità, e per questo sono sicuro che le cono­ scenze inserite nel presente volume vi aiuteranno sicuramente a fare luce su alcuni dei misteri che circondano la vostra visione, come un tempo la mia, delle questioni tecnologiche e di progettazione che riguardano quelle simulazioni in cui tutti finiremo per vivere.

PREMESSA E RINGRAZIAMENTI

Per Susan Sontag "scattare foto è come fissare il mondo" .' Si riferiva al "grandioso" risultato dell'impresa fotografica che dà l'idea di come "riproduciamo l'intero mondo nella nostra testa" . > L a simulazione ci induce a spingerei anche oltre nella nostra rappre­ sentazione mentale. Non abbiamo più bisogno di richiamare l'im­ magine del mondo "ai nostri occhi". La costruiamo, ci immergiamo in essa, la manipoliamo. Se la fotografia è un nuovo modo di vedere, la simulazione è questo e anche di più: un nuovo modo di vivere, insieme un cambiamento delle lenti e della prospettiva. "li disagio della simulazione" trae spunto da due studi etno­ grafici fondamentali di cui ero la principale ricercatrice. n primo, sponsorizzato dall'ufficio del rettore del MIT, indagava l'introdu­ zione di una massiccia base informatica nella pratica educativa del MIT alla metà degli anni '80; il secondo, uno studio condotto venti anni dopo dalla National Science Foundation, esaminava la simu­ lazione e la visualizzazione nei campi contemporanei della scienza, dell'ingegneria e del design.3 "li disagio della simulazione" viene seguito da quattro casi studio presentati sotto il titolo "Siti di simu­ lazione" . Due di questi casi, quelli di Yanni A. Loukissas e Natasha 1.

Susan Sontag, On Photography, New York, Picador,

2.

Ibid.

1977, p. 3 .

TI lavoro sul Progetto Athena, avviato dall'Ufficio del Rettore del MIT, è du3· rato dal 1983 al 1987. I risultati ottenuti sono sintetizzati in Sherry Turkle, Donald Schiin, Brenda Nielsen, M. Stella Orsini e Wun Overmeer,

(Cambridge, Mass.: Massachusetts lnstitute of Technology,

Project Athena at MIT, 1988). Lo studio della

National Science Foundation si è protratto dal 2002 al 2005. I risultati di questo secondo progetto sono presentati in Sherry Turkle, Joseph Dumit, David Mindell, Hugh Gusterson, Susan Silbey, Yanni A. Loukissas, e Natasha Myers, "Informa· tion Technologies and Professional Identities: A Comparative Study of the Effects of Vrrtuality" in A Report to

the National Science Foundation on Grant No. 0220347

(Cambridge, Mass.: Massachusetts lnstitute of Technology, 2005). Tutte le opinioni, gli esiti, le conclusioni o le raccomandazioni espressi in questi documenti sono ricon­ ducibili agli autori e non riflettono necessariamente la visione del MIT come istituzi· one o quella della National Science Foundation. Lo stesso esonero di responsabilità può applicarsi anche a quanto riportato nel presente volume.

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IL DISAGIO DELLA SIMULAZIONE

Myers, scaturiscono da una ricerca dell'NSF sulla simulazione e la visualizzazione; i casi di Stefan Helmreich e WilliamJ. Clancey sono stati commissionati per questo libro. Nel complesso, cerchiamo di dare voce alle reazioni di scienziati, ingegneri e progettisti di fronte alle tecnologie di simulazione e visualizzazione che sono divenute fondamentali per il loro lavoro nel corso degli ultimi venticinque • 4 anru.

Ringrazio i miei colleghi che hanno collaborato agli studi re­ lativi alla metà degli anni Ottanta e al decennio in corso. li mio principale collaboratore nella ricerca sull'informatica in campo educativo al MIT è stato Donald Schon. Dal 1 983 al 1987 abbiamo operato in collaborazione con Brenda Nielsen (che si è occupata delle osservazioni sul campo ai Dipartimenti di Architettura, Chi­ mica, e Fisica), M. Stella Orsini (che ha condotto ricerche presso il Dipartimento di Architettura e quello di Chimica) e Wim Over­ meer (i cui studi hanno riguardato il Dipartimento di Ingegneria Civile). Per ciò che concerne il secondo studio, dal 2002 al 2005, ho collaborato principalmente conJoseph Dumit, Hugh Gusterson, David Mindell, e Susan Silbey. Questo lavoro è parte dello sforzo di ricerca della "MIT lnitiative on Technology and Self" . Gusterson ha messo a disposizione materiali sulla progettazione di armi nucle­ ari, Mindell sulla storia dell'aviazione. Mindell si è anche occupato della supervisione di Arne Hessenbruch, assistente ricercatore che ha contribuito alla realizzazione di una visione d'insieme del nostro progetto. Dumit e Silbey invece sono stati i supervisori di Natasha Myers, ricercatrice che si è occupata del caso della biologia; io stes­ sa ho collaborato con Yanni A. Loukissas, assistente ricercatore, su un caso in ambito architettonico. La ricerca dell'NSF è andata a integrare i progetti di tesi di Loukissas e della Myers. In particolare, debbo ringraziare questi ultimi, studenti pieni di talento, per il loro coinvolgimento in ogni aspetto dell'indagine e della redazione del rapporto finale NSF. 4·

La presente raccolta si basa su diverse etnografie distinte che hanno inteso

procedere in maniera differente riguardo all'anonimità dei partecipanti. In questo

volume per convenzione garantiremo l'anonimato di tutti gli interpellati.

PREMESSA E RINGRAZIAMENTI

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Oltre alla ricerca sul campo, il progetto NSF ha portato allo sviluppo di due workshop sulla simulazione e la visualizzazione in ambito professionale, uno nell'autunno del 2003 e l'altro nella pri­ mavera del 2005 . Ciascuno ha permesso di riunire scienziati, inge­ gneri e progettisti provenienti da diverse discipline. Voglio ringra­ ziare coloro che hanno fatto da informatori per gli anni Ottanta e per il decennio del 2000, quelli che ci hanno permesso di seguirli nel loro lavoro, quelli che hanno condiviso con noi i loro pensieri nelle interviste, e quelli che hanno partecipato alle discussioni dei wor­ kshop. Nel presente volume è stato garantito a tutti l'anonimato. Laddove appare qualche nome si tratta di uno pseudonimo. Anche tutto il materiale dei casi segue questa politica. n mio lavoro sulla simulazione e la vita professionale contem­ poranea è stato supportato anche dal Programma del MIT "Scien­ ce, Technology and Society"; dalla Mitchell Kapor Foundation; dalla Intel Corporation; e dalla Kurzweil Foundation attraverso il loro sostegno alla MIT Initiative on Technology and Self. n presente volume è in debito anche con l'attività accademica dell'Initiative, con il Programma del MIT "Science, Technology and Society" , e con il MIT Media Laboratory. Voglio anche riconoscere i contributi di Anita Say Chan, Jennifer Femg, William D. Friedberg, William }. Mitchell, William Porter, Rachel Prentice, e Susan Yee. La Femg ha lavorato come ricercatrice allo sviluppo della storia della simulazio­ ne nella pratica architettonica; la Prentice ha documentato il primo workshop del MIT sulla simulazione e la visualizzazione nell' autun­ no del 2003; Friedberg ha fornito una chiave di lettura critica; Chan, Mitchell, Porter e Yee mi hanno aiutato a rielaborare la tensione tra fare e dubitare che è divenuta centrale nel mio pensiero. Kelly Gray ha apportato la sua tenacità e il suo talento a que­ sto volume; ella ha rappresentato quel lettore ideale - interessato, informato e critico - che ogni autore spera di trovare. Quest'opera rappresenta la quarta di una serie di libri della MIT Press scaturiti dal lavoro dell"'Initiative on Technology and Self" . La Gray si è impegnata con l'Initiative e con questo ambizioso progetto di pub­ blicazione sin dall'inizio ed entrambe le devono molto. Voglio ringraziare anche Judith Spitzer e Grace Costa per

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IL DISAGIO DELLA SIMULAZIONE

aver fornito il supporto amministrativo che mi ha permesso di svol­ gere al meglio il mio lavoro, e sono grata anche alle meravigliose persone della MIT Press che hanno collabotato con me attraverso il progetto di pubblicazione dell'lnitiative - Deborah Cantor-Adams, Erin Hasley, e Robert Prior. Con questo libro, Margy Avery, Erin Shoudy e Sharon Deacon Wame si sono uniti al gruppo di colleghi che hanno sempre permesso di fare le cose al meglio. Quando pensai la prima volta a quella che sarebbe stata l'"lni­ tiative on Technology and Self" del MIT mia figlia Rebecca aveva otto anni. Mentre scrivo queste parole sta facendo domanda per il college. Avere lei al mio fianco mentre l'lnitiative sbocciava è stato un gran dono per me. Spesso racconto la storia di Rebecca che a otto anni veleggiava con me su un Mediterraneo azzurro da carto­ lina gridando "Guarda, mamma, una medusa! Sembra così vera ! " comparando quella vista nel mare con quella che spesso appariva sullo schermo del computer di casa nella simulazione delle creature marine. Per Rebecca e i suoi amici la simulazione è una seconda natura. Ho voluto scrivere un libro che la facesse sembrare meno reale, cercando di ricordare loro che essa porta con sé nuovi modi per vedere le cose ma anche per dimenticarle.

Sherry Turkle Provincetown Estate 2008

IL DISAGIO DELLA SIMULAZIONE Sherry Turkle

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11 COSA VUOLE LA SIMULAZIONE?

Era il settembre del 1977, la prima settimana in facoltà al MIT. Con la mia formazione da psicologa e sociologa, mi ritrovavo accerchiata da scienziati, ingegneri e progettisti. Un collega di ingegneria civile mi ha accompagnata a pranzo per darmi un'idea del posto. Scher­ zando mi ha detto che ero arrivata in un buon momento, ma l'età dell'oro me l'ero persa: "Questo posto sta andando a rotoli" .' Alla base di questo declino secondo lui c'era il fatto che gli studenti uti­ lizzavano la calcolatrice invece del regolo. Con il regolo, spiegava, chi fa il calcolo doveva necessariamente sapere il numero di deci­ mali per dare una risposta significativa. Con la calcolatrice questo non è più necessario. Gli studenti, continuava, hanno perso ogni senso della misura. Nelle sue classi le risposte arrivavano sbagliate anche proprio in ordine di grandezza. Inoltre, i ragazzi non erano più in grado di manipolare i numeri nella loro testa come accadeva un tempo. "E questa calcolatrice è piccola cosa" affermava. Abbia­ mo parlato dei personal computer apparsi allora solo di recente, ed egli li vedeva come gigantesche calcolatrici. Proiettandosi nel futuro pensava tristemente a come sarebbe stato con i computer in pedagogia. Gli scienziati e gli ingegneri devono avere "i numeri sulla punta delle dita . . . i calcoli fatti a spanne sono la culla della scienza" . Mi ha detto anche di tenere gli occhi ben aperti perché si sarebbero verificati cambiamenti epocali. Sei anni dopo, io stessa studiavo le reazioni di studenti e pro­ fessori alla ormai diffusa introduzione dei computer nell'esperienza universitaria del MIT (una iniziativa nota come "Athena Project"); i computer ora erano ufficialmente fondamentali nel processo peda­ gogico. Passati altri vent'anni mi sono ritrovata a indagare su come 1.

Tutti i partecipanti ai diversi studi che hanno portato a "TI disagio della simu­

lazione" restano nell'anonimato in genere, come in questo caso, o vengono iden­ tificati semplicemente come professore o studente, o come scienziati, ingegneri o progettisti. Quando particolari soggetti assumono

un

ruolo specifico nel corso della

narrazione per chiarezza sono stati indicati con degli pseudonimi.

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IL DISACiiO DELLA SIMULAZIONE

la simulazione e la visualizzazione abbiano modificato il volto della ricerca e dell'insegnamento in campo scientifico, ingegneristico e progettistico. Ad un workshop del MIT tenuto nell' autwmo 2003 su questo tema, un biologo molecolare ha offerto una delucidazione impressionante sulle paure espresse in quel pranzo di venticinque anni fa. Ammetteva che i suoi studenti "non capivano la differenza tra x elevato a 12 e x elevato a 24". Continuava dicendo che ovvia­ mente questo non poteva essere un bene ma "quello che sanno fare è riuscire a premere due volte il tasto della calcolatrice per assicu­ rarsi di avere la risposta giusta" . n biologo d i cui sopra si occupa d i realizzare rappresentazioni matematiche delle molecole per esperimenti virtuali. n suo obietti­ vo è di costruire una simulazione della vita scientifica. Sta dando un grande contributo al sapere, e il suo laboratorio sta cambiando il modo in cui conosciamo le proteine. Né il MIT né la scienza delle proteine sono andati a rotoli. Ma l'ingegnere che mi ha portata a pranzo nell'autwmo del 1977 aveva ragione su una cosa: sono stata testimone di un cambiamento epocale. "n disagio della simulazione" è la mia visione di questo cam­ biamento epocale. Gli studi che ho condotto negli anni Ottanta e nel primo decennio del 2000 hanno indagato la simulazione come forza dominante nelle identità scientifiche e progettuali in muta­ mento! Qui espongo i dubbi sollevati da coloro che ho incontrato lungo il percorso. Perché concentrarsi sul disagio creato? Al giorno d'oggi guardiamo il mondo attraverso il prisma della simulazione. n disagio che si percepisce all'interno di questa egemonia attrae la nostra attenzione verso contesti in cui la simulazi�ne richiede una non facile conformità; il disagio ci fa pensare alle cose che la simu­ lazione lascia fuori. Come quando ci occupiamo delle controversie scientifiche, avverti un senso di disagio ci permette di scoprire gran­ di verità.3 2.

Nella premessa e nei ringraziamenti ho descritto questi due studi. TI primo si

basava sull'esperienza al MIT; il secondo si estendeva alla comunità di professionisti e accademici e includeva anche due workshop del MIT sulla simulazione e visualiz­ zazione, tenuti nell'autunno del 2003 e nella primavera del 2005.



Sulla controversia come fonte di apertura negli studi scientifici, si veda Doro-

1. COSA VUOLE LA SIMULAZIONE?

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Tra i soggetti trattati negli anni Ottanta ci sono i custodi del dubbio. Si tratta di professori del MIT che per buona parte vede­ vano la simulazione come fondamentale per il futuro delle rispetti­ ve discipline. E tuttavia quando dovevano presentarla agli studen­ ti, si mostravano sensibili ai modi in cui questi avrebbero potuto sfruttarla. In prospettiva, vedevano la creatività, certo, ma anche l'opportunità di lasciarsi sedurre e tradire; quei momenti in cui la simulazione può anche ingannare. Oggigiorno, i professionisti che danno voce al malcontento sulla simulazione nel campo scientifico, ingegneristico e progettistico corrono il rischio di essere visti come nostalgici o impegnati in una futile protesta. I primi scettici proba­ bilmente si sentivano coinvolti in quella che potremmo chiamare una "azione di retroguardia", ma sicuramente non pensavano che le loro obiezioni potessero essere futili. Operavano nell'affascinante convinzione di poter fare qualcosa per proteggere ciò che riteneva­ no importante. Volevano preservare quelli che definivano gli "spazi sacri", i posti in cui la tecnologia non avrebbe potuto intaccare le sacrosante tradizioni collegate ai loro valori più intimi. Così, per esempio, gli architetti volevano custodire il disegno a mano: sot­ tolineavano la sua lunga storia, la sensazione di intimità, e il modo in cui questo collegava l'architettura alle altre arti figurative. I fisici volevano mantenere la l'attività pedagogica intesa come lezione da tenersi nell'aula magna perché la vedevano come un luogo in cui modellare un'identità scientifica. Un fisico in un'aula magna può rispondere a domande del tipo: Di cosa si occupano i fisici? Cosa trascurano? Come gestiscono il dubbio? Vent'anni più tardi, nello studio sulla simulazione e visualizza­ zione relativamente al primo decennio del 2000, posso sentire l'eco di questo primo malcontento, a cui ora viene data voce da alcuni dei professionisti più sofisticati della simulazione. Tra le varie discipline si avverte l'ansia per il pensionamento dei colleghi più anziani: que­ sti sono visti come creature speciali perché erano legati a un modo di fare scienza e progettazione che era meno mediato e più diretto. I colleghi più anziani usavano la matita, sapevano revisionare un thy Nelkin, Controversy: Politics o/Technical Dec isions (New York, Sage, 1984).

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progetto a mano, e in laboratorio erano in grado di costruire e ri­ parare da soli gli strwnenti. Conoscevano il codice informatico e, quando le cose non andavano bene, erano in grado di calarsi in un programma e aggiustarlo dalla base. Quando andranno in pensione porteranno con sé qualcosa che la simulazione non può insegnare, non può sostituire. La sensibilità cambia. Negli anni Ottanta, uno studente di in­ gegneria al MIT poteva meravigliarsi nell'apprendere che c'è stato un tempo in cui i grattacieli venivano progettati senza l'aiuto del computer. Non riusciva neanche a immaginarsi come gli ingegneri avessero potuto lavorare a questi progetti "a mano". Per questo stu­ dente un edificio alto degli anni Cinquanta era come una piramide, una sorta di creatura preistorica ante-simulazione. Vent'anni dopo, i professionisti nel campo della scienza e della progettazione flirta­ vano con la simulazione anche se erano ancora sospettosi. Oggi, è impossibile non essere connessi con essa, sebbene permanga uncer­ to grado di diffidenza. In un seminario sulla progettazione, il grande architetto Louis I. Kahn ha posto la famosa domanda: "Cosa vuole un mattone?"4 È la domanda giusta per aprire una discussione sull'ambiente co­ struito. Qui, voglio prendere in prestito l'essenza di tale domanda per chiedere "Cosa vuole la simulazione?". Da un lato, la risposta a questa seconda domanda risulta semplice: la simulazione vuole, esige anzi, l'immersione. L'immersione ha già provato i suoi bene­ fici. Gli architetti creano edifici che non potevano neanche essere immaginati prima di essere progettati sullo schermo; gli scienziati 4· Si tratta di una parafrasi. La citazione esatta è: "Quando vuoi dare il senso di una presenza devi rivolgerti alla natura e sarà da qui che proverrà il progetto. Se pen­ siamo al mattone, per esempio, possiamo chiedergli: "Cosa vuoi mattone?" e questo risponderà "Vorrei diventare arco" e se gli risponderete "Beh, gli archi sono troppo costosi al massimo è possibile una piattabanda, che ne dici?" il mattone vi risponderà "Io voglio diventare arco". "When you want to give something presence, you have to consult nature and that is where design comes in. if you think of brick, for instance, you say to brick, 'What do you want, brick?' And brick says to you, 'I like an arch.' And if you say to brick, 'Look, arches are expansive and I can use a concrete lintel over you, what do you think of that, brick?' And brick says to you, 'I'd like an arch'." Si veda Nathaniel Kahn, My Architect: A Son 's }ourney (New Yorker Films, 2003 ).

1. COSA VUOLE LA SIMULAZIONEl

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determinano la struttura delle molecole manipolandole nello spazio virtuale; le esplosioni nucleari vengono simulate in realtà 3D; i me­ dici mettono in pratica l'anatomia su umani digitalizzati.s Immersi nella simulazione ci sentiamo estasiati per le possibi­ lità a disposizione. Pensiamo a Bilbao, alle terapie emergenti contro il cancro, alle simulazioni che possono aiutarci ad affrontare il cam­ biamento globale del clima. Ma immersi nella simulazione siamo anche più vulnerabili. Talvolta può risultare difficile ricordare tutto quello che c'è dietro, o anche riconoscere che la simulazione non coglie proprio tutto. La vecchia generazione teme che gli scienziati, gli ingegneri e i progettisti più giovani siano "ebbri di codice". La generazione più recente cerca di conquistare ad ogni costo il sapere tacito dei propri mentori su edifici, corpi, e bombe. Da entrambi i lati del confine generazionale, si registra quella sensazione oppri­ mente che nella simulazione qualcosa vada perduto per sempre. Nel 1984 un professore di architettura del MIT disse che per 5· Diversi dei contributi allo studio del 2003 -2005 sulla tecnologia informatica e le professioni hanno indagato questi o simili esempi. Per l'architettura si veda Yanni A. Loukissas "Conceptions of Design in a Culture of Simulation" (Tesi di dottorato, Massachusetts Institute of Technology, 2008); e "I custodi della geometria" nel pre· sente volume. Per la biologia molecolare si veda Natasha Myers "Modeling Proteins, Making Scientists: An Ethnography of Pedagogy and Visual Cultures in Contem­ porary Structural Biology" (Tesi di dottorato, Massachusetts Institute of Technolo­ gy, 2007); "Animating Mechanism: Animation and the Propagation of Affect in the Lively Arts of Protein Modeling", Science Studies 19, n. 2 (2006): 6-30; "Molecular Embodirnents and the Body·Work of Modeling in Protein Crystallography", So cial Studies o/Science 38, n. 2 (2008): 163-199; e "Riprodurre il ripiegamento proteico", nel presente volume. Per quanto riguarda l'imaging computerizzato in medicina si veda Joseph Dumit "A Digitai Image of the Category of the Person: Pet Scanning and Objective Self-Fashioning" in Cyborgs and Citadels: Anthropological Interven · tions in Emerging Sciences and Technologies, a cura di Gary Lee Downey e Joseph Durnit (Santa Fe: School of American Research Press, 1997) e Durnit, Picturing Per· sonhood: Brain Scans and Biomedica! Identity, Information Series (Princeton, N.J.: Princeton University Press, 2004). Per la simulazione nel campo dell'aviazione si veda David Mindell, Digitai Apollo: Human and Machine in Spaceflight (Cambridge, Mass.: MIT Press, 2008). Per la progettazione di armi nucleari si veda Hugh Gu· sterson, Nuclear Rites: A Weapons uboratory at the End o/ the Co/d War (Berkeley: University of California Press, 1996); People o/ the Bomb: Portaits o/Amenca 's Nu· clear Complex (Minneapolis: University of Minnesota Press, 2004); e "The Virtual Nuclear Weapons Laboratory in the New World Order", American Ethnolog ist 28, n. l (2001): 417-437.

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utilizzare la simulazione in maniera responsabile i professionisti dovevano imparare a "fare" e a "dubitare". Egli pensava che gli studenti non fossero nella posizione per mettere in dubbio la si­ mulazione, poiché la necessità di acquisire la padronanza tecnica necessaria rendeva difficile sviluppare una certa distanza critica. Ma credeva anche che, alla fine, la maturità professionale avrebbe por­ tato con sé sia l'immersione che una certa dose di scetticismo. Le cose non sono state così semplici. La simulazione è facile da amare e difficile da mettere in dubbio. Essa traduce i materiali concreti della scienza, dell'ingegneria e della progettazione in og­ getti virtuali capaci di coinvolgere il nostro corpo come la nostra mente. n modello molecolare costruito con sfere e bastoncini lascia il posto a un mondo animato che può essere manipolato con un solo tocco, ruotato, e proposto da un'altra angolazione; il plasti­ co dell'architetto si trasforma in una realtà virtuale fotorealistica che si può "attraversare" . Nel tempo, è divenuto chiaro che que­ sta "rimediazione" , il passaggio dalla manipolazione fisica a quella virtuale,apre nuove possibilità per la ricerca, l'apprendimento e la creatività dei progettisti. 6 È divenuto altrettanto chiaro che essa può portare i suoi utenti verso una mancanza di fedeltà al reale.7 Tenen­ do in mente questi sviluppi, ritornerò alle esperienze di coloro che per primi adottarono la simulazione concentrandomi sui loro timo­ ri e sulle loro aspettative. Al cuore della mia storia c'è la tensione costante tra fare e dubitare. La simulazione esige l'immersione e l'immersione rende difficile mettere in dubbio la simulazione. Più potenti diventano i nostri strwnenti e più è difficile immaginare il mondo senza di essi.

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Per un'analisi si veda Jay David Bolter e Richard Grusin, Remediation: Under·

standing New Media (Cambridge, Mass.: MIT Press, 1999).

1· Per la simulazione come mondo in sé in cui vengano catturati gli altri mondi si veda Pau! E. Edwards, The Closed World: Computers and the Politics o/Discourse in Cold War America (Cambridge, Mass.: MIT Press, 1996).

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2! LA VISIONE DECill

ANNI OTTANTA

Winston Churchill una volta ha detto: "Prima siamo noi a dare for­ ma agli edifici, poi sono questi a dare forma a noi. Essi regolano il corso della nostra vita".' Noi diamo vita alle nostre tecnologie e que­ ste ci plasmano. Cambiano il modo in cui pensiamo. Recentemente, durante una conferenza, un professore di architettura del MIT ha raccontato di quando ha progettato il suo primo edificio, un piccolo cottage sulla riva di un lago, quando era un fresco laureato agli inizi degli anni Sessanta: "La connessione tra disegnare e pensare, con­ tinuare a provare ad abbozzare qualcosa finché la struttura non ti entra nel sangue, ecco cosa rendeva grande un progetto". Più tardi quella stessa settimana, ad un workshop sulla simulazione, un archi­ tetto senior affermava di essere rimasto interdetto nello scoprire che i suoi studenti non avevano alcuna idea di come disegnare. Non lo avevano mai imparato; per loro disegnare era qualcosa che poteva fare il computer. La sua reazione era stata quella di insistere che gli studenti seguissero dei corsi di disegno. Ma non si faceva troppe il­ lusioni. Questa nuova generazione di studenti, tutti abili utenti della simulazione, stanno per lasciarsi completamente alle spalle il potere del pensare con una matita in mano. Da un certo punto di vista, la storia di un architetto che progetta con un programma computerizzato invece che con carta e matita è solo una questione di esperienza creativa individuale. Potrebbe rappresentare una perdita ma anche l'apertura di nuove possibilità. In effetti potrebbe includere entrambe. Ma la vita pro­ fessionale ha luogo sia nella sfera pubblica che in quella privata; la storia dell'architetto con la matita ha anche conseguenze sociali ed estetiche. La vita nella simulazione ha una dimensione etica e politi­ ca ma anche una dimensione artistica! 1.

Winston Churchill. Remarks to the English Architectural Association, 1924, disponibile su (accesso 20 ottobre 2008). 2. Si veda Max Weber, "Science as a Vocation" e "Politics as a Vocation", From

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Gli individui si inunergono nella bellezza e nella coerenza della simulazione; in effetti le simulazioni sono costruite per cattu­ rarci proprio in questo modo. Una tredicenne avvinta da SimCity, un videogame che chiede ai giocatori di vestire i panni di un urba­ nista, mi ha detto che tra le sue " Regole Top Ten per Sim" c'era la regola numero 6: "Alzare le tasse porta alla rivolta dei cittadini". Ed ella era convinta che questa fosse una regola non solo nel gioco ma anche nella vita.3 Ciò che può piacere in questo gioco diventa problematico quando vi sono dei professionisti che si perdono nella vita sullo schermo. La vita professionale richiede di convivere co­ stantemente con la tensione tra usare la tecnologia e ricordarsi di esserne diffidenti. PROJECT ATHENA: PROGETTARE IN GIARDINO

TI Progetto Athena, lanciato nel 1983, ha portato l'informatica nella didattica del MIT.4 In tutte le discipline, le facoltà venivano incoMax Weber: Essays in So àology con un'introduzione di H. H. Gerth e C. W. Mills (New York: Oxford University Press, 1946). 3· I programmatori di SimCity avrebbero potuto prevedere che un innalzamento delle tasse portasse a un maggior numero di servizi o un miglioramento dell'armonia sociale- e invece hanno scelto diversamente. Ciò che è importante qui è che questa giovane donna non sa come programmare nel suo ambiente di gioco. Non sa come modificare le regole dd gioco, né ha mai preso in considerazione l'idea di poterle mettere in discussione o chiedere se vadano applicate anche al di fuori del video­ game. Non sa come mettere a confronto il programma con la storia delle città reali. Secondo il mio parere, la cittadinanza nel ventunesimo secolo richiede notevoli doti di lettura nella cultura della simulazione, l'equivalente digitale del sapere "Chi, Cosa, Dove, Perché e Come" nella stampa. Tali doti dovrebbero consentire alle persone di essere critici nei confronti della simulazione, e di non immergervisi semplicemente. E ciò che può valere per i cittadini può essere altrettanto vero dei professionisti. Per maggiori dettagli su questo esempio, si veda Sherry Turkle, "Virtuality and lts Dis­ contents", The American Prospe ct, n. 24 (Inverno, 1996): 50-57. 4· Athena è stato lanciato nel 1983 con 70 milioni di dollari donati dall'IBM e dal­ la Digitai Equipment Corporations allo scopo di introdurre l'uso dei computer nei curricula degli studenti universitari. La prima priorità di questo progetto era quella di creare una "rete coerente" per l'informatica a livello educativo che includesse lo studio dell'hardware, dei sistemi operativi, e dei linguaggi di programmazione. L'obiettivo era quello di fare in modo che gli studenti investissero una sola volta il loro tempo nell'apprendimento del sistema per avere poi accesso alla gamma com-

2. LA VISIONE DEGLI ANNI OnANTA

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raggiate, equipaggiate e finanziate per scrivere software educativi da usare nei corsi. Per molti, l'esperienza Athena ha segnato una prima svolta nelle tecnologie della simulazione e della visualizzazione. L'esperienza poteva essere inebriante. Alla Scuola di Archi­ tettura e Pianificazione, alcuni corsi vedevano l'informatica come una sorta di finestra verso nuovi modi di vedere. Per gli architetti abituati a pensare con la matita in pugno, progettare sullo schermo sembrava suggerire nuovi modi di concepire lo spazio e di pensare lo stesso processo della progettazione. Gli studenti potevano "en­ trare nei programmi" , come affermava un professore di progettazio­ ne, "per costruire , cambiare, interpretare, e comprendere" come operavano i loro modelli. I membri della facoltà di architettura quasi sognavano che gli studenti potessero muoversi fra una visione dall'alto ed una dal basso dei loro siti, di lasciare la rappresentazio­ ne bidimensionale per edifici virtuali che potessero prendere vita. Negli anni Ottanta questo tipo di discorsi venivano conside­ rati visionari. In quel tempo, di fronte alle lente e goffe attrezzature a disposizione, non era affatto ovvio che i computer avrebbero con­ dotto a nuove epistemiologie della progettazione. Una generazione era cresciuta utilizzando !'" elaborazione sequenziale" - uno stile in­ formatico in cui si introducevano i dati nel centro computerizzato e li si ritiravano poi il giorno seguente. Era un periodo in cui gli scher­ mi erano più che altro associati alla televisione, e in effetti gli stessi professori che immaginavano che i computer potessero cambiare gli elementi di fondo della progettazione si preoccupavano anche che questi potessero invece portarli verso quelle abitudini passive che provenivano proprio dal guardare la Tv. Si iniziava appena ad associare la parola interattività ai computer. La storia del progetto Athena ci riporta indietro a un tempo in cui gli educatori parlavano come se avessero scelta nell'utilizzare pleta di software educativi sviluppati al MIT. Basandosi su questa rete tecnicamente sofisticata, gli architetti di Athena speravano di integrare "il computer moderno e le strutture di calcolo in tutte le fasi del processo educativo" al fine di "aiutare gli studenti ad apprendere in modo più creativo e completo in un'ampia gamma di disci­ pline" sviluppando "una nuova comprensione concettuale e intuitiva e [migliorando e raffinando] i nostri metodi di insegnamento" . "Project Athena, Faculty/Student Projects", MIT Bulletin (Marzo 1985).

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o meno i computer per la formazione di progettisti e scienziati.s La maggior parte degli studenti era più informata. Mentre i professori battevano ancora le pubblicazioni sulla macchina da scrivere, uno studente di architettura del MIT anunetteva di aver avuto accesso almeno una volta al word processing e a una stampante laser, non usarle lo avrebbe fatto sentire "stupido . . . arretrato" . Un'altra stu­ dentessa sorprese i propri professori dichiarando la sua idea che i computer sarebbero diventati presto "come i telefoni" e avrebbero fatto parte della vita quotidiana di un architetto. Gli studenti si rendevano anche conto che, nonostante il progetto Athena fosse stato presentato come un "esperimento" e discusso in questo modo nel campus, in realtà non lo fu mai vera­ mente. Una studentessa di architettura ha riferito che quando ha chiesto al suo professore perché nessuno ha cercato di comparare le strutture realizzate "manualmente" con quelle progettate sullo schermo ha ottenuto come risposta solo un'alzata di spalle. Secon­ do lei: "Era dato per scontato che il computer avrebbe vinto". Dal momento in cui fu introdotta, la simulazione fu percepita come la strada da percorrere in futuro. Alla Scuola di Architettura e Pianificazione era chiaro sin da­ gli inizi degli anni Ottanta che i neolaureati avevano bisogno di ac­ quistare sempre più familiarità con la progettazione computerizzata per essere competitivi sul mercato del lavoro. Le risorse di Athena avrebbero dato la possibilità di realizzare un labor!l-torio informati­ co per soddisfare appunto queste necessità. Tale l�horatorio è stato chiamato il "Giardino" , un nome che celebrava ed era celebrato dalla sua inclusione di piante di ficus alte fino al soffitto. Sotto questa vegetazione si è sviluppato un clima di mutuo 5· Nel nostro studio su Athena 1983-1987 molti al MIT credevano di poter evita­ re di avere a che fare con i computer. Questo studio ha incluso interviste con studenti e professori nonché osservazioni di quei corsi che avevano introdotto il computer nell'esperienza formativa. Quattro sono i campi studiati estesamente. Le interviste a ingegneria civile sono state condotte da Wim Overmeer e Donald Schon, a chi­ mica da M. Stella Orsini e Brenda Nielsen, a fisica e architettura e pianificazione da Brenda Nielsen e Sherry Turkle.

2. LA VISIONE DEGLI ANNI OnANTA

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supporto. Gli studenti più esperti erano avvicinati da quelli che avevano bisogno di aiuto. Si faceva a turno; regnava la cortesia; e i ragazzi finivano con il conoscere reciprocamente i loro progetti. n Giardino, aperto ventiquattro ore al giorno, era una delle strutture informatiche più utilizzate del campus. Anche i primi programmi di progettazione computerizzata della metà degli anni Ottanta davano la possibilità di passare rapidamente attraverso diverse alternative progettuali e di armeggiare con forma, dimensione e volume. n sof­ tware presentava le opzioni di " default", gli elementi architettonici preimpostati che potevano essere manipolati. n corpo docenti rima­ se stupito da come gli studenti, utilizzando questi elementi, fossero riusciti a creare dei progetti che risultavano nuovi anche per i pro­ gettisti più esperti. Gli studenti di progettazione cominciarono presto ad espri­ mere il loro entusiasmo per come fosse semplice ottenere diverse versioni di un unico disegno. La possibilità di passaggi multipli implicava che gli errori generavano meno ansia. Sbagliare non si­ gnificava più dover ritornare davanti al tecnigrafo. Ora gli errori potevano essere semplicemente "corretti" reimpostandoli nella si­ mulazione. Nel debugging, gli errori non sono visti come qualcosa di falso ma come qualcosa di riparabile. Si tratta di uno stato men­ tale che rende più semplice imparare dai propri errori.6 I passaggi multipli inoltre trasmettevano anche un nuovo senso della comples­ sità delle decisioni relative alla progettazione. Gli ingegneri civili come gli architetti affermavano che la simulazione li portava al di là dei semplici esercizi da svolgere in classe, mettendoli di fronte ai problemi che facevano loro capire "come si comporta davvero un edificio in diverse condizioni" . Per alcuni, la progettazione compu­ terizzata rendeva viva la teoria. Uno studente ha osservato, mentre studiava in classe i principi dell'ingegneria: "Sapevo che erano dei fatti, ma non li percepivo come veri e reali" . Ma quando ha visto tali principi all'opera nelle strutture virtuali ha potuto sperimentarli in maniera più immediata. Questi ha espresso un paradosso che sa-

Si veda Seyrnour Papert, Mindstorms: Computers, Children and Power/ul Ideas (New York, Basic Books, 1981) 23.

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rebbe diventato presto familiare: il virtuale fa sembrare le cose più reali. Ma c'erano problemi anche nell'Eden. Molti membri della facoltà di Architettura e Pianificazione non volevano insegnare i dettagli del software e della programmazione nei loro corsi. Se da un lato ciò era in linea con una tradizione del MIT che voleva che gli studenti riuscissero ad acquisire da soli una certa padronanza della tecnologia necessaria per il corso di studi,7 dall'altro lato ri­ fletteva anche una certa ambivalenza dei professori riguardo all'in­ troduzione dei computer nel curriculum di progettazione. Molti assunsero la posizione secondo cui la progettazione computerizzata era accettabile solo se i professionisti avessero preso coscienza dei suoi lati negativi. I docenti si riferivano a questo aspetto definen­ dolo "distanza critica". Un professore non credeva che gli studenti avessero la capacità di raggiungere questo equilibrio poiché impa­ rare ad utilizzare la simulazione richiedeva una certa sospensione di giudizio: "Non possono dubitare e fare allo stesso tempo". E in effetti la maggior parte degli studenti erano sopraffatti dalle diffi­ coltà dell'uso di questa nuova tecnologia; riuscire ad ottenere i det­ tagli giusti assorbiva tutta la loro concentrazione. In generale, gli studenti pensavano che se la loro università voleva che assumessero una posizione critica nei confronti della simulazione allora doveva insegnare loro come fare. Ciò che emergeva nella facoltà di Architettura e Pianificazio­ ne era una sorta di divisione del lavoro. gli studenti si incaricavano 1· La tradizione del MIT favorisce l'insegnamento della programmazione come un "a parte" rispetto ai corsi. Nel momento in cui fu lanciato Athena, anche il prin­ cipale corso di programmazione per la specializzazione in informatica, 6001, rich­ iedeva agli studenti di imparare da soli il linguaggio di programmazione LISP e di concentrarsi sui punti principali relativi alla strutture dei programmi. Questa strate­ gia che invitava gli studenti ad acquisire da soli certe capacità di programmazione operava anche all'interno del Dipartimento di Ingegneria Elettronica e Informatica. Funzionava meno bene alla Scuola di Architettura e Pianificazione. Qui, l'ansia au­ mentava quando gli studenti si rendevano conto di essere stati lasciati da soli con i propri strumenti per quanto concerneva le questioni tecniche.

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del fare e i professori del dubitare. Per i primi, le conoscenze infor­ matiche divennero sinonimo di padronanza tecnica; per i secondi, significavano utilizzare la simulazione nonostante il riconosicmento dei suoi limiti. "FARE PROPRIO" IL PROGmO

Sin dall'inizio del Progetto Athena, i professori di architettura pensavano che la padronanza nell'uso dei computer avesse un suo prezzo; ad esempio, i programmi di progettazione sembravano in­ durre alcuni studenti a perdere tempo con lavori disordinati e ca­ suali - apportavano cambiamenti per amore del cambiamento. Da parte loro, gli studenti ammettevano di sentirsi avvinti dal software, talvolta in maniera così forte che si sentivano "controllati" da esso. Uno studente affermava: "È facile lasciare che la simulazione ti ma­ nipoli invece di fare il contrario". Un'altra studentessa riconosceva che i "default" impostati dal computer limitavano la sua immagina­ zione. Quando progettava a mano aveva una serie di soluzioni pre­ ferite a cui "attingeva" . Invece utilizzare i default preimpostati dal computer sembrava portarla a scelte diverse. Da un lato, sentiva di non essere lei l'autrice. Dall'altro, questi risultavano anche troppo facili da implementare. "Per tornare a un default basta premere il tasto 'indietro'. Questo mi fa sentire troppo sicura. Se usi il default è come se il computer ti dicesse 'questo va bene' " . Un altro studente si chiedeva relativamente ai default: "Perché dovrebbero essere nel computer se non rappresentano una buona soluzione? " I default davano la sensazione di una validazione istantanea che metteva la parola fine a qualsiasi discussione. Una studentessa abituata a progettare con i modelli in carto­ ne si sentiva come prigioniera dei programmi computerizzati che era costretta ad utilizzare in aula. Il cartone le forniva un feedback tattile immediato che le piaceva; progettare sullo schermo invece sembrava qualcosa di rigido. Nel 1984, questa studentessa poteva vedere gli strumenti di progettazione della sua "giovinezza" come qualcosa di obsoleto. Le veniva consentito di portare in aula il car­ tone, il compensato, la colla, e le spine di acciaio, ma era scoraggiata

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dal fame uso finché i suoi progetti non fossero stati "messi a punto" con la simulazione. Un altro studente ha riassunto la sua esperienza di progetta­ zione in simulazione dicendo che questa ha molti vantaggi ma ri­ chiede "un'attenzione costante" : "Se ti limiti a guardare le bozze perfette, nette e pulite proposte dalla macchina senza continuare a effettuare cambiamenti . . . se vai avanti e indietro tra i disegni a mano e il computer, potresti finire col dimenticare che ci sono altri modi per connetterti allo spazio" . Ted Randall, professore di urbanistica, s i lamentava che "Noi amiamo le cose che portano il nostro segno. In un senso primitivo, i segni sono segni . . . . Potrei perdere un pezzo di carta per strada e se [un giorno dopo] passeggiando lo rivedessi saprei che sono stato io a disegnarlo. Con un disegno realizzato al computer . . . potrei anche non rendermi conto che l'ho fatto io. . . . Le persone fanno analisi del loro progetto [al computer] ma si innamorano solo dei segni che essi stessi hanno realizzato". Negli anni Ottanta i prodotti finali dei programmi di proget­ tazione computerizzata mancavano della vena artistica e della per­ sonalità delle opere fatte a mano. Alcuni membri del corpo docen­ te erano così demoralizzati dall'estetica delle stampe realizzate al computer che incoraggiavano i propri studenti a "compensazioni" artigianali. Per esempio, suggerivano che gli studenti potenziassero l'aspetto dei progetti realizzati al computer utilizzando matite colo­ rate per " attenuare" la freddezza della stampa. Questa attenuazione aveva un ruolo sia emotivo che estetico. Facendo sembrare le cose più artigianali e interessanti, l'attenuazione aiutava i giovani pro­ gettisti a sentirsi più in connessione con la propria opera. Ma per Randall, questo tentativo di unire il disegno alla stampa serviva solo da ornamento. Ciò che andava irrimediabilmente perso era la pro­ fonda connessione tra la mano e il disegno. Randall era diffidente nei confronti della simulazione perché questa incoraggiava il distacco: Gli studenti potevano fissare lo schermo e stare lì a lavorarci per un po' senza imparare la topografia di un sito, senza riuscire a ricostruirla nella loro testa come avrebbero fatto se avessero tentato altre strade, quella del

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disegno tradizionale ad esempio. . .. Quando disegni un sito, quando ci metti le curve di livello e gli alberi, questo si radica nella tua mente. Finisci per conoscerlo in un modo che non è possibile con il computer.

n professore ha proseguito poi raccontando la storia di un allievo che, lavorando al computer, ha tracciato una strada su un pendio che era troppo ripido per supportarla. Lo studente aveva commesso questo errore perché aveva trascurato la curva di livello nel suo disegno allo schermo, una curva di livello che rappresentava venticinque piedi sul sito. Quando Randall ha chiesto allo studente di spiegare cosa era accaduto questo aveva replicato: "Beh, è solo una curva" . Data la risoluzione dello schermo della tecnologia a disposizione nel Giardino, sarebbe stato impossibile distinguere le linee sul monitor se lo studente avesse introdotto la curva di livel· lo mancante. n suo schermo non riusciva a prevedere più curve di livello e lo studente si era affidato alla tecnologia. Randall ha com­ mentato: Era solo una curva, ma [nello spazio fisico] quella curva era di venticinque piedi. ll computer aveva prodotto una distorsione del sito nella mente dello studente. Questo non poteva introdurre più curve di livello nd disegno, aveva detto, perché ciò creava "troppa confusione". Aveva affermato: "Non posso lavorare con tante curve . . . non riesco più a distinguerle".

Una chiave di lettura di questa storiella sulla curva di livel­ lo omessa riguarda le limitazioni di una determinata tecnologia. n programma non era in grado di "zoommare" a una risoluzione suf­ ficiente; non c'era "spazio sullo schermo" per il numero necessario di curve di livello. Ma Randall aveva raccontato questa storia per esprimere un concetto più ampio. Egli credeva che ci sarebbe stato sempre qualcosa nella realtà fisica che non si sarebbe potuto rap­ presentare sullo schermo. Le versioni computerizzate della realtà lasceranno sempre qualcosa fuori anche se si presenteranno esse stesse come realtà. Noi le accettiamo perché sono convincenti e si presentano come espressioni dei nostri strumenti più aggiornati. Le accettiamo perché le abbiamo a disposizione. Diventano pratiche perché sono disponibili. Così, anche quando abbiamo ragione di dubitare che queste realtà sullo schermo siano vere, siamo tentati

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ugualmente di utilizzarle. Randall vede lo schermo come qualcosa che sposta la nostra attenzione dalla verità a ciò che possiamo pensare come "vero", il vero della simulazione. Per Randall, il fatto che gli studenti già accettassero come vero ciò che era li disponibile, la loro mancanza di interesse nella possi­ bilità di mettere in dubbio ciò che c'è sullo schermo, era facilitata dall' opacità degli strumenti utilizzati nella progettazione compute­ rizzata. Nonostante le speranze iniziali che gli studenti avrebbero studiato la programmazione e acquisito familiarità con la struttura sottostante i loro strumenti digitali, la maggior parte di essi opera­ vano su sistemi di cui non conoscevano affatto il funzionamento in­ terno. Se uno strumento è poco chiaro per te, non è possibile alcuna verifica; nel tempo, era la preoccupazione di Randall, ciò avrebbe potuto cominciare a sembrare superfluo. E questa preoccupazione era condivisa da altri. Uno dei suoi colleghi aveva commentato che nella simulazione gli studenti "ottengono le risposte senza sapere davvero cosa accade". Un altro professore pensava che il fatto che gli studenti utilizzassero degli strumenti per loro opachi avrebbe portato a concettualizzare gli edifici o le città "secondo modalità che possono essere contemplate solo in un sistema computerizza­ to". Gli studenti non avevano altra scelta che fidarsi delle simula­ zioni, il che significava che dovevano fidarsi dei programmatori che avevano approntato quelle simulazioni. Nei primi giorni del progetto Athena i docenti di architettura e pianificazione tendevano ad assumere posizioni sia pro che con­ tro i computer. I critici si appellavano al pericolo che l'architettura potesse divenire "mera ingegneria" e all'opacità dei programmi di progettazione. I sostenitori si concentravano sulle nuove possibilità creative offerte dal mezzo. Secondo loro, la simulazione avrebbe portato a una rinascita della progettazione. Sia critici che sostenitori sapevano che qualcosa stava cam­ biando; le fondamenta della progettazione venivano messe in di­ scussione. Era eccitante e disorientante allo stesso tempo. E così, non sorprende che molti si sentissero agitati dal conflitto difen­ dendo posizioni difficili da riconciliare, ad esempio che i computer

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avrebbero rivoluzionato l'epistemiologia della progettazione e che allo stesso tempo il cuore della progettazione sarebbe rimasto nel dominio dell'umano. Di fronte a questo conflitto continuo, molti progettisti cercavano dei modi per respingere l'enormità del cam­ biamento che si attendevano. Una strategia adottata era quella di dichiarare inevitabili gli effetti problematici ma al contempo di relegarli in un futuro remoto. Un'altra consisteva nel minimizza­ re i cambiamenti attraverso la retorica: per un momento sembrava che più i progettisti annunciassero il cambiamento rivoluzionario apportato dai computer, e più si lasciassero prendere dall'idea del computer come un "semplice strumento" . Questa espressione ha dato un enorme contributo. Definendo il computer come un "sem­ plice strumento", anche se qualcuno asseriva che gli strumenti pla­ smano il pensiero, si diceva in pratica che questo grande affare non era poi tale. Agli inizi degli anni Ottanta, anche i docenti che erano più coinvolti nel futuro della progettazione computerizzata cominciava­ no a sostenere che un aspetto dell'istruzione in campo progettuale dovesse essere lasciato fuori dall'invasione della macchina. Questo era il disegno. Era stato introdotto un software di disegno che po­ teva servire come alternativa al disegno a mano. Alcuni erano felici che ora le professioni legate alla progettazione non avrebbero più escluso quelli che non erano molto portati per il disegno. Ma altri erano contrari. Temevano che se i giovani progettisti si affidavano al computer non avrebbero mai raggiunto quella intima conoscen­ za dell'arte del disegno che proviene solo dalla sua realizzazione a mano. I progettisti descrivevano il disegno come uno spazio sacro, un aspetto del design che doveva restare inviolato. Essi sostenevano che la pratica del disegno, quello fatto con carta e matita, rendeva chiaro che la pietra di paragone per quest'arte era la vicinanza al corpo. Rendeva chiaro che anche se i nuovi strumenti ammettevano nuove strade del sapere portavano anche a nuovi modi di dimenticare.

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IL DESIGN E IL PROGRAMMATORE

Negli anni Ottanta, sono state espresse diverse visioni alternative dei computer e del futuro della progettazione nell'ambito della pro­ grammazione. Alcuni architetti erano convinti che i progettisti do­ vessero imparare la programmazione a un livello avanzato. Se que­ sti ultimi non sapevano come erano costruiti i loro strumenti non solo sarebbero stati sempre più dipendenti dagli esperti informatici ma avrebbero avuto anche meno possibilità di sfidare le reatà sullo schermo. Altri invece non erano d'accordo con questa conclusio­ ne. Essi sostenevano che, in futuro, la creatività non sarebbe dipesa dalla conoscenza degli strumenti utilizzati ma dalla maestria con cui questi sarebbero stati utilizzati; meno ci si lascierà coinvolgere dai dettagli tecnici del software e più si sarà liberi di concentrarsi esclusivamente sulla progettazione. Questi vedevano la programma­ zione e la progettazione come due cose opposte; ne parlavano anzi come se la tecnicità della prima potesse ostacolare l'arte implicita nella seconda. Tali visioni erano molto influenti: gli studenti di ar­ chitettura animavano le loro conversazioni con espressioni del tipo " Non diventerò mai un hacker" e " Non mi considero un hacker". Un laureato in architettura spiegava come non fosse possibile essere allo stesso tempo un "esperto di computer" e un buon progetti­ sta: "Puoi essere un chirurgo e uno psichiatra allo stesso tempo? Non penso. Devi scegliere tra i due". Un altro si preoccupava della sua troppa competenza in fatto di programmazione: "Non voglio diventare così bravo da dover stare appiccicato allo schermo del computer quaranta ore alla settimana. È una questione di ignoranza selettiva". Anche gli studenti di ingegneria civile erano divisi sulla que­ stione della programmazione. Alcuni chiarivano che se avessero voluto diventare dei programmatori si sarebbero iscritti a scienze informatiche. Erano soddisfatti del fatto che gli strumenti di simu­ lazione, anche se opachi, davano loro la possibilità di affrontare problemi complessi sin dall'inizio della loro carriera. Ma gli studen­ ti di ingegneria civile e anche i loro professori, come i colleghi di architettura, erano anche preoccupati della crescente dipendenza

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dagli esperti di informatica che realizzavano i loro strumenti. Un programma di progettazione chiamato Growltiger era diventato il parafuhnine di queste preoccupazioni. Dal 1986 in avanti, Growltiger aveva dato agli ingegneri civili la possibilità di creare la rappresentazione visiva di una struttura, di fare delle modifiche locali su questa, e di indagare le conseguenze di questa modifica sul comportamento della struttura nel suo com­ plesso. Gli studenti apprezzavano Growltiger perché questo toglie­ va loro il peso di impegnarsi in noiosi calcoli. Lo utilizzavano per i test teorici, per seguire le intuizioni e per delle sperimentazioni giocose. Ma, come quando gli architetti prendevano in considera­ zione la progettazione computerizzata, l'entusiasmo per ciò che of­ friva questo programma opaco era attenutato dall'ansia per ciò che poteva sottrarre. In particolare, si temeva che un software pronto all'uso avrebbe reso ciechi gli ingegneri rispetto alle fonti principali di errore e di incertezza. Proprio come il disegno era divenuto uno spazio sacro per molti architetti del MIT, qualcosa che volevano mantenere come una sorta di "zona vietata alla simulazione", così anche gli ingegneri civili parlavano spesso dell'analisi delle strutture come di qualcosa di off-limits per il computer. I docenti di ingegneria civile condividevano le tradizioni di progettazione con i loro studenti raccontando delle storie. Alla metà degli anni Ottanta, molte di queste storie avevano una morale comune: il pericolo dell'uso dei computer nell'analisi strutturale. Un professore aveva descritto una serie di progetti in cui giovani ingegneri avevano utilizzato programmi complessi "non solo senza giudizio ma talvolta anche senza neanche analizzare tutte le possibi­ lità che quello stesso programma offriva" producendo così "risultati [che] erano pura spazzatura". In una mossa preventiva, questi aveva insistito che i suoi studenti imparassero a programmare ma i suoi sforzi avevano dato risultati infelici. Quegli studenti che si vedevano principalmente come progettisti pensavano che la programmazione fosse una perdita di tempo. Gli altri si lasciavano coinvolgere così tanto dalla programmazione che si allontavano dall'ingegneria. Tra­ scorrevano più tempo a mettere a punto il software che a lavorare sul progetto.

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Si tratta di un caso complesso che punta su un futuro in cui il destino di ingegneri e progettisti sarà collegato, anche se molti pro­ gettisti si accontenteranno di restare alla superficie dei loro software chiamando in causa gli "esperti" quando qualcosa non va. La progettazione è una combinazione volubile di estetica e tecnica. All'inizio degli anni Ottanta, gli studenti di progettazione avvertivano la pressione di dover imparare di più sui computer, ma erano preoccupati che questa nuova abilità avrebbe trasformato la loro identità professionale allontanandola dall'arte e facendola convogliare più verso l'ingegneria. Dovevano acquisire padronanza dei computer; ma volevano anche mantenere una certa distanza. Un modo per risolvere queste rivendicazioni conflittuali di competenza e distanza era quello di formare coppie di progettisti e informatici che si dividevano il lavoro artistico e quello tecnico. Gli informatici in questa coppia si vedevano come le levatrici del futuro della pro­ gettazione. I progettisti si sentivano fortunati di aver trovato una strategia che consentisse loro di sfruttare la simulazione restando­ ne a una certa distanza. Queste nuove collaborazioni prefigurava­ no l'osservazione di un architetto come Frank Gehry secondo cui i suoi progetti dipendevano da simulazioni più complesse, anche se personahnente non si era mai avvicinato troppo ai computer.8 Più in generale, essi prefiguravano ciò che sarebbe diventato un luogo comune negli studi di progettazione - un progettista senior, uno dei soci dello studio, che lavorava ai progetti con un collega esperto di informatica al suo fianco. Le simulazioni degli anni '80 erano deboli: i programmi si bloccavano e i dati andavano persi. Ci voleva un sacco di tempo per fare qualcosa. Questi problemi tecnici nascondevano il fatto che mese dopo mese, anno dopo anno, i software di progettazione avrebbero conquistato anche gli scettici. Con una certa resistenza, gli studenti imparavano a vivere la simulazione come una nuova re­ altà. Una realtà che sovvertiva le gerarchie tradizionali. Come ha 8. Su Gehry si veda Michael Schrage, "Nice Building, but the Real lnnovation Is in the Process" , Fortune, 10 luglio 2000. Disponibile all'indirizzo http://rnoney.cnn. com/rnagazineslfortune/fortune_archive/2000/07/l 0/283 746/index. htrn (accesso 21 luglio 2008).

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detto un professore di ingegneria civile all'epoca, nel nuovo ordine del mondo della progettazione, le matricole e i pivellini diventavano i "maghi" che potevano "andare in cerchio intorno ai ragazzi più grandi" . n corpo docente, una volta brillante e riverito, era "rima­ sto indietro, e fuori da tutto questo" . I suoi membri potevano solo "salire sul carro al meglio che potevano" una volta che il campo era stato " rivoltato da cima a fondo". Nelle aule, erano spesso i dottorandi ad insegnare agli as­ sistenti, non i docenti ordinari, e a fare pressione sugli studenti affinché imparassero le nuove tecnologie o, come ha riferito una studentessa: "Se lei [la dottoranda che insegnava all'assistente] non avesse insistito, non so se l'avremmo utilizzata" . Alcuni assistenti si fecero conoscere per la loro capacità di individuare i bug nei sistemi tecnici. Un'affermazione di uno di essi entrata nella storia ricordava agli studenti che "in campo industriale bisogna ricorrere ai calcoli a mano per controllare i risultati del computer" . LA SORPRESA DEGLI m LI

Uno dei segni distintivi del progetto Athena era che i docenti do­ vevano realizzare un proprio software didattico. La maggior parte di questi operavano a partire da una serie di assunti di base sull'ap­ prendimento: gli studenti iniziano ad imparare dai "concetti fon­ damentali"; la rappresentazione matematica, formale, rappresenta sempre l'approccio migliore; gli studenti dovranno utilizzare le si­ mulazioni nel modo in cui hanno previsto i progettisti. Con l'andare avanti del progetto Athena, nessuno di questi assunti si è rivelato vero. Innanzitutto, gli studenti si avvicinavano alla simulazione con un'ampia gamma di stili intellettuali personali. Alcuni utilizzavano uno stile altamente organizzato proprio dei pianificatori top-down, quello cioè che molti ritengono lo stile canonico degli ingegneri. Questi studenti parlavano dell'importanza di iniziare qualsiasi lavo­ ro con un progetto complessivo. Uno studente che lavorava con Au­ toCAD, un programma di progettazione computerizzata, ha spie­ gato come lo utilizzava. Ha detto praticamente che doveva iniziare con "un diagramma che gli dava la direzione, ovvero un riferimento

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per le sue decisioni. Poi zoommava sui dettagli, su cui lavorava per rafforzare l'idea principale, che doveva sempre avere presente" . Ma altri studenti invece pensavano che, contrariamente alle aspettative dei docenti, AutoCAD in architettura e Growltiger nell'ingegneria civile fossero dei buoni ambienti per operare con uno stile bottom-up, con poco "framing" iniziale. Dal loro punto di vista, questi programmi consentivano loro di prendere un elemento della progettazione e di lavorarci su, lasciandosi guidare da un'idea a quella successiva. Nella simulazione, la progettazione non richiede dei piani precisi; le soluzioni possono essere "tirate fuori" . Una specializzanda in architettura era sorpresa all'idea d i po­ ter utilizzare il computer per poter operare in questo modo, uno stile che ho definito di "padronanza soft" o "bricolage".9 Quando lavorava in questo modo, si avvicinava alla progettazione come a un esercizio "in cui . . . digitalizzo, sposto, copio, cancello a caso gli elementi - pilastri, pareti, e livelli - senza pensare al tutto come a un edificio, ma più come a una scultura . . . e poi prendo un frammento e comincio a lavorarci più in dettaglio" . Questa studentessa vedeva la progettazione come una conversazione più che come un monolo­ go. La simulazione era il suo partner, un " altro" che l'aiutava a dare forma alle sue idee. Le piaceva il fatto che il programma sembra­ va "condurti" : "Ti spingeva a giocare" diceva. Nello stesso spirito, un altro studente ha osservato che quando utilizzava il computer per disegnare, si vedeva come un osservatore passivo degli svilup­ pi spontanei che ne venivano. Questo significato della simulazione come un " altro" con una sua vita gli rendeva più semplice la crea­ zione, attraverso "la scoperta della struttura che era già all'interno". Ma anche se la simulazione offriva l'opportunità di armeg­ giare e giocare, poteva anche spingere verso una conclusione pre­ matura. Come ha detto un ragazzo: "Anche se sei appena all'inizio, g. Per Wla più completa descrizione sugli stili di perizia tecnica e su come i com­ puter facilitassero i diversi stili, si veda Sherry Turkle, The Second Self: Computers and the Human Spirit (Cambridge, Mass.: MIT Press, 2005 [1984]), soprattutto il capitolo 3; e Sherry Turkle e Seymour Papert, "Epistemologica! Pluralism: STyles and Voices in the Computer Culture", Signs: Journal ofWomen in Culture and Society 16, n. l (1990): 128-157.

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quando ti trovi di fronte alla stampata del computer, è facile avere l'impressione che il progetto sia già completo" . Un'altra studentessa ha descritto di essere "come ipnotizzata dalla definizione e dalla qualità ineccepibile del risultato prodotto e di non voler cambiare più nulla. E anche se fai dei cambiamenti, lo fai per blocchi invece di concentrarti su piccoli spostamenti, perfezionamenti, o quel tipo di aggiustamenti che bisogna fare quando si sovrappone la carta da lucido su un disegno esistente e ci si lavora sopra" . Mentre alcu­ ni hanno sottolineato come la simulazione facilitasse la flessibilità, questa studentessa si è soffermata sull'intenzionalità di ogni gesto nella simulazione. Almeno per lei: "Tutto ciò che fai è una cosa ben definita. Non puoi fare piccole cancellature, creare degli sbaffi, ren­ dere i contorni imprecisi". Sin dall'inizio la situazione era complica­ ta: la simulazione offriva cose diverse a persone differenti. Alla metà degli anni '80 cosa pensavano i progettisti riguardo alla simulazione? Pensavano alla programmazione e alla progetta­ zione, al dubitare e al fare, all'attaccamento alla realtà attraverso il disegno a mano. Avendo scoperto i piaceri dell'armeggiare con la simulazione, si chiedevano cosa ci potesse essere di sbagliato nei loro primi assunti sui computer riguardo alla progettazione. La sto­ ria aveva presentato loro i computer come degli strwnenti di calcolo "top-down" ; ora quelli gli apparivano come dei mezzi di facilitazio­ ne delle indagini "bottom-up ". I progettisti avevano previsto che i computer avrebbero velocizzato le cose, liberandoli finalmente da noiose operazioni di calcolo. Ciò che non avevano previsto piena­ mente erano i nuovi modi di vedere i siti e le strutture attraverso lo specchio dello schermo. INSICUREZZA

Per gli architetti, il disegno era uno spazio sacro che doveva essere protetto dall'intrusione dei computer. La trasparenza del disegno dava ai progettisti la fiducia necessaria per ritornare sui loro passi e difendere le loro decisioni. Negli anni '80, a parte tutte le conside­ razioni estetiche, la prospettiva di dover abbandonare il disegno in­ stillò una certa insicurezza nei progettisti. Che dire degli scienziati?

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Come per i progettisti, anche l'insicurezza avvertita dagli scienziati riguardo alla simulazione si legava a preoccupazioni relative all'opa­ cità. Al MIT, chimici e fisici si lamentavano che quando gli studen­ ti utilizzavano il computer inserivano i dati e facevano calcoli senza capirne il significato. Un professore di chimica ha affermato che an­ che i programmi di analisi dei dati più basilari portavano gli studen­ ti a "inserire semplicemente una serie di numeri e attenerne un'ana­ lisi, un risultato per cui non avevano nessun indizio di plasusibilità. Non sapevano neanche se stessero operando con una linea retta o con una curva". Ma la cosa peggiore era che agli studenti sembrava non importare. Per tutta risposta, questo professore si è dato da fare per riscrivere il codice computerizzato in modo che i suoi studenti dovessero specificare tutte le fasi analitiche per ciascun program­ ma utilizzato. Ma anche se questo chimico cercava di reintrodurre la trasparenza negli strumenti software, il suo dipartimento andava nella direzione opposta. Infatti, si iniziò ad utilizzare un programma chiamato Peakfinder che analizzava automaticamente la struttura molecolare dei composti, un'operazione che in precedenza richie­ deva agli studenti tante ore di studio meticoloso allo spettrometro. Peakfinder era un sistema che faceva risparmiare tempo, ma utilizzarlo significava che i processi analitici una volta trasparenti ora venivano inghiottiti da una scatola nera, termine che gli inge­ gneri utilizzano per descrivere un congegno il cui funzionamento rimane oscuro. Quando gli studenti utilizzavano Peakfinder, non sapevano come funzionava il programma ma leggevano semplice­ mente i risultati sullo schermo. Uno studente ha commentato pic­ cato la sua esperienza con questo programma dicendo: "Anche una scimmia potrebbe farlo" . Un altro lo ha paragonato a un libro di cucina: "Basta seguire le ricette senza pensarci troppo". La maggior parte dei docenti di chimica dividevano il lavoro scientifico in una parte di routine e una parte eccitante e tutti erano d'accordo che le operazioni con Peakfinder appartenevano alla pri­ ma categoria. Uno ha detto: "Puoi vedere le stesse cose che vedresti sulla carta millimetrata, ma hai la possibilità di manipolarle molto più facilmente" . Da questa prospettiva, la simulazione presentava la

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vecchia minestra in una scodella nuova. Ma gli studenti riuscivano a intuire qualcosa che i docenti non vedevano: la velocità e l' ac­ curatezza dei calcoli rappresentavano cambiamenti quantitativi che avevano un effetto qualitativo enorme. Con Peakfìnder, la scienza sullo schermo iniziava a rivelarsi più convincente di qualsiasi altra rappresentazione fosse venuta prima. Così anche se Peakfinder allontava molti studenti di chimica da ciò che gli scienziati del MIT chiamavano "il caos del reale", i primi affermavano che essere in grado di manipolare i dati sullo schermo rendeva le operazioni computerizzate sulle molecole qual­ cosa di molto più diretto che lavorare su " quelle vere". n software permetteva di vedere gli schemi nei dati, di sentirsi più vicini a ciò che gli studenti definivano "la scienza reale". Essi affermavano che il non doversi preoccupare dei meccanismi di analisi dei composti con carta millimetrata e righello lasciava loro molto più tempo per "pensare alle cose fondamentali". Gli studenti osservavano che Pea­ kfinder aveva aperto la chimica all 'intuizione visiva. Per uno studen­ te di chimica: "C'è una capacità di comprendere le cose che viene dalla possibilità di vederle accadere davanti ai tuoi occhi. Le linee sul grafico spettrale danno l'impressione di vedere le molecole in movimento" . Per un altro: " Ci hanno sempre detto come si muove­ vano le molecole, ma era la prima volta che lo vedevamo accadere nella realtà". L'uso che questi studenti fanno della parola realtà è si­ gnificativo. Dai primissimi giorni dell'Athena Project abbiamo assi­ stito al paradosso che la simulazione spesso mette in comunicazione le persone con la realtà. Tutti gli studenti di scienze hanno a disposizione il laborato­ rio per un tempo limitato e ciò rende difficile la raccolta dei dati. Prima che i computer entrassero nel laboratorio di chimica, se un esperimento dava dei dati anomali, lo studente non aveva alcuna possibilità di mettere in relazione il risultato di quell'esperimento con la teoria. Per fare questo collegamento, gli venivano forniti dati preconfezionati, "certificati" come corretti. Ma Peakfìnder ha per­ messo di recuperare così tanto tempo in laboratorio che i ragazzi possono permettersi di condurre più esperimenti. Non sono più troppo dipendenti dai dati pre-confezionati. Quindi, oltre a fornire

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un supporto visivo convincente che illuminava la teoria, Peakfìnder ha dato più possibilità agli studenti di raccogliere i propri dati, dan­ dogli così un senso di padronanza sui loro esperimenti. Anche in fisica, dove i computer erano utilizzati per sollevare dalla tediosa raccolta dei dati e dalla produzione di grafici, applica­ zioni relativamente banali hanno avuto effetti significativi. Quando il calcolo è stato automatizzato e i suoi risultati venivano tradotti istantaneamente in visualizzazioni sullo schermo, gli schemi deri­ vanti dai dati emergevano con molta più chiarezza. Gli studenti di fisica hanno descritto la sensazione di "sentirsi più vicini alla scien­ za" e "più vicini alla teoria" quando i loro corsi di laboratorio han­ no iniziato ad utilizzare i software per la visualizzazione e l'analisi. Come nel campo della chimica, dei calcoli non in ordine non rovi­ navano più un intero esperimento perché ci si poteva permettere il tempo di fare degli ulteriori passaggi finché non si otteneva una buona serie di dati. Una studentessa assicurava che la possibilità di procedere a tutti questi passaggi extra era ciò che le aveva permesso di "appassionarsi alla fisica" perché "vedere che i dati si adattano nonostante la variazione fa parte del fascino di questa materia" . Un altro studente ha osservato: "Se fai la stessa cosa mille volte a mano, perdi il senso di ciò che stai facendo. Ci vuole così tanto tempo che ti dimentichi di qual è il tuo obiettivo. Non bisogna mai perdere di vista il proprio obiettivo" . Un altro ancora ha commentato che per lui "la teoria prendeva vita" quando una simulazione dimostrava il tempo e il voltaggio mettendoli in relazione tra loro. "Non si tratta solo di vedere una curva disegnata, la vedi nel suo farsi . . . creata punto per punto". Questi studenti stavano sperimentando un altro degli "effetti paradossali" del calcolo. I computer, solitamente associati alla pre­ cisione e alle regole, portavano gli studenti a vedere più da vicino il caos e l'irregolarità della natura. I computer permettevano agli studenti di confrontarsi con fiducia con dati anomali. Con le itera­ zioni multiple, gli schemi divenivano più chiari. Come ha detto uno studente: "le irregolarità potevano essere accettate" . E tuttavia, nonostante questi benefici - e i benefici erano so­ stanziali - i docenti di fisica e di chimica del MIT erano inquietati

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dalla possibilità che la visualizzazione computerizzata potesse por­ tare i loro allievi a un distacco dalla realtà che giudicavano inaccet­ tabile. Quando gli studenti asserivano di "veder accadere le cose realmente" sullo schermo, i loro insegnanti erano sconvolti all'idea che una rappresentazione avesse assunto ingiustificatamente una tale autorità. I professori iniziavano le conversazioni ammettendo che, in ogni esperimento, si vede solo la natura attraverso un dispo­ sitivo, ma qui, c'erano altri pericoli: gli utenti di questo dispositivo non capivano neanche i suoi meccanismi interni e, in effetti, i sof­ tware di visualizzazione erano programmati per dare l'impressione di offrire una finestra aperta sulla natura. Quando gli studenti di chimica parlavano della sensazione di vicinanza alla "molecola reale", i professori facevano i salti mortali per sottolineare quanti livelli di programmazione si frapponevano tra loro e ciò che scambiavano per la "realtà". Le visualizzazioni più seducenti potevano essere descritte come il proverbiale castello di carte. Per esempio, nelle simulazioni di chimica, le molecole erano costruite a partire da un codice computerizzato che gli studenti non avevano mai preso in esame. Le simulazioni delle reazioni chimiche erano realizzate a partire dalla cima di queste simulazioni, che a loro volta partivano dalle simulazioni delle particelle atomiche. I professori cercavano di rispettare l'entusiasmo degli studenti ma si opponevano anche a qualsiasi immersione acritica nel mondo del­ lo schermo. Molti docenti universitari iniziarono a sostenere l'im­ portanza strategica di creare un luogo in cui potessero avere più controllo sullo sviluppo dei propri studenti: questo luogo era l'aula magna. Come il disegno per i progettisti, come l'analisi delle strut­ ture per gli ingegneri civili, l'aula magna divenne uno spazio sacro per i chimici. Nell'aula magna, i chimici sapevano di poter comunicare ciò che per loro erano gli aspetti non negoziabili. Questi includevano sia cose da sapere che le modalità con cui conoscerle. Secondo loro, un computer non avrebbe mai potuto insegnare la teoria, non importa quale fosse la sua utilità in laboratorio. E un computer non avrebbe mai potuto insegnare il rapporto intimo tra la scienza e il corpo. Nell'aula magna, soli con i loro studenti, i chimici sentivano di poter

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fare queste cose. Nelle dimostrazioni elaborate, interagendo con i modelli, girando e torcendo le loro ramificazioni per rappresentare le reazioni molecolari, i chimici mostravano agli studenti come biso­ gnava pensare ad alta voce e con tutto il prorpio corpo. E, nell'aula magna, si sentivano sicuri di poter dimostrare cosa veniva prima. Era il luogo in cui i docenti si presentavano come custodi della loro disciplina. Un sentimento simile era condiviso anche dai fisici. Le lezioni erano il momento in cui si poteva insegnare agli studenti ad essere degli scienziati. Sebbene l'addestramento avesse luogo nei la­ boratori, i docenti ammettevano che lì avrebbero dovuto competere sempre di più con la seduzione degli schermi. Durante le lezioni, invece, potevano sperare nell'attenzione esclusiva dei ragazzi.'0 LA RIVERENZA PER IL REALE

Al MIT, i fisici divennero i portavoce della resistenza al progetto Athena. Quando fu loro chiesto di fare parte del progetto, il di­ partimento rifiutò più volte. Al fondo di questa obiezione c'era la convinzione che la simulazione intralciasse un'esperienza più diret­ ta della natura. I docenti di fisica riconoscevano che alcuni studenti trovavano utili i computer per rendersi conto degli schemi in la­ boratorio ma poi continuavano con riverenza a sostenere il pote­ re dell'esperienza diretta nel loro modo di introdurre la scienza, o come ha detto qualcuno: "il potere di imparare le leggi di Newton giocando a baseball" . "Le simulazioni" ha detto questo qualcuno "non sono il mondo reale. . . . Non c'è nulla che può sostituire il sentire quanto pesa un chilogrammo o il sapere quant'è un centi­ metro o com'è un pallone da spiaggia di un metro. Ma queste cose devono essere insegnate agli studenti, e noi professori dobbiamo insegnargliele" . Per i fisici, usare la simulazione quando puoi essere in contatto diretto con il mondo fisico era quasi una bestemmia. I docenti di fisica erano preoccupati che gli studenti che cono­ scevano la differenza teorica tra rappresentazione e realtà potesse10.

Oggi, la santità che veniva assegnata all'aula magna negli anni '80 ha una sua ironia. Gli studenti adesso entrano a lezione e subito aprono i loro portatili che hanno una connessione diretta a Internet.

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ro perdere il senso di questa netta distinzione quando si trovavano di fronte alla grafica avvincente degli schermi. La possibilità che si verificasse questa confusione esisteva anche quando gli studen­ ti utilizzavano programmi semplici per la visualizzazione dei dati. In effetti, i docenti che avevano introdotto la prima generazione di questi programmi erano scioccati dalla rapidità con cui gli studenti si erano persi in quella che sarebbe stata definita "la zona". Era il periodo in cui un gioco anche non troppo complesso come Space lnvaders aveva ipnotizzato milioni di utenti. Al crescere della com­ plessità delle simulazioni, cresceva anche l'ansia del corpo docente. Un professore di fisica affermava: I miei studenti sanno sempre di più sulla realtà computerizzata, ma sempre di meno sul mondo reale. E in realtà non sanno più neanche molto sulla realtà computerizzata perché le simulazioni sono diventate così complesse che la gente non ne è più cosciente. Si limitano a prenderne ano e non riescono ad andare al di sotto della superficie. Se gli assunti alla base di una qualche simulazione fossero sbagliati, i miei studenti non saprebbero neanche dove cercare o come risolvere il problema. Quindi ho paura che ci stiamo dirigendo verso una realtà del tipo Fisica: li Film.

Nel campo della fisica, l'opinione degli studenti rispecchiava le preoccupazioni dei professori. Per uno studente: "L'utilizzo dei computer come scatole nere non è giusto. Per gli scienziati che sono interessati alla comprensione dei fenomeni e alla teorizzazione, è importante sapere cosa fa il programma che si sta usando. Non ci si può limitare ad utilizzarlo [il programma] per misurare tutto" . Un altro studente ammetteva che era facile "porsi in maniera irraziona­ le davanti al computer. Tu immetti una serie di dati senza valore e ne ottieni dei risultati altrettanto insignificanti per te, ma pensi che sia tutto giusto solo perché ci ha pensato la macchina". Sebbene alcuni studenti parlassero di come la raccolta automatica dei dati consen­ tisse loro di vedere nuovi modelli, altri apprezzavano le qualità del trattamento manuale dei dati, anche se ciò poteva significare otte­ nere solo una frazione dei dati numerici. Qualcuno ha affermato: "Farlo manualmente ti costringe a pensare ai dati quando li hai a disposizione. Devi sapere cosa stai cercando" . Secondo lui, lavorare a una lunga serie di calcoli a mano gli dava la possibilità di tenere

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sott'occhio il tipo di errori commessi. La sua devozione all'estetica della trasparenza era totale: "Quando lavori al computer è difficile dire quali dati sono "sacrificabili" e quali sono essenziali. È il com­ puter a fare la scelta per te. Ecco perché li faccio a mano quando posso. Farli a mano, nwnero per nwnero, ti permette di individuare le singole variazioni nel fenomeno che stai studiando" . Un altro stu­ dente ancora descriveva "la realizzazione di tabelle a mano" come un lavoro che gli trasmetteva "un senso intuitivo dell'esperimento" . "Vivi così a contatto con questi nwneri che inizi a capire cosa signi­ ficano. È bello godersi il proprio grafico e prendere il righello per realizzarlo. Con il computer, si tratta solo di un processo mentale ulteriormente distanziato dalla realtà. n problema con il computer è non riuscire ad avere la sensazione del righello che si sposta sulla carta" . Proprio come questo studente d i fisica parlava del piacere di sentire righello e carta, così un altro ammetteva che anche se fare queste cose a mano era proprio una "sfacchinata", si trattava di una sfacchinata utile: C'è una certa verità nell'importanza di sentire propri i dati dei calcoli fatti a mano. Quando li utilizzi al computer per fare un grafico, li vedi solo tra­ sformarsi in "ZUK" e tutto finisce qui. Devi guardarli e pensarci per un po' di tempo prima di capire cosa significano. Mentre quando disegni a mano, vivi con loro e rielabori i dati a ogni istante".

Nessun membro del corpo docenti di fisica al MIT ha espres­ so maggior impegno verso la trasparenza e l'esperienza diretta della natura di William Malven. Dell'esperienza dj.retta ha detto: "Amo gli oggetti fisici che tocco, che odoro, che mordo. L'idea di fare una simulazione . . . perdonate il termine, ma è come una masturbazio­ ne" . Per quanto concerne la necessità della trasparenza, invece, Malven era un purista. Teoricamente, per lui, ogni pezzo dell'attrez­ zatura che uno studente trova in un laboratorio "dovrebbe essere abbastanza semplice . . . [da] poter essere aperto . . . per vedere cosa c'è dentro". Secondo lui, gli studenti dovrebbero riuscire a proget­ tare e costruire le loro attrezzature. Se non lo fanno per ragioni pra­ tiche, dovrebbero almeno sapere di poterlo fare. Malven vedeva il

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suo ruolo di insegnante e scienziato come quello di uno che " lotta contro la scatola nera" . Ammetteva che ciò implicava una continua " azione di retroguardia" perché, secondo lui "quando delle tecniche diventano consolidate, si trasformano quasi naturalmente in scatole nere" . Ma, aggiungeva, "vale la pena lottare in ogni fase, perché in qualsiasi punto del processo ti trovi c'è tanto da imparare". E, tuttavia, anche se Malven vedeva la simulazione come una scatola nera potenzialmente dannosa, era fedele all'idea che gli scienziati potessero creare dei programmi di visualizzazione che avrebbero migliorato la formazione scientifica. n segreto era che gli scienziati dovevano assumere il controllo della loro metodolo­ gia pedagogica. Per esempio, Malven immaginava un software che potesse insegnare un sapere trasparente richiedendo ai ricercato­ ri di produrre delle procedure esplicite di ciò che domandavano al computer. A questo scopo, agli inizi degli anni Ottanta, Malven aveva progettato un corso di laboratorio per tutti gli specializzandi junior del corso di fisica. Aveva scritto tutto il software del corso da solo. Tutti i suoi programmi, destinati ad aiutare nella raccolta e nell'analisi dei dati, prevedevano dei meccanismi interni trasparenti per l'utente. n laboratorio di Malven partiva da un esperimento classico che utilizzava i computer per accrescere la sensibilità degli studen­ ti agli errori sperimentali. Quando una fonte di elettroni è inse­ rita prima in un campo magnetico e poi in un campo elettrico, è possibile determinare il suo carico specifico. Malven ha impostato questo esperimento utilizzando un programm a per computer che non avrebbe accettato un dato senza che lo studente specificasse un fattore d'errore. Malven lo ha descritto come uno sforzo a usare la simulazione per portare gli studenti più a contatto con "i dati reali". Un secondo esperimento, noto come esperimento di Stem Gerlach, utilizzava i computer per ottenere un effetto simile." Qui, 11.

Quando un elettrone gira intorno ad un nucleo atomico si crea un campo mag­ netico. La fisica classica prevede che, se influenzato da un altro campo magnetico, l'orientamento dell'elettrone sarà deviato e si avrà un continuum di deviazioni a sec­ onda della forza del campo magnetico esterno e del momento magnetico dell'atomo stesso. Ma la fisica quantistica prevede solo due posizioni; l'esperimento di Stern-

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un raggio di atomi d'argento viene fatto passare attraverso un cam­ po magnetico e poi attraverso una pellicola. Gli atomi formano del­ le macchie da cui si può dedurre il loro orientamento. Mentre in origine si trovano in uno stato misto, gli atomi di argento collassano in una o due direzioni - come avrebbe predetto la fisica quantistica - una volta entrati nel campo magnetico. Prima di utilizzare il computer per raccogliere i dati dell'espe­ rimento di Stern-Gerlach, gli studenti dovevano muovere manual­ mente delle calamite, leggere un contatore, e fare delle misurazioni con un dispositivo pen-recorder molto lento e poco agevole. Mal­ ven ha riferito che nei giorni prima dell'avvento del computer "non avresti mai potuto capire cosa stava succedendo perché ci voleva almeno un quarto d'ora per fare una qualsiasi cosa". Ma egli aveva escogitato un nuovo modo per condurre l'esperimento: attaccava il computer a un'apparecchiatura che raccoglieva i dati dalla striscia di pellicola e aveva poi elaborato un software che faceva i calcoli necessari per determinare la forma emergente. Data la velocità dei computer, appaiono quasi istantaneamente due picchi che indicano i due momenti magnetici. Per Malven, l'apparizione quasi spettaco­ lare dei due picchi rendeva vivo l'esperimento, un esempio di "qual­ cosa di profondo e qualcosa di banale allo stesso tempo - che com­ binazione magica, come nell'amore ! La parte banale: qualcosa di così semplice come ricordarsi di demagnetizzare il magnete durante l'esperimento. La parte profonda: la quantizzazione dello spazio. Che il banale e il profondo possano andare insieme - come lavare i piatti e fare l'amore - è una delle cose più difficili da capire"." Gerlach dimostra questa quantizzazione spaziale. 12.

Un terzo esperimento nel laboratorio del Professar Malven, l'esperimento di

Mossbauer, dimostrava la fluorescenza di risonanza, una tecnica utilizzata per inferire

il ciclo di vita medio dello stato eccitato dei nuclei. La tecnica funziona in modo piut·

tosto diretto per le transizioni atomiche, ma si incontrano diversi problemi quando si utilizza per le transizioni nucleari: le strutture cristalline amplificano il movimento dei singoli nuclei e allargano la curva di energia, mascherando la sua ampiezza natu­ rale; quando i nuclei emettono un fotone si ritirano e questo movimento cambia lo spettro. Rudolf Mossbauer aveva scoperto che riducendo la temperatura si potevano eliminare i fattori che alteravano la curva. E più tardi si è scoperto che il ferro ('7Fe) poteva dare risultati altrettanto chiari senza abbassare le temperature. Nel labora· torio junior, i nuclei di un campione di ferro venivano portati a uno stato eccitato.

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Malven ha affermato che l'utilizzo del computer aveva portato i suoi studenti più vicino alla scienza perché così potevano giocare con i dati e armeggiare con le variabili. Come il Peakfìnder in chimi­ ca, il Growltiger nell'ingegneria civile, e i programmi di progettazio­ ne computerizzata in architettura, il software del laboratorio junior di fisica incoraggiava gli studenti, per usare le parole di Malven, a "porre delle domande e a dire: 'Proviamo ! ' " . L o strumento che Malven utilizzava più d i tutti in laboratorio era il suo coltellino svizzero, uno strumento semplice ma dai mille usi. Pensava che i migliori ambienti computazionali erano - come il coltellino - trasparenti e mirati a uno scopo generale. Non era con­ tento quando il dipartimento di fisica acquistava qualche "strambo analizzatore di dati". Nella sua ottica, solo i computer multiuso of­ frivano agli studenti l'opportunità di scrivere un proprio program­ ma, di imparare "dalle basi". Per Malven, sapere come program­ mare era fondamentale per rendere trasparenti le simulazioni. Gli altri volevano utilizzare gli strumenti più aggiornati. Lui invece era interessato solo a quelli più trasparenti. n trasporto di Malven riuscì ad avere la meglio su alcuni dei suoi colleghi più scettici all'idea di utilizzare i computer in aula sotto il vessillo della comprensione trasparente. I professori di fisi­ ca Barry Niloff e David Gorham avevano ideato un seminario per matricole sponsorizzato dal progetto Athena che iniziava proprio con l'insegnamento della programmazione a tutti gli studenti. Poi, il seminario introduceva i computer per impegnare gli studenti nel­ la risoluzione dei problemi utilizzando metodi numerici invece che analitici. n professar Niloff ha riassunto lo scopo del seminario: dimostrare il potere dello "schematizzare qualcosa" utilizzando il computer per riuscire ad avvicinare di più i ragazzi all'osservazione diretta. Solo un piccolo sottoinsieme di problemi fisici reali sono ri­ solvibili attraverso metodi puramente analitici. La maggior parte ri­ chiedono la sperimentazione, dove devi fare delle prove, valutare le forze, e trasformare i dati in curve. n computer ha reso più semplice Quando venivano emessi i fotoni e gli stati energetici calavano, lo spettro veniva misurato attraverso un fotometro e il computer registrava questi dati adattandoli in una curva la cui ampiezza si collegava al ciclo di vita medio dello stato eccitato.

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l'elaborazione di queste soluzioni numeriche. E in termini pratici, ha reso possibili alcune di esse per la prima volta.'3 Nel corso del tempo, il seminario per matricole ha rivolto la sua attenzione ai problemi di misurazione fisica. Qualcosa di cui Ni­ loff e Gorham erano molto appassionati. Gorham ha osservato che dal momento in cui gli studenti avevano cominciato ad utilizzare le calcolatrici, non avevano una comprensione sufficiente della scala di grandezza e di "cosa significasse fare una misurazione fisica", in particolare, cosa significasse avere un margine d'errore. Gli studenti erano diventati pigri con le calcolatrici; non volevano più fare le cose a mano, e non volevano includere le unità nei loro calcoli. I rischi erano alti. Come ha osservato Gorham, per uno studente di fisica non capire l'errore durante il periodo dell'università poteva tradursi nell'"esplosione di uno shuttle" quando questi sarebbe en­ trato nel mondo del lavoro. Gorham era convinto che i computer stavano peggiorando an­ cora di più i problemi che gli studenti avevano con la scala di gran­ dezza e l'errore ma, poiché calcolatrici e computer non sarebbero spariti, una buona metodologia pedagogica esigeva che gli studenti venissero costretti a "rifare i conti a mano". Questi calcoli richiede­ vano di capire innanzitutto le dimensioni con cui si lavora, le unità che si stanno utilizzando, il numero di cifre significative che hanno senso. Gorham si vedeva investito di questa missione: prendere la tecnologia che aveva causato il problema e trasformarla in qualcosa di buono. I computer avevano avuto un ruolo fondamentale nell'in­ coraggiare gli studenti a perdere di vista l'importanza delle scale di dimensione e degli errori. Ma ora gli insegnanti potevano utilizzare quegli stessi computer per diventare più efficaci nella loro opera di "evidenziare i punti dove risiedevano gli errori". In un compito dato al seminario per matricole, Nilhoff e Gor­ ham hanno creato un programma che simulava la caduta di una I professori di fisica hanno spiegato che problemi che potevano essere risolti con metodi analitici (e quei metodi stessi) vengono definiti " alta fisica", fisica pres­ tigiosa. TI computer ha reso possibile la risoluzione di classi di problemi che erano accessibili solo attraverso metodi numerici, ciò che il Professor Niloff ha definito come "lo schematizzare qualcosa". 13.

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palla nello spazio. Gli studenti potevano variare il peso della palla e l'altezza da cui cadeva. n programma mostrava la caduta della palla, registrava i relativi dati, e poi consentiva agli studenti di analizzarli. Agli studenti veniva chiesto di considerare l'influenza della spinta del vento e dell'inerzia sulle misurazioni. Gorham ha detto: Nell'esercizio della caduta della palla il problema era articolato in maniera semplice. Misurare l'accelarazione dovuta alla gravità e considerare l'incer­ tezza. E questo mandava completamente in tilt la loro mente [quella degli

studenti]. I ragazzi erano abituati ai libri di testo. Erano abituati ai com­

puter. Ma non capivano che il computer, pur essendo fantastico per racco­ gliere dati e semplifìcarli, li portava a non capire cosa significasse avere un errore. Se qualcuno diceva "g è 9.8 1 " questo non aveva alcun significato. 9.81 più o meno cosa? 9.81 più o meno 10 non è una buona misurazione.

E quindi abbiamo cercato di instillare in loro l'intero concerto di analisi degli errori.

Come Malven, anche Niloff e Gorham credevano che gli stu­ denti avessero bisogno di una più approfondita comprensione dei software di laboratorio che poteva venire solo dal sapere come si programmano. Niloff era andato anche oltre: gli studenti avevano bisogno di capire come operava un computer, fino alla fisica dei processoci e dello schermo. Capire questi livelli più profondi avreb­ be portato gli studenti più vicino ai problemi di stima, di scala e di errore. Niloff ha dichiarato: "Quando gli studenti tracciano dei punti per la prima volta, comprendono letteralmente cos'è la fisica dello schermo, che cos'è lo schermo grafico, come inserire material­ mente i punti sullo schermo". Una curva disegnata su uno schermo e una curva teorica possono sembrare la stessa cosa, ma uno studen­ te che conosce la risoluzione di uno schermo riuscirebbe a trovare una differenza a "livello di un decimo di un pixel, cosa che voi non potreste vedere . . E questo livello di un decimo di uno schermo potrebbe avere un'importanza fondamentale. Potrebbe essere il margine d'errore che fa la differenza" . .

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SIMULAZIONE E DIMOSTRAZIONE: SCIENZA E INGEGNERIA

n laboratorio ed il seminario per matricole rappresentavano del­ le eccezioni degne di nota nella cultura del dipartimento di fisica che era generalmente contro la simulazione. Ma, in un caso, anche i membri del corpo docenti più ostili alla simulazione erano disposti ad accettarla come un male necessario. Questo era quando la simu­ lazione rendeva visibile l'invisibile - cioè, quando forniva accesso ai fenomeni di livello quantico. Negli anni Sessanta, i fisici del MIT Harold Rabb e Burt Fal­ lon facevano parte di un gruppo di ricerca che si dedicava all'in­ novazione della didattica della fisica. Rabb e Fellon hanno portato avanti questo lavoro e, tra le altre cose, hanno collaborato ad alcu­ ni cortometraggi che illustravano i principi della relatività. Uno di questi film mostrava pacchetti d'onde che si propagavano in fun­ zione del tempo e la loro frammentazione dopo la collisione. Ciò rendeva reale la meccanica quantistica. Nel corso degli anni Ottan­ ta, Fallon ha utilizzato l'informatica interattiva per portare avanti il suo lavoro di visualizzazione nelle aree della relatività e della fisica quantistica. Voleva spingersi oltre le rappresentazioni passive tipi­ che dei film per offrire l'esperienza di vivere immersi nel mondo della quantistica, dando anche la possibilità di eseguire degli espe­ rimenti. I programmi computerizzati di Fallon erano progettati per dimostrare la fisica invisibile, per aiutare gli studenti a sviluppare l'intuito sul mondo della quantistica in modo che potessero sfrut­ tare queste stesse intuizioni anche per la fisica classica: attraverso la manipolazione dei suoi materiali. Uno dei programmi di Fallon simulava quello che sembrava un viaggio lungo una strada andando quasi alla velocità della luce. Gli oggetti cambiavano colore e intensità. Tutto ciò poteva essere descritto dalle leggi della fisica, ma Fallon sottolineava che "non si può sperimentarlo direttamente, tranne quando utilizziamo un computer" . Quando i fisici del MIT negli anni Ottanta si trovarono di fronte al lavoro di Fallon, vi videro solo un'eccezione a una re­ gola condivisa. Erano disposti ad accettare una simulazione quando non era possibile sostituirla con un'esperienza del mondo reale, ma

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quando Fallon utilizzava la simulazione per dimostrare qualcosa che poteva essere fatto anche nei laboratori tradizionali, riusciva a sentire tutta l'ostilità dei suoi colleghi. il seguente scambio di idee sulla simulazione tra il fisico Barry Niloff e un suo collega, Arthur Richrnan, si riferisce esattamente a questa questione. Qui Niloff e Richrnan risultano molto eloquenti sull'importanza che assegnano alla simulazione. Richman: Uno dei problemi che un fisico deve affrontare è che la luce a volte si comporta come una particella e a volte come un'onda. Se hai una diga con due piccole aperture, le onde d'acqua si propagheranno attraverso quelle due aperture. Formeranno dei piccoli anelli, che andranno a inter­ ferire l'uno con l'altro, e potremo vedere il risultato di questi due fronti d'onda che arrivano e interferiscono tra di loro. Si tratta di un fronte d'on­ da molto chiaro. Se immaginiamo di sparare due colpi attraverso questi buchi, la pallottola dovrà passare o attraverso l'uno o attraverso l'altro. Ora, come studente ti hanno parlato della meccanica quantistica dove bisogna pensare alla luce talvolta in un modo talvolta nell'altro. A questo punto ci ricordiamo di un esperimento molto importante. Prendiamo il caso di due fessure e diminuiamo il livello di illuminazione in modo da essere sicuri che i fotoni attraverseranno solo una alla volta. Saresti tentato di dire: "Beh, caspita, ne attraversa una alla volta. È come la pallottola, o va attraverso questa fessura o attraverso l'altra" . Ma esiste una dimostrazione pratica che mostra in una maniera impressionate che anche se i fotoni attraversano una fessura alla volta riescono a diffondersi. È un'esperienza fantastica per un fisico che è agli inizi nello studio della meccanica quantistica. E penso che molti di noi abbiano avuto la stessa reazione, cioè quella di simulare questa cosa al computer . . . Niloff: M a è una truffa. Richman: È quasi un sacrilegio.

William Malven si preoccupava che i suoi studenti, portati a sostituire i modelli con la realtà, fossero anche tentati di credere che qualcosa del genere accadesse nel mondo reale perché lo ave­ vano visto in simulazione. Richrnan e Niloff temevano che quando il loro collega Fallon dimostrava qualcosa al computer che poteva essere mostrato anche fuori dallo schermo, gli studenti avrebbero cercato di capire senza veramente elaborare il concetto. A livello

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più generale, negli anni '80, i professori di fisica del MIT si op­ ponevano a quasliasi cosa sapesse di dimostrazione piuttosto che di esperimento. Una dimostrazione prende ciò che sappiamo e lo mostra in maniera potente. Un esperimento, in termini teorici, si volge alla natura pronta per essere sorpresa. Ma se gli esperimenti si fanno "in simulazione" allora, per definizione, la natura si presume essere "nota in anticipo", perché dovrebbe essere già prevista nel programma. I fisici ammettevano che, a loro modo, le simulazioni poteva­ no sorprendere. La complessità della simulazione può portare ad "effetti emergenti".'4 Ma negli esperimenti simulati, insistevano, il programmatore doveva sempre essere stato presente prima. Uno studente ha detto, commentando un esperimento presentato vir­ tualmente: "L'esperimento è preimpostato" ed era questa imposta­ zione che l'aveva trasformato in una dimostrazione, o come si sareb­ be affrettato a dire Richman: "in qualcosa di vicino al sacrilegio" . I fisici avevano rappresentato la natura come qualcosa di indomabile e indisciplinato. La simulazione l'addomesticava.•s Al MIT il dibat­ tito su simulazione e dimostrazione era alimentato dalla paura dei professori che se gli studenti avessero condotto abbastanza "esperi­ menti" in simulazione si sarebbero abituati a guardare la natura at­ traverso rappresentazioni che essi non comprendevano pienamente. Per dirla in parole semplici, per i fisici del MIT negli anni

14. Sull 'uso dei fenomeni emergenti nella pedagogia scientifica si veda Mitchel Resnick, Termites, Turtles, and Tra/fie Jams: Explorations in Massively Para/le! Com­ puting (Cambridge, Mass., MIT Press, 1997). 15. Ogni laboratorio, in un certo senso, crea un ambiente chiuso e artificiale, una "simulazione" necessaria per eseguire gli esperimenti. La simulazione al computer spinge le cose ancora oltre: nel loro tentativo di trovare una rigorosa coerenza in­ terna, le simulazioni diventano sempre più difficili da calibrare rispetto al mondo es­ terno. Si veda Harry Collins, Changing Order: Replication and Induction in Scientific Practice, 2' ed. (Chicago: University of Chicago Press, 1992 [1985]). Collins e altri hanno utilizzato il termine "regresso sperimentale" per descrivere come la calibra­ zione di uno strumento scientifico può restare intrappolata nell'ambiente altamente artificioso di una cornice sperimentale. Alla fine, non esiste una fonte esterna rispetto alla quale calibrare la macchina. Si veda Anrew Pickering, "The Mangle of Practice: Agency and Emergence in the Sociology of Science", Arnerican Journal of Sociology 99, n. 3 (1993 ): 559-589.

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'80 la simulazione creava malcontento. Quelli utilizzavano la cri­ tica alla simulazione come un modo per riaffermare valori chiave definiti in opposizione ad essa: l'importanza di una comprensione trasparente, l'esperienza diretta, e una distinzione chiara tra scien­ za e ingegneria. Per loro, la simulazione era pericolosamente vicina alla dimostrazione, che era materia del curriculum ingegneristico. Essi ammettevano che un ignegnere potesse essere soddisfatto dalla simulazione, ma come scienziati dovevano resistervi ad ogni costo come qualcosa che poteva contaminare la cultura scientifica con i valori propri dell'ingegneria. E, in effetti, i professori di fisica erano coscienti di poter già scorgere i segni dell'erosione che la simulazio­ ne stava operando sulle loro sensibilità critiche. Da un lato, quando gli studenti scoprivano qualcosa al computer, tendevano ad assu­ mere che qualcuno investito di autorità l'avesse già reputato corret­ to. Dall'altro lato, gli studenti che erano cresciuti con i video game vivevano l'oggetto schermo come qualcosa che, se non era proprio reale, lo era almeno abbastanza. Era una generazione più incline della precedente ad assegnare al mondo dello schermo un "valore di interfaccia".'6 Se i fisici si preoccupavano che il computer potesse agire da cavallo di Troia per introdurre i valori dell'ingegneria nel campo scientifico, dall'altro lato erano anche spaventati che questo li avreb­ be resi troppo dipendenti dagli ingegneri. Uno studente dichiarava apertamente: "Ovviamente non puoi sapere tutto sui computer - come dovrebbe invece un esperto di informatica - ma dovresti sapere abbastanza da non rischiare di dover affidare il tuo lavoro a uno studentello del Corso 6 [quello di Ingegneria Elettronica e Informatica]. Un altro studente di fisica affermava di rispettare gli ingegneri ma per lui bisognava tracciare una distinzione netta tra il suo cam­ po e il loro: "Un obiettivo dell'ingegneria è quello di creare nuovi congegni che abbiano significato umano" . Nella fisica, invece "si ha a che fare con l'universo. Ciò ti eleva a un senso dell'eterno . . .

Si veda Sherry Turkle, Lt/e on the Screen: Identity in the Age o/ the Internet (New York: Sirnon and Scuster, 1995).

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nella fisica ti devi rapportare con una verità assoluta che si oppone al senso pratico" . Secondo lui, la simulazione non aiutava per nulla a relazionarsi con la verità assoluta. Gli ingegneri sentivano meno il conflitto. Si accontentavano di personalizzare i software (anche se alcuni elementi restavano sempre delle scatole nere) apportando delle modifiche in uno sti­ le che gli studenti del MIT definivano customization. Negli anni Ottanta, questo lavoro di personalizzazione si traduceva nel fare in modo che un software opaco facesse qualcosa di donchisciottesco, spesso "contro natura". Così, per esempio, gli studenti di ingegne­ ria civile prendevano un programma che avrebbe dovuto farli eser­ citare ponendo una serie di domande e gli facevano fare i compiti al posto loro. Sebbene alcuni scherzassero sul fatto che loro non avevano "la capacità di comprensione dei fisici sulle simulazioni che andava­ no a modificare, questo tipo di interazioni divertenti trasmettevano un senso del fare tecnologia con le proprie mani. La personalizza­ zione era una strategia, come ha detto uno studente di ingegneria civile: " che ti faceva sentire meno alla mercé di un programma e più al suo comando". I fisici erano critici anche nei confronti della personalizzazio­ ne. Secondo loro, non poteva esistere una vera proprietà intellet­ tuale senza una comprensione totalmente trasparente. Per loro, la personalizzazione esemplificava quel tipo di compromesso che in­ gegneri e progettisti erano disposti ad accettare, ma che uno scien­ ziato non poteva neanche prendere in considerazione. Negli anni Ottanta, gli scienziati erano confortati dall'idea che le simulazioni in campo edilizio erano la periferia dell'informatica mentre loro si muovevano in un campo del tutto differente. Non sarebbe passato troppo tempo prima che questa separazione comin­ ciasse a non essere così netta. La scienza cominciò ad essere fatta sempre di più sui computer e si registrò una migrazione degli in­ formatici verso le scienze naturali tanto che presto divenne difficile dire dove finiva un ambito e cominciava l'altro.

CAPITOLO

31 DESIGN E SCIENZA ALLA FINE DEL MILLENNIO

Negli anni Ottanta al MIT molti dei primi utenti della simulazione non riuscivano effettivamente a immaginare cose del tipo progettare senza disegnare o pensare senza fare calcoli "di proprio pugno" . Quelli che erano cresciuti abituati ad armeggiare fisicamente con i loro strumenti di laboratorio erano turbati da quei programmi di cui non potevano capire i meccanismi interni. In risposta alle provocazioni della simulazione, professori e studenti cercavano di delimitare quelle aree che speravano di poter identificare come zone vietate alla simulazione. Gli architetti volevano proteggere il disegno, che vedevano come l'aspetto centrale dell'arte e della capa­ cità di progettare. Gli ingegneri volevano tenere lontani i software dall'analisi delle strutture; erano preoccupati che quelli potessero rendere ciechi gli ingegneri rispetto alle fonti principali di errore e di incertezza. I fisici avevano il chiodo fisso della distinzione tra spe­ rimentazione e dimostrazione. Sapevano che i computer dovevano avere un loro posto in laboratorio, ma solo se gli scienziati acquisi­ vano una certa padronanza dei dettagli della programmazione. Chi­ mici e fisici volevano proteggere l'insegnamento della teoria - quelle lezioni eleganti, analitiche e entusiasmanti dei grandi scienziati del MIT che erano divenute leggenda. Gli anni '80 furono marcati da sostanziali disaccordi sul ruolo della simulazione e della visualizzazione in campo scientifico, in­ gegneristico e progettuale. Oggigiorno, lo spazio per questo tipo di dissapori si è ampiamente dissolto; negli ultimi vent'anni, i ri­ cercatori sono passati dall'uso della simulazione per specifici fini al lavorare quasi esclusivamente con essa.' Nel tempo, le fazioni pro e Nelle pagine che seguono si farà riferimento allo studio su simulazione e visu­ alizzazione finanziato dall'NSF e condotto dal 2003 al 2005. Si veda Sherry Turkle, Joseph Dumit, David Mindell, Hugh Gusterson, Susan Silbey, Yanni A. Loukissas, e Natasha Myers, "Information Technologies and Professional Identity: A Compara­ tive Study of the Effects of Virtuality" , in A Report to the National Science Foun­ dation on Grant No. 0220347 (Cambridge, Mass.: Massachusetts lnstitute of Tech1.

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contro il computer hanno lasciato il posto a persone che esprimono titubanza riguardo a ciò che è stato guadagnato e a ciò che è andato perso. n tentativo di proteggere gli spazi sacri ha fatto posto alle ansie continue della vita sullo schermo. Le differenze generazionali influenzano la distribuzione di quest'ansia. La vecchia generazione si sente compromessa dalle si­ mulazioni che restano praticamente "scatole nere" ; utilizzarle equi­ vale ancora ad abdicare alle proprie responsabilità professionali. La nuova generazione è più propensa ad accettare che la trasparenza nell'informatica sia una cosa del passato, nel senso di un affare di cui si occupavano le vecchie leve. In effetti, i professionisti di oggi hanno visto cambiare il significato della parola trasparenza nel corso della loro vita. All'inizio dell'era dei computer, le righe di coman-

nology, 2005). Due assistenti di ricerca pre-dottorato hanno partecipato allo studio,

Yanni A. Loukissas, nel campo dell'architettura, e Natasha Myers, nel campo della biologia strutturale.

Le citazioni di architetti praticanti, professori e studenti di architettura nel 2000 si

basano sulle interviste condotte da Loukissas e dalla Turkle tranne dove specificato che provengono da progettisti che hanno partecipato ai due workshop interdiscipli­ nari su simulazione e visualizzazione tenuti al MIT come parte dello studio dell'NSF.

n primo workshop si è tenuto nell'ottobre del 2003 (a cui si fa riferimento nel testo

come il workshop del MIT dell'autunno 2003 ); il secondo ha avuto luogo nel mag­ gio 2005 (a cui si fa riferimento nel testo come il workshop del MIT della primavera 2005). Alcune delle ricerche sul campo svolte da Loukissas presso studi di architetti descritte nel rapporto NSF finale si possono trovare in Loukissas, "Custodi della geometria", nel presente volume. Quando si è attinto a quest'opera, si è fatto riferi­ mento al rapporto finale e al paper di Loukissas o alle sue note. Gli studi di Loukissas sulla simulazione sono stati approfonditi nella sua tesi: "Conceptions of Design in a Culture of Simulation" (Tesi di dottorato, Massachussetts Institute of Technology, 2008). Attualmente Loukissas sta preparando

un

volume sulle sue ricerche per la

tesi. Le citazioni dei biologi per il primo decennio del 2000 si basano sulle interviste con­ dotte da Natasha Myers e riportate nel rapporto finale dell'NSF, tranne dove specifi­ cato che provengono dai workshop, come in precedenza. Le ricerche della Myers per lo studio NSF erano alla base della sua tesi, "Modeling Proteins, Making Scientists:

An Ethnography of Pedagogy and Visual Cultures in Contemporary Structural Biol­ ogy" (Tesi di dottorato, Massachusetts Institute of Technology, 2007). Al momento sta preparando

un

volume basato sulle ricerche della sua tesi. La Myers ha pubbli­

cato diversi paper, oltre alla tesi, sul suo lavoro di ricerca nel campo della biologia strutturale. Quando si citano le interviste della Myers che sono apparse nel rapporto dell'NSF, dove possibile, si forniscono anche citazioni dalle sue pubblicazioni.

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do su uno schermo ricordavano agli utenti i programmi sottostanti. Con il Macintosh nel 1984, gli utenti potevano attivare le icone sullo schermo con un "doppio click". La trasparenza una volta significa­ va riuscire ad " aprire il coperchio" per vedere come funzionavano le cose. Ora, con il significato 'Macintosh' di trasparenza dominante nella cultura informatica, la parola ha assunto un significato del tut­ to opposto: riuscire a utilizzare un progranuna senza sapere come funziona. La vecchia generazione, si potrebbe dire, sta cercando di far apprezzare a quella più giovane delle esperienze che non hanno mai avuto e di far capire una lingua che non hanno mai parlato. Ripensiamo al professore del MIT che temeva che gli studenti non potessero utilizzare la simulazione mantenendo allo stesso tempo una distanza critica. Egli pensava che il problema del "fare e dubi­ tare" riguardasse i novellini. n tempo ha dimostrato che non è così: la simulazione seduce anche gli utenti più esperti. Da un lato, oggi il corpo è calato continuamente nella simulazione - si pensi ai chimici che manipolano le immagini delle molecole sullo schermo con gesti che una volta utilizzavano per maneggiare i modelli fisici. Quando il corpo fa parte dell'esperienza della simulazione, dubitare diventa difficile anche per gli esperti, perché mettere in dubbio la simula­ zione inizia ad essere un po' come mettere in dubbio i propri sensi. Al giorno d'oggi, chi è cresciuto nel periodo del Progetto Athena occupa posizioni di autorità nel proprio campo profes­ sionale. Come i loro insegnanti, molti vedono ancora i limiti del­ la simulazione, ma devono affrontare sfide differenti rispetto alla generazione che li ha preceduti. Con la ricerca e la progettazione che ora sono indissociabili dalla simulazione, non si può pensare di rimettere semplicemente una matita in mano a un progettista o chiedere a un biologo molecolare di modellare le proteine usando sfere e bastoncini. Ma anche se il concetto dello spazio sacro ormai appare come qualcosa di bizzarro, ciò che resta attuale è la ricerca di modi che per­ mettano di lavorare con la simulazione continuando a tenere conto della natura. Si tratta di un'impresa piuttosto complessa: da un lato associamo un valore sempre maggiore alle cose che facciamo con la simulazione, e dall'altro abbiamo il compito di rivalutare il reale.

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NUOVE IDENTITA

Anche se molti architetti e urbanisti negli anni Ottanta pensavano a un futuro in cui i progettisti sarebbero diventati degli assi dell'in­ formatica, buona parte di essi continuano a definire la loro identità professionale in contrasto ai cosiddetti "tipi da computer" . Due de­ cenni dopo, permane una certa tensione. Sebbene la progettazione computerizzata sia diventata ormai un'abitudine, è un luogo comu­ ne per i professionisti del campo descriversi chiarendo subito cosa non sanno fare al computer. In un workshop del MIT su simulazione e visualizzazione te­ nuto nella primavera del 2005, un professore di architettura for­ matosi durante gli anni del Progetto Athena ha messo a confronto progettisti e esperti di tecnologia dicendo: "Sono assolutamente scettico. Queste due mentalità possono convivere nella stessa men­ te? Non ho ancora incontrato una persona che fosse insieme un progettista e un programmatore". Uno studente del MIT che parte­ cipava al workshop concordava con questa visione distinguendo tra logica della progettazione e logica del computer, lamentandosi che la codifica propria della logica del computer inibiva il suo pensiero creativo. La resistenza individuale alla simulazione emerge anche nel mondo degli studi di architettura e design. Invece dell'infiammato dibattito degli anni '80, oggigiorno si assiste a strategie molto più passive: non si partecipa ai meeting, si imparano le conoscenze in­ formatiche e si sceglie di non metterle in pratica, si richiede di uti­ lizzare le tecniche tradizionali accanto a quelle nuove, ci si lancia in complesse trattative su quando sia il caso di digitalizzare i progetti. In un caso, un architetto sulla trentina si rivolge al collega che gli stava insegnando ad utilizzare uno strumento di progettazione noto come CATIA (Computer-Aided Three-Dimensional Interac­ tive Application) dicendo: "Perché dovremmo cambiare? Abbia­ mo costruito edifici per anni senza CATIA" ! li suo istruttore, un 2. La storia completa della resistenza a CATIA è riportata in Turkle et al., "ln­ formation Technologies and Professional ldentiy; e Loukissas "Custodi della geome­ tria" nel presente volume.

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ingegnere che aveva insegnato CATIA a tanti architetti praticanti, mostra di avere familiarità con questo tipo di commenti; con rasse­ gnazione ha addirittura individuato tre difficili fasi della resistenza ai suoi insegnamenti. La prima è "la parete di mattoni" : gli architetti sostengono di avere troppo da fare per avere il tempo di imparare. Sostengono che imparare ad utilizzare le tecnologie digitali richiede molto tempo, così tanto che non permetterebbe loro di dedicarsi ad altre faccende. Poi viene la fase " dell'apprendimento con resi­ stenza", quando il titolare dello studio di progettazione insiste che i suoi architetti imparino il programma. Infine, nella fase di "im­ plementazione con resistenza continuata", gli architetti dello studio riescono finalmente ad usare il programma ma trovano appigli per continue lamentele. Alcuni sostengono che CATIA aiuta i consu­ lenti e gli appaltatori ma non i progettisti. Altri si lamentano che il programma produce progetti che sono "disordinati, sia visivamente che concettualmente" . L'istruttore d i CATIA vede la progettazione computerizzata come un nuovo modo di guardare il mondo, mentre i suoi colleghi tendono a descriverla come "un semplice strumento" . Come ne­ gli anni '80, la frase "un semplice strumento" viene investita della missione di tenere il computer al posto suo, lontano dall'identità propria di un architetto. Ma oggi è meno comune che i progettisti rifiutino totalmente la tecnologia della simulazione, essi si limitano ad adattarsi e a lamentarsi dei problemi che genera. Marshall Tomlin, un giovane progettista dello studio dove si cercava di insegnare CATIA, si lamenta che buona parte del suo lavoro, produrre disegni architettonici, consiste nello scegliere tra diverse opzioni sul menu di un computer. Ammette di essere sem­ pre tentato di buttarsi sul "default" , l'opzione che il sistema offre se non viene fatta una scelta esplicita. Vorrebbe sentire più "suo" il lavoro che produce, ma questo senso di autorialità gli sfugge. E si preoccupa che i suoi disegni possano risultare fuorvianti. Spiega che quando il lavoro era fatto a mano, i disegni più dettagliati comuni­ cavano l'impegno verso un dato programma di progettazione. Ora, aggiunge dettagli a quelli che sembrano progetti finali mentre gli ingegneri del suo studio stanno ancora cercando di creare la geome-

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tria di base dei piani di progetto. Gli studi di progettazione hanno sempre usato dei bellissimi disegni per vendere progetti non ancora completati. Per Tomlin ciò che è cambiato è che quelli realizzati al computer fanno sembrare tutti gli edifici come se fossero stati già sviluppati totalmente, progettati fino all'ultimo dettaglio. Al di là delle questioni di autorialità e dell'ansia per il fatto che i suoi lavori dovrebbero creare l'illusione dell'impegno, Tomlin pensa che l'uso dei computer nel suo studio porta a una maggiore rigidità dei ruoli, un aumento della tendenza a identificare le per­ sone con la loro funzione. n suo lavoro di rendering, che consiste nella resa tridimensionale delle immagini, sembra ridursi a una par­ ticolare relazione con il computer. Non è felice del fatto che i suoi colleghi sembrano contenti di !asciarlo da solo con la sua macchina. Lo studio di Tomlin utilizza sia i sistemi di progettazione com­ puterizzata (CAD) che le relative tecnologie (CAD/CAM) che sup­ portano la progettazione, il project management e la produzione. Un gruppo di architetti utilizza il computer per abbozzare le basi; un altro gruppo introduce il progetto nel sistema computerizzato che lo accompagnerà attraverso la produzione. Buona parte degli architetti dello studio non sanno molto sui meccanismi di questo secondo sistema. In passato, Tomlin e i suoi colleghi dovevano passare i progetti preliminari che venivano specificati in disegni e plastici più dettagliati. Quei disegni e quei plastici concreti restava­ no sempre accessibili per loro, aperti a ulteriori interventi da parte dell'organizzazione nel suo complesso. Oggi, quando passano ad altri i loro progetti, avvertono un senso di perdita. Uno dei colleghi di Tomlin dice che quando invia il progetto al gruppo tecnico si sente subito tagliato fuori: "Sta andando nella terra degli hacker, persone che non conoscono necessariamente la progettazione come la conosco io" . Spesso, quando i progettisti sembrano opporsi a un partico­ lare sistema computerizzato, in realtà si stanno opponendo al fatto che la macchina li costringe a rinunciare al controllo sui loro pro­ getti. Nella maggior parte degli studi, si avverte la pressione sociale

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di dover far tutto e mettere tutto al computer.3 È la norma per le "best practices" del giorno d'oggi. Per tutta risposta, i progettisti cercano di rendere più equilibrata la loro esperienza. Si siedono di fronte a schermi giganti, ma sulle loro scrivanie ci sono blocchi di plastici, argilla, spine di acciaio, cartone e colla. Un giovane archi­ tetto ha spiegato come le bozze fatte a mano e i plastici "preservano le mie capacità d'intuizione fisica". Un'altra, che si descrive come una "AutoCAD baby", afferma che mentre il computer le consente di andare "dentro i materiali" , dall'altro lato ha ancora bisogno dei modelli fisici per richiamare ciò che definisce la loro "scarica" . I progettisti mettono a confronto i modelli computerizzati con quelli di cartone che descrivono come più "reali". Aspettano fino a che i progetti si sono completamente stabilizzati prima di ricorrere agli strumenti digitali, anche se lo scopo principale di questi strumenti è quello di dare l'opportunità di giocare con le idee progettuali nel loro farsi. Uno ha confessato di sdraiarsi sulle stampe realizzate per portare il suo corpo nel mondo della simulazione. Nello studio di Tomlin, il progettista capo lavora con gli stru­ menti di progettazione computerizzati seduto accanto a un tiroci­ nante esperto di tecnologia.4 Quando furono introdotti per la prima volta questi strumenti, l'architetto capo realizzava delle bozze che il suo tirocinante traduceva in un modello geometrico al computer. n capo faceva le revisioni lavorando con la carta da lucido sulla stampa del modello. Nel tempo, ha smesso di chiedere le stampe e ha iniziato a fare dei cambiamenti direttamente al computer, sempre in compagnia del suo tirocinante. n principale non lavora mai da solo e ha trovato così il modo per restare vicino alla progettazione 3· Uno studente di progettazione che partecipava al workshop del MIT della primavera 2005 ha commentato che nelle grandi società c'è ancora spazio per una "persona al vertice" che si occupa solo delle bozze, ma la maggior parte degli ar­ chitetti che stanno iniziando la loro carriera e vogliono farsi un nome "non possono permettersi un renderista o un modellatore". Quindi un giovane architetto di oggi deve conoscere la simulazione "nelle sue espressioni più avanzate". Questa prepara­ zione in campo informatico non è più una "specializzazione" è un "modello di so­ pravvivenza 4· Si veda Turkle et al., "Information Technologies and Professional Identity" e Loukissas, "Custodi della geometria" , nel presente volume. •.

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in evoluzione. Alcuni architetti senior hanno accolto con favore questa nuo­ va alleanza, più che altro una nuova simbiosi, con quella che viene definita una "persona digitale". Altri non si sentono a proprio agio con questa sorta di dipendenza, o rigettano qualsiasi tipo di coin­ volgimento tecnico, o ancora insistono nel voler acquisire essi stessi la padronanza della tecnologia. Si impegnano e ci riescono, o si im­ pegnano e falliscono ma poi fanno piani per ritentare di nuovo. È difficile conciliare le responsabilità di un progettista esperto e avere il tempo di imparare dei sistemi computerizzati complessi. Nel workshop del MIT su simulazione e visualizzazione tenu­ to nella primavera del 2005 , l'architetto Donna Gordon si è definita una "persona digitale" e ha parlato delle difficoltà di entrare in una tale partnership. Lei stessa ha lavorato con diversi architetti impor­ tanti che ha descritto come gente "che le stava col fiato sul collo". Se da un lato è il capo a dirigere l'azione, la Gordon pensa che sia lei, e quelli che si trovano nella sua posizione, ad essere in una relazione più intima con il progetto. Ella ha il sospetto che, dalla prospettiva del capo, i tirocinanti si limitano "a una riproduzione". Ma dal suo punto di vista, questi riescono meglio a capire quando "qualcosa è sbagliato o può essere fatto meglio. . . . Sono loro quelli che sono più concentrati sul progetto. Vedono in maniera tridimensionale lo spazio dall'interno" . Sono i tirocinanti a "scolpire lo spazio". Quando è al lavoro, la Gordon sente di "entrare nel plastico" , sviluppando una cosa che sperimenta come una conoscenza corpo­ rea dei suoi confini. n suo lavoro di collaborazione con gli architetti capo consiste praticamente nel portarli a pensare in maniera vir­ tuale - portare il mentore all'interno del plastico. La sua strategia è di accompagnare l'architetto capo in una sorta di passeggiata per l'edificio, un'animazione denominata "fly-through" quando si parla dello spazio digitale. Durante il fly-through, la Gordon fa ruotare il modello per rivelare le strutture nascoste; poi zumma di qua e di là per dare all'architetto capo l'impressione del tour guidato. n modello digitale non viene semplicemente mostrato, viene

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messo in scena.5 In questo processo, gli osservatori entrano in una nuova relazione con ciò che c'è sullo schermo. La Gordon lo descri­ ve come " portare quella persona verso una connessione intima . . . li accompagni per mano". Lei ha solo cose positive da raccontare sulla sua esperienza di questa connessione intima. Ma, talvolta, gli architetti possono "inciampare nel modello" e avere qualche diffi­ coltà a rialzarsi, nel senso che non riescono a tenere d'occhio anche l'esterno della simulazione. Nell'esperienza Athena, quando la man­ canza di una serie di curve di livello sullo schermo allontanava uno studente dalla topografia del sito reale, era ragionevole imputare l'errore alle limitazioni di un sistema informatico primitivo: non si riuscivano ad adattare abbastanza curve di livello sullo schermo per presentare il sito in tutti i suoi dettagli. Ma i sistemi sofisticati di oggi non hanno questo problema. Infatti, ora sono proprio le loro realtà virtuali fluide e dettagliate che possono talvolta allontanare dal reale.6 ALLONTANARSI DAL REALE

Al workshop del MIT della primavera 2005, un giovane architetto ha affermato di aver perso i "riferimenti" esterni ai suoi modelli di­ gitali. "È sempre un punto di rottura interessante" ha detto " quello in cui la simulazione è così nuova che non riesci più a giudicarla. Perché non hai un punto di riferimento per dire cosa è giusto e cosa è sbagliato. Perché non c'è nessuna cornice di riferimento . . . nes5· Sul corpo che mette in scena la simulazione, si veda Rachd Prentice, "The Anatomy of a Surgical Simulation: The Mutuai Articulation of Bodies in and through the Machlne", Social Studier o/Science 35, n. 6 (dic. 2005): 867-894; Natasha Myers, "Animating Mechanism: Animation and the Propagation of Affect in the Livdy Arts of Protein Modeling", Science Studier 19, n. 2 (2006): 6-30; "Molecular Embodi­ ments and the Body-Work of Modding in Protein Crystallography", Social Studier ofScience 38, n. 2 (2008): 163-199; e "Riprodurre il ripiegamento proteico" nd pre­ sente volume. 6. Come i tdevisori ad alta definizione, ciò che appare sullo schermo può sem­ brare più preciso che in natura, l'"out-realing" dd reale. Quest'idea nasce dal con­ cetto di un iper-reale, come discusso da Jean Baudrillard. Si vedaJean Baudrillard e Jean Nouvel, The Singular Objectr o/Architecture, trad. Ing. Robert Bononno (Min­ neapolis: University of Minnesota Press, 2002).

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sun precedente" . I suoi strumenti digitali sono stati progettati per cogliere il senso del lavorare con i materiali tradizionali, ma egli non ha avuto alcuna parte nella loro progettazione e non capisce come sono fatti. La cosa più stressante per lui è che quando va in confu­ sione e perde la sua "cornice di riferimento", il modello risulta più convincente di qualsiasi edificio reale. La simulazione lo ipnotizza. I suoi colleghi hanno discusso di un esempio in questo senso: un progetto ad alta visibilità che prevedeva di sostituire un vecchio casermone in arenaria con un hotel di lusso in perfetto stile tradizio­ nale europeo. Per tagliare i costi, gli imprenditori avevano chiesto di fare delle revisioni a un progetto già realizzato. I progettisti del workshop hanno immaginato cosa fosse successo dopo: gli architet­ ti avevano utilizzato un programma CAD/CAM che ha permesso loro di aprire un campionario, cliccare sulla superficie e "colorare" le sezioni dell'edificio. Al computer, i progettisti avevano cliccato su un prodotto di tipo calcareo. E' quindi venuto fuori un'edificio simil-calcareo, attaccato alla vetroresina. Inoltre, sono stati scelti degli abbaini finti, perché era meno costoso che costruirne di veri. Sullo schermo il simil-calcareo e quegli abbaini finti potevano sem­ brare accettabili. Ma una volta costruito, l'hotel suscitò non poche proteste. I critici lo descrissero come degno solo di Dysneyland. L'edificio reale sembrava una simulazione/ fuori posto se messo a confronto con gli edifici "reali" che lo circondavano. La ditta che lo aveva costruito fu costretta a rifare la facciata, quella facciata che era nata da e, potremmo dire, per la simulazione. Ritornando alla questione dei mattoni di Louis I. Kahn, po­ tremmo chiederci "Cosa vuole la vetroresina? " per scoprire che la risposta non è un'architettura Stile Impero francese. Sebbene le notizie intorno a questo tema dibattuto avessero chiarito che le motivazioni di quei cambiamenti nel progetto fossero di natura fi­ nanziaria, al workshop del MIT, quella storia era presentata come ammonimento sui rischi del prendere decisioni del genere al com­ puter. Gli architetti del workshop parlavano di come fosse facile 1·

Per una discussione classica sulle simulazioni e le nuove classi di oggetti che simulano oggetti mai esistiti, si veda Jean Baudrillard, Simulacra and Simulations, trad. inglese di Sheila Faria Glaser (Ann Arbor: University of Michigan Press, 1994).

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commettere degli errori quando i materiali vengono scelti con un doppio click. Uno ha commentato che per lui gli strati di simula­ zione sono come "i livelli di costruzione di un mito" , e ha aggiunto che quando progettiamo al computer: "Crediamo che lo spazio di­ venterà come noi lo vediamo". Lo chiama "la confusione tra visua­ lizzazione e realtà". 8 Quando si utilizza il sistema CAD/CAM, è il sistema stesso che gestisce gli appalti e gli acquisti. L'architetto che sceglie i ma­ teriali non è poi così lontano dai mastri artigiani che costruiranno materialmente l'edificio. L'architetto che si preoccupava della "con­ fusione tra visualizzazione e realtà" ha ricordato che gli artigiani una volta erano in grado di capire "come sarebbe venuto l'edificio" ; una volta "partecipavano al processo d i progettazione" . TI CADI CAM ha distrutto questi rapporti. Per lui, ora i mastri artigiani non sono più suoi colleghi come lo erano un tempo; gli operai con i loro materiali "reali" hanno meno probabilità di "costruire quella cosa che noi [i progettisti] visualizziamo" .9 8.

Nella storia del volo nello spazio, i momenti di confusione della realtà sono

stati drastici. Lo storico David Mindell ha osservato che per mesi prima del volo sulla luna, gli astronauti hanno vissuto per buona parte all'interno dei simulatori, volando in diverse condizioni, cercando di simulare qualsiasi tipo di problema concepibile. I simulatori di volo confondevano il confine tra volo reale e virtuale, e si sono rivelati un banco di prova fondamenale per il sistema uomo·macchina che sarebbe atterrato

Digita! Apollo: Human and Machine in Spacef/ight (Cam­ MIT Press, 2008) capitolo l. In effetti, nei momenti cruciali durante

sulla luna. Si veda Mindell, bridge, Mass.:

il vero allunaggio dell'Apollo, l'esperienza della simulazione e del reale sembravano sovrapporsi. Quando l'astronauta Buzz Aldrin ha perso il contatto con il centro di controllo di Houston, ha dovuto effettuare delle regolazioni manuali del sistema automatico che controllava la direzione delle antenne di comunicazione. C'erano interferenze sulla linea; ed era difficile per i controllori a terra sentire gli astronauti con tutto quel rumore. Mentre i controllori frustrati cercavano faticosamente di met­ tere insieme un racconto lineare da tutti quei blocchi di dati interrnittenti, uno disse:

"È proprio come una simulazione". Mindell osserva che "in effetti, quella manovra

era stata provata, innumerevoli volte e in innumerevoli variazioni, nelle simulazioni virtuali computerizzate quando erano a terra", Digita! Apollo, 2. La storia dell'aviazione mostra come il "mondo reale" viene sperimentato attraverso le lenti della simulazione. Jean Baudrillard invoca un concetto simile di confusione della realtà quando descrive come le simulazioni possono sovrapporsi a questa, lasci­ andosi alle spalle il "deserto del reale" . Si veda Simulacro and Simulations.

g. La relazione tra l'architetto e i mastri artigiani nella cultura della simulazione è complessa. In "Custodi della geometria" nel presente volume, Loukissas descrive

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I progettisti hanno commentato che potrebbe esserci una con­ nessione tra i progetti al computer che non mantengono le aspetta­ tive e la sensibilità incoraggiata dal "fly-through" digitale dove gli architetti scorazzano per i loro edifici simulati, sempre in movimen­ to. L'hotel con la facciata ricoperta di pietra calcarea era il tipo di edificio che può sembrare bello o sullo schermo o in una visione a distanza, magari dall'autostrada, dove l'osservatore è posto in una situazione di velocità e movimento che richiama alla mente proprio lo scorazzamento di un "fly-through". Anche gli architetti che sembrano essere fiduciosi del fatto che loro non progetteranno mai un edificio così problematico mostrano rispetto per le seduzioni della simulazione. Capiscono che ci pos­ sono essere giorni a lavoro in cui anche una facciata in vetroresina ricoperta da pietra calacarea e degli abbaini finti possono sembrarti belli al computer. Lavorare con la simulazione ti trasmette spesso una certa euforia, come un senso di libertà dai materiali tradizionali. Non è inusuale che questa esperienza emerga inavvertitamente dalla resistenza del reale. Una giovane laureata in architettura, che partecipava al wor­ kshop del MIT nella primavera 2005, ha detto che l'istruzione uni­ versitaria le aveva insegnato che gli architetti devono stare "attenti alle visualizzazioni" . n gap tra l'edificio sullo schermo e quello reale può essere enorme: "Gli architetti" ha continuato "stanno perden­ do il loro rapporto con la materialità". Con ironia ha aggiunto che quando i progettisti utilizzano CAD/CAM, accade troppo spesso che "l'architetto si dimentica l'edificio" . RICONSIDERARE LO SPAZIO SACRO

Negli anni Ottanta, gli architetti cercavano di proteggere il disegno dalle incursioni dell'informatica. In effetti, si chiedevano se quelli che non sapevano disegnare potessero diventare architetti. Nel di­ segno, sostenevano, l'architetto pensava e anche sentiva l'edificio. una nuova maestria digitale, la base di una nuova relazione tra progettisti e mastri artigiani.

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Disegnare era il luogo dell'ispirazione. Nel tempo, l a simulazione era arrivata a occupare (o a invadere direbbe qualcuno) questo spa­ zio sacro.'0 Mentre alcuni architetti vedono di buon occhio questo sviluppo, compiaciuti del fatto che ora un gruppo più ampio di per­ sone può partecipare alla progettazione, altri restano scettici. Uno di questi scettici, Howard Ramsen, che ora è sulla cin­ quantina, ha frequentato la scuola di design negli anni '70. Era stato spinto verso l'architettura dal suo amore per l'arte. L'aspetto più piacevole della progettazione, sostiene, era il tempo trascorso ad ab­ bozzare qualche disegno. Ma dall'inizio degli anni '90, si è imposto di imparare i metodi computerizzati per restare competitivo nella sua professione. "Ma non mi è mai piaciuto" afferma " Non sono diventato un architetto per stare seduto davanti a un computer" . Dopo qualche anno, h a cominciato a d avvertire un conflitto: " Mi piace disegnare, penso come disegno, perché è attraverso l'arte del disegno che affiorano le mie idee. Quando progetto un edificio, mi affido ad esso. Lo conosco nell'intimo e in modo diverso rispetto a quando è il computer a disegnarlo per me". Per Ramsen, le tavolozze, un menu, e i programmi di default della progettazione computerizzata lo fanno sentire meno l'autore di quegli edifici. Guardando indietro alla sua carriera, Ramsen af­ ferma di essersi sentito più alienato quando lavorava per un grande studio dove i progetti venivano sviluppati offrendo agli architetti una serie di "elementi di partenza". Al computer, Ramsen sentiva la mancanza di quella flessibilità che gli veniva dal poter sfumare la linea della matita con le dita. Per lui, i progetti sembravano essersi spostati "dentro i computer" dove non poteva toccarli; progettare era diventato più una sorta di soluzione di un puzzle. All 'inizio, ha commentato quest'esperienza dicendo che "il progetto aveva perso la sua fluidità artistica". Ma qualche istante dopo, ha posto la que­ stione diversamente: "Ho perso la mia fluidità artistica" . Quando lavorava con la macchina che vedeva come qualcosa che " disegnava L'antropologo Gari Downey caratterizza i progettisti contemporanei come persone che hanno gli "occhi incollati al computer oltre che le dita". Si veda The Machine in Me: An Anthropologist Sits among Computer Engineers (New York: Rout· ledge, 1998). 10.

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per me" , l'effetto finale era quello di sentire minato il suo senso di autorità: Quando disegno da solo un edificio controllo tutte le dimensioni. Con il

computer, beh, non lo faccio. Mi sembrerebbe presuntuoso farlo, voglio dire, come potrei fare meglio di

un

computer? Questo può fare cose pre­

cise al millesimo di millimetro. Ma una volta, su

un

grande progetto, i di­

segni realizzati dal computer sono tornati indietro, non avevo controllato le dimensioni ed erano state già gettate le fondamenta. Non lo venimmo a sapere finché l'appaltatore non iniziò ad accusarci che c'era stato un errore. Tutto perché ero cresciuto intimidito dall'autorità di ciò che proveniva dal computer.

Quando Ramsen disegna un edificio, se ne sente responsabile. Si impegna con quelli che negli anni '80 il professar Ted Randall del MIT chiamava i "marchi" del progettista. Ma di fronte al prodot­ to di un computer, Ramsen si sente deferente e sopraffatto. Come potrebbe essere più preciso di qualcosa che riesce a discriminare "fino al millesimo di millimetro"? Nel caso del progetto con le di­ mensioni sbagliate, l'esattezza del computer aveva indotto Ramsen a confondere precisione e accuratezza; presumeva che l' output del suo computer sarebbe stato non solo preciso ma corretto. Rifletten­ do su quel progetto, Ramsen si è ricordato di aver fatto un errore di input a un certo punto, un errore che non era del computer. Ma era comunque giunto a vedere il computer come una sorta di macchina autocorrettiva. n risultato era che non controllava più i disegni che questa macchina produceva. n suo appaltatore (che a sua volta non controllava i disegni realizzati al computer) ha confessato che quan­ do i progetti venivano fatti a mano, li verificava continuamente. Ma da quando gli vengono presentati disegni fatti al computer, si limita a procedere e a gettare le fondamenta in base a quanto specificato. "A livello intellettuale" ha detto uno dei miei studenti "trascorria­ mo il tempo a imparare che, con i computer, "ciò che si semina si raccoglie". Ma la cosa più strana con i sistemi computerizzati è che più inizi a pensare che correggano i tuoi errori, e più ti convinci che ciò che esce dalla macchina è quello che dovrebbe essere. È una cosa viscerale" . Ramsen h a finito per lasciare quel grande studio e avviare una

3. DESIGN E SCIENZA ALLA FINE DEL MIUENNIO

l

sua attività da libero professionista. E al momento lavora ancora alla sua attività; vuole mettere molta attenzione nei piccoli progetti. Di­ segna a mano e invia i suoi disegni a qualcun'altro per "farli inserire nel computer". n disegno a mano lo fa sentire più vicino alle radici della progettazione. E sente che la nuova distanza che ha frapposto fra sé e la tecnologia lo rende un architetto migliore. In proposito ha detto: n computer rende possibile qualsiasi cosa, anche edifici che non avresti mai potuto costruire prima. Ma solo perché puoi costruire

un

edificio del

genere non significa che devi farlo. Oggi ci sono così tanti edifici "estremi" che mettono alla prova i limiti di ciò che può fare un materiale. Ma in realtà non sono solidi. n computer ha detto che è tutto ok, ma le persone non possono capire la fisica degli edifici a qud livello di complessità, così si fanno

un

sacco di errori.

Nella nostra conversazione, ffiiZlata con la spiegazione del suo rapporto con il disegnare, Ramsen è partito da considerazioni sull'estetica per arrivare alle fantasie che aveva elaborato sulla pre­ cisione informatica. Poi ha cominciato a mettere in discussione il processo. n computer consente più flessibilità nella progettazione o la limita? Tutti dicono, e anche tu lo potresti pensare, che il computer dovrebbe met­ terti nello stato mentale giusto per provare questo e quello e continuare ad apportare cambiamenti perché è così facile. Ma nello studio dove lavoravo, poiché lui [il computer] presentava tutto a

un

tale livello di dettaglio, l'edi­

ficio sembrava finito già dopo che avevamo messo giù la nostra prima idea. Così, mi sono reso conto che le cose non subivano tanto

un

processo di

elaborazione perché tutto dava subito l'idea di essere completo.

Qui emerge uno schema: nella simulazione, gli architetti spe­ rimentano un'iniziale euforia per la facilità di procedere a molteplici iterazioni. Ma a un certo punto, la grafica è così spettacolare, le bozze sono così precise, che le possibilità sembrano trasformarsi in scelte inevitabili. Una volta i disegni fatti a mano con tanti dettagli segnalavano che i principali problemi di progettazione erano sta­ ti risolti; quando i computer producono questi disegni sembrano suggerire una risposta simile. I progettisti di oggi possono speri-

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IL DISACiiO DELLA SIMULAZIONE

mentare questo senso di completamento anche quando sanno che non è garantito che siano arrivati alla fine. Come ha osservato con rammarico il renderer Marshall Tomlin, nel formato digitale, anche le idee preliminari danno l'impressione di essere qualcosa di finito. Come abbiamo visto, la simulazione produce effetti parados­ sali. Nonostante il fatto che offra la possibilità di iterazioni multiple, spesso si scopre che nella simulazione la prima idea vuole essere an­ che l'ultima. Quando ci si confronta con un disegno computerizzato pieno di dettagli, l'unica cosa che si può fare è annullare quello che è stato fatto. Ma nella pratica, la perfetta risoluzione del disegno sul­ lo schermo ha più probabilità di persuadere le persone ad accettarla come un fatto compiuto. Attualmente, questo rende il disegno non uno spazio sacro ma un luogo di contestazione che preoccupa molti architetti. Come ha spiegato un designer: "Tutto ciò che facciamo quando siamo messi a confronto con un nuovo progetto è pensare quando smettere di disegnare, cosa disegnare, cosa dovremmo di­ segnare, cosa non dovremmo e non vorremmo disegnare, e cosa ci aspettiamo che gli altri disegnino" .11 Così mentre qualcuno interpreta la perdita del disegno a mano come il costo da pagare per poter fare affari oggi in questo ambi­ to professionale, altri pensano che, senza un senso di appartenenza che proviene dal movimento della mano sulla carta, la progettazio­ ne sarebbe svilita. Gli architetti di oggi stanno di fronte a un bello schermo. Ma può darsi che l'architetto capo che vediamo chino alle spalle del tirocinante sceglierebbe ancora di scorazzare attraverso il "fly-through" nella sua mente chiedendosi: cosa vuole il reale? SCIENZE NATURALI: LA TENSIONE TRA IL FARE E IL DUBITARE

Cosa vuole il reale nelle scienze naturali? Qui, la simulazione è par­ tita da una sorta di inganno, un patto estetico con la natura. Le prime simulazioni erano qualitative e evocative. Per esempio, un biofisico, Stéphane Leduc (1853 -1922), che lavorava alla Scuola 11.

Yanni A. Loukissas, fieldnotes, 2003. Citato in Turkle et al., "Infonnation

Technologies

an d

Professional Identity".

3. DESIGN E SCIENZA ALLA FINE DEL MILLENNIO

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di Medicina di Nantes, aveva attinto ai poteri di persuasione della mimica per simulare i processi meccanici che regolano le forme di vita. Aveva utilizzato cristalli di sale e tinture per produrre cellule e organismi artificiali. Queste creature chimiche, formate in virtù di gradienti asmatici, sembravano stranamente vive, la loro crescita imitava quella delle cellule che si dividono, dei funghi sporulanti, delle piante che fioriscono, e delle alghe galleggianti. Le simulazioni di Leduc imitavano la vita senza riferimento ai processi sottostanti.12 Quando la biologia ha iniziato a diventare più matura e l'in­ formatica ne è diventata lo strumento dominante, questo tipo di simulazioni sono state screditate. Oggigiorno uno scienziato natu­ ralista del MIT che modella le interazioni proteina-proteina e forma una nuova generazione di bio-ingegneri, descrive quei modelli come non aventi più precisione matematica o capacità predittiva di un "fumetto".'3 Per lui, qualsiasi cosa al di sotto della quantificazio­ ne della fisica a livello molecolare è "pura filosofia". Oggigiorno, la visualizzazione e la simulazione reggono la biologia come questa manipola e reinventa la vita a livello molecolare e cellulare.'4 Le si12. W. Deane Butcher, citato in Evelyn Fox Keller, Making Sense of Lt/e: Explain­ ing Biologica! Development with Models, Metaphors, and Machines (Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 2002), 16-41. 13. Workshop on Simulation and Visualizzation in the Professions, MIT, ottobre 2003 . In ciò che segue, i commenti di scienziati naturalisti sono tratti dai fieldnote e dalle interviste di Natasha Myers, assistente ricercatrice NSF n. 0220347, e citati nel suo rapporto finale, a meno che non siano attribuiti alle presentazioni e alle con­ versazioni tenute ai workshop del MIT su simulazione e visualizzazione negli ambiti professionali nell'ottobre 2003 o maggio 2005. 14. Tali risultati dipendono dalle conquiste di scienziati provenienti da diverse discipline che sono approdati alle scienze naturali; si basano sull'esperienza acquisita in chimica, fisica, scienze materiali, informatica e ingegneria come mezzo per acce­ dere a nuovi tipi di informazioni sui processi vitali, soprattutto a livello delle cellule e delle molecole. Le scienze naturali oggi consistono di diversi campi di ricerca che si sovrappongono tra cui la biochimica, la biologia molecolare, la biologia cellulare, la biologia strutturale e la biologia dei sistemi e computazionale, genomica e proteom­ ica, e la biologia che lavora sul ripiegamento proteico o "protein folding". Un'ampia gamma di tecnologie computerizzate sono state applicate per le sfide della visualiz­ zazione nelle scienze naturali. Tra esse ricordiamo le immagini al microscopio, le analisi quantitative dell'espressione genica e dell'attività proteica, e i modelli ad alta risoluzione delle molecole ottenuti con la cristallografia ai Raggi X, e altre modalità di detenninazione delle strutture.

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IL DISAGIO DELLA SIMULAZIONE

mulazioni matematiche animano modelli che rappresentano le pro­ teine e le cellule nel loro sviluppo nel tempo. Gli algoritmi predico­ no le interazioni molecolari all'interno delle cellule e i percorsi del ripiegamento proteico. Gli scienziati hanno costruito una seconda natura all'interno dei computer attraverso le simulazioni che sono sempre più manipolabili, sempre più facili da sperimentare. Alcuni descrivono il risultato di tali pratiche virtuali come "nuove forme di vita" .•s Nella biologia di oggi, la simulazione della vita è fondamenta­ le, ma attenerne una giusta è rimasto difficile. I sistemi viventi fun­ zionano a molti livelli, dagli atomi agli organismi completi; integrare i vari livelli è difficile. E gli intricati meccanismi di cellule e molecole sono difficili da individuare, quantificare e analizzare. Queste sfide incoraggiano alcuni scienziati naturalisti ad avvicinarsi alla simula­ zione con ciò che gli architetti del MIT negli anni '80 definivano una distanza critica. Nelle scienze naturali, una certa distanza critica verso la simulazione rafforza la modestia. Nel campo della cristal­ lografia delle proteine, dove si utilizzano i raggi X per indagare la struttura molecolare, alcuni ricercatori cercano di insistere sul fatto che i modelli delle molecole complesse che essi producono sono "solo modelli". Quelli che lavorano al microscopio si affrettano a sottolineare il fatto che le immagini che ci danno sono solo rap­ presentazioni mediate delle cellule che studiano. Questi scienziati danno per scontato che le simulazioni possono ingannare e che per valutare una simulazione bisogna porsi dal di fuori. La simulazione e la visualizzazione sono diventate il luogo di lavoro quotidiano de­ gli scienziati naturalisti. Ma i programmi che gli scienziati utilizzano sono solitamente delle "scatole nere". In questo modo, la sensazio­ ne di padronanza avvertita dagli scienziati è accompagnata all'ansia e all'incertezza. I computer sono entrati per la prima volta nella cristallografia delle proteine alla fine degli anni Quaranta. n loro compito era quel­ lo di alleggerire il lavoro che stava dietro i calcoli cristallografici, un

Si veda Michael M. J. Fischer, Emergent Forms o/Lt/e and tbe Anthropological Voice (Durham: Duke University Press, 2003 ).

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3, DESIGN E SCIENZA ALLA FINE DEL MILLENNIO

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lavoro che era solitamente assegnato alle donne, che ironicamente venivano definite " calcolatrici" .'6 Già nel 1957, i computer erano utilizzati nella costruzione della prima visualizzazione di una protei­ na, un modello realizzato a mano in plastilina e pezzetti di legno. La grafica computerizzata per la visualizzazione molecolare è venuta dopo, alla metà degli anni Sessanta.'7 Da questo punto in avanti, gli scienziati avrebbero realizzato i modelli molecolari interagendo con la grafica computerizzata; i modelli fisici erano troppo ingombranti. Oggi, le analisi delle diffrazioni di raggi X da cui dipendono coloro che si occupano di cristallografia delle proteine sono con­ dotte dai computer che raccolgono, misurano e calcolano i dati. La maggior parte di coloro che operano in questo campo hanno accol­ to favorevolmente questa innovazione. Nel 1959, Max Perutz e il suo team di tecnici hanno portato a termine, dopo ventidue anni di lavoro, il modello dell'emoglobina che gli è valso il Premio Nobel. Oggigiorno, modelli di proteine anche più grandi possono essere realizzati da un solo studente universitario o da un ricercatore nel giro di un anno. Perutz e colleghi, con il loro potere di calcolo limitato, costru­ ivano le molecole un amminoacido alla volta. Si basavano sul sapere tacito, sulla loro "intuizione" della struttura molecolare. Perutz di­ ceva di aver visto emergere la molecola nei termini di "aver raggiun16. Si veda Peter Galison sui tecnici di laboratorio donne note come calcolatrici" nella fisica. Galison, Image and Logic: A Materia! Culture o/Micropshysics (Chicago: University of Chicago Press, 1997), 199, 375, 718. In cristallografia, per tutti gli anni Cinquanta le donne lavoravano con contratto a tempo determinato, misurando e registrando a mano i risultati prodotti dalla diffrazione dei raggi X attraverso cristalli di proteine. Si veda Soraya de Chadarevian, Designs for Life: Molecular Biology after World War TI (Cambridge: Cambridge University Press, 2002), 123. Si veda anche Lily E. Kay, The Molecular Vt'sion o/Lt/e: Caltech, the Rock/eller Foundation, and the Rise o/ the New Biology, Monographs on the History and Philosophy o/ Biology (New York: Oxford University Press, 1993 ). Nei primi anni, chi lavorava sulla cristallogra· fia delle proteine trattava i dati prodotti dai computer con scetticismo. Per esempio, Max Perutz resistette all'utilizzo dei computer finché non divenne assolutamente necessario. Si veda de Cadarevian, Designs /or Lt/e, 126. 17. Si veda de Chadarevian, Designs for Life, e Eric Francoeur e Jerome Segai, "From Mode! Kits to Interactive Computer Graphics", in Models: The Third Di­ mension o/ Science, a cura di Soraya de Chadarevian e Nick Hoopwood (stanford: Stanford University Press, 2004). •

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IL DISAGIO DELLA SIMULAZIONE

to la vetta di una montagna dopo una scalata estremamente difficile piuttosto che di essersi innamorato" .'8 La sua osservazione sembra richiamare la sensibilità del fisico William Malven che parlava della scienza come del luogo dove "il banale e il profondo andavano in­ sieme - come lavare i piatti e fare l'amore" . In questa visione della pratica scientifica, la scienza sarà sempre una pratica umana, una fatica d'amore che non potrà mai essere completamente automatiz­ zata. Malven era disposto ad ammettere l'automatizzazione solo per i calcoli più laboriosi, e poi solo con gli strumenti più trasparenti, trasparenti come il suo coltellino svizzero. Questa visione della scienza come "pratica umana" plasma ancora le identità professionali di alcuni cristallografi. Per esempio, la Professoressa Diane Griffin, a capo del laboratorio di cristallo­ grafia delle proteine dell'East Coast, utilizza l'espressione pensiero manuale per riferirsi a quegli aspetti della pratica cristallografica che resistono a una completa automatizzazione, tra cui la raccolta di dati, l'imaging, l'analisi delle immagini, e il calcolo delle mappe e dei modelli cristallografici.'9 La Griffin appartiene a una generazio­ ne di cristallografi cresciuta a scrivere da sola i propri programmi per calcolare le mappe di densità elettronica dai dati ai raggi X. La sua scienza dipende dall'accuratezza di questi programmi e lei sa quanto sia difficile escluderne gli errori. Come Malven che, vent'an­ ni prima di lei, parlava di una scatola nera come dello strumento più pericoloso in un laboratorio, così la Griffin sembra perdere la fidu­ cia quando non riesce a guardare dentro i programmi che utilizza. Al workshop del MIT della primavera 2005, affermava: 18. Turkle et al., "lnformation Technologies and Professional Identity" . Citato in Myers, "Molecular Embodiments", 181. Qui, la Myers tratta un'estesa analisi delle "intuizioni del sapere tacito, e dell'amore e della fatica impiegati nel lavoro artigia­ nale richiesto prima per la costruzione dei modelli molecolari. Su questi terni, si veda anche Myers, "Modeling Proteins, Making Scientists" e "Animating Mechanism". 19. Si veda Myers, "Modeling Proteins, Making Scientists" per un'analisi det­ tagliata del concetto di "pensiero manuale" come esposto dalla Griffin e del suo ruolo nella costruzione di modelli di proteine. La Myers offre anche una discus­ sione sulle sfide pedagogiche che i cristallografi devono affrontare quando cercano di coltivare queste abilità tacite nella nuova generazione di studenti, e mostra come tali questioni siano complicate dalla crescente presenza di tecniche automatizzate in questo campo. •,

3. DESIGN E SCIENZA ALLA FINE DEL MILLENNIO

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Quando ero una studentessa, se dovevi convertire dei dati o qualcosa del genere, dovevi scrivere tu stessa il codice FORTRAN. Solo così potevi farlo. Ora ci sono questi programmi. Ci sono queste finestre e tu ci clicchi sopra. Lo vedo sempre con i miei studenti, non sanno perché qualcosa non fun­ ziona. Per me, beh, i dati non si convertono come dovrebbero? Apri il file e guardaci dentro. Ora è una scatola nera e sono lontani i tempi in cui sapevi come venivano convertiti i dati, perché avevi scritto tu stesso il codice, non c'era neanche bisogno di aprire il file per vedere se era pieno di zeri o no. Quindi oggi c'è

un

grande distacco.

Come Malven, la Griffin è particolarmente scettica nei con­ fronti dell'uso dei software brevettati in campo scientifico; i produt­ tori hanno tutta la convenienza a chiudere la scatola nera, a tenere il codice segreto. La Griffin aveva ricevuto gli insegnamenti di una generazione di ricercatori che le avevano inculcato come gli scienziati non do­ vrebbero mai delegare l'autorità a strumenti che non comprendono pienamente. Per loro, l'avvento dei software opachi aveva posto lo scienziato in uno stato inaccettabile di ignoranza. Nello spirito dello scetticismo vigile, la Griffin insegna agli studenti universitari, sia in laboratorio che nel campus, ad esercitare il loro giudizio critico sui dati generati dai computer. 20 n campo della biologia strutturale si può suddividere in due gruppi distinti. Gli scienziati come la Griffin che cristallizzano le proteine, conducono esperimenti sulla diffrazione dei raggi X, e realizzano " a mano" modelli molecolari sullo schermo. Un secon­ do gruppo di produttori di modelli predittivi lavora su algoritmi complessi per predire la struttura delle proteine. Coloro che ope­ rano con i metodi della Griffin insistono sulla necessità di softwa­ re trasparenti per raggiungere i loro scopi. Devono continuamente adattare e riadattare il loro codice. L'intensità del loro coinvolgi­ mento gli consente di tenere sempre presenti i limiti delle loro rap­ presentazioni. Questi non sono inclini a confondere il modello con la molecola. Oggi, sono questi cristallografi a produrre le strutture Per un'estesa discussione sul caso della Griffin e sulla necessità di sviluppare un senso critico nella visualizzazione molecolare si veda Myers, "Molecular Embodi­ ments" e "Modeling Proteins, Making Scientists".

20.

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affidabili in base alle quali i produttori di modelli predittivi testano i loro algoritmi. n futuro, tuttavia, è incerto: i produttori di modelli predittivi ripongono le loro speranze in computer sempre più po­ tenti, in algoritmi sempre più potenti. La Griffin non crede alle loro dichiarazioni, che sostengono che i loro software possono adattare automaticamente le strutture molecolari ai dati cristallografici dei raggi X. Ha bandito i loro sof­ tware dal suo laboratorio. Quando ha scoperto che uno dei suoi studenti aveva utilizzato un software predittivo per aiutarsi nella costruzione di parte di un modello, gli ha fatto ripetere il lavoro ma­ nualmente. E, in effetti, il programma del computer aveva prodotto una struttura sbagliata. Le paure della Griffin erano ben fondate!' Oggigiorno, si registra un'intensa competizione tra modella­ tori predittivi e cristallografi per essere i primi a rendere pubbliche le strutture delle proteine. Nella competizione scientifica, la velocità è sempre fondamentale, e ciò spinge quest'ambito di ricerca verso un uso maggiore delle tecniche automatizzate. Ma per la Griffin, l'automazione nella costruzione dei modelli è solo un inutile imbro­ glio: ti offre una scorciatoia che potrebbe portarti sulla via sbagliata. E anche se ti porta a destinazione, l'automazione potrebbe imbrogliarti. Sicuramente imbroglia gli studenti perché non insegna loro come usare la simulazione con attenzione. Li priva di quelle esperienze fondamentali di cui hanno bisogno per sviluppare un sapere tacito delle configurazioni molecolari. La Griffin pensa che i cristallografi imparino a "pensare in maniera intelligente alle strutture" costruendo lentamente i loro modelli sullo schermo. Per fare ciò, i produttori di modelli di proteine dovrebbe­ ro imparare a collaborare intimamente con il computer, realizzando un nuovo strumento ibrido, una "lente umana computerizzata" .22 21. Per maggiori dettagli su questo caso si veda Myers, "Moleculr Embodiments" e "Modeling Proteins, Making Scientists", soprattutto 26-32. 22. Per una discussione sul necessario per apprendere come "pensare intelli­ gentemente alle strutture" si veda Myers, "Molecular Embodiments". Qui, la My­ ers esamina anche come i cristallografi collaborino con i computer per formare una "lente umana computerizzata" che permetta di portare alla luce le strutture delle proteine. Per una prima formulazione dell'analogia della "lente umana computeriz­ zata" come utilizzata tra i cristallografi, si vedaJenny Glusker e Kenneth Trueblood, Crystal Structure Analysis, A Primer (New York: Oxford University Press, 1985), 5.

3. DESIGN E SCIENZA ALLA FINE DEL MILLENNIO

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MATERIALITÀ NELL'IMMATERIALITÀ

Nella biologia odierna, le simulazioni computerizzate sono sempre più manipolabili, sempre più facili da sperimentare. Esse offrono un'interattività che fa sembrare "materiali" gli oggetti sullo schermo al punto che il contatto con essi dà la sensazione di un rapporto con qualcosa di reale. Tradizionalmente, gli scienziati si basano sulla "osservazione" e sulla "partecipazione" per rivendicare la legittimi­ tà del sapere scientifìco.23 La familiarità con il comportamento degli oggetti virtuali può evolversi in qualcosa di simile alla fiducia che si ripone in essi, un nuovo tipo di osservazione. Si tratta di un tipo di fiducia diverso da quello richiesto da Diane Griffin, ma che può sembrare sufficiente. La Griffin ha iniziato la sua formazione universitaria alla fine degli anni Ottanta quando la fiducia nei propri strumenti informati­ ci si associava alla familiarità con il codice sottostante. Gli scienziati più giovani sono sempre più a loro agio con le simulazioni crea­ te da "scatole nere". Essi sono cresciuti con i personal computer senza per questo conoscere i linguaggi di programmazione. Sono cresciuti con i giochi al computer che offrivano interattività senza trasparenza. Diversamente dalla generazione precedente, essi non programmavano i propri giochi. Quando questi scienziati più gio­ vani lavorano con le molecole sullo schermo, sono più inclini dei loro predecessori ad abbandonarsi alla sensazione di una nuova ma­ terialità. In ciò, condividono un'estetica con gli architetti che si ab­ bandonano al "fly-through" nei loro edifici virtuali. In architettura, i modelli degli edifici vengono ruotati sullo schermo. In biologia, i modelli molecolari vengono ruotati intorno ai loro assi. Attraverso queste azioni, le molecole sono tenute in movimento in modo che le parti nascoste della struttura possano entrare nel campo visivo. In entrambe i casi, l'esperienza della profondità è suggerita dalle

TI trattamento classico della "osservazione" in scienza è quello di Steven Shapin e Simon Schaffer, The Leviathan and the Air·Pump: Hobbes, Boy/e, and the Expen·mental Lzfe (Princeton: Princeton University Press, 1985). 23.

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performance che il corpo esegue. 24 Sebbene i marker generazionali siano importanti, oggi nella progettazione gli atteggiamenti assunti verso la simulazione non sono propriamente suddivisibili per generazione. Lo stesso vale anche in campo scientifico. I giovani non attribuiscono automati­ camente una fiducia acritica a tutto ciò che viene offerto dalla simu­ lazione. Alcuni degli scienziati più anziani, per esempio, giustificano il loro uso di software opachi indicando il regresso infinito delle rappresentazioni computerizzate. Dopo tutto, sostengono, non significa poi molto sapere come è programmata la simulazione se quello che stai guardando è un linguaggio computerizzato di alto livello. n "vero cuore" del programma è nel linguaggio assemblato­ re e in tutto quello che ci sta dietro, e nessuno vorrebbe spingersi a questo livello con le macchine complesse di oggi. Negli anni '80, il Professore Barry Niloff insisteva che i suoi studenti imparassero la fisica della tecnologia dei display; ora, scrupoli del genere sembra­ no appartenere a un'epoca passata, impossibilità pratiche portano gli scienziati, vecchi e giovani, ad accettare l' opacità. Oggigiorno, il problema per lo scienziato si riduce a una domanda: Quale livello e quale linguaggio mi permetterà di capire abbastanza da comparare la simulazione che mi sta davanti con quello che so della natura? Alcuni degli scienziati più giovani che non sono completa­ mente soddisfatti delle loro simulazioni opache sentono di non aver alcun modo per ovviare a questa insoddisfazione. Uno, un fisico di un laboratorio di ricerca nazionale, ha ammesso che da quando lavora con le nuove simulazioni 3D più elaborate ha perso quella comprensione algoritmica di cui godeva con i primi modelli. Un collega più anziano lo ha incoraggiato a immergersi e giocare con le realtà virtuali nello spirito di un vagabondo. n tempo e l'interazione faranno il resto: "Concediti qualche anno per provarlo e gingillati un po' " ha detto. "Probabilmente riuscirai a trovare qualcosa che puoi fare e che non avresti potuto fare in altro modo" . Questi è con­ vinto che a un certo punto il suo giovane collega si sentirà tutt'uno

24.

Sui biologi strutturali e la performance del corpo, si veda Myers,

il ripiegamento proteico", nel presente volume.

"Riprodurre

3. DESICiN E SCIENZA ALLA FINE DEL MILLENNIO

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con la tecnologia; comincerà a "vedere attraverso la simulazione", nonostante la sua opacità. •s Le Gordon Research Conferences hanno rappresentato un forum di discussione internazionale per la presentazione della ri­ cerca di frontiera nei campi scientifici della biologia, della chimica e della fisica. A una di queste conferenze, tenuta nel 1965, il biologo strutturale Robert Langridge ha presentato una stazione di lavoro interattiva di grafica computerizzata per la visualizzazione e mani­ polazione di modelli molecolari ad un pubblico poco entusiasta di colleghi. Langridge ha ricordato che le obiezioni sollevate all'epoca riguardavano il fatto che le persone non potevano mettere le "mani su qualcosa, qualcosa di fisico, in modo da poterlo comprendere". Comunque non si è scoraggiato. In termini attuali, la biologia mo­ lecolare non aveva ancora la giusta "metafora di interazione" . Ha affermato: " Stare in piedi nel mezzo di una conferenza a mostrare filmati da 16 mm non era un buon surrogato dello stare davanti a un computer e utilizzarlo". Anche se le prime simulazioni erano lente, avevano già chiarito che le molecole sullo schermo potevano risultare convincenti: "Quando ho messo per la prima volta le mani su quella palla di cristallo al Progetto MAC muovendo quella cosa in tre dimensioni era davvero eccitante. Non c'è dubbio" !6 Mentre il virtuale cominciava a farsi sempre più manipolabile, e i movimenti sullo schermo sembravano accadere in tempo reale, i cristallografi iniziavano ad aprirsi alla possibilità di transizione dai modelli fisici a quelli virtuali. Con la nuova tecnologia, si aveva la sensazione di trattare direttamente con la molecola, una sensazione che non dipendeva dall'aspetto del modello, ma dalla facilità d'in­ terazione che l'utente aveva con la rappresentzione sullo schermo.Z7 25.

Workshop on Simulation and Visualization in the Professions,

MIT, maggio

2005. 26.

Robert Langridge, citato

in Eric Francoeur e Jerome Segai, "From Model

Kits to Interactive Computer Graphics", 418. Citato in Myers, "Molecular Embodi­ ments", 175. 27.

Sulla fisicità dei modelli si veda Francoeur e Segai, ibid.; Myers, ibid. e "Ani­

mating Mechanism"; Prentice, "The Anatomy of a Surgical Simulation"; e Yanni A. Loukissas, "Representations of the User in 3D Geometrie Modeling" paper presen­ tato al Meeting Annuale della Society for the Social Studies of Science, Pasadena,

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IL DISAGIO DELLA SIMULAZIONE

Nel 1977, il sistema di grafica molecolare chiamato GRIP (Graphics Interaction with Proteins) segnò un punto di svolta per la fluidità dell'uso. li GRIP dava ai suoi utenti più dell'illusione di una con­ nessione diretta tra modellatore e molecola; gli utenti sperimentava­ no il sistema come estensione protesica di se stessi in qualcosa che sentivano essere il mondo tangibile delle molecole sullo schermo.'8 È un effetto familiare a tutti quelli che giocano con i videogame. In una lezione sul ruolo della simulazione nella cristollagrafia delle proteine, la Griffin ha descritto la fisicità dei sistemi di model­ lazione di oggi. I sistemi di modellazione meglio progettati cercano di dare ai ricercatori la sensazione tattile e l'immediatezza che si aspettano lavorando con la modellazione molecolare.'9 Un utente siede di fronte allo schermo, spesso indossando degli occhiali 3D per potenziare gli effetti tridimensionali: "Così stai trascinando ma­ terialmente dei pezzi di struttura della proteina, di amminoacidi, per infilarli dentro [la molecola sullo schermo] . Li trascini e li infili. E poi con i tasti o il mouse, li aggiusti, muovi i pezzi in modo che si adattino. Quindi è come se lo costruissi materialmente con il mouse e gli occhiali 3D" .3° I cristallografi riportano di riuscire a sentire il modello nel loro corpo e che questo, a sua volta, rispecchia i modelli che manipola sullo schermo. l' 2005. 28. Myers, "Molecular Embodiments", 177. Si veda D. Tsernoglou et al., "Mo­ lecular Graphics - Application to Structure Determination of a Snake-Venom Neu­ rotoxin", Science 197, n. 43 1 1 (1977): 1378-1379. 29. Per la discussione di Natasha Myers sui produttori di modelli e questo senso di fisicità, si veda "Molecular Embodiments", 186. Per esaminare l'associazione in­ tima tra corpo e strumento per l'apprendimento ella ha attinto dal lavoro di Maurice Merleau-Ponty e Michael Polanyi, e ha sostenuto che Polanyi stesso si è formato come cristallografo e ha sviluppato elementi del suo pensiero sul sapere tacito in riferimento alla pratica cristallografica. Si veda Polanyi, Personal Knowledge: To­ wards a Post-Critical Philosophy (Chicago: University of Chicago Press, 1958). 30. Turkle et al., "Information Technologies and Professional Identity". Citato in Myers, "Molecular Embodiments", 178. 31. Per lo sviluppo di una "sensibilità per la molecola", si veda Myers, ibid. Sulla questione del "sentire" come modalità di comprensione, si veda Evelyn Fox Keller, A Feeling /or the Organism: The Li/e and Work o/ Barbara McClintock (San Francisco: W. H. Freeman, 1983); e Re/lections on Gender and Science (New Haven: Yale Uni­ versity Press, 1999).

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Non sorprende che, in relazione al computer, i singoli scien­ ziati esprimano individualità e differenze di stile. Alcuni vogliono usare gli strumenti più aggiornati, altri si crogiolano negli agi di strumenti virtuali molto più familiari e conosciuti.32 La Griffin ha detto che, nel suo laboratorio, i ricercatori tendono ad utilizzare i programmi che realizzano da soli o quelli su cui hanno imparato. Lei stessa usa un programma che ha composto da sola: "Perché ci sono così abituata, faccio le cose automaticamente. . . . Sono connes­ sa con quel software a tal punto che non devo pensare alla direzio­ ne. . . . Devo solo vedere come muovere il mouse per fare quello che voglio senza pensarci" . Tra le varie professioni, i software hanno iniziato a diventare sempre più uniformi e simili a scatole nere, anche se c'è una ri­ chiesta di strumenti non standardizzati che può soddisfare utenti con diversi stili intellettuali. Poiché gli utenti di oggi non possono cambiare cose fondamentali dei loro programmi, molti ritornano al fenomeno che negli anni '80 era noto come " customization", l'ado­ zione di piccoli cambiamenti che facevano sentire le persone più a casa. Oggigiorno, chi opera nell'ambito delle scienze naturali non parla molto del passaggio dai modelli fisici agli schermi dei com­ puter - questo treno ormai è passato. Ora si parla dello stress di muoversi tra diversi ambienti virtuali. La Griffìn sa che "costrin­ gere le persone a usare un programma uniforme" non funziona. I ricercatori stanno cercando una sottile connessione per rendere i software ciò che lo psicoanalista D. W Winnicott definirebbe un "oggetto transizionale", "un oggetto sperimentato come qualcosa

32. Si sentono connessi a particolari "metafore dell'interazione", le forme pre­ sentate dall'interfaccia uomo-computer. Un esempio non scientificio di "metafora dell'interazione" è dato, per esempio, dai desktop e dalle cartelle di file che le per­ sone utilizzano sui loro personal computer. In "Anatomy of a Surgical Simulation", la Prentice usa il termine "mutua articolazione" per descrivere il lavoro dei ricercato­ ri simulatori nello sviluppare simulazioni computerizzate efficaci per l'insegnamento dell'anatomia e della chirurgia. In questo caso il progettista doveva articolare il pazi­ ente modello e il corpo del chirurgo che avrebbe utilizzato quell'interfaccia per la didattica. Solo il corpo del modellatore può servire come template per queste con­ nessioni.

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di separato ma anche come parte del sé" .33 La Griffin ha descritto la delicata danza dello scienziato e la scelta della simulazione in termi­ ni che evocano Winnicott. Ha detto che i biologi devono lavorare con software personalizzati: "perché alcuni trovano più facili certi tipi di manipolazione. O forse è solo il modo in cui è organizzato un programma che lavora meglio con il loro cervello". n virtuale più usato o più amato inizia così ad assumere qualche qualità del reale. Ci sembra familiare, ci mette a nostro agio; riesce ad acquietare l'an­ sia di essere staccato dalla natura. INGEGNERIZZARE LE SCIENZE NATURALI

Nelle scienze naturali, gli ingegneri formati alla maniera classica, ma esperti in simulazione, si sono ritagliati un loro spazio accan­ to ai biologi. Questi ingegneri, con la loro esperienza in strutture e meccanica, apportano un loro modo peculiare di guardare alla natura, un modo che sperano di quantificare. La loro aspirazione è di riuscire un giorno a progettare e costruire le proprie molecole e cellule sintetiche. Gli scienziati utilizzano da tanto tempo metafore importate dall'ingegneria e dalla progettazione, come per esempio quando si riferiscono alle proteine come a "macchine molecolari" .14 Ma le attuali simulazioni li portano più vicino alle descrizioni algo­ ritmiche della vita. Gli scienziati/ingegneri di oggi si sentono frustrati dal fat­ to che la biologia è ricca di informazioni ma povera di dati. I loro esperimenti sono altamente specifici e ciò rende più difficile la condivisione dei dati, la possibilità di costruire un "meta-modello" quantificato. Gli ingegneri spingono verso convenzioni più condivi­ sibili; un ingegnere del dipartimento di biologia del MIT ha parlato malinconicamente di un "servizio manuale per la rappresentazione delle informazioni, n suo obiettivo è creare un kit di pezzi che gli consentano di progettare nuovi sistemi biologici nell'ambito della o

W. Winnicott, Playing and Reality (New York: Routledge, 1989 [197 1 ] ) . Sulla metafora delle "macchine molecolari", si veda Natasha Myers, "Modeling Molecular Machines", in Nature Cultures: Thinking with Donna Haraway, a cura di Sharon Ghamari-Tabrizi (Cambridge: I'viiT Press, 2009). 33· 34·

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simulazione. In quest'ottica, si potrebbero "indagare" i modelli bio­ logici per ottenere i dati, ma tutto questo è un sogno che richiede agli ingegneri di "organizzare le parti, le stime, i componenti" . Tali aspirazioni sembrano ricordare quelle degli architetti che inunagi­ navano di introdurre l'edificio nella macchina, diventando il suo "geometra".35 Se la biologia volesse porsi questo tipo di obiettivi, dovrebbe avere degli standard ingegneristici per codificare e comunicare le in­ formazioni. I biologi tradizionali temono che questi standard cam­ bierebbero ciò che cercano quando indagano la vita - cioè si preoc­ cupano che la visione del biologo venga plasmata dagli standard che la simulazione richiede. Al workshop della primavera 2005, la Grif­ fin ha descritto la sensazione di distacco che provava tra sé e uno dei suoi partner di ricerca, un biologo con una formazione in campo ingegneristico e informatico. In un progetto comune, l'ingegnere e i suoi studenti dovevano creare una simulazione di una molecola di proteina al suo livello minimo di energia. n loro programma ha prodotto un dato risultato, e la Griffin ha raccontato di averli visti "orgogliosi di se stessi", perché " avevano ottenuto questa favolosa struttura a bassa energia". Ma quando la Griffin ha verificato il loro risultato in base alla sua conoscenza delle proteine, si è resa conto che i suoi colleghi stavano presentando una molecola che non po­ teva esistere. Ho cercato di spiegare loro che le proteine non sono così. Ciò che avevano creato non esisteva tranne che in qualche proteosoma che la degradava, ma in questo caso non si trattava di una struttura. Ho portato loro dei libri e [gli ho mostrato] cos'era un'alfa elica e cose del genere, ma alla fine ci ho rinunciato. Non c'era possibilità di comunicare tra noi perché loro erano chiusi. n loro programma gli aveva detto che questo era il livello minimo di energia e quindi non avevano alcuna intenzione di ascoltarmi.

I suoi colleghi ingegneri vedevano un risultato; la Griffin ha cercato di interpretare la sua pertinenza. Nella sua opinione, gli in­ gegneri/modellatori non hanno una conoscenza sufficientemente 35·

ume.

In proposito si veda Loukissas, "Custodi della geometria" nd presente vol-

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ampia dei sistemi biologici; non capiscono quali sono i limiti di un sistema. n loro risultato era bello, ma il suo referente era la simula­ zione in sé. Per gli ingegneri/modellatori, la logica della simulazione aveva sorpassato la logica della natura. Ciò che la Griffin invocava qui è il riconoscimento, da parte dei suoi colleghi ingegneri, che i risultati della simulazione possano essere discussi alla luce della sua conoscenza di come sono le molecole. La sua opinione era che le molecole non potevano somigliare a quello che loro avevano realiz­ zato nella simulazione. Ma c'era una barriera alla comunicazione, "erano chiusi". Nel raccontare questa storia, la Griffin ha descrit­ to una "divisione enorme" tra sé e i suoi colleghi che operavano nell'ambito ingegneristico e informatico. Essi non riuscivano a porsi nella posizione di "mettere in discussione il computer" . Al limite, dal suo punto di vista, avrebbero perso interesse per la molecola se questa avesse sfidato la loro simulazione. Nei primi giorni del Progetto Athena, quando gli ingegneri parlavano di uno "spazio sacro" che doveva essere protetto dalla si­ mulazione, essi avevano indicato l'analisi strutturale. È significativo che per la Griffin, nel suo tentativo di comunicare con i colleghi in­ gegneri, la struttura fosse la prima cosa a cui si era interessata. ( "Ho portato loro dei libri e [gli ho mostrato] cos'era un'alfa elica"). Ma gli ingegneri con cui era in contatto non erano disposti a prestare attenzione alla comprensione della struttura tipica del sapere tacito dello scienziato esperto. Alcuni erano pronti a celebrare le magie della "rimediazione" , traducendo i gesti del mondo fisico in quello virtuale, come s e tutto ciò che passasse attraverso la rimediazione fosse illuminato. Negli anni '80, le simulazioni ti lasciavano manipolare quello che c'era sullo schermo; ora ti incoraggiano a entrare in quei mondi, o come ha detto l'architetto Donna Gordon: "a caderci dentro". Questi si­ stemi sono potenti ma richiedono una nuova disciplina. Abbiamo visto architetti e appaltatori che non verificavano i progetti fatti al computer in base a quella che era la realtà del cantiere e scienziati che trovano sempre più difficile sollevare lo sguardo dallo schermo. Sin dai primi giorni, la simulazione è riuscita a sedurre. Negli anni '80, Ted Randall si preoccupava che i suoi studenti di pro-

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gettazione al MIT stessero producendo per lo schermo - i cui li­ miti ora dettavano legge: "Non riesco a lavorare con tutte quelle curve di livello" diceva uno studente che non riusciva a combinare la realtà sullo schermo con quella in cantiere. Se ciò significa che, nella simulazione, i venticinque piedi di un sito vengono trascurati, allora pazienza. Vent'anni dopo, i colleghi ingegneri della Griffin non prendevano neanche in considerazione l'idea che il loro pro­ gramma potesse essersi sbagliato. Con il computer a disposizione per riprodurre il reale, la simulazione può assomigliare abbastanza al mondo.

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41 NUOVI MODI PER CONOSCERE NUOVI MODI PER DIMENTICARE

Vent'anni fa, progettisti e scienziati parlavano delle simulazioni come se potessero scegliere di usarle o meno. Oggi, ovviamente, non c'è alcuna possibilità di scelta. La teoria è testata in simulazio­ ne; la progettazione nei laboratori di ricerca prende forma intorno alle tecnologie di simulazione e visualizzazione. Questo vale per tut­ ti i campi, ma il caso delle armi nucleari è drastico perché qui agli scienziati è proibito condurre test nel mondo reale. Nel l992, gli Stati Uniti hanno messo al bando i test nucleari.' Negli anni precedenti, frequenti test, prima al livello del suolo e poi nel sottosuolo del Nevada Nuclear Test Site, avevano fornito ai pro­ gettisti di armi un luogo per condurre le ricerche di base. Attraverso questi test essi sviluppavano le loro intuizioni scientifiche oltre a convincersi ulteriormente che le loro armi funzionassero.' Inoltre, i test costringevano ad avere rispetto per la terribile potenza delle de­ tonazioni nucleari. Molti potevano attestare il potere trasformativo di tali testimonianze.3 Negli anni successivi al bando del 1992, i nuovi arrivati nel campo della progettazione delle armi nucleari avrebbero visto le esplosioni solo sullo schermo del computer e nelle stanze di realtà virtuale.4 Nella struttura di Lawrence Livermore e nei Los Alamos 1.

Sulla cultura professionale degli scienziati americani che testano le anni nude·

Nuclear Riter: A Weaponr Laboratory at the End o/ the Cold War (Berkeley: University of California Press, 1996); e "The Vìrtual Nuclear

ari, si veda Hugh Gusterson,

Weapons Laboratory in the New World Order", American Ethnologist 28, n. l

(2001): 417-437. 2.

Joseph Masco, "Nuclear Technoaesthetics: Sensory Politics from Trinity to the

Virtual Bomb in Los Alamos", Amencan Ethnologirt 3 1 , n. 3 (2004): 1-25. I test negli Stati Uniti sono stati condotti al livello del suolo tra il l945

e

il l962 e nel sottosuolo

tra il l963 e il l992. Richard Rhodes, The Making o/the Atom Bomb (New York: Simon and Schus· 3· ter, 1988). 4·

Gli scienziati che si occupavano delle anni nucleari non potevano più testarle

e conducevano buona parte delle loro ricerche nell'ambito virtuale. Al workshop del

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National Laboratories, alcuni dei sistemi computerizzati più potenti al mondo erano impiegati per simulare le esplosioni nucleari. Fino a poco tempo prima, queste simulazioni avevano luogo in due di­ mensioni; ora, si stanno muovendo verso il tridimensionale.5 In una stanza di realtà virtuale nota come CAVE, si può assistere "dall'in­ terno" a un'esplosione nucleare indossando degli occhiali 3D per godersela tutta e, potremmo dire con una punta di cinismo, "in san­ ta pace". 6 La mia storia della simulazione è iniziata con il Progetto Athena che aveva sede in un giardino, un atrio di vetro con i ficus; e finisce in una grotta, la CAVE, una realtà virtuale auto-contenuta. La simulazione nella CAVE è lì come "manifestazione" di un'esplo­ sione; coloro che ci lavorano si sono abituati a sperimentare nel vir­ tuale un'esperienza a cui non potrebbero mai soprawivere nel reale. Quando i test nucleari si sono spostati nel sottosuolo, è dive­ nuto più facile per i progettisti di armi prendere le distanze dalle potenziali conseguenze della loro arte. Nascosta, la bomba diventa­ va più astratta. Ma anche i test nel sottosuolo lasciavano dei crateri e producevano degli stravolgimenti sismici. Lasciavano il paesaggio pieno di cicatrici. Ora, con le esplosioni che hanno luogo negli hard MIT su simulazione e visualizzazione nella primavera 2005, il dibattito si concentrò naturalmente sul lavoro in simulazione. Tuttavia, ciò non significa che tutto il lavoro sullo sviluppo di armi venisse fatto virtualmente. C'erano esperimenti segreti dove il plutonio veniva fatto esplodere senza creare un'esplosione nucleare, le strutture dei Livermore Laboratories (il NIF) e quelle di Sandia (il Z.Pinch) utilizzavano il laser,

mentre una struttura a Los Alamos registrava istantanee ai raggi X dei "noccioli " all'interno delle bombe atomiche quando implodevano (il DARHT) - sempre in as­

senza di un'esplosione nucleare. Erano tutti modi indiretti per avere un'idea di ciò che accadeva all'interno di una bomba nucleare.



La Advanced Strategie Computer Initiative, che fa parte del nuovo piano

Nuclear Stockpile Program, supporta i laboratori perlo sviluppo di armi a costruire sistemi computerizzati sempre più avanzati in grado di utilizzare codici che gestisca­ no simulazioni tridimensionali delle esplosioni nucleari. I vecchi codici, ora in fase di aggiornamento, erano bi-dimensionali. 6.

CAVE è l'acronimo di Cave Automatic Virtual Environment. La CAVE di Los

Alamos è stata criticata perché avvertita come non più di un mezzo frivolo al servizio di una trovata pubblicitaria. La sua utilità come strumento di ricerca desta non poche preoccupazioni. Secondo l'opinione di un progettista di armi che ha partecipato al workshop del MIT nel maggio 2005: "A un certo punto, [la CAVE] è stata usata più che altro per lo spettacolo. Non so se un giorno diventerà l'attività principale. Ma per ora la usiamo quando arriva qualche personalità, per esempio il Principe di York".

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disk e nelle stanze di realtà virtuale, quanto ancora più difficile sarà per gli scienziati confrontarsi con il potere distruttivo del loro lavo­ ro e con le sue implicazioni etiche?7 Un progettista di armi di Liver­ more si è lamentato di aver sperimentato solo una volta il "riscontro fisico" dopo un test nucleare. Aveva "misurato con i passi il cratere" prodotto dallo scoppio. Questo lo aveva cambiato per sempre. I suoi colleghi più giovani non lo proveranno mai. 8 Questo scienziato senior è preoccupato degli effetti morali dello spostamento della ricerca sulle armi nucleari nello spazio vir­ tuale, ma lui e i suoi colleghi sono turbati anche dagli effetti che la virtualità può avere sulla loro scienza. Essi sostengono che "l'in­ tuizione fisica è una capacità che si vuole mantenere" e si preoc­ cupano che le reazioni entusiaste dei giovani progettisti alle nuove dimostrazioni eclatanti della realtà virtuale sono segno di troppa ingenuità. Uno ha detto: "I giovani progettisti accolgono qualsiasi cosa nuova affermando: "questo è molto meglio di quello che ave­ vamo prima. Possiamo anche gettare via tutto ciò che abbiamo fatto finora! " " Gli scienziati senior dei laboratori nazionali descrivono i giovani progettisti immersi nella simulazione come "dei guidatori ubriachi" . Nella simulazione, l'ebbro beato mostra meno giudizio ma pensa di fare meglio. li Dr. Adam Luft, un progettista senior di Los Alamos, ha mostrato addirittura compassione per i suoi giovani colleghi: le nuove regole li spingono a un salto nel vuoto. Non pos­ sono testare le loro armi perché devono lavorare nel virtuale e hanno a disposizione sistemi computerizzati i cui programmi di base sono 1· Anche i leader politici ora possono essere testimoni degli eventi nucleari solo attraverso la simulazione. Harold Agnew, direttore del Los Alamos Laboratory dal 1970 al 1979, una volta ha detto: "Credo fermamente che se ogni cinque anni i prin­ cipali leader politici del mondo potessero assistere a una detonazione in aria di una testata nucleare di diversi megatoni, il progresso sulle misure di controllo delle armi conoscerebbe una spinta significativa". Harold Agnew, "Vmtage Agnew", Los A/a­ mos Science 4, n. 7 (1983): 69-72. Oggi, le personalità e i grandi personaggi sono invitati ad assistere alle esplosioni nella realtà virtuale. Questo significa che, occhiali 3D alla mano, vieni portato a vedere qualcosa di simile a un video game da centinaia di miliardi di dollari la cui pretesa principale è di simulare un agente di morte reale. 8. Workshop on Simulation and Visualization in the Professions, MIT, ottobre 2003 . Tutte le altre citazioni di progettisti e ricercatori nell'ambito delle armi nucleari sono tratte dal workshop del MIT del maggio 2005.

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di difficile accesso. Luft stesso si fida solo se può accedere al codice sottostante un programma. Si sente frustrato dalla crescente opacità delle simulazioni nel suo ambiente di lavoro. Quando qualcosa va storto in una simulazione, vorrebbe "scavare" e verificare gli aspetti del sistema mettendoli a confronto. Solo un sistema trasparente "mi permetterebbe di andare al cuore di una simulazione". Ed è molto cauto nell'apportare qualsiasi modifica a un'arma se non compone personalmente il codice. Luft si preoccupa del fatto che quando gli scienziati non riusciranno più a capire i meccanismi interni di que­ sti strumenti, perderanno la fiducia nei loro risultati scientifici, una preoccupazione che rispecchia quella provata dai progettisti e dagli scienziati del MIT vent'anni prima.9 In tutti gli ambiti professionali, la simulazione, quando ha successo, dà la sensazione che gli oggetti digitali siano a portata di mano. Alcuni utenti trovano soddisfacenti queste interfacce. Altri, come Luft, interessati alla trasparenza, non sono così contenti. Non vedono di buon occhio i giovani progettisti che non si preoccupano di scrivere o di capire quanto meno il codice sottostante. Uno dei colleghi di Luft a Los Alamos ha descritto la sua "paura" per questi giovani progettisti: " [Loro sono] bravi a utilizzare questi codici, ma ne conoscono i meccanismi molto meno di quanto dovrebbero. La vecchia generazione . . . componeva i suoi codici a partire da zero. I giovani non scrivono i loro codici. Li prendono da qualcun'altro e fanno qualche modifica, ma non ne conoscono ogni parte". Poi parla con rispetto dei "codici più antiquati", quei vecchi programmi su cui poggiano le basi quelli nuovi. "Non si possono gettare via le cose troppo presto" ha affermato "C'è sempre qualcosa che puoi ricavare [dai codici antiquati] che ti aiuterà a capire quelli nuovi" . A Livermore, un leggendario progettista senior stava per an­ dare in pensione. Al workshop del MIT nella primavera 2005, i suoi colleghi hanno discusso di questo pensionamento parlandone come g. Luft vuole avere accesso ai programmi al livello dd codice ma non ama la programmazione. Vede se stesso come un'eccezione ndla sua generazione e dei suoi colleghi coetanei dice: "Tutti loro amano entrare dentro il sistema e daborare i loro programmi. Personalmente, ho scelto di non farlo". Workshop on Simulation and Visualization in Professions, MIT, maggio 2005.

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di un "duro colpo". Si preoccupavano che questa fosse più di una perdita della capacità di un uomo di apportare contributi scien­ tifici individuali. Egli rappresentava un sapere insostituibile sulla programmazione che era alla base della pratica corrente.'0 I suoi colleghi erano in ansia: "Ha una memoria così potente che tante cose fondamentali non le ha mai messe per iscritto. Come faremo a conoscerle? " . L a risposta al pensionamento imminente d i questo scienziato è stata la creazione di un movimento per videoregistrare lui e tutti gli altri grandi scienziati che stanno per lasciare il servizio. Non si tratta solo di una storiella o di una diceria. È piena di angoscia. Quelli che conoscono solo gli strati superiori della programmazione si sentono potenti perché possono fare cose incredibili. Ma dipen­ dono da quelli che possono andare più in profondità. Quindi coloro che si sentono più potenti si sentono anche molto vulnerabili. La progettazione di armi nucleari è divisa da netti marker ge­ nerazionali: alcuni progettisti sono cresciuti con la routine dei test nel sottosuolo, qualcuno li ha intravisti, altri hanno sperimentato solo le esplosioni virtuali. Alcuni progettisti sono stati formati per programmare da soli le proprie simulazioni, altri semplicemente "hanno agguantato il codice" di altri e non si lasciano minimamente sconvolgere dall' opacità. E tuttavia quando Luft riassume gli atteg­ giamenti verso la simulazione nel suo campo, chiarisce subito che esiste un'ampia g amma di opinioni che non possono essere ridotte a semplici criteri generazionali. Le culture nei laboratori di armi sono anch'esse in gioco. Per esempio, a Livermore, gli scienziati del­ la vecchia guardia che erano parecchio ostili alla simulazione sono diventati più positivi quando il laboratorio ha adottato una nuova metafora per la progettazione delle armi. Livermore ha iniziato a pa­ ragonare la progettazione di armi alla costruzione di ponti. Secondo questo modo di pensare, gli ingegneri non hanno bisogno di "testa­ re" un ponte prima di costruirlo: si ripone fiducia negli algoritmi del

10. Si veda Hugh Gusterson, "A Pedagogy of Diminishing Retums: Scientific Involution across Three Generations of Nuclear Weapons Science", in Pedagogy and the Practice o/Science, a cura di David Kaiser (Cambridge, Mass.: MIT Press, 2005).

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suo progetto e nel come è stato rappresentato nella realtà virtuale." A Livermore, il cambiamento di metafora ha fatto sembrare la simulazione una sede ragionevole per i test sulle armi. E a Los Ala­ mos, ci sono scienziati giovani che si sono scoperti critici convinti di un'immersione totale nella realtà virtuale. Uno ha detto: "Ero così abitutato a disegnare sullo schermo del mio computer. E fui sorpreso nello scoprire quanto poco avessi imparato dal [RAVE] ". (TI RAVE era il soprannome della tecnologia virtuale CAVE di Los Alamos). Questo progettista si lamentava di non riuscire a opera­ re analiticamente nel RAVE; altri hanno affermato che questo dava loro una sensazione di disorientamento di cui non riuscivano a libe­ rarsi. Nel RAVE, gli scienziati lavorano in un mondo chiuso con una sua rigorosa coerenza interna, dove non è sempre facile determinare cos'è più vicino al reale." Per alcuni degli scienziati più giovani, anche per coloro che erano cresciuti nel mondo dei videogame, il RAVE sembrava avere troppo una sua realtà. Nei vari campi esaminati, scienziati, ingegneri, e progettisti hanno descritto i vantaggi che la simulazione ha offerto - dagli edi­ fici che altrimenti nessuno avrebbe mai osato progettare ai farmaci che non sarebbero mai stati sviluppati. Ma hanno descritto anche l'ansia della confusione della realtà, quel "punto di rottura" dove l'osservatore perde il senso di ancoraggio al reale, e viene privato di qualsiasi riferimento ad esso.'3 E la stessa complessità delle simula­ zioni può rendere quasi impossibile la verifica della loro veridicità: 11. Gli architetti sono sensibili all'ironia legata all'uso della metafora dei ponti come fonte di rassicurazione sulla progettazione in simulazione. TI Millenium Bridge a Londra dell'architetto Sir Norman Foster, progettato in collaborazione con lo scul­ tore Sir Anthony Caro e gli ingegneri della Arup, è stato inaugurato nel giugno 2001. Durante i primi giorni tantissime persone si sono riversate sul ponte producendo un'oscillazione tipo pendolo. TI ponte è stato chiuso dopo tre giorni per essere ria­ perto solo nel febbraio 2002 quando ulteriori ricerche e test avevano risolto i prob­ lemi riscontrati. Sono stati installati dei regolatori di flusso sotto il ponte e degli altri pilastri tra il ponte e il fiume per ridurre l'oscillazione. Si veda http://www.bluffton. edu/-sullivanm/englandllondon/millenium/foster.html (accesso 28 1uglio 2008). 12. Si veda Paul N. Edwards, The Closed World: Computers and the Politics of Discourse in Cold War America (Cambridge, Mass.: MIT Press, 1996). 13. Workshop on Simulation and Visualization in the Professions, MIT, maggio 2005.

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"Semplicemente non puoi permetterti di controllare ogni singola equazione differenziale". Ha detto Luft. Poi ha fatto una pausa e ha aggiunto: " Semplicemente non puoi, ce ne sono troppe" . Nella progettazione delle armi nucleari puoi assicurarti di aver risolto le equazioni correttamente e che il tuo sistema abbia una sua coerenza interna. In altre parole, puoi fare una "verifica" . Ma poi ha conti­ nuato: "La validazione è la parte più difficile. Cioè, sei sicuro di ri­ solvere le equazioni giuste? ". Alla fine Luft ha concluso: "La prova non è un'opzione". BELLE IMMAGINI

Al workshop del MIT nella primavera 2005, l'astrofisico Peter Charles ha raccontato la storia di una bella immagine che aveva prodotto in simulazione. Era splendida, ma non corrispondeva a niente che esistesse nel mondo fisico reale. Charles stava lavorando a un problema scientifico, ma poi ha "fatto un errore" e quando lo ha inserito nei dati del disegno è venuta fuori quest'immagine avvincente. Quell'immagine, ha detto Charles "era davvero bella" . H a tracciato lo schema d i un'errore e h a creato un'immagine che "sembrava fantastica, ma era sbagliata". Ovviamente non si poteva utilizzarla in una pubblicazione scientifica - non si riferiva a nulla di reale - ma era così visivamente elegante che Charles non ha potuto resistere alla tentazione di pubblicarla sul suo sito. Qui, ha attrato l'attenzione di un network televisivo e di un ente di finanziamen­ to scientifico - uno l'ha utilizzata come logo, l'altro per i poster pubblicitari. La splendida ma inutile creatura della simulazione ora stava viaggiando per il mondo come un'icona della scienza. Charles l'aveva pubblicata come qualcosa di bello; e invece veniva lettta come qualcosa di reale, qualcosa di scientifico. Lo scienziato ha confessato: "Vedevo questi poster e rabbrividivo" . Charles è un eminente scienziato. Cosa lo ha incoraggiato a pubblicare un'imma­ gine che aveva senso sono nel mondo del computer? Al workshop del MIT, non ha presentato alcuna scusa per ciò che aveva fatto, ma ha cercato di spiegare cos'era accaduto. Ha spiegato quanto tem­ po ci aveva messo per creare quell'immagine ("L'ho messa sul mio

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sito perché ci avevamo impiegato tutto quel tempo per farla"). E ha parlato della bellezza di quell'immagine ("Avevo creato un'im­ magine meravigliosa, qualcosa che si vendeva"). Come scienziato, sapeva che avrebbe dovuto "!asciarla perdere". Ma come curatore di immagini, non voleva; può anche rabbrividire quando la vede mostrata come scienza, ma prova anche uno scomodo orgoglio per aver creato qualcosa di così bello. Vent'anni prima, Ted Randall del MIT aveva sostenuto che le persone prendono le distanze dalle stampe dei computer. Un pro­ gettista o uno scienziato non sentirà mai lo stesso tipo di legame con qualcosa che non reca il proprio "marchio distintivo". In un certo senso, Charles non si identificava pienamente con quella bella immagine riconoscendone il suo "marchio", perché era stato il com­ puter a renderla così attraente. Quando ha raccontato la sua storia al workshop, i colleghi hanno finalmente compreso che mostrare qualcosa di bello sul proprio sito poteva essere interpretato come una dichiarazione di apprezzamento artistico più che scientifico. L'immagine non ave­ va varcato alcun confine. Nata nel cyberspazio, era rimasta nel cyberspazio. Ma tutti sapevano quanto velocemente viaggiassero le simulazioni. Queste assumevano una propria vita. Le belle immagi­ ni della simulazione sono utilizzate continuaìnente per persuadere un'audience poco esperta.'4 Al workshop, Charles ha ammesso che la sua esperienza con l'immagine lo aveva scoraggiato. "Puoi vendere qualsiasi cosa se la presenti nel modo giusto. . . . Potresti anche presentare un risultato che è solo "spazzatura" ma, fuori dal contesto, i recensori non si accorgerebbero neanche della differenza" . Aveva chiesto al gruppo se la sua storia sulle "belle immagini" avesse rilevanza anche negli altri campi.'S Nell'aula, la sua domanda ha trovato risposta in un sì 14. Sulle immagini e il modo in cui viaggiano, si veda Joseph Dumit, " A Digitai lmage of the Category of the Person: Pet Scanning and Objective Self-Fashioning", in Cyborgs and Citadels: Anthropological Interventions in Emerging Sa'ences and Tech­ nologies, a cura di Gary Lee Downey e Joseph Dumit (Santa Fe: School of American Research Press, 1997); e Dumit, Picturing Personhood: Brain Scans and Biomedica! Identity (Princeton, N.J.: Princeton University Press, 2004). 15. Opere utili sulla simulazione e la seduzione includono: Richard Doyle, Wet-

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echeggiante. Tom Kinney, professore di aeronautica, ha sottolineato che talvolta le belle immagini possono portare ad effetti disastrosi. I piloti si "fissano sui loro schermi e sparano al bersaglio sbaglia­ to perché il display sembra così convincente" . Gli architetti hanno risposto alla domanda di Charles - "Una bella presentazione può far vendere un cattivo progetto? " - con la storia dell'hotel con la facciata in simil-limestone, un caso dove qualcosa che era stato pro­ gettato in simulazione era divenuto un problema, trasformatosi poi in emergenza. Nei primi giorni del Progetto Athena, gli architetti utilizza­ vano matite colorate per abbellire le stampe del computer. Dopo vent'anni di perfezionamento tecnologico, le cose sono andate in un'altra direzione. Ora la tecnologia persuade con eleganti immagini computerizzate. Tra le varie discipline, i ricercatori sono risentiti del fatto di essere incoraggiati a sprecare tempo nel produrre queste im­ magini. Facendo eco alle preoccupazioni degli architetti che creano bei disegni di edifici al computer prima ancora di progettarli, Diane Griffin si lamenta che nella cristallografia le belle immagini portano fuori strada perché danno l'impressione di un risultato finito anche quando la ricerca è nelle prime fasi. Un tempo ci voleva molto per riprodurre le immagini a nastro della struttura delle proteine; men­ tre venivano sviluppati, la loro grossolanità dava l'impressione che lo scienziato non fosse " davvero sicuro del risultato finale". Solo una struttura completamente determinata avrebbe dato una "figura ricercata" . Nessuno avrebbe investito il suo tempo per fare un bel disegno con incerta utilità. "Ora" ha affermato la Griffin:

waves: Experiments in Postvital Living (Minneapolis: University of Minnesota Press, 2003 ); Peter Galison, lmage and Logic: A Materia! Culture o/ Microphysics (chicago: University of Chicago Press, 1997); Edwards, The Closed World; Stefan Hehnreich, Silicon Second Nature: Culturing Artificio! Lt/e in a Digita! World (Berkeley, Cal.: University of California Press, 1998); Evelyn Fox Keller, Making Sense o/ Lt/e: Ex­ plaining Biologica! Development with Models, Metaphors, and Machines (Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 2002); Myanna Lahsen, "Seductive Simulations? Uncertainty Distribution around Climate Models" , Social Studies o/ Science 35 (2005): 895-922; e Sergio Sismondo, "Models, Simulations, and their Objects" , Sci­ ence in Context 12, n. 2 (1999): 247-260.

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Puoi realizzare quelle figure ricercate in due secondi. ll programma macina tante belle figure e quando ne mostri una, la gente inizia a dire: "Oh, è già tutto fatto !

"

E tu stai n e ribatti: "Ci sono un po' di incoerenze, ma non ci

pensate. Ci sono barre di errore ! Non è ancora finito! È solo un abbozzo, un'idea ! " Ma loro continuano: "Sembra già fatto perché da l'idea di come sarà bello". Così noi ora realizziamo intenzionalmente delle figure brutte per dimostrare che i disegni non sono ancora completi, perché altrimenti

non ci ascolterebbero mentre li guardano [risate in sottofondo] . Gli devi

mostrare qualcosa di brutto se non vuoi che si convincano di qualcosa e ci credano per sempre.'6

Ascoltando il racconto di come la Griffin degradi intenzio­ nalmente le sue immagini per convogliare un senso di incompletez­ za, Luft ha sottolineato che alcuni scienziati nel suo mondo fanno l'opposto. Essi utilizzano la simulazione per abbellire ciò che non è stato ancora messo alla prova in modo che sembri vero. Non lanciano degli avvertimenti in modo da andarci coi piedi di piom­ bo, ma rendono la cosa così bella che tutti ci credono . . . . Siamo onesti, le immagini sexy vendono. Buona parte del mio lavoro consiste nel riuscire a rendere più sexy le immagini. Ho parlato con uno sponsor di un'orga­

nizzazione di ricerca che dovrebbe restare anonima. Mi hanno detto che la prossima visualizzazione che gli consegno deve essere sfavillante.

Luft non vorrebbe dover impressionare i suoi colleghi con "immagini sexy". Ma i suoi finanziatori lo richiedono e, di fatto, gli hanno chiesto specificamente di produrre qualcosa di sfavillante. Gli scienziati e progettisti riuniti al workshop del MIT nella primavera 2005 vivevano in maniera conflittuale la loro relazione con i prodotti della simulazione. Charles si sentiva abbastanza di­ stante dalla sua bella immagine da pubblicare qualcosa che sapeva essere senza significato. La Griffin vuole allontanarsi dalle sue bel­ le immagini perché le trova troppo convincenti. Così aggiunge un po' di bruttezza ai risultati delle sue simulazioni per segnalare che si tratta di qualcosa di non ancora finito. Luft prende le distanze quando deve aggiungere alle sue immagini un po' di scintillio per farle vendere. Ma anche quando gli scienziati si sentono alienati dal16.

2005 .

Workshop on Simulation and Visualization in the Professions, MIT, maggio

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le richieste del loro pubblico, compiacerli è gratificante. Le simula­ zioni di successo lusingano anche i più critici tra loro. DAL Ci lARDI NO ALLA CAVERNA

Abbiamo iniziato con una domanda ispirata da Louis I. Kahn: "Cosa vuole la simulazione? " Abbiamo visto cosa sembra volere la simulazione - attraverso la nostra immersione, vorrebbe proporsi come un sostituto del reale. I docenti di architettura che hanno progettato il Giardino del Progetto Athena sognavano una comprensione trasparente del pro­ cesso di progettazione; oggi gli scienziati si sono rassegnati all'opa­ cità e vedono solo le ombre di una caverna, la CAVE. Negli ultimi vent'anni, la simulazione ha introdotto i suoi ambienti accecanti e noi siamo stati testimoni della sua opera di seduzione. Un ingegnere meccanico avverte apertamente i suoi studenti: "Non lasciatevi in­ gannare dalla grafìca" .'7 Luft afferma che i codici belli promuovono }'"illusione di fare davvero della grande scienza". Kinney insegna "controllo e supervisione umana" per vaccinare gli studenti contro i colori abbaglianti e gli stili amm alianti dei display per il controllo del traffico aereo. Quando la simulazione finge di essere reale, gli edifici sembrano finiti prima ancora di essere stati progettati com­ pletamente e gli scienziati non trovano alcuna difficoltà ad accettare molecole "impossibili" che trovano posto solo sullo schermo. La precisione del computer è erroneamente scambiata per perfezione. La fantasia, viscerale in natura, è che i computer servano da garan­ ti, da "macchina correttiva". Kinney l'ha messa in questi termini: "Mentre la tecnologia diviene sempre più sexy, il problema è che noi ci lasciamo lusingare, ci lasciamo sedurre, e alla fine ci ritroviamo con dei risultati che sembrano buoni ma in realtà fanno schifo" .'8 17. Natasha Myers, fieldnotes, autunno 2003 . Citato in Sherry Turkle, Joseph Du­ mit, David Mindell, Hugh Gusterson, Susan Silbey, Yanni A. Loukissas, e Natasha Myers, "Information Technologies and Professional Identity: A Comparative Study of the Effects of Virtuality", in A Report to the National Science Fountktion on Grant No. 0220347 (Cambridge, Mass.: Massachusetts lnstitute of Technology, 2005). 18. Workshop on Simulation and Visualization in the Professions, MIT, maggio 2005.

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Ma gli scienziati come Luft ci mostrano anche un altro lato di cosa vuole la simulazione. Forse potremmo dire, senza ironia, che è ciò che la simulazione davvero vuole - non sostituire il reale ma svelarlo. Luft ha descritto il paradosso della simulazione in questo modo: "So che non è giusta, ma poiché ho la simulazione di qual­ cosa di testato con i relativi risultati, posso fare degli adattamenti e delle predizioni su cosa è sbagliato" . H o chiesto a Luft come è riuscito a dire al suo direttore di laboratorio che le "simulazioni sono sbagliate". Come si è con­ frontato con questa realtà sovversiva? Mi ha risposto: "li modo più gentile per esprimere tale concetto è che una singola simulazione che non sia validata da dati applicabili non può essere considerata affidabile" . Ciò che risuona più forte nella risposta di Luft è proprio quello che non dice. Lui sa che il problema non riguarda una sola simulazione, ed è convinto che anche il suo direttore di laboratorio lo sappia bene. Insieme, lavorano con la simulazione e inventano delle storie sul suo utilizzo. Come ha detto Luft: "Le simulazioni non sono mai giuste. Sono tutte sbagliate. Arrendetevi. È così. Sono sbagliate. Garantito. C'è più entropia nel mondo reale di quanta ve ne sia nel vostro computer. È così e basta". Ciononostante, ogni anno, continua: "si possono utilizzare tutti quei dati" tratti dalla simulazione e inserirli in un "documento di valutazione annuale" e "ogni anno i direttori di laboratorio dicono al presidente che tutto va bene. . . . Ecco quello che facciamo . . . e la morale in tutto questo è che le simulazioni sono sbagliate, finora" . Quando Luft afferma che le simulazioni sono sbagliate, vuole dire che sono incomplete. Quando pone la simulazione accanto al reale, lo fa per mettere ancora più in rilievo il reale; gli errori della simulazione rafforzano la sua visione di dove risiede il reale. Ma, come gli abitanti della caverna di Platone, Luft, nella sua CAVE, co­ nosce la realtà attraverso le ombre che getta. Egli ha descritto come si è servito di queste ombre. Luft non vede la simulazione come un mezzo per stabilire cosa è "vero", piuttosto la usa per impegnarsi in un dialogo con il codice. "Una delle principali capacità [nella simu­ lazione] è quella di riuscire a identificare le simulazioni aggiuntive

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che si possono avere e che permetteranno di stabilire se il codice [con cui si sta operando] sta funzionando in maniera appropriata . . . o se c'è qualche segno della presenza di un bug o di un errore" . Allo stesso modo, i l biologo del MIT Dean Whitman h a insistito sul fatto che la simulazione è necessaria per produrre errori in modo da testarla rispetto alla realtà, per capire cos'è sbagliato. Se otteniamo una simulazione giusta, non capiremo mai cosa è esatto. Bisogna che sia sbagliata per capire cosa c'è che non va.'9 Whitman, come Luft, articola una disciplina di estrazione del­ le informazioni da modelli inaccurati. Entrambi si avvicinano alla simulazione come a una macchina affidabile per la produzione di errori. Un modello inaccurato genera un'ipotesi interessante, che poi può essere testata. Al workshop del MIT nell'autunno del 2003 , Whitman ha riassunto questo concetto dicendo che le sue simula­ zioni di ricerca non sono rappresentate da belle immagini ma " da quelle più brutte e complicate. Queste hanno tante imperfezioni ma sono davvero utili per la ricerca" . Quando Whitman e colleghi si confrontano con queste brutte immagini, si aspettano di trovare gli errori della simulazione e di farci qualcosa di costruttivo. Dal Giardino alla CAVE, il concetto di una "distanza critica" verso la simulazione è stato trasformato. In questi giorni, per gli utenti più raffinati della simulazione, mantenere una distanza critica non si­ gnifica più restare vigili per proteggere la simulazione dall'errore. Si tratta piuttosto di vivere con le ombre che ci portano più vicini alle forme che vi stanno dietro. Whitman ha sintetizzato questo punto quando ha parlato del­ la necessità di essere molto chiari su cosa la simulazione non può fare. Non ti può allargare la mente. Lo scienziato deve sempre chie­ dersi: "Fino a che punto un modello ci limita a produrre iterazioni invece di aprire le nostre menti a nuove domande? "2° Come scien­ ziati, dobbiamo cercare sempre quello che c'è dietro a ogni modello: Se hai

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un

martello, tutto ti sembra

chiodo. . . . Così se hai

un

modello

Workshop on Sirnulation and Visualization in the Professions, MIT, ottobre

2003 . 20.

un

Ibid.

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o una certa capacità, e vieni a lavoro ogni giorno, o cominci a mettere giù qualche proposito . . . dici a te stesso: "Accidenti, che tipo di strana idea posso farmi venire in mente oggi?" o "Caspita, mi sembra di vedere qual­ che chiodo, dovremmo iniziare a darci dentro di martello". Ecco come la vedo. In laboratorio bisogna trovare un compromesso tra l'una o l'altra cosa da fare.

Per Whitman, la parte difficile inizia dalla resistenza che bi­ sogna opporre alle belle immagini. Al workshop del MIT dell'au­ tunno 2003 , gli è stato chiesto di descrivere il potere emotivo delle visualizzazioni molecolari. Whitman ha insistito sul fatto che la cosa più importante è essere vaccinati contro il loro richiamo: "Quan­ do ho iniziato io . . . la gente avrebbe mostrato delle immagini di modelli biologici dicendo: "Ora capiamo" . E io avrei detto: "No, non capiamo. Abbiamo delle immagini, abbiamo un punto di par­ tenza da utilizzare per poter capire". Whitman opera in una sorta di partnership informata con la simulazione. Questa genera realtà alternative e gli consente di fare esperimenti che altrimenti sarebbe­ ro impossibili. Ma le limitazioni di questi esperimenti lo umiliano. Whitman fa progressi censurando la simulazione, aumentando la sua comprensione di ciò che essa non ti può dire e, alla fine, si affida al giudizio umano: "Ho bisogno di un essere umano per capire per­ ché il modello dice ciò che dice e per valutario" . In risposta a Whitman, l a Professoressa Roberta Drew, che insegna chimica organica, ha presentato la sua visione della simula­ zione censurata. La Drew utilizza sonde complesse per determinare le forze e i campi energetici delle molecole. Ella apprezza il punto in cui la simulazione ha portato la sua disciplina: "Ha dato al chimico e a chi lavora al microscopio - non voglio dire un "senso di anni­ potenza" - ma quanto meno la sensazione di poter entrare dentro le molecole e di toccarle e di poterei lavorare su, una a una". Ma ammette anche che le sue conoscenze più profonde non proven­ gono dai modelli: "Quante volte" si chiede "avete sentito la storia di qualcuno che medita su una visione ispiratrice [che gli è venuta] guardando le nuvole? " Così descrive il momento di illuminazione in cui "completamente fuori dal contesto" qualcuno ha un'idea, "senza dover riprodurre il modello ancora e ancora" anzi "un po'

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in controtendenza al modello iterativo, qualcosa che sembra venire fuori dal nulla" . In quel momento, ci sentiamo un po' Dio, un po' bambini. L'illuminazione viene fuori dalla simulazione, dal disagio, e dal nulla.

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SITI DELLA SIMULAZIONE: CASI STUDIO

SPAZIO COSMICO E PROFONDITÀ SOTTOMARINE

CAPITOLO

S I DIVENTARE UN ROVER William ]. Clancey

Sono le 3 : 13 del mattino al Cratere Gusev di Marte, e il Mars Ex­ ploration Rover (MER) chiamato Spirit viene spento per la notte. n team di scienziati " che lavorano a Gusev" vivono il tempo marziano, ma, con un po' di fortuna, ora sono nel sonno più profondo in Ca­ lifornia.' n MER è un veicolo comandato a distanza e non è l'unico che si occupa dell'esplorazione di Marte al momento. Quasi al lato opposto del pianeta ai Meridiani Planum, un altro MER chiamato Opportunity fotografa la superficie di Marte ed esegue l'analisi dei minerali presenti. I trentasette scienziati "che lavorano ai Meridia­ ni" sono comodamente alloggiati nella sala riunioni al quinto piano del Jet Propulsion Laboratory di Pasadena. Grazie alla mia forma­ zione in roboÌ:ica e intelligenza artificiale, sto vivendo come se fossi su Marte insieme a questo gruppo cercando di documentare la loro missione. È un limpido pomeriggio di febbraio, ma siamo seduti in una stanza resa buia da pesanti tapparelle nere. Siamo con il nostro rover. Calcoliamo il tempo in base al numero di sol, le rotazioni del pianeta rosso, dall'atterraggio del rover; oggi è 25 sol, M25.1 1. I membri del team scientifico del MER sono noti pubblicamente; ma le con­ venzioni adottate in questo volume ci impongono di utilizzare degli pseudonimi. Le età si riferiscono al momento dell'atterraggio di Spirit su Marte, il 4 gennaio 2004. Sono in debito con i sei scienziati del MER che hanno condiviso con me le loro espe· rienze personali raccontandosi in diverse interviste e riesaminando il testo di questo capitolo. Oscar Biltmore, Bettye Woodruff, e Karl Trainor inoltre mi hanno aiutato ad orientartni durante la missione nominale al JPL nel gennaio·febbraio 2004. n team di etnografi del MER Hwnan-Centered Computing a cui mi sono rivolto alla NASA!Ames era composto da Charlotte Linde, Zara Mirmalek (University of Cali­ fornia, San Diego), Chin Seah, Valerie Shalin (Wright State University) e Roxana Wales; le loro osservazioni e le conversazioni che abbiamo avuto sono state cruciali per comprendere le operazioni del MER. Questo lavoro è stato supportato in parte dal sottoprogramma lntelligent Systems del programma Computing, Communica­ tions, and Infonnation Technology della NASA. 2. n periodo operativo inizialmente pianificato per una missione è noto come "missione nominale". Al 25 sol, Opportunity rientra ancora in questa fase e ci rien­ trerà per altri tre mesi. Durante la missione nominale il suo team scientifico vive a Pasadena. Nei sei mesi successivi, il team opererà a stretto contatto, ma connessi

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La prima riunione del sol 25 è consistita in brevi lezioni di una mezza dozzina di scienziati. Parlando attraverso microfoni wireless, hanno mostrato foto e grafici a colori con titoli del tipo "Location e cose da fare in Mineralogia" . Gli scienziati del MER siedono in gruppi, organizzati in quattro Gruppi Tematici Scientifici e un Gruppo per la Pianificazione a lungo termine. Più tardi nel corso di quel sol, il Gruppo di Lavoro per le Operazioni Scientifiche ha condotto un sondaggio tra i vari gruppi tematici per sapere cosa volevano che il rover facesse, quali comandi volevano dare a quel veicolo robotico. Questi comandi saranno poi convertiti in istruzio­ ni software della durata di otto ore che programmeranno le azioni del rover. Prima della fine del giorno, gli scienziati si accorderanno per ottenere una serie di istruzioni, nota come sequenza. Questa sequenza sarà comunicata a un team di ingegneri che prepareranno il codice informatico per l'esplorazione che il rover dovrà fare il giorno successivo. Una riunione di "fine sol" andrà ad analizzare i progressi compiuti durante la giornata, i piani per il giorno succes­ sivo, e gli obiettivi a lungo termine del gruppo. Oggi, sol 25, un mese dall'inizio della missione di Opportu­ nity, la presidenza del Gruppo di Lavoro per le Operazioni Scien­ tifiche ha tenuto una piccola lezione sullo strumento RAT (Rock Abrasion Tool), che serve come martello per un geologo, per ra­ schiare una superficie dura incidendo un cerchio. L'oratore ha mes­ so in guardia il gruppo dal raccogliere indiscriminatamente dati con il RAT, poiché la loro curiosità potrebbe portarli a ignorare la disciplina che vuole la verifica delle ipotesi scientifiche. "Quando pensiamo a come approcciarci a un dato risultato, il nostro pensiero

elettronicamente, perché fisicamente i membri saranno nelle rispettive sedi istituzi­ onali. Negli anni che seguono, i vari membri si sparpaglierann o. D mio rapporto si basa sulle osservazioni dei team scientifici MER raccolte nel 2004 e su interviste di follow-up condotte alla fine dell'estate del 2006 con sei scienziati del MER che si oc­ cupano di diversi aspetti del programma e che sono in fasi diverse della loro carriera. In generale, i membri del MER sono scienziati planetari concentrati sull'esplorazione del sistema solare. Ma ciascuno ha tentato di dare una risposta più specifica alla mia domanda "Che tipo di scienziato è lei?". Dal punto di vista professionale, c'erano astro-geologi e specialisti in intelligenza artificiale e robotica, geologi planetari e bio­ geochimici.

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e le nostre discussioni dovrebbero basarsi molto sulla verifica delle ipotesi . . . . Non ci limitiamo a dire "vediamo qui il RAT" che ci dice, e "vediamo lì il RAT" che ci rivela; facciamo in modo che ci parli nei termini delle specifiche ipotesi scientifiche che vogliamo verificare". Perché è necessario fare lezione a questi scienziati - così esperti nel campo dell'esplorazione, scelti dopo una dura selezione per diventare membri del Team Scientifico MER, molti dei quali hanno lavorato già a tante missioni prima di questa - su come fare scienza? Lavorare con il rover controllato a distanza cambia la pra­ tica della scienza fatta sul campo in modi che rendono necessarie lezioni del genere, riconsiderando le pratiche intellettuali e le iden­ tità professionali. L'IDENTITÀ DI UN ESPLORATORE: DIVENTARE UN ROVER

Ho scelto di intervistare sei scienziati del MER che rappresentavano diverse generazioni alternatesi al programma spaziale, andando da quelli che avevano dedicato tutta la loro carriera alla NASA agli scienziati più giovani per i quali il progetto MER rappresentava la prima missione. Ottenere un posto nella squadra in missione della NASA è un'impresa altamente competitiva. Al di là della loro età, gli scienziati del MER vedevano il lavoro al progetto come il culmine della loro carriera, un'identità scientifica. Ed Dolan, 67 anni, aspet­ tava quest'opportunità da quasi 20 anni, un periodo durante il quale aveva "ormai perso ogni speranza di assistere a un'altra missione su Marte". Per Ned Rainer, 56 anni, il progetto "rappresenta l'apice di una carriera alla NASA. . . . Mi ha trasmesso una sensazione di conclusione per la maggior parte delle cose che stavo preparando, per conto della NASA, almeno 20 anni prima che fossero messe in pratica". Nan Baxter, 34 anni, la descrive come "un sogno che si realizza. . . . Per me è stata una vocazione proprio come accade a un missionario o a un prete. E sono stata davvero benedetta perché ho avuto l'opportunità di farlo". Oscar Biltmore, 44 anni, si sente anche lui felice e soddisfatto di far parte del team MER, soprattutto per la possibilità di "non arrendersi mai, e avere tante persone in­ tomo che ti aiutano, che credono in te". Bettye Woodruff, 40 anni,

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vive l'appartenenza al team MER come un'opportunità che segnerà per sempre la sua carriera. "Per chiunque ricevere quella telefona­ ta . . . Sicuramente è un momento fondamentale nella carriera di una persona, anzi nella vita". Ella ha spiegato come il gruppo consistesse soprattutto di professionisti di rilievo nei rispettivi campi: "Devo dire che quando ho visto la lista dei nomi per quella squadra mi sono spaventata un po' . . . . Ovviamente era un onore essere insieme a quelle persone" . I tre scienziati più giovani del gruppo MER, Woodruff, Ba­ xter e Biltmore, erano cresciuti nell'era della scienza planetaria, e sapevano da sempre di voler lavorare nel programma spaziale; i tre più anziani, Dolan, Rainer e Trainar, vi erano arrivati dopo aver fatto altro, geofisica, chimica, e intelligenza artificiale. Inoltre, data questa diversità, è strano pensare che solo due degli scienziati ave­ vano una laurea legata al campo della geologia - e facessero riferi­ mento a questa esperienza accademica come fonte significativa di conoscenze comuni. Lavorare con il rover cambia il senso che gli scienziati hanno della propria identità professionale. Gli chiede di essere più colla­ borativi. Nessuno otterrà meriti specifici per quel lavoro; i contribu­ ti dei singoli sono messi a servizio delle necessità del rover. Inoltre, i confini disciplinari sono erosi tanto che diviene poi difficile distin­ guere in modo tradizionale i "progressi compiuti in un determinato campo". Dolan descrive come l'attenzione sul MER offuscasse le divisioni tra le discipline: Vede, la maggior parte degli scienziati lavora in ufficio, con la testa china sulla scrivania, e una comunicazione limitata con i colleghi. Ma quando fai parte di queste missioni, devi collaborare con gli altri. Le teste devono lavorare tutte insieme. Bisogna trovare un accordo comune . . . e devi

im­

parare a conoscere gli altri. Non solo gli scienziati, ma gli ingegneri, e tutto

il gruppo.

La Woodruff è ben conscia di questa confusione e sovrap­ posizione dei ruoli e dei modi di operare. Come Biltmore, aveva frequentato l'università negli anni '80, dedicandosi soprattutto alla scienza planetaria. Ma mentre qualche anno fa era convinta della

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sua identità come geologa planetaria, ora pensava a se stessa come "un'esploratrice". La geologia fa parte di quell'identità, ma era sta­ ta portata a imparare molta più biologia per seguire il suo interes­ se, ossia quello di " capire Marte", l'obiettivo della missione MER. Questo incanalava l'energia degli scienziati in ciò che la Woodruff identificava come "lo spirito dell'esploratore" . La Baxter ha espres­ so la stessa sensazione, riconoscendo la sua identitià di esploratore: "Se fossi vissuta 500 anni fa sarei stata a bordo delle navi di Colom­ bo o Magellano. Ce l'ho nelle ossa l'esplorazione" . L a Baxter, il membro più giovane del team scientifico MER, che si è laureata negli anni '90, si vede come un'esploratrice con il "pallino della missione" . Sapevo d i avere questo pallino, il pallino della missione, già d a tanto tempo. Non ho seguito il percorso tradizionale di prendere la cattedra da docente e poi spostarmi nella ricerca . . . . Ho sempre voluto occuparmi di scienza del­ lo spazio .

. . . E la ragione per cui ho voluto farlo sta nell'aspetto esplorativo

dello studio dei pianeti, della scienza spaziale. Spesso ho detto di occupar­ mi di scienza spaziale perché non sono riuscita ad arruolarmi nella Flotta Stellare. [Due] cento anni fa, avrei potuto essere nella spedizione di Lewis

e Clark. Mi piace dawero il lato esplorativo di tutto questo, la scoperta. E le missioni sono una sorta di vetta dell'esplorazione.

Trainar, 54 anni, informatico, è uno dei due ingegneri presenti nel team MER e vede condensato il suo ruolo nel fatto di rende­ re più semplice il lavoro degli altri e accettare che "talvolta questo sembra un po' come pulire i pavimenti". Egli ha dovuto ripensare il senso del suo valore professionale nei termini della collaborazione con il rover. Qualche volta il codice che scrive per il MER lo mostra nelle sue vesti migliori (" A volte ho la sensazione di fare davvero . . . quello per cui sono stato formato, ciò che so fare"), e anche quando non è così, Trainar è supportato dalla sua identificazione con gli obiettivi della missione: "Sono tutto concentrato sull'esplorazione dello spazio, e questo significa fare tutto ciò che è in mio potere per farla funzionare. Quindi è da qui che vengo" . Quando si sono uniti al progetto, gli scienziati del :ME R non potevano sapere in anticipo come la loro esperienza si sarebbe adat­ tata alla missione di portare il rover all'esplorazione della superficie

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di Marte. Non era affatto d'aiuto pensare nei termini dei singoli campi di specializzazione. Più utile sarebbe stata una dedizione pragmatica al rover. Per Trainor, è stato facile porsi in quest'ottica, cioè quella di servire il rover: "cercando semplicemente di rendermi utile". Altri scienziati invece hanno trovato la transizione molto più difficile. Questa richiedeva di entrare in una nuova ottica professio­ nale in cui la propria formazione faceva parte del passato, qualcosa che ti aveva dato il lasciapassare per accedere alla missione ma ora non era più fondamentale. Uno scienziato ha detto che, dopo un certo punto, la pratica scientifica di catalogazione dei dati, ripetuta giorno dopo giorno "cercando di capire . . . beh, questa roccia mi sembra un'olivina più di quell'altra . . . e cose del genere, diventa noiosa". Ciò che resta eccitante è il fatto di essere un esploratore, un esploratore virtuale di Marte. Per dirla con Biltmore: "Abbiamo visto cose che nessun essere umano nella storia aveva mai visto, e io sono stato il primo a vederle! È questo che mi fa andare avanti". La Woodruff ricorda di voler essere sempre presente per il download dei dati che arrivavano dal rover e veniva a lavoro ore prima che iniziasse il suo turno: Mi ricordo . . . gli ingegneri correre verso la sala scientifica dicendo: "Hey,

Bettye, i dati stanno arrivando, vuoi venire a vedere? " ed essere lì a guarda­ re qualcosa che nessuno aveva mai visto prima nell'intero pianeta - questa sì che era esplorazione. Ed ecco perché questo non potrà mai diventare routine, ed è la ragione per cui voglio continuare in questo ambito.

Ogni persona che ho intervistato, dal più gio�ane al più vec­ chio, e in tutti i campi di specializzazione, parlava dell'importanza di trovare un posticino nel team del rover, di trovare un modo per rendersi utile in questo viaggio. Le capacità che essi apportavano al progetto non sempre erano quelle che servivano di più per tro­ vare questo posto all'interno del team. Dovevano imbarcarsi in un esercizio continuo di adattamento, auto-diretto e riflessivo. Cosa posso fare qui? Quali sono le mie capacità? Dov'è che posso dare il mio contributo?J Gli scienziati avevano sviluppato una visione della Donald Schiin, Educating the Re/lexive Practitioner (San Francisco: Jossey-Bass 3· Publishers, 1987).

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produttività che non si collegava alle misurazioni standard per la va­ lutazione dei contributi scientifici quanto piuttosto alla sensazione di come avessero servito la causa del rover. Quando identificava il proprio posto, ciascuno scienziato sembrava far trasparire un senso di piacere, o anche di sollievo. Biltmore ha descritto l'angoscia di uno degli scienziati che si era confidato con lui. "Questi gli aveva detto: "Perché sono stato scelto per fare parte del team se non posso essere d'aiuto?" e poi, evviva! Tre settimane dopo siamo atterrati nei Meridiani e una persona con la mia esperienza e preparazione si è resa subito necessaria" . In altre parole, ciascun partecipante è riuscito a trovare una sua identità nell'essere parte di qualcosa di storico e importante. Ciascuno di loro si sentiva obbligato a pensare e ripensare il suo io professionale per potersi sentire singolarmente rilevante, anche quando i contributi individuali erano nascosti die­ tro la comprensione di come operavano i sistemi. Equilibrando il desiderio di "adattamento" con la nuova cul­ tura scientifica, ogni persona che ho intervistato seguiva un proprio progetto scientifico personale oltre a quello che era il suo compito nella missione. Questi progetti personali fornivano un senso di re­ alizzazione individuale in un contesto che minimizzava i meriti dei singoli. E inoltre gli scienziati continuavano le loro normali vite pro­ fessionali come ricercatori, dove una carriera è una sorta di impresa con molteplici progetti e interessi. I vari aspetti del lavoro personale si intrecciavano in progetti di piccoli gruppi e di grandi comunità sia all'interno che all'esterno della NASA. La Rainer insegna in una piccola università e ha la soddisfa­ zione di poter apportare la sua competenza unica. La Woodruff e la Rainer si dedicavano a ricerche personali che integravano i dati MER con quelli di altre missioni spaziali. Biltmore aveva coniugato la ricerca sul campo nell'ambito della geologia terrestre con i suoi interessi planetari. Trainor mi ha sorpreso quando ha rivelato: "Tra­ scorro buona parte delle notti dei miei weekend a fare . . . software per la modellazione in fisica. Sono interessato al processo della sco­ perta e del perfezionamento dei modelli". Trainor, che sentiva di aver rinunciato alla sua identità professionale di informatico nella missione MER, ha utilizzato i progetti personali come modo per al-

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leviate l'ansia riguardo alla sua identità di ricercatore. "Poiché quei [progetti personali] fanno parte della mia vita, mi permettono di preoccuparmi meno del fatto di dover provare al MER che mi occu­ po di cose che la gente considererebbe ricerca di serie A". IL SURROCATO D I UN ESPLORATORE

Dolan ha partecipato a tutte le missioni su Marte, ma avverte un senso di disorientamento ora che lavora con il MER. ll rover ri­ chiede una nuova prospettiva: "Ho trascorso la mia intera carrie­ ra a guardare dall'alto in basso. E ora siamo quaggiù sulla terra. È un'esperienza molto diversa da quelle precedenti" . La tecnologia offre agli scienziati l'impressione di essere davvero su Marte. Bil­ tmore vedeva come ovvie le cose da fare ai Meridiani "perché tutto era là pronto davanti a me" . Al Gusev, si chiedeva dove fossero i ba­ cini dei laghi: "La gente iniziò a dire: "È sotto i nostri piedi". Quan­ do gli ho chiesto come vedeva il suo lavoro, mi ha risposto: "Ponevo anche me stesso là fuori nella scena, con il rover, con due stivaloni ai piedi, cercando di capire dove andare e cose fare. . . . Bastava assu­ mere sempre la prospettiva di essere sulla sua superficie" . E tuttavia la nuova prospettiva poteva portare anch'essa a sperimentare queste perdite di orientamento. Per Dolan, che era abituato alle "grandi immagini" che aveva dalla visione orbitale, "quando scendevamo sulla superficie (questa è la mia sensazione personale) mi sentivo un po' a disagio per questa prospettiva ristretta della scienza" . Per Dolan, introdurre i risultati del MER in un contesto più ampio ri­ chiedeva molto lavoro. Lavorare con un rover MER imponeva di andare avanti gior­ no dopo giorno per anni, pianificando le sue azioni e interpretando il materiale che trasmetteva alla terra mentre si muoveva di qualche metro al giorno o restava praticamente fermo per mesi a studiare le rocce. Gli scienziati del MER erano diventati premurosi, votati a questo sforzo quotidiano, lo sforzo di prendersi cura del MER. Ma se ci si comincia a prendere cura di qualcosa di inanimato, si finisce

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con l'affezionarcisi.4 Lo studio sull'esperienza del rover condotto nel 2005 da Steve Squyres - Squyres è il principale studioso del lavoro del MER che ha documentato quest'esperienza - fa molti riferimenti agli scienziati del MER che parlano del rover in prima persona e fanno cenno alla sensazione fisica di "essere là", una sensazione spesso prodotta dal lavorare con il MER. ( "Mentre ci facevamo strada tra le pianure [di Marte] . . . . Siamo arrivati al cratere Endurance. . . . Dove siamo noi adesso" .5) Ho pensato a questo mentre parlavo con la Baxter, che ha sintetizzato la decisione che il gruppo doveva affrontare alla fine di ogni giorno a Pasadena: "Bene, proseguiamo o restiamo qua? " . I rover erano progettati per essere dei surrogati degli scienzia­ ti sul suolo marziano. Facendo riferimento al RAT, Squyres ha det­ to: "Il nostro rover doveva essere un robot geologo che operava sul campo. Quando vedi i geologi sulla Terra, hanno gli stivali, lo zai­ no e, soprattutto, hanno sempre la loro piccozza".6 Il microimager montato sul rover è analogo alla lente del geologo; le ruote possono essere programm ate per scavare delle trincee (come gli stivali del geologo che affondano nella mehna), una videocamera (pancam) è fissata sul rover quasi ad altezza d'uomo; una spazzola sul RAT può togliere via la polvere. Il RAT, la spazzola e il microimager sono montati su un braccio che ha un gomito robotico. Che può allun­ garsi e curvarsi. Nella fantasia, il rover diventa il corpo di ogni scienziato che lavora con lui. Il loro senso di connessione con questo dispositivo è viscerale. A parte questo, il rover funziona come il corpo del grup­ po scientifico nel suo complesso. Ogni giorno, quando gli scienziati decidono la sequenza di azioni da tradurre in codice informatico, stanno esemplificando le loro intenzioni nel MER.7 La sequenza Sherry Turkle, "Whither Psychoanalysis in Computer Culture", Psychoanalytic Psychology: ]o urna! o/ the Division o/Psychoanalysis, Amencan Psychological Assocza­ tion 21, n. l (Inverno 2004): 16-30. Steve Squyres, Roving Mars: Spin"t, Opportunity, and the Exploration o/the Red 5Planet (New York: Hyperion, 2005), 328, 334, 336. 4·

6. Ibid., 81. 1· Questo modo di procedere si oppone al modo in cui vengono gestiti i telescopi, tipo Hubble. Nel caso dei telescopi, le proposte di studiosi e piccoli gruppi che

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definisce in dettaglio quali strumenti dovrà usare il MER, quali "os­ servazioni" dovrà fare, dove dovrà andare e per quanto tempo. Essa determina quando e dove il rover deve scavare o deve restare fermo (per ricaricare le sue batterie solari, un momento che è stato definito "siesta"). La pratica della missione richiede agli scienziati di articolare le ipotesi che ciascuna osservazione è destinata a testare. Articola­ re queste ipotesi costringe gli scienziati a negoziare i loro interessi disciplinari perché devono condividere tra loro le risorse limitate e dare la priorità ai vari punti della ricerca, confrontandosi quo­ tidianamente con la possibilità che la missione possa terminare all'improvviso. E tuttavia i fini scientifici sono talvolta dettati dalla tecnologia che rende possibile la verifica delle ipotesi. L'importanza del fiume di dati che il rover genera è storica. Catturarli può essere logorante - al punto che sottrae tempo e attenzione dall'analisi dei dati stessi. Essere coinvolto nelle "operazioni" , nella raccolta quoti­ diana e sistematica delle informazioni, è eccitante, perché, come ha detto uno, dopo tutto è l'esplorazione di Marte. La conversazione di Biltmore sulle "operazioni" è infusa di un senso di eccitazione: Sono ancora molto coinvolto nelle operazioni, e sono la guida in campo geologico almeno per una settimana al mese . . . . Ma anche quando non sei la guida . . . . Lo faccio lo stesso per l'interesse e per l'onore di essere là, per stare al passo con i progressi fatti e vedere tutte queste foto che arrivano ogni giorno. Voglio dire, cavolo, siamo sul suolo di Marte!

La Baxter ha detto: Non stai solo usando una macchina costosissima, stai usando una risorsa limitata e stai anche facendo la storia della geologia . . . . Questi sono gli unici dati che otterremo da Gusev o dai Meridiani probabilmente per un periodo lunghissimo . . . . Abbiamo la grande responsabilità di assicurarci che la serie di dati raccolti sia completa ma anche il più convincente possibile.

All 'inizio della missione, gli scienziati non potevano essere sicuri che Spirit sarebbe sopravvissuto al viaggio di 1,5 miglia sulrichiedono osservazioni particolari sono presentate con mesi di anticipo. Qui, con il MER, gli scienziati si muovono all'unisono nella loro esplorazione di Marte, pren· dendo le decisioni ogni giorno e solitamente ottenendo i risultati entro pochi sol.

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le Columbia Hills. Come compromesso, il team aveva sviluppato un piano per acquisire dati sistematici (piano chiamato "verità al suolo") che sarebbe stato utile per calibrare le osservazioni orbitali. Questo piano cercava di porre rimedio alle preoccupazioni legitti­ me degli scienziati e dei team che si occupavano della strumenta­ zione che la "marcia forzata" avrebbe potuto impedire a Spirit di acquisire più dati scientifici prima di morire. Questa "indagine in movimento", con le osservazioni chiave ripetute ogni quattro sol, furono battezzate dalla Rainer "il quartetto sol". Ogni individuo che voglia proporre un'osservazione speciale deve articolare una ragione scientifica, teoricamente dovrebbe pre­ sentare un'ipotesi da testare. In pratica, soprattutto quando si arriva in un nuovo sito, indagini del genere possono anche ridursi al solo sforzo di caratterizzare i materiali. Non si tratta di ipotesi da testare ma, come per il colpo della piccozza che tenta di spaccare le rocce, sono solo tentativi degli esploratori di scoprire cosa c'è là. E così, nel rover che incarna i corpi degli scienziati e la loro curiosità in­ tellettuale, si può vedere la naturale estensione del loro entusiasmo da esploratori - entusiasmo che non sta ad aspettare formulazioni scientifiche finemente articolate, ma consente loro di rivelarsi nel fatto di "essere là". Quando gli ho chiesto com'era lavorare con un rover, Biltmo­ re ha descritto prima il senso di "frustrazione" avvertito attraverso il corpo del rover. Egli ha comparato ciò che il suo corpo avrebbe po­ tuto fare sulla superficie di Marte e quello che invece facevano que­ sti surrogati, i rover: " Sono così lenti e impacciati" . Ma dopo averci riflettutto, ha detto che una tale comparazione sarebbe "ingiusta", perché nel tempo umani e robot si sono fusi in un unico esploratore: Questi aggeggi sono stati i nostri occhi là fuori e le nostre gambe e le nostre braccia . . . . Questi rover? È stato una sorta di strambo legame uomo-mac­ china [ride] . Sono diventati un'estensione di ciascuno di noi, i nostri occhi o le nostre mani, e i nostri piedi anche. . . . La vedo in questo modo, è at­ traverso loro che stiamo assaporando, assaporando la roccia. È

. . . come se,

avessero preso forma dentro di noi, o se noi ci fossimo trasformati in loro.

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Biltmore e la Woodruff confermano questa sensazione di es­ sere divenuti "tutt'uno" con la macchina. Per Biltmore: "Vorresti solo poter salire su quelle rocce e poter superare quella cresta e arrampicarti su, e picchiarci sopra, e fare qualcosa". E anche la Wo­ odruff descrive un'esperienza simile. Quando le è stato chiesto di raccontare il suo rapporto con il MER, ha controbattuto: "Che ne dice della simbiosi? Bisogna immaginarsi sul campo, cosa farebbe lei se si trovasse lì? . . . " La Baxter ha spiegato: Talvolta vedrai le persone parlarne, sai "con una foto dietro" e le vedrai girare la testa. Ma è sempre, nell'inconsapevolezza totale, perché stanno pensando a se stesse, come se fossero sul campo, cosa cercherebbero di essere, cosa cercherebbero di vedere.

Quando Rainer ha descritto il processo di " diventare il rover" lo ha fatto attraverso uno scenario concreto: Gli scienziati vedranno un campione geologico di interesse e cercheranno di spostare il cor­ po del rover per raggiungerlo. Inizieranno a utilizzare diagrammi ingegneristici per collocarsi mentalmente nello spazio del rover, ma poi ha aggiunto: "Nel tempo abbiamo smesso di farlo soprattutto perché abbiamo acquisito padronanza del corpo [del rover]. Que­ sto ci ha proiettati chiaramente nel rover. È una capacità impressio­ nante della mente umana. . . . Che riesci a fare questo, che riesci a riprogrammare te stesso" . Queste proiezioni, "il collocarsi nel rover" , si verificano so­ prattutto quando gli scienziati formalizzano e visualizzano i piani per il giorno successivo nelle simulazioni computerizzate.8 n pro­ gramma "pianificatore dell'attività scientifica" consente di coman­ dare il rover puntando sulle immagini precedentemente catturate 8. La simulazione gioca un ruolo centrale nel programm a spaziale, andando dai modelli computerizzati delle traiettorie della navetta spaziale alle ricostruzioni fisiche in scala naturale delle cabine e dei moduli, alle camere e ai dispositivi che replicano la radiazione, il freddo, la micro-gravità, e il quasi vuoto dello spazio. La simulazione per gli scienziati del MER prevedeva diverse missioni al giorno per l'addestramento e la messa a punto delle operazioni, per i "banchi di prova" del rover e per mettere in pratica e verificare i comportamenti del MER. Concentrandosi sull'esperienza perso­ nale degli scienziati, il presente capitolo prende in considerazione sono una piccola parte della natura e dell'importanza che riveste la simulazione in tutta la pianificazi­ one e nelle operazioni della missione MER.

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e etichettandole, in modo che i target individuati siano registrati automaticamente in precise coordinate territoriali marziane in 3 D. Altri programmi poi convertono queste sequenze target e strumen­ tali in movimenti e direzioni specifiche del braccio e degli strumen­ ti. Attraverso questo stretto connubio di immagine, target e feed­ back, i piani sono attuati in maniera trasparente attraverso percorsi di esplorazione, in modo che gli scienziati si possano muovere per diversi giorni attraverso panorami enormi dove affiorano rocce par­ ticolari per poi visualizzare una manciata di granuli ad alta risolu­ zione. Mentre il rover si sposta in avanti, le immagini di ritorno sono sempre più dettagliate; le telecamere riorientate consentono agli scienziati di fare delle distinzioni che gli interessano (Quella parete rocciosa lassù è stratificata? Ah, sì, è stratificata - questi sono depositi eolici o strati del letto di un fiume?) e di fare progressi nella loro comprensione di come si sono formate le rocce e il terrenno nel corso dei millenni. L'uso della simulazione è così prevalente nel­ la missione MER, a quanto sembra, che Rainer ha detto, anche se in modo informale e sottinteso, nei gesti e nell'immaginario: "C'è qualcosa lassù di nostro interesse. . . . ci pensavo ieri. Riusciamo an­ cora a vederlo? Cosa si può vedere se guardiamo lassù?" Lavorando con un rover duplicato all'interno del Jet Propulsion Laboratory, gli scienziati hanno simulato anche come si sarebbe comportato il vero rover - compensando così l'impossibilità di toccare, vedere o ma­ nipolare direttamente le cose che ci sono su Marte. Nel coordinare il lavoro di questa macchina attraverso un'ampia g amma di modelli fisici e computazionali, la proiezione dell'io come rover è un modo rappresentato di sintetizzare le diverse fonti di informazione.9 Così vicini alla sensibilità e alla mobilità del rover, gli scien­ ziati riportano i suoi movimenti come se fosse un'entità dotata di intenzione. "Spirit è andato . . . " o "Opportunity ha indagato . . . " . Come s e avessero delle catene alle caviglie, i membri del team si muovono all'unisono sulle pianure di Marte, guardando e sondando g. In Educating the Reflexive Practitioner, Donald Schi:in ha sottolineato come i progettisti coordinano efficacemente lo sviluppo di concetti con gli artefatti e i mod­ elli fisici attraverso un processo riflessivo e iterativo di manipolazione del "vedere come" e della •conversazione con i materiali".

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le rocce come un corpo solo. (Ovviamente, si avverte una certa ten­ sione. Talvolta parlano come se fossero una cosa sola con il corpo del rover, altre volte come se la relazione fosse di tipo genitoria­ le, come in questa osservazione di Squyres: "Spirit e Opportunity sembravano impauriti, si lasciavano facilmente intimidire restando immobili davanti alle piccole rocce. . . . Ma il nuovo software li do­ vrebbero rendere più astuti e più coraggiosi").'0 Rainer parla di "riattrezzare" se stesso, la Baxter di un "cam­ biamento di forma" e la Woodruff di "simbiosi" , ma stanno riferen­ dosi tutti alla stessa cosa - in sintesi, erano diventati quel rover. Non è come una navicella che atterra sul suolo di un pianeta, prendiamo ad esempio il Viking nel 1976; questa stabilisce una presenza è vero, ma per il rover è differente, ha detto Biltmore: "È un passo oltre al semplice fatto di essere lì". Lavorando dall'orbita: " Sei più distac­ cato e distante" . n rover può trovarsi solo i n un posto alla volta. Quando gli scienziati hanno diversi impegni da programma , bisogna prendere decisioni difficili. La mente del rover emerge quando gli scienziati negoziano le loro differenze. Ogni dibattito sulle azioni del rover deve terminare con il raggiungimento del consenso. Ogni dibattito deve terminare con una decisione su una sequenza concreta del co­ dice computerizzato che guiderà le azioni del rover. Ogni fase deve essere articolata. Biltmore dà questo resoconto del dibattito riguar­ do all'opportunità di far muovere Spiri t in senso orario o antiorario intorno a una piccola formazione rocciosa: Eravamo in teleconferenza, una riunione di fine sol . . . una discussione

al­

quanto accesa. . . . Ho alzato un po' la voce per sostenere la tesi di muoversi in senso antiorario intorno a Home Plate . . . . Probabilmente è stata la di­ scussione più accesa e dettagliata nell'intera missione su Gusev. . . . Abbiamo finito con lo scegliere il senso orario, innanzitutto, per questioni di sicurez­ za. . . . Non si può obiettare nulla al riguardo. Ma eravamo tutti così preoc­ cupati della diminuzione di potenza, perché stava arrivando l'inverno. . . . Cosa sarebbe successo se ci fossimo fermati l à per scoprire che c'erano solo ombre e non saremmo riusciti a uscirne?

10.

Squyres, Roving Mars, 325.

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Anche la Woodruff era frustrata dal dibattito sul senso orario o antiorario: "Siamo qui con le cose più interessanti di Gusev a por­ tata di mano, e ci ritroviamo a dire "Ok, abbandoniamo la piccozza e andiamo ! " Se non troviamo un posto sicuro, dovremo smettere" . li commento della Woodruff incarna perfettamente il grado di connessione emotiva tra gli scienziati e ciò che accadeva su Mar­ te. L'idea che il rover potesse bloccarsi veniva sperimentata come una morte. Gli scienziati si identificavano così tanto con il rover che un ben noto astro-biologo di Marte aveva detto in conferenza: "I robot MER sono in realtà degli scienziati; funzionano come degli scienziati" .11 È significativo che gli studiosi sperimentino il loro lavo­ ro e se stessi come qualcosa di inseparabile da quella tecnologia che semplicemente ha accettato la scommessa al posto loro. Per questi scienziati, il rover aveva finito per rappresentare la missione nel suo complesso e, in effetti, parlare del rover era come parlare in sintesi della loro opera scientifica. Quando descriveva­ no il loro lavoro, parlavano di ciò che faceva il rover. I rapporti quotidiani raramente riportavano le attività degli scienziati, ma si concentravano piuttosto sulle azioni di quella macchina: " Spirit ha continuato a fare progressi nella campagna invernale di osservazioni scientifiche" .'2 Oltre alla convenienza di tali sintesi verbali, questo modo di parlare rifletteva il proiettarsi degli scienziati nella macchi­ na. Quando dicevano: "li rover sta esplorando" volevano dire "Noi stiamo esplorando". La perdita del contributo di un individuo alla collettività era resa sopportabile perché veniva condivisa in parti uguali e perché ciascuno scienziato si identificava con il rover, se­ condo una compensazione gratificatoria. Biltmore amava pensare a "un paio di stivali che affondavano nel suolo" immaginando quello che poteva vedere e raggiungere il rover; altri lo descrivevano con espressioni del tipo "sta inviando cartoline" , "sta diventando più coraggioso", "ha trovato delle prove", e "sta esplorando". Nessu­ no scienziato poteva arrogarsi dei meriti individuali per le scoperte 11. Discorso di Invito, Mars Society Annual Convention, Washington D.C., agos· to 2006. 12. JPL Spirit Update 25 agosto 2006, disponibile su http://marsrovers.jpl.nasa. gov/mission/status.html (accesso 21 ottobre 2008).

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realizzate nella missione, e tuttavia in queste frasi si può scorgere una sorta di auto-descrizione compiaciuta proiettata dentro la mac­ china. INTEGRAZIONE DI SnLI E LO SCIENZIATO PUBBLICO

L'incarnazione nel MER richiedeva nuove integrazioni tra diversi stili di pensiero - tra le diverse sensibilità scientifiche e tra le esteti­ che di scienziati e ingegneri. Per esempio, gli scienziati discutevano di quando andare e quando fermarsi in una data posizione, una de­ cisione che si traduceva in un numero determinato di misurazio­ ni da fare in quella data posizione. Dolan vedeva questi dibattiti restringersi solitamente a un conflitto tra i geologi e gli altri, con i primi che volevano sempre "arrivare in un posto più interessante", mentre i chimici erano quelli che non potevano mai guardare un pezzo di "suolo o di roccia senza volerlo analizzare". Dolan inter­ pretava la passione dei chimici per l'analisi come se emanasse dalle nuove strumentazioni messe a disposizione: "Visto che hanno que­ ste strumentazioni, vogliono usarle. E si vogliono fermare a ogni dannata roccia! " Biltmore usa il linguaggio della sua identità professionale per esprimere una frustrazione simile quando il rover si fermava troppo a lungo su quello che egli considerava un terreno poco interessante. Diceva: "Non mi intendo di petrologia, sono un geo-morfologo". Biltmore come Dolan, vedeva i geologi come caratterizzati da una grande divisione: "Potevi distinguere quelli che facevano ricerca sul campo e quelli che non appartenevano a questo gruppo. Perché un geologo sul campo poteva capire che valore aveva andare in giro e guardarsi intorno, e fare rilevamenti. Mentre tanta gente voleva solo starsene lì seduta ad analizzare anche il più piccolo granello di sabbia".'3 Quando gli è stato chiesto di completare la frase: "Lavorare con un rover è ? Rainer ha parlato di "lavorare con un team di . . .

13.

"

A tre anni e mezzo dall'inizio di questo viaggio, il conflitto "chimici" contro "geologi" si era ammorbidito parecchio, sebbene Biltmore volesse sempre andare e andare!

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persone . . . molte delle quali sono ingegneri". I team MER devono integrare diverse sensibilità scientifiche; devono anche tenere conto del desiderio irrefrenabile degli ingegneri di accudire e proteggere il rover.'4 Al Jet Propulsion Laboratory, scienziati e ingegneri della mis­ sione MER spesso lavoravano insieme, cooperando sempre e colla­ borando per risolvere i problemi. Ma i loro ambiti e i loro ruoli era­ no definiti chiaramente come in marina.'5 La separazione dei piani e delle stanze, con diverse chiavi e badge di accesso, formalizzava la separazione tra ingegneria e scienza come due attività vicine ma pa­ rallele. Gli ingegneri erano i costruttori delle macchine, i meccanici e gli autisti. Gli scienziati indicavano dove doveva andare la macchi­ na, dove doveva fermarsi, e cosa doveva cercare durante ciascuna fermata. Ecco la gerarchia; e tuttavia nelle riunioni serali del Science Operations Working Group, agli scienziati venivano fatte presenti le preoccupazioni e le limitazioni degli ingegneri. E questo ricorda­ va ai primi quanto dipendessero dai secondi. n gruppo si riuniva in una sala adattata ad ispirare diplomazia di alto livello. Ampia e con una forma ad U, includeva dei tavoli per i rappresentanti dei gruppi di studio e dei tavoli per gli ingegneri. Un dirigente della missione sedeva nella parte posteriore della stanza. Tutti i tavoli avevano del­ le luci rosse e dei microfoni incorporati. L'umore del gruppo si con14. Nella comunità della scienza planetaria, gli scienziati sono praticamente quelli che operano nei campi di inchiesta che indirizzano l'esplorazione spaziale, soprat­ tutto la geologia, la fisica, la chimica, la biologia, e l'astronomia. Psicologi, ergon­ omisti, e coloro che si occupano di scienze sociali sono spesso definiti specialisti dei fattori umani. Cosl il lavoro scientifico al di fuori della scienza planetaria è visto solo come strumentale. Per il MER, come per tutte le missioni di scienza planetaria, gli scienziati sono definiti come quelle persone che sanno come raccogliere e interpre­ tare i dati degli strumenti; la loro esperienza si collega allo scopo scientifico della tecnologia. Di conseguenza, gli ingegneri sono definiti come coloro che sanno come creare, testare, e controllare gli strumenti; la loro esperienza si collega alla produzi­ one e all'operatività della tecnologia. Si veda W. J. Clancey, "Fidd Science Ethnog­ raphy: Methods for Systematic Observation on an Expedition" , Fie/d Methods 13, n. 3 (agosto 2001): 223-243. 15. Si sa che si verificavano molti conflitti tra scienziati e ingegneri nelle spedizioni oceanografiche. H. Russe! Bemard e Peter D. Killworth, "Scientists and Crew: A Case Study in Communications at Sea", Man"time Studies and Management 2(1974): 1 12-25.

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centrava sul controllo del processo decisionale, e su come gestire le attrezzature. Scienziati e ingegneri scherzavano sul loro rapporto particolare in cui l'ingegnere è colui che offre servizi professionali e lo scienziato è il cliente. Mentre litigavano su chi doveva avere la custodia del rover, cercavano di stabilire quanto di questa tutela poteva essere aperto a discussione. In effetti, il gruppo riunito caratterizzava gli effetti del proprio lavoro con il MER come un tentativo di sanare la divisione discipli­ nare tra ingegneria e scienza. Essi sostenevano che operando con il rover avevano scoperto di potersi identificare molto di più con l'al­ tro. La Baxter ha detto a proposito: "Mi piacciono quei momenti in cui riesco a trovare un ponte tra scienza e ingegneria" . La Woodruff ha sentenziato che agli scienziati spettava il compito di spiegare cosa stessero facendo, agli ingegneri " di spiegare cosa avremmo visto". Come nella negoziazione di diverse identità da parte di scienziati di discipline differenti, così anche scienziati e ingegneri erano dispoti a mettersi insieme senza pretese perché sentivano di fare qualcosa che aveva un'importanza storica. Come ha detto la Woodruff: "La di­ mensione di ciò che stava accadendo lassù andava oltre gli interessi personali o anche quelli di gruppo. Era semplicemente una missio­ ne fantastica, e fare in modo che funzionasse era l'unica cosa a cui tutti pensavano. E se ciò comportava di accettare un compromesso del tipo "prendi e dai" andava bene lo stesso ". Al di fuori del crogiuolo dell'esperienza del MER c'era il volto pubblico della missione, che prevedeva conferenze stampa, recen­ sioni su riviste, e persino un film IMAX. Quello che i rover face­ vano ogni sol è stato documentato dal sito web JPL, con immagini rappresentative e spiegazioni del loro significato. Nel selezionare le prime foto dell'atterraggio, Squyres ha commentato: "Volevamo fare una buona impressione al mondo" .'6 O, come ha detto Dolan: "Questa storia è incredibilmente pubblica" . Mi ha raccontato che a volte quando sedeva in aereo: "Qualcuno si rendeva conto: Oh Dio! Lei guida quei rover! Eravamo tutti molto informati, era ec­ citante! Proprio eccitante, tutti seguivamo" . E Biltmore ha detto: 16.

Squyres, Roving Mars, 246.

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"Quando incontravo qualcuno che mi chiedeva cosa facessi, rispon­ devo l' "astrogeologo" , e subito dopo aggiungevo che lavoravo con i rover su Marte. Perché tutti sapevano di che cosa si trattava" . La Woodruff ha messo a confronto le sue esplorazioni con i viaggi alla scoperta del Nuovo Mondo: "cinquecento anni fa, potevi prendere una nave e andare a scoprire un altro posto . . . Lo documentavi, tornavi indietro e raccontavi la tua storia a un numero limitato di persone. La parola si diffondeva alla velocità di un cavallo, o della voce umana. Oggi sei miliardi di persone il 4 gennaio 2004 hanno scoperto un nuovo sito su un altro pianeta. Questa è l'esplorazione umana. Non umana perché c'erano degli umani lì, ma perché TUT­ TI noi eravamo lì, attraverso un robot ! " Biltmore, Trainar e la Woodruff hano raccontato storie lun­ ghe e dettagliate sulla notte in cui Spirit è atterrato su Marte. La Woodruff ha descritto l'atteraggio in questo modo: "A quel pun­ to . . . abbiamo iniziato a rotolare per tutto quel posto. È stata una corsa incredibile . . . molto personale. . . . C'era il lavoro di squadra, owiamente. Ma sì, posso dire che è stato un viaggio molto perso­ nale. Un viaggio molto personale". Squyres si sentiva sopraffatto dall'emozione quando i rover toccavano il suolo. "Era così bello, non potevo crederci quanto fosse bello. . . . Pancam era dawero su Marte dopo tutti quegli anni. Tutta l'intera dannata faccenda era su Marte. Scoppiai in lacrime" .17 Egli ha concluso il suo libro sulle missioni MER con il commento: "lo amo Spirit e Opportunity". 18 Ha confessato qualcosa che ha permesso di superare il pregiudizio secondo cui non si dovrebbero dire cose del genere sulle macchine, ma l'emozione lo ha sopraffatto. Queste macchine sono "i nostri surrogati, i nostri precursori robotici negli altri mondi".19 Gli scienziati coinvolti nelle missioni MER si identificavano con questi rover perché, come noi, loro si muovono, sentono, ra­ schiano la roccia, spostano le cose, fanno foto, e le inviano a casa. Per gli scienziati del MER essere membro di un team in missione è la realizzazione di un sogno personale, quello di fare l'esploratore. 17. 18. 19.

lbid. 251. lbid. 377. lbid. 377.

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E tuttavia, nel mondo indiretto della telescienza, questi individui erano stati formati in ambienti accademici e avevano imparato che per ottenere successi bisogna sacrificare la propria personalità e sof­ focare la propria voce individuale. Proiettando le loro identità nei robot riuscivano a rendere questo sacrificio sopportabile. Tutti do­ vevano essere anonimi, e allo stesso tempo ugualmente presenti nel robot, spostandosi con lui, qualche metro alla volta sulla superficie marziana. Per gli osservatori del progetto, parlare del rover come di qualcosa che va alla "scoperta" era semplicemente una antro­ pomorfizzazione. Per gli scienziati del progetto, era un modo per preservare la propria identità. Lavorare fianco a fianco ma difendere la propria disciplina, seguire le inchieste scientifiche private ed essere apprezzati per il posto che si ricopre nella squadra, ma tollerare la sottomissione della propria identità perché questo è un qualcosa di condiviso e perché tutti riescono ad esprimersi attraverso il rover: questa nuova scienza tecnologicamente mediata crea nuovi scienziati. Attraver­ so il rover essi forgiano una squadra che andrà all'esplorazione di Marte muovendosi come gruppo, dirigendo i loro robot attraverso l'ingannevole sabbia marziana e i profondi crateri rocciosi. Con le prime tecnologie, qualcuna orbitava silenziosamente attorno a un pianeta, qualche altra semplicemente si piantava sulla sua superficie, ma offrivano agli scienziati lunghi lassi temporali per considerare e formulare le loro ipotesi. n MER, con i suoi stivali che affondano nel suolo - che si muove, cambia prospettiva per confrontare nuovi territori - richiede un tipo di mentalità differente, un riorientamen­ to continuo del pensiero-in-loco. n "Fare scienza" si è trasferito in teleconferenza, nella manipolazione di immagini, e nelle analisi computerizzate che forniscono l'unico contatto con le rocce e la chimica di Marte, alienando così ulteriormente gli scienziati. Ciono­ nostante, ogni persona, nello scoprire un modo di partecipare alla relazione con la tecnologia robotica e i suoi prodotti, ha trovato un suo posto unico in un quadro più grande. n MER crea fastidio con le sue continue esigenze di alta ma­ nutenzione. Richiede una devozione quotidiana di tipo particola­ re. Gli scienziati devono occuparsene personalmente, giorno dopo

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giorno, anno dopo anno, fino alle prossime azioni del robot, e poi occuparsi ancora del fiume di dati che hanno raccolto. Una devo­ zione così totale richiede agli studiosi di organizzare con l'imma­ ginazione un nuovo "grande quadro" della scoperta attraverso la mediazione del MER. il rover è l'eroe di questo nuovo racconto. Nell'epica del rover gli scienziati riportano se stessi all'interno della storia del loro viaggio personale, in quella che deve essere, per il momento, l'esplorazione remota del nostro sistema planetario.

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CAPITOLO

6 1 PERCEZIONI INTERIORI Stefan Helmreich

Percepiamo il mare soprattutto come una sostanza in cui immerger­ ci. Dal "sentimento oceanico" di Freud - la nostalgia umana per la perduta comunione con la natura madre acquatica - alle immersioni contemplative di Jacques Cousteau e alla sua riverenza per il regno subacqueo, la cultura europea e americana è piena di immagini del mare come zona in cui i confini tra l'io e il mondo si dissolvono.' E, in effetti, qualche presenza totale e non mediata nelle profondità marine è divenuta un latore di segnali per l'oceanografia. Gli scien­ ziati del settore sono passati dal dragaggio con i secchi alla map­ patura del fondale marino con il sonar fino all'impiego attuale di robot comandati a distanza e sommergibili con presenza umana che riportano dei ritratti vivi del mondo sotto la superficie dell'acqua. Queste tecnologie fanno molto più che fornire informazioni. Come ha sottolineato l'antropologo Charles Goodwin, gli scienziati incon­ trano il mare attraverso una fitta boscaglia di apparecchi tecnologici che arrivano impacchettati con una serie di relazioni sociali - rela­ zioni spesso intessute già nella struttura delle stesse navi da ricerca! Sigrnund Freud, "Civilization and lts Discontents", in The Standard Edition of the Complete Psychological Works of Sigmund Freud, a cura di Jarnes Strachey et al.

1.

(London: The Hogarth Press and the lnstitute of Psychoanalysis, 1953-1974), vol. XXI; Jacques Cousteau con Frédéric Dumas, The Sz1ent World (New York: Harper and Brothers, 1953). Charles Goodwin, "Seeing in Depth", Social Studies ofScience 25, n. 2 (1995): 2. 237 -274. 1n base alle ricerche sul campo condotte negli anni '90 da una nave di ricer­ ca americana a largo delle coste del Brasile, Goodwin ha descritto come gli scienziati provenienti da diverse discipline collaboravano tra loro e con l'equipaggio per ripro­ durre delle immagini del mondo sottomarino. TI suo racconto mette al centro un pe­ zzo comune dell'attrezzatura oceanografica chiamato CTD, un blocco di sensori che generano letture della conduttività, della temperatura, e della profondità delle acque oceaniche (CTD è l'acronimo delle parole inglesi "Conductivity", "Temperature" e "Depth") che, tra l'altro, raccoglie anche campioni di acqua di mare quando viene calato in acqua da un verricello aporgente da un lato della nave. Nelle stanze dei co­ mandi a bordo, gli scienziati monitorano attraverso le schennate del computer i dati inviati dal CTD mentre il dispositivo viaggia a diverse profondità, una discesa che viene guidata in collaborazione con l'equipaggio che opera sul ponte, manovrando

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Al centro della mia storia qui ci sono i rapporti tra gli scienziati del mare, l'equipaggio della nave, e un robot comandato a distanza che effettua le immersioni - un robot noto come "ROV" che sta per "Remotely Operated Vehicle" - un dispositivo che offre un accesso ottico telepresente al mondo sottomarino con la capacità di essere manovrato a distanza per spostarsi e manipolare oggetti in questo regno. Sebbene i ROV non rientrino in quelle tipologie di veicoli in cui un essere umano possa muoversi agevolmente, molti scienziati che li usano provano una sorta di connessione diretta, corpo a cor­ po, con questi oggetti. Tali scienziati non si vedono tanto alle prese con una percezione a distanza quanto con una percezione interiore.3 VEDERE IN PROFONDITÀ

Nel suo secolo e mezzo di esistenza, la scienza della profondità marina ha esaminato l'oceano sempre più da vicino, con l'obietti­ vo tecnico di vedere il regno sottomarino. Gli oceanografi, come ha suggerito la storica Sabine Hohler, cercano da tanto tempo di spiegare le loro strumentazioni con l'ambizione di approssimare la visuale, di creare immagini che evochino dimensione e volume. "La profondità" ha scritto "è divenuta una questione di definizioni scientifiche, di strumenti giusti per vedere oltre la superficie visibile, di enormi quantità di dati affidabili, e delle loro rappresentazioni grafiche. L'oceano opaco è stato trasformato in un volume oceanico scientificamente affidabile" .4 ll ROV che è al centro della mia narrazione promette un ac­ cesso visivo trasparente all'area sottomarina offrendo un'alta risolu­ zione, immagini full-color del fondale e della vita che lo abita. Tra­ smette immagini dagli abissi per un'interazione in tempo reale con

un argano. L'intero sistema permette agli scienziati di avere "un accesso percettivo al mondo che stanno campionando, dando forma contemporaneamente a quello che sono in grado di vedere là sotto", 250. Hillel Schwartz mi ha suggerito questa espressione. 3· Sabine Hiihler, "Floating Pieces, Deep Sea, Full Measure: Spatial Relations in 4· Oceanography as a 'Field Science' ". Paper presentato ai meeting della Society for the Study of Science, Cambridge, Mass., novembre 2001.

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gli scienziati e gli equipaggi delle navi. Diversamente da attrezzature più comuni che gli oceanografi inviano sotto per ottenere letture della temperatura, della salinità, e della profondità - attrezzature che trasmettono ai computer della nave i grafici dei dati ottenuti - il ROV dà letteralmente la sensazione di ciò che Goodwin chiama "vedere in profondità". Le tecnologie della telepresenza nelle profondità marine alte­ rano il senso dell'io sia per gli scienziati che per gli equipaggi a bor­ do delle navi di ricerca. Se le tecnologie di visualizzazione "rendono possibili nuovi modi di vedere e fare le cose" , esse plasmano anche le identità - professionali e personali - di coloro che le impiegano.5 Lo strico e ingegnere David Mindell ha posto una domanda che sembra riassumere una preoccupazione comune tra gli oceanografi sull'uso delle tecnologie con controllo a distanza: "Sei un vero oce­ anografo anche se non scendi negli abissi? Sei un vero esploratore anche se non hai mai messo piede in un nuovo mondo? "6 In ciò che segue, si riportano le esperienze di due spiedizioni oceanografiche in California, precisamente a Monterey Bay. Ciascu­ na spedizione della durata di una giornata si è effettuata a bordo della Point Lobos, una nave gestita dal Monterey Bay Aquarium Re­ search Insitute (MBARI), il centro ricerca gemello del più famoso Monterey Bay Aquarium, situato sulla costa centrale californiana. ll mio progetto più grande esamina l'intersezione della microbiologia e della genomica marina in siti che vanno dalle Hawaii alle coste del Massachusetts. Qui, l'attenzione è stata ristretta su cosa significa fare scienza in mare nell'ambito della cultura informatica, quando le navi di ricerca cominciano ad essere sempre più attrezzate con robot, computer, e connessioni Internet. Almeno per il gruppet5· Sherry Turkle, Joseph Durnit, David Mindell, Hugh Gusterson, Susan Silbey, Yanni A. Loukissas e Natasha Myers, "Information Technologies and Professional Identity: A Comparative Study of the Effects of Virtuality", in A Report to the Na­ tional Science Foudation on Grant No. 0220347 (Cambridge, Mass.: Massachusetts lnstitute of Technology, 2005), 2. 6. David Mindell, "Between Human and Machine", Technology Review (Feb­ braio 2005), disponibile su www.technologyreview.com/computing/14171 (accesso 22 ottobre 2008). Voglio ringraziare David Mindell per aver fornito preziosi com­ menti alla prima bozza di questo saggio.

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to di biologi marini con cui collaboro, i ROV sono accettati come strumenti che permettono loro di sentirsi come dei "veri esplorato­ ri" . I ROV danno la sensazione di un incontro rawicinato ma non necessariamente quello di un awenturiero solitario. L'esperienza scientifica degli abissi attraverso il ROV è mediata non solo dalle sue appendici tecnologiche - braccia robotiche e occhi che sono telecamere comandate a distanza - ma anche dal lavoro sapiente e collaborativo dell'equipaggio che opera sulla nave e con il ROV più regolarmente degli scienziati che lo manovrano. Da parte sua, il ROV esiste entro una costellazione di controlli e estensioni - monitor di computer e schermi televisivi, cavi lunghi chilometri che si liberano in acqua - che lo possono rendere una creatura molto diversa dalla gamma di attori coinvolti nel suo utiliz­ zo. Gli scienziati e i tecnici in mare, così come i programmatori, gli archivisti di immagini, e gli utenti di Internet a terra sviluppano tutti un rapporto distinto con il ROV, un rapporto che costituisce un aspetto importante del loro sé scientifico e tecnico. La sensazione di percezione interiore ha delle conseguenze diverse per i vari attori (e, in effetti, non riuscirebbe a descrivere adeguatamente l'esperienza di tutti). Le mediazioni sono multiple e così sono i sé. LA NAVE E IL ROBOT

È mattino presto, circa le sette, e sono tutto intontito. Mi ritrovo con i piedi sul ponte umido della Point Lobos, una piccola nave oceanografica. Oggi mi unisco all'equipaggio della Point Lobos in qualità di antropologo, per condurre uno studio partecipativo-os­ servazionale su come sono condotte le ricerche sul campo nell'am­ bito della biologia marina. La nave sta lasciando lentamente Moss Landing, una minuscola cittadina a nord di Monterey. Si tratterà di una spedizione di un giorno che prevederà l'im­ piego di un ROV per esaminare gli ecosistemi degli abissi come gli ambienti con fuoriuscite fluide e gassose di idrocarburi, i cosiddetti seep, o quelli con fondali fangosi che ospitano microbi che metabo­ lizzano il metano. Questi microbi aiutano ad eliminare i gas serra tossici dalla nostra atmosfera. I seep sono ecosistemi scoperti solo

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recentemente dalla scienza marina, grazie soprattutto a quelle tec­ nologie che ne permettono l'accesso come i sommergibili e i robot usati in ricerca. n responsabile scientifico a bordo, il biologo marino Rob Haldane, appena trentenne, mi ha ragguagliato sulle notizie principali nei giorni che hanno preceduto la spedizione.7 Abbiamo parlato durante un pranzo a base di calamari al Phil's Fish Market di Moss Landing. n compito dell'equipaggio e del gruppo scientifico, ha spiegato Haldane, sarebbe stato quello di prelevare del fango dalle zone ricche di metano per condurre ulteriori analisi; contem­ poraneamente avremmo trovato dei vermi tubo e dei molluschi che prosperano in simbiosi stretta con quei batteri che vivono di com­ posti velenosi per la maggior parte delle creature viventi. Ad ogni fase, il nostro viaggio sarebbe stato mediato - dall' ac­ qua, dalla telecamera, e dal computer. Alcune attrezzature di rile­ vamento sulla nave operavano senza una diretta guida umana, ma nella nostra spedizione la componente umana sarebbe stata una parte fondamentale dell'ecosistema di ricerca. E questo per ragioni pratiche: guidare un robot richiede l'interpretazione da parte di un uomo di ciò che è importante indagare. Si possono addurre anche altre motivazioni per includere quegli esseri umani che sono legati alla cultura scientifica marina: quando gli scienziati "sono nel giro", continuano a sentirsi degli esploratori. Inoltre, ci sono ragioni cultu­ rali più generali: poiché gli abissi nell'immaginario sono visti come un luogo misterioso, un regno pieno di sorprese scientifiche, gli scienziati vogliono assolutamente essere lì; in realtà, senza quest'in­ quietudine tutta umana, il mare non si manifesterebbe affatto come un sito dall'aspetto quasi soprannaturale. La scoperta oceanografica riguarda più che altro gli incontri umani con il mare. Quella spedi­ zione non era solo alla ricerca di dati grezzi, quanto di significati. Appena ci allontaniamo dalla costa, i sette membri dell'equi­ paggio della Point Lobos iniziano la loro attività febbrile lungo per­ corsi ben noti, assicurando le porte scorrevoli e facendo i nodi ne­ cessari per tutta la lunghezza della nave, che è di 1 10 piedi. Oggi la 1· La partecipazione agli equipaggi e ai team scientifici MBARI è resa pubblica. Ma, per convenzione, nel presente volume utilizzeremo degli pseudonimi.

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Point Lobos trasporta un piccolo gruppo di ricercatori, incluso me. Haldane, che coordina la spedizione, lavora come assistente post­ dottorato del microbiologo Ralph Leiden del MBARI, uno studioso sulla quarantina che ha condotto ricerche pionieristiche sulla geno­ mica dell'ambiente marino, la sequenziazione del DNA dall'acqua di mare. Haldane mette tutti a proprio agio con il suo buon umore e quella capacità di riuscire ad avviare verso un'azione coordinata la caotica raccolta di macchinari che attraversa l'oceano. Un laureato della vicina Università della California, Santa Cruz, Adam Trilling, ormai alla soglia dei trenta, ha voluto partecipare alla campionatura e ci aiuterà ad estrarre il materiale genetico dal fango che raccoglie­ remo. Nadine Rodin, anche lei quasi trentenne, è assistente di un geologo marino del MBARI. Lei si è unita al gruppo per studiare il sistema di navigazione e posizionamento globale della nave. Do un'occhiata alla stampa del nostro programma del giorno: Piano di navigazione, venerdì 7 marzo 2003 Nave: Point Lobos RIV Responsabile Scientifico: Rob Haldane 7 ore sottratte dal fuso orario del pacifico (PDT) per la conversione all'ora locale, 8 ore secondo il fuso orario convenzionale del Paci­ fico (PST). Tempo di Inizio Programmato: venerdì 7 marzo 2003 1500 Tempo Universale Coordinato (UTC) Tempo di Fine Programmato: sabato 8 marzo 2003 0030 Tempo Universale Coordinato (UTC) Scopo: Raccogliere sedimenti dal seep per l'analisi dei gas disciolti, l'estrazione dell'acido nucleico e altre indagini. Stiamo per quasi per arrivare in mare aperto quando le so­ stanze cominciano a fare effetto. La Rodin mi dice che ha preso il Meclizina. Trilling ha buttato giù sei compresse di Dramamina e quattro di Vivarin. Haldane confessa che anche lui è ben preparato in materia - scherzando sul fatto di essersi tenuto lontano dalla Sco­ polamina, che fa avere le allucinazioni in mare, il che non è proprio

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l'ideale per un'attenta indagine scientifica. Io non ho preso nulla contro il mal di mare. Una volta stabilito che tutti gli altri si sono drogati, consulto nervosamente il mio stomaco. Veniamo convocati da Dave Wolin, un marinaio quarentenne, che chiede a quattro di noi di firmare dei moduli di esonero della responsabilità. Ci ha fornito qualche ragguaglio sui giubbotti di sal­ vataggio e sulle scialuppe. La vita, sembrerebbe, è un tentativo di stare a galla. E per stare a galla in mare, ci dice Wolin, spesso biso­ gna vomitare. Così ci mostra il "posto per fare una pausa", un'area sul lato sinistro dell'imbarcazione dove, ci informa prontamente, non ci sono telecamere a monitorare la situazione. Appena io e Trilling cominciamo a dondolare sul ponte, esce fuori la Rodin annunciando: "Ti ho visto in TV". La Point Lobos è sotto i riflettori per due motivi. Uno è per la sicurezza, in caso ci sia qualche incidente. L'altro motivo è per trasmettere le immagini dalla nave al Monterey Bay Aquarium, una delle principali mete turistiche. Le magnifiche vasche con animali marini nell'acquario invitano i clienti a "venire più vicino per guardare" . Le telecamere della nave consentono ai suoi sponsor di osservare più da vicino. Ciò che noi vediamo sulla nave diviene un'esperienza condivisa. Le telecamere più importanti sulla Point Lobos non sono at­ taccate direttamete alla nave. Sono incorporate in un enorme robot da due tonnellate e mezzo che siede sul ponte. Si tratta di Ventana, il ROV della nave che può essere inviato nelle profondità marine calandolo dal lato sinistro dell'imbarcazione. Ventana, un gioiello da mezzo milione di dollari, utilizza la tecnologia dell'era spaziale per resistere a temperature e pressioni estreme. Ventana in spagnolo significa "finestra" e, proprio come dice il suo nome, offre uno sguardo sul mondo dell'oceano. Riceve co­ mandi attraverso un fascio di cavi a fibra ottica che corrono lungo la nave - che i ricercatori chiamano il "cordone ombelicale" . Questi cavi consentono al robot di arrivare fino a 1500 metri di profondità, una zona caratterizzata da pressioni fortissime e buio permanente. Ma Ventana può fare luce nell'oscurità con delle lampade incande­ scenti a spettro pieno. Le immagini che Ventana cattura negli abissi sono trasmesse su alla sala di controllo della nave. Qui, possono

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essere monitorate in tempo reale e, se si vuole, inviate tramite mi­ croonde a terra per essere caricate su Internet. In rete, un pubblico di curiosi può fare un salto negli abissi virtuali. 8 n robot, inoltre, è ben equipaggiato con braccia che possono manipolare e un cam­ pionatore con flusso di aspirazione per raccogliere i campioni più consistenti come molluschi e stelle di mare. Ventana è in sé un condensato di'storia dell'esplorazione degli abissi marini. Durante i primi viaggi oceanografici, alla fine del di­ ciannovesimo secolo, navi come la Challenger, che faceva parte del­ la flotta reale britannica, cercavano di trarre conoscenze del mare dragando e portando su oggetti dal fondo marino attraverso sacche o secchi attaccati a corde di piano. I dispositivi di manipolazione in metallo di Ventana oggi portano su dal fondale fango grossolano e sedimenti non tanto diversi da quelli sfiorati dai naturalisti vittoria­ ni. n sonar, o Sound Navigation Ranging, un'invenzione degli inizi del Novecento creata per individuare i sottomarini, viene utilizzata per dare direzioni al robot. Le grandi lenti di Ventana, attaccate a una telecamera Sony HDC-750° ad alta definizione, ci proiettano nella storia dell'innovazione della fotografia subacquea, che ora ha fatto definitivamente il suo ingresso nell'era digitale. L'uso della tecnologia computerizzata per sondare il mare è un obiettivo centrale del MBARI, fondato dall'imprenditore in­ formatico David Packard, co-fondatore della Hewlett-Packard. n MBARI è diventato un attore chiave nello sviluppo della robotica per l'esplorazione dei fondali marini e per l'affinamento delle tec­ niche di telepresenza per la ricerca sugli ecosistemi oceanici. Negli ultimi anni , i ricercatori del MBARI si sono anche votati alla geno­ mica, sequenziando il DNA di creature marine come quelle in cui speriamo di imbatterci oggi. Ventana è stato attrezzato dal tecnico delle strwnentazioni R. L. Hopper con una fila di cilindri di plastica, i carotieri, che saranno buttati in acqua per raccogliere cross-sezioni della mehna infusa di metano. La ricerca di segni di vita sul fondo dell'oceano è una pos-

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2008).

Si veda www.mbari.org/cruises/lobos/map_image.html (accesso 22 ottobre

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sibilità relativamente recente. Agli inizi del diciannovesimo secolo, i naturalisti pensavano che gli abissi fossero privi di vita, in parte perché c'era la convinzione che l'acqua di mare fosse compattabile, cioè che l'acqua di mare diventasse sempre più solida fino a raggiungere un punto oltre il quale un oggetto gettato in acqua non poteva più sprofondare. Così, da qualche parte nelle regioni dei grandi abissi, esistevano dei "piani" su cui si raccoglievano gli oggetti in base al loro peso. Cannoni, ancore e barili sarebbero andati più giù delle imbarcazioni di legno che, a loro volta, si trovavano sotto rispetto ai marinai annegati. 9

L'oceano in cui si avventura Ventana è piuttosto diverso da quello dei vittoriani. Ora sappiamo che si tratta di un elemento in cui sono immersi dappertutto esseri viventi. Mentre guardo i carotieri in plastica di Ventana, chiamati push core, Trilling mi parla del fango marino. Precisa che l'ossida­ zione del metano da parte dei microbi che metabolizzano questa sostanza è fondamentale a livello ambientale perché quasi il 75 per­ cento del metano che emana dai seep e da altri sistemi può essere consumato da queste creature. Se non fosse così, e qui ride, noi umani affogheremo in un'aria satura e puzzolente di metano. Ci di­ rigiamo verso la mensa, dove ci mettiamo a studiare una cartina del Monterey Canyon appesa alla parete; su questa le linee che rappre­ sentano le ramificazioni del canyon sommerso serpeggiano a partire da un punto di origine sulla terra ferma a Moss Landing. Questo atlante ricostruito grazie al sonar ci regala un modello dall'alto di una topografia altrimenti invisibile all'occhio umano. È un simbolo perfetto della trasparenza promessa da Ventana, un paesaggio ir­ reale plasmato dalla tecnologia digitale in cui gli strumenti per la produzione di immagini cancellano la propria opera di mediazione. Arriviamo al sito di immersione, a venti miglia nautiche da Moss Landing, 36.78°N, 122.08°0. Non siamo poi così lontani dal­ la terraferma. li Monterey Canyon, più profondo del Grand Can­ yon, accompagna le acque più basse vicino alla riva. Ci fermiamo g. James Hamilton-Paterson, The Great Deep: The Sea and Its Tresholds (New York: Random House, 1992), 168.

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un'ora ad aspettare che il robot raggiunga gli ecosistemi saturi di metano che interessano Haldane. Il colore dell'acqua sulla TV della nave, con le immagini inviate da Ventana, comincia a cambaire, da un azzurro chiaro a un blu scuro, fino al nero. L'INCONTRO CON IL MONDO MARINO PIU ESTREMO

Ventana è arrivato sul fondale e ora fluttua sulla sua superficie, mil­ le metri sotto la nave. Gli scienziati a bordo si sono radunati tutti nella sala di controllo del ROV, una confortevole stanza a cuneo che segue il profilo della prua, collocata sul ponte più basso. Nella luce soffusa, individuiamo appena il contorno dall'interno all'esterno della prora. La Point Lobos un tempo era usata per il rifornimento di petrolio e si chiamava Lolita Chouest; questa stanza ospitava i dormitori dei marinai. Laddove un tempo le persone cadevano nel sonno cullati dall'altalena delle onde, ora gli scienziati controllano a distanza il Ventana. Le telecamere di Ventana puntano in diverse direzioni. Siamo maggiormente interessati alla visione sul davanti, presentata su più schermi e in diverse dimensioni nella sala di controllo del ROV. Lo schermo più importante è quello adiacente un videoregistratore, accanto a un monitor che ospita un sistema di annotazione chia­ mato VICKI, che è l'acronimo di "Video lnformation Capture with Knowledge Inferencing" . Accanto a VICKI c'è un altro monitor che mostra "istantanee" provenienti continuamente dalle registra­ zioni del ROV; i frame sono catturati quando un ritercatore clicca sull'apposita icona nel sistema di annotazione. In questo viaggio, almeno all'inizio, quel ricercatore sarò io. Haldane mi ha fatto posizionare su una sedia davanti a VI­ CKI, dove dovrò cambiare le videocassette ogni ora e cliccare sulle immagini secondo le istruzioni ricevute. Mi ha dato un timer. Mi guardo intorno nella stanza e ogni schermo sembra seguire un suo ritmo. Haldane si è seduto alla mia sinistra, davanti alla tastiera da cui può controllare le telecamere e le luci di Ventana. I piloti del ROV, Jerry Malmet e R. M. Engel, siedono nelle due poltrone alla mia estrema sinistra, poltrone che sono equipaggiate con dei joy-

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stick per guidare, o come preferiscono dire, pilotare il ROV. I piloti controllano anche le braccia del robot, con cui Ventana può sfiorare gli oggetti, afferrare strumenti, e raccogliere cose. La Rodin siede dietro, a studiare la console di navigazione. Indossiamo tutti delle cuffie microfonate che ci consentono di parlare tra di noi nono­ stante il ronzio lento, sordo e costante della nave. Haldane mi ha detto attraverso la cuffia: "Stefan, vai avanti e scatta più istantanee che puoi dei carotieri che scendono, che risalgono, e qualsiasi cosa ti sembri utile". Un lettore CD è stato lasciato acceso e emana in sottofondo una musica reggae. La stanza è un evento multimediale, una festa dei sensi, una stratificazione di disorientamenti oculari, auditivi e corporali. Proiettiamo le nostre presenze su Ventana, le cui telecamere ora diventano i nostri occhi. Haldane mi dà istruzioni per fissare frame dei vermi tubola­ ri che abbiamo trovato vicino a un seep di metano. Dentro questi vermi, vivono dei microbi che metabolizzano il solfuro. Siamo ben lontani dal soleggiato e salutare oceano. Un biologo del MBARI mi ha suggerito che, invece di voler dimostrare che l'oceano è un posto che celebra l'armonia ecologica, siti come i seep dovrebbero portar­ ci a vederlo come una gigante discarica di rifiuti; qui la vita esiste non perché questo elemento lo permette, ma perché è essa stessa ad essere così adattabile da poter vincere anche gli ambienti più ostili. Non so se questo sia giusto nei confronti dei vermi tubolari, anche se è vero che sono stati spesso associati a qualcosa di viscido, lugu­ bre e persino extraterrestre - una catena di associazioni più emotiva che logica. Ma la connessione aliena è quella prevalente, anche per alcuni scienziati. Haldane mi dice che artisti entusiasti hanno in@a­ to questi esseri in paesaggi marini di pianeti alieni rappresentati in maniera un po' stravagante, un'inclusione che, come dice lui, non ha molto senso. Anche se i Metazoi si fossero evoluti in altri mondi, è improbabile che somiglino così tanto alle creature della Terra. La fiction scientifica sembra essere una delle fonti di ispira­ zione che ha portato Haldane a diventare un biologo degli abissi marini. Nel nostro pranzo a Moss Landing, mi aveva detto che da bambino era affascinato da Star Trek, dall'idea di viaggiare e fare scienza in tre dimensioni (e non è un caso che sua madre è sta-

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ta ingegnere a terra per alcune delle missioni lunari dell'Apollo). Nell'adolescenza, ha studiato la migrazione di grandi animali e ha particolarmente apprezzato il film Star Trek IV, in cui l'equipaggio dell'Enterprise ritorna sulla Terra del Ventesimo secolo per salva­ re le balene (di cui alcuni esemplari hanno ritrovato in un fittizio "Istituto per Cetacei" rappresentato nel film proprio dal Monterey Bay Aquarium ! ). La similarità tra lo schermo-visore della navicella Enterprise e gli schermi attraverso cui vediamo le immagini inviate da Ventana fanno sembrare ancora più naturale il paragone con Star Trek. Alcuni dei colleghi più anziani di Haldane si lamentano del fatto che il MBARI non abbia investito in sommergibili che permet­ tessero l'accesso agli umani, ma Haldane si identifica così tanto con il ROV - che gli sembra un'estensione di se stesso - da dissentire. Per lui e per il suo equivalente nella prossima spedizione a cui mi unirò, i ROV trasmettono una sensazione abbastanza soddisfacente dell'essere lì, di essere immersi. Goodwin ha fatto un'osservazione sui grafici computerizzati e astratti elaborati dai dati messi a disposi­ zione dalle navi che potrebbe applicarsi anche alle immagini inviate sul video dai ROV: "Come lo schermo in un cinema, queste iscri­ zioni sono il centro di un attento e appasionato scrutinio. In effet­ ti, sono il luogo in questo laboratorio dove si rendono visibili quei fenomeni del mondo che gli scienziati stanno cercando di studiare, quel mondo sotto la nave" .•o Gli scienziati che osservo vogliono immergersi in mare. In un certo senso, vogliono perdere se stessi in quel luogo che studiano. Molti sono cresciuti in spiaggia e sanno fare imrp.ersioni. Amano l'oceano. La storia scientifica del MBARI e del ROV Ventana sa­ rebbe molto diversa se questi scienziati che vi lavorano vedessero l'oceano come un posto terrificante e mostruoso, una visione che predominava in molte persone prima dell'affermarsi delle immagini romantiche del sumblime oceanico che si diffusero nell'Ottocento. Nel Novecento, questo sublime si è fuso con gli immaginari ecologi­ ci del mare bello e fragile. La gente ha iniziato a guardare all'unione del sé e del mare come a uno dei modi più privilegiati per apprez10.

Goodwin, "Seeing in Depth", 239.

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zare la natura." La tecno-immersione offerta dal ROV si basa su questa sensibilità. Nel caso della ricerca oceanografica che Goodwin ha os­ servato, scienziati e equipaggio occupavano posizioni diverse sul­ la nave, controllando aspetti differenti dello stesso dispositivo da postazioni separate all'interno e all'esterno. È come se vivessero in mondi diversi. Goodwin ha suggerito che quella nave da ricerca incarnava "un'architettura della percezione storicamente costitui­ ta" . Gli scienziati e gli equipaggi che vivono l'oceano mettono in pratica "non solo una divisione del lavoro, ma una divisione della percezione" .12 Questo vale anche per le operazioni del ROV, anche se in misura minore.'3 Sebbene vi siano aspetti tecnici della gestione di Ventana che gli scienziati non sarebbero tanto pronti ad affron­ tare, le operazioni nella sala di controllo del ROV pongono loro e i membri dell'equipaggio in uno stretto rapporto di interdipenden­ za.'4 È dato per scontato che siano gli scienziati a dirigere l'azione, Alain Corbin, The Lure o/ the Sea: The Discovery o/ the Seaside in the Western World 1 750-1840. Tradotto dal francese di Jecelyn Phelps (Berkeley: University of

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California Press, 1994; French Edition, 1988). 12. Goodwin, "Seeing in Depth", 256. Le sociologie delle relazioni classiche tra scienziati e membri degli equipaggi in mare mediano tra i diversi tipi di esperienza che questi gruppi hanno, basandosi su come sono rafforzate le gerarchie di classe attraverso le divisioni tra lavoro "mentale" e lavoro "manuale". Si veda H. Russell Bemard e Peter D. Killworth, "On the Social Structure of an Ocean-Going Research Vessel and Other lrnportant Things" , Social Science Research 2, n. 2 (1973 ) : 145· 1 84. 13. Insieme, scienziati e piloti mettono in atto ciò che Edwin Hutchins, nella sua etnografia della navigazione a bordo di una nave della Marina Militare, ha definito"cognition in the wild", la conversione e la comunicazione di informazioni attraverso una "cascata di rappresentazioni" incanalate nelle macchine analogiche e digitali e l'esperienza incarnata da diverse persone, diversi tipi di sé, che qui sono messi in stretta relazione tra loro. Si veda Edwin Hutchins, Cognition in the Wz1d (Cambridge, Mass.: MIT Press, 1995). Questo saggio si limita ad esaminare solo la superficie di quella storia più 14 . tecnica che si potrebbe scrivere sui ROV (o, da un altro punto di vista, di quella che Sherry Turkle ha definito la "vita nascosta" che si concentra sulla soggettività) . Per una bibliografia essenziale, che fornisce dettagli del JASON ROV del Woods Hole Oceanographic Institution, si veda David A. Mindell, Dana R. Yoerger, Lee E. Freitag, Louis L. Whitcomb, e Robert L. Eastwood, "JASONTALK: A Standard Re· motely Operated Vehicle (ROV) Vehicle Contro! Systern", Proceedings o/ the IEEE/ MTS Oceans Con/erence, Victona, B.C., Canada. , 1993 (Piscataway, N.J.: IEEE), 253-

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ma i confini vengono spesso superati. Uno scambio tra Haldane e il pilota del ROV Malmet può essere illuminante. Si noti il cambia­ mento nell'uso dei pronomi: Haldane: Vermi tubolari ! Gli siamo atterrati proprio sopra. Posso zurnma­ re ancora

un

po'? Guarda tutti quelli! Facciamo una panoramica. È facile

prendere qualcuno di quelli? Malmet: Non possiamo garantire di poter ritornare su quei vermi tubolari, quindi è meglio farlo adesso. Haldane: Fermati qui. All argati un po'. Zurnma. Ce n'è uno buono vicino al tuo polso là.

Sia il pilota del ROV che lo scienziato utilizzano il "noi" per fare riferimento all'impresa comune di manovrare il robot. Haldane passa poi all'" io" per segnalare qualcosa di suo particolare interesse e al "tu" per indirizzare l'esperienza incarnata dal pilota del ROV. Tuttavia, quando dice il "tuo polso" non si sta riferendo al corpu­ lento braccio del pilota ma al giunto vicino all'artiglio di Ventana. Questa sostituzione è illuminante. Mi è stato detto che il sistema di controllo del ROV fa uso di un software simile a quello della PlayStation Sony. li ROV sfrutta dei joystick di controllo familiari per chi ha giocato ai videogame di questa piattaforma. I videogiochi sono opachi, le viscere dei loro programmi sono celate agli utenti un fatto che, paradossalmente, le persone sperimentano come una sorta di "trasparenza".•s Una dinamica simile opera anche nel ROV. La sua opacità/trasparenza rende possibile identificare la mano di chi lo guida con l'artiglio del robot, come in un videogame giocato in "prima persona". Come qualsiasi tecnologia protesica, il siste­ ma garantisce agli scienziati un "accesso percettivo al mondo che stanno campionando, dando forma contemporaneamente a ciò che sono in grado di vedere fi" .'6 258. Si veda anche Sherry Turkle, a cura di, The Inner History ofDevices (Cambridge, Mass.: MIT Press, 2008); trad. it. Nicola Cavalli, Inunacolata Franco, La vita nascosta degli oggetti tecnologici, Milano, Le dizioni, 2009. 15. Sherry Turkle, The Second Sel/: Computers ad the Human Spirit (Cambridge, Mass.: MIT Press, 2005 [1984]), 7 - 12. 16. Goodwin, "Seeing in Depth", 250.

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Nella sua analisi delle vasche di meduse al Monterey Bay Aquarium - create per trasfigurare i visitatori portandoli in intima relazione con questi celenterati esposti seduttivamente allo sguardo del pubblico - la storica Eva Shawn Hayward ha detto che: "L'acqua è il fattore che si vuole proporre nella rappresentazione, ma il visi­ tatore è messo continuamente a confronto con i vari strumenti che producono quest'esperienza. L'immersione, quindi, convoglia qui l'esperienza di trovarsi totalmente calato all'interno delle tecnologie e delle ecologie di questo Mondo Marino" .'7 Allo stesso modo, sulla Point Lobos la sensazione non è quella di un distacco dalla natura, ma di una piacevole immersione tecnologica in essa - un'esperienza avvertita allo stesso tempo come immediata e iper-mediata (vale a dire, mediata in tanti modi sperimentati contemporaneamente). Nel frattempo, un intero gruppo di vermi tubolari è stato libe­ rato dal suo ormeggio - un processo che io stesso ho documentato con i frame grab. (Più tardi, mi recherò al laboratorio video dell'Isti­ tuto, dove queste immagini saranno annotate. Dal 1 988, il MBARI ha fatto qualcosa come 12.000 registrazioni di immersioni, in for­ mati assortiti. Nella base terrestre dell'Istituto, tre donne lavorano nel laboratorio video, una stanza climatizzata priva di finestre. Loro si occupano del metraggio e segnalano quando e dove le creature appaiono nelle registrazioni. Una di queste video-bibliotecarie ha tenuto a sottolineare la divisione di genere che si riflette nella di­ stribuzione del lavoro tra terra e mare, dove le donne come lei sono costrette a dividersi tra i figli e il lavoro, mentre un equipaggio tutto maschile di piloti del ROV sta fuori in mare tutto il giorno alle prese con enormi macchinari). Schieriamo un altro carotiere. Questo discende nel fango con un po' di pressione e cattura un mollusco. "Ecco il ragazzo che tor­ na da noi ! " dice Haldane. Spiamo i parenti sessili delle meduse. Dò un'occhiata al mio monitor e mi rendo conto che fornisce un calcolo digitale del Tempo Medio di Greenwich, programmato in modo da mostrare i numerali molli. Cioè i numerali che si trasformano sotto i 17.

Eva Shawn Hayward, "Jellyfish Optics: lrnrnersion in Marine Techno-Ecolo­ gy" . Paper preparato per i meeting della Society for Science and Literature, Durham, NC, 14-17 ottobre 2004.

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nostri occhi come in un quadro di orologi molli di Dalì. L'invenzio­ ne surrealista scorre negli angolo dei nostri schermi, ma il realismo è prontamente rafforzato dalle immagini proiettate in arrivo da Ven­ tana. Heldane continua nei panni di un regista, facendo spostare e inclinare il ROV tra i vari dondolii e beccheggi della nave. Mi rendo conto che anche il mio stomaco sta dondolando. Mi alzo in piedi per prendere un po' d'aria. Mi affretto verso la zona delle pause. Anche altre persone del gruppo scientifico si sono sentite male, nonostante i farmaci. Trilling sottolinea che è dura fare scienza in queste condizioni; o hai sonno o stai male. E nessuno vuole fare la figura di vomitare nella sala di controllo. Ribatto che questo non è certo il mare contemplativo tanto celebrato in poesia, ma è più come la tempesta perfetta nello stomaco. Quando rientro nella sala di controllo, Trilling, senza alcun commento, ha fatto il mio lavoro di sostituzione delle videocasset­ te e ha preso il mio posto davanti allo schermo. La percezione in­ teriore rivela di dipendere non solo dall'opacitàltrasparenza della tecnologia, ma anche dalle pillole per il mal di mare! Dopo un po', le operazioni sono finite e il ROV inizia la sua lenta risalita in super­ ficie. Tutti lasciano la sala per prendere una boccata d'aria. PROSPETTIVE DIVERGENTI SULLA VITA NASCOSTA DEL ROV

In una seconda spedizione della Point Lobos, dove ci siamo concen­ trati sullo studio dei batteri simbiotici che risiedono negli inverte­ brati marini, la dinamica sociale nella sala di controllo è più o meno la stessa di quella che ho vissuto nella spedizione con Haldane. In questa spedizione, il responsabile è Tamara Robena una scienziata del MBARI sui trentacinque anni specializzata in molluschi e ver­ mi tubolari che vivono nei seep con fuoriuscite di metano.'8 Con 18. Il programma : Piano di Navigazione: mercoledì 26 marzo 2003 Nave: Point Lobos RIV Responsabile Scientifico: Tamara Robena 7 ore sottratte dal fuso orario del Pacifico (PDT) per la conversione all'ora locale, 8 ore secondo il fuso orario convenzionale del Pacidico (PST)

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tranquillità e perizia, Robena fissa il tubo catodico che trasmette il punto di vista del ROV. Chiede al pilota Thad Cormant, un uomo sulla quarantina, di girare di qua e di là, e di dare qualche colpetto al fango. Sotto il nostro sguardo si presenta un letto di molluschi. Robena dice ai piloti dove indirizzare gli artigli del ROV e come posizionare i carotieri. Uno di questi viene estratto dal ROV, che ne contiene dodici, al che si pone la questione di quanti campioni stipare nello stesso tubo: Cormant: Che ne dici se mettiamo più estrazioni nello stesso carotiere? Può andare bene se non hai bisogno del contesto. Oggi non ci sono i geologi! Hmm. Questo non vuole funzionare. Robena [con una voce un po' alterata] : Quella cosa è una roccia. Hey! Sembra un tappeto batterico!

Cormant indietreggia. Robena sposta la telecamera usando un tap­ petino mouse. Individuiamo più molluschi. Robena: C'è già una conchiglia. Clam-o-rama! Cormant: Li raccogliamo? Li ho appena messi nella cassettina. [Ventana ha un contenitore per depositare le cose che vengono raccolte durante l'im­ mersione] . Robena: Si, facciamone un boccone!

li pilota del ROV si proietta nel corpo di Ventana, trasferendo i suoi movimenti a quelli del robot che è di sotto. Cerca cautamente di tenerlo saldo in modo da non fargli subire troppo trambusto ma ci riesce solo in parte. Cormant: Forse qualche danno collaterale, ma ci può stare. Ehi, cos'è quel-

Tempo di Inizio Programmato: mercoledì 26 marzo 2003 1500 UTC Tempo di Fine Programmato: giovedì 27 marzo 2003 0030 UTC Scopo: Sopraluogo ai cold seep a 1500 m. Raccolta di molluschi (una nuova specie attualmente in fase di descrizione) e sedimenti. Attrezzatura richiesta: Carotieri per animali (totale 8), gottazza per molluschi o bot· tiglie Niskin con campionatore a gravità.

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lo? Robena: Beh, non ne ho idea. Potrebbe essere una spugna, o forse batteri. Possiamo prenderlo? [TI pilota imita una trasmissione radio tratta da un @metto di fantascienza] . Pensiamo che sia un blob. No, sta andando via. Niente blob per noi.

Robena e i piloti del ROV parlano come se fossero in stretta connessione - quasi come se condividessero lo stesso corpo, con gli occhi del responsabile scientifico e i piloti che, in questo caso, fungono da mani. Come a rafforzare questa suddivisione e sovrap­ posizione della percezione e del lavoro, Robena fa riferimento a se stessa con il pronome "io" quando parla delle idee che le vengono e usa il "noi" quando lei e i piloti sono legati attraverso il ROV. Chiedo a Cormant come fa a manovrare Ventana. Mi mostra le sue braccia robot. Quella sinistra ha diverse giunzioni, chiama­ te con nomi che suggeriscono un'amalgama di parti meccaniche (movimento), parti corporali (spalle, gomito, polso, presa) e termi­ ni nautici (beccheggiare e straorzare) . n braccio destro, che è più nuovo, è un gioiello dell'idraulica che può alzare fino a 500 libbre. L'utente può congelare la posizione del braccio nella memoria del computer e poi, dopo averlo mosso fisicamente, riattivare la posizio­ ne memorizzata, che ora non corrisponde più al punto in cui si trova il braccio nello spazio reale. Questo meccanismo è utile se il pilota si ritrova con il suo vero braccio in una posizione da contorsionista. Ora che il robot è salito in superficie, Cormant mi lascia giocare con il suo braccio. È una sensazione di disconnessione quella che pro­ vo, se non di liberazione dal corpo; non c'è feedback per lo sforzo compiuto (mi dice) dal joystick. Ciò rafforza la sensazione di legge­ rezza, come nei viaggi spaziali con assenza di gravità, il che porta a fare paragoni tra il ROV e le navicelle.'9 È telecomunicazione senza tele-tatticità, intimità senza immediatezza, un gap che rende espli­ cito il lavoro necessario per realizzare la telepresenza, la presenza da lontano. Quest'esperienza apparentemente ininterrotta di percezioni 19. Le cose sarebbero diverse con altri ROV, che danno invece un certo feedback sullo sforzo compiuto.

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interiori - individuali e comuni - non è resa possibile solo dalle diverse prospettive interdipendenti di scienziati e membri dell'equi­ paggio che operano a stretto contatto. Deve anche essere mantenuta attivamente, e supportata. In parole povere, c'è tanto da fare per far funzionare un ROV. Cormant mi dice che talvolta sta sveglio fino a mezzanotte per mettere a posto le cose prima di un'immersione. Spesso si offre come meccanico per il ROV; è come una macchi­ na, bisogna stargli dietro e fare manutenzione. Lui riesce a vedergli dentro in un modo che gli scienziati non fanno, ed è importante per lui riuscire a sentirsi padrone di questo dispositivo. Mi fa un esem­ pio di una modifica che i piloti di ROV hanno fatto su Ventana. Normahnente, la Lobos riesce a individuare il punto in cui si tro­ va Ventana attraverso l'individuazione di un segnale sonar emesso da quello. Le informazioni in seguito vengono inviate a terra, dove i programmatori che ricevono i punti dati utilizzano una formula matematica per ricostruire la linea meglio approssimata del percor­ so seguito dal ROV per quella determinata spedizione. Per i piloti, tuttavia, questo segnale sonar non è abbastanza preciso come vor­ rebbero. Così, hanno dotato il ROV di un sistema Doppler Velocity Log, che misura il movimento in relazione al fondale marino (invece che a uno spazio " assoluto"). Questo sistema è risultato più accu­ rato riguardo alla velocità a cui viaggia il ROV, ma non sempre lo è riguardo alla posizione. Quando i dati di questo sistema modificato sono stati inviati a terra, gli ingegneri che si occupano del software sono rimasti disorientati, non riconoscendo le coordinate assolute del robot, dato che iniziahnente non erano stati messi al corrente delle modifiche apportate - che dovevano servire più che altro a supportare l'esperienza di controllo del ROV da parte dei piloti. Ma Cormant confessa che a volte anche quelli che si occupano del sof­ tware a terra mandano in confusione la gente in mare, per esempio quando aggiornano il software di una nave senza dame preavviso. Talvolta, i tecnici a terra fanno modifiche di un programma anche durante la navigazione: i cursori cominciano a muoversi sugli scher­ mi della nave come se l'imbarcazione fosse posseduta. Tra quelli che lavorano in mare e quelli che lavorano sulla terra ferma c'è una differenza di prospettive e una divergenza di opinioni sul chi, dove e

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quando si è autorizzati a esercitare il potere. Le incomprensioni che ne risultano possono intaccare il senso della percezione interiore che uno ha. L'ingegnere informatico quarantenne Jay Bluestone, che lavo­ ra a terra, è una delle persone che ha dovuto avere a che fare con le misteriose modifiche Doppler. li suo compito è stato quello di mettere insieme un database relazionale dai diversi tipi di dati rac­ colti da Ventana. La mia intervista con lui si è concentrata su come vede lui il mare. Per Bluestone, l'oceano sullo schermo era qualcosa di concettuale, non immediato. Avendo a che fare con le tracce del percorso compiuto dal ROV, e con i dati che questo ha trasmesso, lui non riesce a proiettare la sua coscienza nel robot. Quando pensa all'oceano attraverso la mediazione del database, mi ha confessato: "Non ci penso come a una cosa bagnata. Non è lo stesso oceano che mi ritrovo davanti quando esco di casa e vado in spiaggia" . Per lui l'oceano è alieno: "L'oceano non è per noi". Mentre io e Cormant guardiamo lo schermo nella sala di con­ trollo della Point Lobos, una guida dall'Aquarium interrompe la nostra conversazione. Questa appare come un'immagine piccolissi­ ma su uno degli schermi video e dice con una voce un po' metallica: Niente è più grande e più importante dell'oceano. Ci dà cibo, minerali e farmaci. E con i ROV, possiamo entrare in questo mondo alieno. Nulla di tutto ciò sarebbe possibile senza le navi di ricerca del MBARI. Alcuni scienziati sono proprio adesso su quell'imbarcazione! E possono inviarci immagini in diretta. Se io andassi in onda in diretta dalla barca, beh vedre­ mo . . . ben poco.

Ci parla a beneficio dei visitatori del Museo: "Point Lobos, ci siete?" domanda lei. Cormant risponde di sì. " Cosa avete fatto oggi? " Cormant spiega dei molluschi e dei vermi tubolari e dei seep. La guida poi va avanti, in volo, con l'aiuto di un grande menu video, per spiegare al pubblico cosa sono tutte queste cose. "Andiamo ol­ tre" dice. Siamo finiti tutti sul ponte della Lobos. In giro si vocifera di mettere fuori uso la nave, di trasformarla in un laboratorio per la manutenzione degli elementi che si utilizzeranno nella prossima

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impresa tecnologica del MBARI: un osservatorio oceanico distri­ buito, una rete di boe con sensori remoti che possono fornire un accesso continuo in Rete ai dati provenienti direttamente dal mare. Dopo ascolto un discorso al MBARI su come queste reti permet­ terebbero agli scienziati di stare comodamente nel loro salotto e contemporaneamente raccogliere dati oceanografici. Non ci sarà più bisogno di pillole per il mal di mare e posti per fare pause. La Point Lobos dovrebbe occuparsi della manutenzione in questo si­ stema (mentre Ventana dovrebbe trasformarsi da affascinante stru­ mento per l'esplorazione a un comune apparecchio di riparazione, riorganizzando ancora una volta tecnologie e persone). Un mem­ bro dell'equipaggio scherza sul fatto che senza scienziati a bordo, potrebbero concentrarsi sulla pesca dei salmoni. Estendendo le as­ sociazioni tra l'oceano e lo spazio, gli osservatori marini progettati sono definiti con acronimi del tipo MARS (Monterey Accelerated Research System), NEPTUNE (NorthEast Pacific Timeseries Un­ dersea Networked Experiments), e VENUS (Victoria Experimental Network Under the Sea). In futuro, gli scienziati potrebbero esplo­ rare l'oceano navigando nel Web. Una ricercatrice che non vedeva l'ora di lavorare in questi osservatori marini mi ha detto che quando saranno online, lei potrebbe "portare l'oceano nella [sua] sala da pranzo". Questo sarà un nuovo ordine di percezione interiore. L'OCEANO MULTIMEDIALE

I biologi marini del MBARI si avvicinano al mare come a un'espe­ rienza mediatica, cioè un'esperienza in cui cercano di immergersi tecnologicamente e a livello di vissuto. L'oceano in cui si sono im­ battuti i ricercatori che hanno utilizzato il Ventana è l'oggetto di una estasiata attenzione ottica mirata a comprendere attraverso la visio­ ne. Data la missione del MBARI, non sorprende che gli abissi ap­ paiano come un luogo da esplorare tecnologicamente, un'oscurità da illuminare. Questo regno sottomarino oscilla tra il non familiare e il "pronto per essere scoperto", se non addomesticato. Potremmo scoprire, come mi ha fatto notare un progettista del MBARI, che: "l'oceano non è per noi", che rappresenta, come ha detto la guida

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dell'Aquarium, un mondo alieno. O, potremmo sentir dire, come mi è capitato quando ho preso il brevetto da sub poco più a sud di Moss Landing, che "L'oceano in realtà siamo noi. Noi siamo i suoi occhi,. n mio istrutture di immersioni voleva convertire i suoi ascoltatori a una filosofia del monitoraggio ecologico, in una stretta intima dove o avremmo apprezzato la differenza oceanica e sarem­ mo entrati in comunione o ci saremmo identificati con esso. Buona parte di questa oscillazione retorica, tali modalità di percezione interiore ad un tempo elusive e afferrabili, ha a che fare con la conoscenza dell'oceano come un elemento caratterizzato dal­ la sua instabilità tra trasparenza e opacità. Spiragli di luce si assot­ tigliano sempre più fino a spegnersi nell'oscurità man mano che si procede in profondità. Le descrizioni degli abissi come qualcosa di buio e perciò misterioso, pieno di segreti, sconosciuto, si basano su un repertorio di associazioni che legano la vista e la luce alla cono­ scenza; in effetti, la parola teoria deriva dal greco antico theorein che significava sia "vedere" che "conoscere". Visualizzare l'oceano è diventato l'obiettivo che governa tutta l'oceanografia, il graal delle tecniche di percezione a distanza.'° Con i ROV, tali visioni sono im­ maginate come immediate e oggettive allo stesso tempo. Negli ultimi anni , l'oggettività associata alla visione è stata contaminata con l'imaging computerizzato e gli oceani ora iniziano ad essere visti attraverso interfacce online, o attraverso le telecame­ re di un robot come Ventana. n sapere oceanografico oggigiorno è caricato nelle immagini e nei testi dei computer. La comprensione scientifica del mare oggi consiste nel partecipare a questo nuovo ecosistema mediatico. Marshall McLuhan una volta ha suggerito che "il mezzo è il messaggio" - cioè, che il mezzo estende e modula 20. I teorici dei media Jay David Bolter e Richard Grusin ci dicono che: "La nostra cultura vuole moltiplicare i suoi media e allo stesso tempo cancellare tutte le tracce della mediazione; a livello teorico, vorrebbe cancellare i media nello stesso atto di moltiplicarli". Jay David Bolter e Richard Grusin, Remediation: Underrtand­ ing New Media (Cambridge, Mass.: MIT Press, 1999), 5 . Come hanno suggerito la Turkle e i suoi colleghi: "Più che 'dematerializzare' gli esseri umani e i loro oggetti, le tecnologie informatiche procedono alla 'rimediazione' delle pratiche e del 'mate­ riale' della scienza, dell'ingegneria e della progettazione" . Turkle et al., "Information Technology and Professional Identity", 39.

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il nostro sistema sensoriale, che "gli effetti della tecnologia non si sentono a livello delle opinioni o dei concetti, ma alterano i rapporti sensoriali o gli schemi della percezione" !' Con questa lezione in mente, possiamo dire che il mezzo dell'acqua, ora fuso con il mezzo tecnologico, offre un nuovo tipo di immersione, la percezione inte­ riore di un'oceano multimediale. In The Second Self, Sherry Turkle sosteneva che nei primi giorni dell'era dei personal computer, le persone avevano iniziato a vedere la macchina come una sorta di specchio della loro mente: un secondo sé. Oggi, nell'era dell'informatica distribuita e poliglotta e della visualizzazione del tipo cristallizzato dal Ventana, le persone vedono costellazioni di computer non tanto come dei secondi sé quanto come una gamma di sé che si spostano lungo un continuwn nwnerico che va dal punto zero dell'auto-identificazione alle mol­ teplici identità della soggettività protesica e distribuita. Non solo la vita sullo schermo (prendendo a prestito il titolo di un altro li­ bro della Turkle) ma poi anche le vite sugli, attraverso, con e tra gli schermi.22

21. Marshall McLuhan, Understanding Media: The Extensions o/Man (New York: McGraw-Hill , 1964), 7, 18. 22. Si veda Turkle, The Second Self e Lt/e on the Screen: Identity in the Age of the Internet (New York: Simon and Schuster, 1995); edizione italiana: Parrella B. (a cura di), La vita sullo schermo: nuove identità e relazioni sociali nell'epoca di Internet, Milano, Apogeo, 1997.

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COSTRUZIONI E BIOLOGIA

CAPITOLO

71 CUSTODI DELLA GEOMETRIA Yanni A. Loukissas

"Perché dovremmo cambiare? Abbiamo costruito edifici per mi­ gliaia di anni senza CATIA?"' Roger Norfleet, un architetto prati­ cante sulla trentina ha posto questa domanda a Tim Quix, di una generazione più vecchio e esperto di CATIA, uno strumento di pro­ gettazione computerizzata sviluppato dalla Dassault Systemes agli inizi degli anni '80 per gli ingegneri aerospaziali.a Siamo nel 2005 e CATIA ha appena fatto il suo esordio alla Paul Morris Associates, lo studio di architetti, che impiega una trentina di persone, dove Norfleet lavora; e ora è alle prese con ciò che questo significherà per lui, per il suo studio, e per la sua professione. La progettazione com­ puterizzata è una questione di creatività, ma anche di giurisdizione, cioè di chi deve controllare il processo di progettazione. La teorica dell'architettura Dana Cuff scrive che ogni gene­ razione di architetti è stata formata per capire cosa costituisce un atto creativo e chi, all'interno del sistema di questa professione, ha il potere di assumere il ruolo del creatore.3 La creatività è costruita socialmente e Norfleet si è ritrovato in un'epoca di transizione tec1. Ho seguito gli architetti e i loro collaboratori in numerosi ambiti professionali e accademici; il presente saggio si concentra sulle storie di due società, a cui facciamo riferimento qui attraverso gli pseudonimi Paul Morris Associates e Ralph Jerome Ar­ chitects. Tutte le interviste riportate in questo saggio sono state condotte tra il 2002 e il 2005. Voglio esprimere la mia profonda gratitudine verso tutti gli informatori. Vorrei ringraziare anche Sherry Turkle per aver revisionato e, praticamente, curato molteplici versioni di questo documento e per aver supervisionato buona parte della ricerca etnografica. Ringraziamenti ulteriori vanno a Willi am Porter e Robin Mac­ gregor per aver letto il testo e fornito preziosi suggerimenti. n mio lavoro è stato in parte supportato dalla National Science Foundation attraverso la sua sowenzione (Grant No. 0220347). Qualsiasi opinione, esito, conclusione o consiglio espresso in questo materiale appartiene all'autore e non riflette necessariamente il punto di vista della National Science Foundation. In questo saggio, è garantito l'anonimato a tutti gli informatori e alle istituzioni che hanno partecipato. 2. CATIA è l'acronimo di "Computer-Aided Three-Dimensional Interactive Application" . 3· Dana Cuff, Architecture: The Story o/ Practice (Cambridge, Mass.: MIT Press, 1 991).

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nologica ma anche sociale. Egli deve venire a patti con strumenti di progettazione computerizzata sempre più complessi che hanno modificato sia la creatività sia le regole con cui questa operava. Tradizionalmente, l'architettura è stata definita da professio­ nisti e clienti in relazione a tre serie di standard: tecnico, economico ed estetico. Gli edifici devono essere solidi, pratici, e belli. Vitruvio, autore di uno dei primi trattati noti di architettura, il De Architec­ tura, ha espresso queste qualità con i termini latini firmitas, utilitas e venustas. Gli architetti moderni hanno mantenuto una certa distan­ za dalle attività tecniche ed economiche per privilegiare il suo ruolo estetico, quello che il sociologo Magali Sargatti Larson ha chiamato !"'estetica della costruzione" .4 Tuttavia, con le nuove tecnologie del­ la simulazione, incarnate da programmi come CATIA, le cose stan­ no cambiando; nuove forme di perizia tecnica stanno diventando centrali per l'identità professionale di un architetto. Nella pratica odierna, gli architetti utilizzano i software di progettazione computerizzata per produrre modelli geometrici in 3D. Talvolta utilizzano software commerciali già pronti all'uso come CATIA, altre volte personalizzano questi programmi attra­ verso plug-in e macro, altre ancora lavorano con il software che hanno programmato da soli. E tuttavia, conformemente alle idee di Larson secondo cui essi rivendicano di essere posti a un livello superiore perché si identificano con l'arte e non con la scienza, gli architetti contemporanei non utilizzano spesso il termine "simula­ zione". Piuttosto, hanno mantenuto una terminologia tradizionale parlando di "modellizzazione" per descrivere le nuove attività con la tecnologia digitale. Ma al di là che utilizzino o meno questo termi­ ne, la simulazione sta creando delle nuove identità architettoniche e sta trasformando le relazioni all'interno della cerchia di coloro che collaborano alla realizzazione di un progetto: maestri e apprendisti, studenti e insegnanti, tecnici esperti e programmatori talentuosi. Oggi, costruirsi un'identità come architetto richiede la capacità di definirsi in relazione alla simulazione.5 Qui, i casi studio, tratti pri4-

Magali Sarfatti Larson, Behind the Postmodern Facade: Architectural Change in Late Twentieth-Century America (Berkeley: University of California, 1993 ) .

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I singoli architetti avranno, ovviamente, diversi stili personali per relazionarsi

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mariamente da due studi di architetti, illustrano la trasformazione delle relazioni tradizionali - in particolare quella di maestro e ap­ prendista - e l'emergere di nuovi ruoli, tra cui una nuova identità professionale, quella del "custode della geometria", definita da una fusione tra persona e macchina.6 LA PAUL MORRIS ASSOCIATE$

Poco più di un anno fa, la Paul Morris ha assunto Quix per inse­ gnare agli architetti a utilizzare CATIA per produrre dei modelli tridimensionali dei loro progetti. Sebbene Quix non abbia mai avu­ to una formazione in architettura, lavora nel campo da ormai quasi vent'anni. Una volta insegnava e vendeva CATIA agli utenti per cui era stato creato, cioè gli ingegneri aerospaziali che lavoravano so­ prattutto come impiegati alla IDM, la società madre della Dassault Systèmes. Ora che è un uomo di mezza età, Quix sta sfruttando la sua esperienza con CATIA per crearsi un ruolo nell'ambito dell'ar­ chitettura, un campo che lo aveva attirato da giovane, da cui si era poi allontanato per seguire il suo amore per la progettazione com­ puterizzata. Quix ora insegna CATIA alla Paul Morris Associates e cerca di applicare il software ai progetti sviluppati dallo studio. ll controllo su CATIA in effetti si traduce in un bel po' di potere. Prima di passare alla fase di costruzione, i progetti esistono solo come rappresentazioni; chiunque modelli un progetto produce e controlla la realtà della progettazione. Alla Paul Morris Associates, la resistenza a CATIA prende for­ ma a partire da diverse considerazioni. Rikle Shales, architetto sui trentacinque anni, oppone resistenza all'elaborazione dei suoi pro­ getti con CATIA perché sostiene che una volta che i progetti vengo-

all'informatica. La mia analisi qui si pone al centro tra manufatto, stile personale e ruoli culturalmente disponibili nella professione. Si veda Sherry Turkle e Seymour Papert, "Epistemological Pluralism and the Revaluation of the Concrete", Signs 16, n. l (Autunno 1990): 128-157. 6. Sullo studio della Paul Morris Associates, la responsabilità del coordinamento di tutto il lavoro di modellazione geometrica per un dato progetto ricade su un ar­ chitetto, che viene appunto indicato dai colleghi come il "custode della geometria"_

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no rappresentati così le persone tendono a vederli come qualcosa di congelato, come qualcosa di bell'è fatto. Lei cerca di sottolineare i tanti cambiamenti che hanno luogo nel corso della progettazione e sostiene che dovrebbero essere tenuti lontani da CATIA finché non si giunge alla fine del processo. A questo proposito afferma che: "Quix ha l'abitudine di pensare che se elaboriamo le cose attraverso CATIA, saranno subito pronte e coordinate. Ma non ha senso mo­ dellare un progetto iniziale con CATIA, se poi quasi sicuramente dovremmo apportare dei cambiamenti". La sua posizione nasce da giuste considerazioni, ma lei e gli altri architetti sanno che è in gioco anche una dimensione politica. Tenere i progetti lontano da CATIA le conferirebbe un maggiore controllo sul processo di progettazio­ ne. Una volta che sono passati in CATIA, tutti i progetti passano nelle mani di Quix che è l'unico più in grado di manipolarli. Quix e i suoi oppositori si definiscono in relazione a CATIA e l'uno rispetto agli altri. Dalla prospettiva di Quix, l'architettura ha bisogno di CATIA, perché questo può apportare un nuovo ri­ gore alla costruzione. Secondo lui gli architetti hanno difficoltà ad apprendere CATIA perché questo richiede un "livello di rigore a cui loro non sono abituati" . La resistenza dei suoi colleghi a CATIA rafforza il suo sentirsi diverso da coloro che lo circondano; lui è il rigido ingegnere. In realtà, Quix descrive la sua vita alla Paul Morris Associates parlando di "tre fasi difficili", ciascuna delle quali è uno stadio che prevede una certa resistenza a CATIA. La prima fase la chiama "la parete di mattoni". In questa fase, spiega, gli arc�tetti si lamentano di essere troppo occupati per poter imparare. Dicono che il pro­ gramma è straniero; si sente che c'è l'approccio di qualcun altro all'architettura. Quix fa riferimento a questo primo stadio come a "una malattia chiamata NIQ (Non Inventato Qui ) " . Nella fase della parete di mattoni, Quix resta isolato. Una seconda fase ha inizio quando Paul Morris, il fondatore e titolare dello studio, ordina a tutti gli effetti al team di architetti di imparare CATIA, accettando Quix come tutore. Quest'ultimo par­ te con l'insegnamento facendo lezioni individuali ai professionisti. In questa seconda fase, ribattezzata apprendimento con resistenza,

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CATIA è visto in maniera molto differente dagli architetti e d al loro insegnante. Quix lo vede come un nuovo modo di guardare al mon­ do, un modo sistematico e tridimensionale di avvicinarsi alla pro­ gettazione. Soprattutto, è un nuovo modo di essere architetto. Quix sente di fornire molto di più di un nuovo software alla Paul Morris Associates. Sta fornendo ai suoi architetti una nuova epistemologia e una nuova identità. Per i progettisti che diventano suoi studenti, CATIA è sem­ plicemente una tecnica, una serie di abilità in più da applicare ai loro problemi pratici. ll conflitto tra Quix e gli architetti della Paul Morris Associates ci riporta alla descrizione che ha dato Sherry Turkle dei due modi in cui la tecnologia può essere "trasparente".7 Una trasparenza "modernista" consente all'utente di avere accesso ai meccanismi interni di un sistema. Essa evoca l'estetica delle pri­ me relazioni con le automobili in cui si poteva "aprire il cofano e vederci dentro". Questo è il tipo di relazione con CATIA che Quix auspicherebbe. La Turkle mette a confronto questa trasparenza con il "significato Macintosh" della parola. Si tratta di una trasparenza che ribalta la sua definizione tradizionale, perché sostiene che qual­ cosa è trasparente non se si sa come farla funzionare ma se si riesce ad utilizzarla sensa sapere come funziona. Si tratta di una traspa­ renza dove l'utente naviga sulla superficie del sistema, ma non ha accesso ai meccanismi sottostanti. La sua estetica è postmoderna. Questa è la visione della tecnologia che interessa alla maggior parte degli studenti di Quix. Robert Laird, un architetto appena trentenne, è considerato da Quix come una sorta di suo pupillo . Laird è riuscito a impa­ rare ad operare sulla "superficie" di CATIA. Utilizza i progranuni di modellizzazione in 3D sin dagli anni dell'università: AutoCAD, 3D Studio Max, Rhinoceros, Form-Z, e si lamenta di tutte queste piattaforme. Per esempio, sostiene che "Rhino è come un 3D per imbecilli" . "Form-Z ha vari gap o perdite" . Ma per Laird CATIA è finalmente un sistema che fa le cose "per bene" . "Fa tutto quel1· Si veda Sherry Turkle, Li/e on the Screen: Identity in the Age o/ the Internet (New York: Simon and Schuster, 1995).

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lo di cui hai bisogno". Laird ripone molta fiducia in CATIA senza avere una conoscenza tecnica approfondita di come funzioni il pro­ gramma. "CATIA mi trasmette la sensazione di avere il controllo su quello che sto facendo. . . . Altri sistemi arrivano solo a un certo punto e poi crollano, ma non CATIA". Laird sostiene di essere stato assunto alla Paul Morris Associates per la sua capacità di lavorare con la progettazione computerizzata. Spesso, opera esclusivamente al computer o coordina il lavoro di progettazione computerizzata svolto da altri, un ruolo che lui e i colleghi identificano con l'essere il "custode della geometria" . L'identità professionale di Laird è costruita intorno alla sua relazione con la progettazione computerizzata. Sebbene sia diven­ tato il miglior studente di Quix nell'apprendere CATIA, continua a vedere questo software a modo suo. Tuttavia, nelle mani di Laird, CATIA "assume tratti artistici" . Per lui, questo programma è un mezzo "per manipolare luce e ombra". Una terza fase dell'insegnamento di Quix riguarda l'imple­ mentazione con resistenza continuata. In questa terza fase, i proget­ tisti alla Paul Morris stanno utilizzando finalmente CATIA (sotto la guida di Quix) per i disegni di un grande progetto, nella fattispecie un grande edificio pubblico. Ormai a questo punto, i progettisti si rendono conto che l'utilizzo di CATIA li fa sentire parte dell'evo­ luzione che lo studio stesso sta subendo. E tuttavia, anche adesso, la resistenza a CATIA continua, anche se assume nuove forme. Per esempio, nonostante il suo legame con il programma, Laird espri­ me riserve sulla sua praticità. Si lamenta del fatto che non sono gli architetti, ma i consulenti e gli appaltatori ad esserne i principali be­ neficiari: "li suo risultato è quello di rendere più semplice il lavoro di qualcun altro" . Laird è preoccupato del fatto che alla Paul Morris Associates, le persone trascorrano troppo tempo a modellare edifici al computer. "Sprechiamo ore nella modellizzazione" . La sua posi­ zione è ripresa anche da un progettista senior, il quale afferma che la progettazione computerizzata aumenta la tendenza degli architetti a "feticizzare il disegno" e a creare troppi dettagli troppo presto nel processo di progettazione. Anche se l'uso di CATIA è stato reso obbligatorio dal titolare dello studio, Quix è ancora sulle difensive.

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In effetti, nell'equilibrio dello studio, Rikle Shales si è ritaglia­ ta la sua identità evitando totaLnente CATIA. Alla scuola di archi­ tettura, la Shales era una sorta di guru del computer. Era un punto di riferimento per gli altri studenti. Ma sullo studio Paul Morris, tiene per sé le sue conoscenze in fatto di modellizzazione. Quando lavora al computer si limita ai programmi in 2D; la maggior parte delle volte, comunica le sue idee attraverso delle bozze. Morris le ha chiesto specificamente di imparare CATIA, ma la Shales non ne ha mai trovato il tempo; cosa, spiega, che è dovuta al peso delle altre responsabilità. La Shales confessa di avere qualche rimpianto per non aver imparato il programma . Dice: "Mi piace sapere che mi tengo aggiornata su tutto" , ma di fatto la sua autorità sul progetto dell'edificio pubblico che "vive" su CATIA è stata dovuta, aLneno in parte, proprio al suo non essersi dedicata all'apprendimento del sistema. n tempo che ha risparmiato in questo modo le ha permesso di dedicarsi all' amministrazione del progetto. Oltre a questo, il non conoscere CATIA ha confermato la sua identità non tecnica; ora è vista come una "persona della gente" e della progettazione. Altri la descrivono come il "collante" che tiene insieme i progetti, che orga­ nizza i compiti all'interno dello studio, e coordina la comunicazione con i consulenti esterni. Mentre Quix e Laird hanno plasmato i loro ruoli all'interno della società identificandosi con la tecnologia, la Shales ha preso il suo posto tenendola a debita distanza. Paul Morris, il titolare dello studio, non ha fatto nessuna delle due cose. Non si presenta come un tecnico esperto ma ha comunque permesso alla tecnologia di essere parte attiva nelle sue relazioni con i colleghi, particolarmente nel rapporto con la nuova generazione. Quando sono emerse le prime pratiche architettoniche ame­ ricane nel diciannovesimo secolo, i maestri dell'architettura erano coinvolti attivamente in ogni aspetto del lavoro dei loro studi.8 I 8. Nell'importante studio H. H Richardson, Richardson stesso ricopriva il ruolo di manager e di modello di pratica. Egli è stato tra i primi architetti americani ad es­ sere formato alla Ecole des Beaux Arts di Parigi. A quel tempo, non c'erano istituzi­ oni del genere in America. Quindi, Richardson ha dovuto adoperarsi lui stesso per combinare la formazione con la pratica nel suo studio.

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teorici Donald Schon e Dana Cuff hanno scritto sulla stretta cor­ relazione maestro-apprendista che si è sviluppata in tale contesto. Ciascuno di essi sostiene, a proprio modo, che la progettazione si comprende meglio attraverso una relazione tra individui, il maestro e l'apprendista. Dana Cuff scrive che questa è la "principale rela­ zione sociale" in architettura.' Schon descrive la formazione tradi­ zionale in progettazione attraverso il coinvolgimento stretto di un maestro architetto, Quist, in tutti i particolari del lavoro di Petra, la sua studentessa. Egli illustra come abbiano collaborato a stretto contatto, con le mani di Quist evidenti sui disegni di Petra: Quist pone un foglio di carta da lucido sulle bozze di Fetra e inizia a dise­ gnare sul suo progetto. Mentre disegna parla. E dice, per esempio: "l'asilo dovrebbe andare qui . . . poi dovresti portare il livello della galleria - e guar­ dare in basso, qui dentro

. . . " .10

Alla Paul Morris Associates, il software di progettazione com­ puterizzata sta reimpostando questa relazione maestro-apprendista. Paul Morris è un professionista prolifico e un accademico in pensio­ ne, ormai sulla soglia dei settanta, che aveva conquistato un iniziale successo grazie ai suoi impressionanti edifici modemisti. Lui appar­ tiene a una generazione in relazione alla quale il teorico dell'archi­ tettura Reyner Banham scrive: "Essere incapace di pensare senza disegnare era diventato un segno distintivo di chi era totalmente calato nella professione di architetto"." Morris si affida ancora alla matita per sviluppare nuove idee. Tuttavia, nel suo studio, la model­ lizzazione computerizzata sta rimpiazzando molti dei compiti tra­ dizionali della matita, dalle bozze al rendering. E anche se Morris raramente si accosta a quella macchina, essa ha trasformato anche la sua pratica personale. Spesso lui lavora alla fase concettuale dei progetti insieme a un tirocinante, un dipendente più giovane che lo aiuta a modellare una serie di idee progettuali. g. Si veda Cuff, Architecture, e Donald A. Schon, The Reflective Practitioner: How Pro/essionals Think in Action (New York: Basic Books, 1983 ) . 10. Schon, The Reflective Practitioner, BO. 11. Reyner Banham, "A Black Box: The Secret Profession of Architecture" , in A Cn'tic Wn'tes: Selected Essays by reyner Banham (Berkeley: University of California

Press, 1 996).

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Drew Thomdike è uno dei tirocinanti che collabora con Mor­ ris per la preparazione delle bozze per i concorsi. Thomdike opera con la progettazione computerizzata da quando era all'università e continua a impiegare il suo tempo nell'approfondire le conoscen­ ze su nuovi software. Quando gli abbiamo chiesto come inseriva i software di progettazione nei suoi obiettivi a lungo termine, ha ri­ sposto entusiasticamente che questi occupavano "una parte impor­ tante. . . . Voglio essere sempre avanti. . . I computer vogliono dire rapidità, e se non imparo i nuovi software, sarò fuori dal mercato. Sono sicuro di questo" . Dalle loro prime interazioni su un progetto, è emerso uno schema: Morris fa una bozza e Thomdike la traduce in un model­ lo geometrico sul computer. Morris chiede sempre a Thomdike di stampare le immagini che elabora al computer. Poi, i due si siedono insieme con un rotolo di carta da lucido e, in una variante simile alla pratica di Quist e Petra di cui racconta Schon, Morris traccia delle correzioni sulle stampe di Thomdike. Con il passare del tempo, Morris ha smesso di richiedere le stampe e ha iniziato a guardare direttamente le immagini sul com­ puter. Ora non è inusuale sentire Morris che dice a Thomdike: "An­ diamo a dare un'occhiata al tuo computer" . Morris redige ancora delle bozze concettuali, ma al progredire dei progetti, lui e il tiroci­ nante lavorano insieme davanti allo schermo; Thomdike fa funzio­ nare la macchina e Morris lo guida. Dal punto di vista del tirocinan­ te, il titolare ha "imparato ad accettare la tecnologia a suo modo" . Dal punto d i vista degli altri dipendenti, Morris h a riconosciuto un altro ruolo importante, o come ha detto qualcuno: "Lui non è più quello che "scolpiva lo spazio"". Ma Morris ha mantenuto ciò che era più fondamentale per lui. Vuole restare al passo con l'evolversi dei modelli, non importa dove siano, anche se deve sacrificare parte dell'intimità fisica che aveva con i disegni fatti a matita. Quando lavorano, Morris e Thomdike guardano lo stesso schermo, ma non vedono la stessa cosa. Per esempio, quando Mor­ ris fa qualche bozza per una nuova biblioteca pubblica, il compito di Thomdike al computer è quello di tradurle in un programma di modellizzazione noto come Rhinoceros, che lui chiama scherzosa.

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mente "Rhino". Thorndike solitamente siede davanti allo schermo mentre Morris resta dietro di lui. Rhino presenta loro l'equivalente virtuale di un foglio bianco, un grafico cartesiano abbozzato che fluttua in uno spazio sconfinato. Con un click del mouse, Thorndi­ ke sceglie il punto di partenza di un arco definito da tre punti sulla sua circonferenza. Dopodiché, seleziona la parte di un ellisse. Con questi due elementi progettuali, genera una superficie curva per la facciata della biblioteca. Thorndike sceglie a partire da una serie predefinita di forme che il computer riconosce. Sono i suoi "rudi­ menti" . Morris resta a guardare emergere il progetto; lui non riesce a vedere il mondo interiore di Rhino. Rhino produce ciascuna delle sue immagini stimolando mi­ gliaia di raggi di luce che riflettono i rudimenti nel modello e pene­ trano in una "telecamera" virtuale, un occhio virtuale. Questa tec­ nica, nota come "Ray Tracing", si basa su un meccanismo del primo Rinascimento per il trasferimento degli oggetti 3D su una superficie piatta. Così, per esempio, quando Thorndike ruota il modello sullo schermo, Rhino calcola praticamente una nuova posizione della te­ lecamera per l'algoritmo del "ray tracing" . Thorndike riesce a capi­ re da dove è venuta fuori l'immagine. Morris vede solo la rotazione e l'immagine finale. Morris è a conoscenza dei principi che informano il rendering di Rhino. Ma quando parlano di quello che c'è sullo schermo, Thor­ ndike riesce a fare riferimento ai dettagli dei rudimenti di Rhino e all'algoritmo del "ray tracing". n suo principale invece parla solo delle linee, delle superfici e dei colori - al massimo dà un'istantanea del progetto. Prima che intervenisse la tecnologia, Morris lavora­ va con le immagini sulla carta, che poteva manipolare fisicamente. Ora, il suo tirocinante ha un'esperienza più diretta del progetto in sviluppo. L'esperienza di Morris è mediata, dipendente. Maurice Merleau-Ponty suggerisce che le persone incorpora­ no gli strumenti nella loro sensibilità fisica attraverso l'esperienza della loro manipolazione.'2 Da questo punto di vista, Morris e Thor­ ndike hanno un'esperienza differente e quindi una diversa com12.

Maurice Merleau-Ponty, Phenomeno/ngy o/Perception (New York, Roudedge, 2002).

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prensione del modello. Quella di Morris è più distante, quella di Thorndike è più interna e immediata. Thorndike è orgoglioso della sua perizia nell'uso di Rhino e altri software di modellizzazione. Ha detto: "Ho portato AutoCAD al limite. La gente sullo studio si sorprende spesso di quello che riesco a fare con il progranun a". E tuttavia lui, come il suo men­ tore, pensa ancora con la matita. Thorndike descrive il progetto in evoluzione della biblioteca, alla cui modellizzazione sta lavorando sotto la guida di Morris, in questi termini: "La stanza è come una mandorla allungata. . . . L'ingresso è stretto ma alto e il centro dello spazio è ampio ma con la stessa altezza". Mentre parla, prende dal taschino una matita dal tratto scuro e inizia a disegnare il contorno della biblioteca sulla superficie vuota di uno dei tecnigrafi. La sua identità come architetto, come quella del suo maestro, sta nel mezzo dei mondi tecnologici. Quando Thorndike inizia a sentirsi frustrato a causa di Rhi­ noceros, quando raggiunge il limite, si volge verso altre soluzioni di modellizzazione. Al momento sta realizzando un nuovo modello per la biblioteca con AutoCAD. TI modello con AutoCAD presenta caratteristiche come la ripetizione e la presenza di superfici piatte che rendono più semplice la costruzione, sia virtualmente che pra­ ticamente. Thorndike spiega che le superfici deformate utilizzate in Rhino potrebbero essere molto costose da realizzare, soprattutto con il vetro. Per modellare la biblioteca in AutoCAD, il progetto deve essere semplificato, riproiettato in una geometria "platonica". Infatti, AutoCAD non potrebbe gestire la geometria " deforma­ ta" utilizzata da Rhino. In altre parole, la versione più aggiornata dell'edificio non è stata esattamente progettata in AutoCAD, è stata progettata per AutoCAD. La decisione di Thorndike di affidarsi a questo programma è stata dettata più che altro dalla volontà di preservare il suo ruolo creativo nel progetto perché si doveva produrre un progetto che si conformasse agli ideali dello studio e si doveva procedere a un uso razionale delle risorse per il cliente. Avrebbe potuto chiedere ad un altro architetto di fare il lavoro che lui non avrebbe potuto produrre con Rhino, ma diversamente dalla Shale e da Morris, Thorndike sta

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plasmando la sua identità all'interno della società imparando nuove applicazioni informatiche. Ha sottolineato che chiedere ad altri di fare un modello geometrico al suo posto avrebbe richiesto più tem­ po. Non ha anunesso direttamente che lo avrebbe reso anche più di­ pendente da loro, ma questo pensiero è implicitamente presente in ogni cosa dica. "Prima di tutto, bisogna aspettare che questa perso­ na sia disponibile. Poi bisogna spiegarle l'intero progetto. Infine, se si vuole andare incontro ai suoi interessi, bisogna darle qualcosa di significativo su cui lavorare. A questo punto me lo faccio da solo". Nel corso del lavoro su questo progetto, Thomdike ha migliorato la sua capacità di passare rapidamente dalle geometrie deformate di Rhino a quelle platoniche di AutoCAD. Passato un weekend ci ha detto scherzosamente in un linguaggio fanciullesco: "Io e tecnologia abbiamo lavorato insieme nel fine settimana" . Thomdike è convinto che imparare Rhino lo aiuterà a cemen­ tare il suo ruolo di collaborazione competitiva con Morris. Tuttavia, lavora in quello studio da dodici anni e sa che alla Paul Morris, il suo posto nella progettazione si estenderà solo fino a un certo punto. Alla fine, tenterà di mettersi in proprio. Per lui, lavorare alla Paul Morris è un'opportunità non solo di imparare cose che riguardano la progettazione ma anche i meccanismi della gestione di una società e dello sviluppo dei progetti. Per lui, l'esperienza di modellizzazione geometrica gli consente di negoziare un suo ruolo sullo studio; è un "gettone" che gli fornisce accesso a certi incari­ chi. Tuttavia, Thorndike sottolinea il fatto che per la sua prepara­ zione nel lungo termine, altre capacità, come quella di sviluppare un progetto, possono essere ugualmente importanti se non di più. Deve continuamente negoziare i suoi ruoli di progettista, esperto di simulazione, e manager se vuole assicurarsi un ruolo creativo nella pratica contemporanea. RALPH JEROME ARCHITECTS

La Ralph Jerome Architects, uno studio del Midwest che impiega circa un centinaio di persone, utilizza CATIA per realizzare i pro­ getti più complessi che richiedono la gestione delle conoscenze di

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diverse discipline collegate. Qui, CATIA serve come un "luogo" in cui si incontrano diverse tipologie di sapere. I dettagli della costru­ zione sono spesso fomiti dai consulenti e dai costruttori. CATIA mette insieme le conoscenze sui materiali di costruzione che pro­ vengono dai collaboratori esterni con le informazioni schematiche sui progetti. Ralph Jerome sottolinea che, per lui, questa tecnologia porta l'architetto più vicino alla figura dell'artigiano che maneggerà praticamente quei materiali. Lui vede CATIA come un modo per bypassare i tanti strati che si frappongono tra la bozza iniziale e l'edificio finito. Tuttavia, alla Ralph Jerome Architects la riconfigu­ razione del lavoro intorno a CATIA ha portato anche confusione, ridondanza e perdita di dati, problemi che sono piuttosto comuni quando si lavora con i file digitali. Questi sviluppi hanno portato alla nascita di un nuovo ruolo. Come Paul Morris, anche Ralph }e­ rome ha bisogno di un "custode della geometria", qualcuno che svolga un ruolo simile a quello di Robert Laird, ma con più potere. Allo studio di Ralph Jerome, questo ruolo ha il titolo formale di " Direttore Informatico" . Malcohn Dietrich ricopre questa posizio­ ne ed è responsabile del coordinamento del lavoro di modellizzazio­ ne geometrica dello studio. Per Dietrich, il computer sta per diventare lo spazio collabo­ rativo unificante per progettisti e tecnici. Secondo la sua visione, una persona è al centro del processo edilizio e il suo potere arriva dall'accesso che ha alle conoscenze, conoscenze che sono tutte nel computer. Dietrich descrive questa persona come un "maestro ar­ chitetto tecnicamente dotato che siede nel mezzo" . Nelle previsioni d i Dietrich, l'architetto tecnicamente dota­ to ha il potenziale di materializzare un nuovo tipo di integrazione tra i membri dello studio e i contraenti esterni. Questo architetto conosce ogni singolo bullone di un edificio e può visionare e coor­ dinare il lavoro di ogni persona coinvolta. Dietrich aspetta il giorno in cui potrà dire: " So che cos'è questa forma e com'è stata costruita e come stanno insieme tutti i pezzi, posso dare la convalida e ar­ rogarmi il diritto di dire che questa cosa funzionerà". Da un lato, l'architetto al centro sembra essere onnipotente; e tutavia si registra un paradosso nella visione di Dietrich. In questo modello, gli operai

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artigiani hanno un ruolo molto più creativo nella progettazione e talvolta Dietrich parla di se stesso come di chi "mette semplicemen­ te i pezzi insieme" . Avere il controllo della macchina sembra un la­ voro di categoria inferiore: "Qualcosa che mi fa sentire un semplice traduttore di segnali" . RUOLI TECNOLOGICI: DALLE ZONE DI INTERMEDIAZIONE Al MEZZI DI COMUNICAZIONE

Nelle storie di questi architetti abbiamo visto una varietà di risposte alla tecnologia e un'ampia gamma di identità emergenti. Quix rap­ presenta una nuova "razza" di tecnici esperti; la Shales si definisce in base al suo rifiuto di acconsentire alle richieste della tecnologia; Morris e Thorndike stanno plasmando una nuova dinamica del rap­ porto tra maestro e apprendista in una cultura della simulazione; Dietrich dà un'immagine dell'architetto che è sul punto di diventa­ re un cyborg, un'identità che richiede di diventare tutt'uno con la macchina. Ci sono elementi nella visione di Dietrich che sono già all'ope­ ra alla Ralph Jerome Architects. Per esempio, Dimitri Kabel, uno degli architetti dello studio, "cattura" in CATIA le conoscenze fi­ siche specifiche che i costruttori apportano al processo di proget­ tazione. Per lui, lavorare con la simulazione computerizzata gli ha permesso di vedere l'intera architettura come una simulazione, una cosa che non gli era chiara quando le rappresentazioni erano fatte con carta e matita. quando un progetto richiede delle particolari conoscenze tecniche riguardo, ad esempio, a una parete di vetro sospesa, Kabel collabora con un consulente di mura non portanti per modellare le sue informazioni in CATIA; il modello geometrico serve come mezzo di comunicazione sullo studio. Tuttavia, quando si chiede al consulente di codificare le sue conoscenze per operare con il vetro, diventano subito chiare le limitazioni pratiche della vi­ sione di Dietrich. li processo di costruzione di questa parete non portante non può essere ancora descritto in una forma che possa essere modellata da CATIA. Dietrich si lamenta che "una delle cose più difficili è andare dal costruttore e dirgli: "forniteci le vostre re-

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gole; quali sono le regole a cui dobbiamo attenerci per fare sì che questa cosa sia costruibile? " " In queste storie abbiamo visto che la domanda: "Chi sono io in relazione al software? " è divenuta centrale per capire come gli architetti negoziano la loro identità professionale. Paul Morris e Ralph Jerome la utilizzano come uno strumento per realizzare edifici in collaborazione con i colleghi più esperti a livello informa­ tico. Ma alcuni architetti sono soprattutto maestri del virtuale, che si assicurano una reputazione a livello internazionale nei concorsi di architettura attraverso oggetti che esistono solo sullo schermo. La loro pratica prende vita sul computer e nelle gallerie d'arte in­ vece che sui cantieri. Tra questi ci sono architetti che lavorano con esperti programmatori, che solo in alcuni casi sono anche architetti. Tale è la relazione tra Tom Haig e Mike Orlov, entrambi operanti nell'ambiente accademico. Haig sa come opera il programma e ha un modello operante dei meccanismi sottostanti ma non è in grado di programmare le simulazioni che rendono possibile il suo lavo­ ro. Questo ruolo spetta a Orlov, il programmatore esperto di Haig. Haig è maestro di un regno in cui non può entrare completamente. Parlando del loro rapporto, Orlov dice: "È davvero curioso, quan­ do comunichiamo sulla stessa cosa, in realtà parliamo di quella cosa a livelli differenti" . Qui, come in altri relazioni tra architetti che s i avvicinano alla modellizzazione geometrica a diversi livelli di comprensione, la tecnologia agisce, secondo la definizione dello storico della scienza Peter Galison, da zona di intermediazione. Galison utilizza questo termine per descrivere come, persone che appartengono a gruppi sociali differenti, possono scambiarsi oggetti e informazioni senza avere la stessa lettura di quello scambio. '3 Ma si tratta di una de­ scrizione efficace del modo in cui gli architetti operano al di là delle loro divisioni culturali, sia che si tratti di Morris, il maestro, e di Thorndike, il tirocinante, o di Haig, l'architetto virtuale, e Orlov, il suo partner hacker.

13. Peter Galison, Image and Logic (Chicago: University of Chicago Press, 1997), capitolo 9.

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La terminologia di Galison mette in evidenza la diversità in ciò che i differenti architetti apportano alle negoziazioni con la tec­ nologia; un altro modo di guardare i loro scambi è sottolineando le similarità in ciò che il software impone a tutti loro. Un programma come CATIA incarna visioni culturalmente specifiche della produ­ zione di immagini. Tali visioni saranno trasmesse a qualsiasi utente si avvicinerà al programma; quell'utente sarà portato all'adozione non solo di un programma specifico ma anche di un modo di codi­ ficare la realtà.'4 n teorico dell'architettura William J. Mitchell parla dei software come di una "ideologia congelata".'5 n sociologo Gary Downey descrive il potere della progettazione computerizzata come la subordinazione della progettazione alla grafica computerizzata, un processo in cui i propri occhi e le proprie dita sono ceduti alla macchina.'6 Per usare il linguaggio di Michel Foucault, il program­ ma diventa un nuovo tipo di potere, una forza che "produce realtà; produce domini di oggetti e rituali di verità" .'7 Questo è quello che sente Quix quando parla di CATIA come di qualcosa che è più di un programma, un modo per vedere il mondo. Come qualsiasi campo professionale, anche l'architettura può essere vista come un sistema in transizione. '8 Tuttavia, con nuovi ruoli e nuovi rapporti, gli architetti stanno imparando che la lotta per il controllo professionale è sempre più una lotta per il controllo sulla simulazione. La progettazione computerizzata sta cambiando gli schemi professionali di produzione nell'ambito architettonico, il modo stesso in cui i professionisti entrano in competizione tra di loro rivendicando nuove conoscenze. Anche oggi, i dipendenti della Diana Forsythe, Studying Those Who Study Us: An Anthropologist in the World o/ Arti/icial Intelligence (Stanford: Stanford University Press, 2001 ); Lucy A. Suchrnan, Plans and Situated Actions: The Problem o/Human-Machine Communica­ tion (Cambridge: Cambridge University Press, 1987). 14.

15.

L'espressione "ideologia congelata" è stata utilizzata da WilliamJ. Mitchell in una conversazione personale che ho avuto con lui nel 2005. 16. Gary Lee Downey, The Machine in Me: An Anthropologist Sits among Computer Engineers (New York: Routledge, 1998). 17. Miche! Foucault, Discipline and Punish: The Birth o/ the Prison (New York: Vmtage Books, 1995), 94. 18. Andrew Abbott, The System o/Pro/essions: An Essay on the Division o/Expert Labor (Chicago: University of Chicago Press, 1988).

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Paul Morris stanno litigando per il ruolo che il software di simula­ zione deve ricoprire nello studio. Tra le altre cose, essi discutono per il ruolo che questo deve avere riguardo alle gerarchie e alle pro­ mozioni da distribuire sullo studio. E lottano per la scelta dei nuovi software di simulazione, perché sono consapevoli che scegliere un determinato software vorrà dire affidare maggiore potere a coloro che ne sono più esperti. Come abbiamo visto, condividere uno schermo non significa necessariamente condividere una visione. Ma porta a un nuovo tipo di intimità che rende esplicito ciò che è condiviso e ciò che non lo è. Poiché anche quando un software è celebrato e utilizzato in maniera creativa, certi abiti mentali del passato sono duri a morire. In particolare, gli architetti continuano a preoccuparsi del disegno, l'espressione di un altro tipo di contatto con i volumi e i profili. Thomdike, il tirocinante, crede che Paul Morris lo abbia as­ sunto non per la sua esperienza tecnica ma per la sua capacità di disegnare con una matita. Per Morris stesso, che pensa con la matita e si è legato a un tirocinante che può aiutarlo a pensare sullo scher­ mo, ci sono già avvisaglie di una convergenza. Dopo tutto, lui ha scelto un partner di lavoro che è sì capace davanti allo schermo ma anche bravo con la matita. In un senso strumentale, è la capacità di Thomdike di gestire un programma che lo rende indispensabile per Morris, ma è probabilmente la sua abilità con la matita che fa sentire Morris più a suo agio con il nuovo collega. Quix, l'esperto di CATIA, ha avuto l'opportunità di lavorare con entrambe le società di cui abbiamo discusso in questo saggio. Lui vede Paul Morris e Ralph Jerome come persone che hanno ac­ cettato le nuove tecnologie in maniera differente, sia per le loro so­ cietà che per se stessi. Morris è più ricettivo, proprio a livello perso­ nale, nei confronti del computer. Quando è di fronte alla macchina, Quix afferma che " [Paul Morris] è più bravo a osservare". Per con­ tro, Ralph Jerome, perfettamente conscio, ma piuttosto diffidente, del potere della tecnologia su cui il suo studio sta costruendo la sua reputazione, si rifiuta di guardare i progetti sullo schermo. Dice che è come "mettere la mano sul fuoco" . Morris, Jerome, e quelli che lavorano con loro sono in un conflitto perenne nel tentativo di defi-

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nire quei ruoli creativi che gli assicurino accettazione professionale e maggiore controllo sulla progettazione. Le nuove tecnologie per la progettazione computerizzata non modificano questa realtà, sono loro a diventarne attori.

CAPI TOLO

B I RIPRODURRE IL RIPIEGAMENTO PROTEICO

Natasha Myers

Gli scienziati si affidano ai modelli - dalle costruzioni fisiche alle animazioni virtuali - come "oggetti attraverso cui pensare".' I cam­ biamenti nelle culture della modellizzazione riflettono i profondi sconvolgimenti occorsi nei campi della ricerca. I modelli mostrano la scienza in azione, con tutto il suo affidarsi all'intuizione e alla ca­ sualità, con tutto l'impegno, anima e corpo, dello scienziato. Nella ricerca e nella pedagogia, gli scienziati non fanno semplicemente riferimento ai modelli, li riproducono. 2 Gli storici della scienza David Kaiser e Maria Trumpler hanno scoperto che i libri di testo documentano e illuminano la storia del cambiamento dei modelli scientifici e degli stili pedagogici.3 Qui, l'etnografia di una classe biologica sul ripiegamento proteico mi ha permesso di focalizzare l'attenzione su un elemento più effimero della pedagogia: il ruolo dei modelli nella "performatività" dell'in­ segnamento in aula. Invocando una "riproduzione" , un atto perfor­ mativo, invece che una "rappresentazione" , posso esplorare i modi La ricerca alla base di questo saggio ha visto il generoso supporto di finanzia· menti e borse di studio quali NSF Predoctoral Fellowship (Grant No. 00220347), NSF Dissertation Improvement Grant (Award No. 0646267), Social Sciences and Humanities Research Council of Canada Doctoral Fellowship (Award No. 752-20020301). Qualsiasi opinione, esito, conclusione o consiglio espressi nd presente ma­ teriale appartiene all'autore e non riflette necessariamente le visioni della National Science Foundation o di qualsiasi altro ente di finanziamento. z. James K. Griesemer asserisce che una storia dei modelli dovrebbe rendere conto di come sono riprodotti nella pratica. Si veda James R. Griesemer, "Three­ Dimensional Modds in Philosophical Perspective", in Models: The Third Dimension o/ Science, a cura di Soraya de Chadarevian e Nick Hopwood (Stanford: Stanford University Press, 2004). Si veda David Kaiser, Drawing Theories Apart: The Dispersion o/ Feynman 3· Diagrams in Postwar Physics (Chicago: University of Chicago Press, 2005); e Maria Trumpler, "Converging Images: Techniques of lntervention and Forms of Repre­ sentation of Sodium-Channd Proteins in Nerve Celi Membranes", Journal of the History of Biology 30 (1997): 55-89. 1.

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in cui i modelli multi-dimensionali finiscono per risiedere nell'im­ maginazione degli scienziati. La mia storia inizia con i nuovi sviluppi delle pratiche di mo­ dellizzazione tra i biologi molecolari. Oggigiorno, dopo decenni di ricerca per "decodificare" la molecola di DNA lineare, l'oggetto di indagine sta cambiando. Team multi-disciplinari di scienziati e in­ gegneri convergono su diversi oggetti: le molecole proteiche. Una nuova generazione di scienziati nell'ambito delle scienze della vita devono imparare a visualizzare queste complesse e minuscole so­ stanze molecolari in continuo cambiamento. Ciò richiede una nuo­ va cultura della pedagogia e dell'istruzione per formare una nuova "razza" di scienziati delle proteine.4 Una delle abilità chiave che i nuovi ricercatori devono acquisire è la "sensibilità" per come si muovono e interagiscono le molecole proteiche.5 È una sensibilità che i ricercatori più esperti devono trasmettere ai loro studenti. Per fare ciò, gli insegnanti incoraggiano gli allievi a rapportarsi con i mo­ delli attivamente e fisicamente. In tal modo, l'insegnamento diviene una pratica di informazione delle menti e formazione dei corpi. MODELU, CORPI E IMMAGINAZIONE

Le rappresentazioni scientifiche sono importanti, ma lo sono anche i modi in cui immagini e modelli finiscono per risiedere nell'imma­ ginazione degli scienziati. Nello studio dello sviluppo di un fertile repertorio di immagini tra i biologi molecolari, la Trumpler si è con­ centrata sul modo in cui sono cambiate le loro rappresentazioni delle proteine canali di membrana, strutture che sono state fondamentali per la neuroscienza molecolare negli ultimi decenni. La Trumpler scrive dell'"importanza delle immagini mentali che gli scienziati si formano" e di come essi "concepiscano nel privato" quelle "ampie e complesse molecol[e] tridimensionali che si muovono nello spazio e

4-

Si veda Kaiser, Drawing Theon'es Apart. Natasha Myers, "Molecular Embodiments and the Body-Work of Modeling in Protein Crystallography" , Social Studies ofScience 38, n. 2 (2008): 163- 199, e "Mod­ eling Proteins, Making Scientists" . 5-

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nel tempo".6 Per lei, le molteplici "immagini mentali complesse" di sostanze altrimenti invisibili aiutano i ricercatori a porsi di fronte ai dubbi sperimentali e a comunicare tra loro. Nessun modello singolo potrebbe essere sufficiente. La Trumpler afferma che l'immagine mentale vincente delle proteine è dinamica, generata da ciò che ella chiama la "conver­ genza" di tante modalità distinte di rappresentazione.7 Le immagini mentali sono quindi il prodotto di diversi tipi di rappresentazione che cambiano quando si introducono nuove tecniche di visualiz­ zazione e nuove convenzioni. Come si può accedere alla storia di questo ricco immaginario visivo? La Trwnpler utilizza i grafici e i modelli dei libri di testo perché questi tendono a combinare diverse rappresentazioni visive in una singola figura. Per lei, queste figure sono dei "template" che convogliano quelle immagini mentali che gli scienziati vorrebero sollecitare nell'immaginazione degli studenti. La studiosa apporta dei contributi significativi alla nostra comprensione della natura dell'immaginazione scientifica. Ella identifica le tipologie di fonti che gli storici potrebbero utilizzare per trovare espressioni di entità che altrimenti resterebbero nell'im­ maginario; ci mostra come sono prodotte le immaginazioni scienti­ fiche attraverso i processi pedagogici. Qui, si vuole indagare come il passaggio dalla storia all'etnografia e dallo studio di rappresentazio­ ni bi-dimensionali nei manuali ai modelli 3D in aula può estendere e approfondire le nostre conoscenze. Con la Trwnpler, si proporrà che i modelli 3D hanno una ric­ ca storia materiale e insieme una vita interiore molto intensa. Ma il suo uso del termine "immagine mentale" non rende pienamente il grado del coinvolgimento dell'immaginazione scientifica con il cor­ po e non spiega completamente la loro natura multidimensionale. Per capire le immaginazioni scientifiche, bisogna andare oltre ciò che gli scienziati scrivono o introducono nelle illustrazioni dei libri di testo. I modelli non sono semplici rappresentazioni o risultati; sono "esecuzioni", sono "realizzati per essere partecipati, abitati, 6.



Trumpler, "Converging lmages", 55. Ibid., 56.

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[e] vissuti" .8 Gli scienziati non si limitano ad avere in mente dei modelli; se li portano con loro nel corpo. L'esperienza impegnativa e laboriosa della realizzazione e della collaborazione con i model­ li è il mezzo attraverso cui i ricercatori incorporano la conoscenza della forma e della struttura dei loro modelli.9 In questo processo, il corpo degli scienziati diventa uno strumento per apprendere e comunicare il loro sapere agli altri. Per studiare questo processo, ci volgiamo ai siti in cui gli scienziati si cimentano nell'impresa di comunicare le conoscenze molecolari rappresentate. Uno di questi siti è il corso semestrale che si tiene in un'università di ricerca dell'East Coast e che prende ad esame la biologia della struttura e del ripiegamento della proteina. I professori del corso sono Jim Brady e Geoff Miller.'0 Brady è un illustre scienziato, esperto in proteine, noto anche per il suo im­ pegno nell'istruzione scientifica. Miller è un ingegnere meccanico che si è interessato di recente alle strutture proteiche. Poiché non esiste un modello univoco per descrivere il ripiegamento proteico, o "protein folding" , un corso su questo soggetto si offre come sito perfetto per studiare il modo in cui convergono molteplici forme rappresentative. N elle prime settimane del corso, gli studenti sono incoraggiati a imparare "a memoria" le intricate strutture molecolari di ciascuna proteina. Brady dice all'aula: "Vogliamo che vi entrino in testa. Do­ vete saperle alla perfezione". Attraverso un fare autoritario, Brady e Miller lavorano sodo per trasmettere quelle abilità di cui gli studenti hanno bisogno per fissare nella loro "testa" i fondamenti delle strut­ ture molecolari. Mentre Brady impiega buona parte del suo tempo a scarabocchiare rapidamente equazioni biochimiche e dati speri8. Qui seguiremo Annamarie Mal nel suo tentativo di delineare le pratiche attra­ verso la loro "esecuzione" più che "rappresentazione" . Si veda Annemarie Mal, The Body Multiple: Ontology in Medica/ Practice, Science and Cultura/ Theory (Durham, N.C.: Duke University Press, 2002). Sui modelli come oggetti da "partecipare" e " abitare" , si veda Donna J. Haraway, Modest_ Witness@Second_Millennium.Femal­ men_Meets_Oncomouse: Feminism and Technoscience (New York: Routledge, 1997) , 135. g. Myers, "Molecular Embodirnents". 10. Qui vengono usati degli pseudonimi.

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mentali alla lavagna, tenta anche di avviare analogie e dimostrare le strutture proteiche con modelli colorati fatti con sferette e bastonci­ ni. Miller porta in aula la sua competenza ingegneristica, utilizzando dimostrazioni impressionanti e interattive di grafica computerizzata per evidenziare i tratti speciali di ciascuna piegatura. E oltre a tutto questo, i due professori liberano le rappresentazioni 2D dalle pagi­ ne dei libri per tradurle in riproduzioni in tempo reale della forma molecolare. In questo caso, mostrano agli studenti ad utilizzare il proprio corpo come risorsa per comprendere le complesse strutture molecolari in 3D e a costruire i propri modelli rappresentati, strato dopo strato. IL PROBLEMA DEL RIPIECiAMENTO PROTEICO

n "Problema del Ripiegamento Proteico" è un corso condiviso dai dipartimenti di biologia e di chimica, e gli studenti, dei primi anni o della specialistica, vi arrivano provenendo da diversi background disciplinari inclusi quelli di fisica e informatica. Più di cinquanta studenti si sono presentati al primo incontro. Eppure appena quin­ dici anni fa, erano solo in dieci a frequentare questo corso. Brady fa

notare la cosa in aula e chiede: "Cos'è cambiato? Perché così tanto interesse per le proteine? " . n professore è convinto che le proteine abbiano catturato l'immaginazione degli scienziati perché queste molecole costituiscono la "seconda metà" del genoma. Inoltre, l'in­ teresse per le proteine è alimentato dalla convinzione che il loro studio avrà delle conseguenze pratiche, per esempio nella produ­ zione dell'insulina proteica, o di sostanze per il trattamento dell'Al­ zheimer, della malattia di Huntington, o del morbo di Creutzfeldt­ Jakob, la forma umana del morbo della "mucca pazza" . Sono tutte malattie del ripiegamento proteico. In ciascuna di esse, le proteine con piegatura difettosa danneggiano i tessuti producendo delle ag­ gregazioni letali all'interno delle cellule. I progressi della medicina quindi dipendono dalla ricerca in quest'area. In aula Brady descrive la storia del modo in cui gli scienziati hanno appreso del ripiegamento proteico. n momento fondamen­ tale per lui è stato nel 1 957 quando il gruppo di John Kendrew

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ha prodotto il primo modello di una proteina, presso il Laboratory of Molecular Biology dell'Università di Cambridge. Utilizzando i dati della diffrazione ai raggi X a bassa risoluzione, fu realizzato un modello 3D della mioglobina (la proteina che trasporta l'ossigeno ai muscoli) sfruttando i materiali a disposizione. Soprannominato "modello salsiccia" , la sua catena polipeptidica serpeggiante era fatta di plastilina e supportata da sottili bastoncini di legno. Secon­ do Brady, questo modello fu "scioccante" per la comunità scienti­ fica: "Nel momento in cui quell'immagine finì sulla stampa la gente cominciò a chiedersi: " come fa questa catena a sapere dove anda­ re? " " . Kendrew stesso restò sorpreso dall'irregolarità della struttura proteica che emergeva dai suoi dati ai raggi X. Si aspettava che le proteine, capaci di organizzarsi in specie cristalline altamente ordi­ nate, avessero una qualche forma di simmetria interna." Cosa dava a questa piccola strana proteina la sua conformazione, questa sua piegatura particolare? Brady descrive le complessità della piegatura della proteina: "Puoi anche avere una conoscenza approfondita del suo stato fi­ nale, ma non avrai mai un'idea di come ci è arrivata". n ripiega­ mento proteico si verifica alla scala di grandezza degli atomi e alla velocità di nanosecondi. Visualizzarlo rappresenta una sfida per i ricercatori che hanno risposto con una gamma di tecniche di ima­ ging, modellizzazione e simulazione tratte dalla chimica, dalla fisica, dalla cristallografia, dalla genetica molecolare, dalla matematica e dall'informatica. Tuttavia, esso ha resistito a qualsiasi visualizzazio­ ne definitiva. Nessuna singola rappresentazione riesce a cogliere i comportamenti elusivi di una catena polipeptidica mentre si divin­ cola e passa attraverso varie conformazioni alla ricerca del suo stato "attivo" o "nativo" . n processo d i ripiegamento proteico è difficile d a comunicare con immagini e parole e rappresenta una sfida anche all'applica­ zione onnipresente dei modelli di comunicazione cibernetica dei

11. John C. Kendrew, "Myoglobin and the Structure of Proteins, Nobel Lecture, Decernber 1 1 , 1962", in Nobel Lectures, Chemistry 1942-1962 (Amsterdam: Elsevier, 1964), 676-698.

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processi cellulari.12 Se si segue il meccanismo delineato dal sempre più traballante "dogma centrale" della biologia molecolare, le cate­ ne polipeptidiche sono il prodotto finale di un complesso processo che prevede la "trascrizione" e la "traslazione" delle "informazioni" immagazzinate nel genoma.'3 In questo modello, l'RNA serve come "messaggero" per trascrivere il messaggio contenuto nel DNA nu­ cleare. Una volta trasportato nel citoplasma, i ribosomi, i minuscoli organuli macromolecolari che "leggono" la trascrizione ribonuclei­ ca, "traducono" il messaggio in una lunga catena polipeptidica di amminoacidi legati da un'estremità all'altra. È nel momento in cui la catena polipeptidica viene rilasciata nel citoplasma che il ripiegamento proteico si pone come problema pratico per la cellula. Questo è anche il momento in cui la metafo­ ra della comunicazione cibernetica viene meno. Per assicurarsi che la proteina acquisisca un'attività cellulare, la lunga catena polipeti­ dica pendula deve essere ripiegata in una complessa struttura 3D. Non c'è nessuno schema o codice che determini la forma attiva di una proteina: diverse sequenze di amminoacidi possono produrre strutture terziarie simili, mentre sequenze simili possono produrre piegature diverse. Immerse negli ambienti acquosi e chimicamente attivi della cellula, le proteine calcolano come ripiegarsi in forme 3 D attive. È questa interruzione del modello cibernetico d i un flusso ininterrotto di informazioni che ha bloccato i ricercatori negli ultimi cinquant'anni. Sin dall'inizio degli anni '60, i ricercatori hanno cercato invano di determinare come si potessero utilizzare le sequenze di amminoa­ cidi per predire il pathway di ripiegamento della proteina e la strut­ tura attiva che questa avrebbe assunto. li biologo Cyrus Levinthal, 12. Sulla retorica cibernetica e informatica nella storia della biologia molecolare, si veda Lily E. Kay, Who Wrote the Book o/ Li/e?: A H!story o/ the Genetic Code (Stanford: Stanford University Press, 2000). 13. Per una lettura critica della storia del dogma centrale, si veda Evelyn Fox Keller, The Century o/ the Gene (Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 200), e Keller, Refiguring Li/e: Metaphors of Twentieth-Century Biology (New York: Co­ lumbia Univeristy Press, 1995). Per un esempio di come i biologi stanno rielabo­ rando il dogma centrale, si veda Enrico S. Coen, The Art o/ Genes: How Organisms Make themselves (Oxford: Oxford University Press, 1999).

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che ha lavorato al MIT tra il 1963 e il 1967 in collaborazione con informatici e ingegneri dello stesso istituto, è stato il primo a conce­ pire l'ambizioso progetto di utilizzare algoritmi computerizzati per risolvere le complesse strutture proteiche.'4 Partendo dall'assunto che la conformazione biologicamente attiva della proteina si trove­ rebbe nel suo stato energetico più basso, Levinthal ha sviluppato degli algoritmi computerizzati che hanno definito le forme delle molecole.'5 Tuttavia, per quanto abbia potuto intervenire sui suoi progranuni informatici, non è riuscito a predire le corrette confor­ mazioni delle strutture proteiche note. Vengono utilizzati computer sempre più potenti per la previsione delle proteine. Brady, tuttavia, è scettico nei confronti di chi crede di trovare la risposta al problema del ripiegamento proteico con computer più grandi e più potenti. Come spiega agli studenti il secondo giorno di lezione, le sequenze di DNA non possono essere trattate come un vero linguaggio e, quindi, la retorica del codice e delle informazio­ ni non vale per le proteine. Brady resiste all'idea che i ricercatori possano ideare algoritmi per predire la piegatura unica di ciascuna proteina. Se non c'è nessun algoritmo che può predire questa pie­ gatura, cosa può accadere allora nella trasformazione del peptide lineare in una complessa struttura 3D quale quella della proteina matura? Per lui, il ripiegamento della proteina è un "problema gros­ so". Rifiutando di ridurre il ripiegamento proteico a un rompicapo bi-dimensionale di lettura o scrittura delle sequenze di DNA, egli attrae l'attenzione degli studenti sulle profondità e sulle dinamiche della piegatura. Le indagini sul ripiegamento proteico richiedono corpi e immaginazioni attivi, e Brady prende sul serio il suo ruolo pedagogico: lui deve insegnare a una nuova generazione di scien­ ziati la capacità di usare la propria immaginazione al servizio della risoluzione del problema del ripiegamento proteico.

14.

Eric Francoeur, "Cyrus Levinthal, the Kluge and the Origins of lnteractive Molecular Graphics", Endeavour 26, n. 4 (2002): 127-13 1; e Eric Francoeur e Jerome Segai, "From Mode! Kits to lnteractive Computer Graphics", in Models, a cura di Soraya de Chadarevian e Nick Hopwood. 15. Cyrus Levinthal, "Molecular Model-Building by Computer", Scientific Amen� can 214 (1966): 42-52.

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AWOLCiERE LA PIEGATURA

Joanna Bryson ha lavorato con Brady quando era specializzanda, e si identifica come una "vera piegatrice di proteine". Attualmente come assegnista di ricerca si occupa dello sviluppo di nuove stra­ tegie per l'insegnamento della biologia agli studenti universitari. All'università ha studiato chimica, e ben presto durante la sua for­ mazione si è resa conto di avere un dono particolare nel visualizzare le strutture molecolari in 3 D e le interazioni chimiche. Infatti, attri­ buisce il successo che ha avuto nell'ambito chimico alla sua capacità di "studiare attraverso lo spazio visivo". " Non sono mai stata brava a memorizzare. . . . Ma quando mi mettono davanti i raggi di Van der Waal sulle molecole . . . riesco a vederli nella mia testa"'6: Vedi, quando due molecole vengono messe insieme, o anche quando non vogliono stare vicine, per qualsiasi ragione, io riesco a vedere gli elettroni che si spostano dall'altro lato della molecola. Per me tutto assumeva un significato a livello visivo. Sulla carta invece non aveva senso. Non ha mai avuto senso sulla carta. Non sono mai stata uno studente che imparava a memoria. Ma i grafici che mostrano lo spostamento degli elettroni erano chiarissimi. E continuavo a pensare: "Perché gli altri lo trovano così diffi­ cile? "

L a Bryson ride quando l e chiedo di descrivere come sono questi modelli nella sua immaginazione: NM: Sono colorati? JB: Certo ! [risata] Non ci ho mai pensato così attentamente. Sì, sono colo­ rati ! È proprio strano. NM: Hanno una struttura a trama? JB: No, sono piuttosto lisci. Sì, sono proprio lisci ! [risata] Le mie proteine sono diagrammi a nastro nella mia testa o Van der Waal, a seconda di quello che sto guardando. Se guardo una tasca legante, sarà un'immagine di Van der Waal e riesco a vedere una sola superficie implicata. Se è un ripiegamento, o qualcosa che ha a che fare con il ripiegamento proteico, è una struttura a nastro. È sempre a nastro se è un ripiegamento.

16. I raggi di Van der Waal descrivono il volume che occupa un particolare atomo. Le forze di Van der Waal impediscono agli atomi di occupare gli stessi volumi.

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La Bryson riconosce che i modelli "nella sua testa" si confor­ mano a quelle che sono le rappresentazioni convenzionali che ha imparato. I diagrammi che visualizzano i raggi di Van der Waal sono una convenzione particolarmente interessante: non solo descrivono il volume che occuperà un atomo, ma si tratta anche di sfere flessibi­ li che possono essere utilizzate spesso per modellare regioni di forze di attrazione e repulsione tra gli atomi. Alcuni ricercatori sostengo­ no di sperimentare le forze di Van der Waal in maniera viscerale: quando guardano strutture i cui atomi sfidano i raggi ammissibili, sentono la tensione intermolecolare nei loro corpi.'7 La Bryson è una di questi. "È difficile da spiegare" mi dice "Praticamente lo vedo in 3D". Per lei, "vedere" è un'esperienza corporea. Mentre descrive le proteine su eu ha lavorato, il suo corpo si anima con gesti che mettono in scena quelle forme e quelle forze molecolari con cui ha un'intima familiarità. La Bryson descrive come riesce a comunicare le complesse forme e i movimenti molecolari che abitano la sua immaginazione. Inizia mettendo le braccia in avanti, con i polsi che si toccano, il palmo della mano aperto e lo sguardo rivolto in alto. Poi dice: Lo faccio sempre [sottolineando qud gesto]. Ogni volta che parlo della struttura cristallina . . . . Lo faccio sempre. Perché è così che sembra la mo­ lecola. In questo modo [sottolinea il gesto, ruota le mani e il corpo]. Vedi. E il dominio si dispiega, e poi ricade su se stesso. [Mima questo dominio pendulo con una mano]. Capito. Sempre. Sempre. Anche nella discussione della mia tesi. Era così. E ricadeva su stesso in questo modo.

Nei tentativi di spiegare il ripiegamento proteico ai suoi col­ leghi, la Bryson mette in scena il suo modello fisicamente. Tuttavia, come un insegnante che cerca di far imparare le strutture molecolari ai suoi allievi, si rende conto che non tutti hanno questa capacità di visualizzare oggetti complessi in tre dimensioni: Per me è così scontato. La difficoltà maggiore è razionalizzare il fatto che una cosa così non è da tutti. Quindi la parte più difficile è in effetti quella di fare un passo indietro, e capire che non tutti riescono ad afferrarlo. Come posso far capire agli altri una cosa che vedo nella mia testa in maniera automatica? 17.

Si veda Myers, "Molecular Embodirnents".

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Ella ammette che le immagini 2D che si trovano nei libri di testo non sono sufficienti per far imparare ai suoi studenti le forme molecolari. Il professar Brady deve affrontare un problema simi­ le. Lui vorrebbe che gli studenti riuscissero a evocare un ricordo istantaneo delle strutture molecolari: "Devi riuscire a vedere la !eu­ cina [un aminoacido] in tre dimensioni. Devi riuscire a visualizzarla all'istante" . Quando mostra la struttura della cerniera di leucina, una piegatura importante delle interazioni proteina-DNA, Brady scherza sul fatto che i ragazzi la devono conoscere così bene che "Se tua nonna te la chiede, gliela devi disegnare" . "Devi avercela in testa. La devi sapere a campanella". Allora come si può fare per far entrare l'immagine 3 D delle strutture proteiche nella "testa" degli studenti? La lezione animata di Brady al corso di ripiegamento proteico offre qualche indizio. Ciò che Brady e la Bryson dimostrano è che non c'è nulla di "auto­ matico" in questo processo. In una delle sue prime lezioni Brady ha richiamato l'attenzio­ ne degli studenti sulla confusione che avevano fatto circa i compiti a casa. Alcuni avevano avuto problemi proprio con la formulazione di una domanda. Indirizzandoli verso un diagramma a nastro nel loro libro di testo, il professore ha chiesto loro di "disegnare, copiare o tracciare una versione della figura 2(e) con il carbonio alfa e gli atomi di azoto chiaramente evidenziati o colorati" . Alcuni studenti hanno avuto difficoltà a interpretare il signifi­ cato di "copiare". Brady ha chiarito: "Significa che dovete ricopiare a mano ! Se lo [fotocopiate] non lo assimilate! " . Lo ha dimostrato in aula. Sullo sfondo di un diagramma a nastro della struttura pro­ teica proiettato a grandezza sovradimensionata dal libro di testo, l'intero corpo del professore è trascinato nell'atto di trascciare la curvatura elaborata della piegatura. Poi dice agli studenti: "Dovete impegnarvi attivamente" se volete "afferrare" le complessità della piegatura. li professore ha dimostrato effettivamente che "Non si può non imparare qualcosa" se si riesce a coinvolgere "attivamente" il proprio corpo. La Bryson ha imparato molto dall'approccio all 'insegnamento di Brady. Lei e i suoi colleghi al dipartimento di biologia hanno or-

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ganizzato recentemente una serie di workshop e piani di lezioni che sfruttano modelli particolari progettati in 3D e la grafica compute­ rizzata interattiva per aiutare gli allievi ad imparare come visualizza­ re le strutture e i movimenti delle molecole biologiche. Attraverso questo lavoro, la Bryson è arrivata al punto di capire che insegnare questi concetti impone al suo corpo nuove sfide nel tentativo di ri­ produrre la multidimensionalità dei fenomeni biologici. È preoccu­ pata anche del fatto che gli studenti possano prendere troppo alla lettera le sue riproduzioni corporee del ripiegamento proteico (che lei chiama "antropomorfizzazione della molecola" ). Ciononostante, continua a dare vita alle molecole con il suo corpo quando è in aula: Probabilmente mi piace così tanto la danza e il movimento [in classe] per­ ché nella mia testa vedo passare gli oggetti in 3D. E sì, è come se riuscissi a convincere il mio corpo a farlo [mentre gira intorno a

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immaginario, dà anche voce al movimento: "Schwooo! "] , e ad abbando­ nare queste piccole braccia fluttuanti nell'aria. Non so. Sembra avere più senso così.

Mentre parla, il suo corpo prende vita, e riesco a intuire il suo piacere nel comunicare i dettagli del ripiegamento. Brady e la Bry­ son non sono soli. Sia nel campo professionale che in quello peda­ gogico, gli scienziati spesso riproducono le strutture e i movimenti delle proteine attraverso una gestualità che impiega i loro corpi mani, braccia, spalle, torso, e anche le gambe. MODELLARE l CORPI PER ANALOGIA

Durante il corso semestrale sul ripiegamento proteico ho assistito a lezioni sulla biochimica del ripiegamento delle proteine illustrata at­ traverso grafici, equazioni, animazioni, e modelli sia fisici che virtua­ li. Brady li ha rafforzati con l'uso di analogie vivide che spingevano gli studenti verso un nuovo tipo di comprensione. Alcuni teorici suggeriscono che la modellizzazione per analo­ gie e metafore consente "associazioni da un ambito per dare corpo al pensiero degli scienziati in un altro ambito" e rendere così la "ri-

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cerca 'fatti-bile' ".'8 Le analogie possono essere viste come qualcosa che produce una propria forma di "realismo".'9 Brady utilizza le analogie in aula per rendere più accessibile il ripiegamento proteico. Egli offre agli studenti ciò che chiama un "motivatore" per catturare il loro interesse verso la proteina del giorno e aiutarli a sentire più vicine quelle sostanze. Per esempio, il professore parla di come si cucina il bianco d'uovo e come si prepara la gelatina per illustrare gli effetti del calore sulle proteine: il calore denatura le proteine e promuove la loro aggregazione, cambiando lo stato di una sostanza da fluido a solido. Per riportare delle esperienze familiari che possano assimilarsi al collagene nella sua forma dena­ turata, Brady propone altri esempi come la colla, la zuppa di pollo congelata o la guarigione delle ferite. Sfrutta anche la febbre come analogia per esemplificare la sensibilità alla temperatura del ripiega­ mento proteico ("al di sopra dei 41 gradi, sei morto"). Impiega ana­ logie basate sul corpo umano elencando i capelli, i succhi gastrici, e la coagulazione del latte per modellare le strutture e gli stati delle proteine su scala molecolare. Le analogie che portano gli studenti dal piano macroscopico a quello molecolare sono metonimiche per loro natura, associando la parte al tutto. Tuttavia, più che usare la parte per riferirsi al tutto, Brady utilizza i fenomeni macroscopi­ ci per portare gli studenti nel mondo del microscopico. In questo modo dà corpo a realtà molecolari che altrimenti i ragazzi in aula non riuscirebbero a comprendere. n professore riconosce che i suoi "motivatori" non funzionano con tutti gli studenti. Fa riferimento al cuoio come analogia per dare un'idea della consistenza del collagene nella sua forma denaturata. Se non ottiene una reazione dagli studenti, mormora: "Nessuno più indossa scarpe di cuoio oggigiorno. Meglio passare all'epoca mo18. Peter J. Taylor e Ann S. Blum, "Ecosystems as Circuits: Diagrams and the Limits of Physical Analogies", Biology and Philosophy 6 (1991): 276. Per spunti sul ruolo dei modelli nella pratica scientifica si veda Mary S. Morgan e Margaret Mor­ rison (a cura di), Models as Mediators: Perspectives on Natura! and Social Science (Cambridge: Cambridge University Press, 1999). 19. Michael Lynch, "Science in the Age of Mechanical Reproduction: Moral and Epistemic Relations between Diagrams and Photographs", Biology and Philosophy 6 (1991): 208.

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dema. Devo cambiare il motivatore! " E ancora, quando non ottiene risposta alla domanda su cosa accade al sangue quando viene riscal­ dato, si vede costretto a fornire ai ragazzi istruzioni sul lavaggio così che sappiano cosa fare se i loro vestiti si macchiano di sangue: Poniamo di voler osservare la denaturazione rispetto alla temperatura. Prendiamo una miscela di ovalburnina e lisozima nel bianco d'uovo. Cosa accade quando la riscaldiamo? Si denatura? Sì. Si può stabilire un equili­ brio tra lo stato denaturato e quello nativo? No? Che mi dite dell'emoglo­ bina? Qualcuno di voi ha molta familiarità con l'emoglobina. Cosa accade quando la riscaldate? Qualcuno di voi deve conoscere bene le macchie di sangue? Non vi siete mai macchiati di sangue? Wow. [Uno studente cerca di rispondere: "Perde colore?"] Cambia colore. Giusto? E quindi è sempli­ ce levarla via? Che ne dite? No! Una volta che avete riscaldato l'emoglobi­ na, giusto . . . se fate un errore e vi macchiate di sangue, e mettete la macchia in lavatrice con l'acqua calda, siete finiti, non riuscirete mai più a toglierla.

È molto meglio se tentate di lavarla con l'acqua fredda [risata] . Ora ve lo dico io, se mai doveste macchiarvi di sangue, dovrete lavarla con l'acqua fredda! [li professore alza la voce]. Se la lavate con l'acqua calda otterrete una denaturazione termica e un'aggregazione!

Owiamente, questa è una lezione che le donne, che costituiscono circa la metà degli studenti, hanno capito molto bene, anche se erano reticenti ad ammetterlo pubblicamente. Davanti al silenzio imbarazzante dei suoi studenti, Brady inizia a cercare appigli che potrebbero sollecitare la mente e produrre una comprensione pratica degli effetti del calore sul ripiegamento proteico. Quando questi appigli funzionano, l'effetto può essere viscerale. �ho sperimentato osservando le mie cicatrici, immagi­ nando come si formano le fibre di collagene nel sito delle ferite aperte. In quel momento la mia attenzione era attratta dal ginocchio, e dal ricordo di un medico che ci metteva dei punti dopo una caduta da bambina. Spostandomi di scala, riesco a ricordare la fitta dei punti, e contempora­ neamente visualizzo e sento i minuscoli fili di collagene che si estendono rapidamente e si awolgono su se stessi, chiudendo la ferita e legando insieme i tessuti. I modelli efficaci, come le analogie, possono produrre ciò che il filosofo della scienza Isabelle Stengers chiama "esche", ossia astrazioni che "incanalano l'esperienza concreta"!0 20.

Su come le astrazioni (e quindi le analogie) possano agire da "esche" si veda

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IL BODYWORK DELLA MODELLIZZAZIONE

I modelli molecolari incarnano la visione intima della forma mo­ lecolare di chi li ha fatti. Quando questi modelli lasciano le mani del loro creatore, diventano degli insegnanti a loro modo attirando le "mani curiose" e attive degli utenti." Durante una lezione sulle strutture secondarie delle proteine, Brady introduce un modello a sfere e bastoncini di un'alfa elica. Tutto agghindato e tanto amato, questo relitto era stato portato al campus quarant'anni fa da Cam­ bridge, in Inghilterra. Si tratta del modello della struttura molecola­ re che Linus Pauling aveva scoperto nel 1948. Come vuole la storia, Pauling aveva elaborato questa struttura piegando e ripiegando del­ le catene di aminoacidi di carta mentre era a letto con l'influenza.22 Per costruire il modello, Pauling si era basato sulle sue conoscenze delle leggi fisiche e dei limiti su come si adattano insieme gli amino­ acidi. Ma nel processo della scoperta, aveva giocato con i materiali che erano a sua disposizione e aveva capito la struttura dell'alfa elica in un'improvvisazione che aveva coinvolto anche il suo corpo oltre che la sua immaginazione. Ora, nelle mani di Brady, questa replica del modello di Pau­ ling risorgeva a nuova vita; e a uno stadio differente del suo ciclo di vita pedagogico. Brady racconta un episodio della sua esperienza passata con questo modello quando era un ricercatore post-dotto­ rato. Lavorava al Medicai Research Council di Cambridge, Inghil­ terra, al tempo in cui Cyrus Chothia e Arthur Lesk indagavano sulla struttura di Pauling. In questo contesto, il modello di Pauling era lsabelle Stengers, "Whitehead and the Laws of Nature", Salzburger Theologische Zeitschnft (SaThZ) 2 (1999): 193-207; e Stengers, "A Constructivist Reading of Pro­ cess and Reality" (manoscritto non pubblicato, n.d.). per la Stengers, le astrazioni, quali analogie e modelli, sono proposizioni "che chiedono, e sollecitano, un "salto di immaginazione"; agiscono da esca per sentire, sentire "qualcosa di importante" " . I modelli efficaci, come le analogie, possono produrre ciò che la Stengers definisce una "delucidazione empiricamente provata della nostra esperienza". 21. Su come i modelli attraggano le "mani curiose" si veda Robert Lngridge et al., "Real-Time Color Graphics in Studies of Molecular-Interactions", Science 2 1 1 , n . 4483 (1981): 661-666. 22. Max E Perutz, "Obituary: Linus Pauling", Structural Biology l, n. lO (1994):

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stato trasformato. Non era più un oggetto di cui bisognava deter­ minare le proprietà intrinseche, una "cosa epistemica" per usare la terminologia di Hans Jorg Rheinberger, il modello era diventato un "oggetto tecnico" _>3 Trasformato in uno strumento, era divenuto un mezzo per produrre nuovi tipi di dubbi e idee. Brady e i colleghi costruivano modelli fisici dell'alfa elica e cercavano di capire come interagissero le eliche. Hanno trascorso " anni e anni e anni solo a guardare questa struttura". Brady ha det­ to: Una cosa era molto chiara all'interno di quel gruppo: alcune persone erano capaci di starsene lì sedute a osservare quelle strutture. Ma la maggior parte di loro non ci riusciva. Dovevano alzarsi, andarsi a prendere un caffè e fare qualche esperimento. Erano poche le persone in grado di starsene sempli­ cemente lì a osservare le strutture. E alla fine vedevano cose che nessun'al­ tro poteva vedere. Perché quella autodisciplina che ti permetteva di stare

lì seduto a osservare era una roba davvero difficile. Ed è qualcosa che si è perso. Ho lavorato con Aaron Klug che ha vinto il premio Nobel per una struttura tridimensionale. Lui era solito sedersi lì e dirci: "Voi americani, non siete capaci di starvene seduti abbastanza a lungo! Ve ne andate e fate esperimenti. . . . Non osservate".

Quando il professore mostra il modello di Pauling all'aula chiarisce subito che "sedersi a osservare" quel modello non è un'at­ tività piacevole. Non implica semplicemente guardare pigramente il modello: " Se vi limitate a guardarlo non vedrete niente" . Giocando sul doppio significato del verbo "afferrare" dice agli studenti: "Ora . . . questo non è facile da afferrare, ed ecco perché è così importante afferrare con le mani queste strutture" . Prende il modello, che è alto due piedi e ha un diametro di un piede e mezzo, e lo fa ruotare nelle sue mani, dicendo "presto inizierete a vedere". Con le mani e gli occhi mostra all'aula come "ci si deve muovere con esso" , aminoa­ cido dopo aminoacido. Esplora il modello atomo per atomo e tasta i solchi e le sporgenze formate dalle catene laterali che si avvolgono a spirale per formare l'elica. Brady dimostra che "sedersi a osservare" è un'operazione che 23 . Si veda Hans Jiirg Rheinberger, Toward a History o/ Epistemic Things: Synthesizing Proteins in the Test Tube (Stanford: Stanford University Press, 1997).

8. RIPRODURRE IL RIPIEGAMENTO PROTEICO

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coinvolge tutto il corpo. Insegnare il ripiegamento proteico diventa, quindi, una pratica di "articolazione" del corpo e dell'immaginazio­ ne degli studenti con le complesse conoscenze della forma moleco­ lare. 24 La lezione di Brady è un rito di passaggio verso l'emergere di un'identità professionale che richiede nuove pratiche corporali. CiESTI MOLECOLARI

La psicologa e linguista Elinor Ochs studia, insieme ai suoi colleghi, la gestualità nella riproduzione dei concetti scientifici, descrivendo i gesti che mediano la comunicazione tra i fisici quando si scambiano i risultati delle loro ricerche nelle riunioni settimanali in laboratorio. TI team della Ochs è interessato a seguire il processo di "understan­ ding-in-progress ", e quindi osserva come i gesti del corpo aiutano i fisici a narrare e drammatizzare le loro storie scientifiche. La Ochs presenta questa gestualità come una " granunatica dinamica" , un mezzo di supporto del linguaggio, che li aiuta a fare affermazioni sulle relazioni matematiche e sulle dimostrazioni grafiche in 2D.>s Per contro, i gesti di Brady riproducono oggetti che occupano spa­ zio e si muovono nel tempo - oggetti che sfuggono a una semplice descrizione. Egli si imbatte nei limiti del linguaggio quando cerca di trovare le parole per rappresentare un quadro delle molecole dina­ miche tridimensionali: Gli schemi di diffrazione ai raggi X rendono chiaro che le proteine sono oggetti che contengono uno spazio. È qualcosa di molto diverso dai po-

24. Bruno Latour utilizza il termine "articolazione" per spiegare come il corpo e i sensi dei ricercatori sono trasportati nell'ambito dei protocolli e delle tecniche di laboratorio. Rachel Prentice si basa su Latour per teorizzare un processo di "mutua articolazione" all'opera tra i ricercatori e i loro computer nella produzione di simu­ lazioni efficaci per l'insegnamento in chirurgia e anatomia. Si veda Bruno Latour, "How to Talk about the Body? The Normative Dimensions of Science Studies" , Body and Society 10, n . 2-3 (2004): 205-229; e Rachel Prentice, "The Anatomy of a Surgical Simulation: The Mutuai Articulationof Bodies in and through the Ma­ crune", SocialStudies o/Science 35 (2005): 867-894. 25. Elinor Ochs, Sally Jacobi, e Patrick Gonzales, "Interpretive Joumeys: How Physicists Talk and Travel through Graphic Space", Configuration 2, n. l (1994):

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IL DISAGIO DELLA SIMULAZIONE

limeri compatti. Così, potremmo chiederci: Qual è l'aspetto dell'interno?

È oleoso? È irregolare con regioni di solvente? Ma irregolare è una parola bidimensionale. Non riesco a trovare un termine tridimensionale che renda il significato.

Come abbiamo visto, laddove falliscono il linguaggio e le im­ magini 2D, Brady utilizza il suo corpo. Curvandosi e piegandosi per creare una forma concava, cerca di sfruttare la sagoma delle sue braccia per imitare l'organizzazione interna delle eliche e dei foglietti. Quando descrive l'incontro di due eliche in una protei­ na, spinge ripetutamente le braccia all'interno, l'una contro l'altra, incrociandole all'altezza dell'avambraccio per specificare l'angolo preciso a cui sono associate. La flessibilità, o inflessibilità, di tale associazione è chiarita attraverso la tensione dei suoi muscoli. I gesti di Brady convogliano la forma e i movimenti della mo­ lecola attraverso la forma e i movimenti del suo corpo. Così, egli riproduce una sorta di modellizzazione mimetica. In questo senso il professore diventa molecolare,>6 una forma produttiva di antro­ pomorfismo. La modellizzazione mimetica è una pratica precisa. Durante una dimostrazione del raggruppamento delle eliche nel ripiegamen­ to proteico, Brady alza le braccia portandole di fronte a lui, e le incrocia a livello dell'avambraccio per imitare come accade che le "catene laterali parlano tra loro" : "Ora, quando due eliche si rag­ gruppano formano una giunzione . . . " . Si ferma, guarda in alto, e indica qualcosa a gesti a uno studente nella prima fila. "Vorrei che ti alzassi in piedi". "Va bene" dice lo studente é si alza. "Bene, indica la giunzione" dice. n ragazzo indica vagamente verso le braccia in­ crociate del professore. "No, non lì ! " Brady usa la voce e gli occhi per reindirizzare lo studente. "Proprio nel mezzo . . . sì, ok". Brady va avanti con la descrizione mentre lo studente resta in piedi accan­ to a lui, indicando la giunzione. In questo momento, il professore chiarisce esplicitamente di essere lui il modello.

Su "diventare" si veda Gilles Deleuze e Félix Guattari, A Thousand Plateaus: Capitalism and Schiz.ophrenia, trad. Brian Massumi (Minneapolis: University of Min­ nesota Press, 1980). 26.

8. RIPRODURRE IL RIPIEGAMENTO PROTEICO

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n corso sul ripiegamento proteico, in effetti, è stato concepito non tanto per trasmettere una serie di fatti noti, quanto per equi­ paggiare gli studenti con quelle pratiche che sono necessarie per far sì che questo campo di studi vada avanti. n corso assegna agli studenti una missione (Brady dice: "Con un po' di fortuna, qualcu­ no di voi risolverà i problemi che abbiamo posto in quest'aula") e un metodo (aggiungendo: "prima dovete diventare padroni della struttura, e poi potrete passare agli esperimenti" ) . Per questo tipo di padronanza, gli studenti di Brady devono essere disposti a far sì che i modelli molecolari istruiscano i loro corpi in modo da poter diventare la piegatura.

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AUTORI

Wllllam J. Clancey lavora al NASA Ames Research Center e al Florida lnstitute of Human & Machine Cognition. Si è laureato in Scienze Matematiche presso la Rice University (1974) e ha un dottorato di ricerca (PhD) in Informatica conseguito presso la Stan­ ford University (1979). Come Chief Scientist for Human-Centered Computing, Clancey ha un'estesa esperienza sui software medici, educativi e finanziari ed è stato uno dei membri fondatori dell'In­ stitute for Research on Learning. Tra le sue pubblicazioni possiamo menzionare Situated Cognition: On HUman Knowledge and Com­ puter Representations e Contemplating Minds: A Forum for Arti­ fidai lntelligence (curato in collaborazione con Stephen Smoliar e Mark J. Stefik).

Stefan Helmrelch è Professore Associato di Antropologia al MIT. Ha scritto molto sulla vita artificiale, particolarmente nell'am­ bito della simulazione computerizzata dei sistemi viventi, e tra le sue pubblicazioni ricordiamo Silicon Second Nature: Culturing Artifi­ cial Life in a Digitai World. Helmreich è inoltre autore di un libro su come la scienza sta cambiando l'immagine degli oceani: Alien Ocean: Anthropological Voyages in Microbial Seas (2009).

Yannl A. Loukissas è un architetto e ricercatore specializzato nello studio sociale e culturale delle tecnologie di progettazione. Ha insegnato teoria e pratica della progettazione al MIT, alla Cornell University e alla School of Museum of Fine Arts di Boston. Ha con­ seguito il dottorato di ricerca (PhD) in Progettazione e Calcolo al MIT. La sua tesi traccia la co-evoluzione delle tecnologie informa­ tiche per la simulazione e la nuova concezione della progettazione edilizia. È anche consulente presso la Small Design Firm, dove sta lavorando a un nuovo sistema informatico per l'arte, un progetto per il Metropolitan Museum of Art di New York City. Al momen-

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l to è Visiting Lecturer presso il Dipartimento di Architettura della Cornell University. Natasha Myers è Professore Assistente presso il Dipartimento di Antropologia, nel Programma di Studi Tecnologici e Scientifici presso la York University. Come antropologa lavora nel campo del­ la scienza e della tecnologia, esaminando le culture della visione e della performance che si impongono oggi nei laboratori di scienze della vita e nelle aule delle università.

Sherry Turkle è Professore (Abby Rockefeller Mauzé Profes­ sar) di Studi Sociali su Scienza e Tecnologia al MIT nel Programma di Scienza, Tecnologia e Società, nonché fondatrice e direttore del­ la MIT lnitiative on Technology and Self. Tra le sue pubblicazioni possiamo citare The Second Self: Computers and the Hwnan Spirit e Life on the Screen: Identity in the Age of the Internet. Di recente ha curato e compilato dei saggi introduttivi per una trilogia di testi su oggetti, soggettività e modi di conoscere, con un'attenzione par­ ticolare alle modalità della conoscenza in campo scientifico, tecno­ logico e della progettazione: Evocative Objects: Things We Think With, Falling for Science: Objects in Mind, e The Inner History of Devices. Attualmente sta scrivendo un libro sui nuovi significati dell'intimità nella cultura digitale contemporanea.

TECN OLOGIA E SOCIETA

diretta da Paolo Ferri

1.

Sherry Turkle (a cura di) La vita nascosta degli oggetti tecnologici, 2009 cartaceo. -

2.

Cavalli Ferri, Mangiatordi, Pozzali, Scenini Digitai Learning, 2010 - eBook.

3. Antonio Battro

Verso un'intelligenza digitale, 2010 - cartaceo e eBook. 4. Sherry Turkle Il disagio della simulazione, 201 1 - cartaceo.

D catalogo Ledizioni è consultabile orùine a questo indirizzo: .ledizioni.it

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Offre ristampe di prestigiose opere ormai esaurite o fuori catalogo, ristampate in proprio o in collaborazione con altre case editrici, ol­ tre ad una proposta di titoli nuovi di saggistica specialistica in ita-