Il caso Nietzsche. La ribellione fallita dell'Anticristo. Nuova ediz. 882111208X, 9788821112089

Questo libro nasce dalla constatazione che Friedrich Nietzsche, uno dei più fieri nemici del cristianesimo, ne è, a ben

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Il caso Nietzsche. La ribellione fallita dell'Anticristo. Nuova ediz.
 882111208X, 9788821112089

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Girard Fornari

René Giuseppe

Il caso Nietzsche

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Marietti

1820

j uesto libro nasce dalla constatazione che Friedrich Nietzsche, ’ uno dei più fieri nemici del cristianesimo, ne è, a ben guarda­ re, la più sorprendente conferma. Non si tratta semplicemente di un’opposizione speculare al cristianesimo che ne tradisce la nasco­ sta influenza, come sostiene Heidegger: l’influenza nascosta esiste, ma il rifiuto nietzschiano ad ammetterla si basa su un’opposizione reale, su una scandalosa differenza cristiana che il nostro mondo si­ stematicamente respinge, proprio perché vi è estremamente vicino. Nietzsche reagisce alla rivelazione evangelica del desiderio e della violenza, ma il suo rifiuto diventa la rivelazione ultima, «escatologi­ ca» di questa violenza, la dimostrazione della verità della croce.

RENÉ GIRARD

(1923-2015), antropologo e critico letterario, ha inse­ gnato Letteratura comparata alla Stanford University. Tra i numerosi saggi tradotti in italiano editi da Adelphi: La violenza e il sacro (1980), Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (1983), // capro espiatorio (1987), Vedo Satana cadere come la folgore (1999), La voce inascoltata della realtà (2006) e Portando Clausewitz all’estremo (2008).

GIUSEPPE FORNARI, docente di Storia della Filosofia all’Università di Bergamo, ha studiato la cultura greca e il suo rapporto con la civiltà europea. Tra le sue pubblicazioni: Da Dioniso a Cristo (Marietti 2006), La conoscenza tragica in Euripide e in Sofocle (Transeuropa 2015) e Mito, trage­ dia, filosofia. Dall’antica Grecia al Moderno (Studium 2017). Del suo saggio su Nietzsche è uscita l’edizione americana: A God Torn to Pieces (2013).

ISBN 978-88-211-1208-9

€18,00 (IVA compresa)

632.200

René Girard - Giuseppe Fornari

Il caso Nietzsche

Girard Giuseppe Fornari René

Il caso Nietzsche LA RIBELLIONE FALLITA DELL’ANTICRISTO

£

Marietti 1820

Redazione e impaginazione·. Arta snc, Genova

I edizione nella collana di Filosofia: 2002 I edizione nella collana Agorà: 2019

® 2019 Centro editoriale dehoniano via Scipione Dal Ferro, 4 - 40138 Bologna www.mariettieditore.it Marietti 1820® ISBN 978-88-211-1208-9

Indice

Premessa René Girard, Cinque saggi su Nietzsche Il superuomo nel sottosuolo. Strategie della follia: Nietzsche, Wagner, Dostoevskij

7 11 13

La contraddizione di Nietzsche Dioniso contro il Crocifisso

47 63

Nietzsche, la decostruzione, e la moderna preoccupazione per le vittime

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Nietzsche e il destino della cultura europea Giuseppe Fornati, Il dio sbranato. Nietzsche e lo scandalo della croce

105

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I.

La caccia alla balena

123

IL III.

L’eterno ritorno della pazzia Il filosofo e il suo doppio 1. Una rivalità schiacciante 2. L’impossibile morte del rivale 3. Le maschere di un filosofo La fondazione di Dioniso 1. La vera “morte” di Dio 2. Il fautore prometeico della cultura 3. Verso il centro del labirinto 4. Divinizzazione fallimentare e sterminio di massa 5. L’ultimo nemico

133 149

IV.

149 162 177

182 182 185 192 201 206

V.

VI.

L’anticristo e la croce

214

1. Un’iniziazione dantesca 2. Gesù Cristo insultato 3. Si striscerà alla croce

214 218 223

Ciò che nessuno ha scorto

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Premessa

Parlare ancora di Nietzsche è oggi una scommessa e una ne­ cessità. Una scommessa, perché a questo pensatore si sono ispi­ rate mode ideologiche e intellettuali così radicate e diffuse che molti sono ben lontani anche adesso dal volervi rinunciare. Una necessità, perché la cosa più straordinaria è che, nonostante gli infiniti libri scritti su di lui, quello che di più importante Nietzsche ha da dirci passa ancora sotto silenzio, è tuttora pres­ soché completamente ignorato. E una situazione che Nietzsche ha saputo descrivere molto bene, e che presagiva per i propri scritti, paventando quella santificazione postuma e deformante che era lui il primo a preparare. Egli stesso ha fatto di tutto per­ ché si creasse l’equivoco, anzi su questo equivoco ha giocato fi­ no all’ultimo, fino a impazzirne. La pazzia di Nietzsche, ecco l’al­ tro “scheletro nell’armadio” che pochi vogliono andare a vedere, e che ha uno stretto rapporto col messaggio inattuale e nascosto di questo pensatore scomodo, prima che agli altri, a se stesso. Nietzsche è stato un grande giocatore d’azzardo dello spiri­ to, un giocatore che ha tentato di chiudere la propria carriera puntando tutto sul numero sbagliato, perdendo tutto in una giocata autodistruttiva che in quegli anni solo un altro scrittore è arrivato a sondare in maniera ancor più radicale: Dostoevskij. Non si può comprendere Nietzsche se si prescinde da questo senso folle di azzardo, di sfida contro l’impossibile. Questa sfi­ da è sostanzialmente ricostruibile nelle sue motivazioni, e la motivazione non certo unica ma più clamorosa che emerge dalla biografia nietzschiana è la rivalità verso Wagner, rivalità che avrebbe accompagnato il filosofo per tutta la vita come un’ombra, come una maledizione. Nietzsche diviene il rivale di Wagner perché lo ammira e lo imita, perché in una parola lo in-

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IL CASO NIETZSCHE

vidia: egli ha così vissuto, al pari di ogni essere umano, la forza del desiderio imitativo o mimetico, dell’imitazione di un model­ lo che ci indica che cosa desiderare, insegnandoci chi siamo, qual è il nostro ruolo nel mondo. Questo desiderio triangolare è il segreto del nostro apprendimento e della nostra creatività, ma può provocare lo scontro con il modello per il possesso del­ le medesime cose, può portare alla contesa, alla violenza più di­ struttiva. È una verità imbarazzante che questo pensatore non vorrà mai riconoscere, arrivando a inventarsi un intero sistema metafisico, quello della volontà di potenza, pur di giustificare tale rifiuto. La pervicacia grandiosa di un simile sforzo segnerà il destino spirituale e personale di Nietzsche. Pur di togliersi di dosso la maledizione della sua rivalità ver­ so Wagner, Nietzsche avrebbe cercato di attaccare quel Dio che minacciava di colpirlo rivelando la verità del suo desiderio, il Dio della Bibbia che mette in guardia Caino dalla sua invidia per Abele, e che poi lo inchioda alla responsabilità del suo odio omi­ cida. Nietzsche questo Dio cercherà di attaccarlo, cercherà di di­ struggerlo, e nel corso di una lotta senza esclusione di colpi, che può essere paragonata soltanto alla ribellione metafisica di certe creature di Dostoevskij, esplorerà ciò di cui nessuno si è accor­ to, o ha perlomeno riconosciuto l’importanza, ossia la violenza umana che porta alla proclamazione della morte di Dio. Dio è morto perché gli uomini lo hanno ucciso. Gli uomini infatti assas­ sinano Dio, - vale a dire qualcuno che sono successivamente di­ sposti a riconoscere come Dio -, quando le loro reciproche ri­ valità diventano così forti che l’unica via di salvezza è scaricarle su un singolo, su una vittima che è eliminata e, dato che miraco­ losamente assicura la salvezza di tutti, divinizzata. Questo è il duplice passaggio del desiderio mimetico e del sacrificio destinato ad arginarlo che il lettore dovrà sempre ave­ re presente per seguire in modo perspicuo il percorso che vo­ gliamo proporre. L’avvertenza appare opportuna, perché di questo percorso Nietzsche sarà il protagonista quanto mai istruttivo, e quanto mai riluttante. Il rifiuto che Nietzsche oppone alla vera natura del suo de­ siderio è fortissimo, ma talmente preciso da riprodurne i con­ torni, portandolo a vederne con lucidità quasi profetica gli ef­ fetti, nel momento stesso in cui di tali effetti egli nega le cause.

PREMESSA

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Nel corso delle sue scorribande temerarie, e nella sua posizione di escluso, questo pensatore giunge a scorgere la violenza col­ lettiva che sta dietro Dioniso, in Grecia il dio sacrificale per ec­ cellenza, e per Nietzsche il simbolo stesso dell’immolazione cruenta, la cui vera origine dall’uccisione di vittime innocenti è rivelata esclusivamente da Cristo. Ed è proprio quest’ultima la scoperta più grande e disconosciuta che il filosofo effettua, l’acquisizione della differenza tra Dioniso e Cristo, differenza abissale proprio perché la loro vicenda è la medesima, solo rac­ contata da due punti di vista inconciliabili, quello dei carnefici per Dioniso, quello della vittima innocente per Cristo. Ma per Nietzsche questa straordinaria scoperta è rimasta infruttuosa. Coerente fino all’ultimo, incurante di ciò che egli stesso aveva trovato, Nietzsche vuole parteggiare per Dioniso, per la violen­ za del sacrificio contro il Dio della Bibbia. Eanticristo, Ecce ho­ mo e gli ultimi frammenti sono, in particolare, i testi dove si consuma la fase finale di questo dissennato rifiuto della verità, che si chiude con la notte della pazzia. Sì, Nietzsche ha ancora molto da dirci. Ha molto da rivelare su di noi e su un messaggio che non è filosofico, ma religioso, un messaggio che noi siamo poco disposti ad affrontare, da cui anzi solitamente preferiamo allontanarci. La conclusione, para­ dossale e consequenziale, è che Nietzsche, il preteso distruttore del cristianesimo, ne è la migliore conferma, talmente tremenda che alcuni fra gli stessi cristiani sembrano volersene tenere alla larga. E ora, pertanto, che a Nietzsche sia riconosciuta l’impor­ tanza che gli spetta come pensatore, senza mezzi termini, reli­ gioso. Per convincersene dovrebbe essere sufficiente leggere senza pregiudiziali i saggi che seguono, scritti in tempi diversi e con diverse prospettive, ma tutti concordi nel giungere a quest’unica, inattuale conclusione, risultato fondamentalmente uni­ tario che crediamo derivi non da ragioni di “scuola”, ma dalla realtà oggettiva che questo filosofo è andato a toccare, illuden­ dosi disastrosamente di sovvertirla. Questo non vuol essere un processo a Nietzsche, quanto piuttosto un’indagine, o meglio una serie convergente di indagini, condotta con “timore e tre­ more” davanti al destino drammatico di un uomo infelice e di un pensatore geniale. Esiste, in un senso che è ancora da sco­ prire, un “caso Nietzsche”, assai più rivelatore di quello che lui

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IL CASO NIETZSCHE

voleva diventasse il “caso Wagner”: è ciò che, già ai suoi tempi, ha detto più di un contemporaneo, non senza la complicità di Nietzsche stesso, e non immaginando in quale misura la singo­ larità inquietante del “caso” coinvolgesse un’intera epoca, fino a includere in pieno il presente nel quale viviamo. Il “caso” at­ tende tuttora la sua soluzione, una soluzione che - riteniamo non è da temere, ma da sperare. Nella sua terribilità la sorte scelta da Nietzsche può aprire il nostro pensiero a una speran­ za che non sta a noi stabilire, ma che aspetta immutabile chiun­ que in un modo o nell’altro la cerchi. E una riflessione che de­ ve coinvolgerci in prima persona, se non come credenti, certa­ mente come uomini del nostro tempo. René Girard - Giuseppe Fornari Nota sul testo Questo volume comprende, come prima parte dell’opera, cinque saggi di Girard, due dei quali inediti in Italia, che rappresentano in mo­ do completo la sua interpretazione di Nietzsche. Gli ultimi due testi erano in origine due conferenze che presentano una prima sintesi, in sé autonoma, di quanto poi l’autore avrebbe ripreso in Je vois Satan tom­ ber comme l’éclair'·, manca invece il testo La meurtre fondateur dans la pensée de Nietzsche1 2, perché il suo tono più vistosamente da conferen­ za e il fatto che il suo contenuto sia a grandi linee già esposto in Dioniso contro il Crocifisso (che qui è il testo centrale di questa silloge girardiana) hanno consigliato di non inserirlo. La seconda parte del volume è formata dall’ampio saggio di Fornari, che fornisce uno sviluppo autonomo delle proposte interpre­ tative di Girard, e nel quale vengono analizzate più da vicino sia la paz­ zia di Nietzsche sia l’opera che nei suoi intendimenti avrebbe dovuto coronare la sua lotta contro il cristianesimo, Llanticristo. I saggi di Girard, rivisti e modificati dall’autore per la presente edizione, sono stati tradotti da G. Fornari. Le traduzioni già pubblicate in Italia sono state modificate di conseguenza e hanno subito una generale revisione. Si ringraziano le riviste interessate per averne permesso l’utilizzo. 1 R. Girard, je vois Satan tomber comme l’éclair, Grasset, Paris 1999, pp. 249 ss. (Ve­ do Satana cadere come la folgore, a c. di G. Fornari, Adelphi, Milano 2001, pp. 211 ss.). 2 R. GIRARD, La meurtre fondateur dans la pensée de Nietzsche, in Aa.Vv., Violence et vérité. Autour de René Girard, a c. di P. Dumouchel, Grasset, Paris 2001.

René Girard

Cinque saggi su Nietzsche

Il superuomo nel sottosuolo. Strategie della follia: Nietzsche, Wagner, Dostoevskij1

Qualunque tentativo di rendere comprensibile la follia di Nietzsche deve partire dalle relazioni umane di tipo triangola­ re, le stesse che si collocano al cuore della teoria psicanalitica di Freud. Ma per fare questo non è affatto necessario essere freudiani. Nietzsche è perfettamente leggibile alla luce della concezione mimetica da me sintetizzata in Menzogna romanti­ ca e verità romanzesca (1961) e in Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (1978)2. È evidente che l’ossessione di Nietzsche per Wagner è stata qualcosa di più di un’infatuazione giovanile, di un precoce er­ rore di giudizio che il pensatore avrebbe agevolmente corretto nel raggiungere la “maturità”. Non è possibile liquidare il pro­ blema che Wagner ha rappresentato per Nietzsche con i tradi­ zionali argomenti dell’incommensurabilità fra “vita” e “ope­ ra”, perché di quest’opera il grande musicista è una parte es­ senziale. Nietzsche ha continuato a scrivere prima a favore e poi contro Wagner lungo la sua intera carriera: ora in modo di­ retto, lodandolo o attaccandolo per nome, ora in modo indi1 Superman in the Underground: Strategies of Madness/ Nietzsche, Wagner, and Dostoevsky, “Modem Language notes”, 92 (1977), pp. 816-835; poi inserito in R. Girard, «To Double Business Bound»: Essays on Literature, Mimesis, and Anthropo­ logy, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 1978, pp. 61-83. 2 R. GlRARD, Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita, tr. it. di L. Verdi-Vighetti, Bompiani, Milano 1981 (I ed, 1965); Id., Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo. Ricerche con Jean-Michel Oughourlian e Guy Lefort, tr. it. di R. Damiani, Adelphi, Milano 1983.

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retto. Anche quando il crollo psichico di Nietzsche si avvicina, Wagner, pur essendo già morto, rimane una figura ossessiva, anzi più ossessiva che mai. Lungi dall’essere un approccio capace di spiegare le diffi­ coltà avute da Nietzsche nei suoi rapporti col compositore, l’interpretazione fornita dal tradizionale complesso di Edipo consente di eludere, una volta di più, le vere questioni. La vicenda del rapporto di Nietzsche con Wagner corri­ sponde in maniera perfetta ai vari stadi del processo che nasce dall’imitazione di un modello, il processo imitativo o mimeti­ co. All’inizio Wagner è il modello esplicitamente riconosciuto, la divinità apertamente adorata, il mediatore che insegna che cosa desiderare con la sua personalità prestigiosa. Poi egli di­ venta un ostacolo e un rivale, senza cessare di essere per que­ sto un modello. Uno psicanalista direbbe che il rapporto fra i due è diventato “ambivalente”, ma cercare la causa di tale “ambivalenza” in qualche psicanalitico padre scomparso signi­ fica chiudere gli occhi davanti alla realtà del conflitto. Mentre sta rapidamente diventando l’eroe culturale della nazione te­ desca, Wagner proibisce al suo discepolo di raggiungere lo sco­ po che pure è lui stesso a porgli davanti. Si tratta del medesi­ mo “doppio vincolo” imitativo, della medesima ingiunzione contraddittoria («Imitami!» - «Guai a te se mi imiti!») che ri­ troviamo nel rapporto fra Schiller e Hölderlin o fra Rimbaud e Verlaine3. Freud e gli altri teorici della psicanalisi si rifiutano di intendere la terribile semplicità di questo tipo di rapporto, e distolgono sistematicamente la nostra attenzione dalla verità, in nome di qualche fiaba priva di fondamento. Ma per convin­ cerci che il doppio vincolo esiste basta guardare ai rapporti di questi stessi studiosi con i loro discepoli, alle rovine psicologi­ che che costoro hanno disseminato lungo la loro strada. Al tempo dei trionfi di Bayreuth un inorridito Nietzsche si vede di colpo davanti la propria idolatria verso Wagner molti­ plicata per mille. Bayreuth è presentata da Nietzsche come lo sforzo mostruoso attuato da Wagner per inscenare il suo stes­ so culto. Forse il filosofo non ha del tutto torto, ma Ecce homo 1 Sul doppio vincolo (double bind) vedi anche la seconda parte del volume, pp. 165-166.

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non costituisce una messinscena del medesimo tipo? Ecce ho­ mo è lo sforzo da parte di Nietzsche di allestire il proprio stes so culto, è la risposta di Nietzsche a Bayreuth: un atto di ritor­ sione che, come tutti gli atti di ritorsione, è lo specchio dell’a­ zione che controbatte. L’unica differenza, naturalmente, è che Wagner aveva adoratori reali, mentre Nietzsche non aveva in pratica altri adoratori all’infuori di sé. Il filosofo doveva soste­ nere la duplice parte di adoratore e adorato, una di quelle im­ prese che non si possono portare avanti con successo per trop­ po tempo. Il silenzio totale che lo circonda costringe Nietzsche a pose sempre più istrioniche, a un tipo di comportamento che va riconosciuto come una classica schizofrenia, anche se non vi è nessuna soluzione di continuità rispetto alle più moderate espressioni di autostima che sono reperibili nei suoi scritti pre­ cedenti. La differenza tra l’uomo psicologicamente sano e quello malato può dipendere, a questo stadio, dal maggiore o minore successo delle sue relazioni con gli altri, con la gente, insomma con la folla. Tutto si fa qui evidente, ma ciò che risulta evidente non è mai detto a chiare lettere. La pietà dei seguaci di Nietzsche, quella pietà cieca e santimoniosa che viene esercitata, manco a dirlo, solo verso i modelli morti, impedisce che nel nostro mondo nietzschiano la verità sia ascoltata o anche soltanto pronunciata. Pur di smantellare il culto di Wagner, Nietzsche è ricorso a innumerevoli stratagemmi, come quando ad esempio propone Bizet quale divinità musicale sostitutiva. Nemmeno un bambi­ no verrebbe ingannato da un trucco del genere, ma noi tutti ci lasciamo ingannare, o fingiamo di esserlo. Gli intellettuali oc­ cidentali possono esercitare su Nietzsche un’arte che a loro torna sovente utile, quella di distogliere l’attenzione dalle linee di condotta più contraddittorie, più schizofreniche. Vittoria e sconfitta sono due poli complementari della strut­ tura di rivalità, due poli che fra Wagner e Nietzsche si alterna­ no costantemente. Il fatto che le due controparti non condivi­ dano nella stessa misura vittoria e sconfitta, o che ci possano essere altre parti in gioco in qualche misura coinvolte, non im­ pedisce a questa struttura maniaco-depressiva di essere innan-

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zi tutto quello che è, ossia una concreta relazione fra doppi, una reciprocità mimetica che continua a stringersi proprio a causa degli sforzi che Nietzsche compie per scioglierla. Qualunque tentativo di separare Ecce homo dal culto di Wagner equivale a falsificare un momento essenziale nella crescente schizofrenia della cultura tedesca ed europea. La pretesa di Nietzsche in Ecce homo è che tutto ciò che egli ha scritto in passato su Wagner, tutti gli elogi da lui tributati a quel falso idolo non siano scartati e dimenticati, ma ricondotti al suo legittimo detentore, che sarebbe Nietzsche in persona. Ogni volta che il nome di Wagner compare è con quello di Nietzsche che bisogna sostituirlo. Ma la cosa più esasperante per il filosofo sta ovviamente nel fatto che sono le sue stesse pa­ role, come ad esempio quelle contenute nella Nascita della tra­ gedia, a testimoniare contro di lui e a favore di Richard Wagner. A differenza delle dittature moderne, che possono ri­ scrivere a loro piacimento la storia, gli scrittori non hanno il potere di cancellare ciò che hanno scritto. Se leggiamo i testi nietzschiani in ordine cronologico, possiamo notare il momen­ to in cui la risposta, “ambivalente” ma ancora “razionale”, al modello che insieme è anche un ostacolo lascia il posto alla cri­ si di identità e alla megalomania allucinante degli ultimi stadi. Il soggetto malato ritorna non alla sua prima infanzia, bensì al­ le sue prime relazioni col mediatore, allorché il modello, non ancora trasformatosi in ostacolo, era venerato senza problemi. Attraverso quella che adesso gli appare come una diabolica trappola, la vittima realizza che lei per prima ha acconsentito e collaborato all’iniquo trionfo del mediatore. Nietzsche si vede privato del suo stesso essere e cerca sempre più disperatamen­ te di riempire questo vuoto non solo con il fantasma di Richard Wagner, ma con qualsiasi modello mitologico o storico che per qualche motivo colpisca la sua fantasia. Se seguissimo troppo in fretta l’esempio degli psicanalisti e descrivessimo Wagner come un semplice sostituto del padre, la rivalità verrebbe svuotata del suo vero contenuto intellettuale e artistico, e il problema diventerebbe incomprensibile. Ciò non significa che non vi siano elementi parentali e sessuali nel­ la rivalità, ma se prendiamo in esame tali elementi possiamo

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constatare come il complesso di Edipo sia totalmente incapace di darne una spiegazione, nonostante i fatti in questione, a un primo sguardo, sembrino dar ragione a Freud. Negli ultimi frammenti e biglietti di Nietzsche il nome di Richard Wagner appare, ancora una volta, all’interno di una configurazione che anche l’osservatore meno favorevole verso la mia “critica triangolare” dovrà rassegnarsi a chiamare, alme­ no in questo caso, un triangolo. Gli altri due nomi sono quello della moglie di Wagner, Cosima, e dello stesso Nietzsche. Vi è una versione mitologica di questo triangolo, in cui Richard Wagner figura come Teseo, Cosima come Arianna, e Nietzsche come Dioniso. È da notare, fra l’altro, che nei giorni del suo crollo finale Nietzsche poteva firmarsi indifferentemente sia «Dioniso» sia «Il Crocifisso», in stridente contrasto con una precedente formula, quella di Dioniso contro il Crocifisso, che figura proprio alla fine di Ecce homo e che esprime in modo di­ retto la sua fiera opposizione al cristianesimo. Il triangolo mitologico, col quale Nietzsche interpreta la sua relazione con Wagner e sua moglie, allude all’episodio in cui Dioniso riceve Arianna da Teseo. Secondo la sorella di Nietzsche, Elisabeth, il primo riferimento a questa vicenda mi­ tica sarebbe venuto dal direttore d’orchestra wagneriano, non­ ché primo marito di Cosima Liszt, Hans von Bülow. Quando sua moglie lo abbandonò per Richard Wagner, il primo marito di Cosima non perse per nulla il suo spirito da uomo di mon­ do: egli avrebbe fornito la spiegazione che, se una donna è di­ visa fra un uomo e un dio, può ben venire scusata se sceglie quest’ultimo. Abbiamo così un primo triangolo, con personaggi in carne e ossa che interpretano ruoli in gran parte diversi da quelli del triangolo finale: Wagner sostiene il ruolo di Dioniso, Nietzsche non compare ancora, solamente Cosima mantiene lo stesso ruolo. L’osservazione non è senza importanza. Per quanto il bon mot di Hans von Bülow sia stato fatto più nello spirito di Offenbach che della Nascita della tragedia, esso cor­ risponde al punto di vista che sulla situazione aveva Nietzsche a quel tempo. Anche il filosofo ha la sua interpretazione mito­ logica in cui la parte di Dioniso è assegnata a Wagner. Questo

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triangolo modificato, in cui stavolta tocca a lui essere escluso dal possesso della donna desiderata, doveva essere profonda­ mente presente al suo spirito quando, sull’orlo della follia, ne elaborò una nuova versione. Il filosofo viene adesso a occupa­ re il posto precedentemente riservato a Wagner; Richard Wagner è però ancora presente, e Nietzsche si aspetta di rice­ vere Cosima dalle sue mani, esattamente come il grande com­ positore aveva ricevuto Cosima da Teseo-von Bülow. Il rag­ giungimento di Cosima e l’identificazione con Dioniso sono esplicitamente al centro di quest’ultima sostituzione triangola­ re. Possesso degli attributi divini e possesso della donna van­ no di pari passo. Bisogna resistere alla tentazione di classificare Cosima come sostituto materno. Questo freudismo riflesso ci dà solo un’illu­ sione di luce, e rimane incapace di spiegare la sostituzione di un triangolo con l’altro. Ogni qualvolta Nietzsche si è interessato a una donna, ri­ sulta che un comune amico abbia fatto da tramite e che an­ che l’amico fosse interessato alla ragazza, o che perlomeno fosse questo il desiderio di Nietzsche. Nel 1876, ad esempio, il filosofo chiese a un amico, Hugo von Senger, di fare a suo nome una domanda di matrimonio a una ragazza che l’altro conosceva, e che fu poi l’amico a sposare. L’episodio con Lou Salomé è sostanzialmente simile. Quando Nietzsche la incon­ trò, lei era in un rapporto di stretta amicizia con Paul Rèe. Ancora una volta Nietzsche chiese in tutta fretta a Paul Ree di trasmettere a Lou una proposta di matrimonio, che la don­ na rifiutò. Freud si interessa a questi triangoli, ma la sua consapevo­ lezza del ruolo del rivale si limita a quella che egli chiama “am­ bivalenza”, tipica della relazione di amore-odio. Il fondatore della psicanalisi non si rende conto che esiste una spiegazione efficace di questa “ambivalenza”, ed è la metamorfosi del mo­ dello mimetico in ostacolo. Freud fa invece affidamento sul suo complesso di Edipo, e finché la fascinazione per il rivale rimane moderata la versione “normale” del complesso sembra funzionare. La donna è il sostituto materno, il rivale il sostitu­ to paterno, e il soggetto è supposto “rivivere” i sentimenti ori­

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ginari del complesso di Edipo: desiderio per la madre, odio per il padre in quanto rivale e “normale affetto” per lui in quanto padre. Tuttavia in triangoli come quello di Nietzsche, in cui la fa­ scinazione per il rivale diventa estrema, il complesso edipico non ha più alcuna efficacia esplicativa. Questo è il motivo per cui Freud ha dovuto inventare la genesi di un Edipo “anorma­ le”. Non afferrando il principio mimetico, egli non ne realizza la capacità di spiegare tutti questi fenomeni come fasi diverse di un unico processo dinamico, in cui l’altro diventa vieppiù affascinante come modello anche e soprattutto allorché si tra­ sforma sempre più in un ostacolo, che come tale è oggetto di un’intensa fascinazione rivalitaria. Un simile processo triango­ lare dà anche ragione degli aspetti omosessuali, dato che l’o­ stacolo è un rivale del medesimo sesso. Gli aspetti omosessuali della fascinazione per il rivale sono l’unico elemento del quadro che Freud percepisca con chia­ rezza, ma tale aspetto è condannato a venir frainteso da chiun­ que non comprenda la precedenza dell’imitazione rispetto alla rivalità. La fascinazione deve allora essere descritta come un’o­ mosessualità “latente”, per la semplice ragione che anche una donna è presente nel quadro e rimane il solo oggetto diretto, per così dire, del desiderio mediato attraverso il modello. Il secondo Edipo in effetti non è altro che l’aggiunta dell’e­ lemento omosessuale al primo Edipo. In aggiunta al “normale” desiderio del bambino per sua madre, che dev’essere mante­ nuto dal momento che nel triangolo ci sarà una donna quale oggetto del desiderio e sostituto materno, Freud è costretto a postulare, nel bambino, il desiderio “di essere amato dal padre come una donna”. Abbiamo dunque due tipi di genesi edipica, una “normale” e una “anormale”, e non c’è dubbio che Freud sarebbe ricorso alla seconda nel caso di Nietzsche. Esiste però un altro grande autore che, nella sua vita privata come nella sua opera, ha avu­ to a che fare con uomini e donne secondo modalità “triangola­ ri” che ricordano assai da vicino quelle di Nietzsche. Si tratta di Dostoevskij, e nel saggio che Freud dedica allo scrittore rus­ so il padre della psicanalisi invoca puntualmente il suo “Edipo

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anormale” per spiegare fenomeni che hanno una somiglianza impressionante con quelli che ho appena descritto. Il rivale gioca in Dostoevskij esattamente lo stesso ruolo che in Nietzsche. Assistiamo ancora una volta a proposte di matri­ monio decise in tutta fretta ed effettuate attraverso la media­ zione di amici che Dostoevskij aveva ragione di credere fosse­ ro essi stessi interessati alla donna oggetto del desiderio. Quando è il mediatore, alla fine, a prendere l’iniziativa, Dostoevskij - o i suoi eroi, molti dei quali gli sono quanto mai somiglianti - è sempre pronto a cedere al suo rivale. Nelle ope­ re giovanili, e nella corrispondenza dello stesso periodo, que­ sto tipo di comportamento è costantemente presentato come “magnanimo”, e viene espressa la speranza che, grazie a tale “magnanimità”, sarà possibile ricevere indietro la donna dalle mani del rivale o condividerla con lui in una forma molto di­ screta, magari come si potrebbe fare con un amico al quale es­ sere riconoscenti. È in grado l’Edipo anormale di spiegare questo genere di si­ tuazione? I freudiani risponderanno di sì, e in un certo senso non hanno del tutto torto visto che l’Edipo anormale è stato appositamente concepito per questo tipo di triangolo. A parte i grandi scrittori, Freud è stato il primo a osservare questa par­ ticolare configurazione e a tentarne un’interpretazione scienti­ fica. Sembrerebbe perciò che egli dovesse farlo meglio di chiunque altro prima di lui, ma è facile mostrare che, malgra­ do i suoi grandi meriti, il fondatore della psicanalisi non riesce a far emergere l’interpretazione corretta, e nemmeno a osser­ vare in modo appropriato il processo triangolare. Questi due fallimenti sono in realtà inseparabili, per il semplice motivo che i vari aspetti del processo mimetico sono troppo strettamente connessi fra loro per permettere di distinguere la pura e semplice descrizione dei fatti dalla loro interpretazione. In tutti questi triangoli lo scopo non è tanto sottrarre l’ama­ ta al mediatore, quanto riceverla dalle sue mani e condividerla con lui. La presenza del rivale è indispensabile, e nel caso che costui cerchi di disimpegnarsi il soggetto farà del suo meglio per trascinarlo di nuovo nel rapporto triangolare. Perché? Forse che ci troviamo di fronte a un impulso omosessuale, co-

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me postula Freud? Niente di tutto ciò. Il fatto è che il soggetto è incapace di desiderare per conto proprio, e non ha alcuna fidu­ cia in una scelta operata esclusivamente da lui. Il rivale gli è ne­ cessario, perché solo il desiderio appartenente al rivale può mantenere il valore che la donna ha acquisito ai suoi occhi. Se il rivale scomparisse, anche tale valore scomparirebbe. Perfino nel caso che il rivale appaia dapprima come rivale e solo successivamente come modello, quest’ordine inverso, nel­ la reale sequenza di eventi che conduce a un triangolo, è sem­ pre da leggersi come derivante dall’ordine che ho detto sopra. Il rivale dev’essere prima interpretato come modello. Non ap­ pena riconosciamo la precedenza della mimèsi ogni cosa va al suo posto e diventa intelligibile. Per il soggetto coinvolto in questi triangoli non è sufficien­ te avere il mediatore che gli designa l’oggetto da amare: il me­ diatore deve continuare a desiderare l’oggetto, così che il suo valore rimanga costante. Questo è il motivo per cui il soggetto vuole sempre che l’altro eserciti un ruolo attivo come tramite fra lui stesso e l’oggetto, che svolga appunto il suo ruolo, alla lettera, di intermediario, di mediatore. Il soggetto non vuole conquistare la ragazza una volta per tutte; se Io facesse egli perderebbe il mediatore, e con lui ogni interesse per la ragazza. Ma nemmeno il mediatore deve con­ quistare la donna in modo definitivo: se lo facesse il soggetto continuerebbe sì a desiderare, ma rimanendo escluso in via permanente. In questa impasse nessuna soluzione è realmente soddisfacente. La sola situazione tollerabile per la rivalità è continuare. Il triangolo deve perpetuare se stesso. L’essenziale per il soggetto è il protrarsi del legame fra la donna e il rivale, un legame che ai suoi occhi deve attingere a quella autonomia e autosufficienza divina che egli sogna di pos­ sedere. L’unico narcisismo è il narcisismo basato sull’altro, in questo caso due “altri”, una coppia felice o meglio una felicità di coppia che a questo punto diventa, più ancora che l’uomo o la donna presi singolarmente, il vero oggetto del desiderio. Se afferriamo qual è la ragion d’essere del triangolo possia­ mo capire come Freud fallisca nel suo tentativo di spiegare il fenomeno. Freud immagina due desideri separati, uno per la

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donna, che proverrebbe dalla madre, e l’altro per il rivale, che proverrebbe dal padre. Da qui la cervellotica fiaba del bambi­ no che sceglierebbe suo padre, sia. pure per poco, quale aman­ te omosessuale. Freud non comprende che il desiderio del mediatore è il fattore decisivo nella desiderabilità della donna. Il soggetto ha un bisogno vitale del desiderio appartenente al rivale per so­ stenere e legittimare il proprio desiderio. In termini edipici questo equivarrebbe a dire che il figlio vuole che il desiderio del padre sostenga e legittimi il suo desiderio per la madre, e se c’è una cosa che il complesso di Edipo non permette è pro­ prio questa. Ciò vorrebbe dire che la madre non è desiderata “in se stessa”, che essa non possiede un valore indipendente, ma viene desiderata innanzi tutto in quanto è desiderata dal padre; e vorrebbe dire, per giunta, che il padre non è l’incar­ nazione della legge contro l’incesto. I due pilastri dell’edificio edipico così crollano al suolo. La differenza maggiore tra il principio della mediazione e la psicanalisi è che, in Freud, il desiderio per la madre è intrinse­ co. Freud pensava che un desiderio intrinseco di questo tipo, anche se represso in una fase successiva, fosse indispensabile per spiegare il tabù dell’incesto. Tutte le relazioni implicate nel quadro edipico rimangono fondamentalmente indipendenti l’una dall’altra. Nella relazione di amore-odio con il padre l’a­ more e l’odio sono giustapposti, più che effettivamente riuniti. Solo il processo mimetico rende le tre persone veramente di­ pendenti l’una dall’altra, e solo questo processo riesce a mo­ strare che è un unico impulso a rendere il mediatore degno di venerazione in quanto modello, e odioso in quanto ostacolo. La verità è che il triangolo edipico non è in grado di fun­ zionare. Mentre non si capisce davvero come esso possa conti­ nuare a generare triangoli sostitutivi, comprendiamo assai be­ ne perché il triangolo mimetico debba venir ripetuto in perpe­ tuo, perché esso debba diventare un’autentica caccia ai rivali che hanno successo. Dato che il modello continua a interferire col desiderio del soggetto, è questa interferenza medesima che da ultimo sarà attivamente cercata in quanto designazione del­ l’oggetto più desiderabile, ed ecco che il triangolo perpetua se

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stesso. Attraverso questo slittamento, comprendiamo perfetta­ mente come mai, nei casi avanzati di patologia mimetica, si continui a modellare i propri desideri sui desideri di amici che godono di un maggiore successo. Una sola spiegazione è ri­ chiesta, dal momento che l’esasperarsi del circolo vizioso in cui è degenerato il rapporto col mediatore giustifica in maniera completa i vari gradi di fascinazione che il soggetto prova di fronte al rivale, e il graduale slittamento dall’oggetto eteroses­ suale del desiderio al desiderio per il modello e rivale del pro­ prio stesso sesso. Prima di essere un oggetto del desiderio, il partner omosessuale è un rivale. L’alternativa mimetica permette non soltanto di arrivare a una spiegazione soddisfacente, ma anche di vedere esattamen­ te dove Freud è caduto in errore e perché egli si è dovuto av­ vicinare a ipotesi come quelle che alla fine ha adottato. Si trat­ ta di ipotesi certamente false, ma non per questo gratuite. L’interpretazione mimetica non esclude affatto la possibilità che il triangolo famigliare diventi, a un certo momento, un triangolo di rivalità mimetica, ma questa possibilità non è di per sé strutturale alla vita famigliare del bambino. È vero piut­ tosto il contrario. Più un padre è padre nel senso della legge, delle norme sociali, e più è improbabile che diventi un rivale mimetico. Egli può essere un modello ideale o un odiato tiran­ no, ma un rivale mimetico vicino e ostile resta qualcosa di di­ verso. Ben lontani dall’essere compatibili e dal combinarsi fa­ cilmente tra loro, il ruolo del padre come incarnazione della legge e quello del rivale mimetico sono normalmente separati e divergenti. Se Freud è stato tratto in inganno, se ha cercato di concilia­ re l’inconciliabile, è stato in parte per ragioni storiche. Svolgendo le loro ricerche in un’epoca in cui il padre tradizio­ nale ancora conservava una parte dei suoi vecchi poteri, ma in cui la rivalità mimetica era al tempo stesso in ascesa, Freud e altri trovarono naturale pensare a una corrispondenza di tipo lineare e diretto tra questi fenomeni. Anche Dostoevskij visse nella stessa epoca ambigua in cui questi due aspetti si sovrap­ ponevano frequentemente ma, almeno nelle opere della matu­ rità, li ha distinti forse meglio di chiunque altro, col risultato di

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essere, rispetto a Freud, un migliore interprete sia della legge sia della rivalità mimetica. Nei Fratelli Karamazov Freud vide poco più di una semplice testimonianza dei problemi edipici. La cosa più comoda dell’interpretazione edipica è che essa sembra venir confermata sia dall’assenza che dalla presenza di un padre assassinato! Un’altra importante opera che Freud non sembra aver nem­ meno letto è L’eterno marito, la più potente interpretazione del tipo di relazioni triangolari che abbiamo appena discusso. Qui il rivale che ossessiona il soggetto è rivelato con chiarezza co­ me modello del desiderio, al punto che questo breve romanzo rappresenta una guida completa per tutto quanto è stato detto nelle pagine precedenti. Ma cosa afferma Nietzsche in proposito? Sebbene la me­ diazione del desiderio abbia una sua rilevanza negli scritti su Wagner, si potrebbe ancora sostenere che la sua filosofia non ne venga toccata, eppure io credo si possa dimostrare il con­ trario. A giudizio di molti studiosi la volontà di potenza è una delle idee fondamentali di Nietzsche, ma un esame obiettivo ri­ vela con chiarezza che quest’idea fornisce ima giustificazione intellettuale perfetta per i casi più brucianti di autosconfitta a cui possa condurre la mediazione mimetica nella sua fase ter­ minale. In un primo momento Nietzsche usa la volontà di potenza solo a scopi di “demistificazione” psicologica. L’espressione compare riferita a comportamenti inconsciamente determinati da un’estrema considerazione delle opinioni degli altri. Parlando di azioni comunemente ricondotte all’“altruismo” e ad altri buoni sentimenti, Nietzsche afferma che esse sono ra­ dicate nella volontà di potenza. Walter Kaufmann giustamente osserva che tale fattore possiede, in questa prima fase, una con­ notazione negativa; Nietzsche «non esorta la gente a sviluppa­ re la propria volontà di potenza, né egli ne parla come di qual­ cosa di splendido»4. 4 W. Kaufmann, Nietzsche: Philosopher, Psychologist, Antichrist, Meridian Books, Cleveland 1962, p. 159.

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L’ultimo Nietzsche, al contrario, presenta spesso la volontà di potenza come la forza che muove l’intero universo. Heidegger è del parere che Nietzsche trasformi questo princi­ pio nel fondamento di un nuovo sistema metafisico. Ab­ bracciare e sviluppare il più possibile la propria volontà di do­ minio diviene adesso la sola qualità positiva. Questo però non significa che le deplorevoli conseguenze precedentemente attribuite alla volontà di potenza siano di­ menticate o ricondotte a qualche altra forza. Vi è un’unica forza, che è appunto la volontà di potenza, ed essa può dar luogo a due varietà contrastanti: la prima potrebbe venir chiamata Inautentica” volontà di potenza, mentre l’altra è spesso indicata come risentimento, una parola che Nietzsche non usa molto spesso, e che divenne popolare a causa di un libro che reca quel titolo, un’opera non di Nietzsche bensì di Max Scheier, che si è liberamente ispirato a questo tema nietzschiano5. In che cosa allora il risentimento differirebbe dall’autentica volontà di potenza? Sull’argomento ci sono opinioni contra­ stanti. Molti commentatori parlano, in una maniera o nell’altra, di una differenza di essenza. La visione nietzschiana è così tra­ sformata in uno dei tanti manicheismi morali invertiti di cui la cultura contemporanea è particolarmente generosa. Ma quello che rende più originale il pensiero di Nietzsche viene in tal mo­ do distrutto. In realtà Nietzsche stesso ha rigettato a chiare lettere un’interpretazione del genere, che è del tutto incompatibile col carattere monistico della sua metafisica. Ciò che distingue la volontà di potenza è il suo essere una forma di energia, che si differenzia solamente in termini di quantità. Ma come può una differenza che inizialmente è solo quantitativa diventare infine qualitativa? La risposta sta nella natura competitiva e conflittuale della volontà di potenza. Gli individui che hanno più volontà superano quelli che ne hanno di meno. I forti de5 Μ. Scheler, Das Ressentiment im Aufbau der Moralen, in Id., Von Umsturz der Werte. Abhandlungen und Aufsätze, Verlag, Bem-München 1972, pp. 33 ss. Ul risenti­ mento nella edificazione della morale, a c. di A. Pupi, Vita e Pensiero, Milano 1975).

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vono dominare i deboli, e i deboli si risentiranno amaramen­ te per la loro inferiorità, facendo tutto il possibile per elude­ re le sue conseguenze, fino a negare la sua stessa esistenza. Essi sanno di essere destinati alla sconfitta in qualunque con­ fronto a viso aperto, e sono costretti pertanto a ricorrere ai mezzi più subdoli. Questi esseri deboli e umiliati sono le vittime del risenti­ mento e, dal momento che costoro sono la maggioranza, pos­ sono unirsi per inventare religioni e filosofie dagli accenti alta­ mente altruistici, ma il cui unico scopo è invertire la gerarchia naturale della volontà di potenza. Si tratta delle religioni e del­ le filosofie dichiaranti che gli umili e i sottomessi riceveranno infine il loro compenso. Ma è il risentimento a nascondersi die­ tro questo offeso senso di giustizia. La tradizione giudaico-cristiana è l’esempio principale di un simile atteggiamento, e la sua “morale da schiavi” è stata istituzionalizzata nelle organiz­ zazioni egualitarie delle moderne democrazie. Dobbiamo adesso chiederci cosa intenda Nietzsche quan­ do, in termini enigmatici, allude al fardello schiacciante rap­ presentato dalla volontà di potenza. Abbiamo appena osserva­ to che l’unico modo di evitare il risentimento consiste - come ci viene ripetuto a sazietà - nel superare la volontà degli altri. Il filosofo prescrive sempre la vittoria come vera medicina del­ lo spirito umano: Infermeria da campo dell’anima. Qual è il mezzo di guarigione più forte? La vittoria.6

Ma cosa emerge se cominciamo a valutare la vita dello stes­ so filosofo secondo i criteri da lui ripetuti? Dove sono le sue vittorie'? Non è stata la sua vita, piuttosto, una pressoché con­ tinua sconfitta? E non è la sconfitta il peggior germe infettivo dell’anima'? La definizione puramente quantitativa della volontà di po­ tenza e i criteri di selezione indispensabili per assurgere al 6 F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, tr. it. di E Masini, Adelphi, Milano 1984, libro V, af. 571, p. 268.

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pantheon nietzschiano non possono che far ricadere un formi dabile peso sull’uomo che abbracci una simile mistica nella piena coscienza delle sue implicazioni. E qualora egli non si di­ mostri capace di superare tutti gli avversari, nessuna illusione sul proprio conto gli sarà più possibile. I consueti sotterfugi del risentimento gli sono vietati. Egli non può trarre alcun confor­ to da una qualche “morale da schiavi”. Esiste quindi un enorme problema nella valutazione che Nietzsche può dare di se stesso tenendo conto della sua misti­ ca della volontà di potenza. È un problema che nessuno pren­ de mai in considerazione, perché la risposta ci appare sconta­ ta. Per noi Nietzsche è un genio. Egli stesso lo dice, e con sem­ pre meno inibizioni man mano che si avvicina alla follia. Come potremmo mai sospettare che egli non fosse veramente con­ vinto di un giudizio circa se stesso che egli proclamava ai quat­ tro venti e che, per giunta, viene a combaciare col nostro? Per scrivere quello che ha scritto, Nietzsche doveva partire dal presupposto non solo che ci sono campioni insuperati del­ la volontà di potenza, ma che questo fosse proprio il suo caso. La sua intera opera è un inno alla realizzazione suprema della volontà di dominio. Se egli non fosse stato partecipe di questo principio assoluto dell’universo, del resto, come avrebbe potu­ to scoprirlo? Come avrebbe potuto stigmatizzare il risentimen­ to e la morale da schiavi con l’accanimento di cui dà prova nel­ le sue opere? Ciò che voglio suggerire, naturalmente, è che queste appa­ renze sono ingannevoli. Vi sono infatti momenti in cui Nietzsche non si sente all’altezza dei requisiti richiesti dalla sua stessa mistica. Tutto questo diventa evidente se ci rendiamo conto che la relazione di Nietzsche con la volontà di potenza non può essere separata dalla sua relazione con Wagner (e con altri possibili mediatori, anche se Wagner resta di sicuro il più importante). Dioniso e la volontà nella sua manifestazione su­ prema sono una sola e medesima cosa, e se Nietzsche non si sentiva sicuro circa la propria identificazione col dio, non po­ teva certo sentirsi maggiormente sicuro riguardo al possesso del suo principale attributo. La paura che il mediatore possa di­ mostrare di essere il “vero” Dioniso equivale a vedersi privati

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della suprema volontà di potenza, equivale a venire travolti, visà-vis con Richard Wagner, da un incontenibile risentimento. Mi si obietterà che la mia definizione brutalmente quantita­ tiva e competitiva della volontà di potenza non è perlopiù se­ guita dalla critica attuale, e su questo non vi è alcun dubbio. Nelle mani dei nietzschiani francesi, in particolare, questa idea è diventata un grazioso gingillo idealistico che non serba alcu­ na traccia di ciò di cui ho parlato. Viene veramente da chie­ dersi perché questa gente senta un così forte bisogno di fuggi­ re dalla brutalità del concetto nietzschiano, e la risposta mi pa­ re evidente. I nietzschiani non dicono mai chiaro e tondo qua­ li sono le conseguenze della vera volontà di potenza, tuttavia devono esserne vagamente consapevoli dal momento che sono così bravi a neutralizzarle. Ciò che a loro piacerebbe, ovvia­ mente, è conservare la forza al vetriolo della demistificazione nietzschiana, senza però correre il rischio di vedersela ritorce­ re contro. Essi vorrebbero renderla sicura in quanto arma tat­ tica, ed evitare di farsela esplodere tra le mani, com’è invece inevitabile che accada. Noi circondiamo Nietzsche di tutte quelle forme di commi­ serazione che il filosofo respingeva con ogni mezzo. Il mito del­ la volontà di potenza non competitiva nasce dall’esistenza, in questo pensatore, di due generi di competitività. Il primo tipo appartiene al risentimento, e a esso sono ricondotti tutti gli aspetti sgradevoli associati di solito con lo spirito di antagoni­ smo. Il risentimento è infatti febbrilmente competitivo e alla perenne ricerca anche delle vittorie più meschine, ottenute a spese di mediocri avversari. L’altro tipo appartiene invece al­ l’autentica volontà di potenza, e sarebbe nobile e generoso. Esso però non è meno ardente. È, ad esempio, il carattere sfac­ ciatamente agonistico e conflittuale della cultura greca a testi­ moniare della superiorità della sua volontà di potenza. Walter Kaufmann coglie ancora una volta nel giusto quando definisce la volontà di potenza dei Greci come il loro desiderio di «ga­ reggiare, superarsi e sopraffarsi l’un l’altro»7.

7 W. Kaufmann, Nietzsche, cit., p. 166.

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Ciò che Nietzsche afferma intorno al suo impulso competi­ tivo e aggressivo dev’essere esaminato con estrema attenzione, come vuole d’altronde lo stesso filosofo, e le implicazioni di ta­ le esame sono di vasta portata: .. .attacco solamente cose che vincono [...] attacco solamente co­ se contro cui non potrei trovare nessun alleato, così sono solo, così comprometto solamente me stesso...8

Questo comportamento cavalleresco è senza dubbio in ar­ monia con quanto richiesto dalla mistica nietzschiana, ma può anche essere descritto come una delirante impresa di autodi­ struzione, soprattutto in un uomo che assegna così tanta im­ portanza all’essere vittoriosi. Tale mistica non esprime in realtà uno sforzo erculeo e sistematico di provocare, mediante una sconfitta definitiva, la propria metamorfosi in risentimento? Rimane però la possibilità estrema, vale a dire che una vo­ lontà dotata di forza sovrabbondante, e alla strenua ricerca di avversari sempre più agguerriti, non ne trovi alla fine nessuno, restando gloriosamente imbattuta. Nietzsche sembra prevede­ re una serie di leali tenzoni con altri cavalieri della volontà di potenza, dalle quali sarà il migliore a uscire vittorioso. Un at­ teggiamento del genere non è molto diverso dai sogni di Don Chisciotte. I nostri due cavalieri erranti non sembrano tuttavia rendersi conto che il “mondo” è in larga misura indifferente al tipo di sfida che essi vorrebbero incarnare. Quando il guardiano dei leoni apre la porta della gabbia e Don Chisciotte fronteggia le belve, queste belve semplicemen­ te si rifiutano di rispondere, sbadigliando e ritornando a dor­ mire. Don Chisciotte è ancora abbastanza in sé per non co­ stringere il guardiano ad aizzare le bestie contro di lui. Il cava­ liere finisce per cedere alle suppliche di questi, e batte dignito­ samente in ritirata, non prima però di aver dichiarato la sua gloriosa vittoria. Non posso impedirmi di pensare che

8 F. NIETZSCHE, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, a c. di R. Calasso, Adelphi, Milano 1983, p. 30.

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Nietzsche si sarebbe sentito segretamente offeso dalla noncu­ ranza dei leoni. Il filosofo tedesco non amava Cervantes, che accusava di svilire, con la sua sgradevole Ironiesirung, quelli che definiva i più “alti ideali”. Egli invece avrebbe dovuto prestare attenzio­ ne a quello che ci vuole far capire lo scrittore spagnolo. Per aiutare un uomo nella situazione di Nietzsche a conservare il suo equilibrio mentale è più utile il Don Chisciotte di tutte le psichiatrie e psicanalisi messe insieme. Per Nietzsche, come per Don Chisciotte, il più grande pericolo è quell’indifferenza del mondo che la sua tipica mescolanza di egocentrismo e di dipendenza dagli altri è costretta a fraintendere. Egli sistemati­ camente sopravvaluta la sua capacità di fare scandalo, esage­ rando sia Γaccettabilità sia l’inaccettabilità delle sue opere. È di rigore deplorare la grande indifferenza del mondo verso i geni che di tanto in tanto vi fanno la loro comparsa. Tuttavia, questo vasto serbatoio di disinteresse ha nella nostra esistenza sociale un ruolo equivalente alla predominanza del­ l’azoto nell’atmosfera, ed è forse indispensabile alla salute mentale dell’umanità nel suo insieme. Questa salutare inerzia si tramuta invece per Nietzsche in altrettanto veleno. Il no­ stro cavaliere della volontà di potenza considera come perse una quantità di battaglie che semplicemente non hanno avu­ to mai luogo. Nelle accuse nietzschiane contro l’autocompiacimento, il cattivo gusto e la generale mediocrità della Germania di Bismarck vi è una nota stridente che tradisce una ferita più profonda di quello che Nietzsche e i suoi seguaci vorrebbero ammettere. Il rapporto di Nietzsche con il mondo accademico non è unilaterale come si crede di solito. La superiorità distac­ cata, la superba indifferenza sono certamente presenti, ma non in tutti i casi. Ci sono delle volte in cui questo rapporto a sen­ so unico, come tutti i rapporti di questo tipo nella vita di Nietzsche, si capovolge all’improvviso in chiave ferocemente agonistica. Il rapporto rimane ancora a senso unico, ma a de­ trimento di Nietzsche stavolta, non più a suo vantaggio. Il pro­ blema di Nietzsche è di non aver mai concesso piena espres­ sione a questi capovolgimenti nelle sue opere. La mistica della

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volontà di potenza non lo consentiva. Questo eroico silenzio è probabilmente un fattore del suo crollo finale. Non è necessario analizzare uno per uno tutti gli errori del­ la mistica della volontà di potenza. Una critica più radicale po­ trà essere fornita da un confronto fra tale concezione e il pro­ cesso mimetico. Molti aspetti del risentimento assomigliano, nelle descrizio­ ni di Nietzsche, alle conseguenze del processo mimetico. Il ri­ sentimento è in realtà un desiderio ostacolato e traumatizzato. La parola stessa rievoca l’immagine di un ostacolo immobile contro cui il “sentimento” iniziale si scontra e a cui continua a tornare in modo ossessivo, ricevendone frustrazioni sempre più grandi. Vi è però una sensibile differenza tra la concezione nietz­ schiana e il processo mimetico. Nelle intenzioni di questo pen­ satore ci sono desideri - magari pochi ma ce ne sono - che sfuggono completamente alle conseguenze traumatiche della rivalità, e la logica sembrerebbe stare in effetti dalla parte di Nietzsche. Se il conflitto è di estrema importanza, un esito dif­ ferenziato non sembra rimettere tutto al suo posto? La volontà più forte dovrebbe vincere e quella più debole perdere. In ta­ le prospettiva, solo poche volontà rimangono indenni, in quan­ to sempre vittoriose. Alla luce di questo, la visione di Nietzsche appare di un realismo duro e inesorabile. Ciò nondimeno, le cose stanno diversamente. Se i desideri sono davvero mimetici, essi sono sì destinati a scontrarsi con altri desideri come pensa Nietzsche, ma questo non perché essi lo scelgano liberamente, come egli sembra pen­ sare, bensì perché sono l’uno la copia imitativa dell’altro. Il ri­ sultato finale è disastroso, giacché deriva non dalla relativa forza di desideri autonomi ai quali “capita” di scontrarsi, bensì da una propensione mimetica che non può essere lasciata libera senza che si trasformi nella ricerca ossessiva di un ostacolo insormon­ tabile e, qualora questo non venga trovato, nella sua creazione. Tutte le nostre osservazioni suggeriscono che la stessa indiffe­ renza può essere vista, in situazioni del genere, come l’ostacolo più invincibile. E ci sarà sempre abbastanza indifferenza nel mondo per distruggere la più formidabile volontà di potenza.

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Come nel caso della libido freudiana, la visione in termini energetici non è il duro realismo che sembra essere. Non è la distruzione “scientifica” di tutti i miti. È piuttosto un prete­ sto per ignorare quella che qualcuno oggi chiamerebbe la na­ tura “comunicativa” del nostro desiderio. Tutti i desideri si dicono l’un l’altro: «Imitami» e, quasi simultaneamente: «Non imitarmi», il che equivale ad affermare che i desideri che si frustrano reciprocamente non possono che generarsi e rinforzarsi a vicenda. Se esaminiamo la mistica della volontà di potenza dal pun­ to di vista del desiderio mediato, vi riconosceremo un travisa­ mento estremamente significativo dei fatti, travisamento che può essere suggerito soltanto dal desiderio stesso: non c’è un solo aspetto in essa che non favorisca le illusioni e gli “interes­ si” del desiderio, che in altre parole non minacci per la vittima di questa mistica la più disastrosa delle autosconfitte. Il risentimento di cui parla Nietzsche è un’analisi assai per­ spicace di effetti che appartengono a pieno diritto alla conce­ zione di questo filosofo, ma tali effetti non vengono mai pre­ sentati come universali; essi sono riservati esclusivamente alla volontà di potenza più debole. Nietzsche ci spiega che noi pos­ siamo evitare simili conseguenze, che il nostro può essere un desiderio privilegiato ed eccezionale se solo seguiamo le rego­ le per una competizione nobile e cavalleresca che egli ha enun­ ciato. Queste regole non avrebbero alcun senso se non signifi­ cassero che il cavaliere della volontà di potenza deve smuove­ re cielo e terra pur di trovare l’uomo che gli impartisca la le­ zione che un personaggio siffatto certamente merita. La misti­ ca giustifica la caccia all’ostacolo insormontabile che caratte­ rizza gli stadi più avanzati della mediazione. Essa presenta, in uno stile magniloquente, quella che è una vera compulsione “patologica”: non ha nulla a che fare con il genuino coraggio e le autentiche avversità, è la ricerca di un’avversità artificiale pianificata dallo stesso soggetto. È esattamente questo che in­ tende Cervantes quando ci presenta la pazzia di Don Chisciotte. La mistica nietzschiana è sia una maschera della malattia mimetica, sia una sofisticata giustificazione del tipo di com-

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portamento che tale malattia presuppone. Abbiamo osservato prima che il desiderio impara sempre più dalle proprie scon­ fìtte, ma mettendo questa conoscenza al servizio di un deside­ rio esasperato, che rende inevitabili sconfìtte ancor più cata­ strofiche. La mistica della volontà di potenza potrebbe venir definita Γideologia del desiderio mimetico, se è vero che le ideologie sono attivamente impegnate nel promuovere fini che restano raggiungibili solo col non riconoscerne la vera natura. Confrontata con le precedenti mistiche romantiche, del filone egotistico e solipsistico, la volontà di potenza riflette senza dubbio un peggioramento del male. E l’ideologia del mondo in cui viviamo, non meno competitivo nel campo intellettuale che negli affari o in politica. La mistica della volontà di potenza è in realtà una religione del successo davvero sorprendente ed “eroica”, se consideria­ mo che viene da un uomo così povero di successi, ed è quest’ultima circostanza a renderla così letale. Essa trasforma le sconfitte sociali di Nietzsche in una maledizione metafisica senza appello, in una sorta di giudizio universale terreno da cui non c’è scampo. Nietzsche in tal modo diventa il più implaca­ bile giudice di se stesso. Ho detto sopra che il capovolgimento di tutte le relazioni a senso unico presenti nella vita di questo pensatore non trova solitamente espressione. Nietzsche di norma esibisce l’aspetto maniaco della sua evidente sindrome maniaco-depressiva. Vi sono tuttavia impressionanti eccezioni, come quella del se­ guente testo, tratto da Aurora e scritto non a nome di Nietzsche, ma di un anonimo “uomo folle”. Questo brano non dice o compie nulla che non abbiamo già visto; vi può essere letto lo stesso terrificante processo, ma in forma più diretta stavolta, poiché l’argomento è la strada che conduce alla follia. «Ahimè, datemi dunque la follia, voi celesti! Follia, perché possa finalmente credere in me stesso! Datemi deliri e spasimi, luci e te­ nebre improvvise, terrorizzatemi con gelo ed arsura, quali nessun mortale ha ancora mai provato, con frastuoni e girovaganti fanta-

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smi, lasciatemi urlare e guaire e strisciare come una bestia: purché possa trovar la fede in me stesso! Il dubbio mi divora, io ho as­ sassinato la legge, la legge mi tormenta come un cadavere tor­ menta un uomo vivo; se io non sono più che la legge, sono il più reietto di tutti gli uomini. Lo spirito nuovo che è in me, donde viene se non viene da voi? Dimostratemi che sono vostro; la follia soltanto me lo dimostra».9

La vera ragione dell’oscillazione maniaco-depressiva è men­ zionata, ed è la mancanza di fede in se stessi. Ma la verità non è completa, poiché per questa mancanza di fede viene suggeri­ ta una causa che non è quella reale. Perché quest’uomo folle si sente come il più reietto fra gli uomini? Perché ha ucciso la leg­ ge, ci viene detto. L’affermazione è importante e ci dovrò ri­ tornare. Per il momento va comunque notato che si tratta di una spiegazione del tutto insufficiente. Come può una legge morta causare, nel suo eroico uccisore, tale mancanza di sicu­ rezza in se stesso? Nessuna legge morta, né alcun altro oggetto sostitutivo, è in grado di farlo. Il dubbio su di sé l’uomo folle deve derivarlo da un confronto non con qualcosa, ma con qual­ cuno, un qualcuno che non è nominato. Ogni elemento razionalmente ricostruibile ci dice che l’o­ scillazione maniaco-depressiva deve verificarsi tra il mediatore e il soggetto. Nascondere questa verità, e dire nello stesso tem­ po così tanto come fa Nietzsche nel brano citato, è uno stupe­ facente tour de force. La rivelazione è quasi completa, eppure l’assenza dell’unico personaggio che conti la rende totalmente ingannevole. Il mediatore è il vero centro nascosto intorno a cui tutto gi­ ra, in misura proporzionale al desiderio dell’uomo folle che tutto ruoti intorno alla propria persona. Ne risulta che il testo dev’essere generato dal desiderio stesso. L’assenza del media­ tore è l’indizio più sicuro del protrarsi della sua onnipotenza, il segno infallibile che il fuoco della mediazione continuerà a bruciare sempre più intenso. Se capiamo questo, capiamo an­ che che cosa l’uomo folle intende per certezza, e perché egli si 9 F. Nietzsche, Aurora, cit., libro I, ai. 14, p. 18.

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affidi alla follia pur di procurarsela. La follia è in primo luogo il dubbio, giacché corrisponde all’alternanza maniaco-depressi­ va, e tuttavia solo una follia ancora più estrema potrebbe rap­ presentare la soluzione del dubbio. Esteriormente, quindi, il testo conferma ancora la vecchia nozione romantica della follia come segno di elezione, come prova di un legame di parentela con il “mondo divino”. In as­ senza del mediatore, ogni cosa deve apparire “letteraria” nel senso più esasperato della parola. L’uomo folle è circondato da frastuoni e fantasmi. Egli effettua vertiginose acrobazie per motivi che rimangono vaghi e misteriosi. Siamo ancora di fron­ te al paesaggio interiore caro ai romantici. Dietro questi fronzoli lirici, però, un’altra spiegazione ri­ mane in agguato, una spiegazione che non può mancare di emergere una volta che ci rendiamo conto che i propositi del­ l’uomo folle corrispondono in maniera precisa all’evoluzione della malattia di Nietzsche. Una crescente pazzia può implica­ re, e di fatto implica, un’intensità crescente di oscillazioni e di alti e bassi maniaco-depressivi talmente improvvisi, talmente estremi e violenti che alla fine l’intero meccanismo oscillatorio inevitabilmente collassa. Solo in quel momento l’oscillazione di Dioniso fra il soggetto e il suo mediatore sarà interrotta per sempre, e solo allora la mancanza di fede del soggetto in se stesso sarà eliminata. Esclusivamente in tal senso - io credo un grado di maggiore pazzia viene a rappresentare la cessa­ zione di quel dubbio che coincide con una pazzia di grado in­ feriore. È impressionante che l’unica certezza e stabilità che l’uomo folle riesca a prefigurare per sé sia la distruzione della sua stessa mente, il trionfo della pazzia camuffato come suo personale trionfo. L’abbraccio della pazzia come “divina” e il rifiuto, o inca­ pacità, di dire il nome del mediatore sono un’unica cosa. Non è dunque invano che l’uomo folle implora la liberazione della follia, e possiamo essere certi che le sue preghiere saranno ascoltate, visto che è lui stesso che se ne sta attivamente occu­ pando. Come ho osservato prima, la terribile ironia del desi­ derio mimetico è che esso ottiene sempre infallibilmente ciò che chiede.

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Questa richiesta di diventare folle si può tranquillamente retrodatare fino alla Nascita della tragedia. Abbracciare Dioniso nella sua vera realtà come fa Nietzsche significa cor­ teggiare la mania divina, ossia la pazzia omicida ispirata da Dioniso, e il dio risponde al suo fedele accordandogli l’alter­ nanza maniaco-depressiva. Il Dioniso non ritualizzato di Nietzsche è il dio della furiosa vendetta, dal quale ogni uomo sano di mente si terrebbe alla larga. L’alternanza maniaco-de­ pressiva è legata a una forma molto moderna e nascosta di ven­ detta, come Nietzsche stesso efficacemente comprende e di­ mostra allorché egli parla di altre persone. Se un Greco timorato degli dèi avesse letto La nascita della tragedia avrebbe profetizzato una terribile fine per il suo autore. Ma perché un antico Greco dovrebbe saperne di più delle no­ stre menti più brillanti? Gli antichi Greci non erano nietzschia­ ni, e potevano appena intravedere una verità dalla quale un in­ tero mondo, il nostro mondo nietzschiano, distoglie lo sguardo. La maggior parte di noi si allontana da questa verità in una ma­ niera così prudente e abile che le conseguenze, almeno esterior­ mente, sono a malapena visibili. Tutt’altro è il discorso per Nietzsche. In lui soltanto questa verità espulsa si difende furio­ samente e realizza se stessa, nel modo più grandioso e terribile. La grandezza di questo pensatore non sta affatto nell’avere ragione, ma nell’aver pagato così a caro prezzo il suo avere tor­ to. Egli non ha mai mollato rispetto ai suoi errori, ed è questa la cosa più tremendamente vicina all’avere ragione. Si potrebbe obiettare che i miei commenti non sono fedeli allo spirito del testo di Nietzsche. La pazzia vi appare infatti come qualcosa di positivo, come una specie di conquista. Questo è vero per quel che concerne il brano citato, ma si pos­ sono reperire altri testi in cui gli stessi fenomeni sono descritti e presentati come qualcosa di orribile, come una malattia. La sola differenza è che il risentimento viene attribuito al cristia­ nesimo. Ecco un esempio tratto da un frammento dell’ultimo periodo, inserito a suo tempo nella Volontà di potenza: Che cosa combattiamo nel cristianesimo? Il fatto che esso voglia infrangere i forti, che voglia scoraggiare il loro coraggio, sfruttare

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le loro cattive ore e le loro stanchezze, trasformare la loro orgo­ gliosa sicurezza in inquietudine e travaglio di coscienza, che esso riesca ad avvelenare e a rendere malati gli istinti aristocratici, fin­ ché la loro forza, la loro volontà di potenza si rivolga aliindietro, si rivolga contro se stessa - finché i forti periscano per gli eccessi del disprezzo di sé: quella forma raccapricciante di rovina il cui esem­ pio più famoso è costituito da Pascal.10

E poco corretto, è crudele osservare che non è stato Pascal a impazzire, ma Nietzsche?

Per mettere meglio a fuoco gli argomenti di cui sto parlan­ do voglio tornare adesso a Dostoevskij. L’autore russo è il mi­ glior alleato su questi temi. Nella seconda fase della sua carrie­ ra egli è riuscito a ritrarre, in modo più accurato e completo di chiunque altro incluso Freud, il tipo di vita psichica di cui la sua prima fase di scrittore, in misura non inferiore a Nietzsche, è il riflesso passivo e imperfetto. Dostoevskij non dev’essere visto come un mero autore di narrativa, né come una semplice vittima del desiderio mediato - cosa che egli è certamente stato, e anche a lungo -, bensì co­ me il più grande rivelatore moderno di tale desiderio. Questo vale logicamente per le sue opere più riuscite, anche se l’origi­ ne della loro forza non è in genere riconosciuta. In collegamento col desiderio mediato alcune opere brevi, come i Ricordi dal sottosuolo, giudicati un capolavoro dallo stesso Nietzsche, sono più immediatamente pertinenti, anche se l’elemento grottesco, usato per dare un rilievo più deciso ai contorni del processo, potrebbe giustificare la riluttanza di qualcuno ad ammettere la validità del raffronto. L’“eroe” del sottosuolo è un piccolo burocrate di Pietroburgo, le cui ambizioni egotistiche stanno a metà strada fra il romanticismo stile 1830 e una versione ancora grezza ma

10 F. NIETZSCHE, Opere, a c. di G. Colli e Μ. Montinari, voi. Vili, tomo II, Fram­ menti postumi 1887-1888, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1990, 11 [55], p. 240 (corsivo mio ). Cfr. F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, a c. di Μ. Ferraris e P. Kobau, Bompiani, Milano 1995, § 252, p. 146.

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già inconfondibile della volontà di potenza nietzschiana. Durante le sue ore di solitudine egli sogna che le sue aspira­ zioni più inverosimili si realizzino e, grazie alla sua fervida fan­ tasia, si porta a uno stato di incredibile esaltazione. Allorché raggiunge un certo livello di entusiasmo l’uomo del sottosuolo crede che gli basti mettere il piede fuori di casa per “conquistare il mondo”, con l’unico risultato di incontrare le delusioni più cocenti, o peggio. Ogni minimo incidente spia­ cevole, che il suo fisico gracile e l’insignificanza complessiva della sua persona possono con facilità provocare, assume pro­ porzioni irreali. Anche solo l’indifferenza è sentita come un in­ sulto, e persino degli sconosciuti che lo trattano in modo villa­ no diventano figure affascinanti intorno alle.quali il «topo dal­ la coscienza ipertrofica»11, come il protagonista si definisce, non cesserà di gravitare. Il punto cruciale non è la superiorità della solitudine rispet­ to alla vita “gregaria”, come i commentatori romantici ed esi­ stenzialisti ci ripetono fino alla nausea, bensì l’alternanza pen­ dolare fra l’onnipotenza delirante dell’io nella sua solitudine e la reale onnipotenza degli altri nella società. Valtro è letteral­ mente chiunque incroci il cammino del nostro eroe o stia sulla sua strada, o anche soltanto chiunque lo guardi con un’ironia reale o immaginaria. Un ciclo di meschine rivincite viene mes­ so subito in moto. Valtro è il modello-ostacolo per eccellenza. I Ricordi dal sottosuolo si muovono allo stesso livello di con­ sapevolezza deU’Eterwo marito, prima citato in rapporto ai trian­ goli erotici di Dostoevskij e di Nietzsche. Le due opere narrati­ ve testimoniano uno stesso cambiamento prodigioso intervenu­ to nel loro autore. Dopo essere stato a lungo la semplice mario­ netta di un processo di cui i suoi primi scritti sono parte inte­ grante - dato che le loro deformazioni, la generale sensiblerie che trasudano e soprattutto il rifiuto di riconoscere il vero ruo­ lo del mediatore non sono altro che lo strumento e il riflesso del desiderio mediato -, dopo questa prima fase ancora romantica,

11 Ricordi dal sottosuolo, in E DOSTOEVSKIJ, Il romanzo del sottosuolo, a c. di G. Pacini, Feltrinelli, Milano 1974, p. 210.

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Dostoevskij padroneggia finalmente il desiderio mimetico. Le sue opere mature si alimentano della comprensione retrospetti­ va di un comportamento compulsivo dal quale tutto suggerisce che lo scrittore si stia distaccando, per quanto lentamente. Le intuizioni di Dostoevskij non sono più ineffabili o ca­ pricciose di quelle di Cervantes o di Shakespeare, e ritengo che rientrino in pieno nel processo di mediazione. Dimostrare que­ sto è essenziale - io credo - per contrastare il danno prodotto dall’assurdo postulato di una totale separazione fra conoscen­ za psicologica (e antropologica) e letteratura. Freud ha avuto una parte di primo piano nel diffondere un mito che è respon­ sabile della sterilità di molta della critica contemporanea. È quindi importante rendere immediatamente leggibili i sistemi dei rapporti umani che risultano dagli scrittori veramente grandi, prendendo sul serio le loro intuizioni come adesso av­ viene con i concetti di Freud e di altri teorici. Solo facendo questo il reale processo mimetico cesserà di essere reso invisi­ bile dalla superficie imbiancata di pseudodiagnosi psicanaliti­ che pronunciate in modo automatico e trionfalistico. L’elaborazione di modelli teorici e di un sistema concet­ tuale che rendano una buona volta giustizia alla percezione ri­ gorosa di un Dostoevskij non è meno necessaria alla psichia­ tria che agli studi letterari. Si tratta, a mio parere, dell’unica direzione che possa rivitalizzare queste discipline e trasfor­ marle nelle naturali alleate che dovrebbero essere. Solamente una pseudoscienza può prendersi il lusso di andare contro le più grandi opere del nostro patrimonio letterario. Una vera scienza giustifica la loro visione e conferma le ragioni della lo­ ro superiorità. Quest’ultima osservazione potrebbe essere interpretata da alcuni come il chiaro indice che il tipo di analisi qui sostenuto sia tradizionale e “conservatore”. Ma la verità è che il principio di mediazione risulta meno accettabile sia della psicanalisi sia del marxismo, per il semplice fatto che è più radicale. L’approccio mimetico, per esempio, va al cuore delle motiva­ zioni individuali presenti all’interno dei fenomeni culturali, motivazioni al contrario accuratamente evitate o camuffate dai suddetti indirizzi teorici.

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Tutto ciò è perfettamente riscontrabile in Nietzsche. È illu­ sorio definire temi come Dioniso o la volontà di potenza ba­ sandosi solo su come ci appaiono nella metafisica quintessenza e nella delirante astrazione della loro versione finale. La confi­ gurazione finale è il risultato di un processo che va considera­ to nel suo insieme, e che ha esordi molto diversi. Nella fase iniziale l’imitazione e la rivalità sono già presen­ ti, ma hanno ancora un oggetto riconoscibile, un oggetto che si presenta come accettabile a noi intellettuali medi, nel senso che esso ci appare come qualcosa per cui vale la pena di combatte­ re. Potremmo definire tale oggetto come l’onnipotenza intel­ lettuale e artistica: è la supremazia o egemonia nel mondo del­ la cultura per la quale sia Nietzsche sia Wagner lottavano. Quasi tutti gli intellettuali diranno, naturalmente, che essi stan­ no lottando soltanto per raggiungere l’eccellenza. Almeno per quel che li riguarda, la competitività è qualcosa di cui sono fa­ natici gli altri, non loro. Chiunque di loro, ciò nondimeno, co­ nosce bene l’enorme amarezza che può essere causata anche dall’opposizione in apparenza più trascurabile. L’ambiente in­ tellettuale è di quelli in cui il giudizio nascosto dei propri pari, in assenza di criteri oggettivi pubblicamente riconosciuti, gio­ ca per forza di cose un ruolo decisivo. Una simile situazione non può che alimentare una grande quantità di illusioni. In un mondo del genere è incorporato un potenziale temibile di di­ storsioni cosiddette “paranoidi”. Il mondo intellettuale moderno comincia ad avere queste caratteristiche prima della rivoluzione francese, verso la metà del XVIII secolo, al tempo in cui gli intellettuali, grazie al pre­ stigio del quale godono, iniziano a dare più importanza al giu­ dizio dei loro colleghi che alle opinioni dei loro mecenati ari­ stocratici. Con l’avvento di questo mondo, un certo tipo di di­ sturbo mentale acquista grande rilievo sul palcoscenico della vita culturale. Le opere più influenti ne sono affette. I primi grandi esempi che mi vengono in mente sono Rousseau nell’a­ rea linguistica francese e Hölderlin in Germania. Nietzsche ne è un altro esempio, appartenente a una fase storica successiva. Né il sociologo né l’interprete psicanalitico della letteratura vanno davvero al cuore della questione. Il primo si preoccupa

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costantemente del problema del rapporto fra borghesi e ari­ stocratici. Tale aspetto è senza dubbio rilevante, dal momento che la trasformazione di cui sto parlando è la conseguenza di una vasta evoluzione sociale, ma la sua rilevanza è più indiret­ ta che diretta. Sebbene le pressioni provenienti dal mondo esterno siano indiscutibilmente reali, esse vengono filtrate e spesso distorte dal microambiente del mondo intellettuale, che dovrebbe quindi costituire il primo oggetto di studio, non co­ me mero insieme di dati statistici, ma come una rete di relazio­ ni complesse e instabili governate, almeno in parte, dal deside­ rio mediato. E in tale microambiente le relazioni più impor­ tanti non sono quelle fra membri delle classi superiori e infe­ riori, bensì quelle fra individui di pari grado, per quanto esse siano raramente percepite come relazioni di “uguaglianza”. La violenza più o meno nascosta di questi rapporti non può essere priva di conseguenze sul piano della creatività intellet­ tuale. Eppure questa influenza non è mai formalmente ricono­ sciuta e studiata. L’idea di sublimazione, sulla quale tanta psi­ canalisi ancora basa la sua teoria della creatività culturale, è un chiaro esempio del modo mistificante in cui gli intellettuali concepiscono il loro stesso ambiente. Nell’attuale situazione storica, lo sgretolarsi delle ultime ge­ rarchie tradizionali rende la presenza del rivale metafisico sem­ pre più incombente, e una teoria come la psicanalisi può ap­ parire indispensabile quale ultima difesa contro la rivelazione del processo mimetico. La psicanalisi ci mette in grado di rico­ noscere l’evidenza, ma in maniera da svuotarla del suo conte­ nuto e da deviare la nostra attenzione sugli ingannevoli scan­ dali del desiderio “parricida” e “incestuoso”. Ciò che la psicanalisi dice intorno a un autore come Nietzsche è sempre ciò che il desiderio vuole sentirsi dire. Essa afferma che Wagner, il Wagner in carne e ossa, non era dopo tutto così importante per Nietzsche, e non è proprio questo ciò che il desiderio desiderava ascoltare? Quello che importa sa­ rebbe il “desiderio in sé”. Il mediatore, veniamo informati, non è in realtà la vera figura che ci ossessiona. Il triangolo è solo una ripetizione. L’unico dramma che conti è quanto mai vec­ chio, e si limita a due cerehie ristrette, di cui il soggetto è ogni

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volta il centro. Una è la cerchia del nucleo famigliare più inti­ mo, i cui principali attori sono ormai morti o ridotti a uno sta­ to senile. L’altra è la cerchia ancor più ristretta di un ego con­ cepito come “narcisistico”. Da un punto di vista oggettivo la psicanalisi e la sociologia della letteratura funzionano come schermo tra noi e la verità che siamo più riluttanti ad affrontare. Il fatto è invece che la pazzia di Nietzsche e di molti altri è radicata in un’esperienza con la quale nessuno di noi può sostenere di non avere famigliarità. II fragore dei tabù che tutto intorno a noi vengono infranti uno dopo l’altro è ritenuto assordante, ma non dobbiamo far­ ci ingannare. Lo spettacolo resta scadente. È andato avanti per troppo tempo con minimi cambiamenti nella trama e nel cast degli attori. I veri tabù sono altrove, e sono fatti rispettare con la massima rigidità. I nostri demistificatori più fieri regredisco­ no subito alle convenzioni più antiquate non appena sono toc­ cati i problemi veramente scottanti. Con quanta trepida vene­ razione ratificano il mito del “buon” Nietzsche contro il “cat­ tivo” Wagner! Se Freud è un’ultima barriera difensiva contro la mediazio­ ne, è anche vero però che egli va più vicino alla verità di chiun­ que altro nel suo campo - tanto vicino quanto è possibile riu­ scendo a tenere la verità fuori del quadro. Questo stato di tran­ sizione della dottrina freudiana, il suo ruolo di teoria precorri­ trice e insieme di ultima barriera contro una piena compren­ sione del processo mimetico può essere meglio afferrato - io credo - se situiamo l’interpretazione freudiana della “legge” nel contesto del brano di Aurora che ho citato sopra. Ricordiamoci che in questo brano la legge è “assassinata” dal­ l’uomo folle e che il suo “cadavere” è ritenuto responsabile di ogni cosa. L’accusa è falsa, naturalmente, ma non priva di un qualche fondamento. La legge è effettivamente responsabile, nel senso che non c’è più a controllare quello che si sta scate­ nando in sua assenza, ossia il processo mimetico. La legge differenzia e separa i possibili doppi, e incanala il desiderio mimetico verso scopi che sono davvero trascenden­ tali in quanto esterni alla comunità. Tali scopi sono comuni a tutti e non costituiscono una fonte di discordia. Finché è in vi-

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ta, la legge impedisce alle “differenze” e alle “identità” di dis­ solversi ritornando alla confusione bellicosa dei doppi. Secondo i Greci, sono gli uccisori della legge i responsabili di una confusione così devastante. Costoro hanno scambiato per “dio” qualcosa che sembrava loro a portata di mano, appena un passo al di là di quella legge che essi non hanno esitato a violare. È questo “dio” che adesso appare oscillare fra i doppi, e che continua a eludere la loro presa ogni volta che ciascuno di loro raggiunge la gola dell’altro. Questo Nietzsche non vuole dirlo e, pur di non dirlo, sug­ gerisce che sia la legge, anche se morta, la causa del disastro. Tale trasformazione della legge morta in capro espiatorio non è stata la soluzione soltanto per Nietzsche. In una forma o nel­ l’altra, questa è la soluzione perseguita da un’intera epoca che ora sta giungendo al termine. È la soluzione che ci è stata data per buona da Freud. Il complesso di Edipo è supposto essere il mezzo attraverso il quale la legge viene trasmessa al bambi­ no. Questa legge è già morta. È già trasgredita, almeno nello spirito, prima ancora di nascere, poiché il desiderio parricida viene per primo. A causa di questa legge Freud è rimasto col suo padre onnipresente e illusorio, senza mai scoprire il rivale mimetico e il suo formidabile potenziale di principio veramen­ te efficace di teorizzazione psichiatrica. Egli non si è mai reso conto che con quest’unico principio avrebbe potuto disfarsi delle sue due varietà di Edipo, del suo inconscio, del suo nar­ cisismo, e raggiungere un’organizzazione più efficiente, intelli­ gibile e coerente di un maggior numero di dati. A Freud non sarebbe forse sfuggito il meccanismo della ri­ valità mimetica, se egli non fosse stato così intento a incrimi­ nare la legge per problemi che non hanno nulla a che fare con essa. Le ragioni sono le medesime di Nietzsche. Le accuse ri­ volte alla legge sono frutto del desiderio stesso, che rifiuta di affrontare la verità che lo definisce, e sono un’ultima protezio­ ne contro la piena rivelazione di questa verità, una rivelazione che segna la fine di qualunque pace e salute se non viene a se­ gnare anche la fine del desiderio recalcitrante. Attualmente Marx, Nietzsche, Freud, tutti i giganti del pen­ siero che hanno ucciso la legge, e che in un primo momento

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erano visti come antagonisti fra loro, vengono messi assieme nello sforzo di puntellare il sistema intellettuale fondato sulla morte della legge. L’unità di un’epoca sta diventando visibile nelle convulsioni della sua agonia. Il cadavere della legge è l’ul­ timo oggetto sacrificale, l’ultima differenza che ancora differisce di poco lo scontro simmetrico dei doppi. Più infieriamo sulla legge morta, comunque, e più rapidamente comprenderemo come questa attività sia priva di costrutto. Non è la legge mor­ ta in realtà che i doppi vogliono colpire: è il loro rivale. La storia stessa sta provvedendo a separare gli elementi mi­ ticamente congiunti da Nietzsche, Freud e altri. In tale situa­ zione Dostoevskij verrà meglio compreso, prima o poi, perché è il solo fra questi che veramente capisca. Egli capisce che la legge non è responsabile della crisi mimetica, e capisce anche che quella del mondo moderno è una crisi mimetica diversa da tutte le altre. Nei suoi momenti peggiori lo scrittore russo guar­ da con nostalgia al sostegno che la legge procurava agli uomi­ ni finché era in vita. Nei suoi momenti migliori egli si rende conto che non è possibile tornare indietro. Non è possibile tornare indietro perché nemmeno coloro che ingenuamente si vantano di aver ucciso la legge ne sono re­ sponsabili. Il problema è più misterioso e complesso. Il vero uccisore della legge è la legge stessa, o ciò che passa per tale nel nostro universo, una legge che in ultima analisi è contro ogni altra legge diversa da sé: l’uccisore è quello stesso cristianesimo che è stato ucciso. I due testi di Nietzsche citati sopra, quello di Aurora e l’al­ tro utilizzato nella Volontà di potenza, rivelano un ulteriore mo­ tivo di interesse in collegamento con la convinzione maturata da Dostoevskij. Essi descrivono in sostanza lo stesso fenome­ no, ma lo presentano sotto una luce molto diversa, attribuen­ dolo a cause differenti. Nel brano di Aurora l’uomo folle lo è in modo glorioso perché ha ucciso la legge; l’altro, Pascal, è fol­ le in maniera penosa perché non l’ha uccisa. È strano che, viva o morta, la legge produca i medesimi effetti sia nel superuomo sia in chi è sottomesso alla legge come uno schiavo. A quale delle due alternative dobbiamo credere? Nietzsche non è mai riuscito a riconciliarle, ma esse possono trovare un’unica spie­

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gazione, se seguiamo l’idea di Dostoevskij che sia la strana leg­ ge da cui siamo in segreto condizionati ad aver ucciso la legge a cui prima dovevamo obbedire. Non è certo un dettaglio indifferente che la megalomania di Nietzsche si sia voluta presentare sotto il titolo di Ecce homo e che egli sia arrivato a firmarsi sia «Dioniso» sia «Il Crocifisso». Ogni istante in cui Nietzsche si sentiva per un po’ come dio ve­ niva pagato da lui a caro prezzo, e lo trasformava nel Crocifisso. Il preteso dio è, in effetti, una vittima. Qui, final­ mente, e soltanto qui il processo autodistruttivo all’opera ovunque in Nietzsche si fa manifesto. La confusione tra dio e vittima è il culmine dell’oscillazione maniaco-depressiva. Nel passaggio da Dioniso contro il Crocifisso a Dioniso il Crocifis­ so, nel crollo della differenza suprema, assistiamo al crollo del­ la mente di Nietzsche. Per lo studioso del filosofo questa confusione in cui egli è caduto non può essere che pazzia, puro non senso in altre pa­ role, che può suscitare pietà o venir esaltato, ma rimane pur sempre non senso. Tuttavia, il dio è in ogni caso una vittima, nella teologia pagana non meno che nel cristianesimo. Perché allora Nietzsche raggiunge questa identità fra i due ruoli allor­ ché il cerchio della follia si richiude su di lui? Un’identità che distrugge così tante false differenze non può che essere qual­ cosa di più che non senso, anzi molto di più. Adesso che l’èra della “volontà di potenza” di Nietzsche sta giungendo al ter­ mine, quest’identità del dio e della vittima punta a possibilità che stanno ancora al di fuori della nostra portata. Possibilità inaudite, veramente vertiginose.

La contraddizione di Nietzsche1

Le varie interpretazioni di Nietzsche, a partire da quelle fi­ losofiche, hanno tutte una cosa in comune: il loro antiwagnerismo, validamente sorretto, in apparenza, dall’accentuato antiwagnerismo dell’ultimo Nietzsche, Wagner è l’indispensabi­ le capro espiatorio di tutti i nietzschiani liberali, così come Nietzsche è l’indispensabile capro espiatorio di tutti i wagne­ riani. Solo i nazisti, curiosamente, sono riusciti a essere filo­ nietzschiani e filo-wagneriani nello stesso tempo. Nell’opera intitolata Nietzsche contra Wagner il filosofo ha ripubblicato, con pochi cambiamenti, molti testi su Wagner scritti dopo la rottura col grande compositore. Uno di questi, inizialmente pubblicato nella Gaia scienza (l’aforisma 370 che reca il titolo Che cos’è il romanticismo?}, riappare in Nietzsche contra Wagner in una forma abbreviata rivolta più esplicita­ mente contro il musicista. Nietzsche dapprima afferma che, nei suoi anni giovanili, egli si era avvicinato al mondo moderno pieno di speranze e di illusioni: ...interpretai [...] la musica wagneriana come l’espressione di una possanza dionisiaca dell’anima... Si può vedere il mio errore di discernimento, come pure si può vedere che cosa offrissi in do­ no a Wagner e Schopenhauer - vale a dire me stesso...

Subito dopo egli continua rilevando la sostanziale opposi1 Nietzsche and Contradiction, “Stanford Italian Review”, 6/1-2 (1986), pp. 53-65.

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zione tra la sfera dionisiaca e il cristianesimo, che non viene esplicitamente menzionato, ma al quale si fa chiara allusione: Ogni arte, ogni filosofia può essere considerata come rimedio e co­ me soccorso alla vita in fase di crescita oppure di declino: esse pre­ suppongono sempre sofferenze e sofferenti. Ma esistono due spe­ cie di sofferenti: la prima è quella di coloro che soffrono di una so­ vrabbondanza di vita, che vogliono un’arte dionisiaca come pure una intelligenza e una prospettiva tragica della vita - l’altra specie di sofferenti è quella di coloro che soffrono di un impoverimento della vita, che desiderano dall’arte e dalla filosofia la quiete, il si­ lenzio, un placido mare oppure l’ebrietà, lo spasimo, lo stordimen­ to. La vendetta sulla vita stessa - è questa la più voluttuosa specie d’ebrietà per tali esseri immiseriti!... Alla doppia esigenza di que­ sti ultimi corrispondono sia Wagner che Schopenhauer - essi ne­ gano la vita; la calunniano e con ciò essi sono i miei antipodi. Il più ricco di pienezza vitale, - il dio e l’uomo dionisiaci, - non soltanto può concedersi lo spettacolo del terribile e del problematico, ma può permettersi la stessa azione terribile, nonché il lusso di ogni di­ struzione, di ogni dissoluzione e annientamento - in lui il male, l’as­ surdo e il brutto sembrano, per così dire, leciti, come sembrano le­ citi nella natura, in seguito a un eccesso di forze procreatrici, riedificatrici -, ed è la natura che di ogni deserto sa ancora fare una pin­ gue terra fruttifera. Inversamente il sofferente, il più povero di vita, avrebbe più di chiunque altro bisogno di mitezza, dolcezza e bene­ volenza - di quella che oggi viene chiamata umanità - sia nel pen­ sare che nell’agire, e possibilmente di un dio che sia nel vero e pro­ prio senso della parola un dio dei malati, un salvatore.. .2

Nietzsche ci sta dicendo che il suo appassionato trasporto per Wagner si basava su un legittimo fraintendimento. Egli ha scambiato un tipo di sofferenza per l’altro perché i due tipi di sofferenti, Wagner e lui stesso, pur essendo agli antipodi, sono anche estremamente vicini, fino al punto di essere indistingui­ bili. Si può quindi capire come un giovane ancora abbastanza ingenuo abbia potuto scambiare un tipo con l’altro. Non siamo

2 E Nietzsche, Scritti su Wagner, tr. it. di S. Giametta e F. Masini, Adelphi, Mila­ no 1991, pp. 221-22.

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autorizzati a concluderne che ci fosse una qualunque inclina­ zione, da parte sua, verso il cristianesimo che già pervadeva l’arte di Wagner in maniera strisciante. La confusione era am­ missibile, e sarebbe erronea l’illazione che Nietzsche abbia mai simpatizzato per gli aspetti cristiani di Wagner. Nel testo che ho appena citato Nietzsche riconosce, pertan­ to, la presenza di elementi cristiani già nel Wagner di quegli an­ ni, ma finge che essi fossero sostanzialmente nascosti, atteggia­ mento a dir poco insincero. È vero che molti elementi cristiani di Wagner rimangono in qualche misura velati. Un buon esempio è fornito, nella Walkiria, da Brunilde, che invece di unirsi agli assassini collet­ tivi di Siegmund, come dovrebbe e come ha sempre fatto, cer­ ca di salvarlo. Non diversamente da Antigone, essa minaccia il potere di Wotan in quanto distrugge l’unanimità del cerchio persecutorio, fino a diventare lei stessa una vittima. Questo episodio è essenzialmente cristiano, come l’intervento di Elizabeth per salvare Tannhäuser quando i cavalieri formano attorno a lui un cerchio violento. Ma nel Wagner di quel periodo ci sono anche molti elemen­ ti cristiani che sono del tutto espliciti. Non occorre una sover­ chia attenzione per notarli nel Tannhäuser o nel Lohengrin. Elementi cristiani sono presenti ovunque e sin dall’inizio nelle opere del musicista tedesco. Nietzsche ne è ben consapevole, ma si rifiuta di ammetterlo, perché fare questo avrebbe voluto dire sottolineare l’importanza del suo passato coinvolgimento con un Wagner già affascinato dai temi cristiani. Nietzsche non è molto attendibile in questa versione dei suoi rapporti col compositore; tuttavia esiste un’altra versione che è anche meno attendibile. In questa seconda versione il filosofo va ancora oltre nel di­ storeere il significato delle prime opere wagneriane. Non gli ba­ sta fingere che tutti gli elementi cristiani di Wagner fossero so­ lo impliciti prima del Parsifal, egli adesso vuole negare del tut­ to la loro presenza, ponendo direttamente Wagner sul versante della tragedia antica intesa in senso nietzschiano, ossia sul ver­ sante che egli fa suo, quello cosiddetto dionisiaco. Perché Nietzsche ricorre a sotterfugi del genere? Evidente­ mente perché non è soddisfatto dell’interpretazione del wagne-

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rismo fornita nella Gaia scienza. L’idea di aver confuso la soffe­ renza cristiana in qualunque sua forma con la sofferenza tragi­ ca da lui abbracciata getta una cattiva luce sulla sua perspicacia, e mette comunque in pericolo la radicalità dell’opposizione fra i due tipi di sofferenza. Forse il pensatore tedesco avverte l’am­ biguità dell’argomento e, per evitarla, inventa il mito di un pri­ mo Wagner dionisiaco al cento per cento. Allo scopo di dare qualche credibilità alla sua tesi, Nietzsche deve esagerare il contrasto fra il Parsifal e i lavori teatrali che lo precedono, deve persuadere gli altri e se stesso che il Parsifal non è semplicemente più cristiano delle opere precedenti ma è l’unica opera di Wagner con elementi cristia­ ni, l’opera cristiana per eccellenza. Nietzsche vuole assolversi da ogni colpa nella sua relazione con Wagner, dimostrare che non ha mai fatto un errore, giustificare, dal punto di vista che egli definisce come dionisiaco, sia la sua prima ammirazione, sia la sua successiva ostilità verso Wagner. Il Parsifal gioca un ruolo cruciale in questa dimostrazione. È la sola opera di Wagner successiva alla rottura di Nietzsche con il suo idolo, e il filosofo ne esagera le discrepanze rispetto alle ope­ re antecedenti. Nietzsche afferma di essere stato sconvolto dall’a­ bietto cedimento al cristianesimo che il Parsifal rappresenta. Secondo questa linea argomentativa il musicista avrebbe com­ piuto un totale voltafaccia, e questo proprio mentre Nietzsche andava rafforzando la sua antica e immutabile opposizione a qua­ lunque cosa fosse cristiana. Era perciò logico e naturale che un Nietzsche già dionisiaco fosse attratto da un Wagner ancora de­ voto a Dioniso, e altrettanto logico e naturale che il medesimo Nietzsche rompesse del tutto con un Wagner che tradiva il co­ mune ideale arrendendosi supinamente e disgustosamente al cri­ stianesimo. Abbandonando i suoi vecchi ideali, Wagner si sareb­ be reso colpevole di una sorta di apostasia. La differenza tra queste due versioni della critica nietzschiana a Wagner è che, secondo la prima, non c’è una dimensione ge­ nuinamente jragica, pagana e dionisiaca nemmeno nel primo Wagner, mentre in base alla seconda versione dovremmo credere che è esistito, dopo tutto, un Wagner autenticamente tragico e dionisiaco, e che il compositore avrebbe mutato completamente

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la propria indole nel Parsifal, considerato quale espressione arti­ stica della peggior forma di cristianesimo, quella cattolica romana. Ecco qui un testo che esprime questa seconda linea argo­ mentativa. Esso fu dapprima pubblicato nella Genealogia del­ la morale, ma viene riportato nel Nietzsche contra Wagner con una chiusa più virulenta: Vorremmo in altre parole augurarci che il Parsifal wagneriano po­ tesse venir inteso in un senso allegro, quasi come un’opera con­ clusiva e un dramma satiresco con cui il Wagner tragico ha voluto precisamente congedarsi da noi, e anche da se stesso, e soprattut­ to dalla tragedia, in una maniera onorevole e decorosa per lui, va­ le a dire con un eccesso d’eccelsa e maliziosissima parodia dello stesso elemento tragico, di tutta la spaventosa terrestre serietà e terrestre desolazione di un tempo, della più stupida forma, ormai finalmente superata, espressa dalla contronatura dell’ideale asceti­ co. Il Parsifal è per l’appunto una materia da operetta par excel­ lence. .. Forse che il Parsifal di Wagner è il suo segreto riso di su­ periorità su se stesso, il trionfo della sua ultima suprema libertà di artista, della sua trascendenza di artista - un Wagner che sa ridere di se medesimo?... Come si è detto, vorremmo augurarcelo: giac­ ché, cosa sarebbe mai un Parsifal inteso seriamente? Non saremmo costretti a vedere in esso (secondo un’espressione usata contro di me) «il mostruoso prodotto di un odio della conoscenza, dello spi­ rito e della sensualità divenuto folle»? una bestemmia contro i sen­ si e contro lo spirito proferita in un solo respiro d’odio? Un’apostasia e un ritorno agli ideali oscurantisti di un cristianesi­ mo morboso? E da ultimo addirittura una negazione di sé, una li­ quidazione di sé compiuta da un artista che fino a quel punto era rivolto, con tutta la potenza della sua volontà, all’opposto, alla su­ prema realizzazione spirituale e sensibile della sua arte? E non sol­ tanto della sua arte, ma anche della sua vita? Si ricordi con quale entusiasmo a suo tempo Wagner percorse le orme del filosofo Feuerbach. La parola di Feuerbach sulla “sana sensualità” risuonò negli anni trenta e quaranta per Wagner, come per molti Tedeschi [...] come la parola della redenzione. Ha forse finito per appren­ dere diversamente al riguardo? Poiché sembra, se non altro, che abbia avuto in ultimo la volontà di insegnare diversamente su que­ sto punto!... Si è impadronito di lui, come è avvenuto per Flaubert, X'odio contro la vita?... Il Parsifal è infatti un’opera di perfidia, di bramosia vendicativa, di segreto avvelenamento dei

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presupposti della vita, un’opera scellerata. - La predicazione della castità resta un istigamento alla negazione della natura: io disprez­ zo chiunque non senta nel Parsifal un attentato alla eticità. - 3

L’Anticristo contro Parsifal. Dioniso contro il Crocifisso. Le due formule si equivalgono. Come in un film di Hollywood, il finale rivela la vera identità dei personaggi. Wagner sprofonda sempre di più, mentre Nietzsche si innalza verso sempre nuovi traguardi sulla strada della liberazione dal cristianesimo. Questa è la favola del Nietzsche contra Wagner, la versione dei fatti che Nietzsche voleva far credere agli altri e a se stesso. Il nocciolo duro dell’avversione a Wagner sarebbe così il Parsifal. Nietzsche ripete sovente che è il Parsifal la principale ragione per la quale ha troncato la sua amicizia con il compo­ sitore. L’ostilità istintiva di Nietzsche verso quest’opera appare in effetti fondamentale giacché, sebbene il filosofo esageri la sua singolarità, essa rimane la più religiosa fra tutte le opere di Wagner, l’incarnazione più prossima di ciò che questo pensa­ tore trova più intollerabile in lui, appunto la sua simpatia, com­ plessa e ambigua, per le tematiche cristiane. Tutti i testi che vengono sempre citati di Nietzsche sul Parsifal sono del medesimo tenore di questo, estremamente sprezzanti, perfino ingiuriosi, e la stessa cosa vale per la mag­ gior parte dei frammenti postumi sull’argomento. Essi ripeto­ no con monotona litania i temi presenti nel brano che ho ap­ pena citato, talvolta con un linguaggio ancor più insultante. Tutti sono concordi nel condannare ciò che chiamano la resa disgustosa e senile di Wagner al Dio cristiano. Questa enfasi sul Parsifal è certamente in parte strategica se tale lavoro è davvero ciò che Nietzsche sostiene. Se questa fosse l’unica opera cristiana di Wagner, allora il giovane Nietzsche potrebbe essere assolto da qualunque complicità con l’ispirazione cristiana del musicista. Tuttavia l’enfasi posta sul Parsifal non sembra solo strategi­ ca. Nietzsche è realmente ossessionato da quest’opera. A volte i suoi argomenti suonano razionali e spassionati ma, in altri ca3 Ivi, pp. 227-28 (cfr. Genealogia della morale, terza dissertazione, 3).

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si, il suo disprezzo diventa così eccessivo da suonare più come odio. Qualsiasi allusione al Parsifal risveglia in lui le reazioni più forti. L’intensità della sua indignazione è così convincente da venir presa per buona, fino a essere diventata un luogo co­ mune della letteratura critica su Nietzsche. Tutti gli ammirato­ ri del pensatore tedesco possono identificarsi col loro idolo e condividerne l’esecrazione del Parsifal dal momento che su questo atto di espulsione vi è un accordo unanime. Perfino i nazisti danno il loro consenso stavolta. Se c’è un’opera di Wagner sulla quale essi hanno riserve, questa è, manco a dirlo, il Parsifal, per ragioni che sono le stesse di Nietzsche e di tutti i nietzschiani: è insopportabilmente cristiana. L’idea che un consenso talmente vasto sia frutto di un’illu­ sione, e che questa illusione possa essere distrutta, deve suona­ re, nella migliore delle ipotesi, inverosimile. Avanzando una si­ mile affermazione, sarò probabilmente sospettato a mia volta di venir meno alla mia obiettività di studioso a causa dei miei pregiudizi religiosi. La linea ufficiale seguita dal partito nietzschiano a proposito di Wagner e soprattutto del Parsifal sembra non poter essere scossa da alcuna critica. Malgrado ciò, io ho sempre avvertito che questa versione ci racconta, tutt’al più, solo metà della vera storia. Nel precedente saggio ho interpretato il rapporto fra Nietzsche e Wagner in termini di rivalità, e penso che la mia in­ terpretazione sia valida. Wagner è il dio che Nietzsche vorrebbe essere. La storia della relazione fra queste due personalità corri­ sponde in maniera perfetta ai vari stadi del processo mimetico. In un primo momento Wagner è il modello esplicitamente rico­ nosciuto, la divinità apertamente adorata che Nietzsche deside­ rerebbe essere. In una fase più avanzata, egli diventa un ostaco­ lo e un rivale, senza cessare per questo di essere un modello. L’ultimo Wagner è giudicato detestabile, e Nietzsche prodiga le sue energie nel dimostrare il suo assunto, in misura eccessiva per essere davvero convincente. Perfino nei testi più antiwagne­ riani abbondano i segni indiretti che l’ossessione di Nietzsche non è l’ostilità a senso unico in cui la nostra avanguardia filoso­ fica cesserebbe di credere se questo pensatore non fosse il suo intoccabile idolo. La verità è che Wagner continua a restare il

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modello che Nietzsche vorrebbe disperatamente ripudiare. L’ostilità a Wagner, alla sua musica, alle sue idee e alla sua sup­ posta conversione cristiana è certo una passione estremamente sincera, ma una passione divisa contro se stessa. Noi ascoltiamo soltanto la voce che in Nietzsche parla contro Wagner. Ma vi è in lui un’altra voce che parla in favore di Wagner, una voce che de­ ve farsi sempre più forte verso la fine della vita di Nietzsche, vi­ sto che la voce ufficiale sta diventando addirittura esagitata nel vano sforzo di zittire quella favorevole al compositore. Non vi è dubbio che la mia tesi sarebbe più convincente se a supportarla avesse qualcosa di proveniente dalla penna di Nietzsche. Per contrastare l’universale consenso al riguardo sa­ rebbe necessario qualcosa di assolutamente clamoroso, qualche testo che rovesci la solita linea interpretativa sul Parsifal. Le probabilità di trovare un testo del genere sembrano minime. Se esistesse, i nostri grandi studiosi l’avrebbero preso in conside­ razione, e i vari teorizzatori nietzschiani sarebbero stati più pru­ denti nell’affrontare i temi del Parsifal, di Wagner e di Dioniso contro il Crocifisso. Allorché ho iniziato a scrivere su Nietzsche, non ho attiva­ mente cercato questa prova cruciale quanto avrei potuto. Non ero sicuro che un testo simile fosse mai stato scritto. Al contrario di Dostoevskij, Nietzsche non è mai riuscito a concedere davve­ ro spazio all’altra voce dentro di sé. Questo è probabilmente il motivo per cui il filosofo ha perso la ragione e non è mai diven­ tato un romanziere. Nietzsche è fondamentalmente quello che potrei chiamare uno scrittore “romantico”, e la scrittura è per lui innanzi tutto uno strumento di repressione. Egli stesso afferma che, per molto tempo, gli era stato difficile distinguere dentro di sé ciò che apparteneva a Wagner da ciò che apparteneva a Friedrich Nietzsche. Scrivere era per lui il mezzo per raggiunge­ re questa distinzione. La scrittura ha in lui molto a che fare con la cosiddetta volontà di potenza e molto poco con la confessione dal sottosuolo che Nietzsche ha apprezzato così tanto quando l’ha trovata in Dostoevskij, senza però praticarla, purtroppo. Prima dell’edizione Colli-Montinari, quando la nostra cono­ scenza dell’ultimo Nietzsche si basava soprattutto sull’ora vitu­ perata Volontà di potenza, in altre parole sugli estratti manipolati

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e mutilati dalla sorella, io non potevo trovare nulla, o quasi nulla, che negli scritti pubblicati del filosofo potesse supportare il mio punto di vista, nulla che potesse modificare il quadro convenzio­ nale del giudizio negativo sul Parsifal, nulla che fosse in grado di scuotere la fermezza dell’impegno polemico contro quest’opera. Fino a un tempo recente, ero riuscito a trovare solamente qualche lode limitata al preludio del Parsifal, non molto signifi­ cativa dato che il preludio vi viene considerato da un punto di vista puramente musicale. L’assenza di una conferma testuale non scuoteva per nulla la mia convinzione che Nietzsche ado­ rasse il Parsifal almeno quanto lo odiava, e l’una e l’altra cosa per la stessa ragione, per quel contenuto cristiano sul quale il filosofo ha fatto piovere così tanti insulti. Se la mia convinzione non era indebolita, lo era però la mia dimostrazione. Sono quindi tanto più felice adesso di dichiarare che ho tro­ vato la prova mancante. Durante la preparazione del presente testo stavo cercando qualcosa nel volume dell’edizione ColliMontinari contenente i frammenti inediti scritti da Nietzsche tra l’autunno del 1885 e l’estate del 1887. Sotto il paragrafo 5 [41], ho trovato il seguente brano: Preludio del Parsifal, il più grande beneficio che da lungo tempo mi sia stato reso. La potenza e la durezza del sentimento è inde­ scrivibile: non conosco nulla che prenda così in profondità il cri­ stianesimo e che spinga così acutamente verso la compassione. Elevato e commosso in modo totale - nessun pittore ha dipinto uno sguardo così indescrivibilmente triste e tenero, come ciò è riu­ scito a Wagner. La grandezza nel cogliere una tremenda certezza, onde sgorga qualcosa come compassione: — Il più grande capolavoro della sublimità che io conosca, la poten­ za e la durezza nel cogliere una tremenda certezza, una espressio­ ne indescrivibile di grandezza nella compassione al riguardo; nes­ sun pittore ha dipinto un tale sguardo oscuro, triste, come ciò è riuscito a Wagner nell’ultima parte del preludio. Neppure Dante, neppure Leonardo. È come se, dopo molti anni, alla fine qualcuno mi parlasse dei problemi che mi preoccupano, non naturalmente con le risposte che tengo pronte in proposito, ma con le risposte cristiane - alla fine questa è stata la risposta di anime più forti di quelle prodot­

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te dai nostri ultimi due secoli. Certo, quando si ascolta questa mu­ sica, si mette da parte il protestante, come un equivoco...4

Sono sicuro che il lettore sarà d’accordo sul fatto che questo rimarchevole testo contiene tutto quello che andavo cercando. Esso contraddice tutto quanto l’ultimo Nietzsche afferma non solo sul Parsifal e su Wagner ma, in particolare, sulla volontà di potenza, il risentimento e il cristianesimo, ossia su tutto quanto sembra più indiscutibile nel credo professato dall’ultimo Nietzsche. Spero almeno che coloro che esaltano il talento di Nietzsche per l’autocontraddizione siano desiderosi di affron­ tare questo passo. Quale migliore occasione per loro di dimo­ strare che non lodano la contraddizione soltanto in astratto? Di tutte le opere di Wagner - ripeto - Parsifal è quella che Nietzsche disprezza nel modo più coerente e intenso. Come ri­ sulta dai frammenti dello stesso periodo, sia prima che dopo il te­ sto da me citato Nietzsche ha scritto intorno al Parsifal e al cri­ stianesimo in piena conformità alla sua solita concezione. Il Parsifal è denunciato come la degradazione finale di Wagner, il parto obbrobrioso della sua decadenza senile. Nel brano che ho appena citato il rovesciamento di tutto quel­ lo che leggiamo in Nietzsche contra Wagner è così netto, chiaro e completo da far apparire impossibile che uno stesso autore pos­ sa scrivere questo e ciò che abitualmente Nietzsche afferma sugli stessi argomenti; eppure, è nello stesso tempo impossibile che non si tratti dello stesso autore. Ci sono molte cose che collegano questo testo con le infinite negazioni contenute negli scritti pubblicati. Molti critici musicali cercano oggi di rendere il Parsifal più gradevole al palato dei pub­ blici attuali insistendo sull’eccentricità della dottrina in esso pre­ sente, e assicurando: «Non avete nulla di cui preoccuparvi; non è un’opera veramente cattolica, non è nemmeno cristiana». Π pun­ to di vista di Nietzsche sull’argomento è completamente diverso. Egli aveva conosciuto Wagner a fondo, ed era estremamente - si potrebbe dire istericamente - sensibile a quella che potrebbe 4 F. NIETZSCHE, Opere, cit., voi. Vili, tomo I, frammenti postumi 1885-1887, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1990, pp. 187-88.

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essere chiamata l’intensa nostalgia cattolica che pervade non so­ lo il Parsifal ma anche molte altre opere del compositore tedesco. Nemmeno le denunce più aspre del cattolicesimo potevano libe­ rare Wagner, agli occhi di Nietzsche, dal sospetto di essere un tra­ ditore. Ma traditore di cosa? Un traditore di tutto quello che, se­ condo Nietzsche, sia lui sia Wagner avevano mostrato di avere in comune nelle loro lunghe conversazioni a Tribschen. Tuttavia l’unico apostata del culto di Dioniso è adesso Nietzsche medesimo, almeno in questo brano, dove egli appare come il vero traditore del suo stesso sistema. Fino a poche pagine prima degli stessi frammenti il filosofo afferma che gli è stata necessaria un’ingente quantità di «auto­ superamento». Con questo egli intende dire che ha dovuto per­ correre una strada lunga e difficile per riuscire a distinguere quello che apparteneva a Wagner da quello che apparteneva a lui. Il nostro testo così poco ortodosso potrebbe essere allora definito, dal punto di vista di tale affermazione, come una rica­ duta nella confusione precedente. Nietzsche sembra scrivere sotto il desiderio incontrollabile di far cadere ogni distinzione tra lui e Wagner, come se all’improvviso egli dovesse imitare l’ultimo Wagner, come se non potesse stabilire nessuna diffe­ renza tra se stesso e l’autore del Parsifal. Non diversamente dal­ lo stesso Wagner, anch’egli è posseduto dal Parsifal. Qui come altrove Nietzsche, allorché loda il Parsifal, loda il suo preludio. Se il lettore è familiare con le abituali imprecazio­ ni contro il Parsifal e Wagner, che sono alquanto ripetitive, po­ trà osservare che spesso viene fatta eccezione per questo brano. Nietzsche ha sempre riconosciuto di apprezzare il preludio, ma di solito non si spinge oltre. Egli confessa che gli piace la musi­ ca fintantoché può essere separata dalle parole e dall’odioso messaggio da lui avvertito in tali parole.

A questo punto ci dobbiamo porre due domande: 1) Perché i nietzschiani non hanno menzionato mai questo testo? La risposta è semplice. Essi non lo conoscevano, dato che la sorella di Nietzsche non l’ha incluso nella Volontà di po­ tenza. Grazie a questa assenza tutti i nietzschiani hanno potu­ to continuare a credere che, per quanto ambivalente Nietzsche

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potesse essere riguardo a Richard Wagner come uomo, egli sia rimasto incrollabile nel suo disprezzo per il Parsifal e soprattut­ to per il cristianesimo. Se sua sorella avesse pubblicato questo passo nella Volontà di potenza, l’effetto sarebbe stato traumatico. Molte domande che i nietzschiani sono sempre riusciti a evitare sarebbero diventate inevitabili. Forse che Nietzsche era già un po’ folle nello scrive­ re il passo? Oppure era già sulla strada della follia quando scri­ veva l’opposto? La motivazione che ha guidato la sorella di Nietzsche è evi­ dente. Π suo scopo era di promuovere la filosofia del fratello, non certo di comprometterla. Il brano doveva pertanto essere elimi­ nato. Ciò nondimeno Elisabeth l’ha pubblicato. Secondo l’edi­ zione Colli-Montinari, essa l’ha fatto conoscere sotto forma di una lettera personale che il fratello le avrebbe scritto. È stato un vero colpo di genio. Com’è noto, lei non era ostile a Wagner, e di­ sapprovava l’atteggiamento del fratello. Elisabeth era perciò estremamente desiderosa di pubblicizzare qualunque opinione favorevole che Nietzsche avesse potuto nutrire nei confronti del compositore e della sua opera. Presentando il brano come una confidenza fatta alla sua cara sorella, quest’ultima ha reso la con­ traddizione, insieme a tutto quello che vi si collegava, meno lam­ pante, suggerendone anche varie e attraenti interpretazioni. Gli ammiratori di Wagner potevano pensare che gli autentici senti­ menti di Nietzsche fossero quelli confidati alla sorella, mentre i nemici della sorella potevano sostenere che Nietzsche doveva aver mentito dato che disprezzava Elisabeth. Suppongo che, in un prossimo futuro, qualche nietzschiano ortodosso cercherà di provare che questo testo è davvero una lettera alla sorella e non debba essere quindi considerato come autentica espressione del pensiero del filosofo. È mia convinzione che la sorella di Nietzsche sia stata di gran­ de utilità a tutti, anche ai nietzschiani contemporanei che mini­ mizzano sistematicamente l’importanza del problema religioso nell’ultimo Nietzsche. 2) La seconda domanda alla quale devo ora cercare breve­ mente di rispondere è: qual è il significato di tutto ciò? Il signifi­ cato, in un certo senso, è ovvio. Le risposte preconfezionate di

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Nietzsche, quelle che lui ha sempre a portata di mano, sono le ri­ sposte che abbiamo già sentito concernenti il Parsifal e il cristia­ nesimo visti come frutto della malattia e del risentimento, come prodotto di ciò che Deleuze preferisce chiamare la volontà di po­ tenza «reattiva»5, un’espressione che è usata anche da Nietzsche. Nel nostro testo Nietzsche definisce, come sentimento cristia­ no per eccellenza, la compassione, altrove rigettata sistematicamente in quanto impostura e grossolano travestimento del risen­ timento o «volontà di potenza reattiva». La demistificazione, di solito così importante agli occhi di Nietzsche, viene ignorata per­ ché inconseguente, incapace di giungere alla vera essenza del cri­ stianesimo, di minare quella che egli adesso chiama nel brano la «tremenda certezza» che suscita la compassione. Questo totale cambiamento di idee significa che non possia­ mo prendere Nietzsche sul serio, che la sua è un’oscillazione malsana fra opinioni ugualmente irrilevanti, e che tutto dev’es­ sere ridotto alla sua personale rivalità mimetica con Wagner? Assolutamente no, o piuttosto proprio qui possiamo vedere quanto la prospettiva mimetica sia in realtà differente da una ri­ duzione di tipo psicologico o anche psicanalitico. Non si può dubitare che, quando scrive sul Parsifal nel suo modo tipico, e poi in quell’altra maniera incredibile, Nietzsche sia già molto avanti sulla strada della pazzia, ma la minaccia al suo equilibrio mentale coincide con quella che è la sua più gran­ de genialità, una genialità che precisamente consiste in ciò che a noi appare come contraddizione, consiste nel movimento pendolare fra i due pensieri antitetici che andiamo indagando. L’oscillazione pro o contro il Parsifal implica un argomento più grande della relazione personale di Nietzsche con Wagner, implica la questione nietzschiana numero uno, ossia la differen­ za tra Dioniso e Cristo. A mio giudizio il punto controverso del­ la volontà di potenza, attiva o reattiva che sia, è subordinato a tale questione, una questione che in definitiva è un problema mimetico come la rivalità verso Wagner: il problema mimetico dell’origine religiosa dell’uomo.

5 G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, P.U.F., Paris 1973, pp. 44 ss.

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Per comprendere tale questione dobbiamo leggere un altro testo, sullo sfondo dei passi in cui Nietzsche parla apertamente del dramma originario di Dioniso contro il Crocifìsso. Si tratta sempre della stessa morte collettiva ed è l’ultima cosa che Nietzsche rileva a proposito di questa identità di contenuto. Non c’è nessuna religione sacrificale che non abbia un dram­ ma al suo centro, e più si osserva da vicino tale dramma, più si scopre che le caratteristiche comuni alle morti di Dioniso e di Cristo sono comuni a molti altri culti di tutto il mondo. Questa identità è la ragione per la quale Nietzsche ricorre a un unico sim­ bolo, Dioniso, per indicare un numero infinito di culti mitologici. Sostenere che Dioniso stia per qualche genere di monoteismo non biblico, come pretende Heidegger, è un puro e semplice non senso, a mio modo di vedere. Allorché gli antropologi del XIX se­ colo scoprirono tutti questi sistemi religiosi aventi lo stesso dram­ ma collettivo al loro centro, si sentirono autorizzati a trame delle conclusioni definitive, sebbene costoro non avessero la più palli­ da idea del perché così tanti culti sembrassero prendere origine sempre dal medesimo tipo di dramma. Essi videro che i fatti era­ no gli stessi e, essendo positivisti, supposero subito che tutte que­ ste religioni fossero equivalenti. Ogni grande libro di antropolo­ gia dell’epoca cerca di dimostrare che giudaismo e cristianesimo sono uguali a qualunque altra religione di origine sacrificale. Soltanto Nietzsche respinse una simile conclusione, pur ac­ cettando la constatazione di fatto che sembrava giustificarla. Egli sapeva che i “fatti” sono importanti, ma sapeva anche che i fatti non significano nulla finché non vengono interpretati. Dioniso contro il “Crocifìsso”: eccovi l’antitesi. Non è una diffe­ renza in base al martirio - solo esso ha un altro senso. La vita stes­ sa, la sua eterna fecondità e il suo eterno ritorno determinano la sofferenza, la distruzione, il bisogno di annientamento... Nell’altro caso il dolore, il “Crocifisso in quanto innocente” val­ gono come obiezione contro questa vita, come formula della sua condanna.6 6 E NIETZSCHE, Opere, cit., voi. Vili, tomo III, Frammenti postumi 1888-1889, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1986, 14 [89], p. 56.

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Nel caso di Dioniso l’enfasi cade sviti innocenza degli ucciso­ ri e, di conseguenza, sulla colpa della vittima, anche della stes­ sa divinità. Nel caso di Gesù l’enfasi è posta stiti innocenza del­ la vittima, e quindi sulla colpevolezza dei persecutori. Siamo ancora una volta di fronte ai due tipi di sofferenza. Il tipo pagano afferma anche la sofferenza più aspra, come Nietzsche sottolinea, intendendo con questo la più crudele vio­ lenza, mentre la Passione si identifica con le vittime e denuncia l’altro tipo di religione come una menzogna. Nietzsche ha visto con chiarezza che Gesù non è morto come una vittima sacrifi­ cale di tipo dionisiaco, ma contro tutti i sacrifici di questo ge­ nere. Questo è il motivo per cui Nietzsche ha accusato l’intera presentazione di tali eventi come un atto occulto di risentimen­ to: essa rivela l’ingiustizia di ogni sacrificio religioso e il com­ portamento insensato di tutte le folle dionisiache del mondo. La Passione è vista come un’obiezione alla vita o una formu­ la per la sua condanna, dal momento che accusa e respinge tut­ to quello su cui le antiche religioni pagane erano fondate, e con esse, secondo l’abituale giudizio di Nietzsche, tutte le società umane in ciò che hanno di meglio, le società in cui i deboli e gli sconfitti non impedivano ai “forti” e ai “vittoriosi” di godere i frutti della loro superiorità. La Passione cristiana è un insulto al paganesimo. Essa vede l’antica violenza religiosa sotto una luce negativa e fa sentire i suoi autori colpevoli per averla commessa, anche solo per averla ap­ provata. E poiché l’intera cultura umana è basata sulla violenza collettiva, è l’intero genere umano a venir dichiarato colpevole dell’assassinio di Dio. La vita stessa è condannata perché non può organizzarsi e perpetuarsi senza questo tipo di violenza. L’unica cosa che accomuna tutte le interpretazioni di Nietzsche, e tutti i vari tipi di culto nietzschiano, è l’ignorare si­ stematicamente l’enorme portata e la centralità della contraddi­ zione nell’opera di questo filosofo. All’opposto di Heidegger, io non considero in sé la volontà di potenza come il pensiero cen­ trale di Nietzsche. La volontà di potenza acquista il suo signifi­ cato attraverso la differenza tra Dioniso e il Crocifisso, che cor­ risponde alla differenza tra Nietzsche e Wagner, e la catastrofe psichica che conclude l’esistenza del pensatore è dovuta al venir

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meno finale di questa differenza, al passaggio da Dioniso contro il Crocifìsso a Dioniso il Crocifìsso. Quando tale differenza crol­ la, Nietzsche diventa pazzo. Questo crollo finale non è qualcosa che travolga Nietzsche dall’esterno e non abbia nulla a che fare con la sua precedente vita intellettuale. La presenza anche di un singolo frammento in favore del Parsifal e della compassione conferma che la vita intellettuale di Nietzsche è come un pendolo che oscilla follemente non solo tra Wagner e il filosofo, ma tra Dioniso e il Crocifisso. L’oscillazione tra i due poli è frenetica lungo l’arco dell’intera carriera del pensatore, malgrado egli cerchi in ogni modo di eliminarla, e i suoi scritti, essendo lo strumento di questa eliminazione, sono quasi sempre fissati su una sola del­ le estremità del quadrante. Dal momento che lo scopo di Nietzsche come scrittore è convincere se stesso e i suoi lettori che le uniche idee da lui col­ tivate sul Parsifal siano di ripulsa totale, ecco che la testimo­ nianza scritta anche di un’unica oscillazione all’estremo oppo­ sto diventa cruciale nell’interpretazione di questo pensatore. La follia è parte integrante dell’avventura di questo filosofo, condannato a bloccare il pendolo del proprio pensiero per evi­ tare oscillazioni ulteriori e le intollerabili sofferenze che vi si collegavano. Pur di non arrendersi a Wagner o al cristianesimo, Nietzsche fa saltare l’intero sistema del suo pensiero. Il testo che abbiamo letto getta luce sulla genesi del crollo finale, che non è certo privo di rapporti con la vita intellettuale e spiri­ tuale di questo autore come molti nietzschiani vorrebbero far­ ci credere. Questa censura sulla pazzia di Nietzsche, o l’idea che la follia non abbia rapporto con il vero Nietzsche, è parte integrante della mitologia filosofica che, in una forma o nell’al­ tra, ha sempre dominato l’interpretazione nietzschiana. Mi sembra che qualunque futura interpretazione di Nietzsche dovrà spiegare la contraddizione che abbiamo rile­ vato nel giudizio del filosofo sul Parsifal, ma queste interpreta­ zioni future dovranno essere - credo - tragiche e religiose piut­ tosto che filosofiche, né potranno ripetere i miti in cui Nietzsche per primo non credeva, pur essendo responsabile di averli lanciati.

Dioniso contro il Crocifìsso1

Per un certo periodo, dopo l’ultima guerra, si è sollevato un grande dibattito sulle responsabilità di Nietzsche nell’uso che i nazisti avevano fatto dei suoi scritti in chiave antisemita. Vi fu invece un generale silenzio sulla sua posizione anticristiana, troppo evidente e costante per essere negata. Agli occhi di chi era convinto che la sua opera non doves­ se cadere nell’oblio quest’ultimo punto appariva privo di im­ portanza. Perché mai si sarebbe dovuto discolpare Nietzsche per un atteggiamento che la maggioranza degli intellettuali ri­ teneva valido? Non vi era alcun bisogno di scusare il pensato­ re tedesco per questo. E nessuna scusa fu fatta. Secondo costoro Nietzsche era perfettamente nel giusto. Tuttavia la polemica anticristiana di Nietzsche ha ricevuto un’attenzione ancora minore a partire dalla seconda guerra mondiale. Quale può esserne il motivo? Se ai nietzschiani contemporanei fosse rivolta tale domanda cosa che però non avviene mai - essi probabilmente risponde­ rebbero che l’atteggiamento del loro maestro in tema di reli­ gione ha perso ormai la sua rilevanza. Nietzsche rimane “importante” a causa delle sue varie rein­ carnazioni che sono apparse in anni recenti, soprattutto grazie all’ingegnosità dei critici francesi. Abbiamo visto così un

1 Dionysus versus the Crucified, “Modem Language Notes”, 92 (1977), pp. 116185 (Dioniso contro il Crocifisso, a c. di G. Pomari, “Micromega”, 3 (2000), pp. 177-97).

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Nietzsche genealogista, un Nietzsche avvocato della libera ini­ ziativa, un Nietzsche esponente della controcultura... Per quanto possano essere diverse l’una dall’altra, almeno sotto qualche aspetto, tali reincarnazioni si assomigliano tutte nella loro indifferenza alla strenua battaglia che ossessionò gli ultimi anni di lucidità del filosofo. Che vi sia sotto qualche oscura ragione, qualcosa di inopportuno o di imbarazzante su tale argomento, che rende strategicamente consigliabile non insistervi oltre? Qualunque possa essere la risposta, la problematica religio­ sa di Nietzsche era già stata emarginata allorché i critici fran­ cesi cominciarono la loro impresa esegetica. Il grosso del lavo­ ro in tal senso era già stato compiuto da Martin Heidegger. Perfino coloro che rifiutano l’interpretazione di Nietzsche co­ me ultimo grande metafisico dell’occidente sono influenzati da Heidegger nell’espellere la contrapposizione nietzschiana di «Dioniso contro il Crocifisso». Proprio come l’esistenzialismo di marca francese è stato un rampollo della filosofia tedesca, e in particolare di quella di Heidegger, così il nuovo “Nietzsche francese” è un altro topolino partorito dalla stessa montagna, o se vogliamo un’intera nidiata di topi. La conversione forzata del Nietzsche di Heidegger a una sorta di platonismo invertito risale a uno dei princìpi essenzia­ li dell’autore di Essere e tempo, ossia la reciproca incompatibi­ lità fra la religione da un lato e dall’altro il pensiero inteso nel senso più alto, che sarebbe quello successivo alla metafisica, quello introdotto, appunto, da Heidegger. Qualsiasi cosa che in Nietzsche compaia sotto il titolo «Dioniso contro il Crocifisso» è ritenuta necessariamente estranea al “pensiero” e perciò condannata senza esitare quale puro e semplice “ritorno al monoteismo”, come se questo non fosse esattamente l’opposto di ciò che Nietzsche era convinto di fare. Tale condanna allude anche al fatto che chi combatte il cristianesimo con l’intensità appassionata di Nietzsche non può che essere ancora sotto la sua influenza. Sebbene rapidi lampi di odio traspaiano qua e là nei suoi scritti, Heidegger dà nel complesso l’impressione di una profonda indifferenza ver­ so la religione, atteggiamento che è divenuto un modello per

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parecchie persone. L’argomento è di scarso o nessun interesse. Il capitolo è chiuso. Heidegger ha interpretato il monoteismo come una pretesa di monopolio del divino, pretesa che rappresenta, ai suoi occhi, il massimo del risentimento. Non è certo mia intenzione di­ chiararmi in disaccordo con lui circa l’importanza del risenti­ mento nell’opera di Nietzsche. Ma non credo che Heidegger, o chiunque altro, possa separare le componenti che appartengo­ no al risentimento, e quindi al non-pensiero che sarebbe pro­ prio della religione, dalle componenti che a suo giudizio non vi appartengono, quelle del pensiero filosofico che sarebbe l’uni­ co degno di venir preso in considerazione e interpretato. Per Heidegger la formula «Dioniso contro il Crocifisso» non è che l’inversione nietzschiana della precedente formula cristiana «Il Crocifisso contro Dioniso»; non si tratterebbe dunque che della stessa sterile lotta per il potere fra due reli­ gioni rivali. Adesso che il cristianesimo istituzionale si sta in­ debolendo, l’ostilità filosofica nei suoi confronti si fa silenzio­ sa, ma non per questo minore. Nella visione di Heidegger la storia essenziale del nostro mondo si è ormai lasciata alle spal­ le la fase della metafisica, e la religione è in tutto ciò irrilevan­ te. Il Nietzsche di «Dioniso contro il Crocifisso» è secondo lui molto più estraneo alle vere questioni del nostro tempo che non il «ritiro dell’Essere», con tutta la sua coda cometaria di discorsi post-metafisici. Che sia un’interpretazione come la sua quella che sta per prevalere? Perfino dal punto di vista degli studi nietzschiani intesi nel senso più stretto, un simile atteggiamento negazionista rappre­ senta una mutilazione. Esso ci priva di ciò che è veramente più originale e appassionante nell’opera di Nietzsche. Ora che non ci dobbiamo più limitare agli estratti attentamente selezionati e orchestrati dalla sorella di Nietzsche, e possiamo leggere tutti gli scritti precedentemente inediti nell’edizione ColliMontinari, non possiamo avere alcun dubbio sulla circostanza evidente che più ci avviciniamo alla catastrofe finale più il tema del cristianesimo diventa ossessivo per il filosofo. Il numero e la rilevanza dei frammenti riguardanti tale tema non fa che au­ mentare... Viene in mente un vulcano che riversi fiumi sempre

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più copiosi di lava nera, recante qua e là le scintille di una pie­ tra preziosa mai toccata da mani umane... Per prendere una di queste gemme qualcuno di noi darebbe volentieri una o due di­ ta della sua mano. Le cose più audaci diventano qui inseparabili da quelle grottesche. Genio e pazzia si danno vicendevolmente sostegno fino all’ultimo istante, smentendo la tesi ortodossa che li vuole separati. Se riconosciamo le chiare prove della loro contamina­ zione reciproca, ci macchiamo della colpa più imperdonabile, che come pena comporta l’esclusione immediata dal club dei nietzschiani rispettabili. Questi frammenti finali sono il vertice del risentimento, nel­ lo stesso senso in cui lo è anche il crollo conclusivo. La supe­ riorità di Nietzsche sulla sua e la nostra epoca può veramente consistere nel fatto che il risentimento, da lui condiviso con pa­ recchi comuni mortali, egli lo ha spinto a un tale grado di in­ tensità da portarlo alle sue manifestazioni più virulente e più cariche di significato. Nessuno dei risultati conseguiti da Nietzsche come pensatore è separabile dal risentimento, che il soggetto sia Wagner, la religione, o Nietzsche medesimo come avviene in Ecce homo. La verità è comunque che, a differenza di Heidegger e del­ la maggior parte dei suoi come dei nostri contemporanei, l’an­ ticristiano Nietzsche era assolutamente convinto della singola­ rità unica della prospettiva biblica e cristiana. Le sue ragioni, dunque, non possono essere sommariamente scartate, come senza dubbio sarebbero se egli fosse un cristiano. La fallacia etnocentrica in questo caso non risulta applicabile. L’unicità della Bibbia ebraica e del Nuovo Testamento è af­ fermata da Nietzsche in un contesto diametralmente opposto all’apologetica cristiana. Il pensatore tedesco tentò di porre la sua critica del cristianesimo su una base meno precaria di quel­ la comunemente accettata nella sua epoca, ossia la grande equi­ valenza stabilita dal positivismo fra tutte le tradizioni religiose. Egli conosceva troppo bene la mitologia pagana per non esse­ re disgustato dalla superficiale assimilazione della tradizione giudaico-cristiana a quella pagana. Nietzsche sostiene che lo spirito cristiano cerca di soffocare

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la “vita” col reprimere gli individui più dinamici presenti all’in­ terno di un gruppo. È questa la famosa “morale da schiavi” con­ trapposta alla “morale aristocratica”, l’unica cosa che tutti co­ noscono intorno alla distinzione nietzschiana fra paganesimo da una parte e tradizione giudaico-cristiana dall’altra. Secondo il fi­ losofo, la società deve pagare un prezzo allo scopo di far nasce­ re una casta di uomini superiori, e non deve esitare nemmeno di fronte alle peggiori forme di violenza. Ripetutamente Nietzsche ci assicura che Dioniso accoglie in sé tutte le passioni umane, anche la bramosia di annientare, anche il desiderio più feroce di distruzione. Dioniso dice di sì al sacrificio di molte vite umane, fino a includere - e questo non è così strano - quello del tipo più alto che il processo avrebbe lo scopo di generare. Già nella Nascita della tragedia Nietzsche menziona la vio­ lenza che ovunque accompagna e spesso precede Dioniso. Tutte le epifanie del dio lasciano rovine dietro di loro. Mania, dopo tutto, significa furia omicida. Al contrario di molti dei suoi seguaci, Nietzsche non ha trasformato il dionisiaco in qualcosa di stucchevole e idillico. Egli era troppo onesto per nascondere i lati orribili e sconvolgenti del dionisismo. Con gli anni i suoi riferimenti alla violenza frenetica e ap­ parentemente casuale che contraddistingue tutti gli episodi del ciclo di Dioniso divennero ancor più frequenti e insistenti che in passato, ma Nietzsche andava ripetendoli quasi alla lettera, al punto di farli diventare stereotipati. Il filosofo non volle mai analizzare a fondo le Baccanti, ad esempio, ma menziona sempre e in maniera coscienziosa la vio­ lenza dionisiaca. Egli non lo fa perché provi un gusto partico­ lare per tale violenza, ma soprattutto perché essa gioca un ruo­ lo essenziale nella cultura umana, e secondo lui non dovrebbe venire soppressa. Nietzsche vide con chiarezza che la mitologia pagana, non di­ versamente dal rituale pagano, è imperniata sull’uccisione di vit­ time o sulla loro espulsione, secondo modalità che possono sem­ brare perfettamente gratuite. Egli comprese che l’uccisione di questo tipo, riflessa in molti rituali e rappresentata nei miti, è spesso eseguita da un grande numero di uccisori: si tratta di un’impresa collettiva in cui un intero gruppo umano è implica-

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to. Solo in via eccezionale però, e tuttavia nella maniera più im­ pressionante come ora vedremo, Nietzsche si è soffermato di­ rettamente sull’aspetto collettivo dell’assassinio del dio, ma tut­ ta la sua indagine ne dipende in modo necessario, come i suoi frammenti più interessanti dimostrano con chiarezza. Questo è specialmente il caso di un testo ben noto, pubblicato dapprima nella Volontà di potenza, e che ho già citato in forma abbreviata. Nietzsche stesso ha dato un titolo a questo importante brano: 1 due tipi: Dioniso e il Crocifisso. La seconda metà del frammen­ to esprime nella forma più limpida l’atteggiamento del filosofo: Dioniso contro il “Crocifisso”: eccovi l’antitesi. No» è una diffe­ renza in base al martirio - solo esso ha un altro senso. La vita stes­ sa, la sua eterna fecondità e il suo eterno ritorno determinano la sofferenza, la distruzione, il bisogno di annientamento... Nell’altro caso il dolore, il “Crocifisso in quanto innocente” val­ gono come obiezione contro questa vita, come formula della sua condanna. Si indovina che il problema è quello del senso del dolore: del sen­ so cristiano o del senso tragico... Nel primo caso sarebbe la via che porta a un essere beato, nel secondo l’essere è considerato ab­ bastanza beato da giustificare anche un’immensità di dolore. L’uomo tragico afferma anche il dolore più aspro [...]. Il Dioniso fatto a pezzi è una promessa alla vita: essa rinascerà e rifiorirà eternamente dalla distruzione.2

Nietzsche era evidentemente consapevole che Tassassimo collettivo di Dioniso nell’episodio dei Titani ha sufficienti ana­ logie con la Passione di Gesù per essere considerato come equivalente. C’è una differenza tra i due eventi ma «Non è una differenza in base al martirio», come Nietzsche stesso sottoli­ nea con il corsivo. L’intuizione della somiglianza delle due morti collettive non è rara fra i pensatori e gli antropologi del tempo. È la medesi­ ma intuizione del Freud di Totem e tabù. Essa è scomparsa dal­ l’antropologia contemporanea, sepolta e dimenticata sotto il ra­ pido accumularsi dei detriti delle mode accademiche. L’analisi 2 E Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., 14 [89], pp. 56-7.

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strutturalista, ad esempio, si occupa ancora dell’episodio dei Titani nel ciclo di Dioniso, ma il suo interesse è passato dall’as­ sassinio del dio col suo banchetto cannibalistico alla prepara­ zione culinaria che ha avuto luogo nel corso della vicenda, pun­ to senza dubbio interessante, e che tuttavia ci porta lontano dal­ la comprensione tragica che invece troviamo in Nietzsche. Quando gli antropologi per la prima volta osservarono la grande abbondanza di dèi uccisi collettivamente nei culti reli­ giosi di tutto il mondo, avvertirono di aver scoperto qualcosa di importante, e lo stesso pensò Nietzsche, ovviamente. Quest’intuizione fornì agli studiosi delle religioni un potente strumento per le loro analisi comparative. Non c’è religione sa­ crificale senza un dramma al suo centro, e più si osserva que­ sto dramma da vicino, più diventa chiaro che i caratteri comu­ ni al martirio di Dioniso e di Gesù sono comuni anche a uno sterminato numero di altri culti, non solo in Grecia e nelle re­ ligioni indoeuropee, ma nell’intero pianeta. Questa rimarchevole somiglianza è un’importante ragione per cui l’ultimo Nietzsche può ricorrere a un unico simbolo, Dioniso, per indicare infiniti culti ricordati nei miti. Sostenere che Dioniso stia a indicare una sorta di monoteismo non bibli­ co è in realtà alquanto ridicolo e indegno di un pensatore del­ la statura di Heidegger. Sebbene gli antropologi non abbiano mai scoperto perché tutti questi culti hanno al loro centro tale dramma collettivo, essi si sentirono autorizzati a trarre alcune conclusioni prelimi­ nari dalla sua regolare presenza. Costoro, com’è noto, erano positivisti, ovvero uomini che credevano nei fatti e soltanto nei fatti. E poiché gli elementi fattuali sono i medesimi in tutti que­ sti culti, si può con sicurezza concludere - così essi pensavano - che queste religioni devono essere tutte la stessa cosa. Tale equivalenza è presente nella religione giudaica con i suoi sacri­ fici rituali, e trova la più spettacolare conferma nella religione cristiana. La Passione di Gesù rappresenta indiscutibilmente il cuore dei Vangeli, e che cos’è la Passione se non un esempio ulteriore degli assassinii collettivi che sono il pane quotidiano delle religioni di tutto il mondo? Una simile argomentazione venne seguita in quasi tutte le

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grandi opere di antropologia religiosa fra il 1850 e la prima guerra mondiale, e rimane anche oggi il fondamento nascosto e il principale argomento, almeno potenzialmente, di quello che è diventato un cliché popolare riguardo alle innumerevoli religioni dell’umanità. Tutte quante - si dice - sono più o me­ no lo stessa cosa. Anche se, o piuttosto proprio perché condivideva questa in­ tuizione comparativa riguardante Tassassimo collettivo e il sa­ crificio, Nietzsche si astenne dal giungere alla conclusione abi­ tuale che, non afferrando le cause del dramma collettivo di cui ci parlano le religioni arcaiche e quella cristiana, le liquida tut­ te mettendole sullo stesso piano. L’unico altro pensatore che, pur condividendo lo scetticismo religioso della sua epoca, ha iniziato a capire e a prendere sul serio tali cause è stato Freud. Nietzsche rifiutò la solita conclusione omologante e liquidatoria, perché non era affatto un positivista. Egli sapeva che i “fatti” non significano nulla fino a quando non vengono inter­ pretati. Il martirio di Dioniso è interpretato dagli adepti del suo culto in maniera del tutto differente rispetto all’interpreta­ zione cristiana della Passione di Gesù. Nel caso di Gesù l’enfasi cade innocenza della vittima e, di conseguenza, sulla colpevolezza dei suoi uccisori. Si po­ trebbe obiettare che pure Dioniso fu martirizzato a torto e che i Titani erano colpevoli dal punto di vista del mito esat­ tamente come gli uccisori di Gesù, ed essi in effetti risultano proprio colpevoli, dal momento che vengono puniti dal ful­ mine di Zeus. Nietzsche non menzionò nemmeno questa obiezione, poi­ ché ne vide la superficialità. In tutti gli altri episodi del ciclo dionisiaco c’è un diasparagmós collettivo, un martirio simile a quello di Dioniso per mano dei Titani, ma in essi il dio non è la vittima, quanto piuttosto l’istigatore del linciaggio attuato da un’intera folla. Ogni volta che Dioniso appare, una vittima è fatta a pezzi e spesso divorata dai suoi innumerevoli assassini. Il dio può es­ sere la vittima, ma può essere anche il principale uccisore. Egli è indifferentemente l’uccisore e l’ucciso. Questo scambio di ruoli, presente anche in quasi tutte le religioni primitive, è la

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chiara conferma di quanto Nietzsche pensava riguardo all’in­ differenza della mitologia verso ciò che invece rappresenta la moralità della Bibbia. Dall’episodio principale in cui Dioniso stesso è la vittima, non si può concludere che il dionisismo in quanto tale con­ danna la violenza nel senso in cui i Vangeli lo fanno. È incon­ cepibile che Gesù possa diventare l’istigatore di qualche “lin­ ciaggio sacro”. Quando la possibilità di un linciaggio si verifi­ ca nei Vangeli, come nel caso della donna adultera in procinto di venir lapidata (.Giovanni 8,2-11), Gesù previene la violenza e disperde la folla3. Vi sono due tipi di religione secondo Nietzsche. La prima, quella pagana, comprende che la «vita stessa, la sua eterna fe­ condità e il suo eterno ritorno determinano la sofferenza, la di­ struzione, il bisogno di annientamento...», e dice di sì a tutto questo, accettando di buon grado quello che la vita offre di peg­ gio e di meglio. Essa è al di là del bene e del male, e «afferma an­ che il dolore più aspro», per dirla con le parole del filosofo. Il secondo tipo di religione invece rifiuta questa medesima sofferenza. È interessante che Nietzsche condanni il cristianesi­ mo per il rifiuto della sofferenza, dato che la critica abituale è che il cristianesimo la incoraggi. Il pensatore tedesco vide chiara­ mente che Gesù non morì come una vittima sacrificale di tipo dionisiaco, ma contro tutti i sacrifici del genere. Nietzsche accusò questa morte di essere un atto occulto di risentimento perché ri­ vela l’ingiustizia di tutte queste morti e l’assurdità non di una sin­ gola folla specifica bensì di tutte le folle dionisiache del mondo. Quando Nietzsche continua a ripetere che la Passione di Gesù è una «obiezione contro questa vita» o una «formula del­ la sua condanna», egli comprende che la Passione cristiana rappresenta il rifiuto e la condanna di tutto ciò su cui le anti­ che religioni pagane si fondavano, e su cui si fondavano, in mo­ do a suo avviso lodevole, tutte le società umane, le società in 3 Vedi R. GlRARD, Quand ces choses commenceront... Entretiens avec Michel Treguer, Arléa, Paris 1994, p. 179; Id., La vittima e la folla. Violenza del mito e cristianesi­ mo, a c. di G. Fomari, Santi Quaranta, Treviso 1998, pp. 109 ss.; Id., Vedo Satana, cit., pp. 81 ss.

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cui le masse di oppressi non erano in grado di impedire ai “for­ ti” e ai “vittoriosi” di godere i frutti della loro superiorità. Nietzsche, in breve, aderì alla comune convinzione etnolo­ gica del suo tempo riguardo alla presenza della violenza nel cuore di quasi tutti i culti religiosi, ma respinse la conclusione positivistica che mette tutti questi culti sullo stesso piano. Egli distinse la religione biblica e cristiana non perché il martirio di Gesù sia differente, ma proprio perché non lo è. Il martirio di Gesù dev’essere infatti lo stesso per diventare un’allusione esplicita alla genesi di tutte le religioni pagane, e di conse­ guenza una silenziosa ma definitiva condanna dell’ordinamen­ to pagano, di ogni ordinamento umano in generale. La Passione cristiana non è antigiudaica come crede l’anti­ semitismo volgare, è antipagana: essa reinterpreta la violenza religiosa in maniera così negativa da far sentire i suoi autori colpevoli per averla commessa, perfino per averla accettata in silenzio, e dal momento che tutta la cultura umana è fondata su questa violenza collettiva, è l’intera razza umana a essere di­ chiarata colpevole dal punto di vista dei Vangeli. La vita stessa è accusata perché essa non può continuare e organizzarsi sen­ za questo tipo di violenza. La Bibbia ebraica, l’Antico Testamento dei cristiani, è simi­ le al Nuovo Testamento riguardo alla questione discussa nel frammento su Dioniso e il Crocifisso. Un antropologo positivi­ sta non percepisce alcuna differenza reale tra la storia di Romolo e quella di Caino. In entrambe le storie un fratello uc­ cide suo fratello, e una comunità umana viene fondata. I dati delle due storie sono i medesimi, ma l’interpretazione che ne dà la Bibbia è unica. Non è la stessa cosa giudicare un fratrici­ dio un’impresa gloriosa, o comunque necessaria, come fanno i Romani, oppure un crimine come fa la Bibbia. Nella Bibbia, la storia di Caino è rappresentativa non di una singola società umana, ma di tutte. Si tratta di un giudizio in­ torno alla cultura umana in generale, giudizio che appare più pertinente delle usuali discussioni teoriche intorno all’origine dell’uomo. O il grande numero di fratricidi e altri simili crimi­ ni presenti in innumerevoli miti di fondazione non significa as­ solutamente nulla, oppure, in caso diverso, tali eventi puntano

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verso un’origine violenta della società umana, passivamente ri­ flessa e presupposta nelle culture mitologiche, e al contrario denunciata e rifiutata dalla Bibbia e dai Vangeli cristiani. Tutti gli eroi mitologici fondamentalmente si assomigliano, ma la nostra interpretazione non è affatto la stessa se diamo lo­ ro il nome di Caino oppure quello di Dioniso. Per questo Nietzsche non si accontenta di ignorare la Bibbia come la sua epoca sta cominciando a fare, ma tenta di confutarla, riabilitan­ do la violenza di Caino. Caino, Romolo e Dioniso commettono lo stesso tipo di azio­ ne e, dal punto di vista dei Vangeli, vanno chiamati con un uni­ co nome, non il nome di un dio monoteistico, bensì quello di co­ lui che è «omicida fin dal principio» {Giovanni 8,44): Satana, che significa proprio il falso accusatore, mentre il Paraclito, lo Spirito Santo dei cristiani, significa esattamente l’avvocato della difesa, colui che trasforma tutti i martiri in testimoni della verità dei Vangeli e perciò in testimoni della falsità dei motivi che han­ no condotto alla loro morte violenta4. I Vangeli collegano esplicitamente la morte innocente di Gesù con la morte di tutte le precedenti vittime della collettività a cominciare dal «giusto Abele»5. La violenza di Caino fa parte di una lunga catena di assassinii che culmina nella Passione, in­ tesa come un ritorno della stessa violenza: questa violenza è però ripetuta, stavolta, nella piena luce di una rivelazione che segna il destino della realtà chiamata nel Nuovo Testamento il «principe di questo mondo», o i «poteri di questo mondo», o i «poteri ce­ lesti». Tutte queste espressioni si riferiscono alla fine del tipo di società fondato sul comportamento dionisiaco, sulla docile ac­ cettazione del processo vittimario e della sua violenza. Non abbiamo bisogno di condividere le valutazioni di Nietzsche per apprezzare la sua comprensione dell’opposizione irriducibile fra la Bibbia e la mitologia, e il suo disgusto per il blan­ do eclettismo che annulla tutti i veri problemi e domina l’ateismo non meno della religiosità vaga e informe della nostra epoca. 4 Vedi R. Girard, Il capro espiatorio, tr. it. di C. Leverd e F. Bovoli, Adelphi, Mi­ lano 1987, pp. 305 ss. ’ Matteo 23,34-35 (cfr. Luca 11,49-51).

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Nietzsche è un meraviglioso antidoto contro tutti gli sforzi fondamentalmente antibiblici di trasformare la mitologia in una sorta di Bibbia, impresa sostenuta da tutti gli junghiani di questo mondo, oppure di dissolvere la Bibbia nella mitologia, che è più o meno l’impresa di chiunque altro. Non troviamo nulla nel Nietzsche maturo che ricordi la zuccherosa idealizza­ zione della cultura primitiva iniziata alla fine del XVIII secolo e che siamo riusciti così bene a far tornare di moda. Nel bel mezzo del grande guazzabuglio sincretistico della modernità, Nietzsche ha richiamato l’attenzione sull’opposizione irriduci­ bile tra una visione mitologica fondata sulla prospettiva dei persecutori, e un’ispirazione biblica che tende sin dall’inizio a stare dalla parte delle vittime, con risultati completamente di­ versi da un punto di vista non solo etico, ma intellettuale. Il giudizio di valore che Nietzsche effettua in proposito è comunque indifendibile. Gli strenui sforzi di discolpare il pen­ satore dalle conseguenze del suo stesso pensiero sono mal ri­ posti. Non si può negare che sia stato egli stesso a far rientrare nel giudizio da lui formulato questioni politiche ed etiche, e in un modo che poteva solo incoraggiare le peggiori aberrazioni ideologiche. Si potrebbero presentare centinaia di citazioni che mostra­ no al di là di ogni dubbio come l’estrema testardaggine del fi­ losofo nell’awersare l’ispirazione biblica favorevole alle vittime 10 abbia condotto verso gli atteggiamenti sempre più disumani dei suoi ultimi anni, da lui abbracciati, beninteso più a parole che nei fatti, con un’energia degna di miglior causa. C’è una tendenza da parte dei critici a giocare a nascondi­ no con gli ultimi scritti di Nietzsche, e sarebbe ancora più in­ teressante indagare sull’irresistibile impulso che negli ultimi se­ coli ha condotto così tanti intellettuali ad adottare scale di va­ lori disumane. Nessuno rappresenta tale tendenza con la per­ fezione di Nietzsche, e il risentimento fa sicuramente parte del quadro, come abbiamo già visto. Una cosa essenziale riguardo al risentimento è che alla fine il suo ultimo obiettivo è sempre 11 risentimento medesimo, la sua immagine speculare nascosta sotto una maschera ogni volta lievemente diversa che la rende irriconoscibile.

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Il risentimento è l’interiorizzazione di una vendetta indebo­ lita, e Nietzsche ne soffre così tanto da scambiarlo per la forma originaria e primaria di vendetta. Egli vede il risentimento non solo come figlio del cristianesimo, il che certamente è vero, ma anche come suo padre, il che certamente non è. Il risentimento prospera in un mondo dove la vera vendet­ ta (Dioniso) è stata indebolita. La Bibbia e i Vangeli hanno at­ tenuato la violenza della vendetta e l’hanno trasformata in ri­ sentimento, non perché abbiano origine in quest’ultimo, quan­ to piuttosto perché l’obiettivo che essi intendono colpire è la vendetta in tutte le sue forme, e tali testi sono riusciti soltanto a indebolirla, non a eliminarla. I Vangeli ne sono indiretta­ mente responsabili, ma solo noi ne siamo i responsabili diretti. Il risentimento è la forma in cui lo spirito della vendetta so­ pravvive all’impatto con il cristianesimo, deformando i Vangeli a suo uso e consumo. Nietzsche fu meno cieco al ruolo della vendetta nella cultu­ ra umana della maggior parte dei suoi contemporanei, ma vi era in lui, a dispetto di questo, una rimarchevole dose di cecità. Egli analizzò il risentimento e tutti i suoi effetti con enorme ef­ ficacia, ma non vide che il male da lui combattuto era un male relativamente minore se confrontato con le forme più violente di vendetta. La sua perspicacia fu in parte attenuata dalla quiete ingan­ nevole della società postcristiana in cui viveva. Egli potè pren­ dersi il lusso di provare il risentimento così intensamente da farlo apparire un destino peggiore della vera vendetta, la qua­ le invece, essendo assente dalla scena, non venne mai ostacola­ ta sul serio. Senza pensarci, e non diversamente da tanti intel­ lettuali del suo e del nostro tempo, Nietzsche evocò Dioniso, implorandolo di riportare la vera vendetta quale unico rimedio a ciò che a lui sembrava il peggiore di tutti i destini possibili, quello appunto di farsi divorare dal risentimento. Un atteggiamento così irresponsabile poteva fiorire soltanto in un’epoca fortunata, e in parti privilegiate del mondo dove la reale vendetta si era ritirata a tal punto che il terrore verso di essa era divenuto incomprensibile. Ma le preghiere sincere non sono mai pronunciate invano, e le invocazioni di coloro che de-

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sideravano il ritorno della vendetta sono state infine ascoltate. La vera vendetta è ritornata fra noi sotto forma di ordigni nu­ cleari e altre armi assolute, che hanno ridotto il nostro intero pia­ neta alle dimensioni di un villaggio primitivo su scala globale, terrorizzato ancora una volta dal pericolo di faide sanguinose quanto inarrestabili. La vera vendetta è così spaventosa che nemmeno gli uomini più vendicativi osano scatenarla, sapendo molto bene che, per quante cose tremende essi possano inflig­ gere ai loro nemici, questi ultimi le possono infliggere a loro. Confrontato con tutto ciò, il risentimento e altri malesseri del XIX secolo appaiono veramente insignificanti, o meglio ap­ paiono significativi solo per la rabbia ovunque montante che hanno favorito, e che ha trasformato di nuovo il risentimento in vendetta irrefrenabile, sempre sull’orlo di scatenare le con­ seguenze peggiori. E la realtà stessa che si incarica di dimostrare, in modo sempre più urgente e più ampio, che il messaggio evangelico non può venir impunemente ignorato. Quei pensatori che, co­ me Nietzsche, implorano senza pensarci la vera vendetta, in preda alla smania di liberarsi del loro risentimento, assomi­ gliano ai personaggi stolti delle fiabe che, dopo aver espresso il desiderio sbagliato, si devono amaramente ricredere allor­ ché esso si avvera. Ciò dovrebbe venir visto come un avvertimento, e invece è tranquillamente ignorato da quasi tutti. La maggior parte delle persone continua pedissequamente a ripetere idee del XIX se­ colo, come se il ritorno della vera vendetta nel nostro mondo non fosse ormai un fatto compiuto. Le cose stanno in maniera molto diversa da quello che pensa tutta questa gente: la vera vendetta, almeno per il momento, ha un tale potere di dissua­ sione che, in concreto, nessun cambiamento è avvenuto. È l’e­ normità stessa della minaccia a proteggerci da questa minaccia medesima. Il risentimento è stato abbastanza intenso da gene­ rare un nichilismo intellettuale sempre maggiore, ma non è sta­ to così intenso, finora, da realizzare alla lettera questo nichili­ smo distruggendo la realtà in cui viviamo. La vera vendetta non ha ancora dimostrato concretamente il suo potere sulle nostre vite né mai lo farà, in un certo senso, giac­

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che se lo facesse, non ci sarebbe più nessuno in vita a cui dimo­ strare nulla. Non sopravvivrebbe nessuno a constatare il ritorno della vendetta assoluta come evento centrale del nostro tempo. Il risultato è che si può continuare a pensare in modo irre­ sponsabile, e a fingere che oggi Nietzsche abbia molto da inse­ gnare come maestro di etica o di storia, oppure come filosofo, come modello di qualche “stile di vita”, o qualunque altra cosa di questo genere. Tutto ciò non può mancare di suonare più fa­ tuo e irreale ogni anno che passa, e il prezzo da pagare per que­ sto è il prezzo che ogni epoca storica deve pagare per aver vo­ luto evitare le sue vere questioni: una certa aridità di spirito, e una crescente sterilità in tutte le sue “attività culturali”. I nostri militari amano dare nomi mitologici ai loro missili nucleari: Plutone, Poseidone, Arianna e così via. È un peccato che non siano mai ricorsi proprio al nome di Dioniso, ma que­ sto non è davvero importante. Chi capisce non ha bisogno di indicazioni così letterali, né esse farebbero alcuna impressione su chi non capisce. L’uso contemporaneo della mitologia è più profondo di tutti i giochi mitologici fatti dai nostri filosofi a partire dal Rinascimento. Benché Nietzsche abbia smesso di scrivere assai prima che la sua adesione alla violenza mitica cominciasse a mostrare la sua vera natura, già in lui vi era qualcosa che si opponeva fieramen­ te alla sua impresa spericolata. Analizzando la sua frase «Dioniso contro il Crocifisso» dobbiamo mettere l’accento su quel «con­ tro». In esso si può avvertire un’eco della dura battaglia che il fi­ losofo ha combattuto e infine perso nello strenuo tentativo di as­ sicurare la vendetta di Dioniso sul Crocifisso, eco che possiamo avvertire anche negli aspetti sempre più disumani degli scritti di Nietzsche, nell’obbligo che egli si impose di giustificare persino le peggiori forme di oppressione e di persecuzione. È oggi in atto una campagna generalizzata quanto sconsidera­ ta contro il principio biblico, giudicato in sé perverso, e non in­ vece pervertito dall’ingegnosità sconfinata che gli uomini mostra­ no nel denigrare un messaggio che rivela la loro vera natura. Tale impresa non potrebbe essere portata avanti senza qualche forma di sacro, e non può che trattarsi di quel sacro violento a cui Nietzsche dà il nome di Dioniso. Dal canto suo, anche Heidegger

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ha glorificato il sacro primitivo, pur avvertendo in esso la presen­ za della violenza. Egli attendeva delle epifanie di tale sacro in fu­ turo, senza mostrare alcuna particolare inquietudine riguardo al­ la violenza che lo caratterizza, e questo nonostante ci fossero sta­ ti di mezzo il nazismo e la seconda guerra mondiale. Nei suoi ultimi anni Nietzsche continuò a riportare in vita, a celebrare e modernizzare un numero crescente di aspetti sinistri del sacro primitivo. È mia convinzione che un’evoluzione del ge­ nere sia diventata sempre più intollerabile man mano che si fa­ ceva più radicale, conducendo il filosofo al suo collasso finale. La grandezza di Nietzsche sta nell’essersi totalmente impe­ gnato in una siffatta impresa, pagando letteralmente con la sua vita per questo. Perché le cose arrivassero a tanto, le forze su en­ trambi i lati dovevano essere quasi perfettamente pari. Viene in mente una frase della Bibbia: «È terribile cadere nelle mani del Dio vivente!»6. Paradossalmente, Nietzsche è l’unico pensatore dell’epoca moderna la cui opera ha conseguito ciò che i pensatori cristiani non sono mai riusciti a trovare. Egli ha fatto ciò che questi non hanno mai osato, ha voluto toccare con mano la «spada» che Gesù disse di aver portato78 , la spada distruttiva di ogni ordina­ mento culturale dell’uomo, la spada verso cui nessun essere umano può evitare di sentire avversione e terrore, anche se - o non bisognerebbe dire piuttosto perché? - essa appartiene a ciò che Pascal chiama l’ordre de la charité^. Tale forza distrugge il sacro arcaico attraverso la rivelazione della sua natura violenta, ma finora essa è riuscita solo a ferirlo, trasformandolo in un mostro feroce che ormai minaccia di divo­ rarci tutti. In questa battaglia cosmica i doppi mimetici sono ovunque, ed è facile la tentazione di non vedere nient’altro, di non vedere nell’opposizione di Dioniso e il Crocifisso null’altro che una vacua rivalità mimetica. Questo è quanto Heidegger ha fatto. Heidegger è stato anche

6 Ebrei 10317 Matteo 10,34 (cfr. Luca 22,36). 8 B. PascaI, Oeuvres completes, a c. di J. Chevalier, Gallimard, Paris 1954, pp. 1341-42 (Pensieri, a c. di P. Serini, Torino, Einaudi 1974, pp. 341-42).

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in questo caso la voce di una demistificazione moderna che sma­ schera così tante differenze fasulle da mancare alla fine l’unica vera. Il filosofo ha senza dubbio combattuto dalla stessa parte di Nietzsche, quella che sostiene il sacro arcaico, ma su posizioni meno esposte, meno in anticipo rispetto ai tempi, meno perico­ lose e rivelatrici di quelle nietzschiane. Egli ha avuto successo, almeno per un periodo, nel neutralizzare l’“imprudenza” di Nietzsche in ambito religioso. Tuttavia, col passare del tempo, sarebbe diventato via via più facile capire che la macchina pro­ gettata da Nietzsche, prima di esplodere fra le sue mani, stava ot­ tenendo il contrario di ciò per cui era stata pensata, stava otte­ nendo il trionfo di ciò che avrebbe dovuto distruggere, e la di­ struzione di ciò che avrebbe dovuto far trionfare. È da parecchi anni che io sottolineo il ruolo della violenza collettiva nella genesi del sacro primitivo, e il ruolo della Bibbia nella crescente intelligibilità di tale genesi. Il mio scopo, nel pre­ sente saggio, è mostrare come Nietzsche sia profondamente, an­ che se in modo paradossale, coinvolto in questo processo. Un simile sforzo può facilmente provocare reazioni di scetti­ cismo. Molti lettori sospetteranno che io stia proiettando su Nietzsche una preoccupazione troppo specifica e a me peculia­ re per dare risultati significativi. Ciò che questi lettori potrebbe­ ro rimproverare al mio tentativo non è una pretesa mutilazione di quanto Nietzsche ha “veramente pensato” (che non sembra più interessare a nessuno e in ogni caso nessuno ritiene si possa stabilire), bensì il fatto che non rivela l’autentica fecondità del­ l’opera nietzschiana, ossia il suo possibile contributo alle formu­ le critiche attualmente alla moda. Esiste però un testo, che è sempre stato “alla moda”, e che dà la dimostrazione più clamo­ rosa e inattesa della validità del mio approccio. La reazione generale al tema dell’drrdrrzwzo collettivo di Dio assomiglia alla confusione e alle beffe che accolgono l’uomo fol­ le di Nietzsche allorché si rivolge ai suoi contemporanei andan­ do al mercato. Questo pazzo che non ha nome accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: «Cerco Dio! Cerco Dio!». E poi­ ché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non crede­

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vano in Dio, suscitò grandi risa. «È forse perduto?» disse uno. «Si è perduto come un bambino?» fece un altro. «Oppure sta ben na­ scosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?» - gridava­ no e ridevano in una gran confusione.9

Questo è l’inizio del passo più famoso della Gaia scienza, l’aforisma 125. Anche oggi, e forse soprattutto oggi, chiunque sfiori questo argomento intoccabile dell’assassinio collettivo di Dio si trova in una posizione curiosamente simile a quella che qui viene descritta. Dopo oltre un secolo nulla è veramente cambiato, specialmente in quegli ambienti accademici che già allora non mostrarono di apprezzare Nietzsche più di quanto Nietzsche apprezzasse loro. Ma i miei lettori sono troppo attenti ai testi, sono troppo colti, attenti, riflessivi e accurati, e soprattutto troppo abili ed esperti nell’interpretazione testuale per rimanere scandalizza­ ti o comunque sorpresi dal modo informale in cui io mi voglio appropriare dell’aforisma in questione. Non saranno loro a contestarmi il diritto di farlo, perché essi devono aver notato la straordinaria somiglianza di contenuto, se non di forma, tra la mia insistenza alquanto noiosa sul significato religioso del­ l’assassinio collettivo e l’analoga insistenza di questo brano enigmatico. Ecco il primo proclama dell’uomo folle: Dove se n’è andato Dio? - gridò - ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo·, voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma co­ me abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare be­ vendolo fino all’ultima goccia?...

A partire dalla fine del Settecento, cominciando da Jean Paul e arrivando a Victor Hugo e oltre, i pronunciamenti sulla morte di Dio si sono moltiplicati ogni anno che passa, e oggi i suoi tardivi profeti formano probabilmente la moltitudine più

9 F. Nietzsche, Opere, cit., vol. V, tomo II, La gaia scienza, Idilli di Messina e Frammenti postumi (1881-1882), tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1967, libro III,

af. 125, p. 129.

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vasta che si sia mai raccolta nella nostra storia intellettuale. Ciò che ognuno è andato annunciando, ovviamente, è che il Dio bi­ blico sta morendo di vecchiaia. Si tratterebbe, in altre parole, di una morte più o meno naturale. Quasi tutti credono che il testo di Nietzsche si riferisca esclusivamente all’ateismo moderno. L’ateismo fa senza dub­ bio parte della storia, ma ne è solo una parte, e anche alquan­ to enigmatica, dal momento che l’aforisma nietzschiano rigetta con parole del tutto esplicite proprio la nozione che ognuno cerca di trovarvi, la nozione di Dio inteso come qualcosa di ve­ ramente infantile e insignificante, di cui gli uomini hanno un po’ alla volta imparato a fare a meno, ora che sono diventati più “maturi” e avanzati su cose fondamentali come l’elettricità e più di recente i computer10. Invece di questo graduale affievolimento di Dio, che si ma­ nifesterebbe senza alcuna violenza o dramma particolare, Nietzsche vede la scomparsa di Dio come un orrendo assassi­ nio al quale ogni uomo ha partecipato: «Siamo stati noi ad uc­ ciderlo·. voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini!». «Ma se Dio non è mai esistito, se non vi è nulla che corri­ sponda a Dio, com’è possibile allora che venga ucciso?». Questa è la domanda che solo un lettore disinformato può osa­ re rivolgere e, come avviene di solito con i grandi testi, si trat­ ta di una domanda molto più intelligente di tutti i quesiti filo­ soficamente “informati”. Il punto è che gli dèi non devono esistere realmente per es­ sere uccisi e, di fatto, se non vengono prima uccisi, essi non esi­ steranno mai. Contrariamente agli esseri ordinari, che possono esistere solo se non vengono assassinati, gli dèi cominciano a esistere come dèi, perlomeno agli occhi degli uomini, soltanto dopo essere stati uccisi. In tutto il testo, la frase così abusata «Dio è morto» appare un’unica volta, ed è seguita da un insistente ritorno sul tema degassassimo collettivo di Dio, come se Nietzsche avesse di colpo afferrato la differenza tra la logora nozione della “mor-

10 Come direbbe Rudolf Bultmann, il teorizzatore della demitizzazione biblica.

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te” di Dio, intesa quale spettacolo osservato passivamente, e l’energica azione che aveva in mente, il crimine collettivo che pare materializzarsi all’improvviso dal nulla. Egli sembra aver avvertito che il crimine collettivo fosse l’i­ dea più potente ma anche quella più difficile da comunicare, un’idea che sarebbe stata osteggiata ed elusa con la più grande energia. Bisognava dunque dare alla cosa maggior enfasi, e Nietzsche lo ha fatto, fino a includere una macabra descrizio­ ne dell’assassinio collettivo di Dio: Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dis­ sanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatòri, quali giuochi sacri dovremo noi inventare?11

Le prime due frasi sono tutto ciò che abbiamo nel testo che assomigli al vecchio tema della morte di Dio, ma questo agli occhi di tutti i commentatori è motivo bastante per non farselo sfuggire e per mettere una volta di più l’inoffensivo cliché al posto di ciò che Nietzsche sta realmente dicendo. I riferimenti al sangue, ai coltelli e al detergere il sangue, ci ri­ portano per forza di cose al primo annuncio dell’uomo folle. Dio non è morto di morte naturale, ma a causa di un’uccisio­ ne collettiva. E il crimine è così grande che nuove feste di purificazione e nuovi giochi sacri dovranno essere inventati. Non v’è dubbio che appariranno nuovi rituali. Le conseguenze dell’assassinio di Dio sono dunque religiose, squisitamente religiose. Proprio l’azione che sembra porre termine al processo religioso è in ef­ fetti l’origine di quel processo, la sua ricapitolazione completa, il processo religioso per antonomasia. Queste nuove feste e questi nuovi giochi sacri certamente ripeteranno l’assassinio collettivo di Dio. Saranno riti sacrificali. La morte di Dio è in realtà la sua nascita. 11E Nietzsche, La gaia scienza, cit„ libro III, af. 125, p. 130.

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Se Dio è sempre il risultato del suo assassinio collettivo, questo testo non afferma allora che la morte degli dèi equivale alla loro vita e che la vita degli dèi equivale alla loro morte? Che cos’è questa sorta di eterno ritorno della religione? È in grado Nietzsche di spiegarlo? Quando si tocca ciò che tutti chiamano impropriamente la morte di Dio, si cita sempre quest’unico testo, ma nessun rife­ rimento viene fatto alla sostituzione dell’assassinio di Dio con la solita morte pacifica. La cosa è delle più singolari. Sulla “morte di Dio” questo è solo uno fra gli innumerevo­ li testi a cui prima mi riferivo, ma è il più memorabile, e indi­ scutibilmente l’elemento più nuovo in esso consiste nel rim­ piazzare questo motivo con la morte per assassinio. Eppure, gli ammiratori dell’aforisma nietzschiano, che vi si riferiscono sempre come al più grande testo sull’argomento, lo fanno met­ tendo ogni volta la loro propria idea della morte di Dio al po­ sto della più misteriosa uccisione di cui parla Nietzsche. La verità è che l’aura di questo testo è inseparabile dalla sua forza drammatica, e anche qui, come nella tragedia greca e ovunque, la forza drammatica è basata sull’uccisione collettiva della divinità. Il genio di Nietzsche conduce il suo testo verso l’autentica origine del religioso. Studiosi assolutamente rispettabili, persone che non toc­ cherebbero il mio assassinio collettivo con una pertica lunga tre metri, citano il brano di Nietzsche a preferenza di qualsiasi altro, ma dai loro commenti non traspare la minima consape­ volezza del tema degassassimo. Costoro non sembrano accor­ gersi del piccolo, curioso sviluppo che rende questo testo di­ verso da tutti gli altri, anche se è questa diversità a guidare la lo­ ro preferenza. Essi vedono tale diversità come una differenza - manco a dirlo - puramente estetica, e io aggiungerei che qui si tratta in effetti della differenza estetica per eccellenza. Anche oggi, al­ lorché si cita questo filosofo, si diffonde una certa aria di ecci­ tazione. In modo “quasi” del tutto innocente e comunque del tutto inconsapevole, l’assassinio collettivo di Dio diventa un’a­ zione anche nostra. Noi siamo invitati a prendervi parte. È una sorta di versione avanguardistica dell’Eucarestia, un sacrificio

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simbolico che non ha ancora completamente esaurito la sua ef­ ficacia rituale perché il suo significato non è percepito. Certuni hanno tentato di trasferire l’efficacia del testo di Nietzsche al­ la “morte dell’uomo” e adesso alla morte della scienza, della verità e di quasi qualunque altra cosa, ma costoro non si ren­ dono conto che è di “assassinio” che dovrebbero parlare ogni volta, e che senza di questo il pharmakon sacro dell’aforisma nietzschiano, ossia il veleno che è nello stesso tempo il sinistro rimedio12, è già evaporato. Nelle interpretazioni correnti l’aforisma 125 funziona nello stesso identico modo dell’assassinio collettivo, che oggi rimane nascosto dietro il tema di una morte interamente “naturale” e pacifica, un evento spogliato di qualsiasi drammaticità, una morte priva di storia. Il testo sulla morte di Dio funziona come un’ulteriore uccisione di Dio, a patto che tale tema rimanga non percepito. Anche questa epifania testuale del divino è il prodotto di un assassinio collettivo di secondo grado, che gli assassini non sono consapevoli di aver commesso. «Quest’azione è ancor sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!». Heidegger ha dato quello che è considerato da molti come il commento “definitivo” di questo brano. Il suo saggio è ap­ parso separatamente dalla voluminosa opera da lui dedicata a Nietzsche13, e il titolo dello scritto mostra chiaramente lo sfor­ zo di reinserire Nietzsche nella tradizione da cui il testo della Gaia scienza vuole distaccarsi, una tradizione a cui Heidegger è a tutti gli effetti tornato. Il titolo è quanto mai prevedibile: «La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”»14. È importante a questo punto osservare che, a parte la ter­ minologia impiegata, i pronunciamenti di Heidegger sul futu­ ro della religione in generale sono una continuazione dello

12 R. Girard, La violenza e il sacro, tr. it. di O. Fatica e E. Czerkl, Adelphi, Mila­ no 1992, p. 138. 15 Μ. HEIDEGGER, Nietzsche, Klostermann, Frankfurt a.M. 1961 (Nietzsche, a c. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994). 14 Μ. HEIDEGGER, Sentieri interrotti, a c. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1977, pp. 191 ss.

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storicismo del XIX secolo. Come Victor Hugo o qualunque altro idealista dell’Ottocento, Heidegger sentiva che la morte di una religione ormai esausta, quella biblica, avrebbe con­ sentito la nascita indipendente di qualche nuova divinità, una nascita che non avrebbe avuto alcun legame con la morte dell’odiato Dio biblico. Heidegger ha spesso parlato in tono misterioso di qualche dio che dovrebbe apparire in un indeterminato futuro. Nei mo­ menti di buonumore egli gentilmente elargiva la promessa di qualche nuovo tipo di divinità ai suoi ammiratori con propen­ sioni teologiche - ne aveva parecchi - in attesa ansiosa e reve­ renziale dell’ultima parola “dall’alto dei cieli” circa il futuro di un personaggio evidentemente non altrettanto quotato: Dio. Non c’era bisogno di leggere il saggio di Heidegger per pre­ vedere che il pensatore tedesco poteva solo seppellire la forza drammatica dell’uomo folle di Nietzsche sotto il peso schiac­ ciante della sua pedanteria filosofica. E così è stato infatti. Secondo Heidegger l’annuncio dell’uomo folle significherebbe in realtà «la fine del sovrasensibile di tipo platonico». Dopo questo annuncio mozzafiato, non ci si può aspettare da uno come Heidegger che noti una cosa insignificante come l’as­ sassinio collettivo di Dio. Un pensatore superiore anche a Nietzsche, uno che è veramente andato oltre il sovrasensibile di tipo platonico è più che giustificato a non curarsi di un così evi­ dente ornamento retorico. Heidegger ha scritto che, sebbene nessun dio specifico sia menzionato, il solo dio al quale Nietzsche può e deve alludere è il Dio cristiano, ed è una precisazione che si adatta bene al resto del saggio. Anche se Heidegger energicamente protesta che la sua interpretazione non ha nulla a che fare con 1’“ ateismo volga­ re” che è stato così spesso letto in questo testo, devo confessare che la differenza non mi è molto chiara. Mettere al primo posto la “morte di Dio”, così intesa, nell’a­ nalisi di questo testo, come fa Heidegger, significa cadere nella stessa trappola in cui sono caduti tutti gli altri. Tutti gli dèi sono enti (Seiende) dotati di una certa durata di vita storica, trascorsa la quale devono morire, a differenza dell’Essere (Sein). Ora che il crepuscolo del Dio biblico è finalmente arrivato, in modo ana-

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logo al crepuscolo e alla morte degli dèi pagani precedenti come ad esempio Dioniso, potranno benissimo far la loro comparsa dèi interamente nuovi. Heidegger pensava di poter riconoscere il suo stesso pensiero nel brano della Gaia scienza, ma aveva tor­ to. Avrebbe fatto meglio, dal suo punto di vista, a non fidarsi di questo testo esattamente come ha fatto con quello di Dioniso contro il Crocifisso. Dal punto di vista dell’ortodossia moderni­ stica l’uno non è meno pericoloso dell’altro. Ma il pensiero di Nietzsche era davvero così differente da quello di Heidegger, specialmente nel 1882? Forse in termini espliciti non lo era, ma nello scrivere l’aforisma, nel passare dalla morte di Dio al suo assassinio, Nietzsche deve aver sentito l’enor­ me, improvviso aumento del potenziale simbolico di cui veniva a disporre. Era come un dono inaspettato degli dèi, e Nietzsche non era il tipo di scrittore da rifiutare un dono del genere. Il fatto che egli abbia compiuto il passaggio dalla morte al­ l’uccisione suggerisce che la vera base, l’ultimo fondamento di ciò che diventerà più tardi il confronto e l’opposizione tra Dioniso e il Crocifisso fosse già una preoccupazione per lui, una preoccupazione che sembra raramente diventare visibile - anche se un’analisi più dettagliata potrebbe forse mostrare altrimenti ma che dev’essere stata assolutamente carica di significato per generare un testo grande ed enigmatico come l’aforisma sull’uc­ cisione collettiva di Dio. La fondazione finale resa possibile dall’assassinio collettivo di Dio naturalmente coincide con quel martirio di Dioniso di cui è riconosciuta l’identità col martirio di Gesù nel frammento di Dioniso contro il Crocifisso. Non vi è differenza tra que­ st’intuizione a due facce e la definizione della scomparsa di Dio nel nostro mondo come esempio ulteriore di quel martirio. Ciò non vuol dire affatto che tutti questi assassinii possano essere messi sullo stesso piano. Una medesima intuizione domina i due testi che abbiamo letto, un’intuizione che non è mai stata più forte nella mente di Nietzsche come nell’imminenza del crollo conclusivo, quando la formula «Dioniso contro il Crocifisso» è stata cambiata in «Dioniso il Crocifisso». Ciò non significa, in questa fase avanzata, che Nietzsche stia

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rinunciando alla differenza da lui guadagnata a vantaggio di un appiattimento positivista, ma che la differenza di Dioniso per cui egli ha lottato sta entrando in crisi e crollando nell’indifferenziazione da cui era precedentemente emersa. L’aforisma 125 della Gaia scienza esprime una prima indif­ ferenziazione, incredibilmente creativa e simbolicamente poli­ valente nel suo tendere al significato essenziale dell’assassinio di Dio. Se noi crediamo, con Heidegger, che solo il Dio cri­ stiano sia presente in questo testo, noi non capiremo mai la sua enorme ricchezza di significati. Il testo interagisce con l’ucci­ sione di Dio a diversi livelli primari che tendono a contami­ narsi gli uni con gli altri, ma che ciò nonostante possono esse­ re logicamente distinti fra loro. Il livello più evidente riguarda la moderna cancellazione del­ l’assassinio collettivo di Dio; un po’ sotto viene l’assassinio col­ lettivo degli dèi pagani come forza generatrice della loro esisten­ za, e ancora più sotto viene il livello più difficile di tutti, la Passione di Gesù, che non può essere la morte del Dio cristiano nel senso degli dèi pagani fatti nascere dalla loro morte, ma che può veramente rappresentare la morte di tutti gli altri dèi nel senso banale che abbiamo in mente quando parliamo di “morte di Dio”. Certo bisogna anche aggiungere che questi dèi pagani sono “duri a morire”, o piuttosto rinascono continuamente in opere come quella di Nietzsche. Che dobbiamo fare con quest’autentico vortice di assassinii collettivi? Allo scopo di assicurarci che il discorso dell’uomo fol­ le abbia il significato a più livelli che ho detto, ascoltiamo qual­ cuno che certamente folle non è, almeno non secondo il vange­ lo teorico attuale, il grande Sigmund Freud. Non molti anni dopo la stesura della Gaia scienza, Freud pensò di aver scoperto che tutte le feste di purificazione ed espiazione, tutti i giochi sacri, tutti i riti religiosi dell’umanità, hanno il loro fondamento nell’uccisione collettiva di qualche ve­ ra vittima che gli uomini chiamano Dio... I miei lettori aggrotteranno le sopracciglia. Sì, lo so, non è il testo di Freud che dovrebbe essere citato. I nostri maìtres-à-penser non ne hanno una grande opinione. Si tratta di un’anomalia imbarazzante. Essi sono sinceramente convinti che Freud abbia

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avuto un momento di smarrimento quando lo ha scritto, e con determinazione lo espungono dalla parte migliore della sua ope­ ra. Freud è stato davvero come l’uomo folle della Gaia scienza. Egli ha osato parlare di un soggetto tabù, l’assassinio collettivo di Dio. Questa è la sola ragione per cui Totem e tabù è stato sco­ municato e posto completamente al bando. Come oggigiorno ci sono “non-persone”, allo stesso modo ci sono anche “non-libri”, che non devono venir mai menzionati, anche se essi risultano ap­ partenere all’opera di autori consacrati. L’aforisma 125 è stato trattato in maniera assai differente da Totem e tabù: esso è stato posto in un santuario e dichiarato sa­ cro. Ma una simile idolatria è solo il travestimento di una sco­ munica, e i risultati ce lo mostrano con eloquenza. L’osser­ vazione di Nietzsche sull’assassinio collettivo di Dio è ignorata esattamente come l’opera di Freud. La scomunica e la consa­ crazione sono due modi opposti di conseguire un unico fine, quello di prevenire qualunque percezione del fatto che Freud e Nietzsche si trovano enigmaticamente vicini nell’affrontare il problema di Dio. Dato che su tutto il resto i due testi sono estremamente lontani l’uno dall’altro, il loro sovrapporsi ri­ guardo al tema fondamentale dell’assassinio collettivo di Dio dovrebbe dare alimento alla ricerca e al pensiero. Invece non lo fa. Come mai? Rivolgiamoci a Nietzsche per rispondere a tale domanda. Egli conosce benissimo la risposta. Noi non siamo ancora pronti, noi non siamo mai pronti per una vera indagine sul­ l’argomento: «Vengo troppo presto - proseguì - non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomi­ ni. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuo­ le tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state com­ piute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è ancor sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta'.».

Nietzsche, la decostruzione, e la moderna preoccupazione per le vittime1

Uno degli argomenti più banali, più triti e abusati del no­ stro tempo è la nostra grande preoccupazione per le vittime e la vittimizzazione, il nostro assillo costante nei confronti della violenza e della persecuzione. Da secoli ormai questo tema è presente nella nostra cultura, ma è in anni recenti che è diven­ tato pervasivo fino all’ossessione, un’ossessione che nell’intero Occidente domina in misura crescente non solo le Chiese, le università e i mezzi di comunicazione, ma anche i sistemi lega­ li e politici, arrivando ad abolire le barriere che si supponeva­ no rigide fra cultura d’élite e cultura popolare. Perfino i ricorsi più sensazionali alla violenza tendono oggi a mascherarsi da virtuose battaglie in difesa delle vittime. Ogni questione politica ed etica è ridefinita secondo una visuale di questo tipo, come ad esempio il dibattito sull’interruzione vo­ lontaria della gravidanza. Discussioni poste in termini di ragione e di torto sono spesso rimpiazzate da rivendicazioni fatte in ter­ mini vittimari: chi è la prima vittima, la madre oppressa dal far­ dello della maternità, o il bambino che non vedrà mai la luce? Nel momento stesso in cui sfruttano con avidità questo in­ teresse verso le vittime, i mezzi di comunicazione si prendono anche gioco dell’attuale abuso della “vittimologia”, e grazie a 1 Versione modificata di Nietzsche, Deconstruction, and the Modem Concern for Victims, conferenza tenuta all’Università di Stanford (California) il 14 aprile 1996 (Nietzsche, la decostruzione, e la moderna preoccupazione per le vittime, a c. di G. For­ nati, “Ars Interpretandi”, 4 (1999), pp. 35-51).

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questa satira superficiale prevengono qualunque seria critica delle loro pratiche. Essi discutono di tale preoccupazione co­ me di un aspetto banale della nostra cultura, una semplice in­ fatuazione. Ma anche se la fatuità della maggior parte dei di­ scorsi sull’argomento è abbastanza lampante ed è certo legitti­ mo criticarla, non per questo la moderna preoccupazione per le vittime può essere ridotta a una moda effimera. Benché siano spesso evidenti e irritanti, gli aspetti negativi di tale ossessione non andrebbero mai esaminati separatamen­ te da quelli positivi, che non sono meno evidenti. Per la prima volta nella storia umana, ad esempio, l’aiuto per le calamità vie­ ne dato su scala mondiale, e quasi senza considerare i prece­ denti trascorsi di amicizia o di ostilità fra donatori e beneficia­ ri. Pochi vorranno negare che questa sia una conseguenza po­ sitiva della nostra sollecitudine per le vittime. È vero, naturalmente, che i paesi più ricchi tendono ancora a favorire le vittime a loro più affini da un punto di vista etni­ co e culturale, ed è giusto condannare tale preferenza ma, solo un secolo fa, l’intera questione sarebbe stata impensabile. L’idea che le nazioni dovrebbero trattarsi a vicenda in modo fraterno non è nuova, dal momento che fa parte della morale cristiana, ma, fino a tempi recenti, tale idea ha avuto poche ri­ cadute pratiche nella storia, se mai ne ha avute. Adesso invece le ha, per quanto limitate possano essere, e questo cambia­ mento rientra in ciò che io intendo per preoccupazione mo­ derna verso le vittime. Ma i popoli arcaici non erano preoccupati per le vittime co­ me lo siamo noi? Probabilmente essi lo erano, tuttavia la loro preoccupazione era limitata ai compagni di tribù, a una vera manciata di persone dunque, e consisteva primariamente nel dovere della vendetta, che però moltiplica senza fine le vittime, mentre noi vi siamo categoricamente contrari. La nostra preoc­ cupazione per le vittime si traduce in una costante battaglia contro la vendetta, battaglia che è evidentemente lontana dal­ l’essere vinta, e che forse non lo sarà mai, ma è un fatto che la percentuale di coloro che in tutto il mondo considerano la ven­ detta come un’azione vergognosa, piuttosto che come un sacro dovere, cresce da secoli e sta ancora crescendo.

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E che dire a proposito delle grandi civiltà? Se esaminiamo le civiltà storiche di tutto il mondo, dall’antica Grecia e dal­ l’impero romano fino alla Cina imperiale o al Giappone feuda­ le o, per quanto riguarda le Americhe, alle civiltà precolom­ biane, non troviamo nulla che sia anche solo lontanamente pa­ ragonabile alla nostra sollecitudine verso chi subisce violenza. L’idea che le vittime abbiano dei diritti in quanto tali era al­ trettanto estranea a un mandarino cinese come a un procura­ tore romano. Tutto questo è innegabile, eppure, alla maggior parte di noi, il nostro mondo appare incredibilmente insensibile e crudele, indifferente alle vittime che è accusato di moltiplicare a dismi­ sura. La maggior parte di noi ha una sensazione di fallimento totale, che cerchiamo di dimostrare con argomenti storici ma, se siamo onesti, dobbiamo ammettere che questa dimostrazio­ ne non può essere davvero fatta. In base a criteri di pura og­ gettività storica, il nostro mondo non può essere considerato come un fallimento in confronto alle società del passato. Per quanto poco si faccia nel nostro mondo per impedire la soffe­ renza umana o per alleviarla quando si verifica, i nostri sforzi umanitari sono visibilmente più grandi di qualunque altra ci­ viltà del passato. Non dovremmo vergognarci di noi stessi, e tuttavia un sentimento di vergogna persiste. Ogni volta che ci indigniamo della nostra insensibilità ab­ biamo la tendenza a stigmatizzarla come se, in qualche punto dello spazio e del tempo, fosse esistita una fantomatica società enormemente superiore alla nostra nel rispettare le vittime, una società che non le provocava, non le escludeva, non le per­ seguitava, non le discriminava. Tale mondo esente da vittime, e capace di far sfigurare il no­ stro al confronto, è tanto impossibile da individuare sulla carta geografica quanto il perfetto Eldorado del Candido di Voltaire. Voltaire ha infatti inventato il suo paese mitico non perché vo­ lesse promuovere una sua personale utopia, che egli non pren­ de minimamente sul serio, ma per la ragione opposta. Nello scrivere Candido egli scoprì l’impossibilità di trovare nel mon­ do reale il controesempio di cui noi avremmo assolutamente bi­ sogno per una più efficace condanna della nostra società occi-

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dentale. Ciò che è vero oggi era già vero nel XVIII secolo. La nostra indignazione morale non può giustificarsi da un punto di vista storico, e però non sarà questa constatazione a ridurla al silenzio. Anche se il nostro mondo sta facendo più di qualsiasi altro nell’alleviare le sofferenze, sta facendo penosamente poco rispetto a ciò che potrebbe e dovrebbe essere fatto. Questo è quanto sentiamo, e la ragione del nostro senti­ mento è palese. La nostra preoccupazione vittimaria è un im­ perativo morale a noi peculiare. Anche quando lo seguiamo malvolentieri o lo disattendiamo cinicamente, non riusciamo mai a dimenticarlo del tutto: esso ci mette sufficientemente a disagio per dare la colpa, se non a noi stessi, perlomeno alla gente intorno a noi che consideriamo più potente e quindi re­ sponsabile della situazione, soprattutto i nostri governanti, s’intende, e poi la nostra società nel suo insieme. Vi è un mistero morale in tutto questo, un mistero che Voltaire non ha investigato a fondo, avvertendo forse fin trop­ po bene dove l’avrebbe condotto una seria riflessione sull’ar­ gomento. Questo è il motivo per cui egli ha trasformato Candido in una sorta di scherzo paradossale, in una commedia, senza dubbio meravigliosa, sul meno comico di tutti i soggetti, la deplorevole inefficacia della nostra sollecitudine verso le vit­ time. Quello in cui viviamo è il mondo che salva il maggior nu­ mero di vittime ma, a causa dei nostri ostinati conflitti e dei mezzi di distruzione sempre più potenti di cui disponiamo, il nostro è anche il mondo che le moltiplica quasi all’infinito, co­ sa per cui noi ci disprezziamo. Ma anche nel caso che la nostra sollecitudine fosse puramen­ te retorica e ipocrita, la sua unicità la renderebbe pur sempre un grande enigma antropologico. Se voi chiedeste alla gente qual è l’origine di tale atteggiamento, gli interrogati risponderebbero probabilmente citando l’illuminismo, la nascita dello spirito scientifico, la ribellione moderna contro gli aspetti antidemocra­ tici e superstiziosi della cultura tradizionale... È stato Nietzsche a dare una risposta diversa e, a mio avvi­ so, ben più profonda. Egli è stato il primo ad asserire che la no­ stra preoccupazione verso le vittime non è semplicemente un aspetto fra i tanti della nostra società, bensì il suo aspetto più

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caratteristico ed essenziale. Il pensatore tedesco ha ricondotto senza esitazioni questo atteggiamento al nostro retaggio giu­ daico e cristiano, interpretando l’illuminismo come un partico­ lare momento nello sviluppo di tale tradizione, e non come una sua reale rottura. Quanto Nietzsche ha scoperto non è che il giudaismo e il cri­ stianesimo condannano le persecuzioni, cosa che non sarebbe per nulla una scoperta dato che chiunque l’ha sempre saputo, ma che, nel contesto delle religioni antiche e arcaiche, il giudai­ smo e il cristianesimo sono unici. Sono queste le sole religioni che categoricamente condannino la violenza e le persecuzioni. Il giudaismo e il cristianesimo assomigliano molto ai miti perché contengono il loro stesso schema di violenza collettiva, ma rovesciandone il significato. Invece di approvare il linciag­ gio di chi è preso di mira dal gruppo, invece di essere d’accor­ do con i linciatori, la tradizione giudaico-cristiana afferma che le vittime di cui involontariamente ci parlano i miti dovrebbero essere risparmiate, e così tutte quelle dello stesso tipo. Nei cul­ ti arcaici e pagani, al contrario, sacrificare delle vittime è sem­ pre la cosa giusta da fare. Tutte le religioni normali nel mondo antico approvano, quand’è ritenuto necessario, l’assassinio in­ teso come atto rituale, come immolazione sacrificale. Il giudai­ smo biblico e profetico e il cristianesimo disapprovano questa stessa cosa, rendendo di conseguenza un po’ più difficile per noi, ordinari esseri umani, il sacrificarci l’un l’altro. Secondo Nietzsche, Dioniso e i culti di tipo dionisiaco auto­ rizzano e raccomandano la persecuzione non solo nei loro riti sacrificali, ma anche nella violenza socialmente sancita com’è il caso della schiavitù, o nella loro completa mancanza di conside­ razione per il benessere e la sopravvivenza delle classi oppresse. Quando il giudaismo e il cristianesimo riabilitano le vittime odiate senza una causa (cfr. Giovanni 15,25), insorgono contro lo spirito dionisiaco, che è veramente lo scatenarsi della vio­ lenza collettiva, lo spirito omicida delle masse che effettuano arbitrariamente un linciaggio allorché perdono completamen­ te l’autocontrollo, sotto l’influenza, come si credeva, del dio. La preoccupazione verso le vittime ci appare come qualco­ sa di universalmente umano, e noi automaticamente assumia-

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mo che sia condivisa da tutte le altre culture, e questo solo per­ ché le Chiese cristiane sono andate inculcandola in noi per duemila anni, al punto che la sua assoluta singolarità nel con­ testo delle passate religioni pagane non è più visibile. Noi non realizziamo più quanto siano unici, se non sempre i nostri com­ portamenti concreti, perlomeno i nostri valori religiosi. Si può facilmente constatare come la diagnosi di Nietzsche sia, nell’essenziale, accurata. Come tutte le grandi acquisizioni nel campo delle scienze umane, che sono ancora nella loro in­ fanzia, ciò che Nietzsche ha scoperto è evidente, eppure è rima­ sto non percepito per duemila anni. Questo pensatore commise soltanto uno sbaglio, ma uno sbaglio terribile, che rovinò la gran­ dezza della sua scoperta. L’intensità del suo odio per la tradizio­ ne giudaica e cristiana, anziché fargli riconoscere che la preoc­ cupazione per le vittime è il segno della sua superiorità e unicità, l’ha portato a considerarla, in modo perverso, come qualcosa di vergognoso e malvagio. Egli deliberatamente rifiutò la posizione giudaico-cristiana e sostenne apertamente, al suo posto, la vio­ lenza e la follia di Dioniso e di tutti gli dèi del suo tipo. L’opera di Nietzsche è estremamente difficile da valutare per il suo essere nello stesso tempo molto più e molto meno per­ spicace, molto più esatta e molto più erronea di qualunque al­ tra intuizione riguardante il nostro atteggiamento verso le vitti­ me. Non fu solo il suo pregiudizio antireligioso a distoreere la sua concezione, fu anche la consapevolezza, assai più profonda, che le società umane, in tutte le epoche storiche, sono state fon­ date sulla vittimizzazione arbitraria e che, una volta private dei sacrifici rituali che prendono origine dalla fondazione sacrifica­ le, la vita sociale viene minacciata da disordini di ogni genere. Lungi dall’essere estremamente avventuroso come egli di solito si ritiene, Nietzsche rifiutò così l’avventura unica in cui il nostro mondo è impegnato, quella del rifiuto dei meccanismi persecutori tipici di tutte le religioni arcaiche e delle società su di esse fondate. Egli si rifiutò di partecipare alla preparazione di ciò che i Vangeli chiamano «il Regno di Dio», ossia un’uma­ nità senza più vittime. Nietzsche ha sostenuto l’abbandono della nostra tendenza antisacrificale a favore del ritorno a un paganesimo di vecchio

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stampo, per il quale molti intellettuali moderni sentono una grande nostalgia. Il pensatore tedesco coltivò la speranza che la pietà giudaica e cristiana verso le vittime fosse un semplice caso storico, che forse avrebbe potuto essere eliminato. Data la sua concezione p.er cui tutti i fenomeni storici sono relativi e passeggeri, egli credeva che la propensione di giudaismo e cri­ stianesimo verso le vittime potesse essere vulnerabile allo spe­ ciale tipo di critica da lui escogitato, e vigorosamente pratica­ to. Accelerare il crollo del nostro mondo così a torto compas­ sionevole, questo è il compito che egli si è prefissato. Per raggiungere tale scopo Nietzsche elaborò un metodo esegetico che chiamò il suo martello, tanto era convinto dei suoi distruttivi poteri2. Questo metodo è diventato famoso ai nostri giorni sotto il nome di genealogia, una delle parole pro­ prie di Nietzsche fatte tornare di moda da Michel Foucault. Per il loro tipo di analisi post-nietzschiana al vetriolo, Jacques Derrida e i suoi seguaci ricorrono invece a un altro termine, de­ costruzione, che è una versione meno brutale del termine che Heidegger usa per indicare la medesima cosa, Destruktion. Noi tutti sappiamo in che cosa consiste la genealogia nietzschiana del cristianesimo e della sua pietà per le vittime. È una sorta di marxismo alla rovescia, che interpreta il cri­ stianesimo come il risultato di una lotta fra gli aristocratici e le classi inferiori. Nietzsche riconduce la compassione cristia­ na a quella che chiama “morale da schiavi”, che secondo lui non è che il risentimento democratico delle masse oppresse. Egli interpreta la preoccupazione verso le vittime come l’ar­ ma di una volontà di potenza troppo debole per imporsi apertamente e con audacia. Il periodo storico in cui Nietzsche visse assistette alla fase iniziale, alquanto modesta se confrontata con quanto sta avve­ nendo nel nostro mondo, di ciò che è oggi chiamato «politicamente corretto», uno sfruttamento spesso disgustoso della no­ stra preoccupazione vittimaria. Nietzsche odiava questa per­ versione a tal punto da scambiarla per l’autentica essenza del 2 Una delle sue ultime opere si intitola Crepuscolo degli idoli ovvero come si filoso­ fa col martello (1888).

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cristianesimo. È questa una delle ragioni - io credo - del suo grande odio per giudaismo e cristianesimo. Per Nietzsche, in definitiva, non esiste una cosa come l’au­ tentica compassione; ci sono solo le parodie degli intriganti del «politicamente corretto». Il filosofo negò la possibilità di una sensibilità per le vittime che, anziché essere una strategia del ressentiment, fosse genuina. Quasi tutti i nostri nietzschiani contemporanei sostengono che Nietzsche non abbia nulla a che fare con il nazismo. Egli è descritto come un pensatore umano e benigno che, se avesse visto l’uso che i nazisti hanno fatto delle sue idee, ne sarebbe rimasto inorridito, cosa alla quale posso ben credere. È un fat­ to, però, che la genealogia nietzschiana della visione antisacri­ ficale di giudaismo e cristianesimo ha fornito ai nazisti esatta­ mente l’incoraggiamento di cui avevano bisogno per muoversi con audacia nella direzione da loro intrapresa. Affermare che i nazisti abbiano completamente frainteso Nietzsche è una distorsione palese della verità. È anche vero naturalmente che, in qualche caso, le vedute del filosofo sono diverse fino al punto dell’incoerenza. Nietzsche è precisamen­ te quel pensatore reattivo che Gilles Deleuze pensava non fos­ se. Egli sovente attacca in un testo una posizione che difende in un altro, allorché è ripudiata da qualcuno da cui non voglia veder compromessa la sua originalità. Nietzsche non poteva sopportare che altri esponessero le sue stesse idee e, come mol­ ti scrittori polemici, è pieno di contraddizioni. Su giudaismo e cristianesimo, la cui interpretazione costi­ tuisce il cuore della sua dottrina se mai ce n’è uno, il Nietzsche maturo comunque non ha mai avuto oscillazioni, e i nazisti non erano così stupidi da non assimilare l’unica idea di questo pen­ satore a cui fossero realmente interessati, quella secondo cui il maggior pericolo della tradizione giudaico-cristiana è la sua misericordia verso le vittime. Secondo il filosofo preferito dai nazisti, l’atteggiamento cristiano soffoca la volontà di potenza delle persone effettivamente superiori e impedisce loro di rea­ lizzare se stesse: il più grande servizio che possa essere reso pertanto alla nostra civiltà è affrettare la fine del valore cristia­ no numero uno, appunto la sua preoccupazione per le vittime.

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Il nazismo è il tentativo di realizzare un programma a cui Nietzsche, certo, non ha mai dato esecuzione pratica, ma che la sua opera non poteva mancare di suggerire a discepoli come i nazisti, specialmente dopo che costoro acquisirono l’enorme potere politico e le risorse materiali che li misero in grado di prendere il filosofo alla lettera, convertendo la sua decostruzio­ ne puramente verbale in una più concreta distruzione. Ciò che contraddistingue il regime nazista anche rispetto ai più violenti episodi della nostra storia è il suo sforzo titanico di capovolgere le cose per quanto riguarda le vittime. I precetti ebraici e cristiani sono sempre stati onorati più violandoli che rispettandoli, ma ciò nondimeno hanno sempre avuto qualche influenza restrittiva, che i nazisti hanno invece voluto annien­ tare, e Nietzsche ha sicuramente avuto un ruolo nel concepire e legittimare tale impresa. La meta da raggiungere era un mondo in cui la volontà di potenza nazista non dovesse più subire alcuna restrizione reli­ giosa ed etica. Allo scopo di scoraggiare la preoccupazione per le vittime, allo scopo di farla cadere nell’oblio, i nazisti decise­ ro di affogarla sotto montagne di cadaveri, sotto un diluvio di vittime arbitrarie. Essi deliberatamente intesero dimostrare che questa preoccupazione non aveva alcuna influenza reale nel nostro mondo, che poteva essere impunemente e massic­ ciamente ignorata, e per ragioni così esili che il suo prestigio ne sarebbe stato cancellato per sempre. Nietzsche è importante per la comprensione non solo di quanto c’è di meglio, ma anche di quanto c’è di peggio nel no­ stro mondo. Se, anziché ciecamente adorare o esecrare tale filo­ sofo, riflettessimo un poco sul suo pensiero religioso, compren­ deremmo che esso rivela qualcosa che eluderà sempre le analisi degli storici convenzionali, l’essenza spirituale del nazismo, che non è realmente politica bensì culturale, anzi religiosa. I nazisti potrebbero presentare se stessi come i fedeli se­ guaci di Nietzsche che effettivamente sono, di null’altro desi­ derosi che di rimpiazzare la spregevole “morale da schiavi” con la religiosità “dionisiaca”. Se guardiamo al Dioniso di Euripide nelle Baccanti possiamo constatare che i nazisti anda­ rono vicini allo spirito di questo dio più di quanto i nostri clas-

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sicisti siano disposti ad ammettere, più vicini dello stesso Nietzsche, che lodò la violenza come un fenomeno di tipo este­ tico, ma fu probabilmente lontano dall’immaginarne la con­ creta realtà. Se leggessimo le Baccanti onestamente, riconosceremmo su­ bito in Dioniso il nome che sta per la frenesia collettiva, che permette a esseri umani normalmente tranquilli di unirsi a una folla linciatrice, diventando quasi senza rendersene conto assas­ sini. Se apriamo un dizionario di greco possiamo vedere che la parola che indica lo spirito dionisiaco, mania, realmente signifi­ ca furia omicida. Di questa mania i raduni di Norimberga e i campi di sterminio sono una modernizzazione più autentica della Nascita della tragedia e delle nostre interminabili perdite di tempo teatrali e accademiche intorno agli antichi baccanali. Anche un normale uomo della strada dell’Atene classica sa­ rebbe stato capace di prevedere ciò che i nostri migliori stu­ diosi ancora non sono in grado di intendere, ossia il tragico de­ stino che attendeva Nietzsche. Scegliere Dioniso come il pro­ prio ideale spirituale e abbracciarlo senza riserve come Nietzsche ha fatto, al di fuori delle prescritte cautele rituali, si­ gnifica veramente corteggiare la follia omicida, spargere i semi del disastro che alla fine Nietzsche ha mietuto. Lungi dall’essere accidentale e non correlato con la sua fi­ losofia, il crollo psichico di Nietzsche ha un significato spiri­ tuale che dev’essere riconosciuto, esattamente come nel caso di Hölderlin, poeta non a caso da lui prediletto. Si tratta dell’ine­ vitabile risultato della rotta seguita da questo filosofo, della ri­ sposta alla sua esplicita preghiera di essere folle, che è formu­ lata nel modo più eloquente in Aurora. Un’incipiente pazzia è inseparabile dal genio di Nietzsche, e il progresso verso la con­ sumazione finale della sua follia visionaria può essere colto nel­ la successione delle sue opere che, di anno in anno, si fanno sempre più vicine alla clinica megalomania di Ecce homo. Le conseguenze disastrose delle idee di Nietzsche sulla sua stessa vita sono sufficientemente evidenti. Volerle negare è un atto di disonestà intellettuale, a mio parere, una banalizzazione della sua personale tragedia, nonché una grave cecità alla tra­ sparente lezione che dev’essere tratta da quella complessa me­

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scolanza di genio e pazzia che in particolare le sue ultime ope­ re incarnano. Questa negazione dell’evidenza priva questo sventurato fi­ losofo delle sole circostanze attenuanti a cui abbia veramente diritto. La principale cosa che può essere detta in sua difesa mi sembra - è che egli era in senso eminente un apprendista stregone. Come la grande maggioranza dei nostri contempora­ nei, il pensatore tedesco ha separato il linguaggio dalla realtà, e ha finito col non credere in nulla. L’indifferenza del pubbli­ co alla sua opera e la sua disperata solitudine, sommandosi al­ la sua grave rivalità verso Wagner, rafforzarono in lui la ten­ denza a dubitare del potere delle sue stesse parole, ed egli se­ gretamente considerava la propria violenza verbale come insi­ gnificante. Quando il filosofo abbracciò Dioniso nel suo aspet­ to più sinistro, ho il sospetto che egli non abbia del tutto com­ preso quali forze stava per scatenare, o far scatenare. Nietzsche non ha preso le proprie parole abbastanza sul serio. Bisognerebbe invece dargli il credito che merita. Egli ha scoperto l’elemento più caratteristico del nostro mondo, la sua preoccupazione verso le vittime, e l’ha riportato alla sua vera origine, l’abbandono della violenza religiosa attuato da giudai­ smo e cristianesimo. Per quest’unica ragione Nietzsche do­ vrebbe essere considerato il più grande pensatore religioso del XIX secolo. Tuttavia, anziché dire di sì all’incredibile avventu­ ra in cui avrebbe potuto giocare una parte, egli disse di no, pre­ ferendo tuffarsi a capofitto nell’orrendo neopaganesimo che fu l’essenza anche del nazismo e che è ancora in agguato, io temo, nel culto di Heidegger per Hölderlin e nella sua religiosità pa­ gana, che traspare dalla famosa profezia dell’intervista a Der Spiegel·. «Ormai solo un dio ci può salvare». Questo dio non ha evidentemente nulla a che fare con il Dio di Abramo, di Mosè e di Gesù. I nazisti hanno avuto successo nel demoralizzare la nostra sollecitudine verso le vittime, ma non l’hanno estinta visto che, con la seconda guerra mondiale, sono stati sconfitti. Non solo questa sollecitudine è pienamente sopravvissuta all’ordalia na­ zista, ma ne è stata rafforzata. Indiscutibilmente essa si riflette più che mai non solo nella nostra cultura e nel nostro linguag-

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gio, ma anche nella nostra realtà storica. L’indebolimento del­ le entità nazionali chiuse in se stesse e basate sull’espulsione degli estranei, fenomeno corrispondente a ciò che oggi viene chiamato globalizzazione, è inseparabile dall’intensificarsi di tale atteggiamento. La sua vittoria è inseparabile dalla crescen­ te unione del mondo contemporaneo, come pure dalla sua cre­ scente disunione. Ogni progresso rispetto alle forme arcaiche di violenza collettiva suscita fatalmente reazioni negative da parte di coloro che si sentono privati della protezione in tal modo fornita alle comunità chiuse di un tempo. È evidente perciò che, al contrario di quanto Nietzsche cre­ deva e di quanto credono anche i nostri genealogisti e decostruzionisti, vi è almeno un fenomeno storico nel nostro mon­ do che non può venir decostruito: la nostra preoccupazione verso le vittime. Nella visione dei nostri decostruzionisti, com’è noto, qua­ lunque cosa sia storica e culturale è il frutto di una costruzio­ ne umana che può essere demistificata, e, dal momento che appartiene a una ben precisa cultura, non può avere un valo­ re universale: presto o tardi sarà gettata nel bidone delle spaz­ zature della storia, e il progetto dichiarato di costoro è di ac­ celerare questo processo di decomposizione storica seguendo l’esempio di Nietzsche. Il nostro establishment accademico vorrebbe così contribuire all’igiene intellettuale e spirituale del nostro mondo, distaccandoci da credenze che sono neces­ sariamente infondate, soprattutto, com’è logico, quelle reli­ giose e morali. Ma che dire della nostra preoccupazione verso le vittime? È indiscutibilmente storica, e altrettanto indiscutibilmente reli­ giosa, eppure né la critica genealogica di Nietzsche né i più si­ nistri tentativi dei nazisti hanno avuto successo nel cancellare o anche soltanto indebolire questo fenomeno unico. La nostra sollecitudine verso le vittime resiste a tutti i tentativi di demi­ tizzazione. Essa è, per così dire, a prova di decostruzione. Per Nietzsche e il suo metodo genealogico questo dovreb­ be essere il test decisivo, e se la dottrina nietzschiana non lo supera, essa allora non merita l’enorme prestigio di cui anco­ ra gode presso i nostri relativisti e nichilisti. I nostri nietz-

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schiarii contemporanei affermano che tutto il retaggio spiri­ tuale e culturale del passato è obsoleto, e che intorno a noi ri­ mangono solo gli scheletri fossili dei dinosauri della metafisi­ ca che loro, da quei giganti decostruttivi che sono, possono far crollare in mille pezzi a un minimo tocco del loro dito migno­ lo. Ma che dire allora della nostra pietà per le vittime? Posti di fronte a essa, questi feroci giganti si trasformano in adora­ tori devoti. Il loro nichilismo si ferma solamente davanti a questo valore particolare. Giudico tutto ciò incoraggiante da un punto di vista uma­ no, e mi congratulo di cuore coi nostri decostruzionisti e ge­ nealogisti per non aver continuato l’attacco nietzschiano con­ tro la sensibilità moderna verso chi è debole e indifeso; tutta­ via io trovo il loro atteggiamento vieppiù sconcertante da un punto di vista filosofico. Il silenzio su questo punto cruciale è indubbiamente assai facile da capire sotto il profilo politico e pratico. I decostru­ zionisti sono consapevoli che il fallimento di Nietzsche in que­ st’ambito è senza rimedi. Essi nemmeno alludono mai a questo particolare aspetto del loro maestro che, prima della seconda guerra mondiale, era di gran lunga il più importante agli occhi dei suoi seguaci, e nemmeno vogliono attirare la nostra atten­ zione sul fatto che, circa questo punto essenziale, essi assumo­ no un atteggiamento diametralmente opposto a quello di un pensatore da loro considerato quasi infallibile. Agli occhi di Nietzsche la nostra preoccupazione per le vit­ time è il più vistoso rottame del nostro parco demolizioni spi­ rituale. Agli occhi dei nostri decostruzionisti questa stessa preoccupazione ha evidentemente connotazioni positive. Come spiegare una simile incoerenza? Dobbiamo credere che, dopo tutto, uno dei nostri valori non sia il risultato di una co­ struzione storica? Il dilemma è chiaro. O la nostra preoccupazione per le vit­ time può venir decostruita, in perfetto accordo col nostro rela­ tivismo e nichilismo ufficiali, oppure questa stessa preoccupa­ zione non può esserlo, e la sua invulnerabilità la mette allora in una categoria a parte. Non può essere messa sullo stesso piano, ad esempio, del potlatch degli Indiani d’America, o della scola-

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stica medievale, o dell’esaltazione romantica della natura, o di qualunque altro dei nostri passeggeri valori culturali. Come possiamo spiegare questo singolare rispetto dei decostruzionisti per il valore che il loro mèntore filosofico disprez­ zava di più? Possiamo considerarlo come l’unica eccezione che conferma la regola? Ma il radicalismo dichiarato della deco­ struzione esclude proprio questa possibilità. Un’unica eccezio­ ne all’efficacia della decostruzione suona come una diagnosi in­ fausta per l’intera impresa. Una sola eccezione è perfino peggio che diverse eccezioni, giacché corrisponde a ciò che i pensato­ ri tradizionali hanno sempre chiamato VAssoluto, l’unico valo­ re rispetto al quale qualsiasi altra cosa diventa insignificante. La preoccupazione per le vittime possiede tutti i requisiti di un ge­ nuino Assoluto. Essa può sostenere ogni assalto; è l’unico prin­ cipio invulnerabile a ogni forma di scetticismo. Se risulta anche solo un singolo valore che non può venir decostruito, nulla rimane della famosa vanteria dei nostri decostruzionisti e genealogisti di aver sconfitto e annientato tutti i valori del nostro mondo. Questo stato di cose è tanto più stupefacente in considera­ zione del fatto che la preoccupazione per le vittime, come ho osservato prima, non è sempre stata presente fra noi, specialmente nella sua forma attuale. Si tratta di un fenomeno storico palesemente radicato nella nostra tradizione religiosa, proprio come dichiarato da Nietzsche, e dovrebbe perciò essere vulne­ rabile alla decostruzione in una misura eminente. Il suo statu­ to privilegiato in un’epoca in cui tutti gli assoluti, specialmen­ te quelli di origine storica, si ritengono screditati è un mistero che i decostruzionisti dovrebbero chiarire al più presto, o al­ trimenti la loro “teoria” verrà inevitabilmente scaricata tra i ri­ fiuti della storia, distrutta senza rimedio dall’invincibile pietra d’inciampo del giudaismo e del cristianesimo. La nostra preoc­ cupazione per le vittime è una rivelazione storica nel senso del­ la nostra Rivelazione religiosa. Nietzsche ha davvero ragione, si tratta proprio della nostra rivelazione giudaica e cristiana. E come potrebbe Nietzsche aver torto? Su chi potranno fare af­ fidamento i nostri decostruzionisti, se su di lui non potranno più farlo?

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Non appena siamo consapevoli di questo, possiamo ri­ scontrare molti indizi attestanti l’estrema pertinenza dell’ana­ lisi nietzschiana. Se esaminiamo la nostra storia alla luce della sensibilità vittimaria, rapidamente scopriamo che essa in ef­ fetti precede l’epoca moderna e che l’intera storia dell’occidente è definibile nei termini di un graduale emerge­ re di tale atteggiamento. Le prime manifestazioni della preoccupazione per le vitti­ me precedono l’illuminismo e la nascita della scienza moderna di molti secoli, ed erano prima di tutto religiose, come le ope­ re di carità degli ordini monastici che portarono alla creazione spontanea o invenzione di quelli che chiamiamo ospedali. L’elemento più caratteristico dell’ospizio medievale è che i malati, i poveri, i derelitti vi erano ammessi indipendentemen­ te dalla loro identità sociale o nazionale. La medesima cosa è vera, almeno in linea di principio, per i moderni ospedali, la cui ispirazione fondamentale appare essere sempre la sollecitu­ dine verso chi è bisognoso di aiuto. Se guardiamo all’evoluzione della società medievale e mo­ derna, al modo in cui le nostre istituzioni politiche e giudizia­ rie si sono trasformate, e con esse il nostro sistema penale e i nostri atteggiamenti sociali, se pensiamo a sviluppi come la fi­ ne della schiavitù e della servitù della gleba, e se pensiamo, an­ cora, al lento ma continuo progresso verso l’uguaglianza sotto le leggi, allora possiamo capire come, per quanto possa essere flebile in tutti i concreti esempi storici a nostra disposizione, sia la preoccupazione verso le vittime il vero comun denomi­ natore nell’evoluzione del mondo moderno... Grazie a tale preoccupazione l’intero progetto di trovare un senso nella no­ stra storia può diventare, ancora una volta, significativo. Il no­ stro mondo dev’essere interpretato non nei termini di un “pro­ gresso” automatico nello stile del XIX secolo, bensì in quelli di una sollecitudine verso le vittime che non è mai pura, natural­ mente, né mai esente da conseguenze negative, dal momento che inevitabilmente smantella le protezioni delle società arcai­ che e tradizionali, ma la cui forza dinamica, ciò nondimeno, non può mai venir fermata e invertita, com’è dimostrato dalla sconfitta del nazismo.

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Sarò facilmente accusato di tracciare un quadro più roseo del dovuto, ed è vero che ho sottolineato il lato ottimistico, ma se ho fatto così è per la generale tendenza, oggigiorno, a dipin­ gere il nostro mondo con le tinte più fosche. La ragione di que­ sto è che vogliamo svegliare i nostri contemporanei dal loro sonno apatico, e mobilitare loro, non meno di noi stessi, in fa­ vore delle vittime. In altre parole il nostro assillo per le vittime può spiegare persino il nostro rifiuto a riconoscere che, sebbe­ ne si faccia molto meno di quanto dovremmo, stiamo tuttavia facendo qualcosa, e che il quadro non è così nero come ce lo raffiguriamo di solito. La ragione per cui le ideologie “rivoluzionarie” hanno po­ tuto sedurre così tanta gente per così tanto tempo è stato il lo­ ro prendere in prestito la preoccupazione religiosa verso i de­ boli e i perseguitati, dalla quale veniva tutta la loro forza. La ra­ gione per cui Jean-Paul Sartre è stato un marxista, ad esempio, è che ai suoi occhi il marxismo era il solo modo in cui le vitti­ me potevano essere aiutate. Quando divenne innegabile che, lungi dall’aiutare le vittime, i regimi ispirati al marxismo le hanno prodigiosamente moltiplicate, l’impero comunista è a sua volta crollato, mezzo secolo dopo il nazismo, e la forza at­ tiva presente dietro il marxismo è ora diventata visibile in for­ ma non più adulterata, ed è la pura preoccupazione per le vit­ time che adesso ha esplicitamente rimpiazzato, nel nostro lin­ guaggio, tutte le ideologie rivoluzionarie. Se questo è vero, è anche vero che, presto o tardi, il nostro pensiero dovrà, ancora una volta e in un modo che forse sarà irresistibile, tornare alla tradizione religiosa a lungo eclissata dallo scientismo e dalle ideologie, una tradizione che sta silen­ ziosamente aspettando, e di cui Nietzsche è stato l’involonta­ rio, paradossale profeta.

Nietzsche e il destino della cultura europea1

Molti Europei hanno l’impressione di girare in tondo, at­ torno a un centro svuotato della sua sostanza. Le loro culture nazionali non sanno più dove vanno. Il senso di malessere e di fallimento che vive l’Europa evi­ dentemente proviene dalle due guerre mondiali, e dalle conse­ guenze spirituali che esse hanno avuto, conseguenze che, anzi­ ché migliorare, mostrano col tempo la tendenza ad aggravarsi. È questo malessere che vorrei adesso tentare di definire. Esso mi sembra ruotare attorno a una questione che è nello stesso tempo enorme e precisa, antichissima e nuova: la que­ stione delle vittime. Il secolo dal quale veniamo ha moltiplica­ to le vittime, e l’Europa s’interroga sulla propria responsabilità in questo fenomeno. La preoccupazione verso le vittime, ecco qual è la tematica dominante del nostro tempo. Non è sicuramente da poco che tale atteggiamento si è dif­ fuso nel mondo occidentale ma, con il tempo, il suo peso si è fatto sentire in modo più acuto, rovesciando certi punti di vi­ sta tradizionali. Qualche secolo fa, allorché si interrogavano sul perché della violenza, gli uomini preferivano attribuirla alla na­ tura o alle bestie feroci, alle catastrofi naturali, ai demòni e per­ sino a Dio, piuttosto che a se stessi. La loro propria violenza, almeno in parte, restava loro nascosta. 1 Versione modificata di Le souci moderne des victimes, conferenza tenuta presso la Fondazione Gulbenkian a Lisbona nel maggio 1998 (La preoccupazione moderna per le vittime, a c. di G. Fornati, “Filosofia e Teologia”, 2 (1999), pp. 223-36).

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Nel XX secolo, per varie ragioni, tutti gli sforzi che abbia­ mo continuato a produrre per espellere la violenza si sono ri­ torti contro di noi, e ormai vediamo bene come la minaccia non venga dal mondo esterno, bensì da noi stessi. Siamo noi che minacciamo le specie animali, Tintera natura, e soprattutto i nostri simili. Il nostro mondo è più ossessionato dalle vittime che qua­ lunque altro in passato. Ci sono le vittime che ci rimproveria­ mo di fare, quelle che ci rimproveriamo di lasciar fare, quelle che promettiamo di non fare, e soprattutto quelle che ci rim­ proveriamo reciprocamente di fare. Ci rinfacciamo volentieri le vittime, ed è soprattutto per loro tramite che ci attacchiamo a vicenda. Possiamo pensare a una facile ipotesi per renderci conto della situazione particolarissima che stiamo vivendo. Un im­ maginario osservatore che venisse tutto a un tratto a sentire i nostri discorsi senza sapere nulla della nostra storia, ne con­ cluderebbe senza dubbio che, nel passato, dev’essere esistita almeno una società estranea alla violenza che noi ci rimprove­ riamo, una società così abile nell’evitare conflitti da diventare il punto di riferimento indispensabile di ogni giudizio di con­ danna sul nostro mondo. Ma è chiaro che un simile Eldorado non è mai esistito. Noi non disponiamo di alcun termine di confronto, tuttavia facciamo finta di credere che ve ne sia uno. Noi ci condanniamo dall’alto di un ideale che fingiamo di cre­ dere sia sempre stato quello dell’umanità intera, quando è evi­ dente al contrario che esso è soltanto nostro. La preoccupazione per le vittime in quanto tali è un feno­ meno specificamente moderno. Le comunità arcaiche e tradi­ zionali si prendevano cura delle proprie vittime interne, ma non si preoccupavano assolutamente delle vittime estranee. La nostra attitudine è unica nella storia dell’intero pianeta, ma è a fatica che ce ne accorgiamo tanto essa ci appare ormai natura­ le e inevitabile. Gli universi culturali diversi dal nostro condividevano tal­ mente poco la nostra preoccupazione per gli esclusi e gli op­ pressi che non si biasimavano nemmeno per la loro indiffe­

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renza. L’ideale di una società senza violenza ci appare indi­ scutibile, eppure non si è imposto che in un’epoca assolutamente recente. Parlando come sto facendo, posso dare senza dubbio l’im­ pressione di minimizzare i crimini della nostra società, e di cer­ care di diminuire l’orrore che essi devono suscitare. Non è af­ fatto questa la mia intenzione. Abbiamo evidentemente delle buone ragioni per condannarci, ma ci nascondiamo la vera na­ tura di tali ragioni. Per meritare il disprezzo che ci ispira, il no­ stro mondo deve avere, di fronte alle vittime, delle responsabi­ lità superiori a quelle delle società che l’hanno preceduto. L’ipotesi più verosimile è che il nostro mondo sia dominato da una specie di comando che gli viene specificamente rivolto, ma che preferirebbe non ascoltare. Eppure esso ascolta questo co­ mando, e vi risponde, ma in una misura che non è sufficiente, ed è di tale insufficienza che ci rimproveriamo. Le generazioni di poco precedenti alla nostra sentivano già questa ingiunzio­ ne, ma più debolmente ancora di noi. Man mano che il tempo passa l’ingiunzione si fa più insistente, ma la nostra risposta re­ sta inadeguata e incoerente, quando non è addirittura peggio­ re, deplorevole, mostruosa. Prima di noi e delle generazioni a noi immediatamente precedenti non c’è mai stato nulla, in tut­ to il mondo, che avesse una somiglianza vicina o lontana a un fenomeno siffatto, a ciò che io chiamo la preoccupazione mo­ derna per le vittime. Da dove viene questa sollecitudine così singolare? Certamente non dalla filosofia greca. È sufficiente leggere il Platone delle Leggi per rendersene conto. Tale sollecitudine non può venire che dalla nostra tradizione religiosa giudaica e cristiana. Bisogna riconoscere l’avverarsi di una celebre frase evangelica, secondo cui il sangue di tutte le vittime versato sin dalla fondazione del mondo andrà a ricadere su questa genera­ zione. È tale profezia che alla lettera si sta realizzando. Una volta, ad esempio, si scriveva la storia nella prospettiva dei vin­ citori, oggigiorno si cerca di scriverla nella prospettiva dei vin­ ti, ossia delle vittime. Non è affatto necessario venerare la Bibbia per scoprire

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l’origine biblica della preoccupazione per le vittime. Il pensa­ tore responsabile di questa scoperta è infatti Nietzsche, ostile quanto nessun altro alla tradizione giudaica e cristiana. Il suo testo maggiormente rivelatore è il frammento già ci­ tato della primavera del 1888, a mio avviso una delle punte più alte, se non la più alta, del suo pensiero: Dioniso contro il “Crocifisso”: eccovi l’antitesi. Non è una diffe­ renza in base al martirio - solo esso ha un altro senso. La vita stes­ sa, la sua eterna fecondità e il suo eterno ritorno determinano la sofferenza, la distruzione, il bisogno di annientamento... Nell’altro caso il dolore, il “Crocifisso in quanto innocente” val­ gono come obiezione contro questa vita, come formula della sua condanna.2

Dietro i comandamenti morali della nostra religione Nietzsche percepisce qualcosa d’essenziale, la morte violenta di Gesù, la persecuzione collettiva, che gioca un ruolo altret­ tanto centrale nei miti dionisiaci e nei grandi miti fondatori dell’intero pianeta, solo che, nella mitologia, la violenza non è ritenuta da condannare, ma anzi appare legittima poiché la vit­ tima risulta colpevole. Nei Vangeli e in numerosi testi biblici la vittima è invece riconosciuta innocente. Nietzsche ha scoperto due cose: la prima è che i Vangeli raccontano una violenza collettiva analoga a quella che narra­ no anche i miti dionisiaci come molti altri miti; la seconda è che i due tipi di testo non raccontano questa violenza colletti­ va nella stessa maniera. I miti considerano la violenza della fol­ la un’azione giusta e legittima, e la vittima vi fa sempre, in un modo o nell’altro, la figura del colpevole; i Vangeli, al contra­ rio, considerano questa un’azione ingiusta e illegittima, giac­ ché riconoscono la demenza irrazionale che è propria delle folle umane. Nietzsche ha qui trovato la vera differenza cristiana e giu­ daica rispetto ai miti. Io penso sia questa differenza, che oggi si riverbera su tutte le violenze della nostra storia, a determi2 E NIETZSCHE, Frammenti postumi 1888-1889, cit., 14 [89], p. 56.

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nare ciò che io chiamo la preoccupazione moderna verso le vittime, la volontà di sottrarre l’umanità a una violenza carat­ teristica non di certe società solamente ma del sociale nella sua stessa essenza. Tutte le società umane si basano su delle espulsioni, su delle esclusioni, la cui violenza viene giustifica­ ta dai miti. I testi biblici ed evangelici condannano questa me­ desima violenza. Ma le nostre scienze sociali non tengono in alcun conto il religioso. Esse non hanno dunque ancora appreso ciò che il ge­ nio di Nietzsche aveva capito oltre un secolo fa. Disgraziatamente per noi e per lui stesso, il filosofo del su­ peruomo, invece di entusiasmarsi per il progetto di un mon­ do senza vittime, invece di mettersi al suo servizio, vi ha op­ posto il rifiuto più assoluto, più isterico. Ritengo che nella fol­ le condanna di ciò che costituisce la vera grandezza della no­ stra cultura Nietzsche si sia votato alla pazzia, finendo per au­ todistruggersi. Benché debole e perennemente malato, Nietzsche non per­ de mai l’occasione di fustigare la protezione dei deboli e dei malati che è tipica della nostra società. Autentico Don Chisciotte della morte, egli condanna ogni misura in favore dei diseredati o dei gruppi etnici tardivamente coinvolti nello svi­ luppo moderno. Nella preoccupazione per le vittime il pensa­ tore tedesco non vuole vedere che un fattore di accelerazione della decadenza. Nemico alla fin fine della propria stessa sco­ perta, Nietzsche sposa in tal modo tutti i cliché reazionari del­ la sua e della nostra epoca. Egli riduce la preoccupazione moderna per le vittime a quella che chiama la “morale da schiavi”, radicata in ciò che pensa essere il risentimento sociale dei primi cristiani, la loro volontà segreta di distruggere il potere degli aristocratici. La tesi è troppo palesemente falsa per meritare una confu­ tazione. Lungi dal comportare una perdita di vitalità, la preoc­ cupazione verso i perseguitati e gli esclusi accresce le energie del nostro mondo. La società più dinamica del nostro tempo, quella americana, è interamente composta da coloro che Nietzsche condannava a un’esistenza inferiore. Per confutare la teoria nietzschiana è sufficiente rileggere, alla luce di quanto

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avviene nella nostra epoca, la famosa iscrizione sulla Statua della Libertà all’ingresso del porto di New York: «Give me your tired, your poor, your tempest-tossed, your huddled mas­ ses yearning to be free, the wretched refuse of your teeming shores» («Datemi le vostre masse stanche, povere, sballottate dal mare e accalcate, anelanti a essere libere, i miseri rifiuti del­ le vostre coste brulicanti»). Il vero problema di Nietzsche è che egli condivideva con la maggior parte degli intellettuali del suo e del nostro tempo la passione per i rilanci ideologici irresponsabili, gli stessi che hanno condotto alle illusioni totalitarie. Sventuratamente per lui e per noi, egli non era circondato solo da intellettuali inca­ paci di azioni concrete al pari di lui. Tra i nietzschiani di prima cova c’erano degli autentici forsennati, di quelli che giocano ai pensatori moderni il peggior tiro che possano fare loro, quello di prenderli alla lettera, ed è quanto hanno fatto i nazisti nei confronti di Nietzsche. Questa sventura non è capitata sola­ mente a questo filosofo, ma a molti altri pensatori rivoluziona­ ri grandi e piccoli, da Karl Marx a Jean-Paul Sartre nonché a molti altri. Non sono sicuramente gli intellettuali i principali responsa­ bili dei grandi massacri del XX secolo, ma la loro responsabi­ lità è ciò nonostante reale, e di tutti questi massacri il più gra­ vido di implicazioni per gli Europei, quello che pesa di più sul­ la loro coscienza collettiva e sul loro inconscio è la distruzione sistematica del giudaismo attuata dal regime hitleriano. È indiscutibile che nella genesi dell’olocausto l’antisemiti­ smo tradizionale dei paesi cristiani abbia giocato un ruolo im­ portante. Ma su questa deplorevole base, del tutto in contrad­ dizione con l’autentico messaggio cristiano, è venuto a combi­ narsi e sovrapporsi qualcosa di nuovo e di affatto insolito. Benché priva di finalità razionali, l’impresa nazista fu razional­ mente e rigorosamente concepita ed eseguita. Certo, nulla è più comune dei massacri nella storia umana, ma essi nascono generalmente nel fuoco dell’azione, e sono il frutto di una ferocia più o meno spontanea. Quando essi sono premeditati, è comunque perché rispondono a dei calcoli a breve termine e di interesse assai limitato.

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L’impresa hitleriana è altra cosa. Contrariamente a quanto dicono molti commentatori, preoccupati di perpetuare l’in­ fluenza di Nietzsche nel nostro mondo, io penso che per com­ prendere tale impresa in profondità sia necessario riportarla al­ le idee di questo filosofo, e riconoscervi uno sforzo titanico per realizzare mediante la violenza reale, fisica, quanto Nietzsche voleva realizzare con la sola violenza filosofica: sottrarre prima la Germania, e poi l’umanità intera, alla vocazione che ci è con­ segnata dalla nostra tradizione religiosa, quella che definisco come preoccupazione moderna verso le vittime. Il tentativo attuato dal regime nazista dà una smentita spet­ tacolare alla descrizione che ho fatto di questa vocazione, ma non bisogna concluderne per questo che tale vocazione non sia reale. Tutt’altro. Questa smentita è deliberata, e costituisce quello che c’è di originale e terribile nell’impresa hitleriana, la sua volontà di cambiare l’attitudine di fondo della nostra so­ cietà. Tale volontà non fa che un tutt’uno col progetto di ritor­ no al paganesimo che il nazismo rivendica, e che presuppone l’annientamento dell’influenza giudaica e cristiana. Organiz­ zando un immenso massacro il nazismo intendeva dimostrare che, lungi dall’essere dominate per sempre dalla preoccupa­ zione per le vittime, la Germania e l’Europa erano ancora ca­ paci di sacrificare tante vittime quante erano necessarie per la ripaganizzazione dell’Occidente. Durante la guerra il regime hitleriano, per ovvie ragioni, si è sforzato di dissimulare il genocidio che stava compiendo. Se avesse trionfato, io credo che l’avrebbe reso pubblico, allo sco­ po di convincere il mondo che la sollecitudine verso le vittime non è il vero senso della nostra storia. Estirpare dall’anima eu­ ropea tale sollecitudine, ecco qual era il progetto dell’hitlerismo nell’ordine spirituale. Il movimento nietzschiano del dopoguerra, decostruttore e «politicamente corretto», ci assicura che Nietzsche sarebbe stato inorridito da quest’interpretazione del suo pensiero, e questa è una cosa oltremodo possibile. Tuttavia ciò non toglie che egli abbia scritto certi testi che fanno di lui il vero teorico del nazionalsocialismo:

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L’individuo fu tenuto dal cristianesimo così importante, posto in modo così assoluto, che non lo si potè più sacrificare·, ma la specie sussiste solo grazie a sacrifici umani... [...] Questo amore univer­ sale è in pratica un trattamento preferenziale per tutti i sofferenti, falliti, degenerati: esso ha in realtà abbassato e indebolito la forza, la responsabilità, l’alto dovere di sacrificare uomini. [...] La vera filantropia vuole il sacrificio per il bene della specie - è dura, è piena di autosuperamento, perché abbisogna del sacrificio del­ l’uomo. E questo pseudoumanesimo che si chiama cristianesimo, vuole giungere appunto a far sì che nessuno venga sacrificato..}

L’ultimo Nietzsche afferma che il cristianesimo toglie al mondo moderno la forza e la bellezza che la pratica del sacrifi­ cio umano procurava al paganesimo: impedendo ai popoli di espellere i rifiuti umani che li indeboliscono, esso li rende a suo avviso malati e malsani... Per raggiungere lo scopo di affogare nel sangue la preoccu­ pazione moderna verso le vittime il regime hitleriano dispone­ va di risorse incomparabilmente più grandi di quelle di un po­ vero filosofo sulla strada della follia. Ma la cosa essenziale è che, a dispetto dei milioni di vittime che ha provocato, l’im­ presa hitleriana è miseramente fallita. Anziché soffocare nell’Europa del dopoguerra l’assillo per le vittime, essa l’ha enormemente rafforzato, ed è questo rafforzamento che dà al­ la nostra cultura con temporanea il suo carattere più specifico. Il nazismo è fallito nel suo principale progetto, eppure il suo fallimento non è totale, poiché ci ha demoralizzato proprio ri­ guardo a quello che non è riuscito a distruggere dell’anima eu­ ropea, ovvero la nostra preoccupazione verso le vittime. Dopo più di mezzo secolo, il nazismo sembra vendicarsi della sua sconfitta con lo scoraggiare e devitalizzare la civiltà occidentale. Ritengo che ci siano due tipi di reazione sbagliata ai dram­ mi terribili vissuti dall’Europa nel XX secolo. Il primo consiste nel negare l’enormità, la mostruosità degli avvenimenti che ho appena evocato; tale reazione si sforza di confondere le carte in tavola, e di dimenticare il prima possi­ bile ciò che è accaduto, rifiutandosi di affrontare onestamente 3 Ivi, 15 [110], pp. 257-58.

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la crisi della nostra civiltà. È questa la linea seguita da certi pensatori, soprattutto conservatori, che rifiutano qualunque esame autocritico. Il secondo tipo di reazione è inverso al primo, e consiste nel respingere la cultura europea come se fosse stata interamente solidale con lo sforzo hitleriano di modificarne la definizione, di tradirne l’essenza fondamentale. Si immagina che la preoc­ cupazione per le vittime sia un’invenzione del tutto recente, una rivolta spontanea degli uomini d’oggi contro l’ignominia di tutta la storia passata, grazie all’apparizione improvvisa di una nuova generazione infinitamente superiore alle preceden­ ti. La nostra generazione avrebbe fatto questo da sola, perché prima di lei non ci sarebbero state che menzogna, corruzione e sopraffazione. Questo rifiuto della memoria storica, con l’arroganza che ingenera, è pericoloso per l’avvenire stesso della cultura euro­ pea: esso rischia di riportare le antiche violenze in nome di ideali che si credono completamente nuovi, ma che in realtà si collegano al recente passato. La nuova generazione dovreb­ be comprendere che quanto vi è di migliore in essa, la volontà di non fare vittime, affonda le sue radici proprio in ciò che tende a ripudiare, ossia la tradizione religiosa e culturale dell’occidente. A partire dagli anni Sessanta la rivolta contro il passato ha assunto le forme di un nichilismo sempre più forte, che si ac­ compagna a un antioccidentalismo a oltranza. Tutta una nuova tendenza intellettuale ostile al nazismo, ma favorevole al nichi­ lismo di Nietzsche, ha non solo accumulato montagne di sofi­ smi per sollevare il filosofo da ogni responsabilità nell’avven­ tura nazionalsocialista, ma ha anche collaborato alla nostra de­ moralizzazione culturale passando all’estremo opposto e non vedendo nello spirito europeo altro che perversità, scaltrezza e machiavellismo. Non è rassicurante constatare che il grande ispiratore del nichilismo che trionfa nelle università europee e americane di oggi è quello stesso Nietzsche di cui si poteva immaginare, do­ po la guerra, che sarebbe rimasto screditato per sempre dall’u­ so che l’hitlerismo ne ha fatto.

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Se il pensiero nietzschiano ha potuto ispirare il nichilismo del dopoguerra è perché esso è stato recuperato da un altro fi­ losofo tedesco, le cui simpatie per il nazismo sono ben cono­ sciute, e che si è presentato come il solo autentico erede di Nietzsche: Martin Heidegger, che ha avuto l’abilità di neutra­ lizzare tutta la problematica religiosa di Nietzsche dichiaran­ dola ormai superata. Questo ha permesso di ricostruire un Nietzsche meticolosamente ripulito di tutto ciò che avrebbe dovuto invece renderlo sospetto nel periodo del dopoguerra. Trascurando le sue idee a vantaggio del suo metodo cosiddet­ to “genealogico”, si è fatto di Nietzsche un semplice strumen­ to del nichilismo contemporaneo. Negazione di qualunque possibilità di accedere alla minima verità, alla minima certezza, rifiuto di ogni nozione di senso nonché della ragione, ripulsa non soltanto della religione ma della stessa scienza in nome di una frattura incolmabile tra lin­ guaggio e realtà, impossibilità di arrivare alla minima cono­ scenza certa, rinuncia all’idea complessiva di sapere propria dell’occidente, abbandono di tutti gli assoluti perché giudica­ ti responsabili dei mali dell’umanità, ecco in cosa consiste il nietzschianesimo contemporaneo. La genealogia nietzschiana consiste nel mostrare l’origine storica bassa, misera e meschina di tutto ciò che asserisce di avere una nascita nobile e pura. La decostruzione intende pro­ seguire tale lavoro genealogico ma, proprio su un punto essen­ ziale, si sottrae a questo compito. Il cuore della genealogia nietzschiana, il suo pezzo forte era la critica del cristianesimo, il ripudio violento della cura moderna verso le vittime. Se il ni­ chilismo attuale fosse veramente fedele alla genealogia, do­ vrebbe riprendere la critica nietzschiana del cristianesimo e tutto il progetto neopagano di Nietzsche, di Heidegger, e del nazionalsocialismo; dovrebbe continuare il progetto nietz­ schiano su questo punto fondamentale, e mostrarci che le ra­ gioni per schierarsi dalla parte delle vittime contro i carnefici sono tanto arbitrarie quanto le ragioni di fare o pensare qual­ siasi altra cosa, che esse non sono né migliori né peggiori delle ragioni per schierarsi dalla parte dei carnefici contro le vittime. Ma questo i pensatori della decostruzione non l’hanno mai

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fatto, ciò che va del tutto a loro onore sul piano morale. Essi non combattono mai la moderna difesa delle vittime, e perciò riconoscono, tacitamente, l’esistenza di qualcosa nel nostro universo che non si può in alcun modo decostruire, di qualco­ sa che resiste vittoriosamente a qualunque tentativo di sman­ tellamento. Essi silenziosamente si inchinano davanti alla preoccupazione moderna verso le vittime. Per quanto sia rispettabile sotto il profilo morale, tale at­ teggiamento ci costringe tuttavia a interrogarci sul rigore filo­ sofico del nichilismo contemporaneo. Questo indietreggiamento dei decostruttori, il loro rifiuto di decostruire la cura verso le vittime, la dice lunga sulla for­ za raddoppiata di questo imperativo nel nostro mondo. Nietzsche osava ancora combattere il punto essenziale senza preoccuparsi delle conseguenze, ed è ben per questo che gli si può imputare qualche responsabilità nelle mostruosità del se­ colo appena conclusosi. I decostruttori invece si guardano be­ ne dal riprendere le analisi di Nietzsche a questo riguardo, e ciò va tutto a loro onore - ripeto - ma non si può che conclu­ derne che la cura verso le vittime ha per loro, non meno che per noi, un valore assoluto. È l’assoluto di un mondo che cre­ de di non averne alcuno, un assoluto che si rivela nel fatto che nessuno desidera o osa prendersela con esso, nessuno si sogna di “decostruirlo”. Cura, in tedesco Sorge, è una parola che gli esistenzialisti impiegano volentieri per indicare una preoccupazione essen­ ziale dell’esistenza umana. È pensando a questi filosofi che io riprendo il termine, ma l’uso che ne faccio ne cambia necessa­ riamente il senso. La cura per le vittime fa certo parte delle nostre preoccu­ pazioni esistenziali. Nell’esistenzialismo, tuttavia, ciò che è chiamato la «cura» è già sempre lì. Non viene modificato dal­ la storia. Si tratta di qualcosa di permanente e, in definitiva, di atemporale. Non è mai un valore di cui constatare, come nel caso presente, che un tempo non c’era, mentre dopo, un bel giorno, è comparso e ben presto non se ne sarebbe potu­ to fare a meno. La preoccupazione per le vittime è squisitamente moderna

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- l’ho detto - ma non è apparsa dal nulla. Essa precede di mol­ to la seconda guerra mondiale e anche la prima, dal momento che Nietzsche ne parla, e in fondo reagisce già contro lo sfrut­ tamento ipocrita di tale preoccupazione. Essa è ciò nondime­ no recente, e si rinforza man mano che il tempo passa. Tutto conferma la “storicità” della sua apparizione. C’è in questo qualcosa di inatteso e di opposto a quanto an­ diamo dicendo sulla nostra epoca: un valore assoluto che è ap­ parso dentro la storia sovrastando tutte le opposizioni, un va­ lore che irresistibilmente si impone. Fino alla seconda guerra mondiale si dava molto credito, sulla scia di Hegel e di Marx, agli assoluti storici, ma oggigiorno, col crollo delle ideologie, non vi si ripone più la benché minima fiducia. Gli intellettuali sono ormai d’accordo nell’abiurare tutti i falsi assoluti ridico­ lizzati dalla storia tumultuosa del nostro tempo. Essi però non vedono che dietro questi vecchi residui un altro assoluto è già sorto, veramente sostanziale stavolta, ed è la cura verso le vitti­ me, la quale non è nient’altro - se dobbiamo credere a Nietzsche, degno veramente di fede su questo - che l’interpre­ tazione specificamente moderna del cristianesimo, la vera ma­ turità di questa religione. Dire che la preoccupazione verso le vittime è il nostro as­ soluto equivale semplicemente a dire che nessuno la contesta. Essa ha resistito ai tentativi nietzschiani e hitleriani di sradi­ carla. Ed è tanto più rimarchevole - ripeto - che Nietzsche non abbia mai smesso di essere alla moda, e che la nostra avanguardia porti alle stelle un metodo nietzschiano che poi si guarda bene dall’applicare al medesimo oggetto a cui lo ap­ plicava il pensatore tedesco, e tutto questo senza mai attirare l’attenzione su una simile inconseguenza. Il fatto che nessuno si periti mai di riprendere l’impresa del maestro in ciò che aveva di essenziale ai suoi occhi, e che nessuno presti atten­ zione alla cosa, questo è un paradosso su cui vale davvero la pena di soffermarsi. Il nostro assoluto si è rivelato gradatamente - lo si può mo­ strare - lungo tutta la storia cristiana e moderna. Contra­ riamente a ciò che si potrebbe credere, la storicità della sua ri­ velazione non diminuisce in nulla la sua potenza. La cura per

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le vittime, come ho cercato di far vedere, riesce il più delle vol­ te a dissimulare il ruolo della storia nella sua stessa genesi, col risultato che noi la proiettiamo incessantemente, e anacronisti­ camente, in epoche e società che vi sono affatto estranee. Fino a pochi secoli fa tutti consideravano legittimi dei co­ stumi e delle istituzioni che la preoccupazione per le vittime ci fa ritenere insopportabili e odiosi: la schiavitù, la tortura giu­ diziaria, il diritto di saccheggio, la pena di morte e così via. È la preoccupazione verso le vittime che affermandosi ha fatto lentamente ma irresistibilmente tremare queste istituzioni im­ memoriali. La circostanza che noi le percepiamo tutte come in­ tollerabili, a differenza dei nostri antenati, non significa in al­ cun modo che noi siamo superiori a questi ultimi. Tale circo­ stanza significa, invece, che la storia contiene ben altro di quanto vi scorge la visione secondo cui in essa tutto è “natura­ le” ed “esistente da sempre”. Il nostro nichilismo è meno tota­ le di quello che sembra. Noi un assoluto ce l’abbiamo sempre, un assoluto che si collega più visibilmente, più direttamente al messaggio cristiano che non le passate ideologie. Il crollo dei falsi assoluti che costituivano le ideologie sociali e politiche, in particolare il marxismo, ha sgomberato il terreno e favorito l’avvento diretto del nostro vero assoluto, quello che ci fa ve­ dere le vittime. Dopo i nostri disastri filosofici e ideologici, è diventato di buon gusto farsi beffe di ogni assoluto, e soprattutto di quelli che sono apparsi dentro la storia. Ci si crede perfettamente a proprio agio all’interno di un nichilismo senza obblighi né san­ zioni. Ma non c’è nessuno, persino tra i nostri iconoclasti di più incredibile audacia, che osi prendersela con la cura mo­ derna verso le vittime. Tuttavia tale preoccupazione - mi si dirà - è la sola eccezio­ ne al nichilismo attuale. Senza dubbio, ma l’assoluto non è mai null’altro che questa eccezione unica al nichilismo che lo cir­ conda. Ciò che all’assoluto appartiene è appunto di promuove­ re il nichilismo a proposito di tutto ciò che non coincida con sé.

L’aumentata potenza della vittima non coincide per caso con l’avvento, per la prima volta nella storia dell’umanità, di

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una cultura veramente planetaria, corrispondente a ciò che og­ gi si chiama, nel bene e nel male, globalizzazione. E la preoc­ cupazione verso le vittime che abbatte ogni barriera, che abo­ lisce ogni frontiera intorno a noi. Vi è in questo grandioso pro­ cesso, a tutta evidenza, l’affermarsi di qualcosa di unico nella storia del nostro mondo, un’avventura senza precedenti, le cui radici sono però nel nostro passato, nelle nostre tradizioni umanistiche, e più ancora in quelle religiose. Si ripete sempre che nessuna società ha mai fatto più vittime della nostra, ed è vero, ma è vera anche l’affermazione opposta: nessuna società ha mai soccorso più vittime della nostra. Quest’ultima constatazione non compensa la prima, ovviamen­ te, ma le esagerazioni contrarie all’autocompiacimento borghese tipiche dell’autocritica occidentale sono ormai talmente eccessi­ ve che sarebbe opportuno ritornare al buon senso. Bisogna cer­ tamente denunciare tutti gli abusi che la potenza dell’occidente ha provocato, ma il fattore più decisivo nel processo di globaliz­ zazione e universalizzazione del modello europeo e americano non è la violenza né la conquista: è piuttosto l’intero mondo a es­ sere spinto dal suo desiderio di occidentalizzarsi. La tendenza verso l’unificazione dell’Europa e persino del mondo, dell’umanità intera, - già chiaramente avvertita da Nietzsche -, è l’effetto di ciò che rappresenta la grandezza, e non la vergogna, della nostra storia. La compassione non è sta­ ta certo inventata dalla nostra società, essa esisteva già nelle culture arcaiche, ma il punto è che veniva esercitata esclusivamente all’interno di gruppi o sottogruppi ermeticamente chiu­ si. Le culture ancora autonome coltivavano ogni sorta di soli­ darietà e di appartenenze famigliari, tribali, nazionali, che però non potevano perpetuarsi che ricorrendo a qualche espulsione sacrificale. Queste società non conoscevano dun­ que la vittima allo stato puro, la vittima anonima e ignota nel senso in cui noi parliamo del «milite ignoto». Prima di questa scoperta, non esistevano di norma uomini degni di questo no­ me al di là dei confini di ciascuna cultura. Noi abbiamo in­ ventato l’uomo solamente umano, vale a dire la vittima, ma so­ no in realtà i Vangeli che l’hanno inventato per noi, designan­ dolo con la frase Ecce homo.

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Inutilmente Nietzsche si appropria di questa designazione riguardante Cristo nell’opera in cui egli cerca di compiere il rie­ pilogo illusoriamente trionfale di tutti i suoi scritti. La pazzia avrebbe concluso entro breve la sua imitazione tragicamente caricaturale, rivelando quel destino di vittima di se stesso e de­ gli altri che il sedicente Dioniso aveva voluto con ogni mezzo coprire. Spetta a noi compiere la scelta tra il vero modello del nostro Ecce homo, e l’imitazione dissociata, autodistruttiva del filosofo che, con i suoi scritti e più ancora con il suo destino, ci ha accompagnato e aiutato nel corso di queste riflessioni.

Giuseppe Fornati Il dio sbranato. Nietzsche e lo scandalo della croce

I. La caccia alla balena

Il dramma è finito. Perché allora qualcuno si fa avanti? Perché uno è sopravvissuto alla distruzione. Ismaele in Moby Dick1

La figura di Nietzsche è di fondamentale importanza per una migliore comprensione del cristianesimo e della sua uni­ cità, questa è la conclusione che un esame attento e obiettivo dei suoi scritti permette di raggiungere. Conclusione inusuale perché, se il ruolo della religione nel pensiero di Nietzsche è stato sottolineato da diversi interpreti, non altrettanto si può dire per l’unicità che egli attribuisce al cristianesimo. Tale uni­ cità, nella sua visione, è certo di ordine negativo, ma di tale pe­ so da costringerlo a ritornarci sopra con intensità crescente, fi­ no al pamphlet illusoriamente catartico dell 'Anticristo, sul qua­ le dovremo fermare in particolare la nostra attenzione. L’interprete che ha avuto il merito di sottolineare la visio­ ne assolutamente fuori dell’ordinario che del cristianesimo ha avuto Nietzsche è stato René Girard, che sottolinea anche la singolare cecità collettiva, da Lettera rubata di Poe o meglio ancora da imperatore nudo di Andersen, che ha colpito pres­ soché tutti gli esegeti di questo filosofo. L’intervento del pen­ satore francese è come sempre dissacratorio e spiazzante, e sfata così tanti luoghi comuni, sul cristianesimo e su Nietzsche, da essere stato a lungo ignorato, e a tutt’oggi non si può dire che la situazione sia completamente cambiata. Una duplice censura - sul vero messaggio cristiano e sul vero si­ gnificato della figura di Nietzsche - viene così esercitata, tan1 H. MELVILLE, Moby Dick o la balena, tr. it. di C. Pavese, Adelphi, Milano 1987, p. 588.

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to più difficile da superare in quanto il filosofo ne è parte at­ tiva a tutti gli effetti. L’interpretazione di Girard non è né intende essere com­ pleta, però propone un percorso dei più impervi e affascinan­ ti, un’autentica sfida esegetica che nel presente saggio sarà svi­ luppata con la speranza che qualcuno ne noti la forza, la pura e semplice capacità di dar ragione di fatti sistematicamente ignorati proprio perché difficilmente negabili. È vero che l’in­ tero corpus degli scritti nietzschiani sembra opporsi fieramente a qualsiasi tentativo del genere, e irridere a ogni sforzo di ri­ condurlo a un messaggio univoco, a un contenuto reale e rico­ noscibile, tanto più se a tale sforzo si accompagna qualcosa co­ me una motivazione morale. Non è forse il superamento di qualunque morale e di qualunque visione normativa e oggetti­ va della realtà quello che Nietzsche propone, in una scintillan­ te consapevolezza che è il richiamo delle sirene che attrae così numerosi lettori? La molteplicità di facce e di atteggiamenti che assume il filosofo è disorientante, e sembrerebbe giustifi­ care sia la definizione data da Gianni Vattimo di un “pensiero della differenza”, sia la reazione sistemizzatrice di Heidegger, che perentoriamente dichiara il pensiero di Nietzsche «non [...] meno consistente e rigoroso di quello di Aristotele»2. In realtà tali posizioni non si escludono, e anzi si richiamano a vi­ cenda, avendo esse in comune la volontà di rimanere nel filo­ sofico, di pensare che comunque la risposta alle domande sol­ levate da Nietzsche non possa essere formulata in un diverso linguaggio. Il problema religioso, e dell’anomalia cristiana rile­ vata da Nietzsche, rimane taciuto. L’idea di un confronto essenziale dell’opera di Nietzsche col religioso e col cristianesimo diventa ancor più controcor­ rente se la applichiamo, oltre che al pensiero, anche alla vita di questo pensatore. Malgrado o piuttosto in ragione del travesti­ tismo, persino dell’istrionismo del filosofo di Zarathustra, in pochi pensatori come in lui si può rilevare uno stretto, addirit­ tura catastrofico nesso tra vita e pensiero. Il moltiplicarsi dei travestimenti, delle pose, delle dichiarazioni d’intenti testimo2 Μ. HEIDEGGER, Sentieri interrotti, cit., p. 229.

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nia, più che un superamento del pregiudizio dell’identità, un tentativo sistematico di fuga da essa. Si traveste soprattutto chi ha qualcosa da nascondere. Esiste una possibilità diversa rispetto al prendere insieme tutti i testi di un autore o al sistemarli nel letto di Procuste del­ la propria filosofia, ed è la possibilità, supremamente erme­ neutica, che è ben nota ai veri psicologi e ai veri lettori: quella di scegliere in un testo o insieme di testi solo quegli elementi che si rivelano un segno, una spia di ciò che sta sotto. La stra­ tegia è più rischiosa, implica il fiuto e le lunghe ricerche di un cacciatore, ma unicamente a essa è riservata la preda più ricca. Una volta trovati gli indizi e le tracce, l’insieme che sembrava ormai sistemato, classificato, a parte alcune zone d’ombra nor­ malmente ignorate o dichiarate non rilevanti, comincia a muo­ versi, a riprendere vita: si inizia a comprendere non solo quel­ lo che i testi dicono ma pure quello, e a volte è l’essenziale, che i testi non dicono. La chiave d’accesso è trovata, e tutti quegli elementi che prima sembravano confutare l’interpretazione eterodossa, venendo adesso spiegati e inseriti in una luce più ampia, la vengono a confermare, assumono un significato di­ verso, addirittura opposto. Le cose tuttavia, per un autore come Nietzsche, non sono per nulla semplici. La volontà di depistaggio che il filosofo mette in opera è strenua. Occorre quindi della decisione. Per catturare Proteo, il dio greco delle metamorfosi, bisogna non farsi distrarre dalle sue continue trasformazioni, bisogna la­ sciarsi guidare dal convincimento che esse sono il risultato non della potenza, ma della paura, del desiderio disperato di non farsi prendere. La metamorfosi, la recitazione è una fuga. Vediamo subito alcune applicazioni concrete di una simile chiave di lettura. In una delle sue ultime opere, il Crepuscolo degli idoli, il filosofo si pone alcune significative domande, sot­ to forma di aforismi: 37 Precedi gli altri nella corsa? - Lo fai come pastore? o come ecce­ zione? Un terzo caso sarebbe che ti fossi dato alla fuga... Primo caso di coscienza.

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38 Sei sincero? o solo un commediante? Uno che rappresenta qual­ cosa? o la cosa stessa rappresentata? In definitiva non sei altro che l’imitazione di un commediante... Secondo caso di coscienza.3

Nei due aforismi le alternative sperate (il «pastore», l’esse­ re «sincero») sono mescolate, non senza l’inquietante passag­ gio intermedio dell’«eccezione», a quelle temute, la fuga, la finzione della commedia; per ultima arriva l’immagine che de­ scrive il gioco, «l’imitazione di un commediante», ossia non il semplice travestimento, ma il suo principio interno: una reci­ tazione al quadrato, una formula moltiplicabile all’infinito, co­ me suggerisce anche l’enumerazione dei “casi di coscienza”. Ci viene detto già l’essenziale, purché distinguiamo le proiezioni (il «pastore», l’essere sinceri) da quelle che sono autentiche de­ scrizioni (la «fuga», il «commediante»), e purché, attraverso il ruolo ambiguo dell’«eccezione», percepiamo la volontà, l’illu­ sione di confondere queste con quelle («l’imitazione di un commediante»). Altre immagini di uguale significato nei suoi scritti sono quelle del pagliaccio o del funambolo, finché in Ecce homo, nel capitolo intitolato Perché io sono un destino, Nietzsche non ar­ riverà a dire: «Forse sono un buffone...», un buffone in cui però - egli aggiunge - proprio per questo parla la verità stessa4. L’espressione più diretta di questo paradosso è nell’abbozzo preparatorio del capitolo: «Dio o pagliaccio - è questo l’invo­ lontario in me, questo sono io»5. «Questo sono io» indica che l’imitatore di un commediante non è luna o l’altra delle alter­ native del dilemma, bensì la loro possibilità simultanea, com­ presenza paradossale che non è coscientemente decisa («questo

3 F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello, tr. it. di E Masini, Adelphi, Milano 1983, p. 30. 4 F. NIETZSCHE, Ecce homo, cit., pp. 135-36 (viene in generale seguita questa edi­ zione, tenendo però conto dell’ed. finale F. Nietzsche, Opere, cit., vol. VI, tomo III, Il caso Wagner, Crepuscolo degli idoli, lianticristo, Ecce homo, Nietzsche contra Wagner, tr. it. di F. Masini e R. Calasso, Adelphi, Milano 1970). 5 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., 25 [6], p. 409 (v. F. Nietzsche, Il caso Wagner ecc., cit., pp. 630-31).

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è l’involontario in me»), ma esprime la forza da cui viene la vo­ lontà di Nietzsche, una forza lacerante e divisa alla quale egli non riesce a sottrarsi: l’imitatore vorrebbe essere Dio, ma si ve­ de ricacciato nel ruolo degradato del buffone. Nella versione conclusiva l’alternativa temuta è preceduta da un «forse» («Forse sono un buffone»), subito dopo provocatoriamente ostentata con un’affermazione assoluta di identità, di verità: «...la mia verità è tremenda·, perché fino a oggi si chiamava ve­ rità la menzogna». Quest’identità follemente asserita è l’ultimo atto della simulazione, della lunga lotta fra il Dio e il pagliaccio, la fase in cui le due identità ruotano vorticosamente e si sosti­ tuiscono, si fondono, sino a formare l’immagine caricaturale e tragica di un pagliaccio divinizzato, di un Diö-pagliaccio. I testi citati dovrebbero essere già indicativi delle strategie e delle astuzie a cui ricorre il loro autore. Per essere catturato nella sua rotazione sempre più rapida di parti e di identità il fi­ losofo va assolutamente preso alla lettera in alcuni punti, in al­ cuni momenti nevralgici della sua opera, ossia sorpreso e cat­ turato nella stessa espressione letterale del proprio pensiero, se è vero che, come osserva Calasso parlando dell’ultimo Nietzsche, «il genio è anche la capacità di prendersi alla lette­ ra»6. Una simile constatazione non deve scoraggiare, ma av­ vertire che la caccia sta dando i suoi frutti. È la presenza di tracce dirette distinguibili da tutto il resto il segnale che la pre­ da è vicina. Cosa deve fare qualcuno che fugge? Se non può cancellare totalmente le tracce (e come potrebbe, dal momen­ to che vuole recitare, dimostrare qualcosa?) deve fare in modo che le tracce vere siano prese per false, e che quelle false siano prese per vere. È il caso esemplare di Nietzsche, ed è la trap­ pola in cui è caduta la maggior parte dei suoi lettori. Nietzsche viene interpretato metaforicamente dove prima di tutto do­ vrebbe essere preso alla lettera, e viene interpretato alla lettera dove non dovrebbe. La sistematicità dell’inganno esclude qua­ lunque fattore casuale.

6 R. Calasso, Monologo fatale, in E Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 162.

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Tutto ciò dimostra come la partita che si sta giocando non sia di natura meramente testuale. Se fosse solo questione di ele­ menti formali messi l’uno accanto all’altro non ci sarebbe spe­ ranza. Ma il metodo testuale all’altezza della partita è definibi­ le come supremamente ermeneutico proprio perché attinge ai fondamenti non interpretativi di qualunque autentica interpre­ tazione, ossia a una realtà che genera il testo, e che il testo se­ gue od ostacola a seconda di come vi reagisce, a seconda della posizione, dell’esigenza vitale, della contraddizione mortale che l’ha fatto nascere. Le metafore teatrali che il filosofo usa non vanno mai prese come fini a se stesse, ma come sviluppo delle metafore arcaiche della lotta, della caccia, dell’insegui­ mento, di ciò che l’esegeta è costretto a fare se vuole catturare la sua preda testuale. E una caccia alla fine non è una metafo­ ra, è un’azione reale che presuppone l’esistenza di prede reali, e più la caccia è importante più la preda si fa pericolosa, si fa capace di lottare col cacciatore ad armi pari. Nel caso estremo la lotta diventa un aut aut: o si cattura la preda, o se ne è cat­ turati. Nulla di accademico, di esornativo nei grandi testi, nei grandi autori. Il rapporto con essi è un rapporto di vita o di morte, di vittoria o di perdita, e quando si ha a che fare con es­ si si può subire la più cocente, la più umiliante delle sconfitte, quella di venirne catturati senza saperlo, quella di essere i pri­ gionieri di una gabbia che scambiamo per la verità, di una fin­ zione che scambiamo per la realtà. Ogni applauso che possia­ mo ricevere da questa gabbia renderà soltanto più fondo il si­ lenzio del disinganno, quando apparirà chiaro che l’enigma non è stato in nulla svelato, che è stato l’enigma a ingabbiare, a ingoiare l’ignaro interprete. Fra le due soluzioni del catturare o del venir catturati, del divorare o del venir divorati (e del padroneggiare la rappre­ sentazione o esserne padroneggiati) ci possono essere, nel cor­ so dell’inseguimento, mille gradi intermedi, e Nietzsche ha l’a­ bitudine di porsi su uno qualunque di questi gradi intermedi, non senza rapide finte in un senso o nell’altro. Colui che si è definito «l’imitazione di un commediante» è la preda più osti­ ca, un predatore che conosce tutte le astuzie mimetiche di chi non deve farsi predare, e che sa che al momento giusto la mi­

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glior difesa è l’attacco, una preda meravigliosamente attrezza­ ta per essere lei a catturare l’incauto cacciatore. Ma, abbando­ nando per un momento le immagini della caccia e del teatro, quali sono realmente gli estremi della scala lungo la quale egli cerca di arrampicarsi, lungo la quale questo strano cacciatorecommediante cerca di uccidere e di fuggire? Si tratta veramen­ te del dilemma drammatico fra divorare o venir divorati, fra re­ citare o venir “recitati”, giocati dalla propria parte? Abbiamo visto che il filosofo vorrebbe essere Dio anziché pagliaccio, ma abbiamo pure visto come egli non riesca a sepa­ rare l’alternativa sperata (Dio) da quella temuta (pagliaccio), ricorrendo alla confusione dei ruoli nel tentativo di far passare la sua finzione per vera. Il dilemma è più che psicologico o tea­ trale, è religioso. Nietzsche ha una percezione acuta dell’ambi­ valenza presente all’interno di ciò che chiamiamo religione, e cerca di risolverla in un’ultima opposizione, per lui conclusiva. Il termine “religione”, infatti, designa due cose che per il filo­ sofo non potrebbero essere più opposte, più inconciliabilmen­ te nemiche: il dio che egli invoca più di ogni altro, Dioniso, e quello che detesta più di ogni altro, il Dio della Bibbia ebraica e soprattutto dei Vangeli7. Appiattire in un unico, generico comun denominatore princìpi che per Nietzsche erano abissal­ mente contrari non appare una buona ermeneutica, e questo va detto per chi come Heidegger - ma si tratta di un’intera legio­ ne di interpreti - ha voluto ignorare l’opposizione come irrile­ vante da un punto di vista speculativo. La contrapposizione di Nietzsche potrebbe venir superata solo qualora se ne dimo­ strasse la mancanza di basi oggettive, ma è precisamente que­ sto che gli interpreti di solito non fanno, di solito essi prendo­ no la questione come già decisa in un senso o nell’altro, senza bisogno di particolari giustificazioni. Una cosa non viene mai fatta: porsi la domanda se per caso, proprio qui, Nietzsche non avesse almeno in parte ragione. Ma per rispondere alla do7 Dalla contrapposizione nietzschiana fra paganesimo e cristianesimo trae ispira­ zione il mio libro Fra Dioniso e Cristo. La sapienza sacrificale greca e la civiltà occiden­ tale, Pitagora, Bologna 2001. La presente indagine su Nietzsche è, in un certo senso, la continuazione e la provvisoria conclusione di quest’opera.

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manda bisogna indagare cosa c’è dietro quelli che per Nietzsche rimangono degli irriducibili opposti, ed è in tale in­ dagine che si inserisce, con il suo caratteristico intuito, Girard. Un aspetto appare subito chiaro: Nietzsche per più aspetti è speculare a Girard. Non è esagerato affermare che questo fi­ losofo nega esplicitamente o rovescia di valore tutto ciò che Girard ha indagato, dal desiderio imitativo o mimetico al cri­ stianesimo, ma occorre aggiungere che il modo in cui egli lo fa è del tutto unico, e non poteva non provocare la risposta, la caccia sorniona e tenace del pensatore francese. La strategia con cui Girard affronta Nietzsche potrebbe essere paragonata a quella di un baleniere: lunghe, interminabili attese, un’ineso­ rabile esclusione dei dettagli che tengono occupati tanti altri studiosi, pochi tiri ben piazzati di arpione, ossia pochi studi, piazzati a distanza di anni, uniti a una lunga serie di accenni e di riferimenti presenti nelle sue opere. Ma ancora una volta le metafore venatorie vanno approfondite, vanno trasformate e rimesse in movimento: l’immagine della caccia alla balena si adatta molto bene prima di tutto a Nietzsche stesso, e a questo punto ci può soccorrere la simbologia della caccia più metafi­ sica della letteratura moderna, quella di Moby Dick di Melville. Achab vive nell’ossessione, nell’ammirazione e nell’incubo della balena bianca che insegue in tutto il mondo, venendone alla fine trascinato negli abissi. La preda e il suo cacciatore so­ no i due poli fra cui oscilla Nietzsche, ma la loro contrapposi­ zione è in definitiva illusoria, ossia reversibile, transitoria: Achab e Moby Dick, nel corso di una caccia che indissolubil­ mente li divide e li unisce, arrivano a coincidere. È il congiun­ gimento del dittico che essi da sempre formano a rivelare l’a­ bisso del male, l’autodistruzione dello spirito dell’antagoni­ smo, della vendetta. Sono i due estremi fra cui si muove anche il filosofo, e che in ultimo si congiungono mortalmente contro di lui. È allora proprio questo il senso della contrapposizione fra Dioniso e Cristo? Questa è certo l’interpretazione che Nietzsche voleva dare all’opposizione che per lui sintetizzava ogni altra, ma se questa fosse un’interpretazione del tutto cor­ retta, Nietzsche non reagirebbe al messaggio cristiano con la rabbia di chi si vede guastare il gioco. Cristo evidentemente di­

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sturba, interrompe il gioco dell’uccisore che è ucciso, del cac­ ciatore che diventa la preda, del Dio che è nello stesso tempo pagliaccio, e per questo motivo Nietzsche tenterà di affibbiar­ gli il secondo termine dell’alternativa di Ecce homo («Dio o pa­ gliaccio»). I risultati saranno spaventosi. Le regole stesse del gioco di Nietzsche, che poi sono state le regole di tanti suoi seguaci, dimostrano che Girard non può e non vuole seguirle alla lettera: egli non ha nessuna intenzione di essere un cacciatore nel senso violento della parola, di rea­ lizzare in modo malsano antiche metafore della conoscenza. La sua posizione è piuttosto quella dell’autore di Moby Dick, il cui intento è descrivere, raccontare il rincorrersi e l’unirsi fatale di inseguitore e inseguito. Come nessun altro Girard avverte che Nietzsche è grande anche nei suoi errori. Ma terribile è stato il destino di chi, come il filosofo, ha voluto sostenere fino in fon­ do simili errori, ha voluto fino in fondo giocare al suo gioco. È tutta una parte della cultura europea che, alla pari dell’equi­ paggio del Pequod, farà naufragio insieme col teorizzatore del­ la volontà di potenza. Il rapporto di Nietzsche con ciò che Girard ha indagato non è di semplice negazione, giacché in tal caso non ci sarebbe alcun motivo per occuparsi specificamente del pensatore tede­ sco. La singolare qualità di questo filosofo è che egli ha il co­ raggio, anzi la temerarietà, di andare a vedere da vicino ciò che vuole distruggere, col risultato che il suo tentativo diventa l’e­ loquente, drammatica dimostrazione di ciò che voleva negare. Né è difficile capire il perché. In questo gioco mortale Nietzsche vorrebbe essere l’inaf­ ferrabile preda, l’imprendibile balena bianca, ma se così fosse nessuno inseguirebbe Nietzsche, il gioco, la caccia confutereb­ be se stessa. In realtà la balena non è che il desiderio nascosto, spettrale del suo inseguitore. Il problema di Nietzsche è che egli è condannato a essere Achab, il capitano folle che non molla la preda perché fa già parte di lui, che vuole ucciderla perché non faccia più parte di lui, l’inseguitore che insegue, l’uccisore che uccide se stesso. Mai parabola, nel doppio senso di caduta e di storia da cui ricavare un insegnamento, è stata più amaramente istruttiva.

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La pista di ricerca che ci propone il pensatore francese è po­ tenzialmente così ricca e capace di dire cose che nessuno ave­ va mai detto, perlomeno con questa concretezza e forza di coinvolgimento, che appare necessario, addirittura urgente ap­ profondirla, ampliarla, portarla alle ultime conseguenze. Come vedremo, nella balena-Nietzsche che è Nietzsche-Achab c’è ancora un punto vitale da colpire, ossia da descrivere, un pun­ to talmente sinistro e nevralgico da rivelarci l’ultimo istante di ribellione, di colpa, da portarci sulle soglie della pazzia del fi­ losofo ormai pronto a varcarle. Il suicidio, il crollo, il naufragio sono in lui prima di tutto spirituali, non semplicemente men­ tali. Assistervi significa in qualche misura parteciparvi, signifi­ ca imbarcarsi sulla medesima nave, significa salvarsi solo se si capisce che è un sogno, un cattivo sogno, lo stesso di cui è in­ tessuto il mondo secondo La tempesta di Shakespeare. La nostra posizione, il nostro ruolo può essere quello di Ismaele, il mozzo che si salva a stento dal disastro per poterlo raccontare.

IL L’eterno ritorno della pazzia

Una volta individuata la chiave ermeneutica giusta, le con­ ferme che giungono dagli scritti e dai documenti della vita di Nietzsche sembrano quasi travolgerci. Esse appaiono così nu­ merose da costringerci a vedere con occhi nuovi il pensiero e il destino di questo filosofo, a cominciare dalla conclusione che ne rappresenta il tragico sigillo, e che inutilmente la “buona” volontà di tanti interpreti ha cercato di minimizzare: il crollo psichico sopravvenuto a Torino tra la fine del 1888 e i primi giorni del 1889. Come Anacleto Verrecchia dimostra nella sua appassionan­ te e documentata indagine La catastrofe di Nietzsche a Torino, la vecchia spiegazione della follia di Nietzsche con la sifilide, avvalorata fra l’altro dall’autorevole voce di Thomas Mann, non ha alcuna base di fatto, né medica né biografica8. Proprio l’esempio di Mann, dello scrittore che ha trovato in Nietzsche il suo ammirato modello, ci può mostrare i trucchi e le poco limpide finalità che hanno alimentato la leggenda della sifilide. Le strategie messe in atto da Mann per accreditare la voce tra­ discono una precisa volontà di manipolazione dei dati. Nessuno

8 A. VERRECCHIA, La catastrofe di Nietzsche a Torino, Einaudi, Torino 1978, pp. 261-70. La confutazione della tesi della sifilide viene ripresa in modo circostanziato nella più recente biografia del filosofo, Μ. Fini, Nietzsche. L’apolide dell’esistenza, Marsilio, Venezia 2002 (pp. 365-71), opera vivace e ricca di informazioni che ha il me­ rito di andare contro l’immagine idealizzata e ipocrita del personaggio, anche se aval­ la alcuni tipici cliché sul suo pensiero.

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meglio dell’autore della Morte a Venezia e della Montagna in­ cantata poteva sfruttare le torbide nuances di malattia ed eroti­ smo per mescolare elementi di verità con idealizzazioni agio­ grafiche, che hanno la loro palese fonte nella biografia sdolci­ nata e irreale messa in piedi dalla sorella del filosofo, Elisabeth Förster-Nietzsche, a scopi celebrativi e promozionali9. In un saggio pubblicato nel 1948 Mann ci racconta, utilizzando libe­ ramente un ricordo di Nietzsche riferito dall’amico Paul Deussen, l’episodio del «giovinetto, puro come una fanciulla, tutto spirito, tutto dottrina, tutto candore e timidezza» che, a sua insaputa condotto da «un sinistro nunzio del destino» in un bordello di Colonia, si trova improvvisamente (qui la cita­ zione della testimonianza è letterale) «circondato da una mez­ za dozzina di figure coperte di veli e di orpelli, che lo guarda­ no piene di aspettazione»10. Il giovinetto angelico si salva a stento da queste figure infernali, mettendosi a suonare un pia­ noforte, ma - aggiunge lo scrittore - resta segnato da un «trau­ ma», che un anno dopo - ed è questo il passaggio arbitrario lo avrebbe indotto a ripetere sul serio l’esperienza, facendogli contrarre l’infezione fatale. Questo trauma non avrebbe più abbandonato la sua fantasia, testimoniando «della sua sensibi­ lità di santo verso il peccato», ma facendo segretamente pro­ gredire il «manifesto rilassarsi di freni» di quella che Mann de­ finisce, con elegante eufemismo, «una sensibilità mortificata». La ricostruzione è degna di un maestro della décadence, e ri­ corda certe scene postribolari di Proust, solo che stavolta Mann ferma a metà la dissacrazione proustiana: la sensibilità disgregatrice rimane, ma è ricondotta a fattori esterni, diaboli­ ci. Mann è un osservatore troppo acuto per non rendersi con­ to della presenza di forze morbose nel pensatore da lui cele­ brato, e però, volendo mantenere il mito romantico dell’eroe puro, virtualmente immacolato, mescola con grande abilità ele­

9 La moralista e manageriale Elisabeth non ne ha comunque voluto sapere della spiegazione sifilitica: la sua tesi è che il fratello sia impazzito per l’abuso di sonniferi che in realtà non prendeva da anni (Μ. Fini, Nietzsche, cit., pp. 371-72). 10 T. Mann, Saggi. Schopenhauer, Nietzsche, Freud, tr. it. di B. Arzeni e LA, Chiù­ sano, A. Mondadori, Milano 1980, pp. 72 e s.

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menti reali e interpolazioni inventate. L’episodio può aver avu­ to i suoi effetti sul represso immaginario erotico del filosofo, ed è un fatto che Nietzsche avrà problemi gravissimi, insuperabi­ li con le donne; tuttavia la vera causa, come ora vedremo, è rin­ tracciabile nel modo che egli aveva di concepire i suoi rappor­ ti con gli altri: è questo a essere in lui davvero morboso. Mann utilizzerà con risultati più convincentemente infernali la storia della sifilide quando la attribuirà al protagonista del suo ultimo grande romanzo, il Doktor Faustus, dove il giovinetto angelico che suona il piano si trasforma in un inquietante musicista d’a­ vanguardia, pronto a fare un patto col diavolo pur di inventa­ re la dodecafonia. Come ogni mito, la favola della sifilide ha subito le mani­ polazioni più varie, tutte accomunate dallo stesso intento di negare e coprire una realtà fastidiosa; sostenuta agli inizi del Novecento dallo psichiatra positivista Möbius con l’intento di demolire l’intera concezione nietzschiana, essa è stata in segui­ to accettata da Mann e da molti altri con l’intento opposto di dimostrare che la pazzia del filosofo è da ricondursi a cause ac­ cidentali ed esterne all’autentico nucleo del suo pensiero. Questo Aids del XIX secolo non ha forse un lungo periodo di latenza, durante il quale un grande pensatore può scrivere tut­ to quello che vuole, tutte le opere indispensabili alla sua fa­ ma?11 Dopo il riflusso della tendenza “luetica”, che ciò nondi­ meno persiste ancora tenace, e senza nemmeno i pregi e le evo­ cative ambiguità di un Thomas Mann, sembra prevalere ades­ so la mai sopita tendenza “minimalista”, in cui appunto si mi­ nimizza la cosa, quasi che Nietzsche avesse aspettato gli ultimi giorni fra il dicembre 1888 e il gennaio 1889 per manifestare segni palesi di squilibrio psichico, tesi assurda che non è altro che il disvelamento dell’uso pro-Nietzsche della precedente. Ma perché, prima di considerare gli inizi, non gettare uno sguardo sulla loro tragica conclusione? A sfatare, in un modo che credo definitivo, tanta mitologia accumulatasi sul destino 11 I sostenitori della pazzia sifilitica sono costretti a dilatare contro ogni verosimi­ glianza medica questo periodo di latenza, vacatio imperii del male che è diventata la ra­ gion d’essere stessa della tesi nel suo uso filo-nietzschiano.

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di questo filosofo basta analizzare da vicino alcuni documenti sulla sua pazzia meritoriamente raccolti e indagati da Verrecchia. Se l’esame non è dei più piacevoli, in compenso non è dei meno istruttivi. Qualcosa deve intanto pur voler dire che i vari amici o ex­ amici del pensatore non si siano minimamente stupiti nel sa­ pere della sua definitiva pazzia, per quanto molti di loro non immaginassero un epilogo così terribile. Ma di quali perversi giochi di complicità e ipocrisia si alimentasse il rapporto fra questi amici e il filosofo in procinto di venir consegnato, lette­ ralmente costretto in una camicia di forza, a una fama già po­ stuma, ce lo mostra Peter Gast, il bistrattato fedelissimo le cui mediocri composizioni Nietzsche aveva grottescamente cerca­ to di contrapporre alla musica di Wagner. Quando un Nietzsche ormai folle gli scrive: «Al mio maèstro Pietro. Cantami una nuova canzone: il mondo è trasfigurato e tutti i cieli si rallegrano. Il Crocifisso», Gast così risponde: Devono essere grandi cose, quelle che procedono con lei. Il suo entusiasmo, la sua salute e tutto ciò che lei, il corpo puro e la men­ te consacrata, ha fatto o lascia supporre come fatto devono smuo­ vere anche i più infermi; lei è una salute contagiosa; l’epidemia di salute, che lei una volta desiderava, l’epidemia della sua salute non può mancare. Solo a Berlino mi ha raggiunto l’invocazione del Crocifisso. Il tempo fa una faccia orribile; un’aria fredda, fumosa e pesante invita piuttosto al suicidio che alla danza... Pieno di fe­ licità e di gioia per i suoi trionfi, pieno di venerazione.12

Questa risposta drammaticamente ci mostra come non ca­ pire la pazzia di Nietzsche equivalga in qualche misura a con­ dividerla13. Cosa significa, in casi come questo, “non capire”?

12 A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 180. 15 Gast, che deve perfino il nome con cui è più conosciuto a Nietzsche (quello ve­ ro è Johann Heinrich Köselitz), è solo il primo di tanti che verranno plagiati, con loro piena responsabilità, da Nietzsche. Da notare che anche quando andrà a trovare l’ami­ co in manicomio Gast rifiuterà per qualche tempo di ammettere l’evidenza (Μ. Fini, Nietzsche, cit., p. 356). A onor del vero, bisogna anche aggiungere che Gast-Köselitz, fra gli esaltati, gli spostati e gli opportunisti che hanno a che fare con Nietzsche, resta

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Gast non sembra aver nessuna fretta di raggiungere la «salute contagiosa» del suo maestro recandosi a Torino, dove Nietzsche l’aveva pregato più volte di raggiungerlo. Evidentemente «l’epidemia di salute» suscita l’idea di altre, più realistiche epidemie, per essere precisi dell’epidemia contagio­ sa di violenza collettiva che i Greci chiamavano mania dioni­ siaca. Davanti a questo fantasma inconscio, l’esaltato seguace del filosofo arretra senza nemmeno confessarlo a se stesso. Egli finge di non capire che la danza nietzschiana da lui contrappo­ sta al suicidio può esserne la migliore preparazione, simula di non capire che «l’invocazione del Crocifisso» è una precisa ri­ chiesta di aiuto, e già divinizza il maestro, come avveniva negli antichi sacrifici: «il cuore puro e la mente consacrata» (la sotto­ lineatura è di Gast), «pieno di venerazione». Stiamo in altre parole assistendo al processo imminente della canonizzazione di Nietzsche. Il destino di Nietzsche è accuratamente sepolto sotto gli strati inscalfibili di un’ammirazione mortuaria. Quest’ipocrisia ormai più che secolare merita da tempo di venir smascherata. Troppi libri, troppe idee ne sono ammorbati. Non vederla si­ gnifica veramente essere consegnati al cupo grigiore di un sui­ cidio spirituale, un suicidio che la cultura europea ha voluto abbracciare, ben lontana ancora oggi dal rinsavimento. Avviciniamoci adesso alla «epidemia di salute» capace di susci­ tare così dissennati entusiasmi, esaminiamo la vera natura del­ la «danza» che ne sarebbe l’emblema. Un altro amico, il teologo ateo Franz Overbeck, che colpi­ sce per la sua inazione di fronte agli abbondanti segnali di squi­ librio mentale che gli arrivavano da Torino, fu infine costretto a raggiungere la città, dopo che Jacob Burckhardt, con l’indif­ ferenza sempre ostentata verso l’autore della Nascita della tra­ gedia, gli aveva mostrato una lunga, delirante lettera ricevuta dal filosofoil *14. La scena senza dubbio più allucinante a cui il più simpatico, e quello che ha pagato di più in termini personali. Alla fine il povero Gast si dovrà ricredere sul suo maestro quando scoprirà l'opinione sprezzante che egli aveva su di lui. 14 Cfr. F. OVERBECK, Ricordi di Nietzsche, a c. di C. Angelino, Il Melangolo, Ge-

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Overbeck dovette assistere, una volta giunto nel capoluogo piemontese, ci viene così riportata: «In seguito, fra gli intimi, Overbeck accennò anche a uno spettacolo che gli si presentò a Torino, “il quale incarnava in maniera orribile l’idea orgiastica del furore sacro, quale era alla base della tragedia antica”. Probabilmente si sarà trattato di danze estatiche con fallo eret­ to»15. La danza che tante volte il filosofo aveva invocato è fi­ nalmente eseguita. A differenza dei suoi futuri commentatori, Nietzsche conosceva troppo bene l’antica Grecia per non sa­ pere in che cosa le danze dionisiache consistevano. Prima di addentrarci nelle implicazioni antropologiche dell’indagine autodistruttiva di questo filosofo, consideria­ mo meglio l’esito ultimo della sua pazzia dionisiaca, che ha corrispondenze talmente precise e calzanti non solo con la sua vita ma con il suo stesso pensiero da escludere qualun­ que spiegazione meramente psichiatrica, e tanto meno “lue­ tica”. La mente di Nietzsche è crollata a Torino fra il 1888 e i primi giorni del 1889, ma anche dopo ha continuato a lan­ ciare messaggi che possono essere raccolti e commentati, un po’ come le radiazioni superstiti di una supernova, di una stella esplosa. Dopo un viaggio avventuroso, Overbeck riuscì a ricoverare il suo amico impazzito nel manicomio di Basilea il 10 gennaio 1889. Leggiamo un passaggio dal Krankenjournal della clinica, che rappresenta una specie di sintesi della storia e del destino di Nietzsche: La visita della madre rallegrò visibilmente il paziente; all’entrata della madre, egli si diresse verso di lei, abbracciandola cordial­ mente ed esclamando: «Ah, mia cara, buona mamma, sono mol­ to lieto di vederti». Per lungo tempo s’intrattenne del tutto cor­ rettamente su questioni familiari, finché esclamò di colpo:

nova 2000, pp. 41 ss.; mentendo su alcuni particolari, Overbeck cerca di scaricare su Burckhardt anche le responsabilità del proprio ritardo (v. A. VERRECCHIA, La catastro­ fe, cit., p. 232), ma questo non rende meno credibile la sua testimonianza sul contegno dello storico. 15 Kurt Liebmann in A. VERRECCHIA, La catastrofe, cit., p. 211.

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«Guarda in me il tiranno in Torino». Dopo questa esclamazione, incominciò di nuovo a parlare confusamente, sì che la visita do­ vette essere interrotta. Doccia fredda alla sera. Sulfonal 2,0.16

La megalomania di Nietzsche rimane fissata al luogo che ha visto la sua ultima manifestazione, la città dove egli ha conclu­ so Ifanticristo, proponendo una nuova datazione a partire dal giorno in cui aveva chiuso la breve opera, il 30 settembre 1888. In altri passi del giornale clinico si riporta che il paziente chie­ deva continuamente da mangiare e spesso cantava e urlava a squarciagola. Pochi giorni dopo egli viene trasferito nel manicomio di Jena, dove resterà dal 18 gennaio 1889 al 24 marzo 1890. Il Krankenjournal ne descrive i movimenti in questi termini: «Nel camminare, il paziente alza spasmodicamente in alto la spalla sinistra e lascia pendere quella destra. Vacilla nel voltarsi». Altri passi dello stesso documento consentono dei collegamen­ ti non meno precisi che rivelatori con la vita e il pensiero di Nietzsche: 19 gennaio. Il malato va nel reparto fra molti inchini di cortesia. Con passo maestoso e guardando al soffitto, entra nella sua stan­ za e ringrazia per la «grandiosa accoglienza». Non sa dove sia. Ora crede di essere a Naumburg17 ora a Torino. Sulle sue genera­ lità dà informazioni corrette. L’espressione del viso è sicura e con­ sapevole di sé, spesso compiaciuta e affettata. [...] Per il conte­ nuto, sorprende la dispersione di idee delle sue chiacchiere; di quando in quando parla delle sue grandi composizioni e ne canta dei saggi; parla dei suoi «consiglieri di legazione e servi». Parlando, fa quasi ininterrottamente delle smorfie. Le sue chiac­ chiere sono continuate quasi ininterrottamente anche nella notte. Il paziente mangia forte. [...]

16 A. VERRECCHIA, La catastrofe, cit., p. 271 (sul ricorrere dell’immagine del tiranno negli scritti nietzschiani si veda Triangolo di lettere. Carteggio di Friedrich Nietzsche, Lou von Salame e Paul Ree, a c. di Μ. Carpitella, Adelphi, Milano 1999, p. 326 e nota). 17 La cittadina dove la famiglia Nietzsche era andata a risiedere dopo la morte del capofamiglia.

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3 febbraio. Imbrattato di escrementi. [...] 10 febbraio. Molto rumoroso. Spesso accessi di collera con grida inarticolate senza motivo esterno. [...] 23 febbraio. Tira improvvisamente “calci” a un altro malato. «Da ultimo io sono stato Federico Guglielmo IV». [...] 10 marzo. Fame da lupo. Designa sempre giustamente i medici; se stesso, ora come duca di Cumberland ora come imperatore ecc. [...] 27 marzo. «La mia moglie Cosima mi ha portato qui». 1 aprile. Imbrattato di escrementi. «Chiedo una veste da camera per la redenzione radicale. Di notte sono state da me ventiquattro puttane». [...] 5 aprile. Piscia nello stivale e beve l'urina. 17 aprile. «Di notte, si è imprecato contro di me; si diceva che mia madre se l’era fatta addosso; contro di me si sono ordite le più or­ ribili macchinazioni». 18 aprile. Mangia escremento. 19 aprile. Scrive cose illeggibili sulle pareti. «Voglio un revolver, se è vero il sospetto che la granduchessa stessa commette queste porcherie e attentati contro di me». [...] 16 maggio. «Io vengo sempre di nuovo avvelenato». [...] 16 giugno. Chiede ripetutamente aiuto contro torture notturne. [...] 2 luglio. Orina nel bicchiere per l’acqua. 4 luglio. Rompe un bicchiere per l’acqua, «per proteggere l’ac­ cesso a lui con schegge di vetro». [...] 14 luglio. Cosparso di escrementi. 16 luglio. Cosparso di escrementi. 18 luglio. Unto di orina. [...] 6 agosto. (Si è) sfregata una gamba con escremento. [...] 14 agosto. Di nuovo molto rumoroso. Beve di nuovo Purina. 16 agosto. Ha rotto improvvisamente alcuni vetri. Ritiene di aver visto una canna di fucile dietro la finestra.

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20 agosto. Mette dello sterco avvolto nella carta nel cassetto del tavolo. [...] 10 settembre. Beve di nuovo urina. [...] 2 dicembre. Afferma di aver visto nella notte donnette compietamente pazze. 9 dicembre. Vomito. Non riscontrabili errori di dieta, ma il pa­ ziente mangia spesso molto frettolosamente. 14 dicembre. Beve acqua di sciacquatura.18

Nietzsche è ormai un povero demente, che ripete gli atti più degradanti con meccanicità apparentemente insensata. In ge­ nere ci si guarda con attenzione dall’analizzare questi docu­ menti, e in effetti è solo con un senso di sgomenta pietà che ap­ pare possibile farlo. Ma essi meritano un esame, e non solo per toccare con mano la triste realtà che si nasconde sotto le se­ polture imbiancate dei nostri mausolei culturali. Si possono qui riconoscere i resti di quella che era stata un tempo la per­ sonalità del filosofo. Siamo a un grado 0 del comportamento, che lascia visibile la struttura prima nascosta, tradotta adesso nel modo più letterale in gesti, in riti deliranti. La prima cosa che colpisce è l’avidità di mangiare e bere unitamente all’os­ sessione degli escrementi solidi e liquidi. È questa la traduzio­ ne, la “reificazione” mostruosa della megalomania, del deside­ rio di Nietzsche. Questo desiderio è ormai entrato da molto tempo nello stadio critico che Girard definisce “metafisico” o “ontologico”, in cui il desiderio raggiunge una tale intensità da trasfigurare, divinizzare ciò che desidera, facendone dipendere in maniera assoluta lo stesso “essere” del soggetto. Ap­ profondiremo nei prossimi capitoli le cause di una simile infla­ zione parossistica, ma intanto dobbiamo osservare come il de­ siderio esploso di Nietzsche si sia ridotto a “divinizzare” i se­ gni, gli oggetti, le funzioni del corpo. Nietzsche deve assimila­ re una grande quantità di materia allo scopo di espandere il proprio essere, egli deve ingoiare, ingurgitare l’Essere di cui si 18 A. Verrecchia, La catastrofe, cit., pp. 275-78.

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sente mancante. L’ovvia conseguenza fisica è però che il corpo espelle ciò che è stato mangiato e bevuto, e così più il sogget­ to espelle materia con i suoi escrementi più deve mangiare e bere, e più egli ingurgita materia più è costretto a evacuarne. Ci sono due aspetti da rilevare in questo circuito, in questa “simbolica” escrementizia. Defecare e urinare sono in prima istanza un segno della po­ tenza del soggetto, della potenza del superuomo. Nei suoi frammenti postumi Nietzsche descrive un uomo che piscia sul suo cavallo dopo averlo battuto (un’immagine importante su cui tornerò alla conclusione del saggio), e in un altro alcuni na­ ni cercano di attaccare un gigante che sta minacciando di pi­ sciare loro addosso, e che è un simbolo ormai caricaturale del pensatore-superuomo («Quando un gigante fa piovere, è un diluvio universale»)19. L’associazione tra la potenza di Nietzsche e la defecazione la troviamo invece in riferimento a Wagner, nei passi in cui, con pesante ironia, il filosofo accusa Wagner di intasargli l’apparato digerente, facendo allusione al­ la conseguente necessità di “liberarsi”20. Defecando, “liberan­ dosi” in tutti i sensi, Nietzsche pensa di espellere Wagner e in­ sieme di sommergerlo, nel modo più degradante e umiliante. Si tratta di un duplice annientamento, fisico e simbolico, che verrà analizzato più a fondo quando affronteremo da vicino il drammatico rapporto col compositore. Ma adesso, nel conclamato, definitivo squallore di un ma­ nicomio, ogni reale controllo è perduto, e l’evacuazione ormai inflazionata ci mostra l’altro lato della megalomania patologi­ ca. Se il cibo rappresenta la vita e il potere, l’evacuazione ne rappresenta la perdita, rappresenta la morte, una morte che non può essere accidentale, perché l’intero meccanismo mo­ struoso nasce da una minaccia che il soggetto cerca in tutti i modi di scongiurare, gridando di collera, dando calci, bloc­ cando armi puntate dalle finestre. Lo stesso cibo diventa apw F. Nietzsche, frammenti postumi 1888-1889, cit., 16 [1], p. 273. 20 Si vedano i testi citati in A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 76, col sintoma­ tico riferimento alle pastiglie Géraudel che ritorna anche in un abbozzo di lettera a Gast (A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 174).

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portatore di morte, ed è sistematicamente avvelenato («Io ven­ go sempre di nuovo avvelenato»). Si tratta dunque di un assas­ sinio, e il carattere reiterato, pervasivo della congiura presup­ pone un intero apparato persecutorio, una macchinazione di gruppo. Presuppone un linciaggio. Queste reazioni sono favo­ rite dalle condizioni in cui si trova a vivere il malato e dal cli­ ma di brutalità apotropaica che caratterizza gli istituti psichia­ trici21, ma questo non fa che evidenziare esperienze e dinami­ che già da lungo tempo presenti nella vita e nella mente di Nietzsche. L’evacuazione, prima caricata di significati degrada­ ti e grotteschi, diventa adesso il fallimento del cibo, la dimo­ strazione dell’inanità del suo scopo, il vero veleno che gli toglie efficacia ontologica, rovesciandolo nel suo contrario. L’unica soluzione è pertanto riassorbire in sé l’Essere che lo ha abban­ donato, cioè mangiare il proprio sterco e bere la propria urina. Come un serpente che si mangia la coda, così il filosofo dell’e­ terno ritorno deve divorare se stesso per dimostrare la propria esistenza assoluta. Ciò nonostante, nemmeno questo circolo degradato e ri­ dotto ai minimi termini può durare. Esso contiene in sé la sua sconfitta perché nasce non già dalla pienezza dell’Essere, ben­ sì dalla sua mancanza. Il circolo escrementizio dev’essere allo­ ra continuamente allargato, deve abbracciare porzioni sempre più vaste di realtà. La minaccia è continua, diventa impreca­ zione contro di lui e la sua natura divina, fino alla calunnia che la stessa madre di Nietzsche perda la sua preziosa urina («Di notte, si è imprecato contro di me; si diceva che mia madre se l’era fatta addosso»), il che equivale all’espulsione, alla cancel­ lazione del suo stesso figlio. Il soggetto deve quindi protegger­ si con modalità quasi sacramentali, cospargersi di urina e di sterco così da esserne magicamente protetto; rompe il bicchie­ re da cui beve per difendersi dagli attacchi improvvisi; vomita, per espellere il cibo in quanto veleno, ma questo poi lo co­ stringe a mangiare sempre più in fretta, per impedire che “qualcuno” nel frattempo non gli avveleni la fonte dell’Essere; 21 Sui trattamenti derisori e insultanti subiti da Nietzsche v. Μ. Fini, Nietzsche, cit., pp. 358-59.

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beve persino l’acqua di risciacquatura, che può essere fatta corrispondere agli escrementi, allucina degli altri; con una sor­ ta di rito deposita il suo sterco nel cassetto del tavolo. Questo rito e simbolicamente accostabile alle cerimonie funebri a cui Nietzsche, nel periodo prima della pazzia, amava assistere, im­ maginando nell ultima lettera a Burckhardt di partecipare alle sue stesse esequie22. È come se Nietzsche seppellisse se stesso allo scopo di rinascere, allo scopo di non morire: come si può essere morti, se si è in grado di assistere ai propri funerali? Nietzsche è dio e vittima insieme, re e scarto umano Maestosamente ringrazia per la grandiosa accoglienza, e nello stesso tempo subisce una continua congiura; è duca, imperato­ re, il tiranno di Torino, e al contempo è il cortigiano che fa con­ tinue riverenze, il bambino che ha bisogno di venire protetto dalla madre. Solo il sacrificio permette di spiegare a fondo la compresenza di opposti che caratterizza la “divinizzazione” di letzsche, permette di ricostruire una loro precisa sequenza, che il soggetto impazzito ripete ormai macchinalmente, in una rotazione insensata. II filosofo è il sacrificatore e il sacrificato esecutore del rito e chi lo subisce venendone trasfigurato, ve­ nendone divinizzato. Egli chiede una veste da camera per la «redenzione radicale», un indumento intimo, collegabile con le funzioni corporee e ontologiche del soggetto, e che diventa equivoca veste di re, di sacerdote, di vittima. I riferimenti sessuali (le «ventiquattro puttane», le «don­ nette completamente pazze») rappresentano la continuazione e.. t/1\lne ^e a simbologia di potere degli escrementi e del cibo. Il Nietzsche demente è ormai ossessionato da quel desi­ erto erotico che non era mai riuscito a realizzare per tutta la vita, durante il viaggio per Basilea e appena ricoverato chiede continuamente che gli portino delle donne2*. Quale sostituto della potenza ontologica più tipico della potenza sessuale? Questa potenza ontologico-sessuale punta direttamente verso Wagner e la moglie di Wagner, Cosima, della quale Nietzsche aveva già scritto, in una variante di Ecce homo, che considera­ 22 A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 181. 23 Ivi, p. 241; Μ. Fini, Nietzsche, cit., pp. 345-46.

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va il suo matrimonio con Wagner alla stregua di un adulterio24. La cartella clinica ci mostra la fase immediatamente successiva del delirio: Cosima è ormai divenuta a tutti gli effetti sua mo­ glie. La radicalità dell’identificazione testimonia dell’entità del­ le forze che vi hanno condotto.

Prima di proseguire l’indagine con ulteriori testi e scandagli, vediamo però di “chiudere” il discorso sulla follia. Forse che le analisi che ho presentato sono eccessive, forse che cadono nel rischio seducente delle sovrainterpretazioni? Ma, tralasciando il fatto che una sovrainterpretazione non sarebbe che salutare do­ po decenni e decenni di “sottointerpretazioni” anemiche e op­ portuniste, che non si tratti di una lettura “sopra le righe” mi pare risultare dalla sua coerenza interna, e dal suo collegamen­ to capillare e organico con tutto quanto sappiamo del filosofo. Esiste una regola che fortunatamente assiste chi intende esplorare con autentico desiderio conoscitivo la sterminata mole degli scritti nietzschiani: essi contengono mille indizi, e spesso clamorose conferme, delle interpretazioni più lontane dal perbenismo filosofico che ha falsificato e coperto il pensie­ ro di questo esemplare nemico di se stesso. Si potrebbe intan­ to citare, anche alla luce dei passi sulla “liberazione intestina­ le” contro Wagner, l’intero paragrafo di Ecce homo nel quale Nietzsche dichiara: Ben altrimenti mi interessa un problema dal quale dipende la “salvezza deH’umanità” molto più che da qualche curiosità da teologi: il problema della alimentazione.25

La dichiarazione è, in modo obliquo e contorto, perfetta­ mente sincera e giustificata: la «salvezza dell’umanità» rappre­ senta quella del filosofo stesso, alle prese col problema insolu­ bile della sua alimentazione ontologica, un problema che lo sta

24 F. NIETZSCHE, Il caso Wagner ecc., cit., p. 595, n. 23: «La signora Cosima Wagner è la natura di gran lunga più aristocratica che esista e, nei miei riguardi, io ho sempre interpretato il suo matrimonio con Wagner come un adulterio... il caso Tristano». 25 F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 35.

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portando all’autodistruzione finale. E la conclusione del para­ grafo è altrettanto illuminante: Tutti i pregiudizi vengono dagli intestini. Il sedere di pietra - l’ho già detto una volta - è il vero peccato contro lo Spirito Santo.26

I «pregiudizi» sono le ossessioni da cui l’autore sta per es­ sere travolto. Il «sedere di pietra» è il peccato più imperdona­ bile, la colpa suprema, perché blocca in maniera definitiva il circuito che garantisce la vita e il potere del soggetto ormai col­ lassante. Il peccato contro lo Spirito Santo è del resto la colpa intorno alla quale ruota freneticamente il Nietzsche delTAntzcristo, intorno alla quale si è giocato il suo destino. Non sono le questioni teologiche a nascondere questioni di alimentazio­ ne, sono le metafore alimentari a nascondere questioni teologi­ che e spirituali, da cui era la vita e l’equilibrio mentale dell’aspi­ rante anticristo a dipendere. Non mancano comunque passi che ci fanno intravedere l’elaborazione inconscia degli stessi concetti più ardui di que­ sto filosofo. Il collegamento, patologico quanto preciso, è con la tipica ossessione nietzschiana dell’eterno ritorno. Molti cul­ tori del filosofo saranno pronti a lacerarsi le vesti e a gridare al­ lo scandalo, eppure per giustificare le loro disquisizioni costoro si costringono da oltre un secolo a ignorare fatti e testi che par­ lano da soli. Nessuno vuole togliere alle intuizioni di Nietzsche la loro perspicacia filosofica, antropologica e religiosa, che anzi qui verrà esplorata più a fondo che in qualunque interpretazio­ ne di ortodossia postmoderna, ma è proprio la loro origine pa­ tologica ad aver reso le idee-ossessioni di Nietzsche così pene­ tranti, efficaci, alla fine distruttive. Non si tratta di liquidare le concezioni di questo pensatore con una diagnosi psichiatrica, come è stato tentato da Möbius e da altri, bensì di comprende­ re le ragioni sottostanti alle concezioni e ai disturbi psichici di Nietzsche: i disturbi psichici non sono che la manifestazione di qualcosa che né gli psichiatri né i filosofi vogliono vedere. È 26 Ivi, p. 38 (qui Nietzsche riprende, con significato diverso, quanto detto in Cre­ puscolo, cit., af. 34, p. 30).

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l’intero pensiero di Nietzsche a nascere da uno stato di esalta­ zione morbosa, ad alimentarsi di una “follia” presente sin dal­ l’inizio e perfettamente riconoscibile all’interno, nel cuore del­ la nostra cosiddetta “normalità”. In un frammento tardo leg­ giamo la seguente spiegazione del mondo inteso come ciclo dell’eterno ritorno: La nuova concezione del mondo 1. Π mondo sussiste; esso non è niente che divenga, niente che pe­ risca. O piuttosto: diviene, perisce, ma non ha mai cominciato a divenire e non ha mai cessato di perire - si conserva nelle due co­ se... Vive di se stesso: si nutre dei suoi escrementi...27

«Si nutre dei suoi escrementi...». Questo testo è della pri­ mavera del 1888. L’annotazione dell’edizione Colli-Montinari correttamente cita i frammenti sull’eterno ritorno composti al­ l’epoca della Gaia scienza, ma chi scrive ritiene molto più uti­ le la consultazione dei documenti clinici di pochi mesi dopo, non per un riduzionismo di tipo psichiatrico, bensì per con­ statare l’emergere nella sua nudità di una verità lungamente negata, temuta, attesa. L’eterno ritorno di Nietzsche, il segre­ to di cui egli parlava con trepidazione solo ai più intimi amici, coincide in ultima analisi con la premonizione e l’invocazione della pazzia, un’invocazione dal filosofo tristemente realizzata in se stesso28. Per completare la sinistra, dolorante immagine invano na­ scosta sotto l’eterno ritorno di una certa mentalità filosofica, dobbiamo pensare all’ultimo periodo della pazzia di Nietzsche, quando in casa della sorella Elisabeth il filosofo sarà ridotto a «un tronco vivente o un’anima uccisa» che di

27 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., 14 [188], p. 163. 28 Fini fa il sorprendente ragionamento che siccome Nietzsche non parla più di fi­ losofia quando è pazzo allora non è pazzo quando filosofa (Nietzsche, cit., p. 375), ma non si accorge che questo avviene per gli stessi motivi per cui il pensatore, con l’ap­ prossimarsi della follia, cessa di avere le violente emicranie e gli attacchi di vomito che sono chiaramente parte del suo quadro clinico sin dalla giovinezza, come Fini dice giu­ stamente poche pagine prima (Nietzsche, cit., p. 367). Nietzsche non parla più della sua filosofia perché ne è diventato la realizzazione vivente.

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tanto in tanto faceva rabbrividire i visitatori con urla anima­ lesche e scomposte29. Davanti a quest’icona del dolore e della degradazione, dob­ biamo adesso approfondire le cause che vi hanno condotto. Cos’ha alimentato, creato l’eterno ritorno della follia di Nietzsche, della follia di intere generazioni che non hanno vo­ luto vederla?

29 A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 283.

III. Il filosofo e il suo doppio

1. Una rivalità schiacciante Girard ci aiuta a capire qual è la risposta, concreta e rico­ noscibile, alla domanda sul perché della catastrofe mentale di Nietzsche: la sua follia, la follia dell’uomo moderno, sta nella rivalità non superata. Nietzsche è impazzito per le premesse stesse della sua vita e del suo pensiero, e i sintomi del suo squi­ librio nervoso sono chiaramente rintracciabili fin dai suoi pri­ mi scritti, per non parlare dell’epistolario e delle testimonian­ ze. Sono sintomi nei quali ci possiamo tristemente specchiate. La mente di questo pensatore è crollata nel tentativo inconsi­ derato di superare e respingere quei modelli imitativi che Girard ci mostra essere alla base stessa della nostra esistenza come esseri umani. L’insicuro e ambiziosissimo Nietzsche, l’in­ tellettuale terribilmente complessato nel morale e nel fisico (si pensi solo alla grave miopia che lo affliggerà per tutta la vita), non ha mai voluto accettare la propria imitazione, il proprio desiderio, e il modello più importante del suo desiderio, il personaggio straordinario da lui incontrato e venerato nella sua giovinezza, e poi gradatamente odiato e attaccato per tut­ ta la vita: Richard Wagner. La storia dei rapporti di Nietzsche con Wagner è la storia del graduale formarsi di una rivalità che diventerà clamorosa, insaziabile, perseguitando Nietzsche fin dopo le soglie della pazzia. Tra i numerosi passi che si potrebbero scegliere si può citare quello di Ecce homo, nel quale Nietzsche racconta di un invio incrociato di Umano, troppo umano e del Parsifal che è l’invenzione tendenziosa della sua megalomania. Siamo nell’ul­

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timo scorcio del 1888, quando le soglie della pazzia stanno per essere definitivamente varcate: Questo incrociarsi dei due libri - mi sembrò che avesse un suono di presagio. Non suonava come si fossero incrociate due spa­ de?... In ogni modo così lo sentimmo noi: perché ambedue ta­ cemmo?0

Vien naturale osservare che Nietzsche avrà taciuto al mo­ mento, ma che poi non avrebbe fatto altro che scrivere contro Wagner, in maniera compulsiva, ossessiva, fino ai suoi ultimi giorni di relativa lucidità. Il passo trasforma le due rispettive opere in spade, il che significa che Nietzsche si sente mortal­ mente minacciato dal Parsifal, e intende ribattere a Wagner con la precisa intenzione di ucciderlo. L’immagine è quella del duel­ lo all’arma bianca, dello scontro simmetrico, all’ultimo sangue. Non si tratta di una semplice immagine letteraria, bensì di un simbolo rivelatore. Quanto il duello e ciò che esso rappresenta fossero in lui maniacalmente presenti da lungo tempo lo attesta un episodio del primo periodo universitario di Bonn: dopo aver incontrato un altro studente e aver avuto con lui un’amabile e dotta conversazione, il giovane Nietzsche, di colpo e con la mas­ sima gentilezza, lo sfida a duello, per l’esatta ragione che l’altro gli era apparso particolarmente simpatico30 31. L’episodio dà una valida idea delle patologie rivalitarie da cui la mente di Nietzsche era affetta già allora. Egli non riesce a di­ stinguere gli impulsi dell’amicizia da quelli della sfida mortale: più prova gli uni più alla fine è costretto a provare anche gli altri,

30 F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 91; v. A. Verrecchia, La catastrofe, cit., pp. 83-84. Nietzsche aveva ricevuto il Parsifal il 3 gennaio 1878; l’arrivo di Umano, trop­ po umano è registrato nei diari di Cosima il 25 aprile 1878. Che l’anacronismo di Nietzsche non sia una semplice inesattezza «nelle minuzie biografiche» - come so­ stiene la nota 106 di F. Nietzsche, Il caso Wagner ecc., cit., p. 613 -, lo dimostra il rac­ conto ancora più circostanziato che egli fa già in una lettera a Lou Salomé del 16 lu­ glio 1882 (Triangolo di lettere, cit., p. 139). 51 Nietzsche nello scontro resterà poi leggermente ferito al viso, cfr. Μ. FINI, Nietzsche, cit., p. 44.

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in un richiamarsi perverso che non poteva avere che un esito in­ fausto. Un trauma fortissimo dev’essere all’origine di una distor­ sione siffatta, e l’evento a cui è naturale pensare è la morte pre­ matura del padre, il pastore luterano deceduto di tumore al cer­ vello quando Friedrich aveva poco meno di cinque anni32. La mancanza del genitore è stata resa ancora più devastante dal­ l’ambiente ottuso e piccolo-borghese in cui Friedrich è cresciuto. Nell’ultimo di una serie di incompiuti abbozzi autobiografici un Nietzsche adolescente racconta l’angoscia con cui egli è ri­ masto «orfano e derelitto»33. Niente di più probabile che egli si sia sentito, oltre che abbandonato, anche misteriosamente col­ pevole di questo abbandono. Nella stessa pagina egli racconta un incubo da lui avuto allora: uno spettro esce dalla tomba del padre, prende in braccio una piccola figura indistinta e la trasci­ na con sé nel sepolcro; la sua interpretazione è che si tratti della premonizione della scomparsa del suo fratellino minore, morto all’improvviso di convulsioni il giorno seguente. Comunque si voglia valutare l’episodio, appare evidente che nel bambino con­ dotto alla tomba dal fantasma del padre è riconoscibile innanzi tutto Friedrich stesso, il che fa ipotizzare un ulteriore senso di colpa perché il fratello minore è morto al suo posto34. Il Friedrich bambino è stato “condannato” dal padre, e l’i­ dealizzazione irreale del genitore che compare nei suoi scritti, unita alla polemica contro tante cose legate al milieu famiglia­ re e paterno a cominciare dalla religione, fa intravedere la lot­ ta coi suoi sensi di colpa, e il rancore profondo e deviato che una condanna enigmatica e priva di appello deve aver suscita­ to. Tutti questi impulsi e sentimenti di Friedrich sono stati og­ getto di una repressione micidiale e accurata, invano interrotta da pochi scritti frammentari: niente doveva dare espressione, 32 Μ. Fini, Nietzsche, cit., p. 26; la storia della caduta dalle scale, ancora incredi­ bilmente avallata da alcuni studiosi, è un’invenzione della sorella di Nietzsche, timo­ rosa che qualcuno diagnosticasse una tara ereditaria in famiglia (cfr. A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 193). 33 F. NIETZSCHE, La mia vita. Scritti autobiografici 1856-1869, tr. it. di Μ. Carpiiella, Adelphi, Milano 1999, p. 102. 34 Potrebbe proprio questo senso di colpa essere alla base del convincimento di aver avuto un presagio.

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parola ai bisogni profondi di questo figlio emotivamente ab­ bandonato a se stesso. Questo rancore e quest’angoscia compressa erompono drammaticamente nel frammento letterario Euforione, del 1862, dove un personaggio spettrale cerca il suo sosia per se­ zionarne la testa, e proprio nell’ultima frase, con la tecnica di un racconto dell’orrore, viene descritto come malato di tabe dorsale35. Il comportamento tenuto da Nietzsche sul suo bre­ ve ma geniale parto letterario è ulteriormente indicativo dell’autorepressione che lo dominava e degli effetti devastanti di tale sforzo sulla sua fragile psiche: subito dopo aver spedito il racconto a un amico, si pente, e in un’altra sua lettera definisce il racconto «novella ripugnante» e «manoscritto mostruoso», chiudendo con un’osservazione inquietante: «Quando lo ebbi scritto, scoppiai in una risata diabolica»36. È una risata che ri­ corda già quelle della pazzia. La momentanea rottura dell’au­ tocensura provoca reazioni di carattere dissociativo, subito pu­ nite con la ripulsa del testo, coincidente con la condanna di chi l’ha composto. È Friedrich a sentirsi «ripugnante» e «mo­ struoso», ratificando per tutta la vita la “tabe dorsale” che con­ clude il frammento. Egli avrebbe scritto a Paul Ree: «finora so­ no stato un mostro isolato», e in una delle lettere della follia si sarebbe firmato «il mostro»37. Girard non esplora la pista famigliare e paterna, intanto perché va oltre la situazione essenziale su cui egli vuole richia­ mare la nostra attenzione, ma forse anche per evitare pericolo­ se confusioni con schemi esplicativi di tipo freudiano. È facile comunque osservare che il padre rimpianto da Nietzsche non 35 F. NIETZSCHE, La mia vita, cit., pp. 118-20; cfr. C.P. Janz, Vita di Nietzsche, a c. di Μ. Carpitella, vol. I, Il profeta della tragedia (1844-1879), Laterza, Roma-Bari 1980, pp. 94 ss. Come si vede, l’unica sifilide presente in Nietzsche (la tabe ne è l’ultimo sta­ dio) è quella simbolica. 36 Lettera a Raimund Granier del 18 luglio 1862 in F. NIETZSCHE, Epistolario 18501869, tr. it. di M.L. Pampaioni Fama, Adelphi, Milano 1976, p. 216 (cfr. anche la sin­ golare chiusa della lettera a Franziska ed Elisabeth Nietzsche del 17 gennaio 1869, ivi, p. 670: non c’è dubbio che per completare il quadro psichico del giovane Nietzsche bisognerebbe analizzare anche i rapporti ambivalenti con la madre e la sorella). 37 Lettera del 15 settembre 1882 ca. in Triangolo di lettere, cit., p. 203; lettera a Fuchs del 18 dicembre 1888 in Μ. Fini, Nietzsche, cit., p. 325.

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è il rivale edipico di un assurdo desiderio incestuoso, è la figu­ ra da amare e da cui essere amati di cui Friedrich avverte la ra­ dicale mancanza: l’ambivalenza di amore e odio segue, non precede l’abbandono paterno. Purtroppo, una volta fissata la struttura del trauma, di cui l’origine famigliare non è tanto la spiegazione esaustiva quanto il primo orientamento, Nietzsche l’avrebbe trasformata nel principio cardine dei suoi rapporti con gli altri. Una psiche complessata, introversa e patologica­ mente reattiva ne sarà il risultato. Partendo da queste premesse possiamo immaginare cosa dev’essere successo con Wagner. Preceduto da altre figure pa­ terne a cui Nietzsche si era attaccato - il maestro di filologia Ritschl, lo storico Jacob Burckhardt -, l’autore della Tetralogia, fra parentesi nato nello stesso anno del padre di Friedrich, le ha sintetizzate e superate d’un colpo, divenendo il vero, l’uni­ co padre putativo dell’orfano rancoroso e angosciato, e scate­ nando quanto di meglio e di peggio poteva provare l’anima sofferente e contraddittoria del giovane. A sua volta il Wagner figlio illegittimo (come meschinamente Nietzsche terrà a ricor­ dare nel Caso Wagner) deve aver riconosciuto nell’altro un’im­ magine per alcuni versi simile a sé, con in più quei titoli e quel­ la cultura accademica che a lui mancavano. Wagner - la prestigiosa figura a cui il giovane Nietzsche si rivolge come Pater Seraphicus, suo «mistagogo», il «più poten­ te di tutti gli spiriti» di fronte al quale lui non è «altro che fu­ turo»38 - ha avuto nella maturazione del giovane professore di Basilea un ruolo che difficilmente può essere sopravvalutato. Le intuizioni sulla tragedia e sul suo carattere dionisiaco, la percezione che il fondamento violento del teatro abbia a che fare col fondamento violento della cultura, il confronto col cri­ stianesimo, tutti questi sono aspetti che Nietzsche ha comin­ ciato ad approfondire ed elaborare durante la sua frequenta­ zione del grande compositore. Tuttavia questi rapporti e que­ ste decisive influenze alla fine provocheranno in Nietzsche rea38 E NIETZSCHE, Epistolario 1869-1874, tr. it. di C. Colli Staude, Adelphi, Milano 1976, pp. 117-18 (lettera del 21 maggio 1870) e 320 (lettera del 24 giugno 1872).

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zioni disastrose, di cui si avvertono già delle avvisaglie negli scritti a favore di Wagner, e che porteranno il filosofo alla rot­ tura completa con l’amico, con l’impossibile padre. Di sicuro il tirannico e ipermimetico Wagner era la persona meno adatta per instaurare un rapporto basato sull’equilibrio e la correttezza. Sfruttatore vorace di coloro che gli stavano in­ torno, manipolatore di persone e soprattutto di denari altrui, al di là non solo del buon gusto ma spesso dell’onestà, Wagner, che è stato capace di mettere in pericolo il bilancio del regno di Baviera, era come un ciclone a cui era difficile resistere, e compensava i suoi ingenti difetti non solo con la potenza della sua musica, ma anche con la generosità verso gli amici: è tipi­ co del suo stile ad esempio che, dopo aver detto e scritto per tutta la vita contumelie irripetibili contro gli Ebrei, egli abbia accettato l’amicizia devota di un giovane ebreo, che per il do­ lore si toglierà la vita dopo la morte del compositore39. Il timi­ do e complessato Nietzsche non poteva che sentirsi dominato e schiacciato da una personalità così straripante, che deve aver­ gli fornito un’intera serie di traumi, ben superiore a quello del bordello proustiano abilmente condito da Mann. «In certo qual modo è come se si difendesse dalla travolgente impressio­ ne della personalità di Wagner», scrive nel 1871 Cosima nei suoi diari40, con indubbia perspicacia, ma di sicuro non ren­ dendosi conto di quanto la cosa fosse grave per il loro giovane ed eccentrico amico, né forse immaginando o dando peso a quanto l’osservazione la coinvolgesse da vicino. Nietzsche imiterà a tal punto il modello inizialmente ammi­ rato e poi gradatamente avversato da cercare di raggiungerlo proprio nel campo in cui questi eccelleva, la musica, col risulta­ to di collezionare umiliazioni cocenti, e di esporsi al ridicolo in casa Wagner, dove non si era certo teneri anche con composito­ ri che non avevano molto da invidiare al teorizzatore della musi­

39 Si vedano ad esempio, sulla vita di Wagner, le notizie raccolte in R.W. GUTMAN, Wagner. Luomo, il pensiero, la musica, tr. it. di O.P. Bertini, Rusconi, Milano 1983 (nel­ l’opera tuttavia i rapporti di Wagner con Nietzsche sono svisati da un’acritica ammira­ zione per il filosofo). 40 A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 83.

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ca dell’avvenire. Una sola frase dai diari di Cosima ci restituisce l’opinione che si aveva di Nietzsche in quest’ambito: «Il dilet­ tantismo musicale del nostro amico ci disturba un po’ e Richard se la prende sulla piega che oggigiorno la musica ha preso»41. La storia dei suoi tentativi di farsi notare con dei parti mu­ sicali che, comunque li si voglia valutare, non possono essere minimamente paragonati alla sua produzione filosofica è rico­ struibile attraverso vari episodi, e fra questi il più traumatico da ricordare è l’accoglienza che ottiene una sua ManfredMeditation, da Nietzsche inviata il 20 luglio 1872 al grande di­ rettore e adepto wagneriano Hans von Bülow, subito dopo aver assistito a una sua esecuzione del Tristano e Isotta, e aver­ ne sperimentato, come dichiara nella lettera di accompagna­ mento, la «forza risanatrice»42. Von Bülow gli risponde il 24 luglio 1872, quasi a giro di posta dunque, con una stroncatura impossibile da dimenticare: ...la sua Manfred-Meditation è la cosa più estrema di stravaganza fantastica, la cosa più sgradevole e più antimusicale, che in fatto di annotazioni su carta pentagrammata mi sia capitata sotto gli occhi da molto tempo. Mi son dovuto chiedere più volte: è tutto uno scherzo, ha forse lei mirato a una parodia della cosiddetta musica dell’avvenire? È con coscienza che lei s’infischia ininterrottamente di tutte le regole del collegamento dei suoni, dalla sintassi più alta fino all’ordinaria ortografia? Astraendo dall’interesse psicologico poiché nel suo musicale prodotto febbrile si avverte uno spirito in­ solito e, nonostante tutte le aberrazioni, distinto -, la sua Meditazione, dal punto di vista musicale, ha soltanto il valore di un crimine nel mondo morale. Dell’elemento apollineo non ho potu­ to scoprire alcuna traccia; quanto a quello dionisiaco, detto fran­ camente, ho dovuto pensare, più che a esso, al lendemain di un baccanale. Se lei ha veramente un impulso passionale a estrinse­ carsi nella lingua dei suoni, allora è indispensabile acquisire i primi elementi di questa lingua: una fantasia barcollante in una gozzovi­ glia di ricordi di suoni wagneriani non è una base di produzione.

41 Annotazione dell’ll aprile 1873 citata in F. NIETZSCHE, Epistolario 1869-1874, cit., p. 701 (nota alla lettera a Wagner del 18 aprile 1873 su cui vedi più sotto). 42 F. Nietzsche, Epistolario 1869-1874, cit., pp. 330-31.

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E dopo un bruciante confronto con Wagner, il grande di­ rettore conclude: Ancora una volta - non se l’abbia a male. Lei stesso, del resto, ha definito «orribile» la sua musica -, lo è, infatti, e più orribile di quel che lei creda; cioè non comunemente dannosa, ma peggio: dannosa per lei stesso, che non potrebbe ammazzare in maniera peggiore anche un eventuale eccesso di ozio che stuprare a que­ sto modo Euterpe.43

Von Bülow, a cui Wagner aveva tolto Cosima e che era sta­ to estromesso dalla cerchia di Wagner dopo un degradante e scandaloso menage à trois, doveva avere il dente avvelenato verso questo dilettante musicale ancora amico del composito­ re: è chiaramente percepibile nella sua lettera l’acredine del marito a cui Cosima Liszt aveva preferito il genio capace di rea­ lizzare le sue ambizioni. Von Bülow non perde perciò l’occa­ sione di vendicarsi su chi dà prova di essere ancor meno di lui all’altezza della situazione. Come dimostra il particolare che per rispondere aspetti gli ultimi giorni di ottobre, Nietzsche accusa in pieno il colpo, e l’abbozzo della sua lettera è del massimo interesse. Col tono zuccheroso e ipocrita che rende di difficile digestione tanti suoi scritti giovanili, e che ci fa toccare con mano la natura letale dell’educazione da lui ricevuta, il filosofo si profonde in scuse e ringraziamenti stucchevoli, ma si fa sfuggire delle ammissio­ ni estremamente importanti non appena descrive quanto da lui provato durante la composizione: Allora grazie a Dio devo sentire questo e proprio questo da Lei. So già che momento di disagio Le ho procurato, e in compenso Le dirò che Lei mi è stato molto utile. [...] ...talvolta sono so­ praffatto da una voglia così barbarica, da una tale mescolanza di caparbietà e di ironia, che io stesso non riesco a scorgere - così come non riesce Lei - che cosa nell’ultima musica sia da intende­ re seriamente e cosa invece come caricatura e sarcasmo. A quelli che mi stanno vicino [...] gliel’ho fatta passare per un pamphlet contro la musica ufficiale. E la denominazione originaria dello 43 A. Verrecchia, La catastrofe, cit.» p. 79.

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stato d’animo era cannibalido [sic]. Con ciò mi è purtroppo chia­ ro che il tutto, con questa mescolanza di pathos e cattiveria, cor­ rispondeva assolutamente a un vero stato d’animo, e che io nella stesura di quella composizione ho provato un godimento come mai prima d’allora. Dal che si possono trarre tristi considerazioni riguardo alla mia musica, ma ancor più ai miei stati d’animo. Come si descrive uno stato nel quale piacere, disprezzo, tracotan­ za e sublimità son mescolati insieme? Ogni tanto cado in preda a lune pericolose come quelle. Eppure sono infinitamente lontano - questo lo deve credere - dal giudicare e dal valutare la musica di Wagner in base a questo mio eccitamento musicale semipato­ logico. Della mia musica so soltanto una cosa, che con essa riesco a padroneggiare uno stato d’animo che, inappagato, forse sareb­ be più pericoloso. E in questo tormento anch’io talvolta pensavo meglio di questa musica: una condizione davvero deplorevole, dalla quale Lei adesso mi ha salvato. Sia ringraziato! Allora questa non è musica? Ebbene son proprio fortunato, allora non importa nemmeno più che mi occupi di questo tipo di otium cum odio, di questo modo veramente odioso di sciupare il tempo. Per me è importante la ve­ rità: Lei lo sa, è più piacevole sentirla che dirla. Allora dunque Le sono doppiamente debitore.44

Le ammissioni di Nietzsche suU’«eccitamento musicale se­ mipatologico» con cui riesce «a padroneggiare uno stato d’ani­ mo che, inappagato, forse sarebbe più pericoloso» sono davve­ ro allarmanti, e la dicono lunga sull’equilibrio psichico che egli aveva già in quegli anni. Questo stato d’animo è descritto con la strana parola «cannibalido», che in ogni caso contiene un ri­ ferimento al cannibalismo45, ed è palesemente la stessa condi­ zione di spirito di quando, dopo aver scritto il racconto Euforione, il giovane se n’era uscito in una risata satanica. Che egli fosse «infinitamente lontano» dal valutare la musica di 44 Abbozzo del 29 ottobre (o poco prima) 1872 in E NIETZSCHE, Epistolario 18691874, cit., pp. 580-82. 45 La parola, non commentata nell’ed. Colli-Montinari italiana e tedesca, è correttamente trascritta, ed è collegata al cannibalismo nell’ed. in francese. L’etimologia di «can­ nibalismo» in tedesco è la stessa che in italiano: questo rende abbastanza trasparente il gioco di parole, che sembra esemplato sul latino (probabilmente si tratta di un lapsus ca­ lami per cannibalitudo). Ringrazio i proff. G. Campioni e F. Volpi per la consulenza.

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Wagner in base alla sua è la definizione precisa di ciò che per lui è in quel momento il problema: altro che «forza risanatrice» del Tristano\ Il fatto che Nietzsche abbia scritto la Meditazione sul Manfredi contro due autori da lui particolarmente amati e ammirati, Schumann e Byron, ci ripropone la medesima dina­ mica del duello di Bonn, e ci lascia intuire l’intensità dell’amo­ re e dell’odio nutriti verso il vero obiettivo del pezzo, l’ex-rivale dello stesso von Bülow. Se consideriamo questo stratificarsi tortuoso di modelli-rivali diviene abbastanza evidente il punto della manovra tentata da Nietzsche nello spedire la sua com­ posizione proprio a von Bülow: la segreta speranza che l’altro volesse prendersi una rivincita contro chi gli aveva strappato Cosima. È facile che sia stato anche il sospetto della manovra a rendere così spietata e immediata la replica del direttore. Tutti i tentativi meschini e malsani che Nietzsche compie per sfoga­ re il suo complesso di inferiorità gli ritornano indietro con gli interessi. Non c’è da equivocare sull’oZ/ww cum odio con cui egli descrive le sue sfuriate compositive: l’espressione latina, con lo stesso effetto estraniarne delle espressioni medico-ses­ suali dell’ottocento, indica il radicalizzarsi di una rivalità irri­ mediabile. Nietzsche cerca di coprire l’acuirsi di un sentimen­ to che lo sta devastando, e di far dimenticare lo squallore della manovra appena fallita, con una serie spudorata di iperboli, ringraziando il suo feroce censore di averlo addirittura salvato, e raddoppiando i suoi ringraziamenti in nome di una verità che sarebbe «più piacevole» da udire che da dire. Grazie al senso della decenza che a volte Nietzsche riusciva ad avere in extremis, quasi tutto è tagliato nella lettera effettiva­ mente spedita, riscritta subito dopo. La descrizione dei suoi sta­ ti d’animo viene edulcorata, a parte una sintomatica «ironia dia­ bolica», e solo la chiusa, pur coprendo di più, fa trapelare qual­ cosa di maggiormente sincero sulle sue reazioni: «Lei mi ha mol­ to aiutato - è una confessione che mi procura ancora un certo dolore»46. Il trauma è stato così forte che ancora in Ecce homo ci sono i tentativi, da parte della sua mente in collasso, di meta­ bolizzarne il ricordo, presentando il Manfredi come un’opera 46 Lettera del 29 ottobre 1872 in F. Nietzsche, Epistolario 1869-1874, cit., p. 383.

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della quale Hans von Bülow ebbe a dire che non aveva mai visto niente di simile su carta da musica: e che era lo stupro di Euterpe.47

E in un altro punto, riferendosi a un’altra sua composizione - un Inno alla vita su testo poetico di Lou Salomé -, si lascia sfuggire una frase che suona quasi come un grido dell’anima: «Forse in quel passo c’è grandezza anche nella mia musica»48. Il fallimento musicale di Nietzsche si affianca e si intreccia con quello in campo erotico-sentimentale. Prove chiare e con­ vincenti, di cui Verrecchia e Fini ci danno notizia nelle loro ri­ cerche, impongono la conclusione che il filosofo fosse affetto da quella che oggi si chiamerebbe impotenza, un’impotenza forse non esente da sfumature omosessuali, che sono il facile esito di una situazione di fallimento assoluto con le donne49. Anche in questo campo, anzi più che mai in questo campo, il confronto con Wagner, grande conquistatore di donne, per non dire di uomini, e delle donne degli uomini che gli stavano intorno, è stato senza dubbio cocente. Ben lungi dal suscitare in lui una gratitudine raddoppiata, la stroncatura di von Bülow, nel suo ruolo di grande direttore d’orchestra nonché di marito e amico tradito, dev’essere stata per lui doppiamente annientante. Non va dimenticato che il Manfredi era la versio­ ne emendata di una composizione non meno disastrosa di cui bisogna ancora parlare, YEco di una notte di San Silvestro, con la quale Nietzsche aveva tentato l’assurda impresa di superare Wagner agli occhi di Cosima. Demolito il Manfredi, era come se Wagner trionfasse due volte e in una duplice veste, come ge­ nio musicale e come prenditore di donne. La sconfitta artistica introduce e commenta l’insuccesso più grave nell’esistenza del filosofo, che per lui sancirà l’impossibi­ 47 F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 44. 48 Ivi, p. 102. 49 A. VERRECCHIA, La catastrofe, cit., p. 34 (sui rapporti con Lou Salomé) e altro­ ve. Paul Rèe, l’amico e rivale nel rapporto con Lou Salomé, ha alcune caratteristiche di gay, e l’amicizia fra lui e Nietzsche ha a tratti delle tinte ambigue, anche se restia­ mo sempre nell’ambito delle implicazioni erotiche accuratamente represse (Μ. Fini, Nietzsche, cit., pp. 136-39).

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lità di realizzare una qualunque vita sentimentale degna di que­ sto nome. L’emulazione di Wagner in campo artistico esprime il tentativo maldestro di avvicinarsi al possesso di un oggetto af­ fettivo. Il suo cuore segreto è l’innamoramento di Nietzsche per Cosima, un sentimento coltivato in silenzio, una passione soffo­ cata e impossibile che, a giudicare dai suoi indizi e dalla sua per­ sistenza fin nella notte della pazzia, ha avuto un’intensità pro­ porzionata all’enorme influsso del musicista. Mai innamoramen­ to ebbe meno chances·, se anche ha compreso (e appare difficile che il suo intuito femminile non abbia compreso) quali tempe­ ste aveva suscitato nell’introverso e polemico amico del marito, è facile immaginare la reazione dell’arrogante e calcolatrice Cosima, che finalmente aveva trovato in Wagner il “cavallo vin­ cente”, il genio da lei tanto agognato; Cosima, che non modifi­ cherà in nulla il programma del festival quando a Bayreuth mo­ rirà il padre Liszt. Da una situazione del genere Nietzsche dev’essere uscito emotivamente in cenere. Mai troverà il corag­ gio di prendere l’iniziativa con nessuna donna, collezionando una serie struggente o patetica, a seconda dei punti di vista, di fallimenti, o meglio di umiliazioni. Nel gioco feroce tra i sessi che i maschi devono saper affrontare per giungere alla meta dell’ac­ coppiamento, e il cui apprendimento è ritenuto singolarmente superfluo da ogni pedagogia e morale ufficiale, nessuno è mai stato più sprovveduto e perdente del povero Nietzsche. Nietzsche si innamora di Cosima per gli stessi motivi per cui scrive musica: avvicinarsi al modello idolatrato e invidiato, riuscire a rimpiazzarlo, a prenderne il posto. Durante le feste di Natale del 1871, egli non si era recato a Tribschen dov’era stato cordialmente invitato, e così il suo biografo Curt Paul Janz analizza «il motivo della dolorosa rinuncia»: ...l’anno prima Wagner aveva sorpreso e reso felice Cosima con la composizione dell’Idillio di Sigfrido-, quest’anno Nietzsche era tornato a essere compositore e aveva messo sotto l’albero di Natale la sua Eco di una notte di San Silvestro per pianoforte a quattro mani, da suonare con Cosima.50 50 C.P. Janz, Il profeta, cit., p. 399.

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Questo è solo il primo di una serie di Natali in cui Nietzsche si terrà lontano da quella che era diventata per lui una specie di famiglia adottiva, uno dei tanti Natali da inferno che costelleranno la sua esistenza di single. Mentre Wagner ri­ mane offeso dal comportamento scostante tenuto dall’amico, l’Eco di una notte diSan Silvestro si limita a suscitare, com’è de­ sumibile da alcuni aneddoti, la canzonatura dei due coniugi, cosa di cui Nietzsche viene a conoscenza. Non c’è da stupirsi che i Wagner notino in lui «una crescente tendenza a espri­ mersi polemicamente e apoditticamente»51. Le reazioni di Nietzsche davanti ai suoi continui scacchi - scacchi, si noti, che è andato lui avidamente a cercarsi - si fanno sempre più tese come risulta anche dalle annotazioni di questo periodo, con la grottesca svalutazione della musica del suo antagonista52, la­ sciando già intravedere la futura rottura. Il colpo di grazia verrà dato a Nietzsche dal trionfo del mu­ sicista a Bayreuth nel 1876. Sballottato nella grande kermesse wagneriana, il filosofo, che sperava di vedersi al centro dell’at­ tenzione per la quarta Considerazione inattuale su Wagner ap­ pena pubblicata (un faticoso esercizio di piaggeria rotto a trat­ ti dall’odio), si sentirà invece ignorato e surclassato dal com­ positore, che per tenere in piedi la mastodontica macchina da lui ideata aveva ben altro a cui pensare. Il vero contrasto che dobbiamo immaginare fra i due non è di natura sottilmente psicologica o filosoficamente ideale, è il brutale, elementare contrasto fra il debole, nevrotico, innamorato Nietzsche che deve rimanere nell’ombra, e il ciclonico, egocentrico Wagner che, oltre a essere circonfuso della grandezza della sua musica, riceveva gli omaggi dai potenti di Germania e d’Europa. La reazione rivalitaria di Nietzsche è così forte da provocare in lui autentici malesseri fisici. Il suo biografo Janz, che non può cer­ to essere sospettato di antipatia verso il protagonista della sua monumentale ricerca, fa la seguente osservazione generale su di lui: «Sovente il suo fisico, in seguito a scosse psichiche, si ri51 Ivi, p. 464. 52 H. ÄLTHAUS, Nietzsche. Una tragedia borghese, tr. it. di Μ. Carpiteli», Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 273-74; Μ. Fini, Nietzsche, cit., pp. 114-15.

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fugiava in una malattia mediante un incidente pilotato dal sub­ conscio», e, in riferimento al festival di Bayreuth, descrive l’e­ loquente contrasto (e relazione) fra lo stato di visibile sofferen­ za di Nietzsche e l’esaltazione generale di quei momenti53. Perseguitato da violentissimi mal di testa di origine psicoso­ matica, le terribili emicranie da cui sarà libero solo alla vigilia della follia, Nietzsche va a Bayreuth, poi se ne va simulando di annoiarsi alla musica, poi vi fa ritorno dichiarando che non rie­ sce a starne lontano, infine abbandona il campo per sempre, ignorato da Wagner e con non poco sollievo di Cosima54. Da quel momento Wagner e tutto ciò che aveva a che fare con lui, l’intera Germania, diventeranno l’idolo polemico del filosofo.

2. L’impossibile morte del rivale

Questa serie concentrica di sconfitte emotive ed esistenzia­ li è andata a inserirsi su quelli che sono stati definiti come «complessi d’inferiorità di fronte alla vita»: All’epoca dei suoi rapporti con Wagner, l’amicizia schiacciante del più tirannico dei geni, la sconfitta sentimentale a cui lo con­ danna il suo amore inconfessato e non condiviso per Cosima, non poterono che rafforzare queste inclinazioni morbose. A ciò bisogna aggiungere lo scarso successo della sua attività di pro­ fessore a Basilea e più tardi la cocente umiliazione che in lui pro­ vocherà la totale indifferenza del pubblico all’uscita dei suoi li­ bri. Ad eccezione di pochi amici nessuno si degnerà di prestare attenzione a lui.55

Sono osservazioni fondamentali, che divengono tuttavia 53 C.P. Janz, Il profeta, cit., p. 330. Come risulta dalle testimonianze raccolte an­ che da Fini, le reazioni psicosomatiche di Nietzsche potevano essere di incredibile in­ tensità. Questo fa pensare, fra l’altro, che diversi dei suoi disturbi siano una forma di imitazione della malattia del padre. 54 Cfr. Μ. Fini, Nietzsche, cit., pp. 126 ss. (l’autore commette l’errore di prendere alla lettera alcune velenose dichiarazioni di Nietzsche). 55 H.-L. Miéville in H. de Lubac, Mistica e mistero cristiano. La fede cristiana, tr. it. di A. Sicari, Jaca Book, Milano 1979, p. 290.

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fuorviami se si dà a esse, come si fa di solito, un valore angu­ stamente biografico, un significato riduttivamente psicologico. C’è ben altro in questione. Se quanto è avvenuto a Nietzsche cessa di apparire come un mero accidente individuale ma vie­ ne visto come manifestazione di leggi generali e riconoscibili, allora il suo significato non è più psicologico o, per essere più esatti, psicologistico. Allora siamo in presenza di forze oggetti­ ve che riguardano la nostra natura di esseri umani, che sono al­ la base del nostro essere uomini, e alla base di ciò che inten­ diamo per psicologia. Per designare questo piano oggettivo, e abitualmente ignorato, Girard usa il termine “antropologia”, identificando all’interno della nostra realtà antropologica una forza immensa, che può essere costruttiva o distruttiva a se­ conda di com’è utilizzata: il desiderio imitativo o mimetico. Quello che diventiamo e che siamo lo dobbiamo all’imitazio­ ne di vari modelli, ma, poiché imitando il modello noi vogliamo possedere le medesime cose - materiali o simboliche - che egli possiede, questo rapporto in sé estremamente fecondo può de­ generare, può diventare rivalità. Nel caso di Nietzsche tutto lo induceva a imitare un modello geniale e ammirato come Wagner, col risultato di una tipica situazione triangolare, in cui il modello (Wagner) senza saperlo indicava al soggetto imitatore (Nietzsche) cosa desiderare (la fama come compositore, l’amore per Cosima). E proprio il sesso, l’amore fisico è l’ambito dove il desiderio imitativo di Nietzsche emerge nella maniera più inge­ nua, più disarmante. Per tutta la vita Nietzsche ha cercato af­ fannosamente e inutilmente di fissare mediante un modello un oggetto erotico del desiderio, ripetersi disperato di triangoli che mai sarebbe potuto andare a buon fine, viste le micidiali dina­ miche rivalitarie che egli era incapace di controllare56. Il caso più spettacolare di desiderio triangolare, perseguito per vie contorte e con un distacco pressoché totale dalla realtà, è la “trinità” che Nietzsche pensa di realizzare col mellifluo Paul Rèe e con la mina vagante Lou Salomé, la stessa che di56 Non disponendo di una visione mimetica del desiderio e pur vagliando con scrupolo le notizie, Fini fraintende sistematicamente la ricerca dissennata di un mo­ dello da parte di Nietzsche (ad es. Nietzsche, cit., pp. 212 e 215).

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chiara al pastore protestante a cui pochi anni prima aveva scon­ volto la vita: «Io non posso vivere secondo un modello e nem­ meno potrò essere un modello per chicchessia»57. Il risultato di un simile romanticismo trinitario, che negava quella dipenden­ za mimetica di cui era la caricatura, non poteva essere per Nietzsche che la più sonora delle disfatte. È significativo, su questo sfondo di manovre goffe e falli­ mentari, che il filosofo prediliga II matrimonio segreto di Cimarosa, che è un’autentica apoteosi comica di triangoli, dove tutti si innamorano imitativamente di tutti. L’ammirazione di Nietzsche per quest’opera era tale che il famulus Gast metterà in musica il suo stesso libretto, e in verità solo l’irresistibile contagio amoroso del capolavoro di Cimarosa avrebbe potuto trascinare con sé il nevrotico, bloccato professore tedesco. Ipotesi oziosa, d’altronde. Difficile immaginare qualcuno più lontano di Nietzsche dalla sublime ironia mimetica del Settecento, dallo spirito di Goldoni e di Mozart. Solo la meta­ fisica dell’adulterio dispiegata nel fiume sonoro del Tristano e Isotta gli corrispondeva, ma proprio qui la potenza musicale ed erotica esibita da Wagner lo sommergeva, indicandogli la ne­ cessità e l’irrealizzabilità dell’adulterio con Cosima. I triangoli nietzschiani sono la triste, rancorosa illustrazione dell’esito peggiore che possano avere i rapporti imitativi. La lo­ ro configurazione a triangolo può infatti portare facilmente l’i­ mitatore all'invidia, soprattutto se il modello è dominante e vo­ racemente accentratore come nel caso di Wagner. Il termine in­ vidia non indica semplicemente il desiderio di ciò che l’altro possiede, ma il sentirsi radicalmente privi di ciò che, apparte­ nendo al modello ammirato, finisce con l’apparire indispensa­ bile alla nostra vita, alla nostra identità. L’invidioso si conside­ ra vittima dell’ingiustizia più grande, quella che gli toglie la lu­ ce del sole, il diritto a esistere, ad amare, e farà qualsiasi cosa pur di impossessarsi del segreto che rende l’altro così inspie­ gabilmente, così immeritevolmente superiore. È questo lo sta­ dio collassante del desiderio ontologico o metafisico, di cui nel 57 Lettera a Hendrik Gillot del marzo 1882 in Triangolo di lettere, cit., p. 85,

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simbolismo mostruosamente letterale dei referti clinici abbia­ mo visto la decomposizione terminale. “Invidia” è un termine massimamente riprovevole, un mar­ chio d’infamia con cui bolliamo chi, in un mondo di “non in­ vidiosi”, si mostra invidioso. L’invidia può essere in effetti uni­ laterale: Caino invidia Abele senza la minima colpa e invidia da parte di questi. Ma il mondo di cui facciamo parte non è nor­ malmente composto di Abeli innocenti, bensì di infiniti Caini, che spesso non sono identificati semplicemente perché sanno fingere meglio. L’invidia è relazionale e mimetica come nessun’altra cosa, giacché è il desiderio mimetico stesso che si sca­ tena fra gli uomini. Anche quando è unilaterale, essa è il risul­ tato di un rapporto imitativo che ha funzionato male in passa­ to, “insegnando” all’invidioso come invidiare. Da un punto di vista simbolico, Caino ha imparato a invidiare dai suoi genito­ ri, colpevoli di aver seguito il modello sbagliato, il serpente, di aver invidiato Dio nel peccato che li ha cacciati dall’Eden. I rapporti mimetici fra gli uomini sono molto spesso di invidia reciproca, e - peggio ancora - di reciproco addestramento al­ l’invidia. L’imitatore invidia il modello perché è già il modello a ragionare in questi termini, a ritenere il suo ruolo un posses­ so geloso da detenere. È in sostanza la situazione che si è ve­ nuta a creare fra Nietzsche e Wagner, anche se essa è stata sen­ za dubbio vissuta da quest’ultimo in beata innocenza, nel sen­ so che egli voleva fare dell’altro un prolungamento della pro­ pria grandezza. Non rendendosi conto delle conseguenze del suo modo di agire, Wagner si vedrà ricambiare con crescente isterismo la sua generosa amicizia, e ne resterà disgustato. Tutto avverrà come in una sorta di maleficio, le cui cause i di­ retti interessati, pur con diversi gradi di responsabilità, non rie­ scono a cogliere. Situazioni di questo tipo sono state studiate come «doppio vincolo», ossia come una relazione contraddittoria da cui il soggetto non ha vie di scampo, qualunque cosa faccia58. 58 Gregory Bateson ha studiato il doppio vincolo (double bind) nei rapporti fra madre e bambino e nella genesi della'schizofrenia, ma la teoria di Girard usa questo principio in chiave più ampiamente antropologica.

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L’imitatore è invitato a seguire e ammirare il modello (l’adora­ zione generale per Wagner) ma, allorché si avvicina troppo al modello, ne è ricacciato (Nietzsche ridicolizzato per la sua mu­ sica, e che lo sarebbe se palesasse il suo amore per Cosima). Il modello infatti tende a confermare il suo ruolo, il suo prestigio e la sua superiorità, ma quando l’imitatore si ritira sconfitto ec­ co che il modello, per mantenere inconsapevolmente il suo ruolo, gli lancia di nuovo l’invito a imitarlo. L’imitatore insom­ ma riceve una duplice ingiunzione contraddittoria («Imitami!» - «Guai a te se mi imiti!»), ed è di conseguenza “punito” sia che imiti il modello sia che non lo imiti, situazione paradossa­ le da cui il soggetto di norma non riesce a venir fuori, poiché è da essa che egli trae la propria identità, il proprio Essere (l’a­ spetto ontologico del desiderio). È evidentemente il ruolo che è venuto ad avere, con l’ausilio di un ambiente repressivo e bi­ gotto, il padre assente, e che poi il giovane Nietzsche ha appli­ cato, anticipando le caratteristiche del modello attraente che doveva essere per questo anche ostile, nell’episodio del duello all’università. Il processo così deformato, quella che ho chia­ mato «struttura del trauma», continua a ripetersi e ad aggra­ varsi per tutta la vita, se non intervengono altri fattori imitativi di correzione, che ovviamente devono interagire con la capa­ cità di scelta dell’individuo. Ma nel triangolo patologico la li­ bertà di scelta diventa sempre minore: l’imitatore vede sempre più il suo modello come irraggiungibile e se stesso come con­ dannato da un destino ineluttabile a essere perpetuamente sconfitto. Mentre il modello viene circonfuso di una luce divi­ na, il suo seguace si vede relegato nelle tenebre della medio­ crità, dell’abbandono, della non esistenza.

Sui rapporti da desiderio ontologico di Nietzsche con Wagner sono eloquenti brani come il seguente, tratto da una let­ tera scritta il 18 aprile 1873, vale a dire alcuni mesi dopo la débà­ cle del Manfredi, e pochi giorni dopo l’annotazione di Cosima sul «dilettantismo musicale del nostro amico». Nietzsche cerca di porre rimedio all’ennesima magra figura da lui ottenuta coi Wagner, che stavano allora ultimando il loro trasferimento a Bayreuth:

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Veneratissimo maestro, vivo nel costante ricordo delle giornate di Bayreuth, e tutto quan­ to di nuovo ho imparato e vissuto in quel brevissimo periodo si di­ spiega davanti à me in una pienezza sempre più grande. Se Lei non sembrava soddisfatto di me quand’ero lì presente, la posso capire anche troppo bene, ma non posso farci nulla, perché imparo e per­ cepisco molto lentamente, e poi ogni momento che passo vicino a Lei è per me un’esperienza alla quale non avevo mai pensato pri­ ma, e che è mio desiderio imprimermi nella mente. [...] La prego, mi consideri solo come uno scolaro, magari con la penna in mano e il quaderno davanti, e per di più uno scolaro con un ingegno molto lento e per nulla versatile. È vero, ogni giorno divento più melanconico perché mi rendo conto perfettamente che vorrei aiutarLa ed esserLe utile in qualche modo, e che invece ne sono assolutamente incapace, tanto da non poter nemmeno contribuire a distrarLa e a rasserenarLa. Eppure forse un giorno ci riuscirò, quando avrò portato a termi­ ne quello che ora ho sottomano, cioè un saggio contro il famoso scrittore David Strauss.59

L’imitatore si prosterna, si annulla di fronte al modello, al «veneratissimo maestro», ma le sue dichiarazioni esagerate di inferiorità e sottomissione rivelano l’intensità del desiderio in fase montante, indicata anche dalla crescente melanconia, la depressione provocata dall’insufficienza rispetto al modello, alla quale il soggetto in altri momenti reagisce con un’esalta­ zione ciclica tendente alla megalomania. Nietzsche, untuosa­ mente abbassatosi al rango di uno scolaretto «con un ingegno molto lento», deve dimostrare a tutti i costi al suo idolo mai “soddisfatto” il proprio valore e, con le dinamiche già identifi­ cate nel Manfredi e nella reazione del suo duro censore, non trova di meglio che sfogare la propria rabbia repressa contro un obiettivo polemico, che finalmente dovrà “distrarre” e “ras­ serenare” il modello, cioè allentare la tensione ontologica che condanna l’imitatore a un’inferiorità permanente. Il nemico comune gli era stato indicato dal maestro, si tratta del «famo­ so scrittore David Strauss» (da notare il corsivo), l’ignaro ber­ 59 F. Nietzsche, Epistolario 1869-1874, cit., pp. 448-49.

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saglio che farà le spese di questi fumi esplosivi nella prima Considerazione inattuale, tanto più gratuitamente feroce se consideriamo che in essa Nietzsche, con le modalità schizofre­ niche che ci sono ormai famigliari, sembra vendicarsi dell’influsso che ha avuto su di lui l’autore della Vita di Gesù e della simpatia che provava nei suoi confronti60. Ma è chiaro che tali diversioni non cambiano, anzi confermano il problema dal quale sorgono. Quanto poco Nietzsche potesse fare affidamento su mano­ vre di questo tipo risulta, oltre che da un’analisi interna del suo rapporto con Wagner, anche dai documenti dello stesso perio­ do, che ci illustrano la forza e il graduale intensificarsi del dop­ pio vincolo rivalitario. Il rancore del seguace di Wagner verso il modello da cui si sente annientato si accumula senza che egli se ne voglia rendere conto, condizionando in maniera vistosa e apparentemente inesplicabile il suo comportamento. Il feno­ meno sta diventando incontrollabile. Come egli scrive a von Gersdorff, non molte settimane prima della lettera dello «sco­ laro con un ingegno molto lento»: Dal Maestro e dalla signora Wagner ho avuto lettere splendide, è venuta fuori una cosa che ignoravo completamente, cioè che Wagner si è sentito molto offeso perché non sono andato da lui per Capodanno. Tu questo lo sapevi, carissimo amico, ma non me lo hai detto. Ora però tutte le nubi si sono dileguate, ed è stato piut­ tosto un bene non averne saputo nulla, perché certe volte a molte cose non si può rimediare, e si rischia semmai di fare peggio. Del resto sa Iddio quanto spesso io dia motivo di cruccio al Maestro: torno ogni volta a meravigliarmi, e non riesco a capire bene da che cosa dipenda. Tanto più sono contento che ora si sia di nuovo fat­ ta la pace. Ma dimmi il tuo parere sui ripetuti motivi di cruccio. Non so davvero immaginarmi come si potrebbe avere verso Wagner, in tutte le cose importanti, una fedeltà più grande della 60 Giustamente Fini definisce la prima Inattuale «una pura operazione di killeraggio intellettuale» (Nietzsche, cit., p. 111). Il transfert mimetico è così intenso che Nietzsche attribuisce a Strauss esattamente quel ruolo di «fondatore della religione dell’avvenire» che lui qualche anno dopo cercherà a ogni costo di incarnare (E Nietzsche, Considerazioni inattuali, tr. it. di S. Giametta e Μ. Montinari, Einaudi, Torino 1981, p. 21).

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mia, e come si potrebbe essergli più profondamente devoti di quanto lo sia io [...]. Ma riguardo a piccole questioni di seconda­ ria importanza e alla mia intima necessità, che potrei chiamare an­ che “igienica” [sanitariscb], di evitare troppo frequenticonvivenze personali, riguardo a questo devo salvare una mia libertà, davvero soltanto per poter mantenere quella fedeltà in un senso più alto.61

In brani come questo diventa impossibile capire dove fini­ sce la menzogna deliberata e dove comincia una faticosa e tor­ tuosa buona fede. Nietzsche ostenta di cadere dalle nuvole, ep­ pure non solo non aveva un grande diritto di stupirsi delle rea­ zioni al suo comportamento poco corretto, ma era già stato perfettamente informato dell’offesa di Wagner da una lettera della stessa Cosima, in cui lei si diceva poi sicura che col tem­ po sarebbe di nuovo sbocciata «la purezza dei sentimenti ge­ nuini»62. Ed è certo quello che sta avvenendo, anche se non con la purezza che Cosima immagina. Nietzsche si contorce nel tentativo di nascondere a se stesso la verità, addossando al «ca­ rissimo amico» la responsabilità di averlo tenuto all’oscuro, ma uscendosene nell’ammissione rivelatrice che è stato meglio non saperne nulla «perché certe volte a molte cose non si può ri­ mediare». Niente di più irreale e ipocrita della «pace» di cui egli si dichiara «contento». L’espressione «piccole questioni di secondaria importanza» tradisce il desiderio di controllarle e ridurle al minimo proprio perché sono in realtà decisive e, co­ me egli stesso ammette, senza rimedio. La conseguenza è che Nietzsche deve prendere misure “igieniche”, “sanitarie” contro Wagner, la presenza dell’altro è come un veleno, un morbo contagioso dal quale non farsi con­ taminare. Questa «fedeltà in un senso più alto», cioè in assen­ za dell’altro, suona un po’ come certi epitaffi: nessuna genero­ sità è più facile che verso i morti, che, in quanto tali, non sono più in grado di nuocere. L’eufemismo dolciastro va preso nella sua realtà originaria. L’unica soluzióne del problema sanitario 61 Lettera del 2 marzo 1873 in F. Nietzsche, Epistolario 1869-1874, cit., pp. 43435 (F. NIETZSCHE, Briefwechsel, a c. di G. Colli e Μ. Montinari, vol. II, tomo III, Brie­ fe von Nietzsche: 1872-1874, de Gruyter, Berlin-New York 1978, p. 131). 62 Lettera del 12 febbraio 1873 in F. NIETZSCHE, Epistolario 1869-1874, cit., p. 698.

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di Nietzsche sarebbe la morte dell’altro, ossia il suo annienta­ mento totale. Solo questa conclusione, intesa nel senso più let­ terale, permette di intendere più compiutamente l’immagine scatologica del Nietzsche “intasato” nel suo apparato digeren­ te dalla musica di Wagner. Nietzsche, riempito attraverso la musica dall’Essere appartenente al modello ammirato e invi­ diato, se ne deve liberare con i propri escrementi: l’espulsionedefecazione significa allora eliminare il rivale dopo averne as­ sorbito la forza; equivale, mostruosamente, all’averlo mangia­ to. .. Non è questa l’ultima implicazione del cannibalismo a cui si riferisce l’abbozzo di lettera a von Bülow? L’illusoria liberazione attraverso l’uccisione del rivale sem­ brerà avverarsi diversi anni dopo la lettera a von Gersdorff. Alla notizia della morte di Wagner, il Nietzsche abbattuto per l’inglorioso epilogo della trinità con Lou Salomé e Paul Ree co­ sì scriverà a Gast: Per alcuni giorni, sono stato fortemente ammalato e ho procura­ to delle apprensioni ai miei padroni di casa. Ora sto di nuovo be­ ne e credo, perfino, che la morte di Wagner sia stata il più im­ portante sollievo che mi potesse essere apportato in questo mo­ mento.63

Verrecchia commenta: «...o Nietzsche era già folle, o era moralmente mostruoso»64. Di fronte a comportamenti del ge­ nere una reazione morale è più che comprensibile, e ancor più comprensibile se pensiamo al comportamento assolutamente 63 Lettera del 19 febbraio 1883 in A. VERRECCHIA, La catastrofe, cit., p. 76. Cfr. la lettera a Malwida von Meysenburg del 21 febbraio 1883: «...credo che questo avveni­ mento, visto in prospettiva, rappresenti per me un sollievo» (Triangolo di lettere, cit., p. 275). Anticipatrici e sintomatiche, sotto la maschera dell’ipocrisia, certe immagini usate nella lettera a Wagner del 20 maggio 1874 scritta per il compleanno del compo­ sitore, quando, in risposta a Wagner che gli faceva notare che sembrava volersi pre­ munire dallo stare con lui, il filosofo dice che vorrebbe contare il tempo a lustri come gli antichi Romani, che associavano a questa scadenza «grandi sacrifici di purificazio­ ne» (F. NIETZSCHE, Epistolario 1869-1874, cit., pp. 530-32). Non c’è dubbio: con la morte dell’antagonista il “grande sacrificio di purificazione” sembra essere giunto. 64 A. VERRECCHIA, La catastrofe, cit., p. 76. Va aggiunto che anche in questo Nietz­ sche non era senza modelli, se è vero che Wagner è esploso in scene di esultanza alla notizia che l’odiato Meyerbeer era morto (Μ. Fini, Nietzsche, cit., p. 105).

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tranquillo, se non divertito, tenuto da un Nietzsche ormai vici­ no all’epilogo quando, mentre come al solito stava svernando a Nizza, un terremoto devasta la città provocando centinaia di morti. L’olimpico commento di Nietzsche è: «ero l’unico sere­ no fra larve»65. Tuttavia una doverosa condanna delle reazioni disumane di Nietzsche, se resta da sola, rischia di proiettare il male sul “mo­ stro morale” senza indagarne ulteriormente le cause, che si an­ nidano invece dentro ognuno di noi. La più vera natura della reazione di Nietzsche ci viene suggerita dalle crescenti intem­ peranze verbali, dalle contumelie e gli insulti di cui egli gratifi­ cherà l’amico anche e soprattutto dopo morto, attribuendogli quella natura grottesca di istrione che egli cercava di allonta­ nare da sé. Se la morte di Wagner fosse stata per Nietzsche «il più importante sollievo», non dovremmo registrare un com­ portamento di segno opposto? Il fatto è che la morte del riva­ le può rendere il rapporto rivalitario definitivamente insanabi­ le: il rivale diviene ormai imprendibile, l’imitatore non potrà più dimostrargli alcunché, la sentenza di inferiorità costitutiva, ontologica passa, per così dire, in giudicato. Nulla potrà dare sollievo all’ulcera da cui è piagato il filosofo, nessuna defeca­ zione più o meno simbolica lo potrà liberare. Riferendosi alle reazioni di Nietzsche alla morte del suo maestro e rivale, Overbeck parla di «un’alternanza di stati d’a­ nimo veramente paurosa»66. Di questa alternanza paurosa fa parte anche l’inconsiderato tentativo di “riconquistare” il cuo­ re di Cosima per via epistolare, tentativo che la vedova del compositore non degnò nemmeno di una risposta di circo­ stanza. Della lettera rimangono solo gli abbozzi, dal tono far­ neticante67. L’ombra di Wagner, come il fantasma del padre, come gli spettri che perseguitano i personaggi di Shakespeare, si sarebbe rivelata ancora più forte del Wagner vivo e reale. 65 In Μ. Fini, Nietzsche, cit., p. 293; sulle reazioni di Nietzsche v. anche C.P. JANZ, Vita di Nietzsche, cit., vol. Π, Il filosofo della solitudine (1879-1889), Laterza, RomaBari 1981, p. 472. 66 Lettera di Overbeck a Gast del 17 marzo 1883 (Triangolo di lettere, cit., p. 278). 67 Gli abbozzi sono databili alla metà di febbraio del 1883 (Triangolo di lettere, cit., p. 455).

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La presenza di motivazioni oscure e inconfessate nella for­ sennata polemica nietzschiana non sfuggirà a un lettore ipermimetico come Gabriele d’Annunzio che, pur simpatizzando per le idee di Nietzsche, difende la grandezza del «Gesù di Bayreuth», e parlando del Caso Wagner in un articolo del 1893 osserva: Come il lettore vede, non si tratta soltanto d’un caso Wagner, ma ben anche d’un caso Nietzsche. C’è qualcosa di frenetico in que­ sto bizzarro libello: nella successione disordinata delle idee, nella incoerenza sintattica delle frasi, nella furia dell’invettiva.68

Proprio il confronto col protagonista del decadentismo ita­ liano, e non solo italiano, è a questo punto dei più illuminan­ ti. Contrariamente ai luoghi comuni ripetuti dai critici, d’Annunzio ha una magnifica comprensione delle ragioni che muovono il pensiero di Nietzsche, da lui conosciuto da poco, ma attua nei suoi confronti delle precise difese: ricettivo come una spugna ma geloso della sua autonomia, lo scrittore italia­ no avverte di essere portatore di un’ambiguità più ricca, e an­ che più virile, delle declamatorie incursioni nietzschiane, am­ biguità di cui Wagner è parte integrante, col sogno di rifonda­ zione teatrale rigettato per invidia e per odio da Nietzsche, e che egli invece farà suo, anche se non senza chiari sintomi rivalitari. Sullo sfondo della comune passione per Wagner e so­ prattutto degli stessi problemi antropologici e storici, è d’Annunzio a gettare luce su Nietzsche più di quanto non av­ venga il contrario. D’Annunzio vuole usare Nietzsche senza rompere l’ambivalenza che è la matrice preziosa della sua arte: si pone non lontano dal filosofo del superuomo, ma nemmeno troppo vicino, per non distruggere le rappresentazioni umane e artistiche che intende esplorare. 68 Articolo II caso Wagner, ora raccolto in G. D’ANNUNZIO, Il caso Wagner, a c. di P. Sorge, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 74 (citato in A. VERRECCHIA, La catastrofe, cit., p. 293). Cosima aveva fatto pubblicare il 25 ottobre 1888 a Richard Pohl una risposta al Caso Wagner recante il titolo II caso Nietzsche (H. Althaus, Nietzsche, cit., p. 542), e nel dicembre Nietzsche aveva parlato a Gast e ad altri del progetto di una controre­ plica con lo stesso titolo (A. VERRECCHIA, La catastrofe, cit., p. 169; v. anche la Crono­ logia in F. NIETZSCHE, Crepuscolo, cit., pp. 159 e 177).

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L’indagine mimetica dello scrittore italiano ci può far capi­ re, infinitamente meglio di qualunque volontà di potenza, ciò che è accaduto a Nietzsche con la sua rivalità verso Wagner. D’Annunzio non dice quanto il «caso Nietzsche» fosse simile a quello dei personaggi di tante sue opere, e a quello di un ro­ manzo da lui appena pubblicato l’anno prima, Linnocente, in cui il protagonista Tullio Hermil, morbosamente geloso della moglie che l’ha tradito con un famoso scrittore, è perseguitato dall’immagine dell’Altro, da lui emblematicamente incontrato un giorno in una palestra di scherma. Nel sapere che lo scrit­ tore era stato colpito da una forma mortale di paralisi progres­ siva, il protagonista viene preso da una strana voglia di ridere [...]. Era una eccitazione singolarissi­ ma, un po’ convulsiva, non mai provata, indefinita. Mi agitava lo spirito qualche cosa di simile a quella ilarità bizzarra e irrefrena­ bile che ci agita qualche volta tra le sorprese d’un sogno incoe­ rente.69

I sintomi di tipo isterico di questa «strana voglia di ridere» sono le stesse risate infernali del giovane Nietzsche destinate a infittirsi con ravvicinarsi della catastrofe, e corrispondono all’«importante sollievo» avvertito da Nietzsche alla notizia della morte di Wagner. Il trionfo di Tullio Hermil dura però pochi istanti. Subito dopo, il personaggio, con una lucidità su se stesso che Nietzsche non ha mai voluto raggiungere, si ac­ corge di avere sensazioni opposte alla gioia speciosa appena provata: Non provavo più alcuna gioia. Ogni eccitazione d’odio era estin­ ta. Una tristezza cupa mi piombò sopra. - La ruina di quell’uo­ mo non influiva sul mio stato, non riparava alla mia ruina. Nulla era mutato in me, nella mia esistenza, nella previsione del mio av­ venire.70

69 G. D’ANNUNZIO, L'innocente, a c. di M.R. Giacon, A. Mondadori, Milano 1996, p. 190. 191.

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Il protagonista si rende conto che il rivale gli è sfuggito an­ cora, e stavolta per sempre. La rivalità, già presente nel suo amore possessivo ed egoistico, si abbatte incontrollabile sui suoi rapporti con la moglie, il partner-rivale che nel Trionfo della morte diventerà la Nemica. Inutilmente egli cercherà una mostruosa e tacita alleanza con la moglie per liberarsi del figlio che la donna aspetta dallo scrittore, inutilmente Tullio Hermil provocherà la morte del bambino: la coscienza di aver sacrificato una vittima innocente non gli darà requie. Per capire cosa succede al personaggio dello scrittore italia­ no e alla mente del pensatore tedesco dobbiamo tornare alla si­ tuazione da cui siamo partiti, quella del duello. Il duello evo­ cato da d’Annunzio, e nevroticamente invocato da Nietzsche, è l’immagine tipica quanto tradizionale della situazione di ri­ valità. Successione di atti perfettamente simmetrici che mirano al prevalere di un’ultima imitazione, quella più precisa, quella mortale, il duello ci restituisce nella forma più trasparente lo schema di ogni rivalità: il rapporto di doppio, rapporto che può avere gli esiti più distruttivi, in cui alla «ruina» dell’Altro cor­ risponde la propria. Con un tono febbricitante che è tutto suo, Nietzsche così descrive, in Aurora, il carattere autodistruttivo di questo ritua­ le che dominava lugubremente la vita sociale di allora: Il duello. Considero un vantaggio, diceva un tale, poter fare un duello, quando ho assolutamente bisogno di farne uno; infatti in ogni momento ci sono attorno a me dei bravi camerati. Il duello è l’ultima via, pienamente onorevole, che ci sia rimasta per il sui­ cidio, purtroppo una via traversa, e neppure del tutto sicura.71

Sotto il travestimento dei «bravi camerati» ritroviamo il compagno di università da sfidare perché particolarmente sim­ patico. La precisazione «pienamente onorevole» cerca di stabi­ lire quell’attenzione, quel prestigio sociale di cui il duellante si sente privo. L’ultimo scopo di questa ricerca - l’autodistruzio­ 71 E Nietzsche, Aurora, cit., libro IV, af. 296, p. 182.

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ne - non è tuttavia meno dissennato della premessa, e la «via» per conseguirlo rimane per giunta «traversa, e neppure del tut­ to sicura». Il primo obiettivo dovrebbe essere l’uccisione dell’odiato rivale, ma la volontà di battersi nasce dall’incertezza più disastrosa, che si fa strada dentro il soggetto come la caver­ na scavata da un fiume carsico. Nietzsche ha paura di precisare meglio qual è questa «via» e, con l’estraniazione rassicurante della scrittura, tenta di allontanare la consapevolezza che sente pericolosamente crescere dentro di sé. Egli vuole allontanare la percezione che il duello è interno al suo io, eppure avverte che il suo stesso essere non vi può sfuggire, vi appartiene con ogni sua fibra, fino a diventare suicidio. Come dice d’Annunzio sem­ pre nell’innocente, esprimendo mirabilmente il carattere di­ struttore e simmetrico del doppio vincolo rivalitario: ...era un nemico, un avversario col quale stavo per impegnare la lotta. Egli era la mia vittima ed io ero la sua. Ed io non potevo sfuggirgli, egli non poteva sfuggirmi. Eravamo ambedue chiusi in un cerchio d’acciaio.72

Perché questi personaggi moderni, non diversamente dall’Amleto di Shakespeare73, non riescono a sfogare nel duel­ lo costantemente evocato la loro violenza? La distruttività dei doppi percorre normalmente in loro strade più tortuose e insi­ diose delle antiche sfide all’ultimo sangue: il soggetto si vieta comportamenti platealmente aggressivi, che incontrano una crescente riprovazione sociale, e spesso oppone al suo odio verso il modello-rivale una qualche resistenza morale. Nella so­ cietà moderna il rapporto di rivalità trova con sempre maggio­ re difficoltà gli sfoghi sanguinosi di un tempo e, a meno che non venga superato altrimenti, si manifesta inesorabilmente al­ l’interno del soggetto come conflitto insolubile fra repulsione e attrazione, fra odio e amore.

72 G. D’Annunzio, Einnocente, cit., p. 170. 75 R. GlRARD, A Theater of Envy: William Shakespeare, Oxford University Press, Oxford-New York 1991, cap. 30, pp. 271 ss. (Shakespeare. Il teatro dell'invidia, tr. it. di G. Luciani, Adelphi, Milano 1998, pp. 432 ss.).

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L’effìmero sollievo di Nietzsche alla morte di Wagner è an­ che il tentativo di reagire al dolore che questa morte gli provo­ ca, di negare insieme al rivale il problema. Egli odia Wagner con la stessa intensità e per gli stessi motivi per i quali lo ama. Nietzsche è anche quello che scriverà in Ecce homo, in un mo­ mento di abbandono che ha dello straziante: «io ho amato Wagner»74, e un’importante testimonianza sull’ultimo periodo di Torino ci mostra come il filosofo pregasse la figlia dei suoi ospiti «di suonargli del Wagner - solo del Wagner»75. La vio­ lenza senza catarsi dei moderni mostra in forma drammatica la natura infernale della rivalità, il suo non aver accesso alla co­ municazione d’amore, il suo non rassegnarsi a capire che non si odia né tanto meno si desidera uccidere impunemente chi si ammira e si ama. La conseguenza di questo cocktail esplosivo è che i doppi si moltiplicano dentro il soggetto, a volte potenziandone la creatività (che è imitativa e quindi duplicativa), ma comunque danneggiandone in modo anche grave la stabilità, fino al limi­ te estremo della pazzia. Sia nei rapporti fra le persone che al­ l’interno di queste, i doppi mimetici tendono infatti a forma­ re una struttura, un sistema che, se controllato psicologica­ mente e socialmente, è di grande fecondità creativa, come av­ viene appunto nelle duplicazioni rappresentative dell’arte, ma che se non controllato può letteralmente impazzire. Sempre d’Annunzio è un esempio quanto mai pertinente delle potenzialità creative dei doppi mimetici. Anche in lui possiamo osservare una sostanziale ambivalenza nei suoi rap­ porti con Wagner, ma lo scrittore italiano risolve i doppi del suo mimetismo nella creatività artistica e in un’indagine ap­ passionante sul suo desiderio, già audacemente intrapresa con il piacere. Nel romanzo II Fuoco Stello Èffrena insegue il so­

74 E NIETZSCHE, Ecce homo, cit., p. 127; l’espressione (preceduta da: «In questo affare mi sono tenuto per me tutti i pezzi decisivi -») appare tanto più significativa in quanto sostituisce un più illusorio: «ho tempo» (v. l’apparato di E NIETZSCHE, Il ca­ so Wagner ecc., cit., p. 621, n. 154); Nietzsche avverte in realtà di non avere più tem­ po, e dichiara l’intensità della sua dipendenza da Wagner. 75 A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 207.

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gno di una nuova arte dionisiaca capace di soggiogare la «smi­ surata chimera occhiuta» della folla, e ha in Wagner il model­ lo e rivale supremo da venerare e da superare. Ma Èffrenad’Annunzio dispone di altre risorse rispetto a Nietzsche, e rie­ sce a utilizzare a scopi creativi il desiderio di veder scompari­ re il modello-rivale: Wagner appare a Venezia ormai vecchio e malato e, allorché ha un malore, Èffrena lo soccorre e sostie­ ne sulle sue spalle; quando, alla conclusione del romanzo, il maestro muore, il protagonista, insieme con dei suoi compa­ gni, porta il feretro dell’Eroe, del Rivelatore, autodesignandosi come suo successore nell’arte teatrale. La rivalità non è su­ perata, ma è accortamente deviata, traducendosi nella ritualità derivata dell’arte, e consentendo all’imitatore un rapporto dif­ ficile ma costruttivo col mondo, una possibilità di imparare, di guardare a se stesso. Sono possibilità che Nietzsche non ha mai voluto sfruttare, relegando in secondo piano gli impulsi artistici e teatrali di cui abbiamo visto un esempio giovanile immediatamente respinto, impulsi poi riaffioranti a dispetto di tutto nelle opere della maturità. Il “sistema di doppi” che si sviluppa nella mente e nel pensiero del filosofo, sotto la spin­ ta della rivalità non superata con Wagner e in assenza della de­ viazione rappresentativa dell’arte, si rivelerà certo creativo, ma resterà fatalmente orientato verso lo squilibrio psichico. Non è difficile dimostrare come siano questi doppi rivalitari il motore nascosto del pensiero nietzschiano.

3. Le maschere di un filosofo Nella situazione concreta di Nietzsche carico di risenti­ mento nei confronti di Wagner, il depositario della “potenza” in campo artistico, sentimentale, sociale, va riconosciuto il nu­ cleo della sua idea di volontà di potenza, che si connota co­ stantemente, difatti, come volontà agonistica e competitiva. La volontà di potenza da lui esaltata è il risentimento di Nietzsche trasfigurato positivamente perché riguarda lui stes­ so, mentre il risentimento è la volontà di potenza insidiosa e coperta dei più deboli verso i più forti, i pochi, gli aristocrati-

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ci: i più deboli formano il “gregge”, contro cui Nietzsche sca­ glia con regolarità alla fin fine monotona i suoi fulmini, la mas­ sa amorfa che per prevalere inventa la morale e il cristianesi­ mo. Proprio perché si rende conto che si tratta di gradi diver­ si di un’unica forza, Nietzsche cerca di impadronirsene, di es­ serne il depositario. La volontà di potenza che egli deve pos­ sedere nel grado più alto è la differenza decisiva, destinata a salvarlo dal risentimento livellatore del gregge, dall’oscillazio­ ne dei doppi della rivalità. Ma venire a capo della rivalità superando tutti i rivali è un’impresa impossibile. Non dobbiamo farci abbagliare dal­ la figura del superuomo: il superuomo, o l’oltre-uomo come taluni traducono nel vano tentativo di trasfigurarne l’essenza, è semplicemente colui che supera gli altri, colui che vince sempre. Potrebbe essere oggetto di un interessante studio di psicologia storica e sociale descrivere gli innumerevoli modi in cui una figura così poco probabile nella sua apparenza, e così poco gradevole nella sua sostanza, è stata oggetto di esal­ tazioni e disquisizioni sottili, spesso col sottinteso che l’unico rappresentante di questa specie straordinaria sia colui che ne parla. L’egocentrismo dei chiosatori è in realtà titillato dal su­ peruomo nietzschiano per motivi più sofisticati, ma non mol­ to diversi da quelli per cui l’uomo medio sogna di diventare Superman, e la casalinga frustrata la sua fedele compagna o la donna dotata di superpoteri. La trivialità degli esempi non deve indignare. L’immaginario popolare (e americano), nella sua sancta simplicitas, può essere più rivelatore di mille dotti discorsi. Ben a ragione, d’altronde, Nietzsche non è entrato in maggiori dettagli sul suo superuomo, poiché tale figura si caratterizza in termini soprattutto negativi: essa sistematicamente persegue il contrario di quello che fanno gli altri, si ca­ ratterizza cioè con l’imitazione tipica dei rapporti di rivalità, Γimitazione negativa, che si illude di distinguersi per una sua originalità incomparabile, quando invece essa spia ossessiva­ mente tutto ciò che fanno gli altri all’unico scopo di fare sem­ pre con esattezza l’opposto. Des Esseintes, il protagonista di Controcorrente che trova volgari le sue più cervellotiche tro­ vate non appena vengono imitate dai “bottegai”, il dandy che

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ha sempre bisogno di fare il contrario degli altri, è l’antenato di ciò che le mode attuali ci mostrano sotto forma di consu­ mo di massa, l’imitazione più servile e più cieca che si possa immaginare. È giusto riconoscere alla creatura di Nietzsche una patente di maggiore tragicità rispetto all’immaginario consumistico at­ tuale, ma a patto di ricordare che la vera tragicità non è quella che si libra al di fuori del quotidiano, bensì quella che se ne ali­ menta, che ne mostra il volto nascosto. La tragedia insita nel su­ peruomo è che quest’autentico fantoccio da competizione de­ ve vincere non solo il gregge, ma anche i suoi simili, tant’è ve­ ro che Nietzsche lo proietta sempre in un luminoso passato o in un futuro ancor più luminoso (e vedremo di che luce), ma mai nel presente. E si può scommettere che nel presente il su­ peruomo troverà sempre qualcuno in grado di batterlo, Wagner, il fantasma di Wagner, gli ammiratori di Wagner, infine il mon­ do intero. La mente di Nietzsche ospita perciò nel suo interno una permanente crisi dei doppi. Egli è troppo lucido per non registrare la crisi e insieme troppo accecato per non sognare di affermare la sua vittoria, la vittoria dell’ultimo doppio capace di annientare tutti gli altri. I doppi della volontà di potenza so­ no il problema da risolvere, il mezzo per risolverlo, la vittoria risolutiva. La volontà di potenza è già la pazzia di Nietzsche che spera di guarire con i suoi propri mezzi, sogno di salute irreale, di autosufficienza divina, delirio di onnipotenza. Nietzsche esprimerà questo sogno in tono sincero, e con ve­ re qualità di poeta, ed è anche questo autentico pathos del de­ siderio che ci aiuta a comprendere il fascino che questa figura ha esercitato su intere generazioni, che si sono illuse in tal mo­ do su una conclusiva vittoria delle loro brame mimetiche. Quante esistenze cariche di frustrazioni e rancore non si sono riconosciute nel risentimento nascosto di Nietzsche, fantasti­ cando di una loro rivincita nei confronti dell’odiato “gregge”, dell’intera società? Subito prima della piena maturità del pen­ satore tedesco, uno scrittore russo, Dostoevskij, aveva analiz­ zato come nessun altro questi figli di una frustrazione che ha del metafisico, questi abitanti del sottosuolo del loro rancore, quelli che in un suo grande romanzo diventano i «demoni».

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Nel suo ultimo periodo prima del crollo Nietzsche leggerà con grande attenzione sia i Ricordi dal sottosuolo sia I demoni, ma senza riuscire ad applicarne il tremendo insegnamento. Ancora pochi anni, e questi figli del sottosuolo, questi «demoni» avrebbero trasformato il proprio risentimento in ideologie for­ sennate, in regimi politici da tregenda. Vi è però una differenza importante tra Nietzsche e i suoi imitatori, una differenza che ci permette di cogliere il peculia­ re rapporto conoscitivo del suo pensiero con le sue rivalità non superate. Al pari di tanti suoi ammiratori e di noi, egli si rifiu­ ta di vedere a fondo il suo desiderio, l’invidia e la rivalità che sono il triste bagaglio della nostra esperienza di esseri umani76. Ma, nel momento preciso in cui nasconde a se stesso il suo de­ siderio, Nietzsche vuole spuntare la sua disperata vittoria pro­ prio laddove sente che nasce il problema, cioè in questo desi­ derio stesso, che egli cerca a tutti i costi di trasfigurare e uti­ lizzare sotto forma di camuffamento filosofico. Dopo essersi calata una maschera sul volto, la stessa con cui aveva strenua­ mente tentato di coprire il proprio disastroso bisogno di mo­ delli77, il filosofo vuol fare di questa maschera il centro mede­ simo della propria visione. «Tutto ciò che è profondo ama la maschera» afferma Nietzsche78. E poiché la maschera, come simbolo ed elemento rituale, riguarda l’origine sacra dell’uo­ mo, ne è letteralmente l’immagine, questo porta il pensatore tedesco a un oggettivo confronto con la realtà antropologica fondamentale, con ciò che regge non l’individuo soltanto, ma l’intera cultura, l’intera storia dell’uomo. Il sottosuolo del suo 76 Fuorviarne l’affermazione di Fini secondo cui Nietzsche «nel profondo, capisce tutto, assolutamente tutto di se stesso» {Nietzsche, cit., p. 264): egli avverte sì tutto di sé, ma rifiutandosi di comprenderlo, e di accettarlo; se avesse fatto questo il filosofo non sarebbe impazzito. 77 Sulla necessità di fingere per il disadattato Nietzsche v. Μ. Fini, Nietzsche, cit., pp. 67-70. 78 F. NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, tr. it. di E Masini, Adelphi, Mila­ no 1992, cap. II, af. 40, p. 46; già Lou Salomé aveva avvertito l’importanza della ma­ schera e del travestimento in Nietzsche, citando questo e altri passi (L. AndreasSalomé, Vita di Nietzsche, a c. di E. Donaggio e D.M. Fazio, Editori Riuniti, Roma 1998, pp. 57-58).

IL FILOSOFO E IL SUO DOPPIO

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risentimento, attraverso la maschera, diventa scavo archeologi co, stratigrafia del suo e nostro inconscio culturale. Nietzsche avverte che quanto prova è indissolubilmente legato a una co­ noscenza visibile e insieme nascosta di cui si fa il banditore, lanciandosi in un’avventura senza precedenti che non è solo verbale, ma esistenziale. È questa la peculiare, paradossale coe­ renza, o meglio meta-coerenza, di tale filosofo, ed è questo a conferire ai suoi scritti il loro tono entusiasmante e insieme si­ nistro di profezia, una profezia che sarà l’autore il primo a preoccuparsi di realizzare. Questo desiderio negato/cercato, questo desiderio-maschera spiega il suo atteggiamento da un lato verso Dioniso, dall’altro verso il cristianesimo. Dioniso è in Nietzsche il simbolo greco del fondamento sa­ crificale della società e della cultura, ma per spiegare i motivi di una simile caratterizzazione dobbiamo ricorrere a Girard, perché più che mai qui il pensatore tedesco deve mantenere l’ambiguità della maschera di cui Dioniso è il dio79. Contraria­ mente a ciò che tenta di far credere Nietzsche, il mistero del­ la maschera è risolvibile, basta prenderla per quello che è, non una superficie splendente, quanto piuttosto una macabra fos­ sa in cui si può e si deve scavare, una fossa che, come uno sca­ vo archeologico, contiene gli strati non solo della nostra psi­ cologia, ma della nostra storia, della nostra preistoria colletti­ va. Per rendere giustizia alla grandezza di Nietzsche la filoso­ fia non è sufficiente, bisogna ricorrere a uno studio più com­ plessivo e più ampio dell’uomo, alla dimensione antropologi­ ca esplorata da Girard. Nietzsche avverte, sa che in Dioniso c’è il segreto dell’origine umana. È il labirinto di Dioniso, quindi, che adesso dobbiamo percorrere.

79 In assenza di una teoria antropologica corretta, anzi senza nemmeno avvertire l’esistenza di un problema antropologico fondamentale, Jaspers definisce il Dioniso di Nietzsche come il simbolo della «totalità dell’essere nella sua unità», il che non è fal­ so, ma non nel senso speculativo e astratto a cui pensa lui; precisamente per questa astrattezza che evita tutto ciò che è troppo fastidiosamente reale «nessuno si è mai ap­ propriato del simbolo di Dioniso» (K. Jaspers, Nietzsche. Introduzione alla compren­ sione del suo filosofare, a c. di L. Rustichelli, Mursia, Milano 1996, pp. 338-41).

IV. La fondazione di Dioniso

1. La vera “morte” di Dio Allo scopo di esaminare gli strati archeologici disseppelliti da Nietzsche dobbiamo ripartire dalle dinamiche “da doppio vincolo” del desiderio. Esse sono perennemente attive nell’am­ biente sociale in cui l’uomo vive e si forma, e rendono prima o poi inevitabile il crearsi di rivalità e di violenze che a loro vol­ ta tendono a moltiplicarsi. Nulla è più contagioso della violen­ za, della risposta uguale e contraria che ogni azione violenta contro di noi provoca in maniera quasi irresistibile, imitazione simmetrica e distruttiva da cui può nascere una crisi di gruppo, una crisi dei doppi, che rappresenta il modello originale della crisi che si scatena nella mente di Nietzsche. L’unico modo im­ mediato di uscirne è concentrare l’imitazione violenta su un so­ lo obiettivo, sulla selezione del quale tutti i contendenti si ri­ trovano d’accordo: è il meccanismo già osservato nel tentativo del giovane Nietzsche di solidarizzare con il suo modello ucci­ dendo verbalmente David Strauss, o di Tullio Hermil di salva­ re il suo matrimonio uccidendo fisicamente, con la complicità della moglie, il doppio dell’odiato rivale, il bambino. Allorché avviene in un gruppo, tale meccanismo provoca facilmente una nuova corrente imitativa, che condensa contro il nuovo nemi­ co un numero crescente di soggetti, finché l’intera collettivitànon si coalizza contro di lui. Tutto ciò può verificarsi in tempi anche rapidissimi. Questo nemico capace di accomunare i ri­ vali è la vittima, scelta per un qualunque motivo anche casuale che attira l’attenzione degli altri. Alla vittima tutti addossano la responsabilità di ciò che va storto: una volta selezionata, essa è

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di norma uccisa, o perlomeno espulsa. La vittima è la “diffe-. renza” che permette di arrestare la proliferazione dei doppi, la stessa differenza che Nietzsche disperatamente cerca per bloc­ care i doppi della rivalità dentro di sé. Il fenomeno della selezione vittimaria esiste in forma spon­ tanea come linciaggio, ma è stato codificato già in tempi re­ moti come sacrificio, come ripetizione controllata della violen­ za collettiva, passaggio essenziale - afferma la teoria mimetica - per comprendere l’origine stessa dell’uomo come animale culturale. Si tratta di un processo che può avvenire soltanto se è inconsapevole. È la pace mimetica, infatti, a consentire lo sviluppo della coscienza, non il contrario: la comunità si sen­ te realmente minacciata dalla vittima, che assume sembianze mostruose attraverso l’eccitamento esponenziale del gruppo. Una volta che è uccisa, la vittima, con la stessa intensità con cui prima era odiata (transfert di aggressività), viene adesso vi­ sta come causa della paçe miracolosamente ritrovata, viene vi­ sta come divinità (transfert di divinizzazione). È questa la “fossa” cognitiva che copre la vittima, e che nel corso dell’e­ voluzione culturale dell’uomo diventa la fossa vera e propria in cui essa è sepolta, la tomba. Il sacrificio spiega l’origine e la natura delle arcaiche divinità sacrificali che Nietzsche invo­ cherà. Il dio sacrificale è sia la vittima immolata, di cui pren­ de le caratteristiche, sia colui che reclama altri sacrifici, dai quali dev’essere letteralmente e regolarmente “nutrito”. Senza uccisioni il dio morirebbe perché è dalla morte trasfigurata della vittima che esso è nato. Come dimostra Girard, è a questo processo che si richiama palesemente Nietzsche nell’aforisma 125 della Gaia scienza contenente il famoso detto «Dio è morto», passo che un inter­ prete della finezza di de Lubac ha definito «la cellula madre del suo pensiero»80, e che ci restituisce il progetto di rifonda­ zione sacrificale del pensatore tedesco. Il dio sacrificale al qua­ le si richiama Nietzsche, per vivere, deve prima morire. Il Dioniso da lui riesumato è in Grecia la divinità che presiede a un rito sacrificale ancora estremamente vicino al linciaggio 80 H. de Lubac, Atozcd, cit., p. 287.

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spontaneo, lo sparagmós, lo squartamento di una vittima viva che, nella versione più arcaica di questo rito collettivo, era di­ vorata subito nell’omofagia (da omós, crudo nel senso di vivo), il divorare le carni ancora palpitanti della vittima81. La vittima era in origine umana, come ci attesta la storia della religione greca e come ci mostrano le baccanti di Euripide. Per questo Dioniso è il dio della maschera, perché il travestimento rituale è il mezzo che permette di uccidere senza farsi riconoscere, senza provocare l’imitazione violenta degli altri, ed è la tradu­ zione concreta della copertura che permette al gruppo di non vedere la propria violenza e di trasfigurarla nel sacro, il potere misterioso con il quale il gruppo proietta fuori di sé la violen­ za di cui non si rende conto, attraverso quella partecipazione incosciente che Girard chiama misconoscimento o inconscio persecutorio. L’equivalente verbale della maschera, della tom­ ba, dell’inconscio persecutorio, è rappresentato dai miti, le sto­ rie di persecuzioni trasfigurate, che spiegano quanto è succes­ so come visita o azione di qualche divinità. Al pari della ma­ schera, i miti sono visti e vissuti come inesplicabili fintantoché si rimane complici della violenza che essi coprono. I percorsi lungo i quali Nietzsche ha esplorato la fondazio­ ne sacra di Dioniso, facendola interagire in modo distruttivo col suo mimetismo, rivelano e occultano questi materiali in­ candescenti. Nietzsche, o se vogliamo il Nietzsche cosciente, non arriverà mai a togliere la maschera di Dioniso, poiché per farlo avrebbe dovuto riconoscere la vera natura della violenza da lui propugnata, e l’origine di questa violenza dal proprio de­ siderio. Rivelazione e occultamento si combinano in lui con scambi e alternanze disorientanti ma ricostruibili, basta non farsi confondere dal moltiplicarsi dei doppi tipico del suo pen­ siero, e dal suo mettere sullo stesso piano mistificazioni e sco­ perte che hanno ugualmente del clamoroso. E dal momento che il doppio vincolo generatore della sua opera è fondamen7 talmente sempre lo stesso, i suoi esiti possono essere riscontra­ ti fin dai primi esordi significativi del pensatore. 81 Vedi su questi argomenti G. Fornari, Labyrinthine Strategies of Sacrifice: The Cretans by Euripides, “Contagion. Journal of Violence, Mimesis, and Culture”, 1997 (4), p. 170, e, più ampiamente, Id., Fra Dioniso e Cristo, cit., pp. 60-61 e 106 ss.

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2. Il fautore prometeico della cultura Negli scritti giovanili è chiaramente avvertibile la frenetica intensità con cui Nietzsche si sforza di costruire la maschera destinata a coprirlo, utilizzando i materiali provenienti dalla sua duplice formazione, classica e wagneriana. Sotto il sussie­ go professorale, i sentimenti esageratamente gioiosi e le intui­ zioni folgoranti, cova una tensione e una foga polemica pronta a colpire, che quando può erompe incontrollabile con un uni­ co intento, quello di ridicolizzare, di uccidere l’avversario. Vi è in tutto ciò qualcosa di isterico che non lascia presagire nulla di buono, ed è mediante questa esaltazione morbosa che Nietzsche elabora la sua immagine dell’antica Grecia, di gran lunga più avanzata delle idealizzazioni melense allora in voga, ma profondamente imbevuta dello spirito rivalitario del suo ideatore. Questo geniale quanto rancoroso primo della classe riconosce nell’antica Grecia gli impulsi che lo agitavano cru­ delmente: le «attitudini più terribili» dell’uomo viste come «naturali», «gli abissi dell’odio», la «crudeltà voluttuosa» degli occhi da tigre del guerriero vittorioso, «la notte e l’orrore» del­ la mitologia preomerica, la lotta «come salute e salvezza», «la crudeltà della vittoria» quale «culmine della gioia di vivere», il diritto sviluppatosi «dall’assassinio»*2. Non poteva mancare in un simile quadro l’invidia: ...tutta quanta l’antichità greca pensa, riguardo all’astio e all’invi­ dia, diversamente da noi, e giudica come Esiodo, il quale da un la­ to designa come cattiva una Eris, quella cioè che spinge l’uno con­ tro l’altro gli uomini, in una crudele lotta di annientamento, e d’al­ tro lato loda come buona una seconda Eris, che sotto forma di ge­ losia, astio e invidia, stimola gli uomini all’azione, non già a una lotta di annientamento, bensì all'’agone. Il Greco è invidioso, e non sente questa proprietà come un difetto, bensì come azione di una divinità benefica:quale abisso fra il nostro giudizio e il suo!83 82 F. Nietzsche, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e scritti 1870-1873, tr. it. di G. Colli, Adelphi, Milano 1991, pp. 118-19. 85 Ivi, p. 121.

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Il collegamento alle Opere e i giorni di Esiodo è ingegnoso quanto falsante: certamente i Greci, competitivi com’erano, cercavano di utilizzare in senso positivo il loro agonismo, ma mai e poi mai hanno pensato all’astio e all’invidia di Nietzsche, alla rivalità isterica che egli sogna di poter sfogare per loro tramite. L’Eris (Contesa) buona di Esiodo è l’emula­ zione ritualmente controllata, non una frustrazione feroce pronta a colpire. Il brillante filologo non vuole vedere la con­ nessione fra l’astio e l’invidia che vuole esaltare, da un lato, e, dall’altro, la «crudele lotta di annientamento» che ne è la con­ seguenza diretta, e che egli inutilmente cerca di contrapporre all’agone. Questo moderno esaltatore dell’invidia può sentirsi così autorizzato a uscirsene in affermazioni del genere: ...dobbiamo trovarci d’accordo nel considerare come verità - che suona crudele - l’affermazione che la schiavitù rientra nell’essen­ za di una cultura·, una verità certo che non lascia alcun dubbio sul valore assoluto dell’esistenza. Tale verità è l’avvoltoio che divora il fegato al fautore prometeico della cultura. La sventura degli uo­ mini che vivono faticosamente dev’essere ancora aumentata, per rendere possibile a un ristretto numero di uomini olimpici la pro­ duzione del mondo dell’arte.84

Per raggiungere questo luminoso ideale - precisa in altri passi dello stesso saggio il filosofo - bisogna lasciarsi alle spal­ le fantasmi ingannevoli «come la dignità dell’uomo» e contra­ stare, in nome «della potenza, che è sempre malvagia», le odiate spinte della civilizzazione democratica e fondata sul denaro, contro la quale «l’unico rimedio è la guerra, e ancora la guerra»85. Va innanzi tutto tenuto presente che simili affermazioni aberranti appartengono a scritti composti in onore della scio­ vinista e altezzosa Cosima, alla quale il giovane guerrafondaio vuole far balenare un’idea in lui ricorrente e dal chiaro sapore compensativo: la comunità «di uomini olimpici» dediti all’arte,

84 Ivi, pp. 98-99. 85 Ivi, pp. 96, 99 e 106.

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nel cui novero ovviamente dovrebbe entrare lui stesso. La vi­ sione però non appaga lo scatenato visionario. Il dettaglio che maggiormente colpisce è che la sventura in cui sprofondano gli esclusi «dev’essere ancora aumentata». C’è da domandarsi il motivo di un tale accanimento. Se pensiamo al contrasto con il «ristretto numero di uomini olimpici», viene spontaneo de­ durne che questo significhi un continuo aumento degli schiavi e un numero sempre più ristretto degli eletti, un po’ come nel­ l’evoluzione estrema del capitalismo teorizzata da Marx. L’ultima fase di quest’evoluzione stranamente “capitalistica” dell’Olimpo sarebbe allora quella in cui il solo Nietzsche aves­ se accesso all’Olimpo, a casa Wagner, a Cosima, la futura Arianna. Il «fautore prometeico della cultura», a cui un avvol­ toio rode il fegato non per l’assillo sulla sorte di così tanti infe­ lici, quanto per il timore di finire tra loro, non è altri che l’in­ namorato di Cosima, incatenato da Wagner-Zeus. L’immagine ci illustra, in forma ancora drammatica, una situazione vittima­ ria rovesciata, analoga a quella che egli vivrà simbolicamente nel 1888 durante il terremoto di Nizza: l’escluso da Cosima e dalla genialità musicale, il reietto del mondo intero, che alla fi­ ne si prende la propria rivincita. Questa sorta di “psicanalisi” mimetico-sacrificale non deve però far dimenticare, appunto per l’oggettiva realtà antropolo­ gica che fa emergere, la serietà e le implicazioni di ciò che af­ ferma il filosofo. Nei passi citati Nietzsche intende dire esatta­ mente quello che dice, né cambierà mai il tenore, che anzi peg­ giorerà, delle sue affermazioni, sino al punto di mantenere la medesima immagine mitica: ancora nel 1888 egli scriverà, rife­ rendosi agli esseri superiori e «al di là del bene e del male» che avrebbero dovuto sconfiggere morale e cristianesimo: «Noi crediamo all’Olimpo, e non al “Crocifisso”...»86. Atteggiamenti del genere non sono certo isolati nel clima ideologico di quegli anni e, rafforzati dall’influepza nietzschia­ na, li ritroviamo nel d’Annunzio che, aspirando a dominare la «smisurata chimera» della massa, abbraccia il sogno di rifon­

86 F.

Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., 16 [16], p. 276.

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dazione nazionalistica, e nel Thomas Mann delle Considera­ zioni di un impolitico, dove contro le spinte disgregatrici della civilizzazione (corrispondente a ciò che oggi chiamiamo “glo­ balizzazione”), lo scrittore perora la causa della cultura in sen­ so sacrificale e nietzschiano, della Kultur che «lega» e «non esclude “sanguinosa ferocia”»87. Per valutare correttamente simili affermazioni, in sé comun­ que gravi, bisogna naturalmente vedere non solo il loro conte­ sto, ma se in colui che le fa esiste qualche correttivo, qualche al­ tra componente che le controbilanci, impedendo loro di venir applicate con mostruosa coerenza: tante volte è proprio l’incoerenza a salvare gli esseri umani. Ora, mentre sia d’Annunzio sia Mann hanno, in forme diverse, una componente cristiana che li influenza e impedisce loro un luciferino oltranzismo - e 10 stesso va detto per il razzista e antisemita Wagner -, il caso di Nietzsche è tristemente diverso: in lui queste idee dissenna­ te non trovano ostacoli veri ed efficaci. Gli ostacoli ci sono, ma 11 «fautore prometeico della cultura» riuscirà diabolicamente a piegarli nella direzione peggiore. Nulla lo potrà fermare, col ri­ sultato che saranno tanti avvoltoi a seguire, a divorare post mor­ tem il «fautore prometeico della cultura». Pur di ottenere la sua forsennata revanche Nietzsche è di­ sposto a truccare sistematicamente le carte, a rifiutare anche quello che è di un’evidenza solare. Come egli volutamente equivoca su Esiodo, cercando di giustificare a se stesso la sua invidia per Wagner, così si rifiuta di ammettere che in Grecia l’autentica natura di Dioniso non veniva spavaldamente esibi­ ta, ma nascosta nei misteri e nei riti notturni. Nel caso di Euripide, eccezionalmente, ci viene svelato qualcosa della na­ tura più profonda del dio, ma con un’atmosfera assai diversa da quella immaginata da Nietzsche. La scena culminante delle Baccanti non ha nulla della gioia e della naturalezza primaveri­ le di cui egli si compiace. E l’orrore puro, sia pure ancora fil­ trato dai travestimenti del teatro e del mito. Necessariamente quindi Nietzsche, nella Nascita della tragedia, accusa Euripide 87 T. Mann, Considerazioni di un impolitico, a c. di Μ. Marianelli e Μ. Ingenmey, Adelphi, Milano 1997, p. 187 (v. G. FORNARI, Fra Dioniso e Cristo, cit., p. 7).

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di rappresentare la decadenza del teatro tragico, ossia di rive­ lare troppo perché la maschera mitica della tragedia possa fun­ zionare, ma è sintomatico che, davanti all’orrore dello smem­ bramento di Penteo, egli esprima la sue piena approvazione, e attribuisca quest’operazione secondo lui salutare a un’inesi­ stente palinodia dell’autore. Per ragioni analoghe a quelle per cui non mostra di accorgersi degli elementi sia pur torbidamente cristiani presenti in Wagner, il giovane Nietzsche non vuole vedere che la tragedia greca è una graduale, anche se par­ ziale, rivelazione del dio da cui essa prende le origini, e di cui ci narra i pericoli. L’esaltatore di Dioniso e della tragedia tenta di eludere la natura collettiva del dio, il suo identificarsi con la folla scatenata pronta al linciaggio, da lui descritta come «eb­ brezza istintiva della natura» e inconscio «impulso primaveri­ le»88: egli vuole a tutti i costi vedere Dioniso come divinità ari­ stocratica, come nume tutelare della sua comunità di uomini olimpici, che anticipa - con una sfumatura ancora illusoriamente “sociale” - quello che diventerà il suo superuomo. Anche nella fase più matura del suo pensiero le indicazioni sul­ la morte collettiva del dio saranno potenti, ma rimarranno iso­ late. Nietzsche cerca di situarle nello sfondo sacrale della sua filosofia neopagana, in un modo che non intendeva essere di­ verso da quanto avveniva nel sacro arcaico, dove tutto ciò che nasceva dalla violenza del gruppo era trasfigurato e proiettato nella sfera esterna alla comunità. Il problema è che questa tra­ sfigurazione pagana non è più possibile, e questo a causa della presenza nascosta della rivelazione cristiana che, per gli stessi motivi per cui ostacola la vendetta dei rivali moderni, guasta il “gioco” di Nietzsche portandolo allo scoperto, mostrando l’autentica natura del meccanismo.

Prima però di esaminare il fattore decisivo capace di mette­ re in crisi il tentativo nietzschiano, dobbiamo capirlo nei ter­ mini stessi in cui il suo autore vuole realizzarlo, sforzandosi di tenere il più possibile ai margini il vero avversario; dobbiamo

88 F.

Nietzsche, La filosofia, cit., p. 69.

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precisare con quali trucchi, con quali espedienti egli spera di riuscire nell’impossibile impresa. La frase «Dio è morto» non avrebbe la risonanza e il significato che ha, senza la rivelazione cristiana dell’uccisione di Dio da parte degli uomini. Nietzsche lo sa, e nello stesso tempo questa è l’ultima cosa che vorrebbe sentirsi dire, l’ultima cosa che vorrebbe ammettere. Come l’uomo folle della Gaia sdenza, il filosofo è compietamente isolato: troppo consapevole dell’uccisione collettiva di Dio per trovare sfogo nella catarsi, nella purificazione di grup­ po, egli ne ha troppo bisogno per non rimpiangerla, per non de­ siderare di perdere la sua consapevolezza onerosa. Quello che Nietzsche descrive nell’aforisma della Gaia scienza è un vero “crepuscolo degli dèi”, in cui si intravede ancora il tramontato chiarore degli antichi fuochi sacri, e in cui tuttavia non appare un’alternativa - quella cristiana - che, sia pure con consapevo­ lezza diversa, viene rifiutata sia dall’uomo folle sia da coloro che non credono in Dio. Il paragone più pertinente è con il gran­ dioso Crepuscolo degli dèi wagneriano: la dimora degli dèi vacil­ la sotto l’incalzare di un destino ineluttabile, ma chi fra gli am­ miratori dell’opera è voluto andare a vedere più da vicino cos’è, chi è che provoca questa dissoluzione, cosa significa l’amore che minaccia e distrugge il potere di Wotan? Meglio credere, con la complicità dello stesso Wagner, nel culto parareligioso di Bayreuth, oppure, in alternativa, all’enigmatica vox clamantis in deserto di un eretico wagneriano, dell’uomo folle nietzschiano che tenta di impadronirsi della morte di Dio. La rivalità di Nietzsche con Wagner si carica di ragioni che vanno al di là del fattore psicologico, che divengono religiose, epocali, le stesse per le quali d’Annunzio insegue la sua rifondazione teatrale e na­ zionale. Quel che Nietzsche non aveva tollerato a Bayreuth è an­ che la presenza di un culto rivale, che il filosofo cerca di rove­ sciare con l’aforisma della morte di Dio, atto istitutivo di un nuo­ vo culto, di una nuova, inaudita sacralità. L’uomo folle vuole incarnare in se stesso il fuoco antico, di cui la lanterna che tiene in mano è l’ultimo resto simbolico. Mentre gli altri vivono ancora nell’ombra di ciò che è successo e, pur non avendo più dèi, rimangono sotto la protezione dell’inconscio per­ secutorio da cui questi dèi provenivano, l’uomo folle, rendendo­

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si conto dell’illusione, decide di giocare d’anticipo, e va a collo­ carsi in una terra di nessuno fra rivelazione e menzogna che gli impedisce sia l’autorevolezza di chi parla non per sé ma per la ve­ rità, sia la rassicurante incoscienza di coloro che lo ascoltano sen­ za capirlo. Egli è l’attore unico di un dramma di cui nessun altro conosce le parti, un dramma da cui Nietzsche vorrebbe uscire in una sorta di meta-dramma («l’imitazione di un commediante»), ovvero in un impossibile meta-inconscio persecutorio capace di unire coscienza e incoscienza, lucidità e occultamento. Solo l’uo­ mo folle insomma, nel suo annuncio isolato, nella sua schizofre­ nia conoscitiva, può essere “luce” a se stesso, come infine dimo­ stra gettando a terra e mandando in frantumi la sua lanterna. Nietzsche è insieme la crisi dei doppi e la differenza divina che dovrebbe risolverla. Egli stesso perciò, in una maniera o nell’altra, dev’essere dio. Se il proposito è folle, bisogna tutta­ via guardarsi dallo scartarlo come mera follia, poiché, per ri­ prendere la frase dell’Xw/eio di Shakespeare, vi è del metodo in essa. Il “metodo” è quello dell’origine antropologica della cultura e del sacro, che Nietzsche, allo scopo di legittimare le sue smisurate pretese, si costringe a ripetere, dandovi il nome di genealogia, lo smantellamento della volontà di potenza co­ perta e malata degli inferiori, del gregge. Per realizzare la sua volontà di potenza, rivendicare il mo­ nopolio della sua differenza divina, egli deve smascherare il ri­ sentimento degli altri, demistificare l’intera società, l’intera sto­ ria dell’uomo. Questa autotrasfigurazione a sfondo antropolo­ gico però gli riesce a metà, cioè non gli riesce, per l’ovvio mo­ tivo che la sua genealogia egli la applica solo al desiderio degli altri e non al proprio, giacché se la applicasse a se stesso tutta l’operazione ne verrebbe distrutta. Tale autoglorificazione illu­ soria, che non fa che rivolgere contro gli altri l’imitazione più competitiva per dimostrare un’inesistente indipendenza da lo­ ro, non può che rimbalzargli indietro con esiti fallimentari; egli la deve rilanciare, ma per farlo deve di nuovo utilizzare il suo desiderio imitativo negato, la sua dipendenza dai modelli, che quindi dolorosamente riemerge, e così via all’infinito. L’intero sistema tende in tal modo all’esplosione, al collasso.

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Più Nietzsche cerca di divinizzarsi più è costretto a fare i conti col suo desiderio, ma più si fa pressante e vicina la forza del suo desiderio più l’impulso a divinizzarsi si fa irresistibile. Più egli cerca di uscire dalla crisi dei doppi, più questi doppi gli si moltiplicano sotto le mani. Nietzsche non può perciò ac­ contentarsi del travestimento esteriore di Dioniso, è costretto a impossessarsi della natura profonda del dio la cui essenza, al pari di Proteo, è la metamorfosi, la duplicazione di tutte le pos­ sibili maschere. Il filosofo ha bisogno di un intero arsenale, di un intero repertorio teatrale di travestimenti. La maschera si moltiplica in una serie di maschere. Dioniso diventerà Zarathustra, alla fine si inflazionerà in una rotazione incontrol­ labile di identità deliranti. Il primo “ritorno” a essere “eterno” in Nietzsche è quello del problema irrisolto del suo desiderio, della sua identità mai trovata, quello che in una lettera a Overbeck definisce la «ruo­ ta di problemi a cui sono legato»89. Nello stesso tempo l’eter­ no ritorno è quello dei cicli rituali, delle rifondazioni sacrifica­ li. L’eterno ritorno è la speranza di trovare un ciclo stabile di tipo pagano, col risultato di ottenere soltanto l’eterno ritorno della ciclotimia, dell’alternarsi spossante di euforia e depres­ sione che è il tipico risultato dei rapporti rivalitari non supera­ ti. La «ruota», a cui Nietzsche è incatenato come Prometeo, di­ venterà Γautoalimentazione megalomane e stercoraria della follia, il cerchio sacrificale che lo vedrà finalmente immolato. Il primo cerchio non è forse quello dei persecutori, quello che ha bisogno di un perno intorno al quale vorticosamente ruotare e che tutti sono pronti a colpire, quello che ha bisogno di un centro da circondare, da uccidere?

3. Verso il centro del labirinto La strategia inflazionistica mediante la quale Nietzsche gio­ ca coi simboli dionisiaci ne fa emergere la struttura, l’origine antropologica. Le rievocazioni nietzschiane della maturità per­ dono i tocchi qua e là Biedermeier degli scritti giovanili e rag­ s’ Lettera del 16 aprile 1887, riportata in H. DE LUBAC, Mistica, cit., p. 296.

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giungono un’ancor più convincente ferocia, come nella dichiarazione.d’intenti del seguente frammento: Amo la splendida sfrenatezza di un giovane animale da preda, che gioca graziosamente, e mentre gioca sbrana.90

L’immagine è mistificante e insieme rivelatrice della vera na­ tura del “gioco” nietzschiano, della caccia in cui Nietzsche si immedesima nell’alterità affascinante dell’irraggiungibile pre­ datore che vorrebbe essere. Come già negli occhi da tigre da lui attribuiti ai guerrieri greci, qui si tratta non di semplice violen­ za animale contemplata con torbido occhio estetizzante, ma di concreta violenza umana sotto travestimento animale. Fra i simboli di Dioniso troviamo infatti sia la pantera, sia i riferi­ menti al gioco, che nella cultura umana è la trasformazione simbolica dei riti sacrificali. Quando Nietzsche, allo scopo di perorare la causa della violenza, si rifà costantemente a imma­ gini prese dalla natura, sostenendo che l’uomo deve tornare al­ la sua “naturalità”, si richiama a una simbologia antichissima, ma in un modo così esasperato, così programmatico e decla­ mato da diventare rivelatore, non diversamente dal suo eterno ritorno91. Il sacrificio umano tante volte invocato nei suoi scrit­ ti, quello che egli definisce come «l’alto dovere di sacrificare uomini»92, è tutto fuorché una semplice continuazione della sfera naturale: esso è per l’antico rivale di Wagner rivincita nei confronti del mondo intero, e insieme forsennata volontà di ri­ torno alle antiche fondazioni sacrificali. In altri frammenti possiamo osservare questo procedere di pari passo di desiderio trasfigurato e di uno scandaglio antro­ pologico di profondità conturbante: L’anima orgiastica Io l’ho visto: i suoi occhi almeno - sono occhi di miele, Ora profondi, calmi, ora verdi e lascivi 90 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, cit., 1 [193], p. 44. 91 Mi sono occupato di questo problema nell’articolo Sacrificio, natura e differen­ za evangelica. Calasse e la visione sacrificale della natura da Anassimandro a Nietzsche, “Pluriverso”, 4 (2000), pp. 28-44. 92 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., 15 [110], p. 257.

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Il suo sorriso alcionico, Il cielo guardò sanguigno e crudele.

L’anima orgiastica della donna Io l’ho visto, il suo sorriso alcionico, i suoi occhi di miele, ora profondi e velati, ora verdi e lascivi, una superficie tremante. Lascivo, sonnolento, tremante, esitante, Sgorga il mare nei suoi occhi.93

In questo brano c’è non solo la metamorfosi del desiderio di Nietzsche per Cosima-Arianna, come risulta dal frammento successivo nell’edizione Colli-Montinari94, ma anche la perce­ zione dell’arcaico collegamento rituale fra erotismo e violenza sacrificale. L’immagine del miele si confondeva anticamente con quella del sangue ed è già presente in testi sumerici dove l’eccitazione sessuale assume toni quasi cannibaleschi. La ri­ petizione pressoché simmetrica del testo indica la simmetria di un’imitazione giunta ormai al suo ultimo stadio. Il rito rico­ struito e nevroticamente rivissuto da Nietzsche è quello della ierogamia, delle nozze sacre fra Dioniso e Arianna, collegate a Creta col tema del labirinto. La ierogamia doveva avere in ori­ gine una conclusione cruenta, come suggeriscono i miti di Arianna abbandonata o impiccata su un’isola (che sostituisce il centro del labirinto) e l’uccisione del Minotauro, doppio di Dioniso nella sua forma taurina95. La metafora del mare negli occhi dell’altro esprime l’indifferenziazione della crisi violenta che farà sgorgare il sangue della vittima descritta come tre­ mante e proprio per questo supremamente desiderabile, allu­ de al suo cadere nelle mani, prima ancora che di un sataqico partner, della collettività pronta a “giocare sbranando”. Il la­ birinto è il simbolo perfetto della crisi dei doppi, il cerchio che si stringe intorno all’unico membro prescelto, il mare della fol­ la da cui non c’è scampo, il mare in cui Nietzsche cerca con tutte le forze di non affogare, e in cui, come Icaro, precipiterà. 93 E NIETZSCHE, Frammenti postumi 1885-1887, cit., 1 [162], p. 37. 94 Ivi, cit., 1 [163], p. 37: «...3. Le nozze - e d’improvviso, mentre il cielo declina oscuro. / 4. Arianna». 95 Vedi G. FORNARI, Labyrinthine Strategies, cit., p. 175; ID., Fra Dioniso e Cristo, cit., pp. 67-68, 93-94.

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Icaro che muore sommerso nel mare è la trasformazione della vittima che muore sommersa dalla folla.

La commistione nietzschiana di erotismo e violenza rituale non è un caso isolato, ma partecipa di una consapevolezza an­ tropologica che sta conquistando la cultura europea più avan­ zata, e che porterà a risultati che vale la pena di esaminare ra­ pidamente, mettendoli a confronto con gli scandagli del pensa­ tore tedesco. I preliminari di ierogamia sacrificale di Nietzsche diventano una scena apertamente orgiastica ηεζ Fuoco di d’Annunzio, quando viene descritto il desiderio di Èffrena per la Foscarina, «ardore selvaggio» che si alimenta del bagno di folla da cui il protagonista è appena uscito, nonché del triango­ lo erotico appena suscitato dalla Foscarina stessa: Di lontano, di lontano gli veniva quel torbido ardore, dalle più re­ mote origini, dalla primitiva bestialità delle mescolanze subitanee, dall’antico mistero delle libidini sacre. Come la torma invasa dal dio discendeva per la montagna sradicando gli alberi, e s’avanza­ va con una furia sempre più cieca, e s’ingrossava di nuovi de­ menti, propagando l’insania per ovunque al passaggio sinché di­ veniva un’immensa moltitudine ferina e umana animata da una volontà mostruosa; così in lui quell’istinto crudo precipitò tur­ bando e trascinando tutte le figure del suo spirito nell’émpito con una agitazione innumerevole. Ed egli desiderò nella donna sa­ piente e disperata [...] l’attrice ardente che passava dalla frenesia della folla alla forza del maschio, la creatura dionisiaca che con l’atto di vita coronava il rito misterioso come nell’Orgia. [...] Egli la vide in un lampo riversa, piena della potenza che aveva strap­ pato l’urlo al mostro, palpitante come la Menade dopo la danza, assetata e stanca ma bisognosa d’essere presa, d’essere scossa, di contrarsi in un ultimo spasimo, di ricevere il seme violento, per placarsi alfine in un sopore senza sogni. - Quanti uomini erano esciti dalla folla per abbracciarla dopo avere anelato verso di lei perduti nella massa unanime? Il loro desiderio era fatto del desi­ derio di mille, il lor vigore era molteplice. Qualche cosa del po­ polo ebro, del mostro affascinato, penetrava nel grembo dell’at­ trice con la voluttà di quelle notti.96 96 G. D’ANNUNZIO, Il Fuoco, a c. di N. Lorenzini, A. Mondadori, Milano 1996, pp. 109-11.

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L’aspetto collettivo che in Nietzsche è a fatica coperto in d’Annunzio emerge imperioso. Nessuno come l’autore del Piacere ha avvertito, dietro il piacere sessuale, la pressione mi­ metica dei modelli sociali, la presenza incombente del desiderio di gruppo, di massa. Erotismo e violenza dionisiaca confluisco­ no insieme per il semplice motivo che promanano da un’unica forza, il desiderio mimetico: niente di strano perciò che si po­ tenzino a vicenda, in un’esaltazione collettiva in cui l’accoppia­ mento equivale allo stupro, e lo stupro allo scannamento ritua­ le. L’ipermimetico d’Annunzio avverte, “respira” la massa in tutto ciò di cui egli ci parla e, rispetto agli eccessi cerebrali e vel­ leitari di Nietzsche, ha la concretezza di chi le cose le dice per averne fatto esperienza. Egli cerca di reagire all’agitazione dio­ nisiaca che percepisce fuori e dentro di sé, esteriorizzandola nel­ la rappresentazione clamorosa del gesto, nella dimensione pub­ blica del palcoscenico. Solo il Dioniso del teatro può contenere il Dioniso dell’orgia. Come dice Stello Èffrena al suo amico, va­ gheggiando una nuova, inaudita catarsi tragica: Hai tu mai veduto, in qualche istante, l’Universo intero dinanzi a te come una testa umana? Io sì, mille volte. Ah, reciderla come colui che recise d’un colpo la testa di Medusa, e tenerla sospesa dinanzi alla folla, da un palco, perché essa non lo dimentichi mai più! Non hai tu mai pensato che una grande tragedia potrebbe somigliare al gesto di Perseo?97

Allo scopo di placare il desiderio che sente in se stesso e ne­ gli altri, d’Annunzio sogna un ultimo sacrifìcio, esibito e, or­ rendamente stupendo, che arresti e domini le masse in fer­ mento dell’Europa del tempo, e una nuova arte tragica, wa­ gneriano-dannunziana, che dovrebbe permettere questo. Tuttavia lo scrittore italiano, più che sostituire alle antiche rap­ presentazioni un nuovo sacrifìcio come afferma Nietzsche, vor­ rebbe rimpiazzare gli antichi sacrifici con un nuovo tipo di rap­ presentazione, e se ambedue gli scopi si rivelano illusori, vi è comunque tra essi una profonda differenza. Anche Èffrena, con fascinazione analoga a quella nietzschiana, si perderà sim97 Ivi, p. 171.

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Eolicamente neH’«awolgimento selvaggio»98 del labirinto in­ sieme con la Foscarina che diviene la vittima designata Arianna - ma, diversamente da Nietzsche, cerca infine di uscir­ ne con lei, di non lasciarsi alle spalle i segni e i legami dell’u­ manità. Resta sempre in d’Annunzio una consapevolezza mo­ rale e una sfumatura ludica e ironica sconosciute al dionisismo esaltato e monomaniaco del pensatore tedesco. I frammenti orgiastici di Nietzsche e l’orgia erotica colletti­ va di d’Annunzio ricordano da vicino, per tornare in area ger­ manica, l’incubo dionisiaco di Aschenbach nella Morie a Venezia. Il protagonista è ormai ossessionato dall’amore per Tazio e dal colera che, con progressione simmetrica al suo de­ siderio, dilaga per la città. Leggiamo la sequenza conclusiva del sogno, che ci mostra la più profonda natura di Dioniso, defini­ to da Thomas Mann, non diversamente che nelle Baccanti di Euripide, come il «dio straniero»: Grande era la sua ripugnanza, grande il suo terrore, sincera la sua volontà di difendere fino all’ultimo ciò che era suo contro lo stra­ niero, il nemico dello spirito fermo e dignitoso. Ma il clamore, le grida moltiplicate dall’eco delle pareti rocciose crescevano, trion­ favano, si gonfiavano in un delirio irresistibile. I vapori offusca­ vano la mente, acre odore di capri, esalazioni di corpi ansimanti e un tanfo come di acque corrotte misto a un altro ben noto: di pia­ ghe, di malattia serpeggiante. Ai colpi di timpano il suo cuore rimbombava, la sua testa girava, lo assalivano cieco furore, voluttà inebriante e la sua anima desiderava di unirsi al baccanale del dio. II simbolo osceno, ligneo, gigantesco, fu svelato e innalzato: e an­ cor più frementi tutti gridarono la parola del rito. Con la schiuma alle labbra smaniavano, si eccitavano l’un l’altro con gesti lubrici e mani lascive, ridendo e gemendo, si cacciavano vicendevolmen­ te pungiglioni nelle carni e leccavano il sangue che ne sgorgava. E il dormiente era ormai con essi, in essi, asservito nel sogno al dio straniero. Anzi essi erano con lui, quando si gettarono sulle bestie dilaniando e uccidendo, e ingoiarono lembi fumanti di carne, quando sul terreno sconvolto incominciarono orribili congiungi­ menti in onore del dio. E la sua anima conobbe il gusto della lus­ suria e la follia della perdizione.99 Ivi, p. 229. 99 T. Mann, La morte a Venezia, tr. it. di A. Rho, Einaudi, Torino 1971, p. 95.

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Da vero artista qual era, e attraverso l’ispirazione del filo­ sofo tanto ammirato, Thomas Mann ci rivela cosa si nasconde­ va dietro la «sensibilità mortificata» di Aschenbach-Nietzsche, ci mostra con parole memorabili anch’esse l’aspetto collettivo di Dioniso che ipnotizzava d’Annunzio, e da cui invece il filo­ sofo esaltatore di Dioniso indietreggiava. Si tratta di qualcosa di ben più terribile del trauma subito dal giovinetto innocen­ te nella ricostruzione di Mann, questo è il “trauma” rimosso di un’intera epoca, di un’intera civiltà. Il protagonista, dallo spirito pateticamente «fermo e dignitoso», che si getta a ca­ pofitto nell’orgia è l’emblema dell’Europa che, sotto la spinta della sua rivalità incontrollata e la copertura dell’ideologia guerrafondaia illustrata dal giovane Nietzsche, si getterà a te­ sta bassa nell’ecatombe della prima guerra mondiale. L’alterità del «dio straniero» non deve ingannare, poiché ciò che in es­ sa ci si mostra è Γ alterità di quanto ci appartiene a un livello più primordiale e più intimo dell’identità personale. La ses­ sualità che è liberata senza freni non è lo scopo della cerimo­ nia, ma solo il mezzo: la più vera lussuria a cui tutti si abban­ donano è quella di ingoiare i «lembi fumanti di carne», il pa­ rossismo dello sparagmós, dell’omofagia, quella che Euripide definisce la «gioia omofagica», ossia la gioia della carne divo­ rata ancora viva100. In origine, al posto degli animali, c’erano vittime umane, c’era Dioniso stesso. Le orge erotiche sono fondamentalmente il preludio e la scia inerziale della trasgres­ sione suprema, l’uccisione belluina che è ritualmente ripetuta affinché non si verifichi nel gruppo, il massacro della violenza mimetica da cui l’antica Grecia voleva mediante tali riti difen­ dersi, mentre l’Europa moderna non riuscirà più a farlo. Nella Montagna incantata ci sarà un sogno simile del protagonista Hans Castorp, che completa e commenta quello di Aschen­ bach, realizzando in chiave davvero “genealogica” la vendetta di Tullio Hermil: in mezzo al paradiso dell’Ellade, di quelli che Castorp chiama «figli del Sole», sarà un bambino a venir divorato crudo, come nel mito orfico di Dioniso fanciullo

100 Baccanti 139 (G. FORNARI, Fra Dioniso e Cristo, cit., pp. 107-09).

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mangiato vivo dai Titani101. Sono le visioni sacrificali che in quegli anni cominciano a pullulare nell’arte più avanzata dell’occidente. Alla vigilia della prima guerra mondiale i sel­ vaggi ritmi di danza delle origini, culminanti in un sacrificio umano, ritornano nelle sonorità telluriche della Sagra della pri­ mavera di Stravinski]. La magnifica sequenza di Mann è stata resa possibile dal­ l’audace esplorazione nietzschiana, ma con un carattere esplici­ to, e anche una consapevolezza morale, che non troviamo nel fi­ losofo della volontà di potenza: mentre in Nietzsche la violenza dionisiaca è sinonimo di salute, in Mann essa si manifesta come sintomo di degradazione, di malattia. Non volendo nemmeno lui trarre le ultime conclusioni dalla verità antropologica che ha cominciato a palesarsi in Nietzsche, Mann - come d’Annunzio anche se in maniera meno mediterranea e spavalda - concede da una parte ciò che dall’altra sottrae, esibendo e insieme na­ scondendo tale verità dietro il filtro dell’invenzione letteraria, prestigiosa maschera socialmente riconosciuta, e della visione onirica, che attenua in chiave psicologica l’epifania dell’orrore. Proprio la disumanità delle affermazioni di principio di Nietzsche ci mostra l’intensità mimetica delle sue esperienze, a cui lo scandaglio antropologico e psicologico di Mann attinge, con un’avvertenza morale ma anche con un’abilità resa edotta dalla temerarietà del filosofo. Quest’ultimo estrae, nel suo stile patologicamente impulsivo, la materia che lo scrittore dipana nelle ragnatele magiche e ironiche delle sue invenzioni, tentan­ do di ristabilire il controllo pericolosamente perduto. Con ambiguità goethiana, Mann si vuole preservare dai pe­ ricoli che Nietzsche, pur di raggiungere le profondità tenebro­ se del suo crivello mimetico, accetta metodicamente di corre­ re. L’autore della Morte a Venezia ha oscuramente avvertito che la macchina mimetico-mitologica messa in moto da Nietzsche era una trappola mortale da cui il pensatore non è uscito vivo, e preferisce far morire al proprio posto i doppi artistici delle sue opere. Nietzsche, al contrario, non riuscirà mai a utilizzare 101 Per un’analisi dell’episodio della Montagna incantata v. G. niso e Cristo, cit., pp. 1-9.

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in tal senso la risorsa dell’oggettivazione letteraria a cui ricor­ rono sia Mann sia d’Annunzio, e che il futuro filosofo aveva per un istante sfiorato nel frammento Euforione. Egli è co­ stretto a rivivere in sé i doppi che non vuole riconoscere, al punto di riprodurre il mimetismo collettivo da lui esorcizzato, di moltiplicare dentro di sé il desiderio di tutti: nell’ultima let­ tera a Burckhardt dichiarerà di essere «ogni nome nella sto­ ria»102. È la fuga da se stesso e dagli altri propria della sua dis­ sociazione a trascinare il commediante di Dioniso in un deser­ to, su un palcoscenico vuoto in cui egli rivive i doppi della sua vita e perciò della vita di tutti. Nessuna scappatoia elegante, nessuna oggettivazione letteraria lo potrà sottrarre a questo de­ stino amaramente teatrale, a questa rappresentazione istruttiva per gli altri ma non per se stesso.

Nelle trasfigurazioni che il filosofo compie della mitologia labirintica a parlare è l’alterità assoluta del suo desiderio, im­ personata per lui dalla coppia Cosima-Wagner, e poiché questa alterità assoluta è la stessa della mitologia e del sacro arcaico, ecco che l’introspezione mitizzata diviene introspezione del mi­ to. Come non bisogna prendere alla lettera i riferimenti mitolo­ gici di Nietzsche, così non bisogna vedere in essi soltanto un travestimento. Dioniso, Arianna sono sì travestimenti, ma pro­ prio perché ci propongono il travestimento ancestrale, origina­ rio dell’uomo che, ucciso, diventa dio. Questa archeologia an­ tropologica interagisce in maniera letale con le frustrazioni che la alimentano. Il filosofo vuole assimilarsi a Dioniso e Arianna, vuole prenderne il posto, ma dal momento che questo deside­ rio divino nasce dalla dipendenza imitativa dagli altri, e perciò dall’esperienza di non essere dio, proprio l’identificazione col dio equivale alla riprova sperimentale della sua sconfitta. Il dio fallito non vuole darsi comunque per vinto, e reagisce nell’uni­ co modo per lui concepibile, ossia vivendo in prima persona ciò che è oggettivato e descritto nell’incubo di Aschenbach, nella visione scatenata di Èffrena. L’esaltatore di Dioniso non vuole semplicemente indossare la maschera del dio, egli vuole diven­ 102 A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 181.

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tare la maschera, ma ciò significa trasformarsi nel simulacro del­ la vittima uccisa, significa darsi in pasto alla folla da lui di­ sprezzata e segretamente cercata, gettarsi nel mare indifferen­ ziato della follia. Niente di simile è stato mai poetato, mai provato, mai sofferto: così soffre un dio, un Dioniso. [...] Chi, all’infuori di me, sa che cos’è Arianna!...103

Pur nascondendosi la verità del suo desiderio, Nietzsche si fa eroicamente il sismografo, lo “storico” di questo nascondi­ mento, talmente sensibile da diventarne la rivelazione, e poiché il nascondimento che lo definisce è lo stesso dell’intera storia sacrificale dell’uomo, Nietzsche si trasforma col proprio desti­ no nella ricapitolazione di tale storia. Non riuscendo a richiu­ dere la “fossa” della sua fondazione sacrificale, egli continua a scavarla fino a seppellirvisi dentro, come ci suggerisce l’imma­ gine ricorrente nei suoi scritti della tana, della caverna104, la ca­ verna di Zarathustra, la caverna in cui il filosofo vuole striscia­ re per riuscire a dormire105. La caverna è un altro arcaico luo­ go sacrificale, un’altra antica versione del labirinto, ed è chiaro che meno che meno essa potrà realizzare la salvezza sperata: più che mai le latebre del sottosuolo lo rimandano ai lati oscu­ ri e non accettati della sua psiche, alla follia che lo attende106, portatrice di una sarcastica fama che nessun uomo sano di mente gli avrebbe invidiato. 4. Divinizzazione fallimentare e sterminio di massa

In Al di là del bene e del male Nietzsche descrive il «mul­ tiforme martirio» di uno psicologo e «divinatore-di-anime» che, esaminando la rovina interiore e gli inganni che si nascon­ 103 F. Nietzsche, tàcce homo, cit., p. 115. 104 R. Calasso, Monologo, cit., p. 161. 105 F. NIETZSCHE, La gaia scienza, cit., libro III, af. 164, p. 144. 106 Alla madre che nel manicomio di Jena lo rimproverava scherzosamente di al­ cuni piccoli furti risponde: «Ora ho qualcosa da fare quando striscerò nella mia ca­ verna» (Μ. Fini, Nietzsche, cit., p. 353).

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dono dietro i «grandi uomini», impara, laddove tutti sentono «la grande venerazione», a provare «la grande pietà accanto al grande disprezzo», e arriva a porsi una domanda rivelatrice: E chissà che fino a oggi in tutti i grandi avvenimenti non si sia ve­ rificata appunto la stessa cosa: che la moltitudine abbia adorato un dio - e che il “dio” sia stato soltanto una povera vittima sa­ crificale! 107

Questo passo, che ha giustamente colpito interpreti come Lou Salomé e de Lubac108, è il diretto sviluppo dell’aforisma sulla morte violenta di Dio, solo che stavolta la proiezione dell’uomo folle, col suo impossibile sogno di una fondazione sacrificale a occhi aperti, si sgretola in un gioco caleidoscopi­ co di scomposizioni sacrificali: Nietzsche è sia il martirizzato divinatore di anime, lo scrutatore delle viscere dei grandi uo­ mini, sia uno di questi grandi uomini stessi. Il disgusto dell’aruspice-Nietzsche è per quello che lui è spasmodicamente vo­ luto diventare, per ciò che sente che diventerà. I grandi uo­ mini sono povere vittime sacrificali nel senso che tutti imita­ no il loro desiderio di incarnare la differenza “mitica” da ve­ nerare, ma per fare questo la collettività deve applicare il tran­ sfert ancestrale della vittima divinizzata post mortem. Il gran­ de uomo moderno, il “divo”, è Tilluso che pensa di poter di­ venire dio impunemente, l’incauto evocatore di un’illusione collettiva che agisce nell’unico modo da essa conosciuto, la pietra tombale dell’occultamento, sotto il cui peso la vittima, finalmente famosa, è sepolta, viva o morta che sia. Il perso­ naggio famoso è un fallito perché vede riflesso nella moltitu­ dine che lo fa a pezzi e lo adora il proprio desiderio moltipli­ cato per mille e trasformato in trappola mortale. L’atrocità e volgarità della faccenda martirizza lo psicologo Nietzsche poiché gli ricorda la sua dipendenza e gli anticipa il suo sup­ plizio futuro, illustrandogli la vera natura della sua ambizione 107 E Nietzsche, Al di là, cit., cap. IX, af. 269, pp. 191-92. 108 L. Andreas-Salomé, Vita di Nietzsche, cit., pp. 151-52; H. de Lubac, Mistica, cit., p. 294.

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ontologica, la ferita mai chiusa della sua invidia, del suo ri­ sentimento. I grandi uomini - egli aggiunge più sotto - mo­ strano di avere «anime avvezze a tener celata una qualche cre­ pa», si dimostrano uomini che spesso, nelle loro opere, si prendono vendetta di una interiore sozzura, che spesso, nei loro slanci, cercano l’oblio di una memoria troppo fedele, spesso smarriti nella melma e quasi innamorati di essa, al punto di assomigliare ai fuochi fatui erranti intorno alle paludi e di fingersi stelle...

Non è difficile riconoscere nell’«interiore sozzura» la riva­ lità verso Wagner e nella «memoria troppo fedele» il ricordo ossessivo di lui, più forte che mai adesso che il Pater Seraphicus è morto. L’immagine ricorrente della stella rivela adesso la sua natura artefatta, mortuaria. Nietzsche è il fantasma profetico (il «pagliaccio») della fama così a lungo invocata, il chiosatore fu­ nereo della sua identità postuma, che egli così descrive nella Gaia scienza, dopo aver evocato le maschere e le apparenze spettrali con cui si difendeva dagli altri: «...ci farebbe piacere accollarci questa estraneità, questo freddo, questo silenzio di morte, tutta questa solitudine di sottoterra, na­ scosta, muta, inviolata, che da noi si chiama vita e potrebbe al­ trettanto bene chiamarsi morte, se non sapessimo quel che av­ verrà di noi - e che solo dopo la morte arriveremo alla nostra vita e diventeremo vivi, ah! molto vivi noi uomini postumi?»109

Egli cerca invano di esorcizzare Γ ammissione contorta e obliqua della verità con la formulazione interrogativa e la pri­ ma persona plurale (a parlare è uno degli uomini postumi). Nietzsche continua a formulare l’enigma del proprio destino senza volerlo risolvere, aspettando che sia esso a “risolvere” lui. Già in Umano, troppo umano il dilemma venatorio, a suo modo esaltante, fra il divorare o il venir divorati si manifesta come scelta paralizzante tra il farsi divorare dagli altri o il di­ 109 F. NIETZSCHE, La gaia scienza, cit., libro IV, ai. 365, p. 241 (cfr. Crepuscolo, cit., af. 15, pp. 26-27).

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votarsi da soli, nella «solitudine di sottoterra, nascosta, muta, inviolata», nella caverna-tomba del proprio disperato rifugio: Dal paese dei cannibali. Nella solitudine il solitario divora se stes­ so, nella moltitudine lo divorano i molti. Ora scegli.110

II primo dato che deve colpire nel passo non è l’isolamen­ to romantico e tragico del solitario, quanto il fatto che il can­ nibalismo è un attributo equamente diviso dal solitario e dai «molti». La differenza illusoria dell’eroe solipsista ripiomba nell’indifferenziazione dei doppi della violenza, nell’indistinto feroce dell’origine umana. Il desiderio del solitario non è me­ no primordiale e selvaggio della brama degli altri. Ciò che per lui è veramente drammatico è l’impossibilità di uscire dai dop­ pi violenti ricorrendo al sacrificio inconsapevole di qualcun altro. Il dilemma sottolinea sia la consapevolezza del sacrifi­ cio, sia il rifiuto di riconoscere una logica diversa da esso. Questo implica la moltiplicazione della violenza e il suo rica­ dere su chi l’ha promossa. Nella rabbia impotente del suo de­ siderio frustrato, Nietzsche teorizza questa escalation, arrivan­ do ad auspicare un’umanità votata alla sua stessa sorte. Si apro­ no a questo punto scenari allarmanti. L’impossibilità di una vera catarsi sacrificale, di un’ultima e definitiva ritorsione cruenta allunga la catena delle imitazioni violente all’infinito, allarga il duello-suicidio all’intera umanità, trasforma il sogno di palingenesi sacrificale in un’autoimmolazione di massa. Come viene detto in Aurora·.

Un epilogo tragico della conoscenza. Di tutti i mezzi di elevazione sono stati i sacrifici umani quelli che in ogni tempo hanno esalta­ to e innalzato maggiormente l’uomo. E forse potrebbe pur sem­ pre ogni altra aspirazione essere soppiantata da un solo enorme pensiero, cui arridesse la vittoria sul più vittorioso, - dal pensie­ ro, cioè, umanità autosacrificantesi. Ma a chi dovrebbe sacri­ ficarsi?111 110 E NIETZSCHE, Umano, troppo umano, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1981, vol. II, ai. 148, p. 120. III F. Nietzsche, Aurora, cit., libro I, af. 45, p. 39.

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L’interminabile catena agonistico-sacrifìcale che rappresen­ ta l’universo dei doppi nietzschiani non può mai attingere alla sua conclusione, alla differenza divina di cui in passato la fon­ te più esaltante e più grande erano i sacrifici umani. Bisogne­ rebbe dunque trovare Γultimo sacrificio umano, quello capace di interrompere i doppi, di strappare la vittoria al «più vitto­ rioso», ma il sacrificio moderno non funziona più e, nella dia­ bolica speranza di farlo funzionare, è ripetuto ad nauseam, fi­ no a coincidere con la distruzione dell’intera catena dei doppi, con l’autodistruzione dell’umanità intera. Il sacrificio è in altre parole degenerato, impazzito. A quale mostruosa divinità que­ st’impossibile “rito” dovrebbe venir dedicato? È questo l’a­ dempimento del culto dell’uomo folle della Gaia scienza, se­ condo cui «dobbiamo noi stessi diventare dèi», ossia un’uma­ nità di “uomini folli”, in cui è chiaro che se tutti diventano dèi è perché tutti divengono morti. La conoscenza contraddittoria di Nietzsche può avere solo questo «epilogo tragico». Il resto dell’aforisma di Aurora rende l’epilogo ancor più penoso, quando il filosofo immagina che l’umanità si offra in olocausto agli abitanti di altri pianeti. L’ultimo rifugio della rifondazione fallita sembra essere la fantascienza, ma la sinistra grandezza di Nietzsche sta nell’anticipare profeticamente la situazione as­ surda e rivelatrice dell’umanità d’oggi. Questa conclusione ci mostra il vero volto, un volto pietri­ ficante di Medusa, del nichilismo che il filosofo della volontà di potenza preconizza come necessaria fase preparatoria al compimento di quanto da lui pensato, un «nichilismo estatico» capace di oltrepassare tutto ciò che è «troppo umano»112, un nichilismo in cui la conoscenza suprema coincide con la di­ struzione dei soggetti conoscitivi. Un frammento del 1888 ci ripropone in tono ancor più fre­ netico questa “estasi” mortale che si sta avvicinando: ...noi insegniamo la filosofia come concetto che può costare la vi­ ta·. come potremmo venir meglio in suo aiuto? Un concetto avrà 112 Vedi sul nichilismo l’ottima sintesi di F. Bari 1996, pp. 45-52.

Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma-

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sempre per l’umanità il valore di quel che le costa. Se nessuno esi­ ta a sacrificare ecatombi per il concetto di «Dio», di «patria», di «libertà», se la storia è la grande cortina di vapore intorno a que­ sta specie di sacrificio; con che cosa si può dimostrare Γeccellenza del concetto di «filosofia» sui valori popolari come «Dio», «pa­ tria», «libertà», se non col fatto che esso costa di più, costa più grandi ecatombi?... Trasvalutazione di tutti i valori: sarà una cosa dispendiosa, ve lo dico io -113

La visione dell’Olimpo da cui il giovane Nietzsche voleva escludere una massa crescente di schiavi, il compiacimento dello spettatore “sereno” del terremoto di Nizza trovano qui la loro espressione conclusiva. L’esito estremo del gioco sacrifica­ le di Nietzsche è l’ecatombe, l’autodistruzione di massa, e non v’è alcun dubbio che un’umanità che seguisse inconsapevol­ mente il consiglio del filosofo della volontà di potenza ne se­ gnerebbe il più ironico e macabro dei trionfi, o per meglio di­ re la più macabra e ironica delle confutazioni. A partire dalla prima guerra mondiale, la filosofia dell’ecatombe sarebbe sta­ ta avidamente applicata nel secolo successivo a quello di Nietzsche e che si è appena concluso, ed è inevitabile chieder­ si, con non poca apprensione, cosa ci riserva il secolo che ades­ so si schiude. Ci sarà l’oltreumanità del terrorismo di massa, dell’olocausto nucleare o ecologico?

5. Idultimo nemico Davanti a questo nichilismo “autorealizzatore”, a questi avvisi che dovrebbero far riflettere chiunque sia disposto a da­ re a parole e pensieri il valore reale che essi vogliono avere, è giunto il momento di tornare a porci la domanda che finora non è stata direttamente affrontata: come può Nietzsche muo­ versi con questa libertà incontrollata, giocare così rischiosa­ mente con un fondamento che dovrebbe rimanere occultato, divertirsi così tragicamente con forze dal cui controllo dipen­ 113 E NIETZSCHE, Frammenti postumi 1888-1889, cit-, 23 [3], pp. 368-69.

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de la sopravvivenza dell’umanità? È forse il caso di ripetere che mai i Greci, che non erano certo dei pacifisti, si sono sògnati anche solo di pensare simili cose. Quale Greco avrebbe osato affermare che i sacrifici umani sono sempre stati «i mez­ zi di elevazione» più esaltanti e più nobili? Come osserva Karl Lowith a proposito dell’eterno ritorno e della volontà di po­ tenza: «Tutto questo superlativo, “supremo” ed “estremo” vo­ lere e volere a ritroso, creare e trasformare, è tanto antinatu­ rale quanto non-greco», e ancora: «Mentre l’uomo antico con­ servò mezzo e misura, giacché era naturalmente violento, l’uo­ mo moderno è teso fino all’estremo - per non essere medio­ cre»114. Lo stesso Lowith non coglie tutta la portata delle sue penetranti osservazioni. Di cosa non sarebbe capace quest’uo­ mo moderno, patologicamente «teso fino all’estremo», pur di «non essere mediocre»? Anche quando i Greci arrivavano, com’è il caso di Euripide, a mostrare in parte la natura di Dioniso, si guarda­ vano bene dall’identificarvisi, anzi se ne distoglievano sgo­ menti, come Agave nella conclusione delle Baccanti, dopo aver fatto a pezzi nella follia dionisiaca il figlio Penteo. Come segretamente sospetta e a ogni costo rifiuta, Nietzsche può parlare di Dioniso con libertà incosciente, con una folle au­ dacia che è tutto tranne che greca, perché appartiene a una società influenzata da una religione che demistifica e rende visibile ogni violenza proponendo un’alternativa compietamente diversa, perché vive in un mondo condizionato obtorto collo dalla religione che si ostina silenziosamente a mostra­ re agli uomini increduli l’uccisione collettiva di Dio: il cri­ stianesimo. È esclusivamente il cristianesimo a fornire a Nietzsche la consapevolezza della vittima che emerge nei suoi scritti con un’intensità proporzionale ai suoi sforzi di dimenticarsene e di trasfigurarla fingendo che sia “naturale”, di appropriarsene truccando le carte. È questa consapevolezza a restituirci di lui,

1M K. LOWITH, Nietzsche e l'eterno ritorno, a c. di S. Venuti, Laterza, Roma Bari 1998, pp. 124 e 182-83.

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attraverso i suoi scritti, un’immagine più accettabile e umana, e avesse avuto questo filosofo solitario la felix culpa di una maggiore e più umana incoerenza! Nella Gaia scienza, ad esempio, egli sa descrivere con parole perfette il destino delle vittime e il soffocamento della loro voce nell’inconscio perse­ cutorio: Sacrificio. Riguardo a sacrificio e a spirito di sacrificio le vittime la pensano diversamente dagli spettatori: ma da tempo immemora­ bile non si è mai data loro la possibilità di dirlo.115 E il filosofo aveva già scritto, con lapidarietà folgorante, in Aurora:

Da tenersi presente! Chi è punito, non è più colui che ha compiu­ to l’atto. È sempre il capro espiatorio.116

La definizione è di una brevità e di una precisione geome­ trica. Il colpevole o presunto colpevole viene punito, al livello più primordiale, non per un accertamento di responsabilità, ma perché qualcuno deve pagare, deve ricevere su di sé i mali subiti dalla comunità e permetterle di sfogare comunque il suo desiderio di vendetta, che altrimenti si moltiplicherebbe im­ pazzito. Dunque, un capro espiatorio. È proprio questa lucidità che ci fa avvicinare al nodo dei nodi, alla contraddizione centrale del sistema di doppi di Nietzsche. La sua affermazione che Dio è morto, nella sua ra­ dicalità, è possibile soltanto in un universo consapevole della morte di Cristo, il figlio di Dio che muore affinché nessuno di­ venti dio dopo essere ucciso, affinché nessuno venga più ucci­ so. E in un universo in cui la violenza non riesce più a trovare la strada del sacrificio e dell’uccisione senza rimorsi del rivale, è fatale che i doppi della violenza tendano a moltiplicarsi non solo nella società, ma anche all’interno degli individui. I di­ sturbi psichici prendono il posto di quegli stati di possessione 115 F. 116 F.

Nietzsche, La gaia scienza, cit., libro III, af. 220, p. 152. Nietzsche, Aurora, cit., libro IV, ai. 252, p. 171.

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dei doppi che un tempo portavano al sacrifìcio. Per questo Nietzsche agogna alla mania dionisiaca, che la visione di Èffrena e il sogno di Aschenbach ci hanno così efficacemente esemplificato. Il filosofo spera con l’antica follia di liberarsi della moderna pazzia che lo affligge, ma coi risultati paraliz­ zanti e distruttori che abbiamo visto. Il rifiuto di Cristo era perciò inevitabile, una tappa fatale e obbligata, che accompagna sin dall’inizio, sin dagli scritti gio­ vanili, l’evoluzione del pensatore, tormentandolo però in mi­ sura crescente117. Nietzsche si rifiuta di riconoscere che se il cristianesimo facilita il moltiplicarsi dei doppi all’interno del­ l’individuo e della società è solamente perché rende la violen­ za dell’uomo visibile, lasciando a lui ogni decisione. L’essere umano può scegliere la propria violenza, ed è questa la strada della follia, oppure l’alternativa concreta di convertirsi, cioè di “voltarsi” verso se stesso, riconoscendo la propria violenza, e accettando il messaggio che la demistifica. Questo è a tal pun­ to vero che l’azione storica del cristianesimo può essere de­ scritta come il graduale smantellamento di ogni alternativa in­ termedia fra la pazzia individuale e collettiva da un lato, e dal­ l’altro il «regno di Dio», il prevalere dell’amore senza violenza. Il cristianesimo rappresenta quindi tutto ciò che Nietzsche ri­ fiuta, tutto ciò da cui si deve assolutamente difendere. Il suo ri­ sentimento raggiunge l’apice davanti a quello che è per lui l’ar­ chetipo della “morale del gregge”, davanti alla sua disgustosa difesa dei più deboli, dei malriusciti che egli, nei momenti di esaltazione più fosca, vorrebbe ridurre in poltiglia, trasforma­ re in carne da macello a vantaggio dei “più forti”, dell’Olimpo degli aristocratici, dei superuomini, con la dinamica esponen­ ziale che porta allo sterminio di massa. 117 Generalmente la letteratura su Nietzsche e il cristianesimo, quando non sposa acriticamente le tesi del filosofo, si rifiuta di capire le precise ragioni conoscitive per cui egli combatte il messaggio cristiano. Jaspers ad esempio avverte con una certa acutez­ za che la critica di Nietzsche nasce da un’influenza cristiana, ma ignora in che cosa con­ sista tale influenza e per quale motivo vi sia in Nietzsche una perdita dei contenuti cri­ stiani, cioè della fede in Dio (K. JASPERS, Nietzsche e il cristianesimo, tr. it. di Μ. Dello Preite, Ecumenica Editrice, Bari 1978, p. 39). Restiamo insomma sempre all’interno del cliché della morte di Dio intesa come sua “scomparsa” indolore.

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Per comprendere meglio l’accanimento di Nietzsche contro i più deboli e soprattutto contro il cristianesimo che li difende, occorre tener presente il suo carattere di tattica sostitutiva, le­ gato alla consapevolezza rimossa che il pensatore ha del pro­ prio ruolo di vittima, di rivale perdente. Il sacrificio è sempre sostituzione, è far morire qualcuno al nostro posto, qualcuno al posto di tutti: se il meccanismo non funziona, è la vita di ognuno a essere minacciata. E la sostituzione può anche mo­ mentaneamente salvare la vittima: qualora, negli istanti con­ vulsi della sua scelta e uccisione, essa non sia uccisa subito, ne viene ammazzata un’altra al suo posto, e la vittima mancata vie­ ne lasciata in vita non come un dio morto e rinato, ma come un dio vivo, come un re sacro, da sacrificare non appena i suoi po­ teri si rivelino inefficaci. Ogni vittima che il cristianesimo salva è allora una vittima sottratta alla macchina sacrificale che do­ vrebbe assicurare la potenza, la sopravvivenza di Nietzsche. Queste vittime devono morire al posto di Nietzsche. Il filosofo si comporta come un antico re sacro, che doveva far sue le leg­ gi sacrificali della comunità e diventarne il garante, il deposita­ rio, l’esecutore, e la cui vita può dirsi al sicuro solo fintantoché mantiene il suo ruolo, finché trova “materia prima” da sacrifi­ care al suo posto. Il cristianesimo, che inceppa il meccanismo sostitutivo su cui si basa l’esistenza precaria del filosofo-re, la religione dei deboli che indebolisce «la forza, la responsabilità, l’alto dovere di sacrificare uomini»118, è dunque un attentato alla sua stessa vita. La famosa trasvalutazione di tutti i valori è il programma di confutazione e rifiuto di tutti i valori cristiani in vista di questo obiettivo, il che ci fa capire anche le ragioni del futuro successo di pubblico che avrebbe avuto il program­ ma. Non sono tutti, in forme più banali, ad aver bisogno della sostituzione? Nietzsche in questo più che mai si conferma l’a­ vanguardia di una ribellione che sarebbe divenuta di massa. Se Cristo vuole togliere la maschera a Dioniso-Nietzsche, questi deve allora dimostrare che è Cristo la maschera da demistifica­ re, la vera menzogna, il falso idolo da abbattere. E una lotta di vita o di morte, il duello che sviluppa e completa quello con 118 F.

Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., 15 [110], p. 257.

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Wagner. Cristo è la vera balena bianca che Nietzsche-Achab vuole rincorrere e uccidere attraverso i mari dell’origine uma­ na, tragicamente seguito dall’equipaggio del Pequod, dall’/wtellighenzia e dalle folle di Germania e d’Europa.

Il passaggio esplicito dalla rivalità verso Wagner alla rivalità verso Cristo è documentabile in una lettera a Malwida vón Meysenbug dell’aprile del 1883, quando l’identificazione con l’anticristo prorompe diretta, sotto gli effetti della morte di Wagner e del gelido silenzio di Cosima: «Vuole un nome con cui chiamarmi? La lingua della Chiesa ne ha uno: io sono...... ΓAnticristo»1^. E il primo vistoso segnale dell’ultima battaglia, dell’ultima resa dei conti, che Nietzsche ingaggerà contro tutti quelli da cui si era sentito battuto, deriso, estromesso. Forte della sua genealogia, egli è sicuro di poter demistificare una volta per tutte l’ipocrisia dei cristiani, dei “virtuosi”, del “greg­ ge”, incarnando la parte del loro nemico. Come un giocatore di poker, dopo un rilancio del piatto che era durato da quasi duemila anni, egli decide di andare a vedere. Nietzsche arriverà così a scoprire, nella primavera del 1888, qualcosa che non era mai stato capito con questa chiarezza, e che neppure d’Annunzio e Mann riusciranno a isolare e a enunciare: la differenza tra Dioniso e Cristo. La scoperta è tal­ mente grande che è passata inosservata da tutti gli interpreti del filosofo. Nemmeno quelli che ne hanno diagnosticato in modo acuto le contraddizioni, come Lowith, si sono minima­ mente accorti del “segreto” cristiano che questo navigatore so­ litario è riuscito a strappare: un riconoscimento del genere li avrebbe costretti ad ammettere che il fondamento della ricerca di Nietzsche sta altrove che nel filosofico, sta nell’antropologia, nella religione. Analoga cecità hanno avuto anche i migliori in­ terpreti cristiani di Nietzsche, come de Lubac, con la differen119 Lettera del 3/4 aprile in Triangolo di lettere, cit., p. 282. Interessanti le reazio­ ni: amichevolmente ironica quella della von Meysenbug, che col suo idealismo ro­ mantico è lontana dal rendersi conto delle intenzioni di Nietzsche; involontariamente ironica quella di Elisabeth, che baserà le sue future fortune sulle idee del nuovo anti­ cristo: «Io mi sento malissimo [...] non riesco assolutamente a vedere a chi potrebbe­ ro essere anche minimamente utili» (Triangolo di lettere, cit., pp. 283-84).

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za però che nel loro caso il fondamento contro cui Nietzsche ha lottato è pienamente presente e accettato. L’unico ad avere gli strumenti giusti per riconoscere a Nietzsche quel che gli è dovuto è stato Girard. La sua interpretazione del pensatore te­ desco si dimostra vitale perché vitale è l’approfondimento che il suo pensiero consente del messaggio cristiano. A differenza degli antropologi del suo tempo e della massa di relativisti del nostro, Nietzsche comprende che l’uguaglianza strutturale della vicenda delle figure divine di Dioniso e Cristo dimostra non la loro identità, ma la loro differenza abissale. Sia Dioniso sia Cristo vengono uccisi, ma mentre la storia di Dioniso è narrata dal punto di vista dei carnefici, che vedono in Dioniso colui che li incita al sacrificio, la storia della Passione e Resurrezione di Cristo ci fa vedere che chi compie la violenza è la folla, mentre la vittima è del tutto innocente. L’intuizione for­ midabile di Nietzsche resta però, ancora una volta, a metà: co­ me egli non riconosce apertamente il ruolo della folla in Dioniso, che nel frammento su Dioniso contro il Crocifisso fa una significativa ma veloce comparsa, così l’aspirante anticristo non vuole rendersi conto che se Cristo rimane fino alla fine la vittima innocente è perché rimane del tutto immune dal conta­ gio imitativo dei suoi persecutori, la cui forza spaventosa ci vie­ ne fatta vedere dalla tragedia greca, ad esempio dal Dioniso di Euripide che seduce Penteo a seguirlo sul Citerone dove sarà massacrato. In altre parole Nietzsche non vuol riconoscere dav­ vero l’innocenza di Gesù, non vuole e non può ammettere aper­ tamente che Egli è del tutto indenne dalle misture infernali che ci raccontano le Baccanti, e di cui il filosofo è partecipe col suo infernale rancore. E questa, in Gesù, la dimostrazione concreta, e invisibile per chi non la vuole vedere, del suo essere figlio di Dio; è questo potere trascendente i doppi della violenza umana che gli permette di perdonarla dalla croce, e che fa della sua Resurrezione non il ritorno della vittima divinizzata, ma la rive­ lazione della vittima indistruttibile, viva, la cui divinità non deve nulla alla trasfigurazione violenta dei persecutori perché la rivela, recandone i segni e demistificandola completamente120. Cristo 120 Vedi R. Girard, Vedo Satana, cit., pp. 243-246; G. FORNARI, Fra Dioniso e Cri-

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non ha nulla a che fare con il duello, con il gioco mimetico e rivalitario nei cui termini Nietzsche si costringe a pensare. Nietzsche si deve difendere da questa verità, che minaccia di far saltare il gioco dei doppi del quale si alimenta e di cui è prigioniero. La differenza tra Dioniso e Cristo può soltanto di­ mostrare ai suoi occhi che la verità sta dalla parte di Dioniso, deve diventare a ogni costo la battaglia di Dioniso contro il Crocifisso. L’identificazione provocatoria ed esaltata dichiarata a Malwida von Meysenbug diventerà la sfida solitaria e scom­ posta àeA'An tiensto, l’ultimo assalto che segnerà il naufragio definitivo della mente del filosofo. Il rifiuto dell’unica alterna­ tiva all’universo chiuso dei doppi vorrà dire il trionfo dei dop­ pi nella mente vacillante di Nietzsche, il trionfo della pazzia. Girard qualifica Nietzsche come il più grande pensatore re­ ligioso del XIX secolo, e presenta l’aforisma su Dioniso contro il Crocifisso come il più grande testo teologico del XIX seco­ lo121, definizioni che possono apparire esagerate se pensiamo, ad esempio, alle verità religiose scoperte da un Manzoni, che ha basato la sua concezione su una ben diversa consapevolez­ za del cristianesimo e dei meccanismi di folla e del desiderio, lo stesso Manzoni il cui capolavoro è stato ammirato, almeno a parole e comunque senza risultati, dal giovane Nietzsche122. Tuttavia Girard sta pensando non a ciò che il pensatore tede­ sco ha elaborato, quanto a ciò in cui egli si è imbattuto, lungo le rotte iperboree della sua baleniera. In tal senso Nietzsche è un autentico esploratore di terre incognite, il più grande sco­ pritore religioso del XIX secolo, uno scopritore ciò nondime­ no invertito, che illumina con la sua negazione quanto da lui scoperto e negato. Un negatore apportatore di luce, letteral­ mente un lucifero.

sto, cit., pp. 29-30, 278-279; C. Tugnoli, Girard. Dal mito ai Vangeli, Edizioni Mes­ saggero, Padova 2001, pp. 199-210. 121 R. Girard, Quand ces choses commenceront, cit., p. 198. 122 Cronologia (1869-1876), in F. Nietzsche, La nascita della tragedia, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1994, p. 205 (lettera a Elisabeth del 13 marzo 1876 in F. NIETZSCHE, Briefwechsel, cit., vol. II, tomo V, Briefe von Nietzsche: 1875-1879, de Gruyter, Berlin-New York 1980, p. 141).

V. L’anticristo e la croce

1. Un1iniziazione dantesca

Negli ultimi mesi della sua vita cosciente Nietzsche non tro­ verà nell’opposizione di Dioniso e Cristo il balsamo che si aspettava, ma al contrario la fonte di un’irritazione sempre più viva, che lo porta a reiterare i tentativi di un annientamento che non si realizza mai. Sotto la spinta di un risentimento cre­ scente, la crisi dei doppi che definisce la maschera di Zarathustra comincia a oscillare vorticosamente, inizia a di­ struggere il simulacro che doveva coprirla. Un’ira montante s’impadronisce di Nietzsche, un’ira che lo spinge a moltiplicare gli scritti e i progetti nella speranza di una resa dei conti de­ finitiva. Dopo 11 caso Wagner e dopo aver accantonato i pro­ getti della Volontà di potenza e della Trasvalutazione di tutti i valori™, Nietzsche concentra i suoi sforzi in un ultimo tentati­ vo di distruzione, stavolta totale e diretta. È L’anticristo, la mossa estrema del cacciatore, del giocatore di poker, la vera Trasvalutazione di tutti i valori, come recita il precedente sot­ totitolo dell’opera, ossia la «maledizione del cristianesimo», come spiega il sottotitolo definitivo, cambiato all’ultimo mo­ mento123 124, e che ha il significato preciso della maledizione de­ stinata a distruggerlo. Opera singolare fra tante singolari di questo autore, per la strategia lucida e folle che la guida, e per la mancanza sistema­ 123 Μ. Montinari, Che cosa ha detto Nietzsche, a c. di G. Campioni, Adelphi, Mi­ lano 1999, pp. 133 ss. 124 Ivi, pp. 162-63.

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tica di una vera indagine sui suoi contenuti che tale strategia ha provocato, Danticristo propone una complicità distruttiva e si­ nistra che dà alla testa, è come un narcotico che dovrebbe una buona volta portare al sospirato rito sacrificale, di cui il cristia­ nesimo costituirebbe la vittima giusta, la vittima autenticamen­ te colpevole che è giusto e liberatorio scannare e fare a pezzi. Complicità fosca e contagiosa, a cui il lettore è invitato, e a cui può reagire soltanto mostrando la trama più forte della sua fi­ bra morale, ^anticristo è una prova iniziatica, solo chi vi so­ pravvive ha accesso agli ultimi segreti di Nietzsche e, per via ne­ gativa, ai segreti ultimi del cristianesimo. Niente di strano che sia i credenti sia i non credenti ne stiano alla larga. Questi ulti­ mi, come al solito la maggioranza, danno per buono ciò che Nietzsche ha tentato, scambiando per vittoria la sua propagan­ da, per apoteosi la dimostrazione quasi da laboratorio di una sconfitta irreversibile, Lanticristo è la descrizione dell’inferno di Nietzsche, la formulazione sgangherata e geniale del sotto­ suolo infernale della modernità. Anche noi, come Dante nella Divina Commedia, per evitare tale inferno dobbiamo scendervi e attraversarlo. È un viaggio più breve e meno suggestivo, ma ricco anch’esso di colpi di scena, di rivelazioni tremende. Un’analisi dettagliata di alcuni passaggi capitali di quest’o­ pera, definita come «robusta» e «uno degli attacchi più audaci mai fatti al cristianesimo» da Verrecchia125, sarà sufficiente a ca­ pire la vera natura della battaglia finale combattuta da Nietzsche. Verrecchia è lontano dal sospettare che cosa qui Nietzsche abbia cercato di fare, dal capire che il suo attacco è audace proprio perché è tutto fuorché “robusto” nel senso che egli intende. I veri problemi rimangono luminosamente invisi­ bili. Verrecchia, che definisce con acume Lanticristo «come l’o­ pera di un teologo capovolto», non si rende conto di quanto la sua definizione colga nel segno, e si limita a constatare che la ce­ lebre frase «“Dio è morto” è una boutade che non significa niente né in filosofia né in sociologia»126, constatazione anch’essa vera al di là delle intenzioni dell’autore, dato che né la 125 A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 103. 126 Ivi, cit., p. 102.

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IL CASO NIETZSCHE

filosofia né le scienze umane hanno mai prestato attenzione al significato letterale dell’aforisma di Nietzsche. Un altro grande interprete, Giorgio Colli, ci mostra invece, nella sua introdu­ zione ^'Anticristo, un buon esempio della cecità su quest’ope­ ra, allorché si chiede il senso dell’attacco di Nietzsche, dato che «già a quei tempi la dottrina cristiana era più risibile che temi­ bile»127, giudizio che l’autore ribadisce in un’altra sua opera: Come medico della civiltà, Nietzsche è anzitutto un eccellente diagnostico, con venature profetiche. Quello che egli profetizzò, si è avverato anche troppo presto. Come religione, il cristianesi­ mo è oggi un rehtto, contro cui anche l’astio si è illanguidito...128

Il cristianesimo è talmente un relitto, la profezia di Nietzsche si è avverata talmente presto, che il segreto dell’Anticristo, il se­ greto della sua disastrosa sconfitta, dev’essere ancora svelato. Che l’astio contro il cristianesimo si sia illanguidito è un’affer­ mazione così poco vera che gran parte della cultura contempo­ ranea ha fatto dell’espulsione del cristianesimo un prerequisito essenziale per essere ammessi nel novero dei liberi spiriti, delle persone coscienti e socialmente presentabili. A meno che non si prenda per «astio illanguidito» il gelido silenzio con cui non ci si degna neppure di prendere in considerazione gli argomenti cristiani, e tutto questo in nome dei valori della cultura. Verrebbe a questo punto effettivamente da chiedersi: di quale civiltà Nietzsche sarebbe stato «medico»? Ma vediamo adesso quale affidamento possano fare i suoi seguaci sui responsi anti­ cristiani di questo «eccellente diagnostico». Con una penetrazione e un coraggio di gran lunga maggiori di tanti che si richiameranno alle sue idee, Nietzsche ha cerca­ to di fare ciò che costoro poi penseranno come già fatto, guar­ dandosi bene dal verificare se alle dichiarazioni corrisponda una qualche realtà, ^anticristo condensa, in una sorta di sten­ dardo di guerra, lo schema di tutte le critiche anticristiane del­

127 Nota introduttiva a F. NIETZSCHE, L’anticristo. Maledizione del cristianesimo, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1977, pp. xi-xii. 128 G. COLLI, Dopo Nietzsche, Bompiani, Milano 1978, p. 168

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la cultura moderna, di cui Nietzsche diventa la comoda ma­ schera, e non appare un caso che un esperto conoscitore del fi­ losofo come Colli preferisca dare per liquidato il problema in­ dipendentemente da Nietzsche. Meglio non andare a vedere troppo da vicino la maschera. Con la cecità sistematica di chi non vuole vedere, Γanticristianesimo moderno si rifiuta di rico­ noscere la propria violenza e, poiché il cristianesimo si ostina a parlare di violenza liberamente scelta dall’uomo, questo viene preso come segno sicuro che è il cristianesimo a essere violen­ to, a essere anzi la fonte della violenza. Schema argomentativo del resto fatale. Rimproverare ai cristiani di fare delle vittime, e poi fare del cristianesimo {’ultima vittima, non può che dimo­ strare la verità dell’assunto di questa religione, verità che risal­ ta tanto maggiormente nella sua vera natura quanto più a vio­ larla sono i cristiani stessi che dovrebbero testimoniarla. E que­ sta constatazione logica e storica l’autentica profezia sulla no­ stra epoca, che mostra per quello che sono le profezie che si av­ verano troppo presto di cui parla Colli. Lanticristo di Nietzsche è in tutto e per tutto una profezia invertita, basta ro­ vesciarla per avere la verità che Nietzsche, il «teologo capovol­ to», ha rifiutato e alla fine, in modo folle, incarnato. Nell’Anticristo è il cristianesimo a venir identificato col la­ birinto, a cui il filosofo si dice predestinato. Egli è colui che promette «l’uscita da interi millenni di labirinto», cioè dalla crisi dei doppi di cui Nietzsche addossa l’intera colpa ai cri­ stiani. Ma se il cristianesimo è il labirinto, allora Cristo ne è il centro. Davanti a questo centro il filosofo-Teseo sembra re­ calcitrare, compiendo delle manovre di diversione che è quan­ to mai istruttivo ricostruire. Per diversi capitoli Nietzsche cer­ ca di dividere le forze del nemico per poterle meglio colpire, ricorrendo al vecchio argomento di distinguere la figura di Cristo dallo svolgimento storico del cristianesimo. La logica dei doppi, applicata al cristianesimo, non può che duplicarlo, dividerlo. Grazie anche all’utilizzo di Tolstoj129, non mancano 129 Nietzsche ha ampiamente utilizzato l’opera di L. TOLSTOJ, Ma religion, Paris 1885 (v. l’apparato di E NIETZSCHE, frammenti postumi 1888-1889, cit., pp. 460 ss.). Lo scrittore russo, com e noto, nega la realtà della Resurrezione e l’evangelicità della Chiesa.

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in questa parte le intuizioni notevoli: lo staccarsi di Cristo da tutte le religioni sacrali, il predicare una libertà nuova che si realizza qui e ora in una pienezza di vita non legata ad alcun ricatto violento. Sembra quasi che per un attimo Nietzsche vi riconosca la sua rivendicazione della «innocenza del diveni­ re», la sua polemica contro la condanna ipocrita del mondo reale in nome di altri mondi irreali, in realtà carichi di una vio­ lenza più o meno mistificata. La mente ormai sull’orlo del col­ lasso di Nietzsche avrà avuto il sospetto di quanto questa po­ lemica, in ciò che può avere di autentico, era debitrice del cri­ stianesimo? Questa domanda trae la sua giustificazione, la sua necessità, non tanto da ciò che Nietzsche può aver soggettiva­ mente pensato, quanto dalla realtà oggettiva che è andato a toccare. È questa realtà a fare tale domanda, a farla costantemente al testo di Nietzsche. Il filosofo si muove nella direzio­ ne sicura perché la domanda venga posta in modo sempre più forte dalle cose stesse che scrive e che compie, ed è nello stes­ so tempo inorridito da tale possibilità, si rifiuta di crederci e ricorre a tutti i mezzi a portata di mano pur di farla tacere una volta per tutte. Egli si spinge verso la sorgente originaria del messaggio nella speranza di chiuderla, di essiccarla per sem­ pre. Alla fine vi cade.

2. Gesù Cristo insultato Il carattere autodistruttivo della rotta di collisione seguita da Nietzsche è misurabile attraverso il ricorso all’insulto, alla bestemmia, che dà la più diretta smentita a chi romanticamen­ te sostiene che Nietzsche si astenga dall’attaccare Cristo130. L’insulto principale è che Cristo è un idiota, bestemmia ripetu­ ta neW'Anticristo e, ancor più scopertamente, in diversi degli ultimi frammenti:

li0 P. Burgelin in H. DE Lubac, Il dramma dell'umanesimo ateo. L'uomo davanti a Dio, tr. it. di A. Tombolini, Jaca Book, Milano 1992, p. 246, n. 82 (de Lubac dissente, ma stranamente non cita L’anticristo né i testi collegati).

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...Ma si può sbagliare in modo più grossolano, quando di Cristo, che era un idiota, si fa un genio?131

Il riferimento aW’ldiota di Dostoevskij, scrittore che viene citato in questo frammento e nel passo corrispondente dell’Anticristo, non è affatto in contraddizione con l’uso of­ fensivo del termine, dato che il protagonista del romanzo, il principe Myskin, rappresenta un tipo degradato e inefficace di redentore, un’imitazione idealistica e impotente di Cristo132. Con un’astuta semplificazione di comodo, Nietzsche prende l’indagine spietata di Dostoevskij per l’in­ terpretazione corretta di Cristo, in maniera da lasciare all’ap­ pellativo ingiurioso il suo significato più preciso e più ov­ vio133. Quest’insulto si accompagna a quello di “asino”, che Nietzsche riprende dalle accuse pagane secondo cui i cristia­ ni adoravano un dio con la testa asinina134. L’intento oltrag­ gioso non è meno palese dell’abile stratificazione a più livelli dei riferimenti storici e culturali. L’epiteto “idiota” viene ri­ volto anche a Parsifal, il “puro folle” protagonista dell’opera wagneriana che Nietzsche odia e ammira più di ogni altra: la mediazione pressoché teologica del modello di Wagner rende ancor più evidente, se ce n’era bisogno, la volontà di annien­ tare mediante l’insulto il fondatore del cristianesimo, a cui l’autore del Parsifal aveva reso il suo omaggio, e di annientare per via transitiva tutti coloro che si richiamano a Cristo. La bestemmia che sintetizza tutte le altre è: «L’idiota sulla cro131 E NIETZSCHE, Frammenti postumi 1888-1889, cit., 15 [9], p. 199; v. Id., L’anti­ cristo, cit., pp. 38 e 39-40. 132 R. GlBARD, Dostoevskij dal doppio all'unità, tr. it. di R. Rossi, SE, Milano 1987, pp. 62 ss. 133 L’intento di chi pensa di edulcorare l’insulto nietzschiano tramite Dostoevskij è perciò totalmente infondato. Ancor meno fortunato il tentativo di spiegare etimolo­ gicamente l’insulto con il greco idiótes, «individuo particolare» (G. Penzo, La filoso­ fia dell’Anticristo, prefazione a F. NIETZSCHE, L'Anticristo. Maledizione del cristianesi­ mo, a c. di G. Penzo, Mursia, Milano 1982, p. 15), quando il testo nietzschiano parla addirittura di idiozia in senso fisiologico. 134 II brano più famoso è La festa dell’asino nella Parte IV del Così parlò Zarathu­ stra·, va anche ricordato che nel 1857 era stato scoperto a Roma un graffito con un’im­ magine parodistica di Cristo crocifisso con la testa di asino.

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ce...[Der Idiot am Kreuze]»105. Nietzsche attribuisce a Gesù lo stato di degrado mentale in cui sta per cadere lui135 136, ma la grossolanità e volgarità di questa proiezione blasfema non de­ ve farcene dimenticare il significato antropologico. Ogni bestemmia è una preghiera invertita, è il rivolgersi a Dio come responsabile dei mali dell’uomo, la formulazione sintetica della visione violenta che gli uomini si fanno di Dio, per l’arcaico motivo che i loro antichi dèi non erano che uomi­ ni uccisi e divinizzati. L’uomo bestemmia Dio perché lo vor­ rebbe uccidere al suo posto, vorrebbe compiere in lui il più an­ tico dei sacrifici sostitutivi: è questa la definizione stessa della colpa d’origine dell’umanità, la disobbedienza di Adamo ed Èva svelata nel suo più brutale significato. I due progenitori dell’umanità bestemmiano Dio perché lo interpretano come nemico, come rivale, come divinità invidiosa di cui essi diven­ tano a loro volta invidiosi. Ma questa invidia, questa rivalità che diventa violenza è esclusivamente la loro. Nella sua ansia di ribellione teologica, che è quella di gran parte della moder­ nità, Nietzsche non poteva non toccare anche questo punto, e al cap. 48 racconta la storia del peccato originale dall’unico punto di vista che per lui può e deve avere valore, il punto di vista del serpente, ossia di quello che la tradizione cristiana ha definito come Satana. Girard ci mostra come Satana corri­ sponda all’immagine violenta che gli uomini si sono sempre fatti degli dèi e di Dio, sia la personificazione stessa della logi­ ca violenta dei doppi. Già in un frammento del 1882, al tempo della Gaia scienza, Nietzsche aveva dichiarato, con l’enfasi rivelatrice e quasi in­ controllabile dei corsivi e delle maiuscole: Io ho volontariamente vissuto fino in fondo Vopposto di una NA­

135 E Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., 25 [14], p. 414 (Id., Werke, a c. di G. Colli e Μ. Montinari, voi. Vili, tomo III, Nachgelassene Fragmente. Anfang 1888 bis Anfang Januar 1889, de Gruyter, Berlin-New York 1972, p. 458). 136 Si vedano nell’Anticristo i riferimenti alla schizofrenia di Cristo (sempre al cap. 31) e alla folie circulaire, alla ciclotimia patologica che Nietzsche attribuisce alla mo­ nomania religiosa.

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TURA RELIGIOSA. Io conosco il demonio e le prospettive da cui EGLI guarda verso Dio.lil

Come nessuno ha preso alla lettera il suo aforisma sulla morte di Dio, così nessuno ha capito quanto in queste parole il futuro anticristo, che avrebbe di lì a poco esternato a Malwida von Meysenbug la sua identità, andasse preso sul serio. Egli ha imparato a conoscere a fondo il demonio e ha capito bene in che cosa consiste il suo punto di vista. Fin dagli scritti giovanili aleggia su di lui un’ombra, una fi­ gura spettrale definibile soltanto come demoniaca: Ciò ch’io temo non è l’orrenda figura dietro la mia sedia, ma la sua voce; e nemmeno le parole, bensì il tono terribilmente inarti­ colato e disumano di questa figura. Sì, se parlasse almeno come parlano gli uomini!137 138

La cosa più inquietante di questa testimonianza è che Nietzsche si riferisce all’«orrenda figura» come a un visitatore abituale. Questo è già lo spettro della follia che incombe su Nietzsche, la materializzazione del sosia di Euforione e della ri­ sata satanica che ne è il commento, il doppio atroce del suo ran­ core che lo aiuterà a vendicarsi del padre irraggiungibile e as­ sente, di Wagner, del Dio che lo ha condannato. E con intui­ zione di autentico romanziere che, ispirandosi al filosofo àeWAnticristo, Thomas Mann farà dipendere la carriera del compositore protagonista del Doktor Faustus da un patto con il demonio, un patto che viene stretto non solo da Nietzsche, ma da una vasta parte della cultura tedesca ed europea. Nietzsche, e con lui gran parte dell’occidente, si ribella a Dio perché lo odia e lo invidia139. L’invidia del pensatore tede137 F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., 23 [60], p. 500. 138 E Nietzsche, La mia vita, cit., p. 181 (il testo è del 1868-69); cit. anche in H. Althaus, Nietzsche, cit., pp. 235 ss., con evidenti sforzi di edulcorarne e minimizzar­ ne il significato. 139 L’atteggiamento di rivalità verso Dio da parte di Nietzsche è stato notato da al cuni interpreti, ma solitamente all’interno di letture di tipo psicologico o comunque prescindendo da un più ampio orizzonte antropologico (cfr. H. DE Lubac, Il dramma,

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sco per Dio non è un suo semplice atteggiamento psicologico, è l’espressione senza più coperture della colpa costitutiva del­ l’umanità, della sua propensione ancestrale, ontologica al male. Non si comprende la ribellione di Nietzsche se non si com­ prende la natura antropologicamente oggettiva, fondatrice di Satana. L‘anticristo è un’opera per definizione satanica, è l’in­ terpretazione satanica del cristianesimo, è il considerare la sua storia e il suo messaggio dal punto di vista di Satana. Perché Satana è l’anticristo. L’anticristo è Satana che vuole ingannare e coprire la propria violenza, duplicandosi in falsa imitazione di Cristo una volta che constata il dilagare della sua rivelazione. Il cristianesimo rivela e difende le vittime? L’imitazione diabolica di Cristo trasforma allora la rivelazione della vittima nella sua scimmiottatura violenta, nella persecuzione dei persecutori140. Tutte le vittime (e chi non può dirsi in qualcosa una vittima?) chiedono a gran voce la vendetta sui persecutori pretesi o rea­ li, moltiplicati miticamente per categorie, e poiché il messaggio cristiano condanna qualunque vendetta e qualunque copertura ipocrita della violenza, è fatale che l’oggetto primo e ultimo di quest’odio vendicativo e ipocrita sia sempre e solo il cristiane­ simo. Nietzsche avverte questa imitazione pervertita di Cristo nella propria epoca, ma solamente perché, con la stessa logica demenziale della volontà di potenza, egli vuole incarnarla a un livello più alto, supremo, tentativo che emergerà in maniera storicamente esplosiva in Adolf Hitler, l’ex-paria, l’ex-capro espiatorio determinato a fare del popolo ebraico, e poi del cri­ stianesimo, il suo capro espiatorio, ^anticristo è il manifesto del risentimento moderno contro il cristianesimo, e la definizione programmatica dell’unico vero anticristo, quello che dovrebbe coincidere con Nietzsche medesimo. Non c’è punto essenziale del rifiuto moderno del cristiane­ simo che non si ritrovi Anticristo·. la negazione, come cosa cit., pp. 243-44 e Y. Ledure, Il pensiero cristiano di fronte alla critica di Nietzsche, “Concilium. Rivista internazionale di teologia”, 5 (1981), pp. 82-85). Il contributo che fa meglio cogliere il passaggio dal superuomo all’anticristo resta forse quello di Solo­ viev (V. SOLOVIEV, I tre dialoghi e il racconto dell'anticristo, tr. it. di G. Faccioli, Ma­ rietti, Genova-Milano 2002, pp. 170-71). 140 R. GIRARD, Vedo Satana, cit., pp. 234-36.

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ovvia, del valore dell’eucarestia assimilata a un arcaico rito di sangue, l’incarnazione del figlio di Dio vista come una vergo­ gnosa storia di Anfitrione, la condanna della Chiesa quale sim­ bolo istituzionale della violenza, la ridicolizzazione della Provvidenza, il rifiuto dell’idea stessa di immortalità, l’attribui­ re la Resurrezione a un’invenzione dei primi cristiani, l’equivo­ co grossolano sull’immacolata concezione scambiata con la na­ scita verginale di Gesù e interpretata come sublimazione sessuofobica. Molti di questi punti erano già stati espressi in for­ ma condensata in Umano, troppo umanow, ma la cosa più in­ teressante è che Nietzsche, con contraddizione consequenziale, arriva adesso a negare la sua più grande scoperta, la scoperta che è stata pienamente effettuata solo da René Girard, la sco­ perta della differenza tra Dioniso e Cristo. Pur di realizzare la sua ribellione contro Dio, Nietzsche non esita a distruggere ciò che avrebbe fatto la sua grandezza, e che soprattutto l’avrebbe potuto salvare. Ci stiamo avvicinando all’arrembaggio finale del filosofo-Achab contro quella che lui interpreta come l’o­ diata preda, una preda che man mano che lui vi si avvicina si ri­ vela stranamente poliforme, sfuggente, sempre più somigliante a Dioniso, a Proteo, al tanto invocato dio della metamorfosi. 3. Si striscera alla croce

Il momento decisivo in cui Nietzsche arriva a negare se stes­ so pur di spuntarla contro lo sfuggente avversario è riconosci­ bile nella parte centrale dAVAnticristo. Il filosofo-anticristo im­ magina, ai capp. 40-41, le reazioni dei discepoli di Gesù, cari­ chi di ressentiment, a quello che definisce come «atrocissimo paradosso» della croce, espressione che ci fa capire che con la croce ci troviamo al centro stesso della crisi dei doppi nella mente di Nietzsche. Il paradosso «atrocissimo» è quello che raddoppia, moltiplica le “atrocità”, ossia è quello che non dà vie di scampo:

141 E Nietzsche, Umano, cit., parte ΙΠ, af. 113, vol. I, pp. 97-98.

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Fu da allora che emerse un assurdo problema: «come potè Dio permettere questo!». A questo la turbata ragione della piccola co­ munità trovò una risposta di un’assurdità addirittura spaventosa! Dio dette suo figlio per la remissione dei peccati, come vittima. Fu di punto in bianco la fine del Vangelo! Π sacrificio espiatorio, e proprio nella sua forma più ripugnante e più barbara, il sacri­ fìcio àeW innocente per i peccati dei rei! Quale raccapricciante paganesimo!142

Nietzsche non nega l’unicità del messaggio evangelico, ma nega che questa unicità abbia a che fare con la morte di Gesù. Compiuta questa amputazione del tutto arbitraria, ma neces­ saria per il suo scopo, egli può attribuire ai discepoli l’inter­ pretazione della centralità di questa morte. E qui Nietzsche comincia a toccare con mano cosa significhi l’«atrocissiftio pa­ radosso» della croce. Al problema dei discepoli, definito come «assurdo», viene da loro data, secondo le parole di Nietzsche, «una risposta di un’assurdità addirittura spaventosa», ovvero Gesù immolato come vittima espiatoria per dare soddisfazione alla giustizia del Padre. Il filosofo si sta in realtà riferendo alla teoria della soddisfazione o sostituzione vicaria, elaborata mol­ ti secoli dopo l’era apostolica, nel tentativo di dare una spie­ gazione teologica e logica dei vari aspetti della morte di Cristo, e come tanti anticristiani (e cristiani sacrificali) del nostro tem­ po interessatamente fraintende e prende alla lettera quest’e­ spressione storica del pensiero cristiano, che ignorava un sa­ pere antropologico da cui pure dipende, e la rovescia nel suo contrario, in un’attribuzione di violenza sacrificale a Dio Padre143144 . Ma il particolare più rimarchevole è che Nietzsche rinfacci agli apostoli un’interpretazione sacrificale e violenta della mor­ te di Gesù che riflette, come viene detto al cap. 40, «il senti­ mento meno evangelico, la vendetta»^. Ammissione clamoro­ sa quanto inevitabile, che ci fa vedere i motivi per cui il più me­ 142 F. Nietzsche, L'anticristo, cit., p. 54. 143 Quando è chiaro che espressioni come “giustizia”, “onore” o “ira” del Padre indicano la sua trascendenza rispetto al mondo violento degli uomini. 144 E Nietzsche, L'anticristo, cit., p. 53.

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fistofelico Heidegger eviterà accuratamente la zona proibita in cui si avventura l’aspirante anticristo. Per liberarsi dei cristiani Nietzsche ha bisogno di concentrare in loro tutta la violenza, tutta la volontà di vendetta, ma per fare questo è costretto ad ammettere che la vendetta è completamente estranea ai Vangeli, è costretto ad adottare il punto di vista evangelico, senza rendersi conto delle implicazioni di questa ammissione. La contraddizione è immediatamente palpabile se pensiamo che il tipo di sacrificio che egli attribuisce alla volontà di vendetta de­ gli apostoli, e che suscita qui la sua indignazione, è lo stesso che accende in lui l’entusiasmo più belluino non appena è compiuto in nome di Dioniso: «Il sacrificio espiatorio [...] nel­ la sua forma più ripugnante e più barbara, il sacrificio dell’zwnocente per i peccati dei rei! Quale raccapricciante paganesi­ mo!». Il filosofo, o se vogliamo il suo stesso testo, viene tocca­ to dal sospetto che tutte le vittime di Dioniso siano innocenti, cioè comunque non colpevoli delle colpe enormi che sono lo­ ro addossate dalla folla invasata dall’odio, come egli aveva già detto nei suoi momenti di maggior lucidità vittimaria, ma sen­ za trarne le conclusioni che avrebbe dovuto. Nietzsche stesso riconosce che il sacrificio di una vittima in­ nocente è qualcosa di ripugnante e di barbaro, qualcosa di or­ rendamente pagano. Il punto è che i sacrifici di tipo dionisiaco escludevano precisamente quella consapevolezza da cui Nietzsche, a dispetto di tutti i suoi contorcimenti, non riesce a liberarsi. La confusione che egli, al pari di tanti moderni, com­ pie fra il rito dell’eucarestia e i riti sanguinari dei culti arcaici e misterici non può che ritorcersi contro di lui, perché sono pro­ prio la carne e il sangue dell’eucarestia a mostrare di che cosa son fatti tutti i riti dell’uomo, di che cosa è fatto l’uomo. L’eucarestia anticipa e compie realmente, nel rito, ciò che la Passione di Cristo mostra nella storia e nella conoscenza, fa­ cendole uscire dal mito145. L’aspirante anticristo non poteva che rimanere sordo e cieco al nucleo incandescente della diffe­ renza da lui intuita ed espulsa, un nucleo sacramentale che 145 V. i capp. 11 e 12 di G. pp. 228-29.

Fornari, Fra Dioniso e Cristo, cit., e in particolare le

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mette in comunicazione l’uomo con Dio attraverso la ripeti­ zione reale della sua storia, della sua origine, della sua colpa. Ma una qualunque comprensione del sacramento implica virtù sconosciute a Nietzsche e alla tipica intellighenzia moderna: l’umiltà, l’obbedienza, l’accettazione, l’ascolto, in una parola l’imitazione senza condizioni di un modello buono, di un mo­ dello senza ombra di odio, di rivalità. Rifiutando questa imita­ zione, Nietzsche si priva di qualunque difesa contro il doppio satanico avvertito dietro e dentro di sé fin dalla giovinezza. Se Nietzsche sfiora la pura e semplice verità dell’orrore di Dioniso è solo perché vuole rinfacciarla ai cristiani, perché spe­ ra di liberarsi, non del sacrificio, ma della consapevolezza del sacrificio, trasformando tale consapevolezza nel capo d’accusa mitologico con cui fare dei cristiani il suo capro espiatorio. Ma, ancora una volta, qual è l’unica fonte che gli permette di dire quello che dice? Il sistema di doppi di Nietzsche ci costringe a ritornare sempre sulla stessa contraddizione di fondo, perché è Nietzsche a farlo costantemente, tentando di liberarsi dalla trappola in cui lui è voluto andare a cacciarsi, e che più lui si agita più lo attanaglia. Per quanto compressa e nascosta nell’u­ nicità residua che la sua tattica di divisione concede ai Vangeli, Nietzsche non riesce ad annullare la differenza di Cristo ri­ spetto a Dioniso, che si riverbera su tutti i suoi pensieri e tutte le sue parole. Egli non vuole vedere che la ragione degli apo­ stoli è la ragione umana che, grazie alla Resurrezione, è per la prima volta non più «turbata», poiché gli apostoli capiscono per la prima volta che il punto di vista della vittima innocente è opposto a quello dei persecutori. Ben lungi dall’essere un momento di confusione mentale, quello che avviene agli apo­ stoli dopo la morte di Gesù è l’opposto di quanto sta avvenen­ do a Nietzsche, è un autentico rinsavimento, che apre loro gli occhi sulla persecuzione e sulla loro stessa complicità, è l’e­ vento fondatore della Chiesa, che permette un uso non perse­ cutorio della ragione umana, la quale, come tutti gli attributi culturali dell’uomo, nasce dalla riconciliazione violenta che so­ lo la vittima rende possibile. Il filosofo aveva magnificamente compreso l’origine cruen­ ta della ragione, allorché aveva intuito nelle forme logiche del­

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la conoscenza la presenza di un “comando”, di un atto impe­ rioso e coercitivo della volontà collettiva, ma esclude che esista un comando che utilizza e supera le forme violente dell’uomo perché le perdona, esclude un potere trascendente capace di comunicare e di dare ordini agli uomini perché ne rivela e sov­ verte l’ordinamento violento. Quest’uso delle capacità umane in difesa delle vittime, degli indifesi è il dono sacramentale del­ lo Spirito Santo, che possiede per questo l’attributo fonda­ mentale della sapienza, e che è il solo a poter liberare in modo veritiero e completo dai doppi della violenza. Il tentativo di Nietzsche di ricondurre tutto a una deformazione dei primi cristiani gli si ritorce contro, perché a parlare nelle parole, nel­ le intuizioni del filosofo sono i fatti stessi. Adesso possiamo ca­ pire il passo immediatamente successivo, il rifiuto del valore conoscitivo e salvifico della croce di Cristo, vera crux intorno a cui si dibatte l’intera opera, nonché l’equilibrio mentale di chi la stava scrivendo. A fare le spese del tentativo di Nietzsche non poteva esse­ re che san Paolo, già suo antico oggetto d’odio, che adesso vie­ ne bollato come «disangelista». Anche qui è perfettamente va­ lido l’argomento dell’invidia verso la personalità del possente innovatore religioso che Nietzsche, a dispetto o meglio in ra­ gione delle sue rodomontate, non è mai riuscito a essere; ma, anche qui, c’è molto di più di una rancune soggettiva, ci sono cause oggettive che trovano la loro massima espressione nAYAnticristo, e che sono le medesime per cui san Paolo è la tappa quasi obbligata di tutti gli anticristiani, che tentano di annientare il messaggio cristiano scorporandolo dalla figura del suo fondatore e attribuendo arbitrariamente all’apostolo la tradizione che ne deriva. L’accanimento di Nietzsche e dei suoi imitatori non è immotivato. È san Paolo che ha espresso nella maniera più penetrante il significato antropologico e storico della croce, formidabile dottrina che Girard ci aiuta a capire più a fondo146. Le forze di Satana pensavano infatti di zittire per sempre la voce che si era levata contro il loro potere, ma

146 R. GIRARD, La vittima e la folla, cit., pp. 127-28; Id., Vedo Satana, ni , pp l‘M ··

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proprio nel momento del suo apparente trionfo Satana viene sconfitto, perché il meccanismo fondatore della violenza col­ lettiva, ossia il segreto del diavolo «omicida fin dal principio», è mostrato nella sua nudità. Satana, che coincide perfettamen­ te col Dioniso esaltato da Nietzsche, è stato quindi letteral­ mente beffato. E questa la più vera ragione dell’autentico ac­ cesso di bile da cui viene preso il filosofo-anticristo parlando di san Paolo, di colui che ha predetto il «mistero dell’iniquità» di chi addita se stesso come Dio, figura che nelle parole dell’apo­ stolo equivale allo stesso anticristo147:

Alla «buona novella» seguì immediatamente la peggiore tra tutte·. quella di Paolo. In Paolo si incarna il tipo antitetico alla «buona novella», il genio nell’odio. Che cosa non ha sacrificato all’odio questo disangelista? Innanzitutto il redentore: lo inchiodò alla sua croce.148 Agli occhi dei colpevoli è la rivelazione della colpa la colpa più grave. Per questo san Paolo, che ha sottolineato il vero si­ gnificato della crocifissione di Cristo, si trasforma per Nietzsche nel suo responsabile. Il supplizio visto come giusto finché a eseguirlo era Γimperium romanum si trasforma in col­ pa imperdonabile adesso che il supposto colpevole ne diventa san Paolo. Le contraddizioni si susseguono alle contraddizioni. Più Nietzsche cerca di inchiodare alla croce la cristianità più dimostra la realtà, lo scandalo della croce, come mirabilmente dice san Paolo, con un’espressione presa direttamente dai Vangeli e in cui tutto il senso del messaggio cristiano è con­ densato149. Non è un caso che Nietzsche non citi quest’espressione paolina. Egli non può che tacere, e non è certo il solo, davanti alla dottrina evangelica dello skandalon, la pietra d’inciampo che nella predicazione di Gesù indica il modello divenuto un osta­ 147 II Lessalonicesi 2,3-7; l’anticristo viene teorizzato soprattutto in I Giovanni 2,18-23. 148 E Nietzsche, L’anticristo, cit., p. 55. 149 Galati 5,1 1 (cfr. ICor 1,23). Girard tende a sottovalutare in parte l’enorme por­ tata del passo paolino in Vedo Satana, cit., p. 70.

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colo sulla nostra strada, il doppio vincolo del rivale che ci scan­ dalizza perché segretamente ci affascina e che in quanto ci affa­ scina ci scandalizza, ciò che insomma era stato Wagner per Nietzsche, e che adesso per lui è Cristo, e con Cristo ogni cri­ stiano. L’esito ultimo dello skandalon è l’uccisione del nemico che affascina, l’assassinio della vittima su cui si concentra lo scandalo di tutti. Lo scandalo rivela così la sua identità sostan­ ziale con Satana. Satana è lo skandalon in quanto fondamento, in quanto sistema su cui la vita violenta degli uomini si basa. Lo scandalo della croce, lo scandalo di Nietzsche, è perciò la rea­ zione di Satana alla rivelazione del suo fondamento nascosto. E lo scandalo verso la croce è lo stesso che lo scandalo verso la Chiesa: per difendersene Satana deve spezzare ogni legame vi­ sibile fra lo scandalo del desiderio violento e la croce di Cristo che ne è il risultato, deve spezzare la rivelazione che è il soste­ gno e la guida di tutta la tradizione, deve romperne la conti­ nuità, dimostrando che una tradizione che risalga a Gesù Cristo in realtà non esiste. Ma poiché questo tentativo, con la stessa lo­ gica dell’insulto «idiota» rivolto a Cristo e a tutti i cristiani, na­ sce dal medesimo scandalo che ha portato alla croce, ecco che la dottrina dello scandalo ne risulta così dimostrata. Qualsiasi cosa faccia lo scandalizzato davanti alla rivelazione del proprio scandalo, non può essere che la conferma che lo scandalo esi­ ste, è dentro di lui, è lui. Nietzsche non può citare né definire l’espressione paolina, poiché tutto quello che dice e che fa ne è definito. E dal momento che la dottrina dello skandalon, nella stessa incomprensione bimillenaria di cui è stata l’oggetto, non può che risalire a Gesù, non meno di quanto la crocifissione sia un fatto storico, l’assoluta continuità di quanto dice san Paolo con la predicazione di Gesù è così dimostrata. Per questo la falsificazione teologica e storica con cui Nietzsche riduce il cristianesimo a un’invenzione di san Paolo, anziché dare sollievo al suo autore, lo invelenisce ulteriormen­ te, sino a farlo esclamare, riferito ai Vangeli: «Fortunatamente quei libri sono per i più nient’altro che letteratura...» (cap. 44)150, frase che esprime come meglio non si potrebbe il prin150 E Nietzsche, L'anticristo, cit., p. 59.

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cipio esegetico fondamentale del mondo contemporaneo nei confronti del testo biblico. Oggi l’atteggiamento liquidatorio che riduce la Bibbia a un libro fra tanti, magari deplorevol­ mente prolisso, serioso e “politicamente scorretto”, è così for­ te e influente da esser divenuto legge anche presso molti bibli­ sti. Ma il sollievo di Nietzsche nel constatare il prevalere di questa tendenza è alquanto sospetto, e non deve far sopravva­ lutare la forza dell’interpretazione “letteraria” della Bibbia che la equipara a una qualunque favola, a un qualunque mito (que­ gli stessi miti che sono portati alle stelle quando non sono cri­ stiani). Perché il ritenere i Vangeli un epifenomeno letterario è una circostanza così “fortunata”? Non ne era stata proclamata la falsità manifesta? Da quale vero pericolo questa “fortuna” deve preservare i più, di cui adesso Nietzsche diventa improv­ visamente sollecito? Di quale natura sia il pericolo da cui Nietzsche si deve difendere lo si vede al cap. 53, dopo un cre­ scendo di invettive che proietta sui preti ciò che l’autore teme­ va e sapeva di avere in sé (memorabile il «vampirismo di squal­ lide sanguisughe sotterranee»151), e dove, fra tanti insulti, al­ cune critiche colgono nel segno per il semplice motivo che ap­ plicano, in maniera subliminale e stravolta, la denuncia di Gesù contro i farisei. L’intuizione nietzschiana dell’importanza della croce di Cristo è talmente profonda che, a questo punto di esasperazio­ ne, viene dato il chiaro suggerimento di quello che Satana avrebbe dovuto fare: non crocifiggere Cristo! Il passo fonda­ mentale della Prima Lettera ai Corinzi, in cui san Paolo osser­ va che se i poteri di questo mondo avessero saputo cosa sareb­ be successo non avrebbero mai crocifisso Cristo (2,8), trova neW'Anticristo la più letterale e spettacolare delle applicazioni. Per capirlo dobbiamo penetrare ancora una volta dentro le contraddizioni del testo, poiché Nietzsche deve accuratamente evitare la via maestra della negazione diretta. Ritorna la con­ traddizione già vista, ma stavolta in forma spasmodica, perché quello che ora si sta consumando è lo sforzo supremo di nega­ zione da parte dell’anticristo: I’1 Ivi, p. 69.

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La conclusione di tutti gli idioti [Der Schluss aller Idioten}, com­ presi donne e popolo, che una causa, per la quale taluno affron­ ta la morte (o che, come quella del primo cristianesimo, genera addirittura bramosia di morte in forma epidemica), abbia un va­ lore - questa conclusione è divenuta una remora enorme all’in­ dagine, allo spirito di indagine e di cautela. I martiri recarono dan­ no alla verità... Ancor oggi basta un’asprezza della persecuzione per dare un nome rispettabile a un settarismo in sé ancora insi­ gnificante. - Come? Forse che trasforma il valore di una causa il fatto che qualcuno sacrifichi per essa la propria vita? Un errore che diventa rispettabile è un errore che esercita un’attrattiva di seduzione in più: credete proprio che daremmo a voi, signori teo­ logi, l’occasione di fare i martiri per le vostre menzogne? - Una causa la si confuta deponendola riverentemente sul ghiaccio - in questo modo si confutano anche i teologi... Fu esattamente que­ sta, nella storia del mondo, la stupidità di tutti i persecutori, di dare cioè alla causa avversaria l’apparenza dell’onorabilità - di recare in dono a essa la suggestione del martirio... Ancor oggi la donna si prostra in ginocchio dinanzi a un errore, perché le è sta­ to detto che qualcuno per questo morì in croce. È dunque la cro­

ce un argomento?152 Questo testo è un campo di battaglia drammatico. Nietzsche cerca di argomentare il rifiuto della croce in termini generali, riferendosi alla stupidità di tutti i persecutori «nella storia del mondo». Il filosofo intende evidentemente riferirsi al­ le persecuzioni dei primi cristiani, dal momento che è dei cri­ stiani che sta parlando, ma egli non vuole e non può partire da loro, giacché ciò vorrebbe dire sottolinearne l’unicità appena negata. Per dimostrare che la morte di Cristo e dei martiri è stata una morte come tutte le altre Nietzsche è perciò costretto a parlare di tutti i persecutori esistiti da quando esiste l’uomo, «sin dalla fondazione del mondo» come direbbe il Vangelo, ma a questo punto la violenza che egli voleva nascondere è, in mo­ do veramente genealogico, rivelata.

152 Ivi, pp. 76-77 (F. NIETZSCHE, Werke, cit., vol. VI, tomo III, Der Fall Wagner, Götzen-Dämmerung, Der Antichrist, Ecce homo, Dionysos-Dithyramben, Nietzsche con­ tra Wagner, de Gruyter, Berlin 1969, p. 53).

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Dal suo punto di vista, egli non dovrebbe riferirsi ai per­ secutori delle vittime prima di Cristo, per il semplice motivo che essi non erano visibili come persecutori, e che lui stesso non vorrebbe che lo fossero. Essi erano i Tebani virtuosa­ mente preoccupati di espellere in Edipo la causa della pesti­ lenza, le baccanti che facevano a pezzi la vittima perché pos­ sedute da Dioniso, gli assassini convinti di uccidere per legit­ tima difesa e perché così voleva il dio. La loro “verità” veni­ va raccontata nei miti. Forse che Nietzsche vuol dire che nes­ sun persecutore avrebbe dovuto uccidere vittima alcuna? Certo che no, dato che il cristianesimo non dice nulla di di­ verso, mentre il filosofo-anticristo sostiene il sacrificio, anche umano, a spada tratta. Il suo problema è che i persecutori dovrebbero tornare a non essere visibili come persecutori, e a questo scopo non solo i martìri dei cristiani ma prima di tut­ to il loro modello, la croce di Cristo, non dovevano neppure venire alla luce. È dunque della croce che Nietzsche sta parlando, ed è il punto di vista di Satana analizzato da san Paolo che egli vuo­ le incarnare, secondo quanto già promesso e presentito a suo tempo. Ma, modificando lievemente il modo di dire, questo equivale veramente a far rientrare dalla porta quella croce che il filosofo aveva cercato di gettare di nascosto dalla fine­ stra. Nietzsche si costringe a ripetere sulla propria pelle, a spese del suo equilibrio mentale già vacillante, quel trionfo della croce su Satana di cui parla san Paolo. La vittima, una volta rivelata per quello che è, non può più venire negata: contro questa verità invincibile il propugnatore di DionisoSatana non può fare nulla. Per questo d’Annunzio, pur re­ stando affascinato dal sogno di rifondazione pagana, ci rac­ conta il fallimento di Tullio Hermil, che non riesce a cancel­ lare l’innocenza della vittima da lui insanamente voluta, e conclude gli allarmanti triangoli del Fuoco riferendosi a san Francesco. Per questo anche Thomas Mann, pur con tutta la sua considerazione per Nietzsche, è quasi costretto a raccon­ tarci senza infingimenti la puzza e il sangue di Dioniso, e non riuscirà a condividere il furioso attacco nietzschiano contro la

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morale e la tradizione giudaico-cristiana153. Al fine di cancel­ lare l’evento che rivela la vittima, la sua unicità, il fallimen­ tare anticristo è costretto a rendere visibili tutte le altre vitti­ me «nella storia del mondo». Il sacrificio dei martiri cristiani non dimostra, non mostra altro che questo, che si tratta ap­ punto di un sacrificio. Perciò Nietzsche cerca di trasformar­ lo in un morboso autosacrificio, in un sostanziale suicidio, non accorgendosi della contraddizione palmare rispetto al suo rimprovero rivolto ai carnefici di uccidere i martiri. L’autosacrificio morboso che egli attribuisce ai martiri è in realtà la proiezione di quanto sta per compiere lui: il suicidio mentale, la violenza inflitta a se stesso è l’ultima possibilità di eseguire il duello, di realizzare il sacrificio impossibile, un ve­ ro martirio isterico della violenza. I martiri in greco sono i testimoni, coloro che partendo dal­ l’esempio di Cristo davano testimonianza della verità della vit­ tima, a costo di prenderne il posto se necessario, se cioè questa era l’unica strada per far sì che la verità della vittima non ve­ nisse cancellata. Nulla di più lontano dalla morbosa voluttà di martirio, dalla «bramosia di morte in forma epidemica» che Nietzsche attribuisce loro, e che nasconde il ben più reale con­ tagio imitativo di coloro che uccidevano o assistevano esultan­ ti all’uccisione dei martiri. Quando l’anticristo dice che i mar­ tiri «recarono danno alla verità» egli si riferisce alla “verità” danneggiata, sostanzialmente distrutta del mito, alla convinzio­ ne unanime dei persecutori ormai irreparabilmente incrinata, alla maschera sorridente e omicida di Dioniso, inutilmente so­ stituita nel testo da una superficie di ghiaccio. La «onorabi­ lità», la «suggestione del martirio», che Nietzsche vorrebbe ri­ durre ad apparenza, esprimono al contrario l’unica manifesta­ zione del bene e della conoscenza corretta una volta che le co­ se sono rivelate per quello che sono. Tutte le critiche più o me­ no sottili che Nietzsche ha condotto per anni contro le rappre­ sentazioni, facendosi nello stesso tempo paladino dell’innocen­ za delle apparenze, hanno lo scopo preciso di impedirci di cre­ 153 T. Mann, Saggi, cit., pp. 89 ss.

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dere alle rappresentazioni che ci fanno vedere il desiderio e la vittima nascosti sotto la maschera, mentre le stesse sono esalta­ te quando sono presentate come fenomeni invalicabili, vale a dire come maschere prese per vere. Da quale vera colpa questa “innocenza” dovrebbe preservarci? Non era stato il filosofo stesso a individuare l’origine violenta di tutta la nostra cono­ scenza? Ancora una volta Nietzsche deve dimenticare, e farci dimenticare, il valore stesso delle sue scoperte. Dobbiamo in­ vece chiederci ancora, e in senso stavolta specificamente epi­ stemologico: quale segreta conoscenza, quale sicurezza nasco­ sta gli ha permesso le diagnosi penetranti da cui egli è il primo a non voler tirare tutte le conseguenze? Nietzsche ha potuto afferrare la violenza sottesa alle rap­ presentazioni umane, e noi lo possiamo comprendere perfet­ tamente, perché esiste una rappresentazione assolutamente vera, una rappresentazione assolutamente coincidente con la realtà rappresentata, una “rappresentazione-realtà ” che è l’u­ nica a respingere in modo totale ogni violenza: quella della vittima vista come tale, della vittima vista come compietamente innocente, quella di Cristo morto in croce e risorto. Davanti a questa rivelazione noi ci confrontiamo con un fuo­ ri scala che non dipende più da noi perché siamo noi - con tutto ciò che siamo, pensiamo, facciamo - a dipenderne: qual­ siasi cosa facciamo non potrà che confermare la rivelazione che non viene da noi. È una constatazione di una semplicità disarmante, eppure invincibile: la vittima rivelata in Cristo è assolutamente innegabile, perché negarla vorrebbe dire ucci­ dere un’altra vittima, crocifiggere ancora Cristo. Nulla di umano può toccare la verità rivelata: una volta enunciata, una volta data agli uomini, essa è irrevocabile, eterna. La croce è un argomento, è la fonte di qualunque argomento, la fonte di qualunque conoscenza, la fonte di qualunque salvezza. La donna che si prostra in ginocchio avrebbe molto da insegna­ re al sapiente che sta per essere condotto alla follia dalla sua falsa sapienza, sapienza umana, sapienza di persecutori con­ cepita per altri persecutori. Erwin Rohde, in una lettera a Overbeck del 1886 in cui esprimeva il suo disgusto morale per quanto sosteneva Nietzsche,

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aveva predetto: «Si striscerà alla croce»154, ma, dall’alto della sua intelligenza e della sua sufficienza umanistica, era lontano dall’immaginare quale strisciamento orrendo e rivelatore sarebbe di­ venuto il confronto perseguito dal suo amico di un tempo. Nietzsche si striscerà sì alla croce, ma esattamente come il ser­ pente della tentazione. In questa ripetizione del peccato d’origi­ ne, egli imbocca la strada del tracollo definitivo. Subito dopo il passo sulla croce dell’Anticristo, ritorna con gli esiti più disastrosi la megalomania che dovrebbe dimostrare il trionfo di Dioniso. Davanti all’unica differenza vera che si im­ pone su quelle illusorie della violenza, il cultore di Dioniso riaf­ ferma la sua differenza, la differenza delirante di Zarathustra. È il segnale tragico della fine. Come Achab ormai imprigionato si ostina a colpire il mostro che lo sta trascinando negli abissi, co­ me la disperazione di Baudelaire pianta sul cranio del poeta il suo vessillo nero, così la crisi dei doppi trionfa adesso sulla mente di Nietzsche: Ma su tutte queste cose uno solo ha detto la parola di cui da mil­ lenni si era sentita la necessità - Zarathustra.155

All’inizio dell’opera Nietzsche aveva esclamato con scanda­ lo: «Quasi due millenni e non un solo nuovo Dio!»156. È dun­ que questa «la parola di cui da millenni si era sentita la neces­ sità», la parola del mito, il logos della rifondazione sacrificale, di cui la velleitaria imitazione biblica di Così parlò Zarathustra doveva essere il testo canonico, la rivelazione oracolare. Ma la mera presenza fisica dei martiri, dei testimoni della violenza continua ostinatamente a frapporsi sulla strada della rifonda­ zione. Per neutralizzarli Nietzsche non trova allora di meglio che citare se stesso, aggrappandosi alla Bibbia illusoria del suo Zarathustra:

154 A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. Ili. 155 E NIETZSCHE, L’anticristo, cit., p. 77. Nell’abbozzo preparatorio del cap. 53 manca la parte finale che inizia con questa frase (frammenti postumi 1888-1889, cit., 14 [160], p. 134). 156 Ivi, p. 22.

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Segni di sangue scrissero sulla via da essi percorsa, e la loro stol­ tezza insegnò che col sangue si dimostrerebbe la verità. Ma il sangue è il testimone peggiore della verità; il sangue avvele­ na anche la dottrina più pura e la trasforma in delirio e in odio dei cuori.157

Il sangue dei martiri si ostina ad avvelenare «anche la dot­ trina più pura», ossia quella di Dioniso-Zarathustra che sogna l’antica purezza rituale, in quanto il sangue, allora, si sapeva come purificarlo, come cancellarlo. Tale sangue permane in­ delebile nella mente di Nietzsche, al pari di un veleno. A que­ sto veleno viene addossata la colpa del delirio e dell’odio dei cuori da cui Zarathustra è più che mai sconvolto, come avve­ niva nelle antiche crisi se la violenza continuava a rimanere vi­ sibile, se non era trasfigurata nella violenza unanime del sacri­ ficio. Bisogna quindi trovare un rimedio ancora più radicale, superare i martiri sul loro stesso terreno, compiere per intero ciò che essi hanno disfatto. Il supremo olocausto, tante volte evocato, sta per essere direttamente compiuto, rivelando il ve­ ro significato dell’ulteriore passo della citazione dallo Zarathustra: E se uno va attraverso il fuoco a pro della sua dottrina - che mai prova ciò! Cosa maggiore è che la dottrina propria venga dal ro­ go di se stessi.

Con questa frase Dioniso-Zarathustra firma il proprio de­ stino. L’unico modo di annientare la croce, la consapevolezza incancellabile da cui Nietzsche non riesce a liberarsi, è di ripe­ tere su di sé la rifondazione sacrificale, di realizzare in se stes­ so la “morte di Dio” da lui profetata, di consegnarsi, di ven­ dersi anima e corpo al demone che lo tallona. Per dimostrare la sua natura divina il re sacro si immola. Ogni dubbio verrà così finalmente sanato, la purezza raggiunta. Questa conclusione è chiaramente già contenuta nella stra­ 157 Ivi, p. 77; F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessu­ no, tr. it. di Μ. Montinari, Adelphi, Milano 1976, Parte II, vol. I, p. HO.

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tegia inflazionistica che porta allo sterminio di massa: la tanto desiderata volontà di potenza deve in definitiva condurre al sa­ crifìcio, più ancora che dei “deboli” così detestati, degli stessi aristocratici, i potenziali rivali dell’ww/co superuomo, ma anche le vittime più indicate per le crisi di maggior gravità, quelle che richiedono le vittime più potenti, più prestigiose. E quale crisi più grave per Nietzsche di questa? Egli solo può farvi fronte, autoimmolandosi: soltanto «neW immolare i suoi esemplari più alti» la volontà dionisiaca «sente la gioia della propria inesau­ ribilità»158. Il sacrificio è perfetto solo quando anche l’ultimo abitatore dell’Olimpo si uccide: il Walhalla wagneriano-nietz­ schiano prende rovinosamente fuoco. Non potendo dimenti­ care che la maschera è maschera, il filosofo decide di bruciarsi con essa. Per convincersi della propria natura divina, per di­ mostrare di essere la parola attesa da due millenni, DionisoZarathustra decide di ripetere il processo antropologico che porta alla divinizzazione. La dottrina che viene «dal rogo di se stessi» è esattamente l’opposto del roveto ardente in cui Dio è apparso a Mosè, è il rogo sacrificale su cui la vittima veniva bruciata e che poi ne esprimeva la luce, la natura divina, insegnando come uccidere altre vittime. Vengono in mente le esaltazioni del fuoco fatte da Heidegger nei suoi discorsi politici del periodo nazista, ben più sinistre dell’inquietante ma tutto sommato ancora umani­ stico fuoco che dà il titolo al romanzo di d’Annunzio. Poche pagine dopo Nietzsche, non pago della sua affermazione “mil­ lenaria” della Bibbia di Zarathustra, contrappone alla Bibbia il codice indiano di Manu, con le parole «su tutto il libro sta il so­ le» 159, lo stesso sole di fuoco che splendeva al centro del labi­ rinto, l’astro sacrificale di cui sono figli gli Elleni di Thomas Mann e che risplende sul «grande meriggio» di Zarathustra e di Dioniso. Avvicinatosi troppo al sole del sacrificio l’IcaroNietzsche precipita, inghiottito dal mare di doppi della follia. Il centro è raggiunto, il sacrificio è compiuto. 158 E Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 74, citazione da Crepuscolo degli idoli. ì” E Nietzsche, Lanticristo, cit., p. 82.

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L’opera si chiude pochi capitoli dopo in una successione frenetica di esaltazioni, di accuse, di maledizioni. Nella Legge contro il cristianesimo che dovrebbe segnare l’inizio della nuo­ va èra della salvezza, in data 30 settembre 1888 secondo la «fal­ sa cronologia», la settima e ultima proposizione conelude: «Il resto segue da ciò». In questo «resto» possiamo includere una buona parte della storia e della cultura del XX secolo.

VI. Ciò che nessuno ha scorto

Oh, una morte solitaria dopo una vita solitaria! Ora sento che la mia maggiore grandezza sta nel mio maggior dolore. Achab in Mohy Dick160161

Che cosa c’è nel «resto» che segue dalla Legge contro il cri­ stianesimo, per quanto riguarda il destino dello sventurato an­ ticristo? C’è la pazzia, ovviamente, «...la visione di una festa che debbo ancora vivere...» come il filosofo afferma in Ecce homoxkl, ma non solo. Commentando la conclusione àeWAnticristo Nietzsche scrive, sempre in Ecce homo·. «Il 30 settembre, grande vittoria; settimo giorno; ozio di un dio lun­ go il Po»162. La settima proposizione della Legge contro il cri­ stianesimo diventa qui il settimo giorno, in una evidente allu­ sione biblica: dopo la creazione della sua «trasvalutazione di tutti i valori» il Dio-Nietzsche si riposa sulle rive del fiume. Come scrive a Carl Fuchs il 18 dicembre: «Non posso rac­ contare tutto ciò che è stato compiuto. Nei prossimi anni il mondo sarà sottosopra: dopo che il vecchio Dio è stato con­ gedato, sarò io a reggere il mondo». Ormai in preda al suo fol­ le transfert di divinizzazione, Zarathustra si illude di potersi 160 H. Melville, Moby Dick, cit., p. 586. 161 F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 76. 162 Ivi, p. 125. Nella versione successiva dell’ed. Colli-Montinari il passo suona con la seguente lezione congetturale: «Il 30 settembre grande vittoria; compimento della Trasvalutazione·, ozio di un dio lungo il Po» (F. Nietzsche, Il caso Wagner ecc., cit., pp. 365 e 571-72); l’ipotesi di una correzione di Nietzsche eliminata da un’erro­ nea ipercorrezione di Gast è ingegnosa, tuttavia non appare così necessaria (il signifi­ cato di fondo non cambia) e mi sembra banalizzare la demenziale identificazione con Dio (non suona del tutto verosimile che il Nietzsche ormai delirante rinunci a questa ennesima dichiarazione attestante la sua identità divina). In ogni caso, la versione da me mantenuta è stata pensata dall'autore e resta significativa ai miei scopi.

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godere il suo nuovo status. Ma la festa che egli ha atteso e in­ vocato rivelerà in poco tempo la sua natura più antica, quella di festa sacrificale. È proprio sulle rive del Po che si svolge il dramma, la festa finale. Alcuni dei testi più importanti, se non forse i più im­ portanti, della follia di Nietzsche sono stati inconsultamente distrutti dalla sorella. Per fortuna Elisabeth, in mezzo alle me­ lense invenzioni che dovevano minimizzare la pazzia del fratel­ lo, e che a lungo sono state prese da molti per oro colato, ri­ porta il contenuto di questi fogli: .. .scrisse alcuni fogli con strane fantasie, in cui la leggenda di Dio­ niso Zagreo si mischiava con la storia dolorosa degli Evangeli e con le personalità dell’epoca presente a lui più vicine: il Dio dila­ niato dai suoi nemici passeggia, risorto, sulle rive del Po e vede sotto di sé, ora, tutto ciò che egli ha amato, i suoi ideali, soprat­ tutto gli ideali dell’epoca presente. I suoi amici e prossimi gli so­ no diventati nemici e lo hanno dilaniato. Questi fogli sono rivolti contro Richard Wagner, Schopenhauer, Bismarck, i suoi amici più vicini: il professor Overbeck, Peter Gast, la signora Cosima, mio marito, mia madre e me.163

Dal contenuto di questo sunto non si può dubitare della sua sostanziale autenticità. Il pensiero conclusivo di Nietzsche può essere ricostruito, in modo analogo ai frammenti dei pre­ socratici da lui tanto amati. Avvolto dalla follia, come Aschenbach dal colera che ammorba Venezia e i suoi sogni, il filosofo-Dioniso vede il proprio destino di squartamento, il proprio sparagmós, fedelmente riprodotto dallo smembramen­ to psichico della sua mente. Zagreo è l’antico nome del Dioniso cretese, da cui con ogni probabilità il Dioniso greco è derivato: il duplice scandaglio personale e antropologico con­ tinua ad agire anche adesso, raggiungendo l’estrema chiarezza. Ad aver fatto a pezzi il Dioniso-Nietzsche sono tutti i suoi ami­ ci, i suoi parenti, l’intera collettività che lo circonda. L’aspetto collettivo del sacrificio emerge pienamente soltanto adesso, 163 A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 195.

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quand’è troppo tardi, realizzando in corpore vivo gli incubi dei personaggi di Mann. Non è solo delirio di persecuzione. Nel corso della sua do­ lorosa esistenza il filosofo è stato effettivamente e gradatamen­ te abbandonato da tutti i suoi amici, anche quando le sue let­ tere degli ultimi tempi palesemente tradivano una solitudine disperata. Nietzsche ha amaramente provato a sue spese quel­ la mancanza di pietà che tanto esaltava nella sua mitologia, riu­ scendo a metterla in pratica nei suoi momenti di miglior forma. Si possono citare alcune frasi sparse nei suoi scritti, come ad esempio: «.. .indiscutibile mancanza di una compagnia adegua­ ta»1**. In altre ritornano le immagini ricorrenti del viandante e del danzatore, ma in un contesto che toglie loro ogni smalto trasfigurante: «Un viandante stanco che viene ricevuto dal du­ ro latrato di un cane»; «Cerco un animale che danzi come vuo­ le la mia musica e un pochino un pochino mi - ami...»164 165. Questo viandante era già esausto nel 1869, allorché Nietzsche aveva scritto a Rohde: Ma le amicizie! Esistono persone che dubitano della loro esisten­ za. Certo, è una ghiottoneria raffinata che tocca solo a pochi, a quegli esausti viandanti per i quali la vita è soltanto un andare at­ traverso il deserto...166

Tutta l’opera e la vita di quest’uomo è percorsa da una spe­ cie di coscienza irriflessa, subliminale, come i malati che si na­ scondono e nello stesso tempo conoscono la malattia che li farà morire, circostanza che rende penose o strazianti le sue continue dichiarazioni di salute e di gioia, che l’infallibile istinto di d’Annunzio e di Mann riporta alla loro reale natura morbosa. Il 164 F. Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 40. 165 Rispettivamente F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1887-1888, cit., 11 [41], p. 233 (il passo ritorna nei frammenti poetici postumi) e 16 [50], p. 292. 166 Lettera del 10 gennaio 1869 in F. NIETZSCHE, Epistolario 1850-1869, cit., p. 665; sintomatica anche la chiusa, con cui Nietzsche cerca di esorcizzare le presenze diaboliche che popolavano la sua solitudine: «Ahsit diaholus! Adsit amicissumus [sic] Erwinusl».

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passo della lettera a Rohde a proposito dell’amicizia contiene una successione precisa: prima l’affacciarsi del dubbio, poi la «ghiottoneria raffinata» ed élitaria di consistenza illusoria, infine il deserto da cui tutto è nato e in cui tutto finirà. Nietzsche non vuole rendersi conto che gli uomini temono chi va nei deserti. Parlando del suo ultimo incontro con l’amico, Rohde dirà: «...qualcosa per me di assolutamente sinistro lo circondava. [...] Come se venisse da una contrada dove nessun altro abita...»167. Per essere sincero su se stesso Nietzsche aveva bisogno di allentare momentaneamente la presa del suo letale autodomi­ nio, come quando, angosciato per il fallimento del triangolo con Ree e la Salomé, ricorre a una forte dose di sonnifero e rie­ sce a scrivere agli altri due: Riflettete bene, voi due insieme, che in fin dei conti io sono un se­ mialienato afflitto da emicranie, cui la solitudine ha del tutto sconvolto il cervello. Arrivo a questa, che considero una valuta­ zione ragionevole della situazione, dopo aver preso per dispera­ zione una dose enorme di oppio. Ma invece di perdere per questo l’intelletto, sembra che io lo stia finalmente riacquistando.168

Rientrato purtroppo in sé, egli scrive a Ree pochi giorni do­ po: «...non confonda il mio raziocinio con le sciocchezze del­ la mia ultima lettera dettata dall’oppio. Io non sono affatto pazzo, e non soffro nemmeno di megalomania...», ma con Overbeck ammette: «...io tendo ogni fibra nello sforzo di do­ minarmi - ma sono vissuto troppo a lungo in solitudine, con­ sumandomi dentro...»169. Le citazioni potrebbero continuare. Il commento migliore viene forse da alcune osservazioni di Otto Weininger, purché per quello che egli chiama «religione» si intenda “cristianesimo”:

167 Rohde a Overbeck nella Cronologia (1885-1887) di E Nietzsche, Al di là, cit., p. 214. 168 Abbozzo di lettera a Paul Ree e Lou Salomé verso il 20 dicembre 1882 in Trian­ golo di lettere, cit. pp. 242-43. 169 A Rèe, ultima settimana di dicembre 1882, e a Overbeck, il 25 dicembre 1882, Triangolo di lettere, cit., pp. 245 e 247.

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Il declino di Nietzsche si spiega con la mancanza di religione. [...] Ciò che a Nietzsche mancava era la grazia-, ma senza grazia la so­ litudine, anche quella di Zarathustra, non si può sopportare.170

In preda all’alternanza snervante di megalomania e dell’«implacabile sete di vendetta» provocata dai suoi smacchi affettivi e sociali, Zarathustra confessa ancora a Overbeck nel 1883: «questo conflitto interiore mi avvicina a poco a poco al­ la follia, lo sento nel modo più terribile...»171. Giunto al ter­ mine del suo cammino desertico, il viandante se ne esce in con­ statazioni desolate: Non mi sono mai lamentato delle mie indescrivibili privazioni: non sentire mai un suono affine, non avvertire mai un pari soffri­ re e volere.172

Le privazioni di Nietzsche erano «indescrivibili» anche e soprattutto perché lui stesso si era privato del linguaggio d’a­ more e pietà che le potesse esprimere, ma questo non deve cancellare il fatto innegabile che nessuno fra i suoi amici ed estimatori ha capito, e voluto capire, la disperata richiesta d’a­ more che le spericolate scorribande di Zarathustra nasconde­ vano. A nessuno Achab ha fatto arrivare il suo amore, nessuno di conseguenza ha amato Achab. Non è questa l’amara realiz­ zazione della diagnosi nietzschiana sull’umanità composta di cannibali? Come tacere che, se egli è stato abbandonato, è sta­ to anche perché nessuno ha avuto il coraggio di riconoscere i problemi giganteschi che lui ha affrontato da solo? Come pas­ sare sotto silenzio questo occultamento, più ipocrita e pavido della sfida temeraria, e nel suo modo dissennato onesta, lan­ ciata da Nietzsche? Questo occultamento sarebbe diventato presso quasi tutti i suoi ammiratori cecità sul senso e il peso del suo destino, deprimente conferma della profezia dello «psicologo» Nietzsche sul linciaggio dei grandi uomini. Visti 170 K. LOWITH, Nietzsche, cit., p. 163. 171 Lettera del 26 agosto 1883 in Triangolo di lettere, cit., p. 331 (cit. ih H. DE LuBAC, Mistica, cit., p. 297). 172 E NIETZSCHE, Frammenti postumi 1885-1887, cit., 5 [79], p. 208.

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sullo sfondo di questa cecità, di questa insensibilità collettiva, i passi premonitori di cui sono pieni i suoi scritti acquistano il rilievo di prove d’accusa: In realtà dovrei avere intorno a me una cerchia di persone profon­ de e delicate, che mi proteggessero per così dire da me stesso e sa­ pessero anche rasserenarmi: giacché per uno che pensa le cose che devo pensare io, è sempre vicinissimo il pericolo di distrug­ gere se stesso.173

Man mano che la follia si avvicina i segnali di un Nietzsche che non vorrebbe morire a se stesso continuano ad attraversare la maschera sempre più spessa, anzi il cumulo funerario di ma­ schere, la tomba-maschera che lo sta soffocando. Terribili i lam­ pi di verità umana che, attraverso il velo fitto dei rimandi e dei livelli multipli di lettura, ogni tanto traspaiono in Ecce homo: «Tutto il mio Zarathustra è un ditirambo alla solitudine, o, se qualcuno lo ha capito, alla purezza... E non alla pura follia, per fortuna»174. La pura follia è ovviamente quella del “puro folle” Parsifal, ma l’ennesimo attacco a Wagner, che è insieme un at­ tacco a Cristo, diventa ora la descrizione, invano esorcizzata, di quanto sta avvenendo all’autore appunto per questi precisi mo­ tivi. Un altro passo sintetizza una serie ricorrente di riflessioni e di profezie: «Si paga caro a essere immortali...»175. Colpisce in particolare la frase: «Non posso fare diversamente. Dio mi aiu­ ti! Amen». L’espressione, che riecheggia la famosa frase con cui Lutero rifiuta di ritrattare alla Dieta di Worms, è già usata in Così parlò Zarathustra alla conclusione della poesia Tra figlie del deserto, in un contesto apparentemente ironico e scanzonato, a cui segue però la chiusa che fa anche da inizio al testo poetico vero e proprio: «Il deserto cresce: guai a colui che cela deserti dentro di sé!»176. E commentando a Gast Ecce homo il filosofo Ivi, 1 [1], p. 3. 174 E Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 32. 175 Ivi, p. 108. 176 Ivi, p. 61; E NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, cit., Parte IV, vol. II, p. 375: la poesia ritornerà nei Ditirambi di Dioniso con significative varianti. La frase di Lutero è citata per la prima volta, con un rovesciamento che cerca di essere rassicurante, nella

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scrive: «Non vedo, ora, perché dovrei affrettare troppo la tragi­ ca catastrofe della mia vita, che incomincia con Ecce»XT1. Inutilmente egli cerca di ritardare «la tragica catastrofe», che in verità era già cominciata con ^anticristo. Non diversamente da Lutero, Nietzsche l’eretico, lo scismatico sa di tagliare i ponti dietro di sé, di addossarsi una responsabilità pesantissima, ed è segretamente angosciato da un senso di colpa crescente, che cerca di scaricare sugli odiati avversari (Cristo, lo stesso Lutero, l’intera nazione tedesca), Egli non vuole vedere la terra brucia­ ta che si sta creando intorno, ed è pronto a bruciare se stesso pur di non compiere l’inaudita ammissione. Il deserto che cre­ sce sta per divorare colui che cela deserti dentro di sé. Tutti i motivi della preveggenza e della volontà autodistrut­ tiva di Nietzsche si trovano condensati in una delle ultime poe­ sie, Era uccelli di rapina, che ci mostra il volto desiderato e te­ muto che si nascondeva dietro le disperate metafore erotiche di Tra figlie del deserto, in cui non a torto Mann riconosce le «figure coperte di veli e di orpelli» del bordello di Colonia, i fantasmi di una virilità mai raggiunta. È un testo che, alla luce di quanto già detto, dovrebbe quasi commentarsi da solo, e che è la dimostrazione della fondamentale importanza, per inten­ dere la vera grandezza di questo profeta fallito, della sua pro­ duzione poetica, della verità da lui soffocata che si scioglie più liberamente nel canto, come è stato capito da un altro poeta, d’Annunzio, nella sua ode Per la morte di un distruttore. Ecco la parte centrale e la conclusione di questa poesia-testamento nietzschiana: Adesso da solo con te, in due col tuo proprio sapere, in mezzo a cento specchi falso di fronte a te,

lettera a Paul Rèe del luglio 1878: «Dio li aiuti - io non posso fare diversamente» (Triangolo di lettere, cit., p. 39). 177 A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 155.

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in mezzo a cento ricordi incerto, di ogni ferita stanco, per ogni gelo freddo, strozzato dai tuoi propri lacci,

conoscitore di te, carnefice di te stesso\ Perché ti stringesti col laccio della tua sapienza? attirasti te stesso nel paradiso del vecchio serpente? ti insinuasti strisciando in te - in te?... Un malato ora, che il veleno del serpente rese infermo; un prigioniero ora, che trasse la sorte più dura, che lavora nel proprio pozzo rannicchiato, che apre in sé una caverna, che scava in se stesso, maldestro, rigido, un cadavere oppresso da cento fardelli sovrastanti, sovraccarico di te, uno che sai uno che conosce se stessei il sapiente Zarathustra!... Hai cercato il carico più pesante e trovasti te non puoi sbarazzarti di te stesso...

In agguato, aggomitolato, uno che più non si regge in piedi! Già ti aggrovigli alla tua tomba, spirito rattrappito !... E or ora così orgoglioso, su tutte le grucce del tuo orgoglio! Or ora colui che vive da solo senza Dio,

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che vive in due con il diavolo, lo scarlatto principe d’ogni tracotanza!... Adesso fra due nulla incurvato, un segno interrogativo, uno stanco enigma un enigma per rapaci... ti “scioglieranno” certo, sono già affamati del tuo “scioglimento”, svolazzano già attorno a te, loro enigma, attorno a te, impiccato!... O Zarathustra!

conoscitore di te!... carnefice di te stesso !...178

L’avvoltoio del Prometeo rievocato dal giovane Nietzsche ritorna in massa179. Gli «uccelli di rapina» sono i «cannibali» paventati in Umano, troppo umano, sono gli avvoltoi già pron­ ti a “sciogliere”, nel doppio senso greco di risolvere e distrug­ gere, l’enigma-Nietzsche, già pronti a cibarsi della sua morte, delle sue carni, i becchini della sua gloria postuma. Nella pri­ ma strofa citata troviamo l’immagine generatrice dei doppi che, nati dalla falsa coscienza dell’imitatore di un commedian­ te, del Dio-pagliaccio («in due col tuo proprio sapere [...] fal­ so di fronte a te»), si sarebbero moltiplicati nei «cento specchi» e nei «cento ricordi» che ora lo assediano e lo portano alla fi­ ne invocata. Zarathustra rannicchiato e malato nel pozzo, nel­ la caverna; Zarathustra impiccato, fatto a pezzi; Zarathustra se­ polto. Il commento più adeguato appare quello fornito dagli odiati Vangeli: «Dove sarà il cadavere, là si raduneranno anche gli avvoltoi» {Luca 17,37 ). Per non precipitare nella tomba che lui per primo si è volu178 F. Nietzsche, Opere, cit., vol. VI, tomo IV, Ditirambi di Dioniso e poesie po­ stume (1882-1888), tr. it. di G. Colli, Adelphi, Milano 1970, pp. 33-37. 179 Questi avvoltoi erano già una presenza collettiva incombente sulla solitudine del filosofo negli scritti del 1872-73 (vedi C.P. JANZ, Il profeta, cit., p. 473).

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to scavare Nietzsche si aggrappa, come una bestia in trappola, agli ultimi appigli. I corsivi dei testi di Nietzsche sono come di­ sperati puntelli che cercano di marcare delle differenze nella crisi dei doppi della pazzia in cui sta naufragando, gli stessi di­ sperati puntelli che sono rimasti nei suoi scritti postumi sotto forma di proibizioni e prescrizioni quotidiane ossessivamente ripetute, proprio mentre stava ultimando ^anticristo. Leg­ giamone una breve sequenza, dov’è trasparente il tentativo di ritorcere contro il cristianesimo i doppi che stanno sommer­ gendo la mente di Nietzsche;

Non mettere gli occhiali per la strada! non comprare libri! non andare in mezzo alla folla! [...]

Cap. sulla fede Cap. su Paolo i mezzi per rendere malati i mezzi per rendere matti180

«Non posso fare diversamente. Dio mi aiuti! Amen»; la fra­ se di Così parlò Zarathustra ripetuta in Ecce homo non deve ap­ parire come fuori contesto, perché il Nietzsche della follia è or­ mai un insieme di parole e di simboli che ruotano vorticosa­ mente, in cui tutto può indicare tutto, ma in un modo più rive­ latore degli stati di lucidità. Come non riconoscere in questa frase una disperata preghiera? I rapporti degli uomini con Dio non si decidono in base alle semplici parole o ai semplici fatti esteriori. Questa è una visione di tipo puramente giudiziario e sacrificale che non ha nulla a che fare con i Vangeli, e che anzi giustificherebbe attacchi come quello àAEAnticristo. Ma, per essere più precisi, di simili attacchi non ce ne sarebbe stato neanche bisogno, perché, se il cristianesimo non fosse che que­ sto, non sarebbe nemmeno riuscito a sopravvivere ai suoi primi passi. Qual è il vero atteggiamento cristiano ce lo mostra de Lubac, quando cristianamente riconosce le infinite ragioni di scandalo che hanno contribuito ad allontanare il filosofo, e i 180 E Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., 21 [2]; 21 [3], p. 343.

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tanti che la pensano come lui, dalla Parola, dal Pane di Vita181. Ciò che conta in rapporto a Dio è la realtà che si fa strada nel destino di un uomo, e di questa realtà sono parte impor­ tante i dolori che quest’uomo soffre. Col compiersi della sua sofferenza Dioniso Zagreo rivive, dopo migliaia di anni, la ve­ ra natura del proprio destino. La rivelazione luciferinamente negata si attua: lo scandalizzato diventa lo scandalo, il filosofore diventa la vittima che aveva sempre saputo di essere. La sto­ ria del dio fatto a pezzi si mescola «con la dolorosa storia degli Evangeli», cioè con la Passione e Resurrezione di Cristo. La differenza tra Dioniso e Cristo ritorna, ma stavolta ad attestare la vittoria definitiva della croce di Cristo. Nietzsche è [’Ecce ho­ mo, la designazione che di Cristo dà Pilato, la vittima conse­ gnata alla folla che sta per crocifiggerla, per dilaniarla. Questo era anche - significativamente - il titolo provvisorio del Parsifal, l’opera più cristiana di Wagner182. Il congiungimento del vecchio rivale col nuovo è completo. Lo squartamento di Dioniso si rivela uguale alla crocifissione di Cristo; il negatore, l’invidioso di Cristo è costretto a prender­ ne il posto, ad assecondare la forza di rivelazione del suo suppli­ zio infamante. Thomas Mann parla dello «spettacolo straziante di un’autocrocifissione»183, ma senza capirne la portata antropo­ logica e spirituale, senza afferrare la verità che si impone nono­ stante e attraverso gli sforzi inconsulti del campione di Dioniso. Questa verità è la verità dell’origine umana. La croce, intorno a cui è crollata la mente di Nietzsche, riproduce nella sua sempli­ ce forma le quattro direzioni dello squartamento di un uomo, ef­ fettivamente compiuto dalle turbe dionisiache e da così tanti supplizi antichi e moderni, lo squartamento ricordato dai miti di tutto il mondo in cui un essere divino fatto a pezzi dà origine al­ le quattro parti del mondo o ai quattro punti cardinali184. Impressionante è il confronto con la svastica, il simbolo solare e ierogamico che ci mostra la cellula madre del labirinto, la rota181 182 185 184

H. DE Lubac, Il dramma, cit., pp. 103-05. A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 128. T. Mann, Saggi, cit., p. 74. Vedi su questo G. Fornari, Fra Dioniso e Cristo, cit., cap. 12, pp. 251 ss.

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zione del gruppo intorno alla vittima che si stringe intorno a lei per farla a pezzi, il simbolo arcaico diventato, con il nazismo, il simbolo moderno dell’inferno che solo gli uomini sanno creare per i loro simili. Inutilmente Mann e tutti gli estimatori di Nietzsche cercano di separare quello che lo scrittore definisce l’«infantile sadismo» del filosofo185 dal sadismo organizzato su grande scala del regime nazista. Sono tutti tentativi di autodife­ sa, di nascondere la propria partecipazione, contraddittoria e sottile finché si vuole ma reale, alle esaltazioni violente di cui è re­ sponsabile Nietzsche. Il nazismo è stato la continuazione della malattia dello spirito presente in Nietzsche, l’evidente ripresa del suo progetto, certo con una grossolanità ma anche con una fe­ deltà letterale che è andata oltre ogni fantasia del filosofo, e che si è dimostrata tristemente più chiara di tante disquisizioni. I na­ zisti hanno trasformato la contrapposizione nietzschiana di Dioniso a Cristo nel tentativo di sostituire alla croce la svastica, di seppellire la croce sotto il peso della loro violenza, sotto la rifondazione allucinante delle ecatombi preconizzate da Nietzsche. Ma la croce demistifica la svastica proprio perché ne rappresenta la vicenda da un punto di vista opposto: ogni riaf­ fermazione della svastica non poteva che dimostrare la verità del­ la croce vanamente coperta. È la croce il centro rivelato del labi­ rinto-svastica evocato da Nietzsche, il labirinto-caverna in cui lui è andato a seppellirsi, il labirinto antichissimo simbolo dell’oltre­ tomba. Ed è proprio nel riportare alla luce la morte dei vinti, dei dimenticati, alla fine di tutti, che la croce di Cristo annuncia, ri­ stabilisce la vita. Essa indica la tomba vuota della Resurrezione. Gettandosi nella tomba in cui vuole seppellirsi, nel fuoco in cui vuole sacrificarsi, Nietzsche ripete nei fatti quel destino della vittima ormai rivelata che aveva cercato di negare a paro­ le. Nei biglietti della pazzia l’opposizione fallimentare tra Dioniso e Cristo con cui si era chiuso Ecce homo («- Sono sta­ to capito? - Dioniso contro il Crocifisso»186) diventa un’iden­ tità, l’ultima, definitiva: il filosofo non solo si firma «Il Crocifisso», ma scrive a Cosima: «Sono stato anche appeso al­ 185 T. Mann, Saggi, cit., p. 95. 186 E Nietzsche, Ecce homo, cit., p. 146.

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la croce...»187. Non è questa una discutibile volontà di annes­ sionismo cristiano, è l’emergere finale di una verità che, come non dipende dallo sfacelo di una grande mente, così non di­ pende da interpretazioni soggettive. Dioniso è il Crocifisso, perché il Crocifisso è la rivelazione, che diventa salvezza, di tutte le vittime uccise nel nome di Dioniso.

Esiste un episodio famoso della pazzia di Nietzsche, che può fare veramente da emblema conclusivo di questo esame del suo destino e del suo pensiero: Nietzsche che vede per strada bat­ tere un cavallo e cerca di difenderlo abbracciandolo. Un paral­ lelo letterario (l’incubo di Raskolnikov, altro personaggio pre­ nietzschiano, in Delitto e castigò), a cui forse il filosofo allude in una sua lettera e in un suo frammento, rende la scena anco­ ra più vivida188. Nel cavallo battuto egli deve aver avvertito la verità del dolore, un dolore da lui lungamente provato, ed esorcizzato nella forma peggiore, il dolore della vittima sosti­ tutiva che così a lungo aveva cercato di far morire al suo posto, un dolore che, adesso che tutto è perduto, egli può riconosce­ re. Appare legittimo concluderne che questa fosse l’unica ma­ niera per Nietzsche di avere accesso alla pietà così a lungo ne­ gata. Questa pietà non è genericamente schopenhaueriana co­ me sembra suggerire Verrecchia189. Anche la compassione di Schopenhauer trae la sua verità e il suo pathos più dal cristia­ nesimo che dal buddhismo, sebbene lo scandalo per la violen­ za degli uomini porti questo pensatore a cercare la verità nelle nebbie lontane dell’Oriente e della metafisica, anziché nella propria stessa violenza. La compassione di Dioniso il Croci­

187 A. Verrecchia, La catastrofe, dt„ pp. 178-79. 188 Ivi, pp. 53-55. Il Dostoevskij con cui alcuni vorrebbero rendere innocuo l’“idiota” rivolto a Cristo diventa un collegamento indimostrabile per Janz (Vita di Nietzsche, cit., vol. Ili, Il genio della catastrofe (1889-1900), Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 30-31), ma proprio la coincidenza fra l’episodio di Delitto e castigo e le testimo­ nianze dei Torinesi (che certo non avevano allora in Dostoevskij una delle loro letture più assidue), con l’elemento intermedio dei passi confrontabili del corpus nietzschia­ no, avvalora la storicità dell’episodio e l’influenza della scena letteraria su Nietzsche. Sulle testimonianze v. A. VERRECCHIA, La catastrofe, cit., pp. 211-16. 189 A. Verrecchia, La catastrofe, cit., p. 212.

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fisso non può essere, nel suo modo folle e paradossale, che la compassione di Cristo. Questa compassione può ben accom­ pagnare una riflessione sul destino di chi lo ha rifiutato per tut­ ta la vita, rimanendo inconsapevolmente, inconsideratamente sul luogo del Golgota. Il filosofo-anticristo, allora, perdonato da Cristo? Nessuno può dirlo, ovviamente. Il perdono, per averlo, bisogna accet­ tarlo. Per questo Gesù dice che il peccato contro lo Spirito Santo non verrà perdonato190, non per vendetta divina, ma perché tale peccato consiste precisamente nel rifiuto del per­ dono. «È terribile cadere nelle mani del Dio vivente!» perché è terribile cadere nelle mani di questo Dio di perdono e re­ spingerlo191. E se la Vita, l’Amore, il Perdono sono negati, qua­ le possibilità di salvezza rimane? Non è proprio contro la pos­ sibilità stessa di venir perdonato che Nietzsche, strenuamente, ha lottato? La sua follia, in tal senso, non ha nulla della follia della croce192. Ma se l’anticristo come figura, come personifi­ cazione infernale dell’anti-perdono, non può per definizione venir perdonato, chi ne ha incarnato disperatamente, teatral­ mente la parte lo può, se in lui rimane qualcosa che non si ri­ duca alla pura negazione, alla pura morte. Consideriamo le ultime strofe di Gloria e eternità, il Diti­ rambo di Dioniso con cui Nietzsche aveva pensato di chiudere Ecce homo, e di cui d’Annunzio afferrerà l’importanza ripren­ dendolo nella sua ode dedicata alla morte del filosofo. In que­ sti versi il misticismo nietzschiano raggiunge la sua espressione più alta. Si tratta certo del misticismo di Dioniso e dell’eterno ritorno, perché, come esiste il misticismo che si unisce al Dio d’amore infinito, così esiste il misticismo della violenza subli­ mata o compiuta, quello che la teoria mimetica ci permette di identificare come il misticismo primordiale della vittima adora­ ta in quanto divina. Ma l’ambiguità sistematica dei doppi nietzschiani ci auto­ rizza a pensare che ci possa essere qualcosa di più. Rileggiamo le ultime strofe: 1» Matteo 12,31-32. 151 Ebrei 10,31, in riferimento a chi disprezza «lo Spirito della grazia» (10,29). 192 H. DE LUBAC, Mistica, cit., p. 298.

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Supremo astro dell’essere! Tavola di eterne figure! Tu vieni a me? Ciò che nessuno ha scorto, La tua muta bellezza Come? Non fugge davanti ai miei sguardi? Stemma della necessità! Tavola di eterne figure! - ma tu già lo sai: ciò che tutti odiano, ciò che solo io amo, che tu sei eterno'. Che tu sei necessario! Il mio amore si accende in eterno solo della necessità.

Stemma della necessità! Supremo astro dell’essere! - mai raggiunto da desiderio, mai macchiato da no, eterno sì dell’essere, sono il tuo sì in eterno: perché io ti amo, o eternità'. -

Dobbiamo chiederci: chi è che viene sorprendentemente da Nietzsche (Tu vieni a me?), cos’è «Ciò che nessuno ha scorto»? Il pronome dimostrativo «ciò» ricorda i dimostrativi che la let­ teratura mistica di tutte le religioni usa per indicare una realtà assoluta ed esterna, ossia, nei termini sacrificali che ormai do­ vrebbero essere famigliari al lettore, la vittima espulsa nella sfe­ ra separata del sacro e perciò divinizzata. Lo «stemma della ne­ cessità» è di per sé quello del sacrificio, il «supremo astro del­ l’essere» è la vittima-sole che può risplendere soltanto se trasfi­ gurata dallo «stemma» rituale della necessità, soltanto se inca­ stonata nella «tavola di eterne figure». Sarebbe un errore sot­ tovalutare la carica religiosa di questi simboli del transfert di di­ vinizzazione, ma fin qui rimaniamo nell’ambito della trasfigu­ razione violenta, della violenza irriflessa e ciecamente creduta come divina. Tuttavia, rimane qualcosa nel testo che non è to­ talmente riducibile allo schema antropologico originario.

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L’eternità e necessità che dovrebbero assicurare l’eterno ri­ torno si rivelano come «ciò che tutti odiano, / ciò che solo io amo·». Solo lui ama l’eternità, tutti gli altri la odiano. Lo sche­ ma vittimario del tutti contro uno ritorna, invincibile. E poiché lui si identifica con l’eternità, questo schema vittimario è, an­ cora una volta, quello che si richiude su di lui, che fa di lui l’ul­ tima, la suprema vittima. Questa insopprimibile vittima, che dopo essere stata divi­ nizzata ritorna sempre di nuovo, immutabilmente, a essere vi­ sibile come vittima, è il Dio cristiano. L’amore è l’unico trami­ te che può stabilire un rapporto fra Nietzsche e questo Dio sconosciuto, questo Dio stranamente eterno e incarnato, mai raggiunto da alcun desiderio violento, «mai macchiato da no». È questo il Dio sconosciuto che il Nietzsche già da ragazzo in­ vocava in una poesia dedicata al Dio ignoto193, e che ritorna anche nello Zarathustra, attraverso la proiezione dell’alter ego di un mago, che inizia la sua poesia dicendo: «Chi mi riscalda, chi mi ama ancora?». Ritroviamo le immagini venatorie usate all’inizio di questo studio, delle immagini che ci mostrano un ultimo aspetto, quello più segretamente sincero, quello dolo­ rosamente più vero: ...Vuoi entrare dentro, Nel cuore, Salire, nei più segreti Pensieri salire? Sfrontato! Ignoto - ladro! Che vuoi rubare? Che vuoi origliare? Che vuoi estorcere, Torturatore! Tu - Iddio carnefice! O devo, come il cane, Davanti a te rotolarmi? Devoto, fuori di me dalla gioia, Scodinzolarti - amore? 193 E Nietzsche, Opere, cit., vol. I, tomo I, Scritti giovanili 1856-1864, a c. di Μ. Carpiteli, Adelphi, Milano 1998, p. 388.

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Invano! Trafiggi ancora, Crudelissimo aculeo! No, Non un cane - soltanto la tua preda sono, Crudelissimo cacciatore! Il più superbo dei tuoi prigionieri, Tu, predone dietro le nuvole! Parla, infine, Che vuoi da me, bandito? Tu, velato dal fulmine! Ignoto! Parla, Che vuoi, ignoto - Iddio? -· [...]

Ah! Ah! E mi torturi, folle che sei, Massacri il mio orgoglio? Da’ a me amore - chi mi scalda ancora? Chi mi ama ancora? - da’ mani calde, Da’ bracieri scaldacuori, Da’ a me, il più solo di tutti, Cui ghiaccio, ah! settuplice ghiaccio Insegna ad agognare nemici, Persino nemici, Da’, anzi concedi, Crudelissimo nemico, A me - te\ Via! Ecco anche lui fuggì, Il mio ultimo e unico compagno, Il mio grande nemico, Il mio sconosciuto, Il mio Iddio carnefice! O no! Torna indietro, Con tutte le tue torture! All’ultimo di tutti i solitari Oh ritorna! Tutti i torrenti delle mie lacrime corrono Il loro corso verso di te! E l’ultima fiamma del mio cuore -

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Per te s’innalza ardente! Oh torna indietro, Mio Dio ignoto! Dolore mio! Mia ultima - felicità!194195 Zarathustra non riesce a esorcizzare questi versi torturati e stupendi con la sua goffa caverna, e nemmeno con l’invenzio­ ne forzosa dell’ultimo papa che vaga nella foresta in cerca del­ l’ultimo devoto, rimpiangendo il proprio Dio morto soffocato «per la sua compassione troppo grande»; nei Ditirambi di Dioniso Nietzsche cercherà ancora di neutralizzare il testo con un’aggiunta in cui Dioniso si rivolge ad Arianna, dicendole: «Io sono il tuo labirinto»^5. L’insistenza di questi tentativi de­ nuncia la loro inanità. Il Dio sconosciuto del mago, questo cac­ ciatore che è «crudelissimo» è la preda indifesa che rivela tut­ ta la crudeltà dei cacciatori, il Dio sempre vivo nelle cui mani è tremendo cadere, l’agnello sgozzato dall’uomo che trionfa e che giudica neH'Apocalisse. «Ciò che nessuno ha scorto», la «muta bellezza» che im­ pensabilmente non sfugge agli sguardi del suo adoratore per­ ché finalmente sottratta al transfert dei divinizzatori violenti, è il Dio delle vittime, il cui volto è invisibile perché gli esseri umani, accecati come sono dalle maschere della loro violenza, non lo possopo vedere. Per vederlo, essi devono piegare il gi­ nocchio davahti a chi è stato umiliato, calpestato da tutti, de­ vono riconoscere che solo lì sta la colpa, che solo lì sta il ri­ scatto. Ma c’è anche chi si rifiuta di farlo, c’è anche chi si rifiuta di credere che anche lui è perdonato, e pur di vedere questo Dio inaccessibile, pur di stringerlo fra le braccia, si riduce a impazzire.

194 E Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., Parte IV, voi. Π, pp. 307-08. 195 Ivi, Parte IV, vol. II, p. 316; E Nietzsche, Ditirambi, cit., p. 53.

Finito di stampare nel mese di ottobre 2020 presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)