Ignorantocrazia. Perché in Italia non esiste la democrazia culturale 8845299074, 9788845299070

Gianni Canova tocca uno dei nervi scoperti del dibattito culturale in Italia, senza sconti per nessuno dei soggetti coin

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Italian Pages 256 [135] Year 2019

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L’eclissi della competenza, il trionfo dell’ignoranza
PARTE PRIMA - PERCHÉ IN ITALIA NON ESISTE LA DEMOCRAZIA CULTURALE
1.1 Un paese culturalmente anoressico
1.2 Dal neorealismo al pezzentismo
1.3 Nell’era dell’algoritmocrazia
1.4 Totem e tabù
PARTE SECONDA - ATTREZZI DEMOCRATICI PER FANTASTICARE. ARTEFATTI ESEMPLARI DELLA POP CULTURE ITALIANA
2.1 Cavalcarono insieme
2.2 La violenza della modernità
2.3 Il tramonto dell’eroe
2.4 Fare cinema per tutti
La vera rivoluzione del Novecento? Il cinema, probabilmente
Ringraziamenti
Note
Indice
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Ignorantocrazia. Perché in Italia non esiste la democrazia culturale
 8845299074, 9788845299070

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Il libro

Ignorantocrazia Gianni Canova tocca uno dei nervi scoperti del dibattito culturale in Italia, un paese che sembra condannato a diventare nazione di analfabeti e populisti. Secondo Canova l’Italia del XXI secolo è diventata culturalmente anoressica: dopo il neorealismo dell’immediato dopoguerra sono mancati riferimenti riconosciuti a livello internazionale e un consumo di prodotti culturali degno di un paese sviluppato. Mentre l’intellettuale progressista o elitista si crogiola tra i propri idoli, l’unica vera rivoluzione culturale pare essere rimasta quella del cinema. È possibile rianimare o costruire una nuova democrazia culturale per il Belpaese?

L’autore

Gianni Canova Gianni Canova (1954) è saggista e accademico, dal 2018 Rettore della Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano, dove è anche docente di Storia e Critica del Cinema e Filmologia. Dal 2004 è autore e conduttore del programma Il cinemaniaco su Sky Cinema. Fondatore e direttore del mensile di cinema e spettacolo Duel, ha scritto per La Repubblica, Sette, La Voce, Rolling Stone, Elle e Vogue. Per Bompiani ha pubblicato anche L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo.

Agone/16 La collana “Agone” è curata da Antonio Scurati

Agone, luogo destinato a giochi solenni, specialmente alla lotta, ma anche gara d’ingegno e di studi. In accordo con il duplice significato della parola da cui prende il nome, questa collana si propone di riportare lo spirito agonistico nel campo culturale, sia coltivando un’idea di eccellenza sia offrendo una palestra editoriale per esercitare inedite forme di impegno intellettuale, che non passino più attraverso le appartenenze politiche, o gli schieramenti ideologici, ma attraverso il lavoro culturale considerato in se stesso come forma di militanza etica, sociale, civile. Agone nasce dunque da una triplice sfida: chiamare a raccolta una nuova generazione di intellettuali, su base non necessariamente anagrafica, una nuova intelligenza, presente ma dispersa nell’Italia di oggi; proporre una saggistica agile, di intervento, di critica e di proposta sui grandi temi culturali della contemporaneità che eviti, però, l’opinionismo imperante, rilanciando invece la forza della teoria e la necessità della mobilitazione di saperi complessi per la comprensione del presente; riproporre l’idea che la cultura abbia uno spazio autonomo, distinto ma non separato da quello del mercato e della comunicazione, riproporre cioè il prestigio dell’intellettuale, e il suo ruolo sociale di voce pubblica, ma riportandolo nella zona di bruciante contatto con la realtà, al punto nevralgico dove si misura il valore affermativo della cultura.

Nella stessa collana IGINO DOMANIN, APOLOGIA DELLA BARBARIE ANDREA KERBAKER, LO STATO DELL’ARTE TELMO PIEVANI, IN DIFESA DI DARWIN ALESSANDRO ZACCURI, IN TERRA SCONSACRATA GABRIELE PEDULLÀ, IN PIENA LUCE MARCO MARZANO, CATTOLICESIMO MAGICO LUCA CANALI, FERMARE ATTILA WU MING 4, L’EROE IMPERFETTO LUCA SCARLINI, LA SINDROME DI MICHAEL JACKSON CHRISTIAN CALIANDRO, ITALIA REVOLUTION IGINO DOMANIN, GRAND HOTEL ABISSO STEFANO ERCOLINO, IL ROMANZO MASSIMALISTA ANTONIO SCURATI, DAL TRAGIO ALL’OSCENO STEFANO ERCOLINO, IL ROMANZO-SAGGIO HANS ULRICH GUMBRECHT, IL NOSTRO AMPIO PRESENTE

TASCABILI BOMPIANI 628

www.giunti.it www.bompiani.eu © 2019 Giunti Editore S.p.A. / Bompiani Via Bolognese 165, 50139 Firenze - Italia Piazza Virgilio 4, 20123 Milano - Italia ISBN 978-88-587-8515-7 Edizione digitale: ottobre 2019 Realizzazione editoriale: Netphilo Publishing S.r.l. In copertina: Letture d’acqua © Olmo Amato. Progetto grafico: Polystudio.

L’ECLISSI DELLA COMPETENZA, IL TRIONFO DELL’IGNORANZA

Deve essere molto ignorante perché risponde a ogni domanda che gli viene fatta. Voltaire Vivere senza leggere è pericoloso, ci si deve accontentare della vita. E questo comporta notevoli rischi. Michel Houellebecq

Un tempo era un valore. Chi sapeva di non possederla ambiva a conquistarla. E chi l’aveva la ostentava come un titolo di vanto, come un trofeo. Oggi è esattamente l’opposto. Da valore prestigioso, la competenza è diventata un disvalore. Tutt’al più un optional. Senza più quel crisma di necessità che ha avuto per tanti anni e per tante generazioni. Il competente è guardato con sospetto. Viene immediatamente additato come affiliato a una casta. Come noioso. Come ostacolo vivente al presunto diritto di chiunque di dire qualsiasi cosa su qualsivoglia argomento. L’incompetente guarda il suo opposto con un misto di invidia, disprezzo e rancore. E fa del suo non sapere (e del non aver nessuna voglia di imparare) quasi un marchio identitario. Ma cosa stiamo perdendo con l’eclissi della competenza? L’etimo ci può aiutare: dal latino cum-petere, la parola irradia un duplice significato. Peto: chiedere/dirigersi verso. Cum: farlo insieme. L’etimo suggerisce e sottolinea tre aspetti fondamentali della competenza: La sua connotazione dinamica e processuale. Essa implica sempre un dirigersi, un andare verso, un muoversi in una certa direzione. Non c’è competenza senza obiettivo, senza meta. È un processo, non uno stato. La sua natura euristica e cognitiva. Il competente è colui che chiede,

interroga, ricerca. È colui che chiedendo e interrogando conosce e impara; che apprende e aumenta il suo capitale cognitivo. La sua natura sociale. Cum-petere. Lo si fa con. Non da soli. Si mette a disposizione della comunità (dell’istituzione, dell’azienda, della famiglia, della società) il proprio percorso di acquisizione di conoscenze. C’è poi anche un quarto aspetto legato alla competenza ed è, letteralmente, la competizione. Competenza è anche concorrenza. Implica una dimensione di competitività. Dunque: il competente si muove, conosce. Non lo fa solo per sé, lo fa in una prospettiva sociale. Ma il suo dinamismo genera concorrenza e competitività. L’incompetente è l’opposto. Non si muove, sta fermo. Non conosce, non chiede, non si interroga. Ignora. Conosce solo l’io, non il noi. Aborre la concorrenza. Ha paura della competitività. Una società che dileggia la competenza, che afferma che chiunque può fare qualsiasi cosa, che sostiene l’equivalenza di tutti a prescindere dalle conoscenze, dallo studio, dalla performatività, finanche dal talento, è una società statica, abulica, bloccata su se stessa, incapace di trasformarsi. Se un vice-primo ministro può pronunciare impunemente, senza che nessuno scoppi a ridere, una frase come “Noi non ci occupiamo dello spread ma dei cittadini italiani” (è accaduto il 17 maggio 2019), è perché sa che nessuno metterà in discussione l’incompetenza della sua affermazione: l’incompetenza è condivisa con i suoi elettori, con quelli che egli chiama cittadini ma che sono solo sudditi, proprio perché privi della competenza che li porterebbe a ridere di fronte a una frase nonsense come questa. Col tempo, il dileggio e il disprezzo della competenza, diffusi e capillari, hanno prodotto nell’Italia contemporanea una disarmante diffusione dell’ignoranza. I dati riportati dai media del luglio 2019 relativi ai test Invalsi effettuati sugli studenti delle scuole superiori sono sconfortanti: quasi la metà dei maturandi è analfabeta in matematica. Solo il trentacinque per cento dei ragazzi delle superiori ha un livello soddisfacente di comprensione della lingua inglese. In alcune regioni italiane – per esempio in Calabria – il settanta per cento dei ragazzi che frequentano istituti tecnici e professionali non è in grado di usare e comprendere correttamente la lingua italiana e non possiede “quelle competenze di base che dovrebbero permettere di leggere un biglietto del treno, il bugiardino di un farmaco, un articolo di giornale” (Corriere della sera, 11 luglio 2019, p.

19). Questo non è uno dei tanti problemi italiani. Questo è il problema. Perché quando l’ignoranza dilaga, e si fa sistema, diventa ignorantocrazia. Genera forme distorte di consenso e di potere. E mette in discussione le basi stesse della democrazia. Questo libro nasce dalla presa d’atto di questo quadro sconfortante. Cerca di ragionare sulle cause, le reticenze, le omissioni e le complicità che l’hanno generato. E lo fa, o quanto meno cerca di farlo, a partire dalla convinzione che non c’è democrazia politica senza democrazia delle competenze. E che in assenza di una vera democrazia culturale – matura, diffusa e condivisa – la democrazia politica è priva della sua base ontologica, cioè della condizione primaria che la dovrebbe garantire.

PARTE PRIMA PERCHÉ IN ITALIA NON ESISTE LA DEMOCRAZIA CULTURALE

1.1 UN PAESE CULTURALMENTE ANORESSICO Cartografia di un paesaggio culturale desertificato

C’è un film di François Truffaut in cui si immagina un futuro senza libri. Il film si intitola Fahrenheit 451 ed è tratto da un romanzo distopico di Ray Bradbury pubblicato per la prima volta nel 1953. Fahrenheit 451 è la temperatura a cui i libri prendono fuoco. Solo i libri. Perché nel futuro messo in scena da Truffaut il mondo è diventato ignifugo. Non brucia più nulla. Ignifughe le case, ignifughi gli abiti, gli oggetti, le suppellettili. Solo i libri non lo sono. Ma i libri sono residui del passato che vanno eliminati il più in fretta possibile. Vanno bruciati. E a occuparsi di questo compito sono i pompieri. I quali non hanno più incendi da spegnere, visto che il mondo è diventato ignifugo, e quindi provocano roghi. Di libri. Di tutti i libri. Vanno in giro per le case, scovano i libri dimenticati o nascosti, li ammucchiano e poi li incendiano con i loro potenti lanciafiamme. Bruciano tutti i libri, non fanno differenze. La distinzione fra i libri buoni e i libri cattivi, fra i libri morali e i libri immorali, la faceva tutt’al più la Chiesa Cattolica Romana con l’Index librorum prohibitorum, creato a metà del XVI secolo da papa Paolo IV e soppresso solo nella seconda metà del Novecento, guarda caso nello stesso anno – il 1966 – in cui esce il film di Truffaut. La faceva anche Hitler, la distinzione, quando mandava le sue SS a bruciare solo un certo tipo di libri. Ma non nel mondo di Fahrenheit 451. Qui i libri si bruciano tutti. E lo si fa per un fine eminentemente sociale. Lo sintetizza bene il capo dei pompieri.

I libri – dice – sono pericolosi. Rendono gli individui asociali. Chi legge poi può pretendere di vivere come nei libri. Può rendersi conto di non vivere nel migliore dei mondi possibili. Può mettersi in testa di voler vivere in un altro mondo e in un altro modo. Per impedire che ciò accada, e per garantire a tutti la felicità, i libri vengono banditi. Meglio, molto meglio la TV: dove le signore passano le giornate serene e soddisfatte, ascoltando i consigli di altre signore che – come accade oggi con i cosiddetti “tutorial” – spiegano il modo migliore di passarsi il rossetto sulle labbra o di pettinarsi i capelli. Riempiono le giornate così, i personaggi di Fahrenheit 451. E sono felici. Beatamente e beotamente felici. Tutti. Tranne quei pochi irriducibili che non solo si ostinano a voler leggere libri, ma che addirittura li imparano a memoria per impedire che, una volta bruciati, finiscano nell’oblio e vengano per sempre dimenticati. È una distopia potente, quella di Fahrenheit 451: più di mezzo secolo fa anticipava molte delle caratteristiche del mondo di oggi. Ciò che Truffaut e prima ancora Bradbury non avevano immaginato e forse non potevano immaginare è che nel loro futuro (cioè nel nostro presente) non ci sarebbe stato bisogno di roghi e pompieri. I libri sarebbero spariti da sé. Senza proteste. Senza resistenze. Senza che nessuno pensasse di impararli a memoria per preservarli. La sparizione sta già avvenendo, l’eliminazione forse è già avvenuta, senza che nessuno l’abbia imposta. Proprio nel cuore dell’Europa e dell’Occidente, per esempio, c’è un paese – un grande paese – in cui quasi il sessanta per cento degli abitanti non legge un libro, neanche uno, nel corso di tutta la vita. Per sei abitanti su dieci, i libri è come se non esistessero. Di fatto, non esistono. Nello stesso paese, quasi la metà della popolazione nella fascia d’età compresa tra i sedici e i sessantacinque anni è in grado di leggere un testo scritto solo se formulato attraverso un impianto sintattico molto semplice: soggetto/predicato/complemento. Se la costruzione si fa un poco più complessa, se c’è un periodo ipotetico o una consecutio temporum, quasi un abitante su due di questo grande paese non è in grado di capire quello che legge. Ma non basta. In questo grande paese quasi il settanta per cento degli abitanti diserta mostre e musei. Siti archeologici e monumenti sono del tutto ignorati da tre abitanti su quattro. Una percentuale vicina al novanta per cento non ha mai assistito o partecipato

a un concerto di musica classica. Quasi l’ottanta per cento non è mai andato a teatro. Mai. Va un po’ meglio con il cinema: lo frequenta quasi il cinquanta per cento degli abitanti. Ma anche qui, significa che uno su due non ci va mai. È il caso di ribadirlo: mai. Sarà un paese molto tecnologico, potrebbe pensare qualcuno. Un paese che i libri e il teatro se li è lasciati alle spalle perché ormai vive su Internet. Forse. Ma le rilevazioni più recenti dicono che in questo grande paese c’è una percentuale molto più alta che in tutti gli altri paesi europei di cittadini che dichiarano di non aver mai (mai) utilizzato la rete. Questo “grande” paese è lo stesso che nel 1963, nel film La ricotta, Pier Paolo Pasolini faceva giudicare a Orson Welles – nei panni di se stesso – in questo modo lapidario: “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa.” Sono passati più di cinquant’anni e le cose non sono cambiate. Anzi, forse sono perfino peggiorate. Perché in questi anni quel “grande” paese che è l’Italia avrebbe potuto risalire la china e realizzare una democrazia culturale basata su competenze, conoscenze e abilità diffuse, su un accesso ampio e capillare ai beni culturali. Non è andata così. Oggi siamo all’ultimo posto fra i paesi OCSE quanto a numero di laureati. Meno del venti per cento, mentre tutte le rilevazioni dicono che le attese per il 2020 sono di almeno il quaranta per cento di popolazione giovanile nella fascia fra i venticinque e i trentaquattro anni in possesso di laurea. Il Giappone è oltre il settanta per cento, Danimarca, Austria e Spagna sono oltre il cinquanta, il Portogallo ha superato ampiamente il quaranta. Noi siamo in fondo alla classifica. Beoti e beati. Con i guru della comunicazione che si permettono di andare in televisione per dire ai giovani: non andate all’università, fate gli idraulici, che tanto si guadagna di più. Lo dicono nei talk show sulle TV pubbliche. Un paese che lancia messaggi simili ha in sé evidenti e neanche tanto latenti vocazioni suicide. Di chi è la colpa? Perché in Italia non esiste una democrazia culturale diffusa? Perché competenza e conoscenza non solo continuano a essere privilegio di pochi ma vengono addirittura dileggiate e schernite da coloro che non le posseggono? All’origine di tutto questo ci sono, con buona probabilità, alcuni nodi irrisolti della nostra storia recente. L’avvento della civiltà mediatica, per esempio, da noi

ha avuto un iter contorto, diverso da quello della maggior parte dei paesi occidentali: mentre in Francia o in Inghilterra l’alfabetizzazione e la scolarizzazione di massa, così come la diffusione di massa di libri e giornali, hanno preceduto l’avvento dei media tecnologici, da noi radio, cinema e TV sono arrivati prima dell’alfabetizzazione di massa (a cui ha provveduto in buona parte proprio la televisione, se non altro favorendo la diffusione capillare della lingua italiana), mentre alla diffusione di massa di libri e giornali non siamo mai arrivati. Questa peculiarità ha reso la nostra embrionale industria culturale terribilmente gracile, instabile ed esposta a una singolare contraddizione per cui molti ambienti politici e intellettuali considerano l’industria fonte di ogni male, salvo poi elevare querule lamentazioni quando un’industria minaccia di chiudere. L’industria culturale, per la verità, non ha mai rischiato (e non rischia) di chiudere perché non ha mai veramente aperto: si è barcamenata fra assistenzialismi e protezionismi, è vissuta di rendite e clientele, si è lasciata coccolare (e viziare) senza mai farsi carico dei tratti costitutivi di ogni attività industriale: il rischio, l’intraprendenza, il coraggio dell’innovazione. Qualche tempo fa ho ospitato nell’Università in cui insegno i giovani creatori di una delle webseries di maggior successo (Freaks!) per un incontro con gli studenti. Durante il dibattito, per spiegare la decisione di diffondere la nuova stagione della serie non solo sul web ma anche attraverso un canale televisivo, uno degli autori ripeteva con fermezza ai ragazzi: “Tranquilli, non ci siamo venduti. Non siamo diventati commerciali...!” Tralasciando ogni considerazione sul luogo comune secondo cui il web sarebbe il regno della libertà espressiva mentre la TV (e il cinema) sarebbero spazi di compromesso e mercificazione, voglio interrogarmi sul perché l’epiteto “commerciale” in tanta parte del pubblico italiano (e tra i giovani in particolare) continui a essere percepito come un insulto. O, nel migliore dei casi, come un’onta, o una vergogna. È un sintomo rivelatore: siamo un paese che non ha mai accettato fino in fondo l’idea di industria culturale e che continua a bamboleggiarsi con quei cascami tardoromantici che identificano il successo di un prodotto culturale come un disvalore. Che l’arte e la cultura siano anche “merci” continua a essere considerato con orrore da gran parte dell’establishment culturale, soprattutto da quello che maschera con una patina di ostentato progressismo il proprio intimo, atavico, profondo e ontologico aristocraticismo. Da noi, qualità e quantità continuano a essere considerate inconciliabili. Nel cinema come nella letteratura. Se un prodotto è di qualità – pensano in tanti – non può ambire anche alla quantità. Per converso, per arrivare alla quantità (ai grandi numeri) è indispensabile abbassare la qualità. Quando su uno dei più

autorevoli quotidiani nazionali un importante e influente “critico letterario” arriva a scrivere che è meglio non leggere nulla, e non prendere neanche in mano un libro, piuttosto che leggere i bestseller di autori come Giorgio Faletti o Paulo Coelho (lo ha scritto Pietro Citati sul Corriere del 9 marzo 2012), vengo preso dallo sconforto. Poi, questo sconforto si trasforma in rabbia. Per lo snobismo con cui la cultura italiana tratta i consumi culturali cosiddetti “popolari”. Per la disinvoltura con cui ritiene di delegarli ai reality show televisivi, o ai talent, ai loro guru e profeti e padroni. Con i risultati disastrosi che poc’anzi ho cercato di sintetizzare. Eppure, gli esempi di come sia possibile conciliare quantità e qualità da noi non mancano: basta pensare alla straordinaria lezione del design italiano, alla sua capacità di realizzare un grande progetto politico di democrazia culturale (e oggettuale) portando la bellezza nelle case di tutti: qualità altissima, grandi serie, vendite soddisfacenti, solido successo. In passato anche il cinema italiano funzionava così (e infatti era grande, e apprezzato in tutto il mondo, e venduto in tutto il mondo: esattamente come il design). Oggi no. Oggi, se un film prova a conciliare qualità e quantità, e si permette di incassare oltre che di provare a inventare un universo estetico coerente e originale, subito i gendarmi del gusto arricciano il naso. È un film “ingiustamente sopravvalutato”, dicono. Che è l’espediente retorico più ovvio e banale a cui ricorre il critico per continuare a illudersi che il suo personalissimo giudizio e i suoi privatissimi criteri di gusto contino più di quelli di migliaia e migliaia di persone. Insomma: il successo da noi continua a essere il totem della piccola borghesia e il tabù degli intellettuali. Tutti lì a consultare Cinetel o le classifiche degli incassi, per poi sostenere in pubblico che il denaro è lo sterco del diavolo. Insomma: o sei côté “cinepanettone” o sei côté “Alice Rohrwacher”. Siamo ancora fermi a due secoli fa e alla distinzione del Berchet: o piaci ai “parigini” (i colti raffinati esigenti beneducati profumati cinéphiles) o piaci agli “ottentotti” (i rozzi incolti spetazzanti divoratori di cinema fast food). Tertium non datur. E invece il cinema italiano – così come tutta la nostra cultura – avrebbe bisogno proprio di una via di mezzo: di quel cinema sperimentale di massa che in passato era praticato non solo da autori come Fellini e Pasolini, ma anche da straordinari confezionatori di prodotti di qualità legati ai generi (da Petri a Monicelli, da Argento a Leone). Che avevano successo perché intercettavano bisogni diffusi, mettevano in circolo fantasie, offrivano a tutti concrete possibilità di incremento delle proprie esperienze emotive e cognitive. Perché quel modello è andato in crisi? Di chi è la responsabilità? È possibile, oggi, provare a conciliare qualità e quantità?

La responsabilità di questa situazione va divisa fra molti soggetti diversi. C’è una responsabilità oggettiva dei direttori dei giornali e dei grandi media. C’è la responsabilità di chi ha gestito negli ultimi cinquant’anni la televisione pubblica. Ci sono le colpe della politica, che ha riservato alla diffusione della cultura risorse sempre scarse e talora vergognosamente insufficienti. Ma c’è una parte di colpa, una non piccola parte di colpa del deserto culturale italiano, che è anche e soprattutto degli intellettuali e dei professori. Di chi ha gestito l’università e la scuola pensando più alle carriere dei professori, e agli allievi dei professori, e alle scuole dei professori, e agli interessi degli amici dei professori e dei portaborse amici degli amici dei professori, che agli interessi delle giovani generazioni e del paese. Abbiamo coltivato un’idea di cultura solipsistica, snobisticamente criptica, del tutto indifferente al compito di diffondere il piacere della conoscenza. Abbiamo premiato il conformismo più che l’originalità, l’appartenenza più del merito. Abbiamo commesso la colpa più grave: abbiamo reso la cultura noiosa. Conformistica e noiosa. Peggio che bruciare i libri. Perché nel fuoco, almeno, c’è un odioso atto di censura a cui qualcuno si può ribellare. Ci salverà la tecnologia, pensano in molti. La rete arriverà laddove non sono arrivate né la politica né l’università. Io mi auguro che sia così, ma dubito molto che possa essere così: quanto più la rete allarga l’accessibilità, tanto più sarebbe necessario accrescere la conoscenza e la competenza. L’accessibilità gestita nell’assenza della competenza rischia di generare imprevisti effetti boomerang. Rischia di legittimare la pigrizia, l’inerzia, l’eterna ricerca del già noto: si ha l’universo a disposizione, ma ci si accontenta di passeggiare nel giardinetto sotto casa. Intellettuali e professori, purtroppo, non sono stati capaci di far scattare l’incanto: quel rapimento fatto di curiosità, seduzione e meraviglia che spinge ad abbandonare il porto sicuro per cercare se stessi nell’universo. Non siamo stati capaci di comunicare che la cultura si può trovare in luoghi inaspettati e che a volte, inaspettatamente, è la cultura a trovare noi. Oggi, chini sul nostro smartphone, siamo convinti di poter dominare il mondo con lo sguardo. Ma questa convinzione, temo, potrebbe rivelarsi una mera illusione. Lo scorso anno, gli studenti del mio corso magistrale sugli immaginari dell’era digitale, invitati a produrre narrazioni distopiche che mettessero il dito nella piaga delle contraddizioni tecnologiche e comunicative del nostro tempo, hanno consegnato – tra i tanti – un racconto che trovo provocatoriamente illuminante.

I ragazzi hanno immaginato che in un futuro prossimo tutti vadano in giro col capo chino. Hanno immaginato che a furia di guardare sempre e solo in basso, ognuno verso il proprio iPhone, i muscoli del collo abbiano sviluppato una sorta di involuzione darwiniana e non riescano più a sollevare la testa. Così, nella distopia dei miei ragazzi, tutti camminano col capo chino. Sono connessi col mondo. Guardano un punto, e solo quello. Il loro display. Come il cavallo con il paraocchi: si illude di vedere il mondo, ma in realtà vede solo ciò che il suo padrone ha deciso che veda.

1.2 DAL NEOREALISMO AL PEZZENTISMO Alle radici del feticismo pauperista

Di chi è la colpa? A chi risale storicamente la responsabilità di aver eluso la questione della democrazia culturale a favore di un ambiguo e peloso elitarismo progressista? Una responsabilità non da poco va purtroppo attribuita al movimento neorealista e alla sua ostentata indifferenza nei confronti del pubblico della cultura. Il fatto che il neorealismo sia un movimento in cui per la prima volta è un medium di massa come il cinema a fondare un’estetica che poi influenzerà le pratiche di altri ambiti espressivi – dalla letteratura al teatro fino all’arte figurativa – rende ancora più gravi i suoi errori. Per provare a dimostrarlo, credo sia opportuno riprendere in mano un testo dei primi anni settanta che propone un approccio metodologico purtroppo isolato negli studi culturali del nostro paese. Mi riferisco a Cinema e pubblico di Vittorio Spinazzola:1 uno dei pochi saggi che, utilizzando in maniera intelligente e pionieristica la sociologia dei consumi, abbia provato a investigare il cinema italiano non dal punto di vista degli autori o dei produttori, ma da quello dei consumatori, sondando la capacità del cinema stesso di aggregare pubblici e di costruire comunità a partire dalla proposta di forme di intrattenimento finzionale che fossero in grado di contribuire alla formazione di identità condivise. La domanda che pongo, sulla scorta delle suggestioni ricavate dalla rilettura di Cinema e pubblico, è semplice e diretta: il neorealismo ha contribuito o no a vincere la sfida epocale che l’Italia aveva di fronte dopo la fine della seconda guerra mondiale? Detto in altri termini: ha favorito o ha ostacolato la formazione di una democrazia culturale di massa? Perché questo era ed è il problema. Questa la sfida, soprattutto in un paese dalla tradizione culturale elitaria e aristocratica come la nostra, in cui il romanzo arriva con due secoli di ritardo rispetto all’Inghilterra mentre l’affermazione dei media audiovisivi precede – invece di seguire – i processi di scolarizzazione e alfabetizzazione di massa. La risposta, purtroppo, è negativa. La tesi di Spinazzola, che pure guarda al

neorealismo “da sinistra”, dall’interno del Partito Comunista, a partire da una condivisione convinta delle estetiche e delle poetiche del movimento, è molto netta: l’equivoco su cui si reggeva il neorealismo – scrive – sta nel fatto che “progettava di rivolgersi ai ceti subalterni, ma trovava gli interlocutori elettivi solo nell’ala radicale dell’intellettualità borghese”.2 Ma Spinazzola non si ferma qui. Aggiunge infatti che “il fallimento dell’operazione neorealista avviene proprio nel suo punto programmatico più ambizioso e delicato: la volontà di indurre un mutamento radicale nei rapporti fra cinema e pubblico, quali si esplicano negli spettacoli strutturati industrialmente”.3 Il neorealismo non avrebbe saputo cioè fornire una risposta adeguata al quesito che i nostri migliori registi si erano proposti alla caduta del fascismo: “inventare un nuovo linguaggio cinematografico, che il pubblico di massa fosse in grado di intendere e da cui potesse trarre un contributo ad acquistare miglior consapevolezza del proprio essere, sociale e culturale”.4 Il neorealismo avrebbe eluso la questione del pubblico. Questione rimossa. Questione perfino esorcizzata con fastidio dall’aristocraticismo di un Visconti e dal suo rifiuto pregiudiziale di instaurare qualsiasi forma di dialogo con il pubblico di massa. Si fanno film sul popolo, ma non per il popolo. Magari anche film con il popolo (i pescatori siciliani di Aci Trezza interpreti di La terra trema) ma non film per il popolo. I film per il popolo – con poche, lodevoli eccezioni, a cominciare da Riso amaro di Giuseppe De Santis – si lascia che siano altri a farli. Gli “autori” cercano soprattutto il consenso dei loro pari. Sono intellettuali che si rivolgono ad altri intellettuali. Circolo chiuso. Punto e basta. È questa la contraddizione che dobbiamo affrontare oggi, se vogliamo davvero fare i conti con il neorealismo. Perché è in essa che il movimento ha bruciato gran parte delle sue energie creative. E se nascesse da qui il male oscuro del cinema italiano? La sua incapacità di essere al contempo colto e popolare, come sa essere il cinema in Francia? Il neorealismo incarna il paradosso di un movimento che legittima gli intellettuali a fare film per loro stessi, offrendo alla loro coscienza l’alibi di aver affrontato temi socialmente importanti. La demonizzazione del successo e del mercato, ancora oggi così radicata nel sentire comune e tra gli intellettuali “progressisti” del nostro paese, non ha una buona parte delle proprie radici abbarbicate proprio nel neorealismo? O nella mitologia neorealista? Perché che ci sia una mitologia neorealista è ormai assodato e condiviso. E come tutte le mitologie, anche quella neorealista si fonda su favole o leggende. La leggenda del basso costo, per esempio. Carlo Lizzani – che pure del movimento era stato una delle voci più interessanti – lo intuiva con acuta capacità autocritica già all’inizio degli anni sessanta, quando scriveva che non

c’è un solo film del movimento neorealista che non sia stato prodotto a prezzi industriali e secondo schemi produttivi normali, o addirittura di economia allegra.5 E ciò vale anche per le esperienze di produzione indipendente, effettuate con il finanziamento di organismi democratici, non speculativi, come l’ANPI o le cooperative. Su questo punto c’è ormai una copiosa letteratura, molto opportunamente richiamata in un recente libro di Paolo Noto e Francesco Pitassio sul cinema neorealista.6 Scrivono per esempio Conforti e Massironi: “la produzione dei film neorealisti è abitualmente costosa quanto quella dei film realizzati interamente negli studios.”7 Come dire: il neorealismo sta nel mercato quando si tratta di acquisire i fondi produttivi, ma lo guarda con fastidio quando si tratta di far tornare i conti. E di portare al cinema il popolo. Che è – di nuovo – uno dei problemi del cinema italiano di oggi. Le colpe o i limiti del neorealismo sono insomma le nostre colpe e i nostri limiti. Per esempio – l’ha ben evidenziato Barbara Corsi – la colpa di aver operato una “rimozione totale della natura materiale del cinema” e di aver eluso “l’analisi dei problemi della struttura economica a vantaggio di una riflessione tutta impostata sulla discriminante qualitativa.”8 Oppure il limite di inadeguatezza culturale che denuncia Alberto Abruzzese quando parla della mancata consapevolezza mediologica da parte di intellettuali non ancora in grado di calarsi nei panni di organizzatori del consenso popolare.9 Spesso, quando abbiamo parlato del neorealismo, abbiamo accettato di confrontarci con la sua natura mitica invece che con la sua sostanza storica oggettiva. Ma anche entrando nella sua natura mitica, o nell’autorappresentazione che esso dà di se stesso, viene spontaneo chiedersi: la fame neorealista di realtà non rischia di sfociare in un’identificazione irrazionalistica di arte e vita? Magari in una relazione rovesciata, cioè nell’assunzione della vita come forma immediata di arte? E la critica viscontiana alla società dello spettacolo – espressa con diamantina evidenza in un film come Bellissima – non rischia di diventare un pamphlet contro l’industria culturale tout court? Non passano per il neorealismo alcuni nodi irrisolti del nostro rapporto con la modernità? Ma al fondo di tutto – sempre ricorrente, perennemente révenant – c’è un fantasma. Che è al tempo stesso mito ed equivoco. Quello del cosiddetto “cinema del reale”. La formula – nobile ancorché talora abusata e fraintesa – spesso nasconde la rimozione dell’idea stessa di cinema come rappresentazione. Eppure Zavattini diceva che storicamente l’uomo si è accorto della realtà solo quando l’ha rappresentata. A Zavattini interessavano i “fatti banali” di ogni

giorno, sospesi nella loro indeterminatezza di senso, e non lo sfiorava neppure l’idea di trasformare il “banale” in “eccezionale”. Scriveva infatti in un lucido intervento dei primi anni cinquanta: “Per spettacolo bisogna decidersi a intendere non l’eccezionale ma il normale [...]. Si tratta di impegnare una lotta contro l’eccezionale e di cogliere la vita nell’atto stesso in cui la viviamo, nella sua maggiore quotidianità.”10 Oggi, invece, la fame del reale sfocia in una ricerca spasmodica del marginale, dell’eccentrico, del bizzarro, del freak. Sacro GRA di Gianfranco Rosi – Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia del 2013 – ne è forse l’esempio più paradigmatico. Il GRA del titolo indica – come è noto – il Grande Raccordo Anulare di Roma: quel nastro d’asfalto di settanta chilometri che circonda la capitale e in cui ogni giorno decine di migliaia di vite restano imbottigliate mentre si recano al lavoro o cercano di tornare a casa. Ma a Rosi non è la feroce quotidianità di queste vite sospese fra il nulla e lo stress che interessa. Né la fenomenologia del traffico e dell’ingorgo. Quel che gli importa sono le esistenze che vivono ai bordi del raccordo: un nobile piemontese decaduto, un pescatore d’anguille, un botanico impegnato a sterminare il coleottero chiamato punteruolo rosso, e ancora transessuali, prostitute, emarginati di ogni tipo e di ogni età. Un’umanità assurda, bizzarra, paradossale e imprevedibile che il regista tallona con la sua macchina da presa, per decine e decine di ore, in una lavorazione durata quasi tre anni, con l’obiettivo di cogliere e rappresentare il paesaggio antropologico più che quello geografico o naturale. Ma il problema sta proprio qui: questo “culto del reale” e questo presunto pedinamento del quotidiano di fatto nascondono o dissimulano una debordante voglia di messinscena, di rappresentazione. Rosi spaccia per “vero” ciò che è spudoratamente “finto” e “artefatto”. Se si passano tre anni a filmare determinate persone, è inevitabile che alla fine queste si trasformino in personaggi: sullo schermo non sono più loro stesse, ma ciò che il regista ha voluto che diventassero, o ciò che le ha guidate a diventare. Come i concorrenti del Grande Fratello, anche i personaggi di Rosi vivono davanti a una telecamera sapendo di essere ripresi. Cioè recitano se stessi. Operazione legittima. Se non fosse che anche qui – come per certi capolavori neorealisti – a essere assente è proprio il pubblico. Sacro GRA – nonostante l’effetto promozionale del Leone d’oro veneziano –11 è stato visto da un numero risibile di spettatori. E anche tra i pochi che hanno scelto di comprare un biglietto e di andare a vederlo, molti sono usciti come minimo perplessi. Il fatto è che nel cinema italiano contemporaneo dilaga una sorta di pezzentismo estetico che spinge molti registi – anche tra i più acclamati nei grandi festival internazionali, da Alice Rohrwacher di Lazzaro felice a Jonas Carpignano di A Ciambra – a giustificare il mancato dialogo con il pubblico con la buona causa

della messinscena degli ultimi, dei marginali, dei “pezzenti”. Di nuovo: lo chiamano “reale”. Il “cinema del reale”. In realtà si vergognano della finzione che perseguono. E in ciò sta forse il peccato originale del neorealismo: l’aver trasformato in colpa la voglia di finzione e l’aver fondato – al cinema, ma non solo – il feticismo del reale.

1.3 NELL’ERA DELL’ALGORITMOCRAZIA

1.3.1. Didattica e valutazione La mia pluridecennale esperienza didattica nell’università italiana è riconducibile, sostanzialmente, a due differenti modelli: corsi in cui sapevo esattamente da dove partivo e dove volevo arrivare, e arrivavo esattamente là dove mi ero prefisso, e corsi in cui sapevo da dove partivo, sapevo ugualmente dove volevo arrivare, ma mi ritrovavo, alla fine del corso, a essere arrivato da un’altra parte. Le attuali procedure di valutazione della didattica, messe in atto da una burocrazia ministeriale più tignosa che rigorosa, ritengono virtuoso il primo modello e vizioso il secondo, mentre io sono convinto che i corsi che hanno lasciato davvero un segno (in/segnare) siano i secondi: lì i semi che avevo gettato all’inizio hanno attecchito talmente bene da spingere l’aula a portarmi altrove, dove non pensavo di potere e di volere andare. Il primo modello vorrebbe che i docenti pubblicassero, ancor prima di incontrare gli studenti, i contenuti delle singole lezioni, rendendo magari disponibili in anticipo sulla cosiddetta “community” le slide che verranno presentate in aula di lezione in lezione: è un modello che considera gli studenti dei vasi vuoti da riempire, con un sapere standardizzato ed erogato dall’alto, identico a se stesso, inerte, rigido, predeterminato. Il secondo modello, invece, considera l’aula un luogo vivo, dove il sapere non viene erogato (verbo caro al lessico della burocrazia ministeriale e ai valutatori dell’ANVUR) ma condiviso, e si genera continuamente dall’incontro fra docente e discenti; un luogo dove sono proprio l’interazione, il confronto e la messa in discussione a definire modi, tempi e ritmi del percorso formativo. Nel primo modello gli studenti sono passivi. Devono apprendere e ripetere. Devono essere recettori di un sapere omologato, parcellizzato, quantificabile e soprattutto misurabile in ore-studio ragionieristicamente computate. Nel secondo modello, invece, l’aula è una comunità ermeneutica che si mette

in gioco, mantenendo certo le distinzioni di ruolo, ma considerando gli studenti dei soggetti attivi, e le loro proposte, le loro risposte, dei momenti imprescindibili nel percorso formativo. Il problema principale della didattica nelle università italiane deriva prima di tutto dal fatto che i docenti, quale che sia la disciplina che insegnano, hanno perseguito un modello tagliato non sulle esigenze degli studenti e delle nuove generazioni, del paese, ma su quelle delle loro carriere, dei loro raggruppamenti scientifico-disciplinari, dei loro fondi di ricerca, dei loro piccoli feudi personali e in ultima istanza dell’algoritmocrazia che ha preso il potere nell’università. Come risultato, è stato prodotto un sapere autoreferenziale, criptico, esoterico, iperspecializzato, incapace di dialogare con le esigenze di crescita culturale e professionale del paese. Faccio un esempio tagliato sulle mie competenze. Se io – professore ordinario di Storia del cinema – volessi scrivere un testo utile ai giovani che vengono all’università per studiare i linguaggi audiovisivi, dovrei produrre un manuale “divulgativo” che cerchi di combattere l’analfabetismo iconico offrendo ai ragazzi uno strumento agile ma approfondito, capace di appassionare ai dispositivi comunicazionali di un vecchio medium quale il cinematografo la generazione cresciuta dentro la rivoluzione digitale. Un lavoro del genere, tuttavia, per quanto impegnativo e meritorio, verrebbe considerato da molti colleghi non solo inutile, ma perfino disdicevole, perché privo di qualsivoglia aura di originalità. Meglio occuparsi – ipoteticamente – di uno sconosciuto cineoperatore bergamasco che nel 1902 filmava le pecore in Valle Seriana: in questo caso sarei ritenuto un ricercatore serio e rigoroso, impegnato in una ricerca originale. L’ANVUR e prima ancora la comunità scientifica del mio settore sicuramente la premierebbero, soprattutto se questa ricerca sfociasse in un piccolo saggio pubblicato su una rivista di fascia A editata solo per raccogliere i saggi scritti per le riviste di fascia A, corredato da un apparato di note che renda omaggio a tutte le auctoritates accademiche e che incrementi, oltre al baronale narcisismo citazionale, anche l’impact factor dei senatori della disciplina. Questo modello poteva funzionare, forse, quando l’università era appannaggio di un’élite, ma non è più applicabile all’università di massa. Quando un paese come il nostro presenta un tasso di analfabetismo che sfiora il trenta per cento, e quando esibisce un livello così diffuso di ignoranza nelle competenze culturali di base, diventa necessario interrogarsi su come sia stato possibile giungere a questo punto. Partendo dai propri errori, dalle proprie procedure. Senza inventare qualcuno

a cui dare la colpa. Nei mesi scorsi, per esempio, alcuni colleghi italianisti hanno denunciato il crollo di competenze nell’uso della lingua italiana. Tuttavia, invece di individuare i colpevoli del fenomeno negli insegnanti della scuola primaria e secondaria, dove per altro insegnano docenti che loro hanno formato e che noi tutti abbiamo laureato, avrebbero dovuto: – Chiedersi chi hanno mandato a insegnare nelle nostre scuole; – Rimboccarsi le maniche e cominciare loro stessi a insegnare grammatica e sintassi. “Non spetta a me!”, “Non è il mio compito!”, “Non è mia competenza!” dice il professore tipo, quello che prepara le sue slide predigerite, le proietta in aula e poi se ne va felice e impettito nel suo alto ruolo, orgoglioso del fatto che il suo metodo è ritenuto dall’ANVUR didatticamente esemplare. Il risultato di questo metodo è che abbiamo formato migliaia di laureati che sanno tutto sullo sconosciuto cineasta bergamasco degli anni del cinema muto, ma non sono in grado di trasmettere ai giovani la consapevolezza critica di cosa è stato il cinema nel Novecento, di come abbia prodotto emozioni, generato immaginario, diffuso pratiche sociali, dispositivi modellizzanti e canoni di comportamento. Abbiamo formato generazioni di laureati umanisti che sanno tutto di Gaspare Gozzi ma non hanno studiato la Commedia dantesca, perché per farlo avrebbero dovuto impiegare un monte ore che eccede i crediti previsti dagli algoritmi ministeriali. Abbiamo ritenuto la divulgazione una pratica disdicevole, poco scientifica, volgare, appunto. Il risultato è la catastrofe culturale in cui siamo tutti immersi: un paese privo di una classe dirigente degna di questo nome, dotata delle conoscenze minime necessarie per dirigere e per governare, e un popolo che fa dell’incompetenza un vanto e che si crogiola in una sempre più spudorata ignorantocrazia. Colpa nostra? Sì, colpa nostra. Solo colpa nostra. Per non essere stati capaci di trasmettere alle giovani generazioni il piacere, il gusto e il bisogno della cultura. Per aver diffuso un’idea di cultura utilitaristica, strumentale, notarile, oppure – all’opposto – del tutto staccata dalla vita, persa nelle proprie astrazioni e nei propri inaccessibili alfabeti. Per aver cercato di eliminare dall’apprendimento ogni asperità, ogni gibbosità, ogni rito di passaggio, ogni fatica. Per aver fatto credere che si può crescere culturalmente

senza sudare, senza lavorare. Per aver creduto più nelle procedure che nelle persone. Io non so come si valuta la didattica. So però che io so valutare la mia didattica. So, mentre insegno, se sto riuscendo a relazionarmi con la classe. Lo sento. E ho orrore che qualcuno pretenda di valutarmi applicando un algoritmo. È un po’ quello che accade al protagonista di Sully (2016) di Clint Eastwood. Il film prende spunto da un recente caso di cronaca: il 15 gennaio 2009, l’aereo della US Airways 1549 si scontra con uno stormo di uccelli poco dopo il decollo, i motori vanno in avaria e il comandante Chesley Sullenberger – per gli amici Sully – è costretto a tentare un “ammaraggio” di fortuna sul fiume Hudson con una manovra tanto spericolata quanto coraggiosa. Tutte le 155 persone a bordo sono illese: per loro e per i media, Sully è un eroe nazionale. Ma per i burocrati che dall’esterno studiano il caso, le cose non stanno così. Vista da fuori, la situazione non sembra poi così pericolosa: forse Sully poteva tentare una virata e tornare all’aeroporto La Guardia senza mettere a rischio la vita dei passeggeri. Gli algoritmi dicono che Sully non è un eroe ma un pericoloso avventurista. Tanto che lui e il suo secondo vengono chiamati a rispondere del loro operato davanti a una commissione d’inchiesta. La regia di Eastwood è abilissima nel farci sentire “da dentro” le tensioni, le angosce e il panico dei passeggeri, con un effetto immersivo che ci consente di condividere al massimo la sensazione di pericolo e di paura dei personaggi. Ma gli algoritmi, ovviamente, non conoscono la paura. Sono esenti dalle emozioni umane. Forse per questo piacciono tanto ai burocrati, che li usano per diventare padroni delle emozioni degli altri e per decidere – dietro il paravento di una procedura oggettiva – i destini dei loro simili. Qualcosa di analogo vale anche per la didattica. Gli algoritmi che pretendono di giudicarla non conoscono il fattore umano. Non conoscono la paura, la tensione, l’incertezza, il dubbio. Gli algoritmi piallano via dall’umano tutto ciò per cui l’umano vale la pena di essere vissuto: la differenza, l’unicità. Nell’era dell’algoritmocrazia, la valutazione della didattica perseguita dall’ANVUR rischia di omologarci tutti, imprigionandoci dentro procedure standardizzate. Tutte perfette, trasparenti, programmate, predeterminate. Tutte terribilmente, spaventosamente uguali. Ho paura che con il pretesto

della valutazione della didattica qualcuno abbia in mente di arrivare a questo. Ammesso che non ci siamo già arrivati. Quando ho cominciato a scrivere questo capitolo, sapevo da dove volevo partire e sapevo dove volevo arrivare. Volevo arrivare qui, a confessare questa paura. Ci sono arrivato. Non ho cambiato strada in itinere. Temo non sia uno dei miei capitoli migliori. 1.3.2. L’analfabetismo iconico: perché agli italiani non piace La grande bellezza? Ci sono film che dialogano con la mente e altri che eccitano principalmente gli occhi. La grande bellezza di Paolo Sorrentino è uno di quei rari film che parlano a tutto il corpo. Si rivolge alla pelle, all’udito, all’olfatto. È fisico, tattile e vibrante. Urla e ansima, grida e sussurra, puzza e profuma. Nel suo continuo attrito fra vitalismo e indolenza, tra frenesia e immobilità, fra i corpi di carne degli umani e i corpi di pietra delle statue, è molto più che una “dolce vita” dei nostri tempi cafoni. È un “viaggio al termine della notte” che può permettersi il lusso dell’ironia: un mix di nichilismo, cinismo e disincanto che si erge nell’universo mediatico dominato dalle flatulenze cinguettanti di Twitter e dai bradisismi intestinali di Facebook mostrando agli occhi (e non solo agli occhi) di tutti ciò che l’ininterrotto chiacchiericcio dei social network, con la sua continua invenzione di amici e nemici, con la sua inflazione di like, con i suoi algoritmi carabiniereschi, cerca invano di esorcizzare: la percezione dell’irrilevanza, la cognizione della vanità del tutto. Eppure agli italiani un capolavoro come La grande bellezza, così capace di dire anche ciò che non abbiamo voglia di ascoltare, non piace. Nonostante l’Oscar. O forse anche a causa dell’Oscar. 1.3.2.1. Chiedigli chi era Fellini

Il giorno dopo la messa in onda televisiva del film di Paolo Sorrentino, in molti mi hanno chiesto: “Ma a lei piace davvero La grande bellezza?” Me l’hanno chiesto il barbiere e il benzinaio, la barista e la segretaria. Ma anche l’ingegnere, il commercialista, l’osteopata. Mi hanno chiesto – sapendo il lavoro che faccio – se li aiutavo a capire perché La grande bellezza avesse vinto

l’Oscar. Loro il film l’hanno visto in TV, sulla rete generalista che l’ha mandato in onda subito dopo la vittoria a Los Angeles, e non l’hanno capito. Uno s’è annoiato, un altro si è perso. Una è arrivata perfino a dirmi che a un certo punto, mentre guardava, non riusciva più a distinguere il film dagli innumerevoli spot pubblicitari che lo interrompevano. Tutti erano alquanto perplessi. È un dato che andrebbe analizzato e ragionato con attenzione: la messa in onda di un film attesissimo in prima serata su una TV generalista fa registrare ascolti da record (36,1 per cento, cifre da Festival di Sanremo), ma rivela anche, una volta di più, in modo inequivocabile, l’analfabetismo filmico che attanaglia il nostro paese. Vent’anni di esilio del cinema dai palinsesti TV hanno prodotto questo risultato: una pellicola non facilissima ma neppure particolarmente ostica come quella di Sorrentino risulta di fatto incomprensibile al pubblico abituato ai modelli narrativi della più triviale fiction televisiva. All’estero il film l’hanno apprezzato più che da noi non perché gli stranieri – come dicono i malevoli – amano gli stereotipi che il film riproporrebbe. No: gli stranieri l’hanno apprezzato perché non sono analfabeti filmici. Questo è quello che dobbiamo avere il coraggio di dire, e magari anche di urlare, ai responsabili del declino culturale del paese. Siamo il paese a più alto tasso di analfabetismo iconico di tutto l’occidente. Siamo inconsapevoli della bellezza e della potenza del nostro patrimonio cinematografico così come dei meccanismi di funzionamento della comunicazione audiovisiva nella società multimediale. Il nostro sistema formativo è fermo a mezzo secolo fa: oggi un ragazzo italiano può arrivare con il massimo dei voti alla maturità classica (cioè al più alto livello di istruzione superiore previsto dal nostro ordinamento) senza sapere nulla di alcune delle discipline fondamentali per comprendere il mondo in cui viviamo: l’economia, il cinema, i media vecchi e nuovi. A differenza di quanto accade in quasi tutti i paesi europei, un ragazzo italiano attraversa tutto l’iter scolastico senza che nessuno gli spieghi che cos’è l’Iva, o lo spread, o una ritenuta d’acconto o come si legge un bilancio, ma anche senza che nessuno – a parte poche esperienze di sperimentazione non curriculare – gli faccia incontrare 2001: Odissea nello spazio o La dolce vita, o gli faccia apprezzare la bellezza e la potenza (emozionale, estetica e cognitiva) di un film di Hitchcock o di Michelangelo Antonioni. Una recente ricerca effettuata sui giovani di una decina di paesi europei ha preso atto di come un maestro come Federico Fellini sia più noto in Francia o in Germania che in Italia. In tutto il mondo occidentale il cinema si studia nelle scuole, fa parte del patrimonio culturale condiviso, diventa momento di crescita e strumento di analisi del mondo e di sé. Al tempo stesso si studiano i meccanismi comunicazionali dei media audiovisivi e il loro modo di generare emozioni e reazioni nell’utente/spettatore. Da noi no: noi siamo ancora

lì a trastullarci con Ugo Foscolo e Giosuè Carducci, e con un’idea di cultura elitaria, appassita e incartapecorita che non offre più nulla alle giovani generazioni. Del resto, non c’è da stupirsi: la cultura italiana e le classi dirigenti di questo paese hanno sempre avuto nei confronti del cinema o una volontà di uso strumentale in funzione egemonico-ideologica o un atteggiamento di sprezzante disdegno e di aristocratica diffidenza. Il risultato? Fuori il cinema dalle scuole. Fuori dai palinsesti della televisione pubblica. Fuori dai programmi di ricerca sostenuti nelle università (dove a essere finanziate dalle lobby accademiche sono ricerche che quasi mai riguardano il cinema e i mass-media). Non solo: benché l’Unione Europea insista da anni – anche sanzionando pesantemente i nostri governi – sulla centralità della media literacy (l’educazione ai media) come base necessaria e imprescindibile per la creazione di società inclusive civili e moderne, da noi tutti gli appelli in tal senso vengono lasciati cadere nel vuoto (col risultato che ci ritroviamo con una società “incivile”, rancorosa e frustrata, sempre più portata all’invettiva lapidaria che alla riflessione, ormai quasi incapace di argomentare). Le rilevazioni più recenti mostrano come nel mondo dal 2009 al 2018 il tempo di permanenza media davanti alla TV sia leggermente diminuito (da 188 a 164 minuti al giorno), mentre è cresciuto sensibilmente il tempo di navigazione su Internet (da 48 a 157 minuti al giorno: fonte www.truenumbers.it). In Italia il tempo di permanenza su Internet è doppio rispetto a quello di fruizione televisiva (sei ore sul web contro le tre davanti alla TV). Complessivamente, in ogni caso, ore e ore passate davanti a uno schermo o a un display. Ore e ore di esposizione quotidiana a mezzi di comunicazione rispetto ai quali noi italiani non abbiamo nessuna forma di alfabetizzazione, neanche minima, nessuna capacità di lettura e di analisi, nessuna conoscenza di come funzionano la grammatica e la sintassi delle immagini in movimento, nessuna idea dei meccanismi e delle procedure che articolano il rapporto fra un medium audiovisivo e il suo utente. Risultato? Di nuovo: analfabetismo. Cronico, diffuso, capillare, pervasivo. È stato calcolato che nel Medioevo un qualsiasi contadino umbro o toscano incontrava più o meno quaranta immagini artificiali nel corso della vita (gli affreschi sulle pareti della chiesa e poco altro). Oggi, se si calcola che quando guardiamo la TV il nostro occhio capta venticinque frames al secondo e se si moltiplica questo dato per il tempo medio di permanenza davanti al piccolo schermo citato poc’anzi, e se a ciò si aggiunge che incessantemente – mentre navighiamo in Internet, mentre camminiamo per la strada, mentre guidiamo l’automobile, mentre guardiamo una vetrina – intercettiamo immagini artificiali, si arriva al dato impressionante di 600.000 immagini al giorno. Ciò significa che in un arco di tempo relativamente breve dal punto di vista dell’evoluzione umana – pochi secoli – il

nostro apparato di percezione visiva ha subito e sta subendo una mutazione gigantesca, i cui effetti sono ancora tutti da studiare e da capire. Come governiamo un traffico di 600.000 immagini al giorno? Che ne facciamo? Come le selezioniamo? Quali metabolizziamo? Non è ammissibile che un intero popolo venga lasciato privo delle strumentazioni minime per orientarsi nel sistema comunicativo contemporaneo. La battaglia per insegnare il cinema e la media literacy nelle scuole è una delle priorità assolute del nostro paese: cosa vediamo davvero mentre guardiamo immagini in movimento è uno degli interrogativi chiave che la cultura contemporanea non può esimersi dal porsi. 1.3.2.2. Chiedigli chi era Greta Garbo

L’aula è buia. Sullo schermo, un’immagine di Greta Garbo. Un primo piano. Uno di quelli che indussero Roland Barthes a trovare nel volto della “divina” – un volto “di neve e di solitudine” – la quintessenza della bellezza. Da qualche anno, il mio corso di Storia del cinema alle matricole del primo anno di Comunicazione inizia così. Entro in aula dal retro, col microfono in mano. E nel buio, all’improvviso, chiedo a qualche studente che cosa vede sullo schermo. Fino a tre, quattro anni fa c’era sempre qualcuno che dal fondo – sentendo le risposte approssimative dei compagni o delle compagne – urlava: “Greta Garbo!” Ora non più. Ora, se va bene, gli studenti (e le studentesse) rispondono: “Una donna.” Neanche l’immagine di una donna. Una donna, e basta. Tra questa risposta, così rozza e generica, ma anche impeccabile nel suo richiamare l’evidenza ontologica dell’immagine, e quella che i manuali considererebbero la risposta “esatta” (un primo piano di Greta Garbo nel film La regina Cristina, 1933, di Rouben Mamoulian) c’è quello che forse dovrei insegnare in un corso di alfabetizzazione al cinema e alla sua storia. Forse. Perché è indubbio che uno studente di cinema dovrebbe saper dare, alla fine, la risposta “esatta”, ma sembra anche piuttosto dubbio che insegnare cinema significhi insegnare questo (o solo questo). Dagli studenti arrivano le richieste più disparate: chi vorrebbe apprendere la grammatica, la sintassi e la retorica di un linguaggio, magari colto nella sua articolazione diacronica, e chi vorrebbe invece una promenade audiovisuale fra estetiche e poetiche. Chi vede nel cinema soprattutto un deposito di grandi narrazioni storico-sociali e chi invece si esalta nell’esercizio della teoria, zigzagando tra Žižek e Deleuze (ma non, ahimè, tra Vertov e Ejzenštejn). Chi vorrebbe addestrarsi nell’arte arcaica della recensione e chi trova la massima soddisfazione nel lavoro dell’interpretazione e nel piacere della produzione di senso. Di volta in volta, di corso in corso, di anno in anno, perfino di lezione in lezione, mi rendo conto di accentuare o privilegiare uno di questi

aspetti, ma senza mai dimenticare o appannare gli altri. Perché l’unicità del cinema – la sua forza, la sua imprescindibilità – sta proprio in questo: non è riducibile alle facili formulette scientifiche in cui qualcuno vorrebbe inglobarlo. Il cinema esonda, sempre. Sfugge ai tentativi di canonizzazione, codificazione, normalizzazione. Certo: molti colleghi soffrono una sorta di complesso originario. Si vergognano del puzzo di fango e di sterco che il cinema si porta dietro fin dalle sue origini, popolari e plebee. Per questo, come in un infinito rito di espiazione, scimmiottano le discipline che ritengono più “nobili” (la filosofia, la filologia, la linguistica, l’archeologia) nella speranza di conquistarsi un quarto di nobiltà e di potersi così purificare una volta per tutte – a colpi di citazioni di Heidegger e Wittgenstein – dalla macchia del peccato originale. Per fortuna, questa macchia è indelebile: il cinema è spettacolo e gioco, e per quanto ci si sforzi di proclamarlo “arte” (cosa che indubbiamente è), ha una componente ludica e circense che nessun blasone accademico o artistico potrà mai cancellare. Questa “differenza” dovrebbe essere vissuta con orgoglio – invece che esorcizzata come “mancanza” – soprattutto da chi il cinema prova a “insegnarlo”. Perché è anche questo il motivo per cui il cinema può essere decisivo nella formazione delle giovani generazioni: perché non esiste nessun altro linguaggio così capace di offrirsi a tutti – senza distinzioni di ceto, classe, razza, cultura – come grande palestra popolare di produzione di senso. E allora, insegnare cinema forse significa questo: trasmettere la passione per un linguaggio e suggerire la possibilità che questo linguaggio possa produrre piacere (felicità?) nel momento in cui genera senso e non solo sensazioni. Ma se a ciò si aggiunge quanto evidenziato nei paragrafi precedenti (e cioè che gli italiani non leggono né libri né giornali, che vanno poco al cinema e a teatro, che navigano in rete solo per cinguettare su Twitter o mettersi in scena su Facebook, e che sono sprovvisti degli strumenti minimi di decodifica dell’unico linguaggio – quello audiovisivo – con cui provvedono a mettersi in contatto mediaticamente con il mondo) insegnare cinema ha anche una valenza politica e sociale. Perché contrasta quel progetto di sorveglianza e di controllo sociale che è stato tacitamente e anche inconsapevolmente perseguito dai governi che si sono succeduti alla guida della Repubblica (senza sostanziali distinzioni tra destra a sinistra) nella misura in cui hanno sottratto valore alla competenza e alla conoscenza. E perché insegnare cinema serve a portare bellezza e consapevolezza nella vita di tutti. Quando alla fine di una lezione sull’ultima inquadratura di L’avventura di Antonioni, o sul puzzle mediale, al contempo documentale e funzionale, che costituisce il “corpo” visivo di Redacted di Brian de Palma, uno studente si mostra emozionato, o commosso, o provocato, o intrigato, significa che il cinema sta lavorando e, forse, sta segnando delle vite.

Vorrei che i miei studenti imparassero a vedere un film con lo stesso sguardo con cui un designer guarda una sedia o una lampada: capace di cogliere immediatamente come sono state costruite, con quali tecniche, quali materiali, con che procedure innovative e quali metodi tradizionali. Ma senza mai perdere il piacere, il gusto, la passione, la voglia di emulare. Ma il cinema non può essere introdotto a scuola solo in maniera strumentale, per avvicinare gli allievi a materie più ostiche e distanti, come è spesso avvenuto, mostrando – per esempio – Il Gattopardo di Visconti per introdurre il romanzo di Tomasi di Lampedusa, o i film di Pabst, Renoir o Kubrick per parlare della prima guerra mondiale. Il cinema ha un suo statuto disciplinare specifico, che ne fa un dispositivo imprescindibile per la comprensione del mondo e del tempo in cui viviamo. Ci sono epoche che hanno espresso se stesse con la musica, altre con la danza, altre con la poesia, altre con il teatro o con la letteratura. Il nostro tempo ha espresso se stesso, prima di tutto, attraverso il cinema, la televisione, i media audiovisivi. Continuare a ignorarlo infliggerebbe un danno irreparabile alle nuove generazioni e disperderebbe una parte non trascurabile del patrimonio culturale del nostro paese. Non solo: tutte le ricerche più recenti affermano che uno degli effetti più evidenti della rivoluzione digitale è il calo drastico della capacità di attenzione e di concentrazione. Alcuni studi indicano ormai in dieci-dodici minuti il tempo medio di capacità di attenzione di uno studente delle scuole primarie e secondarie. Il cinema, con la sua stringente architettura narrativa costruita però con la logica del montaggio, è un dispositivo capace di allenare a procedimenti percettivi che continuamente devono mettere in connessione il frammento con la totalità, il contingente con il continuativo, il dettaglio con il tutto: un’impagabile palestra mentale, percettiva, emotiva e cognitiva per addestrarsi a operare, pensare e decidere, appunto, in una condizione di sovraesposizione a stimoli dinamici e mutevoli che colpiscono incessantemente e simultaneamente gli occhi e la mente del singolo spettatore. Certo: negli ultimi anni, nelle università italiane non si è parlato che di Ricerca. Di valutazione della Ricerca. Le riviste “scientifiche” sono state divise in fasce gerarchiche (A, B, C...) per valutare il peso scientifico di chi pubblica in base alla testata su cui pubblica. Tutti gli scritti dei professori sono sottoposti a valutazione. Bene. Forse. Perché l’impressione che si ricava è che l’emergenza dell’Università italiana non sia la Ricerca (abbiamo comunque ottimi ricercatori, nonostante le scarse risorse di cui dispongono), ma la didattica. Non ci si interroga più su cosa insegnare, come, con che linguaggi. Non si riflette e non si discute su quali saperi far circolare, e con quali metodologie. Ora conta aver pubblicato un articoletto in inglese con impact factor. Ora, con l’obiettivo di ottenere una valutazione positiva da parte dei singoli docenti, si sta realizzando

una spaventosa omologazione di linguaggi, di procedure, di metodologie. Di sguardi, in ultima istanza. Per essere positivamente giudicati, i giudicandi cercano di assomigliarsi l’un l’altro, e di assomigliare tutti ai lavori dei giudici. Chi non si adegua è fuori. Diventa marginale ed emarginato. A volte, se penso a questo, mi viene voglia di mollare. Di spegnere la luce. Poi guardo il volto della Divina sullo schermo ancora acceso e come i miei studenti mi vien da dire – pur sapendo esattamente che è un primo piano di Greta Garbo dal film La regina Cristina, 1933, di Rouben Mamoulian – che quel che vedo è, ancora e sempre, prima di tutto, soltanto una donna. Per questo, credo, continuo a insegnare cinema. 1.3.2.3. Non chiedergli chi era Heidegger

La legge 220 del novembre 2016 ha introdotto qualche importante novità. Prevede per esempio che il tre per cento del FUS (Fondo Unico dello Spettacolo) venga destinato annualmente a finanziare progetti volti a sperimentare il graduale inserimento della media literacy e del cinema nei curricula scolastici. Era ora. Se la legge verrà applicata dai governi e dai ministri competenti sarà possibile fare qualche primo timido passo verso il superamento del gap che caratterizza il nostro paese. Ma nel momento in cui il cinema, forse, sta per entrare nella scuola, qualche rischio c’è. Bisogna evitare di commettere gli stessi errori in cui sono incorse in passato altre discipline. Bisogna evitare, per esempio, che accada quanto accaduto con certe metodologie di insegnamento della letteratura: invece di stimolare il piacere di leggere, facevano odiare i libri e la lettura. Per questo, occorre stare attenti, prima di tutto, a non produrre effetti indesiderati. Di seguito, ho provato a sintetizzarne cinque fra i più insidiosi. Effetto Corrida. È quello che si verificherebbe se passasse l’idea che il cinema può essere insegnato da tutti. Che lo si può insegnare prescindendo dalla grammatica, dalla sintassi e dalla storia. Come è accaduto, a volte, in certe scuole, dove l’insegnante di religione o di greco, solo perché appassionato cinéphile, si è improvvisato docente di cinema. Anche a me piace leggere Sofocle o Euripide, ma non mi sognerei mai di insegnare greco in un liceo classico. Effetto Tappabuchi. C’è un’ora buca? Vediamo un film. Manca un insegnante? Pronto un DVD. Il rischio da evitare con la massima attenzione è che il cinema diventi la panacea dei disservizi e delle manchevolezze della scuola. E che sia percepito dagli studenti come tale.

Effetto Frozen. Il cinema raggelato. Sterilizzato. Depurato di ogni emotività, passionalità, calore. Ridotto ad algido “testo” da analizzare. A occasione per applicare metodologie definite a priori, altrove. A pretesto per far produrre schede di analisi. Effetto Hot. È l’opposto ma complementare del precedente. Si verifica quando il cinema è un oggetto di culto talmente caldo da essere il bersaglio di continue dichiarazioni d’amore. Il rischio è che si tratti di un amore cieco. Il che è in tutta evidenza un paradosso, trattandosi di un medium eminentemente visivo. Effetto Parvenu. Arrivano insegnanti bravi e preparati. Formati appositamente per insegnare cinema. Ma con addosso un tal senso di colpa per il loro peccato originale (vengono, dopotutto, dalla frivolezza dell’entertainment) da cercare di ripulire il proprio pedigree didattico con un’ostentata intensificazione di tecnicismi e canoni teorici. Magari trattando una sequenza di Scola come se fosse un passo di Heidegger o di Nietzsche.

1.4 TOTEM E TABÙ Gli idola polemici dell’intellettuale progressista-elitarista

1.4.1. La borghesia In uno dei suoi saggi più densi e illuminanti (Il borghese, Einaudi, 2017), Franco Moretti – professore emerito all’Università di Stanford, nonché fratello maggiore di Nanni – cerca di mettere a fuoco la fisionomia socioculturale di una delle figure portanti della modernità occidentale: quella del borghese. Per farlo, Moretti si serve di libri, soprattutto di romanzi: si va dal Robinson Crusoe di Defoe ai Buddenbrook di Thomas Mann, passando per Flaubert e Balzac, Ibsen e Goethe, ma anche per Max Weber e, inevitabilmente, per Karl Marx. Ne viene fuori con nettezza quel grande epos borghese che fra Settecento e Ottocento ha conquistato l’egemonia culturale in tutta Europa con parole chiave come industriosità, efficienza, serietà, utilità e valore del lavoro. In questo quadro manca però drammaticamente l’Italia. Nel libro di Moretti è citato un solo autore italiano, Giovanni Verga, con un romanzo-capolavoro che però esprime – fin dal titolo: Mastro-don Gesualdo – l’impossibilità di essere borghese: l’eroe verghiano continua a essere “l’operaio arricchito” (mastro) tenuto a distanza da quei notabili (don) che poi si divoreranno la sua roba alla sua morte; non sarà mai Gesualdo Motta, il self-made man che è orgoglioso di essersi fatto con il proprio lavoro e che per questo viene apprezzato dalla società che gli riconosce un ruolo dirigente. Anche senza volerlo, insomma, il libro di Moretti mette in risalto una volta di più come uno dei problemi fondativi del nostro paese sia l’assenza della borghesia, cioè di una classe che abbia conquistato nella temperie della storia, magari con una rivoluzione, la propria legittimità a essere classe dirigente. Che derivi da qui anche la ricorrente difficoltà della nostra letteratura ma soprattutto del nostro cinema a mettere in scena la borghesia? Il nostro cinema – come è noto – abbonda di sottoproletari, di marginali, di poveracci, di pezzenti, è attratto dagli aristocratici “alla Visconti”, ma si mostra titubante se

non addirittura riluttante all’idea di raccontare la borghesia. Quanto più sono borghesi (e lo sono sociologicamente, economicamente, culturalmente, antropologicamente), tanto più i registi e gli sceneggiatori rifuggono il proprio ceto. Come se fosse una colpa da scontare, un male oscuro da nascondere. È così fin dal neorealismo, che non a caso ha messo in scena disoccupati (Ladri di biciclette), pensionati (Umberto D.), ragazzi di strada (Sciuscià), mondine precarie e ladruncoli avventurieri (Riso amaro), ma mai un personaggio con i tratti della “normalità” borghese. Siamo di fronte allo strabismo del realismo: a quell’atteggiamento mentale che induce gli autori del nostro cinema a indagare e raccontare i margini della compagine sociale, esonerandoli dal fare i conti con il centro. Con la motivazione tutta ideologica di raccontare gli “ultimi”, il nostro cinema ha evitato sistematicamente di occuparsi di quell’aggregato sociale insondabile, misterioso, velleitario, frustrato, conformista, narciso, rancoroso, perennemente insoddisfatto di sé e del mondo che è stato e forse ancora è la borghesia italiana. Se ripensiamo al nostro cinema e alla sua storia, troviamo tanta piccola borghesia (a cominciare dal Borghese piccolo piccolo di Monicelli e dal Fantozzi di Paolo Villaggio), un po’ di borghesi ripiegati su se stessi, alle prese con la propria inettitudine relazionale più che con la propria centralità sociale (i personaggi di quasi tutto Antonioni), i borghesi esasperati e autodistruttivi di quel genio dimenticato e incompreso che fu Marco Ferreri (da L’uomo dei cinque palloni a La grande abbuffata), quelli intellettuali e molto snob di certo Scola (La terrazza) o di certo Bertolucci (Io ballo da sola, La tragedia di un uomo ridicolo) e poco altro. Ma la colpa, forse, non è del cinema. Forse è mancata la “materia prima”. La borghesia da noi non c’era e il nostro cinema ha dovuto inventarla: cosa sono i personaggi simil-borghesi di Tognazzi (da I mostri a Il magnifico cornuto), Sordi (Il boom, Finché c’è guerra c’è speranza) e soprattutto di Gassman (Il sorpasso, Il tigre, In nome del popolo italiano) in tante commedie italiane anni sessanta e settanta se non il tentativo – velleitario, fin che si vuole, grottesco, gaglioffo ma a suo modo rivelatore – di inventare codici comportamentali, intrecci relazionali e stili di vita con cui raccontare un’italianità che voleva essere borghese senza avere le credenziali storiche, etiche e financo economiche per poterlo essere davvero? Il problema è che il pregiudizio antiborghese rimane: anche oggi la maggior parte della critica accetta un film “borghese” solo se mette in scena la vocazione predatoria e corrotta della borghesia che racconta (Il capitale umano di Paolo Virzì). In caso contrario prende vistosamente le distanze. Come si chiedevano una quindicina d’anni fa Aldo Bonomi, Massimo Cacciari e Giuseppe De Rita in un libro pubblicato da Einaudi: Che fine ha fatto la borghesia?

Nel cinema italiano degli ultimi anni, se si toglie quel piccolo film che è Dobbiamo parlare di Sergio Rubini, dove l’attico in affitto in cui vivono i protagonisti è davvero un po’ come l’Italia, un appartamento di rappresentanza dove non funziona più nulla, resta solo Smetto quando voglio: quei personaggi dovrebbero essere i nuovi borghesi e invece sono solo pusher smandrappati. Certo, c’è Sorrentino e ci sono “loro”. Quelli del film che si intitola così, ma anche quelli di La grande bellezza. Come se Sorrentino avesse fatto di Jep Gambardella e di Silvio Berlusconi due diversi Virgilio che ci hanno portato a visitare l’inferno di ciò che resta (La grande bellezza) o di ciò che è stata (Loro) la borghesia italiana. Alla fine, restano solo due grandi autori capaci di raccontare la borghesia: Luca Guadagnino e Paolo Franchi. Ma non è che l’astio e la sufficienza con cui la critica italiana tratta i loro lavori derivino anche dal fatto che sono cineasti borghesi che non si vergognano di esserlo e che mettono in scena senza rancori ideologici e senza astratti furori moralistici proprio il fascino discreto della borghesia? Per una parte non trascurabile dell’intellettualità italiana, soprattutto di quella che si ritiene progressista, “borghese” continua a essere un epiteto intriso di connotazioni dispregiative, l’idea stessa di borghesia un Moloch da combattere, da temere, da esorcizzare. 1.4.2. Il mercato Siamo un paese sterile. Non solo non facciamo (quasi) più figli, ma a quei pochi che facciamo non forniamo gli attrezzi per fantasticare. Un rapporto intitolato La circolazione nei cinema dei film europei per bambini, pubblicato dall’Osservatorio Europeo dell’Audiovisivo, rileva che nella decade 2004-2013 l’Italia è all’ultimo posto in Europa nella produzione di film per bambini: solo diciannove titoli in dieci anni a fronte dei centotredici della Germania, degli ottantatré della Francia, dei cinquantotto dei Paesi Bassi o dei quarantasei della Spagna. In percentuale, i film per bambini realizzati in Italia nel periodo preso in esame sono il due per cento della produzione totale, contro il quindici della Germania, il ventidue della Danimarca o il venti della Norvegia (Cfr. 8 ½. Numeri, visioni e prospettive del cinema italiano, n. 18, dicembre 2014, pp. 7 sgg.). Sono dati sconfortanti: il fatto che l’Italia sia agli ultimi posti in Europa anche quanto a produzione di film per bambini, pur in presenza di una fiorente letteratura per l’infanzia, con autori di prestigio internazionale e nonostante l’italianità di alcune icone radicate nell’immaginario infantile (da Pinocchio a Giamburrasca), la dice lunga non solo sull’inconsistenza della nostra industria

culturale, ma anche sull’equivoco su cui è cresciuta la società italiana dal dopoguerra in poi. In Italia, l’ipergarantismo nei confronti dei “produttori” ha finito per schiacciare ogni diritto e ogni aspettativa di utenti e consumatori. Gli esempi possibili sono infiniti: nella scuola, una malintesa tutela dei diritti sindacali degli insegnanti ha schiacciato il diritto dei bambini ad avere un’istruzione efficiente e non travolta dall’assurdo e inconcludente turn over dei precari all’inizio di ogni anno scolastico. Le università, poi, sono cresciute più in funzione degli interessi, delle carriere e delle lobby dei baroni che in vista del diritto degli studenti ad avere una didattica qualificata e programmata sulla base degli interessi di crescita economica e culturale del paese. La giustizia è stata più al servizio di avvocati e magistrati che dei cittadini e della legge, e una riflessione analoga si potrebbe fare per la medicina e – soprattutto – per la pubblica amministrazione. Il cinema non si sottrae a questa “perversione”: da anni – sostengono molti osservatori – il cinema è al servizio più dei cosiddetti autori che degli spettatori. Col risultato che siamo ultimi in Europa nella produzione di film per bambini, e quasi certamente – se si facesse uno studio apposito – risulteremmo analogamente in fondo alla classifica nella produzione di film per teenager, per anziani, per immigrati e così via. Così come da troppi anni abbiamo emarginato la produzione di film di genere, allo stesso modo abbiamo trascurato se non addirittura respinto l’idea che si possano (e forse si debbano) fare film in vista di target specifici. E tenendo conto dei bisogni e delle richieste del mercato. La responsabilità di questo stato di cose deriva in gran parte da quel feticismo dell’autore che dal neorealismo in poi ha dominato (e spesso schiacciato, intimorito, soffocato) il cinema italiano. L’Autore – per lo meno per come il termine è inteso dalla maggior parte di coloro che si autoproclamano tali – non lavora per un pubblico o per il mercato, ma per sé. Lavora per soddisfare le proprie “esigenze espressive” (e – diciamolo – il proprio narcisismo). Quante volte, durante un’intervista o nel corso di una conferenza stampa, si è sentito un supposto “Maestro” dichiarare con solenne e meditabonda convinzione: “Io non penso al pubblico, io i film li faccio per me!” Poco importa che nella maggior parte dei casi il film per sé l’abbia fatto con soldi pubblici: l’Autore non si cura del mercato, dell’economia o del denaro che, si sa, per l’artista è “sterco del diavolo” (salvo poi mettere il broncio e fare il diavolo a quattro se il signor satanasso va a deporre i propri escrementi in un’altra toilette...). Fare un film per bambini, o per young adults, o comunque un film di genere, richiede umiltà. Richiede che l’artista si metta al servizio del pubblico. Che sondi le sue fantasie, che metta in circolo fantasmi, che ecciti desideri. Beninteso: nessuno ce l’ha con gli Autori. Ma un’industria dell’entertainment

degna di questo nome dovrebbe prevedere, accanto al cinema autoriale, anche un cinema che metta al centro il pubblico e i pubblici, un cinema che lasciandosi alle spalle narcisismi e solipsismi più o meno autarchici cerchi di fornire al pubblico gli ingredienti per nutrire l’immaginario e l’immaginazione. Lo snobismo e il sacerdotale distacco con cui troppo spesso intellettuali, critici e professori guardano ai film cosiddetti “commerciali” (quelli concepiti e realizzati per affermarsi sul mercato) è uno dei segni più macroscopici della nostra debolezza. Si riconoscono facilmente i fondamentalisti della “purezza” dell’arte: amano un film solo se sono gli unici ad averlo visto. Quelli che se un film piace a più di venticinque spettatori è inevitabilmente una schifezza. Quelli che dicono che i film non si fanno per il pubblico. Quelli che dicono che tanto il pubblico non capirebbe. Quelli che non capiscono come certi film possano piacere tanto. Quelli che non capiscono come il loro film possa piacere tanto poco. Quelli che dicono di detestare il mercato e le sue logiche perverse ma sono sempre lì a consultare compulsivamente i dati degli incassi. Quelli che vorrebbero sbancare il box office, ma si offendono se definisci “commerciale” il loro film. 1.4.3. L’industria culturale Nella selezione ufficiale della Mostra del Cinema di Venezia del 2019 c’erano due film che avevano come tema i libri: Martin Eden di Pietro Marcello, libero adattamento italo-partenopeo dell’omonimo romanzo di Jack London, e No.7 Cherry Lane, elegante film d’animazione cinese diretto dal regista Yonfan. Fra i due c’è una differenza radicale che va ben al di là delle evidenti diversità tecnico-stilistiche: il primo è un film sugli Autori, il secondo sui lettori. Il film italiano si arrovella senza requie sui tormenti di un genio che non riesce a trovare appagamento nella scrittura, il secondo, invece, prova a riflettere sul rapporto che ogni lettore ha con i libri, sul perché continuiamo a leggere e su cosa fanno i libri (e, per esteso, i film) alla nostra vita. La differenza è sintomatica e rivelatrice: la cultura italiana – quella che di fronte a Martin Eden ha gridato quasi unanime al capolavoro – è ancora legata e forse perfino incatenata al feticismo autoriale più spinto, e non riesce a pensare alla questione del pubblico, a come intercettarlo, a come coinvolgerlo e incuriosirlo, mentre altre culture ritengono che la riflessione sui modi e le forme del consumo culturale sia oggi molto più necessaria e opportuna. Ma non è tutto: Pietro Marcello fa del suo film un pamphlet furibondo contro l’industria culturale, vista come l’origine di ogni male, e contro il successo, dipinto come un virus che rischia di infettare e compromettere definitivamente l’innocenza e la creatività dello scrittore. Con un

dispiegamento di stereotipi impressionante (basti per tutti il finale, con lo Scrittore Tormentato che si getta vestito nel Mare e nuota furente verso il Sole che tramonta all’Orizzonte), Martin Eden è una sintesi a suo modo perfetta della radicale, pervasiva e marmorea diffidenza di tanti intellettuali italiani nei confronti dell’industria culturale: il povero pescatore-scrittore napoletano interpretato da Luca Marinelli si scontra con il mercantilismo dell’editore che è evidentemente lombardo e parla con spiccato accento meneghino, facendosi portatore di interessi “commerciali” che ledono la libera espressione dell’Autore. In un cocktail micidiale di cascami tardo-romantici, turgori fofiani e stanchi furori francofortesi, il film di Pietro Marcello diventa così l’esempio emblematico e paradigmatico di una visione che proclama con solennità di aborrire quel successo che pure intimamente agogna (se non altro perché decide di partecipare a una kermesse come la Mostra del Cinema di Venezia, che è – lo si riconosca o no – un ingranaggio non secondario di una possibile industria culturale e un potenziale trampolino di lancio, appunto, verso il successo). Una così dichiarata e muscolare ostilità all’industria culturale e all’idea stessa che l’arte e la cultura possano essere merci non è tanto dissimile da quella propugnata in questi anni da un intellettuale militante come Tomaso Montanari. In Contro le mostre (Einaudi, 2017), libro scritto a quattro mani con Vincenzo Trione, si lamenta per esempio il proliferare di “mostre non elitarie, rivolte a un pubblico di famiglie, dedicate ad alcune tra le star dell’arte moderna e a movimenti iperpop” (p. 4). Il disgusto per ciò che non è elitario, e per il pubblico di famiglie, trapela palese: l’arte non è per tutti, che le famiglie vadano al luna park o al centro commerciale. Poco oltre, queste mostre “generiche” e “superficiali” vengono descritte così: “Mediocri, raccogliticce, addirittura inutili, dannose e diseducative” (p. 5). O ancora: “occasionali e semplici: capaci cioè di assecondare un desiderio esteso di intrattenimento pseudocolto” (p. 6). L’intellettuale progressista engagé coglie un “desiderio esteso”, ma invece di farsene carico e di offrire una risposta al bisogno popolare di intrattenimento, si allontana sdegnoso da quelli che definisce “territori di svago” (p. 6), non cercando in alcun modo di dissimulare il suo aristocratico disprezzo per tutto ciò che ha successo al botteghino (p. 8), per il marketing (p. 12) e per la possibilità che l’arte abbia anche un valore commerciale. L’idea che l’arte sia “una merce che può essere alienata, scambiata e, talvolta, addirittura venduta” è giudicato come “un vero atto di simonia: commercio peccaminoso di beni sacri” (p. 15). Con la scusa di preservare il patrimonio artistico dalla profanazione delle masse, e di voler “scoraggiare, o non ammettere, le forme di fruizione più passive e inerti”, con un tono che riecheggia il Vargas Llosa di La civiltà dello spettacolo ma declinato su un registro intriso di giacobinismo talebano, Montanari auspica

che si facciano solo “mostre necessarie”, cioè progettate e guidate e garantite dalla corporazione degli accademici e degli storici dell’arte: ancora una volta, i chierici pretendono di essere le Vestali della Verità e i Gendarmi del Gusto. Se l’Italia è il paese culturalmente anoressico che abbiamo descritto all’inizio di questo libro, se l’ignoranza dilaga, se la frattura fra intellettuali e popolo si fa sempre più drammatica e lacerante è anche per il prevalere di posizioni come queste, e per il consenso di cui continuano a godere presso i ceti colti e nelle stanze del potere. Arroccati nei propri privilegi e finanziati quasi sempre con denaro pubblico, gli intellettuali italiani non hanno capito che il problema, da noi, non è l’industria culturale, ma la sua assenza. O forse l’hanno capito fin troppo bene: tanto da ingenerare il sospetto che la loro acrimoniosa battaglia contro tutto ciò che è “popolare” e “commerciale” non sia che l’ennesima strategia per continuare a essere gli unici depositari della ricchezza, materiale e immateriale, che arte e cultura garantiscono a chi ne dispone.

PARTE SECONDA ATTREZZI DEMOCRATICI PER FANTASTICARE. ARTEFATTI ESEMPLARI DELLA POP CULTURE ITALIANA

2.1 CAVALCARONO INSIEME Tex Willer e una serialità lunga settant’anni

2.1.1. Un eroe dai mille volti È uno dei personaggi più radicati nell’immaginario collettivo italiano. Duttile e poliedrico, ha attraversato indenne i corsi e i ricorsi della storia recente, dal dopoguerra al boom economico, dal ’68 al riflusso e al neoliberismo degli anni ottanta, via via fino alla rivoluzione tecnologica e alle mutazioni antropologiche del nuovo millennio, offrendo a ogni epoca e a ogni generazione forti elementi di identificazione e di suggestione partecipativa. C’è chi ne ha apprezzato l’individualismo romantico e chi il pragmatismo bistecca-e-patate, chi il ruolo di giustiziere dal grilletto facile e chi quello di amico e protettore degli indiani, chi l’efficientismo decisionista e chi il solidarismo riformatore, chi l’amore per l’avventura e chi la sostanziale estraneità al calcolo economico. Per più di settant’anni, Tex è stato un contenitore dei possibili, un bignamino dei sogni, un archetipo italiano dell’avventurosità. E un modello subliminale del comportamento di massa: 500.000 copie vendute in media ogni mese, con punte di 650-700.000 nel corso degli anni settanta. Con una simile diffusione, capillare, radicata, costante nel tempo, Tex ha insegnato a intere generazioni di italiani a “sognare a occhi aperti”, restando sostanzialmente fedele a se stesso, alle sue radici londoniane, al suo linguaggio castigato, alla sua etica ruvida ma candida: quasi un campbelliano “eroe dai mille volti” sottoposto a una vigorosa reductio ad unum e tuttavia capace di rivelare a ogni lettore un volto ogni volta nuovo e diverso. Se non fosse per il toponimico che ne rivela l’inequivocabile provenienza texana, verrebbe quasi la voglia, come proponeva qualche anno fa Ranieri Carano,1 di considerarlo come uno dei pochi, autentici prodotti nazionalpopolari della nostra cultura recente. Anche se, di fronte a tale opinione, c’è da scommettere che Tex rimarrebbe allibito e reagirebbe forse con una delle sue rudi invettive contro gli “imbrattacarte da strapazzo” che invano riempiono il

mondo di chiacchiere e parole. 2.1.2. Da Porta Ticinese al West Tex nasce nel 1948 a Milano, su soggetto e sceneggiatura di Gian Luigi Bonelli e disegni di Aurelio Galleppini (Galep).2 Nell’atmosfera burrascosa e barricadera del secondo dopoguerra, il fumetto bonelliano non solo rappresenta il correspettivo popolare di quell’”infatuazione” per l’America che si era già manifestata, qualche anno prima, con le scoperte di Pavese e Vittorini, ma rivela anche una singolare sensibilità nel cogliere e riproporre alcune delle speranze e dei fermenti tipici di quel clima politico e sociale. Gli atteggiamenti antistituzionali, il ribellismo out-law, i riferimenti alla guerra partigiana affiorano infatti con una certa frequenza nelle prime avventure texiane accanto a comportamenti di spregiudicata apertura antirazzista nei confronti degli indiani. Si tratta, certo, di una stagione fugace. Il moralismo degli anni cinquanta contagia ben presto anche il fumetto bonelliano, che in qualche modo si adegua al generale clima involutivo. Col trionfo del centrismo e di fronte a un moderatismo politico sempre più accentuato, Tex cessa di essere un fuorilegge e diventa un ranger. Con quel che ne consegue: le battute antigovernative scompaiono, le scene truculente risultano mitigate, il linguaggio ripulito, le irriverenze purgate.3 In un periodo in cui i ministri schiaffeggiano pubblicamente le signore scollacciate e il décolleté è bandito dalla televisione, anche le ristampe delle prime strisce di Tex subiscono singolari forme di censura additiva, soprattutto per quanto concerne la raffigurazione dell’immagine femminile: le gonne delle squaw si allungano; gambe, braccia e schiene nude sono pudicamente (e goffamente) ricoperte; ogni corpo di donna è castigato e rivestito. Anche Tex, per sopravvivere, accetta il “Codice morale dei fumetti”4 proposto dalle associazioni cattoliche ed esibisce in copertina il marchio GM (Garanzia Morale) che rassicura cautelativamente i genitori sul fatto che “il contenuto della pubblicazione” non costituisce “in alcun modo un pericolo per la formazione morale dei giovani lettori”. Atteggiamenti di maggiore spregiudicatezza e di più estrosa libertà inventiva ricompaiono negli albi della seconda metà degli anni sessanta: il personaggio si schiera più apertamente a fianco degli indiani e manifesta opzioni più esplicitamente antirazziste, non disgiunte talora da prese di posizione intrise di anticapitalismo romantico. Il resto è storia recente: le generazioni del ’68 e del ’77 instaurano con l’eroe bonelliano un ambivalente rapporto di odio e amore, i giornali della sinistra antica e nuova, da Lotta continua a l’Unità, gli dedicano un’attenzione crescente,

i dibattiti si moltiplicano e assumono toni spesso aspri e accesi.5 Panorama arriva a titolare “Ma Tex ucciderebbe Cossiga?”:6 è l’apice della polemica e dell’utilizzazione politicoemozionale di massa del personaggio. Poi, con gli anni ottanta, anche Tex rientra nei ranghi e subisce un processo di “neutralizzazione” ideologica. Ogni elemento tale da ostacolare, anche solo potenzialmente, la penetrazione del prodotto sul mercato interno e internazionale (Tex è ormai tradotto e diffuso in Svezia, Finlandia, Norvegia, Jugoslavia, Brasile, Grecia, Turchia, Spagna e in molti altri paesi) viene espunto e anche su Tex cala inesorabile il vento del mercato. Intanto, però, il curriculum del personaggio si è fatto corposo e può vantare credenziali di tutto rispetto: per alcuni decenni Tex ha saputo registrare, in un diagramma cauto ma sensibile e puntuale, le oscillazioni, gli umori, le speranze e le emozioni della nostra storia. E lo ha fatto, come si diceva, restando sostanzialmente uguale a se stesso, al proprio codice etico, al proprio empirismo sbrigativo. Certo, rispetto alle prime avventure qualche cambiamento, soprattutto sul piano strutturale, è intervenuto: i primi albi (stampati in formato “striscia” per poter essere nascosti fra i libri di scuola dei giovani lettori, spesso costretti – loro malgrado – a una lettura clandestina) affabulavano infatti intrecci secchi e veloci, incastrati l’uno nell’altro e intrisi di un effettismo da feuilleton pieno di agnizioni, travestimenti, vedove da proteggere e fanciulle da salvare; gli albi successivi, al contrario, mostrano maggior sapienza costruttiva, sono più compatti nell’intreccio, più parchi nell’uso di sparatorie e duelli,7 più abili nella costruzione della surprise e nella produzione della suspense. Si assiste insomma a una contrazione dell’appendicismo originario e a una dilatazione delle peripezie picaresche del personaggio, quasi che, col passare degli anni, Bonelli abbia cercato di marginalizzare le componenti alla Robin Hood del primo Tex e certi suoi atteggiamenti da nipotino di Eugène Sue armato di colt e winchester, per insistere invece maggiormente sull’epos cavalleresco dell’eroe e sulla sua “chanson de geste” in forma di saga. Anche la grafica subisce, col trascorrere del tempo, assestamenti e ritocchi: nei primi albi il tratto è rapido e sbrigativo e lo stesso Tex sembra non avere un volto immediatamente riconoscibile: “arriva e schizza via, portandosi dietro paesaggi improbabili e veloci come una zoomata di Easy Rider.”8 Poi anche il segno si fa più “svelto, morbido ed elegante”,9 diventa efficace e realistico, immediatamente leggibile, sempre funzionale alla scorrevolezza narrativa senza per questo rinunciare a virtuosismi di gusto onirico e visionario. Nonostante questi aggiustamenti marginali, la ricetta di base rimane inalterata, fedele alle intuizioni originarie e tale da garantire il prolungato consenso dei lettori. Ma quali sono gli ingredienti di fondo del balloon bonelliano? Quali i suoi modelli portanti e le intuizioni che lo rendono possibile?

Nella genesi di Tex è da rilevare innanzitutto una spregiudicata operazione di contaminazione transmediale. Ispirandosi ad alcuni modelli letterari facilmente individuabili ed esplicitamente riconosciuti (Jack London, Zane Grey, Donn Byrne, Rider Haggard, ma anche la tradizione appendicista alla Dumas e quella dei “superuomini” del romanzo popolare), Bonelli li riplasma entro gli scenari leggendari del cinema western americano degli anni quaranta, vi aggiunge la lezione grafica e la sapienza artigianale di alcuni maestri-figurinai del fumetto italiano come Rino Albertarelli e Walter Molino10 e infine miscela il tutto ricollegandosi all’unica grande tradizione seriale della nostra letteratura: quella di Salgari e dei suoi romanzi d’avventura. A derivarne, come è stato giustamente osservato, è per l’appunto una “sterminata epopea salgariana”11 in chiave western, capace di contaminare allegramente i generi più diversi (dal gotico al thriller, dal fantastico all’esotico) sullo sfondo di una scansione serializzata che sollecita incessantemente il lettore alla riproduzione del consumo. Tex, insomma, nasce all’insegna del pastiche realizzato attraverso sfrenati processi di ibridazione tesi a fondere e a sovrapporre i codici narrativi più disparati, dall’epico all’euristico, dall’ermeneutico all’avventuroso. Nella caratterizzazione del personaggio protagonista, per esempio, Bonelli accumula un po’ di John Wayne e di Tom Mix, qualche vago richiamo al Parsifal, un pizzico di “sapere indiziario” alla Sherlock Holmes, qualche frisson alla Sandokan e forse addirittura, secondo alcuni, una lungimirante e muscolosa anticipazione dello spielberghiano Indiana Jones.12 Ce n’è quanto basta per accontentare davvero tutti i gusti, all’insegna di una torrentizia fantasia narrativa che riesce a fondere brani e frammenti di immaginario e avventuroso, amalgamandoli in una miscela dal sapore inedito avvincente. Ma non è tutto. Nella genesi di Tex è attiva anche un’altra componente, troppo spesso dimenticata o sottovalutata: la sua milanesità. Tex è inconcepibile al di fuori del contesto ambrosiano, sia per quanto concerne le scelte produttive che l’hanno originato, sia in relazione alla definizione tipologica del personaggio protagonista. Tipicamente milanese è per esempio quel gusto del lavoro ben fatto, pieno di puntiglio artigianale, di spregiudicatezza imprenditoriale, di coraggio e managerialità che caratterizza l’impresa editoriale dei Bonelli, straordinaria dynasty familiare all’italiana con la cui sterminata produzione bisognerà, prima o poi, fare i conti anche criticamente. Ma milanese, in qualche modo, è anche il personaggio-Tex. Sempre. Anche quando i saloon di Galleppini cessano di assomigliare ai trani di Porta Ticinese per adeguarsi con maggior rigore iconografico ai leggendari locali del West, Tex mantiene tra i suoi connotati di fondo quel pragmatismo, quell’empirismo e quel culto dell’operosità e dell’onestà che sono da sempre tipici della mitologia ambrosiana.13 Per non parlare dell’esaltazione del buon senso che Bonelli

attribuisce con inusitata frequenza al dialogato sentenzioso del suo personaggio protagonista, col risultato paradossale di riproporre sotto i panni dell’avventura il culto cauto e assennato della meno “avventurosa” tra le virtù storiche dell’ethos lombardo. 2.1.3. Vir, Senex, Puer e Socius Dopo più di settant’anni di avventure, ciò che prima di tutto continua a colpire in Tex è la polivalenza funzionale dell’eroe, la pluralità dei ruoli che Bonelli e i vari sceneggiatori riescono ad attribuirgli. Di volta in volta fuorilegge e tutore della legge, bianco ma amico degli indiani e addirittura capo carismatico delle tribù navajo con l’appellativo esotico di “Aquila della notte”, Tex riassume in sé connotati ideologici e comportamentali diversificati e tali da renderlo bene accetto a ogni tipo di lettore. Non solo. La cooptazione nel ruolo protagonistico dei tre pards (il figlio Kit, l’amico Carson e il navajo Tiger Jack) che di volta in volta accompagnano Tex nelle sue cavalcate e nelle sue avventure contribuisce ad arricchire ulteriormente il modello attanziale del fumetto, strutturandolo attorno a un nucleo quadripartito che, oltre a celebrare l’etica cameratesca del Sodalizio Maschile,14 offre al lettore plurime e intermittenti possibilità di identificazione, di proiezione empatica o addirittura di “tifo”. Accanto al vir (Tex), abbiamo cioè il puer (Kit), il senex (Carson) e il socius (Tiger), legati da una compresenza cooperativa che consente di sezionare il ruolo protagonistico e di dinamizzarlo in base a criteri cautamente oppositivi (vecchio-giovane, indiano-bianco, padre-figlio, zio-nipote) per ricomporlo poi in maniera unitaria ed emotivamente coesa grazie al solidarismo effettuale che invariabilmente lega l’azione dei quattro personaggi. Il lettore si trova di fronte alla possibilità di operare identificazioni diversificate e mobili, ovvero all’opportunità di innescare spostamenti di investimento emotivo dall’uno all’altro dei quattro poli in cui si diffrange il ruolo protagonistico. Come se ciò non bastasse, il sistema dei personaggi bonelliani prevede, a intervalli alternati, la comparsa di un certo numero di figure minori recursive che, sia in ruoli antagonistici che in posizioni coadiuvanti, consentono di incrementare e variare ulteriormente la struttura e la composizione del frame. In ognuno di questi personaggi il lettore è sollecitato a trovare suggestioni diverse e ripetutamente riproposte: il ritorno ciclico di una malvagità diabolica e mai completamente sopprimibile in Mefisto e Yama; il fascino misterico della magia bianca, delle scienze occulte e di un esoterismo alla Castaneda in El Morisco; la smargiasseria del gigante buono, rodomontesco e gentile in Gros-Jean e nell’erculeo Pat; la retorica dell’amicizia, della fedeltà e

della riconoscenza virile nel caballero Montales, nella Giubba Rossa canadese Jim Brandon o nel burbero Tom Devlin, capo della polizia di San Francisco. Certo: nessuno di questi personaggi presenta spessore psicologico, tutti incarnano ruoli stereotipati. Ma il mondo di Tex è una saga. E come affermano Scholes e Kellogg “le saghe non si propongono mai di penetrare all’interno dei personaggi. Vi compaiono soltanto le loro parole e le loro azioni, il pensiero non vi è mai analizzato”.15 Ciò vale, ovviamente, anche per Tex. Come ogni eroe epico e ciclico, anche Willer è privo di problematica interiore e la sua “anima” si svolge tutta, immediatamente, in praxis, in pura e frenetica azione. Tex agisce sempre in armonia con un principio sociale, in nome di un ordine superiore in cui si identifica e che tutela la sua azione dal rischio dell’insuccesso. Nessuna frattura interiore, nessun dubbio, nessun amletismo: Tex è tutto nel suo agire, ogni suo logos non può che risolversi ed esprimersi direttamente in gestualità operativa. Ciò rinvia ovviamente non solo alla tipologia archetipa dell’eroe nel cinema western,16 ma – ancora più a monte – a uno dei connotati di fondo dell’epopea. Ha acutamente osservato Raymond Bellour che “se il western, per natura storica, non è che la nostalgia dell’epopea tradizionale, esso opera sovente sul piano dei valori in maniera similare”.17 Sono parole che si adattano alla perfezione anche a Tex Willer e all’aura epica in cui il gusto bonelliano delle narrazioni open space cerca di calare il personaggio. Se è vero, come diceva Lukács, che nel mondo dell’epopea “essere e destino, avventura e successo, esistenza ed essenza sono [...] nozioni identiche”,18 il mondo di Tex è, prima di tutto, un mondo epico, sia pure sotto il segno di un epos degradato e contagiato dalle spinte centrifughe di un desiderio sfrenato di evasione e di avventurosità. 2.1.4. Strutture temporali e coordinate spaziali Come ogni epopea, anche i balloon bonelliani si fondano su una sostanziale rimozione della nozione di tempo. Impossibile riordinare cronologicamente le avventure di Tex, utilizzando i riferimenti storici oggettivi che qua e là affiorano sullo sfondo delle sue gesta: Tex si muove in un universo diegetico assolutamente privo di sviluppo diacronico progressivo. Se nei primi albi, ancora in fase di rodaggio, è evidente il tentativo degli autori di introdurre nelle didascalie degli entrelacements temporali tra la fine di un’avventura e l’inizio di quella successiva (“Due mesi dopo la sua ultima avventura”; “Non è passato molto tempo da quando...”), con la progressiva stabilizzazione degli intrecci si assiste, almeno a livello della macrostruttura seriale, a un’oggettiva eliminazione delle connessioni temporali o del “tempo del racconto” inteso come

progressione, sviluppo ed evoluzione. Le avventure texiane paiono insomma spaziare in un continuum temporale che non conosce prima e dopo se non entro la dimensione ridotta dell’intreccio di ogni singola “storia”. Così, se il primo albo di Tex indica il 1898 come anno di svolgimento della vicenda narrata (cfr. “La mano rossa”, Tex n. 1, p. 35), soltanto pochi albi dopo siamo proiettati analetticamente nel 1861, con Tex e i suoi pards alle prese con l’inizio della guerra di secessione (cfr. “Gli sciacalli del Kansas”, Tex n. 17, p. 154 sgg.). Successivamente, nel dopo del nostro tempo di fruizione, assistiamo ad avventure che paiono collocarsi indifferentemente prima o dopo tale data, per tornare infine, quasi quarant’anni dopo, ancora alla guerra di secessione (cfr. “Territorio nemico”, Tex n. 298, e “Fuga da Anderville”, Tex n. 299). Il tempo appare a Tex come un serbatoio inesauribile di possibilità avventurose, una rete di polarità cronologiche che il personaggio è portato a ripercorrere a più riprese e senza alcun rispetto, appunto, per la cronologia. In Tex il tempo agisce come motore di ogni singolo récit, ma non della struttura complessiva della serie. Lo stesso protagonista, del resto, pare muoversi, come ogni eroe epico, al di fuori del tempo, in un presente evenemenziale dotato di più dimensioni, ma privo di direzione: in un tempo cioè in cui si ritrova sì “una successione di momenti, ma non una progressione della durata”.19 In questo contesto, il tempo “storico” di ogni singolo racconto appare di volta in volta come il polo di convergenza di un passato mitico, o come l’anticipazione profetica di un fantascientifico avvenire. Nel presente di Tex riemerge il passato più arcaico, confluiscono riti e intrighi che rinviano alle mitologie dell’antico Egitto o ai culti perduti del popolo azteco, così come appaiono figure “aliene” provenienti da un ipotetico futuro. Il tempo di Tex mira alla totalità, è il luogo di una ripetizione infinita: quella degli stessi gesti e riti che consacrano un ordine senza sosta minacciato e ristabilito. Ogni episodio della serie inizia in medias res: coniugato al presente, ingloba sempre almeno un’analessi rivolta al passato (un personaggio che riconvoca la fabula assente) e un’intenzionalità profilattica indirizzata al futuro (la lezione che Tex intende impartire affinché il futuro non sia minacciato dalle ombre che incombono sul presente narrativo e che affondano le loro radici nel passato, nel tempo antecedente all’intervento texiano). Di fatto però ogni futuro (l’episodio successivo, l’istante successivo) ripresenterà sempre le stesse ombre e rivelerà una sostanziale omologia proprio con il passato: a sancire definitivamente la ciclicità del ritorno come struttura portante del tempo narrativo. Come in ogni narrazione seriale e come nel western hollywoodiano, anche il mondo di Tex non conosce la morte. Tex non muore mai, non può morire. Ma non possono morire neppure i suoi pards, i suoi amici, i suoi antagonisti. Neppure Mefisto muore mai davvero e continua anzi, anche dall’aldilà, a

interferire con la vita degli eroi. Le uniche due vere morti che segnano il mondo bonelliano (quella dei genitori di Tex e quella di Lilith, la sua giovane moglie indiana) appartengono all’archeologia del personaggio, delineano le condizioni che lo rendono possibile, si collocano sempre – salvo i primissimi numeri – in un a priori temporale rispetto all’azione in atto nel momento in cui leggiamo. Non a caso gli albi che rievocano questi due eventi luttuosi (“Il passato di Tex”, Tex n. 83: morte dei genitori; “Il giuramento”, n. 104: morte di Lilith per epidemia di vaiolo propagata intenzionalmente dai nemici di Tex) sono praticamente gli unici che presentano una struttura totalmente analettica e che risultano narrati da un personaggio omodiegetico e non dal solito punto di vista eterodiegetico e onnisciente. In tutti gli altri albi Tex, i suoi pards e il loro mondo appaiono immuni di fronte alle insidie del tempo e della morte. Perennemente condannati a incontrare pallottole che li colpiscono solo di striscio alla tempia, o a essere catturati da avversari che, per prolungare il piacere della vendetta, forniscono agli eroi il tempo necessario per la fuga e la salvezza, Tex e i suoi pards evitano la morte vivendole a fianco, la esorcizzano immergendosi nell’onnipresenza della sua minacciosità. Quanto al fatto che poi, in questo universo privo di temporalità, la sopravvivenza appaia legata a fattori squisitamente temporali come la velocità nell’estrarre la colt e la capacità di far fuoco almeno un centesimo di secondo prima dell’avversario, costituisce – come ha notato Bernard Dort – un paradosso solo apparente: in realtà è sempre “Lo stesso centesimo di secondo che ritorna”, ascrivendo anche la propria infinitesimale temporalità all’ordine ciclico del mito.20 La tecnica narrativa bonelliana attua insomma una riconversione del tempo storico in topos mitico: il tempo di Tex diventa un cronotopo del possibile, quasi una sorta di gigantesco contenitore in cui tutti gli incontri sono legittimi e tutti gli eventi plausibili e ripetibili. Del resto, accanto al tempo, anche lo spazio appare in Tex privo di direzioni, iperdilatato, ubiquitario, incessantemente percorribile. E la geografia texiana, non a caso, si offre all’incanto del lettore quasi come un atlante universale di topografia fantastica. Se è vero che gli intrecci – come gli stessi autori hanno più volte ribadito – si fondano sempre, preliminarmente, su uno studio quasi maniacale dei dati geografici oggettivi e comprimono entro mappe e piantine “realistiche” il territorio dell’avventura, è anche vero che lo spazio individuato da tali coordinate non è che una “simulazione di realtà territoriale”21 oltre la quale la totale immaginarietà del western reinventato da Bonelli e Galleppini ha modo di scatenarsi appieno. La topografia texiana non si limita infatti a ricalcare dal western cinematografico la mitologia dei grandi spazi, il gusto del plein air, delle lande inesplorate e delle vaste solitudini tanto caro a John Ford come a Howard Hawks, ma complica le proprie scenografie con elementi esogeni, attinti

da tradizioni iconografiche e paesaggistiche diverse. Così, oltre ai luoghi stereotipici dello scenario western (la prateria, il deserto, la sierra, la foresta, la vallata, il canyon, il villaggio), il mondo di Tex assembla e accoglie scenografie gotiche e panorami fantastici, conducendo turisticamente il lettore entro paesaggi fatti da ponti sospesi sull’abisso, foreste pietrificate, crateri spenti, vallate ombrose, pietre zoomorfe, giungle inesplorate, mari in tempesta, grotte sotterranee, pozzi senza fondo e anticamere dell’inferno. Né meno varia è la geografia umana con cui Tex entra in contatto. L’America di Bonelli sembra un frenetico melting pot ad alto tasso di conflittualità, in cui si incontrano non solo prevedibili yankees incattiviti, messicani testardi o pellerossa alteri, ma anche miriadi di irlandesi, canadesi, greci, cinesi, africani, russi, vichinghi, aztechi: un formicaio di etnie, dunque, o un puzzle in cui pullulano minoranze di ogni tipo e sacche di marginalità miracolosamente sopravvissute all’erosione del tempo. Una simile “abbondanza” non è attribuibile soltanto all’esigenza seriale di variare gli elementi secondari del plot, quanto piuttosto al desiderio di attuare un ampliamento topografico dei margini dell’avventura. Nello spazio, come nel tempo, il mondo di Tex accetta come frontiera unicamente se stesso: non tollera limiti o confini, aspira alla totalità e all’illimitata percorribilità. Anche se poi finisce per celebrare – questa volta sì in maniera paradossale – il diritto di ogni singolo colono a piantare staccionate e a rivendicare il possesso dello spazio occupato prima degli altri, reintroducendo in tal modo la logica della proprietà privata anche in un microcosmo narrativo che, proprio per la sua illimitata disponibilità spazio-temporale, pareva destinato a restarne immune. 2.1.5. Pragmatismo, efficientismo e moralità Sul piano ideologico, Bonelli fonde nel personaggio di Tex le due figure antagoniste di ogni western classico: quella del cowboy, picaresco e solitario avventuriero della frontiera, e quella dello sceriffo, rude tutore delle prime forme di embrionale legalità collettiva. In tutta la tradizione del cinema western queste due figure si contrappongono e si combattono, incarnando due ordini differenti: l’ordine antico delle piste e delle mandrie, l’ordine nuovo dei coloni e delle recinzioni. Tex, al contempo ranger e fuorilegge, rispettoso della legalità nei fini, ma antilegalitario nei metodi e nei mezzi, è partecipe di entrambi gli ordini, viaggia sempre a zig-zag sul loro punto di congiunzione e di sutura, è il tentativo vivente di farli convivere e di convertirli l’uno nell’altro. Tex, insomma, è al contempo Wyatt Earp e Doc Holliday, Pat Garrett e Billy The Kid: fonda in un unico corpo e in una sola prassi una tipologia tradizionalmente antitetica e

bicefala. Più che una contraddizione, tale connotato costituisce la peculiarità produttiva, anche se paradossale, del personaggio bonelliano. L’azione di Tex tende infatti a dimostrare che iniziativa individuale e legge collettiva non si escludono più, sono conciliabili e integrabili: nelle atmosfere old fashion del lontano West, ma anche nello scenario epocale dell’Italia contemporanea. Per questo Tex difende sì l’ordine dei coloni, il diritto a “un ranch per tutti” nell’utopia di una società di piccoli proprietari; ma nello stesso tempo difende anche le compagnie ferroviarie e il sogno di unificare il grande paese superando particolarismi territoriali ed egoismi municipalistici. Il rispetto degli imperativi categorici della legge collettiva si sposa in lui a una difesa a oltranza dell’iniziativa individuale, dello spirito di intraprendenza del piccolo colono. Definire tale posizione “reazionaria”, come pure è stato fatto,22 pare francamente ingeneroso. Il connotato comportamentale più evidente dell’eroe bonelliano è infatti rintracciabile, più che in una presunta ideologia antiprogressista o nostalgica, nel pragmatismo spiccio che caratterizza la sua azione, nell’insofferenza nei confronti di ogni impaccio burocratico e di ogni formalismo paralizzante, nella polemica contro i “politicanti”, gli “scaldasedie”, gli “imbrattacarte” e le loro pastoie legali. Tex è l’eroe di una prassi empirica e sbrigativa, cautamente machiavellica sul piano metodologico se non su quello teorico,23 tendente a ottenere il massimo risultato con il minor spreco di energie. Un esempio di dialogo bonelliano può essere utile a chiarire il discorso: CARSON: Sarà come cercare un ago in un pagliaio! TEX: Semplice: basta dar fuoco al pagliaio e passare una buona calamita fra le ceneri.

Stupefacente: come risolvere un problema dando fuoco all’oggetto che lo costituisce. Il metodo potrà lasciar perplessi, ma la logica è ineccepibile. E redditizia: l’improduttività estenuante dell’antica quête cavalleresca è superata da Tex una volta per tutte attraverso un attivismo decisionista che affronta i problemi a colpi di incendi e di dinamite. Tex ritiene che il fine supremo del trionfo della giustizia consenta il ricorso a “scorciatoie” non del tutto ortodosse: “A volte la strada della giustizia è dannatamente lunga e tortuosa; e se ci si ostina a percorrerla tutta c’è il rischio che i criminali abbiano il tempo di squagliarsela” (cfr. “Alleati pericolosi”, Tex n. 273, p. 96). Un simile elogio della scorciatoia operativa sfocia non tanto in un giustizialismo di maniera, quanto piuttosto in un protagonismo empirico e mediatore, più connotato dal culto bonelliano dell’efficienza che da nostalgiche aspirazioni all’ordine. Tanto più che Tex è da sempre anche un prudente ma convinto difensore della modernità: rispetta le tradizioni folkloristiche dei popoli pellerossa, ma non tollera i riti

arcaici, le superstizioni idolatriche, i sacrifici umani. Preferisce il mustang o la diligenza al treno, ma riconosce l’utilità delle grandi ferrovie. Non ama gli “imbrattacarte”, ma si batte fino in fondo per garantire la libertà di stampa e il diritto dei giornali a dire la verità. Predilige la vita rustica all’aria aperta, a contatto con la natura e con i grandi spazi della prateria, ma riconosce anche il ruolo insopprimibile e ormai centrale della città. Ama le amicizie spontanee con le figure tipiche del vecchio West, ma poi trova le alleanze migliori con figure professionali “moderne” come giornalisti, medici, ingegneri. È un maestro del combattimento corpo a corpo, del duello individuale, della sfida tête-à-tête, ma poi mostra abilità strategiche degne di Von Clausewitz e applica le più moderne tattiche di guerriglia con la sicurezza e la nonchalance di chi sia andato a lezione da Ernesto Che Guevara. In questo contesto, il suo cipiglio brusco e volitivo, il gusto dell’azione veloce, la predilezione per un linguaggio che spesso disdegna le parole per ricorrere all’uppercut o al colpo di pistola come apotropaica figura di discorso, o come forma retorica di una peroratio o di una captatio benevolentiae che mira sempre al massimo di persuasività, sono tutti elementi che si iscrivono nel medesimo orizzonte e che fanno del personaggio bonelliano il paradigma moderno di un pragmatismo politico riformatore o addirittura – secondo l’acuta proposta di Tiburzi – l’ipostasi vivente di una rinnovata funzione dello Stato. Tex si batte sempre contro “l’attività appetitiva degli uomini nel momento in cui sorpassa certi limiti determinati”.24 I suoi avversari sono sempre anche nemici pubblici: banchieri, latifondisti, faccendieri, tirannelli di paese, incarnazioni plurime di un paleo-capitalismo vorace e asociale, di una dilatazione ipertrofica dell’interesse privato, di una brama incontenibile di accumulazione “primitiva” del capitale. Attribuendo a simili personaggi il ruolo istituzionale e reiterato di antagonisti dell’eroe, il fumetto bonelliano veicola al lettore italiano un messaggio oggettivamente statalistico. Ha detto bene Tiburzi: “L’indicazione che sale da questo fumetto di massa è quella di uno Stato, di un potere pubblico che restando tale batte il privato sul suo stesso terreno, l’efficienza.”25 Vero. E molto ambrosiano. Ma non sufficiente, non esauriente. L’apologia dell’efficienza e la fiducia (ancora una volta “lombarda”) nell’onnipotenza della volontà (per Tex “volere è potere”, sempre, senza mediazioni) si coniugano in Tex con una sorta di investitura provvidenziale e fatalistica che attribuisce al personaggio il ruolo implacabile e inevitabile di annunciatore del Destino. Tex non è solo un efficiente funzionario statale capace di battere “furfanti” e “ribaldi” usando astuzia, prudenza, intelligenza, velocità. Queste doti non basterebbero a farne un eroe. Il fatto è che Tex invece è anche un messaggero dell’Ethos in missione speciale nel mondo. È l’uomo che arriva sempre al punto giusto nel momento giusto: quasi una sorta di biblico eroe

protetto da una sfacciata invulnerabilità che ne rafforza il carisma e ne ingigantisce la statura. Ma attenzione: la sua non è un’invulnerabilità esplicita e sancita a priori come quella di Achille nel poema omerico. Piuttosto è un’invulnerabilità iscritta a livello subliminale nel patto narrativo. Il lettore sa che, per quante peripezie possa affrontare, Tex riuscirà sempre in qualche modo a cavarsela, a garanzia della serialità della sua esistenza e della riproducibilità del suo consumo, ma anche, forse, del desiderio del lettore di veder riconfermata la propria fiducia nella possibilità di raddrizzare sempre e comunque le ingiustizie del mondo. Piccoli gesti apparentemente casuali, micro-espedienti narrativi iterati garantiscono a Tex la possibilità di uscire incolume da qualunque pericolo: così, come si diceva, le pallottole possono anche colpirlo, ma inevitabilmente di striscio alla tempia. Gli avversari possono anche catturarlo, imprigionarlo, assediarlo: ci sarà sempre un coltello, un errore, un passaggio segreto a offrirgli l’opportunità della fuga. E per quanti attentati si organizzino contro di lui, il lettore sa già a priori che al momento giusto Tex compirà inavvertitamente il gesto salvifico: un leggero spostamento casuale – per accendersi una sigaretta, per accarezzare un cane, per versarsi da bere gli eviterà l’Incontro con il proiettile fatale e gli garantirà quell’invulnerabilità che il lettore pretende dall’eroe. Invincibile e invulnerabile, Tex agisce dunque per conto di un sistema etico collocato su un piano assiologico superiore a quello dei suoi antagonisti. Le motivazioni che lo spingono all’azione non sono mai politiche, ideologiche, economiche, razziali: rinviano piuttosto a un elementare buon senso morale fondato su una dicotomica suddivisione fra “galantuomini” e “furfanti”. Quando, all’inizio della guerra di secessione, il giovane Kit chiede al padre da che parte si schiererà, Tex – svelando candidamente la matrice prepolitica della propria prassi – risponde: “Per i deboli e gli oppressi, figlio mio! Non certo per un branco di sporchi e ignobili politicanti” (cfr. “Gli sciacalli del Kansas”, Tex n. 17, p. 157). Che poi Tex finisca per schierarsi dalla parte “giusta” (col Nord, contro il razzismo fondiario del Sud) è elemento che ancora una volta compete all’eticità del personaggio più che alla sua ideologia. Analogo discorso vale per le prese di posizione nelle controversie razziali. Tex non è mai a priori a favore o contro gli indiani, ma distingue fra i buoni (quelli ormai consapevoli che i visi pallidi sono “numerosi come cavallette” e che è pertanto illusorio – anche se moralmente giusto – ribellarsi al loro dominio) e i cattivi (i ribelli irriducibili, quelli ancora legati al “folle disegno” di sterminare i discendenti degli antichi conquistadores), secondo una tassonomia dicotomica che, pur non disdegnando le argomentazioni di un cinico “realismo” politico, tuttavia le riassorbe entro la maschera di un’esibita e costitutiva eticità.26 È proprio in base al suo superiore interesse morale che Tex legittima le sue scelte e le sue vittorie, sempre. Del

resto, i nemici contro cui si scontra non sono mai “leggendari”, né posseggono quell’aura di angeli caduti o di romantici guerrieri che circondava alcune delle più note figure “storiche” di fuorilegge o di ribelli del West. Tex non trova mai sulla sua strada antagonisti del calibro di Geronimo o di Jesse James: piuttosto ha a che fare con tozzi sicari bianchi prezzolati o con piccoli pellerossa megalomani e avventuristi che manifestano immediatamente, fin dai tratti fisionomici più evidenti, la loro appartenenza alla categoria dei villains. In una situazione quasi sempre caratterizzata dalla latitanza della legge e delle figure istituzionalmente delegate a rappresentarla (“Lo sceriffo? Fa conto che non esista!”, Tex n. 100, p. 76), a fronte di un ordine quasi sempre incrinato da marshalls ubriaconi, giudici corrotti, generali imbelli, agenti indiani ladri e politici incapaci, Tex si trova a dover svolgere un’azione vicaria, a supplire ciò che altri dovrebbero fare e non fanno, per incuria o incapacità. Il suo ruolo è quello del pedagogista dissuasivo: non si limita a correggere punitivamente le colpe in atto, ma tenta di prevenire esemplarmente la criminalità potenziale. Così ogni sua impresa diventa una lezione, ogni gesto un insegnamento, ogni revolverata un esempio. Dietro i panni rudi del castigamatti del West si cela il volto corrucciato del tutore del contratto sociale. O del possibile profeta di un diverso ordine futuro. Perché Tex non è mai, comunque, un semplice e banale “poliziotto dell’esistente”. A un pubblico come quello italiano, da sempre abituato alle storiche carenze dello Stato, egli si offre come immagine vivente di un riscatto possibile, sia pure nelle rudi forme del rischio e dell’avventura e sulla base di una nitida percezione delle responsabilità individuali nell’ambito dei diritti e dei doveri collettivi. 2.1.6. Un gioco a somma zero Il cerimoniale interventistico-profilattico di Tex si struttura narrativamente secondo un percorso centripeto che si ripete pressoché inalterato di avventura in avventura. La “chanson de geste” bonelliana segue cioè uno schema diegetico fortemente recursivo che vede allinearsi puntualmente, più o meno nello stesso ordine, le medesime funzioni.27 Dopo un incipit in cui all’eroe perviene una richiesta di aiuto, o in cui egli stesso si attribuisce un compito “interventista”, l’intreccio si sviluppa mostrandoci Tex e compagni nell’atto di raccogliere informazioni, interrogare testimoni, predisporre piani. L’attacco all’antagonista (spesso in risposta ad attacchi precedentemente subiti) viene portato partendo sempre da lontano: Tex elimina per prima cosa alleati, sicari, killer e scagnozzi, fa terra bruciata attorno all’avversario, lo isola, lo priva dei suoi subordinati, ne

sabota e ne distrugge le proprietà. Infine penetra nel covo nemico e risolve in maniera vincente la resa dei conti definitiva. Tale schema di base risulta ovviamente complicato da una serie di elementi accessori di volta in volta richiamati a insaporire l’avventura. Tra questi, in un campionario quanto mai ricco e variegato, vanno ricordati per frequenza e intensità di apparizione: – il topos costituito dalle performance e dai trucchi dell’eroe, dai suoi virtuosismi di repertorio offerti alla fame di ridondanza del lettore (esempi: il lazo teso fra due cactus per far inciampare i cavalli nemici al galoppo; l’incendio della prateria come risposta al fuoco appiccato dagli avversari; la scazzottata iperbolica nel saloon, con generosa bevuta finale offerta da Tex a tutti gli astanti); – il topos della cattura di Kit da parte del nemico, con gli ovvi e prevedibili effetti impedienti che tale evento impone all’azione di Tex, obbligato a rivedere prudentemente i propri piani; – il topos della presunzione antagonistica punita (nella saga texiana è possibile contare almeno un centinaio di killer prezzolati illusi di poter eliminare Tex senza troppo fatica e costretti invece a una prematura sepoltura dall’inatteso incontro con una pallottola esplosa dall’eroe); – il topos del battibecco fra Tex e Carson, inguaribilmente portati a riempire i momenti di viaggio o di attesa con un’incessante schermaglia verbale a base di punzecchiature ironiche e cameratesche. Se a tutto ciò si aggiunge l’ipersemantizzazione operata sul racconto dalla componente iconografica, nonché l’uso costante della tecnica del montaggio alternato e parallelo come meccanismo produttore di suspense (il lettore di Tex conosce sempre prima del personaggio l’identità dell’avversario, viene messo al corrente di piani che l’eroe ancora ignora, secondo un procedimento di matrice inequivocabilmente hitchcockiana),28 ce n’è quanto basta per produrre di volta in volta un plot avvincente e movimentato. Lo schema di base, tuttavia, non varia mai di molto. Soprattutto, nessuna variante compromette mai fino in fondo l’idea-chiave dell’avventura texiana: la messinscena di una tattica di avvicinamento centripeto all’avversario, passando attraverso la progressiva eliminazione dei suoi aiutanti. Ogni mondo con cui Tex entra in contatto è un’isola, un’enclave separata dallo spazio circostante da una serie plurima di cornici concentriche protettive, di volta in volta antropomorfe (sicari), zoomorfe (bestie), geografiche (rupi, precipizi, cunicoli, foreste, deserti) e meteorologiche (tempeste, bufere, siccità). Per arrivare al Nemico, Tex e i suoi pards devono preliminarmente superare un vero e proprio percorso a ostacoli: giacché il Nemico si identifica spesso con uno spazio in cui è indispensabile riuscire a

penetrare. Si tratti di una Chinatown popolata di topi e di bische clandestine, di una piramide azteca rinchiusa in una valle sperduta nel deserto o di un ranch protetto da gringos armati fino ai denti, l’azione texiana implica sempre un’irruzione spaziale, talora addirittura un andirivieni topologico: quasi un gioco di botta e risposta tra incursioni aggressive del Nemico nello spazio dell’eroe e risposte uguali e contrarie con penetrazione dell’eroe nello spazio ostile. È significativo rilevare, tra l’altro, che l’inevitabile resa dei conti non sempre vede Tex nel ruolo di agente attivo: al contrario non è infrequente il caso in cui l’antagonismo si conclude con l’autosoppressione del colpevole, e con la sua morte in qualche modo fatale prima che Tex abbia modo di fare personalmente giustizia. I cattivi del mondo texiano si eliminano spesso fra di loro (“Sangue navajo”, n. 51), vengono uccisi dai loro ex alleati (“La fine di Lupo Bianco”, n. 19), muoiono avvelenati per il morso di un serpente spuntato da dietro un cactus nel deserto (“Gli sciacalli del Kansas”, n. 17) o si suicidano tormentati dal rimorso (“Fuga da Anderville”, n. 299). L’avventura texiana, insomma, si configura spesso come un gioco a somma zero. L’intervento di Tex non produce l’eliminazione fisica degli antagonisti, ma apre contraddizioni nel fronte avversario e fa in modo che i nemici si eliminino da sé: a conferma del fatto che il personaggio non è che uno “strumento” di giustizia al servizio di un Destino che lo trascende. In molti casi, poi, i nemici di Tex – quanto meno quelli più pericolosi – non muoiono mai, e riappaiono molte e molte avventure dopo. Sembrava fossero morti, in realtà erano rocambolescamente sopravvissuti. E prima o poi ritornano per ottenere l’agognata vendetta. Se non loro, tornano i loro figli: Yama, figlio di Mefisto, prosegue le nefandezze del padre, ma perfino la figlia di Cora Gray (la bellissima e ferocissima Satania, scomparsa gettandosi in un burrone nell’albo n. 5, uscito in edicola il 1 giugno 1959) riappare anni e anni dopo, con un tipico procedimento da feuilleton, nell’albo n. 707, uscito nel settembre 2019, per vendicare la madre a cui incredibilmente assomiglia (Galleppini, negli anni cinquanta, l’aveva disegnata assumendo come modello la Rita Hayworth di Gilda). Nel mondo texiano il destino dei figli ripete inevitabilmente quello dei padri, sotto il segno di un determinismo genetico che non lascia alcuna possibilità di sfuggire al destino. 2.1.7. Misteri e magie Il mondo di Tex non è solo un atlante miniaturizzato della geografia universale: è anche un reader’s digest di zoologia fantastica, di etnologia misterica, di paleontologia magica. Riti e miti attribuibili alle epoche storiche

più diverse ricompaiono e si mescolano nel mondo di Tex all’insegna di un abbecedario narrativo che affastella cabale esoteriche, culti iniziatici, leggende ataviche. A intervalli più o meno regolari, il mondo texiano si apre insomma alla magia, agli incubi infernali, all’irruzione inquietante di un fantastico che, più che al “soprannaturale spiegato” di Ann Radcliffe, fa pensare al “soprannaturale accettato” di Walpole o di Maturin. La fantasia mitopoietica di Bonelli abbandona allora i consueti modelli fordiani o salgariani per attingere a piene mani alle tanatologie di Lovecraft o ai più puri stilemi della tradizione gotica, mentre la matita di Galleppini oscilla tra i deliri espressionisti e gli echi di Bosch o di Piranesi. L’avventura si immerge in queste occasioni (peraltro molto gradite dai lettori, stando almeno ai responsi dei sondaggi) in un dedalo di mondi possibili e di universi paralleli, tra gelatinose presenze sotterranee e bestiali creature acquattate nelle zone d’ombra del mondo. Cripte, ipogei, gorghi, stalattiti, pipistrelli, abissi, rettili e creature striscianti accorrono a popolare gli spazi fortemente chiaroscurali del fumetto, mentre perfino l’intreccio sembra assumere i connotati di una vera e propria speleologia dell’orrido. In particolare, quando entrano in scena Mefisto e Yama, gli antagonisti “storici” di Tex, i procedimenti topici del gotico (animazione dell’inanimato, antropomorfizzazione mostruosa della natura, tanatologie e teratologie, misticismo nero, esoterismo) risucchiano il lettore in recessi lugubri e oscuri e lo sottopongono a quella “dialettica della consolazione e del turbamento” che secondo David Punter è alla base del patto narrativo in ogni affabulazione gotica.29 Con le sue riapparizioni cicliche, Mefisto rappresenta nel mondo texiano l’inestirpabilità del male, l’insaziabilità della vendetta, l’eterno ritorno del Nemico. Di volta in volta alleato a seguaci dei riti voodoo o ad adoratori aztechi del culto del Sole, sempre attorniato da una folla brulicante di mostri, rettili e creature della notte, legato a un’aggettivazione che attinge in maniera pressoché esclusiva al campo semantico del lugubre e del sinistro, Mefisto fa saltare la sintassi narrativa texiana, distrugge ogni residua idea di verosimiglianza e precipita i balloon nel delirio fantastico più sfrenato, mentre la lingua delle didascalie si popola di nomi strani e di fonemi misteriosi (Quetzalcoatl, divino serpente piumato; Xiuhtecuhtli, dio del fuoco), affastellati, come già in Salgari,30 con la funzione precipua di abbagliare il lettore con un esotismo fonetico oltre che iconico e narrativo. Eppure, Tex si mostra assolutamente impermeabile ai poteri soprannaturali di Mefisto e alle alchimie magico-esoteriche di Yama: di fronte alle reiterate e terrificanti apparizioni dei più tenaci tra i suoi avversari, Tex reagisce a colpi di buon senso31, operando una drastica riduzione del soprannaturale entro le dimensioni del “trucco” o del “giochetto” da prestigiatore di provincia. Mefisto ha un bell’indaffararsi con le

sue apparizioni minacciose nella notte, le sue smaterializzazioni corporee, la sua produzione di incubi: Tex non rimane colpito da simili fenomeni magici semplicemente perché non li percepisce come tali. Per Tex, Mefisto ha solo imparato “qualche dannato trucco in più” (n. 268, p. 7); è un “gran tanghero” che conosce “un sacco di maledetti giochetti” e che ha quasi sempre la meglio perché – ohibò! – “riesce a sottrarsi alla cattura” (n. 267, p. 51). La lettura riduttiva dei poteri infernali dell’antagonista consente a Tex, in perfetta sintonia con l’empirismo lombardo delle sue radici, di progettare efficaci strategie di contenimento basate sulla certezza della propria assoluta superiorità. Non avendo una percezione esatta del potere contro cui devono combattere, Tex e i suoi pards lo esorcizzano con una verbosità dilatata (“Il diavolo se lo porti!”; “Che l’inferno lo inghiotta!”) e con una fiducia oltranzistica nei contro-poteri apotropaici della colt. E ciò non solo di fronte a Mefisto. Agli amuleti della strega Zhenda, agli ululati del licantropo Guaimas o ai poteri malefici di Yama, Tex e i suoi pards contrappongono “un amuleto di ben diverso genere: quello calibro 45” (n. 265, p. 101). Così equipaggiati, essi scendono con nonchalance anche fino alle soglie dell’inferno e ne ritornano illesi, ostentando una rinnovata fiducia nel buon senso, magari appena appena corroborato dall’uso disinvolto di qualche “confetto di dinamite”. È stato giustamente osservato che è proprio la mancanza di fantasia a rendere Tex “impermeabile alle evocazioni, ai fantasmi e alle larve”, mentre al contrario i “poveri Yama e Mefisto non sono impermeabili a destini faustiani o a gelide acque di torrente, né i loro adepti, voodoo della Louisiana o zombi di varia provenienza, sono immuni alle pallottole o alle recisioni di tendini o ai colpi in testa”.32 Anche la magia, come del resto la morte, irrompe nell’universo texiano per essere sconfitta e rimossa. E tuttavia, prima della rimozione, essa ha modo di suggestionare il lettore riproponendogli – all’insegna della più sfrenata estetica dell’eccesso – una deriva entro gli archetipi del terrificante, tra quei mostri e fantasmi in cui da sempre la narrativa gotica esprime le “figure di sogno di un gruppo sociale turbato”33 affinché il lettore possa al contempo godere delle proprie paure e aver paura del proprio desiderio di sogno. 2.1.8. Maliarde, pitonesse e fanciulle perseguitate Tex è un eroe vedovo e casto, devotamente legato da imperitura fedeltà alla memoria muliebre della dolce Lilith prematuramente scomparsa. Il suo mondo non conosce Eros, né tra le sue avventure c’è spazio per incontri amorosi o fugaci love stories. La rimozione della sessualità nei balloon bonelliani è

ingombrante e insistita, tanto più vistosa se confrontata con l’antitetica tendenza di tanta parte della produzione fumettistica italiana a concentrare l’evasione proprio in suggestioni di ordine erotico. Come si colloca Tex in questo contesto? Che reazioni provoca nel lettore la tipologia dell’eroe rude e volitivo, ma assolutamente impermeabile al fascino della femminilità e alle lusinghe dell’alcova? Sono plausibili le accuse di misoginia da più parti rivolte a Bonelli? O le insinuazioni relative alla latente omosessualità che legherebbe i quattro pards bonelliani,34 più inclini a recitare autarchicamente il ruolo di “moschettieri della frontiera” che a ricercare qualche “madame” disponibile a rallegrare le loro fredde notti da scapoli? Certo, il rapporto che unisce gli eroi bonelliani si fonda sul culto dell’amicizia tipico di una società atletica e maschile, soddisfatta di sé, cameratesca e fiera, desiderosa soltanto di poter andare con piglio gaglioffo incontro all’avventura. Il che, se si vuole, rinvia a uno dei topoi più noti e sperimentati del western cinematografico del periodo aureo e al suo culto della virilità. E tuttavia non è senza significato che il fumetto bonelliano, sempre molto attento alle evoluzioni e alle innovazioni del cinema western, manifesti alcune esclusioni e rigidità proprio sul piano dell’erotismo e della sessualità. L’irruzione del sesso nelle trame del western hollywoodiano è infatti un dato acquisito prima della nascita di Tex: già nel 1941 un film come The Outlaw di Howard Hughes contamina la patriarcalità tradizionale del genere col seno prosperoso di Jane Russell, mentre in Duello al sole (1945) di King Vidor la bella meticcia Pearl – tutta camicette rosso fiamma, capelli ricciuti, orecchini zingareschi e sguardi assassini – trascina il rude cowboy nel mondo inedito della passione. È l’inizio di una tendenza destinata a svilupparsi ulteriormente nel corso degli anni cinquanta: in film come Donne verso l’ignoto (1951) di William Wellman o La magnifica preda (1954) di Otto Preminger il rapporto fra western e sesso, fra avventura e seduzione, fra eros e frontiera, può dirsi ormai solidamente consolidato. Niente di tutto ciò in Tex, che pure, cronologicamente, viene dopo questi modelli, o che a essi è contemporaneo. Nei primi numeri della serie, Bonelli si preoccupa di fornire a Tex uno stato di famiglia legittimo e ben accetto al moralismo italiano degli anni cinquanta: Tex si sposa nel n. 7, diventa padre nel n. 10 e rimane al contempo vedovo sconsolato.35 Poi, bruscamente, sesso e amore scompaiono dalle avventure del personaggio, che vive in uno stato di prolungata vedovanza molto simile al celibato volontario. Certo, l’adozione di questo espediente consente a Bonelli di fondare il sistema dei personaggi su un frame molto “italiano”: padre, figlio e amici di famiglia, insomma secondo una tipologia relazionale molto forte e diffusa nelle nostre abitudini e nel nostro costume. Tex, Kit, Carson e Tiger offrono cioè al lettore l’immagine di un nucleo amicale di facile e immediata identificazione: quasi il riflesso speculare della

comitiva maschile che si reca allo stadio o alla scampagnata domenicale per vivere alcune ore in gioviale allegria. Di fronte alle attrattive “dopolavoristiche” di un’avventura così strutturata, anche l’interesse per le donne può essere lasciato momentaneamente da parte, limitandolo tutt’al più a qualche galanteria senile con le signore eventualmente incontrate (come accade sovente al vecchio Carson), e concedendo leggere sbandature solo al giovane Kit, non ancora del tutto temprato e soprattutto non abituato a distinguere tra le lusinghe del sesso e lo charme cameratesco dell’avventura “only for men”. Per il lettore maschio italiano leggere Tex è qualcosa di molto simile al seguire in trasferta la propria squadra del cuore, lasciando la moglie (o l’amante) a casa e confidando nel piacere derivato dall’auspicata vittoria finale. La lettura, insomma, come surrogato di scorribanda sportiva, come occasione allegra di tifo, come ritorno goliardico a un universo adolescenziale immaginario in cui le donne compaiono sì, ma non come oggetto di conquista e di seduzione. Perché non è vero che nel mondo di Tex le donne sono assenti: semplicemente non intrecciano relazioni erotiche con gli eroi. Non baciano, non abbracciano, non si concedono, ma ci sono. Ed è un dato, questo, su cui conviene soffermarsi con una certa attenzione. Perché se è vero che le attrattive di Tex si fondano in prima istanza su un’offerta evasiva di tipo “sportivo”, è anche vero che la presenza femminile, per quanto compressa, finisce poi per reintrodurre anche nel casto e atletico microcosmo texiano sottili lusinghe di perfido erotismo. Le donne di Tex sono complessivamente raggruppabili in due tipologie: la “maliarda pitonessa”, cinica e cattiva, e la fanciulla perseguitata, debole e indifesa. Nel primo caso ci troviamo di fronte a donne dal côté demoniaco: entraîneuses da saloon, prostitute o passionarie del Male, esibiscono piume, lustrini e lussurie in un’incarnazione vivente del peccato. Nel secondo caso incontriamo invece fanciulle caste e pure, fidanzate fedeli e figlie devote, perennemente insidiate nella loro virtù da malvagi appetiti maschili e dunque bisognose dell’intervento protettivo degli eroi. Questi due modelli ricalcano ed esprimono, con molta più sottigliezza di quanto possa sembrare, proprio le due immagini della donna tipiche della psicologia adolescenziale: la donna vaga, simbolica, remota, debole e indifesa da un lato; la donna piena di umori, di aggressività e di ferina sensualità dall’altro. Se è vero che l’intreccio esclude queste donne da ogni attività erotica, è anche vero che la grafica e il disegno finiscono poi per restituire alla presenza e al corpo femminile quelle lusinghe che la “trama” sembrava voler eliminare. Nel mondo di Tex la donna è infatti un segno grafico sempre fedele a se stesso: alla grazia impudica delle sue curve, all’erotismo delle sue fruscianti vestagliette di seta, alla malizia delle sue acconciature attillate. Da questo punto di vista anche le donne di Tex fanno sognare. Forse più che certe

eroine del fumetto nero degli anni sessanta, esse fanno riscoprire al lettore il fondo oscuro della sua sessualità proprio restando rigorosamente estranee a ogni commercio di tipo sessuale. La maliarda (che è già sempre accoppiata con un altro, dunque inattingibile e intoccabile per quanto desiderabile) viene ripudiata (edipicamente?) per aver preferito l’altro (il padre?) all’eroe (il lettore?), mentre la fanciulla indifesa viene salvata per ottenere da lei quella riconoscenza e quella gratitudine che spesso, nelle fantasticherie infantili, costituiscono la sublimazione sostitutiva del desiderio sessuale. Con l’apparenza di rimuovere l’eros, Bonelli offre al lettore l’opportunità di rivisitare alcune delle fantasie adolescenziali più tipiche: quella narcisistica, che gode nel sapersi desiderato più che nel desiderare; e quella onanistica, che reagisce all’irraggiungibilità della donna ripudiandola vendicativamente e appagandosi poi dell’onnipotenza di sé e del proprio gesto di ostentata autonomia. 2.1.9. Una retorica dell’imprecazione “Corna del diavolo!”, “Barba di Giosafatte!”, “Peste e satanasso!”: i fumetti texiani affabulano recursivamente una colorita retorica dell’imprecazione e dell’insulto in cui frasi idiomatiche ed espressioni gergali finiscono per assumere un ruolo fortemente connotativo. Accanto alle frasi celebri (“Voglio una bistecca alta tre dita e una montagna di patatine!”, “Sei più velenoso di un serpente a sonagli!”), ormai assunte a pieno titolo nella mitologia del fumetto e nel culto massificato del personaggio, il dialogo texiano colpisce per l’estrosità di alcune trovate linguistiche che, pur evitando il calco mimetico del parlato quotidiano, rivelano un’indubbia freschezza e originalità. Quello di Tex è un mondo dal linguaggio casto e castigato. La parolaccia, l’espressione volgare, lo slang giovanilistico e sboccato sono rigorosamente proibiti. Tra i personaggi non solo ci si dà ancora del Voi, probabilmente in omaggio alle allocuzioni tipiche dei film americani degli anni quaranta doppiati in italiano (ma ci si dà del Voi anche negli albi più recenti, a fronte di una società che ormai sta bandendo finanche il Lei a favore di un ubiquo Tu), ma si evitano accuratamente anche le espressioni “forti”, con un tabù particolarmente rigido per quanto riguarda le imprecazioni scatologiche e quelle sessuali. Gli appellativi insultanti attingono talora a parole composte di stampo vetero-ginnasiale (“piantagrane!”, “guastafeste!”, “scannapolli!”), tali da stendere un velo ironico estraniante anche sulle situazioni narrative più “hard”. Ma la fenomenologia bonelliana dell’insulto e dell’imprecazione sperimenta anche soluzioni più ardite, raggruppabili in due grandi categorie: quelle di tipo zoomorfo e quelle di tipo diabolico infernale. Nel

primo caso, un repertorio faunistico quanto mai ricco e variegato consente a Bonelli di operare una significativa variatio allocutoria entro le coordinate di un microcosmo fumettistico che assegna sempre agli animali un ruolo di primo piano. Nel mondo di Tex gli animali non sono solo un elemento ricorrente dell’iconografia (con particolare predilezione per avvoltoi, coyote, serpenti, pipistrelli), ma funzionano anche come attanti malvagi di una reiterata pedagogia della crudeltà che offre corpi umani ai pasti selvaggi di antropofaghe fiere. Al lettore di Tex accade così di incontrare nobildonne del deserto che allevano caimani a cui dare in pasto le proprie vittime, stuoli di formiche rosse pronte a divorare vivi gli incauti passanti, giganteschi puma scatenati per proteggere le follie del megalomane Vindex o orde selvagge di animali inferociti che attaccano la posada di El Morisco, distruggendo o divorando tutto ciò che trovano sul loro cammino. Né va dimenticato che lo stesso Mefisto muore – si fa per dire – divorato dai topi, mentre la bella Satania scatena contro Tex un gorilla che sembra prelevato direttamente dalla decrepita Rue Morgue di Edgar Allan Poe. E non è tutto: animali esotici e dai nomi strani (l’ippocampo) offrono a Kit l’occasione di improvvisare veloci lezioni di lessicologia da impartire all’incolto genitore (cfr. Tex n. 16), oppure diventano il simbolo ricorrente di cospirazioni clandestine o di malefiche sette segrete (la setta del drago). Ma è nella tipologia dell’insulto che la fantasia zoomorfa di Bonelli ha modo di dispiegarsi appieno: ecco allora che il Nemico diventa “verme”, “cane”, “lupo”, “sciacallo”, “gorilla”, “serpente”, “coyote”; il cinese è “microbo” o “moscerino”; il nero è “scimmiotto”; e la donna, di volta in volta, “pitonessa”, “pollastrella”, “gatta”, “pantera”, “colombella”, “serpente in gonnella”. Tex si rivolge ai suoi avversari secondo un repertorio faunistico che va dai toni ironico-sarcastici (“galletto”, “piccioncino”, “canarino”) alle invettive rabbiose e indignate (“cane!”, “verme!”, “lupo affamato!”). Né il cameratismo virile che unisce i quattro pards in base a solidi legami affettivi sa resistere alla tentazione di attingere a sua volta al repertorio animale, fino a produrre epiteti ormai celebri: “vecchio orso” (Carson a Tex), “ranocchio” (Tex al figlio), “galletto” (Carson al nipote), “vecchio cammello” (Tex a Carson), “gufo” (i due senes, reciprocamente). La retorica bonelliana dell’imprecazione trova però la sua cifra più ricorrente e vistosa nei riferimenti insistiti al diavolo e all’inferno. Citiamo ad apertura di pagina, entro un campionario di locuzioni infernali che sembra individuare nel diavolo o in satanasso il referente più prossimo o il deus ex machina incombente su ogni situazione narrativa: “Che l’inferno ti inghiotta!”, “Al diavolo le leggi!”, “Corna del diavolo!”, “Sputa l’osso, satanasso!”, “Tizzone d’inferno!”, “Questo è un inferno, dannazione!”, “Fiamme d’inferno!”, “Barba del diavolo!”, “Vi gonfio di piombo e vi spedisco tutti all’inferno!”. Non mancano neppure

soluzioni più originali, come per esempio le ironiche perifrasi in cui morire diventa “presentare le proprie credenziali a satanasso” o “andare a spalar carbone all’inferno”, mentre il villain, forse in sintonia col contesto materiale della fruizione (si trovano copie di Tex nella sala d’aspetto di ogni barbieria d’Italia), diventa “un tipo capace di fare pelo e contropelo a Belzebù in persona” (cfr. “Un diabolico intrigo”, Tex n. 274, p. 6). Bonelli trasforma insomma una frase idiomatica d’uso corrente come “mandare al diavolo” in una vera e propria sigla connotativa del mondo texiano, giocando su una gamma di iperboli, perifrasi, metafore e metonimie che declinano la figura di discorso in tutti i contesti possibili. Assieme agli spagnolismi cavallereschi tanto frequenti in Tex (vamonos, muy bien, quien sabe?, hasta luego, caramba, ecc.), il registro infernale rappresenta l’elemento linguistico più ricorrente dell’universo bonelliano, e drammatizza con immediata evidenza un mondo manicheo entro il quale il diavolo si pone come personificazione – di volta in volta ironica o ingiuriosa – del Negativo. Con discola dimenticanza dei dati storici reali, e senza alcun rispetto per le più elementari esigenze di verosimiglianza linguistica, Bonelli non esita ad attribuire metafore inferiche o personificazioni diaboliche al parlato di popoli e personaggi assolutamente estranei alla cultura cristiana o ai riti esorcistici dell’Occidente. L’imprecazione “vai al diavolo!” è comune e frequente non solo in Tex, nei suoi pards, nei gringos e nei pistoleri in qualche modo legati alla cultura yankee, bianca, occidentale e cristiana, ma compare con frequenza anche nel parlato di cinesi, neri, aztechi, perfino tra gli adepti di antiche sette dedite al culto e all’adorazione del Sole (cfr. Tex n. 15, p. 90). Tale ingenuità dialogica è spia di un’unificazione linguistica del mondo di Tex sul piano dell’insulto e rinvia a una dicotomia che trova nell’antitesi infernoparadiso la sua struttura portante. In un universo che con tale frequenza e con tale esorcistica insistenza chiama in ballo il diavolo, non è comunque casuale che l’unica metafora “antagonista”, quella che allude al cielo e al paradiso, sia sovente collegata a una presenza significativa e rivelatrice: quella del denaro. In un mondo in cui tutti sono diavoli, Belzebù è il deus ex machina e Mefisto l’ipostasi del Male, non è insomma senza significato che proprio i dollari siano ritenuti e definiti angioletti (cfr. n. 273, p. 83 e 97): quasi a significare che l’unica possibilità di riscatto non può che passare attraverso la mediazione economica. In questo contesto l’assoluta estraneità di Tex al denaro risulta tanto più rilevante, enfatizzata e per così dire “auratica”. Nella sua posizione di invidiabile rentier, con a disposizione l’oro delle inesauribili miniere navajo, Tex non solo può permettersi di esibire un ostentato distacco dalla dimensione contrattuale del proprio lavoro (“La paga? Non parliamone nemmeno!”), ma può presentarsi come campione del valore d’uso in un microcosmo conflittuale

dominato dalla rapace e ingorda invadenza del valore di scambio. Nelle avventure bonelliane Tex agisce per esorcizzare l’inferno senza aspettarsi nessun angioletto in cambio. Di fronte ad avversari (ma anche ad alleati, aiutanti o soci) che producono lavoro (azione e prassi) solo in quanto investiti dagli interessi e dalle preoccupazioni dell’homo economicus, Tex compie un lavoro assolutamente gratuito, che trova in sé la propria giustificazione e la propria ricompensa. L’estraneità al bisogno, insomma, non solo aumenta il fascino del personaggio presso il lettore, ma ne ingigantisce e ne valorizza anche l’incessante e frenetica operosità sul piano della più pura e disinteressata dedizione all’ethos. Che è poi, in ultima istanza, fedeltà al sogno di un dignitoso benessere per tutti, entro un’operosa accettazione dei compiti e dei fini che le esigenze collettive impongono all’azione individuale. In tempi di drastiche riduzioni dei consumi e di sfacciata difesa statale della rendita parassitaria, un rentier come Tex, sempre pronto a dissipare la ricchezza per il benessere collettivo, accontentandosi in cambio di un pizzico di divertimento individuale a base di cazzotti, sembra possedere davvero tutti i requisiti per garantirsi ancora un lungo successo presso il pubblico di massa. In lui, nella sua dedizione totale, nella sua disponibilità al rischio liberamente scelto e consapevolmente perseguito, è possibile scorgere una risposta concreta a quel bisogno tipicamente “moderno” di avventure libere e disinteressate di cui parlava Gramsci in un suo passo famoso: Nel mondo moderno [...] la razionalizzazione coercitiva dell’esistenza colpisce sempre più le classi medie e intellettuali, in una misura inaudita; ma anche per esse si tratta non di decadenza dell’avventura, ma di troppa avventurosità della vita quotidiana, cioè di troppa precarietà nell’esistenza, unita alla persuasione che contro tale precarietà non c’è modo individuale di arginamento: quindi, si aspira all’avventura “bella” e interessante, perché dovuta alla propria iniziativa libera contro l’avventura “brutta” e rivoltante, perché dovuta alle condizioni imposte da altrui e non proposte.36

Bonelli, probabilmente, non ha letto i Quaderni del carcere. Ma ha captato il bisogno che Gramsci analizzava. In qualche modo l’ha raccolto e l’ha soddisfatto. E ora, giustamente, può andare fiero dei risultati del proprio lavoro: “Gli italiani non leggono, sono pigri. Io ho vinto la loro pigrizia.”37 Pochi altri, in Italia, potrebbero dire altrettanto.

2.2 LA VIOLENZA DELLA MODERNITÀ Giorgio Scerbanenco e il noir ambrosiano

2.2.1. L’anamorfosi degli oggetti I romanzi polizieschi pubblicati da Giorgio Scerbanenco nel corso degli anni sessanta1 contengono una ricorrente e ossessiva fantasia sadica: la possibilità di trasformare ogni oggetto, anche il più innocuo e domestico, in un micidiale attrezzo per uccidere. Gli esempi abbondano: si va dall’“ago da calza rovente” usato come strumento di tortura e di morte in Traditori di tutti fino al “modesto e antiquato temperino” che viene adoperato per sfregiare il viso di Livia Ussaro in Venere privata. Lo stesso autore è consapevole dell’“utilizzabilità delittuosa” degli oggetti che popolano il suo microcosmo romanzesco e rivela esplicitamente tale consapevolezza in un passo famoso: “Uno strumento non è né buono né cattivo, dipende dall’uso: anche con un bocciuol di rosa si può soffocare una persona, se glielo si spinge abbastanza in fondo alla gola.”2 Siamo di fronte a una perversione che, nella migliore tradizione sadiana, mira a “distogliere gli oggetti dal loro uso endoxale”3 per trasformarli in ordigni omicidi. Questa metamorfosi del valore d’uso oggettuale è tanto più significativa se si pensa che proprio la rappresentazione di un accuratissimo “sistema degli oggetti” conferisce alla scrittura di Scerbanenco uno dei suoi connotati di maggior presa realistica. Gli oggetti-simbolo della mitologia quotidiana dell’Italia del boom si affastellano infatti nella pagina di Scerbanenco in maniera confusa e martellante, in un bric-à-brac tanto denso e insistito da costituire una sorta di catalogo paradigmatico del nuovo feticismo delle merci. Non manca davvero nulla: la macchina da cucire comprata a rate e i biscotti al Plasmon, i fazzoletti Kleenex e la Coca-Cola, gli scooter e la 600 Fiat, i flipper e i juke-box, i mangiadischi portatili e i televisori sempre accesi. Miseri emblemi di una società che da poco ha cominciato a sognare il benessere, questi oggetti non svolgono più, nelle pagine di Scerbanenco, la funzione “inquietante” di cui erano

investiti gli oggetti del poliziesco classico. Non sono nemmeno più depositari di impronte, segni misteriosi e indizi nascosti. Sono fatti per essere consumati e gettati. Sono comuni e banali come i delitti commessi per il loro possesso. Privati del loro valore d’uso significante, cioè della loro capacità di sprigionare un logos funzionale ai fini investigativi, gli oggetti di Scerbanenco hanno valore esclusivamente in quanto strumenti di praxis all’interno delle dinamiche conflittuali che muovono lo scenario urbano della rappresentazione romanzesca. Sullo sfondo di un universo sociale dominato dal trionfo assoluto del valore di scambio, l’unica e residua funzione concessa agli oggetti sembra dipendere dalla loro capacità di incidere sull’azione, determinandola (in quanto possibili obiettivi di appropriazione) o modificando i rapporti di forza fra gli antagonisti (in quanto potenziali strumenti offensivi e conflittuali). Sarà un caso, ma nei romanzi di Scerbanenco è quasi completamente assente quello che era l’oggettochiave del romanzo gangsteristico della tradizione hard boiled: la colt, il revolver. Nei gialli di Scerbanenco non si spara quasi mai e i conflitti si risolvono usando come strumenti offensivi quei medesimi oggetti (o quelle merci) per il cui possesso i conflitti si sono scatenati. Qualunque oggetto, senza esclusioni, può essere sottoposto a una anamorfosi perversa che ne sveli l’“utilizzabilità delittuosa” e la metta in funzione. L’esempio più vistoso di questo procedimento è dato probabilmente dall’agghiacciante sequenza di Traditori di tutti in cui il macellaio Ulrico Brambilla viene fatto a pezzi da quella stessa “macchina sega-osso” che aveva usato come quotidiano strumento di lavoro: ... in un ultimo guizzo la sua pupilla vide: vide il nastro segante che gli era tanto noto, che gli si avvicinava alla fronte, al naso, al rosone insanguinato della bocca, esattamente a dividere in due il viso: non chiuse gli occhi, anche se inorridì; semplicemente il guizzo della sua pupilla era finito.4

Estetica da macelleria, rosseggiare di carni, tinte forti, grand-guignol e crudeltà: la scrittura di Scerbanenco innesca questi effetti a catena, quasi per sovraccaricare ulteriormente, in una sorta di reincarnazione oggettuale dell’Unheimlich freudiano, il senso di minacciosità emanante dagli arnesi domestici e dagli oggetti quotidiani. Nel mondo romanzesco di Scerbanenco si uccide con ciò che si trova a “portata di mano”:5 cacciaviti, forbici, ombrelli, ma anche automobili, calze di nylon, lamette da barba e arnesi da macelleria. Perfino la detection investigativa di Duca Lamberti viene assimilata, in una delle sue rare designazioni metaforiche, all’immagine di un oggetto tagliente e acuminato, in qualche modo omologo a tutto il complesso sistema di utensili che popola l’intreccio e lo muove dall’interno: “Bisogna usare il rasoio di Occam, bisogna

fare economia di ipotesi.”6 Dal rasoio gnoseologico-investigativo all’attrezzo del macellaio, Giorgio Scerbanenco offre al pubblico italiano degli anni sessanta (forse il primo, vero pubblico di massa della nostra letteratura) un ricco campionario di utensili sottratti al loro consueto valore d’uso e inseriti in un sistema tanto saturo di fantasie sadiche da garantire a ogni lettore una ghiotta occasione di intensificazione emozionale (e compensativa) delle proprie esperienze quotidiane. Scerbanenco conosce bene il suo pubblico: giunto al thriller dopo un lungo lavoro di apprendistato letterario svolto nei centri nevralgici dell’industria editoriale italiana, egli ha un chiaro quadro prospettico delle attese dei lettori e del tipo di “offerte contrattuali” che è necessario immettere sul mercato per garantire l’incremento del consumo. Si rende conto, per esempio, che il modello di giallo fino a quel momento perseguito dalla narrativa italiana non funziona più. I personaggi da operetta, l’ambientazione agreste e salottiera e il delitto mascherato sotto quintali di cipria, rimmel o paillettes non si integrano con le esigenze di una società industriale e urbana. Così Scerbanenco decide di cambiare strada: parafrasando Chandler, strappa il delitto del vaso di cristallo, lo spoglia delle buone maniere e lo restituisce alla gente che lo commette per ragioni concrete. Con i suoi romanzi il giallo italiano diventa finalmente urbano e metropolitano, sadico e violento. Scerbanenco sceglie di mettere in scena la criminalità diffusa delle periferie, la conflittualità pullulante ai bordi delle metropoli, il delitto compiuto con oggetti “banali” da gente comune: e su questa referenzialità immediatamente riconoscibile fonda il suo dialogo con il pubblico, non esitando neppure – all’occorrenza – a utilizzare l’enfasi patetica e la ridondanza sadica, puntando a un coinvolgimento immediato e viscerale del lettore, sollecitando ad arte le sue reazioni emotive. Una strada facile, si dirà. Ed è difficile negarlo. Ma con una precisazione: Scerbanenco è tra i primi, nel nostro paese, a percorrerla a livello di grande diffusione, elaborando una grammatica e una sintassi dell’invenzione romanzesca destinate ad avere imitatori ed epigoni (spesso neanche molto originali) non solo in ambito letterario, ma in tutto il sistema della comunicazione di massa. Il fatto è che Scerbanenco pone sempre alla base dei suoi romanzi una forte istanza realistica tesa a confrontarsi con i materiali offerti dalla contemporaneità. Lungi dall’esorcizzare il presente o dal nasconderlo tra le pieghe dell’invenzione fantastica, Scerbanenco lo assume esplicitamente nelle proprie strutture romanzesche e fonda su di esso, sui suoi miti emergenti e sui suoi feticci vistosi, sui suoi oggetti luccicanti e sulle sue perversioni segrete, le proprie strategie di richiamo e di seduzione del pubblico di massa. E il pubblico si ritrova nelle sue storie: ritrova gli oggetti, gli scenari e i gesti della propria quotidianità, ma ritrova anche – allo stesso tempo – le proprie fantasie nascoste e

le proprie pulsioni segrete, sia pure portate all’eccesso e rese irriconoscibili da una maschera di sanguinario sadismo iperrealista. Il massimo di referenzialità, e quindi di adesione, si unisce al massimo di distanza, e quindi di distacco: e il successo è assicurato. Ma non è tutto: i romanzi di Scerbanenco offrono al lettore degli anni sessanta la possibilità di fruire del testo romanzesco come di un frammento di serialità strutturato a catena con altri testi contigui che quotidianamente giungono al consumo individuale attraverso il sistema dei media: la cronaca, l’informazione, il telegiornale, i primi fumetti “neri” di produzione italiana (Diabolik, Kriminal, Satanik), nati proprio, significativamente, negli stessi anni dei romanzi di Scerbanenco.7 La “fame di ridondanza” del lettore – direbbe Umberto Eco – ha modo di saziarsi abbondantemente: testi diversi veicolano analoghi messaggi, ripropongono, in altre forme, emozioni già sperimentate (o sperimentabili) altrove. Ma con un atout vincente dalla parte del romanzo: la possibilità di funzionare come ordigno ludico, di garantire il riassorbimento rassicurante di quelle tensioni emotive che esso stesso ha innescato. È in questo meccanismo di fondo che va individuato e indagato, almeno in parte, il segreto del successo ottenuto dalle “fantasie nere” di Scerbanenco presso il pubblico di massa degli ultimi anni sessanta. 2.2.2. Suspense e serialità I romanzi di Scerbanenco dedicati al personaggio di Duca Lamberti sono organizzati in maniera seriale sulla base di una forte recursività strutturale: il frame, il quadro fondamentale su cui poggia la serie, è riproposto rigorosamente di romanzo in romanzo non solo per quanto riguarda i personaggi e lo spazio referenziale in cui sono ambientate le vicende (Milano e la sua periferia), ma anche sul piano delle tecniche di orchestrazione dell’intreccio. Tutti i romanzi del ciclo rinviano a un modello compositivo ibrido, ottenuto mescolando le strutture narrative del romanzo-enigma tradizionale con quelle del nuovo giallo d’azione di scuola americana. Scerbanenco conosce bene entrambi i modelli. Quello “classico” l’ha sperimentato ampiamente nei suoi gialli giovanili dei primi anni quaranta;8 quello hard boiled gli si impone come punto di riferimento imprescindibile proprio per quanto riguarda l’organizzazione strutturale della materia narrativa. Scegliendo consapevolmente di contaminare i due modelli, Scerbanenco ottiene una struttura composita, abbastanza vicina allo schema proposto da Todorov per il romanzo-suspense: “L’interesse del lettore non riguarda soltanto ciò che è accaduto, ma anche ciò che dovrà accadere, egli si interroga tanto sul futuro quanto sul passato.”9 All’interno di questo schema di

fondo, l’autore adotta poi un intreccio a sua volta sostanzialmente recursivo e tale da garantire un forte quoziente di iteratività anche alla fisionomia del plot narrativo. Di romanzo in romanzo, insomma, l’intreccio si sviluppa allineando, più o meno nello stesso ordine, le medesime funzioni. Vediamole: all’inizio del romanzo, la scoperta di un delitto (D) perpetrato con particolare sadismo scatena l’indignazione e il disgusto di Duca Lamberti e lo spinge a iniziare la caccia (C) al colpevole nel tentativo non tanto di fare giustizia, quanto di compiere una punizione vendicatrice (PV). La caccia suscita puntualmente una reazione criminale (RC) giocata all’insegna del sadismo e della crudeltà. A essa si contrappone la contro-reazione del detective, che a sua volta fa ricorso alla violenza e intensifica la caccia pur di riuscire a mettere le mani sui colpevoli. Alla fine ci riesce, ma nello stesso momento in cui si accinge a compiere l’agognata punizione, ecco che nuovi crimini si affacciano all’orizzonte, aprendo la via a nuove possibili cacce e ad altri efferati delitti, sullo sfondo di una città sempre più livida e corrotta. Abbiamo uno schema di questo tipo:

Ciò che balza subito agli occhi è la disposizione circolare delle varie funzioni e la percorribilità praticamente illimitata dello schema a partire da una qualsiasi delle funzioni stesse. Quello di Scerbanenco è un universo chiuso, un circolo vizioso. La vendetta e la punizione finale non sono che uno scarico di violenza in tutto e per tutto analogo a quello che ha generato il delitto iniziale. La caccia del detective e la reazione del criminale utilizzano praticamente gli stessi ingredienti. Le opposizioni D versus PV e C versus RC hanno un carattere simmetrico e speculare, i loro poli si riflettono l’uno nell’altro come in un gioco di specchi senza via d’uscita. La stessa climax della punizione vendicatrice è solo apparente: in realtà rimette in circolazione quella violenza e quella crudeltà che avrebbe voluto combattere, confermando in tal modo l’immutabilità del

mondo su cui la detection ha invano operato i suoi tentativi di ordinamento e di ristrutturazione. Più che sopraffarsi l’un l’altra, le antitesi oppositive che dinamizzano l’intreccio finiscono insomma per coesistere, in un delicato gioco di spinte e contro-spinte in cui innocenza e colpa, buio e luce, bene e male, vittime e carnefici si neutralizzano a vicenda, mantenendosi in una situazione di relativo equilibrio. Da questo punto di vista, il meccanismo dei romanzi di Scerbanenco presenta notevoli analogie con il modello di conciliazione e mediazione fra gli opposti messo a punto da Lévi-Strauss a proposito del mito.10 Se per Lévi-Strauss i termini inconciliabili mediati dal mito erano quelli della natura e della cultura, il giallo di Scerbanenco risolve e concilia invece un altro tipo di tensione: quella fra il sogno di innocenza utopica che il detective e i suoi alleati tentano di restaurare, e la violenza antiutopica dei mezzi attraverso cui il loro progetto si realizza. In altre parole, Duca Lamberti usa metodi e strumenti che costituiscono la negazione pratica e costante degli stessi principi a cui la sua azione si ispira: nel tentativo di combattere la violenza e di restaurare l’innocenza, egli non sa (e non vuole) usare che quegli stessi metodi contro cui combatte. Che questo tipo di comportamento finisca per confluire, come ha osservato Guido Bezzola,11 nella richiesta borghese di law and order o nel sogno arcadico di una società preindustriale e patriarcale è questione che appartiene al piano delle ideologie e che verrà esaminata in seguito. Quello che per ora importa sottolineare è che la figura del detective si pone, nell’economia complessiva dei romanzi di Scerbanenco, come il primo e più vistoso elemento di convergenza e sovrapposizione degli opposti. Egli è “l’innocente violento”, è colui nel cui comportamento innocenza e colpa si mescolano, è l’esemplificazione di un’eterogenesi dei fini rispetto ai mezzi adottati per raggiungerli, ma anche di un’assimilazione perversa (e inevitabile) dei fini ai mezzi. Questa coabitazione degli opposti suscita nel lettore un duplice movimento: di identificazione (rispetto al polo positivo dei fini) e di distacco (rispetto al polo negativo dei mezzi). Dal momento che però, come si diceva, mezzi e fini si mescolano e si sovrappongono, il romanzo finisce per offrirsi come un delicato sistema di equilibri e mediazioni, di identificazioni e ripulse, che non si limitano alla rappresentazione del personaggio-detective, ma si espandono fino a coinvolgere tutti gli strati dell’organismo testuale. L’ossimoro diventa così la figura esemplare della tecnica costruttiva del testo di Scerbanenco, che procede allineando e accostando elementi contrari sia sul piano della fabula (innocenza versus colpa) che su quelli dell’intreccio (l’assimilazione vittima-carnefice) e della lingua (costruita, come si vedrà meglio in seguito, mediante la giustapposizione di materiali lessicali e di usi sintattici di diversa e antitetica provenienza). Organizzato in questo modo, il

giallo di Scerbanenco realizza l’equilibrio degli opposti grazie a una struttura che concilia il massimo di dinamismo interno (cioè il continuo slittamento della narrazione da uno strato all’altro e da un polo all’altro) con il massimo di staticità dello schema nel suo complesso. Scerbanenco non scarica le tensioni in una risolutiva catarsi finale, né scioglie la suspense in una surprise consolatoria e riordinatrice: semplicemente porta alla luce i conflitti e li mantiene in equilibrio. I suoi romanzi assolvono così una funzione di scarico fantastico degli impulsi violenti del lettore e nello stesso tempo sollecitano la produzione di questi stessi impulsi; esercitano la funzione mitica di liberare il lettore dal senso di colpa collettivo per la violenza nella società attraverso la proiezione del senso di colpa sul colpevole,12 e nel contempo mettono in luce la somiglianza, almeno potenziale, di questo colpevole con il lettore. Mescolando sadismo e patetismo, essi offrono al pubblico la possibilità di soddisfare vicariamente le sue pulsioni sadiche senza per questo dover sottostare al senso di colpa per la “perversa” soddisfazione provata: il senso di colpa insito nei processi di identificazione (sadica o patetica) viene rimosso mediante processi uguali e contrari di repulsione (analogamente sadica o patetica) e il testo finisce per essere il terreno da gioco di un movimento attrattivo-repulsivo che continuamente inibisce ciò che ha eccitato ed eccita ciò che dovrà inibire. 2.2.3. Sadismo, patetismo e centralità del corpo I meccanismi di identificazione e distanziamento sollecitati nel lettore dai romanzi di Scerbanenco si manifestano esplicitamente, e in maniera privilegiata, in occasione della messinscena del corpo, a cui è riservata un’attenzione quasi maniacale. Non ci si riferisce, beninteso, soltanto a quella congerie di corpi sadicamente seviziati e maciullati che si accumulano di pagina in pagina come in una sorta di ossessionante gioco al massacro. Prima ancora di essere assunto a oggetto di sevizie e mutilazioni, il corpo costituisce nei romanzi di Scerbanenco uno dei principali poli di concentrazione e di sviluppo della narrazione. Questa centralità si manifesta in vari modi: si va dall’attrazione morbosa nei confronti del corpo “strano” e “deforme” (per esempio quello bellissimo e anomalo, gigantesco e insaziabile di Donatella Berzaghi in I milanesi ammazzano al sabato) alla repulsione, ideologicamente sospetta, nei confronti del corpo “diverso” e omosessuale, cui viene attribuito, in Venere privata, “l’incolore mostruoso dei mutanti descritti nei romanzi di fantascienza”.13 Del resto, senza arrivare a questi eccessi, tutti i personaggi del microcosmo romanzesco di Scerbanenco dedicano al corpo un’attenzione meticolosa e più volte sono

rappresentati nell’atto di truccarsi, lavarsi o farsi la barba. Lo stesso Duca esercita la sua attività di medico soprattutto mediante “interventi diretti sul corpo” (eutanasia, imenoplastica) e più di una volta manifesta preoccupazioni igieniste proprio in relazione alla corporeità (si pensi alla frequenza con cui accenna infastidito all’eccessiva lunghezza dei capelli o alla necessità di lavarsi e di far lavare gli altri). Questa centralità del corpo si arresta però, sorprendentemente, davanti alla soglia della sessualità. I corpi dei personaggi di Scerbanenco sono incapaci di una serena attività sessuale. La loro nudità, soprattutto quella femminile, viene quasi sempre descritta con toni disgustati e nevroticamente repulsivi.14 Lo stesso personaggio di Duca Lamberti non solo non sopporta la vista di corpi femminili discinti, ma rivela anche una sostanziale predisposizione alla più rigorosa astinenza. La sua castità, più che come estrema propaggine di quella secolare vocazione al celibato che fa parte del personaggiodetective, va considerata come conseguenza di una delle peculiarità più vistose della scrittura di Scerbanenco: la totale rimozione di ogni componente eroticosessuale. Non c’è sessualità felice nelle avventure di Duca Lamberti. L’unica sessualità che vi è ammessa è quella, non a caso mercificata, della prostituzione. Perfino la relazione di tipo affettivo appare possibile solo sotto forma di pratica asessuata, quale quella che si instaura per esempio all’interno della famiglia (tra fratello e sorella) o quella, aliena da ogni corporeità, che caratterizza il rapporto fra Duca e Livia Ussaro. Una tale espulsione di Eros non può che risultare sospetta, soprattutto se la si collega alla presenza dilagante di Thanatos. Il fatto è che, proprio in conseguenza della particolare struttura narrativa adottata, la compresenza sincronica dei due elementi risulta inibita: il sadismo iperrealista e le tanatologie di Scerbanenco possono affermarsi solo in virtù della preliminare eliminazione di ogni componente erotico-sessuale. L’incompatibilità fra i due elementi, esaurientemente dimostrata da Leslie A. Fiedler per tutto il filone del romanzo nero americano,15 vale in maniera analoga anche per i romanzi di Scerbanenco: l’amore morboso per la morte risulta tollerabile e perfino perversamente desiderabile solo in quanto viene a riempire il vuoto lasciato nel centro affettivo del romanzo dalla morte dell’amore. Dice bene Fiedler: Il romanzo nero è il prodotto di un’estetica implicita che soppianta il concetto classico del nulla-ditroppo con la teoria rivoluzionaria che nulla ottiene il successo come l’eccesso. Le norme aristoteliche intese a raggiungere il tragico senza cadere nell’abominevole vengono capovolte e l’abominevole in quanto tale diviene la pietra di paragone dell’arte vera. Tutto proteso a produrre la nausea, a valicare ogni limite di gusto e di sopportazione, il romanzo nero è spinto a cercare delitti sempre più atroci per soddisfare la brama dell’eccesso su cui specula.16

Scerbanenco si muove proprio in questa prospettiva, sfogando tout court in

direzione del corpo quella “brama dell’eccesso” che è indispensabile all’efficace riuscita delle sue invenzioni narrative. Tra atrocità e sevizie, la sua pagina trabocca così, con macabro compiacimento, di corpi maciullati e sfregiati, di arti mutilati, di zampilli di sangue mescolati a brandelli di materia corporea non meglio identificata: Vi erano tre corpi in quella ridotta anticamera [...]. Due avevano il cranio nettamente sfracellato e le pareti dell’ambiente erano tutte schizzate di quei resti.17 ... prima l’hanno sfigurata, forse con un sasso, in tutto il viso, poi nuda, e forse ancora viva, l’hanno messa a bruciare in un mucchio di sterpaglia lungo la via Emilia. È stata trovata che arrostiva.18

I cadaveri di Scerbanenco sono ripugnanti. Non c’è più nulla in essi di quell’estetismo necrofilo che caratterizzava tanta parte della narrativa poliziesca classica. Lividi e gonfi, triturati, mutilati, macerati, essi sono l’espressione sintomatica e inquietante dell’incontenibile crudeltà che caratterizza le relazioni sociali del mondo in cui opera Duca Lamberti. Ebbene: nei confronti di questa componente sadica del testo Scerbanenco si muove in una duplice direzione. Da un lato tende a precipitarla in un’atmosfera di disgusto repellente, quasi a provocare nel lettore una reazione di ribrezzo e di rifiuto. Dall’altro lato, parallelamente, tende a innestare su di essa una vena di patetismo che solleciti l’identificazione del lettore con la vittima di così brutali atrocità. È opportuno analizzare più dettagliatamente l’interconnessione dinamica che si instaura fra questi due tipi di reazione, al contempo antitetici e complementari. In primo luogo, si diceva, Scerbanenco non manca di sottolineare il disgusto dei suoi stessi personaggi di fronte all’orrore di un corpo straziato. Ci troviamo allora in presenza di reazioni fisiologiche “forti”, caratterizzate da nausea o da conati di vomito: ... comprendendo perfettamente la natura della cosa che stava osservando, ebbe un conato di disgusto (I milanesi ammazzano al sabato, p. 464). Anche Livia si alzò, lo stomaco gonfio di nausea e la mente di orrore (Traditori di tutti, p. 221).

Frequente è anche il procedimento di qualificare il personaggio (o il gesto) sadico attraverso un repertorio lessicale immancabilmente attinto al campo semantico dello “sporco” o dello “schifoso”. Qualche esempio, a mo’ di florilegio: letame, melma, immondizia, sozzume, sudiceria, pattumiera, spazzatura, sozzura, putridume, marciume, cloaca.19 Ma si veda anche un brano come questo: Si pesca in questo lutulento mare del crimine e della sozzeria e vengono fuori repellenti pesci piccoli e

grossi, e si fa così pulizia.20

Tale insistenza ossessiva sul tema della sporcizia fa ovviamente appello all’igienismo del lettore, nel tentativo di innescare in esso, come si diceva, un moto repulsivo fisiologicamente sollecitato nei confronti delle “sozzure” esibite davanti ai suoi occhi. Scerbanenco opera però, parallelamente, anche sul tasto del patetismo: l’obiettivo è quello di bilanciare il disgusto con la pietà nei confronti delle vittime innocenti. La componente patetica si manifesta in diversi modi: a) il sentimentalismo larmoyant di cui fanno sfoggio i personaggi “buoni” (gli innocenti, le vittime, i redenti) quando sono posti di fronte alle brutture del mondo (e del romanzo). La pagina di Scerbanenco passa allora dall’esibizione dell’atrocità allo sfavillio patetico della lacrima facile, del singhiozzo e della commozione: Livia volse il viso da una parte e se lo riparò con una mano, per nascondere la commozione (I ragazzi del massacro, p. 212). “Perché ...” disse Fiorello alzando gli occhi su di lui, d’improvviso lucidi di lacrime, “... perché io non sono come gli altri”. Due lacrime scivolarono sulle guance del ragazzo (Ibid., p. 54).

b) l’abuso di un’aggettivazione ridondante che, allorché si trova a dover qualificare una “vittima”, non sa astenersi dall’elargizione commossa di epiteti quali povero, misero, infelice; c) l’insistente sottolineatura della pena e della pietà che le vittime non possono fare a meno di ispirare (“Mi fa pena quest’uomo”; “Ne provò molta pietà”; “Ne aveva davvero tanta pena”); d) l’uso frequente di diminutivi per connotare affettuosamente luoghi e figure “innocenti”, differenziandoli palesemente dalle manifestazioni della “colpa”: si vedano per esempio, nelle sole pagine d’esordio de I ragazzi del massacro, termini come stanzina, ometto, vecchina, maestrina, scarpina, morticina, ufficietto ecc. Tale sentimentalismo ultrapatetico agisce nel corpus complessivo del testo non solo quale facile espediente per aggirare “l’indicibilità della morte” ed esorcizzare (o giustificare) l’orrore insito nella sua sadica rappresentazione, ma anche con una precisa funzione strutturale: quella di garantire, in simbiosi con la componente sadica, il funzionamento di quel duplice processo di identificazione e ripulsa che il testo di Scerbanenco cerca di sollecitare nel lettore. La coppia

sadismo-patetismo, insomma, non solo risulta attiva a livello intradiegetico, ma indirizza e incanala anche le modalità di fruizione del testo da parte del pubblico. Da questo punto di vista essa assume un valore paradigmatico e si offre come irrinunciabile passe-partout per penetrare nei meccanismi di funzionamento dei romanzi di Scerbanenco. Riletti alla luce della dialettica sadismo-patetismo, i suoi testi rivelano infatti la presenza attiva di tre figure fondamentali e diversamente orientate: Il massacro. È quello compiuto dai carnefici nei confronti di vittime non consenzienti (la mutilazione di Livia in Venere privata, l’uccisione della maestra in I ragazzi del massacro, il rogo di Donatella in I milanesi ammazzano al sabato, l’eliminazione di Tony Paganica in Traditori di tutti). Qui la ripulsa per il sadismo dei carnefici è bilanciata tout court dall’identificazione patetica che il testo sollecita nei confronti delle vittime. La faida. È l’eliminazione reciproca dei carnefici fra di loro (Ulrico Brambilla tagliato a pezzi dai suoi complici in Traditori di tutti, l’accoltellamento di Carolina da parte della prostituta in I ragazzi del massacro ecc.). Qui il disgusto nei confronti del carnefice è spinto all’eccesso, mentre l’identificazione con l’ex-carnefice che diventa vittima si mantiene su toni molto blandi, senza che mai il personaggio sfiori la soglia di una redenzione catartica. La nemesi. È costituita dall’azione della vittima che si vendica e diventa a sua volta carnefice (Amanzio Berzaghi che massacra gli assassini della figlia in I milanesi ammazzano al sabato, Susanna Paany che vendica l’assassinio del padre in Traditori di tutti, Duca che infierisce violentemente su coloro che hanno sfregiato Livia in Venere privata). Questa terza figura è strategicamente fondamentale: in essa sadismo e patetismo coincidono e diventano attributi dello stesso personaggio, realizzando un esempio emblematico di conciliazione degli opposti. Grazie a questa figura, tra la funzione di vittima e quella di carnefice si innesca un movimento combinatorio di scambio e di sovrapposizione che dinamizza il rigido manicheismo latente nei romanzi di Scerbanenco, mettendo in comunicazione i poli separati dell’innocenza e della colpa. Ma la nemesi non rappresenta soltanto il luogo dell’osmosi e del dinamismo: figura strutturalmente contraddittoria, essa svela il limite statico dei romanzi di Scerbanenco nello stesso momento in cui ne suggerisce la dinamicità. Il movimento che in essa si esprime è infatti rigidamente chiuso entro un mondo i cui confini appaiono immutabili. La vittima, s’è detto, punisce il carnefice solo facendosi carnefice a sua volta. Non c’è via di scampo. “Attori” diversi non possono che occupare

sempre le stesse polarità strutturali. L’unico movimento possibile consiste in uno scambio tra ruoli che restano immutati e aprioristicamente determinati. Il patetismo sadico di Scerbanenco riscrive insomma il mondo proiettandolo in una fosca luce hobbesiana in cui la legge dominante è davvero quella dell’homo homini lupus e la cui figura più tragicamente riassuntiva è quella del traditore di tutti. “Tradivano tutti, la madre sul letto di morte, e la figlia in clinica parto, vendevano il marito e la moglie, l’amico e l’amante, la sorella e il fratello, ammazzavano chiunque per mille lire e tradivano chiunque per un gelato”.21 Di fronte a un universo romanzesco così strutturato, il patetismo non riesce a svolgere alcuna funzione catartica: serve solo, di tanto in tanto, ad agitare dall’interno questo universo plumbeo e ghiacciato con il ribollire di eroici quanto lacrimevoli (e astratti) furori. 2.2.4. Duca Lamberti e la furia della detection Con il personaggio di Duca Lamberti, Scerbanenco delinea una figura di detective indubbiamente cinica e dura, anche se solo in parte riconducibile alla tipologia del private eye diffusa dai romanzieri americani dell’hard boiled school. Medico e scapolo, espulso dall’Ordine e condannato a tre anni di carcere per un caso di eutanasia, ossessionato da un bruciante passato pieno di frustrazioni professionali, Duca Lamberti ha infatti ben poco in comune con quelle figure di detective solitari, rudi e cavallereschi difensori di un residuo codice d’onore che il lettore italiano aveva imparato a conoscere (e ad amare) nelle pagine dei primi esponenti della “scuola dei duri” d’oltreoceano. Le motivazioni che spingono Duca Lamberti ad agire non sono né l’adesione etica al proprio lavoro, tipica di certi personaggi di Hammett, né il coinvolgimento umano quasi cristologico del chandleriano Marlowe. Se costoro affascinavano (e straziavano) il lettore per la loro “tristezza di non poter cambiare il mondo” (Del Buono), Duca Lamberti colpisce per la rabbia e il furore con cui reagisce di fronte a un mondo che ritiene immutabile e che, come afferma senza reticenze già all’inizio della sua prima avventura, non ama: ... il mondo intorno non gli piaceva più. Anche per una gallina può essere provocante e provocare l’insonnia lo stare in un pollaio che non gradisce in alcun modo.22

Neanche i personaggi di Hammett e Chandler amavano particolarmente il mondo. Ma in essi c’era la consapevolezza che se anche esso “non era molto profumato”, come affermava Chandler, era tuttavia il mondo in cui dovevano

vivere. In Duca Lamberti invece, più che la consapevolezza di dover vivere nel mondo, colpisce il desiderio viscerale e rabbioso di precipitare questo mondo all’inferno, quasi per punirlo vendicativamente delle antiche emarginazioni subite. Duca non smette mai, neanche per un istante, di odiare la società in cui pure vuole reinserirsi. L’odio è la caratteristica più vistosa ed esplicita della sua personalità. Ed è un odio che colpisce tutti, in modo totale e viscerale. Duca odia gli omosessuali e le prostitute, i tossicomani e i “giovinastri”, le donne che abortiscono e i “capelloni”, i piccoli industriali “porci” e i “banditi con l’ufficio legale a latere”. Nei confronti di costoro non manifesta alcun intento pedagogico o rieducativo, ma solo un incontenibile desiderio di punizione e di revanche: “Sì, lo sapeva, si trattava di un volgare, ancestrale istinto di vendetta, non aveva cercato la giustizia, non aveva voluto aiutare la legge, voleva solo vedere in faccia qualcuno di quelli, e parlare con loro la loro lingua perché così ci si capisce subito.”23 Questa lingua è ovviamente quella della violenza fisica. Duca Lamberti vi fa ricorso senza esitazioni, con una crudeltà chiassosa che ricorda il Mike Hammer di Spillane o certi gangster di James Hadley Chase. In tutto e per tutto analogo a quello dei criminali su cui si esercita, il suo impulso aggressivo nasce da un’istanza punitiva emotivamente “calda”, da un codice istintivo che coinvolge non solo i suoi gesti e il suo comportamento, ma anche il suo linguaggio. Duca Lamberti non possiede quella capacità di agire in silenzio e senza esprimere giudizi che era tipica dei detective americani.24 Al contrario, egli parla in continuazione, emette sentenze, imprecazioni, maledizioni, minacce. Parla come se, esponendosi alle turpitudini del mondo, ne fosse stato irrimediabilmente contagiato. Il suo linguaggio trasuda odio, furore e disprezzo, colorandosi perfino, a tratti, di vaghi echi lombrosiani. Certo, questo groviglio di furie represse e di rabbie esplosive lascia intravvedere a volte improvvise screpolature. Neppure il personaggio-detective è immune dal patetismo che intride un po’ tutte le pagine di Scerbanenco. In esso anzi il patetismo assume connotati particolarmente stucchevoli, con un che di puerile e caramelloso. Duca Lamberti non conosce ironia. È portato spesso a piangere su se stesso o ad autocommiserarsi, a commiserare le vittime innocenti, a compatire i padri,25 e a sognare idilliche oasi di pace familiare. Il culto della famiglia assume in lui un ruolo centrale in quanto antitesi ideale alla brutalità della metropoli. Nel momento in cui viene rappresentata come istituzione allo sfascio,26 la famiglia torna a essere un possibile oggetto di nostalgia. Si veda per esempio questo bozzetto di vita familiare tratto da I ragazzi del massacro: Lorenza stava stirando un grembiulino rosa a bordini bianchi, su una sedia vi era una grossa scatola di cartone, piena di roba già stirata e ordinatamente sistemata [...]. Lui le appoggiò una mano sulla spalla, poi accese una sigaretta e sedette a capotavola aspirando il caldo odore del ferro da stiro e di tutte quelle

piccole, minime vestimenta che emanavano un tepido aroma da detersivo (p. 84).

È un brano estremamente rivelatore: la famiglia vi si configura come il luogo dei diminutivi affettuosi (“grembiulino”, “bordini”), come lo spazio in cui tutto è disposto “ordinatamente”, come un nido accogliente dominato dal caldo e dalla pulizia (inevitabilmente contrapposti, nella percezione del lettore, al freddo e al “pattume” che solitamente caratterizzano le scene in esterni). Non è neppure casuale il fatto che in una lingua così cauta nell’assumere voci arcaiche e letterarie come quella di Scerbanenco, due dei rari esempi di arcaismi (“vestimenta”, “tepido”) ricorrano proprio in un brano dedicato alla famiglia, quasi a sottolinearne, nostalgicamente, il valore di istituzione legata a sane costumanze antiche. Queste valenze patetiche e sentimentalistiche sono comunque sommerse, nel personaggio di Duca Lamberti, dalla schiacciante prevalenza delle componenti sadico-aggressive. Complessivamente considerato, Duca ci appare come il prototipo dell’individuo emarginato, frustrato nelle sue aspirazioni, poco fiducioso nei rapporti umani, nevroticamente vendicativo. Compatto, sistematico, intransigente, incarna una figura di detective “glaciale”, mosso da un “moralismo tutto di testa, che conserva le forme, ma non la sostanza, del comportamento etico”.27 Nel suo personaggio Scerbanenco fonde l’archetipo dell’eroe spaccatutto con quello del crociato o dell’apostolo che vuole “schiacciare il male”.28 Ma Duca Lamberti è un crociato che non ha nessuna Terrasanta da liberare: ha smesso addirittura di cercarla e combatte solo per esorcizzare i suoi astratti furori. In ciò sta il limite del personaggio, ma forse anche la sua principale e inedita peculiarità. Duca Lamberti ha smesso di cercare la verità: non gliene importa più molto, la considera solo “un’astrusa astrazione”.29 Gli interessa solo che certa gente “vada in galera e che tutti lo vedano e lo sappiano”. È la fine della detection filologica, quella che i detective di un tempo conducevano “con la pazienza dei decifratori di palinsesti”.30 Ma è anche il riconoscimento dell’inutilità e dell’impraticabilità di ogni operazione ermeneutica, declino definitivo delle sperimentate e rassicuranti norme poliziesche tradizionali. La quête del detective non ha più un oggetto, ma candida se stessa, l’aura che la circonda e nella quale rischia di implodere, a oggetto esemplare, a modello: un grumo di lacrime e sangue, di furie compresse e di deprimenti nostalgie, destinato a girare a vuoto, a operare per rastrellamenti e retate, nel sospetto nascente che forse, in una civiltà di massa, l’unica detection possibile consista nel far conoscere a tutti i particolari di ogni delitto e massacro. La proposta viene avanzata dallo stesso Duca nel finale de I ragazzi del massacro.31 E vale quasi come una sorta di brechtiano suicidio dell’intellettualedetective, o almeno come autodistruzione di quel vecchio sapere snobistico,

esoterico ed esclusivo che tutta la tradizione del romanzo poliziesco aveva codificato e istituzionalizzato. 2.2.5. Una fenomenologia della crudeltà Nell’economia complessiva dei romanzi di Scerbanenco, Duca Lamberti è spesso portatore di un moralismo ideologicamente sospetto e fortemente manicheo. La sua presenza in scena offre al narratore l’occasione di sciorinare umori viscerali che riecheggiano le richieste di law and order avanzate in maniera pressante da certi ambienti della borghesia milanese nella seconda metà degli anni sessanta. Nei suoi “monologhi interiori” sono frequenti le affermazioni misogine, quelle inneggianti all’eliminazione fisica dei criminali, quelle che accreditano un’interpretazione biologico-razziale della delinquenza (“Secondo me tu sei nato delinquente, come uno nasce biondo”) o che rivelano un odio viscerale nei confronti dei “diversi” di qualunque tipo. Il punto di vista del protagonista risulta insomma sostanzialmente omologo a quei richiami all’ordine e a quegli impulsi revanchistici che connotavano ideologicamente gli strati più retrivi del ceto medio italiano negli anni dei primi governi di centrosinistra. Sarebbe tuttavia un errore identificare tout court il punto di vista del personaggio con l’ideologia complessiva emergente dai romanzi di Scerbanenco. Come ha infatti esaurientemente mostrato Umberto Eco, le posizioni ideologiche di un testo (di qualunque testo) “non derivano tanto dai contenuti strutturati, quanto dal modo di strutturare narrativamente i contenuti”.32 È in questa prospettiva che va misurato l’impatto ideologico di Scerbanenco con il suo pubblico, tenendo conto peraltro di un dato fondamentale: prima che un ideologo o un maître à penser, Scerbanenco è un narratore, un professionista della macchina da scrivere abituato a valutare e a calibrare con estrema perizia il tipo di feedback emotivo che ogni suo testo può produrre sui lettori. Scerbanenco conosce bene la materia su cui lavora. E conosce il pubblico cui si rivolge, quello che lo legge con costanza assidua e con sottile complicità. Mettendo in scena il personaggio di Duca Lamberti connotato da una particolare ideologia, Scerbanenco mira per prima cosa ad ammiccare a questo tipo di pubblico. In altre parole, compie un’operazione retorica prima ancora che ideologica. Scerbanenco lavora sugli endoxa, cioè sul già noto, sul senso comune, su ciò che la maggior parte del suo pubblico già oscuramente pensa. Paradossalmente, egli non fa che “ribadire”: riecheggia ciò che i giornali della sera vanno sbandierando quotidianamente nelle pagine di “nera”, riusa le emozioni forti messe in circolazione da alcuni episodi di cronaca giudiziaria, va a cercare il lettore sul

suo terreno, lo blandisce, gli offre una via di identificazione facile e immediata. Una volta scattata, questa identificazione funzionerà non tanto nei riguardi del singolo contenuto ideologico o del singolo personaggio, quanto nei confronti del meccanismo romanzesco nel suo complesso. E tale meccanismo affabulerà, oltre a quelli espressi attraverso il punto di vista di Duca Lamberti, altri tipi di endoxa: per esempio quello della crudeltà e della durezza della vita nella metropoli, o quello della pena per i relitti umani che la abitano. Ricordava recentemente Raffaele Crovi che una delle radici del grande successo di Scerbanenco è da individuare proprio nel fatto di aver assunto al ruolo di protagonisti gli emarginati, i soggetti sociali rimasti esclusi dalla società dei consumi di massa.33 È vero. Ma a questi va aggiunta anche tutta quella folla di figurine minori, oneste e lavoratrici, che affiorano qua e là sullo sfondo dei romanzi e che, complessivamente considerate, delineano la tipologia del travet ambrosiano, impiegato e “brav’uomo”, conformista quanto basta, fanatico del lavoro e della serietà. Personaggi come questi trovano il loro eroe emblematico nella figura di Amanzio Berzaghi, il protagonista de I milanesi ammazzano al sabato, e invitano il lettore (che spesso magari è a sua volta proprio un “brav’uomo” onesto e testardo, fedele a un’etica del lavoro e della famiglia di schietto stampo lombardo) a un processo di identificazione immediata. I romanzi di Scerbanenco strutturano insomma contenuti differenziati e sollecitano i processi di immedesimazione del lettore ricorrendo a diverse strategie. Innescare il coinvolgimento del lettore è per Scerbanenco più importante che riflettere sulle singole occasioni che consentono l’innesco. Una volta scattato, il coinvolgimento agirà infatti nei confronti di tutto il meccanismo testuale, dimenticando in esso l’occasione che l’ha generato. Del resto, i vari frammenti di ideologia o i contrastanti punti di vista che Scerbanenco assume all’interno del testo si neutralizzano reciprocamente nel corso dello sviluppo narrativo delle vicende: e ciò spiega perché, nonostante i reiterati appelli all’ordine lanciati da alcuni personaggi-chiave, i romanzi di Scerbanenco finiscono per lasciare nel lettore soprattutto l’immagine straziante e straziata di un mondo percorso da un disordine incontenibile. Certo: Scerbanenco struttura i suoi romanzi come “miti”, rappresenta un mondo chiuso e senza vie d’uscita, s’infuria per l’impossibilità di recuperare questo mondo a un qualsiasi principio ordinatore. Ma forse proprio per questo, per la sua distanza da ogni ideologia facilmente consolatoria e da ogni forma di indulgenza e di compiacimento, la sua fiction riesce a essere davvero spietata e a rappresentare in maniera persuasiva gli “orrori” della realtà. Né va dimenticato che lo stesso patetismo di Scerbanenco è lontanissimo da quella che è la menzogna più ricorrente (e odiosa) di tutta la letteratura larmoyante: la tendenza a demonizzare la natura per assolvere la

società. In uno studio avvincente e persuasivo, Franco Moretti ha recentemente dimostrato come quasi tutta la letteratura “commovente” tenda a individuare l’origine del dolore umano – attraverso il ricorso al topos della morte dovuta a cause strettamente naturali – non là dove è osceno che esista (cioè nei rapporti fra gli uomini), bensì là dove è inevitabile (ossia nella natura).34 Ebbene: Scerbanenco evita accuratamente questa trappola insita nel ricorso al patetico e sottolinea incessantemente come il dolore non sia che una funzione o una conseguenza dei conflitti sociali, sia pure riscritti in forma di fiction. Posto di fronte a essi, e all’incontenibile violenza aggressiva che li caratterizza, Scerbanenco rinuncia alle consolanti ricomposizioni dell’ideologia per fornire invece al lettore una lucida e amara fenomenologia della crudeltà. 2.2.6. Oltre la scissione fra lingua scritta e lingua parlata Il tono medio, dimesso e apparentemente trasandato della lingua di Scerbanenco non è solo la conseguenza di una scrittura veloce e poco controllata, ma anche di una consapevole scelta stilistica che, con decisione e senza pentimenti, assume il parlato quale preciso e costante modello di riferimento, mimandone le pause, le sciatterie, l’andamento spezzato e paratattico. Tutto risulta funzionale all’efficacia e alla scorrevolezza della narrazione: la punteggiatura disinvolta, lo scarso uso di congiuntivi, l’assenza di costruzioni sintattiche particolarmente elaborate non sono che i connotati più evidenti di una lingua programmaticamente modellata sui codici espressivi dei destinatari. In una tradizione come quella italiana, da sempre caratterizzata da una drammatica scissione tra lingua scritta e lingua parlata, l’aver tentato di far coincidere i due piani non è certo cosa da poco e costituisce probabilmente una delle ragioni del successo di Scerbanenco presso il pubblico di massa. Sul piano lessicale, la lingua di Scerbanenco giostra su un repertorio di voci relativamente circoscritto e attinto al parlato quotidiano piccolo e medio-borghese di area settentrionale e lombarda. Le voci esplicitamente dialettali sono decisamente rare, mentre appaiono in certa quantità voci e locuzioni di derivazione gergale (bidonare, carburarsi, bombare o stirarsi, nel senso di drogarsi). Interessanti le neo-formazioni aggettivali ottenute mediante scambio di suffissi (“giovane neruto e capellastro”), i neologismi (ruscellare, raspignare, vastificarsi, appuzzolentire), e i composti del tipo jamesbonderia, antigiocodazzardo, turisticocimiteriale, autocoleottero. Non mancano neppure interessanti esempi di quelle che Migliorini definiva parole-macedonia, cioè voci formate dall’unione arbitraria di pezzi e “bocconi” di altre parole: a titolo di esempio si può citare

giocastroso (giocoso + disastroso). Si tratta comunque di usi decisamente limitati, inseriti occasionalmente in una compagine linguistica che, come si diceva, non si distanzia molto dalle voci di uso corrente nel linguaggio quotidiano. Il riferimento alla quotidianità è del resto evidente in Scerbanenco anche nei rari esempi di elaborazione retorica. Scerbanenco non rinuncia completamente all’uso di metafore e di similitudini. Rinuncia però, radicalmente, a quel repertorio di figure tradizionali, ormai logore e consunte, che pure avevano ancora un peso invadente e fastidioso nei suoi gialli giovanili dei primi anni quaranta. Nei romanzi del ciclo di Duca Lamberti le metafore e le similitudini attingono invece direttamente alla contemporaneità, raggiungendo a volte risultati di discreta originalità: ... distrutto come una radio dai transistori bruciati, apparentemente intatta eppure irrimediabilmente muta ... (I milanesi ammazzano al sabato, p. 467). ... la fronte divenne fitta di rughe come una fitta rete ferroviaria vicino alla stazione capolinea (Venere privata, p. 15).

Assieme all’armamentario retorico tradizionale, tendono anche a scomparire le voci arcaiche e letterarie, che ricorrono in quantità molto esigua e sono comunque sottoposte a un uso decontestualizzato che le proietta in una luce decisamente ironica. In espressioni come “sparare qualche inane colpo di rivoltella”, “la pace di quel viale Tunisia, così improbabilmente silente” o “si molciva tutta nel viso”, l’uso linguistico letterariamente atteggiato finisce per stridere nel contesto crudo e violento della narrazione, come se Scerbanenco volesse ironicamente sottolineare l’inutilizzabilità e la goffaggine di un repertorio lessicale ormai del tutto inadeguato a rappresentare situazioni inedite rispetto a quelle della letteratura tradizionale. L’assenza di voci arcaiche e letterarie non significa per altro, beninteso, che Scerbanenco ripudi l’uso di voci “colte”. Nella sua pagina compaiono a volte aggettivi come l’“eiffeliano ponticello di ferro” di Traditori di tutti (p. 145) o le “sottigliezze whiteheadiane” de I ragazzi del massacro (p. 65) che risultano decisamente sorprendenti in una lingua apparentemente “sciatta” come la sua. Il fatto è che Scerbanenco è più colto di quanto non sembri a prima vista. Nel solo Venere privata si trovano citazioni di Bertrand Russell, Freud, Kant, Pareto e Moravia. In Traditori di tutti vengono citati il “rasoio di Occam” (p. 181), un lungo brano del Corpus Hippocraticum (p. 227) e perfino un’intera pagina di Galileo, diligentemente copiata dall’edizione dell’Opera omnia del 1936, “quella curata da Sebastiano Timpanaro” (p. 260). Questi ammiccamenti “colti” sono indubbiamente bilanciati da tutta una serie di riferimenti alla cultura “bassa”, quella diffusa dalla

televisione, dai fumetti o, in generale, dal mondo dello spettacolo. Nelle formazioni antonomastiche, per esempio, Scerbanenco evita i riferimenti eruditi e letterari per attingere direttamente ai modelli divistici dello star-system: così le ragazze che ballano al country-night in Brianza sono “soraye” e quella che si accompagna a Duca è “una raffinata Françoise Hardy”. Analogamente, per quanto riguarda l’adozione di onomatopee, Scerbanenco sembra rifarsi direttamente a quei processi di visualizzazione sonora dei rumori (“il panf degli schiaffi”, “il tipek tipek della macchina da scrivere”, “il tlin del campanello”) che si erano diffusi nella cultura di massa, anche italiana, grazie alla sempre più massiccia circolazione dei cartoons o delle strisce a fumetti. In Scerbanenco insomma “cultura bassa” e “cultura alta” sono i poli di un unico sistema integrato, sono “saperi” compenetrati l’uno nell’altro e risolti nella loro dialettica reciproca. L’efficacia della lingua di Scerbanenco è evidente tuttavia soprattutto a livello sintattico, nella sua capacità di rendere sulla pagina il disordine, la frantumazione, la progressione tipica del linguaggio parlato. Quella di Scerbanenco è una sintassi monoproposizionale e paratattica che procede con passo secco e veloce, ritmato, quasi “jazzato”, pieno di riprese, di sincopi, di contrappunti, di ritorni all’indietro e di improvvise accelerazioni. Il ricorso frequente e insistito al discorso indiretto libero consente al narratore di incorporare, sul piano della comunicazione diegetica, le espressioni vive dei suoi personaggi e di alternare voci e punti di vista diversi in un linguaggio che procede come un flusso continuo, assorbendo e riciclando frammenti di discorso diretto, sentenze impersonali, imprecazioni, interrogazioni, imperativi e commenti, con un andamento a volte un po’ nevrotico, pieno di scatti, di aggiustamenti progressivi, di soste improvvise, ma sempre sorretto da un ritmo rapido e asciutto. È raro trovare in Scerbanenco quella tendenza alla digressione o all’escursione enciclopedica così tipica della letteratura popolare e ancora viva nelle pagine di un autore come Fleming. Scerbanenco procede lungo l’asse del racconto senza esitazioni o divagazioni, raggiungendo il massimo di stringatezza e di efficacia in quei dialoghi fulminanti in cui lascia liberamente la parola ai suoi personaggi, registrandone il vociare rapido e confuso senza alcuna intromissione, con una tecnica abbastanza vicina a quella di certi réportages giornalistici affermatisi nel corso degli anni sessanta in rubriche televisive (si pensi per esempio a TV 7) messe in onda dalla RAI. Se a volte il suo stile sfiora quella che Eco ha definito “l’ineducata buriana di Spillane”, se cioè il suo linguaggio diventa duro e violento, trasuda odi viscerali e impulsi omicidi, accumula nefandezze e truculenze come in una sorta di macabra parata dell’orripilante, ciò non è dovuto forse all’esclusiva responsabilità dell’autore, ma anche alle attese del mercato e del pubblico al quale egli si rivolge:

Non era una bella favola per bambini, quella, ma il bambino che doveva far addormentare era un po’ grandicello e aveva bisogno di favole robuste.35

È un’affermazione che vale quasi come dichiarazione di poetica e conferma in Scerbanenco l’esistenza di una precisa consapevolezza del tipo di pubblico a cui si indirizza il suo lavoro di scrittore e del “sistema di attese” che deve cercare di soddisfare. 2.2.7. Ordine e disordine del mondo e del linguaggio È possibile ritrovare in Scerbanenco un’analoga consapevolezza anche per quanto riguarda le implicazioni connesse alle sue scelte linguistiche e stilistiche? Stando ai testi, si direbbe di sì. I suoi romanzi infatti, pur così avari di divagazioni o di digressioni, contengono a volte improvvise e inattese affermazioni “teoriche” relative proprio alla natura del linguaggio e all’uso delle parole. Si tratta di riflessioni fulminee, spesso nascoste tra le pieghe del racconto o disseminate nel parlato di uno di quei personaggi positivi che in genere sollecitano l’identificazione simpatetica del lettore: Niente è facile da dire, neppure “buongiorno”. ... aveva imparato a non dire parole superflue. ... non diceva mai una parola di più o inutile. In carcere [...] le parole hanno molto valore, quelle dette e quelle ascoltate; nella vita libera, incensurata, c’era sciupìo e svalutazione delle parole e dell’ascoltare le parole: si continuava a parlare senza saper bene quello che si diceva, e si ascoltava senza capire.

Sono affermazioni indubbiamente significative. Pur nella loro frammentarietà, esse testimoniano almeno due cose: una precisa consapevolezza del valore delle parole e un certo fastidio nei confronti della loro svalutazione. Scerbanenco mostra insomma di non amare il linguaggio fatico, la logorrea, il parlare per parlare, il chiacchiericcio fine a se stesso caratteristico di tanti “salotti, salottini e stanzette della milaneria” su cui ironizza in una delle pagine iniziali di Venere privata. Eppure, nonostante questo disprezzo per lo “sciupìo” delle parole, i romanzi di Scerbanenco traboccano di eccessi e turgori linguistici. La contraddizione si spiega con la presenza, nei suoi procedimenti di costruzione testuale, di due spinte contrastanti. Da un lato Scerbanenco cerca effettivamente di arginare lo “sciupìo” delle parole. Molto frequente è per esempio la tendenza a mescolare il calembour e l’annominatio fino a produrre frasi del tipo: Il vasto mondo di quella vasta sciagura si vastificava sempre di più.

... con le indicazioni puntigliose della puntigliosa piemontese ... Scese la dolce scala della dolce villa ... ... più livido e tubercoloso che mai sotto la livida luce ...

Il fitto ricorso a questo particolare uso stilistico, ancora prima di produrre effetti di ridondanza o di ripetitività, vale come indizio della tendenza di Scerbanenco a ridurre il linguaggio ad alcune voci essenziali, evitando ricerche sinonimiche, ampliamenti semantici, arzigogolature espressive, sfumature e polisemie. Per qualificare con un aggettivo un personaggio esposto a una luce livida, Scerbanenco ritiene che la via più breve (quella più economica e parsimoniosa, quella meno ambigua e dissipatrice) consista nel definirlo livido a sua volta. In questo modo egli evita lo sciupìo di parole, non ricorre a voci “superflue” e aggira le difficoltà della nominazione. Per Scerbanenco, insomma, anche nel linguaggio, come nella detection, “bisogna adoperare il rasoio di Occam, bisogna fare economia di ipotesi”. Certo una via ancora più “economica” avrebbe potuto essere quella di abolire del tutto (o di ridurre drasticamente) l’impiego di aggettivi. Ma è un’ipotesi che Scerbanenco non prende neppure in considerazione. Accanto all’esigenza di evitare lo sciupìo delle parole agisce infatti in lui un’opposta – e complementare – istanza linguistica che lo spinge a cercare di definire nel modo più esatto e più articolato possibile ogni oggetto, fenomeno, gesto assunto all’interno del testo. Accanto alla preoccupazione di evitare lo spreco linguistico, Scerbanenco è insomma ossessionato anche dal timore che le parole non riescano a significare adeguatamente le cose. Per questo si sente spesso in dovere di sottolineare l’arbitrarietà e l’opinabilità della nominazione nel discorso comune e quotidiano (“andò subito nel suo ufficio, se si poteva chiamare ufficio”; “Un angolo del proprio tavolino chiamato irrealisticamente scrivania”), giungendo a volte a precisare, con eccesso di pignoleria nomenclatoria, il vero significato di un termine o di una voce (“con qualche centimetro di giardino davanti, che poi non era un giardino, ma una striscia di terra con dei fili verdi”; “entrò in un brullo sassoso spazio chiamato parcheggio”). Questo modo di procedere, per nulla occasionale e anzi ricorrente un po’ in tutti i romanzi di Scerbanenco, si muove evidentemente in una direzione opposta a quella dell’annominatio iterativa evidenziata in precedenza: se lì l’autore tendeva a limitare il numero di parole usate, qui ricorre invece a perifrasi che moltiplicano e amplificano il materiale verbale assunto nel testo. Ancora una volta la pagina di Scerbanenco appare percorsa da due tendenze antitetiche e contrastanti: l’una parsimoniosa e deflativa, l’altra inflativa e dissipatrice. La coesistenza degli opposti funziona insomma nei suoi testi non solo sul piano delle strutture, ma anche su quello

della lingua. Questa smania di perifrasi definitorie ci sembra però particolarmente importante: per il suo tramite Scerbanenco evidenzia l’inadeguatezza delle parole a significare le cose e ribadisce le difficoltà e i rischi insiti in ogni atto di produzione linguistica. A volte sembra quasi che egli consideri ogni parola, bachtinianamente, come “parola abitata”, cioè segnata dai contesti, dagli usi e dai parlanti che l’hanno “nominata” in precedenza. Da qui la sua frequente preoccupazione di riportare locuzioni e parole ai parlanti che le hanno pronunciate o che avrebbero potuto pronunciarle (“Il giovanotto era piccoletto, era quello che delle zie affettuose avrebbero definito un torello”; “... su quella che i poliziotti in casco bianco definiscono la sede stradale”). Scerbanenco restituisce insomma ogni parola al suo legittimo proprietario o, se vogliamo, tende a ripristinare il principio di proprietà nell’ordine del linguaggio. Il disordine del mondo è per lui anche un disordine linguistico. E la restaurazione dell’ordine non può che passare preliminarmente attraverso un lavoro sulle parole e sulla loro capacità di definizione. Lo stile spezzato di Scerbanenco deriva anche da qui, da questa volontà di procedere per aggiustamenti progressivi nel tentativo di andare con le parole sempre più vicino alle cose, per impedire che tra le une e le altre rimangano zone oscure di ambiguità. Ne deriva un linguaggio dialogico che aspira però al monologismo, cioè a un ordine ferreo e univoco della significazione. Come dire che il linguaggio di Scerbanenco è magari anche disposto a procedere per approssimazioni, ma solo nel tentativo di eliminare ogni approssimazione possibile e di pervenire a una nominazione rigidamente definitoria e univocamente determinata. Anche sul piano della lingua Scerbanenco preferisce insomma, come uno dei suoi personaggi, le espressioni nette e chiare, “il bianco e il nero, il dentro e il fuori”: non ama le “sottigliezze whiteheadiane”. Ma proprio qui si innesta la contraddizione proficua che attraversa tutti i suoi testi: per rimuovere il disordine del linguaggio, per svelarne ed esorcizzarne le ambiguità, Scerbanenco è costretto ad assumerle, a nominarle, a farle proprie. Anzi: è costretto a fare di esse l’asse portante del suo linguaggio. Così, anche sul piano della lingua, il suo sogno d’ordine non può esprimersi, paradossalmente, che attraverso la rappresentazione del disordine, con il rischio di finire quasi inavvertitamente ad annullarsi in esso. Ancora una volta l’equilibrio dei contrari. Ormai lo conosciamo bene. Ma sappiamo anche ciò che esso nasconde: per quanto si dia da fare con il “rasoio di Occam”, Scerbanenco continua a ritrovarsi per le mani un mondo che sembra appena uscito dal tritacarne sanguinante di un macellaio. L’invenzione romanzesca si rivela impotente a riordinare il mondo che essa stessa ha generato, anche se prova e riprova incessantemente a farlo, incurante delle sconfitte e degli scacchi. Forse, proprio la presa d’atto di tale

reiterata impotenza, della sua genesi e della sua fenomenologia, costituisce la chiave che può consentire al lettore di rompere il rapporto di subordinazione emotiva nei confronti del testo per riviverne criticamente il significato esemplare e assimilarne, almeno in parte, il potenziale conoscitivo.

2.3 IL TRAMONTO DELL’EROE La Piovra e la protoserialità televisiva italiana

Nella prima sequenza di La Piovra – la serie TV messa in onda dalla RAI nel 1984 e diretta da Damiano Damiani – la televisione mostra se stessa al lavoro. Sul luogo del delitto – una strada di periferia in cui è stata abbandonata un’auto con il cadavere del capo della Squadra Mobile – non arrivano per primi né la polizia né un detective (le figure “classiche” del giallo pretelevisivo), bensì la troupe di una emittente privata che riprende in diretta l’arrivo della polizia e del giudice istruttore. La TV, insomma, è più veloce della giustizia. Arriva in anticipo, la batte sul tempo. E registra con suggestivo tempismo il rito della ricognizione giudiziaria sul presunto luogo del crimine. Un simile incipit è interessante per almeno due motivi. In primo luogo, perché anticipa (e rovescia) la tendenza di altre serie televisive del decennio come Racconti del 113 o Pronto polizia, in cui la macchina da presa vola parassitariamente sulla scia delle pattuglie della volante ma limitandosi a riprendere e a documentare ciò che dal loro intervento viene portato in superficie. In secondo luogo – che è poi quello che più interessa in questa sede – perché non è senza significato che il più grosso successo della fiction televisiva italiana degli anni ottanta (dieci milioni di spettatori a puntata, con punte di quindici milioni) si apra con un segno di forte connotazione metalinguistica: all’inizio di La Piovra la TV parla di sé, si esibisce, si mette in scena. E sollecita il pubblico di massa a una fruizione conseguente: è come se la fiction si innestasse senza soluzione di continuità sull’informazione, sulla cronaca, sul reportage giornalistico o sul servizio di “nera” del telegiornale. Ovviamente, la promessa implicita nel patto narrativo è che la fiction mostri ciò che la cronaca non fa (e non può far) vedere. Cioè il dietro e il dopo della diretta. La trama di eventi (l’intreccio narrativo) che l’episodicità evenemenziale della diretta TV non può abbracciare (e comprendere) nella sua dinamica complessità. La diretta televisiva (o metatelevisiva) della sequenza iniziale di La Piovra apre insomma

la porta al bisogno di una differita: cioè di una narrazione che sappia spiegare l’evento documentato dalla diretta non solo nel suo manifestarsi fenomenico, ma nella sua genesi e nei suoi rapporti di causa ed effetto. Il che è come dire che la TV, all’inizio di La Piovra, si mostra e si nega. Si nega mostrandosi. Si trascende. E genera il bisogno di una narrazione “altra”, irrealizzabile con i tradizionali metodi della diretta cronachistica. Tutte le sei puntate della prima serie di La Piovra sono tramate dal ricorrente ritorno di questa mise en abîme: non c’è puntata in cui non si parli della TV, non episodio in cui una scena-madre (o un nodo dell’intreccio) non si sciolga (o non si aggrovigli vieppiù) con la complicità mediologica del piccolo schermo televisivo. Nella prima puntata, per esempio, il commissario Cattani si reca con De Maria a perquisire l’appartamento del poliziotto ucciso. Durante la perquisizione, in salotto, la TV è accesa. Stranamente accesa. “Cos’è, un film americano?”, chiede De Maria. E Cattani non risponde. Ma l’osmosi è ribadita una volta di più: sul luogo della quête, in differita televisiva, “parla” la memoria storica del cinema nero americano. E l’offerta di consumo “ibrido” (fiction su una base di cronaca) su cui La Piovra gioca buona parte dei suoi atouts ne esce ulteriormente rinsaldata. Ma – si diceva – la TV è anche al centro di alcuni degli episodi chiave della serie. Quando Cattani arriva in Sicilia con la moglie, una troupe televisiva vorrebbe fargli ridiscendere la passerella della nave per riprenderlo, ma il neopromosso capo della Squadra Mobile rifiuta la simulazione. Subito dopo, tuttavia, è in uno studio televisivo che il commissario enuncia la sua prima analisi storico-filologica sulla mafia: “Mafioso entrò nella nostra lingua come a esprimere un esagerato concetto della forza individuale: insopportazione della prepotenza altrui ma amore per la propria, e diritto a farsi giustizia anche al di fuori della legge.” Ed è nello stesso studio di una TV privata che Cattani organizza un talk show disertato dai notabili siciliani per denunciare alla popolazione (ma meglio sarebbe dire: al pubblico) le complicità di cui la mafia gode negli ambienti “bene” della città. Poi, con un brusco cambiamento di segno, da strumento dell’offensiva di Cattani la televisione diventa l’arma privilegiata del contrattacco scatenato dai mafiosi: i quali usano il potere persuasivo del piccolo schermo prima per corrodere la simpatia popolare verso il commissario, poi per calunniarlo con l’emissione di fake news e di sospetti atti a compromettere la sua immagine pubblica. Infine, è proprio in televisione che Cattani cede al ricatto dei rapitori della figlia, accettando di rendere pubblica una falsa versione dei fatti che compromette definitivamente la sua credibilità. Tanto che la parziale vittoria dei mafiosi è sintetizzata dallo speaker nella sua trasmissione TV: “Le bolle di sapone divertono i bambini, ma alla fine scoppiano senza lasciare traccia.”

Un simile uso “metalinguistico” della televisione è riscontrabile, pur con varianti e mutazioni, in tutte le successive serie di La Piovra. Ma con una precisazione: man mano che ci si avvicina alla fine degli anni ottanta, muta il segno “teorico” di questa presenza. Un solo esempio: si pensi a una delle sequenze d’azione più riuscite di La Piovra 4, l’agguato a Frolo e Cattani realizzato con spreco di raffiche di mitra, automobili rovesciate e sangue che scorre. Qui la TV arriva solo post factum, a riprendere la scena del massacro quando ormai l’eccidio si è consumato. La diretta TV, insomma, risulta differita rispetto alla narrazione della fiction. E in questo ribaltamento della relazione iniziale (quando la TV arriva comunque per prima) c’è uno degli aspetti più geniali dell’intera operazione: quello che consiste in un uso della TV in quanto “canale” di diffusione di La Piovra che fa leva su quei “buchi neri” dell’immaginario o su quelle “zone d’ombra” della coscienza collettiva che il consumo abituale di televisione non è in grado generalmente di soddisfare. La Piovra, insomma, è la metatelevisione che dà spettacolo di sé. E che arriva laddove la TV informativa non saprebbe arrivare. 2.3.1. Il mafioso muore sempre fuoricampo Un ulteriore dato conferma la legittimità di una lettura “metalinguistica” di La Piovra. Il regista della prima serie, Damiano Damiani, già in precedenza aveva mostrato il suo interesse a coniugare il tema della mafia con una riflessione articolata sui mezzi di comunicazione di massa. Si pensi a un film come Perché si uccide un magistrato (1974): un giovane regista presenta a Palermo un suo film in cui illustra le collusioni, in Sicilia, fra mafia e magistratura. Un giudice, che molti identificano con il protagonista del film, viene trovato ucciso e il regista sospetta che gli assassini abbiano agito per conto dell’onorata società. Il regista si chiama Solaris: e non bisogna essere esegeti di Tarkovskij per capire l’allusione. Lo scenario è ovviamente diverso da quello di La Piovra: il film del 1974 si muove ancora nell’ambito di un uso dei media come strumenti di denuncia – per lo più allegorica – di avvenimenti “reali”, mentre nelle avventure televisive del commissario Cattani l’intreccio fra media e “realtà” è molto più fitto, intenso e – per così dire – paritetico. I media non servono più a documentare o denunciare aspetti nascosti della “realtà”, ma come agenti di processi di simulazione, contraffazione e falsificazione dagli effetti devastanti. Ci torneremo. Ma quel che importa rilevare, per ora, è proprio la presenza di un nesso tematico mafia-media che, come un filo rosso, serpeggia nel cinema “civile” degli anni settanta per giungere poi, potenziato e affinato,

alla televisione degli anni ottanta. Quand’anche non mette in scena la televisione, infatti, La Piovra presenta comunque una forte componente di riflessione mass-mediale. Si pensi per esempio al ruolo della stampa in La Piovra 2: è proprio la paura che la stampa renda pubblici i dossier sottratti da Cattani a Cannito a far precipitare la situazione. I media, insomma, insidiano quella cultura del segreto attorno a cui tutte le vicende e le trame della mafia sembrano ruotare. Da questo punto di vista, La Piovra è la fenomenologia romanzata di un fitto e insistito trafficare attorno a segreti, misteri e informazioni confidenziali. La struttura narrativa adottata, per di più, fa sì che i vari personaggi siano depositari di segreti ignorati dagli altri. Ognuno è portatore sempre e solo di verità parziali: con la conseguenza che lo spettatore è l’unico ad avere (o a illudersi di avere) un controllo totale della situazione. O a credere di poter disporre di una mappa aggiornata dei piani riservati che i vari antagonisti stanno mettendo in atto. Questa tecnica narrativa offre allo spettatore una sensazione di onnipotenza (emotiva e cognitiva al contempo) che serve a spiegare, almeno in parte, il successo di La Piovra. E a giustificarlo come risarcimento rispetto all’ignoranza o alla debolezza che il comune spettatore subisce nel suo quotidiano rapporto con i fatti e con la loro diffusione massmediale. Ci sono tuttavia alcune zone oscure sottratte allo sguardo (e al sapere) dello spettatore televisivo. E riguardano, non a caso, proprio il mondo della mafia e – soprattutto – la morte dei mafiosi. In La Piovra 4, per esempio, i membri della “Cupola” sono ripresi con un procedimento metonimico che allude alla loro presenza attraverso un assemblaggio di dettagli (l’ombra, il sigaro, l’anello, il bicchiere di cognac alle labbra), ma che nega al pubblico uno sguardo d’insieme o una rivelazione di identità. Li si vede solo nel finale, quando ormai tutti sanno che sopra di loro c’è un’altra “cupola” destinata a rimanere rigorosamente invisibile. Ancor più significative la reticenza e la segretezza che circondano la morte dei mafiosi. La quale, non a caso, non si vede mai. Viene lasciata rigorosamente fuori scena. Sul piccolo schermo si vedono cadere i “pesci piccoli”, magari durante una sparatoria con le forze dell’ordine, ma i vertici dell’organizzazione criminale godono del privilegio di morire fuoricampo. Così è, nella prima Piovra, per Cirinnà (congedato con lo sguardo del traditore che lo abbraccia in cella mentre si accinge ad ammazzarlo), o per Cannito e il banchiere Ravanusa in La Piovra 2 (il primo si suicida nascosto dallo stipite di una porta, il secondo viene trovato da Cattani già cadavere, riverso sulla poltrona del suo salotto). Interessante anche, in La Piovra 4, il suicidio del banchiere Rasi, risolto con una narrazione ellittica che sorvola, appunto, sulla scena-madre: dopo aver congedato la figlia nella notte di Natale, lo vediamo scendere sul greto del lago

ed estrarre dalla tasca una pistola. Sarà poi una soggettiva della figlia, tornata improvvisamente indietro, a vedere per noi il cadavere, affiorante in campo lungo fra le acque basse della riva. Completamente diverso è il trattamento visivo riservato agli aiutanti di Cattani. La loro morte non solo si vede, ma spesso è addirittura ripresa con tecniche enfatizzanti e al limite della ridondanza. De Maria, Altero, il marito di Silvia e i tanti altri che immolano la loro esistenza narrativa alla sopravvivenza di Cattani muoiono in primo piano, talora anche con effetti raccapriccianti. Due le ipotesi che spiegano questa tattica della messinscena: mostrare la morte dei “buoni” e occultare quella dei “cattivi” può servire ad accentuare l’effetto-indignazione e a impedire il risarcimento consolatorio che la punizione del malvagio offrirebbe ai desideri revanchistici del pubblico. Ma – seconda ipotesi – il meccanismo può produrre anche l’effetto contrario: quello di nobilitare la figura del mafioso e di sancire a livello subliminale la sua insopprimibilità. I mafiosi non si vedono mai morire perché non muoiono mai davvero. E perché la loro presenza risulta, in fondo, inestirpabile. Così, fra i tanti segreti di La Piovra, quello che riguarda il come e il dove della morte mafiosa è forse davvero il più ermetico e, per ciò stesso, enigmatico. Non c’è segreto, invece, nelle varie serie di La Piovra, circa l’identità dei mafiosi. Si sa già da subito (da quando sfilano in abito nero al funerale della nobildonna Pecci Scialoia) chi sono, cosa fanno, che rapporti intrattengono fra di loro. L’intreccio parte da questo dato di fatto. E si struttura come una caccia a piste multiple, dinamizzata da due movimenti contrari: l’allargamento centrifugo della rete di complicità messe in luce da Cattani e il restringimento centripeto degli attacchi portati dalla mafia al commissario a partire dalle persone che fanno parte del suo entourage affettivo-professionale. Se Cattani punta al cuore della mafia trapanese per poi allargare le indagini altrove, la mafia parte invece dalla periferia e fa in modo che il commissario perda, una dopo l’altra, tutte le persone che gli sono care: figlia, moglie, amici, colleghi, amanti. Come un funereo Re Mida, Cattani trasforma in cadavere ogni persona con cui entra in relazione. E ciò non fa che accrescere il romantico titanismo della sua sete di giustizia. Quanto alla scelta di azzerare ogni suspense rispetto all’identità dei colpevoli (il canonico whodunit, chi è l’assassino, del giallo classico), essa trova la sua ragion d’essere più probabile proprio nella consapevolezza di lavorare su un sistema di attese già “televisivamente” precondizionato. Lo spettatore televisivo sa dell’esistenza della mafia, conosce i nomi più “chiacchierati”, ma non ha mai la certezza che la giustizia li possa e li sappia smascherare. La Piovra parte da questo dato di fatto e lo enfatizza. Il problema non è stabilire l’identità del

colpevole, ma verificare se e come la legge saprà avere ragione di lui. Da questo punto di vista, le varie serie di La Piovra drammatizzano un universo conflittuale immerso in una fosca luce hobbesiana, in cui la lotta di tutti contro tutti non modifica nella sostanza la situazione iniziale. Sembra quasi il paradigma aggiornato (e entropico) dell’attuale funzionamento del sistema della comunicazione di massa. 2.3.2. Il mitra e il computer La riflessione metalinguistica e mass-mediale dell’intero ciclo perviene al suo esito estremo in La Piovra 4, con l’irruzione emblematicamente epocale dell’elettronica. Il computer entra in scena accanto alla televisione, alla radio, ai giornali, ai telefoni e a tutti gli altri media che nelle serie precedenti avevano strutturato i processi di comunicazione e di conflitto del testo narrativo. E la società dello spettacolo diventa tout court la società dell’informazione. Mai come nella quarta serie la lotta fra gli antagonisti ha il suo nucleo pulsante nel possesso, nella capitalizzazione e nella distribuzione di informazioni. Tutti i personaggi trafficano con informazioni riservate, o sono a caccia di segreti altrui, o cercano la chiave per decodificare informazioni cifrate di cui sono venuti in possesso. Il segreto è al centro di selvagge contrattazioni, di appropriazioni indebite, di furti e di capitalizzazioni. Frolo, l’assassino venuto dal passato, porta con sé un segreto che non rivelerà neppure al commissario Cattani. Il giornalista Faeti offre tutto il denaro del suo conto corrente alla vedova Tindari in cambio del segreto sulla morte di suo marito. Il banchiere Rasi è ricattato da Tano e da Espinosa grazie a una registrazione che contiene le prove di un suo crimine segreto. L’assessore incriminato per corruzione offre al marito della giudice Silvia Conti la documentazione informativa delle attività illegali negli enti pubblici e con questo fa sì che il nuovo depositario dei segreti venga ammazzato. E ancora: Trevi lavora al computer per decodificare il messaggio cifrato che Ester ha sottratto dalla cassaforte del marito, il quale a sua volta porta l’attacco decisivo alle Assicurazioni Internazionali grazie alle informazioni segrete di cui è in possesso. La “talpa” scoperta in questura viene obbligata a fornire un’informazione falsa alla “Cupola” e perfino il treno con le scorie radioattive non viene fermato per impedire che il fatto possa fornire alla “Cupola” un’informazione preziosa sullo svelamento del segreto. Infine Espinosa si definisce di volta in volta, alternativamente, “collezionista di anime” o “collezionista di segreti”, con un’equivalenza dei termini quanto mai rivelatrice, mentre il Puparo si decide a

parlare (cioè a rivelare i segreti di trent’anni di mafia) in cambio del mantenimento del segreto sulla vera identità della figlia. Tutta La Piovra 4 è costruita come un gigantesco reticolo di flussi su cui corrono le informazioni, scontrandosi contro un sistema di ostacoli che tendono a inceppare il funzionamento del meccanismo. Sapere e potere inscenano così la loro danza macabra. E le varie figure narratologiche che presiedono allo sviluppo del testo (l’Omertà, il Tradimento, la Confessione, la Soffiata, ecc.) non sono che le forme attraverso cui scorre la guerra per impossessarsi dei segreti altrui. Come dice Espinosa, nel mondo di La Piovra “non esistono ricatti, esistono solo contratti”. Si fa commercio di dati. Si vendono e si comprano informazioni che servono ad acquisire nuovo potere da trasformare tout court in nuovo sapere. La sceneggiatura di Rulli e Petraglia finisce per delineare così, quasi foucaultianamente, una microfisica del potere in cui incessantemente le informazioni si spostano, scorrono e cambiano di mano, producendo rapide agglutinazioni di alleanze, interessi e conflitti. In questo quadro, l’immagine forse più paradigmatica di tutta La Piovra 4 è quella di Tano Cariddi che, solo davanti alla consolle del suo computer plurischermo, scatena la guerra dei broker nella scalata borsistico-finanziaria alle Assicurazioni Internazionali. Nel tempo del racconto (nel suo montaggio) la sequenza avviene simultaneamente all’assalto dei mafiosi alla Casa Celeste di Padre Bernardo, dove sono asserragliati Cattani con i suoi alleati e il Puparo. Una delle più belle sequenze d’azione dell’intero ciclo, la più efficace per ritmo, respiro e suspense, è “incorniciata” nella guerra silenziosa ed elettronica che si svolge all’assalto della Borsa. Perché di due guerre si tratta: l’una condotta a raffiche di mitra, l’altra a colpi di bit, o di piccoli numeri digitalizzati, che scorrono sul monitor dello studio di Tano. La vecchia guerra e la nuova guerra sono tête-à-tête. E Tano le conduce entrambe con il cinico tempismo che gli deriva dall’essere un professionista del segreto. Quasi un regista che controlla dalla sua poltrona i monitor del mondo. Rispetto all’arcaico regista del film di Damiani Perché si uccide un magistrato, o all’ingenuo produttore televisivo di La Piovra prima serie, siamo davvero in un altro mondo. In un altro sistema. Nel film di Damiani la fiction (del cinema) prendeva spunto dal “reale” e lo riscriveva allegoricamente per produrre contraccolpi sulla “realtà” di partenza, secondo lo schema “classico” del rapporto reale-immaginario. Con la prima Piovra, invece, siamo già nell’era della simulazione: le trasmissioni televisive di Santamaria non riscrivono e non riproducono il “reale”, lo falsificano. Sono, a modo loro, un pezzo di “realtà” (di storia). Infine in La Piovra 4 la “realtà” è ormai stata sussunta nella forma della digitalizzazione elettronica. I computer di Tano non riproducono il reale, né lo simulano. Lo producono tout court, punto e

basta. Le loro informazioni sono la realtà. Rispetto alla quale il massacro e la sparatoria fra bande rivali non sono che un’arcaica sopravvivenza fuori del tempo. Crimini inutili e misfatti superflui, all’interno di una guerra che gioca altrove le sue battaglie decisive. E con altri mezzi. Paradossalmente, insomma, l’ultima guerra di Cattani è un rito sacrificale. Non serve a nulla. Se non come specchietto per le allodole che faccia credere che quella sia la “realtà”, mentre ormai il “reale” si è trasferito nei floppy disk. Lì è la ricchezza, il potere, il sapere. Il resto, tutt’al più, è televisione. In La Piovra 4, la televisione celebra il suo canto del cigno. 2.3.3. Il funerale dell’eroe In TV, certo, la mafia rende ancora. Anche oltre e dopo La Piovra. Perché è quasi una storia infinita. O un cerchio di Moebius dell’immaginario collettivo. Negli anni di messa in onda della serie o in quelli immediatamente successivi, tanto sulle reti private (Due fratelli di Alberto Lattuada, Il ricatto di Ruggero Deodato e Tonino Valerii) quanto su quelle pubbliche (Un cane sciolto di Giorgio Capitani, Un bambino in fuga di Mario Caiano), il proliferare di sceneggiati che hanno in La Piovra il punto di riferimento più immediato è evidente e consistente. Ma nessuna di queste produzioni ha riscosso il medesimo successo quanto a audience e a risonanza. Vuoi per l’oggettiva differenza di impegno produttivo, vuoi per l’indiscutibile abilità di sceneggiatori, attori e registi, La Piovra continua per molti anni a essere un modello insuperato. Capace di parlare a tutti, di suscitare sentimenti e indignazioni, di riallacciarsi alla miglior tradizione del feuilleton dopo averlo risciacquato con le suggestioni dei telefilm americani. C’è tuttavia un altro elemento utile a spiegare la distanza che separa La Piovra dalle produzioni affini: l’eccesso di parassitarietà nei confronti della cronaca condanna queste ultime a una sterilità mitopoietica che il serial del commissario Cattani riesce invece a evitare nel suo proficuo e prolifico insediarsi nella zona franca che sta, appunto, fra la cronaca e la sua riorganizzazione in chiave di immaginario. Da questo punto di vista, La Piovra rappresenta forse l’ultimo grande esempio di narrazione televisiva nell’era del tramonto delle grandi narrazioni. Quel che viene dopo, o accanto (la cronologia, in questo caso, non conta molto), è invece segnato da un pensiero debole che si limita ad affabulare il già noto con qualche spezia e qualche aroma in più. È il trionfo dell’instant movie televisivo, che sfrutta con rapacità da rentier emozioni collettive generate altrove, rinunciando a priori a ristrutturarle o a fornir loro una solida griglia di canalizzazione. Così si mettono in cantiere TV movies sui

rapimenti, sui sequestri di persona o su altri fatti di cronaca, o si rinuncia addirittura alla mediazione della fiction limitandosi alla telediffusione delle informazioni così come circolano nella realtà (Chi l’ha visto?, Un giorno in pretura, ecc.). È la neo-TV degli anni novanta: quella che abdica a ogni funzione critico-conoscitiva per limitarsi a un ruolo ancillare nei confronti, appunto, dell’informazione. Paradossalmente, ripensando a La Piovra 4 e al tema centrale del controllo e della diffusione delle informazioni, la neo-TV segna il trionfo dell’ipotesi strategica di Tano Cariddi (quel che conta è trasmettere informazioni, non tutte, e solo al momento giusto), senza che ci siano più un Trevi, un Cattani o persino un Espinosa a fornire delle griglie di lettura o dei grimaldelli interpretativi a quanto viene mostrato. Ogni casa diventa un set, ogni aula di tribunale uno scenario. E il pubblico si illude che quella (e solo quella) sia la “realtà”. Dimenticando che gli Espinosa e i Cariddi, o gli “innominati” del Potere di cui parla il Puparo nella sua deposizione finale, continuano a lavorare altrove, fuori scena. Non solo innominati, ma neppure nominabili e invisibili. La neo-TV induce lo spettatore ad assuefarsi all’idea che il suo mondo sia l’unico possibile e reale. Che le uniche colpe siano quelle mostrate e mostrabili. Che non ci sia un altrove. Se lo spettatore di La Piovra era indotto, alla fine, all’esperienza della pietas per gli sconfitti e alla conseguente elaborazione del lutto, lo spettatore della neo-TV e degli instant-movies perde ogni capacità prospettica, vive in un eterno presente fattuale privo di connessioni, di cause come di conseguenze, e subisce il fatalismo della notizia senza più nemmeno la capacità di reazione consentita dal pessimismo del commissario Cattani. Il quale era tutto fuorché fatalista. E il fatalismo, si sa, sta al pessimismo come l’ottusità inconsapevole al pensiero critico razionale. La morte di Cattani alla fine di La Piovra 4, in questa prospettiva, è davvero la presa d’atto della “catastrofe” che si sta abbattendo (e ormai si è abbattuta) sui processi di produzione e consumo televisivo. Al di là delle motivazioni concrete che hanno determinato un simile epilogo (a cominciare dal rifiuto di Michele Placido a impegnarsi per una nuova serie), quel che conta è che la morte di Cattani equivale davvero al funerale catodico dell’ultimo possibile eroe. Cattani muore solo e disarmato, per strada, come gli antieroi del gangster movie americano degli anni trenta. Muore con il volto in primo piano, crivellato di colpi, e in un montaggio alternato che mostra solo le armi e le mani (non i visi, non i corpi, non l’identità) dei suoi assassini. Poi arriva Silvia, si accascia accanto al cadavere e piange. E l’ultima immagine, con il corpo del commissario rannicchiato nel grembo della sua donna in lacrime, è – figurativamente ma anche simbolicamente – quasi una Pietà. Intanto, però, subito prima della fine, anche sul set dell’ultimo luogo del

delitto – come in quello su cui si apriva la prima Piovra – è arrivata la TV. E questa volta riprende in una lenta panoramica i volti attoniti della folla accorsa accanto al cadavere. Sono i volti che diverranno protagonisti di Chi l’ha visto? e di Un giorno in pretura, i quali celebrano in silenzio (prima di cominciare a parlare nella logorrea della neo-TV) il lutto per l’ultimo eroe. Quello per cui si poteva soffrire, patire e tifare, ma con cui non era impossibile identificarsi fino in fondo. Perché Cattani era altro rispetto al pubblico: ne esprimeva le emozioni e gli umori, ma con una capacità di azione e reazione interdetta allo spettatore medio. La sua morte lascia la scena vuota. Cioè disponibile all’irruzione dell’individuo senza qualità. Quello che era stato ben descritto dall’assessore in fuga nel suo ultimo colloquio con il marito di Silvia: “Io non sono un eroe. Sono uno qualunque. Come tanti. Come tutti. Spero che lei non mi assomigli.” La televisione che viene dopo La Piovra segna invece proprio il trionfo dell’“uomocome-tutti”. Quello a cui tutti somigliano. Quello in cui il pubblico si rispecchia ammirando (e assolvendo) la propria mediocrità. Dopo Cattani, c’è solo la melassa banale e vischiosa di una neo-TV in cui tutto il pubblico si appaga di dar spettacolo di sé, rinunciando totalmente a pensare l’altro. A vederlo, a odiarlo o a compatirlo, perfino a sognarlo. E mentre sul piccolo schermo trionfa l’oscenità dell’ovvio, viene da pensare ancora una volta al vecchio aforisma brechtiano, magari adatto all’era postmoderna della comunicazione di massa. Dannata la televisione che non ha più eroi o quella che, nonostante tutto, continua ad aver bisogno di loro?

2.4 FARE CINEMA PER TUTTI Ettore Scola

I cinefili non lo amano. Non l’hanno mai particolarmente amato. Gli hanno rimproverato il suo tono “medio”, le sue concessioni al “popolare”, la sua tenace volontà di fare cinema per tutti e non solo per la cerchia degli addetti ai lavori. Eppure, proprio questa “popolarità” alta e orgogliosa fa di Ettore Scola e del suo cinema un caso esemplare: in più di mezzo secolo di attività, prima come soggettista e sceneggiatore e poi come regista, Scola ha saputo inventare storie e realizzare film che hanno suscitato l’attenzione e la riflessione di milioni di italiani, ma non sempre quella di coloro che professionalmente si occupano delle dinamiche evolutive della cultura nazionale. Il paradosso, beninteso, gioca tutto a favore dell’autore: e anzi ne svela, più che una presunta marginalità, gli antichi vizi e i cronici ritardi di un apparato culturale che stenta a fare i conti con la modernità e la popolarità. Al di là del paradosso, tuttavia, proprio la programmatica estraneità di Scola ai modelli e ai valori diffusi in certa cultura accademico-istituzionale suggerisce di rileggere la sua opera a partire da un punto di vista particolare: quello che privilegia appunto – ancora una volta – il rapporto con il pubblico, individuando in esso uno dei problemi centrali (e irrisolti) dell’industria culturale italiana. 2.4.1. Il calvario del motto di spirito L’esordio di Scola nel mondo del cinema presenta le caratteristiche tipiche dell’apprendistato artigianale. Collaboratore del giornale umoristico Marc’Aurelio e poi soggettista avventizio alle dipendenze di sceneggiatori già affermati come Metz e Marchesi, all’inizio degli anni cinquanta Scola lavora per un certo periodo quasi esclusivamente su ordinazione, producendo a getto continuo gag, battute e frammenti di racconto che – nella loro polivalenza

funzionale – vengono poi di volta in volta inseriti dal committente di turno in uno dei tanti canovacci in via di elaborazione. L’officina degli sceneggiatori romani dei primi anni cinquanta funziona infatti per apporti plurimi e aggiustamenti progressivi: il “racconto” è un perenne work in progress, l’inventio e la dispositio sono frutto di elaborazione collettiva, i tempi e i ritmi di produzione sono rapidi. Scola, con la modestia di un garzone di bottega, si adegua alla tecnica produttiva e affronta con diligenza quello che egli stesso ha definito il suo “calvario del motto di spirito”. Intanto, tra frizzi, lazzi, battute e calembours, si impadronisce del mestiere e si abitua a considerare il lavoro intellettuale come attività necessariamente coordinata alle esigenze complessive dell’organizzazione produttiva, nonché al sistema di attese codificato nel pubblico. Il genere su cui Scola esercita di preferenza il proprio apprendistato è, come noto, quello della “commedia di costume”: quasi un metagenere, capace non soltanto di assemblare e fondere i materiali di costruzione più diversi, ma anche di affabulare con straordinario tempismo i “fenomeni emergenti nella dinamica sociale, o i problemi rilevanti nella trasformazione del costume di massa” (Brunetta). Nella “commedia italiana” degli anni cinquanta confluiscono di fatto echi e modelli estremamente diversificati: la lezione del neorealismo accanto ai repertori della rivista e dell’avanspettacolo, gli intrecci classici della scena comica teatrale assieme alla tradizione satirica dei giornali umoristici. È in questo “porto franco” (privo di una chiara consapevolezza dei propri fini e dei propri statuti linguistici, ma programmaticamente aperto alle sollecitazioni e agli stimoli della contemporaneità) che Ettore Scola apprende la difficile arte del “disporre in scene”. Il suo esordio ufficiale come sceneggiatore avviene nel 1953 (Fermi tutti, arrivo io!, di Sergio Grieco) e inaugura un singolare sodalizio creativo con Ruggero Maccari, destinato a durare per tutta la vita. Nel corso degli anni cinquanta-sessanta, generalmente in tandem con Maccari, ma senza rifiutare l’apporto e la collaborazione di altri co-sceneggiatori come Age, Scarpelli, Steno o Grimaldi, Scola firma una cinquantina di sceneggiature (fra cui alcuni capolavori come Un americano a Roma e Io la conoscevo bene), portate poi sullo schermo da registi quali Zampa, Loy, Monicelli, Risi e soprattutto Pietrangeli. In tutte è rintracciabile un significativo denominatore comune: il tentativo di delineare un’ironica antropologia dell’Italia degli anni del centrismo e del boom, colta con piglio grottesco e caustica mordacità. I personaggi creati da Scola, soprattutto quelli maschili, sono cinici campioni dell’arte di arrangiarsi, alle prese con i miti di un’Italia strapaesana e fracassona che, dietro la maschera di un’esibita spensieratezza, finisce sempre per rivelare un groviglio inestricabile di opportunismi, timidezze, paure e ipocrisie.

Emblematica, a questo proposito, la figura di Bruno Cortona, protagonista de Il sorpasso (1962): straordinario impasto di marginalità e velleitarismo, di aggressività e cialtroneria, il personaggio interpretato da Vittorio Gassman è il prototipo di una lunga serie di impiegati falliti, arrivisti complessati e parassiti scrocconi che paiono lanciati a vivere l’ecumenismo del boom con l’eccitata ingenuità di chi per la prima volta conosce il brivido dei loisirs di massa e l’inedita seduzione della merce e del consumo. Anche l’atteggiamento prevalente con cui Scola osserva i propri personaggi trova ne Il sorpasso un esplicito modello: un misto di “vigile criticismo e complicità ammirativa” (Spinazzola) che consente al pubblico, al contempo, il massimo di identificazione empatica e di distacco critico. Il che, com’è noto, costituisce una delle misure più efficaci a tutela e garanzia del conseguimento del successo. Sul piano tecnico, le sceneggiature di Scola presentano alcune peculiarità recursive molto forti, tali da influenzare anche il successivo approdo dell’autore alla regia: la tendenza a far scaturire la comicità da una riscrittura del quotidiano, attraverso un procedimento diegetico che assorbe il prefilmico, lo struttura per accumulo di tranches de vie e lo degrada poi retoricamente in direzione satirica, parodistica o caricaturale; la propensione (derivata dal frequente lavoro di realizzazione di film “a episodi”) a una narrazione frammentaria e aneddotica, più incline al gag o al bozzetto fulminante che all’intreccio organicamente coeso e compiutamente strutturato; infine l’abitudine a coordinare le esigenze del racconto con le prerogative dell’attore (Sordi, Gassman, Tognazzi o Manfredi) che lo dovrà portare sulla scena. È con questo bagaglio tecnico-linguistico che Scola deve fare i conti, operando di volta in volta innovazioni, assestamenti, calchi o trasgressioni, nel momento in cui decide di passare dietro la macchina da presa e di assumere l’identità in qualche modo demiurgica del regista, alle prese con la messinscena di storie che egli stesso ha inventato. 2.4.2. La commedia e i suoi bordi Passato alla regia intorno alla metà degli anni sessanta, Scola opera subito audaci sperimentazioni sul “corpo” della commedia, tentando incessantemente di ridefinirne lo “standard” medio e di trasgredirne gli stereotipi più vistosi mediante un paziente lavoro di innesto, ibridazione e contaminazione con altri registri stilistici e con differenti generi narrativi. Nelle mani di Scola la commedia si fonde così con il giallo (Thrilling, 1965; Il commissario Pepe, 1969), con l’avventura (Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?, 1968), con il film in costume

(L’arcidiavolo, 1966), con l’indagine socio-antropologica e militante (TrevicoTorino, 1973), con il dramma dell’emarginazione urbana (Permette? Rocco Papaleo, 1971), con l’apologo morale (La più bella serata della mia vita, 1972), addirittura con il fotoromanzo rosa e il melodramma sentimentale (Dramma della gelosia, 1970), rivelando sempre più il proprio connotato istituzionale di metagenere, utile a fornire una koiné, o un codice unitario e comune, a percorsi diegetici quanto mai eterogenei e differenziati. Nei confronti dei topoi e degli stilemi codificati del genere, Scola manifesta un duplice atteggiamento. In una prima fase, collocabile grosso modo lungo il corso degli anni sessanta, egli mira soprattutto a utilizzare la commedia in chiave grottesca e farsesca: quindi ne gonfia e ne dilata i caratteri, i linguaggi e le situazioni. A partire dagli anni settanta, Scola lavora invece soprattutto di sottrazione e interviene sul comico “per forza di levare”: quindi attenua, smorza, stempera, spegne. L’obiettivo è in ogni caso il medesimo: quello di saggiare le potenzialità espressive e comunicative del genere, portandolo ai margini estremi della sua utilizzabilità. Due soli esempi. Nel film che segna il suo esordio dietro la macchina da presa (Se permette parliamo di donne, 1964), Scola appare incline a operare una dilatazione parossistica e iperbolica dei canoni della commedia di costume, rivisitandoli all’insegna di una comicità chiassosa e divertita, non aliena da incursioni in un sarcastico erotismo da pochade. I meccanismi classici del genere (l’equivoco, la beffa, lo scambio, l’imbroglio) risultano esasperati e compressi in una struttura episodica che, tra frizzi grotteschi e lazzi scurrili, sceneggia le mutazioni antropologiche in atto in Italia in materia di costumi sessuali. Sensibilmente diverso è invece l’atteggiamento prevalente negli anni settanta. Si consideri per esempio Una giornata particolare (1977). Qui Scola prende uno dei topoi più diffusi della commedia di costume (l’incontro fortuito tra una moglie insoddisfatta e un uomo affascinante e gentile) e lavora su di esso per sottrazioni progressive fino a rovesciare la situazione iniziale nel suo esatto contrario: non un’occasione galante di avventura extraconiugale, ma il rapporto tra due solitudini amare e ingrigite che riescono a scambiarsi soltanto la reciproca consapevolezza della propria marginalità. Il lavoro di sottrazione opera su tutti i livelli del testo: sfuma i colori, decelera i ritmi, sporca gli oggetti, immalinconisce il décor, strappa perfino il corpo di attori come Mastroianni e la Loren ai consueti cliché di attrattiva erotica e sensuale. A derivarne è una commedia quanto mai tenue e scarnificata, sempre sul punto di dissolvere se stessa nei toni del dramma. È bene notare che queste antitetiche modalità di approccio al codice della commedia, pur connotando in maniera peculiare due diverse e successive stagioni di attività del regista, non arrivano mai a escludersi del tutto, né ad

annullarsi o a sopraffarsi a vicenda: piuttosto convivono in ogni film, dando luogo a una compresenza conflittuale quanto mai suggestiva, soprattutto sul piano degli effetti indotti nel pubblico e nel suo sistema di attese. Grazie al lavoro di Scola, la “commedia all’italiana” subisce insomma energici processi di dilatazione o di restrizione verso i confini che la delimitano: il “dramma” e la “farsa”. Il cinema di Scola spinge il comico fino al limite del salto di registro, facendogli toccare quel bordo al di là del quale esso rischia di trasformarsi in altro: nel tragico quotidiano da un lato, nella deformazione grottesca e scurrile dall’altro. I due opposti, attivati da continue sollecitazioni dinamizzanti, finiscono per incontrarsi e scontrarsi praticamente in ogni film: pulsioni centrifughe a uscire dal genere e a rovesciarlo nel suo contrario sono riequilibrate da analoghe e contrarie pulsioni centripete che invece riportano la narrazione entro il codice “comico”, all’insegna di quella medietas linguistica e stilistica che costituisce senza dubbio una delle più ricorrenti aspirazioni di tutto il cinema di Scola. La grande “commedia umana” che in tale cinema si delinea va letta dunque come frutto di un lucido intento programmatico: quello di realizzare un moderno essai sur les mœurs mediante le esplorazioni conoscitive effettuate da uno sguardo critico perennemente oscillante tra la tentazione del grottesco e il rischio della disperazione. 2.4.3. Dalla farsa della società alla commedia della storia La compresenza operativa di “drammatico” e “grottesco” come elementi connotativi di tutto lo sviluppo diacronico del cinema di Scola non deve tuttavia indurre a sottovalutare l’oggettivo mutamento di registro e di tono che, da un certo momento in poi, segna inequivocabilmente l’avvento di una nuova fase nell’attività produttiva del cineasta romano. A partire grosso modo dalla metà degli anni settanta (e con la parziale eccezione di film realizzati a più mani, quali Signore e signori, buonanotte, 1976, e I nuovi mostri, 1977), il cinema di Scola di fatto si incupisce, i toni amari e crepuscolari si accentuano, lo sberleffo mordace e il ghigno satirico si fanno più rari e contenuti, mentre pare di poter cogliere nell’autore una progressiva perdita di fiducia nella possibilità che l’industria cinematografica italiana contribuisca in maniera consistente al processo di crescita e di democratizzazione del paese. Il film-cerniera, quello che più di tutti si configura come opera di riflessione autocritica e di transizione, è senza dubbio La più bella serata della mia vita (1972). Tratto da un racconto di Dürrenmatt (La panne) e interpretato da un Alberto Sordi che recupera, per l’occasione, tutte le multiformi maschere della

sua lunga carriera d’attore, il film mette violentemente sotto accusa non solo un borghese piccolo piccolo, mostro di incoscienza e di cialtroneria, ma anche il personaggio-tipo della commedia all’italiana, stigmatizzandone aspramente i vizi e le colpe attraverso la simulazione di un processo che si conclude con un’inappellabile sentenza di morte. Più che un rilancio “critico” della commedia all’italiana, il film è a tutti gli effetti il suo epicedio: lo svelamento degli orrori e delle mostruosità su cui gli italiani hanno riso per oltre un ventennio, e al contempo la presa d’atto del permanere di un costume che il cinema non è riuscito a cambiare e da cui l’autore pare volersi definitivamente congedare. Da questo punto di vista, la morte conclusiva del personaggio-Sordi rappresenta una sorta di nemesi retrospettiva rispetto all’explicit de Il sorpasso: se nel film del 1962 la morte per incidente automobilistico colpiva il giovane Roberto (JeanLouis Trintignant), vittima innocente e capro espiatorio di un vitalismo oltranzistico e ciarlatano che gli era estraneo, qui invece la morte si abbatte, per esplicito e beffardo intervento demiurgico, proprio sul rappresentante paradigmatico dei vizi e delle colpe di un intero sistema sociale. L’ingegner Rossi interpretato da Alberto Sordi pare davvero il Bruno Cortona di Gassman, dieci anni dopo: stessa passione per l’automobile e per le donne, stesso cinismo e stessa filosofia, stessa inconsapevole vocazione alla morte precoce, là scampata per caso e qui fatalmente incontrata. La prolungata risata fuoricampo che gela la funerea immagine conclusiva del film ha, in questa chiave, un connotato davvero emblematico, e indica in Scola sia lo smascheramento del tragico nascosto da sempre sotto la superficie comica del suo cinema, sia il suo commiato rituale, carnevalesco e liberatorio, da un intero repertorio di temi, stilemi, personaggi e motivi. A partire da questo film, il cinema di Scola entra indubbiamente in una fase nuova. Il grottesco e il comico, beninteso, non scompaiono, ma risultano progressivamente ridimensionati e come congelati sullo sfondo: affiorano a intermittenza, ed entro registri tonali che stemperano comunque la risata nel dramma o addirittura la intingono entro i colori opachi di un dolente e disincantato pessimismo. Dalla fenomenologia cinica e frantumata di un’Italia frivola e inquieta, colta nei suoi limiti e nelle sue illusioni, ma anche nel suo oggettivo bisogno di sviluppo e di crescita, il cinema di Scola passa a delineare una sorta di “sintomatologia del disagio” realizzata attraverso un fraseggio più allusivo, più metaforizzante, meno arioso. Gli schemi della farsa e della slapstick comedy passano in secondo piano, mentre emergono altri modelli, più “colti” e ambiziosi: Terenzio e Giovenale (esplicitamente citati in C’eravamo tanto amati, 1974), Čechov (ricordato in Maccheroni, 1985), addirittura il cinico e ghignante Restif de la Bretonne, moderno chroniqueur della Rivoluzione, oltre che

beffardo portavoce del punto di vista dell’autore, in La nuit de Varennes (in italiano Il mondo nuovo, 1982). La moderazione dei sentimenti, l’universalismo etico unito allo scetticismo sociologico e la rinnovata attenzione ai caratteri e alle psicologie segnano dunque il cinema di Scola degli anni settanta, mentre impietosi bilanci consuntivi sanciscono la presa d’atto delle illusioni perdute da un’intera generazione (C’eravamo tanto amati), ne stigmatizzano la crisi d’identità etica e professionale (La terrazza, 1980) e celebrano l’immodificabile circolarità della storia pur dietro il mutare delle maschere e delle mode (Le Bal, in italiano Ballando ballando, 1983). Anche il personaggio-tipo muta fisionomia: non più il gradasso istrionico e flâneur de La congiuntura (1964), quanto un tipo umano più malinconico e dimesso, segnato da una reiterata vocazione alla sconfitta e allo scacco. Proiettato in uno scenario epocale sempre più invivibile e malato, il personaggio di Scola incarna un punto di vista straniato che lo porta a sperimentare la rinuncia in tutta le sue possibili manifestazioni: rinuncia alla carriera in nome della fedeltà a un codice etico superiore (Il commissario Pepe) o al ritrovato valore dei sentimenti (Maccheroni), ma anche rinuncia ai sogni d’amore e di integrazione (TrevicoTorino), all’attesa di un futuro migliore (C’eravamo tanto amati), ai desideri di amicizia e di affetto (Permette? Rocco Papaleo), addirittura al controllo della propria identità psichica e della propria emotività affettiva (Passione d’amore, 1981). Dalla farsa della società alla commedia della storia, passando attraverso il dramma degli individui che si dibattono in essa, il cinema di Scola sceneggia i nodi irrisolti del nostro passato recente, ripercorrendone le amarezze e le delusioni. Il successo e il consenso che tale progetto continua a incontrare presso il pubblico di massa è spiegabile una volta tanto non con il ricorso a facili evasioni consolatorie, quanto con l’abilità di cui il regista dà prova nel concretizzare un’idea di cinema intriso di umori critici e di rigore morale, ma allo stesso tempo avvincente e dotato di un’alta capacità di coinvolgimento emotivo. Basato su un continuo gioco contrappuntistico tra piccole esistenze e grandi eventi, tra destini collettivi e vicende individuali, il cinema di Scola offre al pubblico l’opportunità di operare identificazioni proiettive nello spazio di una rappresentazione che, di volta in volta, consente al singolo spettatore di perdere o ritrovare se stesso entro i segni e i referti dell’esperienza collettiva. 2.4.4. Concentrazione dello spazio e sospensione del tempo Accusata negli anni cinquanta di operare un’“eversione merceologica” del

neorealismo, la commedia di costume giunge con Scola a un esito estremo e in qualche modo paradossale: la conquista di un realismo altro, teso a indagare le dinamiche sociali attraverso il loro riflettersi nelle coscienze e nelle esperienze individuali. Il metodo adottato da Scola in questa operazione di scandaglio e di raccordo tra la Storia e le storie pare rifarsi alla lettera – come ha acutamente osservato Paolo Vecchi in una recensione a Il mondo nuovo apparsa su Cineforum – a una massima del prediletto Dumas: “Si può anche violentare la Storia, a condizione di farle fare dei figli.” Scola in effetti non rispecchia la Storia, la manipola. Talora addirittura la aggredisce, la sventra e la scompone, nel tentativo di esplicitarne le strutture nascoste o di anticiparne le tendenze ancora occulte o embrionali. Ogni suo film, in questo senso, è una sorta di composto chimico artificiale e sperimentale: brandelli di Storia, frammenti di immaginario, microeventi quotidiani e catastrofi collettive vengono montati, compressi, assembrati e sottoposti alle sollecitazioni più differenti e spregiudicate. Il modo di procedere richiama da vicino le simulazioni descritte dal costruttore di aerei Robert Traven nella parte iniziale di Maccheroni: “Vengono ricreate a terra tutte le condizioni aerodinamiche, in tutte le situazioni atmosferiche. Si simulano in laboratorio vibrazioni, vuoti d’aria, bufere, impatti, contraccolpi. Così in poche ore si vedono tutti i guasti prodotti da anni di volo ininterrotto.” Scola lavora con la Storia allo stesso modo, adottando in ogni suo film analoghe tecniche di simulazione, concentrazione e verifica. Il suo cinema si configura in tal modo come una sorta di “camera di collaudo” della Storia, o come laboratorio di simulazione diagnostica delle sue possibili contraddizioni. Un simile intento programmatico implica ovviamente, come prima conseguenza sul piano delle realizzazioni filmiche concrete, un costante lavoro di manipolazione delle strutture spazio-temporali della narrazione. Concentrazione dello spazio e sospensione del tempo risultano così espedienti reiterati della mise en scène, tanto da trasformarsi addirittura in topoi centrali del cinema scoliano. La tendenza alla concentrazione dello spazio appare evidente almeno a partire dai primissimi anni settanta e si manifesta nell’energica e ricorrente propensione dell’autore ad ambientare il racconto in uno spazio chiuso, o comunque a concentrare e comprimere la narrazione in un nucleo spaziale fortemente unitario: vanno letti in questo senso il castello de La più bella serata della mia vita, la baraccopoli di Brutti, sporchi e cattivi (1976), il condominio romano di Una giornata particolare, la terrazza del film omonimo, la caserma di Passione d’amore, la diligenza di Il mondo nuovo, la balera di Ballando ballando, la Napoli non stereotipa ma fortemente unitaria di Maccheroni o la Civitavecchia piovosa e invernale di Che ora è? (1989), con Mastroianni e Troisi

che fra le vie bagnate dalla pioggia, il porto, un cinema vuoto, le trattorie e i caffè cercano di dirsi quelle cose che è sempre molto difficile dirsi fra un padre e un figlio. Ognuno di questi spazi funziona come microcosmo in cui verificare sperimentalmente gli effetti prodotti dall’irrompere di pulsioni esterne o di tensioni epocali: ogni unità topologica è insomma una sorta di contenitore in cui confluiscono e convergono i segni ambigui e inquieti di ciò che accade fuori dal testo e dal set, nelle dinamiche extra-filmiche della macrostoria contemporanea. L’espediente drammaturgico di individuare un nucleo topografico unitario entro cui far giostrare una pluralità di eventi contrastanti non è nuovo in Scola: già sperimentato in alcune sceneggiature degli anni cinquanta (Accadde al commissariato, 1954; Accadde al penitenziario, 1955), esso presenta un’ovvia matrice teatrale e giunge alla commedia cinematografica italiana direttamente dal modello del campiello goldoniano o da quello della ringhiera di Bertolazzi. Nei film di Scola degli anni settanta, tuttavia, tale espediente non è più finalizzato al contenimento di una frantumazione narrativa costruita paratatticamente sull’accumulo di episodi e di sketch, quanto piuttosto, più radicalmente, alla messinscena drammatica di conflitti e contrasti che risultano tanto più evidenti e, per così dire, esemplari, quanto più ritagliati (ma non separati) dallo spazio circostante. Gli spazi chiusi e unitari di Scola pullulano infatti di interferenze e di “invasioni” da parte di fenomeni esogeni: non sono mai autosufficienti o autosignificanti, né ermeticamente isolati, quanto attraversati, scissi e lacerati dall’irruzione di ciò che penetra in essi giungendo da uno spazio (o da un tempo) altro. Il rapporto tra il luogo centrale del film (lo spazio istituzionale del set) e il mondo circostante (o addirittura il mondo reale in cui il film viene fruito) si struttura in Scola sempre secondo un duplice modello: metonimico (lo spazio-set come simulacro miniaturizzato del mondo) o antitetico (lo spazio-set come rovesciamento e negazione del mondo). Al primo modello si rifanno film come Le Bal (la Francia ridotta alle dimensioni di una sala da ballo), La terrazza (il salotto dell’intellettualità progressista romana come paradigma dei sogni infranti e delle illusioni perdute di tutta una generazione, e forse dell’intera società italiana), Il mondo nuovo (l’intera società della Francia rivoluzionaria concentrata nel microcosmo della diligenza, sulla scia di archetipi peraltro famosi come Boule de suif di Maupassant o Ombre rosse di John Ford). Luoghi antitetici e conflittuali rispetto allo spazio circostante ed esterno al film sono invece la casa di Una giornata particolare (espressione di una quotidianità dimessa e malinconica, assolutamente irriducibile alla tronfia retorica del regime che in essa penetra attraverso le cronache radiofoniche), la caserma di Passione d’amore (luogo di

manifestazione di perverse anomalie e di desideri indicibili, in antitesi con l’apparente normalità e rispettabilità borghese del mondo militare circostante), la bidonville di Brutti, sporchi e cattivi (radicale esempio di alterità rispetto alla Roma del benessere e della ricchezza, ma al contempo luogo di perversa omologazione della marginalità sociale ai comportamenti e ai disvalori della cultura borghese). Un caso a sé è costituito dall’appartamento del quartiere Prati, a Roma, in cui Scola condensa ottant’anni di vita e di Storia italiana in La famiglia (1987). Nei suoi spazi densi e fantasmatici, nel durare della casa, dei suoi oggetti e dei suoi arredi, oltre il tempo di una vita o di una generazione, Scola orchestra una messinscena della storia al contempo nichilista, affettuosa e appassionata. In La famiglia non succede nulla. Non vediamo succedere nulla. Non vediamo le morti e le nascite, le fughe e gli amori, i baci e gli addii. Siamo informati del loro esserci (o esserci stati), ma assistiamo alla loro ininfluenza sulla vita della casa. Tutto continua come sempre, osservato dall’occhio discreto di una macchina da presa che si sorprende quasi a cogliere le permanenze, le vischiosità, l’impermeabilità di questa casa-acquario in cui la vita ripete sempre le stesse scene, il medesimo copione. Ogni dieci anni un lutto, una nascita, un quadro, un pasto, un oggetto che si rompe. Poi una carrellata nel corridoio (stupenda trovata registica per visualizzare lo scorrere del tempo attraverso il movimento nello spazio) “apre” un sipario sul decennio successivo, inevitabilmente destinato a ripetere il “già accaduto”. Il tempo scorre, ma il film lo annulla, lo macera, lo comprime. Anch’esso, come la casa del quartiere Prati, sembra non avere vie d’uscita. Perfino la storia, in genere assunta da Scola come controcanto alle microstorie dei suoi personaggi, qui pare singolarmente assente, quasi attutita, allontanata. Lo schema consueto del cinema di Scola (il quotidiano come sintomo epocale di una Storia che lo trascende) si rovescia: qui è in scena l’impermeabilità del quotidiano agli eventi epocali, la difficoltà della Storia a penetrare nella profondità della vita. In molti film, a supplire e compensare l’eventuale assenza di unità spaziale, Scola fa ricorso all’espediente dell’unità temporale, anch’essa opportunamente simulata mediante l’uso di particolari tecniche anacroniche. C’eravamo tanti amati, per esempio, trasgredisce e frantuma programmaticamente ogni unità di luogo e di azione, ma in qualche modo recupera a sua volta una struttura unitaria agendo proprio sul piano del tempo. Il film è infatti strutturato come un lungo flashback mentale dei protagonisti, racchiuso tra l’inizio e la fine di un tuffo in piscina da parte del personaggio interpretato da Gassman: il tempo di un attimo è sospeso e dilatato fino a contenere il tempo di più vite, in un gioco di violente ed esibite dislocazioni anacroniche che – ricomponendosi nella cornice – svelano e

confermano nell’autore l’ambizione a circoscrivere il racconto entro un perimetro unitario e a perseguire un’idea di cinema come contenitore di tempi e di mondi. A un analogo procedimento di sospensione temporale rinviano del resto film come Una giornata particolare e Il mondo nuovo, in cui la scelta di collocare l’azione drammaturgica in date emblematiche come il 6 gennaio 1938 (visita di Hitler a Roma) o il 21 giugno 1791 (fuga a Varennes di Luigi XVI) ribadisce l’intento di Scola di operare una focalizzazione della Storia a partire dai suoi momenti di snodo e di trapasso: quelli in cui, rotta la monotona scorrevolezza del tempo, improvvisamente precipitano i contrasti e si decidono i destini. 2.4.5. Viaggi, mostri, linguaggi Tre topoi ricorrenti dinamizzano ulteriormente il cinema di Scola e accrescono la sua capacità di messa a fuoco prospettica del sociale: il viaggio come archetipo tematico, il mostruoso come registro grottesco e il linguaggio come struttura di sedimentazione della Storia nel vissuto individuale e nell’immaginario collettivo. Rintracciabili già nelle prime sceneggiature dell’autore, ma presenti con maggior frequenza e lucidità funzionale nelle opere più mature, viaggi, mostri e linguaggi agiscono nel cinema di Scola come veri e propri centri propulsori della scrittura filmica. È soprattutto grazie all’uso incrociato di questi tre elementi che Scola cerca di strutturare problematicamente il proprio rapporto con il pubblico, agendo non sulla base di un corrivo adeguamento alle attese già esistenti sul mercato, ma tentando di sollecitare domande inedite e bisogni nuovi. Viaggi. Il tema del viaggio, in Scola, è sempre finalizzato alla messinscena dell’incontro con l’altro. Il rapporto che di volta in volta si instaura tra questi due poli del racconto è riconducibile a una tipologia tripartita: in alcuni casi lo scontro con il diverso è immediatamente conseguente al viaggio intrapreso dal protagonista (Riusciranno i nostri eroi..., Permette? Rocco Papaleo, TrevicoTorino); in altri casi invece è la struttura stessa del viaggio a inglobare in sé punti di vista conflittuali o differenziati, tanto da rendere la compresenza degli opposti coessenziale al viaggio stesso e al suo sviluppo narrativo (si pensi a film come Il sorpasso o Il mondo nuovo, dove l’opposizione fondamentale non è tra il punto di vista del viaggiatore e il mondo che progressivamente si rivela al suo sguardo, ma tra gli stessi personaggi che agiscono il viaggio come soggetti attivi); infine, in un terzo caso, il viaggio non è che l’implicito prologo evenemenziale (la

fabula assente) che consente all’autore di proiettare il personaggio protagonista in uno spazio “altro” e diverso da quello abituale (La più bella serata della mia vita, Passione d’amore, Maccheroni). In filigrana, dietro ognuno di questi modelli, è possibile intravvedere la presenza del medesimo topos: quello dello “spaesamento progressivo dei personaggi, della loro perdita di centro esistenziale, dell’imprevedibile incontro con nuove realtà, nuove situazioni, nuove figure sociali” (Brunetta). Quelli di Scola sono quasi sempre personaggi picareschi e viaggiatori, precipitati improvvisamente in mondi che non conoscono, obbligati a confrontarsi con spazi ostili, costretti a muoversi secondo ritmi straniati. Anche quando agiscono prevalentemente in un unico luogo, vi si sentono stranieri: in genere sono appena arrivati da un altro posto, o sono in procinto di partire. Nel luogo in cui sono (o in cui il film li mostra), essi sperimentano comunque, inevitabilmente, il contatto tra gli opposti, mentre il “racconto” che li riguarda si struttura in base a giochi di incastri fra coppie tematiche fortemente oppositive. Scola accosta, confronta e contrappone, di volta in volta, maschile e femminile (Una giornata particolare, Passione d’amore), nord e sud (Trevico-Torino), presente e passato (C’eravamo tanto amati, Le bal). Perfino il “ritratto dell’italiano”, così essenziale in tutto il filone più consapevole della commedia di costume, viene realizzato da Scola mediante un processo di decontestualizzazione violenta e improvvisa del personaggio-tipo, obbligato ad agire in un mondo diverso dal suo e a svelare, in tal modo, le pieghe nascoste del proprio carattere e della propria psicologia. Scola porta i propri personaggi in Africa (Riusciranno i nostri eroi...), in Svizzera (La congiuntura, La più bella serata della mia vita), in America (Permette? Rocco Papaleo) e inscena poi il momento delicato in cui l’ethos individuale è costretto a confrontarsi con nuove regole e nuovi sistemi di valori. Il procedimento rovescia, in un certo senso, quello adottato da Montesquieu nelle Lettres Persanes: invece di sottoporre il proprio mondo allo sguardo ingenuo (e perciò demistificante) di personaggi venuti da fuori, Scola preferisce costruire personaggi emblematici e paradigmatici tanto sul piano etico quanto su quello sociologico e farli agire in contesti estranei a quello originario, lasciando poi esplodere i conflitti e le contraddizioni inevitabilmente innescate dall’attrito dei punti di vista e dei modelli di comportamento. L’essai sur le mœurs di Ettore Scola procede così per somma di confronti e accumulo di paragoni: l’autore mette in contatto punti di vista irrelati, innesca cortocircuiti fulminanti, rovescia velocemente certezze acquisite e pregiudizi radicati, all’insegna di una demiurgica narrativa che sembra prediligere a tutti gli effetti il paradosso e il chiasmo. Lungi dallo strutturare manicheisticamente gli

opposti che lo attraversano, il cinema di Scola trasforma infatti le dicotomie in scambi, le antitesi in contaminazioni. Gli opposti solo in apparenza si respingono: in realtà l’intreccio narrativo fa sì che essi si attraggano e si mescolino fin quasi a coincidere, con effetti di paradossale rovesciamento dei presupposti iniziali. Si prenda per esempio Maccheroni: il film non è solo – come pure è stato scritto – una pungente e affettuosa satira dell’American way of life giocata in nome del fascino ozioso ma emotivamente intenso della “napoletanità”. C’è anche questo, certo, ma c’è anche l’esatto contrario. Ancora una volta domina la figura del chiasmo: se nella prima parte del film è il manager americano interpretato da Jack Lemmon a lasciarsi sedurre dall’ethos napoletano, dalla flânerie di Mastroianni e dal rapporto di apertura e disponibilità che questi manifesta nei confronti del tempo (“Io di tempo ne ho sempre, e quando non ce l’ho, lo trovo!”), nella seconda parte è invece la “napoletanità” ad aver bisogno dei ritmi e dei metodi americani per eliminare e sconfiggere i vizi antichi e le malattie recenti che la affliggono. Così, al ritmo sfilacciato e ozioso della parte iniziale del film subentrano poco per volta i ritmi accelerati e il caotico affastellarsi di eventi dell’epilogo, mentre ognuno dei due protagonisti scopre progressivamente nell’altro l’integrazione ottimale di sé. Ancora una volta, come quasi in ogni coppia di personaggi del cinema di Scola, il confronto tra diversi sfocia nella scoperta della loro reciproca necessità, mentre il film trasmette al pubblico il sogno appena suggerito di una società che sappia reagire alle “forme della mancanza” che la minacciano mediante una salutare apertura all’“altro da sé”. Mostri. Corpi gonfi, visi deformi, gesti sconci: il cinema di Scola pullula di mostri e di orrori. Meglio: è un moderno bestiario antropomorfo volto a delineare una sorta di cinica teratologia della quotidianità. Tra escrescenze, infezioni, foruncoli, borborigmi e turpiloqui, quasi ogni film rivela in Scola una scoperta vocazione espressionistica e grottesca, particolarmente accanita nella rappresentazione fisiognomica dei corpi e dei caratteri. Già nella sceneggiatura di I mostri (1963) Scola intreccia beffarde equivalenze tra normalità e mostruosità, strappando al quotidiano le sue maschere cosmetiche e deridendo gli orrori, in tal modo svelati, con uno sguardo sempre in bilico tra l’indignazione del moralista e il cinismo dell’entomologo sociale. Con il passaggio alla regia, la componente teratologica del cinema di Scola si accentua e si radicalizza, fino a produrre un campionario etnografico stupefacente per sgradevolezza fisica e degrado corporeo. Gli esempi si sprecano. Le donnemostro di Se permette parliamo di donne, i mutilati e i deformi di Il commissario Pepe, le prostitute senescenti e i vecchi sdentati di Permette? Rocco Papaleo, i

giudici incartapecoriti e rugosi di La più bella serata della mia vita, la portinaia baffuta e crostosa di Una giornata particolare, il commentatore adiposo e volgare di C’eravamo tanto amati, i ballerini goffi e sudati di Le bal: i personaggi di Scola, anche quelli poveri e “popolari”, sono davvero brutti e sgradevoli, esponenti di un’umanità degradata che l’autore osserva senza indulgenza e senza tenerezze. Lungi dal cedere alle lusinghe del populismo o alla tentazione zavattiniana di rappresentare l’“innocente follia” dei poveri, l’occhio di Scola si accanisce soprattutto a mostrare la bruttezza degli emarginati, rovesciando uno dei topoi consolatori della commedia degli anni cinquanta (l’ideologia dei “poveri ma belli”) ed esprimendo l’orrore del mondo attraverso l’evidenza immediata del linguaggio dei corpi. La climax di tale percorso di deformazione espressionistica è indubbiamente individuabile in Brutti, sporchi e cattivi. Quasi un remake di Miracolo a Milano (1951), il film si basa tuttavia su un’ottica volutamente rovesciata rispetto a quella adottata a suo tempo da De Sica e Zavattini. I poveri di Scola, come ha persuasivamente notato Giuseppe Panella, hanno cessato da tempo di essere l’altro della borghesia: piuttosto sono il suo doppio. In essi non c’è più alcuna possibilità di riscatto, di sublimazione: omologati alla logica comportamentale di quello stesso mondo borghese che li ha emarginati, i baraccati di Scola conoscono come unico linguaggio quello del “disvalore” (etico ed estetico) che i loro corpi esprimono tout court, senza mediazioni, con il fatto stesso di esistere e di offrirsi allo sguardo. Ma non è tutto. Scola non si limita a deformare il corpo e a degradarlo: talora pare addirittura volerlo distruggere in quanto oggetto (e soggetto) di seduzione e di charme. Così, in una celebre sequenza di Il mondo nuovo, il Casanova di Mastroianni appare devastato da una vecchiaia incombente che intacca gli occhi, i capelli, le guance, fino a renderlo – se possibile – ancora più sgradevole di quello narrato da Schnitzler; in Le bal i personaggi sono monumenti di cipria, rimmel, cattivo gusto e alito pesante; e perfino la Loren di Una giornata particolare, tutta calze rotte, occhi pesti e sogni infranti, pare prosciugata da ogni forma di bellezza vistosa e obbligata a gestire una corporeità antitetica a quella consueta. Eppure, anche di fronte al topos della degradazione corporea, Scola finisce poi per assumere l’atteggiamento chiasmico tipico di tutto il suo cinema: se da un lato degrada e abbrutisce corpi, volti e personaggi, dall’altro li rivaluta e li riscatta, rendendoli ancora una volta, nonostante tutto, capaci di fascino e di vitalità. Così il vecchio Casanova continua a sedurre, le signorine di Le bal sono comunque oggetto di desiderio e la Loren di Una giornata particolare è una delle figure femminili più intense di tutto il cinema italiano degli anni settanta. Questo movimento incrociato di svalutazione e rivalutazione dei corpi tocca il

suo culmine in Passione d’amore: sulla scia della Fosca di Tarchetti, Scola realizza un apologo sul “fascino del brutto” in cui, prosciugato l’intreccio da ogni maledettismo scapigliato, cesella brividi emotivi attorno alla bruttezza come figura estrema della seduzione. Non sempre, tuttavia, i mostri di Scola e la scalcagnata corte dei miracoli che si aggira in ogni suo film sono frutto di una deformazione grottesca attuata consapevolmente. In alcuni casi, i mostri sono presi direttamente dalla vita, a significare immediatamente se stessi secondo il modello inaugurato da Freaks (1932) di Tod Browning. Si pensi per esempio ai nani che compaiono nella sequenza di chiusura di film come La più bella serata della mia vita, Passione d’amore, Il mondo nuovo. Niente a che vedere, beninteso, con i nani di Buñuel, o con quelli di Fellini. I nani-mostri di Scola interpretano sempre una parte significativa: ascoltano la storia, assistono all’epilogo dello spettacolo. Sono i destinatari interni (i “narratari”) del film: cioè recitano nel film la parte del pubblico. Attraverso la loro presenza, Scola rinvia al pubblico reale un’immagine speculare non consolatoria e, per l’appunto, “mostruosizzata”: quasi a impedirgli di continuare a illudersi che oltre lo schermo (e fuori dal film) il mondo sia migliore (o più bello) di quello oggetto di deformante rappresentazione. Linguaggi. La Storia parla, nelle “storie” di Scola, sempre attraverso i reperti fonico-visivi con i quali (e nei quali) essa è stata codificata (ed è ricordata) dagli uomini che ne sono stati protagonisti. Ha detto bene Jean Gili: nel cinema di Scola contano soprattutto gli echi e i riflessi che la Storia produce sul piano dei linguaggi, o dentro i codici dell’immaginario collettivo elaborati e diffusi dal sistema dei media. La Storia penetra cioè negli intrecci filmici di Scola non solo attraverso le immagini dei telegiornali, le inquadrature dei titoli di quotidiani o la rievocazione di eventi, oggetti e atmosfere, ma anche e soprattutto attraverso i film, i fumetti, gli spettacoli televisivi o le canzoni che hanno segnato gli anni e i giorni, dando voce a sentimenti, emozioni o indignazioni collettive. Così, per esempio, la vicenda di Una giornata particolare si configura come dimesso controcanto alle voci ufficiali dell’Italia fascista, presenti e affastellate nel film attraverso i notiziari dell’Istituto Luce, l’enfasi apologetica delle cronache radiofoniche di Guido Nodari, o i fumetti sulla difesa della razza. Analogamente, in Dramma della gelosia, l’intreccio narrativo è costruito riciclando topoi e stilemi dell’immaginario “rosa” in un impianto stilistico programmaticamente mimetico nei confronti del linguaggio dei fotoromanzi o delle canzonette di consumo in voga nel gusto popolare degli ultimi anni sessanta; in Le bal è invece la danza a costituire il centro gravitazionale di una memoria storica che

ripercorre gli anni dal 1936 a oggi attraverso le note e i ritmi che, dal boogie woogie al rock ’n’ roll, hanno segnato il ciclico succedersi di speranze e delusioni; in C’eravamo tanto amati, infine, il cinema stesso offre le sue poetiche e i suoi linguaggi a un progetto di amara rievocazione consuntiva della nostra storia recente. In ogni caso, il racconto di Scola si configura sempre come viaggio esplorativo tra i linguaggi e i frammenti di immaginario in cui la Storia ha depositato se stessa, in vista di un recupero critico, di volta in volta ironico o patetico, della memoria collettiva. Nel corso della sua lunga attività, Scola si è sempre mostrato estremamente cauto nell’adottare i procedimenti di sperimentazione linguistica cari al cinema delle avanguardie: se si escludono i toni godardiani di certe sequenze di TrevicoTorino o la tendenza alla visualizzazione delle fantasticherie e dei sogni a occhi aperti nei suoi film a cavallo tra gli anni sessanta e settanta (si pensi agli incubi a luce sovraesposta di Il commissario Pepe, ai replay televisivi di Permette? Rocco Papaleo o alle visioni oniriche e surreali di La più bella serata della mia vita), il linguaggio privilegiato è sempre medio, chiaro, fortemente comunicativo e soprattutto adeguato alla competenza linguistica dei destinatari. Basandosi sul riuso di linguaggi mass-mediali universalmente noti, ma rivisitandoli in chiave “straniata” e trasgressiva, Scola ha perseguito e persegue un progetto di cinema capace di offrire al pubblico non tanto un freddo rispecchiamento del vissuto, quanto una sua riattivazione critico-emozionale: qualcosa di molto simile, insomma, a quella lanterna magica che, nel finale de La nuit de Varennes, offre al popolo francese l’opportunità di rivivere, in altre forme, gli stessi avvenimenti storici di cui è stato protagonista pochi anni prima. “In sta cassetta mostro el mondo niovo/ con dentro lontananze e prospettive”: la filastrocca con cui Scola chiude uno dei suoi film più belli e sofferti, celebrando di fronte al popolo della Rivoluzione i prodigi e le magie della nuova macchina progenitrice del cinema, è in questo senso più di una semplice dichiarazione di poetica. Forse, sommessamente, è soprattutto una delicata e pudica dichiarazione d’amore per ciò che il cinema è stato, e per ciò che le sue lontananze e prospettive possono continuare a produrre nel nostro inquieto presente. 2.4.6. La disgregazione del fuoricampo Tutto il cinema dell’ultimo Scola, in particolare quello realizzato dagli anni novanta in poi, si regge sulla presenza ineludibile di un fuoricampo incessantemente presupposto, volutamente lasciato ai margini della rappresentazione, ma indispensabile per comprendere il mondo rappresentato:

ogni storia, quale che sia il registro adottato, rinvia insomma a un non visto che conferisce senso e valore al visibile narrativizzato. Procedendo a ritroso, si può dire che in Concorrenza sleale (2001) il fuoricampo è costituito dalla tragedia dell’Olocausto e dal destino di deportazione o di segregazione razziale che attende la famiglia ebrea del personaggio di Sergio Castellitto dopo l’esodo forzato su cui si chiude il film; in La cena (1998) il fuoricampo è dato dal vissuto frantumato e nevrotico dei diversi avventori che si ritrovano a pranzare in una sera qualunque nella trattoria romana gestita dalla signora Flora (Fanny Ardant); Il romanzo di un giovane povero (1995) lascia fuoricampo la scena madre della morte della moglie del signor Bartoloni (Alberto Sordi); Mario, Maria e Mario (1993) evoca esplicitamente la crisi del PCI e il travaglio di intere generazioni di comunisti italiani alle prese con una dolorosa ma necessaria ridefinizione della propria identità; Il viaggio di Capitan Fracassa (1990), infine, lascia fuoricampo la corte di re Luigi XIII, meta vanamente ambita dalla compagnia di guitti ambulanti “Melpomene e Talia” nel lungo viaggio verso Parigi. In tutti questi film, il visto evoca qualcosa che si dà solo in absentia, e che intrattiene relazioni di tipo diverso con il mondo rappresentato: in Concorrenza sleale la Storia si insinua nella vicenda dei protagonisti attraverso una tattica di filtrazione indiziaria che ricorre a dettagli e particolari epifanici per sollecitare nello spettatore l’attivazione delle sue conoscenze pregresse (l’intreccio presuppone che il pubblico sappia già a priori cosa è accaduto in Italia dopo l’emanazione delle leggi razziali del 1938 e dopo gli eventi narrati nel corso del film); in La cena lo scenario sociale che fa da sfondo alle microstorie dei vari personaggi viene messo a fuoco per via allusiva o metonimica attraverso brandelli e frammenti di conversazione che richiamano, di volta in volta, il dibattito sulle trentacinque ore, i problemi del fisco o la crisi della coppia; in Il romanzo di un giovane povero tutto il racconto si muove secondo una strategia abduttiva che tende a riempire il vuoto costituito dall’enigma di una morte misteriosa attraverso la proliferazione incessante di ipotesi e congetture; in Mario, Maria e Mario la crisi politica dei personaggi si dissimula e al contempo si svela attraverso il mascheramento sentimentale; infine in Il viaggio di Capitan Fracassa è la centralità stessa del teatro come oggetto di rappresentazione a tessere una fitta rete di rimandi e di echi fra la dimensione della realtà e quella della finzione, o – se si preferisce – fra la scena dello spettacolo e quella della vita. Come dire: negli anni novanta Ettore Scola rinuncia a costruire allegorie epocali che – come aveva fatto nel corso degli anni ottanta – mettano in scena lo scorrere del tempo, oggettivandolo entro lo spazio chiuso di una sala da ballo parigina o in un appartamento romano del quartiere Prati. L’ultimo Scola opta

piuttosto per un cinema indiziario che tenta di affabulare una sorta di microfisica del sociale, evidenziando in modo specifico i processi di dissoluzione che spezzano e turbano le relazioni fra i personaggi e – di riflesso – anche il fuoricampo che in essi e per essi si esprime. Tutti i film in questione narrano infatti, non a caso, soprattutto di legami che si spezzano, di relazioni che si interrompono, di amicizie che si infrangono, di amori che finiscono: dalla separazione delle due famiglie Melchiorri e Simeoni in Concorrenza sleale alla crisi sentimental-coniugale dei protagonisti di Mario, Maria e Mario, dalle liti che rompono i rapporti inizialmente idillici in molti dei tavoli apparecchiati nel ristorante di La cena alla complicità che si rovescia in conflitto fra i due protagonisti di Il romanzo di un giovane povero, il cinema dell’ultimo Scola si configura soprattutto come fenomenologia della disgregazione che insidia dall’interno un corpo sociale precedentemente integrato e coeso. Scola non rinuncia neanche qui, nell’ultima fase della sua carriera, alla dimensione metalinguistica che da sempre innerva il suo cinema. In questa chiave, un film imprescindibile – molto più che il malinconico, nostalgico e rassegnato Splendor (1989), impotente epicedio sulla chiusura delle sale e il tramonto dell’era d’oro del cinema – è senz’altro Il viaggio di Capitan Fracassa, costruito non a caso su una classica struttura da mise en abîme: all’inizio e alla fine del film la macchina da presa entra e poi esce da un palcoscenico teatrale, quasi a collocare tutta la vicenda narrata nello spazio dichiarato della rappresentazione. Dopo la simbolica apertura del sipario, lo sguardo di Scola trasforma il palcoscenico in set e si immerge in uno spazio illusionistico, tra quinte di cartapesta e fondali dipinti, in cui si celebra il teatro come “luogo di inveramento dei sogni di cui la vita ha bisogno”. Il percorso del carro di Tespi su cui viaggia una scombinata “compagnia di arte scenica” diventa l’occasione per riflettere sui modi e le forme della rappresentazione, oltre che sul rapporto tra finzione e realtà: “Succede che una cosa che reciti ti resti dentro anche a recita finita: quando credevi di essere bugiarda, sei sincera”, afferma il personaggio di Serafina (Ornella Muti). Replica il capocomico (Toni Ucci): “Un’attrice deve gioire e soffrire solo quando è in scena. La vita deve servire da esercizio, da prova generale per interpretare le grandi passioni che noi dobbiamo portare al pubblico.” Film-metafora, oltre che saggio sul teatro ambulante in quanto dispositivo che anticipa la “macchina dei sogni” del cinema, Il viaggio di Capitan Fracassa celebra lo spettacolo come luogo del ritrovamento delle identità sociali indebolite o confuse (il barone di Sigognac rinuncia al casato e al blasone per dedicarsi totalmente al mestiere di attore, scegliendo di essere per sempre Capitan Fracassa) e come specchio in cui le tensioni e le contraddizioni sociali si

esplicitano e si compongono. Strutturato come un road movie e narrato in flashback da un Pulcinella (Massimo Troisi) che non appariva nel romanzo di Gautier del 1863 e che introduce nella vicenda una vena di umanissima concretezza partenopea (“meglio essere contenti che felici: la felicità passa, la contentezza dura tutta la vita”), il film si conclude su una piazza di Parigi: la compagnia ambulante non arriva a recitare davanti al Re, ma inscena per il popolo parigino il sogno dell’incontro fra i teatranti e il sovrano. Lo spazio del potere resta precluso al teatro, cui spetta invece il compito di portare in piazza, in mezzo al pubblico, l’immagine del potere: con un efficace piano sequenza, la macchina da presa di Scola passa nell’inquadratura finale dal teatro in cui stanno recitando gli attori alla piazza affollata che applaude, per poi scivolare all’indietro fino a uscire sul proscenio del palco in cui era entrata all’inizio del film e dove si ripresentano gli attori che nell’attacco del medesimo piano sequenza erano impegnati a recitare nell’altro teatro in mezzo alla piazza. Da un luogo di finzione a un altro, che ingloba il precedente, senza soluzione di continuità, quasi a fare dell’inquadratura filmica il contenitore di tutte le forme di spettacolo precedenti, in un gesto metalinguistico che ha il valore di una metafora ma anche di una dichiarazione d’amore. I tempi però si fanno bui e il cinema di Scola non può che prenderne amaramente atto. Ambientato nel 1938 (lo stesso anno di Una giornata particolare), Concorrenza sleale mette in scena la vicenda di un commerciante ebreo romano che dopo l’emanazione delle leggi razziali è costretto a chiudere bottega, caricare tutta la sua roba su un carro e trasferirsi nel ghetto, da dove quasi tutti gli ebrei romani sarebbero stati poi deportati nei lager. Attraverso una scrittura quasi perfetta, con un ritmo tesissimo e tagliente, in quello che è di fatto il suo ultimo film (prima dello straordinario congedo felliniano – al tempo stesso autobiografico e affettuoso, magico e misterioso – di Che strano chiamarsi Federico, 2013), Scola non racconta solo la vergogna delle leggi razziali, ma anche la complicità della gente, l’ipocrisia e l’indifferenza di un popolo che assiste ignavo al trionfo del razzismo e dell’idiozia, e impara a conviverci, e a far finta di niente. È davvero un film sull’Italia, Concorrenza sleale. Non solo su quella del 1938: questa volta, in modo evidentissimo, Scola parla di noi, e dell’acquiescenza con la “banalità del male” che alligna nel controcampo che noi tutti componiamo. Come spettatori, certo. Ma anche come membri di una comunità che – ora come allora – assiste inerte e indifferente alla propria disgregazione.

LA VERA RIVOLUZIONE DEL NOVECENTO? IL CINEMA, PROBABILMENTE Dialogo fra un cinemaniaco e un cinefobico

Tavolini all’aperto di un bar che affaccia sulla Piazzetta Liberty a Milano. Nella piazza c’è una lunga coda di persone di ogni età che attendono l’apertura del nuovo store della Apple, sorto dove prima c’era uno storico cinema di Milano, l’Apollo. Seduti a due tavolini adiacenti, due signori di mezza età osservano la coda con espressioni palesemente diverse. Il cameriere si avvicina a uno dei due tavoli e appoggia un bicchiere di prosecco con patatine e noccioline. Il cliente sorride. CINEFOBICO:

Grazie. Voglio proprio brindare a questa giornata storica. Finalmente un po’ di rivoluzione anche in questa città. Ci voleva Apple per portarcela... L’altro avventore lo guarda con aria perplessa, lievemente infastidito. CINEMANIACO: Peccato che la “sua” Apple abbia fatto chiudere una delle più

antiche sale cinematografiche di Milano. CF (sorpreso): E meno male! Il cinema è un’invenzione senza futuro. CM:

Lei crede? Io invece sono convinto che il cinema sia stata l’unica rivoluzione del Novecento. Altro che Apple. A conti fatti, i veri rivoluzionari non sono stati né Lenin né Mao né Che Guevara. Sono stati i fratelli Lumière. CF: Bella frase a effetto, buona per i gonzi che fanno del cinema una religione.

Le rivoluzioni cambiano l’assetto sociale, il sistema di potere, i rapporti di produzione. Il cinema non ha cambiato nulla di tutto questo. Ha lasciato il

mondo esattamente com’era. CM:

Quello che dice conferma la mia ipotesi: il cinema è stato così rivoluzionario e ha cambiato il mondo tanto più in profondità quanto più lo ha fatto senza scosse, senza traumi vistosi. Senza che le persone se ne accorgessero. Sa cosa ha fatto il cinema che nessun’altra sedicente rivoluzione è riuscita a fare? CF: Sentiamo. Ha forse cancellato la povertà, le disuguaglianze, le ingiustizie? CM: Ha fatto di più, e di meglio. Ha regalato a tutti, indistintamente, un po’ di

felicità. CF: Certo. Lasciando che il capitale restasse nelle mani di chi lo deteneva. CM:

Il cinema ha aumentato il capitale emozionale di tutti. Ha offerto a milioni e milioni di persone, senza distinzioni di classe, di censo, di sesso, di religione, un’intensificazione della propria esperienza emotiva. Che cosa promettono, in fondo, tutti i rivoluzionari? Abolire le ingiustizie? Certo. Ma perché? Per consentire a tutti di essere più felici, o meno infelici. CF: Una felicità che non si radichi in un cambiamento reale delle condizioni di

vita è una felicità fittizia, illusoria. È un miraggio. O addirittura un inganno. Preferisco uno sfruttato infelice e incazzato che uno sfruttato che accetta e tollera la propria condizione perché ha qualche oppiaceo che lo distrae dalla propria infelicità. CM:

Ma lei conosce qualche rivoluzione novecentesca che abbia davvero abolito giustizie e disuguaglianze? Che abbia redistribuito la ricchezza? Se guardiamo al secolo nel suo complesso, tutte le rivoluzioni non hanno fatto che ridisegnare le mappe della disuguaglianza, spostando i privilegi da un detentore a un altro e pagando per questo un prezzo altissimo: massacri, genocidi, stragi. Sangue e ferocia. Il cinema no. Il cinema non ha mai provocato dolore. Ha soltanto dato gioia. A differenza delle altre rivoluzioni, non ha introdotto altro dolore nel mondo. CF: Non è vero. Il cinema ha consolidato il dolore esistente. Ha contribuito a

far sì che lo sfruttato, il povero, lo sconfitto, si rassegnassero a tollerare come

normale o naturale la propria condizione. CM: Lei ha una visione davvero miope dell’esistenza e della società. Si rifiuta

di vedere quanto il cinema abbia reso più ricca tutta l’umanità. Ricca di immagini, di mondi, di sogni. Ricca di esperienze emozionali. CF: Fosse anche vero quello che dice, e cioè che il cinema ha reso tutti più

ricchi, ciò vorrebbe dire che non ha alleviato affatto le disuguaglianze, ma casomai le ha confermate e rafforzate. Chi era più ricco sul piano materiale lo è diventato anche sul piano immateriale. CM: La mia prospettiva è un’altra. Il cinema ha liberato la testa della gente.

Ha aperto i cancelli del pensiero. Non so se conosce quel passo di un filosofo tedesco che paragona il cinema alla dinamite... CF: Dinamite? Con la dinamite si fanno gli attentati, non le rivoluzioni.

Si possono fare anche le rivoluzioni. Vediamo se lo trovo. Estrae l’iPhone e cerca qualcosa su Google. Ecco, l’ho trovato. È Walter Benjamin. Senta qui: “Le nostre bettole e le vie delle nostre metropoli, i nostri uffici e le nostre camere ammobiliate, le nostre stazioni e le nostre fabbriche sembravano chiuderci irrimediabilmente. Poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile a un carcere; così noi siamo ormai in grado di intraprendere tranquillamente avventurosi viaggi in mezzo alle sue sparse rovine...” Se non è una rivoluzione questa! CM:

CF: Per me è solo pessima letteratura. Parafuturismo di scadente qualità o

peggio. Non mi avesse detto lei che era un tedesco, avrei pensato al peggior D’Annunzio. E comunque mi verrebbe da contrapporre alla dinamite del suo Benjamin quella frase di Kafka che dice che il cinema è una prigione per gli occhi. Dovrebbe piacerle, uno come Kafka. Visionario, immaginifico, allegorico. E proprio per questo, pur amando il cinema, anche quello che oggi definiremmo “spazzatura”, avvertiva il pericolo che il cinema diventasse una sorta di cappio per l’immaginazione. Che la strangolasse, che incatenasse gli occhi lì, solo lì, sulla meraviglia dello schermo, impedendo loro di guardare altrove. CM:

Può aver limitato l’immaginazione di quelli che già leggevano o immaginavano. Ma a milioni di contadini e di operai semianalfabeti, ai migranti

della grande depressione, ai fuggiaschi di ogni paese, il cinema ha aperto la mente, ha messo in moto l’immaginazione. CF: Fandonie. Il cinema ha un effetto shock su chi lo vede. Adesso le faccio

vedere io. Estrae a sua volta l’iPhone, digita qualcosa. Ecco. Temo che lei non conosca Georges Duhamel. Lui il cinema lo odiava. Sa perché? Lo spiega bene in questa frase: “Non sono già più in grado di pensare quello che voglio pensare. Le immagini mobili si sono sistemate al posto del pensiero.” Capito? È il flusso stesso delle immagini filmiche, il loro essere inafferrabili, che inibisce il pensiero, la capacità di pensare...! Il cinema – sostiene Duhamel – è un divertissement per iloti. E aggiunge: è un passe-temps d’illettrés de créatures misérables, ahuries par leur besogne et leurs soucis. C’est, savamment empoisonnée, la nourriture d’une multitude que les Puissances de Moloch ont jugée, condamnée et qu’elles achèvent d’avilir. (È un passatempo per illetterati, per creature miserabili, rese attonite dai propri bisogni e dalle proprie preoccupazioni. È il nutrimento, sapientemente avvelenato, di una moltitudine che le Potenze di Moloch hanno giudicato, condannato e di cui completano l’avvilimento.) Capito? Il cinema abbrutisce. Incatena l’intelletto e solletica solo l’emozione. CM: Ma non è vero. Il cinema libera la percezione! Bisogna proprio essere dei

sostenitori dello status quo, magari anche inconsapevoli come lei, per pensare che il cinema non abbia cambiato se non il mondo almeno la nostra percezione del mondo. E quindi, di conseguenza, anche il mondo! CF: Eccolo lì il subdolo idealista che viene a galla. Siamo ancora all’esse est

percipi? All’equivoco per cui la percezione del mondo equivale al mondo? Lei sta delirando. Il cinema è stato un grande dispositivo di disciplina. Ha preso masse di individui, le ha chiuse in una sala buia, sedute immobili per ore, e le ha sottoposte a un lavaggio del cervello collettivo. Ha disinnescato la rabbia, il disagio, il furore, in cambio di un paio d’ore di intrattenimento. CM: Le masse di cui lei parla erano già disciplinate dall’ordine sociale. Dai

ruoli. Dagli obblighi, dalle convenzioni. Dalla legge e dalla polizia. Il cinema, fingendo di accettare gerarchie e divisioni, in realtà ha aperto la testa di tutti. Ci ha aiutato a vivere meglio offrendo nutrimento ai sogni. CF: Già. Una bella forma di oppiaceo moderno. Un rito di assunzione collettiva di allucinogeni.

CM: No. Il cinema ha regalato a milioni, miliardi di persone la percezione di

un altrove. Ha regalato stupore. Ha interrotto il grigiore monotono del mondo. CF:

Nossignore. Ha smerciato a poco prezzo mondi fittizi. Ha spacciato illusioni. Ha frenato rivoluzioni. CM: Non è vero. Al contrario, ha contribuito a far vedere a tutti le condizioni

che potevano rendere necessarie e inevitabili le rivoluzioni. Ricorda Modern Times di Charlie Chaplin? CF: Certo. La catena di montaggio trasformata in occasione di divertissement

comico... con il vagabondo Charlot che manco si rende conto dello sfruttamento a cui è sottoposto! CM: Lei ha davvero una saracinesca sugli occhi! È proprio perché Charlot non

si rende conto della ferocia di quello che gli accade che noi avvertiamo come intollerabile la sua condizione! È qui la grandezza del film. L’ha spiegato bene Roland Barthes: vedere qualcuno che non vede è il modo migliore per farci vedere quello che non vede. CF: Lei sta arzigogolando. Il cinema, fin dai primordi, ha reso meccanica e

alienante l’esistenza umana. Ricorda Pirandello e il suo Quaderni di Serafino Gubbio operatore? È il primo romanzo europeo ambientato nel mondo pionieristico del cinema muto ed esprime come meglio non si potrebbe l’alienazione e lo smarrimento dell’attore teatrale che si trova costretto a recitare non più davanti a un pubblico, sentendo il calore e l’odore dei corpi, captando e fiutando le sue reazioni, ma di fronte a una “macchinetta” – così chiama Pirandello la macchina da presa – che ingloba la vita, la sminuzza e la restituisce sterilizzata e parcellizzata. CM: Conosco bene il romanzo, non si preoccupi. Lo cita anche Benjamin, non

a caso. Ma quello che lei dice riguarda, giustamente, la condizione dell’attore che vede mutare radicalmente i fondamenti stessi della sua professione e della sua arte. Il narratore, Serafino Gubbio, è invece il tipico eroe pirandelliano alle prese con la contraddizione insanabile tra forma e vita. Ma è innegabile che Serafino è anche attratto dal mondo del cinema. È sedotto dal dispositivo. Così come lo è Pirandello. Che dimostra di aver capito in profondità il funzionamento del medium, e il rapporto instabile tra finzione e realtà, tra simulazione e verità,

che inevitabilmente si verifica sul set. Quaderni di Serafino Gubbio operatore è uno dei romanzi più “visivi” – nel lessico, nella sintassi, nel ritmo – di tutta la letteratura novecentesca europea. Ci sono pagine che sembrano editate da un montatore cinematografico. Mi sembra che lei non sappia andare oltre la schiuma superficiale dei contenuti espliciti del libro... CF: Già, perché lei invece va in profondità! Ma mi faccia il piacere. Per me il

cinema è un dispositivo autoritario che non consente interazione allo spettatore. Lo è sempre stato e lo è tanto più oggi, nell’era di Internet e del digitale. Oggi i soli dispositivi rivoluzionari sono quelli interattivi. Quelli che prevedono la possibilità per l’utente di interagire, di far propri i contenuti e modificarli a piacere. Il cinema da questo punto di vista è rimasto un rudere o una rovina mediatica del Novecento... CM:

Lei crede? Io trovo che la grandezza rivoluzionaria del cinema stia proprio nel suo essere autoritario. Il cinema non è accondiscendente. Non ti lascia nella tua comfort zone. Ogni film ti porta dove vuole lui. Che ti piaccia o meno. Ma lei non crede che sia questo il suo valore aggiunto? Io nella vita sono cresciuto solo quando ho incontrato qualcuno (un libro, un film, una persona) che mi ha fatto uscire dal mio nido di sicurezze portandomi all’esperienza-shock dell’incontro con l’Altro. Accompagnandomi dove da solo probabilmente non sarei mai arrivato. Internet – ne sono certo – la porterà sempre e solo dove sarebbe andato anche da solo. Riconfermerà sempre tutte le sue certezze, tutti i suoi pregiudizi, non la farà mai uscire dalle sue sicurezze psicologiche, gnoseologiche e affettive. CF: E perché mai dovrebbe farmi uscire? Ma non si rende conto di come si sta

contraddicendo? Prima mi dice che il cinema regala felicità, poi che è un’esperienza-shock che ci mette in crisi. Non le sembra che le due cose siano inconciliabili? Si decida, una buona volta. CM: La felicità che riceviamo dai film non è quella zuccherosa e manierata. È

una felicità che deriva anche dall’aver sfidato noi stessi, dall’aver esplorato i nostri limiti. Anche dall’esserci sottoposti a esperienze-shock. Ma è un concetto forse un po’ troppo “fine” perché lo possa capire e condividere una persona come lei. CF: Io sarò anche un po’ rozzo, ma lei è certamente un masochista se ambisce

a immagini filmiche che la mettano in crisi! CM: Lei dovrebbe sapere che crisi significa conoscenza. E quindi crescita. E

quindi – per usare una parola che la eccita tanto – capitale cognitivo ed emotivo... Una società è responsabile anche dei mezzi per fantasticare che offre ai propri membri. CF: Ma se non abbiamo mai avuto tanti attrezzi per fantasticare come oggi!

Anche se le sale chiudono, come quella qui davanti (fa cenno con il capo al punto dove prima sorgeva il cinema Apollo), i film si continuano a vedere, anche più di prima, sui tablet, sui monitor, sulle piattaforme... Non abbiamo mai divorato tanto cinema come adesso. E questo grazie ai dispositivi tecnologici che grandi aziende come Apple o Netflix mettono a disposizione. CM: Il problema non è quanti film si vedono, ma come si vedono... CF: Certo, lei è nostalgico del grande schermo, della sala buia, della puzza di

popcorn... Conosco il copione. Vecchio. Rancido. CM: Non sono nostalgico di nulla. Dico solo, se ha la cortesia di ascoltarmi

ancora un attimo, che le generazioni cresciute allenando lo sguardo a percepire immagini in movimento su un grande schermo hanno sviluppato senza accorgersene tutta una serie di importanti abilità cognitive. Hanno imparato a tener sotto controllo uno spazio grande e complesso, a connettere le parti con il tutto, a collegare un qui e un là, un prima e un dopo, una causa e un effetto. Hanno acquisito – nella vita, oltre che davanti a uno schermo – quello che un mio amico regista, Davide Ferrario, una volta ha definito come “lo sguardo dello stratega”. Le generazioni che ora crescono guardando film e video sul display del proprio smartphone non hanno più questa attitudine. Concentrano lo sguardo in un punto e solo in quello. Lo vedono benissimo, ma faticano a connetterlo con altro. È – per usare sempre la metafora di Ferrario – “lo sguardo del cecchino”. Colui che vede un bersaglio e spara. Punto. Oppure lo sguardo del cavallo che cammina con i paraocchi: cioè dell’animale che vede sempre e solo dove vuole il padrone. Possibile che non le venga il dubbio che nel passaggio da Apollo a Apple si iscriva anche un possibile, perverso e devastante progetto di controllo e di dominio? CF: Ci mancava anche il complottismo! Guardi, l’ho ascoltata con pazienza,

ma – mi creda – non se ne può più di queste vecchie tesi antitecnologiche e misoneiste. Di questo considerare gli utenti – siano spettatori o consumatori – come degli imbelli nelle mani di oscure potenze multinazionali che li spiano e controllano. Prima che arrivasse Internet dicevate così anche della TV, se non sbaglio... CM: Non sbaglia. Perché prima la TV e ora piattaforme come Netflix hanno

prodotto un’omologazione e un appiattimento del gusto. Si è mai chiesto perché oggi nessuno più produce film “scandalosi” come potevano essere, qualche decennio fa, la Trilogia della vita o il Salò di Pasolini, ma anche Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, o certi lavori del primo Brass o ancora i pelosi e spetazzanti capolavori in bianco e nero di Ciprì e Maresco, da Lo zio di Brooklyn a Totò che visse due volte? CF:

Non ho il piacere di conoscere tutti i titoli che ha citato, e di film spetazzanti ne faccio volentieri a meno. Ma per rispondere alla sua domanda, mi vien da dire che probabilmente non ci sono più in circolazione talenti così eretici, così geneticamente provocatori, così coraggiosamente scandalosi come quelli che lei ha citato. Molto semplice. CM: Troppo semplice. Forse qualche ragione lei ce l’ha anche, ma io penso

che se ci fossero un nuovo Pasolini o un nuovo Bertolucci, oggi nessuno – ma proprio nessuno – sarebbe disposto a produrli. Pavidi i produttori? Non proprio. Ci faccia caso: tutto il cinema italiano degli ultimi anni, anche il più apparentemente disturbante, è in realtà perfettamente digeribile e compatibile con il sistema mediatico. L’indigesto non solo non esiste, è quasi impensabile. L’igienismo – anche estetico – dilaga. Il conformismo trionfa. Il perbenismo non ha freni. CF: E allora se la prenda con gli adepti del neo-conformismo cinefilo, non con

le nuove tecnologie e con la rivoluzione digitale. CM: Troppo facile, di nuovo. Il problema non sono i produttori, il problema

vero sono gli algoritmi. Quelli adottati dalle piattaforme dominanti, per esempio, mettono in circolo quasi solo film compatibili con il gusto medio dello spettatore medio. Tutto ciò che potrebbe essere davvero urticante o disorientante non viene nemmeno preso in considerazione.

CF: E come la mette con un film prodotto da Netflix come Sulla mia pelle?

Anche quello un film conformista? Ma mi faccia il piacere! CM: Sulla mia pelle è un grande film, ma dal punto di vista della ricezione

sociale è un tipico prodotto rassicurante. Chiunque lo veda, che pensi tutto il male possibile dei carabinieri o che pensi che il cinema è un covo di sovversivi, dalla visione del film trova conferma delle proprie convinzioni precedenti. I film che ricordavo prima non confermavano nulla, non generavano certezze, non riproponevano il già noto, piuttosto smentivano; non appagavano, scorticavano. Se oggi ci fossero in giro film così, gli algoritmi li respingerebbero. E con gli algoritmi, si sa, non si discute, hanno sempre ragione loro. Purtroppo. E in questo modo stiamo conferendo a loro, in silenzio e senza alcuna resistenza, il governo del nostro cervello e il controllo delle nostre scelte di gusto. Il cinemaniaco sente vibrare il telefono che ha in tasca. CM: Mi scusi...

Lo estrae e risponde. Subito sprofonda nella conversazione e dimentica l’interlocutore con cui stava parlando. Il cinefobico lo guarda, scuote la testa e sorride. CF: (a bassa voce, allontanandosi) Vedo comunque che anche lei apprezza i

prodotti della Apple! (sogghigna...) È stato un piacere...Se ha gradito la lettura di questo libro la preghiamo di venire a trovarci su: marapcana.today clicchi su questo testo e troverà la biblioteca completamente gratuita più fornita ed aggiornata del web! La aspettiamo!

RINGRAZIAMENTI

Senza Antonio Scurati questo libro non esisterebbe. È stato lui, dopo aver ascoltato la mia Prolusione all’inaugurazione dell’anno accademico 2016/17 all’Università IULM di Milano a spingermi – con garbo ma con fermezza – ad ampliare quella riflessione per certi versi “militante” e a farne un libro. Un “agone”. L’idea è rimasta lì per mesi, ma ha lavorato. Si è precisata, affinata, appuntita. Ed è diventata concreta quando Antonio è tornato alla carica sollecitandomi una seconda volta. Il mio grazie più sentito va a lui: perché mi ha trasmesso l’urgenza di condividere con un pubblico più vasto alcune delle riflessioni politico-culturali che l’avevano colpito nella mia Prolusione (che è diventata, con qualche modifica, correzione e integrazione) il primo capitolo di questo titolo. La prima parte del volume, quella più “militante”, mescola materiali inediti con la rielaborazione di alcuni articoli usciti sul magazine 8 ½. Numeri, visioni e prospettive del cinema italiano, di cui sono direttore. La seconda parte ripropone invece alcuni saggi scritti molti anni fa, e ormai di fatto irreperibili, che cercano di rintracciare in quattro diversi media (il fumetto, la letteratura, la televisione e il cinema) possibili modelli di artefatti culturali funzionali allo sviluppo di una più diffusa e capillare democrazia culturale. Il capitolo su Scola riprende, rielabora e aggiorna, soprattutto nella prima parte, un saggio uscito su Belfagor nel maggio 1986. Il saggio su Scerbanenco è apparso invece in una prima versione nel volume a cura di Vittorio Spinazzola Il successo letterario (Unicopli, 1985). Il saggio sul fumetto di Bonelli è uscito con il titolo Tex Willer. Un milanese nel Far West sulla rivista Pubblico 1986: produzione letteraria e mercato culturale. Si tratta di testi che rinviano a una stagione particolare della storia culturale italiana e della mia formazione personale, ma che sento – ciascuno a suo modo – come ancora attuali e capaci di parlare al nostro presente. Dietro ognuno di loro intravvedo ancora lo stimolo, la lezione e il magistero di Vittorio Spinazzola. A lui dedico, con gratitudine, questo piccolo volume.

Gianni Canova Milano, settembre 2019

NOTE

1.2 Dal neorealismo al pezzentismo V. Spinazzola, Cinema e pubblico, Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, Milano, Bompiani, 1974.

1

Ivi, p. 12.

2

Ibid.

3

Ivi, p. 13.

4

C. Lizzani, “Cinema e industria del film”, in Il Contemporaneo, VIII, n. 37, giugno 1961.

5

P. Noto – F. Pitassio, Il cinema neorealista, Bologna, Archetipo Libri, 2010.

6

M. Conforti – G. Massironi, Il modo di produzione del neorealismo, in L. Micciché (a cura di) Il neorealismo cinematografico italiano, Venezia, Marsilio, 1975, p. 49. 7

B. Corsi, Con qualche dollaro in meno, Roma, Editori Riuniti, 2001, pp. 55-56.

8

A. Abruzzese, Per una nuova definizione del rapporto politica-cultura, in L. Micciché (a cura di) Il neorealismo cinematografico italiano, cit., pp. 31-60. 9

C. Zavattini, “Alcune idee sul cinema italiano”, in Rivista del cinema italiano, I, n. 2, dicembre 1952.

10

La decisione della giuria presieduta da Bernardo Bertolucci di far vincere il Leone d’Oro a Venezia a un film come Sacro Gra, sapendo che non avrebbe contribuito neanche un millimetro a far crescere la democrazia filmica e il pubblico del cinema, sembra rispondere più al desiderio narcisistico della giuria medesima di stupire e di épater le bourgeois che alla volontà – di nuovo – di porsi il problema della costruzione del pubblico e dei pubblici. 11

2.1 Cavalcarono insieme Cfr. R. Carano, “Spaghetti-western ben conditi”, prefazione a G. Bonelli – A. Galleppini, Tex Willer. Sangue Navajo, Milano, Mondadori, 1973, VI. 1

Tex viene stampato in formato “striscia” a partire dal 30 settembre 1948. Viene ristampato una prima volta in formato quaderno nel 1959. Dal 1964 parte una nuova edizione mensile che, dopo aver ristampato tutte le avventure precedenti, continua fino a oggi. Accanto a Galleppini, nuovi disegnatori collaborano alla realizzazione di Tex: Muzzi, Uggeri, Gamba, Nicolò, Letteri, Ticci, Fusco, Monti, Civitelli. Per una cronologia dettagliata e l’attribuzione di ogni singolo episodio al relativo disegnatore, cfr. Il fumetto, a cura dell’ANAF, n. 27, settembre 1977. 2

Sulle modifiche subite da Tex nel corso delle successive ristampe, fondamentale è il contributo di E.

3

Detti, Il fumetto fra cultura e scuola, Firenze, La Nuova Italia, 1984, pp. 80 sgg. Tale Codice, riportato in appendice a L. Becciu, Il fumetto in Italia, Firenze, Sansoni, 1971, prescrive tra l’altro il divieto “delle eccessive nudità e delle pose sconvenienti (...) in particolare nella donna”; il divieto delle “scene di orrore con eccessivo spargimento di sangue”; il rispetto “per la Patria, per le istituzioni, per i principi cristiani”. 4

Cfr. soprattutto Lotta continua, 23-24 ottobre 1977, e Paese Sera, 28 novembre 1977. Per una messa a punto complessiva dei tempi e dei toni del dibattito cfr. A. Faeti, Dacci questo veleno!, Milano, Emme Edizioni, 1980, pp. 90-94. 5

Cfr. M. Giovannini, “Ma Tex ucciderebbe Cossiga?”, in Panorama, 5 luglio 1977.

6

Da un censimento dettagliato effettuato da due giovani “texofili” sui primi 200 albi del fumetto, risulta un’oggettiva contrazione quantitativa del numero di duelli e di sparatorie che vedono coinvolti Tex e i suoi pards. Si passa per esempio da 228 “cattivi” uccisi da Tex negli albi 1-10 a soli 46 negli albi 191-200. Analogamente i duelli scendono da 24 a 1, gli scontri fisici da 35 a 9, gli attentati subiti da 33 a 1 e i pugni dati da 66 a 13. Cfr. R. Bargioni – E. Lucotti, Tex Willer. Analisi semiseria del più popolare fumetto italiano, Milano, Gammalibri, 1979, p. 120. 7

Cfr. S. Cristante, Mick Jagger e Tex, in M. Paganelli – S. Valzania (a cura di), Gianluigi Bonelli, Aurelio Galleppini, Montepulciano, Edizioni del Grifo, 1982, p. 99. 8

Cfr. G. Bono, M. Toninelli (a cura di), I Bonelli. L’avventura a fumetti, catalogo della Mostra “Manycomics”, Palermo, 1-2 giugno 1985, p. 54. 9

10

Sul contributo dei figurinai al fumetto italiano cfr. A. Faeti, Guardare le figure, Torino, Einaudi, 1972.

Cfr. R. Barbolini L’avventura che va in fiume, in AA.VV., Tempeste. Il mare e il cinema d’avventura, Ancona, Il lavoro editoriale, 1985, p. 89. 11

Cfr. C. Della Corte, “Tra i fantasmi messicani Tex Willer anticipa Indiana Jones”, in Tuttolibri, XI, n. 457, 8 giugno 1985. 12

Cfr. V. Spinazzola, “La «Capitale morale». Cultura milanese e mitologia urbana”, in Belfagor, XXXVI, fasc. III, maggio 1981. 13

Senza scomodare modelli come Achille e Patroclo, Eurialo e Niso o Cloridano e Medoro, il topos dell’Amicizia Virile è ricchissimo proprio nel fumetto “western” italiano: Zagor e Cico, Capitan Miki, Salasso e Doppio Rhum, Il Piccolo Ranger e Frankie Bellevan non sono che gli esempi più noti. 14

15

R. Scholes – R. Kellogg, La natura della narrativa, Bologna, Il Mulino, 1970, p. 216.

Cfr. R. Campari, Western. Problemi di tipologia narrativa, in Quaderni di storia dell’arte n. 6, Parma, Università di Parma, 1970. 16

17

R. Bellour, Il grande gioco, in AA.VV., Il western, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 19.

18

Cfr. G. Lukács, Teoria del romanzo, Milano, Sugar, 1962, p. 56.

19

Cfr. B. Dort, La nostalgia dell’epopea, in AA.VV., Il western, cit., p. 63.

20

Ibid.

Cfr. G. Frezza, “Particelle western”, in G.C. Cuccolini (a cura di), Un editore un’avventura, numero speciale de Il fumetto, a cura dell’ANAF, 1983, p. 85. 21

Cfr. AA.VV., Nero a strisce: la reazione a fumetti, Parma, Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Parma, 1971. 22

23

L’autore de Il Principe è apertamente richiamato in una delle avventure texiane, sia pure per riferirne

la vulgata secondo cui “Il fine giustifica i mezzi”. Cfr. “Artigli nelle tenebre”, Tex n. 253, p. 71. Cfr. A. Tiburzi, “Tex Willer: tre temi”, in Sociologia della letteratura, nn. 1-2, 1978.

24

Cfr. A. Tiburzi, “Ancora su Tex e Io Stato”, in La città futura, Roma, 8 giugno 1977.

25

Sulla questione dei rapporti fra Tex e gli indiani si rinvia alla vasta bibliografia esistente. In particolare cfr. N. Valente, “Meglio indiano che morto”, in G.C. Cuccolini (a cura di), Un editore un’avventura, cit., pp. 43-45; A Giromini prefazione al volume Tex e gli indiani, Milano, Cepim, 1980; R. Bargioni – E. Lucotti, Tex Willer. Analisi semiseria del più popolare fumetto italiano, cit., pp. 69-89. 26

Per un tentativo di studiare la “morfologia” di Tex con strumenti proppiani, cfr. R. Bargioni – E. Lucotti, cit., pp. 107-116. 27

“Bisogna informare il pubblico ogni volta che si può, salvo quando la sorpresa è nell’intreccio, vale a dire quando l’inaspettato della conclusione costituisce il sale della storia”. Cfr. F. Truffaut, Le cinéma selon Hitchcock, Paris, Laffont, 1966, p. 54. 28

Cfr. D. Punter, Storia della letteratura del terrore, Roma, Editori Riuniti, 1985, p. 350.

29

Sull’uso e la funzione di un lessico esotico in Salgari cfr. A. Faeti, Guardare le figure, cit., pp. 133-

30

137. Il buon senso è per esempio esplicitamente invocato da Tex nell’albo n. 267, pp. 13 e 82, e nell’albo n. 268, pp. 27, 66, 70, 112. 31

A. Tettamanti, “Il fantastico in Tex”, in G.C. Cuccolini (a cura di), Un editore un’avventura, cit., p. 48.

32

Cfr. D. Punter, Storia della letteratura del terrore, cit., p. 351.

33

Cfr. R. Bargioni – E. Lucotti, cit., p. 66.

34

La paternità e la vedovanza sono peraltro oggetto di una violenta ellissi narrativa: il lettore non assiste al manifestarsi dei due eventi, ne è semplicemente informato con una rapida didascalia all’inizio del n. 10. Il privato di Tex, insomma, è compresso nei “tempi morti” che il lettore è chiamato a immaginare tra un’avventura e l’altra. 35

A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, vol. III, quad. 21 (XVII), par. 13, p. 2133. 36

Cfr. “Conversazione con Gianluigi Bonelli”, in M. Paganelli – S. Valzania (a cura di), Gianluigi Bonelli, Aurelio Galleppini, cit., p. 12. 37

2.2 La violenza della modernità Venere privata, Milano, Garzanti, 1966; Traditori di tutti, Milano, Garzanti, 1966; I ragazzi del massacro, Milano, Garzanti, 1968; I milanesi ammazzano al sabato, Milano, Garzanti, 1969. Tutti e quattro i romanzi (che costituiscono una vera e propria “serie” e in quanto tali richiedono di essere analizzati) sono stati poi ripubblicati, assieme ad altri racconti, nel volume La Milano nera di Scerbanenco, a cura di Oreste Del Buono, Milano, Garzanti, 1972. Le citazioni che seguono, salvo che per I ragazzi del massacro, sono tratte da questa edizione. Per I ragazzi del massacro si è fatto invece riferimento all’edizione Garzanti del 1978. 1

Cfr. G. Scerbanenco, Traditori di tutti, in La Milano nera di Scerbanenco, cit., p. 201.

2

Cfr. R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola, Torino, Einaudi, 1977, p. 111.

3

Cfr. G. Scerbanenco, Traditori di tutti, cit., p. 242.

4

5

Ivi, p. 218.

6

Ivi, p. 181.

Diabolik, delle sorelle Giussani, è del 1962. Kriminal e Satanik, di Luciano Secchi, sono rispettivamente del 1964 e del 1965. 7

Si tratta di un gruppo di gialli a enigma, tutti pubblicati da Mondadori e incentrati intorno alla figura di Arthur Jelling, un oscuro archivista della polizia di Boston improvvisatosi detective: Sei giorni di preavviso (1940), La bambola cieca (1941), Nessuno è colpevole (1941), L’antro dei filosofi (1942), Il cane che parla (1942), Si vive bene in due (1943). Al di là del valore letterario modesto, sono romanzi che si caratterizzano soprattutto come occasioni di apprendistato, cioè come tentativi di rivisitare le situazioni topiche del “genere” con l’obiettivo precipuo di sperimentarne la funzionalità retorica e narrativa. 8

Secondo Todorov, il romanzo-suspense conserva il mistero e l’assassinio iniziale, tipici del romanzoenigma, così come conserva la compresenza di due storie, quella del crimine e quella dell’inchiesta. Al contrario del romanzo-enigma, tuttavia, il romanzo-suspense rifiuta di ridurre la seconda storia (quella dell’inchiesta) a semplice escursione a ritroso sul “già accaduto”, per attribuirle invece, come nel romanzo d’azione, un ruolo centrale. 9

Cfr. T. Todorov, “Typologie du roman policier”, in Paragone, dicembre 1966, p. 12. Il modello di Lévi-Strauss è stato già adottato proficuamente da Guido Carboni per indagare il funzionamento del poliziesco d’azione americano. Cfr. G. Carboni, “Un matrimonio ben riuscito? Note sul giallo d’azione negli USA”, in Calibano, n. 2, Roma, Savelli, 1978. 10

Cfr. G. Bezzola, Preistoria e storia del giallo all’italiana, in V. Spinazzola (a cura di), Pubblico 1977, Milano, Il Saggiatore, 1977. 11

Secondo Brigid Brophy è questa la funzione svolta dal romanzo giallo in quanto genere letterario. Cfr. B. Brophy, “Detective Fiction: A Modern myth of violence”, in The Hudson Review, vol. XVII, 1965, n. 1, pp. 11-31. 12

Cfr. G. Scerbanenco, Venere privata, in La Milano nera di Scerbanenco, cit., p. 118.

13

“... era peggio, quella nudità, di qualunque repugnante cosa si potesse immaginare, specialmente quella di lei, la pelle tutta segnata da macchie, forse sporca, i muscoli della mammella rilassati e pieghettati, già da vecchia...” (Traditori di tutti, p. 279). “La nudità di Maurilia era irritante, almeno per una donna, esteticamente il corpo era ridondante e come mal disposto, sembrava costruito per un solo processo, quello sessuale” (Venere privata, p. 86). 14

Cfr. L.A. Fiedler, Amore e morte nel romanzo americano, Milano, Longanesi, 1963.

15

Ivi, p. 148.

16

Cfr. G. Scerbanenco, I milanesi ammazzano al sabato, in La Milano nera di Scerbanenco, cit., p. 541.

17

Ivi, p. 473.

18

Cfr., per esempio, I milanesi ammazzano al sabato, cit., pp. 472, 474, 479, 517; Venere privata, cit., pp. 69, 90. 19

G. Scerbanenco, I milanesi ammazzano al sabato, cit., p. 443.

20

G. Scerbanenco, Traditori di tutti, cit., p. 236.

21

G. Scerbanenco, Venere privata, cit., p. 24.

22

Ivi, p. 113.

23

Sul detective americano come “voce gelida che semplicemente registra avvenimenti sui quali ogni

24

possibilità di giudizio sembra essere stata revocata, sospesa, annullata”, cfr. D. Gabutti, “Il giallo americano”, in Alfabeta, nn. 15-16, luglio-agosto 1980, p. 17. La figura paterna è oggetto di vera e propria venerazione nei romanzi di Scerbanenco: si va dal culto tributato da Duca a suo padre (cfr. Venere privata, p. 35), all’elogio larmoyant dell’“onesto, infelice, disperato padre” che sconfessa il figlio criminale in I ragazzi del massacro (Milano, Garzanti, 1978, p. 92), fino al personaggio di Amanzio Berzaghi, patetica e lacrimosa figura paterna ne I milanesi ammazzano al sabato. 25

La crisi dell’istituto familiare nell’Italia degli anni del boom è colta e rappresentata da Scerbanenco con lucidità e senza esitazioni: l’incomunicabilità generazionale, i primi sintomi di crisi istituzionale del rapporto coniugale, i figli lasciati allo sbando e affidati a istituti di rieducazione sono fenomeni storicamente rilevanti che trovano nelle pagine di Scerbanenco un’eco significativa. 26

27

Cfr. L. Rambelli, Storia del giallo italiano, Milano, Garzanti, 1979, p. 205.

28

Cfr. G. Scerbanenco, Venere privata, cit., p. 100

29

Cfr. G. Scerbanenco, Traditori di tutti, cit., p. 210.

30

Cfr. E. D’Errico, Il fatto di via delle Argonne, Milano, Mondadori, 1937, p. 76.

31

Cfr. G. Scerbanenco, I ragazzi del massacro, cit., pp. 225-226.

Cfr. U. Eco, Le strutture narrative in Fleming, in AA.VV., L’analisi del racconto, Milano, Bompiani, 1969, r. 147. 32

33

Cfr. R. Crovi, “Giallo italiano, molti morti”, in Tuttolibri, 12 giugno 1976.

Cfr. F. Moretti, “Kindergarten”, in AA.VV., “Lacrime. L’arte della commozione in letteratura.”, Calibano. n. 6, maggio 1981, pp. 76-100. 34

35

G. Scerbanenco, Venere privata, cit., p. 83.

INDICE

L’eclissi della competenza, il trionfo dell’ignoranza PARTE PRIMA - PERCHÉ IN ITALIA NON ESISTE LA DEMOCRAZIA CULTURALE

1.1 Un paese culturalmente anoressico 1.2 Dal neorealismo al pezzentismo 1.3 Nell’era dell’algoritmocrazia 1.4 Totem e tabù PARTE SECONDA - ATTREZZI DEMOCRATICI PER FANTASTICARE. ARTEFATTI ESEMPLARI DELLA POP CULTURE ITALIANA

2.1 Cavalcarono insieme 2.2 La violenza della modernità 2.3 Il tramonto dell’eroe 2.4 Fare cinema per tutti La vera rivoluzione del Novecento? Il cinema, probabilmente Ringraziamenti Note