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Italian Pages 238 Year 2011
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diritti, uguaglianza, integrazione
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Diritti Uguaglianza Integrazione Collana dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali Dipartimento per le Pari Opportunità diretta da Massimiliano Monnanni
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Comitato scientifico: Daniela Bas, Camilla Bianchi, Marco Buemi, Oriana Calabresi, Rosita D’Angiolella, Olga Marotti, Federica Mondani, Antonella Ninci, Anna Riglioni, Pietro Vulpiani
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Danilo Catania e Alessandro Serini (a cura di)
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Il circuito del separatismo Buone pratiche e linee guida per la questione Rom nelle regioni Obiettivo Convergenza
Armando editore
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CATANIA, Danilo – SERINI, Alessandro (a cura di) Il circuito del separatismo. Buone pratiche e linee guida per la questione Rom nelle regioni Obiettivo Convergenza ; Pref. di Massimiliano Monnanni; Pres. di Antonio Russo; Intr. di Michele Rizzi Roma : UNAR, © 2011 240 p. ; 22 cm. (Diritti, uguaglianza, integrazione) ISBN: 978-88-6081-929-1 1. Integrazione delle comunità rom 2. Definizione della “questione Rom” 3. I Rom nel Meridione
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CDD 300 © 2011 UNAR Dipartimento per le pari opportunità Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali Largo Chigi 19 – 00187 Tel. 06/67792267 Fax 06/67792927 E-mail [email protected] www.unar.it Numero verde 800 90 10 10 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 02-15-005 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]
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Sommario
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Prefazione Massimiliano Monnanni
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Presentazione: La memoria e la politica del fare Antonio Russo
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Introduzione Michele Rizzi
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Parte prima: L’integrazione delle comunità Rom
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Capitolo 1: La “questione Rom”: una prima definizione Emiliana Baldoni
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Capitolo 2: Il disegno della ricerca: un “campo” da scoprire 43 Danilo Catania, Alessandro Serini Parte seconda: I Rom nel Meridione
61
Capitolo 3: Il lento inserimento dei Rom in Campania Alessandro Serini
63
Capitolo 4: In Puglia: sulla strada dell’integrazione Danilo Catania Capitolo 5: Calabria: luci e ombre nelle politiche pubbliche in favore dei gruppi Rom Angelo Palazzolo, Gianfranco Zucca
101
133
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Capitolo 6: I Rom in Sicilia: i confini degli spazi di inclusione 163 Alice Ricordy
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Capitolo 7: Tra l’incudine e il martello Alessandro Serini, Danilo Catania
191
Conclusioni: Linee guida per la governance locale dell’inclusione delle comunità RSC Marco Livia
203
Cartografie
215
Bibliografia
225
Nota sugli Autori
237
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Prefazione
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Massimiliano Monnanni1
Ci sono delle espressioni usate normalmente sui mezzi di comunicazione e nei dibattiti pubblici che si fissano nel lessico comune e descrivono una determinata situazione meglio di altre; individuano con precisione e in forma concisa le radici storiche e culturali di un determinato fenomeno; talvolta arrivano ad oltrepassare il loro normale perimetro semantico, e divengono parte di un vocabolario comune al punto che, evocate, attivano in noi significati talmente sedimentati nella coscienza da non ammettere fraintendimenti di sorta. “Questione” è una di queste parole. Accostata ad una data comunità o ad un dato territorio restituisce l’immagine di un problema irrisolto che si perpetua da molto tempo a danno di quel territorio o di quella comunità. Basti pensare alla “questione meridionale”, sollevata in Parlamento cento anni fa (1911) dall’Onorevole Giustino Fortunato, che rappresenta tuttora una formula verbale efficace nel sintetizzare lo stato di arretratezza economica in cui versano la maggior parte delle regioni del Sud Italia; oppure alla “questione femminile”, un’espressione linguistica che ha infiammato i dibattiti politici negli anni Settanta, rimasta finora inevasa se si considera il ruolo tuttora marginale delle donne nel mondo del lavoro e, in generale, della vita pubblica. Negli ultimi tempi, nel novero delle “questioni” è salita alla ribalta delle cronache la questione Rom. Questa espressione evoca significati e immagini che rimandano ad una collettività, quella Rom, che vive un’esistenza precaria. Una umanità in eccesso in cui il tratto della precarietà permea le diverse dimensioni del vivere civile – casa, lavoro, salute, istruzione. A rendere ancor più vulnerabile la condizione 1
Direttore Generale Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR).
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dei Rom, Sinti e Camminanti ha contribuito, peraltro, il diffondersi di una cultura securitaria che assimila i Rom ad una minaccia sociale permanente. La discriminazione delle comunità rom, sinte e caminanti ha quindi acquisito toni ancor più violenti del sentimento antiimmigrazione che serpeggia in alcune frange della nostra società: un risultato paradossale, se solo si considera come la maggior parte dei Rom sia di nazionalità italiana. Mai come in questa particolare fase storica la lotta alla discriminazione si deve misurare con la questione Rom, mettendo in campo risorse, ma soprattutto metodi e strumenti, adeguati alla complessità del tema. Una lotta che si consuma quotidianamente nelle nostre città, all’interno di contesti metropolitani in cui si intrecciano innumerevoli istanze sociali: dal problema della casa, alla riqualificazione delle periferie; dall’assenza di lavoro per i giovani, al degrado dell’ambiente e, in generale, alla ricerca della qualità della vita. Da questo punto di vista, le amministrazioni locali sono chiamate ad una difficile sfida: contemperare schemi di azione pubblica efficaci e rispettosi delle popolazioni rom, sinte e camminanti con il consenso e il sostegno dei cittadini non rom. Vanno in questa direzione le indicazioni espresse nei documenti di programmazione del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri: Le politiche di sviluppo locale rappresentano un terreno privilegiato per riuscire a realizzare delle concrete azioni volte al superamento delle disparità […] [per la] programmazione dello sviluppo del proprio territorio, la sperimentazione di nuovi approcci e di nuove forme di sensibilizzazione sul tema delle pari opportunità e di non discriminazione. [Poat 2008: 25, punto c].
È dunque a livello locale che è necessario mettere in moto quei processi di cambiamento sociale necessari a garantire uguali opportunità, indipendentemente dal sesso, dall’appartenenza etnico-religiosa, dall’età e dall’orientamento sessuale. Si impone una netta inversione di tendenza rispetto ad un approccio di fondo connotato in senso emergenziale: occorre difatti privilegiare azioni di medio/lungo raggio, che usino una varietà di strumenti e siano in grado di incidere in modo duraturo sui meccanismi discriminatori. Sotto questo aspetto, è necessario indurre ad un cambiamento organizzativo delle pubbliche amministrazioni, in funzione di un rafforzamento delle politiche di pari opportunità nei confronti di Rom, Sinti 8
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e Camminanti; ciò chiaramente non può che avvenire a seguito di un adeguamento delle competenze tecniche a disposizione delle stesse istituzioni locali. Quest’aspetto è cruciale poiché, come si legge nel quadro riassuntivo degli obiettivi di programmazione, per garantire un equo accesso ai servizi da parte delle popolazioni rom, sinte e camminanti occorre: [Un] rafforzamento delle strutture operative e delle competenze delle pubbliche amministrazioni impegnate nei confronti delle comunità rom, ed una mappatura e valorizzazione delle opportunità sociali per l’inclusione dei soggetti e delle comunità discriminate; si intende favorire un più equo accesso ai servizi ed una più adeguata capacità di comunicazione interculturale nei confronti delle comunità rom, sinte e camminanti da parte delle istituzioni pubbliche. [Poat 2008, p. 30, tab. 3].
È bene ricordare che l’efficienza degli interventi dipende in larga parte dalla capacità di lettura del contesto d’azione: i bisogni e le aspettative delle comunità direttamente interessate dalle misure di sostegno sono dunque un punto di partenza imprescindibile per sviluppare nuove forme di azione pubblica. È su queste sollecitazioni d’analisi che l’Unar, sul finire del 2009, ha dato impulso ad un programma d’indagine che si è articolato su due differenti, se pur interrelate, considerazioni di fondo: occorre che il rapporto tra comunità rom e società locale si sviluppi secondo forme di interazione positiva all’interno delle quali ogni attore (istituzionale e non) sia disposto a lavorare in sinergia con gli altri, superando le barriere ideologiche che, allo stato attuale, caratterizzano il dibattito pubblico sulla questione Rom; inoltre, è necessario favorire una dinamica simile all’interno delle comunità stesse, facendo sì che gli insediamenti rom si aprano al territorio, dissolvendo il senso di ghettizzazione e di autoesclusione. È lungo questi orientamenti di fondo che si è mosso il percorso d’indagine presentato in questo volume. Un’esplorazione all’interno della questione Rom affrontata cercando di osservare il problema da più prospettive, rintracciando in esse elementi utili al rafforzamento del sistema degli attori istituzionali ed associativi, nel sostegno di politiche e servizi a favore delle comunità rom, sinte e camminanti e alla promozione della loro partecipazione politica, economica, istituzionale e associativa. 9
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Presentazione: la memoria e la politica del fare
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Antonio Russo1
La mia famiglia è composta di nove persone: siamo io mia moglie e sette figli, ma mio figlio è malato e ha l’osteomielite. Io capofamiglia sono affetto da artrosi e sono costretto a un periodo di riposo forzato… Noi siamo in nove in una stanza e cucina che scola acqua da tutte le parti meno che dal rubinetto. Il gabinetto sta fuori casa. Quando uno deve cambiarsi o vestirsi facciamo i turni. I miei figli dormono tre nella mia stanza e cinque come si entra, tutti mischiati tra maschi e femmine. Ti scrivo perché voglio sapere se ho fatto qualcosa di male; io non ho fatto mai niente a nessuno e i miei figli nemmeno, allora io vi chiedo che razza di umanità è questa. Forse io ho sbagliato quando mi sono sposato o forse quando sono nato. Ad ogni modo sono pronto a pagare. Mettetemi in prigione oppure ammazzatemi per essere nato, ma per carità non fate pagare questa mia disgrazia ai miei figli. Non vogliamo l’elemosina da nessuno, ci basta una casa come tutte le persone civili con la possibilità di poter pagare l’affitto.
Questa lettera è una delle tante invocazioni di aiuto che, a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, giunsero ai Circoli delle ACLI di Roma contigui alle borgate romane2: luoghi ai margini di una città protesa in avanti, spinta da un sostenuto sviluppo economico. Tra le fenditure di un’espansione urbanistica, che fu senza eguali soprattutto negli anni del boom economico, si asserragliava un’umanità “invisibile” e senza voce. Una massa di uomini e donne, spesso partiti 1 Responsabile
nazionale Area Immigrazione ACLI. Nel caso specifico, il circolo è quello di Santa Maria Mediatrice in Via Cori e a scrivere la lettera (pubblica sull’“Avvenire” il 28 novembre 1969) è un abitante della borgata di Villa Gordiani. 2
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da piccoli centri del Sud Italia con la speranza di una vita migliore, composta da famiglie numerose e poverissime, in cui l’assenza di lavoro rappresentava la cifra della propria condizione di vita. Queste persone andavano a riempire gli spazi urbani non ancora interessati da speculazioni edilizie, abitando in case pericolanti e baracche fatiscenti sprovviste di servizi igienici. Una condizione di vita che suscitò sentimenti di preoccupazione e d’intolleranza presso ampi strati della popolazione “civile”, dando vigore ad una politica securitaria, dove la “questione dei baraccati” fu presa a pretesto per fini elettorali e propagandistici. In risposta alle migliaia di lettere di famiglie che vivevano nelle baracche, non è un caso che le ACLI di Roma pubblicarono a riguardo un articolo in cui, oltre a sollecitare interventi abitativi volti a sanare l’emergenza casa a Roma, esprimevano anche la loro idea di politica: Non ci sembra necessario spendere molte parole per solidarizzare con quanti, senza chiassate o metodi tipici di gruppi strumentalizzati a fini politici, formulano concrete proposte con senso di responsabilità che merita considerazione molto maggiore di quanta non ne meriti chi adotta il metodo della protesta arrogante e violenta3.
Un’idea saldamente ancorata sul terreno della concretezza, in cui le soluzioni sono formulate a partire da una visione ben precisa di progresso sociale, imperniato sullo sviluppo integrale di ogni persona, al di là della particolare origine etnica e della personale condizione socio-economica. Una concezione della politica che guardi al bene comune con spirito propositivo e responsabile. Una politica lungimirante in grado di immaginare il futuro attraverso un costante investimento nella programmazione e nella pianificazione degli interventi. Insomma, una politica che sappia dare risposte tangibili sul fronte dell’inclusione e dell’integrazione sociale, al di là dei proclami suscitati dall’incendio di una baracca, nascosta tra gli anfratti della periferia romana, in cui lo scorso 6 febbraio persero purtroppo la vita quattro bambini rom. Per la nostra Associazione è un obiettivo centrale la questione della dignità umana e del diritto a vivere una vita decente, come invocava quel padre nell’incipit di questa presentazione. Iniziativa delle ACLI per i baraccati. Articolo pubblicato dal quotidiano “Il Popolo” il primo dicembre 1969. 3
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Il gioco di specchi che la memoria talvolta riflette nelle nostre coscienze tende a trasfigurare la miseria di un’esistenza vissuta in un riparo di fortuna e fatiscente nell’immagine di gruppi rom che popolano le periferie delle nostre città. Figure che suscitano apprensione, da esorcizzare attraverso politiche di ordine pubblico che hanno prodotto in tutto il territorio nazionale la proliferazione di “campi-sosta”. Anche qui, la rievocazione della memoria provoca delle sovrapposizioni tra ieri ed oggi, tra il problema dei baraccati di quarant’anni fa e l’attuale emergenza dei Rom. Questi ultimi, se spogliati dalla retorica di una loro presunta quanto falsa vocazione al nomadismo, sono il nostro prossimo che vive in condizione di profonda indigenza, alimentata da una miscela di intolleranza e disinformazione che anestetizza in qualche modo le nostre coscienze e l’indignazione che dovrebbe suscitare la vista di un’esistenza relegata ai margini dell’umano vivere. Scene di profonda emarginazione, che richiamano alla mente immagini e parole di chi, prima dei Rom, viveva in quella disperazione, e sollecitano una messa in moto di quella politica del fare che quasi mezzo secolo fa le ACLI auspicavano, per risolvere definitivamente il problema dei baraccati a Roma. C’è dunque bisogno di risposte concrete, frutto di un’analisi il più possibile approfondita dei vincoli e delle opportunità che implica una determinata scelta. Un’analisi capace di scardinare antichi pregiudizi e in grado di fornire una base informata per la formulazione di soluzioni adeguate ai diversi contesti d’intervento. Per certi aspetti, questo corposo lavoro di ricerca sollecita il ricordo di una ricerca sociale condotta anni or sono, che fu strumento di denuncia, ma anche elemento di riflessione per la definizione di interventi efficaci. Vite di baraccati, di Franco Ferrarotti, pubblicato nel 1974, diede un contributo importante alla realizzazione di azioni tese a migliorare le condizioni di vita dei baraccati romani. La speranza è che anche questa indagine, e le prossime a venire, possano contribuire davvero a restituire dignità a persone che oggi sono relegate in una condizione che umilia e offende, insieme a loro, l’intera umanità.
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Introduzione
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Michele Rizzi1
Poche questioni come quella dei Rom scatenano nell’opinione pubblica il dibattito se sia necessario integrarli o meno nella società italiana. Se in tema d’immigrazione i più intransigenti possono tutt’al più parlare di un male necessario (wanted but non welcome, direbbero gli americani), per quanto riguarda i Rom si assiste ad una riprovazione, più o meno diffusa, della loro presunta scarsa attitudine al lavoro, del loro stile di vita, persino del loro modo di essere. In aggiunta, nel caso dei Rom, il ventaglio dei pregiudizi raggiunge la sua massima ampiezza e poco o alcuno spazio viene dato ad una riflessione razionale e meditata su di essi: solo a titolo di esempio, nella gerarchia degli atteggiamenti razzisti da parte dei giovani, i Rom sono in prima posizione, seguiti da Rumeni e Albanesi2. Raramente ci si siede attorno ad un tavolo e ci si chiede se sia possibile integrare i Rom nel tessuto della società italiana, e se qualcuno si sia già apprestato a farlo. Il presente volume intende dare un contributo proprio in questa direzione. Realizzato grazie al contributo dell’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali – Ministero per le Pari Opportunità) nell’ambito del PON “Governance ed Azione di Sistema” – Obiettivo Convergenza, Asse D Pari Opportunità e Non Discriminazione, FSE 2007-2013, il volume raccoglie le analisi e le riflessioni svolte 1 Vice Presidente nazionale delle ACLI, delle quali è Responsabile del Dipartimento Istituzioni, è presidente della Fondazione Achille Grandi per il bene comune e presidente di IREF, l’Istituto di ricerca delle ACLI. 2 SWG e IARD, Io e gli altri: giovani italiani nel vortice dei cambiamenti, ricerca promossa dalla Conferenza dei Presidenti delle assemblee legislative delle regioni e delle province autonome e presentata alla Camera dei Deputati il 18 febbraio 2010. Disponibile in www.parlamentiregionali.it.
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durante una ricerca sui percorsi di inclusione sociale dei Rom nel Meridione. Otto studi di caso, una mappatura aggiornata dei campi, interviste a testimoni privilegiati, e una raccolta del materiale documentale sulla questione sono il frutto di tale percorso. Si è deciso di privilegiare l’approccio empirico di ricerca per dare sostanza ai ragionamenti riguardanti i Rom, e per cercare di chiudere quel ventaglio di pregiudizi dietro cui spesso ci si nasconde, nel tentativo di affrontare timidamente la questione. Ma la questione dei Rom non può essere affrontata timidamente. 150 mila di essi sono presenti nel nostro territorio, la metà dei quali è italiana e l’altra metà, pur essendo straniera, è oramai stanziale da molti anni. Quella dei Rom è una questione che va dunque inserita a pieno titolo nell’agenda politica per l’immigrazione. La stanzialità, inoltre, mostra come la parola “nomade” sia inadatta a descrivere la nuova situazione e come occorra quindi riformulare un vocabolario che oramai risente degli anni. In definitiva, una presenza così consistente impone una politica di integrazione nei confronti dei Rom, politica che, come vedremo, non è ancora stata formulata in modo sistematico a livello nazionale. Ce n’è dunque per rimboccarsi le maniche, accendere il registratore, e viaggiare nell’Italia dei campi rom (ma non solo) allo scopo di raccogliere quei tentativi di integrazione che si stanno faticosamente realizzando in alcune città italiane. Tra le righe, il viaggio nei luoghi di presenza rom suggerisce alcune osservazioni. La prima è che la parola “nomade” perde di significato nella gran parte dei casi. Come accennato, la quasi totalità di essi sono stanziali, siano essi italiani o stranieri. A Scampia, dove vivono oltre 1.500 Rom di origine jugoslava, si attestano le prime presenze già dalla fine degli anni Ottanta: la seconda generazione di Rom jugoslavi, nati a Scampia, è di fatto italiana a tutti gli effetti. Anche in Puglia, e al confine tra Molise e Abruzzo, si attestano presenze ultradecennali, in gran parte stanziali. A Noto, in Sicilia, la comunità di Caminanti vi risiede dalla fine degli anni Cinquanta: vi sono episodi di semi-nomadismo per alcuni di essi, ma la residenza e la dimora abituale permangono nel comune siciliano. Si potrebbero fare altri esempi nella medesima direzione, e mostrano come quello rom sia un popolo che ha oramai deciso in buona parte di insediarsi nel nostro territorio. La seconda riflessione riguarda l’eterogeneità del popolo rom. Una medesima lingua e una stessa cultura ne fanno un popolo unico, che si diffonde in Europa alla ricerca di un posto dove abitare; nondimeno, 16
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l’incontro tra popolo rom e popolazioni europee ha determinato il fiorire di culture miste, che hanno determinato una sorta di ramificazione dall’albero principale: rom nelle origini, assumono in parte gli usi e i costumi dei Paesi dove si vanno a insediare. È stato sorprendente scoprire come i Rom rumeni arrivano in Puglia e rifiutano, per quanto possibile, i campi attrezzati: cercano casa in affitto, vogliono un lavoro, e se non trovano dove dormire, preferiscono accamparsi in casolari abbandonati piuttosto che andare nei campi. In Romania avevano una casa, lavoravano regolarmente, i figli andavano a scuola, allo stesso modo delle altre famiglie rumene. Giunti in Italia per motivi economici, cercano nel nostro Paese il medesimo modello insediativo che avevano in Romania. In chiave di integrazione, non sfugge l’importanza di una simile evidenza, laddove alla parola “rom” si accosta spesso la parola “campo”. Riscontri come questi introducono la terza questione, relativa alle politiche di integrazione. I campi rom sono certamente utili a fronteggiare situazioni di emergenza, come gli esodi derivanti da eventi bellici o da crisi economiche di interi Paesi; nel lungo periodo, tuttavia, le politiche di gestione dei campi appaiono insufficienti a migliorare la gamma delle opportunità lecite di emancipazione dei Rom. Interventi più interessanti si dimostrano certamente quelli dove la fuoriuscita dai campi viene favorita da progetti di integrazione con la popolazione locale in materia di abitazione e di lavoro. In alcuni casi, risulta determinante una cabina di regia di ispirazione politica: in effetti, il concorso di forze sociali e politiche favorevoli ha determinato il successo, anche parziale, di talune iniziative. In definitiva, la ricerca effettuata sul campo mostra come una vera politica di integrazione delle popolazioni rom sia possibile, qualora si decida di abbandonare facili riduzionismi e di declinare le politiche per i rom al plurale, introducendo una pluralità di strumenti di intervento e una progressività nei tempi di realizzazione, come vedremo. È un cambiamento faticoso ma premiante, anche perché investire in integrazione significa investire in sicurezza: la criminalità è figlia dell’isolamento e del degrado, e una società inclusiva è anche una società più sicura. Per quanto riguarda i contenuti, il volume si divide in due sezioni. Nella prima parte si illustrano i principali risultati emersi dai vari ambiti di discussione (storico, giuridico, associativo, politico, etc.) su cui si è articolato negli ultimi trent’anni il dibattito riguardante le popolazioni rom, sinte e camminanti nel nostro Paese (capitolo 1). 17
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A chiudere la sezione, nel secondo capitolo, si descriverà l’impianto metodologico della ricerca, la logica dell’indagine, e gli strumenti utilizzati per sondare il terreno sulla questione. Nella seconda parte del volume, invece, si commenteranno i principali risultati emersi dagli studi d’area effettuati nelle regioni oggetto di indagine: Campania (capitolo 3); Puglia (capitolo 4); Calabria (capitolo 5) e Sicilia (capitolo 6). I capitoli regionali sono stati organizzati secondo uno schema comune, che prevede la descrizione del contesto regionale – corredato da cartografie aggiornate sulla presenza di Rom, Sinti e Camminanti nella regione; e il commento dei risultati emersi da due studi per regione realizzati in altrettante città d’insediamento. I contesti urbani di studio sono: per la Campania, Napoli e il comune di Giffoni Sei Casali (Sa); per la Puglia, Foggia e Lecce; per la Calabria, Reggio Calabria e Cosenza; e, infine, per la Sicilia, Palermo e Catania. Nelle città di Napoli, Foggia, Reggio Calabria e Palermo il focus d’indagine è stato il tema dell’accesso ai servizi socio-sanitari da parte di Rom, Sinti e Camminanti; nei restanti comuni, si sono approfondite questioni riguardanti la condizione socio-abitativa delle popolazioni d’indagine. Infine, al termine del volume, si commenteranno le principali sollecitazioni emerse dagli studi d’area (capitolo 7), e in conclusione si illustreranno alcune ipotesi di linee guida per la governance locale, in relazione alle politiche di inclusione delle comunità rom, sinte e camminante. Come sempre, la ricerca è frutto di un lavoro corale, che coinvolge una pluralità di attori. Desidero pertanto ringraziare innanzitutto il Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri e in particolar modo l’Unità Nazionale Antidiscriminazione Razziale, i suoi dirigenti e tutti i loro dipendenti ed operatori che ogni giorno svolgono un grande lavoro di difesa dei diritti umani. Ringrazio tutti i dirigenti e gli operatori degli enti pubblici contattati e coinvolti dalle attività di ricerca (Prefetture, Province, Comuni, Questure), le organizzazioni locali pubbliche, ecclesiali e del privato sociale che hanno accompagnato i nostri ricercatori sui territori e all’interno delle comunità rom (ACLI regionali e provinciali coinvolte, Croce Rossa Italiana, Caritas diocesane, Opera Nomadi nazionale e regionali), infine un ringraziamento particolare ai partner che hanno contribuito e partecipato alla realizzazione dell’indagine: la Fondazione Di Liegro e la società CODRES Scarl.
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Parte prima L’integrazione delle comunità Rom
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Capitolo 1
La “questione Rom”: una prima definizione
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Emiliana Baldoni
1.1 Note introduttive Nel corso degli ultimi anni, la “questione Rom” ha acquisito uno spazio sempre più rilevante nell’agenda pubblica europea, soprattutto a seguito dell’allargamento a Est dell’Unione Europea. La crescita di attenzione verso le inaccettabili condizioni economiche, sociali e politiche in cui versa gran parte della popolazione impropriamente denominata “nomade”, “zingara” o “Rom” assume tuttavia spesso connotazioni politiche, che non contribuiscono a una corretta e rigorosa conoscenza di tale minoranza e, di riflesso, alla messa in atto di politiche adeguate1. Innanzitutto, chi sono i Rom2? Secondo Piasere, essi rientrano in una categoria “politetica” costituita da elementi che si assomigliano in qualcosa, ma per tratti diversi; la flessibilità della struttura concettuale di tale categoria ha permesso di includervi storicamente una varietà abbastanza composita di persone con diversità culturali anche notevoli, il cui unico tratto comune è consistito, forse, in una stigmatizzazione negativa [2004: 3]. La parola Rom è dunque un termine universale, che rimanda ad una miriade di gruppi e sottogruppi caratterizzati da una serie di somiglianze che includono la lingua, le modalità di vita, le tradizioni culturali e l’organizzazione familiare. Si pensi all’aspro dibattito politico a seguito della controversa campagna di rimpatri disposta recentemente dal governo francese che ha provocato la dura reazione delle istituzioni comunitarie. 2 Nel presente contributo l’utilizzo dei termini Rom o zingari (senza alcuna connotazione negativa) per indicare gruppi diversi è dovuto solo a ragioni pratiche di semplificazione. 1
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Inoltre, nel corso del tempo le singole specificità culturali si sono compenetrate e fuse con elementi di altre popolazioni con cui sono entrate in contatto, creando mescolanze potenti e forme di vita irregolari rispetto al presupposto archetipo Rom [Lapov 2004]. Nel contesto italiano l’impiego, sia in ambito istituzionale sia talvolta accademico, di categorie stereotipate che omogeneizzano tale realtà variegata di gruppi etnici caratterizzati da provenienze nazionali, consuetudini abitative, appartenenza religiosa, credenze, pratiche culturali e mestieri tradizionalmente praticati ben diversi (nonché da un distinto status giuridico), ha implicazioni di rilievo in termini di policy. Come osserva Ambrosini [2009: 319], i processi di naming e di framing, selezionando e attribuendo un nome ad alcuni elementi caratteristici del fenomeno da gestire, rimuovendone altri, elaborano lo schema cognitivo di lettura e interpretazione della realtà, che predispone il terreno per le scelte propriamente politiche. Non a caso, in Italia, l’etichetta generica di “nomadi” ha profondamente influenzato le politiche abitative per la maggior parte di queste popolazioni. Nella seguente parte introduttiva si tenterà di illustrare sinteticamente alcuni temi essenziali della “questione Rom”, che consentono di contestualizzare il fenomeno e inquadrare i successivi sviluppi empirici oggetto d’indagine. In particolare, dopo aver tracciato in chiave storica un (seppure approssimativo) quadro qualitativo e quantitativo dei diversi gruppi presenti in Italia, si affronterà la spinosa questione dei “campi nomadi” a partire dalla legislazione regionale che li ha istituiti, mostrando le ambiguità e le contraddizioni di politiche nazionali che non riconoscono alle popolazioni rom lo status di minoranza e al contempo le confinano in campi-ghetto sulla base di una loro presunta attitudine al nomadismo. L’attenzione poi si soffermerà sull’aspetto problematico della tutela della salute della popolazione Rom, aspetto che verrà poi approfondito negli studi di caso, e sulla ratio delle politiche nazionali messe in atto negli ultimi tempi. Un’ultima riflessione riguarderà il mondo dell’associazionismo a favore dei Rom e le modalità di promozione della partecipazione attiva.
1.2 La galassia “nomadi” in Italia tra stereotipizzazione e frammentazione etnica Le popolazioni rom costituiscono una galassia di minoranze [Dell’Agnese, Vitale 2007] tutt’altro che omogenea dal punto di vista 22
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storico, culturale e religioso3. Ci troviamo dunque di fronte ad un mosaico di frammenti etnici: non una minoranza “territoriale”, ma una “minoranza diffusa”, dispersa e transnazionale, che assume nomi differenti: Rom, sinti, manus, kale, romanichals, etc. [Arrigoni, Vitale 2008]. La reale consistenza numerica delle popolazioni rom4 presenti in Europa e in Italia non è nota. Questo vuoto di conoscenza, dovuto all’impossibilità di eseguire censimenti su base etnica ma anche a una certa reticenza a dichiarare un’identità fortemente stigmatizzata, lascia spazio a rappresentazioni distorte e strumentali. Le stime disponibili, spesso oggetto di aspre contestazioni, dipingono scenari discordanti a seconda che provengano da fonti governative, che non hanno interesse ad ammettere di avere molti Rom nel proprio territorio, o dal mondo dell’associazionismo e dei movimenti di rivendicazione, che, al contrario, tendono a sovrastimare le presenze, anche per garantirsi l’accesso ai fondi [Piasere 2004]5. Secondo quanto riportato da Spinelli [2003], in tutto il mondo i Rom sarebbero dai dodici ai quindici milioni6; di questi, la maggior parte risiederebbe in Europa (dai 7.200.000 ai 8.700.000), in particolare nell’Europa dell’Est (circa il 60-70%) e in Spagna e Francia (1520%). Per quanto riguarda l’Italia, l’Opera Nomadi e l’Associazione Italiana Zingari Oggi (A.I.Z.O.) hanno effettuato rilevamenti delle presenze di Rom, Sinti e Camminanti sull’intero territorio nazionale, stimando fra le 130 mila e le 150 mila unità, pari a circa lo 0,25% della popolazione totale7. La metà di questi (70 mila persone circa, discendenti di coloro che sono giunti nel nostro Paese fra il XV secolo e il 1950) possiede la cittadinanza italiana, mentre i restanti sono extracomunitari provenienti soprattutto dalla ex Jugoslavia e dall’Albania o sono cittadini comunitari della Romania. Cfr. Karpati 1993; Piasere 1999; De Cozannet 2000; Spinelli 2003; Vaux, DeFoletier 2003; Piasere 2004; Mannoia 2007. 4 Com’è noto, “Rom” in romanì significa “uomo” o “marito” in contrapposizione a “Gagé” che indica i “non Rom”, l’alterità per definizione. La donna è romni, romà è il popolo Rom nel suo insieme. 5 Emblematico è il caso della Romania che accoglierebbe il 26,6% della popolazione zingara d’Europa. Secondo Liégeois [1998], i Rom rappresenterebbero l’8% della popolazione rumena, mentre nel censimento del 1992 essi risulterebbero essere solo l’1,8% [Piasere 2004]. 6 Sulla distribuzione territoriale dei Rom in Europa e nel resto del mondo si veda anche il contributo di Piasere [2003]. 7 Cfr. Scalia 2006; Dell’Agnese, Vitale 2007; Arrigoni, Vitale 2008. 3
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Le popolazioni rom, originarie dell’India sono presenti in Italia da più di seicento anni. Fra i più antichi documenti storici che ne testimoniano l’arrivo, vi sono quelli riguardanti il passaggio per Forlì (anno 1422) e per Fermo (1430) di un gruppo di circa duecento “indiani” diretti a Roma per ottenere indulgenza e protezione dal Papa, ma è probabile che altri gruppi avessero già raggiunto le coste del Sud dalla Grecia8. Più che un’unica lingua, di origine indo-ariana, i vari gruppi sparsi per l’Europa parlano dialetti romanè, che, seppure influenzati dalle lingue locali e comprendenti una grande quantità di vocaboli stranieri, presentano una notevole unità lessicale. Al di là dei recenti tentativi di trascrizione, la moltitudine di linguaggi in cui si è frantumato il romanè ha tradizione sostanzialmente orale, per cui ogni gruppo ricorda solo la propria storia e non la condivide con gli altri [Dell’Agnese, Vitale 2007]. La stragrande maggioranza degli zingari residenti in Italia è stanziale, non avendo mai praticato, a fronte dello stereotipo ricorrente, alcuna forma di nomadismo. Due sono i gruppi maggiormente diffusi: i Rom (residenti in tutte le regioni italiane) e i Sinti (soprattutto nel Nord e nel Centro); è poi presente una minoranza di Camminanti, prevalentemente sedentarizzati in Sicilia, presso Noto. Le popolazioni rom di antico insediamento sedentarizzate nelle diverse regioni del Centro-Sud ammontano (insieme ai Camminanti siciliani) a circa 30 mila unità e altrettanti risultano essere i Sinti residenti nell’Italia del Centro-Nord9. 8 Sui diversi flussi migratori cfr. Liégeois 1995; Brunello 1996; Viaggio 1997; Franzese 1999; Piasere 2004; De Vaux, DeFoletier 2003. 9 In linea di massima, appartengono al gruppo di antico insediamento [Scalia 2006]: – Sinti piemontesi, stanziati in tutto il Piemonte; – Sinti lombardi, presenti in Lombardia, in Emilia e parte anche in Sardegna; – Sinti mucini, i più poveri, detti spregiativamente così, cioè “mocciosi”; – Sinti emiliani, nella parte centrale dell’Emilia Romagna; – Sinti veneti, presenti nel Veneto; – Sinti marchigiani, presenti nelle Marche, nell’Umbria e nel Lazio; – Sinti gàckane, zingari immigrati dalla Germania, attraverso la Francia, in tutta l’Italia centro-settentrionale; – Sinti estrekhària in Trentino-Alto Adige (e in Austria); – Sinti kranària, nella zona della Carnia; – Sinti krasària, nella zona del Carso; – Rom calabresi, stabilitisi da secoli in Calabria;
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Come segnalato da Zoran Lapov, è impossibile compilare un’onomastica esaustiva dei Rom presenti in Italia, poiché l’onomastica romaní rappresenta un fenomeno socio-linguistico e identitario “assai vivo e mutevole, in cui – a causa delle differenze generazionali e territoriali, nonché degli spostamenti che taluni gruppi rom intraprendono – i loro etnonimi sovente e volentieri si sovrappongono, senza lasciare la possibilità di tracciare confini ben definiti” [2004: 104]. Il “sistema Rom” è piuttosto l’insieme delle comunità non-gagè che convivono e interagiscono in una data regione; “i nomi, più o meno volatili, dei gruppi rom richiamano una tavolozza in cui i colori sfumano l’uno nell’altro e mutano fondendosi e distinguendosi da una generazione all’altra” [Piasere 2004: 76]. Dopo la prima guerra mondiale sono giunti dall’Europa orientale circa 7 mila Rom harvati, kalderasha, istriani e sloveni, mentre un terzo gruppo ben più consistente di circa 40mila Rom xoraxanè (musulmani provenienti dalla ex-Jugoslavia meridionale), Rom dasikhanè (cristiano-ortodossi di origine serba) e Rom rumeni è arrivato in Italia negli anni ’60 e ’70. Nel secondo dopoguerra, l’Italia presenta una complessa geografia di gruppi gitani, molti dei quali ben integrati nel settore agricolo sia nel ricco Nord (come nel caso dei Sinti residenti nella valle del Po) sia nel Sud, interessato dalle trasformazioni messe in atto dalla riforma agraria; tale processo di integrazione viene messo in crisi dall’industrializzazione e meccanizzazione dell’agricoltura nel Centro-Nord e nel Nord-Est, tanto che Rom e Sinti riprendono a spostarsi verso le città di medie e grandi dimensioni [Vitale 2009]. Un ultimo rilevante flusso migratorio è tutt’ora in corso, seppure con fasi alterne, a seguito del crollo dei regimi comunisti nei Paesi dell’Europa dell’Est e alla guerra nei Balcani. Nei primi anni Novanta tali flussi hanno riguardato soprattutto Rom provenienti dalla Serbia, Kosovo e Montenegro10. In assenza di politiche di intervento, il loro arrivo ha comportato una passiva implementazione dei campi nomadi esistenti, determinando ulteriore emarginazione e sovraffollamento. – Rom abruzzesi dal XIV secolo, diffusi oltre che in Abruzzo e Molise, anche nel Lazio, in Campania, in Puglia, nelle Marche; un nucleo consistente si trova anche a Milano e in altre città del Nord; – Ròmje celentani, presenti nel Cilento; – Ròmje basalisk, presenti in Basilicata; – Ròmje pugliesi, stanziatisi nella Puglia. 10 Con la costituzione di nuovi Stati nei Balcani, molti risultano attualmente apolidi.
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Lo stesso è accaduto con l’ingresso dei Rom rumeni a ridosso degli anni Duemila. Complessivamente si stima che dal 1992 al 2000 siano giunti in Italia dalla ex Jugoslavia, dall’Albania e della Romania circa 16 mila Rom, disseminati su tutto il territorio nazionale11. Attualmente il gruppo più numeroso, coeso, economicamente attivo e socialmente integrato è costituito dai Rom abruzzesi, tradizionalmente calderai e mercanti di cavalli, seguiti dai Rom calabresi, un tempo apprezzati fabbri ferrai [Karpati 1995]. Gli zingari di ultima migrazione, invece, costituiscono una popolazione fluttuante e invisibile, spesso mimetizzata con gli altri immigrati, accampata in condizioni di miseria ai margini delle città, lungo ferrovie, tangenziali, canali, discariche e cimiteri, in terreni il cui valore fondiario è minimo [Sigona 2005]. La mancanza dei documenti di soggiorno aggrava la loro fragilità sociale, allontana le prospettive di integrazione e li rende particolarmente esposti ad attacchi xenofobi [Sigona, Monasta 2006].
1.3 Il mancato riconoscimento dello status di minoranza Nonostante le popolazioni zingare rappresentino la più grande minoranza presente in Europa, l’Unione Europea non ha mai messo in atto una politica complessiva di contrasto alle discriminazioni. Tuttavia, a partire dalla Raccomandazione del Consiglio d’Europa n. 563 del 1969, nella quale l’Assemblea consultiva si dichiarava “profondamente allarmata” dalla mancata implementazione di politiche a sostegno delle comunità rom e dalle “frequenti frizioni fra le famiglie nomadi e la popolazione sedentaria”, sono state formulate nel corso degli anni diverse risoluzioni e raccomandazioni di carattere antidiscriminatorio, declinate in base alle condizioni soggettive delle persone e alla loro appartenenza a gruppi specifici. In tempi più recenti, l’Unione Europea ha affiancato alla produzione normativa strumenti di politica “alternativi”, progetti finanziati e modalità negoziali per combattere le discriminazioni, favorire l’inclusione sociale e migliorare le condizioni di vita dei Rom. In Italia il nodo centrale resta legato al (mancato) riconoscimento di Rom, Sinti e Camminanti come minoranza titolare di diritti e all’as11 Sui diversi gruppi presenti in Italia, cfr. Karpati 1995; Liégeois 1995; Viaggio
1997; Spinelli 2003; Impagliazzo 2008.
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senza di una legge nazionale specifica. Nell’ordinamento giuridico italiano, il concetto di minoranza è legato alla peculiarità linguistica e trova il suo fondamento nell’articolo 6 della Costituzione che recita: “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. Esito di un aspro dibattito parlamentare tra le diverse forze politiche, la legge n. 482 del 15 dicembre 1999, “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”, riconosce e tutela dodici minoranze etnico-linguistiche storiche (albanese, catalana, germaniche, greca, slovena, croata, francese, franco-provenzale, friulana, ladina, occitana e sarda), tenendo conto di criteri etnici, linguistici e storici, nonché della localizzazione in un territorio definito. Ignorando la specificità della lingua romanè, nell’interpretazione dell’articolo 6 ha prevalso un principio “territorialista” che di fatto esclude dal dettato la minoranza zingara, in quanto “minoranza diffusa”, dispersa e transnazionale priva di una concentrazione territoriale riconoscibile [Dell’Agnese, Vitale 2007; Loy 2009]12. Un tentativo di modifica si è avuto solo in tempi recenti con la proposta di legge n. 2858, presentata alla Camera dei Deputati nel luglio del 2007. La proposta, poi decaduta con la fine anticipata della legislatura, proponeva l’estensione delle disposizioni di tutela delle minoranze linguistiche storiche previste dalla legge 482/99 alle minoranze dei Rom e dei Sinti recependo i principi della “Carta europea delle lingue regionali o minoritarie”, che riconosce le “lingue non territoriali” come lo yiddish e il romanè. Pertanto, allo stato attuale, non esiste nel nostro ordinamento alcuna norma che preveda e disciplini l’inclusione e il riconoscimento delle popolazioni rom nel concetto di “minoranza etnico-linguistica”; le comunità “sprovviste di territorio”, residenti in Italia, sono prive di apposite norme per la reale salvaguardia della loro cultura e della loro lingua. I Rom, i Sinti e i Camminanti acquisiscono diritti de jure esclusivamente come individui, quando sono riconosciuti cittadini dello Stato italiano; non hanno invece diritti in quanto “minoranza”, perché non sono riconducibili ad un’appartenenza territoriale [Scalia 2006]. Il possesso o l’acquisizione della cittadinanza non significa tuttavia parità di diritti e doveri con gli altri cittadini italiani, se non viene garantita la tutela della specificità culturale e la piena rappreVale la pena ricordare che tra i diritti riconosciuti alle minoranze etnicolinguistiche vi sono l’insegnamento della lingua nelle scuole dell’obbligo, nonché l’uso della lingua nell’amministrazione pubblica, nei media e nella toponomastica ed onomastica locale. 12
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sentatività e partecipazione, a livello locale quanto nazionale13. Per la maggior parte dei Rom di ultimo ingresso, resta poi pendente la questione fondamentale della regolarizzazione. Per coloro che sono nati in Italia e vissuti nei campi, l’acquisizione della cittadinanza italiana al compimento del diciottesimo anno è ostacolata dall’impossibilità di produrre apposita documentazione che attesti la residenza continuativa in Italia per tutti i 18 anni. Per quanto riguarda gli apolidi o zingari “di nazionalità non determinata” che sono privi di permesso di soggiorno, è necessario che siano regolarizzati o, come afferma lo stesso Ministero dell’Interno, che ricevano documenti non in deroga, ma identici a quelli degli altri cittadini (ibidem). La minaccia costante di espulsione dall’Italia, la relazione stretta tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro, le difficoltà di accesso ai servizi di base (tra cui quelli socio-sanitari), il problema del non riconoscimento dei matrimoni tradizionali celebrati all’interno della comunità costituiscono, tra gli altri, ostacoli concreti ad una positiva integrazione sociale.
1.4 Il ruolo della legislazione regionale In assenza di provvedimenti legislativi nazionali a tutela delle minoranze Rom, un ruolo fondamentale è stato svolto dalla legislazione regionale. La nascita dei “campi nomadi” risale alla fine degli anni Ottanta quando, sotto la spinta dell’emergenza causata dagli ingenti flussi migratori provenienti dall’ex Jugoslavia, le regioni decisero di realizzare programmi di intervento nel settore della tutela e della promozione culturale di tali minoranze. Prima di allora, le carovane itineranti di Rom e Sinti erano costantemente costrette a muoversi. A seguito di specifiche ordinanze emesse dai sindaci, un particolare tipo di segnaletica era stato infatti apposto in diverse parti del territorio italiano: si trattava dei cartelli – anticostituzionali e discriminanti – di “divieto di sosta ai nomadi”, che obbligavano le famiglie a cercare sempre nuovi luoghi in cui fer-
13 Per i Rom di cittadinanza italiana è inoltre aperto il dibattito se debbano essere riconosciuti come minoranza transnazionale e, quindi, con diritto di risiedere in qualsiasi Stato, oppure se, cittadini di pieno diritto di uno Stato, debbano essere soggetti, emigrando in altro Stato, alle norme che regolano il soggiorno degli stranieri [Scalia 2006].
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marsi14. Le politiche di espulsione adottate da quasi tutte le città settentrionali rendevano le condizioni di vita dei gruppi rom sempre più precarie, ostacolavano l’accesso ai servizi e impedivano ai bambini di frequentare in modo continuativo la scuola. Negli anni dei “divieti di sosta” per i nomadi, un ruolo di primo piano nella promozione sociale di Rom e Sinti15 e nella nascita delle prime aree attrezzate fu rivestito dall’Opera Nomadi e da altri gruppi di volontariato. Tuttavia, il rischio insito nella creazione dei “centri sosta” appariva chiaro sin dall’inizio. Nelle posizioni (oggi discutibili) dei volontari di allora, che consideravano il popolo zingaro in condizioni di sottosviluppo, si ribadiva infatti la dannosità di centri sosta concepiti come ghetti o campi di concentramento e privi di un ordinamento interno [Azzolini 1971: 21-22]. A partire dal Veneto, con il varo della legge regionale n. 41 del 1984, diverse regioni hanno legiferato per tutelare il “diritto al nomadismo” e alla sosta nel territorio regionale, regolando le modalità di allestimento di aree attrezzate, i cosiddetti “campi”, i quali avevano il fine di accogliere i nomadi e di aiutare i bambini a frequentare le scuole16. Secondo Brunello [1996: 15]:
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In seguito alle proteste delle organizzazioni dei Sinti italiani, il Ministero dell’Interno chiese ai prefetti di intervenire per obbligare le amministrazioni comunali a rimuovere i cartelli di “divieto di sosta ai nomadi”; ciononostante, ordinanze e cartelli dai contenuti equivalenti sono ancora in uso in molti comuni italiani [Enwereuzor, Di Pasquale 2009: 22]. 15 Un intervento emblematico fu la sperimentazione, dapprima a Bolzano e a Milano, di classi speciali “Lacio Drom”, che in pochi anni diventarono oltre sessanta. Le classi speciali furono istituite dal Ministero della Pubblica Istruzione nel 1965 ed erano rivolte a “zingari e nomadi”; esse prevedevano una grande elasticità di orario e di calendario scolastico al fine di adattarsi alle esigenze degli utenti. Già dal 1971 il Ministero avvertì l’esigenza di affermare la transitorietà di tale soluzione, altamente ghettizzante, ma le classi speciali furono definitivamente soppresse solo nel 1982 [Sigona 2002]. 16 Al di là delle finalità dichiarate, lo spirito di fondo delle leggi regionali resta la considerazione della “questione Rom” in termini prevalenti di ordine pubblico, come efficacemente evidenziato da Sigona [2002: 70]: «la sosta dei gruppi ha creato e crea problemi di varia natura, in tema di rapporti con le comunità locali, come anche in tema di ordine pubblico. Affrontati a posteriori o in termini solo repressivi, questi problemi non sono scomparsi, ma anzi si sono sempre riproposti, anche aggravati; è necessario quindi affrontarli a priori, con un insieme di misure che valgono a scongiurarli, e comunque ad attenuarne la portata, corresponsabilizzando in varia forma le comunità interessate».
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l’obiettivo sul quale convergono amministratori e gruppi di volontariato, e che finisce con il catalizzare la discussione sui giornali, è l’apertura di campi attrezzati. Al fondo di questa richiesta si trovano considerazioni di ordine sanitario (chiudere luoghi malsani, assicurare un minimo di igiene) e insieme di controllo sociale (impedire la “dispersione” dei gruppi rom, concentrarli in un luogo).
Attualmente, metà delle regioni italiane (Emilia-Romagna, FriuliVenezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Sardegna, Toscana, Umbria e Veneto) e la provincia autonoma di Trento si sono dotate di leggi specifiche per la “protezione di nomadi/zingari/ rom/sinti e della loro cultura”, incluso il “diritto allo stile di vita nomade” [Enwereuzor, Di Pasquale 2009]. Rilevando numerose similitudini tra le suddette norme regionali, alcuni commentatori parlano in realtà di “leggi fotocopia”; i temi trattati nei testi di legge variano minimamente da regione a regione, mentre ciò che muta è la maggiore o minore definizione degli obiettivi, degli interventi e delle risorse previste [Sigona 2002]. Elemento comune a tutti i dispositivi normativi è il riconoscimento del nomadismo come tratto culturale caratterizzante Rom e Sinti, da cui far discendere la “tutela del diritto al nomadismo” e alla sosta nel territorio regionale. Difatti, come osservano diversi autori, fatta eccezione per Veneto, Toscana ed Emilia Romagna, che hanno apportato modifiche ai loro ordinamenti per riconoscere la stanzialità della maggior parte dei Rom, dei Sinti e dei Camminanti, con l’istituzione dei “campi sosta per nomadi” si tende ad incorporare nella legge la credenza diffusa che tali gruppi possiedano un’identità nomade che preferisce vivere in campi isolati e separati dalla popolazione maggioritaria [Dell’Agnese, Vitale 2007; Sigona 2007]. Di fatto, tale concezione dei Rom come “nomadi” permea ogni aspetto delle politiche pubbliche italiane, in particolar modo di quelle abitative [Enwereuzor, Di Pasquale 2009]. Stabilendo una sorta di legame di causa-effetto tra necessità di tutela e costruzione delle aree di sosta, le leggi regionali finirono da un lato per costringere i Rom a vivere nei campi, rafforzando lo stereotipo negativo sulla loro mancanza di volontà di integrazione, dall’altro per incentivare forme di nomadismo forzato e di mobilità indotta, slegata da ragioni di tipo economico o culturale e strettamente di30
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pendente dall’atteggiamento di chiusura delle autorità amministrative locali e della popolazione maggioritaria17. Per tale via, gruppi etnici caratterizzati da tradizioni, stili di vita, abilità professionali, religioni e tratti culturali diversi vengono dapprima etichettati in un unico termine (nomadi) e poi gradualmente compresi in un singolo provvedimento amministrativo che si fonda su un principio etnico riferito ad uno specifico comportamento (il presunto nomadismo); questa categoria è fondata e alimentata da una visione non-sociale che non consente processi di riconoscimento, ma solo di reificazione [Vitale 2009]. Un ulteriore limite del processo di “regionalizzazione” della tutela delle minoranze “senza territorio” [Simoni 2003b] è che, in mancanza di forme di coordinamento orizzontale fra gli enti e di governance multilivello fra istituzioni ordinate verticalmente, i Comuni, responsabili della costruzione e gestione dei campi sosta, raramente ottemperano le disposizioni regionali [Sigona 2005], incoraggiando di fatto la costruzione di insediamenti abusivi. Inoltre, in assenza di un intervento normativo statale non si producono opportunità di affermazione esplicita di diritti e diviene più arduo promuovere “una discussione sul bilanciamento dei (a volte contrapposti) diritti dei soggetti coinvolti” [Simoni 2003: 73]. La decisione di costruire un nuovo insediamento provoca, nella maggior parte dei casi, reazioni di ostilità e allarme sociale da parte della popolazione residente, accompagnate da aspre controversie politiche.
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Per alcuni autori, in realtà, il nomadismo praticato dalla maggior parte dei Rom e Sinti in Italia è di tipo “simbolico” e si manifesta in un diverso utilizzo degli spazi e degli ambienti, negli arredi di case che ricordano l’interno degli antichi carrozzoni e delle tende, nella presenza delle roulotte in sosta accanto alle abitazioni [Franzese, Spadaro 2005: 21]. Ciò non significa che non siano riscontrabili forme diverse di mobilità, per periodi più o meno lunghi, da quella “stagionale”, motivata da richiami di natura economica (la raccolta della frutta, la vendemmia, la partecipazione a fiere e a festività, l’esercizio di mestieri itineranti, ecc.) o familiare (visita a parenti che si trovano in altre località), a quella “circolare”, seguendo un determinato itinerario all’interno di un territorio limitato e in cui il punto di partenza coincide con il punto di arrivo, a quella “pendolare” tra una località principale e una o più località situate a breve distanza.
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1.5 La questione dei “campi nomadi” tra segregazione e controllo La nascita dei “campi nomadi” risale dunque alla fine degli anni Ottanta, quando, sotto la spinta dell’emergenza causata dai flussi migratori provenienti dall’ex Jugoslavia, le regioni decisero di realizzare programmi di intervento nel settore della tutela e della promozione dei Rom, regolando le modalità di allestimento delle aree di sosta all’interno del territorio. Le leggi regionali, laddove presenti, regolamentano soprattutto la localizzazione dei campi e delle aree di sosta, i servizi di base che devono essere forniti, le condizioni di ingresso e di permanenza. Esse prescrivono che gli insediamenti debbano essere dislocati in aree metropolitane non degradate dotate di infrastrutture, elettricità, servizi igienici, acqua potabile, fognature e raccolta dei rifiuti, con facile accesso ai servizi socio-sanitari e alle scuole. Tali prescrizioni sono rimaste largamente disattese. La soluzione dei “campi sosta”, totalmente “made in Italy”, ha causato la costruzione di veri e propri ghetti in cui i Rom vivono sedentariamente, in condizioni igienico-sanitarie precarie, all’interno di case fatiscenti o baracche fabbricate con materiali di recupero, troppo calde d’estate e troppo fredde d’inverno. Soprattutto nelle grandi città, i “campi sosta” sono stati spesso realizzati in località lontane dal centro, lungo ferrovie, tangenziali, discariche, cimiteri, in terreni di scarso valore, completamente privi di infrastrutture e servizi minimi. Ai campi “ufficiali” vanno poi aggiunti gli insediamenti abusivi, ossia costruiti senza la preventiva autorizzazione dell’amministrazione locale, impossibili da calcolare con esattezza per i continui sgomberi operati dalle forze dell’ordine18, i quali versano in condizioni di gran lunga peggiori. La spirale dell’esclusione rischia così di diventare inarrestabile. Il campo diventa un luogo di segregazione19 che permette la permanenza di persone espulse dalla città e indesiderabili; conferisce normalità ad una situazione percepita come straordinaria ed eccezio18 Le
demolizioni degli accampamenti, operate senza preavviso e senza fornire alcuna sistemazione alternativa, compromettono spesso irrimediabilmente i tentativi di integrazione e di tutela sociale, negando la fruizione dei servizi essenziali e aggravando la condizione di marginalità. 19 Secondo Vitale, i meccanismi che concorrono a produrre la segregazione sono la concentrazione spaziale del disagio e degli svantaggi sociali, la separazione spaziale del contesto abitativo, il meccanismo identitario di appartenenza e la svalutazione della rendita immobiliare [2009b: 168].
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nale [Brunello 1996]; rafforza l’identità culturale di chi vi è rinchiuso, creando al contempo una sorta di target group per cui, alla fine, l’essere Rom coincide con il vivere nel campo. In altri termini, seguendo le argomentazioni di Nando Sigona [2002: 9-10], le politiche “dei campi”, adottate negli ultimi trent’anni, hanno sostenuto e alimentato il pregiudizio nei confronti dei Rom: la coltre di pregiudizi che avvolge i Rom trova la sua espressione architettonica nelle politiche abitative elaborate da comuni e regioni d’Italia […] Il campo non è solo uno strumento di controllo […], ma anche il mezzo attraverso il quale si crea un target group. Si accentrano i servizi, si costruisce un’utenza speciale e dedicata per cui, paradossalmente, alla fine l’essere rom coincide con il vivere nel campo.
Contenere, controllare, isolare, dare ricovero: questi sono i significati associabili ai campi, tutti all’insegna però dell’idea di separazione tra i destinatari delle misure insediative e i “normali” residenti, tra le zone marginali in cui sorgono e il tessuto urbano, tra i circuiti di socialità della maggioranza e quelli delle minoranze lì alloggiate [Ambrosini 2009: 319]. La soluzione dei “campi nomadi” crea degrado fisico e sociale, distanzia dai percorsi di socialità e accresce il rischio di devianza. L’apartheid dei campi è il segnale di un trattamento differenziale delle popolazioni zingare, giustificato in termini di razzismo differenzialista e diventato modalità di azione pubblica [Dell’Agnese, Vitale 2007]. La costruzione dei campi è stata spesso realizzata senza negoziazione né coinvolgimento dei destinatari, ammassando (letteralmente) provenienze, etnie e culture diverse, talvolta incompatibili, alimentando così conflittualità interne e diffusione di condotte devianti. Attualmente, circa un terzo dei Rom e dei Sinti, sia stranieri sia italiani, vive in campi autorizzati e abusivi [Enwereuzor, Di Pasquale 2009] ma il numero totale di tali campi non è noto. I tentativi di enumerazione risentono principalmente della precarietà materiale di taluni insediamenti (baracche, edifici abbandonati) e dei continui sgomberi operati dalle forze dell’ordine20. A fronte di un’ampia letteMonasta [2005], che nel 2001 ha effettuato una mappatura di tutti i campi presenti in Italia nell’ambito del progetto europeo The education of the Gypsy Childhood in Europe, indicava 155 insediamenti per un totale di circa 20 mila Rom stranieri. È dunque altamente probabile che con le ultime ondate provenienti dalla 20
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ratura sugli insediamenti presenti nel Centro-Nord Italia e nelle grandi aree metropolitane21, risulta una forte carenza di studi dettagliati sulla situazione delle popolazioni rom del Meridione, sia in termini quantitativi (presenze, composizione socio-demografica), sia per quanto riguarda le caratteristiche qualitative (nazionalità, storia delle comunità, grado di inserimento nel territorio), fatta eccezione per alcune significative ricerche relative perlopiù a comunità di antico insediamento22. La soluzione amministrativa del campo nomadi è da quattro decenni il modello di riferimento delle politiche abitative per Rom e Sinti in Italia. Eppure nel corso del tempo numerosi tentativi (certamente poco noti) di superamento della logica del campo sono stati attivati in varie parti d’Italia23, tra cui la costruzione di microaree, l’assegnazione di alloggi popolari, l’equa-distribuzione, l’accesso ad alloggi privati con strumenti di sostegno, il terreno privato, l’upgrading delle baracche24. La segregazione abitativa, intesa come processo e non come condizione [Vitale 2009b: 167], si lega strettamente Romania, tale cifra sia notevolmente aumentata [Sigona, Monasta 2006]. Difatti, come risulta dai censimenti voluti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con le ordinanze del 30 maggio 2008 nei soli territori di Roma, Napoli e Milano sono stati individuati complessivamente 167 accampamenti, di cui 124 abusivi e 43 autorizzati, ed è stata registrata la presenza, attraverso la rilevazione delle impronte digitali, di 12.346 persone, tra le quali 5.436 minori. Cfr. http://www.interno.it. 21 Per alcuni esempi, cfr. Revelli 1999; Città di Bolzano, Fondazione Giovanni Michelucci 2005; Franzese, Spadaro 2005; Ambrosini, Tosi 2007; Bragato, Mesetto 2007; Cossi, Ravazzini 2008; Vitale 2008; Ambrosini 2009. 22 Cfr. Schemmari 1992; De Luca, Panareo e Sacco 2007; Cammarota, Petronio, Tarsia e Marino 2009; Pontrandolfo 2004 e 2009. 23 Per una rassegna di casi significativi di politiche locali contro l’esclusione sociale di Rom e Sinti, cfr. Vitale 2009b. 24 Secondo alcuni, oltre all’appartamento, la maggior parte delle famiglie rom e sinte italiane aspira a due alternative abitative: il terreno privato (di proprietà) e la microarea. Il terreno privato consente ai Rom di vivere con la propria famiglia allargata, scegliendo i propri vicini e dirimpettai. Nella Regione Lombardia, le famiglie che hanno acquistato terreni privati su cui stabilirsi finora hanno scelto terreni agricoli, i cui costi sono più accessibili, ma la recente normativa in ambito urbanistico stabilisce che anche roulotte e case mobili sono immobili a tutti gli effetti, necessitano di concessione edilizia e devono quindi essere stabilite esclusivamente su terreni edificabili. La microarea è una soluzione alternativa al terreno privato. Nella microarea vengono edificate casette unifamiliari sulle quali insediare non più di cinque/sei nuclei familiari. Tale soluzione intermedia permette di eliminare le situazioni di concentramento dei campi nomadi, mettendo a disposizione spazi vitali più ampi e vivibili ed eliminando i problemi relativi alla convivenza forzata [Berini 2009: 261-62].
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alla povertà, che è deprivazione economica ma anche mancanza di opportunità lavorative e di accesso ai servizi. Tra gli aspetti più critici vi è la tutela della salute, oggetto di approfondimento nel prossimo paragrafo.
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1.6 Accesso ai servizi socio-sanitari e bisogni di salute Se intendiamo la salute come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non la semplice assenza di malattia”25 e annoveriamo tra i requisiti per la sua promozione “la pace, la casa, l’istruzione, il cibo, il reddito, un ecosistema stabile, la continuità delle risorse, la giustizia e l’equità sociale”26, la partecipazione e l’eliminazione delle disuguaglianze diventano elementi imprescindibili nella pianificazione di percorsi di promozione della salute [Monasta 2009: 107108]. Nel caso dei Rom, numerosi ostacoli e pregiudizi si frappongono all’accesso e alla fruizione dei servizi socio-sanitari di base. Da più parti si sottolinea la contraddizione tra il tentativo di mettere a punto, spesso sulla scia di un’emergenza o di un fatto di cronaca, progetti sanitari e l’esistenza di condizioni di vita assimilabili a violazioni dei più elementari diritti umani [Benevene 2003]. Innanzitutto, come evidenziano Morrone et al. [2003], la regolamentazione dell’accesso all’assistenza medica da parte di Rom, Sinti e Caminanti è stata in questi anni vaga e disarticolata ed è mancata una chiara politica sanitaria che mirasse a garantire ad essi il diritto alla tutela della salute27. In assenza di un quadro legislativo nazionale che regoli in modo specifico il diritto alla salute per i Rom non in possesso di cittadinanza italiana, si fa riferimento alla normativa sull’immigrazione, includendo tali popolazioni nella categoria più generale degli stranieri28. Per i Rom regolarmente soggiornanti è previsto l’obbligo di iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale, nonché la parità di trattamento e 25
Definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 1948. Cfr. www.who.int. 26 Carta di Ottawa del 1986. 27 Diritto peraltro riconosciuto dall’art. 32 della Costituzione a tutti gli individui, senza distinzione di razza, religione e cittadinanza. 28 Legge Quadro sull’immigrazione n. 40/1998, confluita con Dl.vo n. 286/1998 nel Testo Unico.
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la piena eguaglianza di diritti e doveri rispetto ai cittadini italiani. A coloro che non sono in regola con le norme relative all’ingresso ed al soggiorno vengono garantite nei presidi pubblici ed accreditati le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia ed infortunio e l’estensione dei programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva29. L’erogazione di queste prestazioni è legata al rilascio di una tessera denominata STP (Straniero Temporaneamente Presente) da parte delle aziende sanitarie30. La legge n. 40/1998 ha dunque reso possibile l’accesso ai servizi sanitari a tutti gli stranieri extracomunitari e Rom, ma senza la messa in atto di un’efficace politica sanitaria in grado di rilevare i bisogni sanitari della popolazione di riferimento: possibilità d’accesso non significa automaticamente fruizione delle prestazioni [Hawes 1997]. Concorrono ad ostacolare l’utilizzo dei servizi la scarsa conoscenza della lingua italiana, la poca comprensione e/o rispetto delle procedure di funzionamento delle strutture e, nel caso delle donne in gravidanza, la reticenza ad effettuare gli esami e i controlli prescritti, concependo il parto come un evento totalmente fisiologico e naturale [Sastipen 2006]. Gli utenti rom generalmente si rivolgono al servizio nella fase acuta di malattia; richiedono, pertanto, prestazioni urgenti in tempi stretti che mal si conciliano con la scansione temporale dei servizi. Le terapie farmacologiche vengono spesso interrotte alla scomparsa 29
Cfr. gli articoli 34, 35, 36 del Decreto Legislativo del 25 luglio 1998, n. 286, gli articoli 42, 43 e 44, del relativo Regolamento d’attuazione DPR del 31 agosto 1999, n. 394 e la Circolare n. 5 del 24 marzo 2000. 30 Più complicato è il caso dei cittadini provenienti dai Paesi di recente ingresso nell’Unione Europea (in particolare Romania e Bulgaria) già presenti sul territorio italiano come irregolari che usufruivano delle prestazioni mediche attraverso la tessera STP. In considerazione della sussistenza del regime transitorio alla libera circolazione dei neocomunitari e del fatto che in base alle leggi vigenti lo status di cittadino UE non permette il ricorso al tesserino STP, con una nota del 19 febbraio 2008 il Ministero della Salute ha precisato che l’assistenza sanitaria deve essere garantita anche ai cittadini rumeni e bulgari privi di copertura sanitaria e di STP e ha invitato le regioni a riconoscere ed assicurare l’accesso alle cure ambulatoriali urgenti ed essenziali anche ai cittadini comunitari “non in regola”. La questione è stata quindi di fatto delegata alle regioni, le quali stanno però percorrendo strade diverse (estensione della tessera STP, inserimento del codice ENI, richiesta di assicurazione privata, ecc.). Su questi aspetti, cfr. http://www.simmweb.it/index. php?id=303&no_cache=1 e http://www.salute.gov.it/assistenzaSanitaria/paginaInternaMenuAssistenzaSanitaria.jsp?id=903&menu=stranieri.
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dei sintomi; in molte occasioni il nucleo familiare allargato interviene direttamente nella somministrazione della cura, creando attrito con il personale sanitario. L’incontro tra il paziente rom e il Servizio Sanitario Nazionale avviene per lo più al pronto soccorso, che viene utilizzato in modo del tutto improprio per qualsiasi problema di salute. Le ragioni di ciò vengono ricondotte alla mancanza di educazione sanitaria e alla difficoltà a concepire un sistema di cure basato sulla prevenzione e sulla costanza delle terapie. La persistenza di pregiudizi, errate convinzioni e barriere comunicative aumentano la distanza tra i Rom e i servizi. Gli operatori sanitari manifestano spesso difficoltà ad instaurare una relazione di fiducia con l’utenza rom per la mancanza di conoscenza delle diverse interpretazioni culturali del concetto di salute, mancanza che rischia di generare un’alterata lettura del sintomo e una conseguente inefficacia della cura. Come evidenzia Paola Trevisan [2005], è necessario tener conto dell’esistenza di una concezione della malattia molto diversa per i Rom e ridefinire le categorie salute/malattia/cura secondo un approccio etnico che parta dai significati e dalle rappresentazioni elaborati all’interno di quello specifico contesto culturale. Ma quali sono i bisogni di salute della popolazione rom? Negli ultimi anni, sono state realizzate in Italia diverse ricerche sullo stato di salute degli immigrati, arricchendo di nuovi interessanti riflessioni il dibattito teorico relativo alla cosiddetta medicina transculturale o medicina delle migrazioni. Al di là di alcuni contributi sull’immunizzazione dei bambini31, poca attenzione è stata invece dedicata da parte della ricerca empirica ai Rom come portatori di specifiche necessità di salute32. In generale, si evidenzia per i Rom un patrimonio di salute più precario e una vita media più breve rispetto alla popolazione immigrata, legati sia al basso livello socio-culturale sia alle critiche condizioni di vita nei campi. Risulta in aumento l’abuso di alcool e sostanze stupefacenti; le “malattie da disagio o da degrado” o “malattie 31 Cfr. ad esempio il rapporto redatto da Baglio et al. [2004] sulla campagna di vaccinazioni in favore dei bambini rom e sinti di Roma, effettuata nel 2002. 32 Monasta [2005], che ha effettuato un’accurata analisi critica della letteratura medica sui Rom, sottolinea che molti studi sono caratterizzati da analisi superficiali sugli aspetti culturali e antropologici dei gruppi studiati e dell’ambiente socio-economico di riferimento; è invece essenziale, a suo parere, che le ricerche si concentrino su specifiche popolazioni zingare, considerando sia il contesto in cui vivono (il campo) sia la legislazione e i comportamenti istituzionali, parte integrante dell’analisi epidemiologica. Cfr. anche Zeman, Depken e Senchina 2003.
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della povertà”, quali tubercolosi, scabbia, pediculosi, nonché alcune infezioni virali, micotiche e veneree, si manifestano con sempre maggiore frequenza rispetto al passato. In alcuni contesti sono largamente diffuse ipertensione e malattie metaboliche (in gran parte attribuite allo stile di vita) e si registrano elevati rischi per la salute maternoinfantile33. Come si illustrerà in seguito, alcune esperienze di educazione sanitaria hanno portato risultati apprezzabili e, soprattutto, smentito il pregiudizio di una “naturale” idiosincrasia da parte dei Rom per la cultura della prevenzione. Ma la strada da percorrere per garantire pari opportunità di accesso al Servizio Sanitario Nazionale è ancora irta di ostacoli.
1.7 Politiche nazionali e pratiche discriminatorie Nel corso degli ultimi anni la politica italiana dei “campi nomadi” è stata oggetto di grande attenzione da parte di vari organismi internazionali di tutela dei diritti umani e, in modo sempre più marcato, della stessa Unione Europea34. In particolare, si condanna non solo l’inadeguatezza dei campi autorizzati, privi dei servizi di base, e l’inaccettabilità delle condizioni di vita in quelli abusivi, ma anche il fatto che la segregazione delle popolazioni rom sia il riflesso di un approccio generale da parte delle autorità che continua a considerarle “nomadi per vocazione” e disinteressate ad ogni forma di integrazione. Dure critiche sono state espresse, inoltre, alla pratica delle demolizioni dei campi abusivi e degli sgomberi forzati. È noto, infatti, che alla demolizione di un insediamento abusivo segue quasi sempre l’occupazione di un altro terreno e la costruzione di nuove baracche altrettanto fatiscenti e precarie, fino al successivo sgombero. Del resto, come già evidenziato, non essendo presenti nell’ordinamento giuridico italiano norme specifiche di tutela dei Rom, ispirate ai principi contenuti negli articoli 2 e 3 della Costituzione, che affermano l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e la parità di trattamento senza alcuna distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, la Cfr. Geraci et al. 2002; Monasta 2005; Sastipen 2006. Per una rassegna delle normative europee e internazionali contro le discriminazioni dei Rom cfr. Rizzin, Tavani 2009b. 33 34
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questione Rom è stata affrontata soprattutto in termini di “problema di ordine pubblico”35. In particolare, a seguito di alcuni gravi fatti di cronaca che hanno visto protagonisti cittadini rom di origine rumena, sono state messe in atto una serie di risposte governative di tipo restrittivo che costituiscono un vero e proprio salto di qualità rispetto alle misure precedenti [Loy 2009]. Per affrontare il “problema Rom” è stato innanzitutto promulgato il Decreto legge n. 249 del 29 dicembre 2007, volto a facilitare l’espulsione di cittadini extracomunitari e comunitari per motivi di sicurezza. In seguito, il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 21 maggio 200836 dichiarava lo “stato di emergenza in relazione agli insediamenti delle comunità nomadi in Campania, Lombardia e Lazio” fino al 31 maggio 2009 e conferiva a funzionari dello Stato e degli organi locali poteri straordinari, concepibili solo in caso di gravi calamità naturali. Nonostante la condizione strutturale di degrado ed emarginazione delle popolazioni rom, la questione veniva dunque affrontata in termini di “emergenza”, paragonandola ad una situazione di “calamità naturale” e di “serio allarme sociale”. A seguito delle ordinanze, rivolte direttamente agli appartenenti all’etnia rom e sinta indipendentemente dalla loro cittadinanza, i residenti nei campi di Napoli, Roma e Milano sono stati censiti attraverso il rilievo delle impronte digitali su base volontaria. Da più parti è stato osservato che tali provvedimenti violano apertamente il principio di non discriminazione, tanto che l’Italia è stata oggetto di condanna da parte di vari organismi internazionali e comunitari, tra cui il Parlamento Europeo (Risoluzione del 15.11.07 sull’applicazione della direttiva 2004/38/CE), il Consiglio d’Europa, il Comitato Onu per l’eliminazione della discriminazione razziale (CERD) e l’Agenzia Europea per i Diritti Fondamentali [Rizzin 2009]. La possibilità di espulsione dei cittadini comunitari per motivi di sicurezza, salute e ordine pubblico resta il punto più problematico. 35 Fa eccezione la circolare del 1985 (Circolare Ministero degli Interni 85 n. 4 del 5.7.1985 sul “problema dei nomadi”), la quale sottolinea l’esigenza di garantire “una reale uguaglianza degli appartenenti ai gruppi rom e sinti (tra l’altro in grande maggioranza di cittadinanza italiana) e gli altri cittadini” e di fornire “un’adeguata risposta ai bisogni primari delle popolazioni nomadi e che nello stesso tempo sia rispettosa della cultura e delle tradizioni di vita, estremamente diversificate tra l’altro, delle varie etnie che rientrano nel nomadismo” [Vitale 2009b: 219]. 36 Decreto reso esecutivo dalle ordinanze del 30 maggio 2008 n. 3676, 3677 e 3678.
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Non vi sono evidenze empiriche sull’aumento di insediamenti abusivi a seguito dell’adesione di Romania e Bulgaria nell’Unione Europea nel 2007 e la questione del degrado e del sovraffollamento non può essere affrontata solamente con una “prova di forza” tra i governi dei Paesi neocomunitari, che faticano a mettere in atto politiche di riaccoglienza delle minoranze rom, e quelli degli Stati riceventi, che, interpretando in maniera oltremodo estensiva i limiti alla libera circolazione, vorrebbero invece rispedirle indietro.
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1.8 Note conclusive: la via della partecipazione attiva La gestione dei “nomadi”, tematica recentemente divenuta sensibile per l’allargamento del consenso presso ampi strati della popolazione, da questione locale è dunque diventata oggetto di politica nazionale, scatenando dibattiti dai toni accesi che spesso alimentano in maniera del tutto strumentale pregiudizi e stereotipi negativi. In tale clima generale, si registra un inasprimento dell’atteggiamento della popolazione maggioritaria verso le comunità rom, testimoniato dal verificarsi di numerosi episodi di intolleranza e xenofobia. Ricerche recenti mostrano che i Rom rappresentano la minoranza “più odiata” dagli italiani a fronte di una scarsissima conoscenza del loro mondo [Arrigoni, Vitale 2008]. I Rom vengono rappresentati “come sempre più lontani culturalmente e sempre più vicini spazialmente” [Vitale 2009b: 15]; sono visibili sui mezzi di comunicazione di massa e presenti nelle agende politiche prevalentemente in termini di problema e minaccia (appunto, all’ordine o alla sicurezza pubblica) e raramente vengono interpellati o coinvolti in decisioni che li riguardano. Eppure, forme di associazionismo pro-Rom sono presenti in Italia da almeno cinquant’anni. Come sottolinea Piasere [2004], nel dopoguerra prendono vita i primi movimenti di promozione sociale che, dopo secoli di mantenimento di “basso profilo”, rivendicano la visibilità dei Rom. Si tratta tuttavia di iniziative dei gagé, che non sempre riescono a coinvolgere attivamente le popolazioni romanì37. Parallelamente all’istituzione dei “campi nomadi”, le prime associazioni ad occuparsi della questione Rom sono strutture di volonta37
Fa eccezione la Missione Evangelica Zigana, movimento di risveglio del “popolo zigano” che si espande alla fine degli anni Settanta.
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riato di matrice prevalentemente religiosa, caratterizzate inizialmente da approcci paternalistici e caritatevoli. In seguito, la loro attività si integra con il servizio sociale pubblico per l’elaborazione di progetti di intervento sociale, culturale ed educativo di più ampio respiro [Lapov 2004]. Tra le associazioni principali vi sono l’Opera Nomadi, costituita nel 1963 a Bolzano e successivamente riconosciuta ente morale, e l’A.I.Z.O. (Associazione Italiana Zingari Oggi), fondata a Torino nel 1971. Numerosi altri organismi operano poi a livello locale rivolgendo la loro attenzione ai Rom in maniera non esclusiva. Il problema fondamentale sembra essere comunque la mancanza di una politica comune e di linee di azione condivise tra i diversi attori del terzo settore. In un contesto già difficile e ostile, l’assenza di coordinamento e la frammentazione delle attività indeboliscono l’efficacia degli interventi e l’incisività dei messaggi veicolati38. Ciononostante, negli ultimi anni la partecipazione sociale dei Rom e Sinti risulta sensibilmente cresciuta. L’associazionismo zingaro (e misto) assume sempre di più, seppure tra numerose contraddizioni, la funzione di lotta alle discriminazioni e di rivendicazione di diritti, oltre che di promozione sociale. L’attenzione viene concentrata sul superamento della politica dei campi, sulla ricerca di soluzioni abitative alternative, sul pieno accesso ai servizi e al sistema scolastico. Si ribadisce la necessità di combattere l’esclusione dal mercato del lavoro, soprattutto dopo l’abbandono più o meno forzato dei mestieri tradizionali, con nuove strategie di formazione e inserimento lavorativo. Al contempo, si rivendica il riconoscimento dello status di minoranza e la preservazione della lingua, cultura e identità rom. La partecipazione attiva delle comunità rom sembra essere, al momento, la via privilegiata per contrastare la condizione di marginalità e ghettizzazione. L’auspicio è che anche la ricerca empirica contribuisca a promuovere tale partecipazione, gettando luce sulle diverse realtà presenti sul territorio e, nel caso specifico, sul Meridione.
38 Anche l’indagine sulla condizione dei Rom, Sinti e Camminanti promossa dal Senato del Repubblica (XVI Legislatura) evidenzia che tale realtà associativa appare oggi estremamente frammentata e attraversata da conflitti di gruppo e settari [Senato della Repubblica 2011: 6]. Il rapporto sottolinea altresì l’esigenza di investire risorse per la formazione di operatori sociali e mediatori culturali, in modo tale che essi diventino la rete intorno alla quale la partecipazione può essere organizzata con continuità.
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Capitolo 2
Il disegno della ricerca: un “campo” da scoprire
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Danilo Catania, Alessandro Serini
2.1 Delimitare il campo delle relazioni Da un punto di vista operativo sia l’indagine sulle condizioni socio-abitative negli insediamenti RSC sia quella relativa all’accesso alla rete dei servizi socio-sanitari da parte delle popolazioni RSC hanno seguito percorsi di ricerca caratterizzati da un comune orientamento metodologico. Un tratto in particolare accomuna le due indagini realizzate dall’IREF sulle comunità RSC presenti nelle regioni Obiettivo Convergenza: la necessità di definire un quadro d’analisi in grado di evidenziare la complessità di un tema – come quello dell’esclusione/ inclusione sociale delle popolazioni RSC – che, inserito all’interno di schemi interpretativi generali, corre il rischio di fornire letture del fenomeno omologanti, rappresentazioni generiche e decontestualizzate, mettendo sullo stesso piano realtà territoriali assai differenti fra loro. In ragione di ciò, un passaggio cruciale in fase di elaborazione del disegno della ricerca è stata la scelta del livello territoriale d’analisi. Si è infatti stabilito di impostare l’impianto di ricerca sul livello territoriale minimo: quello comunale. Un ambito questo che meglio di altri si presta nel dar conto sia delle condizioni di vita in cui versano le popolazioni RSC sia del tipo di relazioni che le stesse comunità RSC intrattengono con il contesto sociale ed istituzionale circostante. La scelta di tarare l’osservazione su un livello territoriale che fosse il più “prossimo” alle popolazioni oggetto di studio va incontro alla necessità dei committenti di predisporre strumenti – sotto forma di elaborazione di linee guida e definizione di un repertorio di buone pratiche – in grado di supportare le comunità locali nella definizione 43
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di processi d’integrazione sociale delle popolazioni RSC realmente efficaci. Detto altrimenti, la decisione di centrare l’analisi sul livello comunale ha permesso di cogliere le specificità organizzative e relazionali proprie di una data comunità locale, difficilmente evidenziabili adottando una scala territoriale più estesa (provinciale o regionale). In fase di elaborazione dei risultati, ciò ha dato modo di definire modelli d’intervento attagliati alle caratteristiche delle diverse realtà territoriali, così da ottimizzare le risorse locali disponibili. Da un punto di vista operativo, tale intendimento si è tradotto nella progettazione di un impianto d’analisi volto ad evidenziare l’ampio ventaglio di situazioni che ostacolano o, viceversa, favoriscono la nascita e l’implementazione di politiche locali d’inclusione sociale. Peraltro, la decisione di inquadrare le azioni di ricerca all’interno del perimetro comunale è funzionale al raggiungimento di un altro obiettivo comune ad entrambe le indagini, ovverosia l’esplorazione dello spazio delle relazioni che intercorrono tra i diversi attori locali che a vario titolo sono interessati (direttamente o indirettamente) dalla “questione Rom”. Il proposito di definire un impianto di ricerca che tenga in debita considerazione il livello d’interlocuzione tra i diversi attori locali discende dagli obiettivi generali esplicitati tanto nel bando di ricerca sull’accesso ai servizi socio-sanitari quanto in quello dell’inclusione socio-abitativa delle popolazioni RSC, ovvero: – rafforzare l’interazione tra i diversi attori sociali locali nel campo del sostegno ai Rom e, parallelamente, mettere in moto un processo di empowerment delle comunità rom e sinte, favorendo così la tutela dei diritti fondamentali e mettendo in moto quel doppio movimento tra comunità locale e gruppi rom, presupposto irrinunciabile di ogni forma di integrazione (si veda l’indagine sull’inclusione socio-abitativa delle popolazioni RSC); – analizzare gli effetti d’interazione tra territorio e comunità rom e sinte a partire dalle condizioni socio-abitative delle comunità RSC (si veda l’indagine sull’accesso ai servizi socio-sanitari). Questo comune intendimento, in fase di progettazione dei piani d’indagine, si è tradotto in un approccio all’oggetto di studio di tipo esplorativo, comportando precise scelte di metodo: – in primo luogo, nella definizione di azioni e strumenti d’indagine in grado di cogliere la pluralità delle prospettive connes44
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se ai temi dell’inclusione/esclusione sociale delle popolazioni RSC; – in secondo luogo, nella pianificazione di un percorso di ricerca in cui i diversi attori locali offrano il loro contributo nella raccolta dei dati e nell’interpretazione degli stessi. Le due indagini si inseriscono nel solco della tradizione della partecipatory action research [Kemmis, McTaggart 2000: 581-91], una strategia d’indagine che mira alla trasformazione delle pratiche, al cambiamento delle logiche d’azione attraverso il coinvolgimento degli attori sociali. Più in generale, l’impostazione di ricerca adottata si inquadra all’interno dei modelli d’analisi tipici della ricerca-azione. Difatti, la ricerca-azione è una strategia di indagine orientata alla trasformazione delle logiche d’azione e delle relazioni tra gli attori coinvolti nel processo di studio [Kemmis, McTaggart 1988; ZuberSkerritt 1996]. Tale processo si configura come una forma incrementale di conoscenza del fenomeno esaminato e si svolge secondo un principio partecipativo; difatti, dal momento che la ricerca-azione si basa sull’utilizzo ricorsivo di riflessione, osservazione e pianificazione, l’attività degli analisti è sullo stesso livello dell’oggetto di ricerca e prende spunto dalle sollecitazioni fornite dagli attori direttamente interessati al fenomeno. Sulla scorta di tali considerazioni si sono elaborati due disegni di ricerca in cui i territori e le comunità che in esse risiedono, con le loro potenzialità e le loro contraddizioni interne, hanno costituito l’asse portante su cui si è snodato un percorso conoscitivo teso ad analizzare il rapporto tra comunità RSC e società locale. Un’esplorazione situata e condivisa che si è concretizzata, in entrambe le indagini, in un’impostazione di ricerca basata sull’analisi di studi di caso. In particolare, lo studio di caso consente di analizzare in modo approfondito singole esperienze circoscritte all’interno di un particolare ambito territoriale, soprattutto quando i confini tra il fenomeno e il suo contesto di riferimento non sono chiaramente evidenti. In tale prospettiva, si utilizzano di solito fonti diverse di informazione, per contribuire a delimitare meglio i contorni dell’unità d’analisi esaminata: interviste semi-strutturate agli attori coinvolti; osservazione in loco; raccolta di materiale documentale; etc.1. 1 Le due indagini si sono basate sui cosiddetti mixed methods, ovvero strategie di ricerca che mescolano strumenti standard e non standard. Nello specifico, il riferimento privilegiato è stata la concurrent triangulation strategy [Creswell 2003:
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Inoltre, quando il ricercatore è chiamato a svolgere uno studio di caso, si avvicina il più possibile all’oggetto di studio osservandolo da più prospettive; in tal modo, egli si trasforma in testimone vigile, che guarda con attenzione alle dinamiche interne della realtà indagata. Lo studio di caso è, peraltro, un approccio di ricerca con un solido retroterra alle spalle, che affonda le radici nella tradizione delle scienze sociali applicate2. In entrambe le indagini, la tecnica del case study si è dimostrata particolarmente utile nell’esplorare la “questione Rom” da una prospettiva per certi versi inedita, che ha sollecitato i diversi attori locali ad una rilettura del modo in cui tradizionalmente viene rappresentato il rapporto tra Rom e comunità locale. Un rapporto che non di rado assume i tratti dell’allarme sociale e dove l’amministrazione locale si trova a dover fronteggiare situazioni di estremo degrado abitativo e sanitario con strumenti e risorse spesso inadeguate. Un rapporto altresì che talvolta solleva dubbi sulla capacità dei rappresentanti del governo locale di elaborare interventi che derivano da una fattiva e informata partecipazione delle diverse componenti sociali interessate dal problema. Un rapporto, infine, in cui la stessa policroma galassia del volontariato e delle associazioni di rappresentanza delle comunità RSC mostra al suo interno visioni differenti, se non proprio contrapposte, sulla strada da seguire per una effettiva integrazione delle popolazioni RSC. Da questo punto di vista, gli studi di caso hanno rappresentato non solo un’opzione di metodo, ma anche il tentativo di sperimentare formule organizzative che stimolino il confronto sul terreno della pianificazione degli interventi, fuoriuscendo da una logica di gestione del problema eminentemente emergenziale. In ragione di ciò, attraverso la tecnica degli studi di caso si è cercato di individuare processi organizzativi e decisionali in grado di in217]. Questa strategia viene adottata quando si intende validare i risultati ottenuti con un determinato metodo (una survey, delle interviste, dei focus group, etc.), mediante i dati raccolti con altri strumenti: usando diversi metodi di raccolta dei dati è possibile controllare con più accuratezza le informazioni acquisite, giungendo così ad una interpretazione combinata del fenomeno studiato [Tashakkori, Teddlie, 2003: 236-38]. 2 Nell’ambito della copiosa letteratura su questo argomento, si vedano i seguenti contributi: R. Yin, Case Study Research: Design and Methods, Beverly Hills (CA), Sage, 1994 (seconda edizione); R. Stake, The Art of Case Study Research, Thousands Oaks (CA), Sage, 1995; J. Hamel et. al., Case Study Methods, Newbury Park (CA), Sage, 1993.
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cidere efficacemente sul livello d’integrazione delle popolazioni RSC nel tessuto sociale d’insediamento. In termini operativi, un classico disegno di ricerca di studi di caso si articola in quattro principali fasi d’indagine: 1) la delimitazione del contesto d’analisi; 2) la scelta dei casi di studio; 3) l’organizzazione degli studi di caso; 4) il lavoro sul campo. Ognuna di queste fasi implica precise scelte metodologiche connesse all’oggetto di studio che si intende osservare, ai particolari obiettivi che guidano il lavoro sul campo e alle caratteristiche delle aree di studio.
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2.2 Delimitazione del contesto d’analisi: mappature tematiche Per quanto riguarda la delimitazione del contesto d’analisi, le due indagini avevano come obiettivo di realizzare una mappatura il più possibile accurata degli insediamenti delle comunità RSC presenti nelle quattro regioni Obiettivo Convergenza. La mappatura degli insediamenti rispondeva alla necessità di ottenere un primo quadro conoscitivo della distribuzione territoriale del fenomeno, indispensabile per la scelta delle rispettive aree di studio. In questa fase si sono adottate più strategie d’analisi al fine di superare una serie di problemi legati alla difficoltà di individuare con precisione ed esaustività gli insediamenti. Nonostante nel corso degli anni siano state realizzate diverse azioni di censimento e catalogazione, è complesso pervenire ad una mappatura definitiva, soprattutto per quel che riguarda le regioni del Sud Italia. Tale difficoltà è data innanzitutto dallo scarso coordinamento delle rilevazioni: sono molti gli enti (pubblici e non) che si sono impegnati in questa attività, pervenendo spesso a ricostruzioni approfondite ma lacunose dal punto di vista della copertura territoriale. Un altro limite delle mappature già effettuate, e quindi dei dati da esse desumibili, è dato dagli obiettivi per i quali sono state realizzate le rilevazioni. Gli enti che si sono fatti promotori di queste iniziative sono molto diversi tra loro per cui gli obiettivi, le modalità di raccolta dei dati e il tipo di informazioni sono spesso non comparabili tra loro. Il progetto di ricerca deve innanzitutto essere in grado di superare l’attuale frammentazione delle informazioni, integrando le fonti disponibili e standardizzando il più possibile i dati a disposizione. Per superare i limiti imposti da una popolazione di rilevazione sconosciuta alla statistica ufficiale, in fase di progettazione delle due 47
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indagini si è realizzata una strategia comune di raccolta dei dati, che consiste nella differenziazione delle fonti dati disponibili e nell’uso di procedimenti sia diretti che indiretti di raccolta. Nel caso dell’indagine riguardante l’accesso delle popolazioni RSC ai servizi socio-sanitari si è proceduto preliminarmente all’esame della letteratura scientifica e del materiale grigio concernente la consistenza delle comunità rom nelle regioni del Sud (indagine di sfondo), con l’obiettivo di definire un primo quadro conoscitivo del fenomeno rispetto a tre principali dimensioni di studio: teorico-concettuale, numerico-statistico ed istituzionale-legislativo. Più in particolare, la delimitazione del campo d’indagine ha previsto una serie di operazioni volte alla raccolta, all’analisi e alla sistematizzazione dei dati desunti da differenti fonti d’informazione. In particolare, si è proceduto all’analisi dei dati e del materiale documentale presente negli archivi e nelle banche dati istituzionali (Dipartimento Libertà civili, religiose e dell’immigrazione del Ministero dell’Interno, Ministero dell’Istruzione, Centri regionali di vaccinazione, etc.); alla consultazione di fonti statistiche nazionali e internazionali; alla rassegna bibliografica dei principali studi e ricerche avviati sul tema d’indagine; allo studio della legislazione, delle politiche locali e delle direttive europee in materia; all’individuazione di iniziative a livello nazionale e regionale attuate o in corso coerenti con gli obiettivi del progetto. Parallelamente alla realizzazione dell’analisi di sfondo, si è costituito nella sede dell’IREF un gruppo pilota coinvolgendo nell’indagine le principali organizzazioni del privato sociale e le istituzioni che a vario titolo si occupano della popolazione oggetto di studio. Questo gruppo ha rappresentato un riferimento costante durante l’intero svolgimento dell’indagine, sia nelle sue fasi più propriamente progettuali (come ad esempio, l’individuazione delle aree territoriali), sia in quelle più propriamente valutative (valutazione della trasferibilità delle buone pratiche nelle realtà territoriali studiate). L’individuazione delle organizzazioni componenti il gruppo pilota si è basata sui seguenti prerequisiti: realtà associative di secondo livello (organizzazione ombrello) e strutturazione secondo un modello organizzativo reticolare (centro-periferia). Si tratta di soggetti istituzionali e del terzo settore attivi nel campo socio-sanitario che hanno ricoperto o ricoprono un ruolo centrale nella realizzazione delle politiche di welfare e d’inclusione sociale in favore delle comunità rom, sinte e camminanti. Rispetto a questo identikit si sono individuate quattro organizzazioni accomunate da una consolidata esperienza nella pro48
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mozione e nella realizzazione di interventi in favore delle popolazioni oggetto di studio: I. La Croce Rossa Italiana, la quale ha realizzato numerose campagne di vaccinazione all’interno degli insediamenti nomadi. A tal proposito e in coerenza con gli obiettivi d’indagine, di recente (agosto 2009) la CRI della Campania ha sottoscritto un protocollo d’intesa tra gli enti locali, la Prefettura e alcune associazioni del terzo settore per la realizzazione di percorsi partecipati finalizzati alla tutela sanitaria della popolazione nomade di Napoli (ASL 1 e 2) e provincia; ii. L’Opera Nomadi, attiva dal 1965 nella tutela e promozione dei diritti delle popolazioni rom, svolgendo attività di sensibilizzazione presso le popolazioni locali, realizzando progetti sociali, educativi e sanitari in collaborazione con gli attori locali. A tal proposito, nel 2007 l’Opera Nomadi di Foggia in collaborazione con la clinica di malattie infettive ha realizzato un’azione di screening sanitario nei diversi campi nomadi presenti nella provincia foggiana; iii. La Caritas che, al pari dell’Opera Nomadi, è impegnata da anni nella realizzazione di progetti d’integrazione delle popolazioni rom, sinte e camminanti; basti pensare, a titolo di esempio, all’accordo siglato nel 2008 tra la Caritas diocesana di Catania e la Provincia etnea per lo sviluppo di azioni tese all’inclusione nel tessuto sociale locale in quattro ambiti d’intervento: salute, educazione ed istruzione, diritto e rapporti con il territorio; iv. Le ACLI (Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani), che partecipano, da oltre cinque anni, in sinergia con il Dipartimento per le Pari Opportunità, alla gestione del Contact Center Unar attraverso l’organizzazione dei focal point territoriali e l’analisi degli eventi di discriminazione presenti nell’archivio Unar. La particolare configurazione organizzativa di queste associazioni, unita alla presenza al loro interno di sistemi di archiviazione e gestione dei dati centralizzati e gerarchici, ha permesso di disporre di banche dati non ridondanti e omogenee, indispensabili per una prima mappatura degli insediamenti RSC. Inoltre, ai referenti territoriali delle organizzazioni inserite nel gruppo pilota, è stata inviata una scheda di raccolta dei dati (da ora, scheda delle organizzazioni) al fine di raccogliere informazioni ri49
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guardanti: la dislocazione degli insediamenti nelle province delle regioni oggetto d’indagine; il tipo di interventi realizzati nei diversi insediamenti e gli attori locali che sono stati coinvolti. L’analisi congiunta dei dati raccolti tramite le schede delle organizzazioni e delle informazioni estrapolate dall’analisi delle fonti secondarie (documentazione e archivi statistici) ha permesso di dettagliare ulteriormente la mappatura degli insediamenti rom e dei progetti/interventi realizzati nei territori indagati. Anche per l’indagine sulle condizioni socio-abitative delle popolazioni RSC è stata realizzata un’indagine di sfondo con un’impostazione analoga a quella sviluppata nell’indagine sull’accesso ai servizi socio-sanitari, con la sola differenza di aver previsto per questa indagine la consultazione di banche dati a testo pieno dei principali quotidiani nazionali (“la Repubblica” e “Corriere della Sera”), allo scopo di raccogliere articoli utili a comprendere la situazione delle comunità RSC nelle regioni Convergenza3. Tutto ciò ha permesso di realizzare una mappatura territoriale delle aree d’insediamento delle popolazioni oggetto di studio, adottando un approccio multi-metodo basato sull’uso di diverse fonti e sul controllo incrociato delle informazioni. La raccolta delle informazioni è avvenuta dapprima tramite fonti indirette4 ed in seguito attraverso un canale più diretto (contatto telefonico, e-mail o fax). Inoltre, sono stati interrogati anche gli archivi digitali dei quotidiani regionali delle regioni Obiettivo Convergenza, che spesso si sono rivelati preziose fonti informative, in grado di fornire informazioni più circostanziate (e quindi più precise e dettagliate) rispetto ai giornali nazionali. La ricognizione dei quotidiani nazionali e locali ha permesso di localizzare circa 40 insediamenti RSC, la cui presenza è stata controllata attraverso la rete territoriale contattata. Non meno importante si è rivelata la ricerca a tutto testo per parole chiave sui blog. In questo caso è stato utilizzato il motore di ricerca appositamente creato da google (http://blogsearch.google.it/). Tramite questo canale sono venuti alla luce altri 20 insediamenti: le informazioni sono state poi controllate, confermate o smentite e, eventualmente, integrate attraverso il confronto con le altre fonti. 4 Sono state acquisite informazioni e dati desunti dagli archivi delle organizzazioni coinvolte nell’assistenza, promozione ed integrazione delle popolazioni RSC presenti sul territorio: associazioni di volontariato impegnate nella promozione dei diritti delle comunità rom (Opera Nomadi, Associazione Italiana Zingari Oggi, OsserVazione, etc.); enti di ricerca che realizzano indagini e studi sulle popolazioni migranti (Cestin, Fieri, Ismu, Cespi, etc.); organizzazioni di volontariato, pubbliche e del terzo settore, operanti nel campo sociale e sanitario (Caritas, Sant’Egidio, Croce Rossa Italiana, Protezione civile, etc.); associazioni degli enti locali sia comunali (ANCI) sia provinciali (UPI). 3
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Dopo essere passati al vaglio di un ulteriore controllo di attendibilità, i dati raccolti sono stati sistematizzati all’interno di una banca dati condivisa dall’équipe di ricerca, così da poter essere aggiornata in tempo reale. Il sistema di raccolta dati è stato strutturato in modo da rispondere a due esigenze cognitive: – Mappatura geografica degli insediamenti RSC. Questo tipo di mappatura non si è limitato a rilevare il luogo dell’accampamento, ma ha anche rilevato informazioni sul tipo di insediamento (case abbandonate, capannoni occupati, baracche, roulotte, etc.) e, laddove erano disponibili dati, informazioni sulle popolazioni insediate (numerosità, etnia, provenienza, etc.). – Mappatura tematica dei progetti o degli interventi attuati in favore delle popolazioni RSC. Lo scopo di questa mappatura è di individuare aree “scoperte” da interventi di assistenza. La mappatura dei progetti di inclusione sociale ha seguito due criteri connessi alla rilevanza dell’intervento (sono state privilegiate quelle aree in cui sono stati realizzati degli interventi strutturali e di sistema) e all’estensione/eterogeneità degli attori coinvolti dall’intervento (sono stati selezionati quegli interventi in cui c’è stato ampio coinvolgimento dei diversi attori locali). Sempre nell’ottica di avere il più ampio bagaglio informativo possibile, è stato richiesto all’Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) di sensibilizzare le istituzioni che, a vario titolo si occupano del tema, rispetto agli obiettivi dell’indagine. Tramite il raccordo istituzionale sono state acquisite ulteriori fonti d’informazione utili ad un miglior inquadramento del fenomeno5. L’analisi delle fonti indirette ha consentito di tratteggiare una prima quantificazione del fenomeno – sia degli insediamenti RSC presenti nei territori indagati sia dei progetti d’inclusione sociale promossi dagli enti locali. Su questa preliminare delimitazione del contesto d’analisi ha preso avvio la rilevazione territoriale, contattando i referenti locali di associazioni ed organizzazioni operanti nei territori
5 Nel dettaglio, si sono avviati dei contatti con le seguenti amministrazioni pubbliche: Ministero dell’Interno (in particolare, il Dipartimento per le Libertà Civili e per l’Immigrazione); Ministero dell’Istruzione (gruppo sulla scolarizzazione dei Rom); Ministero della Solidarietà Sociale (Direzione Generale dell’Immigrazione).
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della Sicilia, Calabria, Campania e Puglia6 a cui è stato chiesto di compilare una scheda di raccolta dati7 predisposta dal gruppo di ricerca. Sono state contattate diverse strutture istituzionali (associazioni volontaristiche, servizi sociali e uffici immigrazione comunali e provinciali, etc.) e tutte le 74 Caritas diocesane presenti nelle Regioni indagate. Le informazioni raccolte hanno consentito di precisare meglio i contorni geografici e tematici dei temi oggetto d’indagine. Infine, sono state poste a confronto le mappature scaturite dalle due indagini, allo scopo di eliminare eventuali incongruenze e ridondanze informative. Al termine di questo processo di precisazione e di validazione del contesto d’analisi sono stati individuati e rappresentati su supporto cartografico8 135 insediamenti (vedi cartina 1, p. 217)9 e 13 progetti d’inclusione sociale (vedi cartina 2, p. 218).
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Una lista completa delle persone contattate (carteggi, telefonate, fax e, a volte, incontri personali) richiederebbe una sezione a parte. È doveroso comunque nominare almeno le seguenti persone (il cui contributo è stato determinante al buon andamento dell’indagine): Giancamillo Trani (responsabile area immigrazione della Caritas Diocesana di Napoli); Massimo Converso (presidente Opera Nomadi); Marco Squicciarini (delegato nazionale della CRI per RSC); Francesco Rocca (presidente CRI); Roberta Rizzotti (responsabile Osservatorio delle povertà di Catania); Paolo Filetti (direttore Opera Nomadi di Catania); Francesca Stagno d’Alcontres (commissario del Comitato Provinciale della CRI di Messina); Pierangela Fontana (responsabile Ufficio Immigrazione Regione Puglia); Santino Scirè (presidente ACLI Sicilia); Annamaria Di Stefano (responsabile ufficio rom e patti di cittadinanza del Comune di Napoli); Rosy D’Agata (responsabile servizio immigrazione Salento della provincia di Lecce); Francesco Marsico (vicedirettore Caritas Italiana); d.ssa Gabriella D’Orso (viceprefetto della Provincia di Napoli). 7 La scheda inviata via e-mail o via fax è stata sempre accompagnata da una lettera di presentazione nella quale si specificavano le finalità della ricerca. La massiccia campagna di informazione via telefono si è presto trasformata in una campagna di sensibilizzazione verso gli obiettivi della ricerca che ha portato in più di una occasione ad una partecipazione attiva dei soggetti coinvolti. 8 Nella costruzione dei cartogrammi è stato impiegato il programma Arc-GIS (ver. 9.3.1). 9 La figura 1 mostra il cartogramma generale relativo agli insediamenti rom localizzati nelle quattro regioni Obiettivo Convergenza. Occorre precisare che per poter realizzare una rappresentazione “leggibile” si è dovuto rinunciare a rappresentare i campi presenti in uno stesso comune; per cui, il cartogramma correttamente inteso, evidenzia i comuni nei quali è presente almeno un insediamento Rom.
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2.3 Muoversi sul terreno dell’inclusione sociale: scelta e organizzazione degli studi di caso Per le due indagini, la scelta delle aree di studio è stata effettuata a partire dai risultati della mappatura degli insediamenti e dalla valutazione dei progetti/interventi individuati nella fase di delimitazione del contesto d’analisi. In particolare, l’esame dei progetti ha seguito due criteri connessi alla complessità organizzativa degli interventi realizzati: – integrazione: si sono privilegiate quelle aree in cui sono stati realizzati degli interventi strutturali e di sistema, ovvero tesi a migliorare le condizioni abitative, sociali, economiche e, in generale, di vita delle comunità RSC; – pluralismo: si sono presi in considerazione quegli interventi in cui il coinvolgimento dei diversi attori locali sia stato il più ampio possibile. Nella selezione degli studi di caso si sono presi in esame anche aspetti che rimandano alle caratteristiche storico-sociali degli insediamenti RSC interessati dall’intervento, in particolare: – Territorialità: la collocazione geografica della comunità RSC influisce sulle condizioni di vita, sulle strategie adottate e sulle reazioni dei cittadini non rom. Dal momento che il separatismo abitativo e l’effettiva fruibilità di servizi essenziali risente di una evidente componente spaziale, è necessario tenere conto della collocazione geografica dell’insediamento, adottando una prima distinzione tra insediamenti maggiormente urbanizzati e realtà più distanti da contesti metropolitani. – Radicamento: un secondo elemento considerato è il radicamento dell’insediamento. Uno dei principali ostacoli nell’attuazione degli interventi di integrazione è dato dalla diffidenza dei membri delle comunità RSC nei confronti di soggetti gagè (non Rom); per cui i migliori risultati si ottengono solo dopo una lunga opera di familiarizzazione con la comunità da parte degli operatori. Nell’ottica di prendere in esame i meccanismi di produzione dell’esclusione, si è dunque tenuto conto della componente temporale, distinguendo tra nuclei insediativi con una permanenza più lunga sul territorio e insediamenti di recente costituzione. 53
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In base ai criteri summenzionati, è stato possibile selezionare un primo gruppo di comuni in cui sono presenti insediamenti RSC. Da questa prima lista è stato selezionato un sottogruppo di comuni caratterizzato dalla presenza di progetti/interventi dal diverso livello di strutturazione. In totale sono stati selezionati otto studi di caso, equamente suddivisi rispetto alle due indagini: Napoli, Foggia, Palermo e Reggio Calabria per quanto riguarda l’accesso delle comunità RSC ai servizi socio-sanitari; Catania, Cosenza, Lecce e Giffoni (provincia di Salerno) per l’analisi degli interventi di carattere socio-abitativo riguardanti le popolazioni RSC. In sintesi, l’individuazione delle aree di studio ha seguito considerazioni connesse al differente grado di strutturazione degli interventi messi in atto dai diversi attori locali. Si sono, infatti, individuate sia realtà insediative dove sono stati realizzati degli interventi di sistema – caratterizzati da un elevato grado di integrazione e pluralismo – ovvero tesi a migliorare le condizioni abitative, sociali, economiche e, in generale, di vita delle comunità RSC (Reggio Calabria, Napoli, Lecce e Giffoni); sia contesti caratterizzati da un basso livello di strutturazione degli interventi, connotati da una debole sinergia tra i diversi attori locali e in cui le azioni realizzate per le comunità RSC sono prevalentemente di tipo assistenziale e legate all’azione dei singoli (Cosenza, Catania, Palermo e Foggia). L’eterogeneità delle situazioni indagate ha permesso di evidenziare le peculiarità organizzative e relazionali dei diversi ambiti d’azione, rinvenendo in essi elementi comuni, utili per la messa a punto di linee guida per l’individuazione di buone pratiche, in base alle quali definire un primo repertorio di strumenti tesi al miglioramento del lavoro dei soggetti coinvolti nella realizzazione dei progetti d’integrazione sociale delle popolazioni RSC. 2.3.1 Impostazione metodologica degli studi di caso sull’accesso socio-sanitario La realizzazione degli studi di caso ha previsto due fasi d’indagine sul campo: l’individuazione delle strutture sanitarie locali che dovrebbero prendersi carico dei bisogni di salute delle comunità rom residenti nel territorio di competenza (mappatura dell’offerta socio54
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sanitaria); la realizzazione di un’indagine sulle condizioni di accesso alle suddette strutture. Per quanto concerne la mappatura dell’offerta socio-sanitaria locale, in ciascuna area di studio sono state censite le strutture socio-sanitarie presenti sul territorio in cui sono ubicati gli insediamenti rom oggetto d’indagine. In via preliminare, l’area di studio ha riguardato il distretto socio-sanitario in cui è presente l’insediamento10. Attraverso la consultazione di fonti secondarie e tramite contatto diretto con le principali istituzioni socio-sanitarie attive sul territorio, sono state individuate le strutture pubbliche e del privato sociale che erogano servizi e prestazioni socio-sanitarie alla popolazione residente. Consultazioni e contratti hanno permesso di definire un primo elenco di referenti territoriali che sono stati coinvolti nell’indagine sulle condizioni di accesso ai servizi socio-sanitari delle popolazioni rom, sinte e camminanti. Al termine della mappatura dell’offerta socio-sanitaria locale, e con l’individuazione dei referenti territoriali, ha preso avvio l’indagine sulle condizioni di accesso ai servizi socio-sanitari delle comunità RSC. L’indagine ha previsto la realizzazione di interviste semistrutturate a operatori socio-sanitari, a soggetti del terzo settore che lavorano a stretto contatto con le comunità rom residenti nel Distretto socio-sanitario e a membri di associazioni di assistenza sanitaria. A seconda del tipo di intervistato sono state predisposte tracce d’intervista ad hoc. Per quanto riguarda gli operatori sanitari sono stati approfonditi i seguenti aspetti: – l’affluenza di utenti identificati come Rom; – il tipo di relazione in atto medico-paziente, con specifica attenzione ai modi mediante i quali gli operatori sanitari si rapportano alle specificità culturali delle popolazioni rom nei diversi momenti di accoglienza, diagnosi e cura; – la corretta applicazione delle cure mediche prescritte; – la percezione da parte del personale sanitario dei fattori strutturali e relazionali che ostacolano o scoraggiano l’accesso ai servizi socio-sanitari e/o una loro efficace fruizione da parte dei Rom; – modalità di fruizione dei servizi e l’eventuale ricorso alla mediazione culturale; I distretti afferenti all’ASL 1 di Napoli; l’ASL di Foggia, l’AUSL 6 di Palermo e l’ex ASL 11 di Reggio Calabria. 10
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– rappresentazioni, atteggiamenti ed eventuali forme di pregiudizio nei confronti delle popolazioni RSC da parte del personale medico-sanitario.
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Con gli operatori del privato sociale che operano quotidianamente con le popolazioni oggetto d’analisi sono state sviluppate tematiche riguardanti: – lo stato sanitario e i bisogni di salute espressi dalle comunità RSC residenti nel Distretto socio-sanitario; – le modalità di risposta alla malattia e gli eventuali percorsi assistenziali previsti; – dati corrispondenti alla copertura sanitaria (iscrizione al SSN, tesserino STP, etc.); – il livello di conoscenza dei diritti relativi alla salute e dei servizi sanitari di zona; – i fattori culturali, strutturali e relazionali che ostacolano o incoraggiano l’accesso ai servizi sanitari e la corretta applicazione delle cure mediche prescritte; – la valutazione del sistema sanitario e della qualità delle relazioni medico-paziente instaurate durante le esperienze di contatto con operatori sanitari. Sulle sollecitazioni emerse dalle interviste con gli operatori sociosanitari (pubblici e del privato sociale) è stata impostata la struttura tematica della traccia d’intervista elaborata per i rappresentanti delle associazioni locali che hanno avuto un ruolo diretto nello sviluppo di interventi territoriali11. All’inizio dell’intervista sono stati presentati in forma schematica i principali risultati emersi nel corso delle interviste ad operatori socio-sanitari e del privato sociale; la restituzione dei risultati ha dato modo agli intervistati di estrapolare indicazioni utili alla progettazione di future buone pratiche.
11 In totale sono state realizzate 30 interviste ad operatori socio-sanitari, rappresentanti del volontariato e a funzionari dei distretti socio-sanitari presi in considerazione.
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2.3.2 Impostazione metodologica degli studi di caso sulla condizione socio-abitativa La realizzazione degli studi caso è stata finalizzata al raggiungimento di due particolari obiettivi d’indagine: ricostruire le traiettorie insediative, le dinamiche di integrazione/inclusione nel territorio d’accoglienza e, inoltre, valutare il livello di efficacia degli interventi e delle politiche d’inclusione sociale delle comunità RSC attuati nelle aree oggetto di studio12. In termini operativi, lo studio di caso ha previsto la realizzazione di due moduli di ricerca: un’indagine volta a definire le caratteristiche socio-demografiche delle famiglie rom presenti nel campo d’insediamento e un’analisi storico-sociale dei processi d’inclusione sociale elaborati nei territori d’indagine. Per quanto riguarda l’indagine sulla composizione socio-demografica delle famiglie rom, si è predisposta una scheda dell’area attraverso la quale sono state raccolte una serie d’informazioni sia sull’area d’insediamento sia sul percorso insediativo della comunità residente. Accanto a ciò, nella scheda d’area sono state raccolte informazioni circa l’estensione dei gruppi familiari presenti negli insediamenti sotto osservazione e la loro composizione anagrafica. L’indagine sulla composizione socio-demografica delle famiglie rom ha dato modo di selezionare un campione di persone che sono state coinvolte in uno studio qualitativo (attraverso la realizzazione di interviste biografiche) volto a sondare una serie di aspetti riguardanti: – i percorsi migratori; – le modalità di organizzazione e di gestione delle risorse economiche; – i rapporti (lavorativi, sociali e culturali) che la famiglia intrattiene con la popolazione non Rom; – il problema della devianza minorile e dell’abbandono scolastico; – l’impatto che hanno avuto gli interventi realizzati dagli attori locali nel campo in cui vivono e in termini di inclusione sociale e territoriale (semplificare). 12 L’individuazione delle aree oggetto di studio ha riguardato principalmente la presenza in esse di un campo d’insediamento. In particolare, gli studi di caso sono stati realizzati in due campi autorizzati – Giffoni-Sei Casali (Salerno) e Lecce (Panareo) – e in altrettanti non autorizzati – Catania (quartiere di Zia Lisa) e Cosenza (insediamento sugli argini del fiume Crati).
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In una logica di ricerca partecipativa, occorre che l’attività di indagine sul campo metta in moto un cambiamento tanto a livello di definizione della situazione e rappresentazione del problema rom quanto rispetto alle logiche dell’azione pubblica e alle linee di policy adottate. Come si è avuto modo di constatare, l’intero progetto si basa sul coinvolgimento attivo non solo delle comunità locali (siano esse RSC o cittadini residenti), ma anche dei rappresentanti del governo locale. Gli attori istituzionali sono stati dunque i protagonisti dell’ultima fase dell’indagine, nella quale si è cercato di elaborare i risultati emersi dagli studi di caso in proposte concrete. In questo senso, il processo di ricerca va inteso come un tentativo di soluzione partecipata dei problemi. In sintesi, l’obiettivo di questa fase è stato la creazione di un accordo fra i partecipanti circa il modo di operare e le soluzioni da prospettare per dar vita ad un reale percorso di inclusione negoziata dei Rom nel processo di decision making locale. Per questo scopo, in ogni area d’insediamento è stata realizzata una consensus conference, all’interno della quale sono stati invitati rappresentanti delle istituzioni locali, della cittadinanza, delle comunità rom e i ricercatori che hanno svolto lo studio sul campo.
2.4 Per concludere In conclusione, le due indagini si muovono su una logica di analisi di tipo circolare, in cui l’individuazione dei modelli d’inclusione sociale, attraverso la mappatura delle risorse locali, ha consentito di tratteggiare un primo quadro conoscitivo del fenomeno oggetto di studio, indispensabile per la realizzazione dell’analisi territoriale; la quale a sua volta introduce nuovi spunti conoscitivi per la lettura e la valutazione, in termini di efficacia, degli interventi realizzati sul territorio di studio. Da questo punto di vista, le due indagini hanno rappresentato ambiti in cui stimolare il confronto e la partecipazione fra i diversi attori locali. Peraltro, tale intendimento si è tradotto in precise scelte di metodo, definendo strumenti capaci di favorire il confronto fra tutte le parti in causa (ricercatori, politici, personale dell’amministrazione pubblica, rappresentanti delle comunità RSC, etc.). In tale direzione va letta la scelta dell’équipe di ricerca di sviluppare una struttura d’indagine in cui fossero presenti momenti di veri58
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fica dei risultati ottenuti, attraverso la partecipazione attiva di tutte le parti interessate dal progetto di verifica: la delimitazione del contesto d’analisi, la scelta degli studi di caso, l’organizzazione degli stessi e, infine, l’individuazione di buone pratiche e linee guida. La realizzazione di ognuna di queste azioni è stata caratterizzata da un continuo confronto fra le diverse parti in causa, con l’obiettivo di mettere a fuoco il più possibile i contorni del fenomeno oggetto di studio. La scelta di adottare una metodologia propria degli studi di caso ha evidenziato ancor più la volontà del gruppo di ricerca, e della committenza, di porre al centro dell’analisi la trama delle relazioni esistenti in un dato territorio. Da qui, lo sviluppo di un piano d’analisi che tenesse in debita considerazione le diverse prospettive attraverso le quali viene declinato il rapporto tra comunità RSC e il territorio circostante. In termini operativi, l’analisi del punto di vista dei cittadini, quello degli amministratori/operatori e quello delle stesse comunità RSC ha comportato la definizione di un disegno di ricerca versatile, abbinando tecniche di analisi più propriamente qualitative a tecniche di tipo quantitativo, che ha rappresentato un tentativo di definire modelli di ricerca-intervento per la pianificazione, realizzazione e valutazione delle politiche locali d’inclusione sociale.
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Parte seconda I Rom nel meridione
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Capitolo 3
Il lento inserimento dei Rom in Campania
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Alessandro Serini
3.1 Introduzione La storia dei Rom in Campania assomma gli oltre seimila Rom di antico stanziamento, italiani, agli oltre quattromila Rom giunti negli ultimi anni, in prevalenza dai Paesi della ex-Jugoslavia e dalla Romania. Se per i Rom di antico stanziamento si può parlare oramai di una integrazione in atto – sebbene faticosa e dentro i ceti bassi della popolazione – per i Rom stranieri la situazione appare in taluni casi drammatica. I Rom ex-jugoslavi provengono, infatti, dalle zone di guerra, e dalla guerra sono scappati in condizioni precarie e talvolta senza passaporto. Solamente nel napoletano attualmente vi sono circa duemila rom jugoslavi, una parte dei quali residenti nei cosiddetti villaggi di accoglienza della città. Lo stesso può dirsi anche per i Rom provenienti dalla Romania. Per essi non si può parlare di una fuga dalla guerra, ma da una condizione di vita economica e sociale assai precaria. L’emigrazione dal loro Paese ha quindi assunto il doppio significato di fuga da condizioni di povertà e di speranza di costruire altrove una vita migliore. Per guerra o povertà, i Rom dei Paesi balcanici hanno cercato di stanziarsi dove potevano intravedere maggiori occasioni di riscatto e di reddito. Non stupisce dunque come in Campania si siano insediati soprattutto nel capoluogo di regione – centro amministrativo ed economico, dove sono stati censiti circa duemila Rom rumeni – e nelle aree circostanti i capoluoghi di provincia, come si può notare nella cartina 3 (a p. 219)1. Si ringrazia l’Opera Nomadi della Campania per le preziose informazioni fornite. I dati dell’Opera Nomadi sono stati successivamente aggiornati con le in1
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La difficile condizione di arrivo ha costituito per molti Rom una forte limitazione delle opportunità di emancipazione, che si è tradotta in una sistemazione in Campania all’insegna della marginalità sociale, della malnutrizione e della cagionevolezza di salute. Soprattutto negli anni Novanta, migrare in Italia significava sistemarsi in accampamenti abusivi, senza acqua, né luce, né riscaldamento né fognature. Per esemplificare, a Napoli, solamente nella zona di Scampia e Secondigliano trovarono rifugio oltre 700 Rom, tra adulti e bambini, in case fatte di materiale di risulta e tettoie di lamiera, situazione che rimase pressoché stabile fino al giorno dell’incendio del giugno 1999. In quel giorno, Napoli si accorse che esisteva una questione Rom2. Furono incendi dolosi, e terrorizzarono a tal punto le famiglie dell’accampamento che la notte successiva, in attesa di una sistemazione alternativa, i Rom decisero di stabilire dei turni di guardia e di dormire fuori le baracche, nel caso ci fosse stato un altro tentativo d’incendio. Accanto a scene di solidarietà di alcuni gruppi di napoletani, vi furono altri episodi di intolleranza verso i Rom3. Ad esasperare i toni probabilmente contribuiva la vicinanza fisica della popolazione napoletana ai Rom; vicinanza a cui in quel momento nessuno era pronto. Tra l’altro, la vita a Scampia era comunque difficile per gli stessi napoletani, a causa delle condizioni di degrado in cui versava il quartiere e della forte presenza della camorra: il suo dominio mortale avrebbe raggiunto il culmine negli anni successivi, come testimoniato dalla faida di Scampia, in cui morirono assassinate ben 70 persone in poco più di un anno. Droga, furti, disoccupazione, violenza, omicidi erano condizioni ambientali del tessuto napoletano in cui i Rom, loro malgrado, si trovarono a vivere, aggiungendo miseria a miseria. formazioni raccolte presso altre organizzazioni non profit, resoconti di cronaca ed enti pubblici preposti. Vedi il capitolo 2. 2 L’incendio fu causato dalla rabbia per l’investimento di un ragazzo napoletano da parte, si presume, di un Rom che guidava ubriaco. La sproporzione tra torto subito e ritorsione testimonia il clima pesante che si era creato tra le due popolazioni residenti a Scampia. 3 Alcuni motorini sciamavano intorno al campo intonando cori xenofobi, mentre un lenzuolo infuocato veniva gettato giù dal cavalcavia della metropolitana collinare che sovrastava il campo. La descrizione dell’incendio del campo e dei fatti successivi di via Zuccarini è tratto da N. Sigona, Figli del Ghetto, NonLuoghi Libere edizioni, Civezzano, 2002. Scaricabile da web all’indirizzo www.osservazione. org/documenti/figlidelghetto_sigona.pdf.
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Sulla falsariga di quanto accaduto, il 29 giugno del 2003 rigurgiti di antinomadismo esplosero nuovamente di fronte alla stazione di Napoli, dove oltre 200 Rom rumeni vivevano ammassati e in cattive condizioni da tempo. Nella notte, venne ordinato lo sgombero e organizzato dal Comune, dalla Prefettura e dalle associazioni di riferimento iniziò per loro un esodo della durata di diverse ore nei dintorni della città. Rifiutata la loro presenza da parte della popolazione in un allestimento momentaneo da approntare immediatamente fuori Napoli, si schiusero davanti a loro due possibilità: tornare a Napoli e prendere dimora presso una ex-scuola, a Soccavo, che venne resa repentinamente agibile; oppure affrontare il rischio di una vita altrove e iniziare un lento girovagare per l’intera regione. Una parte dei rumeni preferì rimanere a Napoli, dove intravedeva comunque la possibilità di cogliere maggiori occasioni di riscatto rispetto alla provincia – occasioni che, col senno di poi, non ci sarebbero state (par. 3.2); un’altra invece affrontò il viaggio, e una segnalazione li portò a stabilirsi a Prepezzano, vicino Giffoni, in provincia di Salerno. La mediazione di un’associazione di assistenza li avrebbe ben presto condotti a trovare una soluzione abitativa buona, dentro un casale, e ad imparare nuovi mestieri legati alla raccolta agricola di olive, noci, mandorle ed altre coltivazioni tipiche del luogo. Una vita fatta di lavoro, in gran parte con i figli a scuola, nel desiderio talvolta dichiarato di tornare in patria per sistemarsi (par. 3.3). Due destini collettivi diversi, un unico fattore scatenante, dove l’alea della sorte ha assunto un ruolo decisivo. Uscire dalla casualità del riscatto umano per assumere un atteggiamento consapevole di promozione sociale ed economica dei Rom è in fondo la ragione per cui gli interlocutori istituzionali iniziano ad avviare percorsi di riflessione come questi e percorsi di intervento come quelli che leggeremo nelle pagine seguenti.
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3.2 All’ombra del Vesuvio. Il rapporto di Napoli con i Rom4 Come per la Campania, anche la provincia di Napoli vede la presenza di Rom italiani e di Rom stranieri. I Rom italiani sono di antico stanziamento e vivono nella quasi totalità in abitazioni proprie o in affitto, fondamentalmente nella provincia. Non è raro trovare Rom che di cognome fanno Bevilacqua, Greco, Spada, nell’entroterra napoletano5. I Rom stranieri sono in gran parte jugoslavi e rumeni, distribuiti tra Napoli e provincia in maniera omogenea. La loro presenza è attestabile a partire dagli anni Settanta, ed hanno iniziato ad intensificare la loro presenza semi-nomade o stabile a partire dalla ridefinizione della geografia dell’Europa dell’Est, alla fine degli anni Ottanta. In linea di massima, i Rom che riescono ad avere condizioni di vita relativamente migliori sono quelli ex-jugoslavi, il cui ingresso in Italia è meno recente e alcuni di loro sono riusciti a sistemarsi nei campi attrezzati. Condizioni più difficili attendono i Rom di ingresso recente, in gran parte provenienti dalla Romania, che vivono nelle baraccopoli, senza servizi elettrici, igienici, idrici, fognari. Per quanto riguarda la provincia di Napoli, a Caivano è presente un villaggio comunale attrezzato, costituito da container dotati di ser4 Si ringrazia il dr. Pasquale Orlando, presidente delle ACLI di Napoli, per l’intervista concessa e per il prezioso supporto fornito nella logistica della ricerca e per i contatti istituzionali e associativi attivati. Si ringrazia altresì l’Opera Nomadi di Napoli, nella persona del consigliere nazionale dr. Vincenzo Esposito, per il lavoro di supporto e di informazione per i campi di Scampia e Secondigliano; il dr. Salvatore Esposito, della Comunità di Sant’Egidio, per le informazioni e i dati forniti per i campi di Ponticelli, di via della Maddalena e di Barra; il vice-prefetto d.ssa Gabriella D’Orso, dirigente dell’Area diritti civili, cittadinanza e immigrazione della Prefettura di Napoli, per le informazioni fornite in relazione al lavoro della Prefettura; la d.ssa Annamaria Di Stefano, responsabile dell’Ufficio Rom e patti di cittadinanza del Comune di Napoli, per il resoconto e la documentazione relativa alle politiche per l’immigrazione del Comune e al patto di cittadinanza; le d.sse Rossella Buondonno e Patrizia Castagna, dirigenti del Sasci di Napoli, per le statistiche sanitarie e la storia del Sasci; la d.ssa Annamaria Mazzella, dirigente sanitario del distretto sanitario 28, Scampia, per la testimonianza del lavoro sanitario svolto per i Rom; il dr. Giancamillo Trani, responsabile immigrazione Caritas Napoli, per le notizie relative al lavoro svolto dall’associazionismo di riferimento; le mediatrici culturali, Joan, Tania, e Julia, per le preziose informazioni fornite in relazione alla vita quotidiana dei Rom a Napoli e ai loro rapporti con le istituzioni. 5 Sono oltre cento le famiglie sparse tra i comuni di Afragola, Caivano, Casoria, Marano, Nola, Pomigliano d’Arco, Torre Annunziata e Torre del Greco. La presenza maggiore si incontra nei comuni di Nola (25 famiglie), Marano (20 famiglie), Torre Annunziata (20 famiglie) e Torre del Greco (20 famiglie).
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vizi con una popolazione di circa 120 rom korakhanè di provenienza montenegrina. Altri insediamenti rilevanti per dimensioni nel territorio della provincia di Napoli sono quelli di Giugliano di Napoli (circa 600 Rom khorakhanè di provenienza bosniaca), Casoria (200 Rom dasikhanè di provenienza serba), di Afragola (200 Rom rumeni) e di Acerra, località Spiniello (150 Rom dasikhanè di provenienza serba). In questi ultimi campi, privi di servizi e sommersi dai rifiuti, le condizioni di vita sono estremamente precarie. Sul fronte urbano, punto di partenza per osservare la presenza dei Rom a Napoli sono i quartieri di Scampia e di Secondigliano. In essi si trova il cosiddetto villaggio comunale attrezzato di via Circumvallazione Esterna. È l’unico campo attrezzato e autorizzato di Napoli. Fu consegnato nel giugno del 2000 con delibera del Comune, che istituì l’Ufficio Rom comunale e introdusse il patto di cittadinanza. Le famiglie abitano in container attrezzati per i normali servizi igienici, con bagni in muratura, e sono presenti anche acqua e luce. Esso ospita circa 450 persone di provenienza serba. Sono Rom dasikhanè, ovvero serbi di religione cristiano-ortodossa. Il 30% circa dei residenti è composto da bambini, tutti iscritti alla scuola dell’obbligo (circa 140), ma di cui solo il 70% frequenta regolarmente le lezioni. I Rom jugoslavi sono oltre dieci anni che vivono a Napoli, e ciò nonostante il numero di permessi di soggiorno è relativamente basso. Sempre a Scampia, vi è un secondo campo, non autorizzato. Esso ospita circa 700 persone, suddivise in cinque insediamenti a ridosso dell’uscita dell’Asse Mediano. Sono nella quasi totalità Rom dasikhanè, a parte una minoranza di khorakhanè (musulmani) di provenienza macedone, Manjup. Essendo un campo spontaneo, le persone che vi abitano vivono in condizioni molto precarie, in roulotte o in altre abitazioni arrangiate. Non vi sono servizi igienici attrezzati, né energia elettrica. Il livello di regolarizzazione è molto basso, anche se qualcosa si è riuscito a fare in termini di promozione scolastica dei bambini. Oltre ai Rom jugoslavi, vi è anche la presenza di Rom rumeni. Sono giunti a Napoli successivamente agli jugoslavi, e si sono concentrati nella zona di via Ponticelli. La sistemazione precaria, le condizioni degradanti, un rapporto conflittuale con la popolazione limitrofa residente, ha provocato il loro sgombero, a seguito di un incendio avvenuto nel 2008. Lo sgombero ha disperso i Rom rumeni in diverse zone di Napoli. Quattrocentocinquanta di essi vivono nel campo spontaneo di Poggioreale, 250 nella zona del cimitero e 200 in una ex-fabbrica. 67
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Come insediamenti spontanei, non vi sono servizi essenziali e le famiglie vivono in piccole baracche. La frequenza scolastica è bassa e lo status di cittadini europei li agevola relativamente, in quanto pochi sono in regola con l’iscrizione anagrafica. Sempre rumeni sono i circa 200 Rom che vivono nel campo di Barra – S. Maria del Pozzo. Si trovano nelle stesse condizioni dei precedenti campi rumeni, ma il tasso di frequenza scolastica è superiore, grazie agli interventi dell’associazionismo. Infine, nella ex-scuola “Deledda” a Soccavo, trasformata in centro d’accoglienza, vi sono 130 Rom rumeni, giunti nel 2003. I trenta minori del centro frequentano la scuola; gli ospiti usufruiscono dei servizi essenziali, delle utenze domestiche e dei servizi sociali e la gestione è affidata ad un’associazione che si occupa di protezione civile. Le condizioni di vita sono migliori rispetto agli altri insediamenti, sebbene la disoccupazione adulta sia particolarmente diffusa, e questo di Soccavo rimane l’unico centro di accoglienza per i Rom rumeni a Napoli e provincia – sebbene non viga per questa realtà il patto di cittadinanza6. 6
Alla luce del rapido incremento della presenza rom, e delle condizioni in cui versavano, nel 2002 è nato l’ufficio Rom e patti di cittadinanza, con delibera del Comune. La nascita di un ufficio dedicato prendeva atto della complessità crescente nel gestire flussi consistenti di popolazioni rom provenienti dall’estero. Con questa delibera, il Comune di Napoli ha inteso sposare la filosofia dell’accoglienza e della corresponsabilità. La parola chiave è “patto di cittadinanza”. La strategia del patto di cittadinanza si basa sulla relazione con i rappresentanti delle comunità, in vista della costruzione di un reciproco impegno tra le parti. Da parte del Comune, vi è la presa in carico dell’emergenza sanitaria, educativa e giuridica che la questione Rom comporta; da parte delle comunità rom, c’è la volontà di avviare un percorso di fuoriuscita dalle condizioni di marginalità e di isolamento – talvolta di illegalità – in cui versano. Il patto nasce dalla convinzione che i Rom non sono criminali da recludere, ma persone che chiedono di essere accolte e integrate pienamente nella società italiana. In definitiva, denota un approccio maturo nelle relazioni con i Rom. Rappresenta un intervento di alto profilo, dai numerosi risvolti: istituzionale, perché rivela un riconoscimento e una legittimazione reciproca, sebbene in un quadro legislativo insufficiente; sociale, perché pone come meta l’inserimento dei Rom nella società italiana; umano, perché si cerca di non abbandonare a se stesse le popolazioni rom che giungono in Italia, talvolta in condizioni sanitarie gravi, ma di farsi carico quantomeno delle principali emergenze; giuridico, perché i reciproci impegni che promanano dal patto obbligano le famiglie Rom a intraprendere percorsi di inserimento nell’ambito delle opportunità che vengono loro offerte. Insomma, è una filosofia ambiziosa, e trova la sua realizzazione nei progetti avviati in questi anni, i cui esiti favorevoli possono rappresentare una forte spinta a proseguire sulla strada dei patti di cittadinanza con le comunità rom.
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Per comprendere le conseguenze delle cattive condizioni abitative e igieniche in cui versano, basta ascoltare le parole di coloro che affrontano la questione dei Rom rumeni da alcuni anni, i volontari di un’associazione caritativa: In tanti cominciavano a venire chiedendo delle informazioni di carattere medico, ma soprattutto portando tutti le scatoline delle medicine: “Mi servono queste medicine”; il medico [volontario di Sant’Egidio che aveva iniziato a incontrare i Rom rumeni nei campi spontanei, N.d.R.] chiedeva: “Chi te l’ha data questa medicina?”. E molti Rom non sapevano neanche ben ricordare da quanto tempo prendevano quella medicina, o perché avevano iniziato a prenderla; però dicevano “Mi serve, mi serve”. Alcune erano anche psicofarmaci, per cui dicevano “Ah, ma io ho molto male alla testa”; un grande problema erano i dolori di testa, dolori di denti; dolori muscolari, mal di schiena, diciamo una sofferenza tipica perché chi vive in baracca, ovviamente, incontra questo primo problema. Però questa era più una sofferenza, che una malattia specifica. Ecco, diciamo che ci ha colpito, una volta iniziato l’ambulatorio, vedere, conoscere, l’invecchiamento tipico. Persone di 39, 40 anni che ne dimostrano 60, 65. […] Tendenzialmente, ci stupivano all’inizio le condizioni in cui vivevano. Chiedevamo: “Ma come fate a vivere”, e molti di loro ci dicevano che vivevano meglio qui, in quelle condizioni, che in Romania. Probabilmente c’è una povertà leggermente diversa: qui loro hanno una “casa”; però non hanno ugualmente l’acqua, non hanno elettricità, ovviamente non hanno riscaldamento e soprattutto lamentano di aver fame, di non riuscire a procurarsi da mangiare a sufficienza. Poi c’è anche un problema legato a malattie specifiche della povertà. Il problema della tubercolosi nei Paesi dell’Est europeo è una questione ancora da affrontare, e che loro un po’ si portano appresso. Molti di loro raccontano di operazioni di asportazione di alcune parti di polmone proprio per questi motivi. I bambini anche, spesso, la sensazione è che patiscono questa difficoltà, soprattutto nella crescita. Notiamo appunto che i bambini di otto, dieci anni tendono ad essere molto più piccoli, apparentemente dimostrano qualche anno di meno; e quindi, anche una difficoltà nella crescita, nello sviluppo, che è legato ovviamente alle condizioni di vita nel loro Paese, che poi permangono quando vengono qui e rimangono in un campo o vivono in una baracca. [Esposito, Sant’Egidio]. 69
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In queste parole c’è la sintesi di che cosa significa essere Rom nelle baracche. Molti di essi vengono da situazioni di povertà e di malattia già dal Paese d’origine, persone operate in precedenza per cattive condizioni di salute, che affrontano il viaggio in Italia nella speranza di avere condizioni di vita migliori. In Italia, rischiano di non incontrare quelle condizioni che speravano, e spesso trovano rifugio in baracche di fortuna, in campi spontanei. La vita nelle baracche è dura, per il freddo, la fame, la mancanza di lavoro, l’ambiente sporco, senza luce, il fango quando piove, gli animali. Aumenta di gran lunga la probabilità di contrarre malattie anche epidemiche e, unitamente alla malnutrizione, soffrire di uno stato di debolezza generale. Non a caso l’intervistato intravede nel volto di questi Rom una sofferenza, più che una malattia specifica. I giovani manifestano questa sofferenza, dovuta alla malnutrizione, con una crescita inferiore rispetto ai loro pari età italiani; e negli adulti, invece, con una forma di invecchiamento precoce. A complicare il quadro generale, contribuisce poi una scarsa educazione sanitaria, giacché non riescono a gestire le cure farmacologiche continuative con cognizione di causa, dimostrando di non ricordare gli schemi di somministrazione di farmaci assegnati dai medici che li hanno precedentemente curati. È chiaro dunque che la questione Rom a Napoli ha assunto la forma di molteplici situazioni gravi, delle quali le pessime condizioni abitative e sanitarie sono state certamente le più urgenti da affrontare. Per tale ragione, agli inizi degli anni Duemila, furono elaborati, dal Comune e da altri enti chiamati in causa, due strumenti necessari a porre mano alle questioni emerse: il patto di cittadinanza e il protocollo sanitario. 3.2.1 L’accesso ai servizi sanitari per i Rom Accanto al patto di cittadinanza, realizzato con l’impegno dei Rom dei villaggi d’accoglienza autorizzati, l’altra questione urgente da affrontare ha riguardato la tutela sanitaria. Con toni un po’ coloriti, una funzionaria intervistata affermava che in questi contesti sembra di operare in missione in un Paese africano. Del resto, alla fine degli anni Novanta il quadro giuridico rendeva non facile la tutela dei diritti di coloro che non erano pienamente in regola con la normativa. È vero che nel 1995 la legge Martelli aveva reso possibile le cure urgenti per gli irregolari e nel 1998 la legge 70
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Turco-Napolitano aveva incluso nelle prestazioni sanitarie per gli irregolari anche le cure continuative ed essenziali; ma ancora nel 2004, gli uffici anagrafici comunali napoletani congelavano la posizione anagrafica dei Rom in attesa di permesso di soggiorno o di un suo rinnovo, con conseguente impossibilità di richiedere atti e documenti; non solo: alcune aziende sanitarie ponevano limiti temporali alla validità dell’iscrizione al sistema sanitario nazionale (SSN), condizionata alla scadenza del permesso di soggiorno. Un inconveniente simile si poneva anche quando il minore Rom nato in Italia non compariva sul permesso di soggiorno dei genitori, precludendogli la possibilità di usufruire delle prestazioni sanitarie non essenziali, non essendo iscrivibile al SSN. Per tale ragione, la Prefettura di Napoli, la Questura, l’Assessorato regionale alla Sanità, le ASL del napoletano, i sindacati e le associazioni stipularono un protocollo temporaneo d’intesa che assicurava i diritti fondamentali dei soggiornanti in attesa di permesso di soggiorno. Veniva concessa la proroga dell’iscrizione al SSN e del rilascio delle certificazioni anagrafiche per coloro che erano in attesa di rinnovo del permesso di soggiorno, e soprattutto l’iscrizione al SSN dei nati da almeno un genitore straniero regolarmente soggiornante, purché inseriti nel passaporto di uno dei genitori. Iniziava un lento emergere dei Rom da condizioni giuridiche che in qualche modo penalizzavano la loro esistenza, già compromessa dalle condizioni ambientali in cui vivevano. Assieme al protocollo d’intesa, il Comune di Napoli decise di adottare una strategia particolare rispetto ad altre città, alla luce delle specifiche necessità che andavano emergendo in quegli anni e del contesto normativo che si andava delineando: C’era una concentrazione di immigrati nella città di Napoli e i distretti sanitari erano tanti nella ASL di Napoli centro – avevamo dieci distretti all’epoca; e c’era una circolare regionale che impostava l’attività sanitaria nei confronti di questi immigrati, anche irregolari, a partire dalla legge Turco-Napolitano. Quindi, bisognava organizzare, dare attuazione sul territorio alla normativa, sia nazionale che regionale, e c’era bisogno di un coordinamento, perché bisognava istituire, realizzare gli ambulatori dedicati agli stranieri temporaneamente presenti (stp) – tra l’altro i Rom sono stp. [Buondonno e Castagna, direzione e ufficio statistico Sasci Napoli]. 71
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In sostanza, le esigenze del territorio e le indicazioni legislative lasciavano intravedere la necessità di erogare le prestazioni urgenti, essenziali e continuative all’interno di un contesto diverso, quello degli STP, il cui incremento poneva non pochi problemi nei dieci distretti sanitari interessati. Si ravvisò quindi la necessità di creare un coordinamento, ma non solo. La scelta strategica della ASL Na1, rispetto alla questione della parità di accesso, è stata a monte quella di dire: “Io ti do il presidio pubblico in prossimità, perché cerco di fare in modo che, nonostante tu sia senza cittadinanza, tu abbia un punto di riferimento nel distretto, perché ci sia una presa in carico e si crei un rapporto fiduciario tra il paziente e l’operatore sanitario. [Buondonno e Castagna, direzione e ufficio statistico Sasci Napoli].
Quindi occorreva coordinare un’attività di assistenza sanitaria per certi versi inedita, e realizzare ambulatori dedicati direttamente nei distretti sanitari di Napoli, in modo tale che gli stp e gli stranieri senza fissa dimora avessero comunque una facilità d’accesso alla sanità pubblica. Il coordinamento dei distretti sanitari in materia di medicina per l’immigrazione venne chiamato Sasci – Servizio Attività Socio-sanitarie Cittadini Immigrati e senza fissa dimora – e l’istituzione degli ambulatori dedicati non fu dettata solamente da ragioni di prossimità geografica. Ci sono stati gli ambulatori dedicati perché c’era il senso della sostituzione del medico di medicina generale, a cui loro non avevano diritto. Quindi, dire ambulatorio dedicato vuole dire ambulatorio in cui possono essere fatte delle prescrizioni sul ricettario o comunque delle prestazioni assimilabili a quelle del medico di famiglia. [Buondonno e Castagna, direzione e ufficio statistico Sasci Napoli].
In termini normativi, si erano venute a creare le condizioni per un perimetro di legalità, all’interno del quale avviare un normale rapporto sanitario tra medico e paziente STP, con le risorse mediche e sanitarie necessarie a fronteggiare le esigenze dell’utente. Inizialmente, si partì con le risorse a disposizione, dopodiché furono le esigenze concrete a indicare la strada da percorrere:
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C’è stata una volontà politico-istituzionale, quindi un mandato forte, e naturalmente poi si è partiti con le risorse disponibili, e si sono trovate, perché su questa cosa ci ha lavorato il distretto 48 da prima; poi piano piano si è allargato agli altri distretti […] e poi naturalmente occorreva un servizio centrale di riferimento, al quale si chiama quando c’è un problema, che ha fatto i corsi di formazione per gli operatori sulla mediazione linguistica e culturale… Nel momento in cui nasce un servizio che fa da supporto, da promotore […] il processo ha garanzia di mantenersi. Queste e queste sono le risorse; dopodiché quello che succede dipende dalla capacità di supportare quello che poi diventa un processo. Il fatto che ci sia questo servizio [il coordinamento, N.d.R.] ha fatto sì che ci fosse una rete di offerta, quantomeno funzionale e organizzativa. Però, la questione dell’accoglienza è venuta man mano: ci sono i dieci ambulatori, ci sono le esigenze, facciamo i corsi di formazione agli operatori sulla mediazione linguistica, facciamo il resto… [Buondonno e Castagna, direzione e ufficio statistico Sasci Napoli].
Punto di partenza del lavoro fu quindi la valorizzazione delle risorse esistenti. Il distretto 48 includeva i campi rom di Scampia, quasi 1.500 persone, molte delle quali in condizioni amministrative parzialmente regolari e quindi in regime di STP. L’unità sanitaria di Scampia già da anni si stava facendo carico di fronteggiare l’emergenza sanitaria, ed ebbe quindi modo di acquisire una certa competenza in merito. Il Sasci prese dunque spunto dal lavoro fatto nel distretto per allargare l’esperienza agli altri distretti sanitari della città di Napoli, facendosi carico di supportare il processo di costituzione di ambulatori (o quantomeno di servizi) dedicati alla medicina dell’immigrazione. Si costituiva garante del processo, affiancando il lavoro già esistente dei distretti sanitari e valorizzando le figure mediche e sanitarie esistenti, in una forma nuova, orientata agli STP e ai senza fissa dimora. In tal modo, la riforma del quadro giuridico stava configurando la ASL di Napoli sempre meno come erogatrice di servizi e sempre più come una rete di offerta con funzione di organizzazione. Attualmente, il coordinamento dei servizi sanitari è articolato in varie attività e comprende, tra le altre cose, anche il monitoraggio delle prestazioni sanitarie effettuate per gli immigrati (con reportistica annuale pubblicata sul sito del Sasci)7; la formazione specifica 7
I report annuali sono scaricabili dal sito http://www.aslna1.napoli.it/servizio_immigrati.aspx.
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rivolta ad operatori sanitari e sociali su questioni attinenti la medicina dell’immigrazione; il coordinamento del lavoro organizzativo con altre realtà del mondo istituzionale e associativo; il supporto ai distretti su questioni di carattere organizzativo e procedurale. Dei dieci distretti sanitari attuali, quelli interessati dalla presenza di campi rom sono quattro: il 46, il 48, il 52 e il 538. Come accennato, dei Rom jugoslavi si occupa in via pressoché esclusiva il distretto 48; i Rom rumeni sono invece sparsi sui restanti distretti, a seguito dell’incendio del campo abusivo di Ponticelli e della conseguente diaspora in varie zone della città (Poggioreale, Barra, Viale Maddalena, Soccavo). Tra l’altro, i Rom rumeni che dal 1 gennaio 2008 vivono in Italia da più di tre mesi (in forma non autorizzata) non possono più usufruire del codice STP riservato agli extracomunitari, proprio perché sono diventati comunitari; con intervento legislativo nazionale – ratificato dalle Regioni con apposite delibere – si è pertanto provveduto a che i cittadini rumeni, stabilmente presenti in Italia ma sprovvisti di contratto di lavoro, possano accedere alle prestazioni previste dalla legge 286/19989 attraverso il passaggio da straniero con codice stp a comunitario con codice ENI (Europeo Non Iscritto)10. Volendo dare un quadro statistico del lavoro svolto dagli ambulatori della ASL di Napoli 1, lo scorso anno sono stati assistiti 22.700 stranieri circa, di cui 3.708 STP, pari al 16,3% degli stranieri residenti a Napoli11. Inoltre, sono state assistite circa 1.300 persone senza fissa dimora – persone che per ovvi motivi vivono in condizioni di forte problematicità, sia personali che ambientali: poveri, alcolizzati, tossicodipendenti, malati psichici. Le precarie condizioni abitative, peraltro, aggravano ulteriormente il quadro clinico, perché le condizioni 8 Con la riforma dei distretti sanitari, le numerazioni sono cambiate. Il distretto 46 è diventato 26, il 48 è diventato 28, il 52 è divenuto 32 e il 53 è diventato 33. In questo capitolo si manterrà la numerazione vecchia, così come riportata dai Rapporti Sasci per gli anni presi in considerazione. 9 Le prestazioni previste riguardano ginecologia e ostetricia; tutela della salute dei minori; vaccinazioni preventive; interventi di profilassi internazionale; profilassi e cura delle malattie infettive. 10 Pertanto, dal 2008 i rumeni sono usciti dalle tabelle statistiche con le serie storiche relative ai trattamenti sanitari riservati agli STP. Di conseguenza, nelle pagine successive si prenderanno in considerazione i dati del distretto 48, dove vi sono i due campi rom jugoslavi e dove le prestazioni sanitarie per gli STP riguardano, al 75%, i Rom (serbi e macedoni). 11 Per quanto riguarda le informazioni di carattere generale, si hanno a disposizione i dati del 2010; il dettaglio delle prestazioni sanitarie dei singoli distretti, invece, è disponibile fino all’anno 2009.
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ambientali aumentano il rischio di patologie del sistema cardio-respiratorio, oltre al rischio di contrarre infezioni e malattie dermatologiche. Tra STP e senza fissa dimora siamo quindi in presenza di oltre 5.000 persone che sono state curate dalla ASL di Napoli città, ma che tuttavia versano in condizioni di indigenza e di rischio sanitario, ad oggi non risolte pienamente. Una chiave di lettura della difficile transizione verso una prassi sanitaria normalizzata viene fornita direttamente dal Sasci, quando si pone l’attenzione sul distretto 48. In termini di regolarizzazione, su 1273 immigrati che hanno chiesto assistenza sanitaria nel 2008, il 48% è iscritto al SSN e il 52% risulta ancora Straniero Temporaneamente Presente. Dei 662 STP che sono stati assistiti, l’80% sono Rom jugoslavi abitanti nei campi. È il dato più alto di tutti i distretti della città di Napoli: si conferma come la strada per la loro regolarizzazione sia ancora lunga, a differenza di altre etnie. C’è da dire che il rilascio dei codici non ha avuto un andamento costante negli anni, ma risentiva delle dinamiche migratorie dei Paesi dell’Est europeo, come si può desumere indirettamente dalla seguente figura: Figura 1. Codici STP rilasciati dal distretto sanitario 48 di Napoli, 2001-2008. 250
193
200
Totale STP rilasciati =1050
169 149
150
126
100
138
91
85
99
50
0
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
Anno
Fonte: Elaborazione IREF ACLI su dati dei rapporti Sasci, Napoli, 2001-2008.
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L’andamento a “gobba” del rilascio dei codici STP è frutto di dinamiche esterne e interne allo stesso tempo. Le dinamiche esterne sono legate per l’appunto ai flussi migratori provenienti dai Paesi dell’Europa orientale, le cui vicende sono note e più volte ribadite nel rapporto di ricerca. Il flusso è andato decrescendo in coincidenza con l’attenuazione delle crisi economiche dei Paesi limitrofi. Le dinamiche interne riguardano invece la presa di coscienza da parte delle istituzioni locali dell’emergenza rom, e il conseguente sforzo per uscire fuori dal problema. Testimonia tale sforzo il rilascio di oltre mille codici STP nel solo distretto che vede la presenza di un consistente nucleo di Rom jugoslavi. Negli ultimi anni, la nostra organizzazione interna ha consentito un incremento dell’utenza, un inquadramento clinico e un follow up. La chiave di tale incremento è da individuare nella presenza di personale disponibile (medici e personale parasanitario) che con grande capacità di adattamento ha garantito e generato un clima di fiducia e di attenzione alla persona attraverso l’ascolto, l’accoglienza, la disponibilità e la competenza. [Buondonno e Castagna, direzione e ufficio statistico Sasci Napoli].
In sostanza, molto resta da fare, ma molto è stato fatto, grazie a un quadro legislativo che ha reso possibili alcuni investimenti in strutture dedicate e in personale disponibile e qualificato. I frutti di questo lavoro si possono commentare analizzando la tabella successiva, che riporta le prestazioni effettuate dal distretto 48 a favore dei Rom con STP da parte della ASL di riferimento12. In relazione al profilo anagrafico degli utenti, il 65% delle prestazioni è stato richiesto da donne, un dato in accordo con quello delle straniere residenti negli altri distretti. Per il resto, è interessante notare come i dati del distretto 48 talvolta sono in linea con quelli della città, talvolta se ne discostano. È il caso dell’accesso ai servizi sanitari dei minori (13%), del dato sui contatti successivi al primo, ovvero della continuità del rapporto (nel 96% dei casi i Rom ritornano a servirsi della sanità); delle prestazioni odontoiatriche (39%); della proposta di ricovero (per casi gravi, 25%) e della prescrizione farmaceutica (31% sul totale dei distretti). Ovviamente, parliamo solamente di pazienti in regime di STP. Nella tabella seguente sono riportati solamente i valori percentuali per permettere una comparazione tra distretto e città. 12
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Tabella 1. Attività ambulatoriale per gli immigrati, prestazioni a STP, comparazione Distretto 48 e città di Napoli, anno 2009, %. stp distretto 48 (%)
stp di Napoli (%)
Maschi
36
35
Femmine
64
65
Minorenni
13
7
Maggiorenni
87
93
Primo contatto n.
4
12
Contatti successivi n.
96
88
Esami laboratorio n.
58
52
Esami strumentali n.
42
48
odontoiatria
39
15
cardiologia
10
9
Prestazioni ambulatoriali
dermatologia
2
9
ortopedia
12
12
altro
37
56
Tot visite specialistiche
100
100
Proposta ricovero (dstr48/tot)
25
100
Prescr. farmaceutica n. (dstr48/tot)
31
100
Altro n. (dstr48/tot)
2
100
Nessun prosieguo (dstr48/tot)
0
100
Nuove cartelle cliniche (dstr48/tot)
43
100
Fonte: Elaborazione Iref Acli su dati Sasci Napoli, 2009.
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Per quanto riguarda i minori, il distretto 48 effettua un numero di visite pediatriche doppio (13%) rispetto alla media degli altri distretti napoletani (7%). Per comprendere questa differenza, probabilmente occorre tener conto del modello insediativo dei Rom rispetto ad altre etnie straniere. Laddove altre etnie sono composte da primo-migranti in gran parte maschi e adulti (o donne adulte, come nel caso delle badanti dell’Est Europa), nel caso dei Rom la migrazione è in gran parte familiare. Accanto all’uomo, si stabiliscono in Italia anche la donna e i figli. Per tale ragione, le condizioni igieniche dei bambini e dei ragazzi rom sono state oggetto di attenzione da parte dell’ASL di Napoli, al punto tale che è stato aperto un ambulatorio pediatrico dedicato nel 2001. Sono oramai dieci anni che esso opera sul fronte delle vaccinazioni e della normale cura pediatrica, e nel 2009 sono state erogate oltre 400 prestazioni sanitarie. L’altra informazione interessante riguarda il primo contatto e i contatti sanitari successivi al primo. Sempre nello stesso distretto, essi si attestano rispettivamente al 4% e al 96%, contro il 12% e l’88% del dato totale di Napoli. In parole povere, gli immigrati del distretto 48 tornano a farsi curare più spesso che gli immigrati di altri distretti. Questo dato si comprende alla luce del fatto che l’ambulatorio pediatrico dedicato è stato affiancato in questi anni da tre centri vaccinali (a Scampia, a Chiamano e a Piscinola-Marianella) e da due consultori materno-infantili. Molte donne rom hanno compreso che le vaccinazioni per i loro figli non erano un mero adempimento burocratico, ma una necessità vitale per la salute dei bambini. Si è instaurato in tal modo un rapporto di fiducia con il presidio medico pubblico e ciò le ha spinte a rivolgersi alle strutture mediche anche per patologie legate al loro stato di salute. Sono nati, pertanto, i consultori dedicati, che hanno preso in carico le gravidanze e le Ivg (Interruzione volontaria di gravidanza) delle donne rom e in generale la normale profilassi medica per la salute della donna. L’instaurarsi di questi rapporti duraturi riguarda oramai il 96% delle persone che si sono rivolte alle unità sanitarie dedicate. Anche il dato sulle cure dentistiche fornisce un’importante riflessione. Il 39% delle prestazioni specialistiche erogate lo scorso anno sono state di natura odontoiatrica, un dato quasi triplo a quello degli altri distretti sanitari in materia di odontoiatria per immigrati. Le cure dentistiche non sono considerate dalla legge cure di emergenza e per loro natura abbisognano di una certa continuità di intervento, per completare la terapia. Dietro questo tipo di prestazione si rivela, 78
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dunque, una presa in carico della sanità che sembra destinata a permanere nel tempo. La percentuale è certamente influenzata dal crescente sforzo che si sta compiendo per i bambini rom in materia di cura dentistica, ma la presa in carico del sistema sanitario nazionale è testimoniata anche da un’altra informazione, relativa al numero di ricette farmaceutiche rilasciate per le prescrizioni: il 31% delle ricette rilasciate nella città di Napoli proviene dal distretto 48. In sintesi, un profilo del genere evidenzia come oramai si sia creato un rapporto stabile nel tempo, e come le prestazioni sanitarie riescano a fronteggiare sia i casi gravi, per i quali è richiesto il ricovero, sia la normale profilassi ed educazione sanitaria, testimoniata dall’incidenza delle prescrizioni farmaceutiche e dalla superiore incidenza di cure odontoiatriche rispetto al resto della città in materia di medicina dell’immigrazione. In definitiva, è la conferma di come un presidio sanitario dedicato vicino agli insediamenti Rom, come nel caso di Scampia, sia la migliore garanzia di accesso ai servizi sanitari per i Rom, purché ovviamente tale lavoro venga preceduto e accompagnato da un rapporto fiduciario con la popolazione Rom; rapporto che si può creare anche grazie all’investimento dell’ente pubblico e al ruolo delle associazioni di volontariato. In realtà, tale rapporto è stato creato nel tempo, e costituisce il punto di arrivo di un lavoro pesante, durato anni, spesso irto di difficoltà, come testimoniato dalle persone che si occupano della questione. Incomprensioni da parte dei medici, incomprensioni da parte dei Rom, disinformazione da parte dei distretti, scarsa cura sanitaria da parte dei pazienti; insomma, un lento lavoro di avvicinamento reciproco, dove le persone sono state le vere protagoniste del cambiamento. Significativa, in tal senso, la testimonianza di una dirigente sanitaria del distretto di Scampia: All’inizio fu uno shock; adesso, sono diventata una di loro […] questi qua si aprono, dicono tutto, anche se è una comunità molto chiusa; però nel momento in cui si fidano di una persona, si aprono, arrivi non a pensare come loro, però a condividere delle idee, delle loro scelte. Prima ero molto prevenuta, adesso no, assolutamente. [Mazzella, dirigente sanitario distretto 28, Napoli].
Fu un trauma il trasferimento della dirigente da un distretto “normale” al distretto di Scampia, alcuni anni or sono, per giunta, nell’unità sanitaria dedicata ai Rom. Pregiudizi, paure, la barriera linguistica, 79
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la scarsa cura igienica dei pazienti, le difficili condizioni ambientali, tutto concorreva a negare questo rapporto tra medico e paziente. L’incontro reale tra persone, tra mondi così diversi, ha permesso un lento processo di abbattimento dei pregiudizi e degli stereotipi e ha rivelato il volto delle persone dietro ai bisogni. È nato così un rapporto, in cui pian piano si è arrivati ad assumere il volto, le idee dell’altro (“arrivi non a pensare come loro, però a condividere delle idee, le loro scelte”). Attraverso il bisogno, si costruisce dunque un rapporto di fiducia, anche se i problemi pratici da affrontare sono molti, da entrambe le parti: Queste difficoltà ci sono, ma si superano perché se ci sta qualcuno fuori gli diciamo di venire dentro e di tradurre e farci capire che cosa si sente, che cosa hai […] sono soprattutto gli anziani che non riescono a comunicare: o vengono accompagnati oppure se sono soli chiamiamo qualcuno. [Mazzella, dirigente sanitario distretto 28, Napoli].
La barriera linguistica è la prima difficoltà che si incontra. Con i pazienti anziani, non ci si capisce nemmeno sulla lingua. Per tale ragione, gli altri Rom, spesso giovani, ricoprono un ruolo determinante nel fare da mediatori tra i pazienti anziani e i medici, sia per quanto riguarda la visita medica sia per quanto riguarda la terapia. Il rapporto medico-paziente, peraltro, è un rapporto complesso, che va oltre la comprensione della lingua, come mostrato chiaramente da queste mediatrici culturali: Il nostro lavoro non è tanto legato alla mediazione linguistica, quanto alla mediazione culturale. Questo perché spesso le persone rom non conoscono le prassi sanitarie, non conoscono le nozioni elementari della profilassi di alcune patologie; per cui c’è tutto un lavoro soprattutto di questo tipo che si fa con loro: si fa sia nel momento in cui loro arrivano qua [alla ASL, N.d.R.] e sono in attesa di essere ricevuti dal medico e ti chiedono già delle cose… noi facciamo questa specie di filtro, in qualche modo, prima di entrare dal medico; molti di loro hanno anche la difficoltà a spiegare che cosa hanno, per cui ci chiedono di accompagnarli all’interno della visita: queste sono richieste che provengono dall’utenza. Qualche volta la richiesta viene anche da parte del medico, ma sempre con il consenso dell’utenza […] Anche se si traduce subito quello che il medico 80
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dice, loro non capiscono le cose: bisogna spiegarle in modo che l’utente lo capisca. A volte il medico segna sul ricettario una medicina e l’utente non capisce perché il medico non gliela dà subito […] c’è tutta una parte sanitaria che va aiutata a gestirla […] loro non sanno neanche che la cura deve essere seguita costantemente: loro pensano che basta prendere una pillola: se gli fa male, fra sei giorni prendono un’altra pillola. Noi interveniamo anche in questo caso e gli spieghiamo che la cura deve essere seguita: tu devi prendere oggi una pillola, domani un’altra pillola e glielo dobbiamo spiegare parola per parola, come ad un bambino. [Julia e Tania, mediatrici culturali, assoc. Il Pioppo, Scampia].
Come ad un bambino: questa è la condizione di partenza del rapporto sanitario. Anche con gli adulti occorre rapportarsi come se fossero dei bambini, perché c’è tutta una parte sanitaria da gestire. La mediazione linguistica è solo un aspetto della gestione: occorre far capire che le cure mediche necessitano di un’attenzione e di una continuità che spesso viene sottovalutata, giacché viene sottovalutato il problema che sta alla base: Perché loro hanno una grossa difficoltà: non conoscono i giorni della settimana, a stento conoscono l’anno; e quindi prenotare una visita a due o tre mesi risulta molto complicato da ricordare. È vero che nei campi ci sono gli addetti del Comune e gli operatori delle associazioni, ci sono le persone fisse… però è logico che… se io gli do una ricetta, e se se la mette in tasca e nella migliore delle ipotesi ci giocano i bambini che la fanno in mille pezzi, oppure la buttano da un’altra parte – e anche con la prenotazione succede così; quindi, diventa anche più difficile gestire la visita […] da parte loro c’è una forte sottovalutazione del problema-salute: ci sono persone con i trigliceridi a “800”, cose mai viste in vent’anni di esperienza in vari ospedali, a causa del loro abuso alimentare: mangiano molta carne di maiale, cose fritte, patatine fritte, poi bevono molta birra… [Mazzella, dirigente sanitario distretto 28, Napoli].
Una cattiva alimentazione determina alcuni problemi di salute, e una scarsa (o inesistente) educazione sanitaria determina la mancanza di cura, rafforzata peraltro da una difficoltà a comprendere la scansione del tempo. Un lavoro difficile, perché occorre agire su più fronti contemporaneamente, su quello alimentare come su quello terapeuti81
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co, non ultimo quello relativo all’attesa e alla pazienza di fronte alle inadempienze burocratiche. Uno dei problemi per loro è prenotare una visita perché c’è tutto un protocollo per cui bisogna prenotarsi prima di fare una visita. Dovendo prenotare nelle strutture pubbliche e spesso bisogna farlo di persona, perché molti CUP (Centro Unico di Prenotazione, N.d.R.) accettano solo prenotazioni di persona, c’è il problema che spesso le liste d’attesa sono lunghissime e bisogna allora intervenire per aiutare… per fortuna ci sono medici volenterosi, e chiamano i colleghi per prenotare la visita. Anche perché gli utenti mancano di costanza, per cui nel momento in cui li riesci ad “acchiappare” subito, nel giro di poco gli fai fare la visita; allora la persona segue quello che deve fare. Ma se passano tanti mesi tra la prima visita e la prenotazione successiva, magari si sentono bene e spesso e volentieri abbandonano la cura. E quindi anche questa cosa, dell’attesa, diventa un ostacolo. [Julia e Tania, mediatrici culturali, assoc. Il Pioppo, Scampia].
Se la lentezza burocratica è difficile da accettare per un italiano, figurarsi per uno straniero, o quantomeno per un Rom che abbia scarsa dimestichezza con le istituzioni. Purtroppo si pone qui con drammatica evidenza il limite della scelta dei campi-sosta come mezzo per affrontare il problema della permanenza dei Rom sul territorio italiano. Trasformandoli in ghetti, si sono poste le condizioni per una loro emarginazione sociale, prim’ancora che fisica. Tra i vari passaggi delle interviste, si nota come spesso manchino le normali conoscenze sociali di base per affrontare una vita di relazione, in un Paese che per molti di essi è il loro, perché vi sono nati. A complicare la questione talvolta sono gli stessi distretti sanitari che, nonostante il costante lavoro svolto dal Sasci, non sono informati sulla normativa di riferimento e sulle procedure da attuare e mettono in difficoltà i pazienti che vi si sono recati. Alcune volte, quando noi richiediamo delle visite specialistiche, vanno nelle ASL e li costringono a pagare il ticket, altrimenti non erogano la prestazione. Noi diciamo: “Facci chiamare, perché non sono informati in quanto… già il codice STP indica di per sé un’esenzione; le ASL dovrebbero saperlo”; allora non c’è una conoscenza adeguata di questa realtà. Alcuni Rom pagano; altri invece o 82
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ci fanno telefonare – per cui spieghiamo che loro sono esenti – oppure se ne vanno. Succede ancora oggi: dieci giorni fa, ad una bambina che aveva prenotato una consulenza in cardiologia al Monaldi, il papà ha dovuto pagare il ticket. Non conosco il motivo per cui le strutture non si adeguano alla… io le posso solo segnalare il problema. [Mazzella, dirigente sanitario distretto 28, Napoli].
La normativa nazionale e regionale ha facilitato l’accesso ai servizi sanitari agli stranieri, siano essi in regola siano essi in regime di STP: tuttavia, non tutti i distretti sanitari di Napoli sono a conoscenza delle disposizioni legislative, e talvolta obbligano i Rom a pagare prestazioni da cui sono esenti. Sotto questo profilo, la mancanza di certezze nella erogazione delle prestazioni di cura non facilita il cammino verso una progressiva forma di autonomia dei Rom dalle figure di riferimento istituzionali, nonostante la buona volontà dei mediatori culturali: Molti di loro hanno paura ad affrontare le situazioni, perché hanno paura di essere discriminati. All’inizio eravamo affollati… adesso la situazione è più tranquilla, nel senso che da noi arrivano ora quelli che veramente ne hanno bisogno, perché hanno capito che da noi la disponibilità è fino a che gli serve, che devono rispettare il nostro lavoro, perché in questo senso loro si responsabilizzano. Noi gli diciamo: “Io lo posso fare, ma guarda che là [all’ambulatorio, N.d.R.], ci puoi andare anche tu”. [Julia e Tania, mediatrici culturali, assoc. Il Pioppo, Scampia].
In sostanza, i Rom inizialmente si appoggiano a delle figure di riferimento, per muoversi nei percorsi di accesso ai servizi sanitari; le risposte che incontrano soddisfano, per quanto possibile, le loro esigenze; talvolta, si scontrano con lentezze e inadempienze di tipo burocratico, che rendono irti di ostacoli tali percorsi; chiaramente, vuoi per le difficili condizioni ambientali in cui vivono, vuoi per una difficoltà iniziale a comprendere il concetto di cura, l’educazione sanitaria e l’autonomia nel rapporto con il sistema sanitario è un traguardo ben lontano dall’essere raggiunto. Tuttavia, alla luce del lavoro effettuato in questi anni dai distretti sanitari e dal coordinamento, si può dire che il cammino verso una maggiore consapevolezza nel godimento dei diritti sanitari è comunque avviato, anche se il quadro generale non può non tingersi di colorazioni in chiaroscuro. 83
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3.3 A Prepezzano la solidarietà si ferma vicino ai Rom13 Il Comune di Giffoni Sei Casali si trova nell’entroterra salernitano, a ridosso dei Monti Picentini, distante diciotto chilometri dalla città di Salerno. Nelle sei frazioni di Giffoni14, da cui l’appellativo “Sei Casali”, vivono all’incirca cinquemila abitanti, per lo più occupati in agricoltura. In queste zone il lavoro nei campi rappresenta il principale bacino di occupazione per molti immigrati. Non pochi, infatti, sono i lavoratori stranieri che nelle stagioni dei raccolti (nocciole, mele, olive, etc.) giungono nei principali centri agricoli della provincia spinti dall’opportunità di un’occupazione nelle aziende agricole locali. Si tratta di attività di bracciantato inquadrate all’interno di rapporti di lavoro spesso irregolari e di conseguenza con scarse garanzie, sia sul piano economico che su quello della qualità/sicurezza del lavoro. Non sono rari i casi in cui questi lavoratori sono vittime di procacciatori di manodopera (i cosiddetti “caporali”), che impongono agli immigrati condizioni lavorative e di vita alquanto disagevoli15. È all’interno di un tale contesto sociale ed economico, in cui l’immagine prevalente dell’esclusione sociale è incarnata dalla figura di lavoratori immigrati, che ha luogo l’incontro tra gli abitanti di Giffoni e i Rom. Un incontro avvenuto quasi per caso, determinato dall’esplodere, nell’estate del 2003, della questione Rom a Napoli. Nella notte tra il 28 e il 29 giugno del 200316 circa 200 Rom rumeni, da qualche settimana accampati, in condizioni di totale abbandono, presso i giardini antistanti la stazione centrale di Napoli, vengono condotti nel Comune di Saviano, presso un’area di proprietà del Comune di Napoli, la Cisternina, dove era stato attrezzato un centro di prima accoglienza dotato di roulotte e bagni chimici. Il trasferimen13 Il presente paragrafo è una rielaborazione della Sezione 3.3, a cura di Roberto
De Angelis e Marco Brazzoduro, disponibile in IREF 2010b. 14 Capitignano, Prepezzano, Sieti Alto, Sieti Basso, Malche e Capocasale. 15 Secondo alcuni recenti rapporti di ricerca sul lavoro straniero in agricoltura [Inea 2009, MSF 2008], nelle campagne del Sud Italia i braccianti immigrati lavorano in media 8-10 ore al giorno, con salari giornalieri di circa 30 euro. In aggiunta, la maggior parte di questi lavoratori vive in strutture fatiscenti (ruderi e casolari abbandonati) prive dei normali servizi domestici (acqua, luce e riscaldamento). 16 Per una ricostruzione più dettagliata degli avvenimenti del 28/29 giugno, si rimanda alla lettura del resoconto stenografico del Senato, del 2 luglio 2003 n. 428, riguardante la relazione redatta dal senatore Tommaso Sodano sui fatti avvenuti in quelle giornate.
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to dei Rom a Saviano recepiva un’ordinanza della protezione civile che imponeva al Comune di Napoli di intervenire con rapidità per far fronte ad una situazione che con il passare dei giorni aveva assunto proporzioni di vera e propria emergenza umanitaria. All’arrivo nell’area della Cisternina un comitato di cittadini di Saviano, con in testa il sindaco ed esponenti politici locali, contestò duramente l’ordinanza della Protezione civile tanto da bloccarne l’attuazione. I duecento Rom, di cui molti minori, passarono tutta la notte sui pullman in attesa di una nuova sistemazione. Nei giorni successivi l’intero Assessorato alle politiche sociali del Comune di Napoli, con a capo l’assessore Raffaele Tecce, attivò una serie di contatti con le organizzazioni del privato sociale, anche fuori la provincia partenopea, alla ricerca di strutture che potessero ospitare quante più famiglie rom possibili. È in questo clima di emergenza e concitazione che l’Associazione Oasi entra in contatto con il “problema Rom”: Questi Rom che sono nelle case di Prepezzano, di Montecorvino, sia quelle dell’Associazione Oasi che le altre, sono stati intercettati da me circa 7 anni fa… e quindi quando fui interessata all’epoca dall’assessore Tecce del comune di Napoli, tramite la d.ssa Taliento che seguiva famiglie Rom per un’associazione su Napoli, mi chiesero se per caso avendo io relazioni e conoscenze qui, se potevo in qualche modo individuare delle strutture che potessero accogliere un po’ di queste famiglie, che da quest’esodo massiccio, provenienti dalla Romania, avevano occupato allora circa 200 famiglie, proprio la stazione di Napoli. Così furono in un primo momento accolti in un centro sociale, poi ad una porzione di queste famiglie facemmo visitare una casa che era allora a Montecorvino. E quindi da lì, ufficialmente, abbiamo sistemato due famiglie poi, a rotazione, ci sono stati diversi inserimenti; insomma siamo arrivati ad ospitare ahimé, anche in 120 130 mq., fino a 50, 60 presenze. Queste come fisse. Perché poi attorno a queste ruotavano i bisogni di moltissime altre famiglie. Di queste poi scelsero di rimanere alcune e una piccola porzione di queste oggi è presente a Prepezzano, frazione di Giffoni sei Casali. [M.L.M., volontaria dell’Associazione Oasi].
Questo passaggio, peraltro, evidenzia il ruolo svolto dal Comune di Napoli nel tamponare l’emergenza umanitaria determinatasi con la mancata sistemazione dei Rom nell’area della Cisternina. Un’azione, 85
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quella messa in campo dall’Assessorato ai servizi sociali del capoluogo partenopeo, che si è sviluppata su un duplice livello d’azione: istituzionale, contattando altri enti locali; informale, in cui ciascun operatore si è speso in prima persona, mettendo mano alla propria rete di contatti per la risoluzione in tempi rapidi di una situazione che con il passare del tempo avrebbe ancor più compromesso il già precario stato abitativo e igienico-sanitario cui versavano i Rom a Napoli. C’è da aggiungere che gli stessi volontari dell’Associazione Oasi hanno a loro volta attivato la propria rete di contatti territoriali, interessando del problema la parrocchia di Giffoni Sei Casali, e mettendo a disposizione un casolare di campagna, posto nella frazione di Prepezzano. Il casolare in questione è situato in campagna ai piedi di un rilievo collinare coltivato a olive, castagne e nocciole. È dotato di sette stanze ognuna delle quali ospita una famiglia di Rom per un totale di circa 40 individui; in media quasi sei individui per stanza. Dista circa 300 metri dall’abitato di Prepezzano. L’edificio, con piano terra e primo piano, è stato concesso in uso alle famiglie rom che pagano le utenze e curano la manutenzione ordinaria. [IREF 2010b: 80].
Sicché nell’estate del 2003 giunsero le prime famiglie di rom rumeni, tutte originarie della città di Calarasi, ospitate nel casolare di campagna. Per i volontari dell’Oasi, e per la stessa città di Giffoni Sei Casali, l’arrivo dei Rom segna l’inizio di una nuova esperienza di ospitalità. Difatti, già nel passato il casolare di Prepezzano aveva dato riparo a persone in difficoltà, un gruppo di immigrati senegalesi arrivati nel Comune di Giffoni per lavorare come braccianti agricoli nelle campagne circostanti. Ma il passaggio dagli immigrati ai Rom, per la comunità di Giffoni, non ha rappresentato soltanto il dover familiarizzare con nuovi volti, altri idiomi e diversi modi di abbigliarsi, bensì una fonte di immediata preoccupazione legata al corredo di stereotipi negativi che da sempre accompagna le popolazioni rom. Per stemperare lo stato d’inquietudine suscitato dalla presenza dei Rom, i volontari dell’Oasi hanno svolto un lavoro di mediazione con la popolazione locale, andando casa per casa a rassicurare i vicini: […] Dovemmo fare un’opera di mediazione prima di accoglierli definitivamente, per cui andai a trovare casa per casa, da tutte le per86
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sone per dire: “Guardate, state tranquilli, anche se sono Rom, però non vi preoccupate, sono seguiti da noi”. Infatti è stato faticoso coi vicini, non dico che siamo arrivati quasi alle denunce però è stata durissima. Questa fase qua la ricordo proprio con una grande tensione, preoccupazione! [M.L.M., volontaria dell’Associazione Oasi].
Il porta a porta per rassicurare il vicinato delle buone intenzioni d’integrazione della comunità rom rappresenta una novità significativa rispetto al modo con cui in altri contesti si è gestita la questione Rom. La scelta di stabilire con gli abitanti di Prepezzano un confronto diretto è risultata, a lungo andare, fruttuosa, poiché ha consentito di definire un terreno di condivisione e di conoscenza reciproca, allentando via via le resistenze iniziali nutrite dalla comunità locale. Oltre a ricercare un costante rapporto con i residenti di Giffoni Sei Casali, l’Associazione Oasi si è posta a tutela e in difesa delle famiglie rom. Non sono stati rari i casi in cui le stesse famiglie rom sono state vittime di raggiri e di episodi di sfruttamento da parte di caporali, che promettevano loro compensi per lavori svolti nelle campagne circostanti, promesse che invece, terminata la stagione dei raccolti, venivano puntualmente disattese. La condizione di estremo bisogno e la mancanza di un regolare permesso di soggiorno rendeva i Rom di Prepezzano estremamente vulnerabili e ricattabili. In ragione di ciò, i volontari dell’Oasi hanno intrapreso una serie di azioni volte alla promozione e alla tutela dei loro diritti. Un impegno questo che si è indirizzato innanzitutto verso il riconoscimento giuridico della presenza di queste famiglie sul territorio nazionale. Da questo punto di vista, grazie ad un’interpretazione estensiva dell’art. 31, terzo comma del Testo unico sull’immigrazione, tutte le famiglie Rom di Prepezzano, per un totale di circa sessanta persone, hanno ottenuto il permesso di soggiorno. La regolarizzazione ha rappresentato una tappa obbligata nel percorso d’inserimento sociale intrapreso dai Rom di Prepezzano. Nel giro di pochi anni, con l’ottenimento del permesso di soggiorno, le famiglie rom hanno avuto la possibilità di migliorare progressivamente la loro condizione di vita, sia da un punto di vista abitativo e occupazionale che da quello riguardante la scolarizzazione dei figli. Si è effettivamente realizzato ciò che sosteneva la volontaria dell’Oasi ai tempi delle battaglie per il riconoscimento giuridico delle famiglie rom, ovvero che la loro fuoriuscita da una condizione di soggiornanti illegali avrebbe avuto ricadute positive da molti punti di vista, anche 87
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sul versante dell’ordine pubblico. La regolarizzazione ha dato modo a queste persone di poter rivendicare i propri diritti e al contempo di assolvere pienamente ai loro doveri di cittadini. Alcune delle famiglie rom, che qualche anno prima avevano sperimentato sulla loro pelle il clima di avversione e di rifiuto nutrito da una parte consistente della popolazione italiana, oggi hanno lasciato il casolare di campagna di Prepezzano e sono andate a vivere in appartamenti in affitto: un passo, questo, che testimonia il buon livello di integrazione ed emancipazione raggiunto dai Rom a Giffoni Sei Casali: D: Sei contento di stare qui? R: Diciamo di sì… D: Ma lì avete la casa a Calarasi? R: Miei genitori, mia suocera sì… D: Vai coi tuoi genitori, i tuoi suoceri… Senti, magari tu riesci a risparmiarti dei soldi per farti la casa in Romania? R: Lavoriamo… D: Lavorate tanto… perché il sogno di molti dei Rom è quello di tornare a farsi la casa? R: Sì, è questo. D: Vi trovate bene in questa casa? R: Sì. D: Quante stanze ha? R: Due stanze, questo salone, il bagno e la cucina. D: E vivete qua in quante persone? R: Ma siamo sei persone. [N.M., 2 figli, intervista n. 5].
Il miglioramento della condizione abitativa è dovuto al soddisfacente inserimento dei Rom nel sistema produttivo e occupazionale nell’economia picentina e, in particolare, in quella giffonese basata principalmente sulla coltivazione e produzione di nocciole, mele e olive. Molti uomini della comunità rom di Prepezzano lavorano come braccianti agricoli nelle aziende locali17; mentre, per quanto riguarda le donne, alcune lavorano nelle aziende agricole con i loro mariti; altre, invece, lavorano nelle serre disseminate lungo la piana del Sele. Inoltre, una famiglia svolge l’attività, ormai etnicamente connotata, della raccolta e della vendita di materiale metallico. Nel settore dei servizi c’è da annotare almeno un caso di una donna Rom assunta in qualità di collaboratrice domestica e, infine, due uomini hanno trovato un impiego da autisti presso le ditte di autotrasporto della zona. Sono, invece, rari i casi di famiglie che per necessità praticano l’elemosina, quando viceversa nello studio di caso realizzato nella 17
Spesso la durata di una giornata di lavoro è di 13-14 ore, con un guadagno giornaliero di 30/40 euro.
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città di Catania (vedi par. 6.5) la quasi totalità delle donne del campo di Zia Lisa, originarie anch’esse di Calarasi in Romania, fanno la questua per le strade della città. L’irrilevanza numerica delle famiglie che a Giffoni praticano il manghél (l’elemosina) testimonia come questa attività non derivi da un presunto tratto culturale tipico di questi gruppi etnici, quanto se mai da stringenti necessità economiche. Non è difficile immaginare come, posti di fronte alla scelta tra la possibilità di ottenere un lavoro o quella di andare ad elemosinare per le vie della città, la totalità dei Rom sceglierebbe il lavoro come mezzo primario di sostentamento. Istruttive, a tal proposito, sono le parole di una donna rom di Giffoni che al momento dell’intervista era costretta a chiedere l’elemosina per le strade di Salerno, non avendo al momento dell’intervista un lavoro: Per le donne proprio non ci sono il lavoro. Per i uomini a volte si trovano ma per i donne neanche non ci vanno a lavorare. Stesso le dicono la gente quando le vediamo dal mercato e facciamo elemosina: “Ma che stai facendo qua, sei giovane! Vai a lavorare!”. “Signora, io… Io voglio lavorare! Signora, ma se io avevo un lavoro, io andavo! Se tu mi trovi un lavoro io vado!” […] ma io che sto avanti di un mercato, e pure mi vergogno, pure anche mi stanco, mi scoccio… ogni persona che viene ti prende in giro […] E a volte altri dicono così: “Sì, hai ragione!”. Solo così una parola per scappare, perché loro prima ti dicono una cosa che prendono come in giro, non lo so… R: … Così: a volte trova il lavoro da montagna quando ci sono o sennò le donne vanno a chiedere elemosina al supermercato […] Sì, chiede l’elemosina perché ce l’ho i bambini. [C.F., 32 anni, nubile, intervista n. 8].
Per questa donna mendicare rappresenta la soluzione estrema per garantirsi una qualche forma di sostentamento. Per lei, come per la maggior parte dei Rom, è il lavoro il mezzo principale attraverso il quale emanciparsi da un condizione di profonda fragilità economica. Da qualche mese l’intervistata non ha più un’occupazione, in precedenza lavorava nelle campagne intorno a Giffoni Sei Casali: raccoglieva le nocciole. La fine della stagione del raccolto ha comportato la cessazione del suo rapporto di lavoro. Il venir meno dell’unica fonte di reddito familiare e l’impossibilità di trovare nell’immediato un’al89
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tra occupazione, ha costretto l’intervistata a chiedere l’elemosina per le strade di Salerno. La speranza di un lavoro è sempre viva nell’intervistata: un sentimento questo che mal si concilia con il pregiudizio di chi considera i Rom persone che preferiscono andare ad elemosinare piuttosto che assumersi le responsabilità connesse ad una qualsivoglia attività lavorativa. In generale, la volontà dei Rom di Giffoni di contribuire con il proprio lavoro allo sviluppo della società che li ha ospitati è testimoniata dal buon esito del percorso d’inserimento sociale che hanno intrapreso fin dal loro arrivo nel piccolo centro picentino. L’esperienza d’inclusione sociale che si sta portando avanti nel Comune di Giffoni Sei Casali rappresenta, per certi versi, un’eccezione, se accostata al modo in cui, nel Sud Italia come altrove, viene di norma affrontata la questione dell’integrazione sociale delle popolazioni rom. A Giffoni Sei Casali, fin dal primo momento, le famiglie Rom hanno vissuto in una struttura residenziale in muratura, non lontana dal centro abitato. Una soluzione che è in controtendenza rispetto all’adozione di modelli insediativi fondati su logiche securitarie, che hanno prodotto la proliferazione di campi-sosta in tutto il paese: strutture spesso distanti dal centro abitato e al cui interno le condizioni abitative e di vita risultano assai precarie. L’esperienza di Giffoni Sei Casali consente, peraltro, di rintracciare in essa alcune pratiche d’intervento che fuoriescono dalla normale prassi istituzionale, la quale fa della “questione Rom” un fattore destabilizzante da tenere sotto controllo attraverso l’adozione di interventi che accrescono l’isolamento spaziale e relazionale dei rom rispetto al contesto sociale in cui vivono. Lontano da questo modo di intendere il rapporto tra Rom e gagè è il lavoro di mediazione che l’Associazione Oasi ha svolto per “avvicinare” le famiglie romanì e gli abitanti di Giffoni. Gli stessi abitanti di Giffoni Sei Casali, rispetto a sette anni prima, percepiscono la presenza dei Rom non più come una minaccia incombente, ma come lavoratori stranieri che vedono nel nostro Paese un luogo in cui emanciparsi da una condizione di vita precaria. Famiglie che vivono del proprio lavoro, svolgendo i lavori più umili, percependo salari molto bassi da non consentire loro di andare oltre la soglia della mera sussistenza. Persone che, come molte altre, sul loro sacrificio fondano la speranza per un futuro migliore per sé, ma soprattutto per i loro figli. 90
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R: Nella Romania, là non ce l’hai lavoro, se paga tutto, i bambini non vano alla scuola perché se paga la scuola, io non lavoro, mia moglie non lavoro. Tutti quanti sta così… Io perciò arrivato qua in Italia, per lavorare io, anche mia moglie questa cosa per loro. Per andare a scuola, per fare una vita più… non com’è la mia […] Per fare sacrifici per mio figlio… perché noi stiamo qua per mio figlio, per fare la scuola, già sono la scuola qua. [N.M., 2 figli, intervista n. 5].
Queste parole mal si accostano al repertorio di luoghi comuni sui Rom (non hanno voglia di lavorare; rubano; non mandano i figli a scuola, etc.), trovando invece corrispondenza di contenuti nelle aspettative per un futuro migliore che nutrono migliaia di immigrati che vivono e lavorano nel nostro Paese. Va precisato, tuttavia, che la sovrapposizione dell’immagine dei Rom di Giffoni a quella degli immigrati, se, per certi aspetti, rappresenta una nota positiva, non esaurisce il problema della loro integrazione nel tessuto del nostro Paese. Infatti, affermare che tra la popolazione del piccolo Comune picentino le famiglie Rom sono ormai percepite alla stregua dei molti braccianti agricoli stranieri, non equivale a sostenere che gli immigrati hanno ormai raggiunto una posizione sociale che consente loro di rivendicare condizioni di vita migliori, tutt’altro; l’accostamento dei Rom agli immigrati sintetizza l’idea che gli stessi lavoratori Rom sono tollerati dalla popolazione locale in quanto persone utili per produrre reddito, e quindi costituiscono una ricchezza per il paese. In breve, anche per il razzismo non si può non notare come vi sia una sorta di scala del pregiudizio, che vede i Rom saldamente attestarsi all’ultimo posto. Certo, se paragonato al tenore di vita cui si è soliti confrontarsi quando si analizza la condizione dei Rom stranieri che dimorano nel nostro Paese, Giffoni Sei Casali presenta dei tratti di eccezionalità18. Un’anomalia in parte dovuta a fattori di tipo ambientale e legati all’ordine di grandezza del fenomeno. Più in dettaglio, il contesto produttivo della zona, principalmente basato su un’economia agricola, ha permesso ai Rom di inserirsi in un mercato del lavoro caratterizzato da una domanda di manodopera non qualificata e a buon mercato, 18
Un ulteriore indicatore del buon grado d’inserimento sociale raggiunto dalla comunità rom di Giffoni riguarda il loro livello di scolarizzazione. La totalità dei minori frequenta le scuole elementari e medie del Comune, mentre due ragazzi stanno studiando per conseguire un diploma di scuola media superiore.
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andando a svolgere quei mestieri che solitamente sono appannaggio esclusivo degli immigrati come, ad esempio, il bracciante agricolo, l’operaio nelle serre o, ancora, la collaboratrice domestica. Inoltre, la presenza di un numero contenuto di famiglie ha reso meno difficile il loro inserimento nella comunità ospitante, attenuando l’impatto emotivo che spesso suscita nell’opinione pubblica la visione destabilizzante di una moltitudine di persone ammassate dentro i campi rom. Le particolari caratteristiche del contesto d’insediamento, unite all’adozione, da parte dell’Associazione Oasi, di una metodologia d’intervento centrata sull’accompagnamento e sulla reciproca conoscenza tra abitanti e comunità rom, ha consentito di rendere più concreta e meno utopistica l’idea che si possano dare le condizioni per una positiva integrazione dei Rom nel nostro Paese. Tuttavia, si è detto in precedenza, il caso di Giffoni Sei Casali rappresenta un’eccezione nel modo in cui di solito è gestita la questione Rom in Italia. Infatti, basta spostarsi qualche chilometro più in là, in località Lido Spinetta19, per ritrovare, nelle parole dei Rom, quella rassegnazione desolante, frutto di una condizione di vita inumana che alimenta nell’opinione pubblica immagini minacciose ed episodi d’intolleranza e di disprezzo. Anche io voglio cambiare la vita con i miei figli, non stare un giorno qua e un giorno là come dei cani. Per i cani hanno aperto qua a Salerno una casa, se vedi che casa gli hanno dato per i cani… incredibile! Te lo giuro i cani vanno sul balcone e vedono giù. Piace più aiutare ai cani che ai genti umani, esseri umani, figli di Dio, non lo so […] Io sono ormai grande: io posso resistere anche alla fame, anche tutto. Ma i miei figli, per i miei figli mi dispiace, per questi bambini che sono senza la scuola e poi quando cresceranno non sanno scrivere, né a leggere… Poi vanno da qualche parte, si perdono, non sanno dove sono né leggono niente! [S.B., 20 anni, 2 figli, intervista n. 1]. 19
“In questa località, una spiaggia a sud di Salerno, è insediata una comunità di Rom khorakhanè provenienti dalla Bosnia, ma ormai in Italia da oltre venti anni. Il campo si presenta come un aggregato di roulotte e camper dislocati sull’arenile. I Rom si sono insediati qui dopo una serie di sgomberi avvenuti a S. Nicola Varco (Eboli) e sono consapevoli che con l’approssimarsi della stagione estiva saranno sollecitati a spostarsi altrove. Questa condizione di nomadismo forzato è vissuta con un sentimento misto di rassegnazione, impotenza e rancore” [IREF 2010b: 92].
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In questo passaggio sono condensate le immagini con le quali si è soliti confrontarsi quando si cerca di descrivere le condizioni di vita dei Rom stranieri che risiedono nel nostro Paese. Un’esistenza il più delle volte consumata in baracche, roulotte e container in cui le condizioni abitative e igieniche sono ben al di sotto di una soglia minima di decenza; nell’assenza cronica di un’occupazione o, al più, con lavori irregolari, faticosi e scarsamente remunerativi; infine, in una condizione insediativa instabile, continuamente minacciata da ordinanze di sgombero che rendono difficile la realizzazione di qualsiasi tipo di progetto d’integrazione sociale. Eppure la comunità di Rom bosniaci accampati sul litorale salernitano non è poi così diversa da quella che risiede nel Comune di Giffoni Sei Casali. Del resto, le stesse famiglie rom che vivono a Giffoni, durante il loro periodo di permanenza nella città di Napoli versavano in uno stato di abbandono del tutto analogo a quello lamentato dai Rom di Lido Spinetta. A fare la differenza fra i due contesti insediativi è l’attivazione nel Comune picentino di un processo di presa in carico delle famiglie rom provenienti da Napoli, che si è concretizzato in un intenso lavoro di accompagnamento, cui fa da contraltare la desolante assenza da parte delle istituzioni riscontrata nell’insediamento di Lido Spinetta. Da qui, dunque, è agevole comprendere il tono di rassegnazione che affiora dalle interviste realizzate ai Rom di Lido Spinetta, derivante dall’isolamento, prima di tutto relazionale, che li caratterizza. Un’emarginazione frutto della mancanza di una presa in carico da parte delle istituzioni e della società civile. Va da sé che l’esperienza di Giffoni Sei Casali, per diversi aspetti, rappresenta l’eccezione che conferma la regola, tant’è che a soli pochi chilometri di distanza, in direzione del mare, torna attuale l’immagine che solitamente accompagna il tema dei Rom nelle nostre città: scene di desolazione e mancanza di prospettiva, che rendono il problema Rom un groviglio inestricabile. A riguardo, l’esperienza di Giffoni Sei Casali offre alcune delle risposte nel districare la matassa. Per essere realmente efficaci, andrebbero adottate soluzioni che impongono un cambiamento di prospettiva rispetto al tradizionale modo di approcciare il problema, per esempio adottando una prospettiva d’intervento che fa dell’accompagnamento e della conoscenza reciproca la base su cui fondare azioni di inclusione sociale, in grado di abbattere le barriere che solitamente separano i Rom dal resto della società. 93
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3.4 “Era dai tempi di Poggioreale che non mi facevo una doccia”. Servizi per l’integrazione e dignità dei Rom L’esperienza comparata di Giffoni Sei Casali e di Lido Spinetta trova in parte riscontro nel capoluogo partenopeo, nel bene come nel male. La presa in carico dell’ente pubblico, l’accompagnamento della società civile attraverso l’associazionismo, la conoscenza reciproca tra italiani e Rom stranieri sono fattori necessari per avviare un processo di integrazione. Per quanto riguarda Giffoni, poi, vi è da dire che la particolare forma di economia del territorio ha favorito certamente l’ingresso di alcuni Rom nel mercato del lavoro, fattore determinante per avviare un reale circolo virtuoso di inclusione sociale. A conclusioni simili è giunta anche l’esperienza napoletana, con la differenza che lì l’integrazione dei Rom è ancora un processo lungo e faticoso, certamente non avanzato come nell’esperienza di Sei Casali. Non facilita il contesto metropolitano, anonimo, spersonalizzante, difficile per tutti, figurarsi per i Rom, alla luce altresì della particolare complessità del capoluogo campano. Non mancano, tuttavia, alcune luci, frutto di quel percorso di avvicinamento che trova significative sovrapposizioni nell’esperienza di Giffoni. Luci e ombre ora brevemente richiamate per fare il punto sulla situazione dei Rom in Campania. Innanzitutto, vi è da dire che le manovre dall’alto e per imposizione non sembrano funzionare. Gli sgomberi risolvono il problema in un quartiere, ma a ben vedere lo spostano in un altro. Non solo: gli investimenti effettuati sul fronte dell’integrazione (bambini rom a scuola, presa in carico delle associazioni locali, dialogo con la cittadinanza), con lo sgombero vengono irreparabilmente interrotti, e occorre ricominciare da capo altrove. Significative, in tal senso, le parole espresse dal presidente delle ACLI di Napoli, Pasquale Orlando: Non è che la presenza dei Rom sia una novità: ci sono sempre stati. Se garantisci i servizi all’integrazione, l’integrazione si può raggiungere; se non garantisci servizi all’integrazione, non è che puoi avere risultati positivi dal punto di vista dell’effetto, dell’ordine pubblico, del rapporto con il territorio… è più semplice favorire l’integrazione garantendo servizi, altrimenti… l’idea degli sgomberi non è risolutiva: tutti quelli realizzati sono il segno di una mancanza di servizi e di una mancanza di attenzione comune ad un problema che deve 94
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essere di tutta la città e non solo di un quartiere; quando poi li sposti in un altro quartiere il problema si ripropone. La questione dunque è garantire servizi per favorire la normalità dell’integrazione, ma anche la libertà delle scelte, ovviamente con incentivi e disincentivi: se tu vai a scuola, etc.; se invece non vai a scuola, diciamo, te ne vai: diritti e doveri, all’interno di una disciplina concordata, che deve produrre risultati. Non c’è molta alternativa in verità: se uno non investe in integrazione poi deve investire in sicurezza: ma è una sicurezza che poi non si può mai raggiungere perché succedono le rivolte, i quartieri, gli stessi Rom… bisogna decidere di spendere qualcosa per garantire il miglior risultato a tutti. [Pasquale Orlando, presidente ACLI Napoli].
Gli interventi vanno dunque concertati attraverso una politica di prima accoglienza più complessa, che non si limiti a garantire una ospitalità emergenziale, o peggio ancora una politica di sgombero; e che miri a costruire un rapporto di reciproca assunzione di diritti e di doveri. La presa in carico del territorio e dell’ente pubblico avviene in tal modo in un contesto di assunzione di responsabilità anche da parte dei Rom. Sotto questo profilo, la firma del patto di cittadinanza tra le autorità partenopee e i Rom del villaggio autorizzato di Scampia ne costituisce un esempio concreto. È un cambiamento di filosofia importante, giacché si abbandona la logica securitaria e si abbraccia la logica del “progetto esistenziale”, che comprende un luogo stabile dove vivere – ratificato dagli attestati di dimora; l’inserimento dei bambini a scuola, con obbligo di frequenza; la ricerca di un lavoro, quantomeno nelle intenzioni; la cura igienica e sanitaria, testimoniati dal rapporto oramai ultradecennale tra i Rom del campo e l’ambulatorio dedicato. È chiaro che un patto di cittadinanza non può non contemplare il coinvolgimento della popolazione locale. Il grosso lavoro di sensibilizzazione della cittadinanza condotto a Giffoni da parte dell’associazionismo ha costituito il pre-requisito perché si disinnescassero meccanismi di violenza verbale e di contrapposizione stereotipata e perché si avviasse un lento percorso di riconoscimento sociale dei Rom. Sempre Orlando riassume con chiarezza l’importanza di tale lavoro, che bisogna effettuare per preparare il terreno a qualsiasi forma di intervento:
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Ci sono dei periodi in cui c’è bisogno delle associazioni, anche se non sono impegnate nei campi nomadi o nell’attività diretta per i Rom, per far passare il ragionamento […] che pure, quando non c’è risposta sui servizi, ogni tanto maturano delle scelte… maturano movimenti negativi, di non accoglienza, di violenza; nascono soprattutto perché non ci sono servizi, e da un lato si creano situazioni di abbandono, di furti, di rapine, di cumuli di immondizia; e dall’altro situazioni di ignoranza; e quindi bisogna continuare a spiegare nei quartieri [dove sono i campi rom, N.d.R.] che le soluzioni ci sono, che i Rom ci sono sempre stati, che si può convivere tranquillamente, che si possono impegnare in molte attività […] bisogna spiegarlo alla città e fare in modo che non diventi un problema solo di un quartiere, di pochi missionari. Anche per sostenere poi le scelte, quando capitano le scelte positive dell’amministrazione, evitare che si trovino in controtendenza rispetto al senso comune della città: che se tu vai in un quartiere dove succedono le rivolte e riesci a far capire che è una scelta giusta, allora la puoi perseguire; se tutti si convincono che è una scelta sbagliata… noi qui abbiamo avuto manifesti contro i campi, anche della sinistra, che in qualche modo inseguivano più la gente che aveva fatto la rivolta, immaginando che era spontanea, e poi invece ci stava pure la camorra… io dico che il senso comune delle persone a favore va di continuo contrattato, va fatto crescere, altrimenti può regredire. [Pasquale Orlando, presidente ACLI Napoli].
In sostanza, la riuscita anche parziale di una esperienza di integrazione è possibile se trova non solo le istituzioni, ma anche la popolazione aperta al dialogo. Come a Giffoni, non tutti i quartieri napoletani si sono rivelati chiusi al rapporto con i Rom, e laddove si è instaurato un dialogo, coinvolgendo parrocchie, municipi, e organizzazioni di volontariato, qualche risultato si è ottenuto. Significative in tal senso le esperienze dei campi di Secondigliano-Scampia e della ex-scuola di Soccavo: popolazione accogliente e collaborazione tra istituzioni scolastiche e associazioni ha accresciuto significativamente il tasso di scolarizzazione dei bambini rom, sia quelli residenti nel campo attrezzato che in quello spontaneo. Un medesimo risultato si è raggiunto a Giffoni in relazione all’occupazione stagionale dei Rom. Nell’uno come nell’altro caso è stato fondamentale il ruolo di comunicazione istituzionale e politica avviata nei confronti della popolazione locale, sia dall’ente locale come dalle associazioni delegate. 96
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Ente o associazioni non importa, purché non sia sottovalutato il ruolo preparatorio riservato alla comunicazione dei progetti di inclusione, anche arrivando al porta a porta con i residenti locali, se necessario. Chiaramente, il coinvolgimento della cittadinanza è il terreno dove poi devono attuarsi i progetti di inclusione sociale. Ascoltando le testimonianze degli addetti ai lavori, si conferma in Campania quanto emerge negli altri studi d’area, e cioè che la questione Rom è governabile se si adotta una visione di sistema e un programma di intervento completo. Sanità, scuola, lavoro e abitazione per i Rom procedono assieme, o assieme cadono. Non è pensabile trovare un lavoro o mandare un figlio a scuola se sono gravi le condizioni igienico-sanitarie dell’abitazione in cui si risiede; non si può vivere in un’abitazione dignitosa se non si ha un reddito per pagare l’affitto o il mutuo; è difficile mandare i figli oltre la scuola dell’obbligo se i genitori sono entrambi disoccupati; nella consapevolezza tuttavia che, almeno nei campi, l’emergenza sanitaria è certamente una priorità, ma che anche le altre politiche non devono essere trascurate, per non ritrovarsi in futuro con gli stessi problemi che si fronteggiano oggi. C’è da dire che gli interlocutori istituzionali intervistati, non senza una punta di malinconica ironia, sottolineano come sul fronte abitativo e occupazionale “a Napoli i Rom siamo noi”. Per certi versi hanno ragione. L’emergenza abitativa e occupazionale (ma anche sanitaria) coinvolge ampi strati della popolazione napoletana: spendere risorse per una seppur minima parte degli abitanti del napoletano, per giunta stranieri e talvolta con problemi di giustizia, genera sicuramente tensioni sociali e politiche. Sotto questo profilo, si rivela una volta di più la vitale importanza del lavoro di comunicazione e di sensibilizzazione della cittadinanza residente, in relazione alla presa in carico dei Rom da parte delle istituzioni pubbliche. Se quella sanitaria è una emergenza, vi è da dire che l’emergenza sanitaria è figlia della scelta di creare i campi-sosta. Certamente è buona cosa trasformare un campo spontaneo in un campo attrezzato, con acqua, gas, luce e fognature: sempre meglio che vivere in mezzo ai liquami. Ma quando il campo è la forma architettonica principale del rapporto tra italiani e rom, allora la crisi sanitaria si perpetua nel tempo. È vero che l’assembramento limita il rischio-contagio con il resto della popolazione; del resto, è altrettanto vero che l’assembramento favorisce il rischio-contagio all’interno del campo. Ne va della dignità della persona umana, per quanto disgraziata e miserabile possa essere. Parziali miglioramenti ci sono stati con la riforma legi97
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slativa e con l’organizzazione sanitaria messa in atto dalla Regione Campania: le campagne di vaccinazione coprono oramai la quasi totalità dei bambini dei campi; i distretti sanitari stanno maturando una significativa esperienza di medicina dell’immigrazione, soprattutto nel contesto urbano, dove si lavora per grandi numeri; resta tuttavia la constatazione che solamente la fuoriuscita dai campi, o quantomeno una loro riformulazione radicale, possa eliminare l’emergenza sanitaria e trasformarla in una normale prevenzione sanitaria. In tal senso, viene in soccorso l’esperienza di Giffoni Sei Casali. È un’esperienza che nega fin dall’inizio la logica dei campi – favorita in questo dalla scarsa numerosità dei Rom giunti nel salernitano dopo i fatti di piazza Garibaldi; il ridotto numero di famiglie e la possibilità di abitare quasi subito in casali anziché in un campo-sosta ha favorito il loro inserimento, sia lavorativo che scolastico, permettendo di risolvere a monte la questione sanitaria: sono state semplicemente evitate le patologie legate all’immigrazione irregolare, alla malnutrizione, alle cattive condizioni abitative, ed è stato possibile stabilire un corretto rapporto di prevenzione e cura sanitaria. Tutto ciò per ribadire come, a detta dei testimoni privilegiati intervistati a Napoli, i grandi insediamenti creano svariati problemi di gestibilità, di sanità e di rapporto con la cittadinanza. I villaggi ufficiali di accoglienza di Scampia non vanno bene per un’ipotesi di stanzialità di lungo periodo. Una lezione ben riassunta dal viceprefetto D’Orso, che coordina il lavoro di enti pubblici, associazioni, Croce Rossa e distretti sanitari, nel difficile lavoro di integrazione dei Rom presenti nel napoletano: Il discorso dovrebbe essere proprio quello, di avere la possibilità di ripartirli sul territorio. Per la popolazione locale non sarebbe più la “tribù” con cui vengono identificati tutti, buoni e cattivi; sarebbe un discorso di inserimento nel territorio di piccoli insediamenti, che non devono superare un determinato numero. Non posso pensare che insedio cinquemila nomadi ad Afragola, che ha una popolazione di tremila persone, perché è un rapporto squilibrato. Tanti piccoli nuclei familiari… secondo me rende più agevole sia il loro inserimento come singole famiglie sia l’accettazione da parte di una comunità che si sente comunque più forte; perché c’è anche la paura: se io me li trovo tutti insieme, ho paura, perché mi sento aggredita come comunità dalla presenza di queste persone. Se io invece inizio a fare un discorso… per esempio l’assessore Riccio mi raccontava 98
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l’esperimento di questa scuola dove vanno i Rom rumeni […] che si sono ben integrati con il territorio: i ragazzi vanno a scuola, alcuni Rom lavorano lì… si è creato un buon punto d’integrazione sociale: tant’è che chi vive in quel quartiere è ben lieto di ospitarli, perché non ha problemi con queste famiglie rom, che attualmente sono un centinaio. [D.ssa D’Orso, Viceprefetto di Napoli, area immigrazione].
In sostanza, vanno pensati inserimenti mirati con pochi nuclei familiari, non con decine di famiglie e centinaia di persone; gli inserimenti fatti con poche famiglie rispetterebbero la convivialità tipica dei Rom e nello stesso tempo permetterebbe un loro inserimento più adeguato, dato il basso numero di famiglie rom coinvolte. La prima accoglienza verrebbe effettuata più efficacemente e si lavorerebbe prioritariamente sull’inserimento lavorativo e su quello scolastico. Un modello di insediamento di questo tipo sarebbe adatto anche a comuni dell’hinterland napoletano di piccole dimensioni, come testimoniato dall’esperienza, tutto sommato positiva, di Giffoni Sei Casali.
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Capitolo 4
In Puglia: sulla strada dell’integrazione
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Danilo Catania
4.1 Introduzione Per la sua posizione geografica, la Puglia è da sempre un approdo naturale per le popolazioni provenienti dalla penisola balcanica. I primi documenti attestano la presenza di insediamenti rom nella regione a partire dal sedicesimo secolo, anche se probabilmente gruppi di Rom partiti dalla penisola ellenica giunsero sulle coste pugliesi tra il quattordicesimo e il quindicesimo secolo, durante la prima avanzata dell’esercito ottomano verso l’Europa continentale (Piasere 1988). Nei secoli successivi si ebbero altre ondate migratorie che portarono Rom di diversa etnia a scegliere la Puglia come principale destinazione. La Puglia dunque, per la sua vicinanza con le terre balcaniche, ha rappresentato per migliaia di Rom una terra amica in cui allacciare relazioni commerciali e, in tempi di guerra, trovare riparo. Anche quanti recentemente sono giunti in Puglia per scampare agli orrori innescati dal conflitto serbo-bosniaco (1992-1995) e subito dopo per fuggire da un altro conflitto, la guerra in Kosovo (1996-1999), hanno trovato nella Puglia un approdo sicuro. Dai risultati della mappatura sugli insediamenti rom (cfr. capitolo 2), nei primi mesi del 2010, sul territorio pugliese erano presenti 19 insediamenti (vedi cartina 4, p. 220), concentrati soprattutto nelle province di Bari, Lecce e Foggia e, in misura minore, in quelle di Taranto (Sava e Ginosa) e Barletta. Volendo dare una stima dei Rom stranieri presenti nella regione, essi dovrebbero attestarsi intorno alle duemila persone1, in maggio1 La stima è stata effettuata confrontando i risultati emersi dalla mappatura degli
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ranza arrivati in Puglia negli ultimi trent’anni dalle regioni dell’ex Jugoslavia, dalla Macedonia e dalla Romania. Si tratta di nuclei familiari di diversa etnia, al cui interno il numero di persone nate nel nostro paese risulta ormai prevalente rispetto a coloro che sono nati all’estero. Rispetto alla distribuzione territoriale dei gruppi rom, dai risultati della mappatura degli insediamenti, affiora un quadro eterogeneo nella scelta dei contesti territoriali in cui stabilirsi. Una chiave di lettura per interpretare le scelte insediative di queste popolazioni è di considerare il loro status socio-economico, caratterizzato per lo più da una condizione di pervicace deprivazione economica e lavorativa, dovuta ad un clima diffuso di intolleranza e discriminazione nei loro confronti, che di fatto ha comportato l’impossibilità degli stessi Rom di autodeterminarsi attraverso i consueti canali della rappresentanza sociale, politica ed economica. Ne consegue che i Rom hanno adottato modelli insediativi tipici di chi si muove nei circuiti sotterranei dell’economia degli esclusi2. Un’economia che di fatto si è caratterizzata dall’assenza di un lavoro o, in alternativa, dalla precarietà di lavori saltuari, mal pagati e privi di tutele; un’economia di mera sussistenza, non di rado sostenuta dalla generosità e dalla solidarietà degli “inclusi”. Si comprende così come i circa duemila Rom stranieri si siano insediati nelle periferie dei centri regionali economicamente più dinamici. Medie e grandi città, soprattutto del litorale pugliese, dotate di servizi e infrastrutture; dove, inoltre, il tessuto dell’associazionismo sociale e del volontariato è più articolato. La scelta di realizzare i due studi di caso pugliesi nella città di Lecce e Foggia risponde all’esigenza di analizzare due realtà che, per insediamenti rom, realizzata per conto dell’Unar, con le stime raccolte nel passato da altre organizzazioni che hanno tentato di quantificare la consistenza numerica dei Rom stranieri che vivono nel territorio pugliese. In particolare, abbiamo fatto riferimento alla rilevazione conoscitiva promossa nel 2008 dalla Regione Puglia sugli insediamenti rom. In base a questa indagine, nelle province di Lecce, Bari e Foggia sono stati rilevati 9 campi, per un totale di 614 Rom – peraltro quest’ultimo dato si riferisce a solo 7 insediamenti su 9. Lorenzo Monasta [2005] ha individuato in Puglia 11 insediamenti, quantificando il numero dei Rom stranieri in 1365 individui. Partendo da questi due dati, abbiamo dunque stimato in circa 2000 persone il numero di Rom stranieri presenti in Puglia, partendo da una base di 19 insediamenti censiti con una presenza media per insediamento intorno ai 100 individui. 2 Con questo termine si intende sintetizzare la situazione di chi versa in una condizione di sistematica esclusione dai circuiti economici e produttivi. Uno stato di profonda debolezza sociale ed umana che conduce a sperimentare traiettorie biografiche e lavorative caratterizzate da un tratto costante di precarietà. [Terreri 2001].
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ragioni diverse, rappresentano due importanti poli d’attrazione per le popolazioni rom provenienti dall’area balcanica. Nel Salento, in particolare nella città di Lecce, sono presenti sin dalla fine degli anni Ottanta i Rom Khorakhanè Shiftarija (provenienti dall’area del Kosovo/Montenegro e quasi tutti residenti nel campo Masseria Panareo) e, in minor misura, i Rom Khorakhanè Cergarija Crna Gora provenienti dalla Bosnia (ma di origine e costumi montenegrini), per un totale di circa 80 famiglie; altri cento nuclei familiari, di più recente ingresso (Rom rumeni), sono invece sparsi nella provincia. A Foggia capoluogo, nel campo autorizzato di Borgo Arpinova, vivono in prefabbricati e baracche circa 60 nuclei familiari di Rom Manijup (macedoni), mentre altre 30 famiglie circa di Rom rumeni risiedono in campi abusivi. Numerosi Rom bulgari, dediti soprattutto all’agricoltura, sono invece dislocati nelle zone rurali della provincia (in particolare a Zapponeta, Stornarella, Ordona, Orta Nova e Lesina – vedi cartina 4, p. 220). In generale, i Rom hanno adottato strategie di sopravvivenza coerenti con la peculiare vocazione economica dei territori in cui si sono stabiliti. In provincia di Foggia, i Rom hanno trovato riparo e sostentamento nelle case rurali e nel lavoro in agricoltura, assecondando la tradizionale centralità del settore primario nell’economia foggiana. Viceversa, nel Salento i Rom montenegrini hanno tradotto l’inclinazione commerciale e turistica dei comuni leccesi sviluppando forme minime di auto-impresa – soprattutto attraverso la vendita di piantine nei mercati rionali. Un altro motivo, che ha portato ad impiantare gli studi di caso a Foggia e a Lecce, risiede nel fatto che ambedue i contesti d’analisi risultano essere tra i più attivi sul fronte dell’inclusione sociale delle popolazioni rom presenti nella regione. Nel Salento sono attivi due diversi progetti d’inclusione sociale: il progetto “Intermedia on the road”, finanziato dall’Assessorato alla Trasparenza e alla Cittadinanza Attiva della Regione Puglia, che ha come obiettivo quello di rimuovere gli ostacoli che incontrano i cittadini stranieri nell’accesso ai servizi pubblici; il progetto ASIA della provincia di Lecce, che si propone di costituire un’agenzia sociale di intermediazione abitativa (da qui la sigla ASIA) che, attraverso esperti del mercato immobiliare, offra servizi d’informazione e consulenza immobiliare agli immigrati. Inoltre, occorre segnalare una serie di iniziative poste in essere dall’Opera Nomadi e da rappresentanti dei Comuni e delle ASL del foggiano; in particolare, nelle zone agricole che orbitano attorno al 103
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comune di Cerignola, si stanno realizzando azioni di inclusione lavorativa e abitativa rivolte a Rom macedoni e rumeni. Su questo terreno si innestano gli studi di caso realizzati negli insediamenti di Panareo (Lecce) e di Arpinova (Foggia): due realtà che nascono da una storia per certi versi simile – fatta di esclusione sociale e intolleranza diffusa – ma che si collocano agli antipodi per quanto riguarda la capacità delle istituzioni e degli attori sociali di sviluppare interventi efficaci sul fronte dell’inclusione sociale. Nel caso del campo-sosta Panareo la fattiva collaborazione tra le istituzioni locali e le organizzazioni di volontariato, soprattutto negli ultimi anni, ha creato le condizioni per l’elaborazione e lo sviluppo di una serie d’interventi d’inclusione sociale aventi una duplice finalità: nell’immediato, migliorare le condizioni di vita generali degli abitanti del campo-sosta; nel medio periodo, arrivare alla chiusura del campo con l’inserimento delle famiglie del “Panareo” nel tessuto salentino. Al contrario, nel campo d’accoglienza per immigrati ubicato nel rione municipale di Arpinova, la collaborazione tra le istituzioni locali e il mondo del volontariato è risultata più debole e legata alle contingenze. Sono le associazioni di volontariato, come l’Opera Nomadi di Foggia, la Caritas diocesana e l’Associazione Medici Cattolici Italiani, ad aver offerto negli anni assistenza, specie sul fronte socio-sanitario, alle sessanta famiglie di Rom macedoni che attualmente vivono ad Arpinova. Questa situazione di segregazione spaziale e sociale al momento non trova vie d’uscita, almeno nel breve e medio periodo, per l’assenza di una progettualità che vada oltre il tamponamento delle innumerevoli emergenze che la vita in un campo comporta. Nelle prossime pagine si illustreranno i risultati emersi dai due studi di caso realizzati al campo-sosta Panareo (Lecce) e al campo rom situato a passo di Corvo, località borgo Arpinova (Foggia). Nel caso di Lecce si sono esplorate le dimensioni connesse al fenomeno del separatismo socio-abitativo di cui spesso sono vittime le popolazioni rom. Viceversa, nello studio del campo ad Arpinova, l’analisi si è indirizzata su questioni riguardanti i meccanismi di accesso/esclusione dei Rom ai servizi socio-sanitari.
4.2 Lecce: un posto altrove Le vicende che portarono, nel 1998, oltre 200 Rom khorakhanè provenienti dal Montenegro al campo-sosta “Panareo”, depurate dai 104
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tratti propri del contesto in cui si sono consumate, appaiono uguali a tante altre apprese attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Scene di “normale” segregazione sociale e territoriale che, pur cambiando gli attori e il proscenio, si ripetono sempre uguali a se stesse. Un copione che non ammette variazioni sul tema: in cui intere famiglie, sfuggite alla fame e alla guerra, approdano nel nostro Paese, clandestine senza alcun diritto, stabilendosi negli interstizi dimenticati delle città – spazi urbani abbandonati da molto tempo, degradati e fatiscenti, senza acqua né luce3. Quando sono arrivati la cosa che mi ha colpito è stata questa: sono andata in questa specie di fondo dove li accolse un signore che era molto gentile, non aveva interessi… vide questa gente nelle roulotte, disse: “qui c’è un posto recintato sulla strada per Torre Chianca: mettetevi lì così almeno non vi vede la polizia, non vi disturba la gente”. Senz’acqua e senza luce. Allora, avevano fatto una cosa straordinaria che mi ha colpito tantissimo, era un fondo così e c’era il cancello con dei pilastri e lì avevano scritto “Lece”! Questo è importantissimo, si sentivano di Lecce! Erano appena arrivati a Lecce (Rosalba Bove D’Agata, Responsabile dell’Ufficio Immigrazione Salento della Provincia di Lecce)4.
In questi luoghi di precarietà umana e abitativa cresce la speranza di una vita diversa: una casa decorosa, un lavoro stabile. Progetti che tendono ad un’esistenza normale5 che accomuna uomini e donne, Rom e non Rom, e che in sostanza tradiscono l’aspirazione di sentirsi parte di un collettività che si riconosce nei presupposti fondativi del moderno concetto di cittadinanza. Per ricostruire gli avvenimenti che hanno caratterizzato il primo periodo di permanenza delle famiglie Rom nella città di Lecce ci si è avvalsi della testimonianza di Rosalba Bove D’Agata, la quale in quegli anni ha seguito per l’Assessorato del Comune di Lecce la situazione insediativa dei Rom giunti nel capoluogo salentino. All’epoca dei fatti l’intervistata lavorava all’Ufficio minori e famiglia del Comune: attualmente è responsabile dell’Ufficio Immigrazione della Provincia di Lecce. 4 La presentazione del caso di Lecce è una rielaborazione della Sezione 3.3, a cura di Roberto De Angelis e Marco Brazzoduro, disponibile in IREF 2010b. 5 Una vita che, peraltro, la maggior parte dei Rom conduceva prima di giungere nel nostro paese: alloggiando da molti anni in appartamenti e lavorando in modo regolare, soprattutto nel campo del commercio. 3
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L’aspirazione di vivere come e con gli altri si interrompe bruscamente con il destarsi dell’attenzione della popolazione locale verso quei luoghi dimenticati. Lo sguardo si ferma sulla miseria di una vita consumata ai margini della società, alimentando nella popolazione locale inquietudini e stereotipi resistenti all’incedere del tempo, al punto di sollecitare gli amministratori ad adottare soluzioni drastiche dettate dall’urgenza di porre sotto controllo un’umanità straniera e avulsa dal contesto cittadino. Poi li hanno portati in queste casette diroccate […] Case popolari da cui erano andati via gli italiani, casette piccole; però, ci furono degli esposti alla procura della Repubblica e si stabilisce che devono andar via da lì per forza. Con i carabinieri, i vigili urbani la mattina vanno lì e i Rom non ci sono più. Li hanno portati tutti all’ostello della gioventù a S. Cataldo (principale marina del comune di Lecce, N.d.R.). Questa fu una cosa fortissima. [Rosalba Bove D’Agata, responsabile Ufficio Immigrazione Provincia di Lecce].
Gli insediamenti vengono così sgomberati, avviando un processo di presa in carico del “problema Rom” da parte delle autorità locali. I Rom così irrompono nelle cronache locali con lo stesso fragore mediatico delle notizie che annunciano l’imminente arrivo di una calamità naturale. Gli zingari diventano una “questione”, in primis di ordine pubblico. L’iter adottato nella gestione del problema segue uno spartito che non si discosta molto da città a città, a dispetto del colore politico della giunta in carica: occorre trovare una soluzione che non provochi apprensioni e sollevazioni fra la popolazione locale. A sollecitare gli interventi da parte delle istituzioni locali sono ragioni tese al controllo di gruppi considerati potenzialmente destabilizzanti dell’ordine sociale. Spesso, infatti, l’individuazione di un’area urbana in cui collocare le famiglie rom genera malumori e tensioni fra gli abitanti che abitano nei pressi del posto in cui sorgerà il “campo”, adducendo sia motivi di ordine pubblico, sia di carattere economico6. 6
In alcuni casi le tensioni si fanno talmente insostenibili da dar luogo a sollevazioni di popolo al grido “Fuori gli zingari dal nostro quartiere”. Con questo slogan il 2 settembre del 2003 una parte degli abitanti del quartiere di San Bernardino a Verona ha manifestato il proprio disappunto per la presenza nel loro quartiere di un gruppo di famiglie rom che avevano trovato riparo in un asilo nido disabitato da anni (http://italy.indymedia.org/news/2003/09/365311.php).
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A San Cataldo cominciano a nascere tutti i circoli anti Rom, associazioni anti Rom. A San Cataldo, la zona costiera si muove: “non vogliamo i Rom, ci stanno distruggendo, vanno sulle spiagge a chiedere l’elemosina, i bambini nudi”. Era vero però. Non volevano i Rom a S. Cataldo, si muove tutta la litoranea contro i Rom […] e li mandano a Solicara, un camping che sta a Torre Chianca [Rosalba Bove D’Agata, responsabile Ufficio Immigrazione Provincia di Lecce].
Si costituiscono dei tavoli interistituzionali per definire il da farsi; si avviano consultazioni fra i vari responsabili in cui i Rom sono lasciati fuori, in attesa del responso; si individuano delle strutture e degli spazi pubblici inutilizzati dove poter ospitare i nuovi arrivati; in alcuni casi le soluzioni abitative prospettate non si discostano molto da quelle escogitate dagli stessi Rom ai tempi del loro periodo di “invisibilità”. Aspetto, quest’ultimo, che tradisce una propensione, da parte degli amministratori locali, ad assecondare innanzitutto le aspettative manifestate dalla popolazione locale7. In altri termini, le risposte che vengono escogitate sono indirizzate a scongiurare l’esplodere di possibili conflitti e contestazioni da parte dei cittadini, inviando messaggi rassicuranti alla popolazione allarmata dalla presenza di vicini “sporchi” e “pericolosi”. Messaggi rassicuranti che di fatto si inseriscono all’interno di una logica tesa alla “rimozione del problema”, confinando i Rom in strutture nascoste alla vista dell’opinione pubblica: campi-sosta lontani dal centro abitato, protetti da una rete di recinzione.
7 A tal proposito è istruttivo un passaggio di Sigona sul rapporto tra consenso politico e bisogno di sicurezza dei cittadini: “La presenza dei Rom in Italia è ormai un dato di fatto che spinge anche le amministrazioni meno sensibili ai problemi delle categorie socialmente deboli ad intervenire, quanto meno per rassicurare i propri cittadini. Città incapaci di accogliere si barricano a difesa dei propri microsistemi (…) Il bisogno di sicurezza, sia esso originato da una minaccia reale, presunta o indotta, è sin dall’origine dello Stato moderno tra i bisogni fondanti su cui il costituendo governo legittima la propria esistenza (…) Il “problema zingari” rientra pienamente all’interno di queste dinamiche, ora additato dalle opposizioni come esempio dell’incapacità del governo di garantire la sicurezza dei “cittadini per bene”; ora capro espiatorio, valvola di sfogo dell’insicurezza diffusa, campione umano su cui sperimentare nuove forme di controllo per la maggioranza” [Sigona 2002: 42].
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Il risultato di tale politica si concretizza nel trasferimento della comunità, alle prime luci dell’alba e sotto pesante scorta delle forze dell’ordine, in un campo sosta lontano dal centro abitato, situato in un ex campeggio in disuso [Solicara – N.d.R.]. Il luogo si rivelerà sin da subito un ghetto malsano, assolutamente inadeguato per ampiezza e carente di servizi essenziali (pavimentazione, w.c., acqua, luce elettrica, vie d’accesso e trasporti). L’arrivo della comunità nel nuovo sito sarà accolto da blocchi stradali e veementi proteste da parte dei residenti che, preoccupati dalla presenza dei nuovi vicini, ne invocano l’allontanamento [De Luca, Panareo e Sacco 2007: 119].
La ricerca di un posto “sicuro” in cui sistemare i Rom procede per tentativi ed errori, e termina allorquando si individua un terreno – fuori città, isolato e non d’interesse edilizio – dove far sorgere il campo sosta. La “bontà” della scelta è per certi versi testimoniata dall’attenuarsi dei rumors anti-rom che avevano accompagnato l’uscita dalla città delle famiglie rom. Cade la [giunta di – N.d.R.] sinistra a Lecce, e il commissario prefettizio decide di dare un taglio a tutto e di spostare i Rom dal campo Solicara al famoso campo Panareo, con l’aiuto delle assistenti sociali che se ne prendono di tutti i colori. Bruciano tutte le vecchie roulotte tra il dolore immane dei Rom perché avevano comprato tante roulotte nuove… C’è stato addirittura un intervento che ha fatto sì che la masseria Panareo venisse sequestrata alla ASL che ne era proprietaria e venisse affidata al Comune tutta questa grande zona. Il Comune stabilisce che quella zona sarà un campo-sosta che non è detto che debba essere per i Rom, ma anche per le roulotte dei vacanzieri, tanto che si fa uno statuto, io ce l’ho lo statuto di allora: nel campo ci deve essere sempre un vigile urbano, un dirigente del Comune, due impiegati, un educatore, un gabbiotto. Non c’è stato mai nessuno […] Questa è stata l’evoluzione… [Rosalba Bove D’Agata, responsabile Ufficio Immigrazione Provincia di Lecce].
Così si torna alla normalità: i Rom sono lontani, vivono fuori dalla città, stanno nel campo-sosta, in località “Masseria Panareo”.
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4.2.1 Attorno al campo: società civile organizzata e solidarietà Il campo-sosta Panareo sorge su un fazzoletto di terra che costeggia la strada statale Lecce-Campi Salentina. Si tratta di un terreno strappato alla coltivazione degli ulivi, disseminati tutti intorno al campo. Il primo centro abitato dista quattro chilometri (il comune di Novoli), mentre per arrivare a Lecce bisogna percorrere sette chilometri. Nel campo-sosta vivono 224 persone, in maggioranza provenienti dal Montenegro – molte famiglie sono originarie della città di Podgorica. I minori sono 89, di cui 72 nati in Puglia; in generale, considerando anche i maggiorenni, quasi la metà dei Rom autorizzati a sostare nel campo Panareo è nata nel nostro Paese8. L’ubicazione del campo in una zona isolata, se da un lato contribuisce a rafforzare meccanismi di segregazione sociale e il dilagare del pregiudizio razziale, non facilitando le relazioni e la conoscenza reciproca tra i Rom e il resto della popolazione, dall’altro ha paradossalmente creato le condizioni per lo sviluppo di una serie di progettualità, portate avanti dagli enti locali e dalle associazioni del terzo settore, finalizzate alla progressiva inclusione dei cittadini di Panareo nel tessuto sociale salentino9. In particolare, il raggiungimento di una “tranquilla” condizione di stanzialità ha reso possibile il consolidarsi della rete di associazioni e di persone che fin dall’inizio hanno sostenuto e difeso il diritto dei Rom ad esistere. Da questo punto di vista, un ruolo di rilievo lo ha avuto il Comitato di difesa per i diritti degli immigrati10 (abbreviato in “Comitato mi8 Questo fatto, analogo a tante altre situazioni presenti in Italia, può darci la dimensione dell’urgenza di una legislazione che sia rispondente a questa realtà. Eppure le comunità rom sono costrette ad una vera e propria emergenza per ottenere il permesso di soggiorno, non si parla neanche lontanamente di cittadinanza. Molti di questi minori hanno ricevuto ormai dei nomi italiani come Anna, Matteo, Leonardo, Valentino, Rosi, Alessio, Simone, Valentina, Edoardo [IREF 2010b: 43]. 9 Per una trattazione più estesa sugli interventi e i progetti realizzati, si rimanda al paragrafo 4.2.2. 10 Negli ultimi anni il Comitato ha attivato una mailing-list, “Rom, amici miei”, in cui è possibile scaricare il modulo di adesione alla rete anti-razzista. Nella pagina di benvenuto c’è scritto: “Il Comitato è una iniziativa di solidarietà che nasce dall’unione tra importanti Associazioni di volontariato e singole persone che, senza distinzioni di etnia, ceto, appartenenza politica e religiosa, età, sesso, scelgono coraggiosamente, con i mezzi a propria disposizione (e senza percepire un centesimo!), di impegnarsi per dare voce a tutti coloro a cui la voce è stata tolta dalla guerra, dalla povertà, dalla persecuzione e che, provenienti da ogni parte del mondo, ora sono costretti ad una vita di ingiustizia e di indifferenza proprio qui, in
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granti”), che ha seguito fin dai primi anni Novanta i vari spostamenti dei Rom che oggi vivono al campo Panareo11. Fin dalla sua costituzione il Comitato migranti ha rappresentato un luogo d’incontro aperto alle diverse realtà associative che operano sul territorio per il riconoscimento dei diritti degli immigrati, stimolando processi di autorganizzazione dei gruppi etnici presenti nel Salento, anche tramite la creazione di associazioni di immigrati, e la realizzazione di iniziative in favore delle popolazioni immigrate, caratterizzate da un’ampia ed eterogenea partecipazione di soggetti, sia istituzionali che del terzo settore. L’azione del Comitato migranti ha portato alla nascita, nel 1998, dell’Osservatorio Provinciale per l’Immigrazione (OPI) di Lecce, coordinato da Luigi Perrone che fu, insieme ad altre persone provenienti dal mondo accademico, uno dei promotori dello stesso Comitato migranti. In concomitanza con l’avvio delle attività dell’OPI12, sempre nel 1998, fu inaugurato il centro interculturale Migrantes, coordinato da padre Ampelio Cavitano. La nascita del centro Migrantes rispondeva all’esigenza di consolidare le esperienze di tutte quelle realtà associative che gravitavano intorno all’Ufficio diocesano. Fin dalla sua costituzione il Centro Migrantes si è posto, nel panorama associativo salentino, come elemento di raccordo fra le diverse organizzazioni di volontariato presenti sul territorio. La nascita del centro Migrantes ha consentito di elaborare programmi d’intervento in rete e di sistema, più efficaci nel rispondere ad una domanda di servizi per gli immigrati che nel corso degli anni Novanta è andata via via aumentando. All’associazione interculturale aderirono organizzazioni non profit quali l’Associazione Salva, che dal 1992 fornisce assistenza medicofarmaceutica a cittadini indigenti; l’onlus Avvocato di Strada, la quale offre consulenza gratuita a persone senza fissa dimora; il Centro Scalabriniano e l’Associazione Popoli e Culture13. Salento che è terra di PACE, che è terra di TUTTI!” [http://groups.google.it/group/ rom-amici-miei?hl=it&lnk=]. 11 Per una ricostruzione sui motivi che portarono alla nascita del Comitato si rimanda alla prima parte dell’intervista video ad Antonio Ciniero, ricercatore dell’Osservatorio Provinciale sull’Immigrazione della Provincia di Lecce, consultabile all’indirizzo internet: http://fromtorompanareo.wordpresse.com/network. 12 Tra le prime azioni di ricerca l’OPI ha realizzato un censimento delle persone che si stabilirono nel campo Panareo. 13 L’Associazione si è costituita nel 2004 e si propone di favorire la solidarietà tra i popoli, in particolare con quelli più poveri, attraverso la conoscenza della loro cultura, la condivisione dei loro progetti per un futuro migliore e la promozione di azioni sociali. In particolare, l’Associazione Popoli e Culture ha realizzato diversi
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Insomma nel 1998, quando le prime famiglie di Rom montenegrini furono trasferite al campo-sosta Panareo, erano attive da circa un decennio diverse realtà sia laiche che d’ispirazione religiosa che, con obiettivi diversi e differenti modalità di lavoro, hanno fatto fronte comune in difesa e per la promozione del diritto ad esistere di persone che non avevano, e tuttora non hanno, cittadinanza nel nostro Paese. Un fronte associativo così compatto, tanto da strutturarsi, nel 2000, in un coordinamento di Associazioni14 denominato Lecce Accoglie.
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4.2.2 Sulla strada, al di là del recinto È su questo terreno associativo, altamente interconnesso, che si innesta il percorso d’inclusione sociale che faticosamente si sta portando avanti al campo Panareo. Un percorso che, dal lato delle istituzioni locali, ha avuto in Rosalba Bove D’Agata uno snodo fondamentale. La sua è una storia personale e professionale contrassegnata da profonda umanità e forte senso civico, portandola in alcuni casi ad andare oltre le sue responsabilità lavorative. Lei è stata vicina alle famiglie montenegrine, che oggi vivono al campo Panareo, fin dai tempi del loro arrivo a Lecce. Il suo impegno sociale in favore dei Rom, e per gli immigrati in generale, si è indirizzato negli anni al riconoscimento e alla difesa dei loro diritti. L’ottenimento del permesso di soggiorno è stata la prima tappa obbligata di un percorso che mira a far uscire gli abitanti del campo Panareo da una condizione di vera e propria segregazione socio-abitativa. L’acquisizione del permesso di soggiorno per i Rom di Panareo è stata possibile grazie all’ottenimento di due requisiti essenziali: la possibilità di indicare un domicilio certo e il fatto di svolgere un’attività lavorativa. In quest’ultimo caso, occorre sottolineare che la maggior parte dei Rom è in possesso di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Si tratta di occupazioni soprattutto nel campo della floricultura, vendendo piante nei mercati dei comuni limitrofi, e del trasporto per conto terzi di autovetture dal Montenegro alla Germania (attività svolte attraverso l’apertura di partite iva presso la Camera di progetti di cooperazione internazionale in Ecuador, Brasile e Colombia. http://nuke. popolieculture.org/Home/tabid/466/Default.aspx. 14 Fanno parte del coordinamento: la Comunità Emmanuel, l’Associazione Guy Gi, il Comitato per la difesa dei diritti degli immigrati, il Consiglio italiano per i rifugiati e l’Ufficio diocesano Migrantes.
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Commercio di Lecce). La possibilità di svolgere un lavoro autonomo è passata per la frequentazione di corsi di formazione organizzati dalla Regione rivolti agli immigrati: Ho sentito che c’erano dei corsi di formazione per immigrati e allora ho detto a queste persone che organizzavano i corsi “I Rom vanno bene lo stesso?” “Sì, basta che ce li mandi”. Tutti i Rom di Lecce hanno fatto i corsi di formazione. Addirittura corsi di alta specializzazione… La legge italiana cosa vuole per rinnovare il permesso di soggiorno? Quali sono i requisiti? Identificazione della persona attraverso il passaporto, fonti lecite di sostentamento (traduciamo lavoro) residenza (traduciamo casa). Se questi non hanno il documento vediamo come fare per farglielo avere. Se non hanno lavoro mi devi aiutare tu commercialista. Se non hanno la casa chiediamo al Comune che gli diano la residenza nel campo. Li ho messi in contatto con un vivaio di floricoltura, hanno la partita iva, sono iscritti alla Camera di Commercio [Rosalba Bove D’Agata, responsabile Ufficio Immigrazione Provincia di Lecce].
Tramite delle piccole forzature amministrative si è superato un problema che sembrava irrisolvibile. Anche la collaborazione di funzionari e professionisti è stata fondamentale, confermando i margini di discrezionalità che i dirigenti pubblici hanno nella risoluzione positiva delle questioni riguardanti l’iter amministrativo per l’ottenimento del permesso di soggiorno15. Se già prima dell’arrivo al campo Panareo (1998) si era avviato un percorso per il riconoscimento del permesso di soggiorno, per quanto riguarda la casa, la situazione abitativa delle famiglie rom, all’indomani dell’apertura del campo Panareo, restava alquanto precaria con la presenza di abitazioni provvisorie: La situazione inizia a migliorare a partire dal biennio 2005-2006: un periodo questo che, come avvenne nel 1998 per le associazioni, segna un punto di svolta nella gestione dei rapporti tra gli attori pubblici e le associazioni del privato sociale che operano all’interno del campo Panareo. Nel 2005, Rosy D’Agata lascia gli uffici del Comune per realizzare il progetto “Servizi Immigrazione Salento16”, promosso dalla Provincia di Lecce. Il progetto prevede la costituzione di uno 15 Sull’uso del potere discrezionale dei funzionari nella pubblica amministrazione, si veda il contributo di Micheal Lipsky (1980). 16 Cfr. http://www.sportelloimmigrazione.net/blog/.
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sportello immigrazione in cui vengono erogati un ventaglio di servizi allo scopo di sostenere l’integrazione degli immigrati nel territorio. Inoltre, lo sportello immigrazione mira a valorizzare, attraverso un lavoro di rete, le risorse presenti nella provincia salentina, facilitando i collegamenti tra i diversi attori locali. Ho lavorato nel Comune ma sempre nel settore interculturale, nell’Ufficio famiglia, Tribunale dei Minori eccetera. Nel 2004 alla provincia vince Giovanni Pellegrino [candidato del centro-sinistra alla presidenza della Provincia di Lecce – N.d.R.], mi presento e ho detto: “secondo me questa provincia non fa un cavolo di niente per gli immigrati, né per gli italiani che hanno contatti con loro. Io ho pensato a un progetto. Pellegrino mi squadra e mi fa: “ma lei non è la Rosy D’agata che sta sempre con gli immigrati nelle Giravolte (quartiere nel centro storico di Lecce ad alta concentrazione di immigrati, N.d.R.)? Allora signora mi scriva due parole su quello che vorrebbe realizzare!” e io ho scritto un progetto che si chiama “Servizi immigrazione Salento” [Rosalba Bove D’Agata, responsabile Ufficio Immigrazione Provincia di Lecce].
L’anno successivo viene costituita l’Istituzione servizi sociali: un organismo strumentale del Comune di Lecce per le gestione dei servizi sociali, dotato di autonomia gestionale, diretto da Antonio Carpentieri il quale, come ha avuto modo di precisare nel corso dell’intervista, si è reso da subito artefice di una riorganizzazione delle risorse umane del Comune: Si è proceduto immediatamente a una riallocazione del personale distribuendolo secondo le varie esigenze, rilevate da un monitoraggio preventivo, del territorio. Appena arrivato ho iniziato a costituire un gruppo di lavoro e a interfacciare tutti gli altri uffici per cercare di capire la situazione reale, vuoi perché questa è un’impresa e non solo un ente locale, ma come un ente privato, naturalmente, dovevo cercare di razionalizzare e l’organico e la spesa e il servizio cercando di renderlo confacente alle esigenze dell’utenza e del territorio. Da una prima indagine è emerso che i vari uffici comunali lavoravano ognuno per sé e comunque in emergenza tanto da non produrre effetti immediati e un ritorno immediato; e nello stesso tempo uno spreco enorme di denaro [Antonio Carpentieri, Direttore Istituzione Servizi Sociali Comune di Lecce]. 113
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Nel giro di pochi mesi, la riorganizzazione dei servizi voluta da Carpentieri porta a miglioramenti sostanziali nella gestione della moltitudine di problemi legati alla vita di tutti i giorni all’interno di un campososta. Da questo punto di vista, Katia Lotteria17 mette in luce proprio il cambiamento in positivo dei rapporti fra l’ente locale e le associazioni che operano nel campo, soprattutto per quanto riguarda questioni attinenti all’istruzione e alla tutela dei minori presenti nel campo: In questo momento c’è una maggiore collaborazione col Comune, una maggiore attenzione al campo rom tanto che alcune unità che lavorano al Comune sono state destinate esclusivamente alla gestione del campo, e questo ha permesso un maggiore ordine rispetto alla questione. C’è una équipe comunale che è formata da un’assistente sociale e una pedagogista. Poi da pochi anni è stato assegnato l’incarico a una persona di occuparsi di questo, che è Carpentieri, e quindi ha messo su questa équipe. La pedagogista fa un lavoro splendido dal punto di vista scolastico, dove i bambini hanno un sacco di problemi [Katia Lotteria, Comitato di Difesa dei Diritti degli Immigrati].
L’ampia autonomia gestionale dell’Istituzione servizi sociali ha consentito la realizzazione di una serie di interventi volti al miglioramento delle condizioni abitative dei Rom di Panareo. L’Istituzione servizi sociali, nella figura del Direttore, è responsabile, fra le altre cose, del campo Panareo. In base al regolamento del campo-sosta, il direttore presiede il Comitato Interistituzionale a cui partecipano i dirigenti che a vario titolo sono implicati nella gestione del campo (servizi sociali, educazione e formazione, lavori pubblici, etc.) e un membro della comunità rom. La scelta del rappresentante della comunità rom è avvenuta attraverso una votazione a scrutinio segreto che ha visto la partecipazione di tutte le famiglie che vivono al Panareo. Il Comitato Interistituzionale decide sugli aspetti riguardanti l’organizzazione e la gestione dell’area di sosta e sulle questioni di carattere socio-assistenziale. In particolare, l’Istituzione servizi sociali ha gestito, insieme agli assessorati competenti, il piano di intervento realizzato dal Comune di Lecce che ha previsto una serie di opere di urbanizzazione primaria, tra cui un impianto di fognatura e la realiz17 Fa parte del Comitato di Difesa dei Diritti degli Immigrati. Segue la realtà dei Rom di Lecce da molti anni. Ha fatto parte dell’Osservatorio Provinciale sull’Immigrazione. Ha collaborato alla ricerca sul campo.
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zazione di 26 alloggi da destinare ad altrettante famiglie presenti nel campo18. L’intero processo di assegnazione delle case è stato definito e condotto dalla stessa comunità rom, individuando criteri che hanno tenuto in debita considerazione sia lo stato di bisogno abitativo delle diverse famiglie del campo sia la configurazione clanica delle stesse: Per i prefabbricati è stato molto interessante come è avvenuta l’assegnazione, nel senso che se la sono autogestita, cioè i portavoce hanno concordato con i capifamiglia dei criteri, le famiglie più povere e numerose, se li sono assegnati da soli. Anche perché a differenza degli altri anni che il referente aveva maggiore potere e facilità di relazionarsi con le istituzioni, questa volta invece ci sono state elezioni democratiche con tanto di urna per queste due persone, un uomo e una donna. È anche questo un elemento innovativo e significativo, la scelta di una donna come vicerappresentante. Un altro criterio era quello di almeno una famiglia per gruppo clanico presente al campo. [Katia Lotteria, Comitato di Difesa dei Diritti degli Immigrati].
Gli interventi promossi e realizzati dalle istituzioni locali, con il concorso delle associazioni di volontariato, hanno consentito di migliorare le condizioni di vita dei Rom. A tal proposito, sul fronte socio-sanitario va menzionata l’attività dei medici dell’Associazione Salva che nel loro poliambulatorio fanno fronte alle patologie diffuse fra gli abitanti del campo-sosta Panareo: La maggior parte dei Rom che vengono qui vengono per i bambini, per faringiti, febbre, perché non sono coperti bene e nei mesi invernali si vedono bronchitelle, faringiti. Gli adulti invece vengono 18 La realizzazione degli alloggi è stata attuata in due fasi successive: il primo lotto di 16 casette in muratura è stato approvato con Delibera n. 797 del 2005; la costruzione del secondo lotto per complessivi 10 container è stato approvato con la Delibera n. 488 del 2006. Gli alloggi sono stati finanziati sia attraverso fondi Comunitari sia con risorse del Comune e della Provincia di Lecce. Il 14 marzo del 2007 è stata consegnata l’ultima delle 26 case previste dal piano. In quell’occasione l’Assessore agli immigrati Francesca Mariano sottolineò l’impegno dell’amministrazione di proseguire sulla strada dell’integrazione della popolazione rom: “Fornire una risposta di questo tipo all’emergenza abitativa della popolazione rom del campo-sosta significa anche continuare la nostra opera di integrazione di questa fascia della popolazione, che, vorrei ricordare ancora una volta, è una comunità ormai stanziale, verso la quale da sempre questa amministrazione comunale riserva grande attenzione” [Comunicato stampa del 14/03/2007].
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per malattie micotiche dovute alla scarsa igiene, poi vengono qui ed è facile trasmettere queste patologie. Poi ci sono anche le solite patologie per gli adulti, malattie gastrointestinali e nevralgiche. Ma i bambini hanno malattie dell’apparato respiratorio alto. [Fortunato De Fortunatis, medico Caritas “Migrantes”, dell’Associazione cattolica “Salva”].
Va altresì menzionato il lavoro del Comitato di Difesa dei Diritti degli Immigrati che, mosso dall’obiettivo di chiudere definitivamente l’esperienza del campo, con l’inserimento dei cittadini rom nella società salentina, sta concentrando i propri sforzi su un duplice livello d’intervento. Un primo livello riguarda la dimensione più propriamente operativa connessa alla progettazione e all’erogazione di servizi per il miglioramento delle condizioni di vita e sociali delle persone che vivono nel campo. Nella sostanza, sono stati realizzati interventi che hanno interessato i diversi ambiti della vita: dalla scolarizzazione dei bambini, con l’attivazione all’interno del campo di un servizio di doposcuola; all’acquisizione da parte degli adulti delle competenze linguistiche di base, realizzando corsi di alfabetizzazione per le donne; dall’attivazione di un programma di sensibilizzazione sui temi della prevenzione sanitaria; alla realizzazione di un percorso d’inserimento lavorativo in grado di stimolare presso la comunità rom forme di auto-imprenditorialità, con la costituzione di cooperative di lavoro. Un secondo livello, concerne una serie di iniziative e proposte, messe in campo dal Comitato migranti, che si collocano su un piano d’interlocuzione politico-istituzionale. Si tratta di progetti che mirano a superare la condizione di isolamento ambientale e sociale determinata dal vivere confinati all’interno di un campo-sosta. Entrando nello specifico, il Comitato migranti intende portare ai tavoli inter-istituzionali, che stanno lavorando all’aggiornamento dei piani di zona, la proposta che i 97 comuni della Provincia di Lecce si facciano carico, “adottino”, almeno una famiglia rom, accompagnandoli nella ricerca di una sistemazione e di un lavoro. Una proposta questa supportata da due considerazioni di fondo: innanzitutto, dalla consapevolezza che la “questione Rom” risulta più agevole da gestire, dando dei risultati più efficaci, quando l’ordine di grandezza del “problema” è limitato a poche famiglie bisognose di aiuto. Ciò, peraltro, sollecita la seconda considerazione, ovverosia che la capacità delle istituzioni locali di dare effettivo corso ad un processo finalizzato all’integrazione socia116
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le di queste persone passa da una maggiore disponibilità degli stessi enti locali a condividere il problema rom, andando oltre le logiche securitarie, che di fatto rappresentano il sostrato ideologico di cui si alimenta e che giustifica il perpetuarsi del separatismo socio-abitativo di cui sono vittime le comunità rom. In conclusione, al campo Panareo vivono, da ormai una dozzina di anni, 224 persone. Da quando sono sbarcati nel Salento, nel 1987, pochi sono riusciti a liberarsi dalla condizione di precarietà abitativa, economica e sociale. Da oltre vent’anni questi nuovi residenti – molti di loro sono nati nel Salento – vivono in uno stato di sospensione giuridica ed esistenziale: confinati all’interno di un recinto, lontani dalla città. Di recente, le istituzioni locali hanno intrapreso un reale percorso d’integrazione delle famiglie del “Panareo”, consapevoli della necessità di rintracciare una soluzione il più possibile condivisa che porti allo smantellamento del campo: da due anni abbiamo un obiettivo […] noi siamo orientati verso la chiusura (Antonio Carpenteri). La chiusura del campo resta ancora un obiettivo, che difficilmente sarà raggiunto in tempi brevi. Molte sono le resistenze e i pregiudizi da scardinare, eppure basterebbe entrare nel campo, guardare negli occhi questa “minaccia” per rendersi conto che in realtà si tratta di gente a cui viene negato il diritto ad aspirare ad una vita normale, come qualsiasi altro cittadino. Questa testimonianza aiuta a comprendere il livello di aspirazione ad una vita “normale” che nutrono i Rom del campo Panareo: Non si accorgono che sono una Jugoslava! In Germania la terza media ce l’ho tutta, poi ho fatto un corso di formazione professionale da elettricista. Però mi sono divertita un casino, era bellissimo! 100 ore se non sbaglio. Stavo benissimo. Erano ragazzi senegalesi, albanesi, serbi, rom… Ti permetteva di conoscere tanta gente, senza giudicare. Mi piacerebbe fare anche un piccolo ristoro, anche se una piccola cazzata, anche se solo un tavolino! Però voglio averlo col sudore mio, voglio affrontare, col mio rischio […] io vendo le piante e mi sto divertendo un casino! I paesi sono i miei preferiti, ma vorrei poter fare qualcosa di più nella vita, avere un obiettivo! [Saljaj Mervetva, rappresentante della comunità rom del “Panareo”].
Lavorare per un obiettivo: uscire prima di tutto dall’idea del campo, da una condizione di segregazione che non fa che alimentare intolleranza e devianza, rafforzando l’ideologia del separatismo socio-abi117
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tativo. A Lecce si prova ad andare oltre il campo, rompendo i recinti con altre reti, quelle della solidarietà e della conoscenza reciproca.
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4.3 Foggia. Buone pratiche sanitarie e problemi d’integrazione La presenza dei Rom nel foggiano è radicata da decenni, e numerosa è la presenza di Rom italiani nel capoluogo e nella provincia. Da un primo sondaggio effettuato nel settembre del 2009, vi sono oltre 50 famiglie nel capoluogo e quasi 70 famiglie tra San Severo, Lucera, Torre Maggiore, Apricena e Carapelle19. Sono in gran parte Rom pugliesi, anche se negli ultimi quarant’anni vi è stato un progressivo ingresso di Rom abruzzo-molisani nell’Alto foggiano. Sono italiani a tutti gli effetti, i loro cognomi sono italiani, il livello di scolarizzazione è relativamente elevato. Nondimeno, la loro condizione sociale è ancora inferiore al resto della popolazione locale, e l’emergenza occupazionale è più grave che in altri contesti del Meridione. Per quanto attiene al tema dell’accesso ai servizi sanitari, esso riguarda più propriamente i Rom giunti da oltremare. Sono infatti i Rom immigrati ad aver vissuto negli anni condizioni sanitarie precarie e difficoltà di accesso alle cure mediche. Negli ultimi vent’anni, contestualmente alla crescita della loro presenza nel foggiano, si è assistito ad una presa in carico nell’assistenza medica da parte dell’associazionismo e, successivamente, del sistema sanitario nazionale. Tutto ciò è stato facilitato da un quadro giuridico via via più favorevole, a partire dalla legge Martelli che rendeva possibile le cure sanitarie di emergenza per gli immigrati, fino a giungere alla legge Turco-Napolitano che permetteva loro l’accesso anche ad alcune cure continuative. Certamente, la questione sanitaria dei Rom a Foggia è ancora lungi dall’essere risolta e, accanto a buoni risultati sul fronte dell’educazione sanitaria e della normale profilassi medica delle famiglie rom, permangono condizioni ambientali e abitative fortemente inadeguate, tali da rendere ancora oggi necessari interventi di emergenza sanitaria. Buone pratiche sanitarie convivono con “cattive” pratiche abitative, creando un cortocircuito di difficile risoluzione. È 19 Si ringrazia l’Opera Nomadi per i dati e le informazioni fornite riguardo agli stanziamenti; si ringrazia inoltre la direzione della Caritas diocesana di Foggia e don Tonino Intiso (ex-direttore dell’Opera e della Caritas) per le considerazioni di carattere storico; si ringrazia infine il dr. Scopelliti per tutti gli approfondimenti di carattere sanitario presenti nel paragrafo.
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la conferma che la questione sanitaria è superabile solamente quando la questione abitativa e quella lavorativa saranno messe al centro dei progetti di intervento per l’inclusione sociale dei Rom.
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4.3.1 L’indifferenza: l’afflusso dei Rom macedoni a Foggia e la stabilizzazione di una comunità. Anni: ’80-’90 Come detto, la crescita della presenza rom nel foggiano ha stimolato una crescita nei servizi di medicina per gli immigrati. Negli anni Ottanta, la presenza dei Rom era modesta: vivevano sulla strada per san Severo due comunità di Rom jugoslavi, in maggioranza macedoni (Manjup khorakhanè, musulmani), oltre a Rom Crna Gora, bosniaci. All’inizio degli anni Novanta, un primo censimento effettuato dalla Caritas diocesana rilevava come la presenza dei Rom stranieri fosse salita a circa 70 famiglie, in cui 133 adulti vivevano assieme a quasi 200 bambini. Ai Macedoni e ai Bosniaci, si erano aggiunti anche i Croati provenienti dalle zone di guerra. Poveri di mezzi e spesso privi di documenti, vivevano in particolare negli insediamenti abusivi di via Trinitapoli e di viale Fortore, oltre che in insediamenti spontanei nei dintorni di Foggia. Si trattava evidentemente di sistemazioni d’emergenza e le condizioni abitative e sanitarie non potevano garantire una qualità di vita dignitosa. A causa della crescita dell’immigrazione nel territorio – non solo rom, ma di tutte le etnie – l’AMCI (Associazione Medici Cattolici Italiani), sezione di Foggia, si organizzò per garantire anche l’assistenza agli immigrati che non avevano la possibilità di accedere regolarmente ai servizi sanitari pubblici. In gran parte, si trattava di immigrati che lavoravano stagionalmente nei fondi agricoli, spesso con rapporti di lavoro irregolari e senza permesso di soggiorno. Nel 1992 furono quindi aperti quattro ambulatori rurali, a Segezia, Incoronata, Arpinova e Foggia. Del resto, tali ambulatori funzionavano durante le stagioni in cui gli immigrati lavoravano, ma non nei restanti mesi dell’anno. Pertanto, nel 1993 l’AMCI decise con la Caritas di portare l’assistenza sanitaria dentro la città di Foggia, in un ambulatorio aperto tutto l’anno. Gli immigrati che abitavano in città potevano in tal modo accedere alle prime cure sanitarie, con le risorse che l’organizzazione di volontariato riusciva a mettere a disposizione. Nel frattempo, le 70 famiglie rom, che nei primi anni Novanta si stabilirono nella città di Foggia, erano diventate 185 – circa settecen119
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to Rom, in maggioranza Manjup khorakhanè. Le cattive condizioni igieniche e sanitarie degli insediamenti spontanei indussero il Comune di Foggia – sollecitato dalle organizzazioni caritative locali – ad attrezzare un campo in via San Severo. I bagni erano in comune, ma molte famiglie iniziarono ad abitare in roulotte, prefabbricati e in taluni casi in baracche. Vivevano vendendo fiori o manufatti di carta presso i semafori, e nei casi peggiori, di elemosina. Tuttavia, molti di loro nei Paesi d’origine erano artigiani, muratori, autisti, musici e ballerini e cercarono per quanto possibile di dare continuità alla loro attività professionale anche nel Paese di accoglienza. Con i Rom del campo attrezzato provvisti di regolare permesso di soggiorno il Comune stipulò un accordo corrispondendo ad alcuni di essi un salario sociale, dietro prestazione di servizi di manutenzione pubblica del Comune – esercitati in prevalenza all’interno del campo stesso. Si andavano così a saldare alcune condizioni che avrebbero permesso un relativo miglioramento delle loro condizioni di vita: il passaggio da sistemazioni d’emergenza ad un campo attrezzato, o quantomeno monitorato dalle istituzioni; la possibilità di accedere ad alcuni servizi sanitari, dai quali erano in precedenza esclusi, direttamente in città; una prima forma di sostentamento economico che permetteva ad alcuni Rom di lavorare e fare fronte a talune spese domestiche. L’anno 1995 fu un anno importante anche dal punto di vista legislativo. Fu promulgata infatti la cosiddetta legge Martelli, che introdusse in Italia la possibilità di assistenza medica pubblica agli irregolari, almeno per le prestazioni giudicate urgenti: interventi di pronto soccorso, assistenza materno-infantile e profilassi internazionale delle malattie infettive. In effetti, fu il primo di una serie di atti legislativi finalizzati a realizzare nel tempo una progressiva copertura sanitaria per gli immigrati, qualunque fosse la loro condizione amministrativa e il loro status giuridico. Il favor legis dettato dal nuovo quadro giuridico, permise all’Opera Nomadi di costituire un osservatorio epidemiologico all’interno del campo di via San Severo. A tal fine, venne avviata una collaborazione con la Clinica di malattie infettive dell’ospedale di Foggia, che supportò materialmente il progetto. Si trattava di effettuare periodicamente uno screening sanitario per monitorare la condizione di salute delle popolazioni insediate e di intervenire qualora se ne fosse riscontrata la necessità. I prelievi e le vaccinazioni vennero effettuati direttamente nel campo, con l’ausilio di un’ambulanza attrezzata 120
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messa a disposizione dalla Croce Rossa Italiana. Il contatto frequente con gli animali e le precarie condizioni igieniche (molte famiglie risiedevano in roulotte) favorivano l’insorgere di casi di tubercolosi e di parassitosi intestinale. Per esigenze di medicina generale, i Rom continuavano a rivolgersi all’ambulatorio Caritas; invece per le cure specialistiche potevano iniziare a usufruire dei servizi sanitari dell’ospedale di Foggia. Parallelamente all’assistenza sanitaria, le associazioni di volontariato portarono avanti un dialogo con le istituzioni, al fine di estendere ai Rom e agli altri immigrati non regolari l’intera copertura sanitaria destinata ai cittadini italiani, e non solo le prestazioni autorizzate dalla legge Martelli. Alla fine degli anni Novanta vi fu un ulteriore innalzamento del livello di complessità nella gestione dell’immigrazione locale. Giunse nella provincia foggiana un nuovo flusso di rumeni e bulgari, alcuni dei quali di origine rom. Si trattava in prevalenza di persone che nei Paesi d’origine lavoravano come muratori o braccianti agricoli, che cercarono e talvolta trovarono occupazione nel settore edile e agricolo; settori con una buona capacità di assorbimento occupazionale nel foggiano, sebbene in condizioni lavorative precarie. Le donne rom, anche se in forma marginale, iniziarono a trovare lavoro come badanti, colf e in alcuni casi come braccianti agricole. In tutti i casi, l’accesso all’abitazione e al lavoro venne realizzato a costo di una forte mimetizzazione etnica dei Rom bulgari e rumeni, celando la propria origine. Tra l’altro, a differenza delle comunità già presenti sul territorio, le modalità di insediamento dei nuovi gruppi furono di tipo dispersivo e abitativo. Dispersivo, perché non si concentrarono in insediamenti spontanei di tipo comunitario, ma si stabilirono in tutta la provincia; abitativo, perché cercarono progressivamente di prendere in affitto case dagli italiani o, nelle ipotesi peggiori, di occupare case rurali abbandonate. Solo una piccola parte di essi si insediò in campi spontanei20. Per contro, molti Rom bulgari e rumeni si sono dovuti muovere nella provincia, spinti da esigenze di lavoro stagionale e 20 È importante considerare le modalità di insediamento, perché si è visto come esse influenzino le condizioni sanitarie dei Rom immigrati nelle possibilità di accesso e nella tipologia di trattamento sanitario. Vivere in abitazione offre una condizione sanitaria differente dal vivere all’addiaccio o in casali abbandonati. Sebbene precari nel lavoro, vivere in appartamento ha permesso agli immigrati balcanici di mantenere uno standard di vita al di sopra della soglia di sopravvivenza, al riparo dai rischi sanitari derivanti da una sistemazione di fortuna.
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talvolta dall’irregolarità della condizione giuridica. Hanno dimorato in abitazioni di fortuna, casali di campagna, a contatto con animali randagi, e il rischio di malattie infettive è aumentato. Tale mobilità, più che vero e proprio nomadismo, dato che nel Paese d’origine erano stanziali, ha reso particolarmente problematico il monitoraggio delle loro condizioni di salute, e a distanza di anni non sembra essersi trovata una soluzione definitiva. Certamente, l’evoluzione della legislazione in materia di permesso di soggiorno e l’ingresso della Romania nella UE può aver creato le condizioni di emersione dalla irregolarità per quei rumeni che si sono trovati nel frattempo a vivere in condizioni di nomadismo o di semi-nomadismo, ma la difficoltà di individuazione e di interazione con essi non ha permesso di avviare un percorso di inclusione continuo nel tempo. 4.3.2 Cambiamenti dall’alto: la progressiva estensione dei servizi in favore dei gruppi rom Sempre in tema di evoluzione legislativa, nel 1998, la legge Turco-Napolitano ampliò ulteriormente le possibilità di cura per gli immigrati irregolari, introducendo l’assistenza per cure continuative ed essenziali attraverso lo stato di straniero temporaneamente presente21 (STP). Approfittando dell’ampliamento del quadro giuridico, nel 2000 l’ambulatorio della Caritas fece pertanto una convenzione con la ASL di Foggia ed ebbe la possibilità di utilizzare il ricettario regionale, di richiedere accertamenti e di prescrivere farmaci; farmaci sino ad allora offerti agli immigrati grazie a campioni gratuiti concessi da medici privati e dal servizio di un banco farmaci. Si apriva dunque una nuova stagione, in cui avrebbero assunto un ruolo crescente gli ambulatori pubblici. In effetti, la svolta dell’intero processo di inclusione sanitaria dei Rom vi fu nel 2002, quando il loro accesso ai servizi sanitari fu rafforzato con l’apertura di un poliambulatorio interetnico di medici21 Si trattò di un passo importante in termini di accesso ai servizi sanitari degli immigrati, perché si superava la logica dell’intervento emergenziale e si introduceva la logica della normale profilassi sanitaria. Non solo: lo stato di STP permetteva di superare, seppure parzialmente, l’impasse giuridico a cui si era giunti, giacché estendeva le cure sanitarie anche agli immigrati arrivati in Italia in modo irregolare. I rumeni irregolari e i bosniaci privi di passaporto a causa della guerra avevano ora una possibilità di curarsi in modo continuativo.
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na generale, ostetricia e ginecologia, ortopedia e malattie infettive, all’interno dell’ospedale di Foggia; servizio peraltro rafforzato dalla presenza di una mediatrice culturale. L’apertura del poliambulatorio rispondeva all’esigenza di soddisfare i molteplici bisogni sanitari che erano emersi con più evidenza nel corso del tempo. Nata in ambito volontaristico e strutturata in una forma embrionale dall’associazionismo di settore, l’assistenza sanitaria vedeva per la prima volta una presa in carico diretta degli immigrati e dei Rom da parte dell’istituzione pubblica. Si trattava di un passo importante, perché avrebbe condotto a quella continuità di intervento sanitario che in passato era venuto a mancare e avrebbe successivamente portato ad alcuni benefici di lungo periodo. Infatti, nonostante le difficili condizioni ambientali, la nascita del poliambulatorio pubblico e l’accesso ai servizi sanitari per alcune cure continuative permise l’instaurarsi di un rapporto tra i medici italiani e la popolazione rom che andava oltre la logica dell’emergenza sanitaria. Il consolidarsi di un rapporto stabile è testimoniato da alcuni numeri forniti dal poliambulatorio. Dalle 146 prestazioni ambulatoriali del 2003 si è passati alle 490 prestazioni del 2006, per giungere alle 613 visite del 2009, senza distinzioni etniche, ma con una prevalenza di macedoni (leggi: via di San Severo) su rumeni, polacchi e bulgari. Un dato evidentemente significativo, alla luce della consistenza numerica relativamente bassa dei Rom sul totale della popolazione foggiana. In particolare, l’esperienza del poliambulatorio è stata positiva, per le giovani donne rom, le più ricettive all’apprendimento delle nozioni fondamentali di educazione sanitaria. Il punto di partenza non era certo favorevole. Affrontavano gravidanze e parti con elementi di particolare criticità, legati al disagio, alla marginalità sociale, alla denutrizione e alle non rare infezioni dell’apparato genitourinario. Una scarsa educazione sanitaria durante la gravidanza e uno scarso accesso ai servizi facevano il resto. Ciò si traduceva in un maggior tasso di mortalità neonatale, di parti pre-termine e di bambini con basso peso alla nascita rispetto alla popolazione locale. Dall’apertura del poliambulatorio permane tuttora il maggior tasso di parti pre-termine e la bassa media di peso alla nascita, perché le condizioni di vita e di nutrizione rimangono comunque inferiori alla media della popolazione foggiana. Sono condizioni esterne all’assistenza sanitaria ospedaliera, su cui il personale specializzato può fare ben poco. 123
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Nondimeno, l’apertura del poliambulatorio ha migliorato soprattutto la componente di educazione sanitaria dei Rom, come mostrano i dati in crescita dell’attività ambulatoriale. È pur vero che nell’accesso ai servizi sanitari si è dovuto tenere conto anche di problemi specifici, causati da un mix di condizioni ambientali e di fattori culturali. In generale, le donne rom hanno difficoltà ad accettare i trattamenti sanitari invasivi, come ovuli e lavande; gli ovuli, perché preferiscono le terapie orali (anche se poi, quando si fa loro presente l’efficacia e il minor nocumento della terapia locale, iniziano ad accettare quest’ultima); le lavande perché, ad esempio, fino alla fine del 2008 i bagni pubblici dei campi rom rendevano le terapie ginecologiche particolarmente difficoltose. Come si vedrà nel paragrafo successivo, con il passaggio dalle roulotte ai prefabbricati con il bagno interno, l’effettuazione delle terapie locali è stata resa più agevole. Se c’è una morale da trarre in situazioni del genere è che, nell’ottica di una migliore fruizione dei servizi, occorre tenere conto delle condizioni abitative in cui versano i pazienti che si presentano negli ambulatori – abitazioni in affitto piuttosto che campo attrezzato piuttosto che casolare abbandonato; condizioni che dipendono a loro volta dalla disponibilità di reddito della famiglia e dall’accesso al mondo del lavoro. Come detto, in relazione ai settori di intervento l’assistenza principale ha riguardato l’accompagnamento durante la gravidanza, non solo il parto. Assieme alle gravidanze, vengono seguite in questi anni le interruzioni volontarie di gravidanza (il tasso di abortività è triplo rispetto al resto della popolazione locale) e recentemente si sono iniziati ad effettuare gli screening del paptest, per la diagnosi precoce dei tumori del collo dell’utero. Sul fronte della prevenzione, oltre alle vaccinazioni previste dalla legge, a partire dal 2009 sono state effettuate anche le vaccinazioni antinfluenzali ai Rom macedoni (grazie alla presenza concentrata nei campi, uno dei pochi vantaggi che tale soluzione offre) e si è iniziato un percorso con i Rom rumeni, sebbene quest’ultimi siano più difficili da rintracciare, data la loro tendenza a disperdersi nella provincia foggiana. Infine, accanto al lavoro del pronto soccorso, all’assistenza ginecologica e agli screening legati alle malattie infettive, si effettua oramai da anni il lavoro di ortopedia. Esso riguarda soprattutto gli infortuni sul lavoro e gli incidenti automobilistici. I problemi di carattere ortopedico spesso presentano una terapia continuativa da seguire nei mesi successivi alla dimissione e questo ha posto dei problemi fino al 1998. Infatti, le lungo-degenze e le riabilitazioni ortopediche 124
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non rientravano nelle terapie per gli immigrati irregolari, per cui si giungeva al paradosso che veniva prestata la terapia d’urgenza ma non la riabilitazione. Con l’introduzione della possibilità di effettuare le cure continuative per gli immigrati, hanno iniziato ad essere assegnate anche la fisioterapia riabilitativa e le protesi ortopediche, allargando perciò ulteriormente il ventaglio dell’assistenza sanitaria nei confronti della popolazione rom.
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4.3.3 Nel campo di Borgo Arpinova la città è distante Tornando alla storia dei Rom a Foggia, il campo autorizzato di via San Severo mostrava nuovamente alcuni problemi. Le scarse risorse economiche dedicate ad esso e i rapporti con la cittadinanza non improntati alla pacifica convivenza (episodi di microcriminalità nei dintorni del campo; il diffondersi di un atteggiamento ostile nei confronti dei Rom della città) fecero sì che le condizioni del campo andavano progressivamente peggiorando, così come le condizioni di inserimento lavorativo. Nel 2005, il campo subì un incendio e i suoi abitanti si trovarono in condizioni ancor più precarie. Il Comune di Foggia stanziò allora oltre un milione di euro per sistemare i Rom in un altro campo autorizzato, ad Arpinova, a tredici chilometri di distanza dal primo, destinato originariamente non ai Rom ma ai rifugiati e alle altre popolazioni extracomunitarie. Centosedici famiglie rom khorakhanè si trovarono a convivere con diverse decine di extracomunitari già insediati nel campo di Arpinova. Ad una rilevazione effettuata l’anno successivo, risultavano regolarmente insediate 103 famiglie rom, composte da 218 adulti e 185 minori, di cui 80 scolarizzati. Di essi, 256 erano nati in Macedonia, 147 in Italia, di cui 145 a Foggia. La stanzialità quasi decennale dei Macedoni stava oramai portando al consolidamento della seconda generazione di Rom, per la quasi totalità nata in Italia, e in parte scolarizzata, grazie al lavoro svolto nel precedente campo rom di Foggia. Gli anni successivi sono stati importanti dal punto di vista dell’educazione sanitaria dei Rom di Arpinova, anche se le condizioni ambientali hanno riproposto nuovamente il tema dell’emergenza sanitaria. Negli ultimi tre anni, il campo ha presentato casi di infezione sia di uomini che di animali, tanto che dal 2007 l’Opera Nomadi in collaborazione con la Clinica di malattie infettive dell’Azienda Sanitaria Mista Ospedaliero-Universitaria “Ospedali Riuniti” di Foggia e 125
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la Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Foggia ha intrapreso un’azione di screening con esami del sangue e delle feci, sugli uomini e sugli animali, per le zoonosi – malattie che si trasmettono dagli animali all’uomo. La situazione riscontrata ha sollecitato la richiesta di interventi di ristrutturazione dei servizi igienici, delle fogne e delle roulotte fatiscenti, interventi che purtroppo sono stati effettuati solamente dopo l’incendio del 19 dicembre 2008, dove quindici tra roulotte e case prefabbricate hanno preso fuoco e ha perso la vita un bambino di tre anni. Il campo è stato posto sotto sequestro dalla Procura della Repubblica di Foggia, che lo ha dissequestrato soltanto nel 2009, dando via libera al Comune per la ricostruzione. Stando ai dati forniti dall’Opera Nomadi del 2008 e del 2009, delle oltre 100 famiglie del 2005 sono rimasti 60 nuclei familiari che abitano in 40 nuovi prefabbricati e in 20 baracche. Certamente non si fuoriesce dalla logica del campo, ma i prefabbricati hanno il bagno, garantiscono le utenze essenziali e quantomeno le condizioni igienico-ambientali sono migliorate. 4.3.4 L’incerto intreccio tra crescita della popolazione rom e sviluppo dei servizi socio-sanitari dedicati Al termine di questo breve excursus sull’assistenza sanitaria dei Rom nel foggiano, è utile concludere con qualche breve riflessione. Volendo fare un bilancio, si può affermare che l’assistenza sanitaria sia oggi maggiormente articolata di quanto lo fosse solo pochi anni fa. Alcuni anni or sono, la medicina garantiva l’assistenza agli immigrati irregolari solamente in situazioni d’emergenza. In aggiunta, le condizioni dei campi rendevano obbligatori gli screening sanitari per evitare l’insorgere dei focolai infettivi e procedere in tal modo a forme di vaccinazione obbligatoria. Tuttavia, si restava nell’alveo delle ragioni di sicurezza pubblica. L’evoluzione del quadro giuridico e una rinnovata coscienza del personale sanitario ha trasformato un rapporto “di pronto soccorso” in un rapporto di educazione sanitaria, dove a beneficiarne sono state soprattutto le donne. In particolare, l’esperienza di questi ultimi anni, infatti, è stata positiva per le giovani donne rom, che hanno dato prova di una buona reattività ad assumere un nuovo stile di vita in materia sanitaria. In generale, i Rom stanziatisi nel foggiano nel decennio scorso sono oramai in gran parte residenti, e la seconda generazione è nata 126
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in Italia. Molti di essi hanno cittadinanza italiana, e si avvalgono delle strutture ospedaliere e ambulatoriali a disposizione della popolazione italiana. A onor del vero, c’è da dire che l’ambulatorio dedicato ai Rom è ancora attivo, perché gli irregolari ci sono sempre. Nondimeno, solo la metà degli utenti del poliambulatorio sono macedoni, e il dato è in diminuzione, a testimonianza di come il passaggio nel circuito dell’integrazione si stia realizzando, sebbene con tempi lenti e con molta fatica. Permane uno stato di emergenza per quanto riguarda una parte dei Rom bulgari e dei rumeni, emergenza che solamente un approccio sistematico al problema può risolvere. In altre parole, le esperienze positive di integrazione dei Rom nelle realtà territoriali locali passano per quello che don Tonino Intiso (ex-direttore di Caritas Foggia e di Opera Nomadi) chiama un progetto completo. I quattro snodi fondamentali per l’integrazione dei Rom riguardano la scuola, il lavoro, la sanità e la casa, e non si può sciogliere un nodo senza sciogliere contemporaneamente gli altri. Un esempio, in tal senso, è chiarificatore, e riguarda la scolarizzazione. Il Comune di Foggia e le associazioni coinvolte sono riusciti a portare a scuola, in questi anni, centoventi bambini rom. Perché ciò avvenga è necessario che abbiano fatto le vaccinazioni previste dalla legge, e che le condizioni igienico-sanitarie dei bambini rom non costituiscano un rischio per gli altri bambini. Di conseguenza, per mantenere un buon livello d’igiene occorre che i campi in cui vivono abbiano a loro volta condizioni igienico-sanitarie idonee, con fognature e bagni funzionanti, accesso all’acqua, alla corrente, ecc; altrimenti, i bambini tornano a scuola in condizioni igieniche non idonee, e si ripresenta dunque la questione del loro accesso a scuola. Quindi, se l’ambiente dove abitano è mantenuto in condizioni buone, anche la scolarizzazione dei bambini è possibile; viceversa, se ciò non è possibile, si presentano difficoltà oggettive: in sostanza, l’una garanzia è legata alle altre. Pertanto, parlare di progetto completo significa prendere coscienza della natura sistemica del problema, individuare i fattori che lo compongono e cercare di risolvere la situazione nella sua globalità. Ciò significa tirare in ballo il ruolo strategico dell’interlocutore pubblico. Una visione sistemica è pertinenza del mondo politico. Sotto questo profilo, non si può parlare di integrazione dei Rom nei territori, se non c’è una presa in carico seria e costante da parte delle amministrazioni locali. Quale che sia il modello di intervento pubblico adottato – intervento diretto dell’ente locale o ruolo di regia – di127
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venta fondamentale il coordinamento di tutti i soggetti coinvolti e il reperimento dei fondi necessari a finanziare le attività. Tra le parole di alcuni dirigenti di terzo settore intervistati, affiora la difficoltà a coordinare enti pubblici, enti del privato sociale e talvolta enti privati che sono coinvolti nei servizi ai Rom. Si ha come la sensazione che taluni soggetti vogliano in qualche modo valorizzare il proprio contributo senza tener conto del contributo fornito dagli altri, per una necessità primaria di visibilità. Ciò rende ancora più evidente nel contesto foggiano l’esigenza di un ruolo forte del soggetto pubblico, quanto meno nell’indicare una prospettiva unitaria ai diversi interventi da effettuare e nell’attribuire deleghe chiare e circoscritte ai vari soggetti interessati. Ora, l’atteggiamento della pubblica amministrazione a riguardo è condizionato dalla disponibilità di fondi utilizzabili per progetti specifici, come i campi rom o i servizi per la scolarizzazione. A tal proposito, il Comune di Foggia non sempre si è trovato nelle condizioni migliori per dare seguito a progetti di intervento, e ciò ha comportato l’adozione di una strategia, per così dire, a singhiozzo: così, nei primi anni Novanta la giunta comunale è riuscita a trovare le risorse per realizzare il campo attrezzato di via San Severo – e strappare così le oltre cento famiglie rom insediatesi in città da una condizione di forte indigenza; nondimeno, la mancanza di risorse per gli anni successivi ha comportato il progressivo degrado del campo e la fuoriuscita dallo stesso di numerose famiglie, sostituite progressivamente da famiglie provenienti dalle zone di guerra, senza quella continuità di intervento che avrebbe quantomeno favorito un migliore inserimento della seconda generazione; così, il progressivo degrado del campo di via San Severo è culminato con l’incendio del campo stesso, nel 2005, e il trasferimento delle famiglie al campo di Borgo Arpinova, vanificando in tal modo quanto costruito con fatica nel precedente campo rom – in termini di rapporto con le scuole, con la popolazione locale, con i servizi. Vi è da dire che sotto il profilo sanitario c’è stata una continuità d’intervento, già a partire dai primi anni Novanta, grazie alla presenza di personale medico e paramedico che ha dato vita a strutture via via più attrezzate di medicina per gli immigrati. Oggi si è giunti ad una presa in carico diretta dell’interlocutore pubblico e a forme mature di collaborazione tra associazioni e enti sanitari pubblici, come nel caso degli screening sanitari effettuati da medici-volontari di associazioni, in collaborazione con la clinica delle malattie infettive dell’ospedale di Foggia. Tutto ciò è stato possibile perché le risorse destinate 128
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all’assistenza sanitaria lo hanno permesso. È chiaro che la continuità di intervento in materia socio-assistenziale è garantita solo dalla continuità di fondi disponibili, fondi che non sempre sono rintracciabili, per varie ragioni: il progressivo aumento della spesa pubblica; una maggiore razionalizzazione dei trasferimenti dallo Stato agli enti locali; probabilmente, un’agenda politica locale che privilegia altri aspetti che non il tema dell’immigrazione. Fatto sta che il successo di iniziative di accesso ai servizi e ai diritti di cittadinanza delle minoranze etniche dipende dalla continuità degli interventi posti in essere, all’interno di una visione di sistema del problema e di un coordinamento dei soggetti interessati, punti che possono essere realizzati attraverso una continuità di risorse finanziarie dedicate. In definitiva, se non si guarda al problema rom in una prospettiva sistemica, sviluppando interventi integrati e in rete, si corre il rischio di produrre azioni che non incidono in modo rilevante sul processo di inclusione dei Rom e, in generale, di coloro che vivono una condizione di forte esclusione sociale.
4.4 Conclusioni Panareo e Arpinova sintetizzano un’idea di gestione della “questione Rom” che ha visto proliferare in tutto il territorio nazionale campi-sosta, più o meno autorizzati. In questi luoghi quotidianamente si intrecciano vissuti di degrado ed emarginazione sociale con storie in cui la dignità e la speranza per un futuro migliore contrastano con la miseria, in primis relazionale, che determina il vivere segregati. Al Panareo, così come ad Arpinova, si trova tutto questo: un impasto di dolore e speranza che alimenta le giornate di gran parte delle famiglie. Nei campi-sosta la città è lontana: i bambini escono dal campo per andare a scuola; i loro genitori, invece, per assicurarsi un minimo di sostentamento economico. Le relazioni tra noi e loro sono ridotte al minimo, il campo è funzionale ad assicurare una “pacifica” convivenza tra Rom e gagè, relegando i primi in una condizione di isolamento, spaziale e sociale, e tranquillizzando i secondi sul rischio che questa presenza minacciosa possa essere un fattore di destabilizzazione dell’ordine pubblico. Del resto Arpinova e Panareo non sono che gli ultimi approdi, in ordine di tempo, di un viaggio fatto di trasferimenti di intere famiglie 129
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da un luogo all’altro della città, spesso accolte da un clima di ostilità che di fatto prepara il campo per nuove partenze in altri luoghi. Così, da un trasferimento all’altro, i Rom si allontanano dalla città, confinati in strutture che di fatto restringono le opportunità di entrare in relazione con loro. Allora, in una situazione del genere, a fare da spartiacque tra la disperazione di un presente consumato ai margini della città e la speranza di un futuro più dignitoso è la presenza o meno di una rete di sostegno, composta da organizzazioni del privato sociale, da istituzioni locali e da semplici cittadini. Dei ponti che non siano solo funzionali a dare risposte agli innumerevoli problemi legati all’organizzazione e alla gestione della vita all’interno dei campi-sosta, ma anzi che consentano di creare opportunità di scambio e momenti di conoscenza reciproca, presupposto indispensabile affinché la “questione Rom”, da problema di ordine pubblico possa diventare un’opportunità d’inclusione sociale e sviluppo democratico di un intero Paese. Ciò non significa soltanto enunciare la necessità di incentivare forme di maggiore collaborazione tra i diversi attori locali, ma sostenerle realmente con una chiara volontà di tutti a non chiudersi dentro atteggiamenti e visioni autoreferenziali. Nel caso di Lecce affiora con evidenza questa volontà, con la costituzione di forme organizzative quali il Comitato di Difesa per i Diritti degli Immigrati e il Centro Migrantes, che pur nella loro diversità, si muovono entrambi sul terreno della tutela e della promozione dei diritti degli immigrati. La configurazione reticolare di queste associazioni rappresenta, oltre ad un mezzo per rispondere in modo più efficiente ad una domanda che, soprattutto agli inizi degli anni Novanta, è andata via via crescendo, anche una cassa di risonanza, per rendere ancor più incisiva l’opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e delle istituzioni sui temi connessi al rispetto dei diritti degli immigrati. Nondimeno, queste reti associative hanno rappresentato anche dei luoghi di confronto “informale” tra operatori degli enti locali e i volontari delle associazioni: dei laboratori in cui sperimentare, senza vincoli d’ufficio, la personale spinta altruistica; luoghi di discussione dove mettere in circolo informazioni, idee e proposte. Spazi di condivisione che hanno preparato il campo allo sviluppo, all’interno delle istituzioni locali, di una cultura del servizio fondata sulla partecipazione e la collaborazione tra i diversi attori locali. Sotto questo profilo è possibile leggere il percorso personale e professionale intrapreso 130
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dalla responsabile dell’Ufficio immigrazione della Provincia di Lecce. La sua personale storia di vicinanza e sostegno alle famiglie rom filtra nel modo di concepire e svolgere il suo lavoro presso gli uffici del Comune di Lecce prima e, successivamente, presso le strutture della Provincia salentina. Il progetto “Servizi Immigrazione Salento” sintetizza un’idea d’intervento che fa dell’organizzazione a rete degli attori coinvolti l’elemento centrale. In tal senso, Rosalba D’Agata è stata per certi versi una testa ponte all’interno delle istituzioni locali, introducendo un modo d’intendere il servizio, maturato in spazi di discussione e di confronto che hanno visto la partecipazione libera di molte persone, provenienti da realtà talvolta assai distanti fra loro, accomunate dalla necessità di sviluppare interventi sul territorio di promozione sociale delle famiglie rom. Un contrassegno fondamentale di questo processo è stata la programmazione e il coordinamento delle attività in vista di un obiettivo comune, rappresentato dalla chiusura del campo di Panareo. Insomma un’idea per certi versi nuova rispetto al consueto modo di approcciare alla questione Rom, fuoriuscendo dalle secche di un assistenzialismo senza prospettive. Un approccio quest’ultimo che è presente nel caso di Foggia in cui si evidenzia l’assenza di prospettiva negli interventi realizzati nel campo di Arpinova. A differenza di Lecce, nel campo di Arpinova l’associazionismo non è riuscito a dar vita a forme di collaborazioni miste (operatori pubblici e del privato sociale) in grado sia di elaborare strategie di fuoriuscita da una situazione di costante emergenza, sia di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di ricercare delle soluzioni alla questione Rom che esulino da una concezione avvitata sul binomio ordine pubblico e consenso politico. Eppure anche a Foggia, come a Lecce, le motivazioni di chi si spende quotidianamente per il miglioramento delle condizioni di vita dei Rom sono altrettanto elevate. Tuttavia, nel capoluogo foggiano queste spinte personali non hanno trovato un adeguato terreno – istituzionale e sociale – di condivisione e partecipazione, rimanendo imbrigliate all’interno di prassi focalizzate sulla contingenza del momento e sulla delega istituzionale. In conclusione dunque le esperienze di Lecce e di Foggia, lette in modo trasversale, portano alla luce l’importanza di creare sul territorio spazi che incentivino il confronto tra i diversi attori coinvolti dal problema Rom, sviluppando presso gli operatori e i tecnici, in generale, un’idea del servizio che sappia guardare avanti: ad un domani in cui il campo-sosta cesserà di esistere. 131
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Capitolo 5
Calabria: luci e ombre nelle politiche pubbliche in favore dei gruppi Rom
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Angelo Palazzolo, Gianfranco Zucca1
5.1 In fondo alla penisola: la geografia degli insediamenti rom in Calabria Come in altre regioni italiane la presenza dei Rom in Calabria è antica. Pur mancando ricostruzioni circostanziate, la storia sociale delle popolazioni romaní nella regione è il risultato di una serie di mutamenti sociali caratterizzati da una mobilità quasi mai liberamente scelta [Piasere, Pontrandolfo 2002]. Gli insediamenti rom presenti oggi sono l’effetto di molteplici cause: la mobilità economica che ha portato le comunità a stanziarsi laddove erano relativamente migliori le opportunità di sostentamento; la diaspora innescata dalle guerre balcaniche; i cambiamenti urbanistici che hanno trasformato aree di scarso interesse abitativo in luoghi di valore immobiliare; le politiche sociali che in modo a volte contraddittorio hanno tentato di coniugare sicurezza e diritti. Radicamento e circolazione in altri termini sono fenomeni ambigui [Pontrandolfo, Trevisan 2009]: come nei secoli passati, per i Rom il nomadismo non è un archetipo culturale, ma una forma di adattamento al contesto socio-economico nel quale si vive. In Calabria, la geografia romaní si esprime dunque sotto forma di una presenza stratificata, nel tempo e nello spazio: accanto a siAngelo Palazzolo ha redatto il paragrafo 5.2 e 5.5 mentre Gianfranco Zucca ha scritto i paragrafi 5.1, 5.3 e 5.6; il paragrafo 5.4 è una rielaborazione della sezione 3.3, a cura di Roberto De Angelis e Marco Brazzoduro, disponibile in IREF 2010b. 1
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tuazioni di lungo insediamento e penetrazione nel tessuto urbano, ci sono casi di recente consolidamento, per lo più caratterizzati dai ben conosciuti fenomeni di marginalizzazione spaziale. Stando ai dati raccolti con la mappatura multi-metodo (cfr. cap. 2), a primavera del 2010 gli insediamenti rom presenti in Calabria erano ventisei. Come richiamato in altre parti del volume, determinare la consistenza dei gruppi romaní è un’operazione che deve procedere per approssimazione. Soprattutto per quel che riguarda gli insediamenti più precari e provvisori, la mobilità (spesso imposta, qualche volta agita) delle famiglie e dei gruppi rom non permette di giungere a mappe definitive. In Calabria (vedi cartina 5, p. 221), gli insediamenti censiti risultano localizzati in diciotto comuni: Cosenza, Praia a Mare, Reggio Calabria, Cassano Ionio, Spezzano Albanese, Crotone, Lamezia Terme, Catanzaro, Riace, Laureana di Borrello, Rosarno, Gioia Tauro, Gioiosa Ionica, Locri, Siderno, Bovalino, Brancaleone, Melito di Porto Salvo. In queste aree vivono circa novemila persone. I rom autoctoni presenti nella regione sono invece più o meno 6.000, dislocati nelle diverse province. In particolare, negli ultimi anni si sono consolidate due comunità di Rom Shiftarija (circa 70 famiglie), provenienti dal Kosovo e dal Montenegro, nella Sibaritide, in case rurali, ed a Crotone, in casette mononucleari autocostruite. A Reggio Calabria, alcune decine di Rom Shiftarija vivono in case in affitto, collegati parentalmente agli omologhi gruppi siciliani. La presenza stagionale di un centinaio di famiglie di Sinti giostrai è di origine antica, mentre risulta meno significativa la presenza, perlopiù estiva, di alcune decine di famiglie di Rom jugoslavi a Gioia Tauro e circondario. Su tutto il territorio regionale è invece generalizzata la presenza di Rom romeni, molti dei quali ubicati in baraccopoli ed edifici fatiscenti. Campi in condizioni di estremo degrado sono inoltre presenti a Cosenza e Crotone, anche se la situazione più difficile appare essere quella della provincia reggina, con le casette precarie in muratura di Melito, Gioiosa, Brancaleone, Gioia Tauro e Bovalino. Nel cosentino e a Rosarno diverse famiglie Rom romene vivono in case in affitto2. Ad uno sguardo d’assieme la situazione calabrese appare alquanto frammentata: non sono presenti significative concentrazioni territoriali se non in corrispondenza dei capoluoghi, dove in alcuni casi si 2 Si ringraziano Massimo Converso e Giacomo Marino dell’Opera Nomadi per le informazioni sulle condizioni abitative dei Rom nelle diverse aree della Calabria.
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hanno due o tre insediamenti. Inoltre, il fatto che non ci siano campi nell’entroterra sembra essere legato alla geografia umana calabrese che vede i centri dell’interno tendenzialmente poco abitati, soprattutto nella stagione invernale. Al di là della conformazione geografica, occorre ricordare che la situazione attuale si è originata dalla giustapposizione tra comunità di antichissimo insediamento e gruppi neo-immigrati provenienti dall’Albania, dall’ex-Jugoslavia e dalla Romania. Nei secoli, la Calabria ha rappresentato il principale snodo della cosiddetta “diaspora albanese”. Il cosentino è una delle aree dove, a partire dalla seconda metà del ’4003, più forte è stato l’insediamento di comunità di origine albanese. Tra i diversi centri arberesh, Spezzano Albanese rappresenta un caso interessante poiché, accanto alla presenza secolare della comunità albanese, si attestano insediamenti rom risalenti al XVII secolo. In anni recenti in questa zona hanno cominciato a trasferirsi in modo più o meno stabile anche gruppi di Rom slavi. Al di là delle coincidenze storiche, le comunità di maggior rilievo si trovano nei capoluoghi di provincia dove, a partire dal secondo dopoguerra, i gruppi rom – anticamente impegnati in percorsi circolatori di tipo trans-regionale (lungo tutto l’arco jonio) al seguito dei lavori stagionali – tendono a sedentarizzarsi. Secondo l’antropologo calabrese Mauro Minervino [1995]: I rom calabresi da lungo tempo oramai non possono più essere considerati nomadi in senso stretto; rappresentano piuttosto una fascia di popolazione marginale con caratteri distintivi presente in ambiente urbano, formatasi nel secondo dopoguerra dopo un lungo processo di nomadismo ristretto sempre più limitato intorno ai centri locali e alle città capoluogo come Cosenza, Lamezia Terme-Nicastro, Catanzaro e Reggio Calabria. Città scelte dai Rom come nuove basi insediative della loro presenza dopo che la guerra e la crisi delle campagne con il conseguente esodo migratorio delle popolazioni rurali proprio verso i centri urbani maggiori, impedivano loro di 3 A seguito
dell’occupazione ottomana (seconda metà del 1400), avvenuta dopo una resistenza di 25 anni (guidata dall’eroe nazionale Giorgio Castriota “Skanderbeg”), centinaia e centinaia di albanesi lasciarono la patria per rifugiarsi nelle terre d’oltre Adriatico ed essere accolti dagli Aragonesi. Sulla presenza albanese nel Meridione cfr. Giura 1988 e 2008; di questi eventi riferisce anche Fernand Braudel [1953] nella sua ricostruzione delle civiltà del mediterraneo.
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svolgere pressoché definitivamente le tradizionali attività produttive come l’allevamento, il piccolo commercio ambulante e l’artigianato a supporto dell’economia rurale. Processi di mutamento che hanno giocoforza riconfigurato la loro presenza nel nuovo assetto sociale e insediativo tipico di una regione ad economia dipendente come la Calabria, amplificandone conseguentemente i caratteri di recessione sociale e di disagio sulla via di una difficile e caotica modernizzazione che ha respinto progressivamente i Rom calabresi al bordo più estremo della società locale.
I processi di inurbazione e le migrazioni interne che interessano la Calabria nel corso degli anni Sessanta hanno contribuito a modificare radicalmente la condizione dei rom calabresi. Venendo meno il circuito dell’economia stagionale agricola e dell’artigianato ambulante, la sedentarizzazione e la riconversione ad attività “urbane” hanno messo in moto un processo che con il tempo si è dimostrato sempre più problematico. Accanto a questi fenomeni, a partire dall’inizio degli anni Novanta, anche la Calabria ha iniziato ad essere meta dei flussi migratori originatisi con le ricorrenti crisi balcaniche. Crotone ha rappresentato una delle porte di ingresso in Italia, prima per i migranti in fuga dall’implosione del regime albanese; poi per i profughi e i rifugiati delle guerre jugoslave. L’arrivo di gruppi di Rom Khorakhané e Shiftarija (musulmani e provenienti per lo più da Kosovo e Macedonia), Cergarija (Serbi) e poi ancora dei gruppi di origine romena ha creato una situazione nella quale la Calabria è diventata uno dei tanti crocevia migratori: per alcuni è solo una tappa provvisoria, per altri un punto d’arrivo. C’è da ribadire che i flussi attivatisi negli anni Novanta hanno coinvolto popolazioni stabilmente sedentarie e che, prima della guerra, presentavano livelli di integrazione sociale relativamente elevati (per intendersi: casa, lavoro, scuola). Per questi gruppi, l’emigrazione ha rappresentato una marcata perdita di status: da una condizione di vita dignitosa, anche se non florida, sono stati sbalzati verso la più completa indigenza e costretti, quindi, a spostarsi all’estero, riscoprendo le rotte del nomadismo. Cosicché negli ultimi decenni in alcune città calabresi si sono andate formando delle sacche di marginalità sociale dalla composizione inedita: Rom italiani e Rom stranieri che, in alcuni casi, si sono trovati a dover convivere. Il risultato è che spesso questi due gruppi sociali sono in competizione per risorse come il controllo di pezzi di econo136
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mia informale o di aree di insediamento segregate. Un caso esemplare è la situazione che si è andata creando lungo il fiume Crati a Cosenza dove, sulle due sponde, si sono stratificati insediamenti spontanei, costruzioni in muratura, baracche e rifugi di fortuna che ospitano tanto gruppi storici di Rom cosentini (nelle case di muratura di via Popilia) quanto i nuovi arrivati (nelle baracche lungo il fiume). Questa concentrazione eterogenea non è responsabilità esclusiva delle comunità rom: a partire dagli anni Sessanta in quest’area si sono susseguiti una serie di progetti abitativi rivolti ai Rom italiani. Questi interventi, pur segnando un progresso relativo delle condizioni di vita, non hanno risolto la questione della qualità abitativa. La Calabria è, dunque, un punto d’osservazione particolarmente interessante della situazione dei Rom poiché sul suo territorio si sovrappongono gruppi con storie ed esperienze diverse: tale caratteristica permette di ragionare in termini comparativi e di evidenziare le differenze. Infine, un ulteriore motivo di interesse è dato dalle politiche pubbliche che nel corso degli anni sono state realizzate sul territorio regionale. Si è trattato di interventi nei quali sono stati sperimentati approcci e soluzioni inediti: i risultati, come si avrà modo di valutare, sono stati tuttavia altalenanti.
5.2 Oggi come ieri, la casa. I bisogni dei rom calabresi dopo cinquanta anni di politiche sociali Con il venir meno delle tradizionali forme di lavoro, la componente romaní stanziata in Calabria ha iniziato a stabilirsi nelle città maggiori, laddove era possibile inserirsi negli interstizi della nascente economia urbana. Parallelamente alla modernizzazione, la società calabrese ha iniziato a porsi la questione di come offrire ai gruppi rom delle occasioni di integrazione e di consolidamento della propria posizione sociale [Minervino 1995]. I primi interventi in questa direzione risalgono addirittura agli anni Sessanta, quando in alcune città capoluogo le amministrazioni dell’epoca decidono di intervenire sulla questione. A riguardo è interessante far riferimento al caso di Cosenza. Negli anni Quaranta i Rom cominciano a stabilirsi in città, in via Panebianco, dove vanno ad occupare delle baracche di legno dismesse dall’esercito. Dal momento che le scelte abitative vengono prese sempre in un’ottica comunitaria, il primo insediamento cosentino inizia ad allargarsi per l’arrivo dei parenti delle famiglie già insediatesi. 137
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Dalla ricostruzione di Franca De Bonis [1996], realizzata con archivi dell’epoca, si legge che il sindaco in carica nel 1945 chiese alla Prefettura un contributo di un milione di lire per la realizzazione dei servizi igienici in queste baracche. De Bonis, peraltro, precisa che nei documenti dell’epoca non si faceva distinzione tra zingari e non zingari, poiché queste persone vennere genericamente identificate con il termine “sinistrati”, famiglie rimaste senza alloggio. Negli anni Cinquanta, l’Ente Comunale Assistenza costruisce in via Gergeri, al di là del fiume Crati, delle casette monofamiliari in muratura per le famiglie bisognose. Nel frattempo, l’amministrazione decide di espropriare i terreni di via Panebianco e di trasferire i Rom a via Gergeri in baracche di legno senza servizi nei pressi delle nuove case popolari. Negli anni Sessanta si inizia la costruzione di nuove case popolari in Via Popilia: gli assegnatari (non Rom) delle case popolari di via Gergeri passano nelle nuove costruzioni, mentre i Rom si stabiliscono nelle casette lasciate libere da questi ultimi. Sempre in quegli anni, il Comune riconosce ufficialmente la presenza dei Rom concedendo loro la residenza. L’iscrizione in anagrafe permette ai Rom di partecipare ai bandi per l’assegnazione degli alloggi popolari, così agli inizi degli anni Settanta alcune famiglie residenti in via Gergeri si trasferiscono a via Popilia, mentre altre non risultate assegnatarie dell’alloggio decidono di occupare le case (in città questo episodio è noto come “la rivolta degli zingari”)4. Dopo questi avvicendamenti alcune famiglie decidono di costruire delle baracche in via Lungo Crati Palermo, vicino alle nuove case popolari. La storia dei Rom di Cosenza pone in evidenza almeno due questioni fondamentali per comprendere il nesso tra politiche pubbliche e integrazione sociale dei Rom. Prima che diventasse un campo minato, non vi erano dubbi che la questione abitativa fosse un punto dirimente: evitare il separatismo abitativo attraverso l’inserimento dei rom in progetti di edilizia popolare era la priorità delle amministrazioni locali cosentine. Nel primo dopoguerra sembrava essere già ampiamente diffusa la consapevolezza che la mobilità delle comunità rom non fosse un attributo culturale: venute meno (o ristrettesi) le forme di circolazione legate al commercio, le famiglie rom – come quelle degli altri “sinistrati” – avevano l’esigenza di abbandonare gli 4
Per altri dettagli su queste vicende si veda De Bonis [1996: 23-25] e IREF 2010b.
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insediamenti precari e di poter godere di abitazioni migliori. Quella che negli anni Cinquanta era un’acquisizione stabile è oggi il grande tabù delle politiche sociali. Dalla storia dei Rom cosentini si può trarre anche un secondo insegnamento: l’instabilità e la provvisorietà delle soluzioni. Sebbene le amministrazioni locali del secondo dopoguerra avessero le mani più libere sul fronte delle politiche abitative, i Rom sono sempre stati considerati un gruppo sociale che può essere spostato a piacimento. In poco meno di quindici anni, i Rom cosentini (alcune centinaia di famiglie) sono stati più volte dislocati, andando a rimpiazzare quelle famiglie in posizione superiore in una ipotetica gerarchia sociale dei bisogni. È singolare che questo trattamento differenziale coincida proprio con il riconoscimento dei Rom come minoranza (all’atto dell’iscrizione in anagrafe): nel momento in cui da famiglie in situazione di bisogno si passa ad essere “famiglie rom” le sistemazioni si fanno, se possibile, ancor più provvisorie. Queste vicende restituiscono le luci e le ombre di interventi pubblici per altri versi innovativi. Tuttavia occorre precisare che gli interventi summenzionati presero forma in un periodo storico nel quale l’edilizia pubblica era un pilastro del sistema di assistenza: quando negli anni Novanta, con il crollo dei regimi comunisti e le guerre balcaniche, si misero in moto ingenti flussi di profughi e rifugiati, la casa popolare si era già trasformata in una risorsa scarsa per la quale la competizione tra soggetti in stato di bisogno era molto forte. Senza voler necessariamente proporre una relazione diretta, occorre comunque notare che attualmente gli interventi sviluppati in favore dei Rom hanno cambiato approccio. I risultati della mappatura dei progetti attivi in Calabria5, evidenziano la presenza di iniziative di taglio settoriale, centrate soprattutto sull’accesso ai servizi (sanità e scuola) e rivolti ai soggetti più deboli dei gruppi rom (donne e bambini). In alternativa, un approccio diffuso è quello sviluppato all’interno di progetti che per comodità possono essere definiti facendo riferimento alla nozione di empowerment6: in questa macro-categoria rientrano sia interventi più tradizionali (formazione e avviamento al lavoro) sia azioni più complesse che prevedono il lavoro autonomo o in forma cooperativa. Significativa è infine la scelta fatta, di recente, 5
Per la metodologia usata nel corso della mappatura cfr. par. 2.2. L’empowerment è una categoria della psicologia di comunità usata in ambito di progettazione sociale per sviluppare interventi centrati sull’efficacia individuale. 6
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a Reggio Calabria dove il Comune ha deciso infatti di puntare su un progetto a carattere socio-abitativo7. Questi diversi orientamenti possono essere meglio apprezzati facendo riferimento a due tra i principali progetti realizzati negli ultimi anni sul territorio calabrese. Il progetto Assi – finanziato con fondi del Ministero dell’Interno – è stato finalizzato all’inclusione degli immigrati attraverso azioni di integrazione linguistica e culturale, di formazione professionale, di avviamento al lavoro e, infine, di sostegno socio-assistenziale. Si tratta di un progetto caratterizzato da un’ampia e diversificata partecipazione di attori pubblici e del privato sociale. Assi è un caratteristico esempio di progetto basato sul potenziamento delle capacità del singolo e della sua rete relazionale. Analogo al precedente, sia per il soggetto finanziatore (Ministero dell’Interno) sia per gli obiettivi che si pone è il progetto denominato la “Strada del lavoro” che vede il Comune di Reggio Calabria partner operativo nella realizzazione degli interventi8. Non sfugge la differenza che intercorre tra una logica operativa basata sul preliminare accesso al bene casa (nell’ipotesi che da questa normalizzazione discenda un’autonoma tensione verso l’integrazione) e una logica che invece pone la casa come un punto di arrivo, a seguito di una insistita azione di sostegno e motivazione. Al di là delle mutate condizioni del welfare italiano, è chiaro che si tratta di strategie di intervento molto distanti tra loro.
5.3 Da Cosenza a Reggio: passato, presente e (forse) futuro dei Rom in Calabria Scegliere Cosenza e Reggio Calabria per approfondire la situazione calabrese è un modo per fare i conti con la storia. In entrambe le città sono presenti folte comunità di Rom calabresi che ora si trovano a convivere con gruppi di recente immigrazione. Se sotto il profilo dell’ecologia delle relazioni etniche ciò sarebbe sufficiente a 7
Cfr. par. 5.5. Sempre in Calabria è attivo il progetto City to City, finanziato con fondi dell’Unione Europea e attuato tramite un partenariato composto tanto da enti locali e ASL quanto da attori del terzo settore. Il progetto ha come obiettivo l’integrazione linguistica degli immigrati quanto la realizzazione di strumenti di condivisione di esperienze positive di integrazione sociale. Gli ambiti territoriali interessati dal progetto sono le province di Vibo Valentia e Catanzaro. 8
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giustificare l’interesse per questi due casi, occorre aggiungere che l’attenzione per Cosenza e Reggio Calabria è pienamente giustificata anche in termini di articolazione e complessità delle politiche realizzate nelle due città. Pur trattandosi di situazioni molto diverse9, per diverse ragioni condividono alcuni tratti. Innanzitutto una presenza Rom stabile sulla quale si sono innestati nuovi flussi; in seconda battuta, in entrambe le città vi sono delle aree fortemente etnicizzate e riconosciute come veri e propri ghetti. Se poi si prendono in considerazione le progettualità messe in campo dalle istituzioni per far fronte alle esigenze dei gruppi rom si notano altre coincidenze. Sia che si tratti di veri e propri progetti che di pratiche di accoglienza, si è trattato di processi complessi, contraddittori, conflittuali, ma pur sempre multi-attore, basati sul coinvolgimento di diversi soggetti. In prima approssimazione tutto ciò dovrebbe suggerire che sul tema è pressoché impossibile intervenire senza un’ampia e trasparente convergenza di interessi ed energie. Il fatto che tali processi siano poi conflittuali e vadano avanti per tentativi ed errori è spesso legato alla complessità della situazione e alla coltre di pregiudizi e stereotipi (in particolare nel caso di Cosenza) che occorre diradare quando si decide di intervenire sul versante dell’inclusione sociale dei Rom.
5.4 Cosenza tra accoglienza e conflitto: la baraccopoli di Rom romeni lungo il fiume Crati A partire dal 2004 su un argine del fiume Crati si è sviluppato un nuovo insediamento, abitato da Rom romeni. Nella stessa zona, nei pressi della stazione ferroviaria di Cosenza, c’è anche un altro campo, sempre occupato da Rom di origine romena. L’area è tutt’altro che periferica e disabitata: vicino ai campi ci sono gli uffici di una banca, la sede della Provincia, la Motorizzazione civile e anche il quartiere di via Popilia, un’area popolare con un’alta densità abitativa che sorge a meno di un chilometro dal centro cittadino e dove tra alterne vicende, si è consolidata una baraccopoli di Rom italiani. I Rom che vivono vicino al fiume sono quasi tutti provenienti dalle
9 A Cosenza si prenderà in analisi un caso di gestione dell’emergenza; mentre a Reggio si esaminerà la questione dell’accesso ai servizi socio-sanitari, tenendo sullo sfondo i risultati di un progetto pluriennale.
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zone centro-settentrionali della Romania10. Nel complesso si tratta di circa novanta famiglie (per un totale di 287 persone). Si tratta di famiglie che hanno lasciato la Romania perché la situazione era diventata insostenibile: pur disponendo di un’abitazione e di un lavoro, erano ridotte alla fame. Questa testimonianza raccolta nel campo aiuta a comprendere la situazione: Che posso fare a Romania co’ famiglia di 5-6 persone? Non posso fare niente. Tutta terra ora privata. Io lavoravo la agricoltura, ora non posso fare niente! Altro lavoro niente o pochi pochini soldi che no puoi mangiare. Ogni bambino che a scola danno 10 euro al mese. Che puoi fare? Non poi comprare libri, penne, niente co’ 10 euro! Italia bono! Come posso trovare per fare vita a bambini? Tutto c’è a Romania si c’ha soldi. Si no soldi no c’è niente! Ospedale c’è si c’ha soldi. “Dottore mi’ padre sta male!”. E lui: “Dammi 200 euro!”. Allora in cinque minuti visita, fa pure operazione. Un poco devi dare anche a infermiere; anche no soldi, ma regalo sì!11.
Sul finire del 2007 queste famiglie sono state coinvolte in una drammatica e repentina evacuazione: a causa delle forti piogge autunnali, la baraccopoli era a rischio di inondazione. La ricostruzione di quanto avvenuto in quella situazione aiuta a comprendere le complesse implicazioni degli interventi a sostegno delle comunità rom. 5.4.1 Autunno 2007: a Cosenza è emergenza Rom I Rom romeni degli insediamenti sul fiume Crati avevano cercato l’“invisibilità” per non incappare in quanto successo ad altri connazionali. Erano quelli i giorni del controverso Decreto “espulsioni” emesso sull’onda dell’omicidio Reggiani a Roma.
I Rom dei due campi limitrofi provengono dai distretti di Bistrita-Nasaud e di Cluj-Napoca. Bistrita è la città più importante del Distretto con quasi 90.000 abitanti; Cluj, 320.000 abitanti, è una delle più importanti città della Romania dal punto di vista storico, economico e culturale. La provenienza da Cluj dimostra che anche le zone più dinamiche dal punto di vista economico non offrono alcuna opportunità per i Rom. 11 Il presente paragrafo è una rielaborazione della sezione 3.3, a cura di Roberto De Angelis e Marco Brazzoduro, disponibile in IREF 2010b. 10
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Tutto comincia nel settembre 2007, quando in una scuola elementare frequentata da una ventina di minori rom si verifica una piccola sollevazione da parte dei genitori. Le mamme temono per la salute dei figli in quanto i bambini rom non hanno eseguito le vaccinazioni. La mobilitazione non ha intenti xenofobi e ben presto si trasforma in una manifestazione presso la ASL affinché i bambini vengano vaccinati; in quell’occasione si ribadisce che “i bambini rom devono continuare a frequentare la scuola di via Giulia”. Nel successivo Consiglio provinciale, alla presenza anche del Prefetto, le istituzioni locali decidono di costituire un coordinamento inter-istituzionale sui Rom romeni12. Nonostante le posizioni allarmate di alcuni sindaci della zona13, a ottobre si realizza un censimento dei Rom. L’assessore alla società multiculturale della Provincia di Cosenza, Matilde Ferraro, ritenendo che l’iniziativa dovesse essere volontaria e non coercitiva, sollecita personalmente le persone con l’aiuto di assistenti sociali e mediatori linguistici. Vengono anche distribuiti volantini in lingua romena che riportano indicazioni su come comportarsi qualora il livello del fiume cresca ancora. Vengono censite 244 persone. Il 10 novembre il sindaco di Zumpano ordina la distruzione della baraccopoli prossima al suo territorio, sotto il ponte della strada 107, sconfinando nel territorio del comune di Cosenza ed eseguendo interventi sull’alveo del fiume, zona di competenza dell’amministrazione provinciale. Le reazioni al blitz sono molto forti: esponenti della politica e Opera Nomadi esprimono una posizione di dura protesta per l’accaduto. Le ruspe spianano anche delle baracche abitate, mentre la rimozione di un canneto toglie un riparo naturale dalla pioggia e dal vento, scatenando anche un’invasione di topi; infine, aumenta anche il rischio di esondazione poiché il passaggio delle ruspe livella in più punti gli argini del fiume. Intorno ai Rom comincia ad allargarsi la solidarietà. In una conferenza stampa del 12 novembre, il Comune, alcuni partiti e movimenti della sinistra locale assieme all’Opera Nomadi auspicano una Le riunioni sull’emergenza coinvolsero anche i comuni fuori dell’hinterland cosentino. Convennero in Prefettura i comuni di Cassano, Corigliano, Diamante oltre a Rende, Rovito, Trenta, Zumpano, San Pietro in Guarano, Montalto. 13 Ad esempio, il sindaco di Zumpano all’epoca dichiarò che la presenza dei Rom era da considerare socialmente pericolosa per l’aumento della micro-criminalità e della prostituzione minorile. Si agitarono anche questioni culturologiche, secondo le quali i Rom romeni erano “nomadi duri e puri, non disposti ad accettare le regole della normale convivenza”. 12
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filiera istituzionale e sociale che porti ad una sistemazione di civiltà per i Rom. Sempre negli stessi giorni, il vescovo accoglie una nutrita delegazione di Rom. La locale Rete antirazzista rilancia invece una proposta di accoglienza, condivisa da tempo da tutto il versante dell’associazionismo: l’auto-recupero di edifici e siti abbandonati. L’assessore al welfare della Provincia dice di essere disposto a cercare dei finanziamenti ad hoc. Il 14 novembre, a causa delle forti piogge che stanno gonfiando il fiume, la Protezione civile dà l’allarme e il Prefetto riunisce gli organi preposti alla sicurezza, ordinando l’evacuazione dei campi a rischio. La situazione lungo il Crati è concitata. Sotto la pioggia vengono evacuati e demoliti gli accampamenti; le famiglie Rom sono impaurite dalla vista degli autobus poiché pensano che verranno rimandate in Romania. La presenza dell’assessore Ferraro accanto ai Rom facilita però le operazioni. La sinergia tra le istituzioni sembra funzionare. Sul Crati quel giorno lavorano assieme l’Assessorato alle Politiche sociali della Provincia, i vigili del fuoco, i volontari della Protezione civile provinciale, la Protezione civile regionale, le forze dell’ordine e la polizia municipale. Per la sistemazione nell’immediato, Ferraro e Aiello, l’assessore regionale all’urbanistica, si rivolgono all’associazione Stella cometa. Il presidente, don Antonio Abbruzzini, mette subito a disposizione il grande hangar nell’area dei magazzini dell’ex ferrovia Calabro-Lucana. Questa area su via Popilia da anni ospita associazioni cattoliche particolarmente impegnate nell’accoglienza ai migranti. All’hangar arrivano ottanta Rom, circa venti famiglie che vengono alloggiate in tende montate dai bersaglieri e dai Rom stessi. La Stella cometa riceve in quei giorni numerose testimonianze di solidarietà. Lo stesso Salvatore Nunnari, arcivescovo di CosenzaBisognano, incontra gli evacuati ed elogia il comportamento tenuto dalle istituzioni. Il tutto mentre a livello nazionale prosegue la campagna di criminalizzazione dei Rom14. Una volta preservata l’incolumità, occorre passare alla fase due: trovare una sistemazione adeguata per le famiglie dell’hangar. L’assessore Ferraro, anche a seguito del dibattito con le associazioni avvenuto nei giorni precedenti, propende per l’inserimento dei Rom in abitazioni. La ricerca delle abitazioni comprende tutto l’hinterland di 14 Altro
risultato di rilievo è che l’operazione non ha avuto alcuna conseguenza sulla scolarizzazione dei bambini evacuati.
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Cosenza. Le associazioni garantiscono una malleveria e in molti casi procurarono anche i mobili necessari ad arredare le case. L’assessore al welfare della Provincia Aiello s’impegna, tra l’altro, a sostenere le spese per la mensa. Il Vescovo trova due appartamenti destinati a famiglie rom con un membro disabile. Il clima di forte solidarietà coinvolge anche i cittadini di Cosenza: alcuni mettono a disposizione le loro seconde case per ospitare i Rom. Al termine di questa mobilitazione, la metà degli evacuati, quaranta Rom, vengono inseriti in vere e proprie case. Gli altri quaranta sono purtroppo costretti a ritornare in nuove baracche, edificando un nuovo campo prossimo all’unico non evacuato in quanto posto in alto e non in pericolo. Il progetto di sostegno produce tuttavia anche reazioni negative. Un’associazione di cittadini all’epoca scrisse un duro documento nel quale ribadiva che l’attenzione verso i problemi dei Rom andava a discapito dei cittadini bisognosi di Cosenza15. La solidarietà comincia così ad incrinarsi. Alcuni locatori alle prime rimostranze dei vicini per la presenza dei Rom interrompono il contratto di affitto. Nel giro di qualche mese si verificherà che la maggior parte dei Rom inseriti in abitazioni ritornerà a vivere nella nuova baraccopoli, dove erano stati preceduti dai connazionali che non avevano avuto la possibilità di sperimentare l’accesso ad una vera casa. Gianfranco Sangermano del Mo.c.i. (Movimento di cooperazione internazionale), un’associazione in prima linea nei giorni dell’emergenza, racconta così l’esperienza: […] il problema sono state le soluzioni abitative, perché quelle si tentava di trovare. I Comuni non vi dico, nessuno ha dato la disponibilità. Dove abbiamo trovato noi delle soluzioni c’è stata la rivolta 15
Ecco alcuni passi della lettera: “Se un solo appartamento, se un solo posto di lavoro sarà dato ai Rom romeni a scapito di migliaia di disoccupati cosentini senzatetto e sfrattati, non ci resta che accamparci sulle sponde del Crati per ottenere rispetto di diritti inalienabili sanciti dalla Costituzione italiana. […] Il fatto di stare in dignitoso silenzio non significa assolutamente acconsentire che agli ospiti siano garantiti gli stessi diritti che lo Stato e gli enti locali dovrebbero garantire ai propri cittadini. Diritti, com’è noto, che ai cosentini e ai calabresi vengono sistematicamente violati come la casa, il lavoro, la possibilità di vivere dignitosamente. Se il Governo, la Regione, il comune di Cosenza e la Provincia intendono favorire la comunità rom, facciano pure, ma dopo aver esaurito la lunga lista d’attesa che da anni aspetta una casa anche a fitto agevolato e un lavoro degno di essere tale”.
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popolare: due famiglie a Rogliano e il paese in piazza! Abbiamo dovuto lottare con queste cose. Solo il sentire parlare che arrivavano i Rom e le popolazioni… comunque, come associazioni ci siamo messi sotto e dovevamo trovare le case, parenti, amici, amico dell’amico, la casa da affittare. Ci siamo sbattuti e abbiamo trovato sistemazioni per 40 persone, la metà. Li abbiamo attrezzati di tutto. Negli appartamenti ci abbiamo messo i mobili, abbiamo pagato l’affitto per tre mesi, ma eravamo disposti, perché la Provincia ci aveva dato la disponibilità economica a pagare fino a sei mesi l’affitto. Noi davamo garanzie ai proprietari di casa: “Se non ti pagano loro ti paghiamo noi!”. Dopo un mese avevamo solo una famiglia in appartamento. Erano ritornati tutti al campo. Con esperienze devastanti di persone che avevano accolto senza pregiudizi, veramente… Una signora aveva lasciato la sua casa spostandosi all’appartamento di sotto perché più piccolo e lasciando quello dove attualmente viveva, noi siamo dovuti correre il 31 dicembre lì perché stava succedendo il putiferio, e in quella casa non vi dico, 3.000 euro di danni abbiamo dovuto pagare! C’erano situazioni così!
5.4.2 Ritorno alla “normalità”: il ruolo di supplenza del volontariato È complesso determinare perché le amministrazioni locali abbiano tirato i remi in barca. Le pressioni dell’opinione pubblica, le convenienze politiche, le dimissioni di figure cardine sono tutte cause possibili. Venendo meno l’intervento pubblico, le forze della società civile sono rientrate nei ranghi, assumendo nuovamente un ruolo di supplenza. È questa una dinamica frequente in uno scenario di emergenza: solo gli attori dotati di maggiore carica ideologica continuano nella loro azione anche quando l’emergenza è terminata. Sebbene quanto accaduto nell’autunno 2007 dimostri la validità di un approccio ai problemi basato sulla cooperazione, nel caso cosentino si ripropone il problema della sistemazione abitativa. All’indomani della mobilitazione, l’impegno sui Rom è diventato appannaggio esclusivo delle associazioni di volontariato. Anche su sollecitazione dei Rom, l’arcipelago del volontariato ha iniziato a portare avanti l’idea di realizzare un campo attrezzato. L’ipotesi “campo” non è stata determinata da stereotipi ghettizzanti, ma dalla necessità di tener conto della reale situazione di deprivazione dei Rom romeni, impossibilitati a far fronte per mancanza di reddito alle spese per un’abita146
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zione. A questa scelta contribuisce senz’altro il fatto che i Rom romeni provenivano da una condizione di vecchia sedentarizzazione: nel loro Paese vivevano in case normali, in villaggi e talvolta anche in appartamenti di condomini della periferia urbana. Nell’autunno 2009 si determina una seconda emergenza. In ottobre, la Procura della Repubblica entra nel secondo campo rom, emanando novanta provvedimenti di espulsione. Le associazioni di volontariato, tramite loro avvocati, impugnano i provvedimenti e vincono tutti i ricorsi. La Procura ribadisce di aver agito proprio nell’interesse dei Rom, perché si provvedesse a farli uscire da una situazione di indigenza e pericolosità per la loro salute. Le associazioni controbattono che da anni, con altri mezzi, hanno cercato di denunciare la stessa situazione. La Procura sottolinea che in quella situazione i Rom non possono più stare, che bisogna trovare delle soluzioni alternative. In abitazioni o in campi attrezzati. Il tempo concesso prima dello sgombero dell’area era sino al primo marzo 2010. Il prefetto, che come privato cittadino era stato nei campi e aveva discusso con i Rom, ritenendo inopportuno ogni sgombero coatto, ha sollecitato gli enti locali ad individuare soluzioni, come ad esempio località per campi attrezzati, in modo tale da chiedere, con ragione, una sospensione temporanea dell’ordinanza. Il volontariato ha individuato undici siti nei quali realizzare campi di accoglienza. Il 28 febbraio le associazioni hanno fatto la veglia per impedire lo sgombero che poi non si è verificato. Stando alle notizie più recenti la situazione è in fase di stallo: il campo non si è ancora fatto e la comunità rom e le associazioni continuano a manifestare e a chiedere una soluzione; nel frattempo, proseguono le espulsioni di Rom trovati soggiornanti irregolari. Questa situazione ha prodotto un netto restringimento del cerchio di solidarietà che si era costituito attorno ai rom a partire dall’autunno 2007. Tre anni dopo sono ancora attive nel campo solo alcune organizzazioni cattoliche e un paio di associazioni di volontariato. Anche le prospettive di intervento si sono ridotte: attualmente le azioni più significative riguardano la scolarizzazione. Da poco è stata costruita nel primo campo una baracca chiamata la “Scuola del vento”, uno spazio di sostegno alla scolarizzazione, in particolare per le attività di doposcuola.
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5.4.3 Dialogo e cooperazione: un approccio realista alle politiche per i Rom Il tentativo di offrire una sistemazione abitativa ai Rom che vivevano sul Crati purtroppo è fallito. Le forze sociali che si erano coagulate a seguito dell’emergenza dell’autunno 2007 hanno ammesso la sconfitta, ma allo stesso tempo hanno rilanciato l’esigenza di trovare una soluzione che contribuisse ad un miglioramento delle condizioni di vita delle famiglie rom. Il campo attrezzato è l’unica soluzione possibile, almeno per ora. Sono vari gli elementi di interesse in questa vicenda. Innanzitutto, occorre notare che la compagine sociale mobilitatasi attorno alla questione ha subito nel corso del tempo dei cambiamenti. Le istituzioni locali, sull’onda dell’emergenza per la possibile inondazione, avevano offerto una risposta tempestiva ed organizzata. In questa prima fase, anche il contributo della società civile era stato determinante: al punto che partendo da una situazione drammatica si era riusciti a mettere in piedi un progetto ambizioso come quello di offrire ai Rom delle abitazioni. Quello che colpisce è che, successivamente, la coesione tra le diverse articolazioni della società locale viene meno e si ritorna in una situazione non cooperativa, nella quale politica e società civile lavorano su due piani differenti; da una parte, i Rom ritornano ad essere una questione di ordine pubblico; dall’altra si assiste ad una dinamica di frammentazione tra i soggetti del sociale; questi ultimi in alcuni casi fanno addirittura un passo indietro concentrandosi su progetti settoriali, per poi riaggregarsi quando si prospetta la crisi dell’ottobre 2009. Il caso di Cosenza suggerisce alcune considerazioni. La governance locale della questione rom necessita di compagini sociali ampie, articolate ed eterogenee. È necessario il supporto del mondo dell’associazionismo soprattutto per sensibilizzare la cittadinanza e attivare quei processi di solidarietà e trasmissione di fiducia che rappresentano una base di partenza imprescindibile. In poche settimane le associazioni sono state in grado di reperire, sul mercato privato si badi, alloggi per quaranta famiglie. Al di là delle proteste dei vicini, il progetto sembra essere fallito per l’impossibilità da parte delle famiglie rom di pagare l’affitto. Le chiavi di lettura a riguardo sono almeno due: da una parte un imperfetto calcolo costi-risorse; dall’altro, l’assenza di un piano integrato di accompagnamento al lavoro e all’autonomia economica. 148
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Questo limite è chiaramente imputabile alla situazione di emergenza nella quale si è dovuto operare. Tuttavia, si può suggerire che in condizioni normali, ovvero senza la pressione di una situazione critica, in questo genere di interventi vada usato un approccio incrementale e integrato [Vitale 2009]: offrendo soluzioni via via più complesse e rispetto alle quali di volta in volta rinnovare l’accordo di cooperazione tra i soggetti coinvolti. Questo genere di soluzione è promettente anche sotto il profilo del sostegno della cittadinanza. La presenza dei Rom suscita chiusure, per lo più stereotipate se non apertamente razziste. Questi atteggiamenti possono essere legittimamente combattuti attraverso la stigmatizzazione e le proteste delle organizzazioni antirazziste; tuttavia, in termini operativi è consigliabile usare un approccio realista: attraverso la negoziazione e il dialogo si possono scardinare i pregiudizi. È un’operazione lenta e che richiede l’intermediazione di soggetti credibili: si pensi al caso delle associazioni che hanno reperito gli alloggi, senza la loro intercessione ciò non sarebbe stato possibile16. Purtroppo questo patrimonio si è esaurito con il fallimento del progetto e ci vorrà del tempo prima che si accumuli nuovamente una sufficiente riserva di fiducia. Un’altra suggestione che si può trarre dal caso cosentino – e che rientra appieno nella prospettiva realista sopra suggerita – riguarda la necessità di un confronto diretto con i Rom stessi. Nell’indagine sul campo, i Rom hanno espresso opinioni lucide e precise sulla questione casa: non vengono richieste abitazioni vere e proprie non perché non se ne desidererebbe una, ma per senso della realtà. I Rom sono consapevoli di dover prima acquisire una minima capacità di accumulazione di risorse. In alcuni casi, nelle risposte si è invece evidenziata la preoccupazione per le reazioni negative nella cittadinanza in quanto si ha la consapevolezza del disagio abitativo scontato da una parte non trascurabile di cosentini. Tra i motivi che portano a preferire un campo attrezzato ad abitazioni vere e proprie ricorre spesso la paura di sollevare reazioni razziste da parte della popolazione locale. Al di là degli stereotipi multiculturalisti, il campo attrezzato rappresenta una soluzione realista, che potrebbe essere ben accettata da tutti: dai Rom che vedrebbero così la propria condizione migliorare, dalla cittadinanza che manterrebbe un minimo di separazione. Tut16 Sotto questo profilo, si pensi all’episodio della signora che decide di trasferir-
si in un appartamento più piccolo per cedere il proprio ad una famiglia rom.
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tavia occorre ribadire che si tratterebbe di una soluzione transitoria, sulla quale occorrerebbe continuare a lavorare in modo sistematico e meticoloso, pianificando il superamento del campo attraverso una serie di tappe intermedie, sollecitando la popolazione locale ad una maggiore e migliore comprensione della questione Rom; pensando servizi e interventi nei quali i bisogni sociali delle famiglie rom non vengano affrontati separatamente. In altre parole, occorre che l’impegno rispetto all’integrazione dei Rom sia continuo nel tempo: non ci si può ricordare di loro solo in autunno.
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5.5 Reggio Calabria: dalla casa all’accesso ai servizi Quella dei Rom di Reggio Calabria è una storia lunga e controversa. Come in altre aree della regione, la presenza di gruppi romaní è un dato da tempo acquisito. Anche nel reggino, negli anni Cinquanta i gruppi rom che vivevano di commercio ambulante e di piccolo artigianato tendono a diventare sedentari insediandosi ai margini della città. Di lì parte una storia lunga sessanta anni, un periodo nel quale si sono alternate diverse fasi: dagli insediamenti precari lungo il fiume, più volte allagatisi a causa delle piene, si è passati all’occupazione di edifici dismessi in vari quartieri della città. Nel corso degli anni le condizioni dei Rom di Reggio hanno subito relativi miglioramenti seguiti da repentini peggioramenti. Sono stati sviluppati progetti di edilizia sociale, ipotesi di riqualificazione dei siti, spostamenti e sperimentazioni urbanistiche spesso senza tenere conto delle esigenze delle famiglie. Di recente la locale Opera Nomadi ha pubblicato un volume nel quale si ripercorrono le vicende di quella che può essere considerata una tra le sperimentazioni più ardite nel campo delle politiche di inclusione delle comunità romaní, ossia il progetto di equa dislocazione abitativa [Cammarota et al. 2009]17. Leggendo la ricostruzione storica proposta da Marino e Sgreccia [2009] colpisce innanzitutto un fatto: per far andare in porto il progetto è stato necessario che la società civile, l’associazionismo e i Rom stessi si coalizzassero in una sorta di gruppo di pressione. Si è trattato di una vicenda che ha abbracciato 17
Il volume citato rappresenta una buona ricostruzione della vicenda, anche se non appare sufficientemente obiettivo nel riportare il punto di vista dell’amministrazione locale. Per un resoconto che integri entrambi i punti di vista si veda IREF 2010a, pp. 73-108.
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quasi venticinque anni di storia reggina: in questo arco di tempo la questione dei Rom si è intrecciata con cambi di maggioranza politica, interessi immobiliari, contraddizioni della pianificazione urbana e dell’edilizia popolare. A ciò va aggiunta un’opinione pubblica spesso mal informata se non addirittura istigata da una stampa locale che non di rado ha preferito indulgere nel sensazionalismo. In altre parole i risultati ottenuti a Reggio Calabria sono maturati in un contesto difficile: senza l’ostinazione dell’Opera Nomadi e della compagine sociale riunitasi attorno ad essa i risultati probabilmente sarebbero stati differenti. La vicenda dell’equa dislocazione, soprattutto nella sua fase finale (quella che va dal 2003 al 2007), ha comunque visto una forte volontà da parte dell’amministrazione locale di Reggio Calabria di portare avanti l’iniziativa. Questo forte input politico ha permesso di concretizzare il progetto. I risultati della sperimentazione reggina sono di sicuro rilievo: Oggi il 30 per cento delle famiglie Rom di Reggio Calabria abita insieme ai non Rom, equamente dislocate nel tessuto urbano, in un habitat che favorisce la loro inclusione sociale, e le altre famiglie ancora ghettizzate possono sperare nel prossimo futuro di ottenere la stessa sistemazione abitativa. [Marino 2008: 34].
La sperimentazione sull’equa dislocazione offre lo sfondo per meglio comprendere la situazione reggina soprattutto rispetto allo specifico accesso ai servizi socio-sanitari. Il caso di Reggio Calabria è stato difatti studiato da due diverse prospettive: innanzitutto sono state ricostruite, attraverso le voci e le opinioni dei protagonisti, le vicende del progetto di equa dislocazione; in seconda battuta, è stato approfondito il tema dell’accesso ai servizi socio-sanitari. Di seguito si intende affrontare proprio questo secondo tema, non mancando comunque di fare riferimenti alle implicazioni con la questione abitativa18. 5.5.1 La presenza Rom a Reggio Calabria e le implicazioni sul versante dell’accesso ai servizi Storicamente, nella geografia urbana di Reggio Calabria, le aree dove abitavano (e in alcuni casi continuano ad abitare) gruppi di fa18
Per una trattazione puntuale dell’esperienza di equa dislocazione si veda IREF 2010a, pp. 83-92.
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miglie di origine Rom erano l’ex caserma militare “208” (un insediamento nato a seguito dell’inondazione del torrente Sant’Agata del 1971); Arghillà nord (dal 1990 il Comune ha iniziato ad assegnare alloggi popolari ad alcune famiglie rom in questo quartiere); Modena Palazzine (un complesso di case popolari nato nel 1981)19; Modena Ciccarello (una baraccopoli sorta all’inizio degli anni Sessanta). Accanto a queste concentrazioni storiche, alcune delle quali sono attualmente in fase di dismissione, ci sono invece casi di famiglie rom che vivono dislocate all’interno della città20. A Reggio convivono dunque due differenti realtà: da una parte ci sono i Rom spazialmente concentrati, dall’altra famiglie inserite nel tessuto urbano. Ciò implica che le strategie per incentivare l’accesso ai servizi debbano essere diverse. In poche parole, ci si trova a dover fare i conti con un paradosso: è più semplice offrire un’assistenza di base a gruppi fortemente segregati; mentre, risulta decisamente meno agevole seguire e accompagnare soggetti distribuiti sul territorio. Con la parziale applicazione dei principi dell’equa dislocazione sono state disperse alcune concentrazioni particolarmente problematiche, anche e soprattutto sotto il profilo sanitario. Tuttavia, avendo inserito nuclei familiari rom in quasi tutte le zone della città, si pone la questione di come offrire a tutti un servizio socio-sanitario adeguato. Come ricorda Trevisan [1996], il rapporto dei Rom con l’assistenza sanitaria è 19
Inizialmente vennero assegnati 25 alloggi popolari ad altrettante famiglie rom. Il numero delle famiglie rom negli anni è aumentato (fino ad arrivare a 49) a causa dell’occupazione abusiva di Rom non assegnatari impossessatisi degli alloggi lasciati liberi dalle famiglie non-Rom che si rifiutavano di vivere in quel posto a causa delle gravi condizioni di degrado raggiunte. Sull’argomento cfr. Marino, Sgreccia 2009. 20 Secondo i dati di Opera Nomadi, ci sono presenze anche nel Quartiere Archi (nove famiglie dagli anni Ottanta); a Piazza Milano (sette famiglie dagli anni Ottanta); nel Rione Marconi (undici famiglie dal 2003) e in Quartiere Gallico (otto famiglie dal 2003). Si tratta in tutti e quattro i casi di alloggi popolari. C’è tuttavia una rilevante differenza tra le sistemazioni avvenute negli anni ’80 e le più recenti assegnazioni del luglio 2003. Mentre nel quartiere di Archi e in piazza Milano l’insediamento delle famiglie rom è avvenuto spontaneamente, cioè senza un intervento progettuale del Comune, nel rione Marconi e nel quartiere Gallico i nuclei familiari sono stati sistemati in quei luoghi proprio per ottemperare al progetto dell’equa dislocazione attuato dal Comune. Per completare la mappa delle presenze Rom a Reggio, occorre menzionare altri 23 nuclei familiari che vivono in una condizione di dislocazione ancora più diffusa: sei famiglie in alloggi popolari assegnati dal Comune nelle zone di Arangea, Modena, Pellaro, viale Europa e via Pio XI. I rimanenti 17 nuclei hanno privatamente preso in locazione delle abitazioni.
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improntato alla diffidenza. La tendenza è quella di rivolgersi al pronto soccorso e solo nel momento in cui il disturbo si presenta in forma acuta. Risulta particolarmente difficile far comprendere la necessità di prevenire l’insorgenza di malattie, soprattutto qualora non si abbia la necessaria confidenza e fiducia. È pur vero che, con il miglioramento delle condizioni abitative, si abbassa l’insorgenza delle cosiddette malattie della povertà [Monasta 2010]. Il nesso tra salute e condizioni abitative è evidente. Come fa notare l’epidemiologo Lorenzo Monasta [2005: 45]: La mancanza di ventilazione e il sovraffollamento, così come materiali di costruzione scadenti e la mancanza di manutenzione, possono aumentare il livello di umidità e generare problemi di muffe. È molto complesso studiare il microclima dell’abitazione perché si devono considerare molti fattori come i materiali da costruzione, la ventilazione, il contenuto d’acqua e gli effetti del riscaldamento e del raffreddamento. Tuttavia, è stato dimostrato che la presenza di umidità e muffe è associata alla prevalenza di fischi respiratori, mal di gola, rinite, tosse, febbre e cefalea nei bambini. Sono state anche osservate relazioni dose-risposta tra l’aumento di umidità e muffe, la frequenza media dei sintomi (per tutti e per ogni bambino), e lo stato generale di salute dei bambini.
In generale, i fattori ambientali assieme agli stili di vita e a fattori psico-sociali (ad esempio, nel caso dei Rom, la percezione di marginalità) sono delle “determinanti prossimali” della salute; in altre parole, la posizione sociale e le disparità di risorse influenzano la probabilità e l’esposizione ai fattori di rischio per l’insorgenza di un problema di salute [CIES 2007: 243]. Le determinanti della salute, inoltre, non sono necessariamente concomitanti, anzi intervenendo su una di esse non si può essere sicuri che vengano meno le altre. Nel caso delle famiglie rom che hanno avuto un miglioramento delle condizioni abitative, ciò non implica che vengano meno fattori di rischio legati ai comportamenti e agli stili di vita. Sia secondo le poche indagini epidemiologiche realizzate, sia stando ai dati di contatto (ossia, i ricoveri) i maggiori problemi nascono dal fumo e dal consumo di alcolici, caffè e comfort food (come gelati, patatine e cioccolato), così come dall’eccessivo consumo di cibi ricchi di grassi e sale [Geraci, Motta, Rossano 2002]. Questi comportamenti a lungo andare possono provocare problemi di notevole portata, a partire dai disturbi colle153
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gati all’ipertensione arteriosa (infarti e ictus). È dunque abbastanza intuitivo che la dispersione territoriale dei soggetti a rischio rappresenti un problema soprattutto in termini di strategie di prevenzione e sensibilizzazione: per fare un esempio banale, in una situazione di concentrazione è sicuramente più agevole monitorare in modo sistematico la pressione sanguigna dei maschi adulti di un determinato gruppo di Rom. Queste considerazioni risultano particolarmente pertinenti rispetto alla questione della salute femminile. Come è noto, le donne rom hanno un tasso di fecondità particolarmente alto: molti progetti di assistenza socio-sanitaria affrontano il tema della salute riproduttiva e del rispetto del corpo. Su questo terreno è fondamentale l’adozione di una serie di comportamenti atti a scongiurare l’insorgenza di gravidanze a rischio. Strettamente collegato è anche il problema della salute infantile: natimortalità molto alta, malnutrizione, nascite sottopeso, sindromi bronchiali e asmatiche, malattie dermatologiche, diarree e altre patologie gastrointestinali, nonché problemi di sviluppo motorio e disabilità sono tutti fenomeni che interessano in particolar modo i bambini rom21. In sintesi, i termini della questione sono i seguenti: la concentrazione facilita la realizzazione di interventi preventivi di massa (ad esempio, vaccinazioni) anche se, allo stesso tempo, implica una marginalizzazione foriera di altre problematiche. Al contrario la dispersione territoriale impone l’attuazione di interventi ad personam che hanno come presupposto la collaborazione degli individui. In generale, questo genere di situazione chiama in causa la capacità delle strutture sanitarie locali di offrire un servizio in grado di intercettare tutti i segmenti dell’utenza, Rom compresi. 5.5.2 L’assistenza socio-sanitaria per i Rom di Reggio Calabria: alcune questioni aperte Alla luce di queste considerazioni è fondamentale avere una preliminare conoscenza dell’offerta sanitaria presente sul territorio.
21 Peraltro tali questioni rappresentano solo un versante della sfida: l’alto numero di bambini e adolescenti rom che abitano nel territorio di Reggio Calabria richiede lo sforzo congiunto anche da parte dei servizi sociali.
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L’Azienda Sanitaria di competenza a Reggio Calabria è l’ASP22. Il territorio dell’Azienda è diviso in 4 Distretti Socio-Sanitari. Ad ogni distretto afferiscono diversi comuni e circoscrizioni della provincia di Reggio Calabria. Nel complesso, l’offerta sanitaria pubblica nella provincia di Reggio Calabria è articolata: sono presenti sette ospedali, ventiquattro poliambulatori e quindici consultori familiari23. Tra le diverse strutture presenti nel capoluogo l’Azienda Ospedaliera “Bianchi-Melacrino-Morelli”, sita in via Giuseppe Melacrino (una zona centrale della città, accanto alla sede del Consiglio Regionale) ha un valore particolare poiché le vicende che hanno condotto alla costruzione di questo ospedale si sono intrecciate con il percorso dell’equa dislocazione dei Rom di Reggio. La struttura sorge proprio nell’area che ospitava il campo ex 208, uno degli insediamenti storici dei Rom reggini. Il tira e molla politico che ha preceduto l’apertura dell’ospedale ha costretto i Rom a ripetuti spostamenti: nel momento in cui la costruzione procedeva i rom venivano dislocati in altre parti della città, quando i lavori si interrompevano il campo si ripopolava e il progetto di equa dislocazione veniva accantonato. Stando alle informazioni fornite dagli operatori di un’ambulanza del 118 operanti all’interno della struttura, i problemi per cui i Rom chiedono maggiormente assistenza medica sono di ordine ginecologico per le donne e ortopedico per gli uomini24. Sono trasversali, invece, i disturbi di natura dermatologica (si tratta per lo più di dermatiti e, in alcuni casi, di scabbia). Mariangela Corrente, una mediatrice culturale che da anni svolge le sue attività nel comune di Reggio Calabria, invece, ha dichiarato che nelle strutture dove ha lavorato non si sono riscontrati problemi relativi al rispetto delle indicazioni o delle prescrizioni date ai Rom dai medici. La disciplina con la quale gli assistiti seguono le cure evidenzia il buon grado di interazione tra sistema sanitario locale e comunità rom. In questo senso, il ruolo del mediatore culturale è fondamentale poiché rappresenta una figura di raccordo in grado di sol22 Per effetto dell’entrata in vigore della Legge Regionale 11 maggio 2007 n. 9 (art.7). Dal 22 maggio 2007 è istituita l’Azienda Sanitaria Provinciale di Reggio Calabria che comprende le disciolte ASL 11 di Reggio Calabria e ASL 10 di Palmi (www.asp.rc.it). 23 Sono state conteggiate anche centoquarantasei farmacie, trecentocinque medici di famiglia e sessantasei pediatri di libera scelta. Infine, presso la sede del Coordinamento dei Servizi Socio-Sanitari è attivo il Punto di counseling psicologico per cittadini stranieri, coordinato dalla psicologa Maria Elena Ferreri. 24 Spesso i disturbi sono derivati da incidenti sul lavoro.
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lecitare un cambiamento di atteggiamento nei confronti della salute. Queste figure rappresentano un chiavistello essenziale per entrare in contatto con gli utenti. Le incomprensioni linguistico/culturali con i medici, infatti, possono alla lunga deteriorare la relazione medicopaziente e portare all’abbandono del trattamento. Una figura professionale ingaggiata per facilitare lo scambio comunicativo tra medici e pazienti è, di per sé, garanzia di un’attenzione maggiore, anche verso altre utenze. “Ma non è soltanto una questione di comprensione linguistica – sottolinea Mariangela Corrente – ci sono questioni che solo un mediatore o una mediatrice culturale riescono a comprendere e a porvi rimedio”. Corrente sta facendo riferimento alla conoscenza e familiarità con la cultura sanitaria delle persone che si rivolgono ad una struttura pubblica. Senza entrare nel merito di discorsi complessi sul concetto di salute, è abbastanza agevole identificare un primo livello d’intervento della mediazione culturale in ambito sanitario. È difatti necessario che gli utenti comprendano come si articola la sanità pubblica italiana. Dal momento che spesso le precedenti esperienze sono state limitate al contatto con il pronto soccorso, è legittimo che prassi come le visite su appuntamento o i controlli periodici possano essere ritenute una perdita di tempo, soprattutto nel caso in cui non si sia affetti da un disturbo specifico. Nel complesso, i Rom tendono ad accedere in modo intempestivo alle prestazioni sanitarie, imponendo di fatto ai servizi sanitari che li prendono in carico di adottare un approccio curativo piuttosto che preventivo. Un’altra questione, riguarda la soglia di malessere; ovverosia la tendenza dei Rom a sopportare il dolore dovuto a traumi o patologie per lunghi periodi, tutt’al più alleviandolo con farmaci di auto-somministrazione, fino a quando il problema non si cronicizza. Infine, il ricorso al medico è qualitativamente diverso: anche in caso di problemi specifici si tende a consultare un medico di base e non uno specialista25. Al riguardo, è paradigmatico quanto riferisce un’assistente sociale del Comune di Reggio Calabria da anni impegnata con i Rom, resasi conto che un bambino rom aveva problemi di udito e che la famiglia non lo avrebbe mai portato da uno specialista: “ve25 I Rom hanno una grande resistenza nei confronti dell’ospedalizzazione perché il ricovero implica una perdita di controllo sul proprio corpo, come d’altronde gli interventi chirurgici, che vengono affrontati solo quando il malato e la sua famiglia si convincono della gravità della situazione, ossia del pericolo di morte [Trevisan 1996 e 2005].
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dono la cosa come una vergogna. Pur avendo i soldi per le visite, per loro era più importante che gli altri nuclei familiari del campo non sapessero che il loro figlio era sordomuto” (Nicoletta Latella, assistente sociale). La donna decide di prendere in mano la situazione e porta, personalmente, il bambino a visita da uno specialista: “io andavo e me lo prendevo di forza. Potevo permettermi questo perché c’era un rapporto confidenziale. Ad un altro non lo avrebbero mai permesso” (Nicoletta Latella, assistente sociale). Il rapporto tra la giovane assistente sociale e le famiglie rom era consolidato. Risale al 2003 l’istituzione, da parte del neo sindaco Scopelliti e dell’assessore Minasi, di un ufficio comunale deputato ad occuparsi del progetto di equa dislocazione. All’epoca, le giovani neo-assunte vennero incaricate di facilitare il trasferimento delle famiglie rom in appartamento. In particolare, le assistenti sociali dovevano avvertire e rassicurare i residenti dei condomini in cui si sarebbe trasferita una famiglia rom. Altro passaggio cruciale, affidato alle assistenti sociali di Reggio, è stato l’accompagnamento delle famiglie rom negli alloggi a loro affidati. Così Latella ricorda quel momento: Era un impatto forte come a dire “arrivano gli zingari”, loro arrivavano con i vigili, li accompagnavamo anche noi, però, insomma, non era un trasloco normale, i Rom arrivavano con migliaia di pacchi, non volevano lasciare o buttare nulla, spesso gli davamo anche una mano a sistemare casa, perché loro non avevano idea di come sistemare le cose, di come utilizzare gli spazi.
Nel concreto, alle assistenti sociali è stata richiesta una presa in carico completa del nucleo familiare. Ciò ha comportato anche l’attenzione agli aspetti sanitari. A questo proposito, i maggiori problemi sono apparsi al momento di iscrivere i bambini rom agli asili. Le scuole materne non accettavano i bambini se prima questi non avevano tutte le vaccinazioni necessarie; si è così colta l’occasione per vaccinare ogni bambino rom (anche quelli più grandi, di 4-5 anni), ad ogni bambino è stato inoltre assegnato un pediatra di riferimento. Come si vede, l’attività di mediazione è alquanto impegnativa e richiede tempi lunghi, necessari per acquisire la fiducia delle persone e poter rientrare nel ristretto novero delle figure autorevoli alle quali è dovuto ascolto. Per mettere in moto questo circuito positivo è tuttavia necessario che i mediatori siano nelle condizioni di poter dedicare tempo alla costruzione dei legami di fiducia; ciò nella sanità italiana 157
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non è sempre possibile per cui la mediazione culturale in ambito sanitario tende ad essere usata con funzioni di prima accoglienza o di consulenza, tipologie di servizio che con l’utenza rom non sempre funzionano. Il caso di Reggio evidenzia comunque che i buoni risultati ottenuti non sono casuali. La locale struttura sanitaria, potendo fare affidamento sul credito di fiducia costruito nel corso del progetto di equa dislocazione, ha sviluppato una relazione abbastanza stabile con un buon numero di famiglie rom. Tornando al tema generale dell’informazione e sensibilizzazione, come è facile immaginare, il canale di informazione maggiormente usato dai Rom è il passaparola. Le ragioni di ciò sono molteplici. I canali di informazione istituzionali (opuscoli, campagne di pubblicità sulla carta stampata o sulla televisione) non attecchiscono su questo tipo di target, sia per problematiche prettamente linguistiche26 che culturali. Secondo quanto riferito dagli operatori dell’ex ASL 11, i Rom preferiscono ascoltare i consigli e le informazioni di un parente o di un amico anziché le raccomandazioni di un medico non-rom o di un qualunque altro italiano. Nelle conversazioni avvenute nel corso dello studio a Reggio Calabria, si è sentito più volte parlare di un medico (da alcuni chiamato “il dottore dei Rom”) che ha dato la propria disponibilità alle famiglie rom, guadagnandone la fiducia e ottenendo (anche se non volontariamente) che la stragrande maggioranza dei Rom si affidasse completamente a lui, e solo a lui: Hanno un medico di base che è per tutti lo stesso, lo scelgono in massa, o perlomeno, tutte e 25 le famiglie che io ho avuto in carico andavano da lui. Poveretto, proprio una bravissima persona. Lui ricopriva tutti i ruoli: il medico della ASL, l’assistente sociale, il neuro psichiatra, lui faceva tutto! (Nicoletta Latella, assistente sociale).
Nonostante la rilevanza che avrebbe avuto un’intervista con questa persona, il medico ha espressamente chiesto di non rilasciare dichiarazioni, chiedendo anche di rimanere nel più completo anonimato. Nel rispetto della volontà della persona si è deciso di non diffondere informazioni utili all’individuazione del medico in questione. Tutta26
La percentuale di Rom analfabeti è molto alta. Basti pensare che a Reggio Calabria, secondo i dati di Opera Nomadi [Cammarota et. al. 2005: 101], la percentuale di capifamiglia rom senza alcun titolo di studio o con solo la licenza elementare oscilla tra l’85 e il 90%.
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via la presenza e il ruolo di questa figura suggeriscono la centralità dell’intermediazione tra servizi sanitari e gruppi rom. Ritorna dunque il tema della fiducia in questo caso però con un’accezione personalista: sembra difatti che il dottore sia un punto di riferimento anche per richieste al di fuori delle sue funzioni. Oltre alle sue capacità professionali, il “medico dei Rom” sembra avere anche una sensibilità personale tale da rassicurare su tutti i fronti le famiglie rom. La dedizione e lo spirito di servizio che dimostra questo medico sono encomiabili; tuttavia, sarebbe probabilmente il caso di incardinare l’attività del medico all’interno di una struttura più articolata, dove il dottore possa fungere da garante nei confronti di un gruppo di collaboratori e sovraintendere all’attuazione di un programma d’intervento più ampio. 5.5.3 Dislocare e sostenere: un percorso tra equità e salute Il caso di Reggio Calabria restituisce un’immagine di una città nella quale la questione Rom sembra giunta ad un punto di svolta. Dopo decenni di alterni impegni sul terreno dell’abitazione, si sono raggiunti risultati che in altri contesti sono impensabili. Sicuramente rimane ancora da lavorare per completare al meglio il progetto di equa dislocazione; tuttavia al contempo occorre pensare anche ad una seconda fase. Dalla casa alla compiuta cittadinanza. Potrebbe essere questa un’adeguata sintesi della situazione reggina. Prendendo come punto di riferimento la questione dei diritti di salute, è utile che le risorse e i successi sinora ottenuti siano messi a sistema, consolidando quella rete che già, in modo più o meno strutturato, si occupa di intercettare l’utenza rom. L’esempio del “dottore dei rom” è a riguardo particolarmente pertinente. Si tratta difatti di una risorsa preziosa, forse non adeguatamente sfruttata. L’accesso ai servizi rimane, assieme al lavoro27, uno dei pilastri fondamentali sui quali edificare un’ipotesi di cittadinanza per i gruppi rom presenti in Calabria e in Italia. 27 A Reggio
Calabria sul fronte del lavoro sono stati compiuti esperimenti particolarmente riusciti. È il caso della cooperativa sociale “Rom 1995”. La cooperativa, che opera nel territorio reggino da più di 15 anni (è nata nel 1995), offre lavoro a decine di capifamiglia rom nel settore dello smaltimento dei rifiuti ingombranti e della raccolta differenziata. Per una ricostruzione più puntuale di questa esperienza si veda IREF 2010a: 93-99.
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Sullo sfondo rimane un’ultima questione da menzionare. Si tratta di un fenomeno che non è improprio collegare ai sentimenti di antiziganismo che serpeggiano in diverse componenti della società italiana (non esclusa la politica). Secondo quanto riferito dagli operatori dell’ex-ASL 11, uno dei problemi con i quali occorre fare i conti quando si parla del rapporto tra gruppi rom e servizi sanitari è l’idea, sempre più diffusa, che andando all’ospedale o al pronto soccorso si venga identificati e se trovati senza documenti di soggiorno successivamente espulsi dall’Italia. La mediatrice Corrente a riguardo si esprime in modo esplicito: Le leggi sull’immigrazione, ad esempio, sono un disincentivo a rivolgersi all’ospedale; i media hanno fatto passare quest’idea che se vieni in ospedale e non sei in regola per qualcosa, i medici possono chiamare la polizia. Ma non è così assolutamente, solo che loro non lo sanno! E molti hanno paura a venire qua.
Il problema evidenziato nel brano di intervista è controverso. Probabilmente la risposta ai quesiti sollevati va trovata nel modo in cui si pone la domanda. In altre parole, la priorità non deve essere la sicurezza (esigenza pur legittima, ma secondaria in questo caso) quanto invece il rispetto della persona. Altrimenti si sarebbe costretti ad accettare il principio per il quale, in assenza dei requisiti amministrativi, vengono meno i diritti fondamentali.
5.6 Lezioni dalla Calabria La Calabria ha innanzitutto un merito: porre la questione Rom all’ordine del giorno. Anziché rimuovere il problema, assecondando la tendenza all’auto-ghettizzazione o attivando massicci interventi di sgombero, nei due casi analizzati si è cercato di realizzare soluzioni che riportassero dentro i confini della città i Rom, interventi che rappresentassero una rottura con un passato di separatismo spaziale e sociale. In termini di politiche pubbliche, dire che la Calabria ha imboccato una strada promettente non equivale a dire che alla guida di questo processo ci siano le amministrazioni locali. Gli organi di governo hanno dato dimostrazione di essere in grado di agire in un contesto così difficile, ma hanno peccato di continuità (soprattutto nel caso di Cosenza). Lo scenario presenta elementi positivi perché 160
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le compagini sociali che si muovono attorno al mondo dei rom sono vitali e capaci di pressare i decisori pubblici. Purtroppo la forza di persuasione della società civile può poco in assenza di un impegno continuato della politica: in questi casi non rimane che ritirarsi su posizioni meno ambiziose e riprendere con i micro-progetti (come è accaduto a Cosenza). A Reggio Calabria, dopo la grande esperienza dell’equa dislocazione, occorre dirigere l’attenzione verso la questione dei servizi, cercando formule nuove e in grado di valorizzare il patrimonio di relazioni creatosi in questi anni. La situazione calabrese presenta comunque un elemento di differenza molto marcato. L’inclusione sociale passa per la casa. Probabilmente si tratta di una consapevolezza suggerita dalle decennali esperienze con i Rom calabresi; comunque sia, la soluzione dell’emergenza abitativa è un elemento imprescindibile. Si tratta di una scelta ancor più coraggiosa, se si pensa che il disagio abitativo in queste zone tocca in maniera marcata anche i cittadini italiani. Era dunque prevedibile che alcuni provvedimenti avrebbero incontrato l’ostracismo della popolazione locale. Tuttavia, occorre rimarcare che il tentativo e ovviamente anche i risultati raggiunti sono degni di attenzione. Rimane sempre il problema del sostegno alle iniziative. Le amministrazioni locali, così come la società civile, non veicolano i propri messaggi in modo efficace. Più l’intervento è complesso più si ha bisogno di una comunicazione sociale che enfatizzi i successi e spieghi con dovizia di particolari gli insuccessi [Vitale 2009]. Al di là del metodo, che va certamente affinato, preme sottolineare nuovamente la scelta di approcciare il tema dell’inclusione dei Rom dal versante più aspro, quello dell’abitazione. Questo genere di interventi necessitano anche di essere pensati in modo migliore, valutando con cura i possibili ostacoli e le necessarie contromisure. Il caso di Cosenza è esemplare: anche se sviluppatosi in una situazione di emergenza, l’iniziativa non ha colto nel segno perché ha tralasciato un elemento basilare come il lavoro. In questo senso, anche se il tema è stato trattato in modo incidentale, fa scuola l’approccio adottato a Reggio con la costituzione di una cooperativa di lavoro e la parallela acquisizione di una commessa duratura per assicurare una certa stabilità dell’impresa.
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Capitolo 6
I Rom in Sicilia: i confini degli spazi di inclusione Alice Ricordy1
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6.1 Camminanti e Rom in Sicilia La presenza di gruppi rom in Sicilia è attestata sin dalla seconda metà del 1400. Le notizie riportate da testimonianze scritte e fatti di cronaca narrano di gruppi zingari stanziatisi a Palermo e in altri centri della regione (quali Caltanissetta e Agrigento) definiti forgiatori, ossia artigiani e lavoratori del ferro [Piasere, Pontrandolfo 2002]. Nel corso del tempo, questi primi gruppi sono stati in parte assorbiti dalla società siciliana, andando a confondersi con le culture locali in un intreccio di tratti originali e sincretici, di cui è sempre arduo sciogliere i nodi. Attualmente sono numerose le anime romanì che popolano la Sicilia: gruppi molto diversi fra loro per nazionalità, storia e aspetti culturali. A seguito della mappatura, in Sicilia sono stati complessivamente riscontrati insediamenti di Rom e Camminanti, di diverse nazionalità, nella provincia di Catania (oltre al comune di Catania, a Paternò, Adrano, Bronte, Traino, Giarre), di Agrigento (Canicattì, Castrofilippo), di Siracusa (Noto, Priolo Gargallo), di Messina (Mirto, Oliveri, Meri, Messina capoluogo), di Enna (Troina), nonché nei comuni di Palermo, Ragusa, Trapani e Mazzara del Vallo (vedi cartina 6, p. 222). Quello di più antico stanziamento, e ancora oggi il più consistente numericamente, è costituito dai Camminanti, o Caminanti2, sino ad alcuni decenni fa ben inseriti nel tessuto economico siciliano attraverso l’esercizio di attività ambulanti quali arrotini, giostrai, im1 Il capitolo è di Alice Ricordy, tranne l’introduzione del paragrafo 6.5, che è una rielaborazione della sezione 3.3, a cura di Roberto De Angelis e Marco Brazzoduro, disponibile in IREF 2010b. 2 Il nome “Caminanti” deriva dal dialetto siciliano ed è l’appellativo con cui i siciliani indicavano questo gruppo di persone nomadi.
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pagliatori di sedie e calderai. Ancora oggi i Camminanti praticano una forma di semi-nomadismo definito “a breve raggio”, spostandosi sul territorio siciliano secondo il calendario delle feste popolari, che offrono loro maggiori occasioni lavorative, come la vendita ambulante di giocattoli e – soprattutto nel catanese – di carne equina. Alcuni gruppi, tuttavia, effettuano rotte commerciali a lungo raggio, spingendosi fino al Nord Italia (nel periodo che va dalla primavera all’autunno). Questi girovaghi sono un gruppo etnico fortemente radicato nel territorio siciliano, che cerca di far valere la propria identità culturale, conservando antiche tradizioni incentrate sulla parola, il canto e le leggende. I “siciliani erranti” sono gli ultimi eredi di una cultura fondata sul movimento, ma hanno fatto proprie le tradizioni locali, favorendo la nascita di una mescolanza variopinta di usi e costumi. Nonostante siano cittadini italiani e la maggior parte di loro risieda in abitazioni comuni, i Camminanti siciliani sono tutt’ora vittime di esclusione sociale dovuta in parte al nomadismo e in parte alle differenze linguistiche (anche se parlano un idioma molto più simile al dialetto siciliano che non al romanès)3 e più in generale a tratti identitari che, secondo il senso comune e i pregiudizi diffusi, sono incompatibili con il modus vivendi della società italiana. Oggi la comunità più numerosa di Camminanti si trova a Noto, dove sono circa 2000 (quasi il 10% della popolazione); altri gruppi sono presenti nella punta Sud-orientale dell’isola, nel territorio tra Modica e Avola. Altre comunità più piccole si riscontrano nella provincia agrigentina (Canicattì e Castrofilippo), nei capoluoghi di Palermo, Messina e Ragusa, nonché a Catania e nel territorio circostante (Adrano e Bronte – vedi cartina 7, p. 223). Sul territorio siciliano sono attualmente presenti anche comunità di Rom stranieri, più propriamente Rom emigrati dal paese natio per ragioni politiche ed economiche nel corso degli ultimi 30 anni. Tra questi gruppi, i più numerosi sono Rom provenienti dai paesi della ex Jugoslavia, dalla Bulgaria e dalla Romania. Per quanto riguarda i primi, i due gruppi maggiormente rappresentati sono i Rom khorakhanè (detti shiftarija) originari del Kosovo/ La lingua parlata dai Camminanti è probabilmente un siciliano arcaico con alcuni vocaboli e tratti linguistici mutuati dal romanès. Le poche informazioni disponibili sono rintracciabili nelle ricerche condotte da G. Soravia e pubblicate in Manuale di lingua romani, Bonomo Libreria, Bologna, 2009; dalle sue recenti considerazioni, in Breve storia dei dialetti rom e sinti in Italia, Pacini, Pisa, 2010; e, infine, dal testo di T. Schemmari, I Caminanti. Nomadi di Sicilia, Firenze Atheneum, Firenze, 1992. 3
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Montenegro e i Rom dasikhanè della Serbia, entrambi presenti nel campo de La Favorita di Palermo. Del migliaio di Rom shiftarija, giunti in massa a seguito del conflitto in Kosovo, distribuiti tra Catania città e il comune di Paternò (dove era sorta un’immensa baraccopoli su un terreno agricolo), oggi non restano che poche famiglie. La maggior parte è infatti emigrata in massa verso i paesi del Nord Europa (Germania, Belgio, Francia) nella speranza di ottenere lo status di rifugiato politico. Se i camminanti, nonostante le difficoltà, fanno comunque parte a tutti gli effetti della società italiana, in quanto storicamente appartenenti al territorio, la situazione in cui si trovano i rom slavi è estremamente differente. Questi ultimi infatti, in Italia da oltre tre generazioni, non sono riconosciuti a livello giuridico se non come extra comunitari. In molti casi sono addirittura privi di una cittadinanza, poiché raramente sono riusciti ad ottenere lo status di apolidia. Inoltre, nonostante non possano essere definiti nomadi, in quanto nel paese di origine vivevano stabilmente in case private, continuano ad essere indebitamente etichettati come tali. Di conseguenza da trent’anni risiedono in insediamenti abusivi, o campi-sosta semi attrezzati, in condizioni socio-sanitarie drammatiche e altamente degradate. Diversa ancora la situazione dei Rom bulgari e rumeni, giunti in Italia a partire dalla fine degli anni ’90. La loro situazione è più simile alle altre comunità di migranti, in quanto hanno lasciato la Romania o la Bulgaria essenzialmente per ragioni di indigenza. Si tratta per lo più di coppie giovani che a volte lasciano i figli nel Paese natio, dove periodicamente fanno ritorno. Se la presenza dei Rom bulgari è nel complesso molto contenuta, i Rom rumeni costituiscono invece una comunità ben più numerosa. Questi tendono a distribuirsi in gran parte nelle zone urbane (ma non mancano piccoli accampamenti in aree rurali), spesso in insediamenti spontanei composti da baracche costruite con materiali di fortuna. Nonostante siano ormai cittadini comunitari, incontrano enormi difficoltà per inserirsi in circuiti lavorativi che garantiscano loro possibilità di sostentamento.
6.2 La Sicilia e le politiche sociali per l’inclusione: l’esempio di Noto Dai cenni storici sopra riportati, risulta evidente quanto, anche in Sicilia, sia variegato l’universo di Rom, Sinti e Camminanti: gruppi 165
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diversificati, testimoni di percorsi, tradizioni e influenze culturali assai distanti tra loro che, come pezzi di un unico mosaico, trovano la loro ricomposizione storica nella comune origine di un popolo che partì dall’India più di mille anni fa [Liégeois 1994]. Di questa matrice rimane, oggi, ben poco. Lo stesso nomadismo proprio delle comunità di Camminanti non è più un tratto distintivo dei Rom slavi o rumeni, abituati da generazioni alla vita sedentaria in abitazioni. Ciò che oggi accomuna questi gruppi umani, oltre ad alcune caratteristiche socio-cognitive, quali il ceppo linguistico o l’organizzazione sociale, sono le condizioni di emarginazione politico-sociale in cui da sempre vivono in tutto il mondo. In generale, le politiche e gli interventi in favore di Rom, Sinti e Camminanti, realizzati dai governi locali a partire dagli anni ’60 a oggi, pur essendo finalizzati alla promozione di forme di integrazione, sono risultati spesso inadeguati nella formulazione stessa degli obiettivi e delle strategie, innanzitutto a causa di una conoscenza distorta e stereotipata dei destinatari4. Anche in Sicilia, dove tra l’altro non esiste una legge regionale di riferimento, il compito di provvedere a regolare la permanenza delle popolazioni di Rom Sinti e Camminanti sul territorio, e di sostenere o promuovere le eventuali iniziative sociali in loro favore, è stato automaticamente affidato ai governi locali. D’altra parte, la localizzazione degli interventi ha il potenziale vantaggio di definire strumenti e strategie di azione adeguate alle necessità specifiche del contesto, secondo i bisogni e le risorse del territorio. Il problema consiste nel saper sfruttare questa opportunità, favorendo il dialogo e la collaborazione tra tutti gli attori coinvolti, in primis le stesse comunità di Rom, Sinti e Camminanti. Nonostante ciò, anche in Sicilia le politiche sociali messe in atto risentono delle difficoltà e dei limiti frequenti in molte altre realtà italiane: le amministrazioni locali sono per lo più assenti, spesso rispondono solo quando viene sollevata l’emergenza con sgomberi totali o parziali degli insediamenti, senza offrire soluzioni alternative adeguate; di fatto preferiscono affidare al terzo settore l’incarico di sciogliere i nodi della questione integrazione, senza necessariamente garantire un supporto in termini politici. Questa situazione ha portato a innescare un processo per cui sono quasi sempre le associazioni o 4 Mancando una legge che tuteli a livello nazionale questa minoranza etnica e linguistica, alcune Regioni hanno emanato leggi locali che supplissero a tale carenza istituzionale (cfr. cap. 1).
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le istituzioni legate ai servizi, quali la scuola e la sanità pubblica che, vivendo il problema da vicino attraverso la quotidiana relazione con le persone, si attivano e tentano di riportare tali problematiche all’attenzione dei governi territoriali. In questo senso oggi sono diversi gli esempi di esperienze locali che hanno portato a intraprendere percorsi virtuosi di inclusione a partire dal bisogno concreto e particolare dei destinatari. Nel corso del presente capitolo ci si soffermerà sui casi di Catania e Palermo, cercando di evidenziare le ambivalenze degli interventi di integrazione sociale e accesso ai servizi sanitari. Prima di entrare nel merito dei singoli casi di studio può essere utile ricostruire le vicende di un intervento paradigmatico per metodologia e risultati, ovvero il progetto di istruzione a distanza (IaD)5 pensato per permettere la frequenza scolastica anche ai bambini camminanti di Noto assenti per lunghi periodi dalla città. Ricordiamo infatti che parte della popolazione camminante nei mesi di gennaio-febbraio lascia il Paese per ragioni economiche e commerciali, per poi tornare solo a primavera inoltrata. Il progetto di integrazione scolastica dei camminanti di Noto, finanziato con i Fondi Sociali Europei, fu avviato nel 1995 da un’iniziativa di Opera Nomadi, insieme al Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale Scambi Culturali, in partenariato con Irlanda e Spagna. La sperimentazione, della durata di tre anni, partì nel 1995 nell’istituto comprensivo “Francesco Maiore” (scuola primaria e secondaria di primo livello) grazie alla spinta di alcune insegnanti che si fecero ferventi promotrici del progetto e che riuscirono ad ottenere l’appoggio del Sindaco. Il progetto inizialmente prevedeva che nei momenti dell’anno scolastico in cui i Camminanti tornavano a Noto, i bambini camminanti e i bambini paesani seguissero le lezioni assieme. Quando invece le famiglie dei Camminanti partivano, i bambini continuavano a svolgere a distanza i compiti assegnati loro dalle maestre, le quali si impegnavano ad adeguare la didattica e gli strumenti di valutazione a questo modello di insegnamento, secondo la logica del piano formativo individualizzato.
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Si ringrazia Angelo Palazzolo per i dati relativi al progetto IAD raccolti sul campo.
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Alla fine dei tre anni di sperimentazione, tutto il materiale ricevuto dai bambini camminanti6 venne raccolto e dato all’Università Tor Vergata di Roma per monitorare e valutare lo stato di avanzamento del progetto, confermandone l’esito positivo. Da quel momento non si è più tornati indietro: il numero di Camminanti che si sono avvicinati all’istituzione scolastica di Noto è aumentato sempre di più e oggi la quota dei minori camminanti iscritti all’istituto comprensivo “Maiore” del piccolo comune siracusano è pari a circa il 30% del totale degli studenti. Il progetto IaD da quindici anni offre un’alternativa e una possibilità di conciliazione tra il sistema scolastico italiano e le diverse esigenze e abitudini di una comunità semi-nomade come quella dei Camminanti. Al buon esito dell’intervento hanno in questo senso contribuito la stretta collaborazione tra l’ufficio dei servizi sociali del Comune e l’istituto “Maiore” e il coinvolgimento dei genitori nel processo di scolarizzazione dei propri figli, fattori che hanno permesso di trovare uno spazio di mediazione tra culture e regole sociali differenti. L’insegnante Anna Maria Biondani, promotrice del progetto, da quindici anni lo sostiene strenuamente ed è tuttora tra le maestre che, con il loro quotidiano ed appassionato lavoro, garantiscono ai bambini camminanti di Noto la possibilità di ricevere un’istruzione di base che consenta loro non tanto di avere un futuro differente da quello dei propri genitori, quanto di avere la possibilità di scegliere il proprio futuro. L’esperienza positiva di Noto induce a riflettere sulla necessità di fare un passo verso le comunità romanì, tarando l’intervento sui bisogni specifici e concreti di questo gruppo umano al fine di renderli autonomi. Il limite che si intravede risiede piuttosto nella dipendenza del risultato dall’abnegazione e dalla professionalità dei docenti dell’istituto scolastico, che in questo caso ha garantito la continuità negli anni di un processo che per sua natura richiede tempi molto lunghi. Ci si chiede allora se sia possibile trasferire un tale modello d’inclusione scolastica in contesti dove il livello motivazionale sia differente. Esiste, infatti, il rischio che la buona pratica di inclusione scolastica dei Camminanti di Noto sia dovuta più a questo fattore contingente (la qualità del corpo docente del “Maiore”) che non ad un’efficiente ed efficace struttura organizzativa. Il fattore umano nel caso dell’Istituto scolastico “Maiore” ha un peso rilevante nel buon 6
Il materiale veniva spedito per posta dai Camminanti o portato direttamente a scuola al loro ritorno.
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esito del progetto e ogni ipotesi di trasferibilità di tale pratica dovrà tenerne conto. Questi dubbi sono confermati dal fatto che, nonostante la città di Noto conti quattro istituti comprensivi, la politica di inclusione scolastica dei Camminanti è portata avanti solo dalla scuola “Francesco Maiore”. Come si vedrà nei successivi paragrafi, attraverso l’analisi degli interventi realizzati in altre due città siciliane, Palermo e Catania, l’elemento motivazionale degli operatori (siano essi insegnanti, medici, volontari o anche impiegati della pubblica amministrazione) è condizione necessaria ma non sufficiente affinché un progetto sia sostenibile sul lungo periodo e i risultati positivi si rivelino duraturi. Il ruolo politico dell’amministrazione rimane decisivo, specialmente laddove si impone l’integrazione dei livelli di inserimento, casa, lavoro, scuola, per un’idea di inclusione globale della persona.
6.3 Palermo e Catania: due esperienze, due progettualità La scelta di descrivere e analizzare la situazione dei Rom a Palermo e a Catania è dovuta alla portata esemplificativa di due realtà molto diverse fra loro, sia per quanto riguarda le caratteristiche dei gruppi rom presenti, sia per la natura degli interventi di inclusione sociale ad essi rivolti. A Palermo ci si soffermerà sui Rom slavi residenti nel campo semi-attrezzato de La Favorita: insediatisi sul territorio circa trent’anni fa come profughi e rifugiati, queste persone versano ancora oggi in condizioni precarie sia da un punto di vista socio-economico sia da quello abitativo. I Rom presenti a Catania, invece, sono per lo più Rom rumeni giunti in Italia negli ultimi anni, in cerca di fortuna, le cui aspettative di lavoro e benessere sono state ben presto disattese. Vivono in insediamenti abusivi, ai limiti della sopravvivenza, cercando di barcamenarsi nelle pieghe del lavoro nero e dell’accattonaggio. In tali contesti, sono state sperimentate metodologie di intervento altrettanto differenti, ma con il comune obiettivo di sanare il divario esistente tra comunità rom e tessuto socio-economico delle rispettive città, e di avviare un processo di inclusione reale in un’ottica di empowerment. Nel caso di Palermo alcuni operatori sanitari della AUSL 6, spinti e sostenuti da una forte motivazione personale, hanno iniziato a visi169
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tare periodicamente il campo de La Favorita, fino ad ottenere la presa in carico della comunità rom da parte dell’azienda di sanità pubblica e determinando l’attivazione di una rete di collaborazione tra enti pubblici e privati coinvolti a vario titolo nella questione. Lo studio di caso, condotto sul campo a marzo 2010, ha permesso di approfondire la conoscenza dei vari aspetti dell’intervento, attraverso interviste semi-strutturate rivolte a operatori sanitari (medici, psicologi e infermieri, etc.) e del privato sociale e ad alcuni referenti istituzionali. L’indagine etnografica, realizzata a Catania nello stesso periodo, ha avuto come oggetto la giovane esperienza della Caritas diocesana che nel corso di quest’anno, insieme ad altre realtà associative, ha avviato un progetto di inclusione rivolto alla comunità di Rom rumeni, articolato su più livelli di integrazione e teso a favorire il riconoscimento dei diritti fondamentali dei Rom in più ambiti: educativo, sanitario e sociale. L’aspetto qualificante del progetto è ravvisabile nella costituzione di un partenariato specializzato ed eterogeneo. Per questo studio di caso, sono stati intervistati sia gli operatori della Caritas di Catania e dell’Opera Nomadi locale, sia alcuni capifamiglia e donne rom, così da ottenere uno spaccato significativo delle condizioni di vita, dei percorsi e delle prospettive proprie di questa comunità. Più avanti si vedrà come i casi descritti propongono due modelli di intervento diversi sia nella genesi che nell’evoluzione, ma che giungono alla messa a punto di strumenti simili, quali la continuità della presenza sul campo, la centralità della relazione personale operatorefamiglia rom, il lavoro di rete e la sinergia tra enti pubblici e privati.
6.4 Palermo: diritto alla salute e accesso ai servizi socio-sanitari, un primo passo verso l’inclusione 6.4.1 Breve storia del campo rom La Favorita Negli anni ’90, un sostanzioso gruppo di Rom kosovari residenti allo Zen, quartiere periferico di Palermo, venne trasferito in seguito alle tensioni con la popolazione locale. Per rispondere all’emergenza si concesse ai Rom di stanziarsi in un’area annessa al parco de La Favorita, dando origine a quello che nel giro di pochi anni sarebbe diventato il “campo rom” della città. Il 10 marzo 1992, infatti, un’ordinanza comunale approntò un programma per munire l’insediamento dei servizi essenziali, quali wc 170
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chimici, box-doccia e lavabi, allacciamento di questi all’impianto fognario più vicino, erogazione di acqua calda e fredda, pulizia del campo e delle zone limitrofe, nonché ritiro giornaliero dei rifiuti solidi urbani. Ancora oggi però tali propositi sono stati realizzati solo in parte, per cui non esiste un sistema fognario, lo smaltimento dei rifiuti non è garantito in modo regolare, l’acqua è fredda e non potabile, poiché l’approvvigionamento idrico avviene tramite autobotti comunali che riforniscono cinque silos installati “provvisoriamente” all’interno dell’insediamento. Nel corso del 1994, la popolazione del campo raggiunse le 500 presenze, poiché vi si stabilirono altri due gruppi rom, di nazionalità serba e montenegrina, prima accampati su un tratto del lungomare di via Messina Marine, nel quartiere Romagnolo. Lo spazio interno del campo venne quindi suddiviso in tre zone separate, corrispondenti ai tre differenti gruppi: montenegrini, serbi e kosovari. Le baracche, in legno o in tufo, realizzate con materiali riciclati, vennero disposte a ferro di cavallo per lasciare lo spazio agli incontri e ai giochi dei bambini. Nell’agosto dello stesso anno, come risulta dagli atti del Comune di Palermo, l’amministrazione cittadina adottò un provvedimento per regolamentare e disciplinare la gestione dell’insediamento (presidio di vigilanza e sportelli di segretariato sociale), regolamento che fu in seguito parzialmente annullato poiché faceva riferimento a un campo autorizzato, fornito di strutture e servizi a norma, che di fatto non è mai esistito. Infatti, non solo non furono mai installati i servizi previsti, ma non è stata neanche decretata l’ufficialità dell’insediamento, che continua a essere abusivo da un punto di vista legale e quindi passibile di sgombero. Oggi, a distanza di quasi vent’anni dalla sua nascita, il campo continua a soffrire di queste gravi carenze costitutive, poiché i vincoli ambientali cui è soggetta tale area, che è riserva naturale protetta, hanno impedito alle autorità competenti qualsiasi intervento di tipo strutturale. Ne deriva che le condizioni igienico-sanitarie del campo sono drammatiche e hanno portato questa frangia della popolazione a vivere in un degrado progressivo o ad abbandonare la città in cerca di un’accoglienza migliore. Nonostante non si possa parlare di emarginazione urbanistica, poiché l’area in cui il campo sorge è piuttosto centrale e risulta ben collegata con la città e i suoi servizi (caratteristica che ha favorito una serie di iniziative co-intraprese con la comunità rom volte a promuovere la 171
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relazione con la popolazione autoctona), il campo è recintato da un muro che lo sottrae alla vista dei passanti. Come suggerisce una psicologa dell’Ufficio nomadi e Immigrati del Comune di Palermo, da un punto di vista urbanistico, la sede attuale del campo all’interno del parco de La Favorita: È un posto che funziona da zona rimozione, nel senso che tu vedi gli alberi sopra, c’è un muro e non hai assolutamente idea di quello che ci sta dietro, di come vivono i bambini… quindi come luogo di rimozione sociale funziona perfettamente. E funziona anche il fatto che hanno istituzionalizzato la precarietà di questo campo. Il fatto che tanti se ne vanno è anche dovuto al fatto che nel tempo tutte le contrattazioni che si sono provate non hanno partorito nulla di realmente significativo. [Int. 6 psicologa - Ufficio nomadi e Immigrati]
Sia la collocazione spaziale, che mantiene il problema nascosto agli occhi della comunità civile, sia le condizioni abitative disagiate e precarie che spingono i Rom a partire in cerca di un luogo migliore in cui vivere, sembrerebbero dunque salvare le apparenze e rimuovere forzosamente il problema. Attualmente, secondo un censimento effettuato dagli stessi Rom (giugno 2009) nel campo “nomadi” La Favorita si contano 165 persone (di cui 83 minori di diciotto anni). La maggior parte sono di nazionalità kosovara, di religione musulmana, mentre poche famiglie di cattolici e ortodossi provengono dalla Serbia e dal Montenegro. Tra di loro, sono in pochi ad avere un permesso di soggiorno; molti hanno fatto richiesta di asilo politico; altri hanno un permesso legato alla licenza di commerciante; altri ancora hanno ottenuto un permesso di soggiorno in attuazione del comma terzo dell’art. 31 del Testo Unico sull’immigrazione7. 7 Art.
31 comma 3 del Testo Unico 286/1998 che così dispone: “Il Tribunale per i minorenni, per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell’età e delle condizioni di salute del minore che si trova nel territorio italiano, può autorizzare l’ingresso o la permanenza del familiare, per un periodo di tempo determinato, anche in deroga alle altre disposizioni del presente Testo Unico. L’autorizzazione è revocata quando vengono a cessare i gravi motivi che ne giustificano il rilascio o per attività del familiare incompatibili con le esigenze del minore o con la permanenza in Italia. I provvedimenti sono comunicati alla rappresentanza diplomatica o consolare e al questore per gli adempimenti di rispettiva competenza”. Fare ricorso all’art. 31 è spesso un modo per non spezzare le unità familiari e
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6.4.2 La rete e gli interventi Nel 1999, con determinazione della giunta comunale, è stato istituito l’Ufficio nomadi e Immigrati con lo scopo di favorire l’integrazione dei migranti e dei Rom. I compiti specifici di tale ufficio relativi alla popolazione rom sono stati attribuiti con delibera di giunta soltanto nel 2002, quando venne ribadita l’importanza di intervenire per l’inclusione dei “nomadi” e per garantire la regolare frequenza scolastica dei minori. Dal 2004 l’amministrazione ha inserito nuovo personale per dotare il servizio di un apparato più tecnico e operativo. Nello specifico, rispetto alla comunità rom di Palermo, l’Ufficio nomadi e Immigrati sostiene un ruolo di mediazione tra i Rom e le istituzioni, per cui riceve e raccoglie segnalazioni sullo stato di avanzamento e gli esiti dei progetti e delle attività che si realizzano in loro favore, sulle condizioni igienico-sanitarie del campo, sulla situazione scolastica dei minori; informazioni che se necessario vengono poi inoltrate al Comune o agli organi competenti. Inoltre, gli operatori dell’Ufficio partecipano presso l’Ufficio Scolastico Provinciale alle riunioni periodiche sul tema della scolarizzazione dei bambini rom organizzate dalle scuole del distretto 13, che attraverso un protocollo d’intesa si sono accordate per un’equa distribuzione degli alunni rom fra le diverse strutture scolastiche. Agli incontri, che hanno l’obiettivo di mettere in rete i diversi attori coinvolti nella presa in carico della comunità rom e monitorare la frequenza e l’andamento scolastico dei bambini, normalmente partecipano anche i servizi sociali, le associazioni di volontariato e i referenti dei progetti finanziati dal Comune. A proposito di questi ultimi, è bene ricordarne i due principali. Il Comune con i fondi della legge 285 del 19978 ha sostenuto: – un progetto di scolarizzazione dei minori e promozione degli adolescenti e delle donne – che attraverso il servizio sociale per i minorenni del Ministero della Giustizia è stato gestito dall’Arci Sicilia; – un’azione denominata “Ufficio rom per la promozione della formazione professionale e del lavoro”, per due anni e mezzo circa, nell’ambito del Piano di Zona. garantire la continuità del progetto migratorio, in assenza di una legislazione più inclusiva. 8 Legge 28 agosto 1997, n. 285 “Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza” pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 207 del 5 settembre 1997.
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Tali progetti avevano una durata prevista di poche annualità e sono stati sospesi essenzialmente per la mancanza di risorse, causando la dispersione immediata dei risultati conseguiti. È anche vero che dalle testimonianze raccolte si evince che il coordinamento di entrambi i progetti è stato condotto con strategie poco efficaci, poiché sono stati rilevati numerosi problemi dovuti alla percezione che i Rom avevano degli interventi e che sono diventati fonte di incomprensioni e di scontri con gli operatori. In questo senso, è stato ribadito da tutte le persone intervistate come un’inadeguata gestione dei fondi, la mancata continuità dei progetti, oltre alla scarsa conoscenza del contesto di intervento nelle sue peculiarità socio-culturali, alimentano il senso di sfiducia che i Rom nutrono nei confronti delle istituzioni. Tale sfiducia è in parte dovuta alla distanza tra ciò che l’amministrazione locale promette e quello che effettivamente viene realizzato, ma soprattutto a un forte scollegamento tra gli interventi e i bisogni reali della popolazione rom (si pensi solo all’uso improprio del termine “nomadi” che dà il nome all’ufficio comunale): Da parte dei Rom c’è una certa disillusione rispetto agli interventi promossi dall’amministrazione comunale o da altri enti perché loro hanno l’impressione che i fondi che sarebbero destinati a loro di fatto sono goduti da gagè, come dicono loro […] che fanno tante cose in nome dei Rom ma senza che i Rom ne abbiano una reale ricaduta positiva [Coordinatrice Ufficio Nomadi e Immigrati].
Da circa due anni nel campo La Favorita interviene anche l’associazione di volontariato Lega Missionaria Studenti (LMS), che si è avvicinata alla comunità rom attraverso incontri mensili, con il pretesto di distribuire la merenda ai bambini. Le attività svolte dall’associazione, quali colonie estive, corsi di pre-scolarizzazione e di sostegno allo studio, hanno un duplice scopo: migliorare l’andamento scolastico dei bambini, ma soprattutto mantenere un legame con la comunità, per garantire una continuità negli incontri e coltivare le relazioni al fine di definire lo spazio entro il quale sia possibile progettare insieme un percorso di inclusione. Per quanto riguarda la frequenza scolastica dei minori, si tenga presente che questa non è regolare, poiché, dopo l’ultimo progetto promosso dal Comune, non sono stati portati avanti ulteriori interventi in tale ambito. Inoltre, l’interesse delle famiglie nei confronti 174
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dell’istruzione dei figli è molto scarso. A tale proposito è bene sottolineare come la percezione della scuola da parte dei Rom è da ricondurre al discorso di quali siano le priorità e i bisogni immediati di una popolazione che vive ai margini. Di conseguenza, far comprendere ai Rom l’importanza della scuola in quanto luogo di acquisizione di competenze socio-culturali e degli strumenti necessari per inserirsi nel mondo del lavoro richiede una strategia d’azione che vada oltre il rispetto dei doveri del cittadino e l’adattamento unidirezionale al sistema culturale della società accogliente. Le scuole del circondario dal canto loro sono molto attive e hanno mostrato una grande disponibilità nel trovare soluzioni e favorire l’inserimento e la frequenza di questi bambini. Ma la buona volontà di insegnanti e operatori non è sufficiente se non è supportata dalle istituzioni. Al contrario: Le scuole non hanno le istituzioni dalla loro parte, quindi navigano contro corrente pure loro. Finché trovi la persona disponibile ad andare avanti con le proprie forze […] Di interventi istituzionali che abbiano un minimo di senso e di criterio non ce ne sono. Sono scriteriate le politiche sui rom e l’analisi che si fa dei rom. [Volontario LMS].
In questo senso tra gli ostacoli principali che questa popolazione si trova ad affrontare c’è quello dell’irregolarità giuridica che compromette tutti gli altri ambiti di inclusione, quali l’inserimento lavorativo e un alloggio dignitoso, e che non permette loro neanche di usufruire delle sovvenzioni per indigenza, fatto che contribuisce ad accrescere la distanza socio economica dai gagè (non-rom). Dalle testimonianze di operatori sanitari e del volontariato sociale, che portano avanti progetti finora risultati efficaci, risulta evidente come la strategia più idonea sia quella che mette al primo posto la relazione interpersonale, per cui l’intervento viene identificato con la persona e il rapporto che con questa le famiglie stabiliscono. Alla crescente sfiducia nell’istituzione si accompagna una propensione a valorizzare la fiducia nel singolo operatore. A partire da questa constatazione si muove la metodologia adottata dagli operatori sanitari della AUSL 6 di Palermo che per primi hanno sperimentato con i Rom residenti sul territorio un approccio basato sulla centralità della relazione. Relazione costruita attraverso l’offerta attiva, la presenza sul campo e un lungo lavoro di orientamento e 175
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avviamento di percorsi assistenziali, al fine di spingere la persona a raggiungere la piena autonomia nella fruizione del diritto alla salute e nell’utilizzo delle strutture sanitarie pubbliche.
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6.4.3 Gli strumenti della salute: presenza sul campo e approccio relazionale Il Centro di Salute Immigrati e Nomadi della AUSL 6 di Palermo è un servizio specifico rivolto a stranieri e Rom che ha sede all’interno di una struttura ambulatoriale e di guardia medica in via Massimo D’Azeglio, 6. All’interno, oltre all’ambulatorio per immigrati che rilascia la tessera STP/codice ENI ed effettua visite mediche, è anche presente un centro vaccinale e un consultorio ginecologico, per cui l’utenza complessiva è composta sia da stranieri sia da italiani. La discreta affluenza dei Rom al Centro è il frutto di un’azione specifica portata avanti negli ultimi vent’anni da alcuni operatori sanitari. Nato per rispondere a un’emergenza sanitaria, l’intervento dell’équipe del Centro si è trasformato nel tempo in una vera e propria presa in carico da parte del servizio pubblico della comunità rom, con il fine ultimo di inserire anche questa fascia di popolazione nel circuito regolare della fruizione del diritto alla salute e garantirne l’accesso alle strutture del Sistema Sanitario Nazionale. I primi interventi sanitari nel campo La Favorita sono stati effettuati verso la metà degli anni Novanta a seguito di un caso di poliomielite di una bambina rom residente nell’insediamento, per iniziativa di un medico di medicina preventiva. La prima azione fu dunque di igiene pubblica, una campagna vaccinale destinata ai bambini rom, nonostante le forti resistenze espresse allora da parte di molti medici. Come ricorda una delle dottoresse intervistate: Nessuno voleva vaccinare i bambini. L’iniziativa è partita da noi medici. Non c’è stata una direttiva aziendale, piuttosto è l’azienda che ha subito la nostra iniziativa, in modo un po’ garibaldino. [Medico AUSL 6].
In seguito, a partire dal 1997, un gruppo di sanitari, guidati dallo stesso medico e da una collega responsabile del Centro Salute Immigrati e Nomadi, decise di proseguire nel lavoro con i Rom allargando l’intervento a tutti gli aspetti dell’assistenza sanitaria, nel tentativo 176
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di ridurre l’accesso improprio al pronto soccorso che fino a quel momento rappresentava l’unico punto di riferimento. In accordo con il mandato del servizio pubblico, è iniziato un intervento che prevedeva due visite al campo settimanali, con lo scopo di proporre, oltre all’offerta attiva di prestazioni sanitarie, l’orientamento ai servizi territoriali, gettando le basi per un processo di inclusione. Di certo, l’imposizione dall’esterno dell’intervento, senza alcuna attività di mediazione, sarebbe stata sicuramente destinata al fallimento. Per costruire un’immagine di credibilità e utilità del servizio è stato necessario coinvolgere attivamente i rappresentanti dei vari gruppi rom presenti, prestando la massima attenzione alle gerarchie interne al campo, ai rapporti tra le diverse etnie e agli equilibri di potere. Il punto di forza di tale modalità di “aggancio attivo” è stato quello di portare inizialmente il servizio all’interno del campo, adottando un atteggiamento di apertura, curiosità ed ascolto dell’altro, atteggiamento che ha consentito di abbattere progressivamente le distanze e di creare una relazione di fiducia con la popolazione residente. L’altro elemento vincente, necessariamente legato al primo, è stato la garanzia di continuità dell’intervento, ossia l’essere costantemente presenti sul campo nei giorni e orari stabiliti in qualsiasi condizione meteorologica, facendo in modo che le “buone intenzioni” divenissero agli occhi dei Rom prassi concreta. Infatti: Conquistare la loro fiducia non è per niente facile. Si conquista la loro fiducia mostrandosi costanti nell’intervento, non “toccata e fuga”. Quello di cui loro non hanno assolutamente bisogno è l’illusione, il non tener fede, l’evanescenza. Queste sono le cose negative che vedono nelle nostre amministrazioni. [Medico AUSL 6].
In tempi più recenti, il rischio che il programma di intervento sanitario fosse percepito dai Rom come mero assistenzialismo, senza favorire un processo di emancipazione e di integrazione sul territorio, ha condotto l’équipe di medici a diradare progressivamente le visite al campo. In virtù dei forti legami personali instaurati con lo stesso personale sanitario, l’effetto immediato è stato quello di incoraggiare la popolazione rom ad accedere autonomamente all’ambulatorio dedicato. Ad oggi: Definirei buona l’affluenza, per tutto il lavoro che è stato fatto a monte per instaurare un clima di fiducia con noi e, a cascata, con gli altri 177
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ambulatori, in particolare la ginecologia, ma anche altre strutture del sistema sanitario nazionale… La relazione di fiducia è stata creata nel corso degli anni con il nostro accesso al campo due volte alla settimana, con il cosiddetto “aggancio attivo”. [Medico AUSL 6].
Ed infatti uno dei principali punti di forza dell’intervento è stato il ruolo assolto dall’equipe medica dentro e fuori dal campo, caratterizzato da un approccio integrale all’utente rom che abbraccia non solo l’aspetto sanitario, ma anche quello sociale, legale e psicologico e che richiama alla mente la funzione del vecchio medico di famiglia, depositario della storia personale e familiare del paziente. In altri termini, in virtù del rapporto privilegiato che si andava costruendo con la popolazione rom, i medici coinvolti nel progetto si sono di fatto trovati a svolgere anche il ruolo di assistenti sociali, dovendo fronteggiare problematiche legate alle situazioni familiari, all’inserimento lavorativo, alla scolarizzazione dei minori e perfino alla condizione giuridica. L’esigenza di dare risposta alle diverse problematiche emergenti ha spinto gli operatori sanitari a coinvolgere una serie di soggetti chiave presenti sul territorio, dapprima attraverso contatti personali, in seguito con accordi sempre più formalizzati. Il lavoro decennale svolto dalla AUSL 6 a favore dei Rom del campo La Favorita ha dato, dunque, vita ad un’ampia rete di soggetti istituzionali e del privato sociale9 che si sono fatti carico di diversi aspetti dell’intervento, organizzando strutture socio-sanitarie di primo e secondo livello. Nell’attuale contesto, il ruolo principale dell’ambulatorio rimane quello di “cuscinetto”, favorendo l’invio degli utenti rom a strutture specialistiche, mediando i conflitti, facilitando il passaggio di informazioni ed intercettando le criticità. I medici sottolineano di essere “un anello di una catena che una volta messa in moto è inarrestabile”, anche se resta il dubbio di una eccessiva personalizzazione delle relazioni che non si traducono automaticamente nella presa in carico da parte del servizio e delle istituzioni. Al di là di tali perplessità, la capacità di attivazione dei diversi nodi della rete sembra essere molto elevata, soprattutto considerando lo stato permanente di emergenza in cui si è costretti a lavorare. L’esperienza della AUSL 6 di Palermo e in particolare dell’équipe del Centro di Salute Immigrati e Nomadi fornisce un utile spunto di 9
Ufficio nomadi del comune, Lega Missionaria Studenti, Caritas, Arci, oltre alla partecipazione degli istituti scolastici di zona.
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riflessione sul quale possa essere un’adeguata strategia di intervento con la popolazione rom, quali i rischi di un approccio eccessivamente assistenzialista e quali i limiti legati alla carenza di un supporto, non tanto economico quanto metodologico e progettuale, da parte delle istituzioni. Risulta evidente come una strategia d’azione che metta al primo posto la relazione e la costruzione di un rapporto di fiducia reciproca con le persone e con le famiglie sia non solo efficace, ma forse l’unica che possa portare a risultati concreti. L’esito positivo sta nell’aver raggiunto l’obiettivo di normalizzare l’accesso dei Rom ai servizi, fuori dal campo, a partire dall’offerta attiva dentro le loro case. Come abbiamo visto, attualmente i Rom usufruiscono delle strutture sanitarie autonomamente, poiché, non solo conoscono gli operatori dei quali si fidano dato il rapporto di lunga data, ma hanno sperimentato positivamente l’accoglienza del servizio e i percorsi assistenziali sono sempre giunti a buon fine. In questo senso diventa necessaria la formazione degli operatori per l’acquisizione delle competenze relazionali specifiche e un’adeguata conoscenza del contesto di intervento. Formazione che non può limitarsi a un corso teorico, ma deve piuttosto fondarsi sulla pratica. Il primo passo diventa quindi quello della presenza sul campo. Il percorso affrontato dal personale sanitario della AUSL 6, iniziato portando la sanità pubblica dentro l’insediamento con lo scopo di conoscere i rom e creare i presupposti per il processo di inclusione fuori dal campo, è con molta probabilità riproponibile anche in altri ambiti, come per esempio la scuola. Come con medici e infermieri anche gli insegnanti, se non addirittura le classi, potrebbero entrare davvero in contatto con il mondo rom attraverso uscite sul campo, andare a vedere come e dove vivono queste persone, sperimentare l’ospitalità presso le loro case. In tal senso è necessario che le istituzioni condividano, sostengano e promuovano una simile strategia, affinché questa possa diventare la linea di intervento privilegiata.
6.5 Catania. Scuola, lavoro, salute: criticità e punti di forza di un intervento integrato10 La periferia della città di Catania ospita diversi gruppi di Rom rumeni dislocati in quattro insediamenti spontanei. Il più consistente L’introduzione del presente paragrafo è una rielaborazione della sezione 3.3, a cura di Roberto De Angelis e Marco Brazzoduro, disponibile su IREF 2010b. 10
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è quello situato in un’area adiacente al cimitero, nella zona di Librino, in via Zia Lisa, dove abitano 41 famiglie, per un totale di circa 140 persone (di cui 70 minori) provenienti dalla città di Calarasi e appartenenti al gruppo degli spoitori11. L’accampamento di via Zia Lisa sorge su di un terreno privato, in una conca argillosa, cui si accede tramite un ripido sentiero sterrato che rende l’insediamento invisibile ai passanti. I Rom che vi abitano sono giunti in Italia nei primi anni del 2000 e molti di loro sono a Catania in modo più o meno stabile, in relazione alla frequenza degli sgomberi, da 2 o 3 anni. Come nella maggior parte degli insediamenti spontanei, anche qui i Rom hanno costruito con materiali di fortuna piccole baracche su palafitte che le sollevano di circa un metro dal suolo per scoraggiare i topi che infestano l’area. L’interno delle case è molto modesto, non più di 10 mq occupati da un letto, dove in genere dormono sia i genitori che i figli, e da un tavolino con un fornello alimentato da una bombola a gas. La corrente elettrica è prodotta da un generatore a nafta utilizzato con estrema parsimonia. La mancanza di acqua e di servizi rende le condizioni igienico-sanitarie del campo estremamente precarie e dannose per la salute della popolazione. Sono frequenti le infezioni dell’apparato respiratorio, le malattie della pelle, i disturbi gastrointestinali. Inoltre l’impossibilità di curare in modo appropriato l’igiene personale pesa gravemente su processi di inserimento e socializzazione, già difficoltosi in partenza. Il tasso di analfabetismo è molto elevato e sono pochi i bambini che frequentano la scuola. Come per quasi tutti i Rom romeni, anche il progetto migratorio di questo gruppo è legato a motivi economici. In Romania infatti, nonostante molti di loro abbiano una casa, non riescono a sopravvivere per 11 Un
secondo gruppo di circa 60 Rom, sempre spoitori di Calarasi, si è stabilito nella periferia Sud-ovest della città, in via S. Giuseppe la Rena. In viale Kennedy invece, nella struttura abbandonata di un vecchio campo sportivo, vivono circa 30 Rom provenienti dalla città di Suceava, appartenenti al gruppo dei barè balenghi. Un ultimo insediamento è costituito da 20 famiglie di rom rumeni di recente immigrazione, sistemati in tende e baracche in un profondo avvallamento del suolo, circondato da mura, in Corso Martiri della Libertà. In varie zone della città, inoltre, sono presenti Rom khorakhanè originari del Kosovo che vivono in abitazioni in affitto povere e fatiscenti. Attualmente molti di loro hanno lasciato la città per trasferirsi in Emilia. Nel presente lavoro ci soffermeremo sulla comunità di Rom residenti in via Zia Lisa, destinatari privilegiati dell’intervento di inclusione sociale promosso dalla Caritas diocesana.
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il costo della vita assai elevato rispetto alle possibilità di guadagno. Queste persone arrivano in Italia convinte che le prospettive di una vita migliore siano concrete e reali e si ritrovano invece costretti a scegliere di vivere in baracche in condizioni insalubri, spesso oltre i limiti della dignità umana, piuttosto che morire di fame nel proprio Paese, come testimoniano gli stessi Rom:
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D: Te l’aspettavi così l’Italia? Ti aspettavi che una volta arrivato qua anziché vivere in una casa ti mandavano a vivere in un campo? R: No. D: Che ti aspettavi? R: Io aspettavo che qua se arrivo posso trovà una casa affittare, posso riuscire a pagarla anche con il lavoro, posso mantenermi la famiglia… invece, è un altro modo… [S.M. intervista n. 6]. R: Io pensi che è po’ meglio di qua perché qua è po’ bene… A casa non c’è da mangiare, non c’è per i pannolini, non c’è che oggi quello bambini piccoli de un anno e due mesi… quello bambini è bisogno di pannolini e bisogno de mangiare e bisogno de latte, e dove prendere mia mamma ? Ché mia mamma non c’è posto de lavoro, sai? (la madre in Romania tiene i figli – N.d.R.). [L., 27 anni, 2 figli, intervista n. 18].
Le attività lavorative che questi rom riescono a svolgere sono saltuarie e poco redditizie per cui quasi tutte le famiglie sono costrette a integrare gli introiti con la questua, che generalmente praticano le donne. Tra le attività che svolgono gli uomini, la più diffusa è il commercio di rottami metallici (ferro, rame ed alluminio). Sono molti i Rom che lavano i vetri ai semafori, o che vendono oggetti e abiti usati, spesso raccolti dai cassonetti della spazzatura, al mercato delle pulci ove, per conquistarsi un posto, si recano anche a mezzanotte del giorno prima. Altri ancora lavorano saltuariamente come braccianti agricoli (specialmente per la raccolta delle arance) o come manovali nell’edilizia. Qualche Rom è impiegato nel carico e scarico di merci e un ragazzo fa il badante a un anziano. Riportiamo ancora alcuni estratti esemplificativi delle interviste: D: Senti e che lavoro fai? R: A semaforo. D: Ai semafori? R: Sì. D: Ma hai anche lavorato in campagna, nell’edilizia… R: Io ho cercato lavoro però non ha trovato! Ha cercato 2 mesi e no ha trovato. [T.C., 18 anni, 1 figlio, intervista n. 23]. 181
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D: Senti e invece tu che lavoro fai? R: Prima c’han lavorato manovale. D: Sì. R: Manovale? D: Ma nell’edilizia? A costruire le case? R: No, no! Solo manovale! D: Manovale in campagna ? R: In campagna, sì, con italiani. D: Sì, sì, che lavori facevi ? R: Si guadagnava al giorno 25 euro, 30 euro al giorno, la mattina dalle 7 e mezza fino alle 4. D: Fino alle 4 ? R: Sì. C’ho lavorato 5 mesi prima quando vengo. Poi sono finito lavoro, sono andato anche al semaforo per lavare la vetro. [L., 27 anni, 2 figli, intervista n. 18]. D: Che lavoro fai? R: Per fero vecchio. D: Ah! Ferro vecchio… E come… che c’hai? Un’ape? Come lo trasporti il ferro? C’hai un furgone? R: Furgone, sì. D: Furgone o camion? R: Furgone! D: Furgone. E quanto si fa al giorno col ferro? Quanto riesci a fare? R: 100 euro, 50 euro fai. D: E ti chiamano, ti telefonano per dire vieni a prendere il ferro? Hai degli amici che ti chiamano o vai in giro tu? R: Giro io per spazzatura. D: Giri tu per la spazzatura e prendi il ferro? R: Sì! [S.C., 27 anni, 2 figli, intervista n. 29].
Di fatto, come molti dei Rom rumeni presenti sul territorio italiano, la mancanza di lavoro costituisce uno degli ostacoli principali per riuscire a inserirsi nel tessuto socio-economico del nostro Paese. Non disponendo di un reddito sufficiente per stabilirsi in Italia in modo definitivo, o per avviare un’attività imprenditoriale in Romania, si trovano a vivere in un limbo che permette loro unicamente di sopravvivere e inviare i pochi risparmi alla famiglia rimasta nel Paese di origine. Per queste persone, la difficoltà nel trovare un impiego è in larga parte dovuta ai pregiudizi che inducono i datori di lavoro a diffidare dei Rom, a meno che questi non nascondano la propria appartenenza etnica. Inoltre a Catania, come del resto in molte aree del Meridione, la situazione è aggravata dalla presenza, in ampi strati della popolazione etnea, di fenomeni d’indigenza e marginalizzazione sociale12; senza contare che il campo di via Zia Lisa sorge all’interno del quartiere di Nella Provincia di Catania, al 2009, il tasso di disoccupazione si è attestato all’11,3%; mentre, l’incidenza della disoccupazione tra i 25 e i 34 anni è del 16,4% [Istat 2010]. Alla mancanza di lavoro, nel Meridione, si sommano altri fattori di criticità come ad esempio l’alfabetismo: secondo una ricerca condotta nel 2005 da Saverio Avveduto, dal titolo “La croce del Sud”, nella sola città di Catania quasi un residente su dieci (8,4%) era analfabeta o semi-analfabeta. 12
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Librino, zona fortemente colpita da alti tassi di dispersione scolastica, disoccupazione e delinquenza. Ciò produce frequentemente aspri scontri per la difesa del territorio, come per esempio l’amara competizione esistente tra Rom e gagè che esercitano quei mestieri che in altre parti d’Italia sono di esclusivo appannaggio dei primi (riciclaggio del ferro, vendita ambulante nei mercati, etc.), motivo in più per alimentare il malcontento sociale e l’accanimento nei loro confronti.
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6.5.1 Dal primo progetto di scolarizzazione a un’azione progettuale trasversale Gli interventi socio-sanitari nel campo di via Zia Lisa sono iniziati nel 2007 con un progetto pilota di scolarizzazione denominato “Bimbi rom tutti a scuola”, promosso dalla Caritas di Catania. Prima di allora la Caritas aveva avuto contatti sporadici con qualche Rom che ogni tanto si rivolgeva ai centri di ascolto e si era riusciti a stabilire un buon rapporto con alcune famiglie tramite la Parrocchia ortodosso-rumena. Di fatto il progetto di scolarizzazione costituiva il primo intervento strutturato rivolto ai Rom presenti sul territorio, fino a quel momento rimasti in uno stato di invisibilità e ignorati dalle istituzioni. Il progetto prevedeva l’accompagnamento dei bambini a scuola e un doposcuola pomeridiano per tre giorni a settimana, presso il centro Caritas. Durante tali pomeriggi si provvedeva al pranzo e alla merenda, all’igiene personale dei bambini e si svolgevano laboratori ricreativi e di sostegno allo studio. Il progetto ebbe la durata di un anno e coinvolse 20 minori tra i 5 e i 14 anni di età. Dopo un primo momento di difficoltà, a causa dell’ambiente nuovo e dell’ostilità mostrata dai compagni (tanto più che le scuole si trovavano tutte nel problematico quartiere di Librino), i bambini riuscirono a inserirsi positivamente nel gruppo classe e a instaurare rapporti di amicizia. Per il raggiungimento di questo obiettivo fu decisiva la relazione con le famiglie, le quali, come spesso accade fra i Rom, nutrivano una spiccata diffidenza nei confronti dell’istituzione scolastica. Con il tempo, il bisogno di integrazione e la soddisfazione per i successi scolastici dei bambini portarono gradualmente i genitori a interessarsi direttamente al percorso didattico e sociale dei propri figli. Inoltre furono promosse diverse occasioni di incontro e di scambio tra le 183
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famiglie rom e quelle dei bambini italiani, come le feste organizzate dalle scuole alle quali le mamme rom parteciparono attivamente, a volte cucinando alcuni piatti tipici della propria tradizione. L’importanza del progetto, oltre ad essere legata alla rapida efficacia delle azioni messe in atto, stava nel fatto di rappresentare la prima politica di accoglienza nei confronti della popolazione rom nel panorama del welfare locale pubblico e privato. Ciò nonostante, gli esiti positivi dell’intervento non furono sufficienti a contrastare il clima politico dominante, volto alla sicurezza e al decoro. In seguito a ripetute minacce di sgombero da parte delle forze dell’ordine, alla fine del 2008 molti Rom lasciarono la città e i rimanenti furono allontanati. Le attività della Caritas vennero quindi interrotte e i risultati ottenuti dispersi insieme ai Rom. Dopo pochi mesi di assenza da Catania, alcune famiglie tornarono a stabilirsi in città. Ben presto anche il campo di via Zia Lisa si ripopolò, di vecchi e di nuovi abitanti, raggiungendo le odierne 140 presenze. Intanto, nel corso del 2009, la neonata Opera Nomadi locale aveva portato avanti alcune attività con i Rom che progressivamente ricostruivano le proprie baracche nell’area adiacente al cimitero. In quel periodo la Caritas sosteneva l’associazione, fornendo i locali e le attrezzature per riattivare il doposcuola per i minori. Attualmente il programma di doposcuola è stato inserito all’interno di una nuova azione progettuale di più ampio respiro, finanziata dalla CEI con i fondi 8x1000. Tale intervento, avviato all’inizio del 2010, ha lo scopo di sperimentare prassi di inclusione sociale a favore dei Rom, favorendo il riconoscimento dei diritti fondamentali all’istruzione, alla salute, al lavoro e alla non discriminazione. A tal fine la Caritas, come ente promotore e forte dell’esperienza acquisita negli ultimi anni e del rapporto mantenuto con alcune famiglie rimaste più o meno stabili, sostiene un ruolo di mediazione interculturale tra le comunità rom presenti sul territorio e il contesto di inclusione. Avendo l’occasione e le risorse per avviare un nuovo progetto strutturato si è ritenuto necessario pensare a un intervento che mettesse al centro la famiglia, predisponendo percorsi di accompagnamento mirato ad un inserimento complessivo della persona. Al fine di garantire la continuità e l’efficacia dello stesso percorso di scolarizzazione, nel corso dell’esperienza del 2007/08, era emerso infatti come fosse indispensabile intervenire in altri ambiti, quali la salute (insieme all’iscrizione scolastica necessariamente si regolarizzò la copertura 184
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vaccinale di tutti i bambini), o le condizioni socio-economiche dei genitori (si tentarono anche alcuni inserimenti lavorativi presso enti privati di autolavaggio, carpenteria, edilizia). Frutto di tale riflessione, insieme a una valutazione delle risorse disponibili, è il modello progettuale attuale che punta alla presa in carico globale delle persone, affinché possano raggiungere un’autonomia sufficiente, come nucleo familiare, ad uscire dalla condizione di marginalità sociale ed economica in cui si trovano. L’attuale progetto è quindi articolato su più livelli. Si continua a dare priorità alla scolarizzazione dei minori, secondo una metodologia già collaudata e risultata valida, che tende a favorire il dialogo diretto scuola-famiglia. Il valore aggiunto consiste nell’aver coinvolto direttamente l’istituto scolastico che mette a disposizione i locali per le attività pomeridiane. Come per l’avviamento dei percorsi educativi per i bambini (fino ad ora il progetto vede la partecipazione di 15 minori), l’intervento opera sugli altri settori, escogitando forme di accompagnamento della persona nell’utilizzo autonomo dei servizi del territorio, quali avviamento al lavoro e all’assistenza giuridica e previdenziale, attraverso uno sportello di ascolto e orientamento a cui i Rom possono rivolgersi in caso di bisogno; ma anche corsi di lingua italiana per adulti e bambini, attività di animazione e socializzazione con le famiglie, con lo scopo di educare alla legalità, all’integrazione socio-economica e all’assistenza sanitaria e di orientamento alla rete di prestazioni differenziate con attenzione particolare alle fasce deboli, quali donne e bambini. Per la realizzazione di un progetto così complesso e che integra i livelli di inserimento, è necessaria la collaborazione di tutti gli organi che possano assolvere alle rispettive funzioni che i diversi ambiti richiedono. Con la Caritas infatti operano attivamente più enti del privato sociale (fra cui Opera Nomadi Catania, Croce Rossa Italiana, società di San Vincenzo de Paolis) ed istituzionale (circolo didattico “Caronda” - XIII Distretto Scolastico), che contribuiscono a vario titolo alla realizzazione delle attività e al consolidamento della rete. In tal senso, il progetto prevede anche la creazione di spazi di confronto e cooperazione che promuovano la comunicazione e lo scambio di buone pratiche tra le organizzazioni e le istituzioni che si occupano delle comunità rom sul territorio. A distanza di neanche un anno dal suo inizio, il progetto promosso dalla Caritas di Catania ha già prodotto alcuni effetti positivi soprat185
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tutto per quanto riguarda l’inserimento scolastico dei minori, tanto che si sta pensando di estendere le attività di scolarizzazione ad altri gruppi rom presenti sul territorio. D’altra parte, dopo così poco tempo, si è ancora lontani dal raggiungere lo scopo di rendere i Rom responsabili ed autonomi nello sviluppo dei percorsi avviati. A ciò si aggiungano le difficoltà legate alla precarietà e al continuo stato di emergenza in cui si interviene, che rendono estremamente complicata la costruzione di progetti a medio e lungo termine. Intanto però è possibile avanzare alcune considerazioni sull’impostazione dell’intervento, che ha il merito di affrontare il problema nell’ottica di un’inclusione trasversale basata sull’integrazione delle risorse di rete, al fine di promuovere progetti di inserimento della persona in tutti gli aspetti della sua esistenza: giuridico, linguistico, formativo, sanitario, lavorativo, etc. L’intervento, oltre all’offerta attiva di accompagnamento e supporto nella realizzazione degli specifici progetti di vita, mira alla costruzione di relazioni consapevoli e di fiducia tra i cittadini, i Rom e le istituzioni, promuovendo occasioni di incontro tra i Rom e la comunità locale (mostre fotografiche, laboratorio teatrale, feste). La sensibilizzazione del tessuto sociale è infatti necessaria per l’accoglienza dei rom nei servizi, negli ambienti lavorativi e di socializzazione. A tale proposito, è bene ricordare che per molti aspetti non è possibile disgiungere il ruolo e l’eventuale contributo dell’amministrazione locale dall’esito positivo di un progetto di inclusione. Se infatti la Caritas e i suoi partner intervengono sui Rom, lavorando sull’acquisizione della conoscenza e della comprensione delle norme civili e culturali di cittadinanza, d’altro canto sono costantemente impegnati nella ricerca di un dialogo con le istituzioni e gli enti locali per l’inserimento della popolazione rom all’interno delle politiche di welfare. In tal senso viene un’altra volta confermata la collaborazione attiva degli istituti scolastici che, trovandosi quotidianamente a contatto con il problema, sperimentano in modo diretto i vantaggi di un inserimento efficace degli alunni e delle famiglie rom. Nello specifico, l’amministrazione comunale si è avvicinata solo di recente al caso dei Rom a Catania, in seguito alle sollecitazioni da parte della Caritas e dell’Opera Nomadi. Pur appoggiando l’operato di tali organizzazioni, finora l’unica proposta che il Comune ha lanciato è la possibilità di costruire un campo attrezzato transitorio, o di dotare di servizi gli insediamenti esistenti. Per alcuni aspetti un simile progetto rappresenta una presa in cari186
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co da parte dell’amministrazione, poiché costituisce il riconoscimento di una situazione di degrado che non può perpetuarsi e predispone un piano di intervento alternativo alla soluzione dello sgombero forzato. D’altro canto, se la dotazione di servizi può essere una risposta all’emergenza igienico-sanitaria, l’allestimento di un campo attrezzato incorre in alcuni rischi difficili da scongiurare, in quanto continua ad alimentare i luoghi comuni costruiti intorno all’idea che i rom siano “nomadi” e che l’area di transito sia la soluzione più indicata e rispettosa della loro cultura. In tal senso, le istituzioni locali, insieme alle organizzazioni del volontariato, sono chiamate a predisporre azioni di inclusione socio-abitativa in grado di andare oltre la logica del campo-sosta, mettendo a disposizione risorse economiche e di rete per l’attivazione di programmi d’inserimento lavorativo e abitativi nel tessuto socio-economico cittadino. Ad oggi questo obiettivo non è stato raggiunto, l’adesione informale dell’amministrazione comunale alle attività svolte dal privato sociale non si è ancora tradotta in azioni concrete. Ci si augura che l’intervento della Caritas diocesana e dei suoi partner possa gettare le basi per un ripensamento generale delle politiche di inclusione socioabitativa delle comunità rom territoriali.
6.6 La strada del dialogo Le esperienze della AUSL 6 di Palermo e della Caritas di Catania, insieme all’originale progetto di scolarizzazione dei bambini camminanti di Noto, ci ricordano che nell’elaborazione di interventi in favore di Rom, Sinti e Camminanti non si può prescindere dalla specificità del contesto e che la scelta del modello di azione può essere operata all’interno di un ampio ventaglio di possibilità. In effetti sono state sperimentate numerose soluzioni socio-abitative, di inserimento lavorativo, di promozione della salute, alternative e lontane dalle politiche nocive degli sgomberi e dei campi attrezzati. Insieme ad un’adeguata conoscenza dei contesti di intervento, si può attualmente contare su di una grande varietà di strumenti collaudati e di esperienze positive che rendono reale l’inclusione sociale dei Rom: dalla casa, alla scuola, alla loro stessa partecipazione attiva in tutte le fasi di programmazione degli interventi [Vitale: 2009]. Naturalmente la realizzazione di un progetto non dipende solo dai bisogni degli utenti, ma anche dalle risorse che il territorio offre in 187
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termini di competenze professionali, reti già attive, strutture e servizi. La condivisione del comune obiettivo di promuovere l’autonomia delle persone rom, all’interno di un processo di inclusione globale, si tradurrà quindi in un progetto esclusivo per ogni diversa realtà, tarato sulla dimensione complessiva in cui si realizza. In questo senso le differenze tra gli interventi di Palermo e Catania sopra descritti risultano evidenti. La AUSL 6 di Palermo è portatrice di un’esperienza decennale che ha visto l’iniziale spirito umanitario di alcuni operatori sanitari concretizzarsi nella costruzione in itinere di una metodologia di intervento efficace e ormai consolidata in gran parte delle strutture sanitarie del territorio. A Catania invece la Caritas, pur partendo da un progetto strutturato, con obiettivi ben definiti e da un discreto coinvolgimento dei diversi attori locali, è appena all’inizio di un percorso che, nonostante i primi risultati positivi, si presenta ancora lungo e faticoso. Entrambi i casi di studio forniscono, inoltre, alcuni spunti metodologici utili. In primo luogo è ritenuta indispensabile la presenza sul campo, che costituisce il primo passo per avvicinarsi alle persone e conoscerle. È quindi auspicabile che tale conoscenza si trasformi con il tempo in una relazione di fiducia, intesa come ascolto e rispetto dell’altro e basata sull’impegno reciproco e sulla coerenza. A tale proposito è emblematica la testimonianza degli operatori sanitari della AUSL 6 di Palermo. Da un punto di vista della strutturazione delle attività è bene attivare percorsi di inserimento paralleli in più ambiti (giuridico, lavorativo, abitativo, scuola, salute), come proposto dall’équipe della Caritas di Catania (ma che si è presto imposto come necessità anche a Palermo). Ciò non solo favorisce l’integrazione a tutti i livelli, ma permette anche di regolare e indirizzare le numerose richieste dei Rom verso settori di competenza specifica. In questo lavoro di orientamento ai servizi è necessario fare iniziale riferimento alle strutture (scuole, servizi sanitari, uffici amministrativi, etc.) più accoglienti e disponibili, poiché garantire percorsi positivi all’interno dei servizi pubblici consente di riqualificare il rapporto tra i rom e le istituzioni, spesso caratterizzato da un forte senso di sfiducia. Proprio per questo, sia dall’esperienza di Palermo che da quella di Catania, emerge la centralità del lavoro di rete, al fine di mettere in comunicazione tutti gli enti pubblici e privati che sono coinvolti, direttamente o indirettamente, nella realizzazione dei progetti di inclusione. A tale proposito è necessario soffermarsi sul ruolo che 188
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hanno, o dovrebbero avere, le istituzioni nello svolgimento di tali progetti. È interessante notare come a Catania sia evidente la delega implicita del problema degli insediamenti rom da parte dell’amministrazione locale al privato sociale. A Noto e a Palermo invece sono stati proprio gli enti pubblici (scuola e sanità) a prendere l’iniziativa, mossi dal bisogno concreto di far fronte quotidianamente alle problematiche di cui i rom sono portatori, ma soprattutto sollecitati dall’impegno personale di alcuni operatori altamente motivati. In effetti, l’aspetto motivazionale degli operatori induce ad alcune riflessioni. Per alcuni versi costituisce un limite dell’intervento, poiché lo connota con il carattere dell’eccezionalità pregiudicandone la continuità nel tempo e la trasferibilità in altri contesti. È anche vero, però, che l’efficacia di qualsiasi intervento di tipo socio-sanitario è direttamente proporzionale al grado motivazionale degli operatori, i quali devono affrontare situazioni di disagio ad alto impatto relazionale. Inoltre, se la motivazione si accompagna all’entusiasmo e alla perseveranza, la probabilità di successo dell’azione progettuale aumenta ulteriormente e soprattutto favorisce una sua ricaduta positiva “a cascata” sugli altri ambiti di intervento direttamente collegati. Abbiamo visto come ciò sia accaduto a Palermo, dove l’attenzione ai Rom è nata da un piccolo gruppo di medici per estendersi con il tempo alle altre strutture sanitarie, alla scuola, e agli uffici comunali. La componente motivazionale del singolo, come anche la sollecitudine dell’ente pubblico o privato, non è, però, sufficiente alla riuscita di un progetto di inclusione, poiché inevitabilmente ci si scontra con i limiti imposti dai governi locali. Anche dove esiste un’attenzione specifica e un interesse a trovare soluzioni alternative da parte delle amministrazioni, raramente lo sforzo si concretizza in azioni progettuali di ampio respiro. I problemi sono molti, innanzi tutto di natura economica, laddove si deve in prima istanza far fronte ai disagi economico-sociali dell’intera cittadinanza. Forse il difetto sta nello scindere a priori i Rom dal resto della popolazione, continuando a considerarli un caso a parte ad ogni costo. Si direbbe quasi un errore ontologico, per cui si presuppone che la diversità culturale richieda necessariamente un trattamento differenziale, che però molto spesso non nasce da un rilevamento delle esigenze reali di queste persone, ma piuttosto dai pregiudizi di cui sono vittime. 189
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Per uscire da questa impasse, si potrebbe tentare la strada della mediazione e del dialogo tra comunità rom, cittadinanza e governi locali, al fine di ascoltare i rispettivi bisogni e trovare un canale di comunicazione che permetta di costruire una relazione rinnovata fra tutte le parti coinvolte. Un simile approccio presenta molteplici vantaggi. In primo luogo, favorisce la conoscenza reciproca, offrendo quindi l’occasione di scoprire i Rom oltre i confini degli stereotipi. Permette anche di comprendere i bisogni reali di tutti e di scongiurare gli scontri che derivano da scelte politiche calate dall’alto, canalizzando i conflitti in uno spazio di confronto costruttivo, per cui la soluzione viene ricercata insieme. Infine, poiché la risposta al bisogno dipende anche dalle effettive possibilità di un’amministrazione, la scelta del dialogo consentirebbe a quest’ultima di mettere in atto un’informazione chiara, diretta e trasparente, ripristinando la giusta corrispondenza tra ciò che si promette e ciò che si fa. Portare avanti politiche coerenti e mantenere gli impegni costituisce infatti una condizione necessaria affinché i Rom (ma non solo loro) recuperino la mancata fiducia nei confronti dell’istituzione. In conclusione, per definire termini e obiettivi degli interventi di inclusione insieme ai Rom e a tutti gli attori coinvolti è dunque necessario partire dal riconoscimento dei bisogni espressi e dalle risorse già presenti, per svilupparle in un’ottica di promozione degli individui come parti integranti di un’unica collettività, all’interno di uno spazio dialogico fatto di impegni e responsabilità reciproche. È chiaro che promuovere o sostenere una mediazione di questo tipo presuppone un interesse che trascenda i singoli mandati elettorali, poiché si tratta di un percorso che richiede tempi molto lunghi e garanzie di continuità, oltre a un’elevata capacità di leggere e coordinare la complessità delle dinamiche sociali e collettive.
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Capitolo 7
Tra l’incudine e il martello
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Alessandro Serini, Danilo Catania
7.1 Una questione irrisolta Al termine di questo viaggio nei tanti progetti di inclusione sociale e socio-sanitaria per i Rom, è possibile tirare alcune conclusioni sul loro lento e lungo cammino di inclusione nella società italiana; conclusioni frutto dei sopralluoghi fatti negli studi d’area, delle interviste effettuate a testimoni ed esperti del settore, e della raccolta documentale delle buone pratiche realizzate in Italia e all’estero. In particolare, si è focalizzata l’attenzione su alcune aree critiche individuate nella ricerca, che saranno oggetto di considerazioni nelle pagine successive. Come premessa, vi è tuttavia da dire che la sensazione generale avuta nel corso della ricerca è quella di una questione al momento irrisolta. Ci si chiede perché, a distanza di decenni, ancora si discuta della questione dei Rom. Certamente, l’immigrazione nel nostro Paese è salita alla ribalta politica solamente negli ultimi anni, da quando l’Italia è divenuta un Paese ad immigrazione consistente; nondimeno, il rapporto con l’etnia rom sembra presentare elementi di incertezza maggiori rispetto a quello con altre etnie e culture. Se il dibattito sull’immigrazione è aperto da tempo – in particolare su quale modello di accoglienza adottare – quello sui Rom sembra essere già chiuso, in senso negativo, per una fetta consistente della popolazione italiana. Eppure, le prime testimonianze scritte di presenza zingara in Italia risalgono alla metà del ’400. Probabilmente, la storia della presenza rom in Italia è fatta di chiaroscuri, in cui fenomeni di integrazione di lunga data si alternano a fenomeni di difficile integrazione – si pensi, ad esempio, alle famiglie 191
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rom girovaghe, la cui presenza nei territori di passaggio viene tollerata solo se provvisoria. Il livello di conoscenza delle etnie rom da parte della popolazione italiana è basso, sufficiente tuttavia a creare una loro definizione stereotipata, ovvero semplificata e negativa. Nella migliore delle ipotesi, i cittadini italiani sono a conoscenza di alcune differenze tra etnie appartenenti al mondo rom, ignorando del resto l’esistenza di un gran numero di comunità rom italiane. Ignoranza sui Rom, differenze di cultura e di stili di vita, una certa paura che aleggia intorno ai campi, pregiudizi sedimentati nei decenni fanno sì che la comunità italiana “autoctona” e i Rom facciano, sostanzialmente, vita separata. In tal modo si viene a rafforzare la costruzione stereotipata dell’immagine dei Rom e diventa difficile gestire politicamente eventi inaspettati. Ad esempio, il difficile rapporto con gli zingari nostrani1 ha reso problematico il processo di inclusione dei Rom giunti in Italia nelle due ondate migratorie recenti: quella jugoslava, scaturita dalle vicende belliche degli anni Novanta; e quella rumena, facilitata dall’ingresso della Romania nella UE. Decine di migliaia di ex-jugoslavi e rumeni, di origine rom, sono giunti nel nostro Paese in pochi anni, favoriti anche dalla legislazione europea anti-discriminazione e dal diritto internazionale, e hanno trovato un terreno poco favorevole alla loro accoglienza, almeno da parte della popolazione. Situazioni maturate all’interno del diritto internazionale si sono in tal modo sovrapposte a resistenze locali di origine storica, rendendo necessario, ma scomodo (tra l’incudine e il martello, si direbbe), l’intervento dei governi e delle pubbliche amministrazioni competenti in materia. In pochi anni sono sorti in Italia campi autorizzati – più spesso insediamenti abusivi – all’interno dei quali si sono concentrate migliaia di persone provenienti dall’Est europeo, senza che il Paese si sia dotato di una politica unica di accoglienza dei rifugiati di origine rom. In una singolare dissociazione tra legislazione europea e dinamiche sociali, i Rom balcanici devono essere politicamente accolti, ma sono socialmente indesiderati. La dissociazione creatasi viene a determinare una serie di conseguenze talvolta paradossali. Innanzitutto, si sta originando un mosaico di politiche locali sui Rom, frammentarie e scarsamente coordinate, tendenzialmente riconducibili a due poli opposti e in polemica tra di loro: da un lato, le politiche securitarie, con gli interventi di sgomIl termine è volutamente inserito in questo modo ad indicare come, già nella parola che li designa, il rapporto con i Rom sia connotato negativamente. 1
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bero degli insediamenti abusivi e di controllo giudiziario preventivo dei Rom insediati; dall’altro, le politiche inclusive, che vedono nei progetti di assistenza sanitaria, scolastica e abitativa la loro principale traduzione operativa. In secondo luogo, il paradosso logico rischia di rendere le une e le altre scarsamente efficaci. La politica degli sgomberi tende ad allentare la tensione sociale nel luogo dove avvengono gli spostamenti, ma rischia di creare nuove tensioni dove le famiglie rom vanno a insediarsi. Inoltre, i rapporti scolastici faticosamente costruiti negli anni con le scuole limitrofe, i rapporti con le organizzazioni di volontariato e con la parte accogliente della cittadinanza vengono recisi da un giorno all’altro, con grave danno per la già difficile integrazione dei Rom immigrati. Le politiche di inclusione sociale, da parte loro, vengono talvolta portate avanti sottovoce e con scarso coinvolgimento della cittadinanza locale giacché, come visto, la questione dei Rom è lungi dall’essere stata metabolizzata. Si spendono soldi pubblici per progetti spesso finanziati dalla UE a loro favore, ma senza enfatizzarne la comunicazione, tralasciando la compartecipazione della popolazione; si inseriscono bambini rom nelle scuole con bambini italiani, ma senza darne pubblicità; si effettuano per i Rom screening sanitari di prevenzione delle malattie infettive, ma in guanti di lattice e con un timore irrazionale del contatto, quasi che essere Rom sia contagioso2. Declinate in tal modo, le azioni politiche attenuano il loro impatto territoriale a causa dello scarso appeal sociale che le circonda, smorzando quegli effetti di lunga durata che producono cambiamento sociale. A forzare la metafora, nel rapporto rom-italiani sembra che scattino dinamiche simili alle politiche ambientali per lo smaltimento dei rifiuti tossici: necessarie, ma non nel mio territorio. Come nel caso dei comuni limitrofi a Cosenza, i quali, a fronte di una richiesta del comune capoluogo di collaborazione inter-comunale per la costruzione di piccoli campi attrezzati, hanno rifiutato tale invito a causa delle manifestazioni di piazza svolte contro tale iniziativa. Stante così la situazione, non stupisce dunque come la questione dei Rom sia al momento irrisolta. Prim’ancora di una distanza fisica, quella che separa la popolazione italiana dalla popolazione rom è una distanza sociale. Dalle testimonianze raccolte, il cambiamento dei medici che hanno a che fare con i Rom è innanzitutto emotivo, poi professionale. 2
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7.2 Punti critici e contesti in cui sono maturati Che sia provocata dalla popolazione italiana o che sia una libera scelta delle etnie Rom, la distanza sociale tra di esse è evidente. C’è chi attribuisce questo distacco alla paura che gli italiani hanno nei confronti degli zingari e chi l’attribuisce alla volontà dei Rom di voler preservare il proprio stile di vita da quello della società circostante. Probabilmente sono vere entrambe le affermazioni, alla luce del fatto che diversi fattori entrano in gioco nel fallimento o nel successo di tali relazioni. Come non esiste una cultura nomade, ma molteplici strategie di sopravvivenza rom, così occorre articolare maggiormente situazioni e atteggiamenti presenti nella popolazione italiana. Per tale ragione, nelle ricerche è stato fondamentale analizzare i contesti in cui la molteplicità dei fattori è entrata in gioco. Tra vincoli e possibilità di azione, un ruolo importante è dunque rivestito dal modo in cui i gruppi rom affrontano le esigenze della vita. Nell’immaginario popolare, viene commesso l’errore di considerare i Rom come dei nomadi con una cultura antica: è un’immagine in parte vera, ma è una generalizzazione fin troppo banale. Vi sono certamente Rom di antico stanziamento, che per certi versi rispondono all’immagine collettiva, di comunità semi-nomadi con una cultura patriarcale e con lavori connotati etnicamente – giostrai, circensi, arrotini, lavoratori del rame: i Caminanti di Noto e della Sicilia Sud-orientale ne sono un esempio. Ma quasi tutti i Rom – soprattutto stranieri e di recente immigrazione – abitano nei campi autorizzati e abusivi semplicemente perché la forma comunitaria di vita facilita la sopravvivenza e aumenta le chance di vita, sul modello delle enclavi etniche cinesi o senegalesi o bengalesi: è la testimonianza di alcuni Rom di Reggio Calabria, che vivono nei campi autorizzati ma preferirebbero trasferirsi in appartamento. Ci sono, infine, Rom che avevano già una casa e un lavoro nel loro Paese d’origine: sbarcati in Italia, si sono trovati a desiderare le stesse cose che desideravano in patria, senza averne tuttavia la disponibilità: è il caso dei Rom bulgari e rumeni che lavorano come braccianti nelle campagne del foggiano o del salernitano e stanno faticosamente inserendosi in case prese regolarmente in affitto. Non di rado mimetizzano la loro origine rom pur di trovare lavoro. In pratica, a considerare l’etnia rom un’unica grande famiglia con i medesimi bisogni e lo stesso quadro valoriale si rischia di pensare interventi di integrazione uguali nella logica, ma discriminatori nella 194
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pratica. Giovanna Zincone [2010:1] tende a considerare il rapporto tra Rom e mondo occidentale come la “coabitazione tra culture temporalmente sfasate”. All’esperta di immigrazione è parso di cogliere in quella rom “una cultura pre-moderna dolorosamente inserita nella modernità” [ivi, 2010:2]. E ciò causerebbe quella grande sofferenza (e resistenza) che i Rom manifestano nell’inserirsi nelle moderne società occidentali. In realtà tutto ciò potrebbe anche essere vero, ma sarebbe comunque una lettura personale, perché molti Rom già manifestano un grado di inserimento avanzato nella nostra società, per cui il processo di inclusione non è doloroso a causa dello sfasamento culturale – una ipotesi suggestiva ma da verificare – bensì a causa della difficoltà a trovare un lavoro e un’abitazione: in definitiva, all’impossibilità, dettata dall’assenza di risorse, di determinare il proprio destino. E questo vale per i Rom come per qualunque altro immigrato nelle medesime condizioni. Detto questo, pur ipotizzando la coabitazione tra culture temporalmente sfasate, occorre articolare maggiormente la riflessione sul mondo rom, ammettendo che per alcuni dei suoi membri l’inserimento nella società occidentale è più agevole che per altri. Occorre tenerne conto in fase di pianificazione delle politiche per l’inclusione e per la non discriminazione, altrimenti si rischia di discriminare le persone, non avendo discriminato correttamente le diverse esperienze di vita da cui provengono. Del resto, a complicare ulteriormente il difficile rapporto tra Rom e popolazione italiana, vi è la questione dell’invisibilità anagrafica dei Rom balcanici. Giunti in Italia nello scorso decennio a seguito del conflitto jugoslavo, in molti casi non è stato possibile risalire all’identità e alla cittadinanza dei Rom slavi, perché sono andati persi o distrutti i registri anagrafici, con il risultato che genitori e figli – spesso nati in Italia – sono invisibili. È una questione rilevante se si pensa che l’accesso ad alcuni servizi di welfare richiede la residenza, legata all’identità della persona. Certamente il codice STP introduce una forma di riconoscimento legale, almeno dal punto di vista sanitario; ma è una misura temporanea, e non permette il pieno inserimento dei gruppi rom fino a quando essi non abbiano una residenza e un’abitazione dove poter vivere. In tal senso, emerge con evidenza la necessità di censire a fondo la popolazione rom, per tentare quantomeno di dirimere le situazioni problematiche, nel rispetto dei diritti civili di tutti coloro che hanno deciso di stabilirsi in Italia. 195
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Volendo riassumere, il rapporto della popolazione italiana con i Rom presenta difficoltà di comprensione da entrambi i fronti. Ostacoli culturali, comunicativi e amministrativi si sedimentano e si sovrappongono, e sembrano rimandare a una generale impossibilità dei Rom di fuoriuscire dalla situazione di marginalità sociale in cui vivono. Fatto sta che ci si trova a percorrere un labirinto intricato di cui non si intravede l’uscita, per sperare in una possibile via di integrazione dei Rom residenti in Italia, tra sforzi istituzionali intermittenti, pregiudizi sociali radicati, scarse opportunità lecite di emancipazione. A proposito di emancipazione, sono stati pochi i tentativi di inserimento lavorativo dei Rom all’interno dei circuiti lavorativi differenti dalle loro attività tradizionali. Come altri immigrati, i Rom molto spesso vedono ristrette le possibilità lavorative ad attività manuali. Quei pochi che hanno tentato la strada dell’inserimento si sono trovati in difficoltà con i datori di lavoro, lamentando di non essere stati retribuiti per il lavoro effettuato. Sicché, in pratica, i pochi Rom che riescono a darsi continuità lavorativa, rincorrono la propria voglia di riscatto limitandosi a scegliere tra lavori “3d”3, lavori etnicamente connotati e nomadismo da lavoro – consolidando in tal modo una separazione con la società italiana4. Nello specifico, lavori come l’arrotino, il giostraio, il circense, il commerciante di rame non sono propriamente lavori etnici; tuttavia, nel tempo sono diventati retaggio dei Rom nostrani, probabilmente frutto di una combinazione di istinto di sopravvivenza e di spirito di adattamento. Al di fuori di questa limitata gamma di possibilità, è veramente difficile che possano trovare lavoro i Rom in età attiva, se non con forti interventi istituzionali di supporto, come nel caso della coopera3 Lavori dirty, dangerous, demeaning, ovvero sporchi, pericolosi, degradanti; di
norma assegnati alla popolazione immigrata. 4 Donna delle pulizie, badante, bracciante agricolo, muratore, camionista, cameriere sono soltanto alcuni dei lavori “3d” presenti nell’attuale sistema economico occidentale, e l’elevato turnover che li caratterizza permette a persone con bassa mobilità sociale di ricavarsi uno spazio di sopravvivenza. I lavori connotati etnicamente nascono di prassi all’interno di filiere etniche e producono beni e servizi destinati alla popolazione di riferimento (tipico esempio sono i negozi alimentari etnici, che vendono prodotti alimentari destinati ad una particolare etnia, residente nei dintorni del negozio). Infine, permangono nei Rom forme di semi-nomadismo dettato da ragioni lavorative. Esse traggono origine fondamentalmente dall’aumento di chance di vita che tale consuetudine permette e sono state riscontrate, tra gli altri, nei Caminanti siciliani, in direzione del Nord-Italia, e nei Rom leccesi – verso il Montenegro, Paese d’origine per molti di loro.
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tiva “Rom 1995” di Reggio Calabria, che smaltisce rifiuti ingombranti in regime di convenzione con il Comune. La garanzia di mediatori istituzionali o associativi ha permesso ad alcuni Rom di entrare all’interno del mondo del lavoro in condizioni di “normalità” rispetto agli altri Rom. Ovviamente, il contesto di incomprensione produce una restrizione delle possibilità di integrazione anche sul fronte abitativo. Nell’ottica dell’inclusione sociale, il campo-sosta attrezzato rappresenta una soluzione transitoria, in vista del trasferimento delle famiglie rom in appartamento. Solamente quando un nucleo rom vivrà all’interno di palazzi abitati da residenti italiani si sarà fatto un passo avanti verso l’integrazione. Tuttavia, è molto difficile condividere questa scelta con i condomini dove le famiglie rom dovrebbero andare. In effetti, il pregiudizio condiziona pesantemente le scelte di inclusione sociale, non solo per difetto delle istituzioni pubbliche, ma anche per i timori xenofobi cui si è accennato in precedenza. In aggiunta, i pochi e lodevoli tentativi di trasferire alcune famiglie rom in appartamenti in affitto (Giffoni e Cosenza attraverso la mediazione istituzionale; Foggia e Lecce in trattativa privata) sono condizionati anche dalla sostenibilità economica che una scelta del genere comporta: i costi fissi legati alla permanenza in affitto (canone, acqua, gas luce e telefono) sono sostenibili solamente in presenza di un reddito stabile, situazione difficilmente riscontrabile nel caso dei Rom. L’intermittenza del lavoro produce intermittenza di reddito, che rende difficile la stabilità nel tempo delle soluzioni abitative. Nelle esperienze di Lecce, Foggia, Cosenza e Salerno vi sono stati esiti differenti dovuti, sostanzialmente, ad un differente livello di informazione e di sostenibilità economica. Ad oggi, le uniche famiglie che abitano stabilmente in appartamento nascondono la loro origine rom sia ai condomini sia ai datori di lavoro presso cui lavorano, e ciò permette loro di avere una ragionevole stabilità d’inserimento, anche lavorativo. Sul fronte opposto, un’informazione trasparente sulle origini e una scarsa dotazione economica rendono di fatto impossibile un passaggio del genere, come accaduto a Lecce e a Cosenza, facendo emergere quanto sia importante un’azione progressiva e sistematica, sia sul piano dell’intervento pubblico che su quello del dialogo con la cittadinanza. È proprio un’azione progressiva e sistematica che è mancata in taluni casi. Sul fronte pubblico, infatti, gli sforzi compiuti sono ancora intermittenti e selettivi per sperare di conseguire risultati stabili 197
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nel tempo su tutto il territorio meridionale. È stato lampante accertare come i nodi dell’emergenza – ovvero le condizioni sanitarie, la scolarizzazione dei bambini, la casa e il lavoro – si possono sciogliere singolarmente solo se si sciolgono assieme. A titolo di esempio, condizioni igieniche dei bambini rom e accesso alla scuola sono l’una condizione dell’altra, e sono entrambe possibili se le condizioni sanitarie dei campi permettono una normale profilassi igienica. Mancando quest’ultima, rischiano di mancare le altre due. Nel campo di Arpinova (FG) e a La Favorita (PA) si fatica a mantenere condizioni igieniche adeguate, stante la situazione grave in cui versano, nonostante gli sforzi profusi dalle ASL di riferimento, anche oltre il consentito. Ci si chiede se sia possibile mantenere in tal modo sufficienti tassi di scolarizzazione dei bambini dei campi. Un secondo esempio riguarda il rapporto tra casa e lavoro. Nell’inverno 2007, un accordo tra enti locali, associazioni, affittuari e famiglie rom ha permesso ad alcune di esse di andare ad abitare in affitto in alcune case della città di Cosenza. Il tentativo è fallito quasi subito e le famiglie sono ritornate nell’insediamento abusivo sull’argine del fiume Crati dove risiedevano in precedenza, perché le condizioni di povertà, l’impossibilità di pagare le utenze in modo continuativo e, in definitiva, l’assenza di un lavoro, impediva loro di vivere regolarmente in appartamento. Il ritorno nel campo, assieme a parenti e conoscenti, permetteva loro di sopravvivere. In definitiva, senza un lavoro continuativo, la permanenza in una casa diventa difficile. Anche qui, accesso al mercato del lavoro e abitazione sono nodi legati tra di loro, e non si possono sciogliere singolarmente se non si sciolgono assieme. Il legame stringente tra i vari aspetti dell’inclusione sociale rende evidente la necessità di pensare una sorta di cabina di regia, che sappia tenere i fili di una moltitudine di questioni da dirimere contemporaneamente. Sotto questo profilo, non può sfuggire il risvolto politico che una simile questione sottende. Del resto, una cabina di regia che sappia coordinare i molteplici fronti d’intervento da affrontare è necessaria anche per un altro ordine di ragioni. Sul fronte della partecipazione civica, buoni esiti sono stati raggiunti dalla collaborazione tra associazionismo, volontariato e istituzioni pubbliche. Il legame di fiducia che si crea tra Rom e volontari/operatori diventa spesso un tramite attraverso cui le istituzioni riescono a veicolare risorse e proposte di emersione da condizioni di marginalità. Tuttavia, in vista di una piena e fruttuosa collaborazione, 198
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diventa cruciale il reperimento dei fondi necessari a finanziare le attività dei soggetti coinvolti. A parte casi sporadici, come ad esempio Napoli, sembra che le piccole amministrazioni comunali non siano a conoscenza dei finanziamenti europei dedicati specificamente ai Rom. Sono soldi europei, a disposizione delle amministrazioni locali, che non incidono sui trasferimenti statali e sui bilanci comunali, e permetterebbero di costruire una politica di integrazione per i Rom di lungo periodo. D’altra parte, la mancanza di informazione in materia di progettazione europea rischia di riproporre lo spauracchio della scarsità delle risorse pubbliche, che pure è un problema reale: il progressivo aumento della spesa pubblica e la razionalizzazione dei trasferimenti dallo Stato agli enti locali sta costringendo quest’ultimi a effettuare scelte dolorose, tra cosa continuare a finanziare e cosa, viceversa, limitare, con conseguenze facilmente immaginabili. Ad oggi, le uniche politiche di un certo rilievo di integrazione per i Rom sono state avviate sul fronte sanitario e sul fronte scolastico (non sempre, non dovunque, certamente non esenti da difficoltà), ma per quanto riguarda gli altri fronti non si può parlare di approccio politico globale e di lungo periodo. Insomma, si viene a creare un contesto di intervento problematico su una questione che già di per sé è socialmente incerta, come si è visto. Uscirne fuori richiede l’assunzione di una visione d’insieme che sappia raccordare forme di coordinamento politico, attivazione di risorse economiche, e coinvolgimento della popolazione residente, in particolare di quella più restia alla pacifica convivenza. In effetti, non sono state poche le iniziative di inserimento fallite alla nascita a causa del mancato coinvolgimento della popolazione residente e, talvolta, della popolazione rom. A tale proposito, è importante ribadire che l’integrazione va creata a partire dal pieno coinvolgimento di entrambe le parti. L’esperienza del Dado di Torino dimostra come sia stato positivo il coinvolgimento della popolazione italiana circostante la palazzina dove sono andate ad abitare alcune famiglie rom. L’aver conosciuto le famiglie insediatesi, averle viste lavorare nel progetto di auto-ristrutturazione dell’edificio ha aiutato le famiglie italiane a sfumare il pregiudizio che accompagna i Rom e a considerare la questione da una prospettiva diversa. Ma questa esperienza è la punta di un iceberg, e c’è ancora molto lavoro da fare affinché mondi all’apparenza così lontani si incontrino. Di certo, le politiche d’intervento attuali sottovalutano fortemente l’importanza di una strategia di comunicazione reciproca, sia verso la popolazione 199
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italiana che nel rapporto con i Rom: si privilegiano interventi tangibili, come le campagne di vaccinazione e la costruzione di container, sottostimando ad esempio l’importanza delle campagne di comunicazione locali, quando queste ultime sono la premessa necessaria di ogni intervento di compartecipazione e di mutua conoscenza. Questi in breve i punti critici riscontrati negli studi d’area effettuati nelle quattro regioni Obiettivo Convergenza. Del resto, le politiche d’inclusione sociale si costruiscono anche a partire da buone pratiche ed esperienze positive maturate negli stessi contesti locali che hanno evidenziato questioni problematiche. Pertanto, sulla falsariga di questo paragrafo, nel prossimo si riassumeranno quelle dinamiche territoriali che si sono dimostrate positive ed hanno avviato un processo di inclusione (o quantomeno un inizio di inclusione) nei confronti di quei Rom che hanno deciso di soggiornare nel nostro Paese. In effetti, dinamiche e contesti possono costituire una base empirica su cui innestare le linee guida per i processi di non discriminazione dei Rom nella società italiana.
7.3 Dai punti critici alle linee guida di inclusione dei Rom in Italia Gli studi d’area hanno evidenziato come la questione dell’integrazione dei Rom in Italia sia complessa. Questioni giuridiche, sanitarie, abitative, scolastiche e lavorative si intrecciano tra di loro, rendendo difficile operare sul campo e produrre risultati incisivi. L’inclusione sociale è per definizione un processo di lunga durata e non può avere esito positivo se non si adottano provvedimenti di carattere strutturale, ovvero destinati a incidere nel tempo. Nondimeno, vi è da dire che all’interno del mondo rom vi sono situazioni di particolare gravità, tali da rendere necessari interventi di carattere emergenziale. Per questo è importante avere chiaro come i livelli di intervento per i Rom debbano essere molteplici, a seconda delle situazioni concrete che le amministrazioni comunali si trovano a fronteggiare. In linea di massima, si può affermare che gli interventi nei confronti delle popolazioni rom sono riconducibili a tre categorie: immediati, strutturali, trasversali. Gli interventi immediati fronteggiano situazioni di disagio insostenibile, legate a condizioni sanitarie e igieniche gravi, alla mancanza di un’abitazione dove poter dormire, alla provvista di cibo e di acqua per sostenersi. Sono situazioni che si sono manifestate di fre200
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quente negli ultimi anni, soprattutto per i Rom provenienti dalle zone di guerra balcaniche o da zone di particolare povertà. Scopo di questi interventi è salvaguardare la dignità umana di queste persone. Riguardano principalmente i settori della prevenzione e della sicurezza, la profilassi igienica e sanitaria, la garanzia dei servizi essenziali, una prima forma di accoglienza abitativa. È sorprendente che in un Paese come l’Italia si debba ancora parlare di epidemie infettive, condizioni igienico-sanitarie gravi e microcriminalità da marginalità sociale; eppure, quando si parla dei Rom si associano normalmente i due termini della questione, come se fosse una situazione scontata. I casi come Lecce dimostrano invece il contrario: laddove c’è una presa in carico non solo da parte delle istituzioni ma anche da parte della società, i Rom possono uscire dall’emergenza, e possono iniziare quantomeno a pensare a come trovare un lavoro, una casa, una scuola. E qui entrano in ballo gli interventi strutturali. Sono interventi di secondo livello, pensati per quelle situazioni in cui si è già usciti dall’emergenza e mirano a sviluppare progettazione di medio e lungo periodo, in vista di una effettiva inclusione sociale della comunità rom. Gli ambiti prioritari sono, per l’appunto, quello sanitario, abitativo, scolastico e professionale. Sotto il profilo dell’integrazione, questi interventi rappresentano la sfida più impegnativa, perché sono interventi di superamento dei campi nomadi – simbolo della marginalità sociale – che iniziano ad incidere sul tessuto sociale italiano per aprire un varco dove i Rom possano finalmente entrare. Elementi di carattere materiale (casa, reddito, scuola) si fondono con elementi di carattere immateriale (lingua, fiducia reciproca, relazioni con la popolazione italiana, cultura) in un mix in cui l’esito non è affatto scontato e che va sempre ricombinato e sostenuto, come dimostrano i casi di Cosenza e Reggio Calabria. La possibilità di inclusione sociale dei Rom in Italia si gioca a questo livello, ed è a questo livello che bisogna innalzare l’attenzione e condividere il maggior numero di buone pratiche possibili. Infine, vi sono interventi che non appartengono specificamente a nessun ambito, ma condizionano la buona riuscita del processo di inclusione sociale dei Rom, gli interventi che sono stati definiti trasversali. Servono fondamentalmente a rafforzare quegli elementi di carattere immateriale cui si accennava poc’anzi, come la lingua, l’intercultura, la fiducia reciproca tra Rom e popolazione, e hanno come finalità l’incremento della conoscenza del mondo dei Rom e la loro collocazione in un quadro giuridico favorevole. Per esemplificare, si 201
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tratta di interventi relativi alla questione della posizione giuridica dei Rom; alle campagne di informazione e sensibilizzazione rivolte alla popolazione italiana; agli interventi formativi condotti sul personale che ha a che fare con essi – dal personale sanitario a quello amministrativo, dagli sportelli sociali alle prefetture; infine, agli interventi di sostegno al volontariato e alle organizzazioni che collaborano con la pubblica amministrazione nel portare avanti i progetti di inserimento. Da questi brevi cenni sugli interventi, si comprende come nel caso dei Rom in definitiva vada usato quello che Vitale [2009] chiama un approccio incrementale e integrato: vale a dire, ricercare soluzioni adatte ai problemi che realisticamente ci si trova via via a fronteggiare, cercando in prospettiva di alzare il tiro verso interventi sempre più complessi e sofisticati, in vista di una piena integrazione dei Rom nella società italiana. Da questo punto di vista, gli interventi di comunicazione e di collaborazione attiva della cittadinanza rappresentano senza dubbio una necessaria premessa, e aprono le porte ad una inclusione attenta a contemperare gli interessi della popolazione italiana con le esigenze di rispetto della cultura e delle dimensioni di vita della popolazione rom.
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Conclusioni
Linee guida per la governance locale dell’inclusione delle comunità RSC
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Marco Livia1
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Premessa
Al termine di questo viaggio di ricerca, si vuole gettare una nuova luce sui processi di integrazione dei Rom in Italia. Certamente la mappatura degli insediamenti rom nel Meridione non è esaustiva, come non sono esaustivi gli studi di caso condotti in otto province di quattro regioni del Sud. Del resto, la validità di un percorso di indagine qualitativa sta nel cogliere quegli elementi di carattere generale che possono essere oggetto di riflessione e trasferimento anche in altri contesti territoriali in cui vi sono insediamenti rom. Numerose sono le lezioni apprese dalla ricognizione di esperienze realmente esistenti, e le criticità sono state enumerate, per grandi linee, nel capitolo precedente. Nondimeno, gli elementi critici costituiscono una parte della questione, giacché permettono di mettere testa ai problemi, per trovare soluzioni che siano confacenti alle risorse e alle caratteristiche dei territori dove essi sorgono. Nelle righe successive si presenteranno, in forma di linee guida, alcune soluzioni che sono state rilevate nelle esperienze territoriali. Sono semplici indicazioni ed orientamenti che possono in qualche modo affinare ulteriormente l’agenda politica attuale sui Rom, sulla base delle evidenze raccolte sul campo. Al di là della specificità degli interventi da predisporre, si ribadisce come vi siano tre piani di intervento da effettuare, livelli di interMarco Livia, Direttore IREF, è il responsabile scientifico del lavoro di ricerca che viene presentato in questo volume. 1
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vento validi certamente in ogni contesto, quantomeno nella filosofia di fondo che li ispira. In sintesi, fermo restando che l’azione specifica da attuare non può esulare dalle peculiarità di ogni contesto e che quindi il contenuto dell’intervento deve essere riferito alla particolare situazione di una specifica realtà, si rappresenta una tipologia di interventi che tengano in considerazione i seguenti criteri:
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a) il tipo di intervento (emergenziale o strutturale); b) l’ambito dell’intervento (igienico-sanitario, abitativo, scolastico, lavorativo). C’è infine un terzo tipo di interventi, che sono risultati trasversali sia alla fase in cui si trova il territorio sotto analisi (fase di emergenza o di cambiamenti strutturali) sia all’ambito in cui si vuole agire: a titolo di esempio, si tratta di interventi come la regolarizzazione giuridica relativa al permesso di soggiorno, il sostegno al volontariato e la sensibilizzazione della cittadinanza. Non sono di per sé strutturali, né emergenziali, ma contribuiscono a favorire una migliore comunicazione e una migliore integrazione tra popolazione italiana e popolazione rom. Questa ipotesi di modello ha avuto il plauso delle Consensus Conference svolte a Catania e a Lecce, con addetti del settore, nell’ambito del progetto di ricerca cui si ispira il presente volume. Di seguito, è utile riassumere brevemente gli interventi effettuati nelle quattro regioni, suddivisi secondo lo schema d’intervento appena presentato. Per facilità di lettura, gli interventi di emergenza e strutturali saranno suddivisi per ambiti di intervento, ovvero igienico-sanitario, abitativo, scolastico, lavorativo.
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Interventi di emergenza
Sono gli interventi volti a sanare – anche solo momentaneamente – situazioni di disagio insostenibile, che mettono a repentaglio la salute e la sicurezza delle persone (sia Rom che non Rom) e ledono la dignità di un essere umano. Letti in maniera approssimativa e superficiale, sono interventi che sembrano rifiutare l’ipotesi dell’integrazione e sembrano rafforzare le dinamiche di emarginazione della popolazione rom. In realtà, letti alla luce di uno schema globale d’intervento, 204
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sono interventi necessari e cautelativi, in vista della normalizzazione della convivenza, imprescindibile nell’avviare politiche strutturali di integrazione.
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2.1
Misure preventive di sicurezza
• Controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine; • Altre misure atte a garantire la sicurezza pubblica e ad ostacolare pericolosi contatti e commistioni tra Rom e delinquenza locale2. Accantonando qualsiasi sterile posizione ideologica, le misure di sicurezza sono necessarie a garantire l’ordine pubblico nel territorio di insediamento dei Rom, non solo per tutelare la popolazione locale, ma gli stessi Rom. Non è raro che organizzazioni criminali sfruttino il ristretto ventaglio di opportunità lecite di riscatto delle popolazioni rom per forzarle a entrare nel mondo della illegalità. L’attenzione delle forze dell’ordine tranquillizza la popolazione locale, mette in stato di allerta le organizzazioni criminali, è un primo contatto dei Rom con le istituzioni italiane, getta le basi di un rapporto di collaborazione tra popolazione gagè e rom, quantomeno nelle premesse. In tal modo, vengono resi possibili i successivi interventi di integrazione. 2.2
Interventi igienico-sanitari essenziali
• Disinfezione, disinfestazione, derattizzazione e, dove necessario, servizio di allontanamento volatili. • Accurato servizio di rimozione dei rifiuti (si potrebbero coinvolgere anche gli stessi utenti). • Individuazione e presa in carico di varie emergenze sanitarie. • Vaccinazioni per bambini e per adulti. • Attivazione di un presidio medico costante, anche di tipo mobile. Di norma, sono gli interventi maggiormente diffusi e a maggior 2 A titolo di esempio, a Roma era stato creato un corpo speciale di Vigili, il NAE (Nucleo Anti Emarginazione) che negli anni ’90 aveva svolto un importante ruolo di mediazione.
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efficacia comunicativa. Nei campi nomadi, il rischio di contagio sia interno che esterno è proporzionale allo stato di degrado in cui versano i campi stessi. Chiaramente, il rischio-contagio è un invito a prendere seriamente in considerazione le condizioni ambientali e abitative dei Rom e a non limitarsi a politiche di emergenza sanitaria; del resto, proprio il rischio della diffusione di eventuali malattie infettive spinge le ASL di riferimento ad intervenire con screening sanitari e vaccinazioni di massa, direttamente nel campo, o nei dipartimenti specializzati.
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2.3
Interventi urgenti sulle strutture abitative
• Smantellamento totale delle baracche e risanamento delle aree di insediamento, allestendo strutture che possano essere adeguatamente usate per il lavoro, il doposcuola, etc. Anche in questo ambito, il pericolo di un turn over incontrollato deve essere scongiurato attraverso il sostegno all’uscita dal campo quando si verifichino le condizioni di ingresso nel mondo del lavoro. • Per i moduli abitativi si tenga conto di altre esperienze nazionali, evitando la soluzione dei container, gelati in inverno e bollenti in estate e comunque non economici3. • Costruzione di casette in muratura per quanti sono costretti ancora a vivere nelle roulotte e nelle baracche. • Rafforzamento della rete di trasporto pubblico che collega il campo con i centri urbani limitrofi. • Fornitura dei servizi essenziali di urbanizzazione: ristrutturazione della rete fognaria, acqua corrente, elettricità, etc. Sono interventi strettamente legati ai precedenti: il miglioramento delle condizioni abitative porta ad un rapido miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie. A titolo di esempio, la presenza di un bagno in maiolica all’interno di una casetta in muratura previene immediatamente malattie di carattere ginecologico e permette l’instaurarsi di una vera profilassi igienica, come la pratica di lavande vaginali e di cure antibiotiche locali. La presenza di acqua potabile e di un sistema Alcuni architetti dell’Università di Roma Tre avevano realizzato un modello di una casa su due piani: il “Savorengo Ker”, una costruzione in legno collocata nel campo di Casilino 900, realizzata insieme ai Rom e costata la metà di un container. 3
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di smaltimento dei rifiuti fa il resto. Sembra di raccontare la povertà di Paesi del terzo mondo, ma è di campi rom realmente esistenti in Italia che si sta parlando. Il campo rom può essere una buona soluzione insediativa, purché sia ben costruito e purché sia una soluzione provvisoria in vista degli interventi strutturali, di cui si parlerà nel paragrafo successivo.
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Interventi strutturali
Fronteggiata o quantomeno tamponata l’emergenza, si può compiere un salto di qualità nelle politiche locali e pensare al domani dei Rom. In alcune esperienze locali si stanno avviando percorsi di intervento strutturale, progettazione di interventi di medio e lungo periodo che mirino ad una effettiva e completa inclusione sociale della comunità rom nel nostro Paese. Gli ambiti di intervento sono i medesimi dei precedenti interventi; quello che cambia è la finalità degli stessi e la durata dei benefici che apportano. 3.1
Interventi sanitari di carattere strutturale
• Attribuzione del medico di famiglia ad ogni nucleo rom (quando applicabile, o dopo la regolarizzazione). • Socializzazione alle strutture sanitarie di primo e secondo livello (ASL, ospedale, medico di base, pediatra, ginecologo, dentista, farmacista, etc.) piuttosto che al pronto soccorso, usato dalla maggior parte dei Rom come panacea di ogni problema. • Campagne di informazione sulle malattie veneree e sensibilizzazione all’igiene, alla salute e alla cura del corpo. A livello sanitario, approntare interventi strutturali significa normalizzare il rapporto sanitario tra medico e Rom. Il rapporto si sposta sul medico di famiglia, e si instaura una relazione di profilassi sanitaria, più che di emergenza. Le famiglie rom iniziano a rivolgersi agli ambulatori specialistici anziché al pronto soccorso, come qualsiasi famiglia italiana.
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3.2
Interventi abitativi strutturali
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Gli interventi strutturali in ambito abitativo seguono un processo graduale e di miglioramento insediativo che, partendo da una gestione dei campi più “razionale”, arrivi al definitivo superamento della “logica del campo”, per adottare una reale politica di integrazione, con i Rom pacificamente inseriti in condomini di non-Rom. • Smantellamento e demolizione dei grandi campi nomadi. • Individuazione di aree adatte alla costruzione di insediamenti di limitate dimensioni, collocate in località non isolate, raggiungibili con i mezzi pubblici, in vicinanza di negozi e servizi4. • Per favorire l’occupazione, la progettazione potrebbe tener conto delle necessità di piccoli magazzini e luoghi adatti al lavoro di rottamazione del ferro e del rame o di altri lavori artigianali di cui tradizionalmente si occupano i Rom. • Durante la transizione per uscire dai campi, è utile favorire i progetti di auto-costruzione delle abitazioni. • Laddove possibile, è utile favorire il passaggio in abitazioni prese in affitto. I campi rom attuali sono troppo grandi per essere gestiti al meglio. Da più parti emerge un coro di voci, anche istituzionali, che invoca campi rom più piccoli. Sono più gestibili, spaventano meno la popolazione, i rapporti con le istituzioni sono più stringenti, è più facile lavorare in vista della fuoriuscita dagli stessi. Il passaggio all’abitazione in condominio può avvenire in più forme. Innanzitutto, occorre considerare l’ipotesi di far costruire ai Rom stessi le proprie abitazioni5. L’affiancamento di un muratore esperto che insegni il mestiere ai Rom produrrebbe molteplici vantaggi: si risparmierebbe sulla manodopera per la costruzione di moduli abitativi – e lo stipendio guadagnato andrebbe a scomputo delle prime quote d’affitto, una volta tra4 Basterebbe rifarsi a quanto già previsto dalle leggi regionali degli anni ’80 che, pur istituendo i campi sosta, sottolineano l’importanza di evitare l’isolamento spaziale. 5 Il modello dell’auto-costruzione ha avuto ampio successo sia nel contesto nazionale (applicato a Torino tramite un progetto chiamato “Dado”) che internazionale (si vedano i progetti di auto-costruzione spagnoli che vedono coinvolti i gitanos).
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sferitisi; si trasmetterebbero ai Rom competenze pratiche facilmente spendili nel mercato del lavoro; si migliorerebbe l’immagine sociale del Rom agli occhi della cittadinanza. Un’ulteriore soluzione è far sì che i nuclei famigliari rom abbiano la possibilità di andare a vivere in locazione (con le proprie finanze o aiutati da un contributo pubblico) in appartamenti dislocati per la città; ovverosia, che si applichi il modello dell’equa dislocazione6 (un buon esempio di tale applicazione è Reggio Calabria – cfr. cap. 5.5); modello che, soprattutto in ambito europeo, è stato elevato ad emblema di una integrazione sociale riuscita e completa tra rom e gagé.
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3.3
Interventi strutturali nell’ambito scolastico e formativo
Il diritto/dovere allo studio dei minori7 deve essere fatto rispettare ai Rom così come è fatto rispettare agli italiani: le diversità culturali tra le due etnie possono avere un ruolo sul metodo di apprendimento e magari anche sul contenuto appreso, ma non certo sulla possibilità o meno di frequentare la scuola dell’obbligo. Pertanto lo sforzo delle istituzioni dovrebbe essere massimo nella lotta contro la dispersione scolastica dei minori rom; in particolare le istituzioni scolastiche, le forze dell’ordine e i servizi sociali sono chiamati a fare sistema e ad agire sinergicamente ed energicamente per arginare il diffuso fenomeno della dispersione e dell’abbandono scolastico tra la comunità rom. • Le famiglie rom potrebbero essere incentivate a portare i loro figli a scuola con buoni spesa, gas, luce o altri incentivi di natura economica e mettendo loro a disposizione un servizio di scuolabus, per esperienza ritenuto essenziale laddove l’insediamento sia distante dall’istituto scolastico; • per favorire la partecipazione scolastica dei bambini e dei ragazzi rom si potrebbe pensare a sperimentare con loro dei me6 L’equa dislocazione prevede la dispersione dei nuclei rom per la città all’interno di condomini abitati da famiglie non-rom. Alla base di questa idea ci sono diverse teorie sociali (gli studi sul pregiudizio di Rupert Brown, la teoria dei gruppi di Henri Tajfel, l’ipotesi del contatto di Gordon Willard Allport, gli esperimenti di cooperazione di Muzafer Sherif, etc.) che concordano nell’attribuire grande importanza alla vicinanza e mescolanza dei gruppi per consentire una conoscenza reciproca e abbattere le barriere del pregiudizio. 7 La Legge 296 del 2006 innalza l’obbligo di frequenza scolastica a 16 anni (commi 622 e 624).
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3.4
todi didattici meno statici e più dinamici (più consoni quindi alle loro abitudini – come nel caso dei Caminanti semi-nomadi di Noto, Siracusa); è auspicabile l’attivazione di corsi di alfabetizzazione per adulti da organizzare negli istituti scolastici situati nei pressi degli insediamenti. Corsi di questo tipo sono stati recentemente attivati con successo in alcune realtà italiane (ad es. Istituto Scolastico “Maiore” di Noto); è importante realizzare corsi per uomini e donne che portino ad esperienze di lavoro retribuito; si ritiene importante facilitare i percorsi di studio che portano al conseguimento del titolo di scuola media inferiore, poiché tale titolo è conditio sine qua non per l’accesso ai corsi di formazione professionale iniziale degli enti di formazione italiani, così come dei corsi di formazione professionali finanziati dal Fondo Sociale Europeo; è auspicabile l’inserimento dei bambini rom stranieri nei corsi di recupero pomeridiani, al pari dei bambini italiani. Interventi nell’ambito lavorativo
Il lavoro è da molti considerato il fattore chiave su cui si gioca la riuscita o meno di ogni politica di inclusione. Da una prima analisi, si ritiene che i settori economici in cui possono essere inseriti più facilmente i Rom sono quelli a bassa professionalizzazione e ad alta capacità di assorbimento: lavori agricoli, alcune forme di artigianato, lavorazione del ferro, manutenzione del verde pubblico e privato, raccolta di rifiuti pesanti o gestione dei rifiuti differenziati, pulizia di strade, palazzi, cantine, solai. Alcune misure pratiche per agevolare l’inserimento lavorativo dei Rom sono: • L’inserimento dei Rom in cooperative sociali di tipo B. Questo tipo di cooperativa potrebbe sanare alcune situazioni di lavoro nero e sommerso, inquadrerebbe professionalmente i Rom, dando loro la possibilità di sostenere un livello di vita dignitoso, di far fronte alle spese correnti e di mandare i figli a scuo-
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la8. • Regolarizzare le posizioni lavorative. Occorre evitare di far scivolare nella criminalità persone che svolgono un lavoro non in regola.
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Interventi trasversali
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Esistono infine degli interventi che possono essere considerati trasversali a tutti gli ambiti finora esaminati poiché non appartengono specificatamente a nessun ambito e allo stesso tempo condizionano la buona riuscita di tutto il processo di inclusione sociale dei Rom. • Regolarizzare la posizione giuridica dei nuclei rom: permette un più facile controllo socio-demografico della comunità rom e abbatte gli ostacoli amministrativo-burocratici che si frappongono tra i Rom e l’accesso ai servizi sociali o ad ogni altra azione rivolta in loro favore. • Sostegno al volontariato: il volontariato riveste un importante ruolo di sostegno e di aiuto alle comunità svantaggiate. In tutta Italia, la Caritas, l’Opera Nomadi, la Croce Rossa Italiana ed altre organizzazioni hanno apportato un grande aiuto alla comunità rom; tuttavia, molto spesso queste organizzazioni si trovano da sole e con poche risorse a fronteggiare problemi e questioni che, comunque, sono di interesse pubblico. • Formazione del personale adibito agli “sportelli sociali” e di orientamento: le comunità di recente immigrazione sono spesso disorientate e non hanno gli strumenti cognitivi per far fronte all’apparato burocratico di una società complessa come la nostra. Spesso la comunicazione con gli operatori dietro gli sportelli è difficile e il rapporto rischia di divenire conflittuale; sarebbe opportuno formare il personale che maggiormente entra in contatto con l’utenza rom. • Campagna di informazione e sensibilizzazione rivolta alla popolazione: l’ignoranza è terreno fertile per ogni tipo di pregiudizio. Si ritiene quindi opportuno adottare delle strategie di comunicazione sociale che mirino ad informare e a sensi8
Un buon esempio di questo tipo di Cooperativa è la Coop “Rom 1995” che da 15 anni opera continuativamente e con profitto a Reggio Calabria.
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bilizzare9 la cittadinanza sulla cultura e sulla tradizione rom, oltre che a coinvolgerla negli interventi di inclusione sociale a loro favore giacché, se non godono dell’appoggio dei cittadini, sono destinate nella maggior parte dei casi al fallimento.
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Un modello integrato di intervento
La schematizzazione degli interventi da effettuare in caso di presenza rom sul territorio, secondo necessità, è utile per comprendere immediatamente la complessità della questione posta sul tavolo. Non si tratta solamente di effettuare una campagna di vaccinazione, o di costruire un alloggio, o di tamponare la dispersione scolastica dei bambini rom, o di favorire l’ingresso nel mercato del lavoro dell’adulto; si tratta di affrontare queste sfide assieme, non contemporaneamente, secondo priorità da stabilire di volta in volta, analizzato il territorio e le sue risorse. Pretendere di porre mano alla questione affrontando emergenza e strutturalità ad un tempo può inficiare lo sforzo, sia perché spesso mancano le risorse sia perché può essere concettualmente sbagliato. Ha ragione Vitale (2009) quando afferma che la questione Rom va affrontata in modo progressivo e integrato: progressivo, perché occorre innanzitutto tamponare le situazioni drammatiche attraverso interventi di natura emergenziale; solo dopo che le emergenze sono rientrate, allora si possono gettare le fondamenta per interventi di natura strutturale, destinati a durare nel tempo: emergenzialità e strutturalità non sono anteposte l’una all’altra, ma sono complementari e consequenziali, e un’agenda politica mirata e attenta alle risorse non può non prendere in considerazione una simile logica di intervento. Tali interventi occorre che siano poi integrati, ovvero che prendano in considerazione i forti legami esistenti tra lavoro, scuola, igiene e abitazione. È la realtà di fatto che li evidenzia, non meri enunciati di principio. Anche se è chiaro che non si può prescindere dagli altri ambiti, è comunque emerso come l’incidenza del “fattore lavoro” è 9 Un esempio di campagna di sensibilizzazione a livello nazionale è la campagna antidiscriminazione del 2009 dal titolo “Non aver paura, apriti agli altri, apri ai diritti” che ha adottato come mascotte l’immagine di un bambino rom dallo sguardo innocente (come quello di tutti i bambini della sua età) e allo stesso tempo vispo e furbo di chi è abituato, non per sua scelta, a vivere in strada.
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preponderante rispetto ad altri fattori10, se si vuole parlare di una piena e completa inclusione sociale delle comunità RSC. In fig. 1 vi è una rappresentazione grafica di ciò che si è detto a proposito delle relazioni tra la dimensione lavorativa e le altre dimensioni, che costituiscono l’estensione semantica del concetto di inclusione sociale: Figura 1. Le dimensioni dell’inclusione sociale dei Rom e le loro relazioni.
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La centralità del lavoro
AB I TAZ I ONE
LAVORO
I GI ENE SANI TA’ CURA DELLA P ERSONA
I STRUZ I ONE
Abitazione, lavoro, cura sanitaria e istruzione sono questioni su cui intervenire congiuntamente, anche se in tempi diversi. La questione centrale rimane il lavoro, perché la sua presenza permette di sbloccare altre dimensioni critiche dell’integrazione dei Rom. In parole povere, il lavoro permette di pagare l’affitto e le utenze di un’abitazione; di avere, quindi, una residenza, in cui certamente migliorano le condizioni igieniche; la maggior cura personale e igienica facilita l’ingresso a scuola dei bambini e la permanenza nel mondo del lavoro degli adulti; il reddito permette, inoltre, di pagare cure mediche specializzate, rafforzando ulteriormente la speranza di vita del nucleo familiare; a sua volta, l’innalzamento del livello di istruzione familiare costituisce un formidabile fattore di riscatto sociale, in particolare 10 Riprendendo anche i lavori della Consensus Conference che si è svolta il 10 giugno 2010 a Palermo, il fattore chiave su cui si gioca la riuscita o meno di ogni politica di inclusione è il lavoro.
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per la seconda generazione di immigrati rom, che costituiscono la speranza di una vita migliore per coloro che oggi la intravedono da lontano. In definitiva, enti e comunità locali sono chiamati ad affrontare una sfida complessa, in cui, lungi dal lasciarsi prendere da paure identitarie o da pacifismi ingenui, occorre pianificare interventi molteplici, secondo una scansione progressiva, da sottoporre a monitoraggio costante, in collaborazione con la popolazione locale e con i rappresentanti dei Rom. È una progettualità di lungo periodo, certamente pluriennale, in cui differenti attori richiedono di essere coinvolti attorno ad un tavolo di concertazione, la cui regia non può che essere appannaggio dell’interlocutore istituzionale. L’integrazione di una popolazione immigrata e in difficoltà come quella rom è per i politici italiani una sfida nobile nel più alto senso del termine, alla luce anche dei rigurgiti di xenofobia che stanno oggi attraversando un numero crescente di Paesi europei. L’Europa ci guarda, e con la questione dell’integrazione dei Rom abbiamo l’occasione di trasformare un problema in un’opportunità politica che potrebbe apportare benefici al Paese per molti anni a venire.
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Cartografie
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Cartina 1. Presenza insediamenti RSC nelle regioni Obiettivo Convergenza (Fonte: Iref 2010)
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Cartina 2. Principali progetti d’inclusione sociale realizzati nelle regioni Obiettivo Convergenza (Fonte: IREF 2010)
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Cartina 3. Presenza insediamenti RSC nei comuni della Campania (Fonte: Iref 2010)
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Cartina 4. Presenza insediamenti RSC nei comuni della Puglia (Fonte: Iref 2010)
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Cartina 5. Presenza insediamenti RSC nei comuni della Calabria (Fonte: Iref 2010)
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Cartina 6. Presenza insediamenti RSC nei comuni della Sicilia (Fonte: Iref 2010)
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Cartina 6. Presenza di insediamenti di Camminanti nei comuni della Sicilia (Fonte: IREF 2010)
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Nota sugli Autori
Emiliana Baldoni – Dottore di ricerca in Metodologia delle Scienze Sociali presso l’Università “Sapienza” di Roma, ha svolto numerose ricerche sulle migrazioni internazionali, sulla mobilità intra-europea e sulla tratta di esseri umani. Ha pubblicato diversi contributi sul fenomeno migratorio in Italia e in Europa, tra cui la monografia Racconti di trafficking (Milano, 2007). Marco Livia – Dal 2000 è direttore generale dell’IREF. Laureato in Giurisprudenza, indirizzo giuridico-economico, ha seguito il corso universitario annuale di Diritto Comunitario “Jean Monnet” sull’accesso ai finanziamenti europei presso il Collegio d’Europa a Bruges. Ha conseguito due Master privati in Diritto Tributario e Finanziamenti alle imprese. Consulente aziendale, esperto del III settore e in politiche di Fund Raising. Angelo Palazzolo – Dottorando di ricerca in Metodologia delle Scienze Sociali presso l’Università “Sapienza” di Roma, si è laureato in Scienze della Comunicazione all’Università di Perugia. Ha svolto presso l’IREF e in collaborazione con l’UNAR diverse ricerche sul tema della discriminazione razziale in Italia. Da ottobre 2010 si occupa di pari opportunità e uguaglianza di genere all’Ufficio Statistico dell’Unione Europea (EUROSTAT). Alice Ricordy – È laureata in Antropologia presso l’Università “Sapienza” di Roma ed ha un Master universitario in Politiche dell’Incontro e Mediazione Culturale. Ha partecipato a numerosi progetti di inclusione rivolti alle comunità rom presenti a Roma. Dal 2005 collabora con l’Area Sanitaria della Caritas di Roma, all’interno di progetti di tutela della salute specifici per questa popolazione. Dal 237
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2007 svolge anche attività di ricerca ed è referente sul tema Rom e Sinti per Caritas Italiana.
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Gianfranco Zucca – Specializzato in metodi qualitativi all’Università “Sapienza” di Roma, è ricercatore dell’IREF dal 2003. Ha svolto studi sui cambiamenti in atto nel mondo del lavoro e ha realizzato numerose ricerche sul tema delle migrazioni, analizzando in particolar modo l’insediamento delle famiglie straniere in Italia e le migrazioni femminili collegate al lavoro domestico. Ha pubblicato numerosi saggi e articoli su questi argomenti.
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